Sul tempo in Kant, in AA.VV., Il Settecento (Tempora 3, Collana di studi storici, filosofici,...

26
1 Sul tempo in Kant di Giuseppe Saponaro Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più. AGOSTINO, Confessioni Il tempo non può essere intuito esternamente, allo stesso modo in cui lo spazio non può esse- re intuito come qualcosa che sta in noi. Che co- sa sono ordunque tempo e spazio? KANT, Critica della ragione pura I. Posizione del problema Il termine italiano tempo (dal latino tempus, temporis) è fatto risalire da alcuni alla radice in- doeuropea tem, il cui senso generale è «tagliare, delimitare», come nel greco témnein, che significa anch’esso «tagliare, separare»; analogamente il tedesco Zeit, dalla radice indogermanica di, poi zit, da cui anche teilen, «spezzettare, dividere in pezzi, in sezioni». Questo termine, usato originaria- mente ed ordinariamente per indicare un particolare e concreto «momento» nel corso degli eventi, un tempo delimitato in prevalenza per scopi pratici (il tempo di iniziare o di terminare una determi- nata cosa), designa anche un «intervallo» o una «durata», più o meno ampi, nonché una successione di momenti ancora indefinita o non più delimitabile. In quanto realtà innegabile e tuttavia sfuggente ai poteri dell’uomo, il tempo è stato spesso raffigurato, prima ancora del manifestarsi della coscien- za filosofica, come una personificazione mitico-religiosa, nell’accezione di «realtà immateriale», la cui natura è da porre tra il sacro e il metafisico. Nella sua indagine sulla formazione dei concetti re- ligiosi, il filologo tedesco Hermann Usener individua nell’assegnazione storica del «nome degli dèi» uno dei mezzi cruciali con cui la cultura umana tenta di fissare e di rendere permanente ciò che altrimenti sarebbe destinato per sempre a non essere. Prima di designare una «divinità personale» (un essere individuale, un alter ego, Zeus fulminante) e, prima ancora, l’astrazione impersonale di specifici accadimenti ciclici o di operazioni abituali (il fulminare, il piovere, oppure il seminare, il partorire, il viaggiare, l’andare in guerra, corrispondenti ad altrettante «divinità particolari»), prima di tutto ciò il nome assegnato alla potenza divina si riferirebbe originariamente, secondo Usener, al- la concomitanza simultanea ed eccezionale di un forte stato emotivo (interno) e di un fattore scate- nante (esterno), ovvero alla genesi di ciò che egli descrive e definisce come una «divinità del mo- mento»: la folgore che cade dal cielo è percepita, per la prima volta, come un dio, tanto potente quanto fugace ed immediato. 1 La più piccola unità percepibile di tempo è appunto il «momento» (lat. momentum = movi- mentum, da movere «muovere»). Già nella filosofia della natura degli antichi esso designa il «mo- vente», la forza interna, la potenza intrinseca dell’essere, che si manifesta nella capacità di muovere 1 Cfr. H. USENER, Götternamen. Versuch einer Lehre von der religiösen Begriffsbildung, Cohen, Bonn, 1896 [1929 2 ]. Per una interpretazione filosofica della filologia di Usener, si veda E. CASSIRER, Linguaggio e mito. Contributo al pro- blema dei nomi degli dèi, tr. it. di V. E. Alfieri, Il Saggiatore, Milano, 1961.

Transcript of Sul tempo in Kant, in AA.VV., Il Settecento (Tempora 3, Collana di studi storici, filosofici,...

1

Sul tempo in Kant

di Giuseppe Saponaro

Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più. AGOSTINO, Confessioni Il tempo non può essere intuito esternamente, allo stesso modo in cui lo spazio non può esse-re intuito come qualcosa che sta in noi. Che co-sa sono ordunque tempo e spazio? KANT, Critica della ragione pura

I. Posizione del problema

Il termine italiano tempo (dal latino tempus, temporis) è fatto risalire da alcuni alla radice in-doeuropea tem, il cui senso generale è «tagliare, delimitare», come nel greco témnein, che significa anch’esso «tagliare, separare»; analogamente il tedesco Zeit, dalla radice indogermanica di, poi zit, da cui anche teilen, «spezzettare, dividere in pezzi, in sezioni». Questo termine, usato originaria-mente ed ordinariamente per indicare un particolare e concreto «momento» nel corso degli eventi, un tempo delimitato in prevalenza per scopi pratici (il tempo di iniziare o di terminare una determi-nata cosa), designa anche un «intervallo» o una «durata», più o meno ampi, nonché una successione di momenti ancora indefinita o non più delimitabile. In quanto realtà innegabile e tuttavia sfuggente ai poteri dell’uomo, il tempo è stato spesso raffigurato, prima ancora del manifestarsi della coscien-za filosofica, come una personificazione mitico-religiosa, nell’accezione di «realtà immateriale», la cui natura è da porre tra il sacro e il metafisico. Nella sua indagine sulla formazione dei concetti re-ligiosi, il filologo tedesco Hermann Usener individua nell’assegnazione storica del «nome degli dèi» uno dei mezzi cruciali con cui la cultura umana tenta di fissare e di rendere permanente ciò che altrimenti sarebbe destinato per sempre a non essere. Prima di designare una «divinità personale» (un essere individuale, un alter ego, Zeus fulminante) e, prima ancora, l’astrazione impersonale di specifici accadimenti ciclici o di operazioni abituali (il fulminare, il piovere, oppure il seminare, il partorire, il viaggiare, l’andare in guerra, corrispondenti ad altrettante «divinità particolari»), prima di tutto ciò il nome assegnato alla potenza divina si riferirebbe originariamente, secondo Usener, al-la concomitanza simultanea ed eccezionale di un forte stato emotivo (interno) e di un fattore scate-nante (esterno), ovvero alla genesi di ciò che egli descrive e definisce come una «divinità del mo-mento»: la folgore che cade dal cielo è percepita, per la prima volta, come un dio, tanto potente quanto fugace ed immediato.1

La più piccola unità percepibile di tempo è appunto il «momento» (lat. momentum = movi-mentum, da movere «muovere»). Già nella filosofia della natura degli antichi esso designa il «mo-vente», la forza interna, la potenza intrinseca dell’essere, che si manifesta nella capacità di muovere 1 Cfr. H. USENER, Götternamen. Versuch einer Lehre von der religiösen Begriffsbildung, Cohen, Bonn, 1896 [19292]. Per una interpretazione filosofica della filologia di Usener, si veda E. CASSIRER, Linguaggio e mito. Contributo al pro-blema dei nomi degli dèi, tr. it. di V. E. Alfieri, Il Saggiatore, Milano, 1961.

2

se stesso o altro. In senso traslato esso indica il punto temporale, l’atomo di tempo, e coincide con l’«attimo» (esito del tardo latino atomum, che è il greco atomos «indivisibile», composto di a- pri-vativo e di un derivato di témnein «tagliare, dividere», da cui, come già detto, anche tempus). In quanto frazione minima del tempo, nella quale è impossibile distinguere momenti più brevi, l’attimo fuggente esprimerebbe, al pari dell’atomo materiale, l’essenza ultima dell’essere e del tem-po. Così intesa, la realtà dell’attimo è dunque la paradossale manifestazione di un «nulla». Quest’ultimo significato del termine, una volta assunto dal piano della intuizione temporale imme-diata (strettamente sensibile) e in modo surrettizio o metaforico trasposto poi sul piano della rifles-sione intellettuale (strettamente logica o metafisica), ricompare non a caso in varie forme di misti-cismo filosofico o religioso. Così l’attimo temporale diventa il fulmineo «colpo d’occhio» (ictus oculi), e designa a vario titolo l’atto immediato, non ulteriormente scomponibile ed analizzabile, della visione dell’essenza spirituale, la quintessenza della contemplatio latina (che rende il greco theoria), oppure l’atto della intuizione intellettuale, proprio della mente divina (e, in quanto imago dei, anche della mente umana), inteso esattamente come l’atto dell’«essere uno con Dio» (unio mystica).

Proprio da ciò, in riferimento al concetto del tempo e alla sua immagine concreta, nasce lo spinoso problema filosofico della sua raffigurazione sensibile (visibilità del tempo) e della sua defi-nizione logica e scientifica (divisibilità finita o infinita del tempo). La filosofia moderna ha potuto trovare e proporre le sue risposte, solo prendendo progressivamente le distanze dalla ineffabilità mi-stica ed imboccando la via sicura della matematica (pura ed applicata) e della fisica (pura e speri-mentale). Tuttavia ciò non toglie che, persino nell’età di Newton e nel secolo dei Lumi, neppure le teste filosofiche più evolute abbiano potuto fare a meno della «divinità del momento», immaginan-do il mondo come un immenso orologio, e Dio come il grande orologiaio. Riguardo a ciò, la filoso-fia illuministica non ha fatto altro che raccogliere ed ordinare in un sistema coerente i progressi ac-cumulatisi nei secoli precedenti nei campi dell’astronomia e della cosmologia. Per tale ragione noi stessi oggi, in quanto eredi e continuatori di questa tradizione filosofico-scientifica, associamo im-mediatamente in una sintesi complessa la nozione del tempo a quella dello spazio, ed entrambe le nozioni all’idea del movimento. Con una sola differenza: ciò che per noi è diventato senso comune, rappresentò per la filosofia del XVIII secolo una faticosa conquista ed anche un gigantesco campo di battaglia.

Dopo il Settecento dunque, anche per noi il tempo designa essenzialmente, in riferimento ad una molteplicità di cose o di eventi, la loro successione seriale, ovvero il loro ordinarsi «l’uno dopo l’altro» in una direzione irreversibile, distinguendosi esso così dall’ordine spaziale del medesimo molteplice, che è invece caratterizzato dal suo essere in relazione «l’uno accanto all’altro». I carat-teri principali del tempo (come dello spazio) sono la «continuità» (la sua interna connessione, che lo rende permanente ed incessante), la «omogeneità», la «divisibilità»; esso viene anche designato come «infinito» o «finito», a seconda del punto di vista, strettamente scientifico o filosofico («meta-fisico»), con cui viene preso in considerazione. Questa definizione astratta viene sempre supportata, anche in campo scientifico, da rappresentazioni intuitive, il cui valore meramente metaforico non solo non viene sottaciuto, ma è anzi dichiarato e sottolineato, per esaltarne appunto la funzione e la pregnanza puramente «simboliche». Perché gli sia in qualche modo garantita una concreta visibilità, il tempo viene comunemente raffigurato, in quanto «struttura seriale», come una linea retta matema-tica, che si allontana ininterrottamente e all’infinito nei suoi due possibili versi, indietro (verso il passato), in avanti (verso il futuro). Ad ogni cosa reale viene assegnato il suo posto o la sua sezione su questa unica serie temporale. Con ciò viene esposto il modello del «tempo oggettivo». Questo tempo diventa in tal modo misurabile. Tuttavia viene pur sempre misurato non già il tempo in se stesso (tempo assoluto), bensì il tempo in riferimento ai corpi che in esso si muovono, il cui percor-so viene suddiviso in sezioni uguali, in modo tale che l’articolazione del moto spaziale (quantifica-zione e misurazione) renda possibile simultaneamente una delimitazione o una divisione del tempo in sezioni temporali ad essa corrispondenti (tempo relativo). Si basa esattamente su ciò il principio degli orologi particolari, il cui andamento meccanico viene regolato secondo il modello concettuale

3

del grande orologio universale, ossia secondo il movimento apparente o reale dei corpi celesti (il cielo stellato dell’astronomia). Questa misurazione matematica del tempo rende così possibile la scienza esatta della natura, ossia un sapere quantificabile, calcolabile e verificabile.

Per Kant in particolare, come sarà meglio specificato in seguito, l’immediata percezione dello spazio e del tempo, come totalità cosmiche, è una rappresentazione («intuizione sensibile») la cui certezza ed evidenza nessun ragionamento e nessuna confutazione (per semplici «concetti logici») potrebbero mai avere la forza di mettere in dubbio. In virtù di questa sua immediatezza, evidenza e necessità persuasiva, l’intuizione dello spazio e del tempo ha una propria dignità ed indipendenza, ed è posta da Kant sullo stesso piano dell’imperativo categorico: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente, fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile e-sterno, ed estende la connessione in cui mi trovo, ad una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io indivisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza […] Il primo spettacolo di una quantità in-numerevole di mondi annulla affatto [gleichsam, per così dire] la mia importanza di creatura ani-male che deve restituire nuovamente al pianeta (un semplice punto nell’universo) la materia [Mate-rie] della quale si formò, dopo essere stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale. Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una intelligenza, me-diante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile».2

In riferimento a questo «tempo oggettivo» ed alla sua definizione filosofica, il secolo XVIII ha riproposto a suo modo la stessa domanda (Che cosa è il tempo?) che già Agostino aveva formu-lato per la prima volta nel secolo V d.C., nel contesto personale della propria conversione religiosa e di una pratica della filosofia intesa essenzialmente come itinerarium mentis in Deum. Ora piutto-sto, per le ragioni già esposte, si deve correlare la questione del tempo alla questione dello spazio, ed entrambe alla fondazione e al consolidamento della verità della scienza, la quale nel secolo dei Lumi pensa ormai con la propria testa e si è resa indipendente dalla teologia e dalle verità della fede rivelata. Secondo il testamento di Galilei, la verità bisognava cercarla nel grande libro dell’universo naturale, scritto con cifre e con caratteri matematici, non già nella Bibbia.3 Il secolo XVIII fornì le sue risposte alla domanda, ma non furono certo univoche ed indiscusse. La risposta data da Kant nella Critica della ragione pura [1781 e 17872], in particolare nella sua prima importante sezione dedicata alla fondazione di una nuova scienza filosofica (l’«Estetica trascendentale», ben separata e distinta dalla «critica del gusto»), ed in parte anticipata circa dieci anni prima nel De mundi [1770],4 è il frutto di lunge e meticolose riflessioni di ordine logico, psicologico e scientifico. Egli studia e 2 I. KANT, Critica della ragion pratica, traduzione di F. Capra, introduzione di S. Landucci, Laterza, Bari, 1997, p. 353. 3 Per un approfondimento su questo punto, vedi G. SAPONARO, Sul concetto filosofico di verità in Galilei e Descartes, in AA.VV., Il Seicento, («Tempora 2», Collana di Studi Storici, Filosofici, Umanistici), Bibliosofica, Roma, 2008, pp. 45-85. 4 De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis (La forma e i principî del mondo sensibile e intelligibile) è il titolo della dissertazione pubblicamente discussa da Kant in occasione della sua ufficiale presa di servizio come pro-fessore di logica e metafisica. Quest’opera, pubblicata nel 1770, è universalmente riconosciuta dagli interpreti di Kant come il punto di passaggio dalla fase cosiddetta «pre-critica» alla fase «critica» del suo pensiero. Qui Kant ancora ritie-ne ammissibile, almeno ipoteticamente, indagare i fondamenti del mondo puramente intelligibile, ossia del mondo come sarebbe in se stesso, indipendentemente da come esso appare a noi. Se la conoscenza metafisica, per definizione, oltre-passa in modo ricorrente ed inevitabile i limiti dell’esperienza, occorre allora ammettere ed indagare, accanto al fonda-mento delle cose come esse appaiono (fenomeni), anche la forma e i principî delle cose come esse sono (noumeni). La conoscenza dei fenomeni non è meno vera della conoscenza dei noumeni o cose in sé. Tuttavia, per non incorrere in er-rori e per evitare confusioni tra le due sfere, è indispensabile delineare i limiti rispettivi della sensibilità e della ragione. Questo programma è alla base della futura Critica e coinvolgerà, come vedremo, anche il concetto del tempo.

4

confronta tra di loro le varie tesi messe in campo dai suoi contemporanei, ne analizza i pregi ed i di-fetti, le passa in rassegna con un criterio sistematico; alla fine dell’esame critico le rigetta tutte in quanto insufficienti o aporetiche, proponendone una propria e rivendicandone con orgoglio l’originalità e la fecondità.

