Hannah Arendt e Günther Anders: un confronto per dicotomie

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PARMA DIPARTIMENTO DI ANTICHISTICA, LINGUE, EDUCAZIONE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA IN STUDI FILOSOFICI HANNAH ARENDT E GÜNTHER ANDERS: UN CONFRONTO PER DICOTOMIE RELATORE: Chiar.mo Prof. Mario Tesini CORRELATORE: Chiar.mo Prof. Italo Testa LAUREANDA: Alessandra Antonella Rita Maglie 1

Transcript of Hannah Arendt e Günther Anders: un confronto per dicotomie

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PARMA

DIPARTIMENTO DI ANTICHISTICA, LINGUE, EDUCAZIONE E FILOSOFIA

CORSO DI LAUREA IN STUDI FILOSOFICI

HANNAH ARENDT E GÜNTHER ANDERS:UN CONFRONTO PER DICOTOMIE

RELATORE:

Chiar.mo Prof. Mario Tesini

CORRELATORE:

Chiar.mo Prof. Italo Testa

LAUREANDA:

Alessandra Antonella Rita Maglie

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ANNO ACCADEMICO 2013-2014

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1. INTRODUZIONE. UNA CONCILIAZIONE IMPOSSIBILE?

«Con comprensibile pudore la ricerca si è finora tenuta lontana da

quello che sembrerebbe un compito imprescindibile, la delineazione

di un confronto puntuale [dell’opera di Günther Anders] con l’opera

di Hannah Arendt, in particolare per quanto concerne la sua analisi

della vita activa (un confronto che appare tanto più obbligato in quanto

Vita activa e il primo volume della Antiquiertheit des Menschen sono opere

coeve)»1.

Un qualsiasi studio sulla filosofia politica di Hannah Arendt

non può che cominciare con una constatazione di impotenza davanti

alla vastità della sua produzione scritta e all’impossibilità di

poter ridurre il suo pensiero a facili etichette: d’altro canto,

ogni tentativo in tal senso si è rivelato parziale. Ne risulta

confermata l’idea che Hannah Arendt si presti a letture del tutto

opposte: ora come una conservatrice animata da convinzioni

elitarie, ora come pensatrice democratica vicina alle teorie della

democrazia diretta, ora quasi come pensatrice utopistica che

vagheggia un anacronistico ritorno, se non proprio

all’istituzione, almeno allo spirito della polis2.

Da parte mia, nel proposito di evitare la facile strada del

riduzionismo, ho scelto di affrontare questo studio con

l’intenzione di mettere maggiormente in evidenza lo spirito

oppositivo e conflittuale intorno all’opera arendtiana. Con tale

1 P.P. Portinaro, Anders tra letteratura della crisi e filosofia d’occasione. Frammenti di antropologianella Endzeit, in corso di stampa. Ringrazio il professor Portinaro per la corteseautorizzazione ad avvalermi di questo suo testo nella realizzazione del presentestudio.2 S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, Bruno Mondadori, Milano 2006 (I ed.1996), pag. 14. Cfr. anche A. Dal Lago, Una filosofia della presenza. Hannah Arendt,Heidegger e la possibilità dell’agire, pag. 96, in R. Esposito, La pluralità irrappresentabile. Ilpensiero politico di Hannah Arendt, Edizioni Quattoventi, Urbino 1987.

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intento, ho individuato alcuni temi incontrati nel corso delle mie

letture dei testi della Arendt, i quali potessero svolgere il

ruolo di punti di riferimento in quest’analisi. Li ho in seguito

articolati in quattro distinte dicotomie (a cui, come si vedrà, se

ne aggiunge una quinta in conclusione), trattate nei quattro

capitoli che costituiscono questo studio. Il mio percorso è

cominciato dalla lettura di Vita Activa, l’opera che per prima mi ha

avvicinata al pensiero della Arendt. I temi affrontati in

quest’opera, infatti, mi hanno decisamente coinvolta e hanno

suscitato in me l’interesse per la filosofia politica – il che ha

del paradossale, o almeno del “filologicamente scorretto”, giacché

Hannah Arendt ha sempre rifiutato di attribuirsi l’appellativo di

“filosofa”, nonostante la sua formazione filosofica giovanile e il

suo ritorno alla filosofia negli anni de La vita della mente3. Ad ogni

modo, le prime due dicotomie che ho scelto, cioè pensiero/azione e

privato/pubblico, si riferiscono a temi che si sono imposti alla

mia attenzione nella lettura di Vita Activa; la terza dicotomia, cioè

appartenenza/sradicamento, è emersa in particolare dalla lettura

della biografia di Elizabeth Young-Bruehl. Questa terza dicotomia

esprime, a mio parere, un aspetto fondamentale della personalità

di Hannah Arendt: dove la storia personale s’intreccia con gli

avvenimenti salienti del “Secolo Breve”, le vicende della vita non3 «Io non appartengo alla cerchia dei filosofi. La mia professione (Beruf), perparlare in generale, è la teoria politica. Non mi sento in alcun modo unafilosofa, e non credo nemmeno di essere stata accettata nella cerchia deifilosofi». H. Arendt, G. Gaus, Che cosa resta? Resta la lingua materna, in «Aut-Aut»,(1990) n. 240, trad. it. di A. Dal Lago, Monaco 1976, pag. 11. Lo stesso rifiutodel titolo di filosofo è espresso da Anders in questo modo: «Nonostante vengaclassificato come “filosofo”, m’interesso di filosofia solo in misura ridotta.Il mio interesse è rivolto al mondo», Günther Anders antwortet. Interviews & Erklärungen,Berlino 1987, p. 67, cit. in C. Dries, Günther Anders e Hannah Arendt. Schizzo di unarelazione, in G. Anders, La battaglia delle ciliegie. La mia storia d’amore con Hannah Arendt,Donzelli Editore, Roma 2012, trad. it. di S. Bertolini, Monaco 2012, pag.LXXII.

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possono fare altro che riflettersi nel pensiero filosofico,

fornendovi giustificazione e sostegno. Hannah Arendt rientra nel

novero di quegli intellettuali che, negli anni del totalitarismo

nazista, furono costretti ad un’ odissea esistenziale, la quale,

nel suo caso, passa per Berlino e Parigi, fino all’emigrazione

negli Stati Uniti. Ciononostante, il suo legame con la lingua e la

cultura tedesca – la poesia, soprattutto – ha sempre costituito il

fil rouge che raccorda le varie tappe di questo viaggio. Perciò ho

creduto particolarmente interessante, a tal proposito, analizzare

il complesso rapporto della Arendt con la questione

dell’appartenenza ad una specifica nazione. Infine, la quarta

dicotomia, cioè identità/pluralità, mi ha permesso di affrontare i

temi più caratterizzanti del pensiero politico di Hannah Arendt,

come la filosofia della natalità e una concezione della politica

come essenziale all’esistenza umana: questo è ciò che Stefano

Petrucciani ha chiamato «dimensione esistenziale della politica»4,

il che vuol dire che quest’ultima, in quanto struttura primaria

dell’essere umano in società, contribuisce alla costituzione del

senso dell’esistenza umana nonché all’autentica espressione di se

stessi.

Nello studio non tanto del pensiero, quanto della personalità

di Hannah Arendt, si resta colpiti dall’importanza che rivestirono

per lei i rapporti umani, soprattutto quelli che intratteneva con

quanti avevano condiviso con lei il travaglio dell’esilio5. Una

figura tra tutte, che con lei ha intrattenuto un rapporto

speciale, mi ha colpito: quella di Günther Anders. In verità, i4 S. Petrucciani, Modelli di filosofia politica, Einaudi, Torino 2003, pag. 25.5 Si veda a tal proposito E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, BollatiBoringhieri, Torino 2006, pag. 12-13 (I ed. 1990), trad. it. di D. Mezzacapa,New Haven-Londra 1982.

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suoi rapporti con la Arendt sono discontinui: i due si conoscono

ad un seminario di Heidegger nel 1925 a Marburgo, quando Günther

Anders portava ancora il suo cognome di nascita, Stern. Non si

rivedranno fino al 1929 a Berlino: qui si sposeranno

frettolosamente e resteranno insieme fino al 1937. Una ripresa dei

loro rapporti avviene per via epistolare nel 19406, quando la

Arendt, insieme al secondo marito Heinrich Blücher, ha bisogno dei

documenti necessari per l’espatrio e chiede all’ex marito, già

emigrato, di procurarglieli7. Nonostante la sua sia stata una

presenza circoscritta nella vita di Hannah Arendt, la figura di

Günther Anders ha continuato prepotentemente ad imporsi alla mia

attenzione, tanto da adottarlo come termine di paragone efficace

per delimitare il campo della mia ricerca. Il fascino di questa

figura di filosofo non accademico, giornalista e romanziere, per

certi versi anche sfortunato nella sua carriera8, porta uno stigma

nel «nome di battaglia»9 che si è scelto, “anders”, cioè “diverso”.

6 L’epistolario, piuttosto scarno, è ancora inedito. Tuttora è conservato pressola Library of Congress di Washington e, in microfilm, presso il centro didocumentazione di Oldenbourg.7 C. Dries, Günther Anders e Hannah Arendt. Schizzo di una relazione, cit., pag. XXVIII. Inun’altra lettera, quella del 25 maggio 1941, Hannah, dopo aver avanzato inprecedenza una richiesta di aiuti economici, ringrazia Anders per il denaroricevuto con queste parole: «Mio caro – […] Tutto mi sembra come lo ziod’America, soprattutto dopo che hai inviato del denaro. Mi preoccupo solo dadove prendi tutto ciò e quanto tu ti sia esposto finanziariamente…» (Arendt adAnders, lettera del 25 maggio 1941, ibid., pag. XXIX).8 La carriera accademica di Anders subì a un certo punto una brusca battutad’arresto: quando, nel 1930, presentò una prima bozza della sua tesi diabilitazione all’insegnamento, riguardante la filosofia della musica, sembra checompisse l’errore fatale di non tenere conto, nel suo studio, di un recentelavoro di Adorno al riguardo. Quando questi, massima autorità in materia a queltempo, la lesse, la bocciò, forse perché adottava una prospettiva troppo lontanada quella degli esponenti della Scuola di Francoforte. L’episodio è in questachiave riportato in E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, cit., pag. 111.Ironia della sorte, Anders fu insignito del premio Adorno nel 1983, conferito apersonalità illustri nel campo della filosofia, del teatro, della musica e delcinema.9 C. Dries, Günther Anders e Hannah Arendt. Schizzo di una relazione, cit., pag. XVI.

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Anders rappresenta il polo oppositivo ideale per affrontare uno

studio del pensiero di Hannah Arendt: il loro rapporto è stato

estremamente complesso, e le numerose differenze riscontrabili

nelle rispettive personalità intellettuali non sono certo state

estranee alla rottura nel 193710. Le differenze si riscontrano

persino nel retroterra familiare: se Anders era nato nell’ambiente

della borghesia intellettuale, e i suoi genitori erano entrambi

eminenti psicologi dell’età evolutiva, la Arendt aveva perso il

padre in tenera età ed era stata allevata dalla madre, la quale

aveva forti simpatie socialiste. Ma se Hannah Arendt, dopo i primi

anni negli Stati Uniti dedicati all’attività umanitaria in

soccorso dei profughi ebrei, riuscì infine a integrarsi con

successo nel mondo accademico, Anders, al contrario, a causa dei

suoi primi insuccessi, si rivolse, in termini senza dubbio meno

gratificanti, verso il mondo della carta stampata, e durante i

primi anni da rifugiato in America si dedicò ai lavori più

disparati, dal traduttore all’operaio in fabbrica11. Egli si faceva

un vanto di nutrire spregio per ogni accademia filosofica e ogni

inquadramento politico, e il seguente scambio di battute, durante

un fittizio incontro in treno, è esemplificativo del suo spirito

polemico:

«“Sì, ma allora Lei che cosa è?”. “Che cosa intende, lei, con il termine ‘che cosa’?”.

“Beh, dovrà pure appartenere a qualche gruppo o scuola di

10 Per una panoramica sui rapporti tra Anders e la Arendt nel periodo delmatrimonio si rimanda a Young Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, pagg. 108-116, peri motivi della rottura cfr. pag. 132. Su un piano congetturale, si può supporreche, nonostante l’affetto profondo che Anders nutriva per la Arendt, tra i dueabbia giocato un ruolo non secondario un’irriducibile competizione sul pianointellettuale (conversazione con P.P. Portinaro, 13/11/13).11 M. Latini, Il viaggio di Günther Anders, pag. 144, introd. a G. Anders, Senza radici in«MicroMega», (2011) n.5.

8

pensiero!”. “Perché devo? Ho di meglio da fare che dare un nome alle

mie posizioni”».12

Non si può dire nemmeno che Günther Anders e Hannah Arendt

condividessero gli stessi interessi culturali: nonostante il suo

interesse per le arti figurative e la musica, la Arendt non vi

sapeva accedere autonomamente, e spesso era Anders a dover fare da

medium13. Al contrario, Anders non condivideva affatto l’interesse

per la civiltà greca, che fu vitale per l’evoluzione del pensiero

arendtiano. Tutt’altro: egli «non dissimula l’uso pretestuoso,

dissacrante, sarcastico dello strumento teorico ereditato»14,

ritenendo l’inclinazione al confronto con la filosofia classica un

retaggio dell’influenza che Heidegger aveva avuto sulla giovane

Hannah.

«Ha una particolare familiarità con l’uomo del V secolo sulla base

dei suoi scritti di allora, e appare conversare con lui alla pari –

mentre non so mai bene fino a che punto la sua illimitata

comprensione eo ipso, almeno durante il colloquio, si tramuti anche in

consenso.»15

A proposito dei rapporti con Heidegger, si può dire che per

Anders sia stata una presenza ingombrante anche dopo gli anni di

Marburgo, almeno per due motivi: innanzitutto, per via di un

confronto polemico con quello che, d’altronde, era stato anche il

suo maestro, sia pure in forme e modi alquanto diversi, e in

secondo luogo, a causa di una rivalità personale con l’uomo con12 G. Anders, Senza radici, introd. di M. Latini, in «MicroMega», (2011) n.5, pag.153 (ed. or. Monaco 1981).13 G. Anders, La battaglia delle ciliegie. La mia storia d’amore con Hannah Arendt, cit., pag. 5-7.14 P.P. Portinaro, Il principio disperazione. Tre studi su Günther Anders, Bollati Boringhieri,Torino 2003, pag. 135.15 G. Anders, La battaglia delle ciliegie, cit., pag. 6.

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cui la Arendt aveva intrattenuto una relazione amorosa non

soltanto ancora viva nei suoi ricordi, ma anche riflessa dal ricco

carteggio che ella continuava a intrattenere con Heidegger. Per

queste ragioni Anders parla così, in sarcastico riferimento alla

formula heideggeriana che vorrebbe gli uomini “pastori

dell’Essere”:

«“Credi davvero che siamo il popolo ontologico di pastori? E tutto

il resto, tutto ciò che esiste al di fuori di questo popolo, non sia

null’altro se non “gregge”?” Sentire l’espressione heideggeriana

“pastori” dalla mia bocca la irritava. “Popolo di pastori?” chiese

immediatamente e mi guardò con sospetto. […] E dopo una pausa: “La

parola ‘pastori’ dovrebbe essere forse un’allusione?”. “Senz’altro”,

ammisi inespressivo».16

La polemica essenzialmente filosofica di Anders con l’antico

maestro è stata di recente così sintetizzata:

«Heidegger viene accusato di rimanere ancorato ad una pseudo-concretezza

che caratterizzerebbe la sua filosofia come estetismo dell’inazione.

Secondo Anders, infatti, l’esserci resta ben lontano dall’essere

concreto, e questo proprio perché Heidegger da un lato nega che

abbia qualità divine, dall’altro non analizza le condizioni di

necessità che lo spingono al commercio col mondo […]. “La verità è che

l’esserci è cura perché è fame” argomenta Anders, formulando nei confronti di

Heidegger una critica materialistica all’ontologia esistenziale:

evitando una filosofia dei corpi, egli sembrerebbe dimenticare che

l’uomo è caratterizzato da bisogni e desideri che richiedono, di

volta in volta, di essere soddisfatti ed il fatto della cura (della

16 Ibid., pag. 24.10

relazione che l’essere si trova a dover intrattenere col mondo) ne

dimostrerebbe proprio i limiti ontici»17.

Una matrice comune del pensiero di Anders e Arendt può invece

essere rintracciata a partire dalla comune origine ebraica, che

portò entrambi a guardare alle vicende politiche europee da un

punto di vista diverso: quello del pariah, dell’emarginato,

dell’escluso, il quale, grazie alla sua vita da outcast, resta

indipendente e acquisisce un punto di vista eccentrico in

relazione alle vicende del mondo. E tuttavia, essi hanno vissuto

la loro ebraicità in modo differente: erano in disaccordo persino

su questioni di fede18. Nonostante tutte le discrepanze sinora

riscontrate, alcuni interpreti hanno creduto di poterli

considerare sinfilosofi19: quest’ipotesi si basa sulla forte

comunione intellettuale tra i due, che coincise con gli anni del

matrimonio, i cui risultati riecheggiano, indirettamente, nelle

opere successive di entrambi.

Ad ogni modo, il mio è un primo tentativo di far cadere il velo

del «comprensibile pudore» con cui si apre questa introduzione.

17 Alessia Zordan, La persistenza del presente, Tecnica e atemporalità nella filosofia di GüntherAnders in «Kainos», (2010) n°10.Disponibile su http://www.kainos-portale.com/index.php?option=com_content&view=article&id=136:la-persistenza-del-presente&catid=47:ricerche10&Itemid=8618 Anders si è sempre fermamente dichiarato ateo: «[…] ho goduto della libertà –un vantaggio che non poteva essere recuperato da chiunque provenisse da unadeterminata religione positiva o da un sistema etico irrigidito – di non saperee di non capire che cosa s’intendesse con il curioso termine “credere”».Ketzerein, Beck, Monaco 1982, pag. 327 sg. cit. in P.P. Portinaro, Il principiodisperazione, cit., pag. 18. Per il pensiero di Hannah Arendt al riguardo, sirimanda all’episodio narrato in G. Oberschlick, nota editoriale a La battaglia delleciliegie, cit., pag. 78-80: a seguito di una discussione filosofica su argomenti difede in casa di amici, Hannah Arendt avrebbe dichiarato a Hans Jonas: «Ho semprecreduto in Dio e non ho mai dubitato della sua esistenza – forse l’unica cosanella mia vita che abbia per me sempre rappresentato un punto fisso».19 C. Dries, Günther Anders e Hannah Arendt. Schizzo di una relazione, cit., pag. VIII.

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Günther Anders e Hannah Arendt giovanisposi, Berlino 1929. La foto è di per séeloquente: i due, pur vicini, guardano indirezioni diverse; mentre lo sguardo diAnders risulta sfuggente, la Arendt rivolgeall’osservatore il suo «sguardo da ghetto»,nelle parole dello stesso Anders (cfr. Labattaglia delle ciliegie, cit., pag.5). Mentre lamano sinistra di Anders è affettuosamenteappoggiata sulla spalla di lei, Hannah nonricambia il gesto, e tiene entrambe lebraccia raccolte in grembo. Il busto di leisembra però leggermente inclinato verso

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2. PRIMA DICOTOMIA: PENSIERO/AZIONE.

«I celesti fenomeni scrutaregiammai potei direttamente, senza

tener sospesa la mia mente, e mescereil sottil pensier nell’omogeneo ètra. Se dalla terra investigassi,

di giù le cose di lassù, non mai lescoprirei; poiché la terra a forza

attira a sé l’umore dell’idea.»

