Una piccola Pommersfelden? Dipinti italiani della collezione Schaumburg-Lippe II 2004

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S O M M A R I O STEFANO G. CASU: “Veluti Caesar Triumphans”. Ciriaco d’Ancona e la sta - tuaria equestre - MICHAEL W. KWAKKELSTEIN: Perugino in Verrocchio’s work - shop: the transmission of an antique striding stance -TOMMASO MOZZATI: Anatomia e archeologia. Il nudo nella scultura del Rinascimento italiano A N T O L O G I A DI A R T I S T I Due dipinti, la strategia e un nome: Giovan Battista Gavarotti, ritrovato protagonista della natura morta italiana (Andrea G. De Marchi) A P P U N T I Una piccola Pommersfelden? Dipinti italiani della collezione Schaumburg- Lippe. II (Alessandro Brogi) - Tradizione medicea e novità romane nel B arocco fiorentino. Appunti in margine a una monografia su Giovan Battista Foggini architetto (Mario Bevilacqua) - In ricordo di Ruth Olitsky Rubinstein (1924-2002) (Laura Corti) SERVIZISE EDITORIALI PARAGONE Rivista mensile di arte figurativa e letteratura fondata da Roberto Longhi ARTE Anno LV - Terza serie - Numero 55-56 (651-653) Maggio-Luglio 2004

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S O M M A R I O

STEFANO G. CASU: “Veluti Caesar Triumphans”. Ciriaco d’Ancona e la sta -tuaria equestre - MI C H A E L W. KWA K K E L S T E I N: Perugino in Ve r r o c c h i o ’s work -shop: the transmission of an antique striding stance - TOMMASO MOZZATI:Anatomia e archeologia. Il nudo nella scultura del Rinascimento italiano

A N T O L O G I A DI A R T I S T I

Due dipinti, la strategia e un nome: Giovan Battista Gavarotti, ritrovatoprotagonista della natura morta italiana (Andrea G. De Marchi)

A P P U N T I

Una piccola Pommersfelden? Dipinti italiani della collezione Schaumburg-Lippe. II (Alessandro Brogi) - Tradizione medicea e novità romane nelB arocco fiorentino. Appunti in margine a una monografia su GiovanBattista Foggini architetto (Mario Bevilacqua) - In ricordo di Ruth Olitsky

Rubinstein (1924-2002) (Laura Corti)

SERVIZISEED I T O R I A LI

PARAGONERivista mensile di arte figurativa e letteratura

fondata da Roberto Longhi

ARTE

Anno LV - Terza serie - Numero 55-56 (651-653)Maggio-Luglio 2004

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CA R L O BE RT E L L I, MI K L Ó S BO S K O V I T S, EN R I C O CA S T E L N U O V O,

PI E R PA O L O DO N AT I, MI N A GR E G O R I, MI C H E L LA C L O T T E, JO S É MI L I C U A,

ANTONIO PAOLUCCI, ILARIA TOESCA, BRUNO TOSCANO

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Tipografia La Nave, FirenzeFinito di stampare nel mese di Luglio 2004

A P P U N T I

Una piccola Pommersfelden?Dipinti italiani della collezione Schaumburg-Lippe. II

Come promesso nella prima parte di questo studio, la sezione chesegue intende render conto in maniera più circostanziata di alcuni deidipinti italiani in precedenza solo citati, in parte noti in parte no, matuttora presenti nella collezione Schaumburg-Lippe1. Al fine di ren-derne più agevole la trattazione e la fruizione, il materiale è organiz-zato per singole questioni, ovvero per autore2.

Guido Reni

Acquisita, stando a quanto mi riferisce l’Amministrazione, a unadata imprecisata ma anteriore al 1779, questa ‘Susanna e i vecchioni’/tavole 40-42 e II a colori/ si conserva attualmente in un piccolo am-biente al pian terreno del castello, separato da quelli della vera e pro-pria Gemälde-Galerie3. La documentazione più recente della qua-dreria riferisce il dipinto a Guido Cagnacci, come si legge anche sullatarghetta applicata alla cornice, verosimilmente ottocentesca. Stranoriferimento, quello al pittore romagnolo, giacché la tela si rivela in evi-dente rapporto con una celebre invenzione reniana, testimoniata danumerose copie e da almeno un originale, dacché la patente di auto-grafia fu restituita all’esemplare oggi presso la National Gallery diLondra /tavola 43/. In effetti, nelle carte settecentesche del Nieder-sächsiches Staatsarchiv di Bückeburg il nome di Cagnacci non com-pare né in relazione a questo dipinto né in relazione ad altri; vi com-pare invece quello di Guido Reni, a cui la tela è ascritta4.

A lungo ritenuta anch’essa una copia, la ‘Susanna’ oggi a Londragiunse dopo vari passaggi alla sede attuale nel 1844, proveniente,

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come il ‘Lot e le figlie’ della stessa galleria, da palazzo Lancellotti aRoma, dove von Ramdohr descrive entrambi i dipinti nel 17875 e do-ve in realtà si trovavano da lungo tempo, poiché registrati come ori-ginali di Guido già nell’inventario del 1640 di quella che era allorauna fra le più ricche quadrerie romane6. Una così antica citazione, daun lato aggiunge argomenti in favore dell’autografia del dipinto in-glese, che la moderna pulitura rivelò di qualità eccellente, tale da in-durre Pepper a reinserirlo a pieno titolo nel catalogo dell’artista,con una datazione al 1622-16237. Dall’altro, esclude definitivamentela possibilità, a volte anche di recente adombrata8, che tale dipintopotesse essere quello dello stesso soggetto e di identica composizioneche si trovava a metà Seicento a Bruxelles, nella raccolta dell’arcidu-ca Leopoldo Guglielmo d’Asburgo, allora governatore delle Fiandre:dipinto di cui si perdono le tracce una volta che la raccolta fu trasfe-rita a Vienna nel 1660, ma di cui ci resta testimonianza nell’incisioneinserita da David Teniers il Giovane nel suo Theatrum Pictorium,sorta di ‘catalogo illustrato’ della pinacoteca arciducale9. La stessa in-venzione compare ancora, identica, nella ‘Susanna’ data a Guido,anch’essa ricordata da una traduzione incisoria, che fino all a rivolu-zione francese faceva parte della Galerie d’Orléans al Palais Royal1 0 eche a fine Ottocento giunse per donazione alle gallerie fiorentine, do-ve si conserva a tutt’oggi1 1: per unanime riconoscimento, copia, fra letante, oggi possiamo dire, del prototipo Lancellotti. E chissà che latela fiorentina, già Orléans, non fosse la stessa un tempo presso l’ar-c i d u c a1 2.

Un’ulteriore ‘Susanna’ di Reni di composizione analoga è docu-mentata però, e ancora una volta tramite un’incisione /tavola 44/, inun’altra collezione antica: quella dei fratelli Reynst ad Amsterdam.Gerrit e Jan, abili mercanti olandesi nonché appassionati d’arte, “gl’Il-lustrissimi Signori Fratelli Reinst” cui Carlo Ridolfi dedica la parte pri-ma delle sue M a r a v i g l i e e che anche Malvasia ricorda quali possessoridi molti disegni carracceschi1 3, avevano messo insieme negli anni unaricca collezione di marmi antichi, disegni e dipinti, per lo più italiani,procacciati soprattutto da Jan, il più vecchio dei due, residente a Ve-nezia. Alla morte di questi, nel 1646, la sua parte passò per eredità alfratello minore Gerrit. Così, nella sua bella casa sul Keizersgracht, me-ta di ammirati visitatori, venne a riunirsi una fra le più celebrate col-lezioni d’arte del Seicento in Olanda e senz’altro la più importante perquanto riguardava la pittura italiana1 4. Da qui non a caso, poco dopo

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la scomparsa del facoltoso amateur (1658), fu prelevato il grosso,ventiquattro dipinti e dodici sculture, di ciò che sarebbe andato acostituire il cosiddetto ‘Dutch Gift’, ricco dono di opere d’arte invia-to nel 1660 a re Carlo II Stuart col quale le Provincie Unite inteserorendere omaggio alla restaurata monarchia inglese15. Non rientrò nelDutch Gift la ‘Susanna’ di Guido, che il poeta, mistico e cabalista te-desco Christian Knorr von Rosenroth vide ancora nel 1663, durante lasua p e regrinatio academica nei Paesi Bassi, presso la vedova Reynst1 6 eda cui in precedenza Cornelis Visscher aveva tratto l’incisione citata,in controparte /t a v o l a 44/, da accompagnare ad altre di vari autori chedocumentassero, secondo il desiderio di Gerrit, il meglio della sua col-lezione; trentatré tavole riunite in volume solo dopo la morte delcommittente17.

Sarà facile notare a questo punto che la ‘Susanna’ tradotta daVisscher non corrisponde del tutto al prototipo Lancellotti: non so-lo per il taglio della scena più sviluppato in verticale e per le diffe-renti proporzioni, ma soprattutto per la foggia della fontana in se-condo piano, a due vasche sovrapposte, anziché semplice. Ne con-segue che di una seconda versione doveva trattarsi; e che fra le due,di gran lunga la più copiata risulta la prima, quella Lancellotti1 8.Ma ne consegue anche che la ‘Susanna’ di Bückeburg fa capo a que-sto secondo tipo. Oltre alla fontana, numerose altre piccole varia-zioni rispetto alla tela londinese sembrano accomunare la ‘Susanna’Reynst alla nostra: lo svolgimento del panno in basso ma anche ilprofilo delle pieghe della stoffa sulla coscia; le dita della mano aper-ta di lei e quelle del vecchio che intima il silenzio; il margine delmanto contro il fondo scuro di quest’ultimo; in particolare la diver-sa tipologia facciale dell’altro seduttore dalla vistosa scriminatura,l’andamento della barba e delle rughe del collo, l’inc linazione stessadella testa, l’orientamento della mano destra e volendo anche del-l’altra, che tira a sé la donna, di cui l’incisione ripete persino il toccodi luce sul dorso. E addirittura, le lievi differenze nel lembo frangia-to del turbante che scende sulla spalla di Susanna creando una pun-ta. Due sole fra le copie a me note presentano tali discrepanze, trop-po puntuali per essere fortuite; in particolare quella a Braunschweig(Herzog Anton Ulrich Museum1 9), che fra l’altro parrebbe quasi,così lucida e ferma, di fattura olandese.

Unico elemento assente sia nella versione Lancellotti, sia in tuttele incisioni e le copie a me note, compresa quella di Braunschweig, è

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invece il parapetto anteriore, in bella vista, della vasca nella quale staimmergendosi la protagonista. Un bordo di pietra sapientementesbrecciato, che fa da piano d’appoggio per alcuni oggetti da toilette:un pettine, una spugna e una vaso di trasparentissimo vetro ricolmo diunguento. Un’idea straordinaria, di patente ascendenza caravagge-sca, un repoussoir quasi tattile, rigorosamente parallelo al piano di vi-sione, che da solo forse basterebbe a garantire l’originalità del dipinto.Quale copista potrebbe aver operato una simile aggiunta? La qualerende l’invenzione più forte e pregnante di quanto non appaia nellaredazione londinese, bollata in passato da Spear, non del tutto a ra-gione, di banalità2 0. Grazie a questo espediente compositivo, il ri-schio della banalità è infatti totalmente fugato. Sotto un lume vivido efreddo che imprime alla scena una fissità metafisica, all’eroina, comeimprigionata fra le due parallele di pietra grigia, circuita dalle insi-nuanti lusinghe dei vecchi, non restano che la furia gelata dello sguar-do e la mano col palmo rivolto verso l’esterno per esprimere la sua ri-provazione, con elegante fermezza e secondo un consolidato topos diretorica gestuale2 1. Che si abbia a che fare con un originale e noncon l’ennesima copia mi sembra attestato dal livello qualitativo del di-pinto, tale da eludere, mi pare, ogni dubbio, nonostante alcune lievidiscontinuità di tenuta, ad esempio nell’incarnato della donna, a trat-ti un po’ crudo e appiattito; discontinuità dovute probabilmente allecondizioni conservative e a vecchi restauri non eccellenti22.

Se la versione Lancellotti, dalla trama setosa e iridescente, reggeuna datazione all’aprirsi del terzo decennio del Seicento, questo nonsembra valere per il dipinto tedesco, palesemente più antico. Tutto in-fatti rimanda a un momento anteriore, quando ancora Guido segui-tava ad avvertire, sebbene con esiti diversi e in maniera intermittente,il richiamo del messaggio caravaggesco. Ciò appare evidente a partiredal fascio di luce violenta che investe da dietro i due vecchi, scrutan-done le chiome incanutite o le rughe del collo e della fronte (le “pel-licciuole cadenti” di cui Malvasia parla nel decantare le virtù di Gui-d o2 3) e creando riflessi opachi (bello studio di ‘valori’) sul pesante vel-luto rosso cupo di cui sembra fatta la veste di quello in primo piano,salvo poi tornire con compiaciuto nitore le forme lisce e totalmenteidealizzate della donna. Lo stesso si dica della stesura, ricca e spessacome accade almeno fino alla pala dei Mendicanti (1614-1616), checonferisce un senso di tangibile presenza alle figure emergenti dal-l’ombra; e più ancora alle cose. Prime fra tutte, l’imminente ribalta di

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pietra e gli oggetti che sopra vi poggiano. Tra i quali, indimenticabile,il citato vaso, di una trasparenza sintetica e perfetta che lascia emer-gere la densità ambrata del suo contenuto e che dimostra come Guidopotesse tradurre l’acuta osservazione del reale, nella sua compiutaessenzialità, in un esercizio di raro equilibrio classico. Apparente os-sequio alla poetica naturalista, l’oggettività nitida di questa suppellet-tile, disposta con semplicità insieme alla spugna e al pettine vicino al-l’osservatore, serve di fatto a rendere ancor più evidente e deciso il tra-guardo ideale verso cui punta, fermo, l’occhio di Guido, e che siesplicita a tutti i livelli proprio al di là di quella ribalta, nello spaziodell’azione. Se questo vaso non mi pare trovi riscontri letterali nell’o-pera dell’artista, la sostanza dura e liscia del parapetto invece sì, poi-ché identica a quella del plinto squadrato e similmente sbrecciato sucui poggia la testa di Golia nel ‘David’ oggi al Louvre. Come analogoappare il levigato trascorrere della luce sulle carni nude del ragazzo edella donna. Altri confronti con opere rinomate della prima maturitàriusciranno funzionali: con la ‘Strage degli innocenti’, eseguita a Romae inviata poi a Bologna nel 1611, per la resa ricca della fronte del ma-nigoldo al centro, simile a quelle aggrottate dei due vecchi; col ‘San-sone vittorioso’, di poco successivo, per la stesura larga dei capelli delcaduto in primo piano, così vicini a quelli del seduttore più in vista; fi-no anche, volendo, all’‘Atalanta e Ippomene’, nella versione più anti-ca ma comunque di difficile datazione, quella del Prado, in cui il tipofisico della donna — i piccoli seni, il ventre tondo segnato dall’om-broso avvallamento dell’ombelico, il ginocchio molle — appare esat-tamente lo stesso.

Detto ciò, la tentazione di riconoscere in questa ‘Susanna’ quellafugacemente registrata nella contabilità romana del pittore all’anno1610 è seducente24. D’altro canto, una “Susanna tentata da’ vecchi,grande del naturale e quasi intiera (…) oggi presso i Signori Ratta”, egià in casa Bianchetti a Bologna, è ricordata a sua volta da Malvasianelle note alla F e l s i n a non inserite nella redazione finale della vitadel pittore2 5. Tuttavia, nell’inventario Ratta del 1679, relativo alla col-lezione bolognese nel suo momento di massima espansione, tale di-pinto non figura2 6. “Un quadro di pittura del Sr. Guido Reni con Su-sana e due vecchij” figura invece, a parziale convalida del refertomalvasiano, fra i beni di Marcantonio Bianchetti, lasciati in eredità alfiglio Cesare nel 1635: unico dipinto di cui nell’inventario sia fornito,oltre al soggetto, il nome dell’autore2 7. Marcantonio Bianchetti, sena-

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tore e cavaliere di Calatrava, non è ricordato nella F e l s i n a, lo è inveceil figlio Cesare, anch’egli senatore, menzionato a proposito di un riccodono in fiori e cibarie da lui fatto pervenire al pittore e da questi, en-nesima riprova del suo caratteraccio, rifiutato senza un particolare mo-t i v o2 8. Sarebbe logico pensare che Cesare, uomo di grande devozione,simpatizzante degli Oratoriani, tipico campione dell’apostolato laicoseicentesco, impegnato in numerose attività filantropiche e religiosevolte ad applicare le direttive del Concilio di Trento soprattutto in ma-teria di educazione cristiana dei fanciulli29, si fosse presto liberato diun dipinto il cui soggetto, nonostante l’assunto virtuoso, poteva riu-scire sconveniente ai suoi occhi. Tuttavia nell’inventario legale delfebbraio 1656, relativo alle sostanze lasciate quasi in toto al figliomaggiore Giorgio Ludovico, troviamo fra i dipinti di Cesare persinouna “dea Venere”, e più avanti “una Susana con cornice intagliata”che potrebbe ben essere quella di Guido già nella collezione paterna,sebbene, come per tutti gli altri dipinti, il nome dell’autore sia quio m e s s o3 0. In ogni caso, quel quadro, come parrebbe, non passò ai Rat-ta, ma per quanto la cosa non sia impossibile è forse un po’ romanze-sco pensare che esso possa essere giunto ad Amsterdam in così brevelasso di tempo, giacché l’incisione di Visscher si data necessariamenteentro il 1658. Come è difficile stabilire l’identità del dipinto oggi aBückeburg con quello già nella collezione Reynst, dispersa in malomodo nel 16703 1. Osta, soprattutto, l’assenza nella stampa della ribal-ta in pietra, sebbene forse omessa poiché la striscia regolare sarebbeparsa ambiguamente una fascia neutra, quasi da iscrizione, e dunquepriva di senso nella traduzione incisoria che non può avvalersi dei va-lori cromatici e che perciò tende a privilegiare l’invenzione, il giocoschiettamente formale, ovvero figurale e d’azione.

A noi resta però la presenza viva di un capolavoro, qualunque nesia la storia, che aggiunge, mi pare, un tassello rilevante all’immaginedell’artista negli anni della prima maturità. Quando cioè, eliminataogni scoria manierista, neutralizzato metabolizzandolo il messaggio ca-ravaggesco, l’eloquio reniano traduce tutto in ideale perfezione, pa-drone di un lessico eletto e di una metrica solenne, e molto particola-re: quella stessa indagata da Fumaroli nell’‘Atalanta e Ippomene’32,che permette alla storia di Susanna, nell’intreccio sinergico dei gesti, didipanarsi col suo prima e il suo dopo in una sorta di silente tempomultiplo.

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Giovan Battista Beinaschi

Il 1819 risulta essere l’anno d’acquisto di questo dipinto d’alta-re dato a Giovanni Lanfranco /t a v o l a 45/ e appeso un po’ allo strettonella I sala della Gemälde-Galerie3 3, insieme a due copie dai tondiBorghese di Albani3 4 e a un mezzo busto di fanciulla riferito a Giu-seppe Maria Crespi, ma in realtà cosa olandese a cavallo fra Sei e Set-tecento. Esso per certo non rappresenta, come riporta la documen-tazione del castello, l’‘Incoronazione di Maria con un santo’, mapiuttosto, direi, ‘La Vergine che porge lo scapolare al profeta Elia’.L’attribuzione al maestro parmense3 5, tutt’altro che peregrina e ve-rosimilmente antica, è giustificata in effetti dalla spiccata compo-nente lanfranchiana che connota la tela, la cui superficie pittorica par-rebbe sostanzialmente integra ma appesantita dall’opacizzazione divecchie e nuove vernici. Che non impediscono tuttavia di escluderecon decisione quel riferimento, da spostarsi, a me pare, a vantaggio diun altro secentista, ma ben più tardo, Giovan Battista Beinaschi, co-sì spesso confuso con Lanfranco da essere stato ritenuto in antico unsuo diretto discepolo3 6. Se l’ipotesi di un alunnato è contraddetta, co-me si sa, dai dati anagrafici, la filiazione linguistica resta un fatto in-contestabile. E già sottolineato dalle fonti: “tanto pigliò di quellamaniera”, dice Orlandi, cioè della maniera di Lanfranco, “che molteopere sue passavano per mano di quel gran Maestro”3 7, il cui stile eracosì simile al suo, aggiunge Pascoli, da “ingannare (…) i rigattieri”più accorti3 8.

Vari comunque sembrano i termini di confronto utili a suffraga-re l’inserimento anche di questa tela nel catalogo del prolifico artistapiemontese, trasferitosi a Roma verso la metà del Seicento, ma attivosoprattutto a Napoli, dove si recò più volte e dove concluse la sua esi-stenza. La verve del gran decoratore, sul fronte di un barocco corpo-so e fortemente contrastato, traspare anche nella pala in questione,dalla spazialità priva di coordinate, tutta scorci e diagonali, con le fi-gure sode ma fluttuanti a mezz’aria. Caratteri che, al pari delle tipo-logie, del piegare franto dei panni e della tavolozza interamente gio-cata sui bruni, si ritrovano, tralasciando le decorazioni a fresco e li-mitandoci a pochi esempi, in opere come la ‘Resurrezione di Lazzaro’già nella chiesa del Suffragio a Roma, il ‘San Pietro crocifisso’ deidepositi di Brera (Golasecca, chiesa dell’Annunziata) o il ‘Mosè che fascaturire l’acqua dalla roccia’ nel Museo del duomo di Salerno39. A

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conferma si potrebbe addurre il ricorrere, in quei testi come qui e inmolti altri, di certi angioletti dalle gote gonfie, deformati dall’enfasiprospettica, in cui si ravvisa l’eco di un autore per molti versi affinecome Giacinto Brandi. E non meno significativa è la presenza nellapala tedesca di una testa come quella, assai caratterizzata, del vecchioElia: un tipo, la fronte calva, la barba bianca resa con pennellate ispi-de e sfrangiate, che compare innumerevoli volte, quasi una firma,nella produzione del pittore.