Ridotte all’essenziale, tre sono le alternative con cui Kant deve misurarsi: (1) la prima, che Kant ascrive a Isaac Newton e Samuel Clarke, asserisce che il tempo è un

«essere reale», una «cosa indipendente», in breve un ente sussistente in se stesso [Substanz]; (2) la seconda, caldeggiata dai seguaci di René Descartes, tratta invece il tempo non esso stes-

so come una sostanza, ma come qualcosa di inerente o aderente alle cose in sé, come una determi-nazione o una proprietà della res extensa, in breve come un «accidente» [Akzidenz] delle sostanze;

(3) la terza, risalente a Gottfried Wilhelm Leibniz e alla sua scuola, comprende il tempo come una «relazione oggettiva» [objektive Relation] delle cose in sé, corrispondente peraltro al concetto empirico della successione.5

In via preliminare e precauzionale, Kant comincia col sospendere la validità di tutte e tre le al-ternative in gioco, poiché il programma della sua indagine critica gli impone, prima ancora di occu-parsi degli oggetti stessi di ogni nostra conoscenza, di riflettere («riflessione trascendentale») sul «nostro modo di conoscere gli oggetti, nel senso che tale modo di conoscenza dev’essere possibile a priori».6 Ciò significa che ci si deve concentrare non tanto sulle cose in quanto tali, quanto piuttosto sulle nostre rappresentazioni delle cose, per distinguerle quanto alla loro specie (si tratta di «intui-zioni» o di «concetti»?), alla loro origine a posteriori o a priori (sono rappresentazioni «empiri-che», tratte dall’esperienza, o troviamo la loro fonte, indipendentemente dall’esperienza, nella ra-gione «pura»?) ed alla fonte stessa (nascono immediatamente dalla «sensibilità» o dalla spontaneità dell’«intelletto»?).

Questa sospensione del giudizio sulle cose apre il campo ad una serie di riflessioni e di consi-derazioni, che all’inizio sono suscettibili anche di una descrizione puramente fenomenologica. Quando io separo dalla rappresentazione di un corpo (poniamo, per es., la rappresentazione di una mela o di una palla di biliardo) ciò che l’intelletto pensa in proposito (per es., i caratteri di sostanza, forza, divisibilità, ecc.) e similmente, ciò che al riguardo appartiene alla sensazione (per es., impe-netrabilità, durezza, colore, ecc.), in tal caso mi rimane ancora qualcosa di questa intuizione empiri-ca del corpo, cioè la rappresentazione della sua «estensione» e della sua «figura» [Gestalt] (corri-spondenti entrambe, per es., a ciò che potrebbe immaginare un pittore o un bambino mentre con la matita disegna la figura astratta della mela, o un matematico mentre pensa e traccia sulla lavagna il simbolo di una pura sfera). Così isolate ed intese, estensione e figura (ossia, la pura dimensione spaziale e la pura forma della mela o della sfera) sono in un certo senso indipendenti dalla mela rea-le o dalla reale palla di biliardo (e tali in effetti esse sono anche nella pura intenzionalità estetica del pittore o nella pura intenzionalità scientifica del matematico). In modo più adeguato ed esatto di quanto noi stessi potremmo qui esemplificare o interpretare, Kant al riguardo scrive: «[…] esten-sione e figura. Queste appartengono alla intuizione pura, che si verifica a priori nell’animo come una semplice forma della sensibilità, anche senza un oggetto reale dei sensi o della sensazione».7

Pensiamo ora ad una mela, mentre cade dall’albero, o ad una palla in movimento sul piano del biliardo. Ai puri caratteri spaziali si è aggiunta ora anche la dimensione temporale. Con gli strumen-ti rappresentativi di oggi noi potremmo anche filmare la scena e poi scomporre la sequenza in una serie di fotogrammi immobili ed isolati nello spazio, giustapponendo ciascuno di essi «l’uno accan-to all’altro» in un ordine arbitrario sul monitor del nostro computer. Ora il movimento dei corpi sembra essere scomparso, e con esso anche il loro tempo. Per ritrovarlo, occorrerebbe ricomporre le singole immagini nella giusta (non arbitraria) sequenza. Come sarebbe dunque entrata la rappresen-

5 Per un commentario più dettagliato sul concetto del tempo nella Estetica trascendentale, vedi G. MOHR, Transzenden-tale Ästhetik, §§ 4-8 (A30/B46-A49/73), in AA.VV., Immanuel Kant. Kritik der reinen Vernunft, a cura di G. Mohr e M. Willaschek, Akademie Verlag, Berlin, 1998, pp. 107-130. 6 I. KANT, Critica della ragione pura, a cura di Giorgio Colli, Adelphi Edizioni, Milano, 1976, p. 67. 7 Ivi, p. 76 (corsivo nostro).

5

tazione del tempo nella nostra mente? Quale dei nostri cinque sensi sarebbe stato responsabile di ciò? Il medesimo quesito potrebbe essere sollevato, indipendentemente dal tempo e dal movimento, anche in riferimento alla rappresentazione di puri oggetti matematici nello spazio geometrico: nel nostro esempio, una sfera il cui raggio sia pari a cm. 5. Come sarebbero dunque entrati («passati») in me il tempo, lo spazio, la sfera e il numero 5? Come sarebbe possibile giustificarne le rispettive rappresentazioni? Già nel secolo V Agostino avrebbe fornito la seguente risposta: «Io passo in ras-segna tutte le porte della mia carne e non ne trovo una per cui siano passate. Dicono gli occhi: “Se hanno colore, siamo stati noi ad annunciarle”; e le orecchie: “Se emettevano suoni, le abbiamo se-gnalate noi”; e le narici: “Se avevano odore, è attraverso noi che sono passate”; e anche il gusto di-ce: “Se non hanno sapore, non chiedere a me”. E il tatto: “Se non c’era del grosso da toccare io che ne so, se non tocco non sento”. E allora da dove mi sono venute alla memoria quelle nozioni, e per dove sono passate? Non lo so».8 Kant avrebbe presumibilmente sottoscritto questa conclusione, ma ciò sarebbe stato per lui un buon motivo per impostare in modo diverso l’intera questione.

Dal punto di vista della critica kantiana, le due principali tendenze filosofiche del XVIII seco-lo, più che risolvere, hanno finito col complicare ed offuscare il problema. I seguaci dell’empirismo (da Aristotele a Locke), per i quali nulla è nella nostra mente che non sia stato prima nel senso, de-vono concludere che le nostre rappresentazioni dello spazio e del tempo, ivi compresi gli oggetti matematici, nella misura in cui non sono riconducibili o riducibili ad oggetti dei sensi, non sono neppure riferibili a cose reali; di conseguenza, spazio, tempo e oggetti matematici non sono cose ve-re, ma null’altro che immaginazioni; quanto alle rappresentazioni stesse, la loro realtà sarebbe sol-tanto psicologica o, nel caso dei concetti, soltanto logica. Sul fronte opposto, i seguaci del razionali-smo (da Platone a Leibniz), per i quali le pure conoscenze di ragione (prime fra tutte le matemati-che) sono indipendenti dall’esperienza, devono concludere che nei sensi non vi è null’altro se non illusione [Schein, «parvenza», «inganno»] e che soltanto l’intelletto conosce la verità; di conse-guenza, spazio, tempo e oggetti matematici sono veri solo in quanto oggetti semplicemente intelli-gibili; quanto alle rappresentazioni stesse, la loro realtà non sarebbe né solo psicologica, né solo lo-gica, bensì metafisica, anzi, nel caso di Platone e delle correnti neoplatoniche, persino mistica; per supportare e giustificare una pretesa così elevata, i razionalisti devono peraltro, da una parte, am-mettere nell’uomo (come in Dio) una sorta di intuizione intellettuale (o di intelletto intuente) non accompagnata affatto dai sensi e, dall’altra, discreditare i sensi, i quali, secondo la loro opinione, non possono fare altro che confonderlo.9

Ben consapevole del problema e della sua difficoltà, Kant si propone per un verso di salva-guardare i diritti della sensibilità, senza con ciò ridurre tutto a sensazioni, per l’altro verso di salva-guardare i diritti dell’intuizione, senza con ciò indulgere alle pretese eccessive ed infondate del mi-sticismo metafisico (dell’intuizione intellettuale). Per ciò che concerne la nostra rappresentazione dello spazio, egli per primo deve fare appello a un senso speciale, da lui stesso denominato «senso esterno», il quale non ha più nulla a che fare con i cinque sensi della tradizione empiristica (sensua-listica), perché non è riducibile ad alcuno di essi, né è il risultato di una loro sommatoria; si tratte-rebbe, per l’esattezza, di «una proprietà del nostro animo [Gemüt]»: «Mediante il senso esterno (una proprietà del nostro animo), noi ci rappresentiamo gli oggetti come fuori di noi e tutti quanti nello spazio. In esso sono determinati, o determinabili, la loro figura, la loro grandezza e i loro rapporti reciproci». Questo dunque è il primo tratto positivo dello spazio. Il suo più evidente tratto negativo è invece riconducibile, almeno sul piano strettamente fenomenologico, al fatto che esso da noi stessi «non può essere intuito come qualcosa che sta in noi». Esattamente l’inverso deve ora essere am-messo ed asserito del tempo. Espresso in modo negativo: «Il tempo non può essere intuito esterna-mente». Espresso in modo positivo, anche per il tempo, Kant deve appunto appellarsi a un secondo senso speciale, il «senso interno», la cui funzione è strettamente complementare al primo: «Il senso interno, mediante cui l’animo [Gemüt] intuisce se stesso o il proprio stato interno, non fornisce, è 8 AGOSTINO, Confessioni, a cura di Roberta De Monticelli, Garzanti, Milano, 1990, pp. 361-363 (X. 10). 9 Confronta, su tutto ciò, il quarto capitolo della Dottrina trascendentale del metodo, dedicato alla «Storia della ragione pura»: I. KANT, Critica della ragione pura, cit., pp. 821-824.

6

vero, alcuna intuizione dell’anima stessa [Seele selbst], come di un oggetto [Objekt], ma si tratta tuttavia di una forma determinata [eine bestimmte Form], l’unica in base alla quale sia possibile l’intuizione dello stato interno dell’anima, cosicché tutto ciò che appartiene alle determinazioni in-terne viene rappresentato in rapporti di tempo».10

II. Confronti storiografici Per comprendere ed apprezzare l’originalità e la fecondità di questo apporto kantiano, è op-

portuno operare alcuni confronti di ordine storiografico. Sul piano strettamente nominale la distin-zione tra sensus exterior e sensus interior non è un’invenzione kantiana, ma risale alla filosofia an-tica. Già Aristotele, in opposizione ai cinque sensi esterni, chiama koiné aisthesis (nella tradizione latina, sensus communis) la coscienza unitaria interna, ovvero il potere o la facoltà di percepire si-multaneamente che noi percepiamo (una sorta di metapercezione, si potrebbe dire, o una percezione di secondo grado).11

Quanto invece alla stretta connessione del problema specifico del tempo con il senso interno, la fonte più importante è rinvenibile nelle Confessioni di Agostino, che considera il «vissuto tempo-rale» (ovvero l’esperienza soggettiva della temporalità e dei fenomeni temporali) come una «attivi-tà» del nostro senso interno: «Almeno questo ora è limpido e chiaro: né futuro né passato esistono, e solo impropriamente si dice che i tempi sono tre, passato, presente e futuro, ma più corretto sareb-be forse dire che i tempi sono tre in questo senso: presente di ciò che è passato, presente di ciò che è presente e presente di ciò che è futuro. Sì, questi tre sono in certo senso nell’anima e non vedo come possano essere altrove: il presente di ciò che è passato è la memoria [memoria], di ciò che è presen-te la percezione [contuitus], di ciò che è futuro l’aspettativa [expectatio]».12

Proiettato nel dibattito settecentesco sul tempo, questo celebre brano agostiniano è una perfet-ta confutazione della teoria della conoscenza che intende fondarsi sull’ipotesi del «rispecchiamen-to» passivo del mondo (teoria caldeggiata in particolare da aristotelici, empiristi e materialisti): ogni nostra rappresentazione interna altro non potrebbe essere se non una «copia» o una «riproduzione» (una fotocopia, diremmo noi oggi) di un originale esterno reale ed autentico, il quale ovviamente sussisterebbe in se stesso, in quanto cosa od oggetto del tutto indipendente dalla nostra rappresenta-zione. Il tempo è giustappunto l’oggetto che confuta questa teoria.13 Si potrebbe infatti rispecchiare (fotografare) qualcosa che esista attualmente, non già, ci dice Agostino, il passato e il futuro, che non esistono; e, al limite, neppure il presente, dato che ogni «attimo» (vedi sopra) è nulla. Cionon-dimeno il tempo non è per noi né una illusione né una mera immaginazione, bensì qualcosa di reale. In più la descrizione fenomenologica di Agostino mostra in particolare che passato e futuro possono essere reali solo in quanto modi della presenza ad una coscienza intuente, la quale può appunto con le operazioni specifiche e separate della memoria e della expectatio «produrre» (rendere attuale) il senso (il significato e la forma simbolica) di ciò che non è attuale. Ma tale coscienza può operare tutto ciò, solo in quanto, per sua stessa costituzione, essa già disponga (a priori, direbbe Kant) del

10 Ivi, pp. 77-78. 11 ARISTOTELE, De Anima, III, 2, 425b; in senso analogo, Cicerone fa riferimento a un tactus interior. 12 AGOSTINO, Confessioni, cit., pp. 453-455 (XI, 20). 13 Un effetto altrettanto dirompente produce in Agostino la sua fondazione delle cose puramente intelligibili, «cose di cui non otteniamo immagini attraverso i sensi [cose «non figurate»; Kant le chiamerebbe «verità a priori, verità non-empiriche»], ma che vediamo distintamente e direttamente in noi stessi, esattamente come sono», tra cui, per esempio, «le relazioni e le leggi innumerevoli dei numeri e delle misure, che non sono in alcun modo derivate da impressioni sensoriali, visto che non hanno colore suono odore, non si gustano e non si palpano»; cfr. ivi, pp. 363-365 (X. 11-12). Il problema platonico della reminiscenza delle idee diventa in Agostino il problema della funzione della memoria nell’ambito sistematico delle facoltà dell’anima, le quali finiscono col costituire una trinità di potenze ad immagine e somiglianza della trinità divina, garanzia somma ed ultima di ogni verità.

7

tempo, benché solo come «sistema» di riferimento o come «struttura» di coordinate (come pura «forma», direbbe Kant). Ciò significa che la coscienza del tempo, come pura «forma determinante» secondo la relazione interna del «prima-ora-poi», deve logicamente precedere la materia (il «deter-minabile temporale»), rappresentata dagli oggetti di esperienza passata, presente e futura. Infine, per Agostino, questi indici temporali sarebbero il necessario segno ontologico («metafisico») di un soggetto finito. A differenza del Dio creatore, la creatura sarebbe appunto finita, in primo luogo, perché il suo «colpo d’occhio» può disporre a priori solo della forma temporale, senza con ciò poter creare esso stesso anche le «cose» che sono nel tempo; in secondo luogo, perché la visione di tutto ciò che «è», per il soggetto umano finito, non è né totale né (insieme) simultanea. Tradotto in ter-mini kantiani, tutto ciò dimostrerebbe soltanto che noi disponiamo di una «intuizione sensibile», non di una «intuizione intellettuale», e che per questa ragione le nostre intuizioni formali di oggetti matematici e fisici devono tutte sottostare agli assiomi del tempo (e dello spazio): «Il tempo ha una sola dimensione: tempi differenti non sono simultanei, ma successivi (così come spazi differenti non sono successivi, bensì simultanei)».14

Anche la nostra capacità di calcolare e di misurare sia il tempo oggettivo (principio dell’orologio), sia il tempo soggettivo (la dimensione temporale dei nostri vissuti), deve necessa-riamente presupporre la forma trascendentale del tempo come principio e condizione di tutte le ap-parenze in generale.

