Verbo fichtiano e logos giovanneo a confronto

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA TRIENNALE IN FILOSOFIA Prova finale VERBO FICHITIANO E LOGOS GIOVANNEO A CONFRONTO Relatore: Chiar.mo Prof. Gaetano Rametta Laureanda: Chiara Alice Pigozzo Nr. Matr. 467719 Anno Accademico 2004/2005

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

CORSO DI LAUREA TRIENNALE IN FILOSOFIA

Prova finale

VERBO FICHITIANO E LOGOS GIOVANNEO A CONFRONTO

Relatore: Chiar.mo Prof. Gaetano Rametta

Laureanda: Chiara Alice Pigozzo Nr. Matr. 467719

Anno Accademico 2004/2005

INDICE:

Premessa...............................................................................................................................p. 3

1. Wissenschaftslehre e Religionslehre nel secondo Fichte.................................................... p. 3 2. Filosofia trascendentale o filosofia del finito.......................................................................p. 5

3. Alterità e trascendenza.......................................................................................................p. 12

4. Lo schema della vita...........................................................................................................p. 15

5. La metafora della luce........................................................................................................p. 16

6. Cristo e la filosofia della Rivelazione................................................................................p. 18

Conclusione........................................................................................................................p. 24

Bibliografia.........................................................................................................................p. 26

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«La religione consiste nel vedere, avere e possedere Dio direttamente nella propria persona, e non in una estranea, con il nostro proprio occhio spirituale, e non con uno estraneo. Ciò però è possibile soltanto in virtù del pensiero puro e autonomo, poiché soltanto mediante esso si diventa una vera persona; e questo soltanto è l’occhio, al quale Dio può rendersi visibile». Die Anweisung1

1 J.G. Fichte, Die Anweisung zum seeligen Leben, oder auch die Religionslehre, in J.G. Fichte’s sämmtliche

Werke [=Werke], a cura di I.H. Fichte, 8 voll., Veit & Comp., Berlin 1845/46, vol. V, p. 418; (tr. it. di G. Moretto, J.G. Fichte, L’iniziazione alla vita beata, in La dottrina della religione, Guida, Napoli 1989, p. 259).

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Premessa

«Questa dottrina [la dottrina della scienza], per quanto possa apparire nuova e inaudita al

nostro tempo, è antica quanto il mondo, ed è in particolare la dottrina del Cristianesimo, quale si presenta ancora oggi nel suo documento più autentico e puro, nel Vangelo di Giovanni; e questa dottrina è esposta addirittura con le stesse immagini ed espressioni di cui noi pure ci serviamo»2. Queste le dichiarazioni di Fichte contenute nella Sesta Lezione dell’Anweisung zum seeligen Leben, una raccolta meditatamente strutturata nella sua interezza, retoricamente ben curata, di undici brevi insegnamenti “popolari” tenuti tra il 12 gennaio e la fine di marzo del 1806 nella grande sala dell’Accademia delle scienze di Berlino.

A partire dalla pregnante e decisiva tesi fichtiana per cui il Quarto Vangelo «dice esattamente quello che noi insegnamo e dimostriamo»3, il nostro sforzo interpretativo intende analizzare il rapporto d’implicazione tra filosofia (intesa come dottrina della scienza) e religione (la cui eminente espressione per Fichte è il Cristianesimo), al fine di verificare e discutere tale affermazione e ultimamente di comprenderla nella prospettiva trascendentale da cui scaturisce.

Più precisamente, si tratta di vedere se la contrapposizione che Fichte istituisce tra Wissenschaftslehre4 da un lato, e impostazione dogmatica (Spinoza) o incompiutamente trascendentale (Kant) o dogmatica travestita da idealismo (Schelling e Hegel) dall’altro, non sia in realtà riscontrabile nello stesso rapporto tra Fichte e Vangelo giovanneo.

In altri termini, Fichte compie un’operazione legittima nel momento in cui identifica il proprio sistema col vero paradigma ermeneutico del Cristianesimo (segnatamente giovanneo)?

Oppure, nel momento in cui tenta di assorbire all’interno della WL la posizione cristiana, impiegando altresì moduli espressivi e metaforici tratti dalla tradizione della metafisica occidentale, e forse proprio nella riflessione su temi centrali del pensiero cattolico, non rischia di tradire l’essenziale carattere “dogmatico” del Cristianesimo? Si può affermare che Fichte abbia cercato di forzare entro le maglie di una prospettiva trascendentale ciò che strutturalmente è impossibilitato ad entrarvi?

Tali domande forse appaiono tanto più sconcertanti in quanto lo stesso Fichte, autore di un pensiero radicalmente e compiutamente critico, ha dedicato la maggior parte dei suoi sforzi speculativi nella battaglia contro il dogmatismo dei filosofi contemporanei e ha cercato instancabilmente di ammonire le coscienze comuni, attraverso lezioni pubbliche come quelle rappresentate dall’Anweisung, dal pericolo di schiavitù spirituale derivante dal pensiero che pone a proprio fondamento l’essere.

1) Wissenschaftslehre e Religionslehre nel secondo Fichte Vediamo innanzitutto di approfondire come Fichte stesso concepisse il rapporto tra WL e

dottrina della religione prendendo in esame in modo particolare due testi della maturità: la già citata Anweisung del 1806 e la WL del 1807. Si tratta di due opere dalle caratteristiche profondamente diverse: l’una in forma di esposizione popolare, denotata – almeno nelle intenzioni – da un linguaggio “elementare”, chiaro, diretto, comprensibile «per ogni uomo e per chi sia divenuto maggiorenne»5, l’altra caratterizzata dal faticoso, astratto, oscuro procedere della speculazione scientifica.

2 Ivi, p. 476 (tr. it. cit., p. 311). 3 Ivi, p. 424 (tr. it. cit., p. 263). 4 Wissenschaftslehre = WL. 5 J.G. Fichte, Lettera a F.W. Jung del 3 novembre 1798, in Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der

Wissenschaften (=Ak. Ausg.), vol. III/3, a cura di R. Lauth e H. Gliwitzky, con la collaborazione di M. Zahn e P.

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Ma il carattere popolare dell’Anweisung in cui il nostro filosofo non solo presenta un compendio dei propri risultati speculativi ad un pubblico non specializzato, ma si spinge sino ad esporre la propria interpretazione del Vangelo giovanneo, il tutto in un riadattamento linguistico atto ad una comunicazione il più allargata possibile, non deve trarre in inganno e condurci a pensare di trovarci di fronte ad uno scritto minore. Al contrario, queste lezioni «rappresentano il vertice e il punto di più intensa luminosità»6. E nella stessa Prefazione Fichte precisa che «nel complesso esse sono il risultato della mia autoformazione, perseguita da circa sei-sette anni con maggiore tranquillità e, negli anni della maturità, in maniera instancabile, alla luce di quella visione filosofica che mi è stata partecipata già tredici anni fa e che, pur avendo, come spero, potuto mutare in me parecchie cose, non ha tuttavia mutato da allora se stessa in nessun punto»7. Secondo queste indicazioni, dunque, nonostante l’Anweisung sia stata redatta frettolosamente e senza troppa convinzione (come «frutto delle circostanze esterne»8), quest’opera costituisce un testo fondamentale nella comprensione del Denkweg fichtiano, in quanto fornisce l’esito finale e maturo del proprio itinerario spirituale. In tal senso, può essere definita «il libro dell’autentica Rechenschaft»9.

Ma per Fichte proprio il carattere della popolarità ne designa una notevole importanza non secondaria rispetto all’esposizione scientifica, in quanto giungere a comunicare la verità filosofica con la chiarezza del linguaggio ordinario, lungi dall’ essere sintomo di superficialità, significa averne compreso i termini in tutta la loro profondità. Si realizza così una proficua connessione circolare tra innovazione filosofica e cultura popolare permettendo l’attivarsi di una sorta di “rivoluzione culturale”. In definitiva, l’esposizione popolare non fa altro che esprimere «puramente e semplicemente la verità e nient’altro che la verità, quale è in se stessa, e non quale è di fronte all’errore»10. In questo modo si viene ad autenticare la peculiare Bestimmung della filosofia in quanto il filosofo, che è portatore di una conoscenza superiore, è gravato dal dovere «di raccogliere tutte le proprie forze per condividerla per quanto possibile, con l’intera specie dei suoi fratelli, comunicandola a ogni singolo individuo nella forma in cui egli le è più sensibile»11. Il carattere della popolarità indica quindi altresì la destinazione universale della verità filosofica. Ma della figura del filosofo che tende sempre più a configurarsi come educatore universale, investito della responsabilità di iniziare ogni spirito al «senso nuovo»12 (in cui consiste l’atteggiamento trascendentale), parleremo più approfonditamente in seguito.

Assodato quindi che l’Anweisung rivesta una posizione centrale nel Gang des Denkens fichtiano, è il caso di sottolinearne il profondo afflato religioso conferitole da Fichte. Il nostro filosofo infatti non solo si sentiva richiamato ad un’impellente vocazione pedagogica, ma riconosceva al proprio magistero filosofico un carattere sacerdotale, facendo dell’Iniziazione quasi una “liturgia iniziatica”. «Io sono chiamato a questo ufficio, a rendere testimonianza alla verità… Io sono un sacerdote della verità; sono votato al suo servizio»13 dichiara Fichte nella Missione del dotto. E non è un caso, allora, che Fichte abbia tenuto quelle lezioni di domenica, nell’ora del servizio religioso luterano.

Schneider, Frommann-Holzboog, Stuttgart-.Bad Cannstatt 1972, pp. 156-157 (tr. it. di G. Moretto in Introduzione a J.G. Fichte, La dottrina della religione, cit., p. 19).

6 Die Anweisung, cit., p. 399 (tr. it. cit., p. 243). 7 Ibid. (tr. it. cit., p. 243). 8 Ivi, p. 400 (tr. it. cit., p. 243). 9 G. Moretto, Introduzione, in J.G. Fichte, in La dottrina della religione, cit., p. 16. 10 Die Anweisung, cit., p.422 (tr. it. cit., p. 262). 11 Ivi, p. 420s (tr. it. cit., p. 261). 12 J.G. Fichte, Die Wissenschaftslehre, Königsberg, 1807, in Ak. Ausg., vol. II, 10, a cura di R. Lauth e H.

Gliwitzky, con la collaborazione di E. Fuchs, A. M. Schurr-Lorusso, P. K. Schneider, M. Ivaldo, Frommann-Holzboog, Stutgart-Bad Cannstatt 1994, p. 111, 1r (tr. it. di G. Rametta, Dottrina della scienza. Esposizione del 1807, Guerini e Associati, Milano 1995, p. 23 ).

13 J.G. Fichte, Über die Bestimmung des Gelehrten, in Werke, vol. VI, p. 333 (tr. it. di G. Moretto, Introduzione, in La dottrina della religione, cit., p. 64.).

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Nell’Anweisung troviamo quindi confluire in modo brillante e ben orchestrato la dottrina della religione ed una sintesi dei risultati fondamentali delle meditazioni filosofiche degli anni 1800-1805. Per cui a ragione N. Hartmann può concludere che in quest’opera «noi vediamo la filosofia della religione come immediato rovescio del sistema, anzi, come la sua parte più profondamente originale»14.

Si tratta ora di capire le motivazioni e le implicazioni filosofiche profonde che stanno alla base dell’esclusività rivendicata da Fichte del rapporto tra WL stricto sensu e Gotteslehre. E’ ancora da delucidare perché, alla luce di quella visione filosofica che è la dottrina della scienza, Fichte dichiari di poter stabilire il significato autentico del cristianesimo. La WL costituirebbe infatti «l’unica espressione possibile sul terreno speculativo di quel medesimo Logos che nel Vangelo di Giovanni si era rivelato religiosamente»15.

Entriamo quindi nel vivo del nostro problema affrontando la questione dal punto di vista strettamente speculativo.

2) Filosofia trascendentale o filosofia del finito Forse tutto lo sforzo del pensiero fichtiano è costantemente proteso alla fedeltà ad un’unica

idea base, un’intuizione originaria, «un unico, indivisibile sguardo» (ein einiger, unteilbarer Blick)16, «assolutamente un sol colpo d’occhio»17, in cui consiste la specifica visione (Einsicht) qual è quella della filosofia trascendentale. Altrove viene definita, con espressione alquanto criptica, “un senso nuovo”. Si tratta di un’idea base comunque estremamente feconda, da cui si può dire abbia preso le mosse l’intero impianto filosofico fichtiano, e che è sempre stata percepita dallo stesso Fichte come una sorta di rivelazione.

Cerchiamo allora di chiarire il concetto stesso di filosofia trascendentale rivolgendoci questa volta all’altro testo in questione e precedentemente menzionato: la Wissenschaftslehre di Königsberg, un corso di ventotto lezioni sulla dottrina della scienza che Fichte tenne a partire dal 5 gennaio 1807 nell’Università della patria kantiana.

