Hannah Arendt e Günther Anders: un confronto per dicotomie
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PARMA
DIPARTIMENTO DI ANTICHISTICA, LINGUE, EDUCAZIONE E FILOSOFIA
CORSO DI LAUREA IN STUDI FILOSOFICI
HANNAH ARENDT E GÜNTHER ANDERS:UN CONFRONTO PER DICOTOMIE
RELATORE:
Chiar.mo Prof. Mario Tesini
CORRELATORE:
Chiar.mo Prof. Italo Testa
LAUREANDA:
Alessandra Antonella Rita Maglie
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1. INTRODUZIONE. UNA CONCILIAZIONE IMPOSSIBILE?
«Con comprensibile pudore la ricerca si è finora tenuta lontana da
quello che sembrerebbe un compito imprescindibile, la delineazione
di un confronto puntuale [dell’opera di Günther Anders] con l’opera
di Hannah Arendt, in particolare per quanto concerne la sua analisi
della vita activa (un confronto che appare tanto più obbligato in quanto
Vita activa e il primo volume della Antiquiertheit des Menschen sono opere
coeve)»1.
Un qualsiasi studio sulla filosofia politica di Hannah Arendt
non può che cominciare con una constatazione di impotenza davanti
alla vastità della sua produzione scritta e all’impossibilità di
poter ridurre il suo pensiero a facili etichette: d’altro canto,
ogni tentativo in tal senso si è rivelato parziale. Ne risulta
confermata l’idea che Hannah Arendt si presti a letture del tutto
opposte: ora come una conservatrice animata da convinzioni
elitarie, ora come pensatrice democratica vicina alle teorie della
democrazia diretta, ora quasi come pensatrice utopistica che
vagheggia un anacronistico ritorno, se non proprio
all’istituzione, almeno allo spirito della polis2.
Da parte mia, nel proposito di evitare la facile strada del
riduzionismo, ho scelto di affrontare questo studio con
l’intenzione di mettere maggiormente in evidenza lo spirito
oppositivo e conflittuale intorno all’opera arendtiana. Con tale
1 P.P. Portinaro, Anders tra letteratura della crisi e filosofia d’occasione. Frammenti di antropologianella Endzeit, in corso di stampa. Ringrazio il professor Portinaro per la corteseautorizzazione ad avvalermi di questo suo testo nella realizzazione del presentestudio.2 S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, Bruno Mondadori, Milano 2006 (I ed.1996), pag. 14. Cfr. anche A. Dal Lago, Una filosofia della presenza. Hannah Arendt,Heidegger e la possibilità dell’agire, pag. 96, in R. Esposito, La pluralità irrappresentabile. Ilpensiero politico di Hannah Arendt, Edizioni Quattoventi, Urbino 1987.
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intento, ho individuato alcuni temi incontrati nel corso delle mie
letture dei testi della Arendt, i quali potessero svolgere il
ruolo di punti di riferimento in quest’analisi. Li ho in seguito
articolati in quattro distinte dicotomie (a cui, come si vedrà, se
ne aggiunge una quinta in conclusione), trattate nei quattro
capitoli che costituiscono questo studio. Il mio percorso è
cominciato dalla lettura di Vita Activa, l’opera che per prima mi ha
avvicinata al pensiero della Arendt. I temi affrontati in
quest’opera, infatti, mi hanno decisamente coinvolta e hanno
suscitato in me l’interesse per la filosofia politica – il che ha
del paradossale, o almeno del “filologicamente scorretto”, giacché
Hannah Arendt ha sempre rifiutato di attribuirsi l’appellativo di
“filosofa”, nonostante la sua formazione filosofica giovanile e il
suo ritorno alla filosofia negli anni de La vita della mente3. Ad ogni
modo, le prime due dicotomie che ho scelto, cioè pensiero/azione e
privato/pubblico, si riferiscono a temi che si sono imposti alla
mia attenzione nella lettura di Vita Activa; la terza dicotomia, cioè
appartenenza/sradicamento, è emersa in particolare dalla lettura
della biografia di Elizabeth Young-Bruehl. Questa terza dicotomia
esprime, a mio parere, un aspetto fondamentale della personalità
di Hannah Arendt: dove la storia personale s’intreccia con gli
avvenimenti salienti del “Secolo Breve”, le vicende della vita non3 «Io non appartengo alla cerchia dei filosofi. La mia professione (Beruf), perparlare in generale, è la teoria politica. Non mi sento in alcun modo unafilosofa, e non credo nemmeno di essere stata accettata nella cerchia deifilosofi». H. Arendt, G. Gaus, Che cosa resta? Resta la lingua materna, in «Aut-Aut»,(1990) n. 240, trad. it. di A. Dal Lago, Monaco 1976, pag. 11. Lo stesso rifiutodel titolo di filosofo è espresso da Anders in questo modo: «Nonostante vengaclassificato come “filosofo”, m’interesso di filosofia solo in misura ridotta.Il mio interesse è rivolto al mondo», Günther Anders antwortet. Interviews & Erklärungen,Berlino 1987, p. 67, cit. in C. Dries, Günther Anders e Hannah Arendt. Schizzo di unarelazione, in G. Anders, La battaglia delle ciliegie. La mia storia d’amore con Hannah Arendt,Donzelli Editore, Roma 2012, trad. it. di S. Bertolini, Monaco 2012, pag.LXXII.
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possono fare altro che riflettersi nel pensiero filosofico,
fornendovi giustificazione e sostegno. Hannah Arendt rientra nel
novero di quegli intellettuali che, negli anni del totalitarismo
nazista, furono costretti ad un’ odissea esistenziale, la quale,
nel suo caso, passa per Berlino e Parigi, fino all’emigrazione
negli Stati Uniti. Ciononostante, il suo legame con la lingua e la
cultura tedesca – la poesia, soprattutto – ha sempre costituito il
fil rouge che raccorda le varie tappe di questo viaggio. Perciò ho
creduto particolarmente interessante, a tal proposito, analizzare
il complesso rapporto della Arendt con la questione
dell’appartenenza ad una specifica nazione. Infine, la quarta
dicotomia, cioè identità/pluralità, mi ha permesso di affrontare i
temi più caratterizzanti del pensiero politico di Hannah Arendt,
come la filosofia della natalità e una concezione della politica
come essenziale all’esistenza umana: questo è ciò che Stefano
Petrucciani ha chiamato «dimensione esistenziale della politica»4,
il che vuol dire che quest’ultima, in quanto struttura primaria
dell’essere umano in società, contribuisce alla costituzione del
senso dell’esistenza umana nonché all’autentica espressione di se
stessi.
Nello studio non tanto del pensiero, quanto della personalità
di Hannah Arendt, si resta colpiti dall’importanza che rivestirono
per lei i rapporti umani, soprattutto quelli che intratteneva con
quanti avevano condiviso con lei il travaglio dell’esilio5. Una
figura tra tutte, che con lei ha intrattenuto un rapporto
speciale, mi ha colpito: quella di Günther Anders. In verità, i4 S. Petrucciani, Modelli di filosofia politica, Einaudi, Torino 2003, pag. 25.5 Si veda a tal proposito E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, BollatiBoringhieri, Torino 2006, pag. 12-13 (I ed. 1990), trad. it. di D. Mezzacapa,New Haven-Londra 1982.
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suoi rapporti con la Arendt sono discontinui: i due si conoscono
ad un seminario di Heidegger nel 1925 a Marburgo, quando Günther
Anders portava ancora il suo cognome di nascita, Stern. Non si
rivedranno fino al 1929 a Berlino: qui si sposeranno
frettolosamente e resteranno insieme fino al 1937. Una ripresa dei
loro rapporti avviene per via epistolare nel 19406, quando la
Arendt, insieme al secondo marito Heinrich Blücher, ha bisogno dei
documenti necessari per l’espatrio e chiede all’ex marito, già
emigrato, di procurarglieli7. Nonostante la sua sia stata una
presenza circoscritta nella vita di Hannah Arendt, la figura di
Günther Anders ha continuato prepotentemente ad imporsi alla mia
attenzione, tanto da adottarlo come termine di paragone efficace
per delimitare il campo della mia ricerca. Il fascino di questa
figura di filosofo non accademico, giornalista e romanziere, per
certi versi anche sfortunato nella sua carriera8, porta uno stigma
nel «nome di battaglia»9 che si è scelto, “anders”, cioè “diverso”.
6 L’epistolario, piuttosto scarno, è ancora inedito. Tuttora è conservato pressola Library of Congress di Washington e, in microfilm, presso il centro didocumentazione di Oldenbourg.7 C. Dries, Günther Anders e Hannah Arendt. Schizzo di una relazione, cit., pag. XXVIII. Inun’altra lettera, quella del 25 maggio 1941, Hannah, dopo aver avanzato inprecedenza una richiesta di aiuti economici, ringrazia Anders per il denaroricevuto con queste parole: «Mio caro – […] Tutto mi sembra come lo ziod’America, soprattutto dopo che hai inviato del denaro. Mi preoccupo solo dadove prendi tutto ciò e quanto tu ti sia esposto finanziariamente…» (Arendt adAnders, lettera del 25 maggio 1941, ibid., pag. XXIX).8 La carriera accademica di Anders subì a un certo punto una brusca battutad’arresto: quando, nel 1930, presentò una prima bozza della sua tesi diabilitazione all’insegnamento, riguardante la filosofia della musica, sembra checompisse l’errore fatale di non tenere conto, nel suo studio, di un recentelavoro di Adorno al riguardo. Quando questi, massima autorità in materia a queltempo, la lesse, la bocciò, forse perché adottava una prospettiva troppo lontanada quella degli esponenti della Scuola di Francoforte. L’episodio è in questachiave riportato in E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, cit., pag. 111.Ironia della sorte, Anders fu insignito del premio Adorno nel 1983, conferito apersonalità illustri nel campo della filosofia, del teatro, della musica e delcinema.9 C. Dries, Günther Anders e Hannah Arendt. Schizzo di una relazione, cit., pag. XVI.
7
Anders rappresenta il polo oppositivo ideale per affrontare uno
studio del pensiero di Hannah Arendt: il loro rapporto è stato
estremamente complesso, e le numerose differenze riscontrabili
nelle rispettive personalità intellettuali non sono certo state
estranee alla rottura nel 193710. Le differenze si riscontrano
persino nel retroterra familiare: se Anders era nato nell’ambiente
della borghesia intellettuale, e i suoi genitori erano entrambi
eminenti psicologi dell’età evolutiva, la Arendt aveva perso il
padre in tenera età ed era stata allevata dalla madre, la quale
aveva forti simpatie socialiste. Ma se Hannah Arendt, dopo i primi
anni negli Stati Uniti dedicati all’attività umanitaria in
soccorso dei profughi ebrei, riuscì infine a integrarsi con
successo nel mondo accademico, Anders, al contrario, a causa dei
suoi primi insuccessi, si rivolse, in termini senza dubbio meno
gratificanti, verso il mondo della carta stampata, e durante i
primi anni da rifugiato in America si dedicò ai lavori più
disparati, dal traduttore all’operaio in fabbrica11. Egli si faceva
un vanto di nutrire spregio per ogni accademia filosofica e ogni
inquadramento politico, e il seguente scambio di battute, durante
un fittizio incontro in treno, è esemplificativo del suo spirito
polemico:
«“Sì, ma allora Lei che cosa è?”. “Che cosa intende, lei, con il termine ‘che cosa’?”.
“Beh, dovrà pure appartenere a qualche gruppo o scuola di
10 Per una panoramica sui rapporti tra Anders e la Arendt nel periodo delmatrimonio si rimanda a Young Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, pagg. 108-116, peri motivi della rottura cfr. pag. 132. Su un piano congetturale, si può supporreche, nonostante l’affetto profondo che Anders nutriva per la Arendt, tra i dueabbia giocato un ruolo non secondario un’irriducibile competizione sul pianointellettuale (conversazione con P.P. Portinaro, 13/11/13).11 M. Latini, Il viaggio di Günther Anders, pag. 144, introd. a G. Anders, Senza radici in«MicroMega», (2011) n.5.
8
pensiero!”. “Perché devo? Ho di meglio da fare che dare un nome alle
mie posizioni”».12
Non si può dire nemmeno che Günther Anders e Hannah Arendt
condividessero gli stessi interessi culturali: nonostante il suo
interesse per le arti figurative e la musica, la Arendt non vi
sapeva accedere autonomamente, e spesso era Anders a dover fare da
medium13. Al contrario, Anders non condivideva affatto l’interesse
per la civiltà greca, che fu vitale per l’evoluzione del pensiero
arendtiano. Tutt’altro: egli «non dissimula l’uso pretestuoso,
dissacrante, sarcastico dello strumento teorico ereditato»14,
ritenendo l’inclinazione al confronto con la filosofia classica un
retaggio dell’influenza che Heidegger aveva avuto sulla giovane
Hannah.
«Ha una particolare familiarità con l’uomo del V secolo sulla base
dei suoi scritti di allora, e appare conversare con lui alla pari –
mentre non so mai bene fino a che punto la sua illimitata
comprensione eo ipso, almeno durante il colloquio, si tramuti anche in
consenso.»15
A proposito dei rapporti con Heidegger, si può dire che per
Anders sia stata una presenza ingombrante anche dopo gli anni di
Marburgo, almeno per due motivi: innanzitutto, per via di un
confronto polemico con quello che, d’altronde, era stato anche il
suo maestro, sia pure in forme e modi alquanto diversi, e in
secondo luogo, a causa di una rivalità personale con l’uomo con12 G. Anders, Senza radici, introd. di M. Latini, in «MicroMega», (2011) n.5, pag.153 (ed. or. Monaco 1981).13 G. Anders, La battaglia delle ciliegie. La mia storia d’amore con Hannah Arendt, cit., pag. 5-7.14 P.P. Portinaro, Il principio disperazione. Tre studi su Günther Anders, Bollati Boringhieri,Torino 2003, pag. 135.15 G. Anders, La battaglia delle ciliegie, cit., pag. 6.
9
cui la Arendt aveva intrattenuto una relazione amorosa non
soltanto ancora viva nei suoi ricordi, ma anche riflessa dal ricco
carteggio che ella continuava a intrattenere con Heidegger. Per
queste ragioni Anders parla così, in sarcastico riferimento alla
formula heideggeriana che vorrebbe gli uomini “pastori
dell’Essere”:
«“Credi davvero che siamo il popolo ontologico di pastori? E tutto
il resto, tutto ciò che esiste al di fuori di questo popolo, non sia
null’altro se non “gregge”?” Sentire l’espressione heideggeriana
“pastori” dalla mia bocca la irritava. “Popolo di pastori?” chiese
immediatamente e mi guardò con sospetto. […] E dopo una pausa: “La
parola ‘pastori’ dovrebbe essere forse un’allusione?”. “Senz’altro”,
ammisi inespressivo».16
La polemica essenzialmente filosofica di Anders con l’antico
maestro è stata di recente così sintetizzata:
«Heidegger viene accusato di rimanere ancorato ad una pseudo-concretezza
che caratterizzerebbe la sua filosofia come estetismo dell’inazione.
Secondo Anders, infatti, l’esserci resta ben lontano dall’essere
concreto, e questo proprio perché Heidegger da un lato nega che
abbia qualità divine, dall’altro non analizza le condizioni di
necessità che lo spingono al commercio col mondo […]. “La verità è che
l’esserci è cura perché è fame” argomenta Anders, formulando nei confronti di
Heidegger una critica materialistica all’ontologia esistenziale:
evitando una filosofia dei corpi, egli sembrerebbe dimenticare che
l’uomo è caratterizzato da bisogni e desideri che richiedono, di
volta in volta, di essere soddisfatti ed il fatto della cura (della
16 Ibid., pag. 24.10
relazione che l’essere si trova a dover intrattenere col mondo) ne
dimostrerebbe proprio i limiti ontici»17.
Una matrice comune del pensiero di Anders e Arendt può invece
essere rintracciata a partire dalla comune origine ebraica, che
portò entrambi a guardare alle vicende politiche europee da un
punto di vista diverso: quello del pariah, dell’emarginato,
dell’escluso, il quale, grazie alla sua vita da outcast, resta
indipendente e acquisisce un punto di vista eccentrico in
relazione alle vicende del mondo. E tuttavia, essi hanno vissuto
la loro ebraicità in modo differente: erano in disaccordo persino
su questioni di fede18. Nonostante tutte le discrepanze sinora
riscontrate, alcuni interpreti hanno creduto di poterli
considerare sinfilosofi19: quest’ipotesi si basa sulla forte
comunione intellettuale tra i due, che coincise con gli anni del
matrimonio, i cui risultati riecheggiano, indirettamente, nelle
opere successive di entrambi.
Ad ogni modo, il mio è un primo tentativo di far cadere il velo
del «comprensibile pudore» con cui si apre questa introduzione.
17 Alessia Zordan, La persistenza del presente, Tecnica e atemporalità nella filosofia di GüntherAnders in «Kainos», (2010) n°10.Disponibile su http://www.kainos-portale.com/index.php?option=com_content&view=article&id=136:la-persistenza-del-presente&catid=47:ricerche10&Itemid=8618 Anders si è sempre fermamente dichiarato ateo: «[…] ho goduto della libertà –un vantaggio che non poteva essere recuperato da chiunque provenisse da unadeterminata religione positiva o da un sistema etico irrigidito – di non saperee di non capire che cosa s’intendesse con il curioso termine “credere”».Ketzerein, Beck, Monaco 1982, pag. 327 sg. cit. in P.P. Portinaro, Il principiodisperazione, cit., pag. 18. Per il pensiero di Hannah Arendt al riguardo, sirimanda all’episodio narrato in G. Oberschlick, nota editoriale a La battaglia delleciliegie, cit., pag. 78-80: a seguito di una discussione filosofica su argomenti difede in casa di amici, Hannah Arendt avrebbe dichiarato a Hans Jonas: «Ho semprecreduto in Dio e non ho mai dubitato della sua esistenza – forse l’unica cosanella mia vita che abbia per me sempre rappresentato un punto fisso».19 C. Dries, Günther Anders e Hannah Arendt. Schizzo di una relazione, cit., pag. VIII.
11
13
Günther Anders e Hannah Arendt giovanisposi, Berlino 1929. La foto è di per séeloquente: i due, pur vicini, guardano indirezioni diverse; mentre lo sguardo diAnders risulta sfuggente, la Arendt rivolgeall’osservatore il suo «sguardo da ghetto»,nelle parole dello stesso Anders (cfr. Labattaglia delle ciliegie, cit., pag.5). Mentre lamano sinistra di Anders è affettuosamenteappoggiata sulla spalla di lei, Hannah nonricambia il gesto, e tiene entrambe lebraccia raccolte in grembo. Il busto di leisembra però leggermente inclinato verso
2. PRIMA DICOTOMIA: PENSIERO/AZIONE.
«I celesti fenomeni scrutaregiammai potei direttamente, senza
tener sospesa la mia mente, e mescereil sottil pensier nell’omogeneo ètra. Se dalla terra investigassi,
di giù le cose di lassù, non mai lescoprirei; poiché la terra a forza
attira a sé l’umore dell’idea.»
Aristofane, “Le Nuvole” (vs. 228-234, trad. it. di E. Romagnoli)
L’esergo con cui si apre questo capitolo è costituito dalle
prime parole che Socrate rivolge al vecchio Strepsiade, venuto a
chiedere di essere ammesso al Pensatoio, la scuola in cui Socrate
insegna ai suoi allievi ad avvalersi dell’arte retorica.