Aristofane, “Le Nuvole” (vs. 228-234, trad. it. di E. Romagnoli)

L’esergo con cui si apre questo capitolo è costituito dalle

prime parole che Socrate rivolge al vecchio Strepsiade, venuto a

chiedere di essere ammesso al Pensatoio, la scuola in cui Socrate

insegna ai suoi allievi ad avvalersi dell’arte retorica.

Aristofane, che considerava Socrate nel novero dei Sofisti, e

dunque di coloro i quali traviavano le menti dei giovani ateniesi

con l’ambiguità delle arti retoriche, raffigura Socrate in modo

grottesco, tale da suscitare il riso e il dileggio: egli è sospeso

in un corbello, in modo da restare più vicino al cielo per

indagarne meglio la natura e le leggi, e per evitare che la terra

contamini i suoi pensieri. Nell’immaginario comune, questo è il

filosofo: un uomo tutto perso nelle nuvole del pensiero, e lontano

da ogni senso comune.

La sfida che traspare dall’opera di Hannah Arendt sembra

quella di guardare alle vicende del mondo non dalla propria torre

d’avorio, bensì con gli occhi del common sense. Allo stesso modo,

Günther Anders non di rado ha preferito mettere da parte l’analisi

filosofica in favore di un’azione politica in presa diretta, in

un’epoca in cui le vicende storico-politiche e la crisi dei temi

tradizionalmente trattati dalla metafisica impedivano, in ogni

caso, ai “filosofi dopo Auschwitz” di barricarsi dietro al proprio15

contemptus mundi. Hannah Arendt si schierava apertamente «tra coloro

che da qualche tempo a questa parte hanno tentato di smantellare

la metafisica (con la filosofia e tutte le sue categorie) così

come le abbiamo conosciute dal loro esordio in Grecia fino ai

giorni nostri»20. Per questo, cominciare il mio percorso da questa

dicotomia mi pare d’obbligo, in quanto colloca Vita Activa in un

preciso contesto nella storia delle idee. L’opera esce nel 1958,

rappresentando così un’anticipazione del dibattito noto col nome

di Rehabilitierung della filosofia pratica aristotelica, inauguratosi

in Germania dopo l’uscita, nel 1960, di Verità e metodo di Hans-Georg

Gadamer (che era tra coloro che assistettero, insieme a Hans Jonas

e alla Arendt alle lezioni su Aristotele del giovane Heidegger).

L’opera di riferimento per questa “riabilitazione” della filosofia

pratica di Aristotele è l’Etica Nicomachea, in cui la gerarchia dei

saperi, articolata in tre gruppi – scienze teoretiche, poietiche e

pratiche –, nel dare autonomia ad ognuno degli ambiti della

conoscenza, accorda un proprio status anche all’azione. In

definitiva, l’Etica Nicomachea è dedicata all’analisi della vita

pratica, senza considerarla subalterna alla vita contemplativa.

L’attività di pensiero degli autori della Rehabilitierung è volta a

riequilibrare la bilancia tra teoria e prassi, riconoscendo a

ognuno dei tre livelli della conoscenza uno status autonomo e non

gerarchicamente dipendente dagli altri due: l’ambito della prassi

afferisce al mondo delle azioni umane, nell’ambito del divenire,

del contingente, ma non per questo va considerata come una

semplice deduzione dalle scienze teoretiche, bensì rappresenta un

20H. Arendt, The Life of the Mind, trad. it. La vita della mente, a cura di A. Dal Lago,Bologna 1987, pag. 306, (ed. or. New York-Londra 1978); in L. Boella, HannahArendt “fenomenologa”. Smantellamento della metafisica e critica dell’ontologia, pag. 83, in «Aut-Aut» (1990) n°240.

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sapere indipendente, con le sue caratteristiche proprie, e merita

la stessa attenzione che la filosofia ha riservato,

tradizionalmente, alla teoria. Anche Hannah Arendt ha un debito

nei confronti di Aristotele, sia nei richiami lessicali, sia per

via dell’apparato concettuale a cui si richiama. Dalle pagine di

Vita Activa emerge un confronto ed un richiamo continuo al mondo della

polis greca, e fu proprio la filosofia politica aristotelica ad

offrirne l’immagine ideale: l’uomo è per natura “animale

politico”, che agisce sempre nel raggio della sfera pubblica, e

perciò la sua esistenza si svolge sempre insieme agli altri, su un

piano paritario. Infatti, secondo la concezione aristotelica del

potere, tutti, a turno, salgono al potere, e non c’è una

distinzione netta tra chi governa e chi è governato, perché presto

le posizioni si capovolgeranno. La teoria politica aristotelica si

riferisce a una comunità di uomini uguali, che non possono

sottrarsi alla condizione della pluralità: perciò, fondamentale è

il confronto e lo scambio di opinioni. Anche per Hannah Arendt il

linguaggio riveste un’importanza particolare21, giacché rappresenta

il codice di comunicazione dei partecipanti alla sfera pubblica:

agire è anche prassi comunicativa.

«Discorso e azione rivelano questa unicità nella distinzione.

Mediante essi, gli uomini si distinguono anziché essere meramente

distinti; discorso e azione sono le modalità in cui gli esseri umani

appaiono gli uni agli altri non come oggetti fisici, ma in quanto

uomini. Questo apparire, in quanto è distinto dalla mera esistenza

corporea, si fonda sull’iniziativa da cui nessun essere umano può

21 A questo proposito si veda S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, cit., pagg.131 – 134.

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astenersi senza perdere la sua umanità. Non è così per nessun’altra

attività della vita activa»22.

In realtà, anche Aristotele appare partecipe del “pregiudizio”

greco della preminenza della vita contemplativa, come testimonia

l’ultimo libro dell’Etica Nicomachea: dopotutto, la vita

contemplativa è l’unica via per raggiungere l’ideale di una vita

felice (eudaimonia). D’altro canto, però, a parte il suo debito nei

confronti dello Stagirita, l’obiettivo polemico di Hannah Arendt è

un altro: i suoi strali sono rivolti contro Platone, in quanto

primo apologeta della «incapacità del filosofo di accordare il

proprio stile di vita e le sue stesse preoccupazioni allo spazio

pubblico-politico»23.

Innanzitutto, è necessario analizzare l’impianto generale di

Vita Activa per comprendere le ragioni della recriminazione nei

confronti della filosofia platonica. Il tentativo della Arendt di

riabilitazione della vita pratica passa attraverso un’analisi

delle sue declinazioni: il lavoro, l’opera, l’azione. Queste

costituiscono i tre capitoli centrali dell’opera. Lo sforzo della

Arendt sta proprio nel ripercorrere i passi della degradazione

della vita pratica ad opera della ragione filosofica, con

l’obiettivo di rendere il sapere pratico, che fino ad allora era

rimasto in secondo piano, il momento più rappresentativo e

identificativo della condizione umana24.

22 H. Arendt, Vita Activa. La condizione umana, introd. di A. Dal Lago, Bompiani, Milano2009, pag. 128 (I ed. 1964), trad. it. di S. Finzi, Chicago 1958.23 H. Arendt, La storia e l’azione, introd. di D. Cecchi, in «MicroMega», (2011) n.5,pag. 131, trad. it. di D. Cecchi, New York 2005.24 Il sottotitolo dell’opera, La condizione umana (che, si noti, costituisce iltitolo delle edizioni anglosassoni, The Human Condition), è esemplificativo in talsenso: il lavoro, l’operare, l’agire sono le tre attività umane checostituiscono le condizioni della vita pratica.

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Il lavoro: afferisce alla sfera del corpo e al paradigma

dell’animal laborans. È legato ai bisogni primari e rientra nel ciclo

naturale di produzione, consumo e scarto, quest’ultimo, a sua

volta, riassorbito nel ciclo della vita. Nel contesto della polis,

il lavoro non si confaceva a un cittadino libero: non dovendo

lavorare per provvedere al proprio sostentamento, poiché erano le

classi subalterne a produrre i beni primari, egli si poteva

dedicare all’otium, cioè al tempo libero deputato alla cura di sé

stesso. Il modo migliore per spendere il proprio tempo, però, non

è dedicarsi esclusivamente alla cura privati negotii, quanto piuttosto

all’impegno nella vita politica e all’amministrazione della cosa

pubblica, nell’interesse della comunità.

L’operare: afferisce alla sfera della produzione manuale e al

paradigma dell’homo faber. Il suo fine è nell’oggetto prodotto al

termine del processo di creazione. Operare significa, per il

soggetto umano, produrre un mondo di oggetti. A tal fine, l’uomo,

fabbricatore del mondo, diviene necessariamente un distruttore

della natura: il prodotto è qualcosa di interamente nuovo, che non

può venir riassorbito dal ciclo naturale in quanto permanente,

stabile, durevole. In questo novero rientrano anche le opere

d’arte, che sfuggono alla corrosione del processo vitale in una

sorta di «premonizione di immortalità»25.

L’azione: ha luogo in una comunità di persone, per il fatto stesso

che viviamo con gli altri e agiamo in uno spazio pubblico. Essa è

espressione di libertà e si colloca al rango supremo nella

gerarchia della vita activa26. Ha il carattere della progettualità e di

rivelazione, segna l’irrompere del nuovo all’interno della

25 H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 120.26 Ibid., pag. 151.

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prefigurazione di relazioni in una comunità di persone. L’azione è

energeia, nel senso aristotelico del termine, il che vuol dire che

il suo fine risiede non in un prodotto al di fuori di essa, come

nel caso dell’opera, bensì in sé stessa, nel proprio compimento.

Il sapere pratico, come si vede da questa tripartizione,

rappresenta un agire non strumentale, che non trova il proprio

fine in un oggetto esterno, ma nel successo dell’azione stessa:

proprio in questo sta la differenza rispetto al sapere poietico.

Poiesis e praxis non coincidono in quanto, se la prima possiede il suo

fine al di fuori di sé, la prassi trova compimento nel successo

dell’azione stessa, cioè nella sua effettualità sul mondo.

Rientrando nell’universo degli affari umani, caratterizzato dal

divenire e dal contingente, l’azione non può essere analizzata con

criteri scientifici – quelli delle scienze teoretiche –, bensì ne

vanno considerati gli aspetti di imprevedibilità.

«Non si tratta soltanto di un’incapacità di prevedere tutte le

conseguenze logiche di un atto particolare […]; la difficoltà deriva

direttamente dalla storia che, come risultato dell’azione, inizia e

procede non appena sia passato il fugace momento dell’atto. La

difficoltà è che qualunque sia il carattere e il contenuto della

storia in questione […], il suo pieno significato può apparire solo

quando si conclude»27.

Da questo estratto emerge la rinuncia ad un facile finalismo in

favore di una teoria dell’«agire come erramento»28, giacché

l’imprevedibilità dell’azione implica che non c’è un’evoluzione

progressiva della storia umana, che è per definizione il luogo

27 Ibid., pag. 140.28 L. Boella, Hannah Arendt “fenomenologa”. Smantellamento della metafisica e critica dell’ontologia,cit., pag. 109.

20

della contingenza e della fragilità, che non obbedisce a nessun

senso né teleologia: non c’è un fato che ci guida verso

“magnifiche sorti e progressive”, ma comprendiamo gli

imprevedibili accadimenti della storia solo a posteriori. Queste

caratteristiche intrinseche del mondo umano hanno favorito lo

studio del necessario (cioè delle scienze teoretiche) a discapito

del contingente. La preminenza della teoria sulla prassi risale

alla filosofia antica: se lo studio dell’Essere riguarda il mondo

del necessario e del permanente, secondo la definizione di

Parmenide, allora è chiaro che il mondo del divenire e delle

azioni umane è troppo imprevedibile per esser fatto oggetto di

studio. La Arendt ascrive questo squilibrio, in particolare, alla

filosofia di Platone, che si è resa colpevole di una grave

mistificazione: considerare l’“iperuranio” l’unico vero mondo (di

cui il mondo in cui viviamo non è che una copia) significa

svalutare totalmente il dominio delle azioni umane. Prendendo come

esempio il mito platonico della caverna, scrive:

«La periagōgē (volgersi ad altro), che Platone vuole dal filosofo,

consiste in pratica in un rovesciamento dell’ordine del mondo

omerico. Non la vita dopo la morte, come nell’Ade di Omero, ma la

vita ordinaria sulla terra, è localizzata in una “caverna”, in un

mondo sotterraneo; non è l’anima l’ombra del corpo, ma il corpo

l’ombra dell’anima»29.

Il protagonista del mito della caverna agisce in due sensi

diversi: da un lato, il filosofo intraprende il cammino della

Verità e dell’Essere, e per farlo si libera dalle catene, che

simboleggiano i vincoli della vita mondana, ed esce dalla caverna

29 H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 216.21

a contemplare la luce del sole. Dall’altro, egli torna nella

caverna per “piegare” il mondo degli affari umani alla verità

della ragione filosofica30. Il mondo degli affari umani non è fatto

per accogliere il filosofo: egli può farvi ingresso soltanto se

riesce a imporvi gli standard della necessità e assolutezza,

caratteristiche di quelle « “idee” che possono essere percepite

solo in solitudine»31. Finché il filosofo resta nelle nuvole delle

concettualità, la Verità rappresenta per lui la più sublime

bellezza, perché è «ciò che più riluce»32: per questo, nel mito, è

simboleggiata dal sole. Ma quando si rende necessario imporre i

criteri dell’Essere al mondo del divenire, l’obiettivo della

ricerca filosofica non è più la Verità in quanto Bello, bensì in

quanto Bene. Questo è l’interesse di Platone nella creazione di

una società a misura della esigenze del filosofo, in cui

addirittura egli è re e la verità della ragione filosofica è

Legge. A tal proposito, la Arendt prende ad esempio i termini

greci prattein e archein, “agire” e “cominciare” (o anche:

“governare”33). Se il filosofo è colui che governa, il legame tra

azione e cominciamento si spezza: chi governa (archein), cioè il re-

filosofo, si tiene ben lontano dall’agire (prattein), poiché il mondo

degli affari umani esula dal suo dominio. In breve, «gran parte

della filosofia politica, da Platone in poi, potrebbe agevolmente

essere interpretata come una serie di tentativi di trovare

fondazioni teoretiche e modi pratici per una fuga totale dalla

politica»34. La visione platonica rappresenta uno svilimento della

prassi in quanto fa della politica una tecnica, in cui chi governa30 S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, cit., pag. 121.31 H. Arendt, La storia e l’azione, cit., pag. 131.32 H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 166.33 Ibid., pag. 163.34 Ibid., pag. 164.

22

possiede il sapere, mentre chi agisce esegue ciecamente degli

ordini:

«Nella Repubblica il re-filosofo applica le idee come l’artigiano

applica le sue regole e i suoi sistemi di misura; egli fa la sua

città come lo scultore fa una statua, e nell’opera finale di Platone

queste sono diventate anche leggi che richiedono solo di diventare

esecutive»35.

In effetti, le numerose metafore del reggitore dello stato che si

trovano in Platone – il politico come tessitore, come nocchiero,

come medico – sono tutte tratte dal mondo dei mestieri, e hanno

poco a che vedere con l’azione: anzi, confondono la questione che

alla distinzione aristotelica tra scienze pratiche e poietiche

toccherà di chiarire. Le metafore platoniche si basano su una

scissione netta tra governanti e governati, in cui il governante,

forte della sua techne politica, opera sempre per il bene della

comunità, e la ammaestra, e la guarisce da ogni male (come fa il

medico) o la guida in porto (come il nocchiero), ma senza tenere

conto della complessità del tessuto sociale e dell’imprevedibilità

delle azioni umane:

«La filosofia politica tradizionale tende a far derivare la

dimensione politica della vita umana dalla necessità che costringe

l’animale umano a vivere insieme con gli altri, piuttosto che dalla

capacità umana di agire. Essa sfocia in una teoria relativa al modo

migliore di soddisfare i bisogni derivanti dalla sfortunata

condizione plurale degli uomini, e di mettere in grado i filosofi di

non esserne disturbati».36

35 Ibid., pag. 167.36 H. Arendt, L’interesse per la politica nel recente pensiero filosofico europeo, pag. 32, in «Aut-Aut», (1990) n. 240, trad. it. di A. Dal Lago, New York 1954.

23

Insomma, non c’è nulla di più avverso alla filosofia della

politica, tanto che prima il filosofo ne rifugge, e poi tenta di

imporle gli standard della verità filosofica. Probabilmente è per

via di questa storica inimicizia tra filosofia e politica che

Hannah Arendt non si riconosceva nell’appellativo di filosofa,

considerandolo «sovraccarico di tradizione»37. Tra l’uomo che

filosofa con la ragione e l’uomo che agisce col common sense, ella

stava senza dubbio dalla parte di quest’ultimo. Hannah Arendt si

assume il compito di fare una diagnosi della politica senza mai

uscire dal regno del senso comune, senza mettersi sul

“piedistallo” della contemplazione: la sua opera è espressione del

suo amore per il mondo38.

Per gli stessi motivi, Günther Anders diffidava della

filosofia accademica, che riteneva non sapesse interpretare i

cambiamenti del mondo né tantomeno applicare la teoria in modo da

produrre qualche effetto risolutivo nella pratica39. La catacomba

molussica, il suo romanzo uscito postumo nel 1992, è esemplificativo

dell’opinione di Anders nei riguardi di quella che era da lui

considerata come sterile speculazione filosofica. La catacomba

molussica appartiene al filone della letteratura distopica, ed è

ambientato nei sotterranei di Molussia, una città fittizia in cui

vige un regime repressivo e autoritario. I protagonisti sono due

37 «L’espressione “filosofia politica”, che io evito, è straordinariamentesovraccarica di tradizione. Quando parlo di questi argomenti, ho sempre cura dimettere in rilievo la tensione tra filosofia e politica, e cioè tra l’uomo inquanto essere che filosofa, e l’uomo in quanto essere che agisce. […] Ma davantialla politica egli non ha una posizione neutrale. Non dopo Platone!», H. Arendt,G. Gaus, Che cosa resta? Resta la lingua materna, cit., pag. 12.38 Amor mundi era il titolo che l’autrice avrebbe preferito per Vita Activa, ma fupoi cambiato in fase di pubblicazione (E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia,cit., pag. 370). For Love of the World divenne il titolo della prima edizione dellabiografia della Young-Bruehl.39 P.P. Portinaro, Il principio disperazione, cit., pag. 48.

24

prigionieri politici, Olo, il maestro, e Yegussa, l’allievo. I

due, costretti all’inattività, passano i giorni di prigionia

nell’attesa messianica della rivoluzione che li riporterà alla

luce, meditando riguardo ai temi del progresso, dell’automazione,

della civiltà tecnologica, tutte anticipazioni dei temi dell’opera

della maturità. Ma quando il vecchio Olo muore, il giorno dopo

muore anche Yegussa, interrompendo così la tradizione dei loro

racconti, e senza che le loro meditazioni siano mai state di

utilità pratica40. Il finale aporetico dell’opera sembra

un’ammissione del fatto che il pensiero filosofico non possiede

alcuna ricetta segreta per deviare il corso del mondo. Anders,

nonostante la sua esigenza di manifestare il proprio impegno

politico per mezzo della militanza attiva, ha a sua volta trovato

il modo di esprimersi in forme diverse da quelle istituzionali, e

sempre tenendosi ben lontano da ogni schieramento. L’azione

politica, infatti, non deve essere intesa solo come politica

attiva: ci sono molti modi di agire politicamente, anche senza

riconoscersi, ad esempio, in un determinato partito, o comunque in

una realtà istituzionale o socialmente organizzata. La vita

pubblica in generale offre molte occasioni di agire, dove “agire”

significa imprimere un qualche effetto sul mondo. Azione politica,

ad esempio, fu per la Arendt il primo periodo trascorso da

rifugiata negli Stati Uniti, in cui ha offerto il proprio aiuto

alla Youth Aliya, un’associazione umanitaria che accoglieva i

giovani profughi ebrei negli Stati Uniti; azione politica fu anche

l’attività di insegnamento e ricerca nelle maggiori università

americane. D’altronde, «è possibilissimo capire la politica e

riflettere su di essa pur senza essere un cosiddetto animale40 Ibid., pagg. 99–106.

