Idea e problema della storia nell’Ottocento europeo, in AA.VV., L’Ottocento (Tempora 4, Collana...

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1 Idea e problema della storia nell’ Ottocento di Giuseppe Saponaro L’uomo non ha una natura; ciò che egli ha è … una storia. ORTEGA Y GASSET «Storicismo», nell’uso scientifico della parola, è l’affermazione che la vita e la realtà è storia e nient’altro che storia. BENEDETTO CROCE Per possedere il mondo della cultura bisogna riconquistarlo incessantemente per mezzo del ricordo storico. Ora, il ri- cordo non consiste in una semplice riproduzione; esso è una nuova sintesi intellettuale, è un atto costruttivo. […] La do- te del grande storico è di riportare tutti i meri fatti al loro fieri, tutti i prodotti ai processi donde sono derivati, tutte le cose e le istituzioni storiche alle corrispondenti energie cre- ative. ERNST CASSIRER I. Posizione del problema L’Ottocento ha voluto riconoscere se stesso come il «secolo della storia». Un senso spiccato per tutto ciò che è «storico» o è suscettibile di essere trattato come tale, uno sviluppo considerevole e vario delle indagini e degli studi in tale campo della cultura, la stessa determinazione della «verità storica» e dell’oggetto della storiografia quali compiti privilegiati e ineludibili della riflessione filo- sofica: sarebbero questi i tratti che distinguono e caratterizzano tale epoca rispetto a tutte le prece- denti. In ciò andrebbe dunque posto e riconosciuto il suo autentico titolo di gloria, come peraltro at- testa il suo stesso atto di nascita, che ne vorrebbe individuare fin dall’inizio anche il merito: tanto appassionata, sentimentale e storica sarebbe stata l’«età romantica» quanto distaccato, freddo e non storico (persino «antistorico») il «secolo dei lumi». Nel corso del Settecento, dapprima la vaga «aspirazione», poi, tradotta in ogni lingua, la «pa- rola», infine la pura «idea» di un’età illuminata si diffusero ovunque in Europa, ma fu necessario aspettare la fine del secolo perché si formulasse pubblicamente in Germania la domanda filosofica sul suo «significato»: Che cos’è l’Illuminismo? La medesima cosa si potrebbe affermare per le a- spettative riposte nell’«idea di una storia universale del genere umano», con cui l’Ottocento in po- lemica con il pensiero illuministico iniziò il suo glorioso percorso. Anche in questo caso, solo verso la fine del secolo fu possibile avviare una riflessione critica più approfondita sui risultati realmente ottenuti, prenderne coscienza e aprire pubblicamente il dibattito su una questione filosofica nuova: Che cos’è lo storicismo? Fu dunque vera gloria? Spetterà ai posteri l’ardua sentenza. Un primo giudizio in proposito si profilerà in particolare nel corso della discussione novecentesca sulla totalità delle «scienze dello spirito» [Geisteswissenschaften], tra le quali rientrerebbe anche la scienza della storia, benché ridi- mensionata parecchio quanto alle sue pretese ottocentesche e ai suoi diritti. Già nella seconda metà dell’Ottocento, mentre si assiste a una grande fioritura di ricerche storiografiche in Germania — e

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Idea e problema della storia nell’ Ottocento

di

Giuseppe Saponaro

L’uomo non ha una natura; ciò che egli ha è … una storia. ORTEGA Y GASSET «Storicismo», nell’uso scientifico della parola, è l’affermazione che la vita e la realtà è storia e nient’altro che storia. BENEDETTO CROCE Per possedere il mondo della cultura bisogna riconquistarlo incessantemente per mezzo del ricordo storico. Ora, il ri-cordo non consiste in una semplice riproduzione; esso è una nuova sintesi intellettuale, è un atto costruttivo. […] La do-te del grande storico è di riportare tutti i meri fatti al loro fieri, tutti i prodotti ai processi donde sono derivati, tutte le cose e le istituzioni storiche alle corrispondenti energie cre-ative. ERNST CASSIRER

I. Posizione del problema

L’Ottocento ha voluto riconoscere se stesso come il «secolo della storia». Un senso spiccato per tutto ciò che è «storico» o è suscettibile di essere trattato come tale, uno sviluppo considerevole e vario delle indagini e degli studi in tale campo della cultura, la stessa determinazione della «verità storica» e dell’oggetto della storiografia quali compiti privilegiati e ineludibili della riflessione filo-sofica: sarebbero questi i tratti che distinguono e caratterizzano tale epoca rispetto a tutte le prece-denti. In ciò andrebbe dunque posto e riconosciuto il suo autentico titolo di gloria, come peraltro at-testa il suo stesso atto di nascita, che ne vorrebbe individuare fin dall’inizio anche il merito: tanto appassionata, sentimentale e storica sarebbe stata l’«età romantica» quanto distaccato, freddo e non storico (persino «antistorico») il «secolo dei lumi».

Nel corso del Settecento, dapprima la vaga «aspirazione», poi, tradotta in ogni lingua, la «pa-rola», infine la pura «idea» di un’età illuminata si diffusero ovunque in Europa, ma fu necessario aspettare la fine del secolo perché si formulasse pubblicamente in Germania la domanda filosofica sul suo «significato»: Che cos’è l’Illuminismo? La medesima cosa si potrebbe affermare per le a-spettative riposte nell’«idea di una storia universale del genere umano», con cui l’Ottocento in po-lemica con il pensiero illuministico iniziò il suo glorioso percorso. Anche in questo caso, solo verso la fine del secolo fu possibile avviare una riflessione critica più approfondita sui risultati realmente ottenuti, prenderne coscienza e aprire pubblicamente il dibattito su una questione filosofica nuova: Che cos’è lo storicismo?