La sostanziale omogeneità linguistica se non qualitativa del per-corso di Beinaschi rende spesso non facile la datazione di un dipintonuovo. Quello oggi a Bückeburg, tuttavia, qualche appiglio utile intal senso parrebbe offrirlo. I nessi più stringenti sembrano infattiquelli con la ‘Predica del Battista’ /t a v o l a 46/ passata anni fa sulmercato viennese. Un’opera ritenuta giovanile, databile entro il primoperiodo romano, ante 16644 0, in virtù del suo ritmo tranquillo, piùlento e misurato di quanto non sarà nel Beinaschi successivo, agitatoda una foga inesauribile scaturita dal contatto, dopo quella data,con le volte napoletane di Lanfranco. Il pedale barocco, insomma, viappare meno spinto del solito, come per effetto di quelle vaghe sim-patie classiciste che, sappiamo, interessarono l’artista al suo esordiosulla ribalta romana e ne guidarono i primi passi nella bottega diPietro del Po. Ed è appunto con quel ritmo pacato che la pala oggi aBückeburg si rivela, nonostante tutto, in particolare sintonia, mo-strando fra l’altro un riflesso non poi così vago, nel gruppo dellaVergine col Bambino, largo e massivo, racchiuso dalle falde spesse delmantello, dei modi di un pittore schierato su tutt’altro fronte daquello del Beinaschi maturo come Gian Domenico Cerrini (si pensialle varie redazioni della ‘Sacra Famiglia con Sant’Elisabetta’ e inparticolare a quella dei depositi delle gallerie fiorentine, specie per lafigura del piccolo Gesù); un pittore, Cerrini, del quale il piemontesedivenne amico, giungendo persino in gioventù a tradurne all’ac-quaforte almeno un quadro4 1. Ovviamente quel rimando finisce, nel-le mani di Beinaschi, per cambiare quasi totalmente di segno, im-merso com’è in un contesto così diverso e costretto a confrontarsi,non solo in metafora, con gli accenti del più screanzato naturalismoespressi nella figura del vecchio profeta.

Nulla esclude tuttavia che la tela possa essere anche più tarda,proprio in ragione del naturalismo, in qualche modo partenopeo, cheimpronta quella testa, o considerando l’esatta coincidenza d’inven-

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zione — ma potrebbe trattarsi di una figura di repertorio dalle originiantiche — fra il volto dell’angioletto in scorcio che volge lo sguardoverso la Vergine dall’estrema sinistra del dipinto nuovo e quello cheguarda a Dio Padre nell’alto dell’‘Annunciazione’ in San Bonaventu-ra al Palatino a Roma, databile non prima del 16764 2. E ancora, per lasintonia di accenti che essa sembra palesare con un’opera, ritenuta tar-da ma senza alcun supporto documentario, come l’‘Allegoria della Fe-de’ dei depositi di Capodimonte43.

Luca Giordano

Di Luca Giordano, Longhi aveva fatto dire al suo immaginario“corrispondente del Lanzi” che tale pittore “giammai (è) assente daveruna quadreria d’Europa e sempre, per qualche dote, prezzabi-le”44. Il grande napoletano figura infatti anche a Bückeburg, con unasola tela ma di tale livello e proporzioni che stupisce sia passata sin quiinosservata, benché appesa tuttora a una parete dello scalone di ac-cesso al piano nobile del castello4 5. Questa strepitosa ‘Susanna’ /t a v o -l e 47, 48 e III a colori/, la cui autografia non può essere messa indubbio, risulta fra i dipinti entrati in galleria nel 1685 per iniziativa delsuo fondatore, il conte Friedrich Christian, che l’avrebbe acquistatasulla piazza romana al prezzo di 200 doppie. Le carte più antiche delNiedersächsisches Staatsarchiv la registrano in effetti fra le prime ac-quisizioni, rubricandola accanto ai Ludovico, ai Cignani, ai Pasinelli eagli altri dipinti che costituiscono il nucleo originario della collezionemessa insieme dal conte4 6. Se per quegli autori e per altri ancora, comesi è detto a suo tempo, l’indicazione trova un riscontro sicuro e pun-tuale nelle fonti italiane, ciò non sembra valere nel caso del Giordano,nelle cui più antiche biografie non compare traccia del dipinto tede-sco47. Il che, del resto, non costituisce certo l’unico caso di dimenti-canza da parte dei primi biografi in merito a un artista tanto prolifico.Alcune circostanze rendono però più che plausibile l’ipotesi non di unacquisto sul mercato ma di una commissione diretta, e inoltrata al pit-tore non a Roma bensì a Firenze, al tempo degli affreschi Riccardi.

Nella ben nota lettera di sollecito a Pasinelli, inviata da FriedrichChristian, allora a Reggio Emilia, il 2 aprile 1686, e pubblicata già daZanotti, vi è un passo che sembrerebbe rivelatore. Esasperato dallalentezza del bolognese nella consegna della ‘Predica del Battista’, il

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conte conclude la missiva rivolgendo al pittore una sottile minaccia:non mi costringa — egli scrive — ad abbandonare un’impresa tantoamata, e così a “procurare il rimborso del danaro da me sborsatole” e“a valermi dell’altre congionture, che col Giordani, come già di Fi-renze le scrissi, mi si sono rappresentate per compire la mia Galeria”4 8.La minaccia sortì il suo effetto (la ‘Predica’ fu consegnata entro l’an-no), ma anche le ‘altre congionture’ produssero il loro: la ‘Susanna’oggi a Bückeburg.

Da quelle parole si deduce infatti un passaggio del conte nella ca-pitale del granducato giusto al tempo in cui il pittore (che il ‘Giorda-ni’ sia lui mi pare quasi scontato) attendeva alla seconda tranche,quella conclusiva, dei lavori nella Galleria Riccardiana e alla decora-zione della biblioteca; lavori per i quali è documentato a Firenze dal-l’aprile del 1685 al marzo, almeno, dell’anno successivo49. Tali impe-gni, come si sa, non impedirono a “Luca fa presto” di assolvere anchea numerose altre richieste, alle quali dunque va aggiunta la tela per ilsignore tedesco: ennesima conferma di quanto ebbe a dire in seguitoPaolo de Matteis, secondo cui, e proprio in quegli anni, “tutto ilmondo” sembrava “aver sete insaziabile dell’opere sue”50.

Il momento di stile del resto appare esattamente quello: allorchél’adesione al verbo barocco si fa piena e completa da parte dell’artista,stimolato, fra l’altro, da un ulteriore fecondo contatto col Pietro daCortona fiorentino. Questa ‘Susanna’ possiede infatti la stessa lar-ghezza di metro, impetuoso e fluente, della volta riccardiana, che fa-ceva sentire gli artisti locali “piccini” come, appunto, al tempo dei sof-fitti cortoneschi di Pitti; un impeto, nel dipinto tedesco, appena tem-perato dal ricordo, ben vivo, della solenne spaziosità veronesiana.Valgano a riprova i confronti con le varie scene del mito che si dipa-nano sopra il cornicione dei lati lunghi della galleria, eseguite nella se-conda tornata di lavori, proprio nel 1685, e coi due grandi modelli —la stessa frasca, le stesse nubi gonfianti — relativi al lato opposto allefinestre, oggi in deposito presso la National Gallery di Londra. Ma seil nudo della nostra eroina si rivela assai prossimo a quello di molte fi-gure femminili che popolano la celebre volta (si vedano in particolarequelle volteggianti sopra il gruppo della Temperanza all’angolo sud-ovest /t a v o l a 49/), forse ancor meglio funzionerà l’accostamento dellatela tedesca, per l’impianto monumentale delle figure, al ‘Trionfo del-la Divina Sapienza’ affrescato sul soffitto dell’attigua biblioteca dipalazzo, subito dopo il compimento della galleria. Passando poi ai di-

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pinti su tela, si pensi, fra i molti rimandi possibili, alla pala per la chie-sa fiorentina di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, del medesimo 1685,e, sul fronte del tema profano, al ‘Bacco e Arianna’ oggi a Dresda(Gemäldegalerie Alte Meister) e già presso il conte Waldstein in Boe-mia, che ripropone l’enorme, originale formato verticale, frutto pro-babile di un’altra commissione diretta non documentata5 1. O infine, esoprattutto, alla magnifica tela, ancora un ‘Bacco e Arianna’, delChrysler Museum di Norfolk /t a v o l a 50/, identica alla nostra nella fra-grante lumescenza degli impasti52.

Ultima in ordine cronologico fra le poche versioni note di un te-ma frequentato con singolare parsimonia dal pittore, la nuova ‘Su-sanna’ appare di gran lunga la più avvincente. E del tutto diversa, ri-spetto alle altre, sul piano dell’invenzione5 3. Qualche affinità, nelbraccio teso dell’eroina e nell’articolarsi in profondità dei parapettidella vasca, si può scorgere con l’esemplare del Museo Stibbert, forseanch’esso del periodo fiorentino, nessuna invece con la versione diDresda, assai più antica, né con quella della Banca Popolare di No-vara, che — meno sfogata nella stesura e nel comporre — sarà meglio,a questo punto, arretrare di un poco rispetto alla datazione corrente,ovvero non oltre gli inizi del nono decennio54. L’idea compositiva dibase della ‘Susanna’ tedesca, sviluppata però in orizzontale, torna in-vece in un piccolo dipinto /tavola 51/ di cui nella fototeca del Kun-sthistorisches Institut di Firenze si conserva una riproduzione in bian-co e nero recante l’indicazione “Ermitage”. Alcuni studiosi in effettisegnalano del Giordano in quel museo, ma senza illustrarlo, un di-pinto di questo soggetto, che i monografisti del pittore però non ru-bricano in alcun modo55. Benché la qualità del quadretto appaia de-cisamente apprezzabile, riesce difficile giudicare in maniera definitivadella sua autografia dalla sola foto. Resta la certezza di un rapportocompositivo stretto con la tela di Bückeburg, ma non senza varianti,oltre che nel formato, nei dettagli: come ad esempio nella mano alza-ta e nel volto della protagonista. Il che non esclude del tutto l’ipotesiche possa anche trattarsi di un bozzetto preparatorio, di una ‘mac-chia’, come si diceva in antico, molto simile del resto, per qualità e ca-ratteri di stesura, abbreviata e liquida, a molte altre, forse troppe, va-riamente riconosciute all’artista in questo stesso giro d’anni. Penso inparticolare alle ‘Parche’ Mahon (Londra, National Gallery), alla ‘Pru-denza’ di Houston (Museum of Fine Arts), o alla ‘Minerva’ di colle-zione privata londinese5 6. Date le varianti e l’immediato trasferimento

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dell’originale in Vestfalia, l’eventualità che, viceversa, si tratti di unaderivazione di bottega appare, dopo tutto, meno probabile, se non, ca-somai, da un bozzetto autografo disperso. Un bozzetto che del dipin-to grande comunque fissava già un elemento chiave: la regìa delle lu-ci che sembra ambientare l’evento, in contrasto con le scritture, quasiall’imbrunire; forse — e in ossequio a un topos ormai classico — perfar meglio risplendere di luminosa virtù il nudo, più eroico che sen-suale, di Susanna.

Girolamo Negri detto il Boccia

Nulla di guerresco presenta a ben vedere questa svagata mezza fi-gura femminile /tavola 52/, riconoscibile come ‘Bellona’, sorella diMarte e dea della guerra, giusto per la bocca di cannone che appena siintravvede nel fondo sulla destra. Tipico quadro da stanza, concepitonello spirito della testa di carattere idealizzata, un genere molto ap-prezzato nel tardo Seicento e per il quale il soggetto diviene quasi unpretesto, il dipinto, inedito, reca a tutt’oggi un’attribuzione al fioren-tino Matteo Rosselli, la stessa, verosimilmente, con la quale — ultimoarrivo fra quelli presi in esame — entrò in galleria nel 182957. Essospetta però, ad evidenza, non a un fiorentino ma a un bolognese, enella fattispecie, come per primo ha intuito Stefano Tumidei58, a unpittore, il Boccia (Bologna, 1648-1718), la cui fisionomia è andataprecisandosi solo in tempi relativamente recenti. L’alunnato pressoLorenzo Pasinelli, dopo una breve sosta nella bottega di Canuti, segnòin maniera vistosa e duratura il suo linguaggio, tanto nella produzioneda altare (a giudicare dalle poche pale superstiti) che in quella dastanza. Lo dimostra chiaramente anche il dipinto in questione, conte-sto di memorie pasinelliane al punto che il profilo della donna sembradipendere quasi alla lettera da quello che compare in un’opera per-duta del maestro, la cosiddetta ‘Sibilla’ Budrioli, nota attraverso un’in-cisione di Giuseppe Maria Rolli59. Con ciò, non appare meno certal’appartenenza del dipinto alla mano del seguace, che del più com-plesso e nobile fraseggio pasinelliano, della sua vibrante tessitura pit-torica, fornisce, qui come nelle altre opere da poco restituitegli, una ri-duzione piacevolmente decorativa. Ed è appunto dal confronto con al-cune di esse che giungeranno le necessarie conferme. Si vedano, percominciare, le comparse femminili che assistono al ‘Martirio di San

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Bartolomeo’, nell’omonima chiesa modenese, documentato al 1688-1689, o la ‘Santa Cecilia’ del conservatorio di San Paolo, sempre aModena, probabilmente dello stesso momento60. Ma ancor più pro-bante riuscirà l’accostamento della tela di Bückeburg alla ‘Sibilla’ og-gi a Faenza (Pinacoteca Civica)61, dove ritornano lo stesso gioco deipanni con le medesime, caratteristiche zigrinature di luce sulle crestedelle pieghe, nonché, nel vestiario, un gusto quasi da guardaroba tea-trale, più ornato rispetto a quello del maestro, col motivo tipico, cheritroviamo spesso, degli orli a smerlo di maniche e mantelli; o alla bel-la tela del 1690 circa con ‘Ester e Assuero’, in collezione privata a Reg-gio Emilia /tavola 53/, con la quale condivide l’eleganza leggera delritmo e la stesura preziosa6 2. E infine a un altro ‘Svenimento di Ester’,conservato a Montombraro (Istituto G. Ronchi)63, in cui l’ultima fi-gura a destra ripete, puntuale, tipologia e acconciatura della nostradea della guerra. La cui datazione più plausibile parrebbe dunquequella all’ultimo decennio del Seicento, per i confronti addotti e per laancor fresca vicinanza di modi col maestro che il dipinto esibisce64.

Se la tela non aggiunge nuovi e diversi elementi di giudizio, vadetto però che con essa, entro un genere per il quale evidentementeera piuttosto richiesto, il Boccia si mostra al meglio delle sue possibi-lità. La frequente semplificazione di stesura acquista qui, viceversa,una compattezza vagamente di porcellana (eco del Franceschini?),mentre l’invenzione appare, forse solo come nel citato ‘Ester e As-suero’ di collezione privata, ampia e lieve, di una scorrevolezza ariosa,quasi danzante, animata da una grazia mondana già ‘settecento’, inparticolare nel volgere un po’ sprezzante del capo e nel gesto della ma-no che trattiene il giro capriccioso del manto. Che l’elaborazione dimotivi pasinelliani non si riveli sempre altrettanto felice lo dimostra,ad esempio, un’altra mezza figura femminile anch’essa restituibile alBoccia e per la quale, ugualmente, l’autore sembra essersi appoggiatoin parte alla ‘Sibilla’ Budrioli. Intendo l’‘Allegoria della Scultura’ /t a -v o l a 54/ conservata oggi a Dublino (National Gallery of Ireland) comeopera del maestro, ma di sicura spettanza dell’allievo. La stesura più li-scia, l’invenzione leggermente bloccata, quel tanto di semplificazionecui sono sottoposti i tratti del volto, il taglio dell’occhio, l’articolazio-ne delle mani denunciano l’appartenenza del dipinto al pennello delseguace, di cui presenta i tratti più tipici, compreso il motivo a smer-li che rifinisce, quasi una sigla, la sopramanica. A riprova, basti acco-stare il volto di questa ‘Scultura’ a quello della donna che assiste at-

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territa al martirio di San Bartolomeo, sulla destra del citato telone mo-denese, o a quello della figura femminile che compare, sempre all’e-strema destra, nella tela con la ‘Resurrezione della figlia di Giairo’ incollezione privata a Reggio Emilia65.

Carlo Maratta

Tre sono i dipinti di Carlo Maratta presenti ancor’oggi nella col-lezione Schaumburg-Lippe: tutti acquistati, con ammirevole tempi-smo, dal conte Friedrich Christian, sulla metà degli anni ottanta delSeicento. La documentazione del castello e quella del Niedersächsi-sches Staatsarchiv concordano nel registrarne l’arrivo a Bückeburg nel1 6 8 56 6. E per almeno uno di essi, come si è detto nella sezione prece-dente di questo scritto, si può contare sul riscontro fornito, addirittu-ra, da Giovan Pietro Bellori. È lui a ricordare, nella ‘vita’ di Maratta, lafelice coincidenza che portò all’acquisto a Roma, da parte del “Contedi Lippa”, della pala con la ‘Natività della Vergine’, destinata alla sa-crestia di Santa Maria dell’Anima ma respinta dai committenti per viadel prezzo troppo alto67. Che quella fosse la chiesa della nazione te-desca a Roma avrà giocato senz’altro a favore, ma l’episodio confermacomunque la vitalità del mercato romano a queste date, vieppiù orien-tato verso gli acquirenti stranieri, nonché la sua ormai definitiva, faci-le e istantanea capacità di riconversione di un’immagine di culto in og-getto di lustro. La descrizione che ne fa lo scrittore seicentesco corri-sponde appieno al dipinto in questione, non lasciando adito a dubbi.E non ne ebbe infatti Hermann Voss che nel pubblicarlo lo ricondussealla citazione belloriana, identificando così nel “Conte di Lippa” il no-stro Friedrich Christian68.

La tela, la prima eseguita dal pittore dopo la malattia che loportò quasi in fin di vita al principio degli anni ottanta, non sembraaver goduto di molta attenzione da parte degli studi, che dopo Voss sisono limitati, per quanto mi consta, solo a citarla, e per lo più in rela-zione ai vari disegni preparatori via via emersi6 9. Custodita oggi negliappartamenti privati, essa risulta inaccessibile: di qui l’impossibilità,anche, di procedere a una nuova riproduzione fotografica. Il che di-spiace, trattandosi di un testo esemplare della ‘gran maniera’ marat-tesca, nella sua accezione più riposata e intima. La maniera cioè di co-lui che, idolatrato da Bellori, sembrava raccogliere e far fruttare al me-

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glio l’eredità classicista, aggiornandola secondo un criterio di corret-tezza e decoro già indirizzato verso la concezione accademica del-l’arte. Il richiamo ad Annibale, e più ancora a Guido Reni, quasi unomaggio, vi appare esplicito, addolcito tuttavia, complice il tema, daun garbo nuovo che non a caso catturò fin da subito, segnandone lesorti, il discepolo più fidato, Giuseppe Bartolomeo Chiari, a giudica-re dalla sua ‘Natività della Vergine’ per la cappella Marcaccioni nellachiesa del Suffragio a Roma /t a v o l a 66/, licenziata in quel giro d’anni,entro la metà del nono decennio.

Il secondo Maratta, un dipinto da cavalletto di dimensioni assaipiù contenute, con ‘Giuditta e Oloferne’ /t a v o l e 55 e IV a colori/, è in-vece appeso nella II sala della Gemälde-Galerie70. Anch’esso pubbli-cato da Voss71, può contare su una poco maggiore fortuna visiva ri-spetto alla ‘Natività’, ma non su un miglior credito, poiché relegato ul-timamente da Stella Rudolph fra i prodotti di collaborazione7 2. Forseperò un po’ affrettatamente.

L’invenzione riprende quella che compare in uno dei mosaici,realizzati su cartone di Maratta, che ornano la cappella della Presen-tazione in San Pietro a Roma (precisamente, uno dei ‘sordini’ ai latidelle finestre), la cui commissione risale al 1677. Su questa base, Vo s saveva riconosciuto nella ‘Giuditta’ Schaumburg-Lippe quella citata daB e l l o r i7 3, una delle riduzioni su tela dei suddetti cartoni richieste al pit-tore dal marchese Niccolò Maria Pallavicini, figura nodale del mece-natismo romano nell’ultimo quarto del Seicento. Secondo lo storio-grafo seicentesco, la repliche Pallavicini, benché piccole, si segnala-vano per un’invenzione più ‘copiosa’ rispetto al modello di partenza.Il che è confermato dalle incisioni che Girolamo Ferroni ne trasse piùtardi, nel 1705, e sulla base delle quali almeno due delle cinque telesono state in seguito recuperate7 4. Non ancora la ‘Giuditta’7 5, che tut-tavia, stando alla traduzione incisoria /tavola 57/, non può in alcunmodo essere assimilata, se non altro per l’assenza della servente atter-rita in secondo piano, al dipinto di Bückeburg. A sua volta differente,però, anche dal cartone conservato insieme agli altri nella Loggia del-le Benedizioni in San Pietro /t a v o l a 56/. Oltre che per alcuni partico-lari di panneggio nella figura dell’eroina e per il diverso andamentodella stoffa pesante del padiglione, se ne discosta per la presenza sul-la sinistra, al posto dello scudo della vittima (resta invece il cimieropiumato), di un elegante tavolo barocco, il cui piano tondo è sorrettoda una sorta di sfinge. Soluzione che, come riconosce anche la Ru-

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dolph, non può non spettare al maestro7 6, responsabile tuttavia, amio avviso, anche della realizzazione, non solo di questo particolare,ma del dipinto tout-court. Non riesco infatti a rilevare scarti, tali dagiustificare l’intervento della bottega, nella qualità della stesura, vice-versa assai alta in ogni dettaglio e che si rivelerebbe identica, unavolta liberata la superficie pittorica dalle vecchie vernici, a quella del‘Giaele e Sisara’ della Galleria dell’Accademia di San Luca a Roma, di-pinto derivato anch’esso (una delle tele Pallavicini) da un cartone va-ticano. Tutto, a mio parere, sembra confermarlo: dal brillare nell’om-bra della preziosa suppellettile posata sul tavolo, dal riflesso freddodella lama ricurva, al sontuoso piegare della tenda verde, dalla difficileanatomia del torso riverso di Oloferne, alla complessa, raffinata ac-conciatura dell’eroina, colpita da una luce lunare che scivola sulletrecce bionde, sfiorando appena l’orecchio e la guancia liscia, fino almagnifico stazzonarsi delle pieghe del manto blu. Brano, questo, distraordinaria eloquenza e nobiltà, esibizione orgogliosa dell’abilità diun artista che sosteneva, anzi teorizzava l’ardua difficoltà di un pan-neggiare corretto, superiore a quella che si presenta al pittore affron-tando il nudo, poiché esso, il panneggiare, non può fare affidamentosulla “forma naturale” ma dipende “in tutto dall’arte e dall’erudizionedel disegno”7 7. Un brano, inoltre, ancor più monumentale ed efficacedi quanto non apparisse, se Ferroni non ha tradito l’originale ignoto,nella versione Pallavicini. Tutto insomma, quanto a resa pittorica,sembra rendere piena giustizia a un’invenzione felice com’è quellaper il sordino vaticano, cui l’artista pervenne dopo lunga riflessione, agiudicare dalla quantità dei disegni superstiti che testimoniano il pas-saggio dal tono trionfale delle prime idee a quello più silente della so-luzione finale, di un fasto doloroso, con l’eroina che medita solennesul suo gesto, lo sguardo fisso rivolto al tronco senza vita del tiranno.E se per la figura di lei l’elaborazione appare più lenta, per giungerealla postura definitiva con una serie di attenti studi dal modello nu-do78, per la testa di Oloferne ci resta un solo foglio, assai rifinito, dipotente intensità7 9, la stessa che ritroviamo forse più integralmente re-stituita nella versione da cavalletto che non nel grande cartone. Asuffragio della datazione indotta dalle circostanze esterne, la metàdel nono decennio, valgano poi i confronti con opere coeve come la‘Madonna col Bambino’ della Pinacoteca Vaticana, cartone per il mo-saico del Quirinale, o l’‘Addolorata’ di Melbourne Hall. Opere affinialla nostra, specie nella maestosa cubatura dei panni e nelle specificità

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di stesura80. Senza dire che dopo il buon affare concluso da Marattacon il conte del nord in relazione alla pala con la ‘Natività’, stupireb-be che egli abbia potuto rifilare a un così generoso cliente un prodot-to della bottega.