Infine la triade delle operazioni cognitive relative al tempo (memoria, contuitus, expectatio) in qualche modo già prefigura la «trinità» agostiniana delle potenze dell’anima (Memoria, Intelletto, Volontà), che nell’itinerarium mentis in Deum viene a sua volta intenzionata come immagine della «trinità divina». Così l’atto del cogitare, per Agostino, è l’operazione costruttiva dell’intelligenza, guidata dalla volontà (l’attenzione), che consiste nel raccogliere ed ordinare gli elementi dispersi della coscienza, per conservarli nella memoria. Questo raccogliere ed ordinare certamente risuona ancora sotto la cosiddetta «unità sintetica del molteplice dell’intuizione», un concetto, quest’ultimo, alquanto complicato e denso, che è stato introdotto per la prima volta da Kant sulla scena del pen-siero critico illuministico; tuttavia, di ben altro tenore e complessità è qui la triade delle operazioni di sintesi a cui tale unità intende riferirsi.

La (prima) cosiddetta «sintesi dell’apprensione nell’intuizione» mette innanzitutto in campo il tempo, in quanto condizione formale del senso interno, e lo spazio, in quanto condizione formale del senso esterno; senza la loro congiunzione non sarebbe mai possibile costituire il molteplice co-me tale, e precisamente come contenuto «in una sola rappresentazione». Se così non fosse, ogni nostro «colpo d’occhio» disgiunto da ogni altro non ci consentirebbe mai di cogliere qualcosa come un molteplice: «In quanto contenuta in un solo istante, difatti, ogni rappresentazione non potrà mai essere altro se non un’unità assoluta».15

La (seconda) cosiddetta «sintesi della riproduzione nell’immaginazione» è inscindibilmente congiunta alla prima sintesi e presuppone una «immaginazione produttiva» come facoltà trascen-dentale: «Ora, se col pensiero io traccio una linea, o se voglio pensare il tempo che intercorre fra un mezzogiorno e l’altro, oppure se voglio semplicemente rappresentarmi un certo numero, è evidente che anzitutto io devo necessariamente afferrare nel pensiero queste molteplici rappresentazioni una dopo l’altra. Se invece il mio pensiero perdesse sempre le rappresentazioni precedenti (le prime par-ti della linea, le parti precedenti del tempo, oppure le unità rappresentate successivamente), se io non le riproducessi [proprio ciò peraltro rende possibile la memoria] mentre procedo verso le rap-presentazioni seguenti, in tal caso non potrebbe mai sorgere una rappresentazione completa, né al-cuno dei pensieri sopra menzionati, anzi, neppure potrebbero costituirsi le prime e massimamente pure rappresentazioni fondamentali dello spazio e del tempo».16

La (terza) cosiddetta «sintesi della ricognizione nel concetto» ricongiunge le prime due nell’unità di una «regola», ossia di un concetto e riferisce le nostre rappresentazioni ad un possibile 14 I. KANT, Critica della ragione pura, cit., p. 87. 15 Ivi, p. 159. 16 Ivi, pp. 164-165.

8

oggetto: «Se nel contare io dimentico, che le unità ora presenti ai miei sensi sono state da me ag-giunte gradualmente l’una all’altra, non potrò conoscere la produzione di una pluralità attraverso questa successiva addizione di una unità all’altra, e quindi non potrò neppure conoscere il numero: tale concetto, difatti, consiste unicamente nella coscienza di questa unità della sintesi. […] Così, noi pensiamo un triangolo come oggetto, quando siamo coscienti della combinazione di tre linee rette secondo una regola, in base alla quale una siffatta intuizione possa venir rappresentata sempre. Questa unità della regola, orbene, determina tutto il molteplice e lo restringe a condizioni, che ren-dono possibile l’unità dell’appercezione; ed il concetto di questa unità è la rappresentazione dell’oggetto (= x), che è da me pensato mediante i suddetti predicati di un triangolo».17

Queste tre sintesi illustrate da Kant nella sua «Deduzione trascendentale dei concetti puri dell’intelletto» ovvero delle «categorie»18 fanno infatti capo, quanto alla loro istanza ultima, non già a Dio, e neppure a una qualche altra sostanza metafisica, come la res cogitans cartesiana o la «mo-nade» leibniziana, bensì all’«Io penso» inteso in senso logico-trascendentale come «l’unità sintetica dell’appercezione». Quest’ultima, infatti, «è il punto supremo, cui si deve riattaccare ogni uso dell’intelletto, persino l’intera logica, e dopo di questa la filosofia trascendentale: questa facoltà, anzi, è l’intelletto stesso».19

In breve, rivisto ora da questo punto culminante dell’illuminismo, l’itinerarium mentis in Deum — da cui a giudizio di non pochi interpreti e storici avrebbe avuto origine la lunghissima av-ventura della modernità filosofica — si presenterebbe, se così ci è consentito di dire, come un itinerarium mentis in mente (come stato in luogo e moto in luogo, senza superflui trascendimenti o fuoriuscite dai limiti concessi), nella misura in cui la ragione stessa, senza appellarsi ad autorità o a tribunali esterni, avrebbe trovato in se stessa il fondamento sufficiente del proprio diritto e della propria autonomia. Occorrerebbe dunque cercare qui il carattere comune e la differenza specifica della filosofia del Settecento. Così, per ritornare alla puntuale connessione del problema del tempo con il senso interno, per un verso Kant sembra ritessere lo stesso filo conduttore di Agostino (ed u-scire così dal coro dei contemporanei), per altro verso sembra reciderlo, perché egli intende liberare l’intera soggettività da ogni presupposto o ipoteca di natura teologica: al concetto astratto di Dio (nella fattispecie, all’idea problematica di un «intelletto intuente» infinito) sembra ora sostituirsi, nella nuova scienza della Estetica trascendentale, il concetto del tempo puro (e dello spazio puro), inteso come la forma a priori, trascendentale, della nostra intuizione sensibile interna, anch’essa infinita.

Kant prende le distanze anche dalla psicologia empirica di derivazione inglese, veicolata in Germania da abili divulgatori e semplificatori, i quali, pur di accattivarsi le simpatie degli ignari let-tori, «sono soliti vendere l’empirico e il razionale mescolati in svariate proporzioni, a loro stessi i-gnote, in conformità ai gusti del pubblico, e che definiscono se stessi autentici pensatori».20 Kant qui allude ad alcuni esponenti della cosiddetta Popularphilosophie (Mendelssohn, Garve, Feder, Engel, Nicolai, e forse anche allo svedese Swedenborg), i quali mescolano nella loro cucina filoso-fica, in modo confuso e disordinato, aspetti logici o anche questioni metafisiche con svariati aspetti del vissuto interiore, dove il concetto del «senso interno», ovvero il semplice fenomeno della «auto-coscienza», è servito come un pasticcio instabile di «anima», «sentimento di sé», «vero», «reale», «buono», «timor di Dio», con un pizzico di antropologia, teologia, fisica e iperfisica (commercio con gli angeli e con gli spiriti dei defunti).21 Kant non è contrario alla difficile arte della divulgazio- 17 Ivi, pp. 167 e 170-171. 18 Per ragioni di spazio, qui si è preferito far riferimento soltanto alla versione esposta da Kant nella prima edizione del-la Critica. 19 Ivi, p. 159. 20 I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi [1785], a cura di Filippo Gonnelli, Laterza, Bari, 1997, p. 5. 21 Risalgono al 1766 i Sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica. Sollecitato di un parere dai suoi con-cittadini, Kant in questo ironico saggio in «stile popolare» prende sul serio l’idea di una comunione col mondo degli spiriti, i quali, benché immateriali, sarebbero nondimeno forze attive, dunque capaci di correlarsi reciprocamente in un tempo «infinito ed eterno» (affine all’eternità divina), obbedendo a «leggi pneumatiche» (alias «leggi morali»). Qualora si abbandoni il terreno solido dell’esperienza, Kant ritiene del tutto naturale rincorrere chimere e scambiare i sogni con

9

ne, tuttavia non è disposto a barattare il rigore critico con il successo a buon mercato e con i gusti del momento: «Questa condiscendenza verso concetti popolari sarebbe certo assai lodevole, quando sia prima avvenuta l’ascesa ai principî della ragione pura, e abbia raggiunto completo soddisfaci-mento; […] Ma è una assurdità senza limiti voler ammettere questa popolarità già nell’indagine prima, da cui dipende l’intera giustezza dei principî. Non solo un tale modo di procedere non può mai pretendere il titolo, raro in sommo grado, di una vera popolarità filosofica, poiché non v’è arte alcuna nell’essere chiari a tutti quando in ciò si rinunci ad ogni profonda comprensione, ma ciò fa nascere un ripugnante guazzabuglio di osservazioni raffazzonate e di principî pseudorazionali, del quale si nutrono teste vuote, dato che è pur sempre qualcosa di utilizzabile per le chiacchiere di tutti i giorni, mentre coloro che sanno comprendere si sentono confusi e, insoddisfatti, distolgono lo sguardo».22

Lo spirito illuministico della Critica (da Kant intesa e praticata nel significato etimologico ed originario del termine, dal greco krínein «distinguere, giudicare, analizzare, riflettere») nasce e si sviluppa anche in opposizione ad ogni genere di oscurità, confusione e guazzabuglio. Come si è vi-sto, già nel De mundi Kant fonda dapprima la distinzione tra mondo sensibile e mondo intelligibile, e, nell’ambito del primo, la ulteriore distinzione, nonché lo stretto rapporto di complementarità, tra il tempo e lo spazio. Tale riflessione si approfondisce e si arricchisce di ulteriori distinzioni nella Estetica trascendentale. Qui la sottilissima teoria della «idealità trascendentale/alias/realtà empirica di tempo e spazio» (vedi sotto) non vuole proporre null’altro che una analisi rigorosa delle diverse leggi formali della intuizione e una logica del soggetto, nettamente separate ed isolate da ogni sug-gestione di ordine psicologico, antropologico, estetico, morale, religioso, teologico (e teosofico).

Di conseguenza, in Kant, anche il «senso interno» non designa null’altro che la capacità dell’«animo» [Gemüt: questo termine tedesco rende il latino mens, distinguendosi nettamente da Seele «anima»] di percepire i suoi propri mutamenti, ossia i processi interni della mente. Con ciò Kant non allude ad alcun genere di introspezione psicologica o spirituale (e men che mai a poteri visionari), bensì semplicemente alla capacità, che l’animo di ognuno ha, di considerare come un oggetto le sue proprie rappresentazioni, ovvero, se si preferisce, la facoltà di fare delle proprie rap-presentazioni un oggetto. Mentre lo spazio si riferisce solo al senso esterno ed è condizione della percezione del mondo esterno, il tempo si riferisce anche al senso interno ed è condizione anche della percezione di sé (autopercezione). Tuttavia nell’Estetica trascendentale l’esposizione è ancora più selettiva e isolante. Qui infatti l’uso del concetto di «senso interno» è da Kant ristretto alla for-ma del tempo, intesa semplicemente come condizione della relazione soggettiva tra rappresentazio-ni; proprio tale forma rende possibile ogni successione in generale, sia essa matematica o empirica. Molto si è discusso, nelle interpretazioni di questa demarcazione introdotta da Kant, su un presunto primato ontologico o metafisico del tempo sullo spazio. Come sarà meglio chiarito in seguito, que-ste dispute sulla eredità kantiana di solito nascono da fraintendimenti o da preconcetti ermeneutici, e svaniscono nel nulla non appena si sia compreso che le distinzioni kantiane, apparentemente ca-villose, in questo caso non si riferisco affatto all’essere assoluto (all’«essere in quanto essere» della metafisica tradizionale), né a cose od oggetti, e neppure a classi di rappresentazioni, bensì sempli-

la realtà, come sembra accadere tutti i giorni al dotto svedese Emanuel Swedenborg. La coerenza puramente logica e il rigore sistematico, pur necessari per ogni scienza, non sono tuttavia sufficienti per fondare un sistema filosofico com-pleto, né possono, di per sé, garantire la realtà di qualcosa che è dato solo nel pensiero o nella pura immaginazione. Non potendo, a differenza delle scienze empiriche, contare sull’esperienza, la metafisica dovrebbe allora rifondarsi e ridefi-nirsi come consapevolezza sistematica dei limiti della ragione umana. «La metafisica di cui la sorte ha voluto che mi innamorassi — quantunque possa vantarmi di essere stato ricambiato solo con rari segni di favore — presenta due van-taggi. Il primo è di appagare le questioni sollevate dallo spirito investigatore, quando ricerca con la ragione le proprietà recondite delle cose. […] L’altro vantaggio è più conforme alla natura dell’intelletto umano e consiste nel vedere se il problema si riferisca a quello che possiamo sapere e quale rapporto abbia la questione coi concetti dell’esperienza, sui quali deve sempre fondarsi ogni nostro giudizio. Sotto questo aspetto la metafisica è la scienza dei limiti della ragione umana»: I. KANT, Sogni di un visionario spiegati coi sogni della metafisica, a cura di Guido Morpurgo-Tagliabue, Riz-zoli, Milano, 1982, pp. 158-159. 22 I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., pp. 49-51.

10

cemente a rapporti di complementarità tra due funzioni importanti ed ineliminabili della sensibilità, su cui si fondano (per noi) le intuizioni in generale.

Se si bada al settore di competenza della funzione del tempo e alla dimensione della sua sfera, certamente quest’ultima appare più ampia di quella riservata alla funzione dello spazio. Kant in ef-fetti sostiene che il tempo è la condizione formale, a priori, di tutte le apparenze in generale (dun-que sia interne che esterne); mentre lo spazio, in quanto forma pura di ogni intuizione esterna, è li-mitato, come condizione a priori, semplicemente ad apparenze esterne. Qui in un certo senso sem-brerebbe riaffiorare per vie traverse la contrapposizione cartesiana tra res cogitans (interna) e res extensa (esterna), nel senso che, se si potesse far astrazione da ogni dimensione spaziale, restereb-bero solo processi ideali. Descartes direbbe al riguardo: «Potrei dubitare di tutto ciò che è fuori di me, ivi compreso il mio corpo, ma non di me stesso, in quanto dubito». Sarebbe dunque fin troppo facile proiettare questa opposizione metafisica sulla relazione tra spazio e tempo, e di qui inferire la superiorità del secondo sul primo. Ma noi già sappiamo (vedi sopra) che Kant sospende la validità di ogni risposta metafisica alla domanda sul tempo, ivi compresa quella cartesiana, e che non di «sostanze» egli si occupa, ma di funzioni, ossia, per usare il suo lessico, delle «condizioni di possi-bilità» di ogni nostro rappresentare e pensare, ivi compreso lo stesso dubitare. Infatti, precisa Kant, «dato che tutte le rappresentazioni — non importa che abbiano o no come oggetto cose esterne — appartengono comunque in se stesse, come determinazioni dell’animo, allo stato interno, mentre questo stato interno cade poi sotto la condizione formale dell’intuizione interna, e quindi del tempo, il tempo allora è una condizione a priori di ogni apparenza in generale, e precisamente la condizio-ne immediata delle apparenze interne (delle nostre anime) e proprio per questo, mediatamente, an-che delle apparenze esterne».23

Per Kant, tuttavia, il tempo è certamente «condizione necessaria» della nostra esperienza in-terna, ma non anche «condizione sufficiente». Su questo punto, infatti, Kant prende esplicitamente le distanze da Cartesio in un’apposita sezione della Critica, dedicata a una puntuale «confutazione» del cosiddetto «idealismo psicologico», ossia di una particolare forma di idealismo, corrispondente esattamente alla dottrina cartesiana, che appunto mette in dubbio le apparenze esterne. Egli ritenne necessaria tale puntualizzazione, perché la sua dottrina della idealità trascendentale del tempo fu con leggerezza da non pochi lettori della Critica interpretata o fraintesa come una variante dell’idealismo cartesiano: «La dimostrazione richiesta deve quindi provare, che riguardo alle cose esterne noi abbiamo altresì esperienza, e non soltanto immaginazione; il che non potrà certo avveni-re, se non dimostrando che persino la nostra esperienza interna — indubitata secondo Cartesio — è possibile solo quando si contrapponga un’esperienza esterna».24 Di conseguenza, benché in ab-stracto distinguibili sul piano della pura riflessione trascendentale, le forme dello spazio e del tem-po rappresentano in concreto, cioè nell’atto della sintesi conoscitiva, due condizioni complementari ed inscindibili della nostra esperienza in generale.