Aristofane, che considerava Socrate nel novero dei Sofisti, e
dunque di coloro i quali traviavano le menti dei giovani ateniesi
con l’ambiguità delle arti retoriche, raffigura Socrate in modo
grottesco, tale da suscitare il riso e il dileggio: egli è sospeso
in un corbello, in modo da restare più vicino al cielo per
indagarne meglio la natura e le leggi, e per evitare che la terra
contamini i suoi pensieri. Nell’immaginario comune, questo è il
filosofo: un uomo tutto perso nelle nuvole del pensiero, e lontano
da ogni senso comune.
La sfida che traspare dall’opera di Hannah Arendt sembra
quella di guardare alle vicende del mondo non dalla propria torre
d’avorio, bensì con gli occhi del common sense. Allo stesso modo,
Günther Anders non di rado ha preferito mettere da parte l’analisi
filosofica in favore di un’azione politica in presa diretta, in
un’epoca in cui le vicende storico-politiche e la crisi dei temi
tradizionalmente trattati dalla metafisica impedivano, in ogni
caso, ai “filosofi dopo Auschwitz” di barricarsi dietro al proprio15
contemptus mundi. Hannah Arendt si schierava apertamente «tra coloro
che da qualche tempo a questa parte hanno tentato di smantellare
la metafisica (con la filosofia e tutte le sue categorie) così
come le abbiamo conosciute dal loro esordio in Grecia fino ai
giorni nostri»20. Per questo, cominciare il mio percorso da questa
dicotomia mi pare d’obbligo, in quanto colloca Vita Activa in un
preciso contesto nella storia delle idee. L’opera esce nel 1958,
rappresentando così un’anticipazione del dibattito noto col nome
di Rehabilitierung della filosofia pratica aristotelica, inauguratosi
in Germania dopo l’uscita, nel 1960, di Verità e metodo di Hans-Georg
Gadamer (che era tra coloro che assistettero, insieme a Hans Jonas
e alla Arendt alle lezioni su Aristotele del giovane Heidegger).
L’opera di riferimento per questa “riabilitazione” della filosofia
pratica di Aristotele è l’Etica Nicomachea, in cui la gerarchia dei
saperi, articolata in tre gruppi – scienze teoretiche, poietiche e
pratiche –, nel dare autonomia ad ognuno degli ambiti della
conoscenza, accorda un proprio status anche all’azione. In
definitiva, l’Etica Nicomachea è dedicata all’analisi della vita
pratica, senza considerarla subalterna alla vita contemplativa.
L’attività di pensiero degli autori della Rehabilitierung è volta a
riequilibrare la bilancia tra teoria e prassi, riconoscendo a
ognuno dei tre livelli della conoscenza uno status autonomo e non
gerarchicamente dipendente dagli altri due: l’ambito della prassi
afferisce al mondo delle azioni umane, nell’ambito del divenire,
del contingente, ma non per questo va considerata come una
semplice deduzione dalle scienze teoretiche, bensì rappresenta un
20H. Arendt, The Life of the Mind, trad. it. La vita della mente, a cura di A. Dal Lago,Bologna 1987, pag. 306, (ed. or. New York-Londra 1978); in L. Boella, HannahArendt “fenomenologa”. Smantellamento della metafisica e critica dell’ontologia, pag. 83, in «Aut-Aut» (1990) n°240.
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sapere indipendente, con le sue caratteristiche proprie, e merita
la stessa attenzione che la filosofia ha riservato,
tradizionalmente, alla teoria. Anche Hannah Arendt ha un debito
nei confronti di Aristotele, sia nei richiami lessicali, sia per
via dell’apparato concettuale a cui si richiama. Dalle pagine di
Vita Activa emerge un confronto ed un richiamo continuo al mondo della
polis greca, e fu proprio la filosofia politica aristotelica ad
offrirne l’immagine ideale: l’uomo è per natura “animale
politico”, che agisce sempre nel raggio della sfera pubblica, e
perciò la sua esistenza si svolge sempre insieme agli altri, su un
piano paritario. Infatti, secondo la concezione aristotelica del
potere, tutti, a turno, salgono al potere, e non c’è una
distinzione netta tra chi governa e chi è governato, perché presto
le posizioni si capovolgeranno. La teoria politica aristotelica si
riferisce a una comunità di uomini uguali, che non possono
sottrarsi alla condizione della pluralità: perciò, fondamentale è
il confronto e lo scambio di opinioni. Anche per Hannah Arendt il
linguaggio riveste un’importanza particolare21, giacché rappresenta
il codice di comunicazione dei partecipanti alla sfera pubblica:
agire è anche prassi comunicativa.
«Discorso e azione rivelano questa unicità nella distinzione.
Mediante essi, gli uomini si distinguono anziché essere meramente
distinti; discorso e azione sono le modalità in cui gli esseri umani
appaiono gli uni agli altri non come oggetti fisici, ma in quanto
uomini. Questo apparire, in quanto è distinto dalla mera esistenza
corporea, si fonda sull’iniziativa da cui nessun essere umano può
21 A questo proposito si veda S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, cit., pagg.131 – 134.
17
astenersi senza perdere la sua umanità. Non è così per nessun’altra
attività della vita activa»22.
In realtà, anche Aristotele appare partecipe del “pregiudizio”
greco della preminenza della vita contemplativa, come testimonia
l’ultimo libro dell’Etica Nicomachea: dopotutto, la vita
contemplativa è l’unica via per raggiungere l’ideale di una vita
felice (eudaimonia). D’altro canto, però, a parte il suo debito nei
confronti dello Stagirita, l’obiettivo polemico di Hannah Arendt è
un altro: i suoi strali sono rivolti contro Platone, in quanto
primo apologeta della «incapacità del filosofo di accordare il
proprio stile di vita e le sue stesse preoccupazioni allo spazio
pubblico-politico»23.
Innanzitutto, è necessario analizzare l’impianto generale di
Vita Activa per comprendere le ragioni della recriminazione nei
confronti della filosofia platonica. Il tentativo della Arendt di
riabilitazione della vita pratica passa attraverso un’analisi
delle sue declinazioni: il lavoro, l’opera, l’azione. Queste
costituiscono i tre capitoli centrali dell’opera. Lo sforzo della
Arendt sta proprio nel ripercorrere i passi della degradazione
della vita pratica ad opera della ragione filosofica, con
l’obiettivo di rendere il sapere pratico, che fino ad allora era
rimasto in secondo piano, il momento più rappresentativo e
identificativo della condizione umana24.
22 H. Arendt, Vita Activa. La condizione umana, introd. di A. Dal Lago, Bompiani, Milano2009, pag. 128 (I ed. 1964), trad. it. di S. Finzi, Chicago 1958.23 H. Arendt, La storia e l’azione, introd. di D. Cecchi, in «MicroMega», (2011) n.5,pag. 131, trad. it. di D. Cecchi, New York 2005.24 Il sottotitolo dell’opera, La condizione umana (che, si noti, costituisce iltitolo delle edizioni anglosassoni, The Human Condition), è esemplificativo in talsenso: il lavoro, l’operare, l’agire sono le tre attività umane checostituiscono le condizioni della vita pratica.
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Il lavoro: afferisce alla sfera del corpo e al paradigma
dell’animal laborans. È legato ai bisogni primari e rientra nel ciclo
naturale di produzione, consumo e scarto, quest’ultimo, a sua
volta, riassorbito nel ciclo della vita. Nel contesto della polis,
il lavoro non si confaceva a un cittadino libero: non dovendo
lavorare per provvedere al proprio sostentamento, poiché erano le
classi subalterne a produrre i beni primari, egli si poteva
dedicare all’otium, cioè al tempo libero deputato alla cura di sé
stesso. Il modo migliore per spendere il proprio tempo, però, non
è dedicarsi esclusivamente alla cura privati negotii, quanto piuttosto
all’impegno nella vita politica e all’amministrazione della cosa
pubblica, nell’interesse della comunità.
L’operare: afferisce alla sfera della produzione manuale e al
paradigma dell’homo faber. Il suo fine è nell’oggetto prodotto al
termine del processo di creazione. Operare significa, per il
soggetto umano, produrre un mondo di oggetti. A tal fine, l’uomo,
fabbricatore del mondo, diviene necessariamente un distruttore
della natura: il prodotto è qualcosa di interamente nuovo, che non
può venir riassorbito dal ciclo naturale in quanto permanente,
stabile, durevole. In questo novero rientrano anche le opere
d’arte, che sfuggono alla corrosione del processo vitale in una
sorta di «premonizione di immortalità»25.
L’azione: ha luogo in una comunità di persone, per il fatto stesso
che viviamo con gli altri e agiamo in uno spazio pubblico. Essa è
espressione di libertà e si colloca al rango supremo nella
gerarchia della vita activa26. Ha il carattere della progettualità e di
rivelazione, segna l’irrompere del nuovo all’interno della
25 H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 120.26 Ibid., pag. 151.
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prefigurazione di relazioni in una comunità di persone. L’azione è
energeia, nel senso aristotelico del termine, il che vuol dire che
il suo fine risiede non in un prodotto al di fuori di essa, come
nel caso dell’opera, bensì in sé stessa, nel proprio compimento.
Il sapere pratico, come si vede da questa tripartizione,
rappresenta un agire non strumentale, che non trova il proprio
fine in un oggetto esterno, ma nel successo dell’azione stessa:
proprio in questo sta la differenza rispetto al sapere poietico.
Poiesis e praxis non coincidono in quanto, se la prima possiede il suo
fine al di fuori di sé, la prassi trova compimento nel successo
dell’azione stessa, cioè nella sua effettualità sul mondo.
Rientrando nell’universo degli affari umani, caratterizzato dal
divenire e dal contingente, l’azione non può essere analizzata con
criteri scientifici – quelli delle scienze teoretiche –, bensì ne
vanno considerati gli aspetti di imprevedibilità.
«Non si tratta soltanto di un’incapacità di prevedere tutte le
conseguenze logiche di un atto particolare […]; la difficoltà deriva
direttamente dalla storia che, come risultato dell’azione, inizia e
procede non appena sia passato il fugace momento dell’atto. La
difficoltà è che qualunque sia il carattere e il contenuto della
storia in questione […], il suo pieno significato può apparire solo
quando si conclude»27.
Da questo estratto emerge la rinuncia ad un facile finalismo in
favore di una teoria dell’«agire come erramento»28, giacché
l’imprevedibilità dell’azione implica che non c’è un’evoluzione
progressiva della storia umana, che è per definizione il luogo
27 Ibid., pag. 140.28 L. Boella, Hannah Arendt “fenomenologa”. Smantellamento della metafisica e critica dell’ontologia,cit., pag. 109.
20
della contingenza e della fragilità, che non obbedisce a nessun
senso né teleologia: non c’è un fato che ci guida verso
“magnifiche sorti e progressive”, ma comprendiamo gli
imprevedibili accadimenti della storia solo a posteriori. Queste
caratteristiche intrinseche del mondo umano hanno favorito lo
studio del necessario (cioè delle scienze teoretiche) a discapito
del contingente. La preminenza della teoria sulla prassi risale
alla filosofia antica: se lo studio dell’Essere riguarda il mondo
del necessario e del permanente, secondo la definizione di
Parmenide, allora è chiaro che il mondo del divenire e delle
azioni umane è troppo imprevedibile per esser fatto oggetto di
studio. La Arendt ascrive questo squilibrio, in particolare, alla
filosofia di Platone, che si è resa colpevole di una grave
mistificazione: considerare l’“iperuranio” l’unico vero mondo (di
cui il mondo in cui viviamo non è che una copia) significa
svalutare totalmente il dominio delle azioni umane. Prendendo come
esempio il mito platonico della caverna, scrive:
«La periagōgē (volgersi ad altro), che Platone vuole dal filosofo,
consiste in pratica in un rovesciamento dell’ordine del mondo
omerico. Non la vita dopo la morte, come nell’Ade di Omero, ma la
vita ordinaria sulla terra, è localizzata in una “caverna”, in un
mondo sotterraneo; non è l’anima l’ombra del corpo, ma il corpo
l’ombra dell’anima»29.
Il protagonista del mito della caverna agisce in due sensi
diversi: da un lato, il filosofo intraprende il cammino della
Verità e dell’Essere, e per farlo si libera dalle catene, che
simboleggiano i vincoli della vita mondana, ed esce dalla caverna
29 H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 216.21
a contemplare la luce del sole. Dall’altro, egli torna nella
caverna per “piegare” il mondo degli affari umani alla verità
della ragione filosofica30. Il mondo degli affari umani non è fatto
per accogliere il filosofo: egli può farvi ingresso soltanto se
riesce a imporvi gli standard della necessità e assolutezza,
caratteristiche di quelle « “idee” che possono essere percepite
solo in solitudine»31. Finché il filosofo resta nelle nuvole delle
concettualità, la Verità rappresenta per lui la più sublime
bellezza, perché è «ciò che più riluce»32: per questo, nel mito, è
simboleggiata dal sole. Ma quando si rende necessario imporre i
criteri dell’Essere al mondo del divenire, l’obiettivo della
ricerca filosofica non è più la Verità in quanto Bello, bensì in
quanto Bene. Questo è l’interesse di Platone nella creazione di
una società a misura della esigenze del filosofo, in cui
addirittura egli è re e la verità della ragione filosofica è
Legge. A tal proposito, la Arendt prende ad esempio i termini
greci prattein e archein, “agire” e “cominciare” (o anche:
“governare”33). Se il filosofo è colui che governa, il legame tra
azione e cominciamento si spezza: chi governa (archein), cioè il re-
filosofo, si tiene ben lontano dall’agire (prattein), poiché il mondo
degli affari umani esula dal suo dominio. In breve, «gran parte
della filosofia politica, da Platone in poi, potrebbe agevolmente
essere interpretata come una serie di tentativi di trovare
fondazioni teoretiche e modi pratici per una fuga totale dalla
politica»34. La visione platonica rappresenta uno svilimento della
prassi in quanto fa della politica una tecnica, in cui chi governa30 S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, cit., pag. 121.31 H. Arendt, La storia e l’azione, cit., pag. 131.32 H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 166.33 Ibid., pag. 163.34 Ibid., pag. 164.
22
possiede il sapere, mentre chi agisce esegue ciecamente degli
ordini:
«Nella Repubblica il re-filosofo applica le idee come l’artigiano
applica le sue regole e i suoi sistemi di misura; egli fa la sua
città come lo scultore fa una statua, e nell’opera finale di Platone
queste sono diventate anche leggi che richiedono solo di diventare
esecutive»35.
In effetti, le numerose metafore del reggitore dello stato che si
trovano in Platone – il politico come tessitore, come nocchiero,
come medico – sono tutte tratte dal mondo dei mestieri, e hanno
poco a che vedere con l’azione: anzi, confondono la questione che
alla distinzione aristotelica tra scienze pratiche e poietiche
toccherà di chiarire. Le metafore platoniche si basano su una
scissione netta tra governanti e governati, in cui il governante,
forte della sua techne politica, opera sempre per il bene della
comunità, e la ammaestra, e la guarisce da ogni male (come fa il
medico) o la guida in porto (come il nocchiero), ma senza tenere
conto della complessità del tessuto sociale e dell’imprevedibilità
delle azioni umane:
«La filosofia politica tradizionale tende a far derivare la
dimensione politica della vita umana dalla necessità che costringe
l’animale umano a vivere insieme con gli altri, piuttosto che dalla
capacità umana di agire. Essa sfocia in una teoria relativa al modo
migliore di soddisfare i bisogni derivanti dalla sfortunata
condizione plurale degli uomini, e di mettere in grado i filosofi di
non esserne disturbati».36
35 Ibid., pag. 167.36 H. Arendt, L’interesse per la politica nel recente pensiero filosofico europeo, pag. 32, in «Aut-Aut», (1990) n. 240, trad. it. di A. Dal Lago, New York 1954.
23
Insomma, non c’è nulla di più avverso alla filosofia della
politica, tanto che prima il filosofo ne rifugge, e poi tenta di
imporle gli standard della verità filosofica. Probabilmente è per
via di questa storica inimicizia tra filosofia e politica che
Hannah Arendt non si riconosceva nell’appellativo di filosofa,
considerandolo «sovraccarico di tradizione»37. Tra l’uomo che
filosofa con la ragione e l’uomo che agisce col common sense, ella
stava senza dubbio dalla parte di quest’ultimo. Hannah Arendt si
assume il compito di fare una diagnosi della politica senza mai
uscire dal regno del senso comune, senza mettersi sul
“piedistallo” della contemplazione: la sua opera è espressione del
suo amore per il mondo38.
Per gli stessi motivi, Günther Anders diffidava della
filosofia accademica, che riteneva non sapesse interpretare i
cambiamenti del mondo né tantomeno applicare la teoria in modo da
produrre qualche effetto risolutivo nella pratica39. La catacomba
molussica, il suo romanzo uscito postumo nel 1992, è esemplificativo
dell’opinione di Anders nei riguardi di quella che era da lui
considerata come sterile speculazione filosofica. La catacomba
molussica appartiene al filone della letteratura distopica, ed è
ambientato nei sotterranei di Molussia, una città fittizia in cui
vige un regime repressivo e autoritario. I protagonisti sono due
37 «L’espressione “filosofia politica”, che io evito, è straordinariamentesovraccarica di tradizione. Quando parlo di questi argomenti, ho sempre cura dimettere in rilievo la tensione tra filosofia e politica, e cioè tra l’uomo inquanto essere che filosofa, e l’uomo in quanto essere che agisce. […] Ma davantialla politica egli non ha una posizione neutrale. Non dopo Platone!», H. Arendt,G. Gaus, Che cosa resta? Resta la lingua materna, cit., pag. 12.38 Amor mundi era il titolo che l’autrice avrebbe preferito per Vita Activa, ma fupoi cambiato in fase di pubblicazione (E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia,cit., pag. 370). For Love of the World divenne il titolo della prima edizione dellabiografia della Young-Bruehl.39 P.P. Portinaro, Il principio disperazione, cit., pag. 48.
24
prigionieri politici, Olo, il maestro, e Yegussa, l’allievo. I
due, costretti all’inattività, passano i giorni di prigionia
nell’attesa messianica della rivoluzione che li riporterà alla
luce, meditando riguardo ai temi del progresso, dell’automazione,
della civiltà tecnologica, tutte anticipazioni dei temi dell’opera
della maturità. Ma quando il vecchio Olo muore, il giorno dopo
muore anche Yegussa, interrompendo così la tradizione dei loro
racconti, e senza che le loro meditazioni siano mai state di
utilità pratica40. Il finale aporetico dell’opera sembra
un’ammissione del fatto che il pensiero filosofico non possiede
alcuna ricetta segreta per deviare il corso del mondo. Anders,
nonostante la sua esigenza di manifestare il proprio impegno
politico per mezzo della militanza attiva, ha a sua volta trovato
il modo di esprimersi in forme diverse da quelle istituzionali, e
sempre tenendosi ben lontano da ogni schieramento. L’azione
politica, infatti, non deve essere intesa solo come politica
attiva: ci sono molti modi di agire politicamente, anche senza
riconoscersi, ad esempio, in un determinato partito, o comunque in
una realtà istituzionale o socialmente organizzata. La vita
pubblica in generale offre molte occasioni di agire, dove “agire”
significa imprimere un qualche effetto sul mondo. Azione politica,
ad esempio, fu per la Arendt il primo periodo trascorso da
rifugiata negli Stati Uniti, in cui ha offerto il proprio aiuto
alla Youth Aliya, un’associazione umanitaria che accoglieva i
giovani profughi ebrei negli Stati Uniti; azione politica fu anche
l’attività di insegnamento e ricerca nelle maggiori università
americane. D’altronde, «è possibilissimo capire la politica e
riflettere su di essa pur senza essere un cosiddetto animale40 Ibid., pagg. 99–106.