Nell’introdurre al punto di vista filosofico trascendentale, Fichte nei Prolegomeni avverte subito i suoi uditori della radicalità dell’atteggiamento trascendentale che si tenta di risvegliare in loro. Non si tratterebbe infatti di un mero apprendere contenuti, concetti, informazioni, notizie, quasi come «se la sapienza fosse in grado di scorrere dal più pieno al più vuoto di noi, quando ci accostiamo l’uno all’altro, come l’acqua che scorre nelle coppe attraverso un filo di lana da quello più piena a quello più vuota»18. Al contrario, ciò che è richiesto è l’assunzione consapevole di una disposizione nuova nei confronti del reale. Far filosofia, allora, ha più che mai a che fare con la sfera della praticità, in quanto appunto consiste in un cambiamento radicale di prospettiva, e questo a partire da un atto originario di decisione, e quindi di libertà da parte di ogni singola coscienza. Fichte stesso, in qualità di maestro, si trova allora nella difficile situazione di dover insegnare un qualcosa che invece come tale andrebbe per così dire “risvegliato”, poiché più propriamente non si tratta di un “qualcosa”, ma di un’attitudine, di una sorta di conversio, di Kehre da parte di tutto l’essere spirituale, all’interno del quale deve essere lasciato spazio all’apparizione di un “nuovo mondo”. Nelle parole di Fichte, si tratta di «diventare partecipi di un senso nuovo, a cui si apra un nuovo mondo»19.

14 N. Hartmann, La filosofia dell’idealismo tedesco, tr. it. di B. Bianco, Milano 1972, p. 107. 15 G. Rametta, Le strutture speculative della dottrina della scienza. Il pensiero di J.G. Fichte negli anni 1801-

1807, Pantograf, Genova 1995, p. 63. 16 J.G. Fichte, Die Bestimmung des Menschen, in Werke, vol. II, p. 6 (tr. it. di R. Cantoni, La missione dell’uomo,

Bari 1970, p. 7). 17 Ivi, p. 9 (tr. it. cit., p. 11). 18 Platone, Simposio, 175, D, tr. it. di G. Reale, Bompiani, Milano 20033, pp. 65-67. 19 Die Wissenschaftslehre,, cit., p. 111, 1r (tr. it. cit., p. 23).

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Si ha a che fare con un atteggiamento tanto più inaudito, non solo per il fatto che richieda il suddetto coinvolgimento personale, un’iniziativa originaria da parte del soggetto, ma soprattutto considerando che Fichte stesso si riteneva il primo ad aver raggiunto e a comunicare il compimento del pensiero trascendentale, di cui Kant era stato, per così dire, l’iniziatore. Kant avrebbe «aperto la via di una nuova creazione nel mondo»20 del pensiero. Dove con “nuova creazione del pensiero”, il lettore deve intendere la dottrina della scienza fichtiana che rivendicherebbe il merito di aver portato all’unità sistematica e alla perfezione finale l’indagine critica della ragione cominciata con la Critica della ragion pura.

Sottolineando quindi il carattere di radicalità e insieme di novità proprie della Wissenschaftslehre, Fichte esorta i discepoli «a non credere di sapere già ciò che essa sia, poiché qualunque concetto questo o quello possano averne, io scommetto che è falso»21.

Avvertiti anticipatamente del carattere intrinsecamente pratico della riflessione trascendentale, cerchiamo allora di indagare in primo luogo proprio ciò in cui consiste l’esperienza trascendentale.

Diciamo subito che non si tratta di esperire un qualcosa, ma semmai un movimento, un rapporto di implicazione reciproca tra l’io che conosce e un principio assoluto, due termini che sono al contempo in unità e disgiunzione fra loro. La realtà vera e propria è data dunque da un movimento oscillatorio fra coscienza e Assoluto.

Ma come si giunge alla pratica di tale Schweben, di un librarsi fluttuante tra due poli nettamente opposti? Forse potrà aiutare prendere le mosse proprio dall’eredità kantiana cui prima facevamo accenno. L’indagine critica di Kant muoveva, come noto, dall’interrogarsi sulle condizioni di possibilità della conoscenza umana (che cosa posso sapere? – Was kann ich wissen?), quindi, poneva ad oggetto della propria ricerca la ragione stessa per giungere ad evidenziarne potenzialità e limiti. In altre parole, Kant ci insegna che nel momento in cui conosciamo facciamo uso di uno strumento su cui è bene preliminarmente soffermarsi e interrogarsi. E proprio l’assunzione di una simile domanda fondamentale è manifestazione evidente di una costitutiva finitezza della ragione stessa. Infatti, a ben vedere, tale domanda, assume senso solo all’interno dell’orizzonte di finitezza proprio dell’uomo. Si profila in tal modo quella che è stata definita una “filosofia del limite”. Ciò che, per Fichte, rimane da compiersi è una presa di coscienza del fatto che a riflettere sulla ragione, evidenziandone la strutturale intrinseca finitezza, è la medesima ragione finita. Per cui la comprensione del limite della ragione umana non sarà mai definitiva. Noi non possiamo uscire dal nostro punto di vista parziale neanche quando analizziamo l’organo stesso della nostra conoscenza, cosicché non possiamo parlare di un limite fisso e oggettivo. Quel limite che noi, con sguardo kantiano, vediamo quale caratteristica ontologica, statica della ragione non è altro che la proiezione di un limite, per così dire, soggettivo del pensiero conoscente. La distinzione tra fenomeno e cosa in sé sarebbero allora l’esito dell’estremo tentativo di ipostatizzazione da parte della coscienza che, nel momento in cui indaga se stessa, si rende oggetto che, per quanto peculiare, nella sua datità non si differenzia dagli altri oggetti. L’innovazione fichtiana è allora quella di un’autentica ritorsione della Vernunft su di sé, per cui la ragione diviene l’organo, il Vermögen attivo nell’indagine orientata su di sé. In Fichte troviamo così il superamento della problematicità intrinseca alla speculazione kantiana per cui «la ragione umana, in un genere delle sue conoscenze, ha un destino particolare: quello di essere gravata da questioni che essa non può evitare, perché la sono assegnate dalla sua stessa natura di ragione, ma a cui non può nemmeno dare risposta, poiché tali questioni oltrepassano ogni potere della ragione umana»22, attraverso un’assunzione compiutamente coerente del punto di partenza kantiano che in definitiva, come abbiamo visto, risiede nella constatazione della indigenza, della finitezza umana come struttura intrascendibile e qualificante l’essere umano. Una difettività da non intendersi quale lacerazione da superare in vista di una piena realizzazione della natura umana, ma da considerare come modo d’essere compiuto

20 Ivi, p. 114, 2v (tr. it. cit., p. 27). 21 Ivi, p. 111, 1r (tr. it. cit., p. 23). 22 I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di V. Mathieu, tr. it di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Laterza,

Roma-Bari 2000, p. 5.

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dell’uomo. Fichte ritiene quindi di poter risolvere l’aporeticità, la scissione intrinseca alla filosofia kantiana portando a piena autoconsapevolezza quel rigiramento di sguardo che contraddistingue la condizione umana. A queste considerazioni fanno eco alcuni versi di Rilke:

La creatura, qualsiano gli occhi suoi, vede l’aperto. Soltanto gli occhi nostri son come rigirati, posti tutt’intorno ad essa, trappole ad accerchiare la sua libera uscita.23

Siamo giunti così al cuore della speculazione del nostro autore, e in particolare all’ontologia

fichtiana della visione. Abbiamo visto come Fichte innesti la propria riflessione a partire dal problema moderno della conoscenza, e in particolare come parta dall’analisi della coscienza quale struttura fondamentale del conoscere prendendo le mosse dal taglio prospettico che ne dà Kant. La caratteristica non accidentale ma, per così dire, essenziale della coscienza è quella di essere originariamente cum-scientia, ossia relazione ad altro, intenzionalità, un rivolgersi verso un principio indipendente, verso un “qualcosa d’altro”, che proprio in quanto alterità è improprio definire un qualcosa, poiché qualunque descrizione noi ne diamo si tratta pur sempre di una nostra proiezione. E’ quindi l’Indicibile. Fichte sfida i limiti del linguaggio definendolo semplicemente (servendosi di una forma minimale di schema) con la lettera A, che rimanda ad assoluto, sciolto. La coscienza è allora apertura nei confronti di un’alterità. Tuttavia, tale vedere non è mai conoscenza diretta dell’assoluto “in sé” (ammesso che questa espressione abbia un senso – come vedremo in seguito), ma è offuscata, limitata, velata appunto dalla coscienza stessa. Si tratta della costitutività del vedere per l’essere. L’essere che mi si apre alla vista è infatti condizionato dal modo della mia visione. È come se l’uomo, nel volgere lo sguardo verso l’esterno, fosse costretto a guardare inesorabilmente e contemporaneamente anche se stesso. Il vedere umano manifesta la propria limitatezza proprio nel suo conoscere configurando la realtà medesima, proiettando le proprie costruzioni e determinazioni sull’essere. Alla base vi è quindi una concezione di una ragione che “pone in forma vedendo”, che condiziona a priori l’esperienza. E questo tratto “gestaltico” del filosofare fichtiano è sicuramente il punto in cui si fa maggiormente evidente la memoria kantiana. A partire dall’assunzione di quest’implicazione originaria fra vedere e essere, fra coscienza e Assoluto, Fichte prosegue mostrando come il compito della filosofia trascendentale sia quello di giungere ad autocoscienza di tale struttura originaria. Quando la coscienza si appronta a conoscere un oggetto esterno (non nel senso di contrapposto all’interiorità, ma nell’accezione di oggetto dato, che può essere quindi anche la propria “anima”, se stessi) deve cercare di cogliere le determinazioni che essa stessa ha proiettato sull’oggetto. Deve cercare di rimuovere ciò che di proprio ha contribuito alla configurazione dell’oggetto intuito. Ecco che allora l’opera della coscienza viene a delinearsi sempre più come un processo di sottrazione delle schematizzazioni che la coscienza inconsapevolmente trasferisce sull’essere fissandole e ipostatizzandole, e che poi considera erroneamente come veritiere. La coscienza deve in tal modo rendersi conto di essere l’origine di tali determinazioni, di esserne la condizione di possibilità, per cui, infine, l’oggetto viene “interiorizzato” e si produce autocoscienza. Il pensiero si scopre come organizzatore interno della visione, come produttivo porre-di-fondamenti (grundsetzen), ma al contempo anche come ricerca di se stesso in quanto fondamento, vedere orientato su di sé, vedere del vedere. Ecco perché si può definire la WL una deduzione genetico-trascendentale delle condizioni di possibilità della conoscenza.

Ma nel momento in cui tale indagine viene condotta fino in fondo e la riflessione giunge sino al punto estremo di mettere in discussione se stessa in quanto riflessione, ecco che automaticamente, “d’un sol colpo” appare (erscheint) l’Assoluto. Da quella che poteva sembrare un’attività di radicale negatività e distruzione, nella morte di ciò che è nostro, emerge l’alterità.

23 R.M. Rilke, Elegie duinesi, Einaudi, Torino 2003, p. 49.

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L’alterità emerge nel toglimento di noi stessi. E la coscienza è il luogo di manifestazione dell’Assoluto.

Se lo sguardo genuinamente trascendentale è caratterizzato dalla più radicale autoriflessività e autofondatività, per converso, e senza intravedere possibilità di posizioni mediane, i dogmatici compiono «l’errore fondamentale (GrundIrrtum) di porre a fondamento del filosofare e della loro stessa vita l’essere»24. In realtà, tale caratteristica del vedere naturale deriva da modalità costitutive della struttura conoscitiva stessa della coscienza, e viene altresì assorbita e superata nel pensiero trascendentale. Infatti la peculiarità della ragione umana è che per conoscere, proprio in quanto è finita, deve sdoppiarsi. Viene così a crearsi la contrapposizione tra soggetto e oggetto. Anzi, la coscienza necessariamente, inevitabilmente pone al di fuori di sé oggetti, schemi, determinazioni dell’io. L’errore del dogmatismo consiste nell’arrestarsi al risultato di questo processo inconsapevole di entificazione. Le determinazioni sono poste-di-fronte (vorgestelt) allo sguardo del dogmatico e considerate come dati di fatto, enti indipendenti. È la ragione stessa che in un primo momento (anche se è una temporalità non cronologica ma legata all’ordine deduttivo-trascendentale) assolutizza le determinazioni. L’importante, per il pensiero trascendentale, è il rendersi consapevole di essere esso stesso la radice, l’origine della posizione (Setzung) delle determinazioni finite, della scissione dell’io nella molteplicità degli enti.