Resta da capire a questo punto se davvero, come ipotizza la Ru-dolph, le derivazioni Pallavicini (peraltro di misure pressoché identi-che a quelle del nostro dipinto) fossero già in essere al momento del-la commissione da parte del signore tedesco della sua ‘Giuditta’. Vi s t oil contatto che era venuto a crearsi fra i due in occasione dell’acquistodella pala per Santa Maria dell’Anima, non è escluso che la richiestapotesse pure essere indipendente da quella del marchese. Ma anche incaso contrario, nulla va tolto all’avvedutezza di tale scelta, conside-rando che il dipinto di Bückeburg costituisce, come si è visto, un’ul-teriore variante della composizione vaticana e non una replica della te-la Pallavicini. Tant’è che un terzo dipinto marattesco rientrò fra gli ac-quisti romani di Friedrich Christian.

Si tratta di un piccolo ‘Transito di San Giuseppe’ /t a v o l a 5 8 /8 1, lacui composizione ripete con varianti quella della pala, datata 1676, vo-luta dall’imperatrice Eleonora per la sua cappella della Hofburg, oggial Kunsthistorisches Museum di Vienna /t a v o l a 59/. Sin qui inedito, egratificato da una sola fugace menzione8 2, il quadretto si discosta dal-la pala viennese non soltanto per i tre recipienti metallici posati aterra in luogo degli strumenti da falegname che appaiono nella telagrande (per l’appunto gli stessi che si scorgono anche nella pala con la‘Natività’), ma soprattutto per altre piccole e meno piccole differenzecompositive che ne fanno un prodotto a sé: nelle vesti dell’angelo inprimo piano, le cui ali di dispiegano per intero entro il margine sini-stro della tela, nel volto di quello subito dietro, nell’angolazione delbraccio levato di Cristo, nei dettagli di panneggio della Vergine, epiù che mai nella gloria in alto, più numerosa e diversamente disposta.Tutto ciò trova precisa corrispondenza, come è stato notato, in un’in-cisione di Nicolas Dorigny /tavola 60/, frequente traduttore di Ma-ratta, datata 1688 e dedicata al cardinale Giuseppe Renato Imperiali8 3.

Date le varianti, difficilmente la teletta Schaumburg-Lippe puòcostituire il modello per la pala di Vienna (se così fosse, non sarebbedovuta rimanere nello studio del pittore), né una sua memoria, comeal tempo si usava nel caso di opere destinate a luoghi lontani. E nonsolo per via dell’incisione di Dorigny che sembra testimoniare l’esi-stenza di un secondo dipinto siffatto, ma anche perché fra i disegni

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preparatori sin qui ricondotti alla commissione asburgica almeno due,quelli di Berlino, si riferiscono senza dubbio alla variante in questione/t a v o l e 61, 62/8 4; la quale dunque va intesa come un’elaborazione po-steriore. Poco importa poi che uno dei due fogli /tavola 62/ sia statoattribuito con qualche riserva, e a mio parere senza motivo, alla manodi un allievo85. Da tempo, la critica ritiene, sulla scia di Amalia Mez-zetti, che l’incisione del francese sia tratta da un dipinto, oggi perdu-to, già nella collezione romana del suddetto cardinal Imperiali. Tu t t a-via, la lunga e ampollosa dedica che peraltro non tutti gli esemplaridell’incisione recano non dice affatto questo. Anzi, l’unico riferimen-to che vi si fa è, semmai, al dipinto viennese, lasciando intenderepiuttosto, per l’incisione, una nascita autonoma, a parte, e magaricon una qualche sfumatura politica8 6. Né una simile composizionefigura tra i quadri del cardinale, stando all’inventario post-mortem del1737, anche se, va detto, pure altri pezzi non vi figurano, poiché nelfrattempo, com’era consuetudine presso ogni amateur, donati, vendutio scambiati8 7. D’altro canto, l’ipotesi che possa trattarsi dello stesso di-pinto sembrerebbe esclusa dal fatto che Dorigny, giunto a Roma solonel 1687, data la sua lastra al 1688. Da tre anni o giù di lì la tela diBückeburg doveva trovarsi già in loco8 8, sempre che però non si vogliadubitare della veridicità delle notizie tedesche, che, anche questo vadetto, almeno in un’occasione si sono rivelate del tutto fallaci, come sivedrà a proposito della ‘Samaritana’ di Chiari89.

Comunque sia, il piccolo dipinto, la cui scelta da parte del contetrova forse la sua giustificazione in una sorta di omaggio alla casa im-periale, si segnala per una stesura sensibile e accurata, degna di un au-tografo90. E a conferma di una possibile datazione coeva all’acquisto(sempre che quella data sia buona), tale stesura cremosa e compatta sipalesa per molti versi affine a quella, sebbene più larga e compendia-ria date le sue maggiori dimensioni, del grande modello con l’‘Apo-teosi di San Carlo Borromeo’ /tavola 63/, presentato all’arciconfra-ternita romana dei Lombardi nel 1685-1686, in vista della gigantescapala che sarebbe andata a ornare l’altar maggiore della chiesa di SanCarlo al Corso di lì a qualche anno91. Laddove il modello romano ri-sulta più finito, come in certi partiti di panni, l’affinità col quadrettotedesco è stringente; e più che mai lo è nell’insistita caratterizzazionefisionomico-espressiva del protagonista, paragonabile a quella delvecchio morente nel nostro ‘Transito’. La fattura più lucida che con-nota quest’ultimo appare in linea del resto con un’invenzione che a

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differenza di quella più ‘decorativa’ del ‘San Carlo’ si assesta qui su bi-nari di composta, ferma dignità narrativa. Come nella ‘Morte dellaVergine’ (Roma, Villa Albani) licenziata sempre sulla metà del nonodecennio per il cardinal Cybo, l’espressione calibratissima degli affet-ti gioca anche in questo caso un ruolo basilare. Ma non esclusivo, perlo spazio concesso alla ghirlanda festante degli angeli sulle nubi, inte-neriti da un lume biondo che ne accende le carni. Ed è in siffatte com-posizioni che il linguaggio maturo di Maratta, sorta di Le Brun italia-no, esprime al meglio la sua natura: quella di un nobile ed elegantecompromesso fra istanze classiciste e respiro barocco.

Giuseppe Bartolomeo Chiari

Nel ricordare la fortuna di Chiari presso i committenti inglesi, dicui “sempre aveva lo studio pieno”, Lione Pascoli non manca di ag-giungere che molti quadri l’artista “aveva mandati” anche in Francia e“a diversi sovrani di Germania”. Degli ultimi cita solo, caso evidente-mente esemplare, i “tre assai grandi al principe di Sassonia, rappre-sentante l’uno la strage degl’innocenti, l’altro il martirio di Santo Ste-fano”, e il terzo “la Samaritana”9 2. Come già Bellori, anche lui appel-la lo Schaumburg-Lippe ‘Principe di Sassonia’, ma che si tratti diFriedrich Christian è confermato dal fatto che proprio quei quadri, losegnalò Voss nel lontano 1924 illustrando però solo l’ultimo9 3, si con-servano ancor oggi a Bückeburg: i primi due nel cosiddetto Marmor-gang, in cima allo scalone /t a v o l e 64, 65/, la ‘Samaritana’ invece nellaGemälde-Galerie al piano terra /t a v o l e 67, 68 e V a colori/. Stando al-la documentazione del castello, le tre tele risulterebbero acquistate aRoma nel 1685. Nel caso della ‘Samaritana’ la notizia si rivela però,circa i tempi, palesemente errata, poiché il dipinto reca insieme allafirma, in basso a sinistra, la data 1712. E qualche dubbio è lecito nu-trirlo pure in relazione alle due tele centinate col ‘Martirio’ e la ‘Stra-ge’: sebbene sembrino decisamente anteriori alla ‘Samaritana’, esse,elencate sempre e solo insieme a quella, non compaiono nelle liste ve-rosimilmente più antiche del Niedersächsisches Staatsarchiv di Bücke-burg.

Di sicuro i tre dipinti hanno in comune l’alto livello di qualità,forse proprio perché destinati a un acquirente oltramontano. Di qui ilricordo puntuale che ne fa Pascoli. Del resto, ancor prima di lui, Ni-

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cola Pio (1724) aveva testimoniato del favore di cui l’artista, il più fe-dele fra i maratteschi, godeva all’estero: “Continuamente va operandocon gran sodisfatione de’ forestieri, mandando ne’ paesi stranieri mol-te delle sue opere”9 4. E la ragione sta in parte anche nella stima che ilmaestro gli aveva accordato fin da subito, accogliendolo nel suo studioancora bambino, nel 1666, per caldeggiarne già nel 1675 l’ingresso inAccademia95. Nonostante ciò, ingegno tutt’altro che precoce, poco onulla ci resta dei suoi inizi, e prendendo per buono il 1685 come datadi arrivo a Bückeburg dei due pendant9 6, essi verrebbero a coincideregrossomodo, quanto a cronologia, con le prime cose sicure di un cer-to rilievo: la ‘Natività della Vergine’ /tavola 66/ e l’‘Adorazione deiMagi’ che ornano i lati della cappella Marcaccioni in Santa Maria delSuffragio a Roma, realizzate nel 1682-16839 7. Tutt’altro che deboli, co-me ingiustamente si continua a ripetere, le tele Marcaccioni risultanoperò contrassegnate, nella monumentale fermezza della forma e dellacomposizione e nella stesura liscia e ferma, da un rigoroso ossequio alverbo marattesco maturo: quello espresso nel corso degli anni ottantain opere come, per l’appunto, la pala per Santa Maria dell’Anima, dicui più di un riflesso si legge nella ‘Natività’, o come il grande ‘Romoloe Remo’, destinato al marchese Pallavicini e oggi a Sanssouci9 8. Al con-fronto, tale ossequio si fa meno deferente nelle due tele tedesche,che denotano maggiore esperienza e autonomia da parte dell’allievo,capace di guardare liberamente anche al Maratta anteriore, a cosequali, per esempio, il celebre ‘Sant’Andrea condotto al martirio’ oggia Greenville9 9, guadagnando una floridezza di modi più evoluta ancherispetto all’‘Assunta’ affrescata sulla volta della cappella Montioni inSanta Maria di Montesanto a Roma nel 1686. La sintassi animata esciolta che caratterizza in particolare la scena di martirio, la tavolozzafestosa paiono confermare quanto detto, cioè un ulteriore grado dimaturazione e dunque una datazione più avanzata del 1685, ma so-prattutto rappresentano in maniera emblematica un tratto tipico del-la pittura romana di secondo Seicento: il processo, avviato da Marat-ta e perseguito a vari livelli dalla schiera dei seguaci, di ‘normalizza-zione’ della grande eredità barocca. O, se si vuole, di riconversione diquella classicista a fini garbatamente decorativi. Così come accadegià nelle due scene di storia antica conservate a Burghley House, di uncortonismo illeggiadrito e insieme razionalizzato, anch’esse del 1686c i r c a1 0 0, o ancora, sui primi degli anni novanta, e in termini ancorpiù programmatici, nella volta col ‘Carro del sole’ a palazzo Barberini,

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traduzione in sfondato, ma lieve e misurata, del più ‘glittico’ fra i sof-fitti seicenteschi, l’‘Aurora’ Rospigliosi. Su questa strada, quindi,Chiari non si fa scrupolo di risalire alle fonti stesse del classicismo mo-derno: Guido, sì, ma più che mai Annibale Carracci1 0 1. E non è diffi-cile scorgere infatti nel nostro ‘Martirio di Santo Stefano’ — un casofra i tanti — richiami più o meno espliciti al dipinto carraccesco dieguale soggetto conservato al Louvre, nelle collezioni reali fin dal1671 ma divulgato dall’incisione di Guillaume Chasteau102.

Altrettanto esemplare in tal senso, benché ormai della piena ma-turità, è pure la bellissima ‘Samaritana al pozzo’ /t a v o l e 67, 68/, data-ta, come si è detto, 17121 0 3. Opera di un artista all’apice della carriera,sostenuta da una qualità impeccabile, la tela non sembra godere oggidella fortuna che merita, se assai di recente se n’è potuto travisare per-fino il formato1 0 4. Fortuna che invece sicuramente ebbe un tempo, co-me più avanti si vedrà. Il modello lontano, ancora una volta, è Anni-bale: la ‘Samaritana’ Oddi, oggi a Budapest /t a v o l a 72/. Quello vicino,Maratta, che della tela carraccesca allora a Perugia aveva eseguito ingioventù una traduzione incisoria1 0 5, tradendone poi il ricordo in unamagnifica redazione del tema, solo di recente recuperata, eseguitaassai più tardi per il marchese Pallavicini /tavola 71/106. Come si puòconstatare, la rielaborazione di Chiari apporta numerose varianti alprototipo marattesco, nella figura della donna, principalmente, ma an-che in quella di Gesù, operando come una crasi fra l’invenzione delmaestro e quella di Annibale. Da quest’ultima infatti egli ricava quasialla lettera (diversamente da Maratta) la postura delle gambe di Cristoe almeno uno degli apostoli in secondo piano. Il tutto trasposto in unformato grande, con figure al naturale, più che doppio rispetto alquadro Pallavicini1 0 7. Ma senza che con ciò la fattura accusi il minimocedimento. Anzi. A un’operazione così squisitamente intellettualisticae al contempo paradossalmente originale si accompagna infatti unatrama pittorica mobile, iridescente, preziossima, che alleggerisce viep-più, con eleganza tutta settecentesca in odore di Arcadia, la già lievemonumentalità del modello più recente, complice il gesto grazioso,quasi civettuolo della donna, fino a toccare il suo acme nella bellezzadiafana e sofisticata del volto di Cristo: fuoco compositivo del dipinto,nel quale si può ravvisare, più che altrove, un anticipo del ‘SacroCuore’ batoniano108. La tela dunque, che non a caso l’artista firma edata con orgoglio, come farà di lì a un paio d’anni con la splendente‘Adorazione dei Magi’ per il cardinal Ottoboni, oggi a Dresda, con-

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ferma un momento di grazia nella vicenda di Chiari, trovando perfet-to riscontro in opere esattamente coeve e di felicissima riuscita quali la‘Giuditta trionfante’ del Museo di Roma o la lunetta con le ‘Stimmatedella Beata Lucia da Narni’ in Sant’Ignazio, in cui il tema prettamen-te devozionale si risolve in delizioso teatrino arcadico, di un garboineffabile109.

Una tale qualità solleva infine un’altra questione: quella delle re-pliche fin qui note della tela Schaumburg-Lippe e degli equivoci cheintorno ad esse sono venuti a crearsi nel tempo. Intanto, dopo l’e-mergere del dipinto Pallavicini, non ha più alcun senso continuare arubricare anche la ‘Samaritana’ in questione — trattandola alla stre-gua di una replica con varianti — fra le derivazioni da Maratta1 1 0. Ilsuo margine di autonomia rispetto al prototipo marattesco — mipare ovvio — non è certo minore, per restare in argomento, di quel-lo che viceversa si riconosce comunemente a quest’ultimo nei con-fronti della tela Oddi. Tanto che anche del quadro Schaumburg-Lippe sussistono repliche e copie che ne attestano una fortuna a sestante. Se le molte citate dalla letteratura sono forse troppe, poiché inqualche caso si tratta dello stesso dipinto1 1 1, quella oggi a Houston(The Sarah Campbell Blaffer Foundation), quasi identica, anche nel-le misure, e con minime varianti, benché regolarmente accolta nel ca-talogo di Chiari, non sembra spettargli, per via di un notevole scartodi qualità che il confronto con la tela tedesca rende palese /t a v o l a6 9 /1 1 2. Ben verificabile nella resa dei panni, dell’anfora, della frasca,tale scarto riesce assai pesante nei volti degli apostoli, della Samari-tana e più che mai in quello di Cristo, maschera dura, attonita, se-gnata da ombre grevi, che nulla trattiene dell’ispirata, luminosa ele-ganza del modello. Caratteri, questi ultimi, che invece ritroviamointatti e solo un poco addolciti in una tela più piccola passata sulmercato inglese molti anni fa /t a v o l a 70/. Sia o no questa la ‘Samari-tana’ un tempo a Melton Hall1 1 3, di certo il bel quadro sembra pos-sedere tutti i requisiti di un autografo, forse un poco successivo al di-pinto grande e non troppo lontano, parrebbe, dalla tela per palazzoDe Carolis con ‘Venere, Bacco e Cerere’ databile intorno al 1720, maforse più prossimo al modello del ‘Profeta Obedia’ per la basilica diSan Giovanni in Laterano1 1 4. Qui, tuttavia, più che nel soffitto De Ca-rolis o nell’ovale lateranense, per certi versi piuttosto accademico, lastesura si fa, complici le misure da cavalletto, così carezzevole e inte-nerita, il sentimento così languido da avvicinare il Chiari maturo al

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Bückeburg

più giovane ma anche il più dolce e delicato dei maratteschi, Agosti-no Masucci, allora esordiente, se non agli esiti, ancora di là da venire,di Francesco Mancini.

Francesco Trevisani

Nessuna notizia, né sul luogo né sulla data di acquisto1 1 5, sembraaccompagnare la presenza di questa grande tela in galleria /t a v o l e77, 78 e VI a colori/116. Tuttavia le carte del Niedersächsiches Staat-sarchiv la registrano almeno dal 1771, riportandone il soggetto ma nonl’autore. Un’aggiunta di altra mano, evidentemente posteriore, speci-fica: “Copia italiana dal Cignani di Venezia”117. La stessa indicazioneche compare, dattiloscritta, nel cartellino fissato in modo posticcio sul-la cornice del dipinto, insieme alla dicitura “gezeichnet f. f.” e a un’ul-teriore, successiva, informazione: un’ipotesi attributiva in favore di Lu-ca Giordano118. Ultima tappa, questa, di un percorso fuorviante che,chissà perché, aveva portato a giudicare il quadro, di qualità eccel-lente, come copia da Cignani. Nessun Cignani, né a Venezia né altro-ve, presenta una simile composizione. Ma a parte ciò, la cifra stilisticache connota il dipinto ne denuncia tutt’altra estrazione, ovvero quel-la romana di primo Settecento, consentendo di restituirlo, e senza ilminimo indugio, non a Luca Giordano ma a Francesco Trevisani. Ilquale peraltro, come di frequente, non mancò di siglare questo scin-tillante capolavoro con le proprie iniziali in maiuscolo “F. T.” (e non ‘f.f.’). È quasi incredibile che un’opera di questo tenore e di questeproporzioni del ‘virtuoso’ del cardinal Ottoboni1 1 9, il cui nome era as-sai stimato ben oltre i confini dello stato pontificio (si pensi alla serieper Pommersfelden o ai numerosi dipinti inviati in Francia e perfinoin Moravia120) e le cui credenziali erano tali da farlo ritenere al suotempo il primo pennello di Roma1 2 1, avesse perduto così presto lesue generalità. Tanto più considerando che l’invenzione coincide inparte con quella di un altro dipinto ben noto del pittore: l’‘Annun-ciazione’ tuttora in San Filippo Neri a Perugia, sull’altare della primacappella sinistra, sua sede originaria /t a v o l a 79/. Che si tratti di un’o-pera autografa, mi parrebbe pedante argomentarlo. Altri aspetti ri-mangono invece da chiarire. A cominciare appunto dal rapporto, in-contestabile, con la paletta perugina.