Fu dunque vera gloria? Spetterà ai posteri l’ardua sentenza. Un primo giudizio in proposito si profilerà in particolare nel corso della discussione novecentesca sulla totalità delle «scienze dello spirito» [Geisteswissenschaften], tra le quali rientrerebbe anche la scienza della storia, benché ridi-mensionata parecchio quanto alle sue pretese ottocentesche e ai suoi diritti. Già nella seconda metà dell’Ottocento, mentre si assiste a una grande fioritura di ricerche storiografiche in Germania — e

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all’incremento anche delle cattedre universitarie in questo ambito scientifico — Friedrich Nietzsche solleva in modo provocatorio la questione se la storia [Historie] sia poi così utile e vantaggiosa per la vita, ossia se la consapevolezza del passato, tanto decantata come un privilegio e una conquista della cultura moderna, non rappresenti in verità, per essa, un pericolo intrinseco, anzi una malattia. Quanto invece alle differenze, e in particolare al salto conflittuale dal «secolo dei lumi» al «secolo della storia», bisognerà attendere i primi decenni del Novecento per una prima valutazione più di-staccata (non puramente sentimentale, ideologica o politica) della «verità storica» dell’Illuminismo. Verrà così ridimensionata sul piano della «oggettività storica» la stessa «credenza soggettiva», in auge nella prima metà dell’Ottocento, secondo cui il pensiero storico come tale sarebbe stato sco-perto e valorizzato sul piano conoscitivo per la prima volta da Herder1 e dalla filosofia romantica. La riflessione critico-filosofica sulla coscienza storica, avvalorata in particolare anche da successive indagini strettamente storiografiche sulle origini della moderna conoscenza storica, ha invece rico-nosciuto in pensatori come Montesquieu, Voltaire, Hume, in storici come Edward Gibbon o Rober-tson gli antesignani, i veri e propri pionieri della «conquista del mondo storico»2. Peraltro l’idea che ispira l’opera storica dello stesso Herder sarebbe impensabile senza la filosofia di Leibniz, ed è an-che, per taluni aspetti, preannunciata dalla «scienza nuova» di Giambattista Vico. Queste tesi, so-stenute e dimostrate in vari scritti dal filosofo e storico della filosofia Ernst Cassirer, verranno poco più tardi riprese e confermate dallo storico Friedrich Meinecke3, il quale pure, rinvenendone le radi-ci anche in altri paesi europei, anticipa al secolo XVIII le origini del pensiero storico contempora-neo e la nascita del cosiddetto «storicismo» [Historismus]4.

Queste circostanze particolari già illustrano in modo evidente due tratti tanto essenziali quanto paradossali della conoscenza storica: per un verso, la verità storica esige una corrispondenza tra i fatti e le rappresentazioni che di questi è possibile avere, per altro verso, tale corrispondenza esclu-de una rappresentazione unica e definitiva dei fatti medesimi. Effettivamente un’assoluta identità tra fatti passati e conoscenza presente di tali fatti implicherebbe l’annullamento della distanza tempora-le e dunque la fine della storia.

La lingua italiana adopera una sola e medesima espressione, la parola «storia», per designare due cose ben diverse: (a) «l’accadere di fatti e vicende umane considerati nella loro evoluzione at-traverso il tempo»; (b) «la narrazione sistematica di tale accadere, in particolare lo studio e l’interpretazione critica delle vicende dei popoli e delle nazioni». Da ciò discendono non poche am-biguità e paradossi nella comprensione del concetto stesso della storia, non del tutto risolti neppure nella lingua tedesca, che pur adotta la distinzione terminologica tra Geschichte (= l’accadere, il suc-cedersi effettivo di fatti ed azioni = res gestae) e Historie (= il sapere e il racconto di ciò che è ac-caduto, di ciò che è stato fatto = historia rerum gestarum).

Il concetto e il problema della storia costituiscono non una fra le altre, bensì la caratteristica centrale dell’idealismo tedesco. Qui giungono a maturazione e proseguono tendenze nate nella metà del secolo XVIII. La storia [Geschichte] è essenzialmente il processo di sviluppo del genere umano: «storia», «umanità», «genere umano» sono espressioni e concetti reciprocamente connessi. Essi si chiariscono e si richiamano l’un l’altro. Anzi l’uno può anche rappresentare e prendere il posto dell’altro. Poiché è la ragione ciò attraverso cui l’umanità «ha» storia — solo così «sapendo» di a-

1 Johann Gottfried Herder [1744-1803] filosofo, teologo e letterato tedesco: Saggio sull’origine del linguag-gio (1772), Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità (1774), Idee per la filosofia della storia dell’umanità (1784-91), Lettere per la promozione dell’umanità (1793-97). 2 E. CASSIRER, Die Philosophie der Aufklärung, Tübingen, 1932, in particolare il cap. V: Die Eroberung der geschichtlichen Welt, pp. 263-312. 3 F. MEINECKE, Die Entstehung des Historismus, 2 voll., Berlin, 1936, in particolare il vol. I: Vorstufen und Aufklärungstheorie. 4 Per un primo orientamento sull’evoluzione e sui problemi dello storicismo, vedi: F. TESSITORE, Lo storici-smo (Introduzione a), Laterza, Roma-Bari, 1991; P. ROSSI, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Einaudi, Torino, 1979; C. ANTONI, Dallo storicismo alla sociologia, Sansoni, Firenze, 1940; E. TROELTSCH, Der Hi-storismus und seine Probleme, Tübingen, 1922 (trad. it. Napoli, 1985 e 1989).

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verla —, è dunque possibile che la storia equivalga o sostituisca, per es. in Hegel, anche i concetti di «ragione», «spirito», «spirito del mondo» [Weltgeist]. Invece il termine Historie serve per lo più per designare la scienza empirica degli eventi passati, ossia la conoscenza di ciò che «effettivamen-te» è storico, soprattutto nella sfera dell’agire umano. Riformulando la questione in termini kantia-ni, si tratterebbe in questo caso di sapere non tanto ciò che la natura (o Dio, la Provvidenza, il De-stino, il Trascendente, ecc.) ha fatto o fa dell’uomo (il che attiene all’antropologia fisica, alla reli-gione, alla metafisica), quanto piuttosto ciò che l’uomo ha fatto realmente — o anche eventualmen-te avrebbe potuto o dovuto fare — di se stesso e della natura in quanto essere libero. In generale, in ogni sua forma e tendenza, l’idealismo tedesco mira a comprendere la totalità di ciò che è in base ad un unico principio; di conseguenza suo compito specifico sarà di trovare una mediazione tra la sto-ria concepita per via speculativa ed il sapere storico, propriamente inteso, fondato invece su ciò che è realmente accaduto.