L’idealità trascendentale del tempo (e, in modo complementare, dello spazio) costituisce dun-que, per parte sua, una delle basi elementari della possibilità dell’esperienza, nonché dei giudizi sin-tetici a priori della matematica e della fisica, nel senso che, per potere diventare oggetto di possibili esperienze, una qualsiasi cosa (per esempio, i corpi fisici studiati dalla dinamica e dalla meccanica) deve cambiare, ossia deve trovarsi in un processo. Anche nella visione generale della natura, Kant si discosta completamente dalla fisica cartesiana — la quale è fondata sulla res extensa e sulla co-municazione esterna del movimento — per sposare in pieno inizialmente il punto di vista di Leib-niz, che presuppone invece le monadi come centri di forza inestesi ed in perenne attività.25 Per Leibniz, l’essere in generale, sia dei concetti che degli oggetti, non può più essere colto nella sua datità puramente geometrica e statica, ma deve essere risolto in progressivo sviluppo: «Das “We-

23 I. KANT, Critica della ragione pura, cit., p. 90 (corsivi nostri). 24 Ivi, p. 296. 25 Kant esamina in modo critico la disputa tra leibniziani e cartesiani riguardo al calcolo della forza già nel suo primo lavoro giovanile, Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive, scritto nel 1746 e pubblicato nel 1749.

11

sen” war nur in Werden festzustellen» (L’«essere-essenza» andava fissato solo nel divenire).26 La contrapposizione astratta del «tutto è» (Parmenide) e del «tutto scorre» (Eraclito) si risolve in para-dossi ed antinomie. Invece, l’atto del fissare (= «dominare, raccogliere e collegare»)27 ciò che è nel flusso continuo della coscienza, ovvero l’atto con coi teniamo insieme (correlando) in un tutto rap-presentativo e stabile l’unità assoluta di volta in volta data in ogni attimo fuggente, è il principio e la condizione di ogni riflettere, pensare e conoscere.

Si radica qui, dunque, anche la possibilità degli stessi giudizi sintetici a priori. I principî logi-ci della identità (A = A) e della (non) contraddizione (A ≠ non-A) verrebbero per così dire superati con la formula A = non-A. Più esattamente, l’«opposizione logica» tra concetti astratti, puramente pensati (fuori del tempo e dello spazio), viene distinta dalla «opposizione reale» tra cose e forze concretamente esistenti, che è invece sempre nel tempo e nello spazio.28 In particolare, Kant sostie-ne che, senza l’intuizione del tempo, non sarebbe possibile pensare in un normale giudizio di espe-rienza la sintesi di due predicati contrapposti contraddittoriamente, «ad esempio, l’essere in un luo-go e il non essere della medesima cosa nel medesimo luogo».29 Kant ritiene altrettanto scorrette, per un verso, la tendenza ad ibridare il principio di contraddizione, quando si introduce nella sua formu-lazione la condizione del tempo e se ne limita di conseguenza la validità a rapporti di tempo (come di solito fanno gli empiristi), per altro verso, la pretesa di fondare i giudizi di esperienza solo sul principio di contraddizione (come vorrebbero i razionalisti). In altri termini, non bisogna confonde-re (né mettere sullo stesso piano) i giudizi analitici, la cui validità nel puro pensiero deve restare in-dipendente da ogni esperienza (per es., «nessun uomo incolto è colto», «nessun triangolo è circola-re»), ed i giudizi sintetici d’esperienza in generale (siano questi a priori o a posteriori), che impli-cano necessariamente la condizione del tempo: «Se io dico: un uomo, che è incolto, non è colto, in tal caso deve essere aggiunta la condizione: al tempo stesso. Colui che in un certo tempo è incolto, difatti, può benissimo essere colto in un altro tempo».30 Di conseguenza, sarebbe ambiguo e fuorvi-ante l’asserto: «un triangolo non è al tempo stesso circolare», perché da esso si dovrebbe logica-mente inferire che «un triangolo, in un certo tempo non circolare, potrebbe benissimo essere circo-lare in un altro tempo» [!?]. Così come, volendo riprendere un celebre esempio di Kant, «7 + 5 = 12» potrebbe essere «7 + 5 = non 12» in un altro tempo [!?].

I giudizi (sintetici a priori) della scienza matematica e della fisica teorica non vanno trattati, pena la caduta in aporie e paradossi, né alla stregua di giudizi puramente analitici (atemporali), né come giudizi puramente empirici (a posteriori). Emerge così, nella Estetica trascendentale, la fun-zione speciale assolta dalla nozione del tempo, intesa essa stessa come una rappresentazione né propriamente analitica (concetto discorsivo) né propriamente empirica (a posteriori, astratta dall’esperienza), bensì, appunto, come una «intuizione (interna) a priori». Infatti, senza tale condi-

26 Cfr. E. CASSIRER, Cartesio e Leibniz, tr. it. di G. A. De Toni, Laterza, Bari-Roma, 1986, p. 317 (corsivo nostro). Per l’estensione ed il passaggio di questo principio dinamico generale dal tempo fisico-naturale alla temporalità specifica-mente storica, cfr. G. SAPONARO, Appunti cassireriani sul concetto della storia, in AA.VV., «Il contesto è il filo di A-rianna». Studi in onore di Nicolao Merker, a cura di S. Gensini, R. Petrilli, G. Punzo, Edizioni ETS, Pisa, 2009, pp. 218-220. Un’applicazione dello stesso principio all’intero universo fisico, considerato in particolare esso stesso come oggetto temporale, è già il saggio del giovane Kant sulla Storia universale della natura e teoria del cielo, pubblicato nel 1755. 27 «Spazio e tempo, orbene, contengono un molteplice dell’intuizione pura a priori, ma costituiscono nondimeno le uni-che condizioni della recettività del nostro animo, sotto le quali esso può accogliere rappresentazioni di oggetti: esse quindi debbono pure modificare sempre i nostri concetti di tali oggetti. La spontaneità del nostro pensiero, tuttavia, esi-ge che questo molteplice sia dapprima in certo modo dominato, raccolto e collegato, perché si possa trarne una cono-scenza. Questo atto, io lo chiamo sintesi»: I. KANT, Critica della ragione pura, cit., p. 130 (corsivi nostri). Sulla triade delle sintesi kantiane, vedi, sopra, note 15-17. 28 Nel suo Tentativo per introdurre in filosofia il concetto delle quantità negative, pubblicato nel 1763, Kant dimostra che il calcolo delle grandezze negative (numeri negativi, accanto ed omogenei a numeri positivi: … -3, -2, -1, 0, +1, +2, +3, …, dove lo zero [= 0] non è un nihil negativum, ma un numero a tutti gli effetti), già largamente ammesso in mate-matica (algebra) e in fisica, può essere introdotto senza violare il principio di contraddizione anche in metafisica. 29 I. KANT, Critica della ragione pura, cit., p. 88. 30 I. KANT, Critica della ragione pura, cit., p. 230.

12

zione trascendentale, «nessun concetto, qualunque esso sia, potrebbe rendere comprensibile la pos-sibilità di un mutamento, cioè di una connessione in un solo e medesimo oggetto di predicati con-trapposti contraddittoriamente […]. Due determinazioni contrapposte contraddittoriamente possono ritrovarsi in un medesimo oggetto unicamente entro il tempo, cioè l’una dopo l’altra. Il nostro con-cetto di tempo spiega dunque la possibilità di tanta conoscenza sintetica a priori, quanta viene espo-sta dalla teoria generale del movimento, la quale è non poco feconda».31

I Primi principî metafisici della scienza della natura, pubblicati da Kant nel 1786, vogliono offrire alla scienza un completo sistema di filosofia naturale, le cui proposizioni fondamentali de-vono essere distinte sia da quelle esposte nella intera «critica della ragione» (che, in quanto filosofia trascendentale, intende essere solo «la propedeutica al sistema della ragione pura»32) sia dalle leggi empiriche particolari della «fisica». Il sistema comprende quattro discipline: (1) la «foronomia» (ci-nematica) tratta il moto dei corpi, indipendentemente dalle cause che lo producono, come un puro quantum e come mutamento delle relazioni tra i corpi e lo spazio; (2) la «dinamica» considera il movimento come una qualità della materia, ossia del mobile che riempie uno spazio in virtù delle forze di attrazione e di repulsione; (3) la «meccanica» tratta delle reciproche relazioni della materia; (4) infine, la «fenomenologia» si occupa della modalità del movimento e della quiete, considerati come fenomeni del senso esterno. Questo sistema delle scienze della natura è detto da Kant «meta-fisico», perché esso studia e determina la materia indipendentemente da dati empirici contingenti e si fonda esclusivamente sul sistema quadripartito delle categorie (secondo la Quantità, Qualità, Re-lazione e Modalità).33 L’applicazione dei concetti puri dell’intelletto (categorie) alla materia in mo-vimento è mediata dallo «schema trascendentale» di ogni categoria, il quale contiene e fa rappresen-tare soltanto una «determinazione a priori di tempo». Tale è, per esempio:

(1) rispetto alle categorie della quantità (Unità, Molteplicità, Totalità), il «numero», il quale rappresenta a priori l’unità sintetica del puro molteplice, ossia uno schema operativo, in conformità del quale è possibile procedere nel senso interno alla sintesi del molteplice di un’intuizione in gene-rale. Ora, appunto, io posso contare e rappresentarmi un numero, per es. arrivare fino a 5, per il semplice fatto che ho dovuto produrre il tempo nell’atto stesso di aggiungere uno dopo l’altro cin-que oggetti qualsiasi (servendomi delle dita di una mano, segnando dei punti sulla lavagna, spo-stando le palline sul pallottoliere, ecc.), posti e pensati di volta in volta come puri simboli disconti-nui della unità di misura;

(2) rispetto alle categorie della qualità (Realtà, Negazione, Limitazione), il «grado» di realtà, che in una percezione qualsiasi (di un colore, di un suono, di una pressione tattile, ecc.) può oscilla-re in modo continuo da zero (= 0) a uno (= 1) a seconda del riempimento del tempo nel flusso della coscienza rappresentativa;

(3) rispetto alle categorie della relazione, (a) la «permanenza» del reale nel tempo (Inerenza e sussistenza [substantia et accidens]), (b) la «successione» del molteplice in quanto soggetta ad una regola (Causalità e dipendenza [causa ed effetto]), (c) la «simultaneità» delle determinazioni secon-do una regola universale (Comunanza [azione reciproca tra l’agente ed il paziente]);

(4) rispetto alle categorie della modalità, (a) «la determinazione di una cosa in un qualche tempo» (Possibilità — impossibilità), (b) «l’esistenza in un determinato tempo» (Esistenza — non essere), (c) «l’esistenza in ogni tempo» (Necessità — contingenza).34

31 Ivi, p. 88. 32 Ivi, p. 67. 33 Cfr. I. KANT, Primi principî metafisici della scienza della natura, a cura di S. Marcucci, Giardini editori e stampatori in Pisa, 2003; in part. p. 28: «Io affermo […] che in ogni dottrina particolare della natura può essere trovata soltanto tanta scienza propriamente detta quanta è la matematica che si trova in essa»; e p. 31: «Lo schema per la completezza di un sistema metafisico, sia della natura in generale o della natura corporea in particolare, è la tavola delle categorie». 34 Per la dottrina specifica dello «schematismo dei concetti puri dell’intelletto» e in generale sul rapporto sche-ma/immagine (simbolo), cfr. direttamente I. KANT, Critica della ragione pura, cit., pp. 217-226. Per una guida sistema-tica alla lettura della intera Critica, vedi G. SAPONARO, Introduzione a Kant. Per comprendere Kant dal punto di vista di Kant, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2009.

13

Con questa fondazione trascendentale della propria «scienza metafisica della natura», Kant deve dunque prendere le distanze sia da Newton, il cui «tempo assoluto» è un principio unico de-terminante, ma, essendo inteso come una «sostanza» in sé e per sé, non è mai in alcun modo deter-minabile per noi;35 sia da Descartes, che considera come fattore primario (determinante e necessa-rio) la sostanza corporea (res extensa) e solo come fattore secondario (determinabile, sì, ma acci-dentale) il tempo; sia infine dallo stesso Leibniz, la cui teoria del tempo congiunta al concetto di forza rappresentativa, a dispetto di molte affinità e vicinanze, egli tenta nondimeno di integrare e di completare. Passaggio della monade da una percezione all’altra: essenzialmente, questo è il tempo per Leibniz. In quanto relazione oggettiva tra «cose in sé» («monadi» = pure sostanze individuali immateriali), il tempo è una successione determinata da leggi; in quanto relazione soggettiva, esso è solo il punto di vista con cui ogni monade pensa e si rappresenta l’unità del tutto. Per Kant, come già per Leibniz, l’universo fisico-naturale (e la sua «storia») non va compreso come il movimento di un tutto dipendente da una causa prima, che si pretenderebbe absoluta (= sciolta dal tempo) e in-sieme tuttavia nel tempo, bensì solo come una sorta di idea regolativa per la determinazione del processo delle apparenze (fenomeni, per noi), che costituisce appunto il decorso temporale. In tale contesto il tempo assoluto potrà essere pensato in modo determinato (per noi uomini, nel calcolo in-finitesimale) solo come una equazione asintotica di tutti i possibili tempi relativi. Kant eredita da Leibniz la concezione dello spazio e del tempo come puri ordinamenti ideali, ma ne sospende l’impianto sostanzialistico (la monadologia).

Nella Critica Kant esplicita nei seguenti termini le ragioni del suo accordo e del suo disaccor-do con la monadologia di Leibniz: «Riguardo alle cose in generale, inoltre, la realtà illimitata è stata considerata come la materia di ogni possibilità [il «determinabile» in generale], mentre la limitazio-ne [Einschränkung] di tale realtà (negazione) è stata considerata come la forma, mediante cui una cosa si distingue da un’altra, in conformità di concetti trascendentali. L’intelletto infatti esige anzi-tutto, che un qualcosa sia dato (almeno nel concetto), per poterlo poi determinare in un certo modo. Nel concetto dell’intelletto puro, di conseguenza, la materia precede la forma: per tale ragione, Leibniz assunse dapprima cose (monadi), e internamente una loro capacità di rappresentazione, per fondarvi sopra, in seguito, la relazione esterna di esse e la comunanza dei loro stati (cioè delle rap-presentazioni). Perciò furono possibili spazio e tempo: il primo, soltanto attraverso la relazione del-le sostanze, e il secondo, attraverso la connessione reciproca delle loro determinazioni, come ragio-ni e conseguenze. Così dovrebbe anche essere in realtà, se l’intelletto puro potesse venir riferito immediatamente agli oggetti [se l’intelletto fosse intuitivo o se le intuizioni fossero intellettuali], e se lo spazio e il tempo fossero determinazioni delle cose in se stesse. Ma se essi sono soltanto intui-zioni sensibili, in cui noi determiniamo tutti gli oggetti unicamente come apparenze, allora la forma dell’intuizione (in quanto costituzione soggettiva della sensibilità) precede ogni materia (le sensa-zioni), e quindi spazio e tempo precedono tutte le apparenze e tutti i data dell’esperienza, rendendo anzi possibile per la prima volta l’esperienza».36

III. Definizione sistematica del tempo

35 Già nel De mundi Kant respinge l’opinione dei «filosofi inglesi» (Newton e Clarke), i quali sono tra quelli che «so-stengono la realtà obiettiva del tempo», lo concepiscono «come un fluire (fluxus) continuo nell’esistere, ma senza l’esistenza di nessuna cosa (ipotesi quanto mai assurda)». Analogo trattamento è riservato alla concezione dello spazio, dagli inglesi concepito «come un ricettacolo assoluto (absolutum receptaculum) e immenso di tutte le cose possibili»; da Kant invece bollato come una «vana invenzione della ragione, poiché immagina vere relazioni infinite, senza assolu-tamente esseri in rapporto tra loro», appartenente dunque «al mondo delle favole». Cfr. I. KANT, La forma e i princìpi del mondo sensibile e del mondo intelligibile (Dissertazione del 1770), a cura di Ada Lamacchia, Rusconi Libri, Mila-no, 1995, pp. 99-101 e 109. 36 Cfr. I. KANT, Critica della ragione pura, cit., p. 339.