25

politico»41. Infatti, ella non ha mai voluto prender parte a

nessuna forma di politica attiva:

«Non sono qualificata per nessun tipo di lavoro politico diretto.

Non mi diverte confrontarmi con la folla, sono troppo facile al

disgusto, non ho abbastanza pazienza per manovrare, né abbastanza

intelligenza per mantenere un certo necessario distacco»42.

Se da una parte, la Arendt si è sempre tenuta lontana dalla

politica attiva, Anders, al contrario, ha sempre fatto del suo

lavoro di pubblicista un mezzo per esprimere il proprio impegno.

Anzi, dopo la svolta contrassegnata dalla bomba atomica su

Hiroshima e Nagasaki nel 1945, egli ammette di aver «disertato» la

riflessione teoretica, ma in nome di un’altra causa: la militanza

politica in prima linea.

«Se qualcosa mi ha indotto al silenzio filosofico, è stata la

convinzione e la sensazione che, di fronte al pericolo di un reale

naufragio dell’umanità, non solo preoccuparsi della sua “mera

disumanizzazione” era un lusso, ma che persino occuparsi

esclusivamente del pericolo di una fine effettiva, se ciò si

limitava a un lavoro filosofico-teoretico, restava cosa inutile. Io

sentivo assai più ineludibile il partecipare effettivamente, per

quanto potevo, alla battaglia combattuta da migliaia di persone

contro una simile minaccia; e dunque, se ho piantato in asso il

primo volume [de L’uomo è antiquato], è stato perché non volevo piantare

in asso la cosa che in esso avevo rappresentata».43

41 Discorso inedito di Hannah Arendt pronunciato nel ricevere il premio Sonningnel 1975, in E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, cit., pag. 11.42 Hannah Arendt a Elliot Cohen, 24 novembre 1948, in E. Young-Bruehl, HannahArendt. Una biografia, cit., pag. 273.43 G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzioneindustriale, trad. it. di M. A. Mori, vol. II, Bollati Boringhieri, Torino 2012,pag. 5 (ed. or. Monaco 1980).

26

Gli fa eco Hannah Arendt, la cui polemica nei confronti dello

stereotipo del pensatore avulso dal mondo fa capo a uno dei tanti

dualismi insanabili che caratterizzano la filosofia moderna. La

dicotomia pensiero/azione ha assunto i caratteri di una radicale

scissione: la scoperta dell’universo dell’interiorità – di cui il

cogito cartesiano è l’espressione più compiuta –, e la conseguente

perdita del mondo44. I tradizionali dualismi della tradizione

filosofica occidentale, come «idealismo e materialismo,

trascendentalismo e immanentismo, realismo e nominalismo, edonismo

e ascetismo e così via»45, si possono dunque ricondurre alla

scissione tra interiorità e mondanità.

«La convinzione che la verità oggettiva non è data all’uomo, ma che

egli può sapere solo ciò che fa lui stesso, non è conseguenza dello

scetticismo, ma è una scoperta dimostrabile, e quindi non conduce

alla rassegnazione ma o a un’attività più intensa o alla

disperazione. La perdita del mondo nella filosofia moderna […] è

differente non solo per intensità dall’antico sospetto dei filosofi

verso il mondo e verso gli altri con i quali lo condividevano; il

filosofo non si volge più dal mondo della caducità ingannevole a un

altro dominato da una verità eterna, ma si distoglie da entrambi e

si ritira in se stesso».46

In tal modo, l’intellettuale si condanna all’inattività,

all’immobilità, il che è ben diverso dalla contemplazione

auspicata da Platone, che portava una sorta di meraviglia muta,

anzi, ammutolita davanti all’esperienza della Verità, ma al tempo

stesso fruttuosa, poiché è l’esperienza da cui nasce e a cui tende

la filosofia stessa:44 H. Arendt, Vita Activa, cit., pagg. 214-218.45 Ibid., pag. 217.46 Ibid., pag. 217.

27

«Appare non meno plausibile che tale meraviglia debba essere

essenzialmente muta, che cioè il suo effettivo contenuto sia

intraducibile in parole. Questo spiegherebbe almeno perché Platone e

Aristotele, che consideravano il thaumazein l’inizio della filosofia,

convenissero anche […] che uno stato di incomunicabilità, lo stato

essenzialmente incomunicabile della contemplazione, era il fine

della filosofia. Theōria, in effetti, è solo un’altra parola per

thaumazein; la contemplazione della verità alla quale arriva infine

il filosofo è la meraviglia muta, filosoficamente purificata, con

cui aveva cominciato»47.

La bilancia sembra stavolta pendere a favore della prassi. Ma il

pragmatismo dell’età moderna interpreta quest’ultima piuttosto

come azione finalizzata a uno scopo: il paradigma di riferimento è

infatti quello dell’homo faber, che strumentalizza il mondo secondo

le proprie necessità. L’avvento delle teorie utilitaristiche

dell’Ottocento, soprattutto il fordismo e il taylorismo, hanno

fatto il resto, segnando la crisi dell’homo faber e l’avvento

dell’animal laborans, che meglio si presta al lavoro alienante della

catena di montaggio. La perdita non sarebbe stata altrettanto

ingente se il processo di secolarizzazione (che è un altro modo di

indicare quello che Weber chiamava “disincanto del mondo”), cioè

«la perdita della fede derivata dal dubbio cartesiano, non avesse

privato la vita individuale della sua immortalità, o almeno della

certezza dell’immortalità»48. L’animal laborans è il componente ideale

della società di massa e dello stato totale, poiché si lascia

assorbire dai processi anonimizzanti e avvilenti del lavoro in

fabbrica, nonché dal ciclo della produzione e dello scarto. In un

tale contesto, come scrive Hannah Arendt nelle pagine conclusive47 Ibid., pag. 225.48 Ibid., pag. 238.

28

di Vita Activa, l’unica salvezza per l’umanità consiste nel

riconquistare le vette del pensiero, come baluardo di massima

libertà in condizioni di illibertà totale:

«Il pensiero, infine […] è ancora possibile, e senza dubbio

efficace, ovunque gli uomini vivano in condizioni di libertà

politica. Disgraziatamente, a differenza di ciò che si pensa di

solito circa la proverbiale indipendenza dei pensatori, nella loro

torre d’avorio, nessun’altra facoltà umana è così vulnerabile, e di

fatto è molto più facile agire in condizioni di tirannia che non

pensare».49

La dicotomia pensiero/azione è così ricomposta: l’appello

arendtiano per la riappropriazione della libertà attraverso il

pensiero passa anche per la riabilitazione dell’azione morale. A

questo punto, se il male è “banale”, lo è anche il bene: agire

secondo coscienza, indipendentemente da eventuali «condizioni di

tirannia», significa fare appello all’umanità che ci accomuna

tutti, senza bisogno di alcun eroismo. La risoluzione della

Arendt, la quale forse sottovaluta il potere di fascinazione sulle

coscienze delle ideologie che si accompagnano ai totalitarismi,

sembra decisamente ottimistica rispetto a quella di Anders: egli,

infatti, ha fatto della questione della possibilità di azione

politica nell’era della tecnica il nucleo della sua produzione

intellettuale. Anders, invece di ricorrere alle categorie senza

tempo di “libertà”, “morale”, “azione”, fa una diagnosi del tempo

presente e, riconoscendo la crisi della morale tradizionale,

approda ad un nichilismo senza scampo. La possibilità di un’azione

autentica viene negata, se nell’era della tecnica svanisce ogni

nozione di moralità o immoralità. Nella società di massa, gli49 Ibid., pag. 242.

29

uomini non sono chiamati ad agire moralmente, anzi, sono

dispensati da ogni responsabilità dell’azione. Un esempio estremo:

lo sgancio della bomba atomica è avvenuto attraverso un gesto

asettico, che porta alla disconnessione, nella mente dell’agente,

tra l’esecuzione di un ordine e l’annientamento di migliaia di

vite umane: tra l’uno e l’altro, infatti, c’è una distanza

insanabile, tanto che l’esecutore materiale non vede nemmeno

l’effetto della propria azione50. Con l’età della tecnica, persino

i metodi di annientamento della vita umana si fanno sempre più

sofisticati, col risultato che una relazione diretta tra vittima e

carnefice è pressoché assente. La moralità o immoralità

dell’azione, dunque, si può imputare a chi esegue materialmente

gli ordini di un superiore? A ben vedere, costui sarebbe

null’altro che un ingranaggio di un sistema in cui vige una

«irresponsabilità organizzata»51. Quello di Anders non è un appello

ad una facile assoluzione, piuttosto una polemica nei confronti

dell’inconsapevolezza dei componenti della società di massa, che

traducono il paradigma della catena di montaggio in tutti gli

aspetti della loro vita, e ritengono le loro azioni esenti da ogni

questione di moralità o di immoralità. A farne le spese, in ultima

analisi, è solo un ingranaggio del sistema, colpevole di aver

effettuato un gesto apparentemente asettico, ma la cui meccanicità

provoca, nella mente di chi lo compie, una dissociazione tra quel

gesto e le sue inevitabili conseguenze. In questo sistema, gli

individui tendono a considerarsi, in un certo qual modo, “al di

qua” del bene e del male. L’azione si riduce ad un gesto

automatico e ad una esecuzione di ordini, che sollevano l’agente50 G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzioneindustriale, cit., pag. 59.51 P.P. Portinaro, Il principio disperazione, cit., pag. 159.

30

da ogni riflessione o scelta. Causa ed effetto, intenzioni e

conseguenze, non hanno alcuna connessione: l’azione è ridotta a

pura automazione.

«Fabbricare non è dunque più fabbricare e agire non è più agire. Che

queste due degenerazioni si siano manifestate contemporaneamente,

non è un caso. Qui piuttosto ci troviamo di fronte a un unico

evento: entrambe le forme di attività sono cadute vittima dello

stesso nemico, cioè di una terza forma di attività che adesso,

incurante di tutte le differenziazioni precedenti, ha monopolizzato

del tutto la prassi: il “servire”».52

Una facile risoluzione sarebbe quella di riporre le proprie

speranze in una morale dell’eroismo – secondo cui il pilota

d’Hiroshima53 si sarebbe dovuto rifiutare di eseguire gli ordini.

«Sventurata la terra che ha bisogno di eroi», recita un celebre

verso di Bertolt Brecht, autore molto amato da Anders: sperare

52 G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzioneindustriale, cit., pag. 60.53 A partire dal 1959, Anders intrattenne un rapporto epistolare col pilotaClaude Eatherly, nel periodo in cui quest’ultimo era ricoverato in un ospedalepsichiatrico, per via dei disturbi da stress post-traumatico dopo i fatti diHiroshima. Ed. orig. Off limits für das Gewissen. Der Briefwechsel zwischen dem Hiroshima-PilotenClaude Eatherly und Günther Anders. Rowohlt, Reinbek 1961. In traduzione italiana, Lacoscienza al bando. Il carteggio del pilota di Hiroshima Claude Eatherly e di Günther Anders, Einaudi,Torino 1962. In realtà, Eatherly non fu l’esecutore materiale del gesto (non eranemmeno a bordo dell’Enola Gay), ma quel giorno era al comando del volo “diricognizione” che sorvolava Hiroshima (cfr. M. P. Paternò, Responsabilità e cura delmondo nell’età globale. Riflessioni sulla convivenza politica in una prospettiva storico-filosofica, in corsodi stampa, pag. 12). Babette Babich sostiene che gli aviatori selezionati perquella missione non potevano non essere al corrente che Little Boy non era unabomba come le altre, come si evince dalla traiettoria evasiva presa dalbombardiere subito dopo il lancio, e dall’importanza assunta dai meteorologipartecipanti alla missione, tra cui Eatherly stesso (B. Babich, Angels, the Space ofTime, and Apocalyptic Blindness: On Günther Anders’ Endzeit–Endtime, in «Etica &Politica/Ethics & Politics», XV, 2013, n° 2, pag. 148). Eatherly, dunque,secondo quest’interpretazione, non poteva non essere cosciente, almeno inteoria, delle conseguenze delle sue azioni: egli è diventato il simbolo di queltragico evento proprio in virtù del senso di colpa che l’ha afflitto per tuttala vita.

31

nella buona coscienza del singolo è vano in un contesto in cui la

tendenza ad auto-assolversi è generalizzata, in cui

l’irresponsabilità individuale trova la propria giustificazione

all’interno della struttura stessa della società54. A tal

proposito, anche Anders rileva, come Arendt, la connessione tra

«inopportunità del pensare»55 e illibertà politica:

«Qui si sostiene la tesi che la tendenza al totalitario fa parte dell’essenza della

macchina e originariamente nasce dal regno della tecnica; che la tendenza, insita

in ogni macchina in quanto tale, di sopraffare il mondo, di

sfruttare in modo parassitario i pezzi di mondo che non ha

sopraffatti, di concrescere con altre macchine e di funzionare

insieme a esse, come pezzi all’interno di un’unica macchina totale;

che tale tendenza rappresenta il fatto fondamentale; e che il

totalitarismo politico, pur sempre abominevole, rappresenta soltanto

un effetto e una variante di questo fondamentale fatto

tecnologico».56

54 Sia che si tratti di Stato totalitario, sia di società di massa, la moraleeroica non ha, non può avere, nessun corso, in nessun ambito della vita, né dellamorte. A tal proposito, sono particolarmente eloquenti le parole di Peter Bamm,un medico tedesco testimone dell’eccidio degli ebrei a Sebastopoli del luglio1942, da parte delle “Squadre della Morte” al seguito delle truppe tedesche inRussia. Ricordando quell’evento, nella sua opera Die Unsichtbare Flagge (Monaco,1952), per spiegare le ragioni dell’impossibilità di rifiutare, con un attoeroico, di eseguire gli ordini dei superiori, scrive così: «It belongs among therefinements of totalitarian governments in our century that they don’t permittheir opponents to die a great, dramatic martyr’s death for their convictions. Agood many of us might have accepted such a death. The totalitarian state letsits opponents disappear in silent anonymity». La citazione è riportata in ErinOverbey, Hannah Arendt and The New Yorker, dall’archivio online del «New Yorker», 31maggio 2013.Disponibile su http://www.newyorker.com/online/blogs/backissues/2013/05/hannah-arendt-and-the-new-yorker.html.55 Ibid., pag. 374.56 Ibid., pag. 409.

32

La morale andersiana segna dunque lo scacco dell’etica della

responsabilità, di cui Hans Jonas era stato il maggiore – e più

ottimistico – teorico.

33

3. SECONDA DICOTOMIA: PRIVATO/PUBBLICO.

«[Gli esponenti del Partito Interno] avrebbero potuto analizzare e mettere su carta, nei minimiparticolari, tutto quello che s'era fatto, s'era detto e s'era pensato; ma l'intimità del cuore, il cui

lavorio è in gran parte un mistero anche per chi lo possiede, restava imprendibile».

G. Orwell, “1984”

Si è visto ampiamente, nell’analisi della prima dicotomia,

come in Vita Activa il modello della polis sia assunto come

“idealtipo”, cioè come un paradigma da cui hanno tratto origine le

categorie di teoria e pratica politica che sono alla base della

tradizione occidentale. Il costante riferimento a tale modello di

per sé non implica che l’autrice aspiri a un irrealistico ritorno

di quelle esperienze nel presente. La polis è per la Arendt una

categoria ideale in cui si concretizzano «accettazione della

temporalità e bisogno di durata, riconoscimento dei rischi della

pluralità e della differenza e rifiuto della sicurezza nel

dominio»57: ella è ovviamente cosciente della mera idealità che

quel modello rappresenta, e ai suoi giudizi non dovrebbe essere

attribuito carattere storico, se non nel senso ristretto di storia

delle idee. L’analisi della dicotomia privato/pubblico muove,

ancora una volta, da un richiamo al pensiero greco così inteso, e

non potrebbe assumere tratti più antinomici:

«Secondo il pensiero greco, la capacità degli uomini di organizzarsi

politicamente non solo è differente, ma è in diretto contrasto con

l’associazione naturale che ha il suo centro nella casa (oikia) e

nella famiglia. Il sorgere della città-stato significò per l’uomo

ricevere “accanto alla sua vita privata un sorta di seconda vita, il

suo bios politikos. Ora ogni cittadino appartiene a due ordini di

57 S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, cit., pag. 277.34

esistenza; e c’è una netta distinzione nella sua vita tra ciò che è

suo proprio (idion) e ciò che è in comune”»58.

Dal brano precedente emerge un individuo irrimediabilmente scisso

tra due dimensioni in netta contrapposizione: la vita privata, che

include la dimensione degli affetti e il contesto familiare, e

rappresenta la forma primigenia di associazione tra gli uomini, e

la vita pubblica, che non sembra avere, però, gli stessi crismi

della precedente. Infatti, se la vita privata è qui definita come

«associazione naturale», è implicito che la dimensione pubblica

sia artificiale, secondaria e successiva, la quale, affiancandosi

alla preesistente sfera privata, costringe gli uomini a dividersi

tra «due ordini di esistenza». Il trauma derivante da tale

sdoppiamento ha radici profonde: la civiltà della polis si sviluppò

proprio in ragione della crisi del sistema tribale, basato sui

legami di sangue: il potere non si tramanda più all’interno di

un’unica famiglia aristocratica (genos), bensì viene

ridistribuito, secondo le leggi (nomoi) della città, tra i

cittadini della polis, che trovano il loro spazio istituzionale di

confronto nell’agorà. Ora, in questo contesto di uguaglianza e

parità, l’unico mezzo che hanno i cittadini per far valere la loro

opinione non è più l’influenza legata alla tradizione del potere

familiare, ma bensì sono il linguaggio e le arti retoriche. La

dimensione comunicativa della prassi democratica assume un rilievo

così importante che chi non era cittadino, chi era straniero, era

aneu logou, cioè «privo […] di un modo di vita nel quale solo il

discorso aveva senso e nel quale l’attività fondamentale di tutti

58 H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 19.35

i cittadini era parlare tra loro»59. La dicotomia in questione

comincia dunque ad articolarsi così:

La vita privata (il paradigma dell’oikos) è la sede, oltre che degli

affetti, anche dei bisogni e delle necessità dell’uomo, che non

possono essere soddisfatti se non vivendo nella piccola comunità

familiare, in cui vige una netta distinzione di ruoli, in modo che

ognuno sia preposto a un compito specifico: l’uomo si occupa della

sopravvivenza individuale, provvedendo al nutrimento della

famiglia, e la donna si occupa della sopravvivenza della specie,

mettendo al mondo dei figli. È caratterizzata da rigide gerarchie,

funzionali al regime strettamente patriarcale.

La vita pubblica (il paradigma della polis), invece, è il dominio

della libertà, dell’espressione di sé, e tale libertà è la chiave

per una vita felice e realizzata, per la conquista dell’eudaimonia

aristotelica, perché se si è liberi dai bisogni materiali, dalle

necessità imposte dal ciclo vitale, allora ci si può dedicare alla

cura degli affari pubblici, che non è altro che cura sui, dato che la

dimensione politica rappresenta la vera realizzazione e il vero

scopo di un cittadino. Al contrario della sfera privata, la sfera

pubblica è caratterizzata da una condizione di uguaglianza tra gli

individui, che si confrontano ad armi pari sul terreno dell’agorà.