II. Il «Copernico della storia» Ciò che contraddistingue il secolo XIX non è dunque la «scoperta» del pensiero storico in

quanto tale, che in verità è universale e presente a suo modo in ogni epoca storica, ma piuttosto la nuova direzione e la spinta speciale che a tale pensiero questo secolo imprime. A tal riguardo lo stesso Cassirer ha parlato di una «svolta», anzi di una sorta di «rivoluzione copernicana», che a-vrebbe conferito alla scienza storica un nuovo volto. Come Kant fu e volle essere il «Copernico del-la filosofia», così a più di un secolo di distanza la storiografia critica ha voluto individuare in Her-der il «Copernico della storia». La sua importanza però non andrebbe cercata in ciò che Herder ha di fatto (materialmente) prodotto come storico e come filosofo della storia, ma piuttosto in ciò che egli si è proposto (idealmente) come obiettivo e come compito. Per lo storico Cassirer, il vero sog-getto e oggetto della storia non è solo ciò che l’uomo Herder ha fatto o ha potuto fare (i cosiddetti «fatti» storici, le «opere»), ma soprattutto ciò che egli ha voluto fare, ciò a cui egli ha «aspirato» e che ha mosso ogni suo agire (la «forza» storica, l’«idea», il «progetto», l’«energia spirituale»)5. In effetti, come filosofo della storia, Herder non ha elaborato un vero e proprio sistema unitario e completo. Anche la sua prospettiva oscilla continuamente e senza mai decidersi tra i due poli con-trapposti della «immanenza» e della «trascendenza»; per un verso egli vuole spiegare la storia solo sulla base dell’essenza dell’uomo e vuole comprenderla come uno sviluppo dell’«umanità» [Huma-nität]; per altro verso egli si trova nella necessità di ricorrere sempre a un piano divino, ad un’opera della «provvidenza» [Vorsehung]. Anche come storico, ci sono in lui alti e bassi: per es., originali e fondamentali sono le conoscenze storiche che egli ci ha fornito sulla «poesia» [Poesie], ma fuori della sua portata e del suo ambito di interessi è la storia politica.

Invece il suo apporto storico-filosofico essenziale risiederebbe nella novità e nella energia della «esigenza» [Forderung] da lui avanzata. Il primo tra i contemporanei di Herder a comprender-la e ad apprezzarla è stato Goethe, come attestato dall’epistolario tra i due. Benché in generale scet-tico sulla accessibilità del mondo storico, Goethe si mostra invece entusiasta con Herder, per la ca-pacità da questi dimostrata nel dischiudere una nuova forma del pensiero e del sentire storici. «Io ho ricevuto il tuo libro», così egli scrive in una lettera a Herder, dopo aver letto la sua opera, Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità, «e mi sono ristorato. È un mondo, questo, veramente sentito! Un mucchio di spazzatura riportato in vita! […] Il tuo modo di spazzare e lustra-re — la tua capacità non tanto di setacciare oro dalla spazzatura, ma piuttosto di far risorgere [um-5 E. CASSIRER, Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, vol. IV: Von Hegels Tod bis zur Gegenwart (1832-1932), Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 19942, pp. 226 sgg. (trad. it. a cura di A. Pasquinelli, Storia della filosofia moderna, vol. IV: Il problema della conoscenza nei sistemi posthegeliani, Il Saggiatore, Milano, 1968, p. 341 sgg.) [d’ora in poi: CASSIRER, EP/IV, seguito dal numero di pagina dell’originale tedesco e, in parentesi tonda, della traduzione italiana].

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palingenesieren] dalla spazzatura una pianta viva, mi colma di stupore e mi mette sempre col cuore in ginocchio»6. La vera storia non dovrebbe essere una morta rassegna di detriti e di eventi del pas-sato, ma una «palingenesi della vita», una forma («simbolica») con cui l’umanità, divenuta ora ma-tura e consapevole del potere inesorabile del tempo, tenta con le sue proprie forze spirituali di far rinascere il passato, procurandosi così una sorta di immortalità. Qui non si tratta semplicemente di «rievocare» il passato, in quanto passato, ma di farlo «rivivere» nel presente. Questa virtù e funzio-ne taumaturgica della storia fa leva non tanto su un ripristino di fatti irrimediabilmente perduti, sulla integrale restituzione di ogni singolo evento (impresa, questa, o «impossibile» o «fantasiosa»), ma piuttosto su un nuovo modo di «sentire», di «ri-vivere», che accomuna nello spirito, in un unico to-talizzante «Erleben» [= «sentire» nel profondo, in modo diretto e immediato, come in un’esperienza «vissuta»], la coscienza del passato e del presente, del soggetto storico e del soggetto contempora-neo, come pure dello storico, autore dell’attuale opera storiografica, e del lettore di ogni altro tempo presente e futuro, cui l’opera storica è destinata.