Mentre quindi il pensiero metafisico vorrebbe compiere il “salto mortale” della comprensione del reale in modo puramente recettivo e contemplativo sganciandosi dall’implicazione originaria di sapere ed essere, al contrario, il sapere assoluto cui giunge la ricerca trascendentale, nonostante gli equivoci cui può indurre l’espressione stessa di “sapere assoluto”, aspira più modestamente, ad avere piena autocoscienza dello schematismo proprio del nostro conoscere. In questo modo il pensiero trascendentale non verrebbe a perdere l’essere, capitolando in una forma di isolamento soggettivistico e nichilistico (come gli è stato imputato), ma, come abbiamo visto, costituisce l’unica via per conseguirlo. Proprio l’esercizio incessante della critica distruttiva si rovescia paradossalmente e immediatamente nel confluire della vita nella sua pienezza. In ogni caso, tutti i dibattiti su temi quali l’essere, la vita, il nichilismo, il soggettivismo, non hanno più senso se siamo già all’interno di una prospettiva trascendentale. In realtà, ciò che conta è ciò che sta a monte, ossia la preliminare decisione tra prospettiva trascendentale e dogmatismo, posizioni nettamente antagoniste all’interno di ciascuna delle quali ogni termine assume un senso diverso e peculiare. Forse il “senso nuovo” veicolato dal pensiero critico è il più difficile da comprendere in quanto l’ostacolo massimo è costituito dalla grammatica delle nostre lingue, la quale è intrisa di una forte tendenza all’ipostatizzazione.

Ma se il dogmatismo è descritto da Fichte nei termini appena visti, allora esso può essere combattuto e controargomentato come il nostro stesso filosofo ha fatto. Tuttavia, vi può essere un’altra e ben più dirompente forma di dogmatismo che ponga sì a proprio fondamento l’essere, ma che sappia scuotere dalla base l’intero impianto trascendentale fichtiano. Perché, forse, proprio il filosofare che intende essere “toglimento dei presupposti in atto” si trova a dover prendere le mosse da un presupposto fondamentale, da una Condizione delle condizioni, da un Inderivabile, da un Principio che costituisce un “fatto originario” e che è possibile solo mostrare in atto ed esperire. Si tratta proprio di quell’implicazione tra coscienza ed assoluto di cui avevamo anticipatamente parlato all’inizio e che, alla luce delle considerazioni svolte, dovrebbe essersi caricata di senso.

E’ la struttura stessa della filosofia fichtiana a non permetterne un’ulteriore fondazione sul piano logico-speculativo. Per cui, a partire dall’assunzione di tale “dato di fatto” , e cioè la finitezza della coscienza, non è più possibile, per così dire, tornare indietro. A partire da tale Presupposto, tutto torna, si crea un sistema perfettamente compiuto, la cui aporia del cominciamento può essere risolta praticamente.

D’altro canto, è possibile mettere in discussione tale punto di partenza, cercando di mostrare come Fichte, in definitiva, muova da un’indebita assolutizzazione della finitezza umana.

24 Die Wissenschaftslehre, cit., p.118, 5v (tr. it. cit., p. 38).

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In realtà, la considerazione fichtiana procede da un’osservazione corretta e onesta del dato esperenziale, infatti l’uomo è effettivamente finito, e da solo, con le proprie forze, non può infrangere le proprie barriere. Tuttavia, non si apre all’eventualità, esclusa quindi a priori, che tale limitatezza possa essere superata da un intervento esterno25. In tal modo, si fa torto alla categoria della possibilità, in quanto si esclude che un’esperienza integrale del reale possa essere autenticata grazie all’iniziativa del reale stesso. In altri termini, ciò che Fichte assolutizza, è l’esperienza stessa della finitezza, precludendosi la possibilità che si possa avere un’esperienza totale del reale, non più parziale.

Fichte, insomma, mancherebbe di considerare che, a partire dalla constatazione del dato di fatto dell’indigenza della condizione umana, si possano dipartire due possibilità: la sua, per cui sarebbe assolutamente impossibile una fuoriuscita dalla struttura implicativa, e quella opposta, per cui tale fuoriuscita sarebbe consentita da un intervento miracoloso, ossia eccedente le potenzialità stesse dell’umano. Pare più ragionevole, poiché tiene conto di tutti i fattori in gioco, e più onesto intellettualmente, tenere in considerazione anche la seconda possibilità, anche solo in qualità di mera ipotesi, costantemente aperta, disposta alla verifica. Fichte invece sembrerebbe volersi imprigionare deliberatamente all’interno del punto di vista unilaterale della coscienza cadendo così in una forma autistica di chiusura in se stesso.

Declinato in altri termini ancora, è evidente che ciò che può essere messo in questione è l’idea stessa di ragione assunta da Fichte (ma di matrice kantiana). Infatti una ragione concepita come condizionante a priori l’esperienza, senza possibilità che l’inaccessibilità del divino possa essere infranta dal divino stesso, è una ragione che decide già, a priori, del comportamento del Principio assoluto. Ciò che si vorrebbe “altro” dalla ragione è già stato deciso a priori dalla ragione stessa. Allora, quella che poteva sembrare la modestia di una filosofia che si proponeva come obiettivo primario quello di essere coerentemente e fino in fondo “filosofia del finito” si ribalta paradossalmente in un atteggiamento di superbia nel voler decidere a priori dell’Assoluto.

Abbiamo colto, dunque, come questo sia il punto fondamentale, il luogo in cui solamente l’impianto filosofico fichtiano può essere messo radicalmente in discussione. Solo la critica di questo punto permette una via di fuga dalla prospettiva trascendentale. Per questo quindi abbiamo ritenuto indispensabile insistere tanto su questo nodo strettamente speculativo. Solo ora, infatti, abbiamo gli strumenti per poter comprendere in tutta la sua portata il rapporto tra WL e cristianesimo. Alla luce delle considerazioni svolte, emerge come l’idealrealismo fichtiano, a partire dall’assunzione del nesso implicativo originario, ossia a partire dall’impianto filosofico della WL nella sua autonomia, sia in grado apparentemente di inglobare il cristianesimo al suo interno, dato che la filosofia trascendentale non nega affatto l’alterità ed un’apertura all’alterità, conseguita attraverso l’esercizio estremo, abissale dello “stare sui limiti”. Tuttavia, proprio perché tale attività viene svolta tutta nella solitudine dell’uomo, non contemplando la possibilità di una cooperazione da parte del divino, la WL finisce per fraintendere gravemente il significato più autentico e fondante dello stesso cristianesimo il cui annuncio è il Fatto dell’entrata di Dio all’interno della storia umana, della liberazione del presente tramite un suo intervento eccedente l’orizzonte della creatività razionale. E forse Fichte nel meditare le parole di Giovanni mostra paradossalmente di averne misconosciuto il messaggio più profondo, di averne misconosciuto il “vangelo”.

Secondo questa proposta interpretativa il cristianesimo coinciderebbe proprio con quell’unica forma di dogmatismo in grado di scardinare la prospettiva trascendentale. È forse il caso di sottolineare che con ciò non è in gioco una presa di posizione, il decidersi a favore o meno della prospettiva cristiana (la cui adesione richiede un atto di fede), si tratta piuttosto della ridefinizione delle linee fondamentali della filosofia fichtiana, della discussione dei suoi punti cardine, al fine di comprendere in tutta la sua complessità la questione della legittimità dell’inserimento del

25 Cfr. «Tuttavia questa beatitudine non può essergli procurata da nessuna forza esterna nè da un miracolo di

questa forza esterna, ma egli stesso deve prenderne possesso con le sue proprie mani». Die Anweisung, cit., 447 (tr. it. cit., p.284).

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cristianesimo all’interno della dottrina della scienza. Questo era appunto il nostro proposito di partenza.

Ora, quindi, rivolgiamoci finalmente, in modo più esplicito, al pensiero religioso fichtiano: in cosa consiste allora la filosofia della religione di Fichte?

Possiamo dire che il rapporto tra dottrina della scienza e religione si gioca proprio a partire dalla concezione sopra descritta di una filosofia trascendentale che obbedisce al principio invalicabile di restare entro i limiti del finito, di una filosofia il cui obiettivo fondamentale è quello di ricondurre la multiformità infinita della vita etico-storica alle strutture intime dello spirito umano, come a sua unità e giustificazione.

Ora, Fichte applica questa specifica metodologia filosofica anche al problema religioso. Il fatto religioso, in tutte le sue molteplici declinazioni, viene sottoposto ad un’indagine del tipo genetico trascendentale, volto a ricercarne le condizioni universali di possibilità in principi a priori. Così di fronte ad ogni concetto proprio dell’ambito religioso, il compito del filosofo della religione consiste nel sottoporlo alla domanda per eccellenza della filosofia trascendentale: qual è la ragione di necessità (der Grund der Nothwendigkeit) per cui l’uomo perviene ad ammettere questo e quello (ossia Dio, Chiesa, rivelazione, grazia, miracolo e quant’altro)? Una filosofia che si dica radicale deve proporsi di studiare l’origine, le pretese e i diritti di ogni concetto. Per Fichte, in fondo, l’ideale della filosofia è lo stesso di quello religioso e precisamente consiste nell’intima unione di Dio e uomo, di assoluto e coscienza. Il contenuto quindi sarebbe lo stesso, e consiste in particolare in quel vincolo tra puro essere e riflessione, sperimentabile nell’immediatezza come implicazione originaria.

D’altro canto, la differenza che intercede tra religione e filosofia risiede nel fatto che ciò che per la religione è un fatto (Dass) spontaneo e misterioso dell’unione del mortale col divino, per la filosofia è la presa di coscienza, argomentativa e discorsivo-genetica del modo (Wie) trascendentale delle condizioni di possibilità di tale unione. Per la filosofia «diventa genetico quello che per la religione è soltanto un fatto assoluto»26. La distanza tra le due si collocherebbe quindi su un piano strettamente metodologico. «La filosofia può soltanto spiegare fatti, non produrli esse stessa; l’unico fatto che essa sia in grado di produrre è essa stessa. Al filosofo non viene certo in mente di persuadere gli uomini del loro dovere di pensare gli oggetti ordinati come materia nello spazio e i loro mutamenti come succedentisi nel tempo; alla stessa maniera egli non si lascia indurre a convincerli del dovere di credere in un governo divino del mondo. L’una e l’altra cosa si verificano senza il suo intervento; egli le presuppone come un fatto, e il suo compito consiste unicamente nel dedurre questi fatti, in quanto tali, dal modo di comportarsi originario di ogni essere razionale. Non vogliamo perciò che le nostre idee vengano considerate come il tentativo di convincere l’incredulo, ma piuttosto come una deduzione del convincimento del credente. Noi non dobbiamo fare altro che rispondere alla domanda causale: come perviene l’uomo a questa fede?»27.

È evidente che questa impostazione beneficia largamente della lezione kantiana. Ma l’influsso dell’epoca dell’Aufklarung va molto più a fondo: la preoccupazione di Fichte riguarda principalmente la salvaguardia della possibilità di una religione razionale e libera per sfuggire alle maglie di qualunque forma di confessionalismo, al fine di porre così le basi di un’autentica e non superficialmente irenica tolleranza.

Manifestazione originaria di libertà è infatti l’atto, costitutivo dell’autocoscienza, per cui la ragione riflette trascendentalmente su se stessa. La libertà, cioè, sarebbe la capacità di elevarsi al di sopra dell’essere immediato, «bell’e fatto»28, e di raggiungere la comprensione di ciò che lo rende possibile “così e così”, come lo coglie il vedere naturale. È il tipico processo del rendere “conosciuto” ciò che è soltanto “noto”, del sottrarre ciò che è stato posto dalla ragione, ossia del prendere autocoscienza dei presupposti e quindi del toglierli in quanto tali. La libertà consiste in

26 Die Anweisung, cit., p.472 (tr. it. cit., p. 307). 27 J.G. Fichte, Ueber den Grund unseres Glaubens an eine göttiliche Weltregierung, in Werke, vol. V, p. 178 (tr.

it. di G. Moretto in Introduzione a J.G. Fichte, La dottrina della religione, cit., p. 25). 28 Die Wissenschaftslehre, cit., p. 112, 1v (tr. it. cit., p. 25).

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definitiva nel giungere all’autoconsapevolezza da parte della ragione di essere l’origine di qualsiasi posizione. Solo in questo modo, per via negationis, la coscienza si dispone a tempio per il manifestarsi dello A puro. La riflessione può riflessivamente cogliere lo A puro solo attraverso l’atto di sottrarre riflessivamente se stessa. Si delinea così un’idea di libertà non riducibile all’atto della mera scelta tra una molteplicità di possibilità date, ma definibile come un atto di decisione con cui la ragione è in grado di spezzare la concatenazione deterministica di causa-effetto propria del mondo naturale, dando radicalmente inizio ad un nuovo ordine di cose proprio nell’istante in cui, sottraendo se stessa dallo A della vita, lascia a quest’ultima la libertà di «viversi e sperimentarsi»29.

E in questa tautologia, nonostante la vuotezza speculativa dell’espressione, emerge tutta la praticità di una filosofia che si fa vita nel momento in cui si esercita nella creazione all’infinito di raffigurazioni sempre nuove, ma compiute, dell’unico assoluto. Una libertà capace di dare un nuovo corso alla realtà, e quindi carica di valenza ontologica, è l’unica che consenta all’uomo di elevarsi all’autentica sfera della moralità. Ecco che la WL può essere definita «il primo sistema [filosofico] della libertà»30. E si chiude così il cerchio di quel percorso iniziatosi con Kant che aveva ben inteso il carattere intrinsecamente razionale della libertà, ma che si era arrestato al livello della mera legalità.