Si badi che lo spazio pubblico non deve essere inteso come uno

spazio meramente fisico, come ad esempio era l’agorà, ma come una

dimensione della vita in cui ciò che accade è visibile a tutti.

Per dirla con le parole della Arendt stessa, lo spazio pubblico è

«lo spazio che c’è tra individui legati l’uno all’altro – ma allo

stesso tempo separati e protetti – da molte cose che hanno in

59 Ibid., pag. 21.36

comune: lingua, religione, storia, usanze e leggi»60. Insomma, lo

spazio pubblico è costituito da una complessa rete di relazioni, e

per spiegarlo la Arendt ricorre a una metafora spesso citata:

«Vivere insieme nel mondo significa essenzialmente che esiste un

mondo di cose tra coloro che lo hanno in comune, come un tavolo è

posto tra quelli che vi siedono intorno; il mondo come ogni in-fra [in-

between], mette in relazione e separa gli uomini nello stesso tempo.

La sfera pubblica, in quanto mondo comune, ci riunisce insieme e

tuttavia ci impedisce, per così dire, di caderci addosso a

vicenda»61.

Lo spazio pubblico unisce, nel senso che è la sfera comune a tutti

gli agenti, ma al tempo stesso divide, in quanto è ciò che si

interpone – «in-fra», appunto – tra coloro che prendono parte alla

vita pubblica, impedendo che uno spazio istituzionalizzato diventi

soffocante e pervasivo, annullando, invece che enfatizzare, le

qualità del singolo. L’esperienza dello spazio pubblico, proprio

in quanto spazio istituzionalizzato, con il suo apparato di

regole, si qualifica dunque come un “gioco”di manifestazione e di

espressione della propria identità, di disvelamento di se stessi

nella comune dimensione della mondanità62. Uno spazio pubblico così

inteso deve molto al concetto heideggeriano di essere-con-gli-

altri: ma se in quel caso assumeva un carattere esclusivamente

esistenziale, la Arendt lo riabilita nel senso politico di essere-

insieme, enfatizzando così l’imprescindibile condizione della

60 H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 1992,pag. 269, in S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, cit., pag. 278.61H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 39.62Si vedano a tal proposito S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, cit., pag.281; A. Dal Lago, Una filosofia della presenza. Hannah Arendt, Heidegger e la possibilità dell’agire,cit., pag. 109 e A. Dal Lago, La città perduta, pag. XVII, introd. a H. Arendt, VitaActiva, cit.

37

pluralità nella sfera pubblica. La dicotomia privato/pubblico

comincia così a trovare una risoluzione, che, coerentemente con la

complessità del pensiero dell’autrice, non potrebbe mai essere

facilmente conciliativa: quella “mano invisibile” che concilia

l’interesse privato con la cura degli affari pubblici non è che

un’illusione, e vivere in comunità non vuol dire condividere scopi

e obbiettivi, ma essenzialmente condividere la condizione umana

dell’essere-nel-mondo. Tra privato e pubblico ci deve essere una

distinzione, quantomeno dettata dal pudore: «La distinzione tra la

sfera pubblica e quella privata […] corrisponde alla distinzione

tra cose che dovrebbero essere mostrate e cose che dovrebbero

essere nascoste»63. Il privato è sede dell’ ob-scenum, cioè di

quanto, per sua stessa natura, deve restare lontano dal

palcoscenico della vita pubblica.

Si noti, tuttavia, che la dicotomia in questione non

rappresenta l’opposizione tra una dimensione positiva e una

negativa della condizione umana, una, la sfera pubblica, da

accogliere e da celebrare, mentre l’altra, la sfera privata, da

rigettare come gretta e meschina. Questa dicotomia non sottintende

giudizi di valore, ma mette in risalto due momenti ugualmente

importanti. Hannah Arendt dedica, infatti, ampio spazio

all’analisi della sfera privata, evidenziandone tutta la

complessità. Essa è quella dimensione dell’esistenza in cui ciò

che accade è al riparo dagli sguardi altrui, anzi, si potrebbe

dire che l’assenza degli altri è la sua caratteristica

fondamentale. In Vita Activa si trova spesso l’aggettivo “prepolitico”

63 H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 52.38

in riferimento alla sfera privata64, principalmente in due sensi:

innanzitutto, l’aggettivo indica la precedenza cronologica

dell’istituto della famiglia su un’ideale linea dell’evoluzione

delle forme politiche. In secondo luogo, implica che la sfera

privata sia il presupposto della libertà di cui gode l’individuo

nella sfera pubblica: la sua libertà consiste anche nella

possibilità di ritirarsi nel suo dominio privato, fatto di

riservatezza e di isolamento. L’epoca che ha contribuito a rompere

gli equilibri tra i «due ordini di esistenza» è stata la

modernità. Infatti, è a partire dall’opera di Cartesio che

comincia a costituirsi un concetto di soggettività attorno a cui

ruoterà tutta la speculazione filosofica fino a Kant. L’uomo e la

sua individualità diventano il perno su cui s’innesta una nuova

concezione del sapere, in cui egli è misura di tutte le cose. La

sfera privata diviene un “rifugio” dal clamore della vita

pubblica, e assurge a custode dell’individualità – anzi,

dell’individualismo –, i cui baluardi sono il lavoro e la

proprietà privata, attorno a cui si concentrano gli interessi

della classe borghese. Non solo il privato diventa la dimensione

dominante, ma pretende di asservire anche il pubblico alle proprie

necessità: così si viene a formare una sfera intermedia, quella

del sociale. E’ il momento in cui la tutela degli interessi

privati assume rilevanza pubblica, nonché quello della

consacrazione del concetto di libertà negativa, tipica della

modernità, così come teorizzato da Benjamin Constant: la sfera

pubblica non è il regno della libertà, ma rappresenta

64 Ad esempio in H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 23: «[…] la libertà risiedeesclusivamente nella sfera politica, mentre la necessità è soprattutto unfenomeno prepolitico, caratteristico dell’organizzazione domestica privata,[…]».

39

semplicemente l’autorità dello Stato, il cui compito principale

consiste nel tutelare i cittadini preservandoli da vincoli di

natura politica ed economica, che impediscono la realizzazione

degli interessi privati. Il risultato è che la vita privata

diventa ora il regno della libertà, in cui si gode di fatto dei

vantaggi del laissez faire, mentre la vita pubblica diviene il regno

della necessità: in questo stravolgimento degli equilibri tra

privato e pubblico si rispecchia quello tra pensiero e azione.

Infatti, è proprio durante l’età moderna che ha maggior corso

l’immagine del pensatore rinchiuso nella sua torre d’avorio,

lontano dalle faccende umane: egli si è rifugiato nella propria

vita privata per garantirsi la massima libertà di pensiero, in

assenza di uno spazio pubblico che, come nella città-stato greca,

sia dominio di libertà autentica.

Tuttavia, una sfera privata vista come mero dominio dei propri

interessi particolari, che ci allontanano dalla cura della cosa

pubblica e ci costringono a un meschino individualismo, sarebbe

decisamente parziale. Ci sono, infatti, due principali «tratti

non-privativi della privacy»65 che dimostrano quanto essa sia

essenziale per la condizione umana, e quanto sarebbe catastrofica

la sua soppressione:

Il primo è l’idea, di origine aristotelica, che uno dei principali

moventi delle azioni umane sono gli affetti e gli interessi

personali, che hanno sede nella comunità familiare: privati di

queste componenti, gli uomini saranno privati di un importante

motivazione ad agire.

65 H. Arendt, Vita Activa, cit., pag, 51.40

In secondo luogo, la privacy è un momento fondamentale di rifugio e

protezione dalla continua esposizione agli occhi degli altri,

giacché «una vita spesa interamente in pubblico, alla presenza

degli altri, diventa, per così dire, superficiale»66.

La rinuncia alla dimensione del privato sarebbe drammatica, poiché

dalla sue ceneri sorgerebbe uno spettro che la Arendt ben

conosceva: quello del totalitarismo. Nello stato totale, tutto è

reso comune. In questo senso, si può rivolgere una critica di

stampo popperiano alla repubblica platonica, in cui lo stato è

simile ad una famiglia estesa, e poggia su un presupposto in cui

anche lo stato totale affonda le sue radici, cioè la

pubblicizzazione del privato, giacché ogni dimensione

dell’esistenza dei consociati deve essere sottoposta al vaglio

pervasivo dell’autorità pubblica, il quale, nello stato

totalitario, si avvale di una potente burocrazia.

Tuttavia, il totalitarismo possiede modi sottili di

ripresentarsi, almeno in alcuni suoi aspetti, anche dopo la fine

dell’epoca in cui ha avuto maggior corso. La società di massa è

uno di questi. I risvolti drammatici della perdita della privacy e

della crisi della vita pubblica come dominio della libertà

autentica sono affrontati in alcune pagine de L’uomo è antiquato,

l’opera che ha consacrato Günther Anders come uno dei più acuti

critici della società di massa. Nel capitolo intitolato “Il

privato”, l’annientamento della sfera privata viene prospettato

primariamente come una sostanziale eliminazione di tutti i confini

geografici e spaziali, giacché i mass-media, diffondendo immagini e

suoni in tempo reale, portano gli oggetti e gli eventi del mondo

66 Ibid., pag. 52.41

direttamente nelle case. Tuttavia, ciò che giunge a invadere la

sfera privata non è che un’immagine delle cose del mondo,

nient’altro che un «fantasma di mondo»67. La violazione del privato

è manifesta nei palinsesti televisivi, in cui la vita privata

delle persone viene trasmessa in migliaia di case

contemporaneamente, in un tipo di programma che oggi chiameremmo

reality show: in questa formula si riflette l’illusione che ciò che ci

viene presentato davanti sia davvero la realtà, e non una finzione

edulcorata a beneficio delle telecamere. Dunque, da una parte la

“vita vera” presentata in televisione è fabbricata appositamente

allo scopo di dare un’illusione di realtà; d’ altro canto, le vere

emozioni diventano teatrali, da true stories diventano solo stories, in

una veste più appetibile per i telespettatori avidi di racconti.

Secondo Anders, si tratta proprio di “dare in pasto” le storie

allo spettatore, giacché egli non è che un «cannibale di fantasmi, che

divora le immagini dei suoi simili caduti nella trappola della

macchina da ripresa»68. Ad ogni modo, il ruolo dello spettatore non

è solo quello di “nutrirsi” passivamente di immagini, poiché

anch’egli è una potenziale vittima di questo processo di svendita

del privato al pubblico: nella società di massa, si è tutti sotto

gli occhi vigili delle telecamere, e le true stories della nostra vita

potrebbero a loro volta essere trasformate in stories, pronte per

andare in onda.

Il furto della privacy, nelle sue molteplici e subdole

modalità, passa anche attraverso il furto delle immagini. Le

immagini non sono che una copia dei loro “originali” umani, ed

67 G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzioneindustriale, cit., pag. 193.68 Ibid., pag. 195.

42

erroneamente si ritiene che il furto delle immagini sia innocuo,

giacché le cose del mondo che vi sono rappresentate non sono per

nulla influenzate dal furto. Anders critica quest’opinione

diffusa, argomentando che gli oggetti fotografati sono influenzati

dalla loro «disponibilità alla riproduzione»69, che li snatura e li

trasforma: per questo motivo, più grave è quando gli oggetti

riprodotti non sono cose, ma sono parti di noi, immagini della

nostra vita o registrazioni dei nostri discorsi, che sono

conservate in hard copy, cioè in forma durevole di oggetto. Chi ruba

queste riproduzioni ci possiede effettivamente, ci ha in pugno. In

effetti, in questo caso l’argomentazione di Anders sembra debole:

non si spiega il motivo per cui nel caso di immagini ricevute si

tratta di fantasmi, mentre le immagini offerte rappresentano un

vero e proprio furto della persona: è forse indice del fatto che

la propria privacy è sempre più importante di quella altrui? Ad ogni

modo, Anders prosegue con il sottolineare come tutti, in

definitiva, siamo continuamente esposti al furto di immagini e di

suoni che attentano alla nostra sfera privata, e che queste

dinamiche hanno creato un nuovo profilo di criminale: il ladro di

immagini, una figura atipica di colpevole contro la proprietà, che

rappresenta la dimensione costitutiva per eccellenza della sfera

privata. Ad un nuovo colpevole si accompagna una nuova fattispecie

di reato, che ci espone ad un nuovo pericolo, «quello di venir

derubati della nostra apparenza e dei nostri discorsi»70. Il reato

di «iconocleptomania» ha un impatto enorme anche sui comportamenti

comuni, perché detta la smania di strappare una riproduzione agli

oggetti del mondo (ad esempio, una fotografia) e considerarla come

69 Ibid., pag. 196.70 Ibid., pag. 196.

43

propria, senza la consapevolezza di rubare – giacché,

apparentemente, la vittima non subisce alcun danno e non sembra

avere una nozione della perdita subita. Inoltre, Anders afferma,

in modo particolarmente tagliente, che «gli apparecchi

d’intercettazione sono totalitari»71, poiché consegnano la sfera

privata dell’individuo all’autorità pubblica, in un contesto in

cui ogni singolo atto compiuto deve essere vagliato dall’occhio

del potere: la dimensione privata dell’individuo deve essere

totalmente disponibile alla consegna alla sfera pubblica. Infatti,

un sistema così pervasivo pretende che nessuno abbia nulla da

nascondere, nemmeno ciò che per sua natura deve essere nascosto.

Si potrebbe dire che il totalitarismo politico affonda le proprie

radici in un moralismo rigido, secondo cui rivendicare la propria

privacy non sarebbe che il pretesto per indulgere in comportamenti

proibiti: “privato” diventa così sinonimo di segretezza e peccato,

piuttosto che di riservatezza e dignità. Un esempio dalla

letteratura distopica: Winston Smith, il protagonista di 1984, vive

in un mondo suddiviso in tre grandi Stati totalitari in perpetua

lotta tra loro. Questo stato di guerra continua si riflette in una

propaganda invasiva e martellante. In un mondo in cui slogan come

“Il Grande Fratello vi guarda!” sono ossessivamente ripetuti, la

sua lotta per conservare la propria dignità e umanità non può che

cominciare proprio con una rivendicazione della propria sfera

privata: essa si riduce a un punto cieco che sfugge all’occhio

sempre vigile della telecamera che, per legge, gli è stata

installata in casa. Lì comincia a scrivere quel diario che

rappresenterà l’inizio della sua ribellione.

71 Ibid., pag. 198.44

Una facile obiezione all’uso “totalitario” degli apparecchi di

ripresa e registrazione potrebbe essere che, per l’appunto,

“totalitario” sarebbe solo l’uso, e non lo strumento in sé.

Anders, anticipando tale obiezione, ribatte che questo genere di

apparecchi sono stati costruiti con una specifica funzione, e non

certo per restare inutilizzati; perciò, si può dire che ogni

apparecchio è già il suo stesso uso: essi contribuiscono a farci

pervenire gli oggetti del mondo in forma fantomatica e privata di

realtà, e si potrebbe addirittura affermare che il loro scopo

intrinseco consista nella violazione della sfera privata degli

individui. Rendendo pubblico ciò che è privato, essi cancellano il

principio ontologico dell’individuazione: il singolo individuo,

non avendo più nulla di privato da preservare, non è più

roccaforte d’identità, che rivendica lo status di discretum separato

dagli altri. Tale «riserva» irraggiungibile e incontrollabile dal

potere pubblico si configura come elemento di eccentricità che

necessita di essere normalizzata attraverso una conquista forzata

da parte dello stato totale72. Infine, Anders si pone una domanda

sulla falsariga del platonico “Chi custodisce i custodi?”, e cioè

evidenzia il fatto che l’attività del controllare, lecita e anzi

doverosa da parte dell’autorità pubblica, non sia tuttavia, a

propria volta, sottoposta ad alcun controllo. La risposta sarebbe

forse che ciò avviene perché i consociati stessi non ostacolano

l’attività dell’autorità, perché non ne percepiscono il pericolo e

non sentono la necessità di porvi un freno. Al contrario, se da

una parte il potere pubblico invade il privato con «sfrontatezza»

nel pretendere, dall’altra l’individuo l’asseconda con una

72 Ibid., pag. 201.45

propensione alla «spudoratezza» nel concedere73, mettendosi egli

stesso a disposizione dell’autorità, per dimostrare che non ha

nulla da nascondere: da una parte vi è un pubblico-spia, e

dall’altra un privato esibizionista. È inevitabile, a questo

punto, pensare che Anders avrebbe forse potuto arricchire la sua

analisi di molti più particolari se fosse vissuto al tempo dei

social network.

In definitiva, anche se la vita pubblica rappresenta la

massima espressione dell’identità degli uomini come “animali

politici”, ciò non vuol dire che sia l’unica dimensione degna di

attenzione e di analisi. Hannah Arendt, ad esempio, fu

personalmente molto attenta a distinguere la dimensione privata

dalla vita pubblica, e (con buona pace dei giornalisti prima, e

dei biografi poi) si adoperò costantemente affinché i due momenti

restassero sempre separati – anche se, per le conseguenze

derivanti dalla popolarità, non sempre con successo. Così ella

scrive, con risentimento, a Karl Jaspers nel 1951: «Le ho già

scritto che una settimana fa sono diventata una cover girl, e che mi è

toccato di guardare me stessa in tutti i chioschi di giornali?»74.

Ad ogni modo, sia Hannah Arendt sia Günther Anders, condivisero la

consapevolezza che all’eliminazione della sfera privata

corrisponde il pericolo del totalitarismo, una realtà con cui

entrambi sono stati costretti a confrontarsi nelle rispettive

vite, e che non poteva non riflettersi nel lavoro filosofico. Il

totalitarismo, anche nella sua subdola versione contemporanea,

cioè la società di massa, comporta la pericolosa scomparsa della

privacy, lasciando allo scoperto, esposto all’occhio pubblico, anche

73 Ibid., pag. 218.74 E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, cit., pag. 10.

46

quanto dovrebbe restare nascosto: la sfera dell’intimità è dunque

irreparabilmente violata. In questo caso, l’individuo non ha

alcuna libertà di agire – non ha lo spazio istituzionale per farlo

–, bensì viene risucchiato dal continuo, cieco meccanismo di

produzione e consumo, nel trionfo dell’animal laborans. Tornando alla

distopia orwelliana, le riflessioni di Winston sono

esemplificative di questo concetto:

«Lo colpì il pensiero che nei momenti di crisi non si combatte tanto

con un nemico esterno, quanto con il proprio corpo. […] A quanto

pare, pensò, la stessa cosa accade in tutte le situazioni eroiche o

tragiche. Sul campo di battaglia, nella camera della tortura, su una

nave che sta per colare a picco, i motivi per cui state combattendo

sono sempre dimenticati, perché il corpo si dilata a riempire di sé

il mondo intero, e perfino quando siete paralizzati dalla paura o

urlate per il dolore, la vita è una diuturna lotta contro la fame o

il freddo, contro la mancanza di sonno, contro l’acidità di stomaco

o il mal di denti»75.

Nel totalitarismo dipinto da Orwell, gli individui, ridotti alla

mera dimensione fisica e privati di un’autentica vita interiore,

hanno il solo scopo di mantenersi vivi: in un panorama di

desolazione e grigiore, sono tutti soli con il proprio corpo.