Ciò che Herder si propone di rappresentare non sono i decorsi «esterni» dell’accadere, le loro connessioni causali (vicende politiche di singoli condottieri, di grandi case regnanti, affari di Stato, guerre, trattati di pace, ecc.), ma il grandioso dramma universale vissuto nell’«intimo» dall’intero genere umano. In vari modi già prima di Herder altri grandi storici del passato, da Tucidide a Ma-chiavelli, avevano cercato di superare la mera storia cronachistica, annalistica; avevano indagato e scoperto dietro i puri fatti le vere forze motrici della storia, cioè l’uomo stesso in quanto potenza operante ed agente, in quanto protagonista principale del proprio destino, soggetto capace di piani-ficare le proprie scelte in vista dei propri scopi e dei mezzi adeguati per raggiungerli. Qui Cassirer si richiama, non a caso, agli studi di Dilthey sulla concezione e l’analisi dell’uomo nei secoli XV e XVI. Perfettamente corrispondente a questo tipo di uomo è la «storia pragmatica», quale affiora, per es., nel Principe e nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio di Machiavelli o anche negli scritti storici di Guicciardini. Tuttavia, dal punto di vista di Herder, tutte le prestazioni pragmatiche dell’uomo, tutte le sue imprese (in qualsiasi campo: politico o filosofico, religioso o artistico) ne mostrano pur sempre solo l’aspetto «esterno». L’uomo però non è riducibile a ciò. Dietro e sotto la somma dei suoi atti e fatti Herder vuole evidenziare la dinamica del suo «sentire». Solo in questo modo sarebbe possibile dischiudere l’«interno» dell’uomo, indagare e scoprire il senso proprio della sua più intima ed autentica esistenza [Dasein]. Rispetto al volere e al pianificare, l’umano «sentire» [Fühlen] è molto più immediato, più originario (più «genuino», in quanto non «simulato», non «fal-sificato») e, in tal senso, più «vero». Così dunque il nucleo principale, il punto focale della storia e della natura umana, ora non è più nell’intelletto o nella volontà, ma è posto da Herder nel «cuore». Gli avvenimenti storici assumono un qualche valore solo in quanto si mostrino capaci di «rivelare», «esprimere», «rappresentare» questa riscoperta essenza dell’umanità. In questo modo e per questa via tutto ciò che è fugace, transitorio, può essere invece fissato e conservato, può trasformarsi in simbolo, metafora, allegoria, poiché solo in queste forme si può capire ed esprimere l’essenza dell’uomo. Solo su questo piano lo storico può parlare e scrivere da uomo ad altri uomini. Solo in tal senso la storiografia può insegnare ed educare. Per ogni tempo e per ogni popolo essa dovrebbe ridare voce all’intero spettro dell’anima umana in generale, in tutte le sue possibili ramificazioni e direzioni. E da ogni forza dell’anima si sprigiona sempre una logica vivente e un’estetica vivente, una scienza storica e un’intera dottrina artistica. Da ciascuno dei sensi, da ogni ramificazione del sentire si può intrecciare un’intera ghirlanda.

Herder non avrebbe dunque «per primo» scoperto le reliquie del passato in quanto tali, ma ha voluto invece indicare una via e un modo per farle rinascere e rivivere in ciò che per noi ancora og-

6 J. W. GOETHE, Lettera a Johann Gottfried Herder del maggio 1775, cit. in E. CASSIRER, Formen und For-mwandlungen des philosophischen Wahrheitsbegriffs, Hamburg, 1929, (tr. it. a cura di G. Saponaro, Forme e mutamenti di forma del concetto filosofico di verità, Facoltà di Filosofia, Università degli Studi di Roma «La Sapienza», Dispense universitarie, Anno Accademico 2004-2005, p. 19). Cfr. anche E. CASSIRER, Goethe und die geschichtliche Welt, Berlin, 1932.

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gi è il mondo della storia. Altri grandi storici, come Leopold von Ranke7, o filosofi, come Hegel, accoglieranno ed elaboreranno, ciascuno a proprio modo e dal proprio punto di vista, questo nuovo «ideale» della verità storica, consistente nella capacità di far parlare ogni frammento e ogni vestigia della vita morale, religiosa e culturale dell’umanità di altri tempi.

In tal modo però il soggetto principale della storia [Geschichte] e l’oggetto della storiografia [Historie] tendono a «ri-chiamarsi» l’un l’altro, a rispecchiarsi di continuo, a riconoscersi progres-sivamente nella emergente coscienza del valore universale dell’umanità. Da questo nuovo punto di vista, tutto ciò che è attribuibile allo spirito umano non potrà che avere pari dignità e pari diritti nel corso della sua vita storica. Con ciò l’ideale della Humanität tende non solo a unificare il mondo storico, ma anche a soppiantare ogni altro criterio di valutazione dei fatti storici che voglia fondarsi sulla presunta superiorità di una singola epoca (per es., l’«antichità classica» o il «medioevo», ido-leggiati rispettivamente dai neoclassicisti e dai romantici) o sul primato di una singola nazione su ogni altra, evitando peraltro con ciò di esporsi ai rischi del relativismo scettico, il quale si risolve spesso in un indifferentismo storico privo di norme e di valori («nichilismo storico»). Il nascente storicismo ottocentesco fin dai suoi primi passi cerca dunque di aprirsi una propria strada tra due scogli mortali e opposti: da una parte, il sostanzialismo metafisico, che assorbe ogni vita storica nel-la logica preordinata di un soggetto assoluto (Hegel), dall’altra, il nichilismo, che tende invece a negare realtà oggettiva ed ogni senso anche al mondo storico, a destituire di ogni valore gli stessi concetti di umanità e di storia (Schopenhauer, Stirner, Nietzsche).

Nella prospettiva di Herder, il canone della ragione storica non può essere mai ipostatizzato in un singolo e unico momento storico, né d’altro canto esso può essere del tutto soppresso e negato. Il canone storico della Humanität può assolvere alla sua funzione e conservarsi tale solo in quanto pu-ro «ideale», inteso appunto (in senso «kantiano») come «idea regolativa», come «compito» [Aufga-be] da realizzare con continuità e senza fine. Solo a tale condizione la vita dello spirito umano può unificarsi e ordinarsi nell’idea di una storia universale unica, e divenire così anche portatrice di un senso. La stessa idea di «sviluppo storico» tende a sostituire alla forma gerarchica e statica della ve-rità, tipica della tradizione metafisica e della scala dei valori metafisici, la forma seriale e dinamica della verità, propria della storia e dei valori storici. Così tutti i singoli popoli, tutte le singole epoche della storia diventano ora membri di una «serie continua»; essi rappresentano soltanto dei momenti significativi dello sviluppo dell’umanità verso la sua somma meta. Questa meta tuttavia, benché rappresenti per l’umanità un traguardo infinitamente lontano, un obiettivo mai raggiunto e mai rag-giungibile, è pur sempre, in quanto idea animatrice e motrice, una forza immanente della storia rea-le [Geschichte]. Dal punto di vista dello storico essa rappresenta il vero punto di partenza e il prin-cipio conduttore dell’opera storiografica [Historie], la quale può ricostruire il passato solo proce-dendo a ritroso dal presente. In ogni istante in cui allo sguardo storico si manifesti l’autentica spiri-tualità, ossia una reale «comunanza di anime» [Seelentum], un’esistenza umana in qualche modo piena e adempiuta, allora sarà immediatamente presente con la materia storica anche la forma della Humanität. Certo, anche l’istante storico è sempre soltanto un momento singolo. Tuttavia ognuno di questi singoli momenti non è soltanto un punto di passaggio e un mezzo per un altro momento, ma possiede un significato indipendente e un suo proprio incomparabile valore, che lo rende appunto unico e irripetibile8.