Se l’epoca moderna di contraddistingue per aver conquistato, grazie al contributo della WL fichtiana, una tale concezione compiuta di ragione, allora sarà altresì tutta dominata dal «compito di ricercare il soprasensibile, che non poteva più essere creduto in base a un’autorità estranea, nella ragione stessa, e solo così di creare un’autentica filosofia, in quanto del libero pensiero si fece, come doveva essere, la fonte di una verità indipendente»31.

Considerato il fatto che tale struttura razionale è la medesima in ogni uomo e nella convinzione che «ciò che viene posto dalla ragione è assolutamente il medesimo in tutti gli esseri razionali», allora, se «la religione e la fede sono poste da essa», sono «poste alla stessa maniera. Sotto questo profilo non ci sono più religioni né più dei; c’è assolutamente un soltanto un Dio»32. Nel contempo emerge, quindi, un’idea di tolleranza paradossalmente connessa, anzi animata da una certezza, da una verità assoluta, perché appunto fondata su una configurazione universale della ragione umana: la concrete fedi storiche sono viste allora come “semplici mezzi” in vista dell’unico fine, che consiste nell’unico culto razionale che il divino possa attendersi dai mortali e cui l’Anweisung tenta appunto di introdurre.

Ad illuminare il rapporto tra religioni positive e dottrina della scienza è la filosofia della storia fichtiana, secondo cui il pensiero della WL è antico quanto il mondo, solo che ciò che prima era espresso meramente in forma mitologica e antropomorfica, ora viene dedotto, compreso dalla scienza che «fa sparire ogni fede e la muta in puro contemplare»33. In altre parole, la stessa dottrina della scienza «con un grado di chiarezza e purezza che neppure noi siamo in alcun modo in grado di superare, fin dalle origini del cristianesimo, in ogni epoca si è qua e là imposta segretamente e si è propagata»34. All’inizio ciò che le prime persone «poco istruite, totalmente ignoranti o anche contrarie alla filosofia»35 hanno acquisito con strumenti molto imperfetti, facendo leva sul proprio senso naturale della verità e quindi attraverso una via popolare, oggi è ancor più facilmente raggiungibile dato che «gli strumenti sono stati perfezionati e, per lo meno in filosofia, è stata raggiunta un’ampia chiarezza»36. «Perché ciò che fu possibile quando la fede religiosa e

29 Die Wissenschaftslehre, cit., p.116, 4v (tr. it. cit., p. 32). 30 J.G. Fichte, Lettera a Baggesen dell’aprile-maggio 1795, in Ak. Ausg., vol. III, 2, cit., p. 298 (tr. it di L.

Pareyson, , Testi , in G.A. Fichte, Grande Antologia Filosofica, vol. XVII, Marzolati, Milano 1971, p. 908). 31 J.G. Fichte, Reden an die deutsche Nation, in Werke, vol. VII, p. 353 (tr. it. di G. Rametta, Discorsi alla

nazione tedesca, Laterza, Bari 2003 p. 85). 32 J.G. Fichte, Rückerinnerungen, Antworten, Fragen, in Werke, vol. V, p. 348 (tr. it. di G. Moretto, Richiami,

risposte, domande, La dottrina della religione, cit., p. 197). 33 Die Anweisung, cit., p. 472 (tr. it. cit., p. 60). 34 Die Anweisung, cit., p.419 (tr. it. cit., p. 260). 35 Ivi, p.420 (tr. it. cit., p. 260). 36 Ibid. (tr. it. cit., p. 260).

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l’intelligenza naturale erano ancora in un certo modo in conflitto tra loro sarebbe divenuto impossibile proprio ora che esse si sono riconciliate e fuse e perseguono amichevolmente il medesimo unico fine?»37. «Oggi la verità compiuta è la scienza [la comprensione scientificamente filosofica]: ma l’elemento della scienza è la riflessione»38. Queste le parole inequivocabili contenute all’interno delle Lezioni Seconda e Decima dell’Anweisung.

Ma se prendiamo in considerazione anche altre sintomatiche parole che Fichte pronuncia nella medesima lezione, ecco che si rende sempre più evidente che il movimento che viene sviluppandosi nel procedere del discorso fichtiano è dato, da una parte, da una filosofia che tende sempre più ad identificarsi con la vita vera e, dell’altra, da una religione che si struttura ultimamente con i caratteri della gnosi. Ci riferiamo precisamente ai punti in cui Fichte dichiara che «soltanto mediante il pensiero autentico, puro e vero, e assolutamente con nessun altro organo si può attingere a attirare a sé la divinità e la vita beata che sgorga da essa»39, per cui «il vero Dio e la vera religione vengono colti soltanto mediante il pensiero puro»40. Emerge, insomma, una perfetta coincidenza tra l’esperienza dell’unione fra Dio e l’uomo propria della religione, e l’accesso alla vita beata ed eterna cui il bios theoretikos aspira. Così, al di là della distinzione nella modalità conoscitiva (l’una discorsiva, l’altra intuitiva) sembra davvero difficile differenziare in maniera netta, nella sostanza, l’atteggiamento religioso dello spirito umano da quello filosofico, che in definitiva paiono confluire in una sorta di amor intellectualis Dei, nell’indistinzione tra agape cristiana ed eros filosofico, o meglio nella riduzione della prima al secondo.

Si conferma così il carattere profondamente riduttivo dell’interpretazione fichtiana del cristianesimo, finalizzata all’assorbimento dello stesso all’interno delle maglie della dottrina della scienza, preliminarmente assunta nella sua autonomia. L’unione dell’uomo con l’immutabile e l’eterno, annunciato come Avvenimento dal cristianesimo, finisce con l’identificarsi con lo slancio conoscitivo del pensiero, di un pensiero – è bene sottolinearlo – trascendentalmente inteso.

Siamo ora in grado di approfondire alcuni temi specifici quali la trascendenza, la vita e la metafora della luce, che ci porranno più a contatto con il serrato confronto tra Fichte e Vangelo giovanneo, per poi concludere con un’analisi della cristologia trascendentale fichtiana.

3) Alterità e trascendenza

Vediamo di indagare anzitutto lo statuto che la trascendenza assume all’interno della mente

fichtiana e di capire che cosa Fichte intende propriamente quando ripetutamente e senza troppi riguardi nelle sue opere, e in particolare nell’Anweisung, utilizza il termine Dio. Chi o cosa è Dio per Fichte?

Abbiamo visto come la coscienza si configuri come una strutturale, non contingente, coappartenenza tra sapere e un principio assoluto. Ebbene, vogliamo proprio interrogarci circa questo Assoluto: come è possibile definirlo, in cosa consiste? Abbiamo già detto come in realtà qualunque determinazione sia inopportuna dato che risulterebbe essere una proiezione del soggetto e si finirebbe per rendere questo essere «qualcosa di finito, un essere uguale a voi, ma con ciò non avrete certo, come vorreste, pensato a Dio, bensì soltanto riprodotto voi stessi nel pensiero»41.

Questo si spiega ancora una volta con l’idea di base secondo cui, nell’incapacità di svincolarci dal nostro essere coscienza finita, tutto quello che possiamo fare è «compenetrar[e] per sottrarr[e]»42 ogni nostra proiezione. Ecco allora che l’alterità emerge in termini negativi come

37 Ibid. (tr. it. cit., p. 260). 38 Ivi, p. 542 (tr. it. cit., p. 372). 39 Ivi, 418 (tr. it. cit., p. 258). 40 Ibid. (tr. it. cit., p. 258s.). 41 Ueber den Grund unseres Glaubens an eine göttliche Weltregierung, cit., p. 187 (tr. it. di G. Moretto, Sul

fondamento della nostra fede in un governo divino del mondo, in La dottrina della religione, cit., p. 82). 42 Die Wissenschaftslehre, cit., p. 114, 2v (tr. it. cit., p. 27).

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l’Indicibile, l’Infinito, l’Inderivabile, come ciò che rimane “non detto” in quanto viene detto. La riflessione che vuole assurgere al livello della scienza non può far altro che sottrarre radicalmente se stessa in quanto sapere per far emergere l’originario di cui, per altro, è sapere. Potendo però la riflessione prendere coscienza di sé in quanto riflessione, non può schematizzare ciò che è altro da sé che come “non sapere”, non riconducibile a concetto (Unbegrifliches).

L’esito ultimo di un processo conoscitivo per cui tutto ciò che sappiamo e possiamo dire dell’Assoluto è che è radicalmente altro, la negazione di noi stessi, è quindi una sorta di teologia negativa (certo, del tutto peculiare). «All’uomo non è affatto richiesto di crearsi l’eterno, cosa che non saprebbe nemmeno fare; l’eterno è in lui e non cessa di circondarlo: l’uomo deve solo rigettare ciò che è accidentale e nullo (…), dopo di che verrà subito a lui l’eterno con tutta la sua beatitudine. Noi non possiamo acquistare la beatitudine, possiamo però rigettare la nostra miseria»43.

Queste parole ci consentono di fare un passo ulteriore. Se è vero infatti, secondo Fichte, che tutto ciò che l’uomo può fare e deve fare è obbedire al motto delfico “conosci te stesso” (declinato in senso trascendentale), questo non significa chiudersi nel proprio isolamento, ma è l’unico modo per aprirsi a ciò che eccede il sapere. Quindi, attraverso questo processo di rimozione, l’assoluto erscheint, appare. Nella presa di consapevolezza di noi stessi avvertiamo un’eccedenza. È come il presentimento di un’assenza. Ciò con cui abbiamo a che fare, ciò che per così dire abbiamo “a portata di mano” come enti semplicemente presenti, sono esclusivamente le determinazioni dell’io finito. Tuttavia, se esse vengono considerate in quanto appunto proiezioni dell’io finito, improvvisamente divengono una configurazione dotata di senso, divengono cioè fenomeno (Erscheinung) dell’Assoluto. Attraverso (durch) ciò che è presente appare simultaneamente un rappresentato che è irriducibile a presenza, e quindi, in questo senso, “assente”.

Prendendo spunto da Benjamin, potremmo usare la metafora della costellazione, in cui ciò che è “empiricamente” sono le singole stelle, tuttavia, con sguardo “gestaltico”, tali stelle appaiono virtualmente coordinate da un polo invisibile. Noi non sappiamo nulla di cosa sia in sé questo punto di fuga, poiché «nella nostra essenza inestinguibile, siamo soltanto sapere, immagine e rappresentazione»44. «Noi non vediamo lui [Dio], ma sempre soltanto il suo involucro», perché «la nostra stessa visione ci nasconde l’oggetto e il nostro stesso occhio è di ostacolo a se stesso»45. «Neppure in questa nostra fusione con lui, Dio diventa il nostro essere più proprio, ma ci si presenta soltanto come qualcosa di estraneo, che si ritrova al di fuori di noi e al quale non ci resta che abbandonarci e attaccarci con intimo amore»46.

Ma siamo poi sicuri che vi sia un “qualcosa”, un essere al di là del nostro sguardo finito? Fichte, in questo tornante decisivo, ci chiede di fare l’estremo sforzo: di non adagiarci sul carattere ipostatizzante del nostro linguaggio. Ma di considerare che anche il concetto di essere è uno schema di pensiero, un segno, “l’immagine di un’immagine”. Questa l’intuizione folgorante che introduce alla visione trascendentale. Ecco che l’Assoluto, l’essere, l’eterno, considerato in sé, svincolato da ciò che veicola la sua rappresentazione, si riduce a “vuoto pensiero” (leerer Gedanke), mentre, parallelamente, si carica di concretezza, assurge a vero concretum quella complexio Assoluto-determinazioni per cui, attraverso le determinazioni, appare l’Assoluto. Si riconferma quindi l’interpretazione fichtiana del reale come struttura implicativa. Ed è chiara la negazione, tanto perentoria quanto aprioristica, di una recuperabilità dell’originario sul piano del presente inteso come semplice-presenza. Ciò che è, è sempre qualcosa di determinato, di finito. Quindi l’Assoluto mai propriamente “è”, semmai “esiste”, nel senso fichtiano di Existenz come prodursi dell’assoluto a fenomeno.

Ma se non vi è alcun aldilà, alcun Jenseits, se non vi è altro luogo e tempo del nostro qui e ora, insomma se il reale è assolutamente l’implicazione tra sapere e assoluto, allora non vi è alcuna

43 Die Anweisung, cit., p. 412 (tr. it. cit., p. 254). 44 Ivi, p. 461 (tr. it. cit., p. 297). 45 Ivi, p. 471 (tr. it. cit., p. 306). 46 Ivi, p. 461 (tr. it. cit., p. 297).

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trascendenza, se con questo termine s’intende la reificazione dell’Assoluto in un essere al di là dell’esistenza. È dalla stessa struttura razionale della WL che deriva l’idea paradossale «di un’eccedenza che non conduce fuori rispetto allo spazio dell’immanenza»47. Per cui «l’apertura del fenomeno sull’infinito significa l’eccedenza dell’immanenza sull’immanenza, non la fuoriuscita da essa, né l’anelito all’identificazione mistica con un trascendente ridotto ad ente “altro”»48.