Quest’ultima, la cui prima citazione risale al 1784122 e che Siepi

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più tardi dice eseguita a Roma nel 17101 2 3, viene correntemente data-ta dalla critica anche più recente al 1715 circa: parere sostenuto asuo tempo da Frank Di Federico che ravvisava in essa gli stessi carat-teri marcatamente classicisti del ciclo di tele dedicato alla beata Luciada Narni (Narni, Duomo), databile a quel momento1 2 4. Di fatto Siepifondava però la sua notizia, con ogni evidenza, su basi documentarie,poiché il padre filippino Carlo Baglioni nel suo libro di memorie sul-la chiesa registrava l’arrivo, da Roma, della pala di Trevisani — costa-ta alla Congregazione “scudi 100” — all’anno 1711125. Altri elementid’altronde confermano l’affidabilità di quel referto: come la presenzadella composizione perugina nel dipinto (dunque un’autocitazione)che orna la parete di fondo dell’ambiente in cui si svolge l’‘Ultima co-munione di San Luigi Gonzaga’, tela laterale della cappella Sacripan-ti in Sant’Ignazio a Roma, già completa dei suoi arredi intorno al1712; o l’esistenza di una replica di bottega, datata 1713, nella catte-drale di Vèroli, vicino a Frosinone1 2 6. Resta vero che la paletta umbrasi esprime attraverso un linguaggio del tutto affine, nella compostezzadi modi e di affetti, nella semplicità e nella pulizia del dettato e dellastesura, a quello del ciclo di Narni: effetto, questo, di un accosta-mento alla poetica classicista nella specifica accezione che l’Arcadiaromana andava elaborando da ormai un ventennio, della quale Tr e v i-sani, ufficialmente accolto fra gli Arcadi nel 1712, è comunementeconsiderato il più squisito interprete in pittura127. L’obbligata retro-datazione del quadro in San Filippo di un lustro circa impone tuttaviadi considerare tale accostamento non così rigorosamente circoscrittoagli anni centrali del secondo decennio del Settecento, confermandouna volta di più l’andamento ondivago del percorso di Trevisani, noncerto immune da alternanze e ritorni. Nella stessa cappella Sacripan-ti in Sant’Ignazio, per esempio, trovano posto sia il miracolismo dram-matico della pala con la ‘Morte di San Giuseppe’ (che Di Federicoprende a termine di confronto per misurare lo scarto di tono in dire-zione classicista operato dal pittore nell’affrontare il medesimo temadue anni dopo a Narni1 2 8), sia l’intimismo misurato, di sapore ap-punto arcadico, della ‘Comunione di San Luigi’. Tutto ciò, al fine ditentare con maggiore consapevolezza un’ipotesi di datazione del di-pinto nuovo.

L’attitudine a replicare in toto o in parte un’invenzione va ben ol-tre, nel caso di Trevisani, la consolidata, secolare prassi di un artista af-fermato e della sua bottega. Gli esempi non mancano e non si limita-

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no certo alle varie repliche più o meno letterali, più o meno autografe,di un prototipo celebrato come il ‘Cristo morto sorretto dagli ange-l i ’1 2 9. Essa riguarda piuttosto il continuo riutilizzo, anche a distanza ditempo, di un’idea compositiva, di una postura, di un gesto, e magari— fatto questo ancor più singolare — in controparte. Penso, fra i tan-ti esempi possibili, alla Sant’Anna che bacia il piedino di Gesù nella‘Sacra Famiglia’ di Avignone, identica ma ribaltata nella redazioneoggi a Cleveland. Probabile commissione dell’Ottoboni, quest’ultima,databile al 1715 circa, in cui il gruppo della Vergine col Bambino ri-pete a sua volta quello della Madonna del Rosario nella coeva pala diNarni, mentre l’insieme verrà integralmente riproposto, quindici annipiù tardi ma senza il minimo cedimento, nello splendido dipinto,uno dei vertici di Trevisani, per l’oratorio del Santissimo Sacramentoa Roma130. Per non dire della ripresa nel 1721, dopo un quarto di se-colo, dell’idea di base della ‘Crocifissione’ di San Silvestro in Capiteper la pala destinata a Litomysl1 3 1. Una plausibile giustificazione atale pratica è stata individuata dalla critica nella lunga e documentataconsuetudine dell’artista con l’attività teatrale che si svolgeva fervi-dissima presso la corte dell’Ottoboni in Cancelleria (il pittore stessodisponeva di un ‘teatrino’ ad uso personale nelle sue stanze, da nonconfondersi ovviamente con quello di palazzo1 3 2). Quasi si trattasse diun repertorio di gesti scenici elaborati una volta per tutte nello spiritodella veromiglianza arcadica, quelle idee ritornano più volte, al paridelle suppellettili che, anche questo è stato notato, transitano ben ri-conoscibili da un contesto all’altro: pezzi di magazzino, per quantospesso assai raffinati, cui si ricorre ogni volta che la messa in scena loesiga, e anche unici inserti di verità all’interno di allestimenti che rea-lizzavano come meglio non si poteva l’“artificiosa naturalezza”1 3 3 p e r-seguita dagli arcadi. Il riaffacciarsi più volte di quelle invenzioni (altracosa dal ricorrere di stilemi linguistici) ha qualcosa in comune peròanche, come a un livello più alto e generale, con un’abitudine diffusanella musica contemporanea (e la musica era di casa alla Cancelleria):ovvero la ripresa in composizioni diverse da parte dello stesso autoredi materiale nusicale già usato, di un’idea, o di un’invenzione temati-ca. Una prassi riscontrabile ad esempio, e al massimo grado, persino inun genio assoluto come Händel, il quale non si fa scrupolo nell’arco ditutta la carriera, ma non certo per debolezza inventiva, di ripescare intoto o in parte un tema felice da un’opera o da un oratorio, sacro oprofano, per travasarlo, ogni volta ricreato e diversamente elaborato,

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in una composizione strumentale, o viceversa.L’impianto compositivo generale, il mattonato del pavimento e al-

meno una suppellettile, il prezioso cofanetto verde da lavoro poggia-to sulla sedia, accomunano l’‘Annunciazione’ tedesca, per tornare adessa, alla pala di Perugia. Ne fanno però un prodotto autonomo l’ag-giunta dell’inginocchiatoio, la ricca seggiola imbottita a borchiettecon tanto di pomi dorati sullo schienale in luogo di quella impagliata,da cucina, che si scorge nella tela analoga, nonché la diversa attitudi-ne di Maria, sottili variazioni nella figura dell’angelo e soprattutto lagloria angelica in alto, che sfrutta le possibilità offerte da un formatoquasi doppio rispetto all’altro134. Un formato che consente, anzi re-clama, una resa dell’evento più in grande, di sicuro meno raccolta del-l’altra, ma non per questo, lo si è visto, necessariamente più antica. Alcontrario, tutto mi sembra suggerire per essa una datazione successi-va a quella della paletta perugina. Forse già l’esistenza, in sicura rela-zione con quest’ultima, di un bozzetto veloce (Nantes, Musée desBeaux-Arts) che ha tutti i requisiti di una prima idea /t a v o l a 8 0 /1 3 5 p o-trebbe indicare la precedenza della versione umbra. Anche la copia dibottega a Vèroli (1713) o l’autocitazione in Sant’Ignazio (1712) pos-sono essere lette come ulteriori elementi in favore di tale ipotesi. Ma èin particolare la maggiore sapienza, a tutti i livelli, che nella versionetedesca si dispiega a far intendere questa come una rielaborazione po-steriore, più abile e sviluppata con maggiore abbondanza di mezzi.Una versione per così dire di lusso, senza alcuna ricaduta però nellamagniloquenza seicentesca, ormai ricondotta in un universo espressi-vo a misura d’Arcadia e totalmente aggiornato nell’ossequio assolutoalla poetica o meglio alla mistica della semplicità.

I confronti più calzanti risultano del resto quelli con le opere delsecondo decennio, e con le grandi pale in particolare, soprattuttoquelle in cui, come qui, il domestico e il soprannaturale si combinanocon grazia. Dunque, per cominciare, col citato ‘Transito’ in Sant’I-gnazio /tavola 81/ che presenta analoghi controluce nell’apparizionein alto, creati da un fiotto dorato simile a quello che spiove sulla Ve r-gine di Bückeburg insieme a grappoli di angioletti e cherubini fattidella stessa pasta: la pasta preziosa, sempre in bilico fra levigatezze dabisquit e libertà pittoriche, che in Trevisani sostanzia ogni cosa, dallecarni alle vesti. Nel poco più tardo ‘Transito’ di Narni /t a v o l a 82/, do-ve la natura morta sul comodino fa già quasi Chardin, quei grappoliangelici torneranno appena più rarefatti e ancor più simili quindi a

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quelli del dipinto nuovo, per reincarnarsi poi, assolutamente identiciai nostri, nel pannello decorativo con ‘Putti e fiori’ di Pommersfelden(1710-15). L’arcangelo dell’‘Annunciazione’ a sua volta lo si ritrova,sempre a Narni, in diversa attitudine (ma gli stessi riccioli d’oro fuso ele stesse ali candide) volteggiante sulla Beata Lucia che riceve le stim-mate /t a v o l a 83/, il cui volto, solo più turbato per esigenze di copione,ripete quello della nostra Vergine annunziata. Un calco elegante, que-sto, che nel suo fuggevole scorcio sembra aver fornito le fattezze, oltreche alla fortunata ‘Mater Dolorosa’ della Galleria Doria Pamphilj diRoma, anche a molti altri personaggi quali, cambiando registro masenza il minimo sforzo, l’Endimione di Pommersfelden (1712-1713) oil Giuseppe ebreo (1715 circa) del quadro oggi a Melbourne. Ed infi-ne è proprio l’accostamento alla pala di Sant’Ignazio a spingere le da-te ancora un poco avanti, sulla metà del secondo decennio, per la ta-volozza più tersa, fin nei controluce, e la forma più chiusa e levigata.

Purtroppo le fonti non soccorrono in maniera definitiva circa l’o-riginale destinazione di questo dipinto1 3 6. Esclusa la possibilità che po-tesse ornare un altare romano137, è probabile invece che esso debbarientrare fra i molti che l’Ottoboni richiedeva per sé ai suoi pittori re-sidenti e al Trevisani in particolare, peraltro senza mai alcun contrat-to138. Le sommarie descrizioni coeve della Cancelleria non ne fannom e n z i o n e1 3 9, ma un passo di Pascoli, nella biografia del pittore rimastaa lungo inedita, parrebbe fare al caso nostro. Fra i dipinti eseguiti daFrancesco per questo personaggio, di seguito alla “Danae (…) inpioggia d’oro, che (il cardinale) regalò poi all’abate Adami”, celebrecastrato protetto dall’Ottoboni, opera riemersa da non molto negliStati Uniti, il biografo ricorda altre tele “simili” per grandezza e “dinon diseguali figure”, ovvero “al naturale”, alcune note, altre no, tracui una “Annunciazione”140. Le date suggerite dallo stile, insieme alformato e al soggetto potrebbero inoltre caldeggiare l’inserimento diquesto dipinto fra quelli commissionati dall’Ottoboni in occasionedelle celebrazioni per il venticinquesimo di cardinalato del 1714. Oc-casione per la quale, sul tema dell’incarnazione particolarmente caro aquesto straordinario mecenate che, come scrive De Brosses, amava“passionnément la musique et les arts”, furono chiamati in causa, oltreal diletto Trevisani, anche Giuseppe Bartolomeo Chiari e SebastianoC o n c a1 4 1. Abbastanza plausibile, poi, che l’invenzione venisse a riela-borare quella della paletta di Perugia, magari per desiderio dell’Ot-toboni stesso che certamente l’aveva ammirata a suo tempo nello stu-

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dio del pittore142. Va detto pure che un’“Annunziata”, insieme a una“Fuga d’Egitto”, “due quadri grandissimi, di 14 e 16 (palmi), di Tre-visani”, compaiono, prestati dal cardinal Ottoboni, a una delle annualimostre di San Salvatore in Lauro a Roma, ma a date, il 1701, troppoprecoci, dopo quanto detto, per un dipinto come quello in esame143.Una grande ‘Annunciazione’ di Trevisani in ogni caso figura fra lemolte tele di questo artista (più di trenta) in possesso del cardinale almomento della sua morte, sebbene le misure non risultino del tuttocorrispondenti144. E chissà che non si tratti della stessa “SS.ma An-nunziata” registrata sotto il nome del pittore nella collezione del ducaFilippo Sforza Cesarini a Roma, nell’inventario post-mortem del 1765,tra i “quadri grandi da facciata”, insieme, per l’appunto, a una “Nati-vità del Signore di Sebastiano Conca”1 4 5 che potrebbe ben esserequella celebre, oggi al Getty Museum, di sicura provenienza Ottobo-ni, nonché probabilmente commissionata per il venticinquesimo sopraricordato.

Certo è che il dipinto nuovo smentisce una volta di più un per-durante e limitativo luogo comune su Trevisani: quello secondo cuiegli sarebbe maggiormente apprezzabile nelle piccole dimensioni chenon nelle grandi. Ma è invece qui che sembrano spesso comporsi inperfetto equilibrio misura classicista e grazie pungenti, già rococò. Eun esempio luminoso in tal senso è costituito proprio dall’‘Annuncia-zione’ ora a Bückeburg. Nonostante le proporzioni monumentali deldipinto, l’evento miracoloso mantiene intatto il sapore di un delicatocongegno scenico, il respiro pacato della ‘finta verità’ arcadica, privadi paludamenti e pesantezze. Un congegno capace di tradurre in sofi-sticata virtù la tradizionale modestia di Maria e in invito garbato l’an-nuncio dell’angelo: protagonisti, entrambi, di un’azione che possiedela lucentezza e l’eleganza di un gruppo di porcellana. In tanto nitorec’è posto poi, persino e senza alcuna contraddizione, per un’eco ba-rocca nella gloria di angioletti; stemperata, tuttavia, e ricondotta anuova e più leggiadra misura. Sia Trevisani, del resto, che il suo insi-gne patrono non avevano esitato ad aderire all’ala, per così dire, pro-gressista sorta in seguito alla scissione del 1711 in seno alla società de-gli arcadi. Senza tale adesione non si intenderebbero né il pittore né ilcommittente, al cui attivo, accanto a cose come questa e circa alle stes-se date, si contano (come dimenticarlo?) anche quei picchi di spre-giudicata, spoglia, impietosa osservazione della realtà che sono i ‘Set-te Sacramenti’ di Giuseppe Maria Crespi, oggi a Dresda.

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Per finire, è ormai appurato quale ruolo abbia svolto certo Tre-visani nella formazione dei campioni della r o c a i l l e in Francia (cheperaltro non saranno mai, nel tema sacro, tanto lievi) e al contempopure in quella del loro più strenuo oppositore a Roma, ovvero PierreSubleyras. Ma la pala di Bückeburg offre un’ulteriore opportunità: mi-surare una volta di più, col suo angelo galante, vero anticipo di Gia-quinto, l’entità del richiamo esercitato dall’opera di Trevisani anche,fra i molti, su quest’altro grande protagonista del Settecento euro-peo146.

Dicembre 2003 Alessandro Brogi

N O T E

Ritardi e difficoltà nella realizzazione della campagna fotografica relativa ai di-pinti del castello hanno rallentato di molto l’uscita di questo saggio. L’aggiorna-mento bibliografico in relazione ai molti autori potrebbe perciò presentare even-tuali lacune, delle quali mi scuso in anticipo. Un ringraziamento sincero va ancorauna volta al signor Alexander Perl della Fürstliche Schlossverwaltung per la sua di-sponibilità e al signor Dirk Ludwig, autore delle riproduzioni dei dipinti di Reni,Chiari e Trevisani. Infine, un segno di speciale gratitudine all’amico Roberto Con-tini, della Gemäldegalerie di Berlino; lui sa perché.

1 La lista è frutto di una selezione effettuata durante il mio secondo sopral-luogo dell’autonno 2002 e non ha alcuna pretesa di esaustività. Un attento censi-mento dell’esistente non è stato possibile per i limiti posti dalla proprietà, circa iquali si rimanda a quanto già detto nella prima parte di questo saggio (‘Paragone’,53/647, 2004, pp. 39-58). Ultimamente, sono stato informato dall’Amministrazio-ne del castello che, nel frattempo, due dei pezzi qui segnalati (Reni e Giordano) so-no stati scelti per comparire all’interno di una mostra sui tesori nascosti delle di-more storiche tedesche, in programmazione per l’inverno 2005-2005 a Monato diBaviera.

2 Luoghi, date e prezzi di acquisto via via riportati mi sono stati forniti dal si-gnor Alexander Perl della Fürstliche Schlossverwaltung. Sulla natura di tali infor-mazioni, sulla non piena attendibilità delle stesse e sull’impossibilità di ulteriori ve-rifiche, si veda parte I, nota 24. Nessuno dei quadri trattati sembra essere stato sot-toposto a recenti interventi di restauro. Se ciò presenta i suoi vantaggi, va altresì no-tato che le loro condizioni conservative non sono sempre ottimali ed anzi, a volte,pessime. A questo proposito, si forniranno via via di ciascuno i ragguagli essenzia-li, fermo restando che tutti, sia quelli custoditi nella Gemälde-Galerie sia gli altri, ri-sultano abitualmente sottoposti a nocivi e rilevanti sbalzi di temperatura e di umi-dità.

3 Olio su tela, cm 158 x 161. Questo dipinto non figura infatti nell’opuscolo astampa sui dipinti della Gemälde-Galerie (vedi nota 35). Neppure sul luogo del-l’acquisto l’Amministrazione ha saputo fornire ragguagli.

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4 Niedersächsisches Staatsarchiv Bückeburg, Acta Kunstsachen 1771-1782, K6n. 901. A questo proposito si dovrà notare che una ‘Susanna al bagno’ riferita aGuido Reni è venduta a Colonia il 16 agosto 1768, fra i 104 lotti non numerati del-la collezione del nobiluomo Wilhelm Friedrich Wolfgang von Kaas zu Reventlau,messa all’asta alla sua morte nella stessa casa del defunto, come risulta dal catalogostampato a Colonia nell’occasione (Catalogus oder Verzeichniß einer schöner Col -lection von Mahlereyen bestehende in Niederländischen wie auch Italiänischen Mei -stern, Köln, 1768). Le misure tuttavia (espresse in pollici tedeschi, 8 x 8), sempreche non siano errate, risultano troppo piccole per immaginare che potesse trattar-si del nostro dipinto.

5 Nel ricordare i due dipinti, von Ramdohr non manca di sottolineare le cat-tive condizioni della ‘Susanna’: un quadro che “ha molto sofferto”, egli dice, e chetuttavia gli appare più pregevole dell’altro (cfr. F. W. B. von Ramdohr, Über Male -rei und Bildhauerarbeit in Rom, Leipzig, 1787, III, pp. 74-75).

6 Cfr. P. Cavazzini, Palazzo Lancellotti ai Coronari cantiere di Agostino Tassi,Roma, 1998, pp. 141, 151.

7 Considerata una copia, insieme all’esemplare fiorentino, dai tempi di O.Kurz, Guido Reni, in ‘Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen in Wien’, XI,1937, pp. 189-220, ne fu ribadita in seguito l’autografia da D. S. Pepper, Guido Re -ni. L’opera completa, Novara, 1988, p. 250, n. 75.

8 C f r. S. Ebert-Schifferer, in Guido Reni e l’Europa. Fama e fortuna, catalogodella mostra a cura di S. Ebert-Schifferer, A. Emiliani, E. Schleier (Frankfurt),Bologna, 1988, p. 250, n. 75.

9 L’incisione a bulino e in controparte (cfr. D. Teniers, Theatrum Pictorium,Antwerp, 1660; ed. cons. Antwerp, 1684, f. 233) è a firma di Peter van Lisebetten(1630-c. 1668): strano l’invenit “I Retto p”. Una seconda ‘Susanna’ con l’invenit re-niano (f. 227) è incisa nello stesso volume da Theodor van Kessel (c. 1620-dopo il1660): essa documenta un dipinto di tutt’altra composizione che, forse veneziano,comunque non doveva aver nulla a che fare con Guido, come già riconosciuto daPepper (op. cit., p. 251, n. 75.4).

10 Cfr. Galerie du Palais Royal par l’Abbé de Fontenai, Paris, I, 1786.11 Cfr. E. Borea, Pittori bolognesi del Seicento nelle Gallerie di Firenze, cata-

logo della mostra, Firenze, 1975, pp. 147-148, n. 106; e D. S. Pepper, op. cit., p.250.

12 La tela Orléans si diceva provenire dalle collezioni ducali di Modena (cfr.L . - F. Dubois du Saint Gelais, Description des tableaux du Palais Royal, Paris, 1727,p. 18). Ciò tuttavia non è confermato da alcun documento (cfr. D. S. Pepper, op.c i t ., p. 250). I tempi, perché essa sia giunta dalla raccolta dell’arciduca a quella delreggente, ci sarebbero.

13 Cfr. C. Ridolfi, Le maraviglie dell’arte, o vero le vite de gl’illustri pittori ve -neti e dello Stato, Venezia, 1648; e C.C. Malvasia, Felsina pittrice. Vite de’ pittori bo -lognesi, Bologna, 1678; ed. cons. Bologna, 1841, I, p. 334.

14 Sui Reynst e la loro collezione, oltre a F. Lugt, Italiaanske Kunstwerken inNederlandsche Verzamlingen van vroegertjiden, in ‘Oud Holland’, 1936, pp. 97-135,e a S. Savini Branca, Il collezionismo veneziano del Seicento, Padova, 1965, si vedada ultimo l’analitico studio di A. M. Logan, The ‘Cabinet’ of the brothers Gerardand Jan Reynst, Amsterdam-Oxford-New York, 1979.

1 5 Le trattative furono condotte con Anna Reynst, vedova ed erede di Gerrit,

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e si conclusero nel settembre 1660 con un accordo che stabiliva in 80.000 gulden lacifra della transazione. Già nel novembre successivo, dipinti e sculture facevanomostra di sé in Banqueting House (cfr. D. Mahon, Notes on the ‘Dutch Gift’ toCharles II, in ‘The Burlington Magazine’, 1949, pp. 303-305, 349-350, e 1950, pp.12-18).

16 È improbabile che la “Historia Susannae” ricordata da Knorr senza indi-carne l’autore fosse altra cosa dal dipinto di Guido (cfr. D. Mahon, op. cit., 1949, p.304, nota 18).

1 7 Stranamente Veronika Birke (cfr. Guido Reni Zeichnungen, catalogo del-la mostra a cura di V. Birke, Wien, 1981, pp. 128, n. 89) riportava come solo ipo-tetica l’appartenenza alla collezione Reynst del dipinto inciso da Vi s s c h e r, sug-gerita, ella diceva, da un’indicazione manoscritta apposta sull’esemplare dell’Al-bertina (su questa incisione, corredata dalla scritta “Guido Rheni pinxit; Cor. Vi-scher scul.”, vedi anche Guido Reni und die Reproduktions-Stich, catalogo dellamostra a cura di V. Birke, Wien, 1988, pp. 76-77, n. 35). Ciò tuttavia non costi-tuisce un’ipotesi ma, come si è detto, una certezza, documentata dalla presenzadell’incisione nel volume ricordato, dal titolo Variarum Imaginum a CeleberrimisA r t i f i c i b u s ( c f r. A. M. Logan, op. cit.), fra l’altro unica fonte utile, poiché non esi-stono inventari di sorta, alla ricostruzione pur parziale della collezione Reynst. In-cisione, quella di Vi s s c h e r, che più tardi la stessa studiosa (cfr. V. Birke, in G u i d oReni e l’Europa, cit., p. 369, B 46) dice erroneamente parte del Theatrum Picto -r i u m di Te n i e r s .