In questa concezione herderiana risuona ancora la voce di Kant, e tramite questa lo spirito di Leibniz9. Nulla nella storia è semplice mezzo; nulla in essa vale soltanto per ciò a cui serve [= ete-ronomia storica] e non anche per ciò che esso è [= autonomia: la dignità umana è un fine in sé]. Nella misura in cui ciascuna esistenza è per sé, appunto per ciò essa vale un mondo ed è per il tutto. 7 Leopold von Ranke [1795-1886] storico tedesco: Storia dei popoli neolatini e germanici (1824), Il papato romano, la sua chiesa, il suo Stato nei secoli XVI e XVII (1834-36), Storia tedesca nell’epoca della riforma (1839-43), Epoche della storia moderna ([1854]1888), Storia universale (6 volumi, 1880-1885). 8 CASSIRER, EP/IV, 228 (344). 9 Per un primo orientamento sul pensiero di Leibniz, vedi G. SAPONARO, Leibniz. Discorso di metafisica, Bi-bliosofica, Roma, 2002.

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Come ogni singola monade leibniziana rappresenta a suo modo l’universo e, ciascuna dal suo punto di vista, è espressione interna del tutto, allo stesso modo per Herder ogni popolo e ogni epoca del passato, come in una successione di scenografie teatrali, manifestano pur sempre, in ciò che di essi ci resta, la propria intenzionalità, il proprio punto di vista prospettico sulla totalità del mondo e sul senso dell’esistenza, ossia del vivere. Per quanto lacunose e frammentarie queste testimonianze del passato possano essere, nessuna di esse resterà per sempre una muta rovina, se lo storico avrà sapu-to interrogarla nel modo che gli è proprio: «Non colui che nella storia vede soltanto il corso esterio-re degli eventi, bensì colui che in essa cerca l’anima ritrova tale anima sotto ogni travestimento, sot-to ogni maschera: la trova nei giochi olimpici della Grecia come nelle forme semplici dell’esistenza patriarcale; presso i Fenici, popolo di mercanti, come presso i Romani, popolo di guerrieri»10. Nel particolare di queste immagini e di queste scene storiche è sempre vivo il significato del tutto, ossia dell’universale, del «concetto storico», il quale si lascia cogliere non già nella forma statica della coesistenza spaziale (dell’essere l’uno accanto all’altro, come in un «mosaico»), bensì solo nella forma dinamica della successione, del divenire, del «morire e nascere» (dell’essere l’uno dopo l’altro, come in un «racconto»).

«Non nella corona d’alloro, non nella visione del gregge benedetto, non nelle navi onerarie, né nelle conquistate insegne militari si trova ciò che cerchiamo, bensì nell’anima che di questo sen-tiva il bisogno, che a questo tendeva, che questo solo ha raggiunto e nient’altro volle raggiungere; ogni nazione ha in sé il suo centro di felicità, come ogni sfera ha il suo centro di gravità. […] Il be-ne non è forse sparso sulla terra? Siccome una sola forma dell’umanità e una sola regione non lo potevano contenere, esso fu diviso in mille forme; passa — eterno Proteo! — per tutte le regioni della terra e per tutti i secoli […] e tuttavia diventa visibile il piano di un tendere al progresso: il mio grande tema!»11.

III. Un passo indietro Herder non fu però influenzato soltanto da Leibniz e da Kant. In lui risuona anche l’eco di un

altro autore, la cui opera principale egli aveva ben letto e meditato: Principî di una scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, pubblicati da Giambattista Vivo nell’anno 1730. Questa influenza, ritardata nel tempo, è resa ancor più significativa dal fatto che l’importanza del libro di Vico fu assai poco compresa e male apprezzata nella sua epoca ancora cartesiana, e anche successi-vamente. Occorreva evidentemente aspettare l’«epoca della critica» per poter distinguere tra il con-tenuto materiale dell’opera — la ricostruzione vichiana della storia dell’umanità appare in numerosi punti alquanto arbitraria e fantasiosa — e il nuovo ideale metodologico introdotto e difeso da Vico, che la maturazione dei tempi fa ora apparire molto più originale ed anche decisivo per l’ulteriore sviluppo del pensiero storico. Da questo più avanzato punto di vista già nell’Ottocento, e in misura ancora maggiore nel corso del Novecento, il libro I della Scienza nuova apparirà come un nuovo Discours de la méthode, applicato però alla storia anziché alla matematica e alla fisica. Si tratterà allora di sapere in che senso e in che modo la conoscenza storica possa essere considerata verità scientifica; se possano valere anche per essa la logica e i metodi delle scienze naturali o non si deb-ba invece ammettere per la storia una logica speciale.

In quanto fonte ed ispiratore di Herder, Vico è apparso come il primo pensatore che abbia concepito un sistema «storicistico»12, e che abbia osato opporlo al logicismo e matematicismo car-tesiani. Vico non contesta la chiarezza e la distinzione della conoscenza matematica, né il valore lo-10 CASSIRER, EP/IV, 229 (345). 11 Cfr. HERDER, Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit [1774], in Sämtliche Werke, V, p. 509 e 511, cit. in CASSIRER, EP/IV, 229 (345-346). 12 Nella prima metà del Novecento soprattutto Benedetto Croce ha variamente insistito su questo punto. Cfr. in particolare B. CROCE, La storia come pensiero e come azione [1938], Laterza, Bari, 19667.