Si è reso allora ancora più manifesto come la WL sia incapace di svincolarsi dalle maglie della coscienza finita, imprigionandosi definitivamente nell’immanenza della nostra condizione attuale. E se è vero che tale atteggiamento è dotato comunque, a suo modo, di un valore conoscitivo-ontologico, non si delinea come autentico “senso religioso”, se con questa espressione s’intende designare quell’esperienza elementare per cui l’uomo non solo sperimenta la propria finitezza, ma si apre, avvertendola, alla possibilità che si dia qualcosa di radicalmente altro, di sconnesso dall’implicazione col mio vedere. Il reale verrebbe così a costituire una effettiva provocazione di apertura. L’atteggiamento fichtiano di incapacità di una tale apertura indica quindi un senso di mistero diverso rispetto a quello di chi si pone di fronte ad un punto di fuga che veicola alla trascendenza, di chi anela ad una risposta esauriente alla sua esigenza di domanda totale al di là dell’orizzonte della propria vita.

Nella prospettiva trascendentale, per l’uomo, per cui l’unica realtà esistente è la propria vita immanente, l’unico modo di sperimentare l’alterità è, come abbiamo visto, quello di sottrarre se stesso perché «questo è il destino ineludibile della finitezza; solo attraverso la morte questa perviene alla vita»49. Solo attraverso questa attività da parte dell’uomo, la nostra esistenza può disporsi a Bild dell’Assoluto. E solo in questo modo si dispiega l’autentica moralità dell’uomo. Dio, nel frattempo, non si rivela affatto essere un qualcosa, e la domanda da cui abbiamo preso le mosse si scopre in tutta la sua inadeguatezza. Al massimo, si potrà dire che «egli è ciò che fa colui che gli si abbandona ed è da lui ispirato»50. «L’ordine morale e vivente è esso stesso Dio»51. Ne consegue che «la vera religione (…) fissa la propria vita nel dominio dell’agire, e dell’agire autenticamente morale. La religiosità vera e reale non è puramente contemplativa e speculativa, non si limita a coltivare pensieri devoti, ma è necessariamente attiva. Essa consiste nell’intima coscienza che Dio vive realmente, è attivo e compie la sua opera in noi»52.

Di conseguenza, si tratterà di un Dio che rifiuta tutte le accezioni personalistiche del teismo, e lontanissimo quindi dal Dio persona infinita che crea e agisce, di tante, anzi, della maggioranza delle religioni storiche. Cominciamo così a renderci conto sempre di più della distanza che intercede tra religione fichtiana e religione positiva. Nel contempo, il pensiero religioso del nostro autore rivela la struttura rigorosamente razionale da cui scaturisce, per cui ultimamente tende a confondersi con la morale. Ciò che conta è quell’esperienza originaria su cui si fonda l’intera razionalità trascendentale e che segna, per Fichte, l’atto di nascita dell’individuo etico-religioso. Tutte le concettualizzazioni filosofiche e teologiche che si sovrappongono a tale esperienza hanno quindi una posizione derivativa. E sono esse le cause delle infinite discussioni, delle guerre di religione, dell’intolleranza. «Soltanto il Dio dell’intera ragione è il Dio vero. In buona coscienza, nel mio concetto di Dio sono disposto a tollerare altrettanto poco qualcosa di fichtiano quanto qualcosa di cristiano (nel significato settario) o di ebraico, di lavateriano e di feneloniano»53.

47 G. Rametta, Le strutture speculative della dottrina della scienza. Il pensiero di J.G. Fichte negli anni 1801-

1807, cit., p. 104. 48 Ivi, p. 102. 49 Die Anweisung, cit., p. 413 (tr. it. cit., p. 254). 50 Ivi, p. 472 (tr. it. cit., p. 307). 51 J.G. Fichte, Ueber den Grund unseres Glaubens an eine göttiliche Weltregierung, cit., p. 186 (tr. it. di G.

Moretto, Sul fondamento della nostra fede in un governo divino del mondo, in La dottrina della religione, cit., p. 81). 52 Ivi, p. 473 (tr. it. cit., p. 308). 53 J.G. Fichte, Lettera a F.C. Jensen del 3 Maggio 1799, in Ak. Ausg. III/3, p. 347 (tr. it di G. Moretto in

Introduzione, in La dottrina della religione, cit., p. 41).

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3) Lo schema della vita

Spesso, nel corso della nostra trattazione, abbiamo fatto ricorso al concetto di vita. Ora,

proprio questo concetto merita un’attenzione particolare in Fichte. È noto che questa è solo una delle «immagini e [del]le formule della religione tradizionale, che dicono la stessa cosa che noi pure intendiamo dire»54. E in particolare Fichte sembra fare riferimento all’evangelo di S.Giovanni, segnatamente a quei passi, tra i più intensi della letteratura di tutti i tempi, in cui si dice: «in lui era la vita e la vita era la luce degli uomini» (Gv 1, 4), «chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato ha la vita eterna» (Gv 5, 24), «io sono il pane della vita» (Gv 6,35) e altri ancora. Che Fichte faccia realmente riferimento a tali passi è eloquentemente testimoniato dall’intera Sesta Lezione, in cui Fichte non vuole far altro che parafrasare il Vangelo giovanneo con l’unico scopo di «dimostrare la concordanza della nostra dottrina con il cristianesimo»55. «Il mio principio d’interpretazione – dichiara Fichte – di questo come di tutti gli autori cristiani è comprenderli come se avessero voluto dire realmente qualcosa e come se, per quanto le loro parole lo permettano, avessero detto ciò che è giusto e vero»56.

Ma, allora, cosa intende propriamente Fichte con “vita”? Che cosa è “vita”? Nella dottrina di Königsberg, il nostro filosofo la definisce come lo «schema più alto e assoluto»57, all’interno del mondo degli schemi. Veniamo così a toccare uno dei punti cardine della filosofia fichtiana, perché con il concetto di Leben Fichte intende sottolineare ciò che a più riprese siamo venuti enucleando nel corso del nostro discorso: l’irriducibilità dell’assoluto sia ad essere che ad io. Ciò che è in questione, come si vede, è sempre lo stesso nucleo di pensiero, solo che ora lo affrontiamo davvero in modo diretto.

La centralità del tema deriva altresì dal fatto che qui si gioca l’irriducibilità del pensiero fichtiano sia ad un filosofare dogmatico, obiettivante e neutralizzante, che ponga a proprio fondamento l’essere, sia ad un solipsismo speculativo soggettivistico che vedrebbe a proprio fondamento, invece, l’io.

Se la peculiarità della proposta fichtiana consiste appunto nel dire che l’Assoluto non è né essere né io, ci si profila già un abbozzo di risposta al nostro interrogativo di partenza in termini meramente negativi. E non può essere altrimenti dato che la domanda stessa da cui ha preso avvio la ricerca si rivelerà in tutta la sua inadeguatezza. Ma che l’Assoluto venga a configurarsi come vita, in quanto non è né io né essere, dipende dal fatto che io e essere, se considerati isolatamente, “in sé”, non sono altro che morti concetti ombra.

Emerge quindi subito in primo piano la tematica del “concetto” nel momento in cui si tenta di pensare la vita. Cerchiamo allora di capire lo statuto del concetto fichtiano di “concetto” (Begriff).

In generale, possiamo dire che il concetto è il movimento attraverso cui la ragione conosce delimitando, ponendo determinazioni, le quali a loro volta si determinano in una relazione scambievole. Tutto ciò che si pone a concettualizzazione diviene rigido, fisso, stabile, morto. Tuttavia, la nostra modalità di conoscenza non può che porsi di fronte a tutto ciò di cui è sapere esclusivamente mediante il concetto. L’unico modo che potrà allora seguire per giungere a schematizzare nel linguaggio ciò che eccede il linguaggio stesso consiste nella negazione del concetto, che si attua esse stessa mediante concetto. Lo sforzo, quindi, è teso nella direzione di determinare concettualmente ciò che eccede il concetto. La vita emerge in nuce come nichtBegriff, anche se necessita del concetto per poter apparire.

Tornando quindi all’io e all’essere, diciamo che essi sono morti, auch Begriff, nella misura in cui vengono concepiti astrattamente, assolutizzati dall’implicazione originaria in cui si trovano in scambievole determinazione. La vita è ciò che si esprime nella determinazione reciproca fra

54 Die Anweisung, cit., p. 413 (tr. it. cit., p. 255). 55 Ivi, p. 476 (tr. it. cit., p. 311). 56 Ivi, p. 477 (tr. it. cit., p. 313). 57 Die Wissenschaftslehre, cit., p. 132, 11v (tr. it. cit., p. 57).

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concetti ed è quindi immanente al linguaggio stesso, tuttavia si configura nel contempo come ciò che eccede il linguaggio, che rinvia inesorabilmente oltre il concetto.

Siamo di nuovo di fronte alla paradossalità di un sapere che, nel suo tentativo di afferrare, pensare la vita, si accorge che non può limitarsi a ciò, ma deve sottrarsi in quanto pensiero, confluendo finalmente nell’esperienza della vita stessa. «La vita – conclude tautologicamente Fichte – si lascia solo vivere, e sperimentare»58.

La vita si configura, in definitiva, come il processo del giungere all’apparire di ciò che sta oltre la riflessione attraverso la riflessione, dell’essere (non in quanto concetto) attraverso la mediazione della coscienza, dell’io. La vita assume così un carattere inconfondibilmente etico, profilandosi appunto come attività tramite cui l’Assoluto perviene al suo fenomeno, si produce nell’apparire mediante la libera creatività della coscienza.

Come è stato notato, una tale concezione della “vita” finisce con l’avvicinarsi paradossalmente più all’idea veterotestamentaria della vita e della morte come conseguenza dell’agire etico, che non al significato giovanneo di cui Fichte pretendeva essere giusto interprete. Abbiamo visto, infatti, come con l’idea di vita Fichte intendesse condensare la quintessenza del contenuto specifico della WL, ossia quel vincolo originario in cui la coscienza e il principio assoluto si trovano da sempre, e che si esprime come attività di autorimozione della coscienza tramite se stessa per far confluire l’Assoluto a manifestazione. Ora, la vita è questo movimento, questo processo. E al di là di questo processo, al di là della vita, non c’è propriamente niente. La vita non è una dinamica incompiuta che aspiri al superamento di se stessa, che aneli a qualcosa di irraggiungibile al di là della vita stessa. Se vi è un’ulteriorità, non può essere pensata ipostatizzata in un mondo separato. Bensì, l’aldilà dell’io è all’interno stesso dell’io, poiché indica la sporgenza dell’apparire sull’apparire.

Tutto questo può essere declinato in chiave “religiosa” come fa Fichte nell’Anweisung quando identifica il divino proprio con l’idea di vita, sostenendo appunto che la vita è l’«immediata esistenza divina»59. Questo significa, allora, che Dio coincide immediatamente con la sua manifestazione proprio perché l’alterità si è rivelata essere immanente – benché eccedente – al suo apparire. Così, alla luce delle considerazioni svolte sul tema della vita, emerge chiaramente come il problema dell’alterità sia strutturalmente connesso con quello della rivelazione, e come ad esso conduca per così dire naturalmente. Prima però di addentrarci all’interno di quest’ultima decisiva tematica, è d’obbligo affrontare il topos classico della metafora della luce, così come è stata però ridefinita da Fichte nell’atto del suo recupero all’interno della WL. 4) La metafora della luce

Gesù parlò di nuovo, dicendo: «Io sono la luce del mondo. Chi mi segue non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8, 12). «Io, luce, sono venuto nel mondo affinché chi crede in me non rimanga nelle tenebre» (Gv 12, 46).

Analogamente a quanto appena visto a proposito della vita, anche nel caso della metafora della luce, Fichte si serve di moduli espressivi tipici della tradizione occidentale, segnatamente cristiana, al fine di portare avanti sempre la medesima polemica antidogmatica. Fichte, quindi, si confronta con una tradizione che non considera come modello predefinito di pensiero cui assimilarsi, bensì, al contrario, come materiale espressivo il cui significato va forzato, estraniato e infine assorbito all’interno della prospettiva trascendentale. Attraverso il recupero della metafora luminosa «non intendiamo minimamente – precisa Fichte – giustificare la verità di questa nostra dottrina o di fornirle un appoggio esterno. Essa deve già essersi giustificata da sé e imposta come

58 Ivi, p. 116, 4v (tr. it. cit., p. 32). 59 Die Anweisung, cit., p. 481 (tr. it. cit., p. 317).

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assolutamente evidente»60. Per cui, il ruolo della luce, lungi dall’avere una qualunque funzione dimostrativa, si riduce ad un mero supporto esemplificativo.

Comunque, l’analisi di questa metafora ci consentirà di mettere a fuoco una questione teoretica specifica, ossia la determinazione del concetto di verità.

Ciò che Fichte, ancora una volta, intende combattere è la presupposizione dogmatica dell’essere, di un inerte sostrato che si porrebbe come oggetto indipendente dalla nostra visione e che si tratterebbe di indagare. Secondo lo stesso pensiero metafisico, il processo di ricerca della verità verrebbe ad identificarsi con la ben nota adaequatio intellectus et rei. Il presupposto di tale ideale conoscitivo è, al solito, la presunta esistenza di un essere esterno rispetto a cui l’esistenza andrebbe misurata.