Anche gli individui che costituiscono la società di massa sono

annichiliti e omologati, e la ricchezza della diversità e della

pluralità, così come si esprimerebbero in un autentico spazio

pubblico, è brutalmente appiattita. Ecco come Anders, una volta di

più, descrive i risvolti conformistici della società di massa:

75 G. Orwell, 1984, Mondadori, Milano 2009, pag. 107 (I ed. 1950), trad. it. di S. Manferlotti, Londra 1949.

47

«La morbidezza del tipo di totalitarismo chiamato “conformismo” non

è affatto un segno di umanità. Se siamo trattati con mitezza, questo

è dunque un segno della nostra sconfitta. […] Il conformismo non è

sanguinario soltanto perché ci ha già inghiottiti; perché ormai può risparmiarsi di

fare i conti con il sorgere di quella opposizione per la cui

liquidazione il totalitarismo di ieri aveva bisogno o credeva di

avere bisogno del terrore. Il conformismo è mite perché può

permettersi di rinunciare alla minaccia e allo spargimento di

sangue».76

Il quadro evocato è lo stesso di quell’immagine tocquevilliana di

un dispotismo pervasivo ma mite, che non raccoglie consensi con le

minacce e col terrore, bensì con rassicuranti strumenti di

persuasione77: in tal modo, si genera una società di uomini «chiusi

nella solitudine del proprio cuore»78, per cui l’unica “terapia”

sarebbe la partecipazione alla vita pubblica.

La dicotomia privato/pubblico non sembra dunque essere

caratterizzata da quella netta scissione rilevata all’inizio di

questo capitolo. In definitiva, essa si risolve considerando che

entrambe le dimensioni sono ugualmente imprescindibili. La sfera

pubblica rappresenta il regno della libertà ed è lo spazio in cui

ogni individuo ha l’occasione di esprimere la propria unicità. La

sfera privata, d’altro canto, in quanto presupposto della libertà

di cui l’individuo gode in pubblico, non si può elidere; se ciò

accade è perché manca a sua volta uno spazio pubblico autentico.76 G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzioneindustriale, cit., pag. 249.77 Per una recentissima analisi sul concetto di “totalitarismo morbido” inAnders, si rimanda a R. Martinelli, Totalitarismo morbido in Günther Anders, in«Montesquieu e dintorni», (2014) n°6. Disponibile su:http://www.montesquieu.it/biblioteca/Testi/Totalitarismo_morbido.pdf78A. De Tocqueville, La democrazia in America, trad. it. Rizzoli, Milano 1999, pag.200, in S. Petrucciani, Modelli di filosofia politica, cit., pag. 141.

48

Queste due dimensioni sono quindi interdipendenti: la

rivendicazione della libertà, caratteristica dello spazio

pubblico, parte della riappropriazione di uno spazio di privacy;

allo stesso modo, una vita condotta esclusivamente in privato

sarebbe indice di mero individualismo, se non è affiancata da una

partecipazione alla vita pubblica che sia momento di espressione

di autentica libertà.

49

50

4. TERZA DICOTOMIA: APPARTENENZA/SRADICAMENTO.

«Per l’uomo, benché assuma una sua forma,patria e felicità son cose vane,

sempre è in cammino ed ospite di norma,sede non ha, per lui non cresce pane.»

H. Hesse, “Lamento”, in “Il Giuoco delle perle di vetro”

Un concetto centrale nella vita e nel pensiero di Hannah

Arendt è quello di “Heimat”, la “patria”, quella patria che era

stata costretta ad abbandonare a 26 anni, dopo l’episodio

eclatante dell’incendio del Reichstag il 27 febbraio 1933. Nel

corso della sua esistenza travagliata e i suoi spostamenti tra

l’Europa e gli Stati Uniti, infatti, ella non ha mai rinunciato al

legame con le proprie origini, il quale si manifestava nell’uso

della lingua madre (Muttersprache), soprattutto nelle lettere

private, unico contatto con gli amici di lingua tedesca sparsi per

il mondo per sfuggire alle persecuzioni. L’idea di appartenenza,

dunque, non tanto a un luogo, quanto a una cultura e ad un

universo di pensiero, è dominante nei suoi scritti, come si nota

nel continuo riferimento al mondo della polis, visto non come un

paradigma astratto, ma come un universo vivente che era stato la

culla del pensiero politico occidentale, e di cui lei stessa si

sentiva erede. Dimenticare la propria lingua madre, dunque,

sarebbe stato segno di passiva volontà di assimilazione e di una

sorta di rimozione culturale delle proprie radici: questo era, a

suo giudizio, l’atteggiamento tipico del parvenu, il quale si culla

nel sogno dell’assimilazione, ma, nutrendosi dell’illusione di

essere perfettamente integrato nel contesto sociale che

l’accoglie, perde ogni autonomia, e si sente continuamente

obbligato ad «attenersi anche esteriormente a quella classe di cui

51

si vorrebbe comunque assimilare il comportamento, le idee, la

cultura, le considerazioni»79. Ne Le origini del totalitarismo, la Arendt

descrive eloquentemente una tale figura:

«Il filisteo […] era il borghese isolato dalla propria classe,

l’individuo atomizzato sorto dallo sfacelo di questa […]. Era il

borghesuccio gretto che in mezzo alle rovine del suo mondo aveva a

cuore soltanto la sicurezza personale ed era pronto a sacrificare

ogni cosa – fede, onore e dignità – al minimo pericolo».80

Nella conversazione con Günther Gaus, la Arendt afferma, in

modo sorprendente e un po’ enigmatico, di non essersi mai sentita

tedesca, nel senso della nazionalità e al di là cittadinanza81:

d’altronde, l’appartenenza a un popolo, che è, si potrebbe dire,

un sentimento, non coincide con la cittadinanza, che è uno status

giuridico. Senza dubbio, il legame di Hannah Arendt con le proprie

origini testimonia l’importanza che la cittadinanza tedesca così

intesa ha rivestito nella sua vita: essa era di certo un bene

apprezzato da chi, come lei, per diciotto anni, dal 1933 al 1951,

fu privata dei diritti politici e perciò visse da apolide. Ciò non

toglie che, nel caso di Hannah Arendt, la dimensione “affettiva” e

quella giuridica dell’appartenenza non coincidono: il suo universo

di pensiero non poteva che essere quello ebraico, che le aveva

permesso di acquisire un punto di vista atipico sul mondo, quello

del pariah: solo il pariah, nella piena consapevolezza

dell’impossibilità della propria integrazione in una cultura

dominante, può davvero maturare una coscienza politica e affermare79 H. Arendt, Rahel Varnhagen. Storia di un’ebrea, Il Saggiatore, Milano 1986, pag. 228,in Z. Bauman, Il disagio della post-modernità, Bruno Mondadori, Milano 2002, pag. 80,trad. it. di V. Verdiani, Varsavia 2000.80 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Comunità, Milano 1967, pag. 469 (ed. or. NewYork 1951) cit. in E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, cit., pag. 260.81 H. Arendt, G. Gaus, Che cosa resta? Resta la lingua materna, cit., pag. 17.

52

così la propria identità culturale. Il concetto di appartenenza al

popolo ebraico non è per niente scontato e si sviluppa in Arendt

in modo complesso e articolato:

«Nella mia vita non ho mai “amato” nessun popolo o collettività – né

il popolo tedesco, né quello francese, né quello americano, né la

classe operaia, né nulla di questo genere. Io amo “solo” i miei

amici e la sola specie d’amore che conosco e in cui credo è l’amore

per le persone. In secondo luogo, questo “amore per gli ebrei” mi

sembrerebbe, essendo io stessa ebrea qualcosa di molto sospetto»82.

In questa affermazione è contenuta una chiara presa di distanza

nei confronti di ogni patriottismo cieco e, ancor più, fanatico,

giacché «quando l’amore viene mescolato all’azione, per esprimermi

grossolanamente, ritengo sia qualcosa di disastroso»83.

“Appartenenza”, dunque, per la Arendt vuol dire sentirsi parte di

una cerchia di persone che condividono un medesimo punto di vista,

come era la cerchia degli apolidi che frequentava negli anni di

Parigi insieme al secondo marito Heinrich Blücher. Il rifiuto di

perdere la lingua madre ha rappresentato per la Arendt l’ultima

speranza di non perdere il contatto con le proprie radici e con

ciò che di positivo esso evoca84, indipendentemente dal

coinvolgimento nelle fosche vicende politiche della Germania a

partire dagli anni di crisi della Repubblica di Weimar.

82 H. Arendt, “Eichmann a Gerusalemme”. Uno scambio di lettere tra Gershom Scholem e HannahArendt, in Ebraismo e modernità, a cura di G. Bettini, Unicopli, Milano 1986, pag.221 in H. Arendt, G. Gaus, Che cosa resta? Resta la lingua materna, cit., pag. 25.83 Ibid., pag. 25.84 «Germania vuol dire per me lingua madre, filosofia e poesia. Di tali realtàposso e devo farmi garante», Arendt a Jaspers, 1 gennaio 1933, Marbach (ed. or.Briefwechsel 1926-1969, Piper, Monaco 1985, trad. it. Carteggio, Feltrinelli, Milano1989), cit. in E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, cit., pag. 136.

53

Sia in Anders che in Arendt si rinviene un’ammissione di

debito nei confronti della lingua tedesca85, e un riconoscimento in

essa delle proprie radici. Il loro atteggiamento nei confronti

della lingua inglese presenta invece una sostanziale diversità.

Anders fa ampio uso delle espressioni inglesi, anche

nell’epistolario, intersecandole con il tedesco86. Anche Hannah

Arendt talvolta adopera delle espressioni in inglese nelle

lettere, come a volte fanno le persone bilingui che scoprono le

risorse linguistiche di un altro idioma, quando la propria lingua

madre non sa esprimere altrettanto bene lo stesso concetto.

Tuttavia, in generale, la sua prosa nella lingua acquisita rimase

sempre difettosa, tanto che per le edizioni in inglese delle sue

opere era solita avvalersi dell’aiuto dal poeta Randall Jarrell,

il cui compito era di «anglicizzare» il testo, e “ripulirlo” da

forzature e improprietà, retaggio della sintassi tedesca87. Nella

lingua parlata, questo retaggio era ancor più evidente. Forse

anche a causa di quell’ostinato legame affettivo con la lingua

85 Per Anders, cfr. infra pag. 44.86 Ovviamente non farò una rassegna di tutti i luoghi in cui questo accade. Nescelgo uno: «Sarebbe unfair affermare…», G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzionedella vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, cit., pag. 208. Allo stesso modo, inuna lettera alla Arendt: «As to me: vorrei semplicemente rivederti», Anders adArendt, lettera del 23 novembre 1955, p.1 HAZ cont. 14.7, n. 009955 in C. Dries,Günther Anders e Hannah Arendt. Schizzo di una relazione, cit., pag. XXXVI.87 E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, cit., pag. 228.

54

madre, non riuscì mai a parlare un inglese fluente e senza

accento88, o per dirla con le sue parole, «in modo idiomatico»89.

Sono state dunque la lingua tedesca e le persone a lei vicine

che persistevano a parlarla a costituire il fil rouge della vita di

Hannah Arendt. Ciò non significa che, nel suo percorso

esistenziale, da Hannover a New York, ella non abbia mai dovuto

lottare per trovare quella serenità così difficile da raggiungere

per chi vive la vita precaria dell’esiliato90. Per qualche tempo,

ella avrebbe rinvenuto proprio nell’unione con Anders un certo

senso di appartenenza: in questi termini ne parlava ad Heidegger

in una lettera, accennando a come un tale sentimento, peraltro

dichiaratamente fuori dall’ambito di comprensione dell’antico

88 Proprio per la non facile comprensione del suo eloquio, i documentimultimediali in cui si può ascoltare Hannah Arendt parlare in inglese sonodifficilmente reperibili. Tuttavia, tra le risorse disponibili su YouTube sinotino Hannah Arendt. Ein Portrait (https://www.youtube.com/watch?v=3XSaoBgqDMI), in

cui la si può ascoltare per i primi secondi del video, e Êdoctum: Hannah Arendt,"Une certain regard" 1973 (https://www.youtube.com/watch?v=CrJulvOTpy4),un’intervista in cui alla voce della Arendt si sovrappone l’audio dellatraduzione in francese. Sento di non poter fare a meno di notare, inoltre, uncerto orgoglio della Arendt in questo suo rifiuto di imparare a parlarefluentemente in inglese, come se ciò comportasse una rinuncia a quel legameesclusivo con la lingua madre, e con l’insieme dei valori che essa portava consé.89 H. Arendt, G. Gaus, Che cosa resta? Resta la lingua materna, cit., pag. 22.90 La psicanalista e filosofa Julia Kristeva, nella sua monografia dedicata adHannah Arendt (Hannah Arendt. La vita le parole, ed. or. Fayard, Parigi 1999, trad. it.di M. Guerra, Donzelli Editore, Roma 2005) ha ipotizzato che le “ferite diguerra” riportate dalla Arendt in questa sua odissea biografica edintellettuale, possano aver lasciato tracce anche nel suo aspetto fisico, cometestimoniato dalle fotografie che segnano un percorso che va «from the girlish“seductress” of the nineteen-twenties, gazing poetically at the camera, to theconfident intellectual of the fifties, whose “femininity… beats a retreat” asher face becomes “a caricature of the… battle scars” received during her publiccareer». Cit. in Adam Kirsch, Beware of Pity. Hannah Arendt and the power of the impersonal,dall’archivio online del «New Yorker», 12 gennaio 2009.Disponibile su: http://www.newyorker.com/arts/critics/atlarge/2009/01/12/090112crat_atlarge_kirsch?currentPage=all.

55

maestro ed amante, alleviasse la sua inquietudine91. Dopo

l’ufficializzazione del divorzio nel 1938, la Arendt avrebbe

trovato un ulteriore approdo a quella sua personale ricerca, al

tempo stesso sentimentale e identitaria, ancora una volta in

ambito culturale tedesco, solo nel matrimonio con Heinrich

Blücher, professore autodidatta, socratica figura (definizione a

proposito di lui ricorrente) incontrata nel 1936 a Parigi92:

«Mi sembra ancora incredibile che io sia stata in grado di ottenere

entrambe le cose: il “grande amore” e l’identità con la propria

persona. E ne ho uno solo se ho anche l’altra. Ora però so alla fine

ciò che realmente è la felicità»93.

Tale felicità non fu invece mai conosciuta da Anders, il

teorico dell’«uomo senza mondo». Nel capitolo precedente, abbiamo

sottolineato come l’annientamento della sfera privata avvenisse ai

suoi occhi attraverso il trasferimento di oggetti o eventi del

mondo nelle case di estranei, tramite l’uso dei mass-media, al

punto da eliminare ogni confine, sia ideale che geografico. Il

risultato era che i confini del mondo si erano andati praticamente

91 «[…] non dimenticarmi, e non dimenticare quanto sia forte e profonda in me laconsapevolezza che il nostro amore è diventato la benedizione della mia vita.Questa consapevolezza non deve vacillare, neppure oggi, quando ho trovato delleradici e un senso di appartenenza che allevia la mia inquietudine accanto a unuomo, che ben difficilmente potresti comprendere», Arendt-Heidegger, Lettere 1925-1975 e altre testimonianze, Edizioni di Comunità, Torino 2001, pag. 48, in C. Dries,Günther Anders e Hannah Arendt. Schizzo di una relazione, cit., pag. X.92 La fama di Heinrich Blücher come «uomo socratico» si consolidò nel suo periododi insegnamento al Bard College di New York (1952-1969), in cui delineò unostile d’insegnamento informale ed eccentrico: egli era ammirato dai suoistudenti al punto tale che attorno a lui si creò un vero e proprio culto (cfr.E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, cit., pag. 313). Per unapprofondimento sulla figura di Heinrich Blücher, si rimanda a W. Heuer, HannahArendt and her Socrates: Heinrich Blücher, dall’Archivio Blücher online, disponibile su:http://www.bard.edu/bluecher/rel_misc/heuer.pdf.93 Arendt-Blücher, Briefe 1936-1968, Beck, Monaco 1996, pag. 83, trad. it. di S.Bertolini, in C. Dries, Günther Anders e Hannah Arendt. Schizzo di una relazione, cit., pag.XXVI.

56

annullando e che ogni uomo risultava ormai «tanto un abitante

della terra quanto lo è del suo paese»94. Abbiamo la possibilità di

raggiungere con la voce o con le immagini qualsiasi parte del

globo in tempo reale, e se questo da una parte è un chiaro

vantaggio, un segno del progresso che dà all’uomo un senso di

potere e di conquista, dall’altra provoca un senso di smarrimento:

spinta fino alle estreme conseguenze, quest’illusione di dominio

sullo spazio e sul tempo ha portato l’uomo, soprattutto da quando

ha realizzato prima il sogno di volare e poi quello di visitare lo

spazio, a staccarsi dalla superficie della Terra, il suo ambiente

naturale. Oltre a smarrire il senso di radicamento alla terra, cioè

al proprio paese d’origine, si è perso anche quello alla Terra,

cioè al pianeta stesso. La denuncia di Günther Anders riguardava

in particolare quello da lui ribattezzato come l’«Olocausto

atomico», la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki. Gli

esperimenti nucleari, infatti, avevano ai suoi occhi reso il mondo

nella sua interezza una sorta di laboratorio a larga scala, e le

nubi radioattive o le precipitazioni tossiche che ne sarebbero

derivate non avrebbero certo fatto, per loro stessa natura,

distinzioni di frontiere e confini95. L’Olocausto atomico

rappresenta una svolta nel pensiero di Anders, tanto che, oltre

all’ipotesi di un «uomo senza mondo», si affaccia anche quella di

un «mondo senza uomo». È a partire da questi anni che un’intensa

attività pubblicistica contro gli armamenti nucleari lo avrebbe

reso un pensatore particolarmente caro al fronte dei pacifisti, in

numerosi paesi.

94 H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 184.95 G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, cit., pag. 191.

57

«L’uomo senza mondo era originariamente il protagonista negativo di

ogni discorso sull’estraniazione all’interno di una società di

classe […] L’uomo senza mondo era cioè l’uomo senza una propria

storia, quell’individuo che la privazione di proprietà e di

appartenenza condannava a essere soltanto co-storico, attore

marginale perché emarginato. Con l’irrompere della possibilità reale

di un mondo senza uomo lo scenario appare ora decisamente cambiato:

emarginazione e marginalità diventano il comune denominatore di

qualsiasi ontologia sociale e ogni ontologia sociale diventa una

ontologia negativa».96

Ad ogni modo, qui ci occuperemo soprattutto del tema

dell’«uomo senza mondo» e di come questo si riflette nelle vicende

personali di Günther Anders. Nel breve capitolo de L’uomo è antiquato

intitolato «La frontiera», Anders porta alcuni esempi – del tipo

che oggi farebbero venire in mente la parola “globalizzazione” – a

sottolineare il fatto che la scomparsa delle frontiere rappresenta

un evento di rilevanza economica, prima che politica. Le frontiere

politiche appaiono spesso violate dalla velocità con cui certi

status symbol dilagavano e esercitavano la propria influenza: ad

esempio, il “sogno americano” si rifetteva anche

nell’immaginazione dei ragazzi della Germania dell’Est, che

indossavano i blue jeans e le magliette delle università

d’oltreoceano. Anders risultava del tutto consapevole di tale

realtà psicologica e sociale: «[…] fatto sta che nell’èra

elettronica, al concetto di “frontiera” non corrisponde quasi più

nulla. Già quando fu costruito, il muro di Berlino era la

costruzione più obsoleta del secolo XX»97. Un ulteriore esempio,

96 P.P. Portinaro, Il principio disperazione., cit., pag. 46.97 G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzioneindustriale, cit., pag. 192.