25
politico»41. Infatti, ella non ha mai voluto prender parte a
nessuna forma di politica attiva:
«Non sono qualificata per nessun tipo di lavoro politico diretto.
Non mi diverte confrontarmi con la folla, sono troppo facile al
disgusto, non ho abbastanza pazienza per manovrare, né abbastanza
intelligenza per mantenere un certo necessario distacco»42.
Se da una parte, la Arendt si è sempre tenuta lontana dalla
politica attiva, Anders, al contrario, ha sempre fatto del suo
lavoro di pubblicista un mezzo per esprimere il proprio impegno.
Anzi, dopo la svolta contrassegnata dalla bomba atomica su
Hiroshima e Nagasaki nel 1945, egli ammette di aver «disertato» la
riflessione teoretica, ma in nome di un’altra causa: la militanza
politica in prima linea.
«Se qualcosa mi ha indotto al silenzio filosofico, è stata la
convinzione e la sensazione che, di fronte al pericolo di un reale
naufragio dell’umanità, non solo preoccuparsi della sua “mera
disumanizzazione” era un lusso, ma che persino occuparsi
esclusivamente del pericolo di una fine effettiva, se ciò si
limitava a un lavoro filosofico-teoretico, restava cosa inutile. Io
sentivo assai più ineludibile il partecipare effettivamente, per
quanto potevo, alla battaglia combattuta da migliaia di persone
contro una simile minaccia; e dunque, se ho piantato in asso il
primo volume [de L’uomo è antiquato], è stato perché non volevo piantare
in asso la cosa che in esso avevo rappresentata».43
41 Discorso inedito di Hannah Arendt pronunciato nel ricevere il premio Sonningnel 1975, in E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, cit., pag. 11.42 Hannah Arendt a Elliot Cohen, 24 novembre 1948, in E. Young-Bruehl, HannahArendt. Una biografia, cit., pag. 273.43 G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzioneindustriale, trad. it. di M. A. Mori, vol. II, Bollati Boringhieri, Torino 2012,pag. 5 (ed. or. Monaco 1980).
26
Gli fa eco Hannah Arendt, la cui polemica nei confronti dello
stereotipo del pensatore avulso dal mondo fa capo a uno dei tanti
dualismi insanabili che caratterizzano la filosofia moderna. La
dicotomia pensiero/azione ha assunto i caratteri di una radicale
scissione: la scoperta dell’universo dell’interiorità – di cui il
cogito cartesiano è l’espressione più compiuta –, e la conseguente
perdita del mondo44. I tradizionali dualismi della tradizione
filosofica occidentale, come «idealismo e materialismo,
trascendentalismo e immanentismo, realismo e nominalismo, edonismo
e ascetismo e così via»45, si possono dunque ricondurre alla
scissione tra interiorità e mondanità.
«La convinzione che la verità oggettiva non è data all’uomo, ma che
egli può sapere solo ciò che fa lui stesso, non è conseguenza dello
scetticismo, ma è una scoperta dimostrabile, e quindi non conduce
alla rassegnazione ma o a un’attività più intensa o alla
disperazione. La perdita del mondo nella filosofia moderna […] è
differente non solo per intensità dall’antico sospetto dei filosofi
verso il mondo e verso gli altri con i quali lo condividevano; il
filosofo non si volge più dal mondo della caducità ingannevole a un
altro dominato da una verità eterna, ma si distoglie da entrambi e
si ritira in se stesso».46
In tal modo, l’intellettuale si condanna all’inattività,
all’immobilità, il che è ben diverso dalla contemplazione
auspicata da Platone, che portava una sorta di meraviglia muta,
anzi, ammutolita davanti all’esperienza della Verità, ma al tempo
stesso fruttuosa, poiché è l’esperienza da cui nasce e a cui tende
la filosofia stessa:44 H. Arendt, Vita Activa, cit., pagg. 214-218.45 Ibid., pag. 217.46 Ibid., pag. 217.
27
«Appare non meno plausibile che tale meraviglia debba essere
essenzialmente muta, che cioè il suo effettivo contenuto sia
intraducibile in parole. Questo spiegherebbe almeno perché Platone e
Aristotele, che consideravano il thaumazein l’inizio della filosofia,
convenissero anche […] che uno stato di incomunicabilità, lo stato
essenzialmente incomunicabile della contemplazione, era il fine
della filosofia. Theōria, in effetti, è solo un’altra parola per
thaumazein; la contemplazione della verità alla quale arriva infine
il filosofo è la meraviglia muta, filosoficamente purificata, con
cui aveva cominciato»47.
La bilancia sembra stavolta pendere a favore della prassi. Ma il
pragmatismo dell’età moderna interpreta quest’ultima piuttosto
come azione finalizzata a uno scopo: il paradigma di riferimento è
infatti quello dell’homo faber, che strumentalizza il mondo secondo
le proprie necessità. L’avvento delle teorie utilitaristiche
dell’Ottocento, soprattutto il fordismo e il taylorismo, hanno
fatto il resto, segnando la crisi dell’homo faber e l’avvento
dell’animal laborans, che meglio si presta al lavoro alienante della
catena di montaggio. La perdita non sarebbe stata altrettanto
ingente se il processo di secolarizzazione (che è un altro modo di
indicare quello che Weber chiamava “disincanto del mondo”), cioè
«la perdita della fede derivata dal dubbio cartesiano, non avesse
privato la vita individuale della sua immortalità, o almeno della
certezza dell’immortalità»48. L’animal laborans è il componente ideale
della società di massa e dello stato totale, poiché si lascia
assorbire dai processi anonimizzanti e avvilenti del lavoro in
fabbrica, nonché dal ciclo della produzione e dello scarto. In un
tale contesto, come scrive Hannah Arendt nelle pagine conclusive47 Ibid., pag. 225.48 Ibid., pag. 238.
28
di Vita Activa, l’unica salvezza per l’umanità consiste nel
riconquistare le vette del pensiero, come baluardo di massima
libertà in condizioni di illibertà totale:
«Il pensiero, infine […] è ancora possibile, e senza dubbio
efficace, ovunque gli uomini vivano in condizioni di libertà
politica. Disgraziatamente, a differenza di ciò che si pensa di
solito circa la proverbiale indipendenza dei pensatori, nella loro
torre d’avorio, nessun’altra facoltà umana è così vulnerabile, e di
fatto è molto più facile agire in condizioni di tirannia che non
pensare».49
La dicotomia pensiero/azione è così ricomposta: l’appello
arendtiano per la riappropriazione della libertà attraverso il
pensiero passa anche per la riabilitazione dell’azione morale. A
questo punto, se il male è “banale”, lo è anche il bene: agire
secondo coscienza, indipendentemente da eventuali «condizioni di
tirannia», significa fare appello all’umanità che ci accomuna
tutti, senza bisogno di alcun eroismo. La risoluzione della
Arendt, la quale forse sottovaluta il potere di fascinazione sulle
coscienze delle ideologie che si accompagnano ai totalitarismi,
sembra decisamente ottimistica rispetto a quella di Anders: egli,
infatti, ha fatto della questione della possibilità di azione
politica nell’era della tecnica il nucleo della sua produzione
intellettuale. Anders, invece di ricorrere alle categorie senza
tempo di “libertà”, “morale”, “azione”, fa una diagnosi del tempo
presente e, riconoscendo la crisi della morale tradizionale,
approda ad un nichilismo senza scampo. La possibilità di un’azione
autentica viene negata, se nell’era della tecnica svanisce ogni
nozione di moralità o immoralità. Nella società di massa, gli49 Ibid., pag. 242.
29
uomini non sono chiamati ad agire moralmente, anzi, sono
dispensati da ogni responsabilità dell’azione. Un esempio estremo:
lo sgancio della bomba atomica è avvenuto attraverso un gesto
asettico, che porta alla disconnessione, nella mente dell’agente,
tra l’esecuzione di un ordine e l’annientamento di migliaia di
vite umane: tra l’uno e l’altro, infatti, c’è una distanza
insanabile, tanto che l’esecutore materiale non vede nemmeno
l’effetto della propria azione50. Con l’età della tecnica, persino
i metodi di annientamento della vita umana si fanno sempre più
sofisticati, col risultato che una relazione diretta tra vittima e
carnefice è pressoché assente. La moralità o immoralità
dell’azione, dunque, si può imputare a chi esegue materialmente
gli ordini di un superiore? A ben vedere, costui sarebbe
null’altro che un ingranaggio di un sistema in cui vige una
«irresponsabilità organizzata»51. Quello di Anders non è un appello
ad una facile assoluzione, piuttosto una polemica nei confronti
dell’inconsapevolezza dei componenti della società di massa, che
traducono il paradigma della catena di montaggio in tutti gli
aspetti della loro vita, e ritengono le loro azioni esenti da ogni
questione di moralità o di immoralità. A farne le spese, in ultima
analisi, è solo un ingranaggio del sistema, colpevole di aver
effettuato un gesto apparentemente asettico, ma la cui meccanicità
provoca, nella mente di chi lo compie, una dissociazione tra quel
gesto e le sue inevitabili conseguenze. In questo sistema, gli
individui tendono a considerarsi, in un certo qual modo, “al di
qua” del bene e del male. L’azione si riduce ad un gesto
automatico e ad una esecuzione di ordini, che sollevano l’agente50 G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzioneindustriale, cit., pag. 59.51 P.P. Portinaro, Il principio disperazione, cit., pag. 159.
30
da ogni riflessione o scelta. Causa ed effetto, intenzioni e
conseguenze, non hanno alcuna connessione: l’azione è ridotta a
pura automazione.
«Fabbricare non è dunque più fabbricare e agire non è più agire. Che
queste due degenerazioni si siano manifestate contemporaneamente,
non è un caso. Qui piuttosto ci troviamo di fronte a un unico
evento: entrambe le forme di attività sono cadute vittima dello
stesso nemico, cioè di una terza forma di attività che adesso,
incurante di tutte le differenziazioni precedenti, ha monopolizzato
del tutto la prassi: il “servire”».52
Una facile risoluzione sarebbe quella di riporre le proprie
speranze in una morale dell’eroismo – secondo cui il pilota
d’Hiroshima53 si sarebbe dovuto rifiutare di eseguire gli ordini.
«Sventurata la terra che ha bisogno di eroi», recita un celebre
verso di Bertolt Brecht, autore molto amato da Anders: sperare
52 G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzioneindustriale, cit., pag. 60.53 A partire dal 1959, Anders intrattenne un rapporto epistolare col pilotaClaude Eatherly, nel periodo in cui quest’ultimo era ricoverato in un ospedalepsichiatrico, per via dei disturbi da stress post-traumatico dopo i fatti diHiroshima. Ed. orig. Off limits für das Gewissen. Der Briefwechsel zwischen dem Hiroshima-PilotenClaude Eatherly und Günther Anders. Rowohlt, Reinbek 1961. In traduzione italiana, Lacoscienza al bando. Il carteggio del pilota di Hiroshima Claude Eatherly e di Günther Anders, Einaudi,Torino 1962. In realtà, Eatherly non fu l’esecutore materiale del gesto (non eranemmeno a bordo dell’Enola Gay), ma quel giorno era al comando del volo “diricognizione” che sorvolava Hiroshima (cfr. M. P. Paternò, Responsabilità e cura delmondo nell’età globale. Riflessioni sulla convivenza politica in una prospettiva storico-filosofica, in corsodi stampa, pag. 12). Babette Babich sostiene che gli aviatori selezionati perquella missione non potevano non essere al corrente che Little Boy non era unabomba come le altre, come si evince dalla traiettoria evasiva presa dalbombardiere subito dopo il lancio, e dall’importanza assunta dai meteorologipartecipanti alla missione, tra cui Eatherly stesso (B. Babich, Angels, the Space ofTime, and Apocalyptic Blindness: On Günther Anders’ Endzeit–Endtime, in «Etica &Politica/Ethics & Politics», XV, 2013, n° 2, pag. 148). Eatherly, dunque,secondo quest’interpretazione, non poteva non essere cosciente, almeno inteoria, delle conseguenze delle sue azioni: egli è diventato il simbolo di queltragico evento proprio in virtù del senso di colpa che l’ha afflitto per tuttala vita.
31
nella buona coscienza del singolo è vano in un contesto in cui la
tendenza ad auto-assolversi è generalizzata, in cui
l’irresponsabilità individuale trova la propria giustificazione
all’interno della struttura stessa della società54. A tal
proposito, anche Anders rileva, come Arendt, la connessione tra
«inopportunità del pensare»55 e illibertà politica:
«Qui si sostiene la tesi che la tendenza al totalitario fa parte dell’essenza della
macchina e originariamente nasce dal regno della tecnica; che la tendenza, insita
in ogni macchina in quanto tale, di sopraffare il mondo, di
sfruttare in modo parassitario i pezzi di mondo che non ha
sopraffatti, di concrescere con altre macchine e di funzionare
insieme a esse, come pezzi all’interno di un’unica macchina totale;
che tale tendenza rappresenta il fatto fondamentale; e che il
totalitarismo politico, pur sempre abominevole, rappresenta soltanto
un effetto e una variante di questo fondamentale fatto
tecnologico».56
54 Sia che si tratti di Stato totalitario, sia di società di massa, la moraleeroica non ha, non può avere, nessun corso, in nessun ambito della vita, né dellamorte. A tal proposito, sono particolarmente eloquenti le parole di Peter Bamm,un medico tedesco testimone dell’eccidio degli ebrei a Sebastopoli del luglio1942, da parte delle “Squadre della Morte” al seguito delle truppe tedesche inRussia. Ricordando quell’evento, nella sua opera Die Unsichtbare Flagge (Monaco,1952), per spiegare le ragioni dell’impossibilità di rifiutare, con un attoeroico, di eseguire gli ordini dei superiori, scrive così: «It belongs among therefinements of totalitarian governments in our century that they don’t permittheir opponents to die a great, dramatic martyr’s death for their convictions. Agood many of us might have accepted such a death. The totalitarian state letsits opponents disappear in silent anonymity». La citazione è riportata in ErinOverbey, Hannah Arendt and The New Yorker, dall’archivio online del «New Yorker», 31maggio 2013.Disponibile su http://www.newyorker.com/online/blogs/backissues/2013/05/hannah-arendt-and-the-new-yorker.html.55 Ibid., pag. 374.56 Ibid., pag. 409.
32
La morale andersiana segna dunque lo scacco dell’etica della
responsabilità, di cui Hans Jonas era stato il maggiore – e più
ottimistico – teorico.
33
3. SECONDA DICOTOMIA: PRIVATO/PUBBLICO.
«[Gli esponenti del Partito Interno] avrebbero potuto analizzare e mettere su carta, nei minimiparticolari, tutto quello che s'era fatto, s'era detto e s'era pensato; ma l'intimità del cuore, il cui
lavorio è in gran parte un mistero anche per chi lo possiede, restava imprendibile».
G. Orwell, “1984”
Si è visto ampiamente, nell’analisi della prima dicotomia,
come in Vita Activa il modello della polis sia assunto come
“idealtipo”, cioè come un paradigma da cui hanno tratto origine le
categorie di teoria e pratica politica che sono alla base della
tradizione occidentale. Il costante riferimento a tale modello di
per sé non implica che l’autrice aspiri a un irrealistico ritorno
di quelle esperienze nel presente. La polis è per la Arendt una
categoria ideale in cui si concretizzano «accettazione della
temporalità e bisogno di durata, riconoscimento dei rischi della
pluralità e della differenza e rifiuto della sicurezza nel
dominio»57: ella è ovviamente cosciente della mera idealità che
quel modello rappresenta, e ai suoi giudizi non dovrebbe essere
attribuito carattere storico, se non nel senso ristretto di storia
delle idee. L’analisi della dicotomia privato/pubblico muove,
ancora una volta, da un richiamo al pensiero greco così inteso, e
non potrebbe assumere tratti più antinomici:
«Secondo il pensiero greco, la capacità degli uomini di organizzarsi
politicamente non solo è differente, ma è in diretto contrasto con
l’associazione naturale che ha il suo centro nella casa (oikia) e
nella famiglia. Il sorgere della città-stato significò per l’uomo
ricevere “accanto alla sua vita privata un sorta di seconda vita, il
suo bios politikos. Ora ogni cittadino appartiene a due ordini di
57 S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, cit., pag. 277.34
esistenza; e c’è una netta distinzione nella sua vita tra ciò che è
suo proprio (idion) e ciò che è in comune”»58.
Dal brano precedente emerge un individuo irrimediabilmente scisso
tra due dimensioni in netta contrapposizione: la vita privata, che
include la dimensione degli affetti e il contesto familiare, e
rappresenta la forma primigenia di associazione tra gli uomini, e
la vita pubblica, che non sembra avere, però, gli stessi crismi
della precedente. Infatti, se la vita privata è qui definita come
«associazione naturale», è implicito che la dimensione pubblica
sia artificiale, secondaria e successiva, la quale, affiancandosi
alla preesistente sfera privata, costringe gli uomini a dividersi
tra «due ordini di esistenza». Il trauma derivante da tale
sdoppiamento ha radici profonde: la civiltà della polis si sviluppò
proprio in ragione della crisi del sistema tribale, basato sui
legami di sangue: il potere non si tramanda più all’interno di
un’unica famiglia aristocratica (genos), bensì viene
ridistribuito, secondo le leggi (nomoi) della città, tra i
cittadini della polis, che trovano il loro spazio istituzionale di
confronto nell’agorà. Ora, in questo contesto di uguaglianza e
parità, l’unico mezzo che hanno i cittadini per far valere la loro
opinione non è più l’influenza legata alla tradizione del potere
familiare, ma bensì sono il linguaggio e le arti retoriche. La
dimensione comunicativa della prassi democratica assume un rilievo
così importante che chi non era cittadino, chi era straniero, era
aneu logou, cioè «privo […] di un modo di vita nel quale solo il
discorso aveva senso e nel quale l’attività fondamentale di tutti
58 H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 19.35
i cittadini era parlare tra loro»59. La dicotomia in questione
comincia dunque ad articolarsi così:
La vita privata (il paradigma dell’oikos) è la sede, oltre che degli
affetti, anche dei bisogni e delle necessità dell’uomo, che non
possono essere soddisfatti se non vivendo nella piccola comunità
familiare, in cui vige una netta distinzione di ruoli, in modo che
ognuno sia preposto a un compito specifico: l’uomo si occupa della
sopravvivenza individuale, provvedendo al nutrimento della
famiglia, e la donna si occupa della sopravvivenza della specie,
mettendo al mondo dei figli. È caratterizzata da rigide gerarchie,
funzionali al regime strettamente patriarcale.
La vita pubblica (il paradigma della polis), invece, è il dominio
della libertà, dell’espressione di sé, e tale libertà è la chiave
per una vita felice e realizzata, per la conquista dell’eudaimonia
aristotelica, perché se si è liberi dai bisogni materiali, dalle
necessità imposte dal ciclo vitale, allora ci si può dedicare alla
cura degli affari pubblici, che non è altro che cura sui, dato che la
dimensione politica rappresenta la vera realizzazione e il vero
scopo di un cittadino. Al contrario della sfera privata, la sfera
pubblica è caratterizzata da una condizione di uguaglianza tra gli
individui, che si confrontano ad armi pari sul terreno dell’agorà.