Ora, proprio questa posizione ingenua è caratterizzata, per Fichte, dal più profondo accecamento, poiché non si rende conto che l’essere stesso è risultato, proiezione schematizzata dell’attività trascendentale, in cui consiste per Fichte il sapere. Ecco che la WL deve rifiutare nettamente tale ideale, anche se ipotizzato in senso regolativo. Il vero filosofo deve piuttosto sapersi innalzare al di sopra della posizione dell’essere come dato, per giungere finalmente a scoprirsi come l’origine di tale posizione. E in questo momento culminante di autocoscienza ci si scopre da sempre vincolati all’essere in implicazione reciproca. Ciò che il dogmatico manca di considerare, di vedere è la stessa coscienza che quell’essere ha pensato, ha posto. L’essere gli deriva da un atto di pensiero che nel pensiero stesso di quell’essere si oblia. «Ecco il tuo sbaglio, il pensiero ti è sfuggito»61. L’assolutezza dell’essere deriva quindi, inconsapevolmente, da un accecamento assoluto.

Al contrario, il pensiero che vede se stesso è libero, e si scopre tempio di manifestazione dell’assoluto. La luce quindi si ha nel momento in cui vediamo noi stessi, poiché solo così siamo in grado di vedere via negationis ciò che è altro da noi, come vita. «La luce», solamente, «è, e non è morta, ma vive. E noi stessi siamo questa eterna luce: e in noi l’eterna luce diventa visibile come configurandosi, e, nella sua configurazione, generando il mondo di continuo»62. Infine, «la verità è questa: [...] penetrare in questa luce come eterno divenire»63.

Fichte, in questa preoccupazione di evidenziare l’inevitabile centralità, l’intrascendibile implicazione della coscienza nel processo conoscitivo, dimostra, di nuovo, di non riuscire a congetturare che, se è vero che non è possibile compiere il “salto mortale” della soppressione della coscienza, possa però essere ragionevole che il reale stesso interceda in suo aiuto. Di più, una prospettiva radicalmente alternativa che tenesse in considerazione quest’ultima ipotesi, verrebbe a ridimensionare paradossalmente la stessa idea fichtiana di libertà. Se infatti il mondo reale fosse ben al di là di ciò che sperimentiamo nella nostra finitezza, se il mistero fosse in senso proprio “trascendente”, allora, preso atto dell’indigenza propria dell’uomo, perché l’uomo possa essere davvero libero, sarà necessaria una rivelazione da parte dell’essere. Per dare nuovo corso alla realtà avremmo bisogno del concorso di un intervento divino che ci apra la realtà tutta. Per cui, allora, si riconoscerebbe l’impossibilità di poter essere liberi da soli, nella propria solitudine.

La paradossalità deriva dal fatto che Fichte riteneva, all’opposto, di aver introdotto con la WL nella sua epoca l’idea compiuta di razionalità e di libertà umana. Come noto, infatti, secondo la filosofia fichtiana della storia, la missione epocale della WL consiste nel ritorno all’origine, al medesimo annuncio introdotto inizialmente proprio dal cristianesimo, ma con sguardo rinnovato. In generale, si darebbero quindi due grandi scansioni epocali: lo stato di innocenza del genere umano, posto sotto il dominio cieco della ragione (Cristianesimo) e l’epoca presente, posta invece sotto il dominio veggente della ragione (mondo della WL).

60 Ivi, p. 476 (tr. it. cit., p. 311). 61 Die Wissenschaftslehre, cit., p. 116, 3r (tr. it. cit., p. 31). 62 Die Wissenschaftslehre, cit., p. 113, 2r (tr. it. cit., p. 26). 63 Ibid. (tr. it. cit., p. 26).

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5) Cristo e la filosofia della Rivelazione

Nel corso della nostra trattazione è emerso come la stessa filosofia, che intendeva mantenersi fedele al principio invalicabile di restare nei limiti del finito, si sia progressivamente venuta configurando come una vera e propria Offenbarungsphilosophie. Infatti, lo stesso agire dell’io che poneva se stesso e il non-io, la stessa Tathandlung, attraverso cui l’uomo affermava la propria finitezza, si è rivelata sempre più coincidente con un’attività di audizione della Parola: è l’Eterno stesso che sich bildet nel sapere umano, è la vita stessa che si sperimenta, è la Parola stessa che risuona nello spazio dischiuso dalla coscienza umana. «L’Uno eterno, vive nella mia vita, vede nel mio vedere»64.

L’uomo, insomma, nonostante la certezza della propria finitezza, anzi, proprio in virtù di essa, si dispone ad avvertire la presenza di un radicalmente Altro, di un Indefinibile. E, attraverso la strutturazione di questo rapporto di tipo trascendentale, l’uomo divine “tempio della divinità”, locus revelationis. Noi costituiamo lo spazio di azione di un Altro, che però non è pensabile come realmente separato da noi, ma che agisce in noi e che, anzi, è talmente consustanziale all’uomo che può essere visto come la sua voce della coscienza. La moralità dell’uomo non risiede soltanto in un agire, ma nell’ascolto di una voce (Stimme) interna che è direttamente voce dell’Eterno. «Ascoltarla, obbedirle onestamente, senza pregiudizi, senza paura e sofisticherie, questa è la mia unica missione, questo è lo scopo totale della mia esistenza»65.

Nella ragione, trascendentalmente intesa, si abilita così il supremo dialogo con l’Assoluto, con la Volontà eterna. In realtà, è appunto un Tu infinito a parlare manifestando così una libertà d’iniziativa che in termini religiosi verrebbe definita “grazia”, mentre l’uomo non può far altro che ascoltare. L’uomo si configura, però, come un punto d’aggancio (Anknupfungspunkt) straordinario proprio in quanto è in grado di recepire, di accogliere la rivelazione stessa dell’Assoluto. È cioè dotato di una potentia oboedientialis infinita.

Certo, si tratta pur sempre, almeno a prima vista, di una rivelazione che illuminando acceca, in quanto l’assoluto rimane inconoscibile e inoggettivabile. «Come tu sei per te stessa, o sublime Volontà vivente, e come appari a te stessa, non lo posso mai comprendere, quanto è certo ch’io non posso mai diventare te stessa. Anche dopo aver vissuto migliaia e migliaia di volte la vita degli spiriti, io ti conosco tanto poco come ora in questa capanna di terra»66.

Uno sguardo più profondo, che sia già stato iniziato al “senso nuovo” della prospettiva trascendentale, coglie però come non vi sia in realtà esistenza divina al di là di questo suo manifestarsi nella coscienza umana. Ecco che la Parola, o il Verbo (come preferisce Fichte), che esprime proprio la manifestazione divina, e si dispiega attraverso la ragione (Vernunft), finisce per coincidere con il divino tout court. Fichte finisce per far confluire in identità, nella medesima Vernunft, sia il λογος che il divino. Si spiega così perché, in una famosa lettera del 1804 ad Appia, Fichte faccia riferimento alla Vernunft come traduzione tedesca del λογος giovanneo e definisca la WL, ribattezzandola, una λογολογια. E nell’Anweisung si legge: «In principio era il Verbo, o il Logos secondo il testo originale, un termine, questo, che si sarebbe potuto tradurre anche con: la ragione, oppure, la sapienza, per usare un termine con il quale nel libro della Sapienza viene denotato all’incirca il medesimo concetto; a nostro avviso però la sua traduzione migliore è offerta dall’espressione “Verbo”, quale compare anche nella più antica traduzione latina, senza dubbio per impulso di una tradizione di seguaci di Giovanni»67.

64 J.G. Fichte, Sonnette, in Nachgelassene Werke, a cura di I.H. Fichte, 3 voll., Adolph-Marcus, Bonn 1834/35,

vol. XI, pp. 347-348 (tr. it. di G. Moretto in Introduzione, in La dottrina della religione, cit., p. 57). 65 Die Bestimmung des Menschen, cit., p. 258 (tr. it. cit, p. 116). 66 J.G. Fichte, Gerichtliche Verantwortungsschriften gegen die Anklage des Atheismus, in Werke, vol. V, p. 304

(tr. it. di G. Moretto in Introduzione, La dottrina della religione, cit., p. 52). 67 Die Anweisung, cit., p. 480 (tr. it. cit., p. 315).

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La manifestazione divina, abbiamo detto, è Dio stesso, e al di là dell’immediata esistenza divina non c’è nulla. Lapidariamente: Nichts ist denn Gott, und Gott ist Nichts denn Leben.

Ora, è proprio questo il significato più autentico che Fichte dichiara di estrapolare dal cristianesimo. E ritiene di trovarlo espresso nella sua purezza e chiarezza esclusivamente nella prima metà dell’Inno al Verbo con cui si apre il Vangelo giovanneo e di dover poi estendere tale messaggio fondamentale all’intero Vangelo, anche se, a partire dal versetto 5, tale verità eterna e immutabile si mescola con «ciò che è valido soltanto per l’epoca di Gesù e della fondazione del Cristianesimo»68.

L’attenzione di Fichte si focalizzerà quindi proprio sul Prologo che non costituisce una «guarnizione filosofica»69, una sorta di «filosofema personale e arbitrario dell’autore»70, al contrario, essa è «dottrina [...] di Gesù; e precisamente lo spirito e la radice più profonda dell’intero insegnamento di Gesù»71.

In particolare, l’assolutamente vero e l’eternamente valido dell’insegnamento del Vangelo è contenuto nei primissimi celebri versetti: «In principio era il Verbo/ e il Verbo era presso Dio/ e Dio era il Verbo» (Gv 1,1) che Fichte paragrafa e spiega nella sua lingua con disarmante chiarezza evidenziando proprio quell’identificazione radicale di Dio con la sua Existenz. «E la sua esistenza, che soltanto da noi viene distinta dal suo essere, non è da questo distinta né in sé né in lui; ma questa esistenza è originariamente, prima e al di fuori di ogni tempo, nell’essere, inseparabile dall’essere, è esse stessa l’essere: - il Verbo al principio – il Verbo presso Dio – il Verbo in principio presso Dio»72. Quindi, conclude perentoriamente Fichte: «Dio stesso è il Verbo, e il Verbo è Dio stesso»73.

Interroghiamoci dunque più a fondo sulla divinità del Verbo, del Figlio, al fine di chiarirne il rapporto col Padre. Se il Logos esprime chiaramente l’esistenza divina, e questo sta ad indicare l’espressione «essere presso Dio»74, Fichte non esita poi ad identificare esplicitamente tale manifestazione alla coscienza umana. «Questa esistenza divina, nella sua propria materia è necessariamente sapere»75. Ciò che si tratta quindi, ancora una volta, di negare è l’idea di un Dio trascendente, ipostatizzato al di là del suo apparire. Questo comporta sostanzialmente la negazione della distinzione tra la Persona del Figlio e quella del Padre, appunto perché viene rifiutata l’idea di trascendenza “in senso forte” 76. Per cui a ragione il principe Augusto di Sassonia-Gotha scriveva a Herder (il 24 gennaio 1799) rimproverando a Fichte di negare Dio Padre e Dio Figlio, e di credere soltanto in Dio Spirito Santo, «infatti per lui Dio è la connessione etico-spirituale con il mondo sovrasensibile, il dovere, la responsabilità e il loro compimento, la giustizia, la santificazione»77. Fichte, quindi, non sarebbe un ateo, ma «un eretico di un tipo del tutto nuovo»78 nel momento in cui tenta di secolarizzare la stessa idea trinitaria. Vediamo di capire meglio proseguendo.

Una volta compresi in questo modo i primi tre versetti non si potrà ravvisare la minima oscurità – afferma Fichte – nell’affermazione che segue: «tutte le cose sono fatte per mezzo del medesimo Verbo, e senza di esso niente è stato fatto di ciò che è stato fatto» (Gv 1,3). Siamo qui davvero ad un punto nodale, poichè emerge in tutta la sua portata l’enorme distanza che separa Fichte dalla posizione cristiana, in particolare in merito all’idea di trascendenza, e, di conseguenza, al dogma della creazione. Infatti, di fronte al problema comune di rendere conto della molteplicità

68 Ivi, p. 482 (tr. it. cit., p. 317). 69 Ivi, p. 478 (tr. it. cit., p. 314). 70 Ibid. (tr. it. cit., p. 314). 71 Ibid. (tr. it. cit., p. 314). 72 Ivi, p. 480 (tr. it. cit., p. 316). 73 Ibid. (tr. it. cit., p. 316). 74 Ibid. (tr. it. cit., p. 316). 75 Ivi, p. 481 (tr. it. cit., p. 317). 76 Cfr. supra, cap. 2, pp. 6-13. 77 H. Schulz, Fichte in vertrauliche Briefen seiner Zeitgenossen, Leipzig 1923, p. 100 (tr. it. di G. Moretto, in

Introduzione, in La dottrina della religione, cit., p. 59). 78 Ibid. (tr. it. cit., p. 59).