58

invece, evidenzia la reazione di alcuni gruppi umani alla

scomparsa delle frontiere: la tendenza a difendere a tutti i costi

la propria identità culturale attraverso una glorificazione del

dialetto e del folklore e una conseguente demonizzazione del

“diverso”: atteggiamento definito da Anders come una “moda

assurda”. Assurda perché in sterile opposizione allo spirito dei

tempi: un tale “elogio del limitato” non può che restare

incomprensibile a chiunque si collochi al di fuori di quello

specifico gruppo umano, privo di un reale desiderio di

comunicazione con l’esterno: tale esigenza di autoconservazione è

destinata a trasformarsi in un fanatismo ottuso e reazionario.

Il vagabondaggio che gli era stato imposto dalle vicende

politiche della Germania negli anni del nazismo ha avuto un

comprensibile impatto su Anders. Egli lo avrebbe affrontato in un

modo diverso rispetto a quello coraggioso e appassionato della

Arendt – atteggiamento che lei stessa chiamava amor mundi98: anche

Anders emigrerà negli Stati Uniti, dove continuerà l’attività di

giornalista intrapresa a Berlino (grazie alle referenze offerte da

Bertolt Brecht) sulle pagine del «Börsen-Courier», in cui dirigeva

la rubrica che l’aveva visto per la prima volta adottare il suo

pseudonimo99. Ma al contrario della Arendt, ormai ben installata

nell’ambiente accademico newyorkese, egli nel 1950 avrebbe colto

la possibilità di tornare in Europa. «America can break your heart»,

recita un verso di W. H. Auden: il “sogno americano” si era ormai

infranto. La decisione di Anders si fondò su una disillusione

verso gli ideali di pace e libertà incarnati dagli Stati Uniti

d’America, che egli giudicava traditi dall’«Olocausto atomico» del

98 E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, cit., pag. 18.99 E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, cit., pag. 114.

59

1945, come ha confermato in seguito l’intervento statunitense in

Vietnam a partire dal 1964. Quest’ultimo evento, che avrebbe

scatenato le reazioni del movimento pacifista internazionale, non

poteva non vedere partecipe proprio colui che, tramite l’attività

giornalistica, si era schierato in prima linea contro gli armamenti

atomici, nelle forme di un pensiero asistematico e di una

«filosofia d’occasione», che sempre più contraddistinguono la sua

attività di intellettuale e militante100.

È importante notare che, tornato in Europa, se solo l’avesse

desiderato, Anders avrebbe potuto trasferirsi a Berlino, o a

Marburgo, dove aveva studiato, o nella nativa Breslavia, ma scelse

di andare a vivere a Vienna. Né, dunque, nella patria acquisita né

nella patria di nascita101, ma nella città natale della sua seconda

moglie, la scrittrice Elizabeth Freundlich: lontano dai luoghi che

erano per lui luoghi del ricordo. I motivi profondi di questa

scelta sono sintetizzati da Christian Dries, uno tra i principali

studiosi dell’opera andersiana, in un passo di una corposa e

fondamentale introduzione a uno scritto di Anders pubblicato

recentemente, dall’evocativo titolo La battaglia delle ciliegie102. Dries, a

proposito dell’insuperabilità della condizione di estraneo nel

mondo provata da Anders, scrive:100 M. Latini, Il viaggio di Günther Anders, pag. 143, introd. a G. Anders, Senza radici,cit. Anche Hannah Arendt fu tra gli intellettuali che si schierarono condecisione contro l’intervento in Vietnam: a tal proposito si veda E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, cit., pagg. 433-436.101 «Una zona che non fosse né qui né là», per dirla con le parole di Andersstesso. Günther Anders antwortet. Interviews & Erklärungen, a cura di E. Schubert, Tiamat,Berlin 1987, pag. 41, in C. Dries, Günther Anders e Hannah Arendt. Schizzo di una relazione, cit.,pag. XXXV.102 La ragione del titolo è la seguente: tra il 1929 e il 1930, la coppia risiedepresso una modesta abitazione a Drewitz. Tutta l’opera consiste nellarievocazione di alcuni dialoghi filosofici che avvenivano sul balcone di quellacasa, dove i due sedevano, discutendo e snocciolando ciliegie per farnemarmellata (cfr. La battaglia delle ciliegie, cit., pag. 10).

60

«Secondo Günther Anders l’uomo, fondamentalmente “estraneo al

mondo”, non di casa sulla terra fin dalla nascita, deve innanzitutto

crearsi su misura degli ambienti idonei e ne deve sempre riprendere

le misure. Egli caratterizza la situazione specifica dell’uomo nel

mondo dal punto di vista teorico e distaccandosi da Heidegger come

un “esserci a distanza”, come un “distanziarsi dall’uomo dal mondo

nel mondo”. L’esistenza umana non è quindi per Anders, come invece

in Heidegger, determinata dal suo essere-nel-mondo, ma dalla sua

posizione eccentrica […], dal suo non-esserci-ovviamente, dalla sua

distanza e dal suo essere separato dal mondo; in breve: dalla sua

estraneità al mondo»103.

Senz’altro, si può supporre che di questa «estraneità al mondo»

Anders avrebbe sofferto se fosse tornato sui luoghi del suo

passato, in una Germania ormai profondamente mutata per via della

frattura tra la Repubblica Federale e la Repubblica Democratica.

In via congetturale, si potrebbe pensare che la scelta di Anders

di tornare in Germania avrebbe comportato una necessità di

misurarsi con questi cambiamenti, e l’inevitabilità di uno

schieramento politico a favore dell’una o dell’altra parte, il che

non sarebbe stato coerente con la sua volontà di mantenere sempre

la propria autonomia rispetto ad ogni fazione politica.

Anders occupava di certo una posizione eccentrica, di cui

forse, in alcune occasioni, non ha mancato di farsi vanto,

soprattutto in relazione al suo essere lontano da ogni accademia e

schieramento politico: ma ciò non gli ha impedito di conquistarsi,

anche se non senza difficoltà, un ambiente idoneo al pensiero e

all’azione, sia pure al prezzo di accettare qualunque lavoro,

anche saltuario o umile, per sopravvivere in quelle circostanze

103 C. Dries, Günther Anders e Hannah Arendt. Schizzo di una relazione, cit., pag. LIII.61

difficili. A buon diritto, in una delle sue pagine

autobiografiche, scrive di non poter parlare di una sola vita, ma

di molte vitae104. Persino la banale stesura di un curriculum vitae è

occasione per una riflessione profonda, culminante con la presa di

coscienza della molteplicità dei contesti in cui si snoda

l’esistenza umana, fino a frammentarla in forme tali da non poter

parlare di una sola vita, ma, appunto, di molte vitae. Il soggetto

risultava infine scisso in una irriducibile moltitudine di io, a

causa di un intrinseco senso di sradicamento: il fatto stesso di

dover raccontare la propria vita provocava dunque, a suo giudizio,

un senso di imbarazzo, anche perché la molteplicità delle

condizioni che abbiamo vissuto è impossibile da richiamare

esattamente alla memoria. Non è vero, dunque, che “si vive una

volta sola” – men che meno se questo luogo comune è usato per

scusarsi della banalità con cui si conduce la propria vita: forse,

ribatte Anders, si è condannati a vivere molte vite, oppure

nemmeno una; questo continuo migrare di città in città, di lingua

in lingua, di lavoro in lavoro, ha fatto sì che il protagonista di

queste esperienze abbia vissuto più volte, e se ogni nuovo inizio

è come una nascita, ogni partenza assomiglia a una morte. Se

sentirsi autoctono da un lato è impossibile (poiché sarebbe

rassegnarsi alla condizione del parvenu), lo ugualmente è sentirsi

un “turista”, giacché un semplice visitatore non si porta dietro

tutti i propri averi chiusi in un paio di valigie, così come

parimenti impossibile sarebbe tornare a casa, giacché si cadrebbe

vittime di una sorta di «estraniazione del ritorno»105, per cui si è

costretti a fare i conti con un presente tragicamente diverso da

104 G. Anders, Senza radici, cit., pag. 145.105 P.P. Portinaro, Il principio disperazione. Tre studi su Günther Anders, cit., pag. 26.

62

quel passato che ora vive solo nel sogno e nel ricordo. Gli anni

di viaggio occupano più spazio nella memoria che quelli di una

fantomatica «età dell’oro» in cui si è davvero fatto esperienza

dell’ “essere a casa”:

«Una dichiarazione di appartenenza (ancora una volta a qualsivoglia

città) sarebbe propriamente solo un gesto di ostinazione, nel caso

migliore una prova di fedeltà, quindi qualcosa di moralistico (per

quanto l’espressione possa essermi odiosa in questo contesto). Ma

l’idea di una mera “appartenenza moralistica” e quella di una

“patria moralistica” sono del tutto fantomatiche – a prescindere dal

fatto che la decisione su quest’aspetto, ossia sul fatto di essere a

casa in un posto, non dipende da un sé, ma da coloro che

costituiscono l’essere a casa»106.

A queste considerazioni sembra fare eco Hannah Arendt:

«Il modo fondamentale di essere nel mondo è lo spaesamento

(Unheimlichkeit), nella doppia accezione (del termine tedesco) di

essere senza dimora e di incutere paura. Nell’angoscia, che per

principio è angoscia di fronte alla morte, si esprime il non-essere-

a-casa-propria nel mondo»107

L’individuo risulta atomizzato, avulso dal mondo. È un «uomo senza

mondo», dall’esistenza precaria: alla sua condizione di vagabondo

non può in alcun modo sottrarsi. Tuttavia, le vitae sono come

vagoni: separate ma connesse. Si può viaggiare in una carrozza

senza rendersi conto dell’esistenza delle altre, senza che la

memoria ci riporti ad una vita passata: per farlo, è necessaria

un’acrobazia del ricordo. Farsi strada nella propria odissea106 Ibid., pag. 146.107 H. Arendt, The Life of the Mind, New York-Londra 1978; trad. it. La vita della mente, acura di A. Dal Lago, Bologna 1987, pag. 306, cit. in L. Boella, Hannah Arendt“fenomenologa”. Smantellamento della metafisica e critica dell’ontologia, cit., pag. 90.

63

esistenziale è di per sé tutta un’acrobazia: Anders ricorre alla

metafora del pagliaccio, che fa acrobazie nell’arena mentre suona

il violino. Il risultato è una sorta di schizofrenia,

comportamento che, paradossalmente, appare come l’unico coerente

in una vita assurda. Così si è sospesi, in una condizione

esistenziale che non può non condurre a una sensazione di nausea

sartriana: tale è il destino del pariah. Questo tragico quadro è

stato, in anni più recenti, dipinto a tinte fosche da Zygmunt

Bauman:

«Nel sistema di caste indù, il paria era quello che apparteneva alla

casta più bassa, o anche a nessuna casta; chi, in quell’immutabile,

rappreso e indiscusso ordine della comunità poteva essere più

rifiutato di colui che non apparteneva a nessuna comunità? La

modernità ha soppresso l’immutabilità dell’ordine e ha annunciato la

sostituzione di tutti gli ordini finora intoccabili con un nuovo

ordine artificiale, provvisto di sentieri che dal basso portavano in

alto, in modo che nessuno fosse destinato per sempre a un unico

posto. La modernità è divenuta quindi la speranza dei paria […]. Ma

il paria poteva essere paria solo smettendo – cercando di smettere –

di essere un parvenu. […] E non appartenere a nessun luogo

significava non poter contare sull’aiuto di nessuno. Più svelto

corri, più resti nello stesso posto. Quanto più ti affanni a uscire

dalla casta dei paria, tanto più ti smaschereranno come il paria dei

paria: un paria senza casta».108

Non sembra esserci speranza di redenzione per «i perseguitati

della storia universale»109, coloro che non hanno altra scelta che

vivere un’esistenza precaria, da esiliati, sempre in cerca di

108 Z. Bauman, Il disagio della post-modernità, cit., pag. 85-86.109 Anders, Tagebücher und Gedichte, Beck, Monaco 1985, pag. 64, in P. P. Portinaro,Il principio disperazione, cit. pag. 25.

64

asilo, a volte invano. Hannah Arendt è riuscita a trovare un

“riscatto” divenendo un personaggio di spicco dell’ambiente

accademico statunitense, non senza aver conosciuto il travaglio

degli anni vissuti da apolide. Anders, invece, per tutta la vita

ha incarnato il prototipo dello Schlemihl: Peter Schlemihl era il

protagonista di una novella popolare yiddish, divenuto proverbiale

per la sua sfortuna; il termine passò poi ad indicare una persona

sfortunata, le cui imprese non vanno mai in porto. Con buona

approssimazione, Schlemihl si può considerare sinonimo di pariah, il

perenne, cronico esiliato, l’«uomo senza mondo»:

«Alla non-appartenenza come eterno problema dell’ebreo si aggiunge

la mancata assimilazione non solo nel paese in cui è emigrato, ma

anche nel gruppo stesso degli emigranti».110

Uno solo resta il legame (Anders preferisce il termine «legato»,

afferente al lessico della musica) tra i frammenti dell’esistenza,

che, nella metafora, corrisponde alla musica suonata dal

pagliaccio: la riflessione sulla propria condizione, «il confronto

dialettico con ciò che mi ha reso senza casa»111. Il percorso e la

crescita intellettuale rappresentano la connessione tra tutti i

vagoni del treno.

«Le vitae cambiano. Ma resta costante la speranza, forse folle, di

poter utilizzare un giorno ciò che nel frattempo si è costruito,

insegnando o mettendo in guardia o consolando; rimane costante

infine il mio restare nella lingua tedesca. Se un volta dovessi

tornare indietro, o se tornerò indietro, non sarebbe così da questa

o da quella stazione, ma dal continuum del confronto; e non “verso

casa”, ma lì, dove ci sono chance di dare a posteriori una qualche

110 P. P. Portinaro, Il principio disperazione, cit., pag.25.111 G. Anders, Senza radici, cit., pag. 149.

65

giustificazione a questa continuità. […] Esserci, essere

sopravvissuto, avere avuto la chance, in una vita così discontinua,

di suonare un legato, questa è già una fortuna non ascoltata e

immeritata. Ciò che va oltre, sarebbe un’eccezione di per sé

importante e un lusso»112.

Questo estratto manifesta un’esemplare coerenza intellettuale e un

perfetto esempio di coincidenza tra il pensiero e l’azione, dato

che Anders non sarebbe mai tornato nei luoghi del proprio passato,

ma avrebbe aggiunto ulteriori nuovi vagoni al “treno” della sua

esistenza, nell’estremo tentativo di dare un senso a tutti i

precedenti.

Attraverso i rispettivi percorsi intellettuali ed

esistenziali, Hannah Arendt e Günther Anders rappresentano due

esempi paralleli di reazione davanti alla crisi di un mondo che

operava secondo categorie totalmente nuove: il nuovo spirito del

secolo sembrava quasi imporre la dismissione dell’uso tradizionale

dei concetti di spazio e di tempo. Gli effetti furono una

sensazione di precarietà dell’esistenza – così brillantemente

rappresentata da Anders con la metafora del pagliaccio nell’arena

– e di una continuo confronto con eventi storici di portata

catastrofica, tali da rimettere forzatamente in questione tutti i

pilastri del pensiero politico e morale dell’Occidente. Se Hannah

Arendt avrebbe saputo cogliere un’occasione di riscatto, Günther

Anders appare invece come l’ideale messaggero di una prossima

Apocalisse, di cui Auschwitz e Hiroshima gli apparivano

indiscutibili indizi.

112 Ibid., pagg. 149-150.66

67

5. QUARTA DICOTOMIA: IDENTITÀ/PLURALITÀ.

«Il corso della vita umana diretto verso la morte condurrebbe inevitabilmente ogni essere umanoalla rovina e alla distruzione se non fosse per la facoltà di interromperlo e di iniziare qualcosa dinuovo, una facoltà che è inerente all’azione, e ci ricorda in permanenza che gli uomini, anche se

devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare».

Hannah Arendt, “Vita Activa”

Questa quarta dicotomia non è una dicotomia in senso stretto.

Infatti, identità e pluralità non sono termini in netta

opposizione, come negli altri tre casi. Certo, se l’identità

riguarda il singolo, per contro la pluralità è la condizione dei

molti, ma, a ben vedere, questa dicotomia resta atipica, dato che

pluralità e identità non sono termini oppositivi tanto quanto lo

sarebbero, ad esempio, identità/diversità, oppure

singolarità/pluralità. Ad ogni modo, ho voluto utilizzare questi

due termini perché stanno in una diversa relazione nell’orizzonte

di pensiero sia di Hannah Arendt sia di Günther Anders, e per il

fatto che questa dicotomia trova, in entrambi, diverse e

interessanti declinazioni.

In Vita Activa lo stretto legame tra identità e pluralità emerge

a partire dal concetto aristotelico di zoon politikon: innanzitutto,

esistere significa essenzialmente essere tra gli uomini, e se

essere tra gli uomini è una condizione irrinunciabile

dell’esistenza, allora gli uomini sono per natura animali

politici: l’individuo trova la sua massima espressione in un

comunità di persone, e la sua identità si realizza pienamente solo

nella pluralità. Se la Arendt si impegna a far rivivere il mito

della polis, è anche perché, a suo parere, esso rappresenta il

paradigma della massima espressione dell’identità dell’uomo come

animale politico. In tal senso, pluralità non vuol dire massa,68

bensì indica una diversità feconda, vista come occasione di

arricchimento:

«Nell’uomo, l’alterità, che egli condivide con tutte le altre cose e

la distinzione, che condivide con gli esseri viventi, diventano

unicità, e la pluralità umana è la paradossale pluralità di esseri

unici».113

È appunto la condizione umana della «paradossale pluralità di esseri

unici» che può dar vita a una peculiare configurazione dello

spazio politico, il quale si basa su un duplice legame tra

identità e pluralità. Se, da una parte, la pluralità è una

condizione irrinunciabile dello spazio pubblico, dall’altra,

questo non sfocia in un appiattimento degli individui in una massa

indistinta di eguali, anzi, piuttosto in un’enfasi delle singole e

irripetibili identità di tutti i partecipanti allo spazio

pubblico. L’azione, dunque, offre l’opportunità di esprimersi, di

riconsiderare le forme del proprio ruolo sociale, di rendersi

manifesti agli altri nel dominio dell’autentica libertà: senza un

“chi”, un soggetto che la compie, essa non ha ragione di esistere.

L’agire pratico, perciò, è ciò che definisce la “specie” degli

animali politici, in quanto dotati di linguaggio, inteso,

quest’ultimo, come il mezzo specifico attraverso cui l’azione si

esprime. Il discorso è rivelatore, poiché manifesta intenzioni e

progetti, e, oltre ad essere lo specifico veicolo di comunicazione

dell’azione, spesso è azione stessa.

«Azione e discorso sono così strettamente connessi perché l’atto

primordiale e specificamente umano deve nello stesso tempo contenere

la risposta alla domanda posta a ogni nuovo venuto: “Chi sei?”».114

113 H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 128.114 Ibid., pag. 129.

69

Ogni azione, per la sua natura di procedere dalla libera

intenzione dell’agente, è espressione dell’identità di una persona

irripetibile e unica: infatti, una delle caratteristiche

dell’azione individuate in Vita Activa è quella dell’effettualità, che

consiste nel lasciare sempre un segno nel mondo, una traccia

dell’identità dell’agente. Seconda caratteristica dell’azione e

del discorso è poi la visibilità; con ciò s’intende che lo spazio

pubblico è occasione di manifestazione di una specifica identità. A

tal proposito, un’espressione ricorrente in Vita Activa per indicare

lo spazio pubblico è «spazio dell’apparenza». Anche se

quest’allocuzione può trarre in inganno, risulta sufficientemente

chiaro che “apparire” non ricorre qui nel senso platonico (cioè

non sta a significare che esiste un mondo reale, un iperuranio, di

cui questo in cui viviamo è lo specchio o la copia), ma piuttosto

il termine “apparire” si deve intendere nel suo senso

fenomenologico, come “rendersi manifesto, rivelarsi”. Oppure, nel

caso specifico della sfera pubblica, come “uscire dall’anonimato”:

«E se la politica implica, e per molti aspetti coincide con la

“pubblicità”, quest’ultima è esattamente Öffentlichkeit, nel senso

letterale di apertura: apertura alla visibilità di ciascuno e di

tutti»115.