Si badi che lo spazio pubblico non deve essere inteso come uno
spazio meramente fisico, come ad esempio era l’agorà, ma come una
dimensione della vita in cui ciò che accade è visibile a tutti.
Per dirla con le parole della Arendt stessa, lo spazio pubblico è
«lo spazio che c’è tra individui legati l’uno all’altro – ma allo
stesso tempo separati e protetti – da molte cose che hanno in
59 Ibid., pag. 21.36
comune: lingua, religione, storia, usanze e leggi»60. Insomma, lo
spazio pubblico è costituito da una complessa rete di relazioni, e
per spiegarlo la Arendt ricorre a una metafora spesso citata:
«Vivere insieme nel mondo significa essenzialmente che esiste un
mondo di cose tra coloro che lo hanno in comune, come un tavolo è
posto tra quelli che vi siedono intorno; il mondo come ogni in-fra [in-
between], mette in relazione e separa gli uomini nello stesso tempo.
La sfera pubblica, in quanto mondo comune, ci riunisce insieme e
tuttavia ci impedisce, per così dire, di caderci addosso a
vicenda»61.
Lo spazio pubblico unisce, nel senso che è la sfera comune a tutti
gli agenti, ma al tempo stesso divide, in quanto è ciò che si
interpone – «in-fra», appunto – tra coloro che prendono parte alla
vita pubblica, impedendo che uno spazio istituzionalizzato diventi
soffocante e pervasivo, annullando, invece che enfatizzare, le
qualità del singolo. L’esperienza dello spazio pubblico, proprio
in quanto spazio istituzionalizzato, con il suo apparato di
regole, si qualifica dunque come un “gioco”di manifestazione e di
espressione della propria identità, di disvelamento di se stessi
nella comune dimensione della mondanità62. Uno spazio pubblico così
inteso deve molto al concetto heideggeriano di essere-con-gli-
altri: ma se in quel caso assumeva un carattere esclusivamente
esistenziale, la Arendt lo riabilita nel senso politico di essere-
insieme, enfatizzando così l’imprescindibile condizione della
60 H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 1992,pag. 269, in S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, cit., pag. 278.61H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 39.62Si vedano a tal proposito S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, cit., pag.281; A. Dal Lago, Una filosofia della presenza. Hannah Arendt, Heidegger e la possibilità dell’agire,cit., pag. 109 e A. Dal Lago, La città perduta, pag. XVII, introd. a H. Arendt, VitaActiva, cit.
37
pluralità nella sfera pubblica. La dicotomia privato/pubblico
comincia così a trovare una risoluzione, che, coerentemente con la
complessità del pensiero dell’autrice, non potrebbe mai essere
facilmente conciliativa: quella “mano invisibile” che concilia
l’interesse privato con la cura degli affari pubblici non è che
un’illusione, e vivere in comunità non vuol dire condividere scopi
e obbiettivi, ma essenzialmente condividere la condizione umana
dell’essere-nel-mondo. Tra privato e pubblico ci deve essere una
distinzione, quantomeno dettata dal pudore: «La distinzione tra la
sfera pubblica e quella privata […] corrisponde alla distinzione
tra cose che dovrebbero essere mostrate e cose che dovrebbero
essere nascoste»63. Il privato è sede dell’ ob-scenum, cioè di
quanto, per sua stessa natura, deve restare lontano dal
palcoscenico della vita pubblica.
Si noti, tuttavia, che la dicotomia in questione non
rappresenta l’opposizione tra una dimensione positiva e una
negativa della condizione umana, una, la sfera pubblica, da
accogliere e da celebrare, mentre l’altra, la sfera privata, da
rigettare come gretta e meschina. Questa dicotomia non sottintende
giudizi di valore, ma mette in risalto due momenti ugualmente
importanti. Hannah Arendt dedica, infatti, ampio spazio
all’analisi della sfera privata, evidenziandone tutta la
complessità. Essa è quella dimensione dell’esistenza in cui ciò
che accade è al riparo dagli sguardi altrui, anzi, si potrebbe
dire che l’assenza degli altri è la sua caratteristica
fondamentale. In Vita Activa si trova spesso l’aggettivo “prepolitico”
63 H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 52.38
in riferimento alla sfera privata64, principalmente in due sensi:
innanzitutto, l’aggettivo indica la precedenza cronologica
dell’istituto della famiglia su un’ideale linea dell’evoluzione
delle forme politiche. In secondo luogo, implica che la sfera
privata sia il presupposto della libertà di cui gode l’individuo
nella sfera pubblica: la sua libertà consiste anche nella
possibilità di ritirarsi nel suo dominio privato, fatto di
riservatezza e di isolamento. L’epoca che ha contribuito a rompere
gli equilibri tra i «due ordini di esistenza» è stata la
modernità. Infatti, è a partire dall’opera di Cartesio che
comincia a costituirsi un concetto di soggettività attorno a cui
ruoterà tutta la speculazione filosofica fino a Kant. L’uomo e la
sua individualità diventano il perno su cui s’innesta una nuova
concezione del sapere, in cui egli è misura di tutte le cose. La
sfera privata diviene un “rifugio” dal clamore della vita
pubblica, e assurge a custode dell’individualità – anzi,
dell’individualismo –, i cui baluardi sono il lavoro e la
proprietà privata, attorno a cui si concentrano gli interessi
della classe borghese. Non solo il privato diventa la dimensione
dominante, ma pretende di asservire anche il pubblico alle proprie
necessità: così si viene a formare una sfera intermedia, quella
del sociale. E’ il momento in cui la tutela degli interessi
privati assume rilevanza pubblica, nonché quello della
consacrazione del concetto di libertà negativa, tipica della
modernità, così come teorizzato da Benjamin Constant: la sfera
pubblica non è il regno della libertà, ma rappresenta
64 Ad esempio in H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 23: «[…] la libertà risiedeesclusivamente nella sfera politica, mentre la necessità è soprattutto unfenomeno prepolitico, caratteristico dell’organizzazione domestica privata,[…]».
39
semplicemente l’autorità dello Stato, il cui compito principale
consiste nel tutelare i cittadini preservandoli da vincoli di
natura politica ed economica, che impediscono la realizzazione
degli interessi privati. Il risultato è che la vita privata
diventa ora il regno della libertà, in cui si gode di fatto dei
vantaggi del laissez faire, mentre la vita pubblica diviene il regno
della necessità: in questo stravolgimento degli equilibri tra
privato e pubblico si rispecchia quello tra pensiero e azione.
Infatti, è proprio durante l’età moderna che ha maggior corso
l’immagine del pensatore rinchiuso nella sua torre d’avorio,
lontano dalle faccende umane: egli si è rifugiato nella propria
vita privata per garantirsi la massima libertà di pensiero, in
assenza di uno spazio pubblico che, come nella città-stato greca,
sia dominio di libertà autentica.
Tuttavia, una sfera privata vista come mero dominio dei propri
interessi particolari, che ci allontanano dalla cura della cosa
pubblica e ci costringono a un meschino individualismo, sarebbe
decisamente parziale. Ci sono, infatti, due principali «tratti
non-privativi della privacy»65 che dimostrano quanto essa sia
essenziale per la condizione umana, e quanto sarebbe catastrofica
la sua soppressione:
Il primo è l’idea, di origine aristotelica, che uno dei principali
moventi delle azioni umane sono gli affetti e gli interessi
personali, che hanno sede nella comunità familiare: privati di
queste componenti, gli uomini saranno privati di un importante
motivazione ad agire.
65 H. Arendt, Vita Activa, cit., pag, 51.40
In secondo luogo, la privacy è un momento fondamentale di rifugio e
protezione dalla continua esposizione agli occhi degli altri,
giacché «una vita spesa interamente in pubblico, alla presenza
degli altri, diventa, per così dire, superficiale»66.
La rinuncia alla dimensione del privato sarebbe drammatica, poiché
dalla sue ceneri sorgerebbe uno spettro che la Arendt ben
conosceva: quello del totalitarismo. Nello stato totale, tutto è
reso comune. In questo senso, si può rivolgere una critica di
stampo popperiano alla repubblica platonica, in cui lo stato è
simile ad una famiglia estesa, e poggia su un presupposto in cui
anche lo stato totale affonda le sue radici, cioè la
pubblicizzazione del privato, giacché ogni dimensione
dell’esistenza dei consociati deve essere sottoposta al vaglio
pervasivo dell’autorità pubblica, il quale, nello stato
totalitario, si avvale di una potente burocrazia.
Tuttavia, il totalitarismo possiede modi sottili di
ripresentarsi, almeno in alcuni suoi aspetti, anche dopo la fine
dell’epoca in cui ha avuto maggior corso. La società di massa è
uno di questi. I risvolti drammatici della perdita della privacy e
della crisi della vita pubblica come dominio della libertà
autentica sono affrontati in alcune pagine de L’uomo è antiquato,
l’opera che ha consacrato Günther Anders come uno dei più acuti
critici della società di massa. Nel capitolo intitolato “Il
privato”, l’annientamento della sfera privata viene prospettato
primariamente come una sostanziale eliminazione di tutti i confini
geografici e spaziali, giacché i mass-media, diffondendo immagini e
suoni in tempo reale, portano gli oggetti e gli eventi del mondo
66 Ibid., pag. 52.41
direttamente nelle case. Tuttavia, ciò che giunge a invadere la
sfera privata non è che un’immagine delle cose del mondo,
nient’altro che un «fantasma di mondo»67. La violazione del privato
è manifesta nei palinsesti televisivi, in cui la vita privata
delle persone viene trasmessa in migliaia di case
contemporaneamente, in un tipo di programma che oggi chiameremmo
reality show: in questa formula si riflette l’illusione che ciò che ci
viene presentato davanti sia davvero la realtà, e non una finzione
edulcorata a beneficio delle telecamere. Dunque, da una parte la
“vita vera” presentata in televisione è fabbricata appositamente
allo scopo di dare un’illusione di realtà; d’ altro canto, le vere
emozioni diventano teatrali, da true stories diventano solo stories, in
una veste più appetibile per i telespettatori avidi di racconti.
Secondo Anders, si tratta proprio di “dare in pasto” le storie
allo spettatore, giacché egli non è che un «cannibale di fantasmi, che
divora le immagini dei suoi simili caduti nella trappola della
macchina da ripresa»68. Ad ogni modo, il ruolo dello spettatore non
è solo quello di “nutrirsi” passivamente di immagini, poiché
anch’egli è una potenziale vittima di questo processo di svendita
del privato al pubblico: nella società di massa, si è tutti sotto
gli occhi vigili delle telecamere, e le true stories della nostra vita
potrebbero a loro volta essere trasformate in stories, pronte per
andare in onda.
Il furto della privacy, nelle sue molteplici e subdole
modalità, passa anche attraverso il furto delle immagini. Le
immagini non sono che una copia dei loro “originali” umani, ed
67 G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzioneindustriale, cit., pag. 193.68 Ibid., pag. 195.
42
erroneamente si ritiene che il furto delle immagini sia innocuo,
giacché le cose del mondo che vi sono rappresentate non sono per
nulla influenzate dal furto. Anders critica quest’opinione
diffusa, argomentando che gli oggetti fotografati sono influenzati
dalla loro «disponibilità alla riproduzione»69, che li snatura e li
trasforma: per questo motivo, più grave è quando gli oggetti
riprodotti non sono cose, ma sono parti di noi, immagini della
nostra vita o registrazioni dei nostri discorsi, che sono
conservate in hard copy, cioè in forma durevole di oggetto. Chi ruba
queste riproduzioni ci possiede effettivamente, ci ha in pugno. In
effetti, in questo caso l’argomentazione di Anders sembra debole:
non si spiega il motivo per cui nel caso di immagini ricevute si
tratta di fantasmi, mentre le immagini offerte rappresentano un
vero e proprio furto della persona: è forse indice del fatto che
la propria privacy è sempre più importante di quella altrui? Ad ogni
modo, Anders prosegue con il sottolineare come tutti, in
definitiva, siamo continuamente esposti al furto di immagini e di
suoni che attentano alla nostra sfera privata, e che queste
dinamiche hanno creato un nuovo profilo di criminale: il ladro di
immagini, una figura atipica di colpevole contro la proprietà, che
rappresenta la dimensione costitutiva per eccellenza della sfera
privata. Ad un nuovo colpevole si accompagna una nuova fattispecie
di reato, che ci espone ad un nuovo pericolo, «quello di venir
derubati della nostra apparenza e dei nostri discorsi»70. Il reato
di «iconocleptomania» ha un impatto enorme anche sui comportamenti
comuni, perché detta la smania di strappare una riproduzione agli
oggetti del mondo (ad esempio, una fotografia) e considerarla come
69 Ibid., pag. 196.70 Ibid., pag. 196.
43
propria, senza la consapevolezza di rubare – giacché,
apparentemente, la vittima non subisce alcun danno e non sembra
avere una nozione della perdita subita. Inoltre, Anders afferma,
in modo particolarmente tagliente, che «gli apparecchi
d’intercettazione sono totalitari»71, poiché consegnano la sfera
privata dell’individuo all’autorità pubblica, in un contesto in
cui ogni singolo atto compiuto deve essere vagliato dall’occhio
del potere: la dimensione privata dell’individuo deve essere
totalmente disponibile alla consegna alla sfera pubblica. Infatti,
un sistema così pervasivo pretende che nessuno abbia nulla da
nascondere, nemmeno ciò che per sua natura deve essere nascosto.
Si potrebbe dire che il totalitarismo politico affonda le proprie
radici in un moralismo rigido, secondo cui rivendicare la propria
privacy non sarebbe che il pretesto per indulgere in comportamenti
proibiti: “privato” diventa così sinonimo di segretezza e peccato,
piuttosto che di riservatezza e dignità. Un esempio dalla
letteratura distopica: Winston Smith, il protagonista di 1984, vive
in un mondo suddiviso in tre grandi Stati totalitari in perpetua
lotta tra loro. Questo stato di guerra continua si riflette in una
propaganda invasiva e martellante. In un mondo in cui slogan come
“Il Grande Fratello vi guarda!” sono ossessivamente ripetuti, la
sua lotta per conservare la propria dignità e umanità non può che
cominciare proprio con una rivendicazione della propria sfera
privata: essa si riduce a un punto cieco che sfugge all’occhio
sempre vigile della telecamera che, per legge, gli è stata
installata in casa. Lì comincia a scrivere quel diario che
rappresenterà l’inizio della sua ribellione.
71 Ibid., pag. 198.44
Una facile obiezione all’uso “totalitario” degli apparecchi di
ripresa e registrazione potrebbe essere che, per l’appunto,
“totalitario” sarebbe solo l’uso, e non lo strumento in sé.
Anders, anticipando tale obiezione, ribatte che questo genere di
apparecchi sono stati costruiti con una specifica funzione, e non
certo per restare inutilizzati; perciò, si può dire che ogni
apparecchio è già il suo stesso uso: essi contribuiscono a farci
pervenire gli oggetti del mondo in forma fantomatica e privata di
realtà, e si potrebbe addirittura affermare che il loro scopo
intrinseco consista nella violazione della sfera privata degli
individui. Rendendo pubblico ciò che è privato, essi cancellano il
principio ontologico dell’individuazione: il singolo individuo,
non avendo più nulla di privato da preservare, non è più
roccaforte d’identità, che rivendica lo status di discretum separato
dagli altri. Tale «riserva» irraggiungibile e incontrollabile dal
potere pubblico si configura come elemento di eccentricità che
necessita di essere normalizzata attraverso una conquista forzata
da parte dello stato totale72. Infine, Anders si pone una domanda
sulla falsariga del platonico “Chi custodisce i custodi?”, e cioè
evidenzia il fatto che l’attività del controllare, lecita e anzi
doverosa da parte dell’autorità pubblica, non sia tuttavia, a
propria volta, sottoposta ad alcun controllo. La risposta sarebbe
forse che ciò avviene perché i consociati stessi non ostacolano
l’attività dell’autorità, perché non ne percepiscono il pericolo e
non sentono la necessità di porvi un freno. Al contrario, se da
una parte il potere pubblico invade il privato con «sfrontatezza»
nel pretendere, dall’altra l’individuo l’asseconda con una
72 Ibid., pag. 201.45
propensione alla «spudoratezza» nel concedere73, mettendosi egli
stesso a disposizione dell’autorità, per dimostrare che non ha
nulla da nascondere: da una parte vi è un pubblico-spia, e
dall’altra un privato esibizionista. È inevitabile, a questo
punto, pensare che Anders avrebbe forse potuto arricchire la sua
analisi di molti più particolari se fosse vissuto al tempo dei
social network.
In definitiva, anche se la vita pubblica rappresenta la
massima espressione dell’identità degli uomini come “animali
politici”, ciò non vuol dire che sia l’unica dimensione degna di
attenzione e di analisi. Hannah Arendt, ad esempio, fu
personalmente molto attenta a distinguere la dimensione privata
dalla vita pubblica, e (con buona pace dei giornalisti prima, e
dei biografi poi) si adoperò costantemente affinché i due momenti
restassero sempre separati – anche se, per le conseguenze
derivanti dalla popolarità, non sempre con successo. Così ella
scrive, con risentimento, a Karl Jaspers nel 1951: «Le ho già
scritto che una settimana fa sono diventata una cover girl, e che mi è
toccato di guardare me stessa in tutti i chioschi di giornali?»74.
Ad ogni modo, sia Hannah Arendt sia Günther Anders, condivisero la
consapevolezza che all’eliminazione della sfera privata
corrisponde il pericolo del totalitarismo, una realtà con cui
entrambi sono stati costretti a confrontarsi nelle rispettive
vite, e che non poteva non riflettersi nel lavoro filosofico. Il
totalitarismo, anche nella sua subdola versione contemporanea,
cioè la società di massa, comporta la pericolosa scomparsa della
privacy, lasciando allo scoperto, esposto all’occhio pubblico, anche
73 Ibid., pag. 218.74 E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, cit., pag. 10.
46
quanto dovrebbe restare nascosto: la sfera dell’intimità è dunque
irreparabilmente violata. In questo caso, l’individuo non ha
alcuna libertà di agire – non ha lo spazio istituzionale per farlo
–, bensì viene risucchiato dal continuo, cieco meccanismo di
produzione e consumo, nel trionfo dell’animal laborans. Tornando alla
distopia orwelliana, le riflessioni di Winston sono
esemplificative di questo concetto:
«Lo colpì il pensiero che nei momenti di crisi non si combatte tanto
con un nemico esterno, quanto con il proprio corpo. […] A quanto
pare, pensò, la stessa cosa accade in tutte le situazioni eroiche o
tragiche. Sul campo di battaglia, nella camera della tortura, su una
nave che sta per colare a picco, i motivi per cui state combattendo
sono sempre dimenticati, perché il corpo si dilata a riempire di sé
il mondo intero, e perfino quando siete paralizzati dalla paura o
urlate per il dolore, la vita è una diuturna lotta contro la fame o
il freddo, contro la mancanza di sonno, contro l’acidità di stomaco
o il mal di denti»75.
Nel totalitarismo dipinto da Orwell, gli individui, ridotti alla
mera dimensione fisica e privati di un’autentica vita interiore,
hanno il solo scopo di mantenersi vivi: in un panorama di
desolazione e grigiore, sono tutti soli con il proprio corpo.