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gico delle sue dimostrazioni, bensì il suo progressivo distacco ed il suo definitivo allontanamento dalla realtà effettuale, che finiscono col renderla prigioniera delle proprie astrazioni. Se stabiliamo un certo numero di postulati o assiomi fondamentali, possiamo certo inferire da essi — in maniera perfettamente chiara e logicamente irreprensibile, mediante la semplice deduzione ed il puro ragio-namento — la verità delle proposizioni che ne derivano. Ma ciò che così attingiamo non è la realtà. A suo giudizio l’idea dell’uomo «qual dee essere» (l’uomo dei filosofi matematizzanti: l’uomo di Platone) è ben lontana dalla verità, ossia dall’immagine dell’uomo «qual è» (l’uomo degli storici: l’uomo di Tacito). Riconosciuto tale limite, Vico con la sua «scienza nuova» vuole andare oltre la matematica (per assicurare alla conoscenza umana un contatto più stretto e più ravvicinato con la realtà), senza però rinunciare del tutto all’ideale razionalistico e soprattutto a un importante princi-pio su cui la stessa matematica ha fondato i suoi diritti e il suo vantaggio nell’età moderna. Secondo tale principio, la mente umana non può avere adeguati concetti se non di quelle cose che sono pro-dotte dalla mente medesima e che traggono origine dai propri poteri innati. Altri pensatori anticarte-siani (Gassendi e Hobbes) ne avevano fatto uso: noi conosciamo perfettamente le proposizioni ma-tematiche, perché siamo noi a produrle, attraverso le nostre postulazioni arbitrarie, le nostre defini-zioni e le nostre costruzioni, mentre non ci è possibile un’altrettale conoscenza della natura (come di tutto ciò che non dipende da noi), appunto perché non siamo stati noi a crearla. Una conseguenza piuttosto paradossale di questo principio è che il mondo perfettamente conoscibile delle nostre «fin-zioni» matematiche è però irreale, mentre nella sua essenza profonda il mondo reale della natura è per noi inconoscibile. Ciò per giunta, interpretato in senso antiplatonico, apre le porte a una conce-zione meramente convenzionalistica della matematica. Vico se ne serve in parte per prendere le di-stanze dal razionalismo radicale (ossia, contro l’«empia pretesa», che opererebbe nella fisica a prio-ri di Cartesio, di porsi dal punto di vista di Dio stesso), in parte ancora per rivendicare i limiti in-trinseci della conoscenza umana (e ciò anche lo avvicina allo spirito del tardo illuminismo)13.

Ora, dunque, Vico adotta anch’egli questo principio, ma gli dà una forma completamente nuova; e — qui è la sua originalità e genialità — ne trae conseguenze opposte. In nessun altro cam-po — egli dichiara — la mente umana è più vicina a se stessa che nella storia. Non il mondo fisico, ma il mondo storico è creato dall’uomo, e dipende dalle sue facoltà. Invano speriamo di penetrare i segreti della natura, di raggiungere una conoscenza esauriente del mondo fisico. È vero che, pas-sando dalla matematica alla fisica, ci avviciniamo alla realtà, cogliamo fatti empirici concreti. Ma la nostra conoscenza di questi fatti resta inadeguata; essa ha solo verosimiglianza, non autentica verità. E ciò perché il mondo fisico, materiale, non è opera nostra, ma di Dio, e Dio soltanto — l’«autore del mondo» — può comprendere la sua opera in una maniera perfetta ed adeguata. La natura rimane dunque sempre, in un certo senso, esterna all’uomo, ed inaccessibile ai poteri della conoscenza u-mana. Quando invece ci occupiamo di storia siamo esenti da questa restrizione, e non avvertiamo più questa barriera. L’uomo comprende la storia perché ne è l’autore. Il campo di studio elettivo dell’uomo non è dunque né il mondo matematico né il mondo fisico, ma il mondo storico, la società civile.

La storia come «scienza nuova» è dunque resa possibile dalla postulata identità della filosofia (intesa come conoscenza razionale del «verum» universale, dedotto da principî dati a priori) con la filologia (intesa, in senso lato, come conoscenza del «certo», ossia di ciò che è dato a posteriori, ed è accertabile in quanto «factum» particolare del passato): poiché del mondo umano, fatto di istitu-

13 Già in un’opera precedente, De antiquissima Italorum sapientia (1710), Vico aveva presentato il principio con la sua nota formula del «verum ipsum factum» (= identità del vero col fatto): il soggetto conoscente può conseguire la verità soltanto di quegli oggetti di cui egli medesimo è il creatore. La conoscenza degli altri oggetti — di tutti quelli cioè che il soggetto conoscente non ha creato — può solo risolversi in una «coscien-za». Ne segue che il geometra può avere scienza di punti, linee, superfici e figure perché è lui a crearli, e l’uomo può aver scienza del mondo storico della cultura perché è lui l’agente che crea questo mondo. Ma soltanto Dio può avere una conoscenza autentica della natura, per la medesima ragione che è lui che l’ha cre-ata. Egli è l’«autore del mondo». L’uomo non conosce gli oggetti fisici della natura che in maniera incom-pleta, come qualcosa di cui non è l’autore.

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zioni (linguaggio, miti, leggi, ecc.), è certamente autore l’uomo, anche se assistito dal concorso di-vino, di esso all’uomo è anche possibile la conoscenza. I principî della nuova scienza sono, da una parte, reperibili a priori, nel senso che vanno cercati nella natura della mente umana; e sono, dall’altra, altresì attestati a posteriori dalla successione di tre età evolutive, comuni a tutti gli indi-vidui. Sarebbe così garantito l’accordo della riflessione razionale (ex principiis) con quanto si ap-prende invece (ex datis) dal passato dell’umanità (filologia) e dallo sviluppo dei singoli individui (psicologia).