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delle cose, due sono gli atteggiamenti, le spiegazioni possibili. La posizione di Fichte già la conosciamo: «il mondo e tutte le cose esistono soltanto nel concetto»79. Ossia, è la strutturazione stessa del conoscere umano che comporta lo sdoppiamento tra un soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto. Come abbiamo visto, attraverso una catena di derivazioni genetiche, si giunge a scoprire nell’Io (o, meglio, nella complexio in cui è implicato) la radice ultima di qualunque posizione, la condizione di possibilità di ogni ente. In questo senso, si giunge alla tanto fraintesa affermazione secondo cui «il concetto, o il Verbo, è l’unico creatore del mondo»80.

Il rischio è di misconoscere grossolanamente tale dichiarazione nel senso di una creazione empirica, quando invece si tratta di una dipendenza del tipo deduttivo-trascendentale. Il contenuto empirico è per così dire l’effetto del processo conoscitivo, il quale invece, più propriamente, consiste nel modo di guardare al medesimo contenuto empirico.

In altri termini, la dottrina della scienza non si preoccupa di capire il carattere epistemico della produzione materiale dei contenuti da parte della coscienza, di cui si occupa la psicologia, ma deve cercare di risalire epistemologicamente alle condizioni di possibilità dello stesso contenuto empirico.

Al contrario, coloro che presuppongono l’esistenza di un Essere al di là della nostra visione, «non volendo eliminare l’esistenza autonoma e vera delle cose finite»81 non hanno potuto far altro che farle derivare da tale Essere mediante un atto di assoluto arbitrio. In altri termini, coloro che compiono l’errore fondamentale di presupporre l’Essere per spiegare l’origine della molteplicità delle cose, non capendo che si tratta di proiezioni dell’io finito, si trovano costretti a postulare ingenuamente un atto di creazione, e quindi un Essere creatore. Ed è in particolare il Dio creatore dell’Antico Testamento che Fichte ha di mira: il Dio degli ebrei e dei pagani. «Dall’ignoranza della dottrina da noi fin qui esposta nasce l’ipotesi di una creazione quale errore fondamentale e assoluto di ogni falsa metafisica, di ogni falsa dottrina della religione, e in particolare, quale principio originario dell’ebraismo e del paganesimo»82.

É assolutamente da notare come il ripudio di un’idea di creazione dipenda proprio dalla concezione di trascendenza che si ha alla base: se non esiste un essere trascendente in senso proprio, tutto rientra nel circolo del sapere e si sposa quindi una concezione trascendentale di ragione, è chiaro che pensare ad una creazione determina una corruzione del concetto di divinità (che verrebbe caratterizzato da un carattere arbitrario) e la perversione della ragione stessa per cui il pensare si tramuta in fantasticare onirico.

Tenendo fede all’assunzione base della WL nella sua autonomia è possibile insomma, anzi si rende necessario, ripudiare la concezione ebraica di un Dio creatore e ridurre l’autenticità del cristianesimo ai pochi primissimi versi dell’incipit del Vangelo giovanneo.

Così si spiega perché, sulla base della WL, sia possibile distinguere «due forme realmente diverse di Cristianesimo; l’una contenuta nel Vangelo di Giovanni e l’altra dell’apostolo Paolo»83. Il cristianesimo paolino si comprometterebbe infatti in un tentativo di riconciliazione con una concezione ebraica e quindi falsa. «L’apostolo Paolo e il suo partito, in quanto autore del sistema cristiano opposto, sono rimasti per metà ebrei e hanno lasciato tranquillamente sussistere l’errore fondamentale sia dell’ebraismo che del paganesimo»84. Anche se Fichte specifica: «non dico che in Paolo non si trovi in generale il vero cristianesimo. Sicuramente quando non pensa al problema fondamentale della sua vita, l’unione dei due sistemi, parla in modo tanto mirabile e tanto giusto, e conosce il vero Dio di Gesù in un modo tanto profondo che si crede di udire un uomo completamente diverso»85.

79 Die Anweisung, cit., p. 481 (tr. it. cit., p. 316). 80 Ibid. (tr. it. cit., p. 316). 81 Ivi, p. 479 (tr. it. cit., p. 315). 82 Ivi, p. 478 (tr. it. cit., p. 314). 83 J.G. Fichte, Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters, in Werke, vol. VII, pp. 98ss (tr. it. di A. Cantoni,

Filosofia della storia e teoria della scienza giovannea, Principato, Milano 1956, pp. 139ss). 84 Die Anweisung, cit., p. 476 (tr. it. cit., p. 312). 85 Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters, cit., pp. 98ss (tr. it. cit., pp. 139ss).

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Insomma, Fichte si servirebbe dei pochi versi iniziali dell’Inno al Verbo, interpretati - come abbiamo visto – sulla scorta della sua prospettiva trascendentale, per comprendere tutto il resto del Vangelo e l’intero cristianesimo, rigettando tutto ciò che vi è di “ebraico”. «La prefazione va vista come il compendio e il punto di vista generale di tutti i discorsi di Gesù»86.

Effettivamente ci si trova quasi spiazzati di fronte alla straordinaria capacità fichtiana di spiegare alla perfezione l’inizio del Prologo, e pare proprio di trovarsi di fronte ad un’innegabile e ineccepibile identità di posizione tra Fichte e Giovanni.

Ma siamo davvero sicuri che sia così? Oppure, ancora una volta, proprio nel punto massimo di coincidenza tale identità non si svela piuttosto in tutta la sua apparenza?

In effetti, un punto clamoroso di coincidenza tra le posizioni cristiana e fichtiana c’è, e consiste propriamente nella divinità del Verbo. Tuttavia proprio in questo punto, in cui l’identità sembra massima, è già cominciato a rendersi chiaro come Fichte, in realtà, travisi gravemente il significato cristiano di fondo.

Infatti, mentre per Fichte tale coincidenza consiste nella riduzione di Dio al suo manifestarsi come vita, per il Cristianesimo (così come si concepisce nella sua autocoscienza) tale coincidenza esprime propriamente il fatto che una trascendenza “in senso forte” di Essere, al di là del nostro sapere finito, irrompe nell’umano, nella storia, comunicandosi completamente. La coincidenza Verbo-Dio veicola quindi ad un’eccedenza metafisicamente intesa. Ecco perché per il cristianesimo è essenziale tenere distinta la Persona del Padre da quella del Figlio, appunto per evidenziare la radicale alterità di una trascendenza intesa come ciò che sta realmente al di là del vincolo col sapere. Tuttavia, tale trascendenza si è comunicata all’uomo, si è calata nella storia, nell’esistenza, rivelandosi per quello che è in se stessa. Di qui il paradosso per cui il cristianesimo debba pensare le due Persone al contempo come distinte e congiunte. É la manifestazione di una reale trascendenza che si comunica completamente adottando il metodo di acquisire un volto d’uomo. Si profila così un’idea di mistero lontanissima dalla concezione fichtiana di un Assoluto che non si può che avvertire via negationis, sottraendo se stessi. Il mistero cristiano è l’entrata del divino nell’umano per quello che esso è, quindi porta inevitabilmente con sé l’idea di sovrabbondanza87.

Certo, di fronte all’idea di un divino che si renda comprensibile per quello che è in sé, la ragione grida allo scandalo. Perché, in definitiva, ciò che è in gioco è la scelta o meno di aderire ad un intervento di ciò che eccede le potenzialità stesse dell’umano (ciò che si chiama “miracolo”). É in gioco insomma la fondamentale decisione tra una prospettiva trascendentale e una metafisica “in senso forte”. E, in definitiva, proprio la prospettiva fichtiana che voleva essere l’interprete più fedele del messaggio cristiano, nel momento in cui rifiuta di accogliere ciò che eccede il circolo del sapere e si preclude così l’incontro con il divino (peraltro tanto agognato), si macchierebbe del peccato più grave: il peccato mortale della Superbia88.

L’identità tanto insistita dall’apostolo Giovanni tra Dio e il Verbo mira a persuadere che davvero Cristo è l’autentica manifestazione divina, completa e totale, senza mancare di nulla. L’annuncio cristiano è l’Emmanuel, il Dio con noi, ossia che l’autentica trascendenza è davvero entrata nella storia, nell’umanità. E tutto questo vuole significare l’identità del Verbo con Dio, espressa più chiaramente al versetto 14: «E il Verbo si fece carne». Versetto che non a caso Fichte si trova costretto a considerare come espressione puramente storica, per nulla metafisica, vera soltanto per il punto di vista del tempo di Gesù e dei suoi apostoli. Ciò che è in questione è la stessa storicità del Cristo, la figura di Gesù di Nazareth.

Misconoscendo la portata storica e personale, umana della Rivelazione, Fichte dimostra una sostanziale indifferenza circa il metodo, la modalità attraverso cui si autentica tale epifania. In ogni

86 Die Anweisung, cit., p. 478 (tr. it. cit., p. 314). 87 Cfr. Gv 10,10; 21,6. 88 Il peccato della Superbia non consiste affatto nel negare Dio, ma nel poter fare a meno di Dio, di un suo

intervento. In questo senso, significa voler essere come Dio.

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caso, Fichte si sente in obbligo di affrontare tale questione dato che «sia Giovanni che Gesù la inculcano continuamente»89.

Ed in effetti il carattere spiccatamente cristocentrico del Vangelo di Giovanni si manifesta nelle ripetute celebri espressioni in cui si evidenzia la modalità specifica attraverso cui si attua la salvezza, individuandola in Gesù Cristo. L’uomo Gesù sarebbe il Mediatore, il mezzo unico per giungere al Padre. Ecco i passi decisivi: «Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete la vita in voi» (Gv 6,53); «Non sono venuto infatti per condannare il mondo, ma per salvare il mondo» (Gv 12, 27); «Io sono il pane vivente, disceso dal cielo, se qualcuno mangia di questo pane vivrà in eterno» (Gv 6,51); «Io sono la porta. Chi entrerà attraverso di me sarà salvo» (Gv 10,9); «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). Sino alla splendida espressione: «Io sono la via, la verità, la vita. Nessuno va al padre se non attraverso di me» (Gv 14,6). Il Vangelo stesso fu scritto con un fine specifico, indicato chiaramente nella prima conclusione: «affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,31).

Ora, Fichte intende proprio dimostrare che «l’affermazione per cui in Gesù, in primissimo luogo e in un modo che non compete a nessun altro uomo, l’esistenza eterna di Dio ha assunto una personalità umana, e tutti gli altri possono pervenire all’unione con Dio soltanto mediante lui e ripetendo in se stessi il suo intero carattere, è una semplice proposizione storica per nulla metafisica»90. Per comprendere la questione è necessario esplicitare, come fa Fichte medesimo all’interno della Postilla alla Sesta Lezione, i significati stessi di “storico” e “metafisico”.

Per Fichte, storico indica l’elemento di un fenomeno, quindi indica un fatto semplice e assoluto; metafisico indica invece il movimento genetico di riconduzione del fenomeno ad una legge generale, quindi indica l’elemento spirituale per cui il fatto viene ricondotto alla coscienza come sua condizione di possibilità. Ogni fenomeno partecipa sì di entrambi i fattori, ma solo nel senso per cui l’elemento fattuale deve essere considerato come ciò che viene posto dalla struttura conoscitiva umana, e quindi come un alcunché di illusorio, per permettere l’autocoscienza dell’io che lo pone, e dunque l’affermarsi dello spirituale (nel senso trascendentale).

Ecco che storico e metafisico in senso stretto sono decisamente opposti, anche se in ogni fenomeno reale sono inscindibilmente uniti. Ma è chiaro che «soltanto ciò che è metafisico, e non la dimensione storica, rende beati»91. Insomma, si vuole esprimere, servendosi di altre forme concettuali, il medesimo nucleo speculativo della WL: la struttura del nostro “circolo del sapere”.

Di conseguenza, «il difetto fondamentale di ogni presunta scienza (dell’uso trascendentale dell’intelletto), che ignora i propri limiti, è di non volersi accontentare di prendere il fatto puramente come un fatto, ma di renderlo metafisico»92. Un fatto, in definitiva, deve essere considerato come tale e ricondotto all’interno dell’implicazione sapere-Assoluto che lo genera. Per Fichte, quindi, è impensabile che si imponga alla coscienza un Fatto indipendente da essa ed espressione di un Essere inteso in senso autenticamente trascendente. Un Fatto, insomma, che in quanto tale sia “storico”, ma altresì “metafisico”, anche se non più in senso fichtiano. Fichte si dimostrerebbe, così, incapace di pensare la possibilità che storicità e metafisica possano essere congiunte, perché non è in grado di pensare ad una trascendenza che fuoriesca dal vincolo col sapere.

La questione base, che allontana Fichte da una concezione non fichtianamente interpretata del cristianesimo, è come si vede sempre la stessa. Mentre il cristianesimo si fonda su un Fatto autonomo ma che si offre alla coscienza, attraverso cui Dio si rivela, si comunica nella persona di Gesù Cristo, per cui la scommessa che lancia è che, come uomini e nella propria esperienza umana si possa altresì esperire il divino, al contrario, Fichte si trova, come abbiamo anticipato, a misconoscere gravemente la portata della Rivelazione cristiana.