Anche gli individui che costituiscono la società di massa sono
annichiliti e omologati, e la ricchezza della diversità e della
pluralità, così come si esprimerebbero in un autentico spazio
pubblico, è brutalmente appiattita. Ecco come Anders, una volta di
più, descrive i risvolti conformistici della società di massa:
75 G. Orwell, 1984, Mondadori, Milano 2009, pag. 107 (I ed. 1950), trad. it. di S. Manferlotti, Londra 1949.
47
«La morbidezza del tipo di totalitarismo chiamato “conformismo” non
è affatto un segno di umanità. Se siamo trattati con mitezza, questo
è dunque un segno della nostra sconfitta. […] Il conformismo non è
sanguinario soltanto perché ci ha già inghiottiti; perché ormai può risparmiarsi di
fare i conti con il sorgere di quella opposizione per la cui
liquidazione il totalitarismo di ieri aveva bisogno o credeva di
avere bisogno del terrore. Il conformismo è mite perché può
permettersi di rinunciare alla minaccia e allo spargimento di
sangue».76
Il quadro evocato è lo stesso di quell’immagine tocquevilliana di
un dispotismo pervasivo ma mite, che non raccoglie consensi con le
minacce e col terrore, bensì con rassicuranti strumenti di
persuasione77: in tal modo, si genera una società di uomini «chiusi
nella solitudine del proprio cuore»78, per cui l’unica “terapia”
sarebbe la partecipazione alla vita pubblica.
La dicotomia privato/pubblico non sembra dunque essere
caratterizzata da quella netta scissione rilevata all’inizio di
questo capitolo. In definitiva, essa si risolve considerando che
entrambe le dimensioni sono ugualmente imprescindibili. La sfera
pubblica rappresenta il regno della libertà ed è lo spazio in cui
ogni individuo ha l’occasione di esprimere la propria unicità. La
sfera privata, d’altro canto, in quanto presupposto della libertà
di cui l’individuo gode in pubblico, non si può elidere; se ciò
accade è perché manca a sua volta uno spazio pubblico autentico.76 G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzioneindustriale, cit., pag. 249.77 Per una recentissima analisi sul concetto di “totalitarismo morbido” inAnders, si rimanda a R. Martinelli, Totalitarismo morbido in Günther Anders, in«Montesquieu e dintorni», (2014) n°6. Disponibile su:http://www.montesquieu.it/biblioteca/Testi/Totalitarismo_morbido.pdf78A. De Tocqueville, La democrazia in America, trad. it. Rizzoli, Milano 1999, pag.200, in S. Petrucciani, Modelli di filosofia politica, cit., pag. 141.
48
Queste due dimensioni sono quindi interdipendenti: la
rivendicazione della libertà, caratteristica dello spazio
pubblico, parte della riappropriazione di uno spazio di privacy;
allo stesso modo, una vita condotta esclusivamente in privato
sarebbe indice di mero individualismo, se non è affiancata da una
partecipazione alla vita pubblica che sia momento di espressione
di autentica libertà.
49
4. TERZA DICOTOMIA: APPARTENENZA/SRADICAMENTO.
«Per l’uomo, benché assuma una sua forma,patria e felicità son cose vane,
sempre è in cammino ed ospite di norma,sede non ha, per lui non cresce pane.»
H. Hesse, “Lamento”, in “Il Giuoco delle perle di vetro”
Un concetto centrale nella vita e nel pensiero di Hannah
Arendt è quello di “Heimat”, la “patria”, quella patria che era
stata costretta ad abbandonare a 26 anni, dopo l’episodio
eclatante dell’incendio del Reichstag il 27 febbraio 1933. Nel
corso della sua esistenza travagliata e i suoi spostamenti tra
l’Europa e gli Stati Uniti, infatti, ella non ha mai rinunciato al
legame con le proprie origini, il quale si manifestava nell’uso
della lingua madre (Muttersprache), soprattutto nelle lettere
private, unico contatto con gli amici di lingua tedesca sparsi per
il mondo per sfuggire alle persecuzioni. L’idea di appartenenza,
dunque, non tanto a un luogo, quanto a una cultura e ad un
universo di pensiero, è dominante nei suoi scritti, come si nota
nel continuo riferimento al mondo della polis, visto non come un
paradigma astratto, ma come un universo vivente che era stato la
culla del pensiero politico occidentale, e di cui lei stessa si
sentiva erede. Dimenticare la propria lingua madre, dunque,
sarebbe stato segno di passiva volontà di assimilazione e di una
sorta di rimozione culturale delle proprie radici: questo era, a
suo giudizio, l’atteggiamento tipico del parvenu, il quale si culla
nel sogno dell’assimilazione, ma, nutrendosi dell’illusione di
essere perfettamente integrato nel contesto sociale che
l’accoglie, perde ogni autonomia, e si sente continuamente
obbligato ad «attenersi anche esteriormente a quella classe di cui
51
si vorrebbe comunque assimilare il comportamento, le idee, la
cultura, le considerazioni»79. Ne Le origini del totalitarismo, la Arendt
descrive eloquentemente una tale figura:
«Il filisteo […] era il borghese isolato dalla propria classe,
l’individuo atomizzato sorto dallo sfacelo di questa […]. Era il
borghesuccio gretto che in mezzo alle rovine del suo mondo aveva a
cuore soltanto la sicurezza personale ed era pronto a sacrificare
ogni cosa – fede, onore e dignità – al minimo pericolo».80
Nella conversazione con Günther Gaus, la Arendt afferma, in
modo sorprendente e un po’ enigmatico, di non essersi mai sentita
tedesca, nel senso della nazionalità e al di là cittadinanza81:
d’altronde, l’appartenenza a un popolo, che è, si potrebbe dire,
un sentimento, non coincide con la cittadinanza, che è uno status
giuridico. Senza dubbio, il legame di Hannah Arendt con le proprie
origini testimonia l’importanza che la cittadinanza tedesca così
intesa ha rivestito nella sua vita: essa era di certo un bene
apprezzato da chi, come lei, per diciotto anni, dal 1933 al 1951,
fu privata dei diritti politici e perciò visse da apolide. Ciò non
toglie che, nel caso di Hannah Arendt, la dimensione “affettiva” e
quella giuridica dell’appartenenza non coincidono: il suo universo
di pensiero non poteva che essere quello ebraico, che le aveva
permesso di acquisire un punto di vista atipico sul mondo, quello
del pariah: solo il pariah, nella piena consapevolezza
dell’impossibilità della propria integrazione in una cultura
dominante, può davvero maturare una coscienza politica e affermare79 H. Arendt, Rahel Varnhagen. Storia di un’ebrea, Il Saggiatore, Milano 1986, pag. 228,in Z. Bauman, Il disagio della post-modernità, Bruno Mondadori, Milano 2002, pag. 80,trad. it. di V. Verdiani, Varsavia 2000.80 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Comunità, Milano 1967, pag. 469 (ed. or. NewYork 1951) cit. in E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, cit., pag. 260.81 H. Arendt, G. Gaus, Che cosa resta? Resta la lingua materna, cit., pag. 17.
52
così la propria identità culturale. Il concetto di appartenenza al
popolo ebraico non è per niente scontato e si sviluppa in Arendt
in modo complesso e articolato:
«Nella mia vita non ho mai “amato” nessun popolo o collettività – né
il popolo tedesco, né quello francese, né quello americano, né la
classe operaia, né nulla di questo genere. Io amo “solo” i miei
amici e la sola specie d’amore che conosco e in cui credo è l’amore
per le persone. In secondo luogo, questo “amore per gli ebrei” mi
sembrerebbe, essendo io stessa ebrea qualcosa di molto sospetto»82.
In questa affermazione è contenuta una chiara presa di distanza
nei confronti di ogni patriottismo cieco e, ancor più, fanatico,
giacché «quando l’amore viene mescolato all’azione, per esprimermi
grossolanamente, ritengo sia qualcosa di disastroso»83.
“Appartenenza”, dunque, per la Arendt vuol dire sentirsi parte di
una cerchia di persone che condividono un medesimo punto di vista,
come era la cerchia degli apolidi che frequentava negli anni di
Parigi insieme al secondo marito Heinrich Blücher. Il rifiuto di
perdere la lingua madre ha rappresentato per la Arendt l’ultima
speranza di non perdere il contatto con le proprie radici e con
ciò che di positivo esso evoca84, indipendentemente dal
coinvolgimento nelle fosche vicende politiche della Germania a
partire dagli anni di crisi della Repubblica di Weimar.
82 H. Arendt, “Eichmann a Gerusalemme”. Uno scambio di lettere tra Gershom Scholem e HannahArendt, in Ebraismo e modernità, a cura di G. Bettini, Unicopli, Milano 1986, pag.221 in H. Arendt, G. Gaus, Che cosa resta? Resta la lingua materna, cit., pag. 25.83 Ibid., pag. 25.84 «Germania vuol dire per me lingua madre, filosofia e poesia. Di tali realtàposso e devo farmi garante», Arendt a Jaspers, 1 gennaio 1933, Marbach (ed. or.Briefwechsel 1926-1969, Piper, Monaco 1985, trad. it. Carteggio, Feltrinelli, Milano1989), cit. in E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, cit., pag. 136.
53
Sia in Anders che in Arendt si rinviene un’ammissione di
debito nei confronti della lingua tedesca85, e un riconoscimento in
essa delle proprie radici. Il loro atteggiamento nei confronti
della lingua inglese presenta invece una sostanziale diversità.
Anders fa ampio uso delle espressioni inglesi, anche
nell’epistolario, intersecandole con il tedesco86. Anche Hannah
Arendt talvolta adopera delle espressioni in inglese nelle
lettere, come a volte fanno le persone bilingui che scoprono le
risorse linguistiche di un altro idioma, quando la propria lingua
madre non sa esprimere altrettanto bene lo stesso concetto.
Tuttavia, in generale, la sua prosa nella lingua acquisita rimase
sempre difettosa, tanto che per le edizioni in inglese delle sue
opere era solita avvalersi dell’aiuto dal poeta Randall Jarrell,
il cui compito era di «anglicizzare» il testo, e “ripulirlo” da
forzature e improprietà, retaggio della sintassi tedesca87. Nella
lingua parlata, questo retaggio era ancor più evidente. Forse
anche a causa di quell’ostinato legame affettivo con la lingua
85 Per Anders, cfr. infra pag. 44.86 Ovviamente non farò una rassegna di tutti i luoghi in cui questo accade. Nescelgo uno: «Sarebbe unfair affermare…», G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzionedella vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, cit., pag. 208. Allo stesso modo, inuna lettera alla Arendt: «As to me: vorrei semplicemente rivederti», Anders adArendt, lettera del 23 novembre 1955, p.1 HAZ cont. 14.7, n. 009955 in C. Dries,Günther Anders e Hannah Arendt. Schizzo di una relazione, cit., pag. XXXVI.87 E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, cit., pag. 228.
54
madre, non riuscì mai a parlare un inglese fluente e senza
accento88, o per dirla con le sue parole, «in modo idiomatico»89.
Sono state dunque la lingua tedesca e le persone a lei vicine
che persistevano a parlarla a costituire il fil rouge della vita di
Hannah Arendt. Ciò non significa che, nel suo percorso
esistenziale, da Hannover a New York, ella non abbia mai dovuto
lottare per trovare quella serenità così difficile da raggiungere
per chi vive la vita precaria dell’esiliato90. Per qualche tempo,
ella avrebbe rinvenuto proprio nell’unione con Anders un certo
senso di appartenenza: in questi termini ne parlava ad Heidegger
in una lettera, accennando a come un tale sentimento, peraltro
dichiaratamente fuori dall’ambito di comprensione dell’antico
88 Proprio per la non facile comprensione del suo eloquio, i documentimultimediali in cui si può ascoltare Hannah Arendt parlare in inglese sonodifficilmente reperibili. Tuttavia, tra le risorse disponibili su YouTube sinotino Hannah Arendt. Ein Portrait (https://www.youtube.com/watch?v=3XSaoBgqDMI), in
cui la si può ascoltare per i primi secondi del video, e Êdoctum: Hannah Arendt,"Une certain regard" 1973 (https://www.youtube.com/watch?v=CrJulvOTpy4),un’intervista in cui alla voce della Arendt si sovrappone l’audio dellatraduzione in francese. Sento di non poter fare a meno di notare, inoltre, uncerto orgoglio della Arendt in questo suo rifiuto di imparare a parlarefluentemente in inglese, come se ciò comportasse una rinuncia a quel legameesclusivo con la lingua madre, e con l’insieme dei valori che essa portava consé.89 H. Arendt, G. Gaus, Che cosa resta? Resta la lingua materna, cit., pag. 22.90 La psicanalista e filosofa Julia Kristeva, nella sua monografia dedicata adHannah Arendt (Hannah Arendt. La vita le parole, ed. or. Fayard, Parigi 1999, trad. it.di M. Guerra, Donzelli Editore, Roma 2005) ha ipotizzato che le “ferite diguerra” riportate dalla Arendt in questa sua odissea biografica edintellettuale, possano aver lasciato tracce anche nel suo aspetto fisico, cometestimoniato dalle fotografie che segnano un percorso che va «from the girlish“seductress” of the nineteen-twenties, gazing poetically at the camera, to theconfident intellectual of the fifties, whose “femininity… beats a retreat” asher face becomes “a caricature of the… battle scars” received during her publiccareer». Cit. in Adam Kirsch, Beware of Pity. Hannah Arendt and the power of the impersonal,dall’archivio online del «New Yorker», 12 gennaio 2009.Disponibile su: http://www.newyorker.com/arts/critics/atlarge/2009/01/12/090112crat_atlarge_kirsch?currentPage=all.
55
maestro ed amante, alleviasse la sua inquietudine91. Dopo
l’ufficializzazione del divorzio nel 1938, la Arendt avrebbe
trovato un ulteriore approdo a quella sua personale ricerca, al
tempo stesso sentimentale e identitaria, ancora una volta in
ambito culturale tedesco, solo nel matrimonio con Heinrich
Blücher, professore autodidatta, socratica figura (definizione a
proposito di lui ricorrente) incontrata nel 1936 a Parigi92:
«Mi sembra ancora incredibile che io sia stata in grado di ottenere
entrambe le cose: il “grande amore” e l’identità con la propria
persona. E ne ho uno solo se ho anche l’altra. Ora però so alla fine
ciò che realmente è la felicità»93.
Tale felicità non fu invece mai conosciuta da Anders, il
teorico dell’«uomo senza mondo». Nel capitolo precedente, abbiamo
sottolineato come l’annientamento della sfera privata avvenisse ai
suoi occhi attraverso il trasferimento di oggetti o eventi del
mondo nelle case di estranei, tramite l’uso dei mass-media, al
punto da eliminare ogni confine, sia ideale che geografico. Il
risultato era che i confini del mondo si erano andati praticamente
91 «[…] non dimenticarmi, e non dimenticare quanto sia forte e profonda in me laconsapevolezza che il nostro amore è diventato la benedizione della mia vita.Questa consapevolezza non deve vacillare, neppure oggi, quando ho trovato delleradici e un senso di appartenenza che allevia la mia inquietudine accanto a unuomo, che ben difficilmente potresti comprendere», Arendt-Heidegger, Lettere 1925-1975 e altre testimonianze, Edizioni di Comunità, Torino 2001, pag. 48, in C. Dries,Günther Anders e Hannah Arendt. Schizzo di una relazione, cit., pag. X.92 La fama di Heinrich Blücher come «uomo socratico» si consolidò nel suo periododi insegnamento al Bard College di New York (1952-1969), in cui delineò unostile d’insegnamento informale ed eccentrico: egli era ammirato dai suoistudenti al punto tale che attorno a lui si creò un vero e proprio culto (cfr.E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, cit., pag. 313). Per unapprofondimento sulla figura di Heinrich Blücher, si rimanda a W. Heuer, HannahArendt and her Socrates: Heinrich Blücher, dall’Archivio Blücher online, disponibile su:http://www.bard.edu/bluecher/rel_misc/heuer.pdf.93 Arendt-Blücher, Briefe 1936-1968, Beck, Monaco 1996, pag. 83, trad. it. di S.Bertolini, in C. Dries, Günther Anders e Hannah Arendt. Schizzo di una relazione, cit., pag.XXVI.
56
annullando e che ogni uomo risultava ormai «tanto un abitante
della terra quanto lo è del suo paese»94. Abbiamo la possibilità di
raggiungere con la voce o con le immagini qualsiasi parte del
globo in tempo reale, e se questo da una parte è un chiaro
vantaggio, un segno del progresso che dà all’uomo un senso di
potere e di conquista, dall’altra provoca un senso di smarrimento:
spinta fino alle estreme conseguenze, quest’illusione di dominio
sullo spazio e sul tempo ha portato l’uomo, soprattutto da quando
ha realizzato prima il sogno di volare e poi quello di visitare lo
spazio, a staccarsi dalla superficie della Terra, il suo ambiente
naturale. Oltre a smarrire il senso di radicamento alla terra, cioè
al proprio paese d’origine, si è perso anche quello alla Terra,
cioè al pianeta stesso. La denuncia di Günther Anders riguardava
in particolare quello da lui ribattezzato come l’«Olocausto
atomico», la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki. Gli
esperimenti nucleari, infatti, avevano ai suoi occhi reso il mondo
nella sua interezza una sorta di laboratorio a larga scala, e le
nubi radioattive o le precipitazioni tossiche che ne sarebbero
derivate non avrebbero certo fatto, per loro stessa natura,
distinzioni di frontiere e confini95. L’Olocausto atomico
rappresenta una svolta nel pensiero di Anders, tanto che, oltre
all’ipotesi di un «uomo senza mondo», si affaccia anche quella di
un «mondo senza uomo». È a partire da questi anni che un’intensa
attività pubblicistica contro gli armamenti nucleari lo avrebbe
reso un pensatore particolarmente caro al fronte dei pacifisti, in
numerosi paesi.
94 H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 184.95 G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, cit., pag. 191.
57
«L’uomo senza mondo era originariamente il protagonista negativo di
ogni discorso sull’estraniazione all’interno di una società di
classe […] L’uomo senza mondo era cioè l’uomo senza una propria
storia, quell’individuo che la privazione di proprietà e di
appartenenza condannava a essere soltanto co-storico, attore
marginale perché emarginato. Con l’irrompere della possibilità reale
di un mondo senza uomo lo scenario appare ora decisamente cambiato:
emarginazione e marginalità diventano il comune denominatore di
qualsiasi ontologia sociale e ogni ontologia sociale diventa una
ontologia negativa».96
Ad ogni modo, qui ci occuperemo soprattutto del tema
dell’«uomo senza mondo» e di come questo si riflette nelle vicende
personali di Günther Anders. Nel breve capitolo de L’uomo è antiquato
intitolato «La frontiera», Anders porta alcuni esempi – del tipo
che oggi farebbero venire in mente la parola “globalizzazione” – a
sottolineare il fatto che la scomparsa delle frontiere rappresenta
un evento di rilevanza economica, prima che politica. Le frontiere
politiche appaiono spesso violate dalla velocità con cui certi
status symbol dilagavano e esercitavano la propria influenza: ad
esempio, il “sogno americano” si rifetteva anche
nell’immaginazione dei ragazzi della Germania dell’Est, che
indossavano i blue jeans e le magliette delle università
d’oltreoceano. Anders risultava del tutto consapevole di tale
realtà psicologica e sociale: «[…] fatto sta che nell’èra
elettronica, al concetto di “frontiera” non corrisponde quasi più
nulla. Già quando fu costruito, il muro di Berlino era la
costruzione più obsoleta del secolo XX»97. Un ulteriore esempio,
96 P.P. Portinaro, Il principio disperazione., cit., pag. 46.97 G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzioneindustriale, cit., pag. 192.