1 8 Oltre alla copia di Firenze, forse la migliore, se ne contano altre, via via se-gnalate dalla critica e di vario livello qualitativo: ad Hannover, Landesgalerie, diqualità decorosa; a Berlino, in collezione privata, molto scadente; a Dortmund, incollezione Cremer, decisamente infima, con l’aggiunta di un panno che copre il se-no e il ventre della donna; a Nantes, Musée des Beaux-Arts, piuttosto buona, maleggermente ridotta ai lati e in basso (cfr. Catalogue raisonné des peintures italiennedu musée des Beaux-Arts de Nantes XIIIe-XVIIIe siécle, a cura di B. Sarrazin, Nan-tes, 1997, p. 340, n. 362). Certamente da quella dell’arciduca Leopoldo Guglielmoè tratta infine la versione in piccolo (cm 17 x 22,5), su tavola, di David Teniers ilGiovane, già nella collezione Seilern a Londra, nella cosiddetta Princes Gate Gal-lery (cfr. A. Seilern, Flemish paintings and drawings at 56 Princes Gate London SW7,Addenda, London, 1969, p. 33, n. 311), oggi presso le Courtauld Galleries.

1 9 Olio su tela, cm 149 x 166; inv. 1008. L’altra copia dal tipo Reynst, decisa-mente corriva, si conserva a Holkham Hall (foto Courtauld Institute of Art, Lon-don, neg. B 55/428). Allo stesso tipo si rifà una seconda incisione, tardosettecen-tesca, del francese Nicolas de Villers (Parigi, 1753-?). L’immagine non appare incontroparte, forse perché tratta, come tutto lascia credere, non dal dipinto madalla stampa di Visscher, di cui ripete fedelmente ogni minimo ‘vizio’ formale.

2 0 R. E. Spear, The ‘Divine’ Guido. Religion, Sex, Money and Art in the Wo r l dof Guido Reni, New Haven and London, 1997, pp. 91, 345, nota 59.

21 Un gesto ben codificato, utilizzato da Guido anche nell’‘Atalanta e Ippo-mene’, come ha dimostrato Spear (op. cit.) col rimando a J. Bulwer, Chirologia: orthe Natural Language of the Hand, London, 1644.

2 2 Il passo riguarda il modo tenuto dal pittore nel rendere le teste senili,“non lisce ed unite come l’altre, ma con botte maestre, piene di mille gentilezze os-servate in quelle pellicciuole cadenti, quali s’imparano dal rilievo famoso detto co-

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munemente il suo Seneca” (cfr. C.C. Malvasia, op. cit., II, p. 57), la scultura mo-dellata da Guido, detta anche “lo schiavo di Ripa Grande” che divenne un topos divecchiezza classica ricorrente in molta pittura seicentesca.

2 3 Il dipinto sembrerebbe infatti rintelato, ma non saprei dire quando. Sul re-tro (di cui mi è stata mostrata solo una foto) attualmente non si legge altro che lascritta “IV 1666”, riportata sul telaio, della quale ignoro il significato. La superficiepittorica appare nel complesso in condizioni accettabili, ma qua e là come impo-verita; la leggibilità risulta inoltre a tratti compromessa da un’alterazione disomo-genea delle vernici (specie, nel volto di Susanna). Certamente un nuovo interventoconservativo riuscirebbe utile a far cadere ogni riserva.

2 4 C f r. D. S. Pepper, R e n i ’s Roman Account Book – I: The Account Book, in‘The Burlington Magazine’, CXVIII 1971, pp. 315, n. 11. In realtà la lettura dellanota, “Scudi vinticinque li doi quadri, la Sta. Catterina et Susanna”, è controversa.Pepper l’aveva intesa come relativa a due dipinti raffiguranti rispettivamente unaSanta Caterina e una Santa Susanna (D. S. Pepper, Guido Reni’s Roman AccountBook – II: The Commissions, in ‘The Burlington Magazine’, CXIII, 1971, p. 386,nota 69). Ma è assai più probabile, come poi da altri sostenuto e come l’italianosuggerisce piuttosto chiaramente, che la seconda voce si riferisse non a una ‘San-ta Susanna’, di cui non esiste, come Pepper stesso riconosceva, alcuna notizia, mapiuttosto a una raffigurazione della storia di Susanna, l’eroina del Vecchio Te s t a-mento, ovvero a una ‘Susanna e i vecchioni’. Al di là dell’identificazione col di-pinto citato nel libro dei conti, il quadro tedesco riapre la questione dello studio asanguigna dal modello nudo (maschile?) per il torso di Susanna conservato agli Uf-fizi (Santarelli L. 907); studio che Pepper (op. cit., 1988, p. 350) reputav a di bot-tega, e che altri (V. Birke op. cit., 1981, p. 127, n. 88; ed eadem, in Guido Reni el ’ E u r o p a, cit., p. 360, B 46), accogliendone, come anche a me pare giusto, l’au-tenticità, giudicavano tuttavia anteriore al dipinto londinese, per confronto col ce-lebre studio, sempre agli Uffizi (inv. 11720), per la figura di Apollo nell’affrescoR o s p i g l i o s i .

2 5 C f r. Scritti originali del Conte Carlo Cesare Malvasia spettanti alla sua FelsinaPittrice, a cura di L. Marzocchi, Bologna, 1980, p. 207.

2 6 Non in quello citato di Giuseppe Carlo Ratta, conte e senatore, del 1679,e neppure in quello del fratello, con residenza a Roma, monsignor Ludovico, del1683 (cfr. R. Morselli, Italian Inventories 3. Collezionisti e quadrerie nella Bolognadel Seicento. Inventari 1640-1707, a cura di A. Cera Sones, Los Angeles, 1998, pp.393-408). In quegli anni, precisamente nel maggio 1674, una ‘Susanna e i vec-chioni’ di Guido è esposta, ma senza l’indicazione del prestatore, fra gli addobbiallestiti per la processione del Santissimo Sacramento in via Spadarie a Bologna( c f r. F. M. Bordocchi, Lettera di ragguaglio per li Sontuosissimi Apparati fatti inBologna nelle vie Parrocchiali di San Michele del Mercato di Mezzo, Bologna,1674, p. 20; e G. Perini, Struttura e funzione delle mostre d’arte a Bologna nel Sei -cento e Settecento, in ‘Accademia Clementina. Atti e memorie’, 26, 1990, pp. 293-3 5 5 ) .

2 7 Marcantonio era morto il 5 agosto 1635; il rogito, a cura del notaio Loren-zo Mariani, è del 26 ottobre 1636 (Bologna, Archivio di Stato, Notarile, Protocol-lo I, 1636-1637, c. 4r.). Vedi anche R. Morselli, Repertorio per lo studio del colle -zionismo bolognese del Seicento, Bologna, 1997, p. 335.

28 Cfr. C.C. Malvasia, op. cit., II, p. 50.

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2 9 C f r. R. Negri, Bianchetti, Cesare, in Dizionario biografico degli italiani, Ro-ma, X, 1968, pp. 44-45.

3 0 L’atto, col relativo inventario, è steso dal notaio Alessandro Andrei l’11 feb-braio 1656 (Bologna, Archivio di Stato, Notarile, Protocollo n. 27, 1656, c. 68v.).Fra le stime dei dipinti, quella relativa alla “Susana”, £ 200, risulta la più alta: unacifra doppia di quella fornita nell’inventario paterno, il che sembrerebbe confortarel’ipotesi che dovesse trattarsi dello stesso dipinto di Guido, nonostante ne sia tra-lasciato l’autore. In effetti, i quadri posseduti da Cesare al momento della suamorte sono quasi tutti quelli ereditati a suo tempo dal padre. Del resto, altre teleraffiguranti Susanna non sono esplicitate nell’inventario di Marcantonio, ma è purvero che fra i suoi dipinti vi erano anche vari quadri genericamente indicati comestorie del “Testamento Vecchio”, il che non consente di stabilire con assoluta cer-tezza l’identità fra la “Susana” registrata nell’inventario del figlio e quella di Reni giàpresso il padre.

31 Anche dopo la morte di Jan, ci sono ragioni per credere che Gerrit conti-nuasse a comperare in Italia con l’aiuto di mediatori, quali il pittore Nicolas Regnier(1590-1667), amico di famiglia di vecchia data residente a Venezia, e Michel LeBlon (1587-1656), incisore tedesco di grido, nonché cugino di Sandrart. La di-spersione della raccolta Reynst si verificò con la vendita pubblica tenutasi ad Am-sterdam appunto nel maggio 1670 (cfr. A.M. Logan, op. cit.).

32 Cfr. M. Fumaroli, La scuola del silenzio, Milano, 1995, pp. 259-260.3 3 Olio su tela, cm 249 x 200. Non si conosce il luogo dell’acquisto, effettua-

to forse già sul mercato tedesco, come nel caso di altre cose entrate a far parte del-la collezione all’inizio del XIX secolo.

34 Vedi parte I, nota 42.35 Così recita anche l’opuscolo Die Gemälde-Galerie im Bückeburger Schloß,

senza data né luogo di edizione, nonché privo di illustrazioni, che elenca appunto,senza indicarne le misure, solo i dipinti raccolti nelle sale, sette, della cosiddetta gal-leria.

3 6 L’ipotesi di un alunnato di Beinaschi presso Lanfranco, impossibile poichéquest’ultimo era già morto (1647) prima ancora dell’arrivo a Roma (1650 circa) delpresunto allievo, è in B. De Dominici, Vite dei pittori, scultori e architetti napoleta -ni, Napoli, 1742-1745, III, p. 227.

37 P. A. Orlandi, L’Abcedario pittorico, II ed. Bologna, 1719, p. 226.38 L. Pascoli, Le vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, Roma, 1730-

1736; ed. cons. a cura di A. Marabottini, Perugia, 1992, p. 675. Per un profilo ag-giornato sull’artista (Fossano 1631 [?]-Napoli 1688), si veda, più che la voce di O.Ferrari, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, VIII, 1966, pp. 170-171, la bio-grafia di F. Navarro, in Civiltà del Seicento a Napoli, catalogo della mostra, Napoli,1984, I, p. 116, nonché l’apparato di note a cura di P. Santamaria, a corredo della‘vita’ stesa da Pascoli nell’edizione sopra citata. La frequenza dello scambio dipaternità fra Beinaschi e Lanfranco è forse ancora maggiore nel campo della pro-duzione grafica, come gli studi hanno da tempo dimostrato (cfr. J. Bean, W.Vitzthum, Disegni del Lanfranco e del Benaschi, in ‘Bollettino d’arte’, 1961, pp. 106-122; G. Nicodemi, Disegni di Giovanni Battista Beinaschi, in ‘Arte Cristiana’,LXXXI, 754, 1993, pp. 35-44).

39 Vedile rispettivamente in: M. A. Pavone, Per Giovan Battista Beinaschi, in‘Prospettiva’, 46, 1986, pp. 31-41, figg. 7 e 14; L. Arrigoni, Dai depositi. Giovan Bat -

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tista Beinaschi a Golasecca, in ‘Brera’, 11, 1985, s. p. La vasta ‘ R e s u r r e z i o n e d iLazzaro’ e il suo pendant con la ‘Morte di Abele’, un tempo ai lati dell’altar mag-giore e nell’Ottocento, dopo la costruzione dei coretti, trasferiti nell’adiacenteoratorio, vi si conservano a tutt’oggi in condizioni deplorevoli.

4 0 C f r. D o r o t h e u m, Wien, asta del 22-25 maggio 1973, n. 7; e F. Navarro, in C i -viltà del Seicento a Napoli, cit., I, p. 116. Qualche somiglianza volendo si coglie an-che con un dipinto come il ‘Sacrificio di Muzio Scevola’ del Musée Municipal diDôle, probabile bozzetto per una composizione più grande oggi ignota, anch’essoritenuto giovanile, ma forse non del tutto a ragione (cfr. A. Brejon de Lavergnée,Tableaux italiens des XVIIe et XVIIIe siècles, in ‘La Revue du Louvre’, 5-6, 1979, p.392; e A. Brejon de Lavergnée, N. Volle, Musées de France: Repertoires des Peintu -res Italiennes du XVIIe Siècle, Paris, 1988, p. 50.

41 Si tratta dell’incisione con la ‘Fuga in Egitto’, datata 1652, l’unica sua finqui nota, ricavata, come recita l’iscrizione in basso, da un dipinto di Cerrini (cfr. E.Borea, Gian Domenico Cerrini. Opere e documenti, in ‘Prospettiva’, 12, 1978, p. 8 e,per la ‘Sacra Famiglia’, p. 20, fig. 19.

42 Questa è infatti la data d’inizio della ricostruzione della chiesa, forse già abuon punto l’anno dopo ma consacrata solo nel 1689 (cfr. P. Santamaria, in L. Pa-scoli, op. cit., ed. 1992, p. 675 e S. Ciofetta, San Bonaventura, in Roma Sacra. Guidaalle chiese della città eterna, 3, Napoli, 1995, p. 36).

43 Già attribuita a Giacinto Brandi, in deposito presso la chiesa di San Do-menico a Gaeta, è datata da Pavone (op. cit., pp. 36, 38, fig. 12) al secondo sog-giorno napoletano, dopo il 1680.

44 R. Longhi, Un ignoto corrispondente del Lanzi sulla Galleria di Pommer -s f e l d e n, in Scritti giovanili 1912-1 9 2 2 , Firenze (Opere complete, I), 1961, pp. 476-492. Apparso in precedenza su ‘Proporzioni’ (III, 1950), il delizioso pastiche erastato scritto in realtà nel 1922, dopo il primo lungo viaggio dello studioso nell’Eu-ropa centrale.

45 Olio su tela, cm 322 x 240. Le sue condizioni conservative appaiono nelcomplesso piuttosto buone. Va detto inoltre che lo scalone rientra nel giro di visitaconsentito al pubblico e che della tela esiste persino, presso il bookshop del ca-stello, una cartolina illustrata.

46 Vedi parte I, nota 16.47 F. S. Baldinucci, Vite di artisti dei secoli XVII-XVIII. Prima edizione inte -

grale del Codice Palatino 565, a cura di A. Matteoli, Roma, 1975; e B. De Dominici,op. cit. Nulla sembra emergere neppure dagli studi, fondati su un attento esame delmateriale documentario, relativi all’attività fiorentina, cfr. F. Büttner, Die GalleriaR i c c a rdiana in Flore n z, Frankfurt am Main, 1972; S. Meloni Trkulja, Luca Giord a n oa Fire n z e, in ‘Paragone’, 267, 1972, pp. 25-74; R. Millen, Luca Giordano in PalazzoR i c c a rd i, in ‘Paragone’, 289, 1974, pp. 22-45; Idem, Luca Giordano in Palazzo Ric -cardi. II, in Kunst des Barock in der Toskana, Atti del convegno (Firenze, 1972),München, 1974. L’unica ‘Susanna’ registrata fra le opere perdute da Ferrari e Sca-vizzi in entrambe le monografie sulla base dello spoglio dei più diversi documentinon fa al caso nostro, trattandosi di un dipinto che compare nell’inventario, stilatoa Napoli nel 1677, della collezione del finanziere veneziano Guglielmo Samueli epoi di nuovo presso Carlo Arici e Vincenzo Samueli, sempre a Napoli (cfr. O.Ferrari, G. Scavizzi, Luca Giord a n o, Napoli, 1966, II, p. 361 e Luca Giord a n o .L’opera completa, Napoli, 1992, II, pp. 399-400).

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4 8 Su di essa, conservata a Bologna, Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio,Ms B153, lettera n. 34, vedi anche parte I, nota 15. Stesa in un italiano perfetto peril quale il conte si sarà valso, verosimilmente, dell’aiuto di un intermediario, è quae là modificata nella forma da Zanotti nel riportarne il testo all’interno della vita diPasinelli (G. Zanotti, Nuovo Fregio a Gloria di Felsina sempre Pittrice nella vita diLorenzo Pasinelli, Bologna, 1703, pp. 54-55).

4 9 Nonostante i leggeri dispareri in merito, sembra ormai appurato che ad ec-cezione dell’area centrale, al colmo della volta, e di una delle due testate, il resto,ovvero il più, sia stato eseguito durante questo secondo soggiorno. Al termine di es-so risale comunque con certezza la decorazione della biblioteca: cfr. le voci biblio-grafiche riportate alla nota 47, nonché, da ultimo, il catalogo della recente mostra,Luca Giordano 1634-1705 (Napoli-Vienna-Los Angeles), Napoli, 2001, e in parti-colare il testo di G. Finaldi, Gli affreschi di Palazzo Medici Riccardi, pp. 251-257,che fa il punto sullo stato della questione.

5 0 Tali parole compaiono nella ‘vita’ del Giordano compilata da questo artista,allievo e collaboratore fra i migliori, poi data alle stampe da De Dominici (o p .cit., III, p. 542).

51 Cfr. Luca Giordano 1634-1705, cit., p. 290, n. 91a.52 L’ipotesi fu avanzata da Posse (1929), per via della singolarità del formato

in relazione a tale soggetto, e perciò da far risalire probabilmente a una precisa ri-chiesta. Documentata a Dux, in Boemia, almeno dal 1737, nella collezione delconte Franz Joseph Waldstein, pervenne alla galleria di Dresda nel 1741, a seguitodell’acquisto dell’intera raccolta da parte di Augusto III di Sassonia.

53 Invenzione che non ritroviamo neppure fra i disegni con questo soggettovariamente riferiti all’artista (Napoli, Capodimonte, Gabinetto dei Disegni e delleStampe, inv. 239; Christie’s, London, 30 marzo 1976, n. 66; Londra, British Mu-seum, Sloane 5223.20). Se l’attribuzione tradizionale del primo al Giordano è ormaiuniversalmente accolta, il secondo risulta a sua volta confermato da G. Scavizzi,New Drawings by Luca Giord a n o, in ‘Master Drawings’, 1999, p. 134, n. 28; mentreil terzo, segnalato da O. Ferrari, Drawings by Luca Giordano in the British Museum,in ‘The Burlington Magazine’, 1966, pp. 298-307, fu respinto già nella prima mo-nografia del 1966.

5 4 La datazione entro l’ottavo decennio del secolo, avanzata da Simonetta Pro-speri Valenti Rodinò, in Dipinti barocchi delle banche italiane, catalogo della mostra(Washington-Toronto-Bologna), Venezia, 1990, p. 44, era stata in seguito postici-pata agli anni 1684-1685 da Ferrari e Scavizzi (o p. c i t., 1992, p. 311). Diversa è pu-re la composizione della tela conservata a Sarasota, copia antica, forse di bottega, diun probabile originale perduto (cfr. W. E. Suida, A Catalogue of Paintings in theJohn and Mable Ringling Museum of Art, Sarasota, 1949, p. 141, n. 162; C a t a l o g u eof the Italian Paintings before 1800. The John and Mable Ringling Museum of Art, acura di P. Tomory, Sarasota, 1976, p. 170, n. 186; nonché O. Ferrari, G. Scavizzi,op. cit., 1966, II, p. 311).

5 5 Sulla montatura della foto si leggono le misure, cm 36 x 62, e l’indicazione“St Petersburg Ermitage”. Il dipinto è menzionato solo, se non vado errato, dallaMeloni Trkulja (o p. c i t., p. 44) e dalla Prosperi Valenti Rodinò (o p. c i t., p. 104), for-se proprio sulla base di quella foto. Vero è che nessun catalogo del museo, antico omoderno, sembra registrarne la presenza (cfr., ad esempio, A. Somof, ErmitageImpérial. Catalogue de la Galerie des Tableaux, I, St. Pétersburg, 1899; The State

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Hermitage. West European Paintings, I, Moscow, 1957; Musée de l’Ermitage. Pein -t u re de l’Europe Occidentale, I, Leningrad, 1976). Nessuna traccia neppure inWaagen (Die Gemäldesammlungen in der Kaiserliche Ermitage zu St Petersburg,München, 1864), che rende conto, oltre che delle collezioni imperiali, anche di al-tre raccolte pietroburghesi, come quella degli Stroganoff, dei von Lazarev o del-l’Accademia di Belle Arti. Né alcun esito, d’altro canto, hanno sortito i tentativi diottenere dagli uffici russi infomazioni in merito. In entrambe le monografie gior-danesche di Ferrari e Scavizzi la tela, in ogni caso, non compare neppure fra le at-tribuzioni rifiutate. Così anche nel recentissimo volume integrativo, sempre a curadi O. Ferrari, G. Scavizzi, Luca Giordano: nuove ricerche e inediti, Napoli, 2003. Lostesso si dica per gli interventi successivi alla seconda monografia, sia degli stessi au-tori che di altri, compresi quelli, relativi proprio alle opere del pittore in Russia, diVittoria Markova (Dipinti di pittori italiani dal XIV al XVIII secolo nei musei russi,Mosca, 1986; e Un gruppo di dipinti inediti o poco noti di Luca Giord a n o, in R i c e r c h esul ’600 napoletano. Saggi e documenti per la storia dell’arte dedicati a Luca Giord a -no, Milano, 1991).

56 Vedili in Luca Giordano 1634-1705, cit., nn. 81a, 81n, 81p. Dei tanti boz-zetti di qualità alterna riferiti al pittore (e non solo in relazione all’impresa fioren-tina), non tutti certamente gli spettano. In ogni caso, essi sono cosa diversa dai mo-delli finiti di formato maggiore, sul tipo di quelli celeberrimi per una parete lungadella volta fiorentina citati più sopra, la cui esecuzione, ormai pare certo, segue, an-ziché precedere, la realizzazione dell’opera finita: effetto di un interesse specifico eautonomo per l’abbozzo a olio che giusto in questi anni andava affermandosi unpo’ ovunque e non meno a Firenze. Anche fra i modelli, compresi quelli ‘fiorentini’,gli studi hanno proceduto nel tempo a una, non sempre concorde, selezione. Su en-trambe le questioni, infatti, la varietà di pareri circa l’autografia (ma anche circa laloro reale funzione) è tale che qui non avrebbe senso discuterne. Basti dire che, nelcaso se ne voglia accettare l’autografia, il quadretto in oggetto rientrerebbe piutto-sto nella prima categoria, quella dei bozzetti, che non nella seconda, sebbene qua-lunque congettura risulti spuria in assenza di precisi ragguagli sull’ubicazione e sul-la provenienza.