14

Con la sua «esposizione metafisica»37 del tempo, Kant si propone di giungere ad una defini-zione del tempo, inteso però, come si è detto sopra, non già come una «cosa in sé», bensì come «rappresentazione». Dunque, mediante l’analisi e la riflessione trascendentale, si tratta di esporre (ex-positio, da ex-ponere, «mettere fuori») i caratteri essenziali perlopiù a noi ignoti di una rappre-sentazione concettuale, che peraltro è già in nostro possesso e di cui tutti facciamo ampio uso. Il tempo indagato qui da Kant non è dunque un concetto riservato ai soli matematici. Anzi, il tempo speciale dei matematici corrisponde ad una posizione (positio, pura e semplice) rigorosa ma sempre arbitraria: in questo caso la sua definizione coincide di volta in volta con la «costruzione di un con-cetto» nella pura intuizione, trattandosi di una operazione logica che, per così dire, genera l’oggetto matematico ad essa corrispondente. Kant sostiene che i matematici non potrebbero costruire i loro concetti speciali, senza già necessariamente presupporre, ne siano essi consapevoli o meno, il tempo trascendentale, il quale, essendo propriamente un concetto filosofico, non può essere «fatto ad arbi-trio», ma solo «dato». Del resto non sarebbe possibile «mettere fuori» (ex-ponere) nulla, se non qualcosa che già sia «dato dentro». Si tratta pertanto di sapere se, così inteso, il tempo sia dato solo empiricamente (a posteriori) o già si trovi nella nostra mente (a priori); e in questo secondo caso, se esso sia dato dal nostro intelletto o dalla nostra sensibilità, cioè, se si tratti in definitiva di un vero e proprio «concetto» oppure di una «intuizione».

Già conosciamo la risposta di Kant, che potremmo ora così sintetizzare: Il tempo è una forma soggettiva della intuizione sensibile interna a priori. Questa formulazione raccoglie insieme e fissa tutti gli elementi scoperti ed evidenziati da Kant nella sua «esposizione metafisica» del tempo; quest’ultima si articola in quattro argomenti, più un quinto, che però rientra in ciò che egli chiama «esposizione trascendentale». Spetterà a questo quinto argomento chiarire, come già mostrato so-pra, che le conoscenze sintetiche a priori della matematica e della fisica sono possibili soltanto pre-supponendo come loro principio, ne siano i matematici consapevoli o meno, esattamente il concetto filosofico del tempo messo fuori mediante la sua esposizione metafisica.

Kant deve innanzitutto dimostrare la «apriorità» del tempo: a ciò sono indirizzati i primi due argomenti (a) e (b) della sua esposizione metafisica. In secondo luogo, egli deve dimostrare la «in-tuitività» del tempo: a ciò sono finalizzati i rimanenti argomenti (c) e (d).

(a) Il tempo è una rappresentazione non-empirica. Il tempo non è qualcosa di empirico, poiché noi possiamo percepire le cose nel tempo, non però il tempo in quanto tale. Si può infatti chiedere in quale tempo siano le cose, ma non in quale tempo sia il tempo. Si potrebbe anche dire che la sensibilità può essere affetta dalla «materia» percepibile, ma non dalla «forma»; oppure, con una metafora, l’occhio può vedere le cose, ma non può vedere l’occhio. Peraltro lo stesso concetto del tempo non è un comune concetto empirico, esso non è ricavabile per astrazione dalle cose tem-porali, come per es. il concetto di «rosso» dalle cose rosse. Di conseguenza, solo presupponendo già la rappresentazione del tempo, ci si può normalmente rappresentare che qualcosa sussista in un solo e medesimo tempo (simultaneamente) oppure in tempi diversi (successivamente).

(b) Il tempo è una rappresentazione necessaria. Si potrebbe argomentare ciò con un sem-plice esperimento «mentale» (o piuttosto, diremmo oggi, «fenomenologico-cognitivo»). Posso rap-presentarmi nella mente che in una esperienza qualsiasi (per esempio, in una partita di calcio) man-chino gli eventi salienti (la palla non è mai andata in rete né nel primo né nel secondo tempo; anzi, ogni giocatore è rimasto pietrificato per tutto il tempo, come una bella statuina) e tuttavia non sia mancato il tempo. Viceversa, non riesco in nessun modo ad immaginare che in una partita succeda qualcosa (per es., tre reti) e tuttavia non ci debba essere il tempo (ossia, quelle tre reti non debbano essere successive nel tempo). Detto in termini rigorosamente kantiani: «Il tempo è una rappresenta-zione necessaria, che sta a fondamento di tutte le intuizioni. Riguardo alle apparenze in generale, non si può sopprimere il tempo come tale, sebbene si possano benissimo eliminare le apparenze dal tempo. Il tempo è dunque dato a priori. Soltanto in esso è possibile una qualsiasi realtà delle appa-

37 «Con esposizione (expositio) […] intendo la rappresentazione chiara (anche se non dettagliata) di ciò che appartiene a un concetto; l’esposizione poi è metafisica, quando contiene ciò che mostra il concetto come dato a priori»: ivi, p. 78.

15

renze. Queste possono cadere tutte, ma il tempo stesso (in quanto condizione universale della loro possibilità) non può essere abolito».38

(c) Il tempo è una unità, qualcosa di singolo. Il tempo non solo non è un concetto ricavabile da una qualche esperienza che lo preceda, ma non è neppure in senso proprio un «concetto». Non possiamo infatti trattare il tempo alla stregua di un qualsiasi concetto discorsivo dell’intelletto, o, come si dice, di un concetto (per es., il «rosso» in generale) comune a più cose particolari pensate sotto di esso (per es., il papavero, la ciliegia, il sangue), dove il rosso compare di volta in volta co-me la comune nota attributiva. Ora però, tempi differenti (particolari) non sono pensati sotto, bensì propriamente nel tempo; né peraltro il tempo è nelle cose (come il rosso nelle ciliegie), bensì le cose sono nel tempo. Detto da Kant: «Tempi differenti sono semplicemente parti di un solo e medesimo tempo. Ma la rappresentazione, che può essere data soltanto da un singolo oggetto, è intuizione».39 Ciò significa che il tempo è una rappresentazione a priori, non soltanto come «forma della intuizio-ne» sensibile interna (come condizione trascendentale soggettiva), ma come intuizione esso stesso, perché non possiamo rappresentarcelo in quanto oggetto (in tal senso Kant altrove lo chiama anche «intuizione formale»), se non appunto come unità (già data) comprendente in sé un datum moltepli-ce. Difatti ogni variazione temporale riguarda non già il tempo stesso, ma soltanto le apparenze del tempo. Se si volesse attribuire al tempo stesso una successione, si dovrebbe pensare ancora un altro tempo, in cui fosse possibile questa successione. Ma a noi non possono essere dati due tempi simul-tanei e paralleli. Dunque, il tempo deve essere una unità.40

(d) Il tempo è infinito. «L’infinità del tempo non significa null’altro, se non che ogni gran-dezza determinata di tempo [per es., l’anno, il secolo, il millennio, l’era…; oppure il giorno, l’ora, il minuto, il secondo, la frazione di secondo…] è possibile soltanto attraverso limitazioni [Einschrän-kungen, tagli, sezioni di un «continuo», che a sua volta non è mai riducibile ad un «semplice» non più delimitabile, sezionabile] di un unico tempo che sta alla base. L’originaria rappresentazione di tempo deve quindi essere data come illimitata».41 Va cercato pertanto qui il fondamento della diffe-renza strutturale tra l’intuizione e il concetto. In una rappresentazione intuitiva il tutto unitario (sin-golare) immediatamente dato deve stare a fondamento delle parti e le precede; in una rappresenta-zione concettuale il tutto non è mai un continuo originario, ma sempre un composto discontinuo (com-positum), le cui parti non sono ottenute mediante limitazioni, né sono infinite. Le ore in un giorno non sono pensabili come gli attributi e le parti di un papavero. Dunque, la nostra rappresen-tazione del tempo non può essere equiparata a un concetto, ma deve essere una intuizione.

La «apriorità» e la «intuitività» del tempo essendo state così argomentate, si tratterà ora di mostrare, con il quinto argomento («esposizione trascendentale»), fino a che punto esso, così inteso, sia una condizione della possibilità di giudizi sintetici a priori. Ciò concerne in primo luogo gli «as-siomi del tempo» in generale, ossia tutti i «principî» (= «proposizioni fondamentali apodittiche») che governano i rapporti temporali, le interrelazioni tra tempi diversi nel tempo. Su tali assiomi già ci siamo soffermati in precedenza, come pure sulla fondazione della teoria generale del moto dei corpi fisici. Qui è forse opportuno precisare ancora che, dal punto di vista di Kant, gli assiomi del tempo possono essere tali, non perché essi sono stati ricavati dall’esperienza (ossia, per es., dal fatto più che evidente che tempi differenti non sono simultanei), ma perché ogni possibile esperienza li deve necessariamente presupporre come una sua condizione universale. Infatti ogni nostra esperien-za può solo dirci che, per ciò che concerne le relazioni temporali, «così stanno le cose», ma essa non potrà mai dirci che le cose «debbono» stare così «in ogni caso possibile» dell’esperienza. Gli assiomi sono dunque assiomi, in quanto «queste proposizioni sono valide come regole, in base alle quali siano in generale possibili delle esperienze, e ci istruiscono anteriormente a tali esperienze, non attraverso di esse». Essi non possono essere tratti dall’esperienza «poiché questa non fornirebbe né un’universalità rigorosa, né una certezza apodittica. Noi potremmo soltanto dire: così insegna la

38 Ivi, p. 87. 39 Ivi, p. 87. 40 Cfr., per questi ultimi argomenti, ivi, pp. 189-193, 198 e 257-258. 41 Ivi, p. 88.

16

percezione comune; e non già: così deve essere».42 Come già è stato a sufficienza indicato, Kant e-semplifica tutto ciò, riferendo il tempo alla scienza fisica, in particolare alla meccanica e, altrove, alla aritmetica; così come, con analoga procedura, riferisce il concetto dello spazio alla geometria. Lo stesso dicasi per ciò che concerne la formulazione «alterata» e «fraintesa» del principio di con-traddizione in logica, di cui pure si è già accennato sopra.

La definizione del tempo desumibile da entrambe le esposizioni (metafisica e trascendentale) concentra in sé e fissa, come si è visto, gli elementi essenziali per una risposta articolata e sistemati-ca alla nostra domanda iniziale: Che cos’è il tempo? Si tratta ora di trarre da essa le conseguenze conclusive.

Come già nel De mundi, anche nell’Estetica trascendentale Kant nega esplicitamente le tre al-ternative ontologiche per la definizione del tempo (attribuite rispettivamente a Newton, Descartes e Leibniz), per ribadire in positivo cosa esso sia: «Il tempo non è altro che la condizione soggettiva, sotto la quale tutte le intuizioni possono verificarsi in noi».43 Solo in quest’ultimo caso il tempo, in quanto pura forma, può essere rappresentato anteriormente agli oggetti, e quindi a priori. Ciò non sarebbe viceversa possibile in nessuna delle tre alternative ontologiche. Infatti, se si fa astrazione da tutte le condizioni soggettive dell’intuizione del tempo, si dovrebbe concludere (1) nel caso di Newton, che il tempo sarebbe un qualcosa (Substanz) che, pur corrispondendo perfettamente ad un ens rationis (ossia, a un concetto vuoto senza oggetto), sarebbe tuttavia reale; (2) che il tempo in quanto determinazione (nel caso di Descartes) o ordine relazionale (nel caso di Leibniz) inerente al-le cose stesse, non potrebbe precedere gli oggetti come loro condizione, né potrebbe essere cono-sciuto e intuito a priori mediante proposizioni sintetiche.

Per ovviare a tali difficoltà ed aporie, Kant deve, come già detto, coordinare il tempo al «sen-so interno», definendo ora il tempo come la forma della «intuizione di noi stessi e del nostro stato interno». In questo modo la forma del tempo deve anche assolvere ad una funzione specifica, che lo differenzia dalla forma dello spazio (visto invece, propriamente, come la forma del «senso ester-no»). A differenza dello spazio, il tempo non determina «apparenze esterne», bensì il «rapporto del-le rappresentazioni nel nostro stato interno». Esso dunque non ha un luogo, non si riferisce ad alcu-na figura e neppure ad una posizione nello spazio. Per evitare fraintendimenti, occorre precisare che con ciò Kant non intende affatto affermare che le apparenze esterne non siano determinate o deter-minabili in modo temporale. Ciò sarebbe un errore troppo grossolano da parte di Kant, ed anche in contraddizione con la precedente «esposizione trascendentale», in base alla quale ogni movimento (= mutamento di luogo) sarebbe possibile solo per mezzo del tempo e nella rappresentazione del tempo. Qui piuttosto la riflessione di Kant si concentra esclusivamente sulle differenze strutturali tra la forma-spazio e la forma-tempo, non già sui rispettivi e reciproci settori di competenza funzio-nale. Kant qui richiama l’attenzione sul fatto che «estensione», «figura», «posizione» non sono pro-priamente determinazioni temporali, bensì spaziali. In breve, Kant constata che il tempo, di per sé, non è un elemento costitutivo di rapporti spaziali, benché le «apparenze esterne» (ossia, gli oggetti e i mutamenti spaziali) siano sempre determinate anche nel tempo o in modo temporale.

Tra la forma-tempo e la forma-spazio è possibile individuare una certa reciprocità di rapporti e di funzioni, la quale tuttavia non elimina la radicale irriducibilità del tempo allo spazio, e vicever-sa. Degno di interesse e significativo è anche il fatto che tali rapporti risultino evidenti in modo par-ticolare sul piano della raffigurazione fenomenologica della forma-tempo e della forma-spazio. Questo nuovo tema è riconducibile al problema qui emergente della rappresentazione simbolica del «senso» (nella sua doppia accezione di «sensibilità» e di «significato») di «tempo» e «spazio» in quanto tali, ossia al problema della loro espressione [Ausdruck], presentazione [Darstellung] e tra-duzione [Übertragung] in una immagine concreta, giacché — come lo stesso Kant espressamente sottolinea gia nei Sogni di un visionario, parte prima dogmatica — «ogni riflessione implica l’intervento dei segni per le idee da suscitare, allo scopo di dar loro con la presenza e con

42 Ivi, p. 87. 43 Ivi, p. 89.

17

l’appoggio dei segni il necessario grado di chiarezza».44 In effetti, se tempo e spazio in quanto tali (ossia, pensati facendo astrazione da tutte le possibili cose presenti in essi) non rappresentano, come si è detto, essi stessi delle cose (non sono in alcun senso una «materia»), e se di conseguenza l’uno e l’atro devono essere intesi come una «pura forma»,45 come sarà possibile tradurli in una immagine reale? Da questo punto di vista, ciascuno di noi ancora oggi potrebbe riconoscersi in pieno nella confessione di Agostino citata all’inizio del presente lavoro. Noi intuiamo perfettamente cosa sia il tempo, ma nondimeno abbiamo una certa difficoltà nel trovare le parole e i concetti appropriati per esprimere distintamente ciò che intuiamo, per esibirlo in qualcosa di apparente e di tangibile.