58
invece, evidenzia la reazione di alcuni gruppi umani alla
scomparsa delle frontiere: la tendenza a difendere a tutti i costi
la propria identità culturale attraverso una glorificazione del
dialetto e del folklore e una conseguente demonizzazione del
“diverso”: atteggiamento definito da Anders come una “moda
assurda”. Assurda perché in sterile opposizione allo spirito dei
tempi: un tale “elogio del limitato” non può che restare
incomprensibile a chiunque si collochi al di fuori di quello
specifico gruppo umano, privo di un reale desiderio di
comunicazione con l’esterno: tale esigenza di autoconservazione è
destinata a trasformarsi in un fanatismo ottuso e reazionario.
Il vagabondaggio che gli era stato imposto dalle vicende
politiche della Germania negli anni del nazismo ha avuto un
comprensibile impatto su Anders. Egli lo avrebbe affrontato in un
modo diverso rispetto a quello coraggioso e appassionato della
Arendt – atteggiamento che lei stessa chiamava amor mundi98: anche
Anders emigrerà negli Stati Uniti, dove continuerà l’attività di
giornalista intrapresa a Berlino (grazie alle referenze offerte da
Bertolt Brecht) sulle pagine del «Börsen-Courier», in cui dirigeva
la rubrica che l’aveva visto per la prima volta adottare il suo
pseudonimo99. Ma al contrario della Arendt, ormai ben installata
nell’ambiente accademico newyorkese, egli nel 1950 avrebbe colto
la possibilità di tornare in Europa. «America can break your heart»,
recita un verso di W. H. Auden: il “sogno americano” si era ormai
infranto. La decisione di Anders si fondò su una disillusione
verso gli ideali di pace e libertà incarnati dagli Stati Uniti
d’America, che egli giudicava traditi dall’«Olocausto atomico» del
98 E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, cit., pag. 18.99 E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, cit., pag. 114.
59
1945, come ha confermato in seguito l’intervento statunitense in
Vietnam a partire dal 1964. Quest’ultimo evento, che avrebbe
scatenato le reazioni del movimento pacifista internazionale, non
poteva non vedere partecipe proprio colui che, tramite l’attività
giornalistica, si era schierato in prima linea contro gli armamenti
atomici, nelle forme di un pensiero asistematico e di una
«filosofia d’occasione», che sempre più contraddistinguono la sua
attività di intellettuale e militante100.
È importante notare che, tornato in Europa, se solo l’avesse
desiderato, Anders avrebbe potuto trasferirsi a Berlino, o a
Marburgo, dove aveva studiato, o nella nativa Breslavia, ma scelse
di andare a vivere a Vienna. Né, dunque, nella patria acquisita né
nella patria di nascita101, ma nella città natale della sua seconda
moglie, la scrittrice Elizabeth Freundlich: lontano dai luoghi che
erano per lui luoghi del ricordo. I motivi profondi di questa
scelta sono sintetizzati da Christian Dries, uno tra i principali
studiosi dell’opera andersiana, in un passo di una corposa e
fondamentale introduzione a uno scritto di Anders pubblicato
recentemente, dall’evocativo titolo La battaglia delle ciliegie102. Dries, a
proposito dell’insuperabilità della condizione di estraneo nel
mondo provata da Anders, scrive:100 M. Latini, Il viaggio di Günther Anders, pag. 143, introd. a G. Anders, Senza radici,cit. Anche Hannah Arendt fu tra gli intellettuali che si schierarono condecisione contro l’intervento in Vietnam: a tal proposito si veda E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, cit., pagg. 433-436.101 «Una zona che non fosse né qui né là», per dirla con le parole di Andersstesso. Günther Anders antwortet. Interviews & Erklärungen, a cura di E. Schubert, Tiamat,Berlin 1987, pag. 41, in C. Dries, Günther Anders e Hannah Arendt. Schizzo di una relazione, cit.,pag. XXXV.102 La ragione del titolo è la seguente: tra il 1929 e il 1930, la coppia risiedepresso una modesta abitazione a Drewitz. Tutta l’opera consiste nellarievocazione di alcuni dialoghi filosofici che avvenivano sul balcone di quellacasa, dove i due sedevano, discutendo e snocciolando ciliegie per farnemarmellata (cfr. La battaglia delle ciliegie, cit., pag. 10).
60
«Secondo Günther Anders l’uomo, fondamentalmente “estraneo al
mondo”, non di casa sulla terra fin dalla nascita, deve innanzitutto
crearsi su misura degli ambienti idonei e ne deve sempre riprendere
le misure. Egli caratterizza la situazione specifica dell’uomo nel
mondo dal punto di vista teorico e distaccandosi da Heidegger come
un “esserci a distanza”, come un “distanziarsi dall’uomo dal mondo
nel mondo”. L’esistenza umana non è quindi per Anders, come invece
in Heidegger, determinata dal suo essere-nel-mondo, ma dalla sua
posizione eccentrica […], dal suo non-esserci-ovviamente, dalla sua
distanza e dal suo essere separato dal mondo; in breve: dalla sua
estraneità al mondo»103.
Senz’altro, si può supporre che di questa «estraneità al mondo»
Anders avrebbe sofferto se fosse tornato sui luoghi del suo
passato, in una Germania ormai profondamente mutata per via della
frattura tra la Repubblica Federale e la Repubblica Democratica.
In via congetturale, si potrebbe pensare che la scelta di Anders
di tornare in Germania avrebbe comportato una necessità di
misurarsi con questi cambiamenti, e l’inevitabilità di uno
schieramento politico a favore dell’una o dell’altra parte, il che
non sarebbe stato coerente con la sua volontà di mantenere sempre
la propria autonomia rispetto ad ogni fazione politica.
Anders occupava di certo una posizione eccentrica, di cui
forse, in alcune occasioni, non ha mancato di farsi vanto,
soprattutto in relazione al suo essere lontano da ogni accademia e
schieramento politico: ma ciò non gli ha impedito di conquistarsi,
anche se non senza difficoltà, un ambiente idoneo al pensiero e
all’azione, sia pure al prezzo di accettare qualunque lavoro,
anche saltuario o umile, per sopravvivere in quelle circostanze
103 C. Dries, Günther Anders e Hannah Arendt. Schizzo di una relazione, cit., pag. LIII.61
difficili. A buon diritto, in una delle sue pagine
autobiografiche, scrive di non poter parlare di una sola vita, ma
di molte vitae104. Persino la banale stesura di un curriculum vitae è
occasione per una riflessione profonda, culminante con la presa di
coscienza della molteplicità dei contesti in cui si snoda
l’esistenza umana, fino a frammentarla in forme tali da non poter
parlare di una sola vita, ma, appunto, di molte vitae. Il soggetto
risultava infine scisso in una irriducibile moltitudine di io, a
causa di un intrinseco senso di sradicamento: il fatto stesso di
dover raccontare la propria vita provocava dunque, a suo giudizio,
un senso di imbarazzo, anche perché la molteplicità delle
condizioni che abbiamo vissuto è impossibile da richiamare
esattamente alla memoria. Non è vero, dunque, che “si vive una
volta sola” – men che meno se questo luogo comune è usato per
scusarsi della banalità con cui si conduce la propria vita: forse,
ribatte Anders, si è condannati a vivere molte vite, oppure
nemmeno una; questo continuo migrare di città in città, di lingua
in lingua, di lavoro in lavoro, ha fatto sì che il protagonista di
queste esperienze abbia vissuto più volte, e se ogni nuovo inizio
è come una nascita, ogni partenza assomiglia a una morte. Se
sentirsi autoctono da un lato è impossibile (poiché sarebbe
rassegnarsi alla condizione del parvenu), lo ugualmente è sentirsi
un “turista”, giacché un semplice visitatore non si porta dietro
tutti i propri averi chiusi in un paio di valigie, così come
parimenti impossibile sarebbe tornare a casa, giacché si cadrebbe
vittime di una sorta di «estraniazione del ritorno»105, per cui si è
costretti a fare i conti con un presente tragicamente diverso da
104 G. Anders, Senza radici, cit., pag. 145.105 P.P. Portinaro, Il principio disperazione. Tre studi su Günther Anders, cit., pag. 26.
62
quel passato che ora vive solo nel sogno e nel ricordo. Gli anni
di viaggio occupano più spazio nella memoria che quelli di una
fantomatica «età dell’oro» in cui si è davvero fatto esperienza
dell’ “essere a casa”:
«Una dichiarazione di appartenenza (ancora una volta a qualsivoglia
città) sarebbe propriamente solo un gesto di ostinazione, nel caso
migliore una prova di fedeltà, quindi qualcosa di moralistico (per
quanto l’espressione possa essermi odiosa in questo contesto). Ma
l’idea di una mera “appartenenza moralistica” e quella di una
“patria moralistica” sono del tutto fantomatiche – a prescindere dal
fatto che la decisione su quest’aspetto, ossia sul fatto di essere a
casa in un posto, non dipende da un sé, ma da coloro che
costituiscono l’essere a casa»106.
A queste considerazioni sembra fare eco Hannah Arendt:
«Il modo fondamentale di essere nel mondo è lo spaesamento
(Unheimlichkeit), nella doppia accezione (del termine tedesco) di
essere senza dimora e di incutere paura. Nell’angoscia, che per
principio è angoscia di fronte alla morte, si esprime il non-essere-
a-casa-propria nel mondo»107
L’individuo risulta atomizzato, avulso dal mondo. È un «uomo senza
mondo», dall’esistenza precaria: alla sua condizione di vagabondo
non può in alcun modo sottrarsi. Tuttavia, le vitae sono come
vagoni: separate ma connesse. Si può viaggiare in una carrozza
senza rendersi conto dell’esistenza delle altre, senza che la
memoria ci riporti ad una vita passata: per farlo, è necessaria
un’acrobazia del ricordo. Farsi strada nella propria odissea106 Ibid., pag. 146.107 H. Arendt, The Life of the Mind, New York-Londra 1978; trad. it. La vita della mente, acura di A. Dal Lago, Bologna 1987, pag. 306, cit. in L. Boella, Hannah Arendt“fenomenologa”. Smantellamento della metafisica e critica dell’ontologia, cit., pag. 90.
63
esistenziale è di per sé tutta un’acrobazia: Anders ricorre alla
metafora del pagliaccio, che fa acrobazie nell’arena mentre suona
il violino. Il risultato è una sorta di schizofrenia,
comportamento che, paradossalmente, appare come l’unico coerente
in una vita assurda. Così si è sospesi, in una condizione
esistenziale che non può non condurre a una sensazione di nausea
sartriana: tale è il destino del pariah. Questo tragico quadro è
stato, in anni più recenti, dipinto a tinte fosche da Zygmunt
Bauman:
«Nel sistema di caste indù, il paria era quello che apparteneva alla
casta più bassa, o anche a nessuna casta; chi, in quell’immutabile,
rappreso e indiscusso ordine della comunità poteva essere più
rifiutato di colui che non apparteneva a nessuna comunità? La
modernità ha soppresso l’immutabilità dell’ordine e ha annunciato la
sostituzione di tutti gli ordini finora intoccabili con un nuovo
ordine artificiale, provvisto di sentieri che dal basso portavano in
alto, in modo che nessuno fosse destinato per sempre a un unico
posto. La modernità è divenuta quindi la speranza dei paria […]. Ma
il paria poteva essere paria solo smettendo – cercando di smettere –
di essere un parvenu. […] E non appartenere a nessun luogo
significava non poter contare sull’aiuto di nessuno. Più svelto
corri, più resti nello stesso posto. Quanto più ti affanni a uscire
dalla casta dei paria, tanto più ti smaschereranno come il paria dei
paria: un paria senza casta».108
Non sembra esserci speranza di redenzione per «i perseguitati
della storia universale»109, coloro che non hanno altra scelta che
vivere un’esistenza precaria, da esiliati, sempre in cerca di
108 Z. Bauman, Il disagio della post-modernità, cit., pag. 85-86.109 Anders, Tagebücher und Gedichte, Beck, Monaco 1985, pag. 64, in P. P. Portinaro,Il principio disperazione, cit. pag. 25.
64
asilo, a volte invano. Hannah Arendt è riuscita a trovare un
“riscatto” divenendo un personaggio di spicco dell’ambiente
accademico statunitense, non senza aver conosciuto il travaglio
degli anni vissuti da apolide. Anders, invece, per tutta la vita
ha incarnato il prototipo dello Schlemihl: Peter Schlemihl era il
protagonista di una novella popolare yiddish, divenuto proverbiale
per la sua sfortuna; il termine passò poi ad indicare una persona
sfortunata, le cui imprese non vanno mai in porto. Con buona
approssimazione, Schlemihl si può considerare sinonimo di pariah, il
perenne, cronico esiliato, l’«uomo senza mondo»:
«Alla non-appartenenza come eterno problema dell’ebreo si aggiunge
la mancata assimilazione non solo nel paese in cui è emigrato, ma
anche nel gruppo stesso degli emigranti».110
Uno solo resta il legame (Anders preferisce il termine «legato»,
afferente al lessico della musica) tra i frammenti dell’esistenza,
che, nella metafora, corrisponde alla musica suonata dal
pagliaccio: la riflessione sulla propria condizione, «il confronto
dialettico con ciò che mi ha reso senza casa»111. Il percorso e la
crescita intellettuale rappresentano la connessione tra tutti i
vagoni del treno.
«Le vitae cambiano. Ma resta costante la speranza, forse folle, di
poter utilizzare un giorno ciò che nel frattempo si è costruito,
insegnando o mettendo in guardia o consolando; rimane costante
infine il mio restare nella lingua tedesca. Se un volta dovessi
tornare indietro, o se tornerò indietro, non sarebbe così da questa
o da quella stazione, ma dal continuum del confronto; e non “verso
casa”, ma lì, dove ci sono chance di dare a posteriori una qualche
110 P. P. Portinaro, Il principio disperazione, cit., pag.25.111 G. Anders, Senza radici, cit., pag. 149.
65
giustificazione a questa continuità. […] Esserci, essere
sopravvissuto, avere avuto la chance, in una vita così discontinua,
di suonare un legato, questa è già una fortuna non ascoltata e
immeritata. Ciò che va oltre, sarebbe un’eccezione di per sé
importante e un lusso»112.
Questo estratto manifesta un’esemplare coerenza intellettuale e un
perfetto esempio di coincidenza tra il pensiero e l’azione, dato
che Anders non sarebbe mai tornato nei luoghi del proprio passato,
ma avrebbe aggiunto ulteriori nuovi vagoni al “treno” della sua
esistenza, nell’estremo tentativo di dare un senso a tutti i
precedenti.
Attraverso i rispettivi percorsi intellettuali ed
esistenziali, Hannah Arendt e Günther Anders rappresentano due
esempi paralleli di reazione davanti alla crisi di un mondo che
operava secondo categorie totalmente nuove: il nuovo spirito del
secolo sembrava quasi imporre la dismissione dell’uso tradizionale
dei concetti di spazio e di tempo. Gli effetti furono una
sensazione di precarietà dell’esistenza – così brillantemente
rappresentata da Anders con la metafora del pagliaccio nell’arena
– e di una continuo confronto con eventi storici di portata
catastrofica, tali da rimettere forzatamente in questione tutti i
pilastri del pensiero politico e morale dell’Occidente. Se Hannah
Arendt avrebbe saputo cogliere un’occasione di riscatto, Günther
Anders appare invece come l’ideale messaggero di una prossima
Apocalisse, di cui Auschwitz e Hiroshima gli apparivano
indiscutibili indizi.
112 Ibid., pagg. 149-150.66
5. QUARTA DICOTOMIA: IDENTITÀ/PLURALITÀ.
«Il corso della vita umana diretto verso la morte condurrebbe inevitabilmente ogni essere umanoalla rovina e alla distruzione se non fosse per la facoltà di interromperlo e di iniziare qualcosa dinuovo, una facoltà che è inerente all’azione, e ci ricorda in permanenza che gli uomini, anche se
devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare».
Hannah Arendt, “Vita Activa”
Questa quarta dicotomia non è una dicotomia in senso stretto.
Infatti, identità e pluralità non sono termini in netta
opposizione, come negli altri tre casi. Certo, se l’identità
riguarda il singolo, per contro la pluralità è la condizione dei
molti, ma, a ben vedere, questa dicotomia resta atipica, dato che
pluralità e identità non sono termini oppositivi tanto quanto lo
sarebbero, ad esempio, identità/diversità, oppure
singolarità/pluralità. Ad ogni modo, ho voluto utilizzare questi
due termini perché stanno in una diversa relazione nell’orizzonte
di pensiero sia di Hannah Arendt sia di Günther Anders, e per il
fatto che questa dicotomia trova, in entrambi, diverse e
interessanti declinazioni.
In Vita Activa lo stretto legame tra identità e pluralità emerge
a partire dal concetto aristotelico di zoon politikon: innanzitutto,
esistere significa essenzialmente essere tra gli uomini, e se
essere tra gli uomini è una condizione irrinunciabile
dell’esistenza, allora gli uomini sono per natura animali
politici: l’individuo trova la sua massima espressione in un
comunità di persone, e la sua identità si realizza pienamente solo
nella pluralità. Se la Arendt si impegna a far rivivere il mito
della polis, è anche perché, a suo parere, esso rappresenta il
paradigma della massima espressione dell’identità dell’uomo come
animale politico. In tal senso, pluralità non vuol dire massa,68
bensì indica una diversità feconda, vista come occasione di
arricchimento:
«Nell’uomo, l’alterità, che egli condivide con tutte le altre cose e
la distinzione, che condivide con gli esseri viventi, diventano
unicità, e la pluralità umana è la paradossale pluralità di esseri
unici».113
È appunto la condizione umana della «paradossale pluralità di esseri
unici» che può dar vita a una peculiare configurazione dello
spazio politico, il quale si basa su un duplice legame tra
identità e pluralità. Se, da una parte, la pluralità è una
condizione irrinunciabile dello spazio pubblico, dall’altra,
questo non sfocia in un appiattimento degli individui in una massa
indistinta di eguali, anzi, piuttosto in un’enfasi delle singole e
irripetibili identità di tutti i partecipanti allo spazio
pubblico. L’azione, dunque, offre l’opportunità di esprimersi, di
riconsiderare le forme del proprio ruolo sociale, di rendersi
manifesti agli altri nel dominio dell’autentica libertà: senza un
“chi”, un soggetto che la compie, essa non ha ragione di esistere.
L’agire pratico, perciò, è ciò che definisce la “specie” degli
animali politici, in quanto dotati di linguaggio, inteso,
quest’ultimo, come il mezzo specifico attraverso cui l’azione si
esprime. Il discorso è rivelatore, poiché manifesta intenzioni e
progetti, e, oltre ad essere lo specifico veicolo di comunicazione
dell’azione, spesso è azione stessa.
«Azione e discorso sono così strettamente connessi perché l’atto
primordiale e specificamente umano deve nello stesso tempo contenere
la risposta alla domanda posta a ogni nuovo venuto: “Chi sei?”».114
113 H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 128.114 Ibid., pag. 129.
69
Ogni azione, per la sua natura di procedere dalla libera
intenzione dell’agente, è espressione dell’identità di una persona
irripetibile e unica: infatti, una delle caratteristiche
dell’azione individuate in Vita Activa è quella dell’effettualità, che
consiste nel lasciare sempre un segno nel mondo, una traccia
dell’identità dell’agente. Seconda caratteristica dell’azione e
del discorso è poi la visibilità; con ciò s’intende che lo spazio
pubblico è occasione di manifestazione di una specifica identità. A
tal proposito, un’espressione ricorrente in Vita Activa per indicare
lo spazio pubblico è «spazio dell’apparenza». Anche se
quest’allocuzione può trarre in inganno, risulta sufficientemente
chiaro che “apparire” non ricorre qui nel senso platonico (cioè
non sta a significare che esiste un mondo reale, un iperuranio, di
cui questo in cui viviamo è lo specchio o la copia), ma piuttosto
il termine “apparire” si deve intendere nel suo senso
fenomenologico, come “rendersi manifesto, rivelarsi”. Oppure, nel
caso specifico della sfera pubblica, come “uscire dall’anonimato”:
«E se la politica implica, e per molti aspetti coincide con la
“pubblicità”, quest’ultima è esattamente Öffentlichkeit, nel senso
letterale di apertura: apertura alla visibilità di ciascuno e di
tutti»115.