57 Olio su tela, cm 106 x 84. In buone condizioni conservative, il dipinto ri-sulta acquistato ad Amburgo, senza ulteriori specificazioni. Attualmente è espostonella Gemälde-Galerie, al piano terra, II sala. L’attribuzione a Matteo Rosselli è ri-portata anche nell’opuscolo di cui alla nota 34, la cui copertina, che costituisce pe-raltro l’unica illustrazione del medesimo, riproduce a colori proprio questo di-pinto.

58 Comunicazione orale.5 9 Vedila in C. Baroncini, L o renzo Pasinelli pittore (1629-1700), Rimini, 1993,

p. 377, tav. XCIII.6 0 Entrambe opere sicure, testimoniate dalle fonti: si vedano, rispettivamente,

F. Barocelli, in L’arte degli Estensi. La pittura del Seicento e del Settecento a Modenae Reggio, catalogo della mostra, Modena, 1986, pp. 210-211; e A. Mazza, Pittura neicentri minori tra Modena e Reggio, in La pittura in Emilia e in Romagna. Il Seicento,Milano, 1994, II, p. 418 (cit. 1994a).

6 1 Già riferita ad ambito di Gian Gioseffo Dal Sole da Roli (cfr. S. Casadei, P i -nacoteca di Faenza, Bologna, 1991, p. 109), è stata restituita al pittore da A. Mazza,La pittura a Bologna nella seconda metà del Seicento, in La pittura in Emilia e in Ro -

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magna, cit., I, p. 272, nota 61.6 2 La tela fa parte, insieme ad altre tre, di un piccolo ciclo reso noto da M. Pi-

rondini, in Arte emiliana. Dalle raccolte storiche al nuovo collezionismo, a cura di G.Manni, E. Negro, M. Pirondini, Modena, 1989, e in parte esposto a Modena qual-che tempo fa, cfr. A. Mazza, in Tesori ritrovati. La pittura del ducato estense nel col -lezionismo privato, catalogo della mostra a cura di D. Benati (Modena), Milano,1998, pp. 142-143. nn. 43, 44. La foto mi è stata gentilmente fornita dalla Fonda-zione San Carlo di Modena.

6 3 Assegnata in precedenza a “ignoto del secolo XVII”, è stata reintegrata nelcatalogo del pittore ancora da A. Mazza, op. cit., 1994, pp. 416-417. Altre aggiuntesi debbono a D. Benati, in Nuove letture e acquisizioni dei Musei Civici di ReggioEmilia, 1986-1989, a cura di G. Ambrosetti, Reggio Emilia, 1990; in BologneseDrawings XVI-XIX Century, catalogo della mostra, Aldega-Gordon Gallery, NewYork , 2001; in F i g u re come il naturale. Il ritratto a Bologna dai Carracci al Cre s p i, ca-talogo della mostra a cura di D. Benati (Dozza) Milano, 2001; e in Budrio. Pinaco -teca Civica Domenico Inzaghi, a cura di D. Benati e C. Bernardini (in corso di pub-blicazione).

6 4 La scarsità di notizie sul pittore non consente di ricondurre il dipintonuovo a una citazione antica, neppure di tipo inventariale, almeno stando a que-sto preciso soggetto. Non è improbabile tuttavia che questa mezza figura possanascondersi fra le tante ‘Sibille’ ricordate in antico nelle raccolte private bolo-g n e s i .

6 5 Il dipinto (olio su tela, cm 93 x 73,5; inv. n. 1335) fu acquistato a Romanell’Ottocento come opera, addirittura, di Baldassarre Peruzzi. Abbandonato perlungo tempo nei depositi sotto la generica qualifica di ‘Italian School’, fu avvici-nato in seguito a Sebastiano Conca da Zeri e infine rubricato da Wynne come ope-ra di Lorenzo Pasinelli (Later Italian Paintings in The National Gallery of Ire l a n d .The Seventeenth, Eighteenth and Nineteenth Centuries, a cura di M. Wynne, Du-blin, 1986, pp. 85-86), nel cui catalogo è stato poi inserito a tutti gli effetti da Car-mela Baroncini (op. cit., pp. 222-224, n. 30). Ma proprio i confronti addotti a suotempo dalla studiosa rendono a mio parere più lampante la distanza che separa ildipinto irlandese dagli autografi di Pasinelli, al cui nome in effetti la stessa Ba-roncini (comunicazione orale) ora non crede più. Circa la ‘ R e s u r r e z i o n e d e l l a f i g l i ad i Giairo’, fa parte del ciclo cui appartiene anche l’‘Ester e Assuero’, per il qualevedi nota 62.

66 Niedersächsisches Staatsarchiv, Bückeburg, Verzeichnisse der Gemälde imSchloß Bückeburg 1685-1752, K6 nr. 900, c. 7.

67 Così nella Vita di Carlo Maratti pittore, scritta da Gianpietro Bellori fin al -l’anno MDCLXXXIX, continuata e tarminata da altri, inserita nell’edizione del1732 delle vite belloriane; cfr. G. P. Bellori, Le vite de’ pittori, scultori et architettim o d e r n i, ed. a cura di E. Borea, Torino, 1976, p. 613. L’episodio è poi riportato an-che da F. S. Baldinucci, op. cit., p. 301.

68 H. Voss, Die Malerei des Barocks in Rom, Berlin, 1924, p. 596.6 9 Se ne conservano a Windsor (Royal Library), a Madrid (Real Academia de

San Fernando e Biblioteca Nacional) e a Düsseldorf (Kunstmuseum): cfr. A. Blunt,H. L. Cooke, The Roman Drawings of the XVII and XVIII Centuries at Windsor Ca -stle, London, 1960, n. 256; V. M. Nieto Alcaide, Carlo Maratti. Cuaranta y tres di -bujos de tema re l i g i o s o, catalogo della mostra, Madrid, 1965, p. 6, nn. 1, 2; A.

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Dipintiitaliani aBückeburg

Sutherland Harris, E. Schaar, Die Handzeichnungen von Andrea Sacchi und CarloMaratta. Kataloge des Kunstmuseums Düsseldorf, Handzeichnungen, I, Düsseldorf,1967, pp. 125-126. Va detto peraltro che uno dei due di Düsseldorf, uno studio dipanneggio (FP 13817), è da riferire non alla figura di Sant’Anna in questa pala, co-me ipotizzato dalla Sutherland Harris e da Schaar (op. cit.), che indicano in alter-nativa la figura della Vergine morente nel dipinto di villa Albani a Roma, ma al pan-no che copre San Giuseppe nel suo letto di morte nella pala di Vienna (vedi poi);mentre quello con un volto di vecchia (FP 1406) più di recente è stato messo in re-lazione all’incisione di Maratta con la ‘Visitazione’ del 1657 (cfr. Facetten des Ba -rock. Meisterzeichnungen von Gianlorenzo Bernini bis Anton Raphael Mengs ausdem Kunstmuseum Düsseldorf/Akademie Sammlung, catalogo a cura di H.-T. Schul-ze Altcappenberg e S. Cremer, Düsseldorf, 1990, p. 94, n. 33). Circa la ‘Natività’, aparte la menzione nel basilare intervento su Maratta di A. Mezzetti, Contributi aCarlo Maratti, in ‘Rivista dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte’,X V, 1955, pp. 315, 320, il dipinto, in effetti, sembra quasi essere uscito dal circuitodegli studi dopo la segnalazione di Voss. Oltre all’equivoco circa l’identità dell’ac-quirente riscontrabile in una ricerca americana su Maratta di qualche tempo fa (ve-di parte I, p. 47), anche l’ubicazione della pala non risulta a tutti ben chiara, se nel-l’edizione critica di Pascoli la si dà tuttora in Santa Maria dell’Anima (cfr. C. Ga-lassi, Di Giuseppe Chiari, in L. Pascoli, op. cit., ed. 1992, p. 292, nota 9), mentreGiancarlo Sestieri, nel suo recente repertorio sulla pittura romana tardobarocca (G.S e s t i e r i , Repertorio della pittura romana della fine del Seicento e del Settecento, To-rino, 1994, I, p. 117), può indicarla come “Buckeburg Castle” (perché l’inglese?),sotto la voce “Bruxelles”.

70 Olio su tela, cm 121 x 88. Lo stato di conservazione appare discreto, seb-bene anche questo, come altri dipinti, presenti un sensibile ispessimento delle ver-nici con relativa opacizzazione della superficie pittorica, più pronunciata sul lato de-stro.

71 H. Voss, op. cit., pp. 343, 597.72 S. Rudolph, Niccolò Maria Pallavicini. L’ascesa al Tempio della Virtù attra -

verso il Mecenatismo, Roma, 1995, pp. 41, 45, 48, fig. 21. Neppure rubricato da Se-stieri (op. cit.), in precedenza il dipinto era stato invece preso in considerazione daA. Mezzetti (op. cit., pp. 320, 348-349), che tuttavia sospendeva il giudizio sull’au-tografia, in mancanza di una visione diretta (eadem, Carlo Maratti: altri contributi,in ‘Arte Antica e Moderna’, 1961, p. 385, nota 25).

73 G.P. Bellori, op. cit., ed. 1976, pp. 644-645.74 Quelle con ‘Giaele e Sisara’ e con ‘Miriam che festeggia il passaggio del

Mar Rosso’ (cfr. S. Rudolph, op. cit., pp. 40-48; e eadem, in L’Idea del Bello. Vi a g g i oper Roma nel Seicento con Giovan Pietro Bellori, catalogo della mostra, Roma,2000, II, pp. 474-475). La seconda fu riconosciuta e segnalata da Voss, quando an-cora si trovava in collezione Busiri Vici a Roma (H. Voss, La mostra del Seicento eu -ropeo a Roma, in ‘Paragone’, 89, 1957, pp. 59-60), la prima, presso la Galleriadell’Accademia di San Luca a Roma, dalla Mezzetti (op. cit., 1955, p. 338).

7 5 Vero è che Amalia Mezzetti (op. cit., 1955, pp. 348-349) s egnalò a Wi n d-sor Castle un dipinto di questo soggetto identificandolo tout-court con la ‘Giu-ditta’ Pallavicini. Nessuno mi sembra l’abbia più menzionato, eccetto Sestieri(op. cit., I, p. 119), che forse su quell’unica base lo elenca fra le opere autografe.Un dipinto con questo soggetto si conserva nelle raccolte reali inglesi, non a

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Windsor ma ad Hampton Court (olio su tela, cm 73.7 x 61.6; inv. 1335). Illustra-to da Michael Levey (The Later Italian Picture s, Cambridge, 1991, pp. 110-111, n.543) come probabile copia da Maratta sulla scorta di un riferimento del 1818,quando si trovava a Kensington Palace, e ricondotto impropriamente alla seriePallavicini, esso tuttavia, forse neppure italiano, presenta un’invenzione del tuttodiversa, senza alcun rapporto con quella in questione. Ancora la Mezzetti se-gnala poi fra le derivazioni dal sordino vaticano un’ulteriore piccola tela nei de-positi di Palazzo Barberini a Roma (A. Mezzetti, op. cit., 1955, pp. 348-349 e o p .c i t ., 1961, p. 385). Oggi però, per quanto mi è stato possibile verificare, nelle col-lezioni della Galleria Nazionale d’Arte Antica non risulta alcun dipinto ricondu-cibile alla composizione marattesca.

76 S. Rudolph, op. cit., p. 48.77 G. P. Bellori, op. cit, ed. 1976, p. 631.7 8 Modello, com’è ovvio, rigorosamente maschile. Gli studi, tre, più un det-

taglio della testa di Giuditta rivolta verso l’alto e uno della figura di Oloferne,compaiono sul recto di un foglio, matita rossa su carta azzurra, conservato a Düs-seldorf, Kunstmuseum (FP 1247); cfr. A. Sutherland Harris, E. Schaar, op. cit., n.310, p. 120. Per gli altri, custoditi oltre a Düsseldorf, a Würzburg (Martin von Wa-gner Museum), a New York (Metropolitan Museum), e a Madrid (Academia delSan Fernando e Biblioteca Nacional), per lo più studi d’insieme, con la figura del-la protagonista che ora volge lo sguardo verso la testa mozza levata in alto, ora ver-so il riguardante, si vedano nell’ordine: V. Vitzthum, in ‘Master Drawings’, 1965,p. 175; J. Bean, 17th Century Italian Drawings in The Metropolitan Museum of Art,New York, 1979, p. 210, n. 276; V. M. Nieto Alcaide, op. cit., p. 18, n. 43; D i s e g n iitaliani dei secoli XVII XVIII della Biblioteca Nazionale di Madrid, catalogo dellamostra a cura di M. Mena Marqués, Milano-Bologna-Roma, 1988, p. 50, n. 25. Unulteriore studio d’insieme, di qualità non eccelsa e forse in parte di bottega, fu ac-quistato dalla Calcografia Nazionale di Roma (F.N. 12329; matita, penna, inchio-stro bruno, rialzi di biacca su carta grigia; cfr. Due raccolte di disegni di recente ac -q u i s i z i o n e, catalogo a cura di J. Garms e S. Prosperi Valenti Rodinò, Roma, 1985,p. 73, n. 99).

7 9 Windsor Castle, Royal Library; inv. RL 4166; matita rossa con rialzi dibianco, su carta grigio-azzurra (cfr. A. Blunt, H. L. Cooke, op. cit., p. 57, n. 288).Uno studio, magnifico, per il torso e il braccio levato di Oloferne, con dettagli dipanneggio, assolutamente coincidente per quanto concerne la figura con la reda-zione defintiva, si conserva al Kupferstichkabinett di Berlino (cfr. Römische Ba -rockzeichnungen aus dem Berliner Kupferstichkabinett, catalogo della mostra a curadi P. Dreyer, Berlin, 1969, n. 116).

8 0 Forse la vecchia fotografia illustrata da Voss poteva indurre a qualchedubbio (la tela non è neppure rubricata in G. Sestieri, op. cit.), ma non la visione di-retta del dipinto. Va detto inoltre che la sua qualità appare quasi superiore a quel-la, ad esempio, della ‘Miriam’ già Busiri Vici o, più che mai, dell’altra passata sulmercato di New York, segnalata anch’essa dalla Rudolph, e forse pure del ‘San G i o-vanni’ di Amsterdam, Rijksmuseum (altro dipinto Pallavicini, seconda redazione diquello perduto facente parte della serie vaticana), tutti tranquillamente accolti fragli autografi (cfr. S. Rudolph, op. cit., 1995, p. 48), sebbene sulla tela americana paialecito mantenere più che qualche riserva.

81 Olio su tela, cm 138 x 87. Il quadretto, anch’esso nella Gemälde-Galerie,

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Dipintiitaliani aBückeburg

stessa sala della ‘Giuditta’, si presenta, diversamente da altri, in ottimo stato di con-servazione.

8 2 C f r. E. Schleier, “Die Anbetung der Könige” von Giuseppe Bartolomeo Chia -ri, in ‘Berliner Museen’, 1973, 1, p. 63, nota 16.

83 Fu Amalia Mezzetti (op. cit., 1955, p. 347) a far notare per prima che l’in-cisione di Dorigny non coincideva del tutto con la pala viennese, come fino ad al-lora si era ripetuto e a volte ancor oggi si ripete (cfr. B. Gady, Gravure d’interpré -tation et échanges artistiques: les estampes françaises d’après les peintres italienscontemporains (1655-1724), in ‘Studiolo’, 1, 2002, pp. 64-104, in particolare p.80), affermando invece che essa fosse tratta da un dipinto già nella collezione ro-mana del cardinal Imperiali (su questo punto però, vedi più avanti). Almeno ottosono le incisioni da prototipi maratteschi eseguite, alcune per richiesta del pittorestesso e sotto la sua direzione, dal parigino Nicolas Dorigny (1652-1746), abile in-cisore di traduzione dalle scoperte propensioni classiciste (cfr. L. Erba, in P. Belli-ni, L’opera incisa di Carlo Maratta, Pavia, 1977).

84 Uno (Kupferstichkabinett, KdZ 22403), a matita rossa con rialzi di biaccasu carta azzurra, si riferisce all’angelo che incrocia le braccia a sinistra del morente/t a v o l a 23/, l’altro (KdZ 17428) a matita nera /t a v o l a 61/, riguarda invece l’angeloinginocchiato in primo piano (cfr. Römische Barockzeichnungen, cit., pp. 29-30, 65,nn. 61 e 127). Altri quattro studi di particolari, tutti a matita rossa su carta varia-mente colorata, conservati a Düsseldorf, Kunstmuseum (FP 12878, 8953, 13770,7181), sono ricondotti solitamente alla pala viennese (cfr. A. Sutherland Harris, E.A. Schaar, op. cit., pp. 115-116, nn. 293-296) ai quali va aggiunto l’FP 13817, di cuialla nota 69. Di questi, due (FP 12878 e FP 13770) sembrerebbero però preparatoriper la seconda redazione, oppure all’occasione riutilizzati, poiché corrispondono inrealtà a quest’ultima così come ci appare nel dipinto di Bückeburg.

8 5 Si tratta del foglio KdZ 22403 /t a v o l a 61/, spostato con riserva nel catalogodi Giacinto Calandrucci da Dreyer (in Römische Barockzeichnungen, cit., pp. 29-30), sulla scorta di considerazioni stilistiche a mio avviso opinabili. Non vedo infattiragioni sufficienti per negare l’autografia marattesca a questo studio, e tanto menoper ipotizzare l’intervento dell’allievo, come invece viene sostenuto in quella sede,nell’elaborazione della variante testimoniata dall’incisione (su Calandrucci dise-gnatore si veda, oltre al basilare studio di D. Graf, Die Handzeichnungen von Gia -cinto Calandrucci, catalogo della mostra, Düsseldorf, 1986, pure il recente inter-vento di A.L. Desmas, L’universo artistico di un allievo di Maratti: lo studio Calan -drucci e le sue raccolte descritti da un nuovo inventario, in ‘Bollettino d’Arte’, 118,2001, pp. 79-121). i fogli berlinesi smontano anche l’ipotesi che le varianti incisoriepossano essere addebitate a Dorigny (cfr. B. Gady, op. cit., p. 89, nota 131), ilquale, dice Mariette, a volte ne proponeva egli stesso al pittore, incidendo sotto lasua direzione.

8 6 Se il soggetto, con San Giuseppe a protagonista, trova un aggancio nel no-me di battesimo del cardinale, assai note erano d’altro canto le forti simpatie fi-loasburgiche dell’Imperiali, così scoperte che gli costarono per ben due volte, nel1724 e nel 1730, la candidatura al soglio papale per il veto tassativo di Francia eSpagna (cfr. S. Prosperi Valenti Rodinò, Il Cardinal Giuseppe Renato Imperiali com -mittente e collezionista, in ‘Bollettino d’arte’, V 1987, pp. 17-60). Quanto allascritta, essa recita: “ILL.MO ET REV.MO DOMINO IOSEPHO RENATO IM-PERIALI SANCTISS.MI / DOMINI NOSTRI, EIUSQUE REV. CAM. APO-

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S T.CÆ THESAURARIO GENERALI // Succumbens mortalitati sacrum Pa-triarchæ IOSEPHI velum, olim Imperialis pietatis / jussu penicillo insignis CaroliMarattæ immortalitati renatum nunc fidelium oculis // late per Orbem adum-braturus Tibi Illustrissime Præsul, non nominis modo sed / eximiæ etiam devo-tionis, tum Tuæ erga illius sanctimoniam tum meæ erga // inclyta tuarum virtutummerita, jure quam maximo venerabundus / dedico.” Ovvero: “All’Illustrissimo eReverendissimo Signore Giuseppe Renato Imperiali… la sacra immagine corporeadel patriarca Giuseppe che soccombe alla morte, un tempo per ordine della pietàimperiale rinata all’immortalità grazie al pennello dell’insigne Carlo Maratta, oraagli occhi dei fedeli per l’intero orbe essendo io impegnato a restituirlo, a te illu-strissimo Presule… dedico”.

87 Ad esempio, molti dei quadri del cardinale comparsi negli anni, fra Sei eSettecento, alle mostre di San Salvatore in Lauro a Roma non figurano nel suddet-to inventario (cfr. S. Prosperi Valenti Rodinò, op. cit., 1987).

88 Purtroppo non mi è stato possibile staccare il dipinto dalla parete per ve-rificare l’eventuale esistenza sul verso di scritte, timbri o altro.

89 Vedi infra, nonché parte I, nota 24.90 Certamente non inferiore, quanto a qualità, a quella, per dire, di almeno

due dei tre celebri modelli per il soffitto Altieri (Roma, Associazione Bancaria Ita-liana; Madrid, Palacio Real). Anche se universalmente accolti (per quelli romani, ve-di L. Laureati, in Dipinti barocchi delle banche italiane, catalogo della mostra di Wa-s h i n g t o n - Toronto-Bologna a cura di D. De Grazia e P. G. Castagnoli, Ve n e z i a ,1990, 92-95; e O. Ferrari, Bozzetti italiani dal Manierismo al Barocco, Napoli, 1990,p. 189; per il terzo, Pintura Italiana del Siglo XVII, catalogo della mostra a cura diA. E. Pérez Sánchez, Madrid, 1970, p. 366, n. 119), solo uno, a mio avviso, presentatutti i requisiti di un autografo sicuro. Mi riferisco a quello dell’Associazione Ban-caria Italiana, più vicino alla redazione finale e, come l’affresco, provvisto delle cen-tinature sui lati corti. Mi hanno sempre lasciato assai perplesso viceversa le gros-solanità e le sgraziature, non degne di un originale, che connotano gli altri due, pe-raltro identici fra loro, che testimoniano una fase più antica nell’elaborazione del-l’idea. L’opportunità di vedere i tre modelli uno accanto all’altro offerta di recentedalla mostra Velázquez, Bernini, Luca Giordano. Le corti del Barocco (catalogo a cu-ra di F. C. Cremades, Roma, 2004, pp. 364-365) rendeva a mio parere ancora piùevidente il suddetto scarto di qualità fra l’uno e gli altri. Del resto, un ulterioreesemplare della composizione più antica, visibilmente una copia, si conserva alKunstmuseum di Düsseldorf (inv. 2395).