L’io, dunque, non si realizza pienamente se non si mette alla

prova nello spazio pubblico, se non è con gli altri; tuttavia,

numerosi sono i rischi del mettersi alla prova pubblicamente,

esprimendosi di fronte agli altri per mezzo delle proprie azioni:

«Ci si espone alla luce della sfera pubblica in quanto persone. Se

io ritengo che nella sfera pubblica non deve essere riflesso il

115 S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, cit., pag. 281.70

proprio se stesso, so anche che nell’agire la persona si esprime in

un modo che non è possibile in ogni altra attività. Con ciò ritengo

che anche la parola sia una forma di azione. Questo è il primo

rischio. Il secondo è: noi diamo inizio a qualcosa; annodiamo il

nostro filo al tessuto delle relazioni. Che cosa poi succederà, non

possiamo saperlo. Non possiamo dire: Signore, perdonali perché non

sanno quello che fanno. Ciò vale per ogni agire. L’azione è

semplicemente concreta, perché non si lascia conoscere. Questo è un

rischio. E vorrei dire che questo rischio è possibile solo se si ha

fiducia negli uomini».116

Dunque, i rischi a cui ci si espone entrando e agendo nello spazio

pubblico sono principalmente due: il primo risiede nell’ambiguità

del mezzo d’espressione per eccellenza dell’azione nella sfera

pubblica, cioè il linguaggio, che può dare adito a incomprensioni.

Il secondo consiste nel pericolo che l’azione, rientrando nel

dominio degli affari umani, per via della propria essenziale

imprevedibilità, introduca elementi di novità tali da condurre ad

esiti inaspettati, fuori dal controllo dell’agente.

Il tentativo di riabilitare la dimensione della praxis da parte

della Arendt parte proprio dalla centralità del concetto di

inizio117, considerato da un lato come elemento di novità derivante

dall’azione del singolo, e dall’altro come nascita di un nuovo

individuo, intesa quest’ultima non tanto in senso biologico,

quanto piuttosto come manifestazione nella sfera pubblica di un

nuovo individuo che, attraverso il corso delle sue azioni, sarà

anch’egli chiamato a rispondere alla domanda: “Chi sei?”. Nascita

e morte rappresentano le condizioni più generali dell’esistenza116 H. Arendt, G. Gaus, Che cosa resta? Resta la lingua materna, cit., pag. 30.117 H. Jonas, Agire, conoscere, pensare: spigolature dell’opera filosofica di Hannah Arendt, pag. 51-53, in «Aut-Aut», (1990) n. 240, trad. it. di E. Greblo, Vienna 1979.

71

umana; eppure, tradizionalmente, i filosofi si sono occupati

principalmente della vita umana in relazione alla morte118, compreso

Heidegger, il quale, prima della “svolta” (Kehre) del 1947, aveva

parlato di essere-per-la-morte per denotare l’esistenza umana,

costantemente minacciata dal proprio fatale destino. Al contrario,

Hannah Arendt fa appello al concetto di natalità per enfatizzare

l’elemento di novità, nonché di rottura di un ordine

precostituito, che l’azione porta con sé: ogni nuovo venuto al

mondo deve fare la sua comparsa nella sfera pubblica, per avere la

sua occasione di esprimersi al meglio nel modo che è connaturato a

tutti gli uomini, cioè attraverso l’azione, in quanto espressione

di libertà autentica. Oltre che dare inizio a qualcosa di nuovo

con l’azione, noi stessi siamo qualcosa di nuovo, unico e

irripetibile nell’ordine delle relazioni preesistenti nella

comunità, e abbiamo la facoltà di aprire nuovi orizzonti e

determinare nuove possibilità. Ma se da una parte la filosofia

della natalità si sofferma sulle dinamiche di auto-espressione

nello spazio pubblico, dall’altra prevede tutta un’altra

concezione del mondo, sia nel senso di spazio pubblico con le sue

istituzioni, ma anche come dimensione di realtà comune a tutti gli

uomini, il che in Arendt assume un significato peculiare. In

ultima analisi, «tutto ciò che è è, “soggiorna” nel presente “tra

118 Si può incidentalmente notare come, all’inizio del Novecento, cominciasse asvilupparsi l’interesse per la filosofia della vita e una certa apertura neiconfronti di nuove soluzioni al riguardo. Tra le opere principali in tal sensosi possono ricordare L. Klages, L’uomo e la terra, 1913; R. Eucken, Visione della vita neigrandi pensatori, 1890 e anche Il senso e il valore della vita, 1908; G. Simmel, Intuizione dellavita, 1918. Non ultime quelle opere di Edmund Husserl che affrontano il concettodi Lebenswelt, ad esempio La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, 1936.La maggior parte di questi autori si rifá al pensiero dei filosofi di fineOttocento che avevano condotto la loro riflessione nella prospettiva delvitalismo e dello “slancio vitale”, in particolare Nietzsche e Bergson.

72

una duplice assenza”, il suo arrivo e la sua dipartita»119. La

fragilità della condizione umana è tale che essere vivi significa

“soggiornare” in un mondo la cui esistenza ci precede e proseguirà

oltre la nostra. Laura Boella parla a tal proposito di un

«paradosso tragico»120 per via di tale «concezione insulare della

realtà», che appare e scompare, si svela o si nasconde secondo la

presenza degli attori che la popolano, a cui non è noto che il

breve frammento che corrisponde alla propria esistenza. Senza

bisogno di attribuire alcuno specifico carattere tragico

all’imprescindibile fragilità della condizione umana, Alessandro

Dal Lago parla piuttosto di «filosofia della presenza»121, in quanto

la filosofia politica di Hannah Arendt non guarda al futuro,

nell’attesa di una redenzione, ma ha posto solo nel presente,

nella contingenza e nel divenire, «in una concezione che, prima di

essere pratico-politica, è esistenziale»122. In definitiva, l’azione

in senso lato, non solo quella istituzionalizzata, compiuta nei

palazzi del potere, è qualsiasi azione compiuta pubblicamente,

esposta alla vista di tutti: attraverso di essa, noi non facciamo119 H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987, trad. it. di A. Dal Lago,New York – Londra 1978 in L. Boella, Hannah Arendt “fenomenologa”. Smantellamento dellametafisica e critica dell’ontologia, cit., pag. 107. Non sorprende che una tale concezionesia sostanzialmente condivisa da Anders: «The door in front of us bears theinscription “Nothing will have been” and from within: “Time was an episode.” Nothowever as our ancestors had hoped, between two eternities; but one between twonothingnesses; between the nothingness of that which, remembered by no one, willhave been as though it had never been, and the nothingness of that which willnever be». Günther Anders, Commandments in the Atomic Age, in Id. and ClaudeEatherly, Burning Conscience: The case of the Hiroshima Pilot, Claude Eatherly, told in his letters toGünther Anders, preface by Bertrand Russell, foreword by Robert Jungk (New York1961), p. 11, cit. in B. Babich, Angels, the Space of Time, and Apocalyptic Blindness: OnGünther Anders’ Endzeit–Endtime, in «Etica & Politica/Ethics & Politics», XV, 2013, 2,pp. 144.120 A tal proposito si veda L. Boella, Hannah Arendt “fenomenologa”. Smantellamento dellametafisica e critica dell’ontologia, cit., pag. 83-110.121 A. Dal Lago, Una filosofia della presenza. Hannah Arendt, Heidegger e la possibilità dell’agire,cit., pag. 93-109.122 Ibid., pag. 94.

73

altro che affermare la nostra identità, definire il nostro “chi”.

La pluralità è la culla dell’auto-espressione degli individui, e

anche se la filosofia ha tradizionalmente parlato di Uomo, al

singolare, in realtà si dovrebbe sempre parlare di uomini, al

plurale, giacché «la pluralità è la legge della terra»123. Infatti:

«Vivere una vita interamente privata significa prima di tutto essere

privati delle cose essenziali a una vita autenticamente umana:

essere privati della realtà che ci deriva dall’essere visti e

sentiti dagli altri, essere privati di un rapporto “oggettivo” con

gli altri, quello che nasce dall’essere al tempo stesso in relazione

con loro e separati da loro grazie alla mediazione di un mondo

comune di cose, privati della possibilità di acquistare qualcosa di

più duraturo della vita stessa»124.

L’azione, dato che porta il nome stesso di chi la compie ed è

esposta allo sguardo di tutti, è un’occasione di guadagnare «fama

immortale»125. D’altronde, per via della condizione di uguaglianza

tra i consociati che la caratterizza, il contesto della polis si

prestava particolarmente a fornire un’occasione in più, nello

spazio pubblico, di guadagnarsi la gloria, secondo i dettami di

una “morale eroica”126 che richiama alla mente l’idea di virtù

(areté) su cui faceva leva l’educazione del cittadino delle poleis

elleniche. È questo tipo di eternità l’unico tipo di permanenza

che ci è concessa oltre la vita, per cui il nome e le gesta

dell’eroe verranno tramandate e gli consentiranno, in un certo

senso, di “sopravvivere” dopo la morte, nel tentativo di

123 H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987, trad. it. di A. Dal Lago,New York-Londra 1978, pag. 99.124 H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 44.125 Ibid., pag. 144.126 Colgo l’occasione per richiamare quanto detto sull’impossibilità di unamorale eroica nell’era della tecnica a giudizio di Anders, cfr. supra pag. 21-23.

74

contrastare così l’intrinseca fragilità umana. Le argomentazioni

arendtiane per difendere l’autonomia dell’azione non sembrano, in

realtà, del tutto persuasive e coerenti127; la ricerca di gloria, in

effetti, sembra proprio una strumentalizzazione dell’azione, che

la assimila al paradigma dell’homo faber, se non fosse per una

sottile distinzione terminologica che distingue l’azione compiuta

“al fine di” («in order to») da quella compiuta “in nome di” («for the

sake of»)128: nel caso della ricerca della «fama immortale», l’azione

si sottrae al meccanismo mezzo-fine e viene compiuta nel nome

dell’eccellenza, della distinzione, della gloria. Ad ogni modo, la

Arendt pone l’accento sull’autonomia dell’azione intesa come

energeia, il che significa che essa ha qualche effetto sul mondo e

in tale effetto sta la sua realizzazione. Come già accennato, se

l’azione è espressione della propria libera intenzione, libertà si

ha solo se si agisce tra pari: nel momento in cui qualcuno mira a

prevaricare gli altri, lo spazio pubblico, inteso come rete di

relazioni che si sviluppano su un piano paritario, viene a

mancare, e un’azione autentica non è più possibile.

«Nessun uomo può essere sovrano perché non un uomo, ma gli uomini

abitano la terra – e non, come sostiene la tradizione, a partire da

Platone, a causa della forza limitata dell’uomo, che lo fa dipendere

dall’aiuto degli altri».129

Tutti i temi trattati dalla Arendt a proposito dell’importanza

dell’azione per l’identità umana, oltre alla rilevanza del

concetto di natalità, sono indice di un tentativo di stabilire i

lineamenti di un’«antropologia filosofica»: l’enfasi posta127 A tal proposito si veda S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, cit., pagg.271-274.128 H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 110.129 Ibid., pag. 173.

75

sull’autonomia dell’azione in contrasto alle istanze

“inautentiche” dell’homo faber e dell’animal laborans dimostrano una

puntuale opera di distinzione tra natura e cultura, nonché una

volontà di enfatizzare la libertà dell’uomo contro il determinismo

dei meccanismi della natura. Solo una totale sfiducia nelle

prerogative dell’umanità poteva portare, invece, Günther Anders ad

un risultato diametralmente opposto. Egli è infatti l’assertore di

un’«antropologia negativa», l’unica teoria possibile circa il

posto dell’uomo nel mondo nell’età della tecnica. Secondo

l’antropologia negativa, l’uomo è fondamentalmente un individuo

tra individui: nell’ambito di un discorso sulla legittimità della

formula “sistema filosofico”, Anders ribatte che se si può parlare

di sistema filosofico, si presuppone che il mondo stesso sia un

sistema, di cui il sistema filosofico è lo specchio. Nulla di più

falso, nella sua valutazione, giacché il mondo è fatto di

individui, non di relazioni. E, si noti, nulla di più distante dal

concetto di mondanità della Arendt, secondo cui gli uomini hanno

in comune un «mondo comune di cose»:

«La pluralità dell’uomo ha un significato essenzialmente differente

rispetto a quella dell’animale. La mancanza d’inclusione nel mondo,

che spetta all’uomo secondo un giudizio puramente ideale, si ripete

ancora una volta all’interno della stessa dimensione umana: il

singolo uomo è eminentemente un individuo».130

In effetti, come potrebbe un “uomo senza mondo” far parte di una

comunità, mettere radici e crearsi dei legami? Questa condizione

dell’individuo crea uno smembramento del mondo, che non è fatto da

130 G. Anders, Philosophie des Menschen 1927-1929 (per il riferimento originalecompleto si veda C. Dries, Günther Anders e Hannah Arendt. Schizzo di una relazione, cit.,pag. LVII, nota 160).

76

una pluralità di uomini, ma è disgregato in un insieme di monadi

senza finestre131, il che impedisce qualsiasi interazione e

comunicazione con altri individui, i quali sono condannati a un

perenne stato d’isolamento, cosicché la parola “mondo” avrebbe un

significato solo nominalistico132. Ovviamente, sostiene Anders, non

esiste nessuna armonia prestabilita che salvi la pluralità, e

nessun principio trascendente che faccia da «elemento

prestabilizzatore», e possa così offrire una prospettiva

consolatoria (come la garanzia dell’esistenza di Dio). In effetti,

a questo punto come potremmo pensare di essere superiori ad altre

formazioni naturali? Non siamo affatto, secondo Anders, “pastori

dell’Essere”, come vorrebbe la formula heideggeriana, anzi,

probabilmente l’universo è indifferente nei riguardi della nostra

esistenza, e così non deteniamo alcun diritto sul vertice della

gerarchia delle specie che ci siamo attribuiti133. Perciò, ogni

volta che le antropologie filosofiche parlano di un Uomo, posto

al centro dell’universo, e si appellano ad esso come fulcro di una

sorta di «mono-antropismo»134, si tratta di una vera e propria

“truffa”. Questa «truffa della singolarizzazione»135, secondo Anders, è:

«[…] un metodo di accecamento politico con cui si accecano coloro la

cui vita viene minacciata giorno dopo giorno sempre più

seriamente e viene disumanizzata sempre più gravemente da chi

domina a livello politico, economico o tecnico; e questo contro

131 G. Anders, La battaglia delle ciliegie., cit., pag. 12.132 Ibid., pag. 16.133 Lo stesso concetto è ripreso in G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione dellavita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, cit., pag. 116-117.134G. Anders, La battaglia delle ciliegie., cit., pag. 38.135 Ibid., pag. 41.

77

il fatto che semplicemente nulla “ruota intorno a loro”. Per ingannare gli umiliati, i

dominatori utilizzano il singolare»136.

Ecco dunque una affinità con quanto sopra riscontrato in Vita Activa:

dove non c’è uguaglianza non c’è pluralità giacché «l’aspirazione

all’onnipotenza implica sempre […] la distruzione della

pluralità»137, e dove mancano questi presupposti non si manifesta

uno spazio pubblico adatto ad un’azione autentica. Ma vi è una

differenza fondamentale rispetto ad Arendt: l’autrice di Vita Activa

tende ad avallare un’antropologia filosofica sostanzialmente

ottimistica, ereditata da Heidegger, che vede gli uomini, con le

loro facoltà, le loro personalità, le loro aspirazioni, come i

protagonisti sia della vita attiva, sia della vita della mente. Anders, al

contrario, in quanto sostenitore di una antropologia negativa, non

vede affatto nell’uomo un “pastore dell’Essere”, bensì «[…] l’essere

che fondamentalmente non può essere sano e non vuole essere sano, insomma l’essere

che non può essere determinato, l’essere indefinito, che sarebbe un paradosso voler

definire».138

L’annichilimento dell’individuo nell’era della tecnica, ancora

una volta, causa una perdita della vita pratica e una rinuncia

all’azione: dove l’azione politica diventa affare esclusivo di una

ristretta élite di dominatori, gli individui, vittime del

«totalitarismo degli apparecchi»139, sono relegati alla dinamiche

del consumo, il quale risulta la condizione dominante del nostro

stare al mondo:

136 Ibid., pag. 38.137 H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 148.138 G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzioneindustriale, cit., pag. 117.139 Ibid., pag. 98.

78

«Alla tecnica viene imputata non solo una sindrome che produce de-

soggettivizzazione, de-realizzazione, narcotizzazione – per cui

all’individuo sono inibite al tempo stesso la capacità di critica e

la volontà di agire – ma anche la responsabilità primaria di

regressioni psichiche che sfociano in un certo primitivismo morale,

generando risentimento, odio, livore, piacere di distruggere e

indolenza nei confronti della distruzione. Accusata di manipolazione

dell’anima, la tecnica è presentata come una potenza intorno alla

quale una cintura di tabù ha eretto una protezione così capillare da

rendere ormai del tutto improponibile ogni rivolta luddistica contro

il suo dominio».140

Si noti come l’eloquente formula di «totalitarismo degli

apparecchi» stabilisca un parallelismo tra il totalitarismo e la

società di massa: il totalitarismo non è uno specifico sistema

politico che ha avuto luogo in una determinata contingenza

storica, bensì si configura come una tendenza generalizzata

dell’età della tecnica, la cui vocazione è la «de-

soggettivizzazione, de-realizzazione, narcotizzazione»

dell’individuo. Il totalitarismo politico non è che una deriva di

questa tendenza all’annichilimento dell’essenza umana141. La perdita

d’identità dell’uomo, infatti, caratterizza anche la società di

massa, in cui l’individuo prova una certa «vergogna prometeica»,

nei confronti dei prodotti della tecnologia: questo sentimento è

definito da Anders come «vergogna che si prova di fronte all’umiliante altezza di

qualità degli oggetti fatti da noi stessi»142. Nel contemplare il mondo da lui

140 P.P. Portinaro, Il principio disperazione, cit., pag. 123.141 A tal proposito, si veda R. Martinelli, Totalitarismo morbido in Günther Anders,cit., pag. 21.142 G. Anders, L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, vol. I, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pag. 57 (I ed. 2003), trad. it. di L. Dallapiccola, Monaco 1956.

79

creato, l’homo faber percepisce una sensazione di straniamento e

alienazione: le conseguenze delle sue creazioni gli sfuggono di

mano, col pericolo di annientare la sua stessa specie, nella

drammatica ipotesi di un “mondo senza uomo”. Egli non può che

constatare il «dislivello prometeico», la differenza tra la

perfezione delle macchine e la corruttibilità del genere umano.