L’io, dunque, non si realizza pienamente se non si mette alla
prova nello spazio pubblico, se non è con gli altri; tuttavia,
numerosi sono i rischi del mettersi alla prova pubblicamente,
esprimendosi di fronte agli altri per mezzo delle proprie azioni:
«Ci si espone alla luce della sfera pubblica in quanto persone. Se
io ritengo che nella sfera pubblica non deve essere riflesso il
115 S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, cit., pag. 281.70
proprio se stesso, so anche che nell’agire la persona si esprime in
un modo che non è possibile in ogni altra attività. Con ciò ritengo
che anche la parola sia una forma di azione. Questo è il primo
rischio. Il secondo è: noi diamo inizio a qualcosa; annodiamo il
nostro filo al tessuto delle relazioni. Che cosa poi succederà, non
possiamo saperlo. Non possiamo dire: Signore, perdonali perché non
sanno quello che fanno. Ciò vale per ogni agire. L’azione è
semplicemente concreta, perché non si lascia conoscere. Questo è un
rischio. E vorrei dire che questo rischio è possibile solo se si ha
fiducia negli uomini».116
Dunque, i rischi a cui ci si espone entrando e agendo nello spazio
pubblico sono principalmente due: il primo risiede nell’ambiguità
del mezzo d’espressione per eccellenza dell’azione nella sfera
pubblica, cioè il linguaggio, che può dare adito a incomprensioni.
Il secondo consiste nel pericolo che l’azione, rientrando nel
dominio degli affari umani, per via della propria essenziale
imprevedibilità, introduca elementi di novità tali da condurre ad
esiti inaspettati, fuori dal controllo dell’agente.
Il tentativo di riabilitare la dimensione della praxis da parte
della Arendt parte proprio dalla centralità del concetto di
inizio117, considerato da un lato come elemento di novità derivante
dall’azione del singolo, e dall’altro come nascita di un nuovo
individuo, intesa quest’ultima non tanto in senso biologico,
quanto piuttosto come manifestazione nella sfera pubblica di un
nuovo individuo che, attraverso il corso delle sue azioni, sarà
anch’egli chiamato a rispondere alla domanda: “Chi sei?”. Nascita
e morte rappresentano le condizioni più generali dell’esistenza116 H. Arendt, G. Gaus, Che cosa resta? Resta la lingua materna, cit., pag. 30.117 H. Jonas, Agire, conoscere, pensare: spigolature dell’opera filosofica di Hannah Arendt, pag. 51-53, in «Aut-Aut», (1990) n. 240, trad. it. di E. Greblo, Vienna 1979.
71
umana; eppure, tradizionalmente, i filosofi si sono occupati
principalmente della vita umana in relazione alla morte118, compreso
Heidegger, il quale, prima della “svolta” (Kehre) del 1947, aveva
parlato di essere-per-la-morte per denotare l’esistenza umana,
costantemente minacciata dal proprio fatale destino. Al contrario,
Hannah Arendt fa appello al concetto di natalità per enfatizzare
l’elemento di novità, nonché di rottura di un ordine
precostituito, che l’azione porta con sé: ogni nuovo venuto al
mondo deve fare la sua comparsa nella sfera pubblica, per avere la
sua occasione di esprimersi al meglio nel modo che è connaturato a
tutti gli uomini, cioè attraverso l’azione, in quanto espressione
di libertà autentica. Oltre che dare inizio a qualcosa di nuovo
con l’azione, noi stessi siamo qualcosa di nuovo, unico e
irripetibile nell’ordine delle relazioni preesistenti nella
comunità, e abbiamo la facoltà di aprire nuovi orizzonti e
determinare nuove possibilità. Ma se da una parte la filosofia
della natalità si sofferma sulle dinamiche di auto-espressione
nello spazio pubblico, dall’altra prevede tutta un’altra
concezione del mondo, sia nel senso di spazio pubblico con le sue
istituzioni, ma anche come dimensione di realtà comune a tutti gli
uomini, il che in Arendt assume un significato peculiare. In
ultima analisi, «tutto ciò che è è, “soggiorna” nel presente “tra
118 Si può incidentalmente notare come, all’inizio del Novecento, cominciasse asvilupparsi l’interesse per la filosofia della vita e una certa apertura neiconfronti di nuove soluzioni al riguardo. Tra le opere principali in tal sensosi possono ricordare L. Klages, L’uomo e la terra, 1913; R. Eucken, Visione della vita neigrandi pensatori, 1890 e anche Il senso e il valore della vita, 1908; G. Simmel, Intuizione dellavita, 1918. Non ultime quelle opere di Edmund Husserl che affrontano il concettodi Lebenswelt, ad esempio La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, 1936.La maggior parte di questi autori si rifá al pensiero dei filosofi di fineOttocento che avevano condotto la loro riflessione nella prospettiva delvitalismo e dello “slancio vitale”, in particolare Nietzsche e Bergson.
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una duplice assenza”, il suo arrivo e la sua dipartita»119. La
fragilità della condizione umana è tale che essere vivi significa
“soggiornare” in un mondo la cui esistenza ci precede e proseguirà
oltre la nostra. Laura Boella parla a tal proposito di un
«paradosso tragico»120 per via di tale «concezione insulare della
realtà», che appare e scompare, si svela o si nasconde secondo la
presenza degli attori che la popolano, a cui non è noto che il
breve frammento che corrisponde alla propria esistenza. Senza
bisogno di attribuire alcuno specifico carattere tragico
all’imprescindibile fragilità della condizione umana, Alessandro
Dal Lago parla piuttosto di «filosofia della presenza»121, in quanto
la filosofia politica di Hannah Arendt non guarda al futuro,
nell’attesa di una redenzione, ma ha posto solo nel presente,
nella contingenza e nel divenire, «in una concezione che, prima di
essere pratico-politica, è esistenziale»122. In definitiva, l’azione
in senso lato, non solo quella istituzionalizzata, compiuta nei
palazzi del potere, è qualsiasi azione compiuta pubblicamente,
esposta alla vista di tutti: attraverso di essa, noi non facciamo119 H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987, trad. it. di A. Dal Lago,New York – Londra 1978 in L. Boella, Hannah Arendt “fenomenologa”. Smantellamento dellametafisica e critica dell’ontologia, cit., pag. 107. Non sorprende che una tale concezionesia sostanzialmente condivisa da Anders: «The door in front of us bears theinscription “Nothing will have been” and from within: “Time was an episode.” Nothowever as our ancestors had hoped, between two eternities; but one between twonothingnesses; between the nothingness of that which, remembered by no one, willhave been as though it had never been, and the nothingness of that which willnever be». Günther Anders, Commandments in the Atomic Age, in Id. and ClaudeEatherly, Burning Conscience: The case of the Hiroshima Pilot, Claude Eatherly, told in his letters toGünther Anders, preface by Bertrand Russell, foreword by Robert Jungk (New York1961), p. 11, cit. in B. Babich, Angels, the Space of Time, and Apocalyptic Blindness: OnGünther Anders’ Endzeit–Endtime, in «Etica & Politica/Ethics & Politics», XV, 2013, 2,pp. 144.120 A tal proposito si veda L. Boella, Hannah Arendt “fenomenologa”. Smantellamento dellametafisica e critica dell’ontologia, cit., pag. 83-110.121 A. Dal Lago, Una filosofia della presenza. Hannah Arendt, Heidegger e la possibilità dell’agire,cit., pag. 93-109.122 Ibid., pag. 94.
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altro che affermare la nostra identità, definire il nostro “chi”.
La pluralità è la culla dell’auto-espressione degli individui, e
anche se la filosofia ha tradizionalmente parlato di Uomo, al
singolare, in realtà si dovrebbe sempre parlare di uomini, al
plurale, giacché «la pluralità è la legge della terra»123. Infatti:
«Vivere una vita interamente privata significa prima di tutto essere
privati delle cose essenziali a una vita autenticamente umana:
essere privati della realtà che ci deriva dall’essere visti e
sentiti dagli altri, essere privati di un rapporto “oggettivo” con
gli altri, quello che nasce dall’essere al tempo stesso in relazione
con loro e separati da loro grazie alla mediazione di un mondo
comune di cose, privati della possibilità di acquistare qualcosa di
più duraturo della vita stessa»124.
L’azione, dato che porta il nome stesso di chi la compie ed è
esposta allo sguardo di tutti, è un’occasione di guadagnare «fama
immortale»125. D’altronde, per via della condizione di uguaglianza
tra i consociati che la caratterizza, il contesto della polis si
prestava particolarmente a fornire un’occasione in più, nello
spazio pubblico, di guadagnarsi la gloria, secondo i dettami di
una “morale eroica”126 che richiama alla mente l’idea di virtù
(areté) su cui faceva leva l’educazione del cittadino delle poleis
elleniche. È questo tipo di eternità l’unico tipo di permanenza
che ci è concessa oltre la vita, per cui il nome e le gesta
dell’eroe verranno tramandate e gli consentiranno, in un certo
senso, di “sopravvivere” dopo la morte, nel tentativo di
123 H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987, trad. it. di A. Dal Lago,New York-Londra 1978, pag. 99.124 H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 44.125 Ibid., pag. 144.126 Colgo l’occasione per richiamare quanto detto sull’impossibilità di unamorale eroica nell’era della tecnica a giudizio di Anders, cfr. supra pag. 21-23.
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contrastare così l’intrinseca fragilità umana. Le argomentazioni
arendtiane per difendere l’autonomia dell’azione non sembrano, in
realtà, del tutto persuasive e coerenti127; la ricerca di gloria, in
effetti, sembra proprio una strumentalizzazione dell’azione, che
la assimila al paradigma dell’homo faber, se non fosse per una
sottile distinzione terminologica che distingue l’azione compiuta
“al fine di” («in order to») da quella compiuta “in nome di” («for the
sake of»)128: nel caso della ricerca della «fama immortale», l’azione
si sottrae al meccanismo mezzo-fine e viene compiuta nel nome
dell’eccellenza, della distinzione, della gloria. Ad ogni modo, la
Arendt pone l’accento sull’autonomia dell’azione intesa come
energeia, il che significa che essa ha qualche effetto sul mondo e
in tale effetto sta la sua realizzazione. Come già accennato, se
l’azione è espressione della propria libera intenzione, libertà si
ha solo se si agisce tra pari: nel momento in cui qualcuno mira a
prevaricare gli altri, lo spazio pubblico, inteso come rete di
relazioni che si sviluppano su un piano paritario, viene a
mancare, e un’azione autentica non è più possibile.
«Nessun uomo può essere sovrano perché non un uomo, ma gli uomini
abitano la terra – e non, come sostiene la tradizione, a partire da
Platone, a causa della forza limitata dell’uomo, che lo fa dipendere
dall’aiuto degli altri».129
Tutti i temi trattati dalla Arendt a proposito dell’importanza
dell’azione per l’identità umana, oltre alla rilevanza del
concetto di natalità, sono indice di un tentativo di stabilire i
lineamenti di un’«antropologia filosofica»: l’enfasi posta127 A tal proposito si veda S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, cit., pagg.271-274.128 H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 110.129 Ibid., pag. 173.
75
sull’autonomia dell’azione in contrasto alle istanze
“inautentiche” dell’homo faber e dell’animal laborans dimostrano una
puntuale opera di distinzione tra natura e cultura, nonché una
volontà di enfatizzare la libertà dell’uomo contro il determinismo
dei meccanismi della natura. Solo una totale sfiducia nelle
prerogative dell’umanità poteva portare, invece, Günther Anders ad
un risultato diametralmente opposto. Egli è infatti l’assertore di
un’«antropologia negativa», l’unica teoria possibile circa il
posto dell’uomo nel mondo nell’età della tecnica. Secondo
l’antropologia negativa, l’uomo è fondamentalmente un individuo
tra individui: nell’ambito di un discorso sulla legittimità della
formula “sistema filosofico”, Anders ribatte che se si può parlare
di sistema filosofico, si presuppone che il mondo stesso sia un
sistema, di cui il sistema filosofico è lo specchio. Nulla di più
falso, nella sua valutazione, giacché il mondo è fatto di
individui, non di relazioni. E, si noti, nulla di più distante dal
concetto di mondanità della Arendt, secondo cui gli uomini hanno
in comune un «mondo comune di cose»:
«La pluralità dell’uomo ha un significato essenzialmente differente
rispetto a quella dell’animale. La mancanza d’inclusione nel mondo,
che spetta all’uomo secondo un giudizio puramente ideale, si ripete
ancora una volta all’interno della stessa dimensione umana: il
singolo uomo è eminentemente un individuo».130
In effetti, come potrebbe un “uomo senza mondo” far parte di una
comunità, mettere radici e crearsi dei legami? Questa condizione
dell’individuo crea uno smembramento del mondo, che non è fatto da
130 G. Anders, Philosophie des Menschen 1927-1929 (per il riferimento originalecompleto si veda C. Dries, Günther Anders e Hannah Arendt. Schizzo di una relazione, cit.,pag. LVII, nota 160).
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una pluralità di uomini, ma è disgregato in un insieme di monadi
senza finestre131, il che impedisce qualsiasi interazione e
comunicazione con altri individui, i quali sono condannati a un
perenne stato d’isolamento, cosicché la parola “mondo” avrebbe un
significato solo nominalistico132. Ovviamente, sostiene Anders, non
esiste nessuna armonia prestabilita che salvi la pluralità, e
nessun principio trascendente che faccia da «elemento
prestabilizzatore», e possa così offrire una prospettiva
consolatoria (come la garanzia dell’esistenza di Dio). In effetti,
a questo punto come potremmo pensare di essere superiori ad altre
formazioni naturali? Non siamo affatto, secondo Anders, “pastori
dell’Essere”, come vorrebbe la formula heideggeriana, anzi,
probabilmente l’universo è indifferente nei riguardi della nostra
esistenza, e così non deteniamo alcun diritto sul vertice della
gerarchia delle specie che ci siamo attribuiti133. Perciò, ogni
volta che le antropologie filosofiche parlano di un Uomo, posto
al centro dell’universo, e si appellano ad esso come fulcro di una
sorta di «mono-antropismo»134, si tratta di una vera e propria
“truffa”. Questa «truffa della singolarizzazione»135, secondo Anders, è:
«[…] un metodo di accecamento politico con cui si accecano coloro la
cui vita viene minacciata giorno dopo giorno sempre più
seriamente e viene disumanizzata sempre più gravemente da chi
domina a livello politico, economico o tecnico; e questo contro
131 G. Anders, La battaglia delle ciliegie., cit., pag. 12.132 Ibid., pag. 16.133 Lo stesso concetto è ripreso in G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione dellavita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, cit., pag. 116-117.134G. Anders, La battaglia delle ciliegie., cit., pag. 38.135 Ibid., pag. 41.
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il fatto che semplicemente nulla “ruota intorno a loro”. Per ingannare gli umiliati, i
dominatori utilizzano il singolare»136.
Ecco dunque una affinità con quanto sopra riscontrato in Vita Activa:
dove non c’è uguaglianza non c’è pluralità giacché «l’aspirazione
all’onnipotenza implica sempre […] la distruzione della
pluralità»137, e dove mancano questi presupposti non si manifesta
uno spazio pubblico adatto ad un’azione autentica. Ma vi è una
differenza fondamentale rispetto ad Arendt: l’autrice di Vita Activa
tende ad avallare un’antropologia filosofica sostanzialmente
ottimistica, ereditata da Heidegger, che vede gli uomini, con le
loro facoltà, le loro personalità, le loro aspirazioni, come i
protagonisti sia della vita attiva, sia della vita della mente. Anders, al
contrario, in quanto sostenitore di una antropologia negativa, non
vede affatto nell’uomo un “pastore dell’Essere”, bensì «[…] l’essere
che fondamentalmente non può essere sano e non vuole essere sano, insomma l’essere
che non può essere determinato, l’essere indefinito, che sarebbe un paradosso voler
definire».138
L’annichilimento dell’individuo nell’era della tecnica, ancora
una volta, causa una perdita della vita pratica e una rinuncia
all’azione: dove l’azione politica diventa affare esclusivo di una
ristretta élite di dominatori, gli individui, vittime del
«totalitarismo degli apparecchi»139, sono relegati alla dinamiche
del consumo, il quale risulta la condizione dominante del nostro
stare al mondo:
136 Ibid., pag. 38.137 H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 148.138 G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzioneindustriale, cit., pag. 117.139 Ibid., pag. 98.
78
«Alla tecnica viene imputata non solo una sindrome che produce de-
soggettivizzazione, de-realizzazione, narcotizzazione – per cui
all’individuo sono inibite al tempo stesso la capacità di critica e
la volontà di agire – ma anche la responsabilità primaria di
regressioni psichiche che sfociano in un certo primitivismo morale,
generando risentimento, odio, livore, piacere di distruggere e
indolenza nei confronti della distruzione. Accusata di manipolazione
dell’anima, la tecnica è presentata come una potenza intorno alla
quale una cintura di tabù ha eretto una protezione così capillare da
rendere ormai del tutto improponibile ogni rivolta luddistica contro
il suo dominio».140
Si noti come l’eloquente formula di «totalitarismo degli
apparecchi» stabilisca un parallelismo tra il totalitarismo e la
società di massa: il totalitarismo non è uno specifico sistema
politico che ha avuto luogo in una determinata contingenza
storica, bensì si configura come una tendenza generalizzata
dell’età della tecnica, la cui vocazione è la «de-
soggettivizzazione, de-realizzazione, narcotizzazione»
dell’individuo. Il totalitarismo politico non è che una deriva di
questa tendenza all’annichilimento dell’essenza umana141. La perdita
d’identità dell’uomo, infatti, caratterizza anche la società di
massa, in cui l’individuo prova una certa «vergogna prometeica»,
nei confronti dei prodotti della tecnologia: questo sentimento è
definito da Anders come «vergogna che si prova di fronte all’umiliante altezza di
qualità degli oggetti fatti da noi stessi»142. Nel contemplare il mondo da lui
140 P.P. Portinaro, Il principio disperazione, cit., pag. 123.141 A tal proposito, si veda R. Martinelli, Totalitarismo morbido in Günther Anders,cit., pag. 21.142 G. Anders, L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, vol. I, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pag. 57 (I ed. 2003), trad. it. di L. Dallapiccola, Monaco 1956.
79
creato, l’homo faber percepisce una sensazione di straniamento e
alienazione: le conseguenze delle sue creazioni gli sfuggono di
mano, col pericolo di annientare la sua stessa specie, nella
drammatica ipotesi di un “mondo senza uomo”. Egli non può che
constatare il «dislivello prometeico», la differenza tra la
perfezione delle macchine e la corruttibilità del genere umano.