La filosofia della cultura di Vico è stata spesso considerata come il primo passo, oltre che ver-so una nuova filosofia della storia, anche verso la nostra moderna scienza sociologica. Egli però non fonda la spiegazione dei fatti sociologici solo sul principio di causalità. A differenza del cosmo ma-tematico e fisico, la società umana non è un cosmo disanimato, un orologio riconducibile a leggi puramente meccaniche. Per comprendere il corso della civiltà umana, che egli assimila ad un tutto organico vivente, ad un ordinamento teleologico, è dunque necessario investigare non soltanto la «causa efficiens», ma anche, e soprattutto, la «causa finalis». Per quanto vari possano apparire i co-stumi umani, per quanto condizionanti possano rivelarsi i fattori fisici, geografici, antropologici, il cammino di tutte le nazioni, pur svolgendosi in tempi diversi e in direzioni talvolta divergenti, la-scerà comunque sempre la traccia inconfondibile ed indelebile dell’umanità.

Quanto già sappiamo sull’evoluzione della nostra mente umana — ossia, il fatto che in cia-scuno di noi l’«età della ragione» si sviluppa per ultima, dopo l’«età del senso» e l’«età della fanta-sia» — servirà ad illuminare le scarse «tracce» che ci restano dei tempi più antichi, a noi via via meno noti. Vico, in breve, proietta questo schema triadico (tratto dalla psicologia individuale) sulla storia dell’umanità, o meglio sulla storia di tutte le singole «nazioni» (individui collettivi) in cui sto-ricamente l’umanità s’è articolata. «Gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura». Si hanno pertanto tre stadi storici, o tre «età», attraverso cui sono destinate a passare tutte le nazioni: l’«età degli dèi» (ossia dei miti religiosi primitivi), l’«età degli eroi», o del dominio signorile (come è esemplificata per es. dai poemi omerici), e infine l’«età degli uomini», caratterizzata dalla comparsa del pensiero filosofico e delle codificazioni legislative. Ciascuna età ha i suoi propri costumi, le sue proprie leg-gi, le sue forme di società e di governo civile, il suo linguaggio, la sua religione, il suo particolare modo di pensare. I due primi stadi — l’età divina e l’eroica — sono caratterizzati dalla preponde-ranza della facoltà dell’immaginazione e da una logica dell’immaginazione. Si tratta di età mitiche o poetiche. L’ultimo stadio è caratterizzato dalla preponderanza della scienza e della filosofia.

Vico ha anticipato numerose idee che sono state in seguito riprese e corroborate da indagini storiche e filologiche più particolareggiate. Quanto al problema del linguaggio e della sua origine, Vico descrive il linguaggio della prima età come un linguaggio geroglifico. Quello della seconda età fu simbolico e poetico, ed il linguaggio della nostra propria età ha carattere astratto e razionale. Il pensiero primevo dell’umanità fu un pensiero mitico o poetico; ed il linguaggio primo ed origina-rio fu la poesia. L’idea che in seguito sarebbe stata espressa da Hamann e Herder nelle parole «Poe-sie ist die Muttersprache des Menschengeschlechts» (La poesia è la lingua materna dell’umanità) è stata anticipata da Vico. Le prime nazioni non pensarono per concetti. Pensarono in immagini poe-tiche, parlarono per favole, e scrissero in geroglifici. In armonia con queste forme di pensiero e di linguaggio, possedettero una geografia, una cosmologia ed un’astronomia non scientifiche, bensì poetiche; e persino una moralità poetica, basata su concezioni mitiche. In questa visione della storia noi percepiamo l’inizio di un’epoca nuova; percepiamo il primo albeggiare dello spirito del roman-ticismo14. 14 CASSIRER, EP/IV, 300 (451): «Giambattista Vico può essere definito il vero scopritore del mito. Non solo s’immerge nel multiforme mondo del mito, ma studiandolo impara che questo mondo ha la sua propria strut-tura, il suo proprio tempo, il suo proprio linguaggio; egli inoltre fa il primo tentativo per decifrare questo lin-guaggio; raggiunge un metodo in virtù del quale le “sacre immagini”, i geroglifici del mito, cominciano a di-ventare leggibili. Per questa via è stato seguito dallo Herder». E sulla via di Herder procederà anche Schel-ling, con la sua Einleitung in die Philosophie der Mytologie (tr. it., Filosofia della mitologia. Introduzione

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IV. Scienze della natura e scienze dello spirito Questi sviluppi inducono a riflettere ancora più a fondo sui presupposti logici ed epistemolo-

gici della storia, e in particolare sul rapporto tra la conoscenza storica e la conoscenza scientifica in senso stretto. In che senso e in che modo la conoscenza storica può considerarsi una verità scientifi-ca?

Storia e scienza si occupano di oggetti diversi, ciò nondimeno sussiste tra le due discipline una unità logica, una unità funzionale. Entrambe, storia e scienza, fanno uso di concetti e di giudizi logici e mediante questi concetti e questi giudizi tentano di scoprire la verità delle cose. Nel perse-guimento di tale scopo generale la storia non si distingue affatto dalle altre scienze, mentre d’altro canto proprio in ciò essa si differenzia nettamente dall’arte, con cui peraltro condivide altri scopi e funzioni. Secondo Wilhelm Windelband15 e il suo allievo Heinrich Rickert16, occorrerebbe invece introdurre ed ammettere una fondamentale distinzione tra due forme differenti ed inconciliabili di conoscenza. Una forma sarebbe rivolta all’universale (la conoscenza «nomotetica», che ricerca leg-gi generali), e l’altra all’individuale (la conoscenza «idiografica», che descrive fatti individuali). «La realtà empirica diviene natura se la consideriamo sotto la specie dell’universale; diviene storia se la consideriamo sotto la specie del particolare»17. Tuttavia — secondo Cassirer — tale distinzio-ne non può essere mantenuta, poiché ogni concetto e ogni giudizio inscindibilmente contengono un momento di universalità ed un momento di individualità. Da un punto di vista strettamente logico, concetti e giudizi ci forniscono certamente delle regole generali, ma tali regole devono poi essere pur sempre applicate a casi particolari o speciali. Tutto il sapere empirico si fonda sulla sintesi logi-ca, ossia sulla correlazione e sulla concatenazione del momento universale e del momento individu-ale. Tale sintesi non può comunque mancare, anche se non sarà forse esattamente la stessa nel caso della conoscenza storica e in quello della conoscenza matematica o fisica. Ciò significa che una legge generale, senza il particolare o l’individuale, sarebbe vuota conoscenza; e viceversa meri fatti individuali, senza un quadro di riferimento (senza una regola o una teoria universali che fungano da criterio euristico o ermeneutico), non solo non sarebbero oggetti possibili di conoscenza, ma neppu-re potrebbero diventare mai «noti», in quanto puri e semplici fatti isolati.