Sfruttando il lessico ed il punto di vista di Kant, potremmo anche aggiungere che tutto ciò è indice dell’essenziale («naturale») disaccordo nell’uomo tra «il modo intuitivo della conoscenza» ed «il modo discorsivo». Se il tempo fosse un concetto empirico, come il concetto di «mela» o di «papavero», non avremmo difficoltà a mostrane la realtà mediante una intuizione empirica, ci baste-rebbe cogliere uno di quei frutti o di quei fiori ed esibirlo come «esempio» concreto di ciò che in-tendiamo dire e significare. Ma nella sua esposizione metafisica Kant ha già dimostrato che il tem-po non è un concetto empirico (vedi sopra). Se esso fosse invece un concetto puro dell’intelletto, cioè una categoria, come la quantità, la qualità, la sostanza, la causa, se ne dovrebbe mostrare la re-altà mediante lo schematismo, offrendogli così, come è stato fatto per tutte le categorie (vedi sopra), la corrispondente intuizione a priori, che però presupporrebbe già il tempo, essendo in questo caso lo schema, come si è mostrato sopra, null’altro che una determinazione di tempo. Qui cadremmo nel paradosso, perché lo schema (che è già tempo) dovrebbe schematizzare se stesso. Anche per tale ragione Kant, criticando in proposito Aristotele,46 non annovera tra le categorie né il tempo puro, né lo spazio puro, assegnando ad entrambi lo statuto di intuizioni, non già di concetti. Ci è offerta però, forse, una via d’uscita. Kant ritiene infatti, allontanandosi in ciò dai «logici moderni», che il modo di rappresentazione schematico sia, sì, un modo intuitivo di conoscere, ma non l’unico. Un altro ti-po possibile è il modo simbolico: «Il modo intuitivo della conoscenza dev’essere contrapposto al modo discorsivo e non a quello simbolico. Il primo può essere o schematico mediante dimostrazio-ne [ciò è proprio del pensiero matematico], oppure simbolico, in quanto rappresentazione meramen-te analogica [ciò è più proprio del pensiero filosofico]».47 Tuttavia alla rappresentazione simbolica è affidato l’arduo compito di tradurre in termini sensibili non già una intuizione (che, per Kant, non può essere di natura intellettuale, ma, in quanto intuizione umana, deve essere solo e già sensibile) bensì una «idea», ossia un concetto puro della ragione, che per definizione trascende ogni possibile esperienza e a cui non si può dare assolutamente nessuna intuizione che sia ad essa adeguata. Essa inoltre assolverebbe tale compito «precisamente a vantaggio della conoscenza teoretica», non già per scopi artistici.

Ora, l’Estetica trascendentale ha un compito analogo, perché analoghe, per struttura e per fun-zione, benché non per specie, sembrano essere in Kant le «intuizioni pure» della sensibilità e le «i-dee pure» della ragione. Le une e le altre, benché a differenti livelli, sono come occhi (forme ordi-natrici e regolative) che ci consentono di vedere, ma non possono vedere se stessi, se non grazie ad una mediazione simbolica. Dovremmo dunque aspettarci che possa applicarsi in qualche modo la rappresentazione simbolico-analogica anche all’intuizione pura. Ed esattamente ciò sembra avveni-re, quando alla forma pura del tempo, alla quale ogni intuizione empirica è inadeguata, viene non-

44 I. KANT, Sogni di un visionario, cit., p. 110. Cfr. anche il § 10 nel De mundi. 45 Non è un caso che in un altro luogo della Critica, esattamente nella sua «Tavola del nulla», Kant abbia voluto sussu-mere come forme appropriate del nulla sotto il titolo della Relazione, simboleggiato dall’ens imaginarium, esattamente il tempo e lo spazio, in quanto esempi appropriati di una «intuizione vuota senza oggetto». Cfr. I. KANT, Critica della ragione pura, cit., pp. 357-358: «La semplice forma dell’intuizione, senza sostanza, non è affatto, in sé, un oggetto, bensì la condizione semplicemente formale di esso (come apparenza): tali sono lo spazio puro ed il tempo puro, che so-no qualcosa — è vero — come forme di intuire, ma non sono affatto essi stessi oggetti, che vengano intuiti (ens imagi-narium)». Un modo tipicamente kantiano, poco metaforico, per confermare che «l’occhio può vedere le cose, ma non può vedere l’occhio» [cfr., sopra, il punto (a) della esposizione metafisica del tempo]. 46 Ivi, p. 134. 47 I. KANT, Critica del giudizio, a cura di Alberto Bosi, TEA, Milano, 1995, p. 324 (§ 59 nota).

18

dimeno sottoposta un’altra intuizione (per es., lo spazio) alla quale si applica in senso puramente analogico il procedimento seguito dalla capacità di giudizio nella rappresentazione degli schemi; in tal modo la resa schematica del tempo (la sua traduzione in una immagine spaziale) concorderebbe con la forma pura del tempo solo per la regola del procedimento, non per l’intuizione stessa, e quin-di solo per la forma della riflessione e non per il contenuto. Nella Estetica trascendentale Kant rico-nosce in modo esplicito che la rappresentazione simbolica del tempo puro deve supplire ad una mancanza del nostro modo di intuire, il quale è sensibile (umano), non già intellettuale (divino).48

Così, per es., se è vero che il matematico ha bisogno di un certo tempo per tracciare schemati-camente sulla lavagna l’immagine dei tre assi cartesiani x, y, z (simbolo dello spazio vuoto e delle sue tre dimensioni), è altrettanto vero che, appunto perché l’intuizione interna del tempo non forni-sce alcuna figura esterna, «noi cerchiamo allora di supplire a questa mancanza con analogie: rap-presentiamo la successione temporale con una linea procedente all’infinito, nella quale il molteplice costituisce una serie di una dimensione soltanto».49 In un altro punto della Critica [§ 24], Kant è an-cora più esplicito e preciso in proposito: «Noi non possiamo pensare una linea, senza tracciarla nel pensiero, non possiamo pensare un circolo, senza descriverlo, non possiamo affatto rappresentare le tre dimensioni dello spazio, senza porre tre linee perpendicolari tra loro, uscenti dal medesimo pun-to, e non possiamo rappresentare neppure il tempo, se non prestando attenzione, nel tracciare una linea retta (che vuole essere la rappresentazione esternamente figurata del tempo), soltanto a quell’atto della sintesi del molteplice con cui noi determiniamo successivamente il senso interno, e in tal modo, alla successione di questa determinazione nel senso interno».50

Questa rappresentazione figurata del tempo, proprio in quanto supplisce ad una mancanza o-riginaria e radicale, non potrà però neppure fornire con i suoi segni ed i suoi simboli un’espressione del «senso» del tempo adeguata e completa. Paradossalmente, la simbolizzazione figurata del tem-po, nella medesima operazione descrittiva con cui il tempo trova espressione nello spazio, dimostra e conferma anche la irriducibilità del primo al secondo. Infatti Kant deve sottolineare che «dalle proprietà di questa linea deduciamo tutte le proprietà del tempo, all’infuori di quella, secondo cui le parti della linea sono simultanee, mentre le parti del tempo sono sempre successive».51 La «succes-sione», dunque, è l’unico carattere temporale non esponibile in forma spaziale. Questa inadeguatez-za simbolica della rappresentazione spaziale al «significato pieno» del tempo (alla sua «idea», po-tremmo dire) è per un verso necessaria; per altro verso essa è un attestato sufficiente per considerare il tempo come una forma di intuizione indipendente e genuina, non del tutto riducibile allo spazio [e viceversa].

Nel § 24 della Critica Kant mette in guardia il lettore da un altro possibile fraintendimento. Quando il matematico traccia la sua linea sulla lavagna, egli produce, certo, il movimento di un og-getto (il gesso) nello spazio. Ora però quel movimento, «in quanto determinazione di un oggetto» spaziale (= l’apparenza e l’immagine della linea nell’intuizione empirica), non deve essere confuso con il movimento «in quanto atto del soggetto». In altri termini, occorre distinguere i diversi piani operativi della scienza empirica, della scienza matematica pura, ed anche della scienza filosofica; ma soprattutto non bisogna confondere l’osservazione empirica con la pura descrizione fenomeno-logico-trascendentale. Infatti, sottolinea Kant in un’apposita nota: «Il movimento di un oggetto nel-lo spazio non appartiene ad una scienza pura, e quindi neppure alla geometria: in effetti, che un qualcosa sia mobile, può essere conosciuto non già a priori, bensì solo attraverso l’esperienza. Il movimento come descrizione [Beschreibung] di uno spazio, invece, è un atto puro della successiva

48 «Non è data (agli uomini) un’intuizione di cose intellettive, ma solamente una conoscenza simbolica (cognitio symbo-lica) […] L’intuizione divina, invece, che è il principio (principium) degli oggetti e non il loro effetto (principiatum), poiché è indipendente, è archetipo (archetypus) ed è per questo perfettamente intellettiva». Cfr. I. KANT, La forma e i princìpi del mondo sensibile e del mondo intelligibile, cit., pp. 87-89. 49 I. KANT, Critica della ragione pura, cit., p. 89 (corsivi nostri). 50 Ivi, pp. 189-190. 51 Ivi, p. 89.

19

sintesi del molteplice nell’intuizione esterna in generale, attraverso la capacità produttiva di imma-ginazione, ed appartiene non soltanto alla geometria, ma anche alla filosofia trascendentale».52

Ciò che per la prima volta [a priori] produce il concetto ed il «senso» della «successione» [= l’unico carattere temporale non esponibile in forma spaziale] è non già il movimento inteso come determinazione di un oggetto empirico nello spazio, bensì il movimento in quanto «atto del sogget-to», ossia in quanto «sintesi del molteplice nello spazio». Ma — sottolinea ancora Kant — per comprendere ciò, occorre indirizzare lo sguardo [= la riflessione trascendentale] non già sulla mate-ria del movimento [= sul «determinabile» oggettivo nello spazio] bensì sulla forma [= sull’operazione soggettiva della «determinazione»].53 Tale conversione dello sguardo è a sua volta possibile «se facciamo astrazione da questo molteplice [nello spazio] e badiamo soltanto all’atto con cui determiniamo il senso interno secondo la sua forma [che è appunto il tempo]».54

Per ciò che concerne i rispettivi settori di competenza dello spazio e del tempo ed il loro reci-proco rapporto, Kant precisa che sono in rapporti temporali tutte le nostre rappresentazioni in quan-to rappresentazioni, ossia indipendentemente dal loro contenuto e dalla loro origine (sia questa il senso esterno, il senso interno o l’intelletto). Di conseguenza, le apparenze interne sono sì tempora-li, ma non in opposizione alle esterne;55 piuttosto, anche le apparenze in quanto tali,56 interne o e-sterne che siano, devono sottostare alla condizione formale del tempo. Esattamente a ciò intende ri-ferirsi Kant, quando afferma che il tempo è «la condizione formale, a priori, di tutte le apparenze in generale».57

Da tutto ciò Kant è ora in grado di ricavare, come ulteriore risultato, il concetto del proprio «idealismo trascendentale», detto anche «idealismo formale», perché si oppone ad ogni specie di «idealismo materiale». Questo concetto esprime e riassume in un’unica formula l’intera filosofia teoretica di Kant. Nella Dialettica trascendentale, in particolare nel capitolo sulle antinomie della ragione pura, esso gioca un ruolo decisivo, perché vi figura come la «chiave per la risoluzione della dialettica cosmologica».58 Cosa sostiene, dunque, e cosa implica la tesi dell’idealismo trascendenta-le del tempo e dello spazio (detto anche idealismo formale)? Con esemplare coerenza e rigore si-stematico, tale tesi trae l’estrema conseguenza del rigetto iniziale delle tre tesi concorrenti, ontolo-gico-sostanzialistiche, avanzate rispettivamente da Newton, Descartes e Leibniz. Se il tempo [e lo spazio] non è né esso stesso sostanza, né accidente di sostanze, né relazione oggettiva di sostanze, bensì una pura relazione soggettiva; e se per di più, in tale veste, esso è riferibile non già a «cose in sé» ma solo ad «apparenze empiriche», in quanto siamo noi stessi a stabilire e a determinare tali ri-ferimenti mediante l’intuizione sensibile; ebbene, se tutto questo è effettivamente ciò che fin qui si può a buon diritto desumere dall’intero ragionamento kantiano, allora bisogna concludere che il «tempo in sé», ontologicamente inteso e fuori di noi, è «nulla».

La stessa tesi sostengono in effetti anche non pochi mistici, scettici e spiriti religiosi, per i quali è «nulla», non solo il tempo, ma l’intero nostro passaggio temporale su questa terra. Ciò non

52 Ivi, p. 190. 53 La differenza Materia-Forma non rappresenta un’opposizione tra due concetti ontologici e neppure tra due categorie, ma si riferisce in Kant alla pura correlazione tra la coppia dei «concetti di riflessione» corrispondente alla sfera della Modalità. 54 Ivi, p. 190. 55 Esterno-Interno — al pari della coppia concettuale Materia-Forma, appartenente come si è detto alla sfera della Mo-dalità — sono anch’essi una coppia di puri «concetti di riflessione» ed appartengono alla sfera della Relazione: essi rappresentano soltanto la correlazione di due punti di vista, due modi di riflettere e di volgere lo sguardo, non già due classi assolute di rappresentazioni, di oggetti, di cose, di sostanze, di esseri. 56 Qui è opportuno puntualizzare che sul piano della riflessione trascendentale puramente estetica, fatta cioè astrazione da ogni determinazione locico-categoriale, una apparenza in quanto tale altro non è per Kant che «l’oggetto indetermi-nato di un’intuizione empirica». Cfr. ivi, p. 75. 57 Ivi, p. 90. 58 Ivi, pp. 541-546. Nella dialettica cosmologica la ragione pura cade in grave imbarazzo di fronte a se stessa, perché è apparentemente legittimata a sostenere con pari diritto due tesi reciprocamente incompatibili: per es., «Il mondo ha un inizio nel tempo, ed inoltre, riguardo allo spazio, è racchiuso entro limiti» [tesi: finitista]; «Il mondo non ha inizio, e non ha limiti nello spazio, ma è infinito, tanto a riguardo del tempo quanto a riguardo dello spazio» [antitesi: infinitista].

20

toglie che su questa stessa terra il tempo resti nondimeno «qualcosa di reale per noi», se non sul pi-ano ontologico, almeno sul piano empirico e sul piano strettamente teoretico. Il suo statuto apparter-rà allora, come insegna la Critica, alla costituzione epistemica dell’uomo in quanto soggetto cono-scente [= strutture estetiche e funzioni logico-teoretiche]. La nostra conoscenza empirica si riferisce dunque ad apparenze [= oggetti fenomenici]; e queste ultime si trovano necessariamente in relazioni temporali [e spaziali], per il fato che il nostro conoscere è sottoposto a determinate condizioni for-mali della intuizione sensibile.

«Il tempo è quindi unicamente una condizione soggettiva della nostra (umana) intuizione (la quale è sempre sensibile, in quanto cioè noi siamo modificati da oggetti), e in sé, fuori del soggetto, è nulla».59

Se — istruendo ora una sorta di esperimento filosofico mentale — noi proviamo ad eliminare tale «condizione soggettiva»; se, nella fattispecie, noi facciamo astrazione dal nostro modo (umano) di intuire noi stessi internamente [se eliminiamo il senso interno]; se facciamo astrazione dal nostro modo di abbracciare nella nostra facoltà rappresentativa altresì tutte le intuizioni esterne [se elimi-niamo anche il senso esterno]; se, ciò fatto, proviamo ora a pensare la possibile costituzione delle cose in generale, quali sarebbero «in se stesse» [e non più «per noi», quali «oggetti dei nostri sen-si»], allora ci accorgiamo che «anche il concetto di tempo svanisce», ci accorgiamo che «il tempo non inerisce agli oggetti stessi, ma semplicemente al soggetto che li intuisce»; che, dunque, «il tem-po, in sé, è nulla».