89 Die Anweisung, cit., p. 482 (tr. it. cit., p. 318). 90 Die Anweisung, cit., p. 563 (tr. it. cit., p. 395). 91 Ivi, p. 485 (tr. it. cit., p. 320). 92 Ivi, p. 568 (tr. it. cit., p. 395s).

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Mentre quindi per il Cristianesimo è di fondamentale importanza il methodos attraverso cui si rivela il divino (l’Avvenimento di Gesù Cristo, il Dio che si fa uomo), per Fichte ciò che conta è piuttosto «la possibilità dell’essere più che il mezzo del divenire reale»93.

Che “il Verbo si sia fatto carne” ha il mero significato storico per cui per la prima volta in Gesù di Nazareth si è realizzata quella forma completa di autocoscienza con cui l’uomo viene innalzato alla sfera della moralità (ossia della libertà). In Gesù per la prima volta si è realizzato compiutamente l’ideale della WL, ossia il compimento della scienza, del sapere trascendentale. E per Gesù tale conoscenza non era stata acquisita dall’esterno, geneticamente, mediante speculazione, ma semplicemente tramite la sua sola esistenza, puramente mediante un’ispirazione. In questo senso, era per lui un fatto assoluto originario, pura esperienza originaria. «La sua autocoscienza era direttamente la pura e assoluta verità razionale stessa; esistente e stabile, e semplice fatto di coscienza, e per nulla, come in noi tutti, genetica, proveniente da un altro stato precedente, e perciò non un semplice fatto di coscienza, ma una conclusione. In quello che mi sono appena sforzato di esprimere con precisione sarebbe ben potuto consistere l’autentico carattere personale di Gesù Cristo, il quale, come ogni individualità, può entrare nel tempo soltanto una volta e mai ripetervisi. Egli era la ragione assoluta divenuta autocoscienza immediata o, il che è lo stesso, religione»94.

Fichte si trova perciò costretto a postulare un “miracolo” (Wunder) iniziale. Infatti, la possibilità che l’uomo ha di innalzarsi alla libertà, al “regno degli spiriti”, estraneo quindi alle leggi di natura, necessita a proprio fondamento di un’ispirazione, di una Rivelazione originaria. Mentre, «che qualcuno scopra di nuovo la verità dopo che essa è già stata scoperta, non è un grande miracolo; è invece un miracolo enorme il modo in cui la prima persona è pervenuta a questa verità»95. E questa prima volta è storicamente avvenuta con Gesù.

Detto ancora più esplicitamente, Gesù è colui che sperimenta, per la prima volta, nella sua purezza, la stessa implicazione originaria cui vuole innalzarsi la WL, e, facendola propria in modo completo, ha così plasmato la sua personalità. In questo senso, esclusivamente storico, “il Verbo si è fatto carne”. Gesù dunque è importante perché è storicamente il primo “testimone” della possibilità della libertà, così come concepita dalla WL. Tuttavia, non avendo valore “metafisico”, non viene considerato nel suo statuto fondamentale di Mezzo, di Mediatore.

Veniamo ora a toccare un secondo decisivo problema: «che dice egli dei propri seguaci e discepoli per quanto riguarda il loro rapporto, anzitutto con lui, e poi, mediante lui, con la divinità?»96.

Se ci rivolgiamo anzitutto alle parole del Vangelo, e in particolare alla “preghiera per la Chiesa”, troviamo scritto: «Io ho dato loro la gloria che tu mi hai data, perché siano uno come noi siamo uno: io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità, e il mondo riconosca che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me» (Gv 17,22).

Ora, Fichte non può, perché non vuole, intendere tale unità nel senso di una presenza al contempo storica e “metafisica” di Dio nella persona umana, terrena di Gesù di Nazareth, e dopo la sua morte nelle persone che costituiscono il Corpo della Chiesa. Per il cristianesimo, tale unità viene concepita come koinonia (comunione) di un Fatto da condividere. La tradizione poi viene intesa come una catena di incontri e riconoscimenti del divino nei volti umani concreti che sono stati investiti dello Spirito Santo. Si rende così necessaria una convivenza comunitaria col fenomeno cristiano se appunto la Chiesa costituisce il luogo in cui continua a dimorare il Divino, il luogo della Memoria.

É chiaro che per Fichte tale unità rimanda più propriamente all’unità dell’implicazione tra sapere e essere, per cui viene stravolto completamente il ruolo di Cristo. Certo, nella sua epoca, poteva anche essere indispensabile come mezzo per i suoi discepoli, in quanto questi non potevano

93 Ivi, p. 482 (tr. it. cit., p. 317). 94 Ivi, p. 572 (tr. it. cit., p. 399). 95 Ivi, p. 484 (tr. it. cit., p. 319). 96 Ivi, p. 485s (tr. it. cit., p. 320).

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giungere a tale consapevolezza se non guardando direttamente a quell’uomo. Quello però era un bisogno specifico, limitato a quel determinato momento storico. In realtà, il ruolo di Cristo si identifica, in sostanza, con quello di un modello da imitare. Sicuramente un modello raggiungibile, ma che ognuno deve ricreare, da sé, entro di sé.

Emerge, allora, in tutta la sua evidenza perché ciò che conta è, alla fine, la possibilità che accada tale esperienza di beatitudine, non importa come ognuno la raggiunge. In fondo, «se qualcuno si è realmente unito a Dio ed è entrato in lui, è del tutto indifferente per quale via vi sia giunto»97.

Certo, noi potremmo accelerare la nostra “unione” con Dio guardando al fenomeno del cristianesimo che l’ha già sperimentata. E, dopo tutto, è proprio quello che ha fatto la stessa filosofia fichtiana: «resta comunque eternamente vero che noi, con tutta la nostra epoca e con tutte le nostre ricerche filosofiche, ci troviamo posti sul terreno del cristianesimo e siamo sorti da esso»98. Tuttavia, è altrettanto chiaro che tale verità possa essere attinta autonomamente dalla filosofia: «Il filosofo trova le medesime verità del tutto indipendentemente dal cristianesimo e le domina nella loro coerenza e con una chiarezza generale, nella quale, almeno per noi, non sono state trasmesse dal cristianesimo»99. Quindi, il filosofo è in grado di contemplare, sottoporre a visione, ciò che per i primi cristiani era sottoforma meramente mitica, tetica, esperenziale.

Può essere comunque molto utile il ricorso alla mediazione pedagogica di altri uomini che risveglino in noi il nostro “genio religioso”. Per cui, alla fine, il rapporto di Cristo con i suoi seguaci assumerebbe sempre più i contorni di una paideia filosofica interumana.

Tuttavia, il telos ultimo vero e proprio è che si formi «una monarchia geniale di uomini direttamente ispirati da Dio», «ispirati e stimolati da parte del principio religioso inconscio»100. «Se Gesù potesse ritornare nel mondo, è da attendersi che sarebbe pienamente soddisfatto se solo trovasse che il cristianesimo regna davvero nell’animo degli uomini, e ciò sia che si esalti il suo merito sia che lo si dimentichi»101. L’ideale, in definitiva, è un mondo in cui ciascuno sia mediatore per se stesso. Infatti, in che cosa consiste questa vita beata nell’unione divina, se non in un «raccoglimento (Sammlung) dell’animo e un suo ritorno in se stesso: come serietà, [...] e come profondità di pensiero»102...

Conclusione

Giunti alla fine del percorso, possiamo ora abbracciare con un solo sguardo la prospettiva fichtiana e focalizzare la nostra attenzione su quelli che risultano essere le conclusioni più salienti. In definitiva, l’intero nostro discorso ha preso le mosse dal ripensamento critico di un punto preciso su cui poggia l’intero impianto speculativo fichtiano. Tale presupposto basilare, come abbiamo visto, consiste in nuce in un’assolutizzazione della finitezza umana. Infatti, se Fichte osserva realisticamente la condizione di indigenza che segna strutturalmente l’uomo e da cui l’uomo per parte sua non può liberarsi, non considera la possibilità che tale limite possa venire infranto dall’esterno. Per comprendere debitamente la filosofia fichtiana e, a fortiori, la sua filosofia della religione, crediamo sia indispensabile concentrarsi proprio su questo punto nodale. Inoltre, l’unica vera

97 Ivi, p. 486 (tr. it. cit., p. 320). 98 Ivi, p. 484 (tr. it. cit., p. 319). 99 Ibid. (tr. it. cit., p. 319). 100 J.G. Fichte, Die Staatslehre, in Werke, vol. IV, pp. 517ss. (tr. it. di G. Moretto in Introduzione, in La dottrina

della religione, cit., p. 36). 101 Die Anweisung, cit., p. 485 (tr. it. cit., p. 320).

102 Ivi, p. 412 (tr. it. cit., p. 254).

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controargomentazione filosofica che possa essere mossa alla filosofia di Fichte può e deve colpire solamente questo punto fondamentale. Da quest’ultimo, cioè dall’assolutizzazione o meno del limite umano, dipende in sostanza la suprema decisione fra le due alternative per eccellenza, tra due atteggiamenti umani radicalmente opposti, tra due modi di esistere nettamente diversi. Da un lato vi è la prospettiva autenticamente religiosa che contempla la possibilità di un intervento di ciò che è altro dall’uomo, dello sfondamento del limite, che concepisce quindi la ragione come apertura alla totalità del reale e non come uno dei due fattori necessariamente implicati nella dinamica del sapere, e che infine riconosce l’uomo come struttura di domanda totale: l’uomo chiede per natura la liberazione dal limite che lo caratterizza. Dall’altro lato, c’è la posizione esemplarmente rappresentata da Fichte che dichiara a priori l’irrimediabilità della situazione attuale e che, in una presa di consapevolezza esclusiva della finitezza umana, finisce per non porre in questione proprio tale finitezza.

La prospettiva del nostro autore si è dimostrata così incapace di una reale disposizione religiosa. La sua filosofia, e in particolare la sua filosofia della religione, finiscono insomma per soffocare un autentico senso religioso.

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Bibliografia Opere di Fichte:

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• J.G. Fichte, Lettera a Baggesen dell’aprile-maggio 1795, in Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften [=Ak. Ausg.], vol. III, 2, a cura di R. Lauth e H. Gliwitzky, con la collaborazione di M. Zahn e P. Schneider, Frommann-Holzboog, Stuttgart-.Bad Cannstatt 1972, p. 298 (tr. it di L. Pareyson, Testi, in G.A. Fichte, Grande Antologia Filosofica, vol. XVII, Marzolati, Milano 1971, p. 908).

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• J.G. Fichte, Die Bestimmung des Menschen [1800], in Werke, cit., vol. II, pp. 165-319 (tr. it. di R. Cantoni, La missione dell’uomo, Bari 1970).

• J.G. Fichte, Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters [1804], in Werke, cit., vol. VII, pp. 3-256 (tr. it. di A. Cantoni, Caratteri fondamentali dell’età contemporanea, in Filosofia della storia e teoria della scienza giovannea, Principato, Milano-Messina 1956, pp. 33-166).

• J.G. Fichte, Die Anweisung zum seeligen Leben, oder auch die Religionslehre [1806], in Werke, cit., vol. V., pp. 397-580 (tr. it. di G. Moretto, L’iniziazione alla vita beata ovvero la dottrina della religione, in La dottrina della religione, cit., pp. 241-406).

• J.G. Fichte, Die Wissenschaftslehre, Königsberg, 1807, in Ak. Ausg., vol. II, 10, a cura di R. Lauth e H. Gliwitzky, con la collaborazione di E. Fuchs, A. M. Schurr. Lorusso, P.K. Schneider, M. Ivaldo, Frommann-Holzboog, Stuttgart-.Bad Cannstatt 1994, pp. 111-202 (tr. it. di G. Rametta, Dottrina della scienza. Esposizione del 1807, Guerini e Associati, Milano 1995).

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Letteratura critica:

• C. Cesa, J.G. Fichte e l’idealismo trascendentale, Il Mulino, Bologna 1992. • Id., Introduzione a Fichte, Laterza, Roma-Bari 1994. • C. De Pascale, Le origini teoriche dei 'Discorsi alla nazione tedesca'. La filosofia della

storia di Fichte nel primo periodo berlinese, “Studi Senesi”, 1977. • L. Fonnesu, Antropologia e idealismo. La destinazione dell’uomo nell’etica di Fichte,

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Fichte negli anni 1801-1807, Pantograf, Genova 1995. • G. Rotta, La “idea” Dio. Il pensiero religioso di Fichte fino all’Atheismusstreit,

Pantograf, Genova 1995. • H. Schulz, Fichte in vertrauliche Briefen seiner Zeitgenossen, Leipzig 1923.

Altra letteratura di riferimento:

• Vangelo secondo Giovanni, versione di G. Segalla, Edizioni San Paolo, Milano 1987. • I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di V. Mathieu, tr. it di G. Gentile e G.

Lombardo-Radice, Laterza, Roma-Bari 2000. • Platone, Simposio, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 20033. • R.M. Rilke, Elegie duinesi, Einaudi, Torino 2003.