9 1 Roma, Arciconfraternita dei Lombardi (cfr. S. Rudolph, in L’Idea del Bello,cit., pp. 472-473, n. 18).

92 Cfr. L. Pascoli, op. cit., ed.1992, p. 288. 93 H. Voss, op. cit., 1924, pp. 354, 605.9 4 C f r. N. Pio, Le vite di pittori, scultori et architetti in compendio da numero di

ducento venticinque, Roma, 1724, p. 109.95 Così in una lettera di Maratta al principe in carica Carlo Cesi (cfr. O. Pol-

lak, Italienische Künstlerbriefe aus der Barockzeit, in ‘Jahrbuch der KöniglichPreußischen Kunstsammlungen’, 34, 1913, p. 29, lettera XIX).

9 6 Il leggero scarto di dimensioni fra l’uno e l’altro (la ‘Strage’ misura cm 398x 322, il ‘Martirio’ cm 376 x 315) non impedisce di considerarli pendant. Non ap-paiono eccellenti le condizioni del primo, segnato da numerosi tagli, nel quadran-

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Dipintiitaliani aBückeburg

te inferiore sinistro, suturati in maniera un po’ grossolana, non so se dovuti al tra-sporto antico o al trasferimento della quadreria durante la seconda guerra mon-diale. Decisamente migliori, invece, quelle del secondo.

97 Ricordate da Titi nell’edizione del 1686 (cfr. F. Titi, Studio di pittura, scol -tura, et architettura delle chiese di Roma, edizione comparata a cura di B. Contardie S. Romano, Firenze, 1987, p. 220), si datano a poco dopo il 1682, anno di mortedi Niccolò Berrettoni, cui, per intercessione di Maratta, Chiari subentrò nella de-corazione della cappella, come ricordato da Pascoli (cfr. C. Galassi, in L. Pascoli,op. cit., ed. 1992, pp. 287, 292, nota 9, con bibliografia completa).

9 8 Deliziosi e dal dettato più minuto, i due ricordi in piccolo (olio su tela, cm67 x 58) delle tele Marcaccioni conservati a Belton House (cfr. A. Laing, In Trustfor The Nation. Paintings from National Trust Houses, London, 1995, p. 226).

99 L’unico a prendere in esame, benché velocemente e senza illustrarli, i duedipinti tedeschi è B. Kerber, Giuseppe Bartolomeo Chiari, in ‘The Art Bulletin’,1968, p. 75, che non mette in dubbio l’ante quem del 1685.

1 0 0 Il Montioni citato da Pascoli come committente del citato affresco conl’‘Assunta’ nella cappella di famiglia in Santa Maria di Montesanto, nonché deidue grandi quadri da stanza di formato orizzontale oggi a Burghley House (cm165 x 221), non è Jacopo, tesoriere di Innocenzo XII, come da tutti sostenuto (ol-tre a B. Kerber, op. cit., vedi anche P. Dreyer, Notizien zum malerischen and zei -chnerischen Oeuvre der Maratta-Schule: Giuseppe Chiari, Pietro de Pietri, AgostinoM a s u c c i, in ‘Zeitschrift für Kunstgeschichte’, 1971, pp. 184-207; C. Galassi, in L.Pascoli, op. cit., ed. 1992, p. 293, nota 14; e H. Brigstocke, J. Somerville, I t a l i a nPaintings from Burghley House, Alexandria, Virginia, 1995, pp. 56-59), ma suo ni-pote ed erede Francesco, ricco banchiere, amatore d’arte e raffinato collezionista,come ha potuto precisare ultimamente Stella Rudolph (Francesco Montioni diSpoleto, banchiere e mecenate in Roma: schedula per un’identità, in S t u d i d e l l ’ A c -cademia Spoletina. Scritti di architettura e storia dell’arte in onore di Carlo Pietran -g e l i , Roma, 1996, pp. 265-270). Se al primo si deve in effetti l’acquisto della cap-pella nel 1676, fu il secondo invece a deciderne la decorazione, compiuta nel1686, anno in cui venne consacrata, e a scegliere gli artisti: sull’altare, fra l’altro, labella pala di Maratta con ‘La Vergine e i Santi Francesco e Giacomo Maggiore’.Nell’occasione qui fu trasferita la salma dello zio, morto dunque ben prima del1686. Con ciò veniva a cadere l’ante quem del 1687, presunta morte di Jacopo, peri dipinti inglesi, di cui la stessa Rudolph ritarda la datazione. Ma forse senza mo-tivo: a mio avviso infatti resta da preferire quella corrente attorno al 1686, poichédi fatto le due storie antiche appaiono del tutto in sintonia con l’‘Assunta’ dellacappella Montioni, almeno nelle aree (la figura della Vergine, quella dell’angeloche la sorregge) preservate dal pesante deterioramento che ha purtroppo com-promesso l’insieme. Quanto al ‘Coriolano implorato da Venturia e Vo l u m n i a ’ ,Dreyer (op. cit.) intese a suo tempo dirottarne l’attribuzione in favore di Pietro dePietri, sulla base di un disegno a lui riferibile nel Kupferstichkabinett di Berlino.La proposta però non sembra essere stata accolta dai più, anche perché i due pen-dant, citati puntualmente da Pascoli come opere di Chiari, parrebbero del tuttoomogenei sotto il profilo stilistico nonché, come si è detto, perfettamente coinci-denti con la volta Montioni. Va detto inoltre che la conoscenza della fase giovani-le di Chiari e persino del suo catalogo non appare così assestata, se anche di re-cente possono essere state proposte come opere del pittore intorno al 1695 le due

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grandi tele con storie bibliche dell’Istituto Calasanctianum di Roma, segnalate daAngela Negro con l’avallo di Stella Rudolph (A. Negro, in Quadri dal silenzio. Di -pinti da conventi e istituti religiosi romani. Selezione da una schedatura, catalogodella mostra, Roma 1993, pp. 38-40, nn. 17, 18), ultimamente restituite con ognievidenza a Pier Leone Ghezzi (V. Casale, Il dna artistico di Pier Leone Ghezzi e ilgioco degli scambi con Biagio Puccini, Giuseppe Chiari, Agostino Masucci e AntonioD a v i d, in ‘Bollettino d’Arte’, 111, 2000, pp. 103-124).

1 0 1 Se l’Annibale dell’‘Assunta’ Cerasi riecheggia nell’affresco Montioni (vedinota precedente) la ‘Crocifissione d i S a n Pietro’ di Guido oggi alla Vaticana sembrafornire a Chiari, come indicato da Kerber (op. cit., p. 75, fig. 1), l’idea, ma solo quel-la, per la postura del santo nella tela di eguale soggetto segnalata dallo studioso aNew York in collezione Ganz. Tela per molti versi vicina alle due composizioni te-desche. Contesto di citazioni reniane dalla famosa ‘Strage degli innocenti’ oggi nel-la Pinacoteca Nazionale di Bologna è anche il dipinto di Chiari a Bückeburg con lostesso soggetto, per il quale Ursula Fischer Pace mi segnala (comunicazione orale)un cartone preparatorio (fatto singolare per un dipinto), relativo alla parte sinistradella composizione: cartone conservato a Weimar (Schlossmuseum), dove in anti-co era dato non per nulla a Guido Reni, di cui la studiosa tratterà nel catalogo deidisegni italiani di Weimar in corso di pubblicazione.

1 0 2 Il rame di Chasteau (1635-1683), conservato nella calcografia del Louvre,risulta pagato nel 1671: cfr. E. Borea, Annibale Carracci e i suoi incisori, catalogodella mostra, Roma, 1986, p. 237, n. LVIII.

103 Olio su tela, cm 300 x 227. Di fatto poggiato quasi a terra in galleria, ilgrande quadro presenta qualche problema di conservazione. Mentre il pigmentoappare integro e solo un poco ingiallito, la tela risulta tremendamente allentata, conconseguenti, pronunciate ripiegature nella parte bassa.

104 Fra i dipinti sacri di piccolo formato (sic) commenta ultimamente la ‘Sa-maritana’ in questione, storpiando il nome della famiglia in Schaumberg-Lippe, Ch-ristophe M. S. Johns, in Art in Rome in the Eighteenth Century, catalogo della mo-stra, Philadelphia, 2000, p. 345. Gli anni in effetti sono quelli del maggior creditotributato all’artista, che si avviava in qualche modo a sostituire Maratta, ormaigiunto alla fine della sua lunga parabola (morirà nel 1713), nella sua funzione diguida dei pittori romani sul fronte classicista: sintomatico è il fatto che a Chiari ven-ga affidato nel 1708, per volontà di Clemente XI, il compito di portare a termine ladecorazione della cappella della Presentazione in San Pietro, iniziata alcuni decenniprima dal maestro.

1 0 5 L’acquaforte dal dipinto di Annibale oggi a Budapest (SzépmüvészetiMúzeum), ma già in collezione Oddi a Perugia e non a Bologna in San Pietro comeritiene Kerber (op. cit., p. 81), è datata 1649 (cfr. P. Bellini, op. cit., p. 40, n. 3; e E.Borea, op. cit., 1986, pp. 88-89, n. XXXII).

106 Citata dalle fonti e a lungo dispersa, l’opera è stata rintracciata da StellaRudolph in una collezione privata tedesca, prima di approdare sul mercato londi-nese (Hazlitt, Gooden & Fox): cfr. S. Rudolph, op. cit., 1995, p. 55, e eadem, in L’ I -dea del Bello, cit., pp. 473-474, n. 19.

1 0 7 Il dipinto, a olio su tela, databile al 1685-1690, misura infatti solo cm136 x 102.

1 0 8 Più che il volto di Cristo nella ‘Samaritana’ Pallavicini, come di recente so-stenuto da Stella Rudoplh (op. cit., 1995, p. 55), è questo Cristo di Chiari, a mio av-

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viso, ad anticipare Batoni, nella distillazione artificiale, languorosa e insieme gelida,della materia pittorica, come dei tratti e del sentimento. Quel volto, ma anche percerti versi la frasca verdeggiante, tornano pure nel ‘Cristo benedicente i fanciulli’passato una decina d’anni fa sul mercato londinese (Christie’s, Londra, 15 aprile1992, lotto n. 54).

109 Per l’‘Adorazione’, datata 1714, si vedano B. Kerber, op. cit., p. 82; e E.S c h l e i e r, op. cit., passim. Meno felici forse le due tele col ‘Parnaso’ e il ‘Giudizio diMida’, eseguite per il palazzo del marchese De Carolis al Corso, oggi nella colle-zione della Banca di Roma, penalizzate da un non ottimale stato di conservazionee collocate dalla critica intorno al 1712, in parallelo alla ‘Giuditta trionfante’ data-ta a quell’anno: cfr. A. Bacchi, in Iriarte. Antico e moderno nelle collezioni delGruppo IRI, catalogo della mostra (Roma), Venezia, 1989, pp. 58-59, nn. II.16 eII.17.

1 1 0 Gli equivoci nascono da un dipinto con ‘Cristo e la Samaritana’ conserva-to nel Palazzo Vescovile di Ancona, che oggi possiamo dire copia fedele, anche nel-le misure (olio su tela, cm 136 x 97), di quello Pallavicini di Maratta. Tradizional-mente a lui attribuito (cfr. L. Serra, Elenco delle opere d’arte mobili delle Marche,Pesaro, 1925, p. 11), fu poi declassato dallo stesso Serra a variante, di anonimo delXVII secolo, del dipinto di Bückeburg, che lo studioso riteneva peraltro solo ‘at-tribuito’ a Chiari (cfr. L. Serra, Inventario degli oggetti d’arte d’Italia VIII. Provinciedi Ancona e di Ascoli Piceno, Roma, 1936, p. 27). Nel frattempo I. Budde (Besch -reibender Katalog der Handzeichnungen in der Staatlichen Kunstakademie Düssel -d o r f, Düsseldorf, 1930, p. 55, n. 417, tavola 64) aveva assegnato a quest’ultimo co-me studio preparatorio per la tela di Bückeburg un disegno d’insieme a sanguignadel Kunstmuseum di Düsseldorf (FP 2006), che invece è copia fedele e scadente/t a v o l a 76/ della composizione di Maratta allora ignota. Come prodotto della bot-tega marattesca elenca più tardi la tela di Ancona Amalia Mezzetti (op. cit., 1955, p.318), mentre allo stesso Chiari la assegnano successivamente Sutherland Harris eSchaar (op. cit., p. 175), riferendo al pittore come studi preparatori per quel di-pinto, oltre al foglio segnalato da Budde, altri tre, sempre nel museo di Düsseldorf,piuttosto belli, con studi di particolari (FP 13000-13154, FP 13810, FP 7577). I pri-mi due /t a v o l e 73, 74/ furono illustrati successivamente da Peter Dreyer (op. cit., p.198) come sicure prove grafiche di Chiari, ricollegando lo studio per la figura diCristo al dipinto di Bückeburg e l’altro per la figura femminile a un’ipotetica va-riante, testimoniata, secondo lui, dal foglio FP 2006, in realtà, come si è visto, copiadal dipinto di Maratta. Più tardi, schedando il ‘Cristo e la Samaritana’ di Houston(vedi poi), Pignatti (Five Centuries of Italian Paintings 1300-1800. From The SarahCampbell Blaffer Foundation, Houston, 1985, p. 210) elenca indifferentemente frale derivazioni dal dipinto americano, sia l’originale tedesco firmato e datato che latela di Ancona. Tela, questa, che nelle note alla vita di Chiari del Pascoli (cfr. C. Ga-lassi, in L. Pascoli, op. cit., ed. 1992, p. 298, nota 41) viene enumerata a sua volta frai disegni preparatori (sic) in rapporto col dipinto Schaumburg-Lippe. Anche Stel-la Rudolph, dal canto suo (op. cit., 1995, pp. 55, 196, nota 130), annovera, a con-ferma della gran fortuna del prototipo marattesco, anche il quadro di Bückeburgfra le mere derivazioni, insieme alla copia di Ancona, di cui conferma l’attribuzio-ne a Chiari (sostenendo peraltro, cosa non vera, che Amalia Mezzetti la ritenesse unautografo di Maratta). Se ultimamente la stessa Rudolph (cfr. L’Idea del Bello, c i t . ,p. 474) non include più l’esemplare Schaumburg fra le derivazioni, intende però co-

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me tali altre tele, tra cui quella di Houston, che illustrano la medesima invenzione,accettando inoltre come disegni di Chiari dal modello marattesco tutti i fogli diDüsseldorf sopra citati. A questo proposito, però, qualche precisazione si impone.Se il foglio di Berlino (Kupferstichkabinett, KdZ 22372) pubblicato a suo tempo daKerber (op. cit., p. 82, fig. 19) fu subito declassato da Dreyer (op. cit., p. 196) a co-pia anonima, oggi possiamo dire dalla figura della Samaritana nella composizione diMaratta, altrettanto mi pare valga per il foglio FP 2006 /t a v o l a 76/: ad evidenza, perla fragilità del segno e la pedissequa dipendenza in ogni dettaglio dalla composi-zione marattesca, ancora nient’altro che una debole ripresa da quel dipinto, piut-tosto che da uno studio perduto. Non riesco invece a capire perché i due pubblicatida Dreyer e anche dalla Rudolph ritenuti ultimamente di mano di Chiari non pos-sano essere invece letti come autografi di Maratta per la sua composizione, alla qua-le corrispondono (e non a quella di Chiari) ma, diversamente dall’FP 2006, inmaniera tutt’altro meccanica, il che esclude l’ipotesi della derivazione. Al di làdella qualità, che mi sembra degna del maestro di Camerano e non diversa da comeci appare in numerosi altri fogli, essi mi paiono ben diversi dagli studi sicuri diChiari: vedi ad esempio, anche se di diversa datazione, quello, sempre a Düsseldorf(FP 7055v), relativo al giovanile ‘San Pietro’ Ganz, quelli di Chicago (The Art In-stitute) e di Monaco (Ratjen Foundation) preparatori per la ‘Tullia’ di BurghleyHouse o quello a Chatsworth per il ‘Bacco e Arianna’ della Galleria Spada, circa1708 (cfr. H. Brigstocke, J. Somerville, op. cit., oo. 57-58; e S. Macchioni, D a lclassicismo tardobarocco al rococò accademico. A proposito di un disegno inedito e delmarattismo di Giuseppe Chiari, in Per Luigi Grassi. Disegno e disegni, a cura di A.Forlani Tempesti e S. Prosperi Valenti Rodinò, Rimini 1998, pp. 391-414). Masoprattutto, i fogli in questione presentano, palesemente, la freschezza di una primaelaborazione non ancora definitivamente aggiustata: si notino le molte sottili diffe-renze rispetto al dipinto di Maratta (e alla copia di Ancona) nella definizione deipanni della donna /t a v o l a 73/ o, nel foglio doppio /t a v o l a 74/, del Cristo, nonché lediverse angolazioni delle sue mani, per le quali l’artista (perché mai copiando un di-pinto si dovrebbe agire così) procede per tentativi, senza giungere alla soluzione de-finitiva. Soluzione che verrà trovata invece in un ulteriore studio di dettaglio checredo inedito /tavola 75/, per le mani, appunto, e i piedi di Gesù (sempre a Düs-seldorf, FP 14039), da aggiungere a mio avviso alla serie dei disegni preparatori diMaratta per il quadro Pallavicini (A. Sutherland Harris, E. Schaar, op. cit., p. 169, n.555, l’avevano invece incluso fra i disegni sicuri di Maratta ma senza connessionecon opere note, senza scorgere il nesso con la composizione di Ancona e coi foglidati a Chiari per quel dipinto). Infine, qualche lecito dubbio, come Maratta, puòsussistere invece per i due volti dei protagonisti nel terzo foglio assegnato a Chiari,l’FP 7577, effettivamente un po’ più debole degli altri. Quanto alla tela di Ancona,molto sofferta ma di una certa qualità nei brani meglio conservati, essa appare tal-mente fedele all’originale già Pallavicini, restituito con intento mimetico, da renderea mio avviso difficilmente dimostrabile l’attribuzione a Chiari, alla quale resta dapreferire quella più generica alla bottega marattesca a suo tempo indicata dallaMezzetti.

1 1 1 Certamente nella lista stilata da Giancarlo Sestieri (op. cit., I, p. 53), sottodiversa ubicazione, compare più volte lo stesso dipinto: la ‘Samaritana’ passata inasta a Londra, Christie’s, 12 dicembre 1975, n. 30, è la stessa poi apparsa pressoColnaghi, sempre a Londra, l’anno successivo (Italian Paintings 1500-1800, Lon-

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don, 1976, n. 26), e infine approdata a Houston (vedi più avanti nel testo e nota se-guente), proveniente dalla raccolta Swinton e già a Wilton House. Tutte rubricatedallo studioso come opere distinte.

1 1 2 A olio su tela, di dimensioni analoghe (cm 284,4 x 223,6), si differenziadal dipinto Schaumburg-Lippe per alcuni dettagli: il bacile di rame a destra anzi-ché al centro sul gradino, l’angolazione delle teste degli apostoli a sinistra, il gestodella figura che raccoglie masserizie in basso. Qualche piccola diversità si nota pu-re nella definizione dei palmizi e delle architetture del fondo. Proveniente dalleraccolte di Swinton House (York), attraverso vari passaggi di mercato è giunto almuseo americano dopo il 1976 (cfr. T. Pignatti, op. cit., p. 210). Se, come sostienelo studioso, si tratta del dipinto prima ancora presso i conti di Pembroke a Wi l t o nHouse, stando all’acquatinta che ne trasse John Dean nel 1786 segnalata da Kerber(op. cit., p. 81), è significativo che esso avesse mantenuto nel Settecento il suo ri-ferimento a Chiari (cfr. J. Kennedy, A new Description of the pictures, statues... atthe Earl of Pembroke’s House at Wi l t o n, London, 1771, p. 82), corretto se non al-tro sul piano dell’invenzione. Anche se ciò non impedisce di considerare l’esem-plare in oggetto, se è lo stesso, una copia. Infine, a giudicare dalla foto, forse nonè da escludere del tutto l’attribuzione di questa replica a Tommaso Chiari (1665-1733), fratello minore di Giuseppe, che, oltre a formarne il mestiere, non mancòpoi di favorirlo in più occasioni (cfr. G. Sestieri, op. cit., I, p. 54). L’ a c c o s t a m e n t odel quadro americano alla sua opera più nota, la ‘Morte di San Servolo’, tanto nel-la redazione finale a fresco in San Clemente a Roma che nel modello in collezioneLemme, mi sembra renda non completamente peregrina l’ipotesi, risultando il lin-guaggio di Tommaso in tutto dipendente da quello del fratello ma in chiave piùpopolare e corriva, ad eccezione, nel caso del modelletto Lemme, della figura delmorente e di quella dell’uomo che legge, assegnabili, per la maggior finezza ese-cutiva, a Giuseppe Bartolomeo: cfr. V. Casale, in Il Seicento e Settecento romanonella Collezione Lemme, catalogo della mostra (Parigi-Milano-Roma), Roma, 1998,pp. 52-53, n. II.

1 1 3 L’ipotesi che questo dipinto (olio su tela, cm 124,5 x 99, passato presso Ch-ristie’s a Londra il 12 dicembre 1951, lotto n. 67) sia quello un tempo nella colle-zione Townshend a Melton Hall è avanzata, ma ignoro su quali basi, da Terisio Pi-gnatti (op. cit., p. 210). Una fotografia del Kunsthistorisches Institut di Firenze lodice nel 1955 in collezione Dry a Londra.

1 1 4 Il primo fa parte di un ciclo di tele da soffitto a soggetto mitologico per ilnuovo palazzo del marchese Livio De Carolis in via del Corso, cui collaborarono,tra 1715 e 1726, tutti i più importanti pittori romani del tempo (cfr. A. Bacchi, inIriarte, cit., pp. 92-95). Il secondo (cfr. S. Rudolph, in Il Seicento e Settecento ro -m a n o, cit., pp. 113-116, n. 33) si riferisce alla serie degli ovali voluta e finanziata daClemente XI e da Lothar Franz von Schönborn a ornamento della navata maggio-re della basilica lateranense: stabilita nei dettagli non prima del 1716, la serie era giàin situ nel giugno del 1718.