Tuttavia, riconoscere la radicale soggettività del tempo [il suo essere «per noi»], non significa per Kant privarlo di ogni realtà oggettiva, né tanto meno relegarlo nella sfera del nihil negativum, che rappresenta nella «Tavola del nulla» la sede topologica degli «oggetti vuoti senza concetto», dal punto di vista della «Modalità». Infatti: «Se io dico: nel tempo e nello spazio tanto l’intuizione degli oggetti esterni quanto anche l’intuizione di sé, rivolta all’animo, rappresentano gli oggetti esterni e l’animo così come essi modificano i nostri sensi, cioè così come essi appaiono [Er-schein-ung = fe-nomeno], in tal caso, ciò non vuol dire che questi oggetti siano una semplice illusione [Schein = parvenza, inganno]».60 Ciò vuol dire, invece, riconoscere la «validità oggettiva» del tempo «soltan-to riguardo alle apparenze [Erscheinungen]»; ossia, non già riguardo a tutte le cose in generale in-condizionatamente, ma riguardo a tutte le cose a condizione che ci appaiano, cose che possiamo as-sumere o che già assumiamo come «oggetti dei nostri sensi» attraverso l’esperienza. Solo con tale limitazione e a tale condizione «il tempo è necessariamente oggettivo». Senza queste ultime, non solo il tempo è nulla, ma il pensiero stesso si annulla o si perde in contraddizioni e paradossi.

Se si dice: «Tutte le cose in generale sono nel tempo» e si assume tale proposizione generale come principio fondativo di ogni nostro sapere, si rischia allora il paradosso logico-metafisico e l’aporia teologica. In tal caso infatti, dovendosi necessariamente comprendere tra le «cose in gene-rale» anche Sostanze o Esseri come il Tempo in sé, Dio in sé, e lo stesso Io in sé [la mia Anima], ne deriverebbe una serie di falsi problemi e di domande viziose, quali ad es.: In quale tempo è il tem-po? In quale tempo era Dio, prima che creasse il tempo? Se anche Dio deve essere nel tempo, come può aver creato il tempo? Se il giorno del giudizio universale, in quanto ultimo giorno, segnerà la fine di tutte le cose e di tutti i tempi, che ne sarà della mia anima dopo?

Se invece «si dice: tutte le cose, in quanto apparenze (oggetti dell’intuizione sensibile), sono nel tempo, la proposizione fondamentale ottiene allora la sua valida esattezza e la sua universalità a priori».61

In questo senso e per questa ragione l’idealismo trascendentale di Kant ha fin dall’inizio do-vuto opporsi al cosiddetto «realismo trascendentale»: a un punto di vista filosofico, per l’esattezza, «il quale considera tempo e spazio come qualcosa di dato in sé (indipendentemente dalla nostra sen-sibilità). Il realista trascendentale si rappresenta dunque le apparenze esterne (ammettendo la loro realtà) come cose in se stesse, che esistono indipendentemente da noi e dalla nostra sensibilità, e 59 Ivi, p. 90. 60 Ivi, p. 104. 61 Ivi, p. 91.

21

perciò, secondo concetti puri dell’intelletto, sarebbero fuori di noi. È propriamente questo realista trascendentale, che in seguito si atteggia a idealista empirico, e, dopo di aver falsamente presuppo-sto che gli oggetti dei sensi, se hanno da essere esterni, debbono trovare in se stessi, anche prescin-dendo dai sensi, la loro esistenza, considera poi da questo punto di vista tutte le rappresentazioni dei nostri sensi come insufficienti a rendere certa la realtà dei loro oggetti».62

A differenza di questo «idealismo empirico» [una sorta di «idealismo materiale» — si potreb-be aggiungere —, che ora Kant ha anche smascherato come l’altra faccia del «realismo trascenden-tale»], l’idealismo kantiano [che, abbiamo visto sopra, vuole invece specificarsi come «idealismo trascendentale» ovvero anche «idealismo formale»] non contesta in alcun modo né la realtà [Wirkli-chkeit, la realtà effettiva e dunque la verità] delle cose nello spazio e nel tempo [come vorrebbe, per es., Descartes e la sua scuola], né la possibilità di dimostrarla [come vorrebbe, per es., Berkeley o lo scetticismo di matrice inglese]. Per la stessa ragione Kant considera e tratta il suo idealismo tra-scendentale come l’altra faccia o come un sinonimo del suo «realismo empirico». Così, mentre dal punto di vista di Descartes e di Berkeley si dovrebbe concludere che le apparenze [Erscheinungen, i fenomeni empirici], di cui pur abbiamo tutti esperienza, o sono mera illusione [Schein, parvenza, sogno] oppure non possono essere provate come reali [come cose vere], il realismo empirico propu-gnato da Kant afferma invece che tutto ciò che ci appare, proprio in quanto appare a noi, deve ne-cessariamente apparire nello spazio e nel tempo: che ogni esperienza è esperienza spazio-temporale e ogni realtà esperibile è realtà spazio-temporale.63

IV. Il detto e il non detto: cosa resta?

Con il titolo del brevissimo «capitolo quarto» dedicato alla «storia della ragione pura» — con

cui si conclude la Dottrina trascendentale del metodo, e con questa l’intera Critica — Kant intende soltanto «indicare un posto, che rimane vuoto nel sistema, e dovrà in avvenire essere riempito». Spetterà dunque ai posteri l’ardua sentenza e l’arduo compito di colmare il vuoto del tempo, sal-vando il salvabile nei futuri giardini della filosofia.64 Quanto al passato, nel volgersi indietro per «gettare uno sguardo fuggevole sull’insieme dei precedenti lavori in tale campo», egli deve pur-troppo constatare che «questo insieme presenta certo ai miei occhi degli edifici, ma tutti in rovina». Avvia quindi il suo finale con il seguente bilancio: «È assai notevole — ma è naturale che non po-tesse accadere diversamente — il fatto che gli uomini, nell’infanzia della filosofia, abbiano comin-ciato dal punto in cui noi vorremmo oggi finire, cioè abbiano anzitutto studiato la conoscenza di Dio, e la speranza, o anche la natura, di un altro mondo. […] fu propriamente la teologia, che impe-gnò gradualmente sempre più la ragione semplicemente speculativa nell’occupazione, la quale è di-venuta poi tanto famosa sotto il nome di metafisica».65

Anche noi vorremmo qui terminare con il punto da cui abbiamo cominciato: lo strettissimo rapporto, tanto evidente quanto sottaciuto, tra il tempo e il divino. Anche il Settecento ha il suo Deus absconditus; e, nel caso particolare della filosofia di Kant, non è escluso che esso possa esser-si nascosto proprio sotto la sembianza del tempo, o dietro le quinte della Estetica trascendentale, magari a insaputa dello stesso autore. Un eccellente interprete e coltivatore degli orti kantiani ha di 62 Ivi, pp. 428-429. 63 Sulla importante distinzione tra Erscheinung e Schein, cfr. nella Critica anche il § 8 e l’intera sezione dedicata al rap-porto Phaenomena/Noumena. 64 Si veda anche il finale etico-teologico dei Sogni di un visionario e il suo invito a praticare la filosofia come un serio lavoro sperimentale, lasciando la vana speculazione a «teste sfaccendate»: «Siccome la nostra sorte nel mondo futuro può benissimo dipendere dal come abbiamo tenuto il nostro posto qua, concludo con le parole che Voltaire fa dire al suo onesto Candido, dopo molte discussioni inutili: “Pensiamo ai nostri affari, andiamo in giardino e lavoriamo!”». Cfr. I. KANT, Sogni di un visionario, cit., p. 165. 65 I. KANT, Critica della ragione pura, cit., pp. 821-822.

22

recente rinvenuto sotto le profonde radici della Estetica trascendentale una malcelata dimostrazione dell’esistenza di Dio.66 In modo tanto sorprendente, quanto convincente e documentato, egli evi-denzia infatti la perfetta corrispondenza tra i passi compiuti da Kant nella sua esposizione metafisi-ca del tempo (e dello spazio) ed il «cammino naturale della ragione umana». Ogni ragione umana seguirebbe tale percorso naturale, consistente essenzialmente in tre passi inequivocabili:

(1) Si inizia con la prova cosmologica; la ragione non prende lo spunto da concetti, bensì dall’esperienza comune, ponendo quindi alla base qualcosa di esistente; può trattarsi di qualsiasi co-sa contingente data nel mondo (fosse anche semplicemente la mia propria esistenza) oppure del mondo stesso; ebbene, «se qualcosa esiste, ci dovrà pur essere non solo una ragione sufficiente (re-lativa alla mia esperienza possibile, e dunque essa stessa condizionata), ma anche una ragione asso-luta (trascendente ogni possibile esperienza e dunque incondizionata), in base alla quale quella cosa esiste così, e non diversamente». Così la prova cosmologica parte sempre da qualcosa di esistente in modo contingente, per arrivare a un Essere necessario [notwendiges Wesen], inteso come il fonda-mento ultimo [letzte Grund, ragione ultima] dell’esistenza contingente.

(2) Il passo successivo è la prova ontologica, e consiste esattamente nel dimostrare che il fon-damento così raggiunto, col primo passo, è necessario non solo in senso relativo (ossia, rispetto al contingente dato in partenza nell’esperienza), bensì è necessario anche in senso assoluto, a partire dal concetto che gli è proprio e dunque indipendentemente da qualsiasi esperienza. La ragione com-pirebbe anche questo secondo passo, perché non tarda ad accorgersi che il terreno dell’esistenza da-ta «tuttavia sprofonda, quando non si appoggi sulla roccia incrollabile dell’assolutamente necessa-rio».

(3) «Anche questa roccia però vacilla senza appoggio, se al di fuori di essa e sotto di essa vi è lo spazio vuoto, e se essa stessa non riempie tutto quanto — non lasciando così più alcun posto ad alcun perché — cioè, se non è infinita quanto alla realtà».67 Ciò giustifica il terzo ed ultimo passo, che conduce ad una determinazione più ravvicinata del concetto di Dio, ossia del l’essere necessa-rio, come «omnitudo realitatis», realtà infinita onnicomprensiva, nella quale deve essere pensata ogni cosa esistente o possibile.

Tutto ciò è sufficientemente attestato dalla «storia della ragione pura» e da Kant stesso pun-tualmente ricostruito nel terzo capitolo della Dialettica trascendentale dedicato allo studio dell’«ideale della ragione pura», in particolare nella sezione terza: «Sugli argomenti della ragione speculativa, per dedurre l’esistenza di un ente supremo».

Istruiti dalle indicazioni fornite da Brand, potremmo ora illustrare brevemente le corrispon-denze e il parallelismo, da lui evidenziati, tra questi tre passi della «teologia naturale» e gli argo-menti messi in gioco dallo stesso Kant nella Estetica trascendentale, con particolare riferimento alla esposizione metafisica del tempo:

(1) Il tempo, ovvero la rappresentazione del tempo, deve stare alla base di tutte le rappresen-tazioni, ivi compresa la rappresentazione di me stesso. Le relazioni particolari e contingenti del «simultaneo», del «prima», del «poi» presuppongono già il tempo come loro fondamento, perché esse sono possibili solo attraverso il tempo.68 Ciò implica la necessità universale della rappresenta-zione del tempo, in quanto è entrato in gioco [come nella prova cosmologica] il principio di ragion sufficiente [Grund-Folge-Beziehung, relazione fondamento-conseguenza]. Infatti, come già è stato

66 Cfr. R. BRANDT, Immanuel Kant – Was bleibt?, Felix Meiner Verlag, Hamburg, 2010, in particolare, pp. 15-65, dedi-cate ad una discussione ed interpretazione dei problemi ancora aperti della «Estetica trascendentale»; per un commenta-rio più puntuale sulla esposizione metafisica dello spazio, vedi anche ID., Transzendentale Ästhetik, §§ 1-3, in AA.VV., Immanuel Kant, cit., pp. 81-106. 67 I. KANT, Critica della ragione pura, cit., pp. 613-614. 68 Nella «storia della ragione pura» Agostino sarebbe stato uno dei primi ad evidenziare l’«apriorità» del tempo, sempli-cemente indugiando sul primo passo del «cammino naturale della ragione» (cfr., sopra, la sezione seconda del presente lavoro, dedicata ai «confronti storiografici). In ciascuno di noi si celerebbe un Agostino o un Kant, anche se non siamo tenuti a saperlo o a scoprirlo in ogni momento: «Questo è il cammino naturale, orbene, seguito da ogni ragione umana, persino dalla più comune, sebbene non si possa dire che ogni ragione persista in tale cammino» (Ivi, p. 612).

23

ampiamente illustrato, «il tempo è una rappresentazione necessaria, che sta a fondamento di tutte le intuizioni».69

(2) La rappresentazione del tempo è per sé necessaria sempre e comunque, anche qualora venga soppresso da essa ogni contenuto: è rappresentabile la non esistenza del contenuto del tempo, ma in nessun caso la non esistenza della forma del tempo [vedi, sopra, il punto (b) della esposizione metafisica]. Questa insopprimibilità della rappresentazione del tempo, anche in assenza delle appa-renze temporali rispetto a cui essa fungerebbe tuttavia da fondamento, rende pensabile la forma-tempo come forma isolata da questa sua funzione. Ciò significa che la necessità del tempo non è più solo relativa al contingente, ma è invece indipendente da quest’ultimo, e dunque si dimostra come una necessità assoluta. [Qualcosa di analogo si otterrebbe con la prova ontologica, la quale mira a dimostrare la necessità di Dio per sé, dunque senza ricorrere alla creazione o mettere in relazione il suo puro concetto con il creato. Qui la ragione sarebbe naturalmente indotta a pensare il fondamen-to insopprimibile di tutte le cose reali o possibili come qualcosa di necessario, non soltanto relati-vamente alle cose contingenti di cui è fondamento, ma anche assolutamente in virtù del suo puro concetto]. Il tempo sarebbe dunque «ciò che resta», a dispetto di ogni negazione; ovvero il Datum residuale ultimo della nostra facoltà rappresentativa, [quasi un omologo del Faktum della ragione pratica] che si rivela ora assolutamente insopprimibile ed immutabile. Si porrà di conseguenza il problema di come si possa indicare e mostrare la realtà teoretica di una rappresentazione che è pura di per sé, ossia di una forma a priori che è comunque rappresentabile, benché vuota di ogni conte-nuto.

(3) Che genere di rappresentazione potrà mai essere questa? Già conosciamo la risposta di Kant: non può trattarsi di un concetto, bensì di una intuizione pura, ovvero di una forma dell’intuizione; infatti tempi differenti [come pure spazi differenti] sono sempre soltanto parti coor-dinate di un unico e medesimo tempo unidimensionale [o di un unico e medesimo spazio tridimen-sionale], mentre concetti differenti sono gerarchicamente subordinati tra di loro. Qui la vuota forma riconquista, per così dire, il suo totale contenuto, ma non più mediante la relazione fondamento-conseguenza, come nel punto (1) (prova cosmologica), bensì mediante il puro «inesse», (essere in). Qui dunque la struttura totalizzante ed unica della intuizione temporale si presenta chiaramente co-me un omologo della totalità teologica intesa come «omnitudo realitatis». E ciò è possibile, perché entrano in gioco il principio della «determinazione completa» e l’«ideale trascendentale» (proto-typon transscendentale), secondo cui l’idea di Dio «non è dunque altro se non la rappresentazione dell’insieme di ogni realtà, ossia, non già semplicemente un concetto, che comprenda sotto di sé tut-ti i predicati, rispetto al loro contenuto trascendentale, bensì un concetto che comprende tali predi-cati in sé. E la determinazione completa di ogni cosa si fonda sulla limitazione [Einschränkung] di questo totale della realtà […] Tutta la molteplicità delle cose non è altro se non una corrispondente varietà di modi di limitare il concetto della realtà suprema, che è il sostrato comune delle cose; allo stesso modo, tutte le figure sono possibili soltanto come modi diversi di limitare lo spazio infinito [e allo stesso modo, potremmo aggiungere noi, tutti i tempi particolari sono possibili soltanto come modi diversi di limitare il tempo infinito]».70.