Come è stato osservato da Pier Paolo Portinaro:

«Il risultato di questo processo è un’inversione dell’utopia:

perché, “mentre gli utopisti non possono produrre ciò che

immaginano, noi non possiamo immaginare ciò che produciamo”».143

Avvinto dal sentimento della «vergogna prometeica» e privato del

senso della propria identità, l’uomo si arrende davanti al suo

essere irrimediabilmente “antiquato” al confronto col progresso

potenzialmente illimitato delle proprie creazioni. Egli si rende

conto di essere «in bilico sulla corda tesa tra la bestia e il non-

più-uomo»144, tra l’animal laborans e un certo superomismo che ne ha

fatto il protagonista – tradito – del progresso tecnologico, nella

resa di fronte alla constatazione del fatto che:

«Siamo più piccoli di noi stessi; senz’altro non siamo all’altezza di quello che possiamo

inventare e fare; e persino la nostra fantasia non è all’altezza della nostra fantasia o dei

prodotti della nostra fantasia; certo, non delle loro conseguenze».145

Ancora una volta, il pensiero di Hannah Arendt si conferma più

ottimistico al riguardo, perché fa ancora fiduciosamente appello a

quelle categorie del pensiero politico e morale dell’Occidente,

come “libertà”, “identità”, “uguaglianza”, che per Anders sono

143 P.P. Portinaro, Il principio disperazione, cit., pag. 119.144 Ibid., pag. 147.145 G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, vol. II, Bollati Boringhieri, Torino 2012, pag. 301.

80

irrimediabilmente “antiquate”. Arendt dimostra, ad un confronto

con l’implicito e costante interlocutore che aveva condiviso con

lei un momento di vita, di avere eccessiva fiducia nel concetto di

intenzione, e in una “morale eroica” dell’azione che, secondo

Anders, è ormai fuori corso. Se in Arendt la vita pubblica,

compresa dunque la vita lavorativa, è esente dall’influenza della

sfera economica, in Anders essa fa i conti con tutte le tematiche

che riguardano la società di massa (il consumismo, l’alienazione,

la fine di un’autentica azione politica), portando in tal modo

all’estremo alcuni temi marxisti e le interpretazioni che di essi

aveva dato la scuola di Francoforte. Mi sembra di poter aggiungere

all’analisi andersiana che, in relazione agli ultimi ritrovati

della tecnologia, il «totalitarismo degli apparecchi» sembra oggi

emergere sempre più non tanto nel contesto delle attività

lavorative, ma anche nel tempo libero: le “macchine” di ultima

generazione sono sempre più veloci, più efficienti e più piccole;

sono costruite per mimetizzarsi con gli oggetti d’uso quotidiano,

per diventare un’estensione del corpo. Almeno finché il

«dislivello prometeico» non ne favorirà, forse, il rigetto.

81

6. CONCLUSIONE. UNA POSSIBILE QUINTA DICOTOMIA: PASSATO / FUTURO.

La maggiore difficoltà che ho riscontrato nell’affrontare

questo studio si può evincere dal confronto fra le opere di

letteratura secondaria: se, da una parte, l’opera della Arendt

continua ad essere largamente studiata e approfondita146, e gli

strumenti a servizio dello studioso sono molteplici (tra i quali

va citato un Archivio Arendt che ne raccoglie un’ampia selezione di

scritti147), dall’altra, lo studio di Anders si presenta assai

arduo, a causa della pubblicazione ad oggi ancora parziale del

lascito andersiano (Nachlass), e della difficile reperibilità delle

fonti che sono a tutt'oggi in corso di stampa, o pubblicate nelle

riviste di filosofia diffuse nei circuiti accademici148; ad ogni

modo, negli ultimi tempi, anche nel contesto italiano, sembra che

l'opera di Anders sia tornata all'attenzione degli studiosi,  i

quali tendono a evidenziarne alcuni indubbi elementi di attualità.

Per questo motivo, un confronto “ad armi pari” fra i due

autori non è sempre facile, e questa difficoltà consiste

principalmente nel trovare un equilibrio tra la grande massa di

146 L’interesse per Hannah Arendt non si limita all’ambito accademico, maraggiunge anche il grande pubblico con pubblicazioni di ampio respiro: adesempio, è del 2013 il romanzo Hannah e le altre di Nadia Fusini, per i tipi diEinaudi, in cui Hannah Arendt, Simone Weil e la meno nota Rachel Bespaloff siconfrontano sui temi chiave del ‘900, assumendo la prospettiva peculiare delloro essere donne. Inoltre, ricordiamo il film Hannah Arendt (Germania,Lussemburgo, Francia 2012), per la regia di Margarethe Von Trotta, con BarbaraSukova nel ruolo della protagonista.147 L’Archivio Arendt consta di due volumi: Archivio Arendt 1 (1930-1948) e Archivio Arendt 2(1950-1954), editi da Feltrinelli (2001 e 2003) a cura di S. Forti.148 Babette Babich accenna a un’interessante ipotesi secondo cui Anders nonsarebbe popolare tra gli accademici, per via della paura di questi ultimi diessere tacciati di “tecnofobia” (così, infatti, potrebbe essere stigmatizzato ilcarattere principale dell’opera andersiana), il che sarebbe una sorta di eresia,in controtendenza con lo spirito del nostro tempo. (B. Babich, Angels, the Space ofTime, and Apocalyptic Blindness: On Günther Anders’ Endzeit–Endtime, in «Etica &Politica/Ethics & Politics», XV, 2013, n° 2, pp. 146.)

82

informazioni da un lato e la scarsità di notizie dall’altro.

Questa è probabilmente una delle ragioni per cui la critica si è

astenuta con «comprensibile pudore»149 da un confronto diretto. Un

altro motivo si potrebbe rinvenire nella particolare difficoltà di

affrontare un confronto per nulla astratto, in quanto il rapporto

che i due hanno intrattenuto non è stato solo di natura

intellettuale, ma si è basato su una condivisione di esperienze di

vita che non può essere ignorata. Probabilmente è stato appunto

questo percorso condiviso a favorire quel fruttuoso scambio di

idee che giustifica l’attribuzione ai due autori della prerogativa

di “sinfilosofi”. Un confronto a tutti i livelli richiede perciò

anche un analisi delle rispettive biografie, il che implica la

necessità di una qualche intromissione in quella sfera di vita

privata su cui entrambi hanno sempre mantenuto il massimo

riserbo150. Le fonti non aiutano a chiarire la questione, a volte

riportando notizie discordanti su alcuni aspetti della loro vita

privata, e forse, celando e omettendo alcuni dettagli, rivelano

ciò che tendono a nascondere151.

149 Cfr. supra pag. 3.150 Peraltro, ciò che emerge dagli epistolari fa pensare che le basi della lorounione, soprattutto da parte della Arendt, non fossero molto solide. Così ellascrive a Elfriede Heidegger: «Vede, quando lasciai Marburg, ero assolutamentedecisa a non amare mai più un uomo; e poi mi sono sposata giusto per sposarmi,con un uomo che non amavo.», Arendt-Heidegger, Lettere 1925-1975 e altre testimonianze,Edizioni di Comunità, Torino 2001, pag. 55, in C. Dries, Günther Anders e HannahArendt. Schizzo di una relazione, cit., pag. XIII.151 Ad esempio, riguardo al loro matrimonio, Eva Michaelis-Stern, sorella diGünther, sostiene di essere stata l’unica della famiglia ad aver preso partealla cerimonia, giacché né i loro genitori, né la madre di Hannah eranopresenti, a suo parere indispettiti dalle modalità con cui la coppia li avevamessi a parte della decisione di sposarsi (Eva Michaelis-Stern a Werner Deutsch,29 aprile 1992, pag. 1, collezione privata, in C. Dries, cit., pag. IX). Labiografia “ufficiale” di Elizabeth Young-Bruehl, invece, afferma che eranopresenti i genitori di entrambi, un’amica e i due testimoni (E. Young-Bruehl,Hannah Arendt. Una biografia, cit., pag. 109).

83

Nonostante questa comunione di idee, invano si cercherebbero

citazioni o riferimenti incrociati – almeno in termini espliciti –

tra le rispettive opere152. Anzi, sembra quasi che i due si siano

reciprocamente trattati secondo una “congiura del silenzio”,

ognuno evitando di confrontarsi apertamente con il pensiero

dell’altro. Nonostante il comune terreno di confronto (costituito,

almeno in parte, dai quattro temi qui affrontati), si può notare

una differenza di fondo che fa da cesura tra i due pensatori: una

diversa concezione dell’umano. Infatti, i temi trattati in Vita Activa

e la concezione umanistica che ne emerge, sono indice del fatto

che per la Arendt l’uomo non potrebbe mai divenire “antiquato”,

anzi, egli è l’autentico protagonista della vita attiva, nonché il

perno su cui edificare tutta la teoria della “condizione umana”.

In tal senso, Hannah Arendt è l’erede di quell’ “antropologia

positiva” heideggeriana tanto disprezzata da Anders, che vi ha

opposto, come abbiamo visto, una antropologia negativa. In ciò si

manifesta tutta la carica polemica di Günther Anders, la quale

trovava un riflesso nella sua ostinata indipendenza dalle

accademie; Hannah Arendt, al contrario, accoglie nel suo orizzonte

di pensiero le categorie tradizionali della filosofia politica,

pur adattandole in uno spirito innovativo. Ne consegue, dunque,

che nemmeno la politica stessa sfugge alla critica andersiana,

risultando anch’essa antiquata. Come è stato osservato:

152 L’unica eccezione sembra essere la nota 13 al Capitolo Quarto di Vita Activa,che recita così: «Günther Anders, nel suo interessante saggio sulla bombaatomica, osserva giustamente che la parola “esperimento” non può più essereapplicata agli esperimenti nucleari che comportano le esplosioni delle nuovebombe. Gli esperimenti furono sempre caratterizzati dal fatto che lo spazio incui si verificavano era sempre strettamente limitato e isolato dal mondocircostante. Gli effetti delle bombe sono invece di una tale portata che “illaboratorio in cui si verificano è coestensivo al globo”».

84

«[In Anders] manca tuttavia la voce Antiquiertheit der Politik. Eppure tutto

lascia intendere che anche questo ambito della vita attiva, alla cui

riabilitazione nostalgica la Arendt aveva dedicato il meglio della

sua opera, è ormai “antiquato”».153

Da queste discrepanze emerge, dunque, la possibilità di una

quinta dicotomia: quella di passato/futuro. Infatti, la principale

differenza dell’opera andersiana rispetto a Vita Activa è la seguente:

se la Arendt è principalmente volta ad un approccio genealogico, e

perciò traccia una storia delle idee dall’età della polis alla crisi

della modernità, Anders è piuttosto volto alla concretezza del

presente e alle proiezioni nel futuro, le quali, spesso, come

abbiamo visto, si traducono in distopie. Come rilevato dal

principale studioso italiano dell’opera di Anders:

«L’uomo affonda in un presente onnivoro, che tutto fagocita,

generando incapacità di conservare il passato e di orientare il

futuro. La perdita della tradizione, dei legami sociali, la mancanza

di orientamento, il vuoto dell’ideologia, il divenire superfluo

dell’uomo stesso hanno a che fare con la progressiva saturazione

dello spazio, con il soffocamento che il passato esercita sulla vita

presente e con la dissociazione del futuro».154

A dire il vero, la minaccia di una “fine della politica”155 non

manca nemmeno in Arendt:

«Come sappiamo, dalla più sociale delle forme di governo, cioè dalla

burocrazia (l’ultimo stadio del potere in uno stato nazionale, così

come la monarchia, nella forma di un benevolo dispotismo e

153 P.P. Portinaro, Il principio disperazione, cit., pag. 70.154 P.P. Portinaro, Il principio disperazione, cit., pag. 85.155 Riprendo questa formula, in riferimento al pensiero di Hannah Arendt, da P.P.Portinaro, La politica come cominciamento e la fine della politica, in R. Esposito, La pluralitàirrappresentabile, cit.

85

assolutismo, ne era stato il primo), il governo di nessuno non è

necessariamente un non-governo; esso può anzi, sotto certe

circostanze, volgersi in una delle sue più crudeli e tiranniche

versioni».156

La tirannide, forma di governo degenerata per eccellenza,

costituisce la fase estrema prima della “fine della politica”

intesa come dissoluzione dello spazio pubblico. Infatti, la

burocrazia, reggendosi sulla politica intesa come techne, fa uso

dell’istituto della rappresentanza come un complesso sistema di

deleghe che supplisce all’azione diretta dei governati. Tale

degenerazione delle forme di governo non può che preannunciare la

fine di tutte quelle pratiche che regolano un sano ed autentico

esercizio della libertà, e che si espletano solo nello spazio

pubblico. Ebbene, davanti a questa annunciata “fine della

politica”, se la ricetta di Anders era ammonire i contemporanei

prospettando delle apocalittiche visioni del futuro (atteggiamento

che gli è valso l’epiteto di «Cassandra della filosofia»157),

l’approccio arendtiano consiste nel guardare con nostalgia alle

realtà politiche del passato – soprattutto al modello della polis –,

in cui prevaleva lo spirito partecipativo dei consociati: così,

l’autentico spazio pubblico viene a coincidere con uno “spazio

storico” determinato, da cui ci si allontana sempre più man mano

che si procede nell’involuzione delle forme di potere, lasciando

sempre meno spazio alla possibilità dell’azione158. La via d’uscita

dallo stallo è, secondo la Arendt, una «aristocrazia consiliare»159,

156 H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 30.157 Secondo l’espressione di Gabriele Althaus (Der Blick Vom Mond. Reflexionen überWeltraum flüge, Beck, Monaco 1970, pag. 24).158 S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, cit., pag. 299.159 P.P. Portinaro, La politica come cominciamento e la fine della politica, pag. 42, in R.Esposito, La pluralità irrappresentabile, cit.

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un governo dei migliori che non viene eletto dal popolo, bensì si

auto-costituisce. Questa opzione appare però impraticabile,

giacché è contraria ai principi delle costituzioni di democrazia

liberale che garantiscono a tutti i cittadini il diritto

all’eleggibilità passiva, non soltanto all’élite dei “migliori”. Va

d’altronde notato come, tra una aristocrazia consiliare e il

pericolo del governo paternalistico di un’oligarchia illuminata il

passo sia breve. In entrambi i casi, comunque, non sembra che la

possibilità di un’azione autentica da parte dei consociati sia

salvaguardata in modo sufficiente.

A questo punto, dopo una diagnosi del tempo presente, a

prescindere dalla soluzioni che si prospettano, qual è il ruolo

dell’intellettuale in società? Se egli non deve rinchiudersi nella

sua torre d’avorio, quale compito gli spetta nel mondo? Le ultime

pagine de La battaglia delle ciliegie sono dedicate a questo argomento.

Dopo aver ricordato, menzionandone i nomi160, alcuni pensatori

accusati di aver difeso, sia con le armi, sia con la parola,

l’operato delle potenze belligeranti durante la Prima Guerra

Mondiale (spesso, col tipico atteggiamento del parvenu che insiste

a dimostrare la propria appartenenza), Anders muove un’accusa

ancora più grave:

«“Che costoro, abituati a porsi domande teoretiche, non abbiano pensato

a porsi la semplice domanda per quale motivo e per chi si pretendeva che ci si sacrificasse

volontariamente! (Pausa) E se ci si fosse limitati a questo!”

“A cosa alludi ora?”.

“Al fatto che ci sono state persone ancora più ridicole”.160 Vengono citati, in particolare, Max Reinhardt, Wilhelm Conrad Röntgen,Gerhart Husserl (figlio di Edmund), Emil Lask (filosofo neokantiano), RudolfEucken (premio Nobel per la letteratura 1908, poco amato sia da Anders che daArendt), Max Scheler e Georg Simmel.

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“E chi sarebbero?”.

“Uomini che non si sono sacrificati di persona per questa ignominia

guglielmina, ma che hanno partecipato alla tappa”.

“A quale tappa?”.

“Quella in cui hanno messo a disposizione solo il loro spirito.

Quella in cui hanno giustificato la guerra con argomentazioni

filosofiche”».161

Essi sono i “chierici” che hanno tradito, coloro che si sono

asserviti al potere e ne hanno difeso le brutalità con l’arma

della loro scienza, come faceva il corvo Mosè ne La fattoria degli

animali. L’intellettuale, soprattutto colui che assume il punto di

vista del pariah, dovrebbe invece farsi carico del ruolo della

sentinella: dalla sua posizione di vantaggio, egli avrebbe la

capacità di avvertire il pericolo prima degli altri e a lui

spetterebbe il compito di dare l’allarme per tempo.

Hannah Arendt e Günther Anders sono entrambi esempi di

grande coerenza intellettuale, i quali, evitando le trappole

tese dalle ideologie e dalle fazioni politiche, hanno dimostrato

– sia pure, come si è visto, in modi profondamente diversi – in

cosa consista il vero compito dell’intellettuale engagé.

161 G. Anders, La battaglia delle ciliegie, cit., pag. 49.88

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89

G. Anders, La battaglia delle ciliegie. La mia storia d’amore con Hannah Arendt, introd. diC. Dries, Donzelli Editore, Roma 2012, trad. it di S. Bertolini, Monaco2012.

G. Anders, Senza radici, introd. di M. Latini, in «MicroMega», n.5/2011, pag.141-154, trad. it. di M. Latini (primo estratto: I ed. in «Profile» del7/11/2004; secondo estratto: I ed. Monaco 1981).

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P.P. Portinaro, Anders tra letteratura della crisi e filosofia d’occasione. Frammenti diantropologia nella Endzeit, in corso di stampa.

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M. P. Paternò, Tra filosofia e racconto: paura e politica in Günther Anders, in corso distampa.

M. P. Paternò, Responsabilità e cura del mondo nell’età globale. Riflessioni sulla convivenzapolitica in una prospettiva storico-filosofica, in corso di stampa.

Altri riferimenti:

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Manferlotti, Londra 1949. Z. Bauman, Il disagio della post-modernità, Bruno Mondadori, Milano 2002, trad.

it. di V. Verdiani, Varsavia 2000. W. Heuer, Hannah Arendt and her Socrates: Heinrich Blücher, dall’Archivio Blücher

online, disponibile su: http://www.bard.edu/bluecher/rel_misc/heuer.pdf

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RINGRAZIAMENTI

È mio desiderio ringraziare tutti coloro che, con il loro supportoe i loro consigli, mi hanno aiutata nella stesura di questa tesi.Tutte le persone qui citate hanno svolto un ruolo fondamentalenella realizzazione di questo lavoro, ma è mio dovere precisareche ogni inesattezza o omissione è imputabile soltanto a me.

Innanzitutto, un sentito ringraziamento va al relatore, Prof.Mario Tesini, il quale, è stato il mio punto di riferimento inquesto lavoro. Senza la sua guida paziente e attenta, la suadisponibilità e la sua competenza, questa tesi non sarebbe stataaltrettanto approfondita e rigorosa.

Ringrazio il Prof. Pier Paolo Portinaro per il tempo che mi hadedicato: gli spunti che mi ha fornito sulla figura di GüntherAnders hanno trovato sviluppo in molta parte di questo lavoro.

Ringrazio sentitamente il Prof. Fausto Pagnotta, il quale mi haindicato fonti utili per questa ricerca, oltre ad avermi fornitopreziosi consigli.

Desidero ringraziare la Prof.ssa Maria Pia Paternò, per la corteseautorizzazione ad avvalermi di alcuni suoi scritti inediti per larealizzazione di questo studio.

Inoltre, un ringraziamento particolare va al Prof. Aldo D’Antico,per il sincero interesse che ha dimostrato verso il mio lavoro,quando questa tesi non era ancora che un progetto.

Infine, un affettuoso grazie ai miei genitori, senza il cuisostegno non avrei mai raggiunto questo traguardo.

91

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INDICE

1. Introduzione. Una conciliazione impossibile?

pag. 3

2. Prima dicotomia: pensiero/azione “

11

3. Seconda dicotomia: privato/pubblico

“ 23

4. Terza dicotomia: appartenenza/sradicamento

“ 35

5. Quarta dicotomia: identità/pluralità

“ 47

6. Conclusione. Una possibile quinta dicotomia: passato/futuro

“ 57

7. Bibliografia “

63

8. Ringraziamenti “

65

93