115 Così, almeno, stando a quanto riferitomi dall’Amministrazione del ca-stello.

1 1 6 Il dipinto, a olio su tela, che misura cm 390 x 229, si trova attualmente, in-sieme alla ‘Susanna’ reniana, in un piccolo ambiente al piano terra, separato daquelli che costituiscono la vera e propria Gemäldegalerie. Infatti anch’esso non fi-gura nell’opuscolo di cui alla nota 34. Le sue condizioni appaiono piuttosto pre-

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carie: a una generale ma non rilevante opacizzazione della superficie pittorica, si ag-giungono invece numerosi piccoli stacchi del pigmento, molto inaridito, dovuti an-che a un pronunciato rilassamento della tela. Nella ripresa fotografica, molto diffi-coltosa per le anguste dimensioni della stanza, l’immagine appare leggermente de-curtata su ambo i lati.

1 1 7 Niedersächsisches Staatsarchiv, Bückeburg, Acta Kunstsachen 1771-1782,K6 nr. 901.

118 Il parere è corredato dal nome “Llewellyn” e dalla data 1979, ma non sa-prei dire a quale dei vari studiosi con questo nome si debba pensare.

119 Appena giunto a Roma, il pittore fu accolto dal cardinale Flavio Chigi,presso il quale trascorse molti anni licenziando per lui numerose opere, per Siena edintorni, non tutte sopravvissute, di cui resta però una ricca documentazione (cfr.V. Golzio, Documenti artistici sul Seicento nell’archivio Chigi, Roma, 1939). Subitodopo la morte del suo primo patrono (1697), l’artista, come si sa, entrò nelle graziedel cardinale Pietro Ottoboni (1667-1740), nipote del pontefice Alessandro VIII edal 1689 vicecancelliere pontificio, che nutrì per lui un’ammirazione assoluta e du-ratura: lo stesso Trevisani sopravviverà al suo protettore di pochi anni. Le prime no-tizie documentarie che attestino un’effettiva sistemazione di Trevisani in Cancelle-ria risalgono al 1698, anche se nei rolli ufficiali del palazzo egli compare solo a par-tire dal 1705 (cfr. E. J. Olszewski, C a rdinal Pietro Ottoboni (1667-1740) in Ameri -ca, in ‘Journal of the History of Collections’, 1, 1989, pp. 33-57; F. Matitti, Il car -dinale Pietro Ottoboni mecenate delle arti. Cronache e documenti (1689-1740), in‘Storia dell’arte’, 84, 1995, pp. 156-245; E. J. Olszewski, The painters in CardinalPietro Ottoboni’s Court of the Cancelleria, 1689-1740, in ‘Römisches Jahrbuch derBibliotheca Herztiana’, 32, 1997-1998, pp. 533-565).

1 2 0 Numerosi sono i dipinti di Trevisani, per lo più a soggetto mitologico, tut-tora a Pommersfelden, richiesti al pittore da Lothar Franz von Schönborn fra il1708 e il 1717, in merito ai quali sussiste una ricca documentazione epistolare(cfr. Quellen zur Geschichte des Barocks in Franken unter dem Einfluß des HausesS c h ö n b o r n, a cura di H. Hantsch e A. Scherf, 1931-1935). Moltissime erano anchele opere del pittore presenti in Francia nel XVIII secolo: solo presso le collezionireali se ne contavano nel 1706 ben venticinque. Altre ne aveva ricevute in dono ilmarchese de Torcy da parte del cardinal Ottoboni nel 1704, e ancora nel 1709, al-lorché il prelato romano fu investito da Luigi XIV della carica di Gran Protettore diFrancia. Per non dire di quelle disseminate nella provincia (a Carpentras, ad Avi-gnone, a Besançon), fin dagli anni novanta del Seicento (cfr. A. Brejon de Laver-gnée, P. Rosenberg, Francesco Trevisani et la France, in ‘Antologia di Belle Arti’, II,7-8, 1978, pp. 265-275). Almeno due pale di enorme formato giunsero poi in Mo-ravia: nel 1722 una ‘Crocifissione’ per la chiesa dei piaristi a Litomysl, e in seguitoun ‘Martirio di San Venceslao’ per l’omonima chiesa di Zamberk, opera estrema,datata 1741 (cfr. J. Neuman, Francesco Trevisani v cechach, Zambersky obraz a jehoz u t o r, Zamberj, 1979; e idem, Trevisaniho modelletto pro Litomyslské ukrizovonì, in‘Umenì’ 6, XLVIII, 2000, pp. 394-406).

121 Questa ad esempio era l’opinione dello spocchiosissimo ‘presidente’ DeBrosses, che anzi andava ancora oltre, reputando il Trevisani non tanto il primoquanto l’unico pittore di valore fra quelli operanti nella Roma del secondo quartodel secolo, insieme a pochissimi altri (Solimena a Napoli, Canaletto a Ve n e z i a )degni di tale qualifica in Italia. Se questo è il parere espresso nella lettera XXXI al

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signor de Neuilly (14 novembre 1739), in un’altra, la XLI, al signor de Quintin, lodice addirittura “suel bon peintre moderne qui vive de nos jours”, sebbene “d’unevieillesse extrême”(ed. cons. C. De Brosses, Viaggio in Italia. Lettere familiari, Ro-ma-Bari,1973, pp. 255, 385).

1 2 2 B. Orsini, Guida al fore s t i e re per l’augusta città di Perugia, Perugia, 1784, p.284.

1 2 3 S. Siepi, Descrizione topologico-istorica della città di Perugia, Perugia, 1822,II, p. 867.

1 2 4 Sulla prima, vedi F. R. DiFederico, Francesco Trevisani. Eighteenth CenturyPainter in Rome. A Catalogue Raisonnée, Washington, 1977, p. 68; sul secondo, del-lo stesso autore, Trevisani’s Pictures at Narni and the State of Roman Painting in1 7 1 5, in ‘Storia dell’arte’, 15-16, 1972, pp. 307-324. La datazione al 1715 della pa-letta di Perugia è accettata ancora in Catalogue raisonné, cit., p. 241.

1 2 5 La notizia, peraltro, era già stata resa nota in una pubblicazione un po’ de-filata, evidentemente sfuggita al monografista americano (cfr. E. Ricci, La Chiesadell’Immacolata Concezione e di San Filippo Neri (Chiesa Nuova) in Perugia, in‘Bollettino della deputazione di storia patria per l’Umbria’, Appendice al n. 10, Pe-rugia, 1969, pp. 34, 153-154).

126 Benché variata nel formato, da verticale in orizzontale, e di fattura moltoscadente, nonché per metà ridipinta, la pala dipende però in maniera inequivoca-bile dal prototipo in questione (cfr. A. Zanella, P recisazioni sull’opera di FrancescoTrevisani e della sua bottega a Narni e in altri centri minori del Lazio, in ‘Quadernidell’Istituto di Storia dell’Arte Medievale e Moderna. Facoltà di Lettere e Filosofiadell’Università di Messina’, 12, 1988, pp. 81-91).

127 La Griseri prima, nel suo fondamentale e pionieristico intervento sul pit-tore (Francesco Trevisani in Arcadia, in ‘Paragone’, 153, 1962, pp. 28-37), e Zanel-la poi (Francesco Trevisani e il teatro arcadico, in ‘Studi sul Settecento romano’, 4,1988, pp. 405-412) hanno giustamente insistito sulla precocità di questa inclina-zione, ravvisabile fin dalla giovinezza, ancor prima del vero esordio romano costi-tuito dalle tele per San Silvestro in Capite (1695-1696). Del resto, già nel 1704, benprima di divenire nel 1712 membro effettivo dell’Accademia col nome di SanzioEcheiano, il pittore era stato oggetto di esplicito elogio da parte di un arcade dispicco come Crescimbeni, che gli dedicò alcuni versi a proposito del disegno per uncostume teatrale.

1 2 8 C f r. F.R. DiFederico, op. cit., 1972. Ma è altrettanto vero che nella versio-ne romana risuona più di un’eco, specie nella figura di Cristo, quasi identica, della‘Morte di San Giuseppe’ di Maratta più sopra trattata, conosciuta probabilmenteattraverso l’incisione di Cesare Fantetti.

129 Del dipinto, il cui esemplare più noto eseguito per Clemente XI si con-serva a Vienna (Kunsthistorisches Museum), esistono, in vari formati e su diversosupporto, almeno sette redazioni, cfr. L. Arcangeli, in Papa Albani e le arti a Urbi -no e a Roma 1700-1721, catalogo della mostra a cura di G. Cucco (Roma), Ve n e z i a ,2001, p. 226, n. 71.

1 3 0 Donato dall’Ottoboni stesso alla confraternita del Santissimo Sacramentodi cui era protettore, il quadro, che orna l’altar maggiore del nuovo oratorio pro-gettato da Gregorini e consacrato il 19 marzo 1730, risulta già in situ a quella data(cfr. F. Matitti, op. cit., pp. 160, 229).

1 3 1 Vero è che in questo caso, come del resto spesso, la scelta è frutto di

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un’esplicita richiesta da parte del committente: il conte Franz Adam von Traut-mansdorff. Nella visita a Roma del 1700, il conte era rimasto così affascinato dallapala di Trevisani in San Silvestro in Capite, che al momento di rinnovare la chiesadei piaristi nella piccola cittadina morava di cui era signore volle avere di quella pa-la una replica, seppure variata. Il dipinto, grandissimo (cm 667 x 356), giunse a Li-tomysl nel 1722. Distrutto da un incendio nel 1775, ne resta un modelletto auto-grafo (cm 97 x 62) — sul retro del quale, il nome del pittore e la data 1721 — pres-so il Museo Regionale di Teplice, nella Repubblica Ceca (cfr. J. Neuman, op. cit.,2000).

1 3 2 Nella documentazione di palazzo, cioè nelle giustificazioni del maestro dicasa alla Cancelleria, fin dalla fine del Seicento ricorrono notizie di lavori nelle stan-ze del pittore, che dunque già abitava lì, con esplicito riferimento a una strutturascenica: nel 1698, “manifattura e chiodi in fare il Palco e scene nello studio delSig.re Francesco Trevisani nella Cancelleria”; ancora nello stesso anno, per “unamutazione di telari per il teatro nel stanzone di Trevisani”; nel 1700, “per haver fat-to due tramezzi […] in dove è il teatrino del Sig.re Trevisani” (cfr. M. L. Vo l p i c e l-li, Il teatro del cardinal Ottoboni al Palazzo della Cancelleria, in Il teatro a Roma nelS e t t e c e n t o, Roma, 1989, pp. 681-782; F. Matitti, op. cit., p. 165, nota 35). Sulla que-stione generale dei rapporti fra l’artista e il teatro, vedi ancora A. Zanella, op. cit.,1988, e idem, Corrado Giaquinto tra Conca e Trevisani, tra il teatro e la scultura: ap -punti sulla cultura figurativa romana nel secondo quarto del XVIII secolo, in Gia -quinto. Capolavori dalle corti in Europa, catalogo della mostra, Bari, 1993, pp.107-110. D’altronde, lo stesso elogio di Crescimbeni del 1704 prendeva spunto, co-me si è detto, proprio da un costume teatrale disegnato dal pittore.

133 La felice definizione è di Andreina Griseri (op. cit., p. 31).134 La paletta umbra, anch’essa a olio su tela, misura infatti cm 245 x 156.135 Cfr. Catalogue raisonné, cit.1 3 6 Certo non può esservene traccia nella breve nota dedicata al pittore istria-

no da N. Pio, Le vite di pittori, scultori et architetti (1724), ed. cons. a cura di R.Enggass, Città del Vaticano, 1977, p. 38. Quanto a Lione Pascoli, vedi poi.

1 3 7 Le varie edizioni della guida del Titi (F. Titi, op. cit., ad indicem) non sem-brano ricordare un dipinto del genere. Nessuna citazione utile neppure in A. Ada-mi, Storia di Volseno descritta in quattro libri, Roma, 1737, indagando l’area diBolsena per la quale Trevisani, come altri ‘romani’ (cfr. A. Lo Bianco, C o m m i s s i o n iad artisti del XVIII secolo nel viterbese: il cardinale Ottoboni, Giaquinto, Conca, Roc -ca ed altre indagini, in ‘Bollettino d’arte’, 1993, pp. 80-81, 107-120), produsse varieopere. Anche Arcangelo Corelli, altro illustre ‘dipendente’ dell’Ottoboni, possedevanumerose opere del pittore a lui per lo più donate dal cardinale, ma nessuna ‘An-nunciazione’ (cfr. A. Cametti, Arcangelo Corelli. I suoi quadri e i suoi violini, in ‘Ro-ma. Rivista di storia e di vita romana’, 1927, pp. 412-423). Sospendendo la que-stione cronologica, nessun aiuto giunge neppure dagli Avvisi di Roma, oggetto dispoglio, per gli anni 1680-1700, da parte di E. Rossi, Roma ignorata. Cronache e do -cumenti di vita romana nel secolo XVII, in ‘Roma. Rivista di storia e di vita romana’,1942 e 1943, passim; o dal Diario Ord i n a r i o del Chracas, vagliato da N. A. Mallory,Notizie sulla pittura a Roma nel XVIII secolo (1718-1760), in ‘Bollettino d’arte’,1976, pp. 102-113.

1 3 8 Trattandosi di artisti stipendiati, per Trevisani, come per altri ‘dipendenti’dell’Ottoboni alloggiati in Cancelleria, non sussistono contratti di sorta e neppure,

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quasi, registrazioni di pagamento, se non in maniera occasionale e indiretta, sottoforma di spese per cornici o altro, ma mai vere e proprie retribuzioni (cfr. E.J. Ol-szewski, op. cit., 1989, p. 55).

139 Cfr. Il Mercurio Errante. Delle grandezze di Roma, tanto antiche che mo -d e r n e, Roma, 1715, pp. 80 e segg.; J. G. Keysler, Travels through Germany, Bohemia,Hungary, Switzerland, Italy and Lorrain, London, 1757.

1 4 0 L. Pascoli, Vite de’ pittori, scultori ed architetti viventi dai manoscritti1383 e 1743 della Biblioteca Comunale “Augusta” di Perugia, Treviso, 1981, p. 32.Tra le note, la ‘Strage degli innocenti’ andata distrutta a Dresda con l’ultimo con-flitto mondiale o il ‘Riposo dalla fuga in Egitto’, invece tuttora nella celebre galleriatedesca. L’indicazione ricorre altrove, nell’elenco un po’ disordinato delle opere delpittore, specificando “tutti grandi con figure al naturale” (p. 46). Il biografo ricor-da anche tre “Annunziate in tela”, ma “di tre [palmi]”, sin qui non rintracciate, di-pinte per l’abate Albicini “cavalier Furlivese” (p. 32), altro fervente estimatoredel Trevisani, di cui possedeva “circa venti” dipinti. Per le dimensioni, esse nonpossono aver nulla a che fare con la nostra ‘Annunciazione’: difficile dire se una diquelle sia da riconoscere nel bozzetto oggi a Nantes.

1 4 1 C f r. Sebastiano Conca (1680-1764), catalogo della mostra, Gaeta, 1981, p.94, n. 5.

142 È più che probabile poi che l’Ottoboni, assai devoto a San Filippo Neri,nonché frequentatore assiduo degli Oratoriani, della cui congregazione facevaparte dal 1705 e presso i quali possedeva alcune stanze dove soleva recarsi in ritiro( c f r. F. Matitti, op. cit., p. 159; A. Negro, Il Cardinal Ottoboni alla Vallicella fra mu -sica e collezionismo, in La regola e la fama. San Filippo Neri e l’arte, catalogo dellamostra di Roma, Milano, 1995, pp. 284-295), non fosse estraneo alla commissioneperugina; anche perché nessuna richiesta esterna poteva esssere assolta dal pittoresenza la sua licenza.

1 4 3 C f r. G. De Marchi, M o s t re di quadri a San Salvatore in Lauro (1682-1725).Stime di collezioni romane. Note e appunti di Giuseppe Ghezzi, Perugia, 1987, p.153.

144 Un dipinto “alto palmi Dieci, e mezzo, largo palmi Undici rapp:te L’An-nunciazione della Madonna Ss.ma del Trevisani” è in effetti citato al n. 397 nelladettagliatissima descrizione dell’eredità Ottoboni, condotta in data 28 febbraio1742 dal notaio Giovan Francesco Conti (Roma, Archivio di Stato, Not. R. C. A.,prot. 604, c. 217v.). La citazione viene di seguito a quella della ‘Strage degli inno-centi’ perduta a Dresda e dell’‘Adorazione dei pastori’ di Sebastiano Conca, oggi inAmerica; poco oltre compaiono la ‘Fuga in Egitto’ dello stesso Trevisani e l’‘Ado-razione dei Magi’ di Chiari. Se l’indicazione delle misure è esatta (nel caso del ‘Pre-sepe’ di Conca, per esempio, esse tornano al millimetro), né le dimensioni né il for-mato, quasi quadrato, coincidono con quelli della pala tedesca. Anche ammettendol’eventualità tutt’altro che impossibile, ma che non mi è stato possibile verificare, diuna riduzione sui lati, resterebbe il problema dell’altezza. Un’altra ‘Annunciazione’,“per alto” ma piccola, compare alla c. 206v., n. 103.

1 4 5 C f r. O. Michel, in Sebastiano Conca, cit., A p p e n d i c i, doc. 18, pp. 390-391; Idem, Vivre et peindre à Rome au XVIIIe siècle, Roma, 1996, p. 291.

1 4 6 Un accenno ai rapporti Trevisani-Giaquinto è in A. Zanella, op. cit., 1993.

138 APPUNTI

Dipintiitaliani a

Bückeburg

T A V O L E

40 - Guido Reni: ‘Susanna e i vecchioni’ Schloss Bückeburg, collezione Schaumburg-Lippe

II - Guido Reni: ‘Susanna e i vecchioni’ Schloss Bückeburg, collezione Schaumburg-Lippe

41 - Guido Reni: ‘Susanna e i vecchioni’ (part.)Schloss Bückeburg, collezione Schaumburg-Lippe

45 - Giovan Battista Beinaschi: ‘La Vergine porge lo scapolare a Elia’Schloss Bückeburg, collezione Schaumburg-Lippe

III - Luca Giordano: ‘Susanna e i vecchioni’ Schloss Bückeburg, collezione Schaumburg-Lippe

47 - Luca Giordano: ‘Susanna e i vecchioni’ Schloss Bückeburg, collezione Schaumburg-Lippe

48 - Luca Giordano: ‘Susanna e i vecchioni’ (part.)Schloss Bückeburg, collezione Schaumburg-Lippe

49 - Luca Giordano: ‘Apoteosi della famiglia Medici’ (part.) Firenze, palazzo Medici Riccardi

52 - Girolamo Negri: ‘Bellona’ Schloss Bückeburg, collezione Schaumburg-Lippe

54 - Girolamo Negri: ‘Allegoria della scultura’ Dublino, National Gallery of Ireland

IV - Carlo Maratta: ‘Giuditta e Oloferne’ Schloss Bückeburg, collezione Schaumburg-Lippe

55 - Carlo Maratta: ‘Giuditta e Oloferne’ Schloss Bückeburg, collezione Schaumburg-Lippe

56 - Carlo Maratta: ‘Giuditta e Oloferne’ (cartone)Roma, San Pietro, Loggia delle Benedizioni

57 - Girolamo Ferroni da Carlo Maratta: ‘Giuditta e Oloferne’, incisione

58 - Carlo Maratta: ‘Transito di San Giuseppe’Schloss Bückeburg, collezione Schaumburg-Lippe

59 - Carlo Maratta: ‘Transito di San Giuseppe’Vienna, Kunsthistorisches Museum

60 - Nicolas Dorigny da Carlo Maratta: ‘Transito di San Giuseppe’, incisione

61 - Carlo Maratta: ‘Studio di angelo inginocchiato’Berlino, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett

62 - Carlo Maratta: ‘Studio di figura a braccia conserte’Berlino, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett

63 - Carlo Maratta: ‘Apoteosi di San Carlo Borromeo’Roma, Arciconfraternita dei Lombardi

64 - Giuseppe Bartolomeo Chiari: ‘Lapidazione di Santo Stefano’Schloss Bückeburg, collezione Schaumburg-Lippe

65 - Giuseppe Bartolomeo Chiari: ‘Strage degli innocenti’Schloss Bückeburg, collezione Schaumburg-Lippe

66 - Giuseppe Bartolomeo Chiari: ‘Natività della Vergine’ Roma, Santa Maria del Suffragio

V - Giuseppe Bartolomeo Chiari: ‘Cristo e la Samaritana’Schloss Bückeburg, collezione Schaumburg-Lippe

67 - Giuseppe Bartolomeo Chiari: ‘Cristo e la Samaritana’Schloss Bückeburg, collezione Schaumburg-Lippe

68 - Giuseppe Bartolomeo Chiari: ‘Cristo e la Samaritana’ (part.)Schloss Bückeburg, collezione Schaumburg-Lippe

69 - Anonimo da Giuseppe Bartolomeo Chiari: ‘Cristo e la Samaritana’Houston, The Sarah Campbell Blaffer Foundation

70 - Giuseppe Bartolomeo Chiari: ‘Cristo e la Samaritana’ ubicazione ignota

71 - Carlo Maratta: ‘Cristo e la Samaritana’ ubicazione ignota

72 - Annibale Carracci: ‘Cristo e la Samaritana’ Budapest, Szépmüvészeti Múzeum

73 - Carlo Maratta: Studio per ‘Cristo e la Samaritana’Düsseldorf, Kunstmuseum, Graphische Sammlung

76 - Anonimo da Carlo Maratta: ‘Cristo e la Samaritana’Düsseldorf, Kunstmuseum, Graphische Sammlung

VI - Francesco Trevisani: ‘Annunciazione’Schloss Bückeburg, collezione Schaumburg-Lippe

77 - Francesco Trevisani: ‘Annunciazione’Schloss Bückeburg, collezione Schaumburg-Lippe

78 - Francesco Trevisani: ‘Annunciazione’ (part.)Schloss Bückeburg, collezione Schaumburg-Lippe

79 - Francesco Trevisani: ‘Annunciazione’ Perugia, chiesa di San Filippo Neri

80 - Francesco Trevisani: ‘Annunciazione’ Nantes, Musée des Beaux-Arts

81 - Francesco Trevisani: ‘Transito di San Giuseppe’ Roma, Sant’Ignazio

82 - Francesco Trevisani: ‘Transito di San Giuseppe’ Narni, Duomo

83 - Francesco Trevisani: ‘La beata Lucia da Narni riceve le stimmate’ (part.) Narni, Duomo