Nel De mundi [§ 22, scolio] e in via del tutto provvisoria (chiudendosi, per così dire, in una parentesi) Kant accorda a se stesso la licenza di oltrepassare pur di poco i limiti della certezza apo-dittica (assolutamente inderogabile in metafisica), per indugiare su certi argomenti che si riferiscono sia alle leggi dell’intuizione sensibile (spazio e tempo) sia alle cause ultime conoscibili solo con l’intelletto (Dio). Egli giunge qui ad ipotizzare che la mente umana non potrebbe cogliere l’infinità dello spazio e del tempo, se non fosse in qualche modo essa stessa sostenuta (sustentatur) dalla stessa potenza infinita (vi infinita) di un essere unico (Dio), che causa tale infinità e che in questa insieme nello stesso tempo si manifesta come fenomeno. Sicché il concetto del tempo, come tempo unico, infinito, immutabile, nel quale tutte le cose sono e durano, altro non sarebbe che l’eternità fenomenica (aeternitas paenomenon) della causa generale. Analogamente, lo spazio si potrebbe 69 Ivi, p. 87 (corsivo nostro). 70 Ivi, pp. 607-608.

24

chiamare onnipresenza fenomenica (omnipraesentia phaenomenon). Ciò posto ed ipotizzato nel pu-ro ed arbitrario pensiero, Kant sospende però subito questa sua naturale e spontanea licenza teoreti-ca, liberandosi dall’abbraccio della parentesi mistica in cui si era ipoteticamente rinchiuso: «Ma sembra più prudente, date le conoscenze a noi concesse dai limiti del nostro intelletto, scegliere un posto di rifugio [una «modesta casa d’abitazione sulla terra della verità», magari con un piccolo giardino da coltivare], piuttosto che avventurarci nell’alto mare di tali indagini mistiche, come fece il Malebranche, il cui pensiero è di poco lontano da quello che qui si espone: noi vediamo tutte le cose in Dio».71

Com’è noto, un punto di partenza ed un punto d’arrivo della Critica è la distinzione tra la me-tafisica, in quanto disposizione naturale (metaphysica naturalis), e la metafisica in quanto scienza. Spinta da un proprio bisogno, la ragione umana avanza irresistibilmente, sino a delle questioni la cui risposta trascende ogni possibile esperienza (Cos’è il tempo? Il mondo ha avuto un’origine o sussiste sin dall’eternità? C’è un Dio? ). Ciò è un fatto naturale ed incontestabile. Così intesa, «una qualche metafisica è realmente esistita sempre in tutti gli uomini, non appena la ragione si è estesa in essi fino alla speculazione, ed una qualche metafisica esisterà sempre negli uomini».72 L’esistenza di tale disposizione naturale non è tuttavia una garanzia sufficiente per considerare fon-data e vera ogni nostra speculazione. Così, per es., il fatto che io giunga a pensare l’identità tra Dio e il tempo, non significa che io abbia di tali oggetti del pensiero una conoscenza teoretica certa e un sapere vero e proprio. Pensare e conoscere non sono, per Kant, esattamente la stessa cosa. Dunque, non ci si deve stupire che la Critica, con estremo rigore e serietà, ponga da un lato l’idea (il concet-to puro) di Dio nella Dialettica trascendentale, dall’altro lato l’intuizione pura del tempo nella Este-tica trascendentale — che rappresentano, per così dire, l’ultimo piano ed in piano terra dell’intero edificio — considerandoli rispettivamente come un pensiero necessario la prima, e come una intui-zione non meno necessaria la seconda; e tuttavia concluda anche che né la prima conosca Dio, né la seconda conosca il tempo, rispettivamente, come un Essere realmente esistente. Sopra abbiamo a lungo documentato ed illustrato il senso di questo esito per quanto riguarda l’intuizione pura del tempo. Non abbiamo bisogno di dilungarci qui anche sull’idea di Dio.

La riflessione trascendentale sulla rappresentazione del tempo non vuole certo essere una in-trospezione meramente psicologica, né potrebbe esserlo. Dovendo comunque muoversi solo sul pi-ano empirico, questo tipo di indagini cosiddette psichiche o psico-fisiche potranno al massimo ap-prodare a generalizzazioni desumibili da particolari esperienze, la cui validità sarà di conseguenza sempre solo contingente: si potrà a posteriori solo dire «finora le cose stanno così», non già a priori «così deve sempre e per tutti essere». Con Kant invece noi ci muoviamo, come abbiamo ampiamen-te illustrato, nell’ambito di una «esposizione metafisica». Solo su tale piano si può affermare, come appunto fa Kant, (a) che il tempo [e lo spazio] è una rappresentazione necessaria a priori [ossia, una rappresentazione non desumibile da tale o talaltra localizzazione spazio-temporale data di volta in volta in modo empirico, da tale o talaltra esperienza di ciò che è successivo o simultaneo, e anche di ciò che è qui in un certo spazio fuori di me o fuori di qui] e (b) che, così inteso, il tempo sta a fondamento [zum Grunde] di tutte le intuizioni, in quanto rende possibili, quali sue conseguenze, tutte le sensazioni e le esperienze empiriche. Esso è dunque trattato come un principio e una condi-zione, non già come un principiato e un condizionato. Da ciò consegue però anche (c) che, se ogni ambito dell’esperienza, sia essa reale o possibile, esterna o interna, deve necessariamente presup-porre la rappresentazione del tempo [e dello spazio], questa tuttavia, proprio in quanto condizione e principio dell’esperienza, non può mai essa stessa essere oggetto di esperienza: in tal senso essa co-stituisce un «principio a priori» ed è necessaria.

Il tempo puro non può, per così dire, essere oggetto di se stesso né nell’esperienza, per le ra-gioni appena dette, né tanto meno fuori o prima di ogni esperienza, perché fuori dell’esperienza non si darebbe nessun oggetto, e prima del tempo nessun tempo. 71 , Cfr. I. KANT, La forma e i princìpi del mondo sensibile e del mondo intelligibile (Dissertazione del 1770), cit., pp. 127-129. 72 I. KANT, Critica della ragione pura, cit., p. 64.

25

Dunque sarebbe appropriato sostenere che per Kant non c’è alcuna possibile cosa in sé (nes-sun presunto tempo in sé) a cui la rappresentazione o l’intuizione del tempo possa riferirsi come al proprio oggetto; ciò però non implica affatto che questo doppio tempo sia automaticamente riduci-bile ad un’unica identica cosa sul piano ontologico, e che sia lecito incorporare il tempo-materia nel tempo-forma alla stregua di un «oggetto trascendentale» in un «soggetto trascendentale». Sa-rebbe davvero una vana occupazione per «teste sfaccendate», voler infine assegnare al tempo-materia così incorporato il compito puramente formale di disporre in un certo ordine un presunto «molteplice pre-temporale», che a sua volta, fuori e prima del tempo, eserciterebbe attraverso sen-sazioni la sua influenza sul soggetto! L’esposizione kantiana è, certo, «metafisica», ma non in que-sto senso.

Peraltro, come pure si è detto, tale esposizione intende essere in senso stretto una «ex-positio», non già una Demonstration, e neppure un Beweis [una prova]. Essa tenta di formulare in termini filosofici e mediante la riflessione filosofica («riflessione naturale» e «riflessione trascen-dentale») una definizione del tempo il più possibile adeguata, «chiara (anche se non dettagliata)»,73 al fine di spiegare ed illuminare [Erklärung e Aufklärung] un qualcosa che è già dato (datum) nella nostra mente; e di cui, in quanto appunto già dato, sarebbe paradossale ed insensato voler fornire anche una dimostrazione di esistenza. Un lettore attento ed esperto di Kant potrà pur riconoscere dietro il «fondo estetico» della esposizione metafisica anche un «sottofondo teologico naturale», ma non potrà incorrere in una «anfibolia», non potrà cioè scambiare o identificare (misticamente) il sensibile con l’intelligibile, il fenomeno con il noumeno. Esposto alla luce della critica (ex-ponere, mettere fuori con evidenza e distinzione) come un datum della sensibilità e dunque come una intui-zione, il tempo non ha più bisogno anche di una prova logica [Beweis] della sua esistenza, quasi si trattasse di un concetto dell’intelletto puro o della ragione pura, o di un parto del pensiero. Esso non avrebbe bisogno neppure di una dimostrazione strettamente matematica [Demonstration], poiché, come tempestivamente mostra la «ex-positio trascendentale», ogni dimostrazione matematica deve già presupporre l’intuizione, e dunque il tempo.

Ora — questo potrà essere il passo successivo di Kant — poiché il tempo puro sta a fonda-mento di tutte le intuizioni (pure o non pure che siano), tutte le determinazioni formali dell’intuizione pura del tempo [e dello spazio] — per es., quelle introdotte o prodotte, per costru-zione di concetti, dalla scienza matematica e fisica — varranno automaticamente anche per le intui-zioni empiriche reali, e per i contenuti dati nel mondo dell’esperienza e dell’apparenza sensibile.

Estetica e Logica non sono due separati in casa, ma due potenze complementari e solidali. L’Estetica trascendentale è un «organon» che ha bisogno di un «canone»; la Logica trascendentale, al contrario, è un «canone» che ha bisogno di un «organon». Si potrebbe anche affermare, come lo stesso Brandt suggerisce, che, nel campo della filosofia teoretica, l’intuizione pura soggettiva del tempo [e dello spazio] è la «ratio essendi» della geometria euclidea, e questa è in verità la «ratio cognoscendi» dell’intuizione pura spazio-temporale; analogamente, nell’ambito della filosofia pra-tica, la legge morale (il Faktum dell’imperativo categorico) sarà la «ratio cognoscendi» della liber-tà, la quale a sua volta è la «ratio essendi» della legge morale. Per questa ragione il «cielo stellato sopra di me» e «la legge morale in me» sono e resteranno tra loro in perfetta armonia.

Kant non vuole né nobilitare la sensibilità e l’intuizione, divinizzandole (e sostituendole al pensiero), né degradare l’intelletto, subordinandolo ai sensi e all’empirico. E neppure intende stabi-lire una possibile pace o «armonia» tra le due principali facoltà della mente umana, andandone a cercare il fondamento ultimo e unitario in un principio estraneo e superiore alla ragione stessa. Per Kant, la civitas dei può essere solo una civitas mentis. E l’illuminismo (= «Sapere aude! Abbi il co-raggio di servirti della tua intelligenza!»74) deve distinguersi e prendere le distanze da ogni forma di illuminatismo (= itinerarium mentis in Deum).

73 Cfr., sopra, nota 37. 74 I KANT, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, trad. it. a cura di G. Solari e G. Vidari, Utet, Torino, 19652, p. 141.

26

Dio, la cui somma intelligenza è atto di creazione («fiat lux» e la luce è), conosce ogni cosa in modo intuitivo; egli non ha bisogno di perdersi in riflessioni, giudizi, definizioni, ragionamenti, di-mostrazioni, come invece deve fare l’uomo, il cui intelletto è solo discorsivo e la cui capacità intui-tiva è solo sensibile: «La nostra natura è costituita in modo tale, che l’intuizione non può mai essere altrimenti che sensibile, ossia contiene soltanto il modo [tempo e spazio] in cui noi siamo modificati da oggetti. La facoltà di pensare l’oggetto dell’intuizione sensibile, per contro, è l’intelletto [la fa-coltà di produrre in modo autonomo rappresentazioni, ossia la spontaneità della conoscenza]. Nes-suna di queste due facoltà dev’essere anteposta all’altra. Senza sensibilità nessun oggetto ci sarebbe dato, e senza intelletto nessun oggetto sarebbe pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le in-tuizioni senza concetti sono cieche. È perciò altrettanto necessario il rendere sensibili i propri con-cetti (cioè aggiungere ad essi l’oggetto dell’intuizione), quanto il rendersi intelligibili le proprie in-tuizioni (cioè sottoporle a concetti). Entrambe queste facoltà o capacità non possono inoltre scam-biare le loro funzioni. L’intelletto non può intuire nulla, e i sensi non possono pensare nulla. La co-noscenza può sorgere soltanto dalla loro riunione».75

Da questo punto di vita, incolmabile è la distanza tra il creatore e la creatura. C’è tuttavia, se-condo Kant, un carattere specifico della capacità intuitiva in generale — fatta cioè astrazione dalla sua potenza o dalla sua estensione — che in un certo senso accomunerebbe Dio e l’uomo: l’intuizione in quanto tale, sia essa intellettuale o sensibile, sia essa divina o umana, sarebbe co-munque esente da errori. Per questa ragione le elementari («sublimi») conoscenze matematiche, nella misura in cui presuppongono l’intuizione pura e fondano in questa le proprie costruzioni, defi-nizioni, proposizioni e dimostrazioni, sono sempre, con sorprendente facilità, da tutti accettate e ri-conosciute come verità immediate, evidenti, indubitabili e fuori discussione. Così, per Kant, come già per Galilei,76 l’intuizione del tempo [e dello spazio] acquista una dignità fondativa e un grado di certezza (immune da ogni dubbio, metodico o sistematico) nell’ambito della Estetica trascendentale pari a quelli assicurati all’«Io penso» nell’ambito della Logica trascendentale, e alla legge morale nel campo della filosofia pratica [autonomia della Volontà].

In quanto apparenze empiriche (corporee e psichiche), noi uomini, al pari di tutte le apparen-ze, non possiamo che essere nel tempo [e nello spazio]. Ma se, in quanto «forma assoluta ed origi-naria», non noi siamo nel tempo, bensì il «tempo» è in noi [e lo spazio; e l’Io penso; e la legge mo-rale], allora è come se in noi fosse anche Dio. Per questa sottaciuta77 prova della esistenza di Dio, Kant, a differenza di Galilei e di Giordano Bruno, non fu nel Settecento censurato o condannato, né meriterebbe, benché legittimamente criticato, di essere condannato o censurato da noi, oggi.

75 I I. KANT, Critica della ragione pura, cit., p. 109. 76 Galilei credette di aver individuato e scoperto un punto di contatto tra uomo e Dio nell’«uso intensivo» dell’intelligenza matematica, ma dovette anche ripagare con la pubblica condanna e con l’abiura la sua eretica presun-zione. In campo matematico noi giungiamo alla comprensione della necessità: e un gradino più elevato non sarebbe possibile né esigere e neppure inventare: «[…] e tali sono le scienze matematiche pure: delle quali l’intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di più, perché le sa tutte; ma di quelle poche intese dall’intelletto umano credo, che la co-gnizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, perché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore». GALILEI, Dialogo intorno ai due massimi sistemi (prima giornata), cit. in G. SA-PONARO, Sul concetto filosofico di verità in Galilei e Descartes, cit., p. 61. 77 «Ritrattare e rinnegare la propria intima convinzione è abietto; […] e se tutto ciò che uno dice dev’essere vero, non perciò è un dovere dire pubblicamente ogni verità»; «in verità, io penso, con la più chiara convinzione e per mia grande soddisfazione, molte cose che non avrò mai il coraggio di dire; ma non dirò mai qualcosa che non pensi», cit. in IMMA-NUEL KANT, BENJAMIN CONSTANT, La verità e la menzogna. Dialogo sulla fondazione morale della politica, a cura di A. Tagliapietra, Bruno Mondadori, Milano, 1996, pp. 82-86.