Come è stato osservato da Pier Paolo Portinaro:
«Il risultato di questo processo è un’inversione dell’utopia:
perché, “mentre gli utopisti non possono produrre ciò che
immaginano, noi non possiamo immaginare ciò che produciamo”».143
Avvinto dal sentimento della «vergogna prometeica» e privato del
senso della propria identità, l’uomo si arrende davanti al suo
essere irrimediabilmente “antiquato” al confronto col progresso
potenzialmente illimitato delle proprie creazioni. Egli si rende
conto di essere «in bilico sulla corda tesa tra la bestia e il non-
più-uomo»144, tra l’animal laborans e un certo superomismo che ne ha
fatto il protagonista – tradito – del progresso tecnologico, nella
resa di fronte alla constatazione del fatto che:
«Siamo più piccoli di noi stessi; senz’altro non siamo all’altezza di quello che possiamo
inventare e fare; e persino la nostra fantasia non è all’altezza della nostra fantasia o dei
prodotti della nostra fantasia; certo, non delle loro conseguenze».145
Ancora una volta, il pensiero di Hannah Arendt si conferma più
ottimistico al riguardo, perché fa ancora fiduciosamente appello a
quelle categorie del pensiero politico e morale dell’Occidente,
come “libertà”, “identità”, “uguaglianza”, che per Anders sono
143 P.P. Portinaro, Il principio disperazione, cit., pag. 119.144 Ibid., pag. 147.145 G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, vol. II, Bollati Boringhieri, Torino 2012, pag. 301.
80
irrimediabilmente “antiquate”. Arendt dimostra, ad un confronto
con l’implicito e costante interlocutore che aveva condiviso con
lei un momento di vita, di avere eccessiva fiducia nel concetto di
intenzione, e in una “morale eroica” dell’azione che, secondo
Anders, è ormai fuori corso. Se in Arendt la vita pubblica,
compresa dunque la vita lavorativa, è esente dall’influenza della
sfera economica, in Anders essa fa i conti con tutte le tematiche
che riguardano la società di massa (il consumismo, l’alienazione,
la fine di un’autentica azione politica), portando in tal modo
all’estremo alcuni temi marxisti e le interpretazioni che di essi
aveva dato la scuola di Francoforte. Mi sembra di poter aggiungere
all’analisi andersiana che, in relazione agli ultimi ritrovati
della tecnologia, il «totalitarismo degli apparecchi» sembra oggi
emergere sempre più non tanto nel contesto delle attività
lavorative, ma anche nel tempo libero: le “macchine” di ultima
generazione sono sempre più veloci, più efficienti e più piccole;
sono costruite per mimetizzarsi con gli oggetti d’uso quotidiano,
per diventare un’estensione del corpo. Almeno finché il
«dislivello prometeico» non ne favorirà, forse, il rigetto.
81
6. CONCLUSIONE. UNA POSSIBILE QUINTA DICOTOMIA: PASSATO / FUTURO.
La maggiore difficoltà che ho riscontrato nell’affrontare
questo studio si può evincere dal confronto fra le opere di
letteratura secondaria: se, da una parte, l’opera della Arendt
continua ad essere largamente studiata e approfondita146, e gli
strumenti a servizio dello studioso sono molteplici (tra i quali
va citato un Archivio Arendt che ne raccoglie un’ampia selezione di
scritti147), dall’altra, lo studio di Anders si presenta assai
arduo, a causa della pubblicazione ad oggi ancora parziale del
lascito andersiano (Nachlass), e della difficile reperibilità delle
fonti che sono a tutt'oggi in corso di stampa, o pubblicate nelle
riviste di filosofia diffuse nei circuiti accademici148; ad ogni
modo, negli ultimi tempi, anche nel contesto italiano, sembra che
l'opera di Anders sia tornata all'attenzione degli studiosi, i
quali tendono a evidenziarne alcuni indubbi elementi di attualità.
Per questo motivo, un confronto “ad armi pari” fra i due
autori non è sempre facile, e questa difficoltà consiste
principalmente nel trovare un equilibrio tra la grande massa di
146 L’interesse per Hannah Arendt non si limita all’ambito accademico, maraggiunge anche il grande pubblico con pubblicazioni di ampio respiro: adesempio, è del 2013 il romanzo Hannah e le altre di Nadia Fusini, per i tipi diEinaudi, in cui Hannah Arendt, Simone Weil e la meno nota Rachel Bespaloff siconfrontano sui temi chiave del ‘900, assumendo la prospettiva peculiare delloro essere donne. Inoltre, ricordiamo il film Hannah Arendt (Germania,Lussemburgo, Francia 2012), per la regia di Margarethe Von Trotta, con BarbaraSukova nel ruolo della protagonista.147 L’Archivio Arendt consta di due volumi: Archivio Arendt 1 (1930-1948) e Archivio Arendt 2(1950-1954), editi da Feltrinelli (2001 e 2003) a cura di S. Forti.148 Babette Babich accenna a un’interessante ipotesi secondo cui Anders nonsarebbe popolare tra gli accademici, per via della paura di questi ultimi diessere tacciati di “tecnofobia” (così, infatti, potrebbe essere stigmatizzato ilcarattere principale dell’opera andersiana), il che sarebbe una sorta di eresia,in controtendenza con lo spirito del nostro tempo. (B. Babich, Angels, the Space ofTime, and Apocalyptic Blindness: On Günther Anders’ Endzeit–Endtime, in «Etica &Politica/Ethics & Politics», XV, 2013, n° 2, pp. 146.)
82
informazioni da un lato e la scarsità di notizie dall’altro.
Questa è probabilmente una delle ragioni per cui la critica si è
astenuta con «comprensibile pudore»149 da un confronto diretto. Un
altro motivo si potrebbe rinvenire nella particolare difficoltà di
affrontare un confronto per nulla astratto, in quanto il rapporto
che i due hanno intrattenuto non è stato solo di natura
intellettuale, ma si è basato su una condivisione di esperienze di
vita che non può essere ignorata. Probabilmente è stato appunto
questo percorso condiviso a favorire quel fruttuoso scambio di
idee che giustifica l’attribuzione ai due autori della prerogativa
di “sinfilosofi”. Un confronto a tutti i livelli richiede perciò
anche un analisi delle rispettive biografie, il che implica la
necessità di una qualche intromissione in quella sfera di vita
privata su cui entrambi hanno sempre mantenuto il massimo
riserbo150. Le fonti non aiutano a chiarire la questione, a volte
riportando notizie discordanti su alcuni aspetti della loro vita
privata, e forse, celando e omettendo alcuni dettagli, rivelano
ciò che tendono a nascondere151.
149 Cfr. supra pag. 3.150 Peraltro, ciò che emerge dagli epistolari fa pensare che le basi della lorounione, soprattutto da parte della Arendt, non fossero molto solide. Così ellascrive a Elfriede Heidegger: «Vede, quando lasciai Marburg, ero assolutamentedecisa a non amare mai più un uomo; e poi mi sono sposata giusto per sposarmi,con un uomo che non amavo.», Arendt-Heidegger, Lettere 1925-1975 e altre testimonianze,Edizioni di Comunità, Torino 2001, pag. 55, in C. Dries, Günther Anders e HannahArendt. Schizzo di una relazione, cit., pag. XIII.151 Ad esempio, riguardo al loro matrimonio, Eva Michaelis-Stern, sorella diGünther, sostiene di essere stata l’unica della famiglia ad aver preso partealla cerimonia, giacché né i loro genitori, né la madre di Hannah eranopresenti, a suo parere indispettiti dalle modalità con cui la coppia li avevamessi a parte della decisione di sposarsi (Eva Michaelis-Stern a Werner Deutsch,29 aprile 1992, pag. 1, collezione privata, in C. Dries, cit., pag. IX). Labiografia “ufficiale” di Elizabeth Young-Bruehl, invece, afferma che eranopresenti i genitori di entrambi, un’amica e i due testimoni (E. Young-Bruehl,Hannah Arendt. Una biografia, cit., pag. 109).
83
Nonostante questa comunione di idee, invano si cercherebbero
citazioni o riferimenti incrociati – almeno in termini espliciti –
tra le rispettive opere152. Anzi, sembra quasi che i due si siano
reciprocamente trattati secondo una “congiura del silenzio”,
ognuno evitando di confrontarsi apertamente con il pensiero
dell’altro. Nonostante il comune terreno di confronto (costituito,
almeno in parte, dai quattro temi qui affrontati), si può notare
una differenza di fondo che fa da cesura tra i due pensatori: una
diversa concezione dell’umano. Infatti, i temi trattati in Vita Activa
e la concezione umanistica che ne emerge, sono indice del fatto
che per la Arendt l’uomo non potrebbe mai divenire “antiquato”,
anzi, egli è l’autentico protagonista della vita attiva, nonché il
perno su cui edificare tutta la teoria della “condizione umana”.
In tal senso, Hannah Arendt è l’erede di quell’ “antropologia
positiva” heideggeriana tanto disprezzata da Anders, che vi ha
opposto, come abbiamo visto, una antropologia negativa. In ciò si
manifesta tutta la carica polemica di Günther Anders, la quale
trovava un riflesso nella sua ostinata indipendenza dalle
accademie; Hannah Arendt, al contrario, accoglie nel suo orizzonte
di pensiero le categorie tradizionali della filosofia politica,
pur adattandole in uno spirito innovativo. Ne consegue, dunque,
che nemmeno la politica stessa sfugge alla critica andersiana,
risultando anch’essa antiquata. Come è stato osservato:
152 L’unica eccezione sembra essere la nota 13 al Capitolo Quarto di Vita Activa,che recita così: «Günther Anders, nel suo interessante saggio sulla bombaatomica, osserva giustamente che la parola “esperimento” non può più essereapplicata agli esperimenti nucleari che comportano le esplosioni delle nuovebombe. Gli esperimenti furono sempre caratterizzati dal fatto che lo spazio incui si verificavano era sempre strettamente limitato e isolato dal mondocircostante. Gli effetti delle bombe sono invece di una tale portata che “illaboratorio in cui si verificano è coestensivo al globo”».
84
«[In Anders] manca tuttavia la voce Antiquiertheit der Politik. Eppure tutto
lascia intendere che anche questo ambito della vita attiva, alla cui
riabilitazione nostalgica la Arendt aveva dedicato il meglio della
sua opera, è ormai “antiquato”».153
Da queste discrepanze emerge, dunque, la possibilità di una
quinta dicotomia: quella di passato/futuro. Infatti, la principale
differenza dell’opera andersiana rispetto a Vita Activa è la seguente:
se la Arendt è principalmente volta ad un approccio genealogico, e
perciò traccia una storia delle idee dall’età della polis alla crisi
della modernità, Anders è piuttosto volto alla concretezza del
presente e alle proiezioni nel futuro, le quali, spesso, come
abbiamo visto, si traducono in distopie. Come rilevato dal
principale studioso italiano dell’opera di Anders:
«L’uomo affonda in un presente onnivoro, che tutto fagocita,
generando incapacità di conservare il passato e di orientare il
futuro. La perdita della tradizione, dei legami sociali, la mancanza
di orientamento, il vuoto dell’ideologia, il divenire superfluo
dell’uomo stesso hanno a che fare con la progressiva saturazione
dello spazio, con il soffocamento che il passato esercita sulla vita
presente e con la dissociazione del futuro».154
A dire il vero, la minaccia di una “fine della politica”155 non
manca nemmeno in Arendt:
«Come sappiamo, dalla più sociale delle forme di governo, cioè dalla
burocrazia (l’ultimo stadio del potere in uno stato nazionale, così
come la monarchia, nella forma di un benevolo dispotismo e
153 P.P. Portinaro, Il principio disperazione, cit., pag. 70.154 P.P. Portinaro, Il principio disperazione, cit., pag. 85.155 Riprendo questa formula, in riferimento al pensiero di Hannah Arendt, da P.P.Portinaro, La politica come cominciamento e la fine della politica, in R. Esposito, La pluralitàirrappresentabile, cit.
85
assolutismo, ne era stato il primo), il governo di nessuno non è
necessariamente un non-governo; esso può anzi, sotto certe
circostanze, volgersi in una delle sue più crudeli e tiranniche
versioni».156
La tirannide, forma di governo degenerata per eccellenza,
costituisce la fase estrema prima della “fine della politica”
intesa come dissoluzione dello spazio pubblico. Infatti, la
burocrazia, reggendosi sulla politica intesa come techne, fa uso
dell’istituto della rappresentanza come un complesso sistema di
deleghe che supplisce all’azione diretta dei governati. Tale
degenerazione delle forme di governo non può che preannunciare la
fine di tutte quelle pratiche che regolano un sano ed autentico
esercizio della libertà, e che si espletano solo nello spazio
pubblico. Ebbene, davanti a questa annunciata “fine della
politica”, se la ricetta di Anders era ammonire i contemporanei
prospettando delle apocalittiche visioni del futuro (atteggiamento
che gli è valso l’epiteto di «Cassandra della filosofia»157),
l’approccio arendtiano consiste nel guardare con nostalgia alle
realtà politiche del passato – soprattutto al modello della polis –,
in cui prevaleva lo spirito partecipativo dei consociati: così,
l’autentico spazio pubblico viene a coincidere con uno “spazio
storico” determinato, da cui ci si allontana sempre più man mano
che si procede nell’involuzione delle forme di potere, lasciando
sempre meno spazio alla possibilità dell’azione158. La via d’uscita
dallo stallo è, secondo la Arendt, una «aristocrazia consiliare»159,
156 H. Arendt, Vita Activa, cit., pag. 30.157 Secondo l’espressione di Gabriele Althaus (Der Blick Vom Mond. Reflexionen überWeltraum flüge, Beck, Monaco 1970, pag. 24).158 S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, cit., pag. 299.159 P.P. Portinaro, La politica come cominciamento e la fine della politica, pag. 42, in R.Esposito, La pluralità irrappresentabile, cit.
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un governo dei migliori che non viene eletto dal popolo, bensì si
auto-costituisce. Questa opzione appare però impraticabile,
giacché è contraria ai principi delle costituzioni di democrazia
liberale che garantiscono a tutti i cittadini il diritto
all’eleggibilità passiva, non soltanto all’élite dei “migliori”. Va
d’altronde notato come, tra una aristocrazia consiliare e il
pericolo del governo paternalistico di un’oligarchia illuminata il
passo sia breve. In entrambi i casi, comunque, non sembra che la
possibilità di un’azione autentica da parte dei consociati sia
salvaguardata in modo sufficiente.
A questo punto, dopo una diagnosi del tempo presente, a
prescindere dalla soluzioni che si prospettano, qual è il ruolo
dell’intellettuale in società? Se egli non deve rinchiudersi nella
sua torre d’avorio, quale compito gli spetta nel mondo? Le ultime
pagine de La battaglia delle ciliegie sono dedicate a questo argomento.
Dopo aver ricordato, menzionandone i nomi160, alcuni pensatori
accusati di aver difeso, sia con le armi, sia con la parola,
l’operato delle potenze belligeranti durante la Prima Guerra
Mondiale (spesso, col tipico atteggiamento del parvenu che insiste
a dimostrare la propria appartenenza), Anders muove un’accusa
ancora più grave:
«“Che costoro, abituati a porsi domande teoretiche, non abbiano pensato
a porsi la semplice domanda per quale motivo e per chi si pretendeva che ci si sacrificasse
volontariamente! (Pausa) E se ci si fosse limitati a questo!”
“A cosa alludi ora?”.
“Al fatto che ci sono state persone ancora più ridicole”.160 Vengono citati, in particolare, Max Reinhardt, Wilhelm Conrad Röntgen,Gerhart Husserl (figlio di Edmund), Emil Lask (filosofo neokantiano), RudolfEucken (premio Nobel per la letteratura 1908, poco amato sia da Anders che daArendt), Max Scheler e Georg Simmel.
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“E chi sarebbero?”.
“Uomini che non si sono sacrificati di persona per questa ignominia
guglielmina, ma che hanno partecipato alla tappa”.
“A quale tappa?”.
“Quella in cui hanno messo a disposizione solo il loro spirito.
Quella in cui hanno giustificato la guerra con argomentazioni
filosofiche”».161
Essi sono i “chierici” che hanno tradito, coloro che si sono
asserviti al potere e ne hanno difeso le brutalità con l’arma
della loro scienza, come faceva il corvo Mosè ne La fattoria degli
animali. L’intellettuale, soprattutto colui che assume il punto di
vista del pariah, dovrebbe invece farsi carico del ruolo della
sentinella: dalla sua posizione di vantaggio, egli avrebbe la
capacità di avvertire il pericolo prima degli altri e a lui
spetterebbe il compito di dare l’allarme per tempo.
Hannah Arendt e Günther Anders sono entrambi esempi di
grande coerenza intellettuale, i quali, evitando le trappole
tese dalle ideologie e dalle fazioni politiche, hanno dimostrato
– sia pure, come si è visto, in modi profondamente diversi – in
cosa consista il vero compito dell’intellettuale engagé.
161 G. Anders, La battaglia delle ciliegie, cit., pag. 49.88
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G. Anders, Senza radici, introd. di M. Latini, in «MicroMega», n.5/2011, pag.141-154, trad. it. di M. Latini (primo estratto: I ed. in «Profile» del7/11/2004; secondo estratto: I ed. Monaco 1981).
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M. P. Paternò, Responsabilità e cura del mondo nell’età globale. Riflessioni sulla convivenzapolitica in una prospettiva storico-filosofica, in corso di stampa.
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it. di V. Verdiani, Varsavia 2000. W. Heuer, Hannah Arendt and her Socrates: Heinrich Blücher, dall’Archivio Blücher
online, disponibile su: http://www.bard.edu/bluecher/rel_misc/heuer.pdf
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RINGRAZIAMENTI
È mio desiderio ringraziare tutti coloro che, con il loro supportoe i loro consigli, mi hanno aiutata nella stesura di questa tesi.Tutte le persone qui citate hanno svolto un ruolo fondamentalenella realizzazione di questo lavoro, ma è mio dovere precisareche ogni inesattezza o omissione è imputabile soltanto a me.
Innanzitutto, un sentito ringraziamento va al relatore, Prof.Mario Tesini, il quale, è stato il mio punto di riferimento inquesto lavoro. Senza la sua guida paziente e attenta, la suadisponibilità e la sua competenza, questa tesi non sarebbe stataaltrettanto approfondita e rigorosa.
Ringrazio il Prof. Pier Paolo Portinaro per il tempo che mi hadedicato: gli spunti che mi ha fornito sulla figura di GüntherAnders hanno trovato sviluppo in molta parte di questo lavoro.
Ringrazio sentitamente il Prof. Fausto Pagnotta, il quale mi haindicato fonti utili per questa ricerca, oltre ad avermi fornitopreziosi consigli.
Desidero ringraziare la Prof.ssa Maria Pia Paternò, per la corteseautorizzazione ad avvalermi di alcuni suoi scritti inediti per larealizzazione di questo studio.
Inoltre, un ringraziamento particolare va al Prof. Aldo D’Antico,per il sincero interesse che ha dimostrato verso il mio lavoro,quando questa tesi non era ancora che un progetto.
Infine, un affettuoso grazie ai miei genitori, senza il cuisostegno non avrei mai raggiunto questo traguardo.
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INDICE
1. Introduzione. Una conciliazione impossibile?
pag. 3
2. Prima dicotomia: pensiero/azione “
11
3. Seconda dicotomia: privato/pubblico
“ 23
4. Terza dicotomia: appartenenza/sradicamento
“ 35
5. Quarta dicotomia: identità/pluralità
“ 47
6. Conclusione. Una possibile quinta dicotomia: passato/futuro
“ 57
7. Bibliografia “
63
8. Ringraziamenti “
65
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