Ora, i fenomeni e i fatti della storia appartengono a un regno speciale: il regno dell’uomo, il quale a sua volta non è affatto isolato o campato in aria. La conoscenza storica ammette e riconosce un certo radicamento della vita umana nei fenomeni del mondo organico (forme e strutture biologi-che, chimiche) ed inorganico (cause fisiche), ma non riduce i suoi concetti e le sue teorie, i suoi me-todi esplicativi e descrittivi a quelli delle scienze fisiche e biologiche. Così, per es., già Monte-squieu nel suo Esprit des lois (1748) tentò di stabilire delle correlazioni tra il carattere delle norme storico-critica. Lezioni del 1842, a cura di T. Griffero, Guerini e Associati, Milano, 1998). Per l’importanza storica di Leibniz, interpretato come anello di congiunzione tra il razionalismo di Descartes e lo storicismo di Vico, cfr. E. CASSIRER, Descartes, Leibniz e Vico [1941-42], in ID., Simbolo, mito e cultura, a cura di D.P. Verene, Laterza, Roma-Bari, 1981, pp. 103-114. 15 Wilhelm Windelband [1848-1915] filosofo tedesco: Storia della filosofia moderna (2 volumi, 1878-80), Storia della filosofia occidentale nell’antichità (1888), Preludi (1884), Storia e scienza della natura (1894). 16 Heinrich Rickert [1863-1936] filosofo tedesco: I limiti della formazione dei concetti nelle scienze della na-tura (1896-1902), Scienze della cultura e scienze della natura (1899), La filosofia della vita (1920), La defi-nizione (1888), L’oggetto della conoscenza (1892), La logica del predicato e il problema dell’ontologia (1930), Sistema di filosofia (1921), Problemi fondamentali della filosofia (1934), Immediatezza e significato (postumo, 1939). 17 H. RICKERT, Die Grenzen der naturwissenschaftichen Begriffsbildung, Tübingen, 1902, p. 255, cit. in E. CASSIRER, An Essay on Man — An introduction to a philosophy of human culture [1944], (trad. it. a cura di C. D’Altavilla, con un’introduzione di L. Lugarini, Saggio sull’uomo e lo strutturalismo nella linguistica moderna, Armando. Roma, 1968, p. 313).

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pratiche, che ordinano le relazioni umane nelle diverse società (regole morali, giuridiche, legisla-zioni nazionali, costituzionali), e una serie di condizioni e presupposti fisici, quali il clima, il suolo, la localizzazione geografica del paese. E tali correlazioni, che caratterizzano anche tempi storici di-versi, sono suscettibili di essere ricondotte sotto regole generali. Nell’Ottocento, accanto a queste condizioni fisiche si affermeranno con forza e decisione anche le condizioni economiche, che la teoria materialistica di Karl Marx prontamente riconoscerà e assumerà perfino come le fonti e le ba-si ultime della vita storica. A più riprese nel corso del secolo nuovi studiosi daranno maggiore im-portanza alle condizioni antropologiche e biologiche, quali la razza, i fattori demografici, altri spo-steranno l’accento dalle condizioni sociali ed economiche alle condizioni strettamente psicologiche (Lamprecht)18. Non sono neppure mancati tentativi più ambiziosi e più generali miranti a scoprire le regole generali che governano il corso e l’evoluzione dell’intera civiltà umana e delle singole forme con cui questa si manifesta, quali il mito, la religione, l’arte, la scienza. Nel suo Cours de philoso-phie positive (6 voll., 1830-1842) Auguste Comte descrive nei seguenti termini la formula univer-sale con cui diventerebbe possibile disporre in un ordine fisso tutti i fenomeni della cultura umana:

«Studiando […] l’insieme dello sviluppo dell’intelligenza umana nelle sue varie sfere di atti-vità, dal suo evolversi più semplice fino ai nostri giorni, credo di aver scoperto una grande legge fondamentale alla quale il pensiero è assoggettato da una necessità imprescindibile e che mi sembra poter essere solidamente stabilita, sia su delle prove razionali fornite dalla conoscenza della nostra organizzazione, sia su verificazioni storiche risultanti da un attento esame del passato. Questa legge consiste nel fatto che ognuna delle nostre concezioni fondamentali, ogni branca delle nostre cono-scenze passa successivamente attraverso tre stadi teorici distinti: lo stadio teologico o fittizio; lo stadio metafisico o astratto; lo stadio scientifico o positivo»19.

Data questa omogeneità e continuità il pensiero storico e il pensiero scientifico potrebbero al-lora essere distinti non già per la loro forma logica ma per il loro fine e il loro oggetto. Qui però non basta distinguere tra oggetti presenti e oggetti del passato ed è fuorviante attribuirli in modo esclu-sivo rispettivamente allo scienziato e allo storico.

Al pari dello storico, il fisico può anche indagare le remote origini dell’universo, per risolvere un problema di scienza della natura (non già di scienza «storica» nel senso proprio del termine), come fece Kant nel 1755 con la sua teoria astronomica presentata come una storia universale del mondo materiale20. Dal canto suo anche la biologia ha potuto, anzi dovuto, benché in modo non e-sclusivo o assoluto, basarsi su ipotesi storiche, al fine di comprendere e spiegare in modo unitario e

18 Karl Lamprecht [1856-1915] storico tedesco: Il metodo storico-culturale (1900), Storia della Germania (12 volumi (1891-1909), Introduzione al pensiero storico (1912). Secondo Lamprecht, le cui teorie suscita-rono polemiche e un’ampia discussione in Germania, esisterebbe un ordine socio-psicologico, invariabile, secondo il quale si succederebbero gli stati dello spirito umano (stati d’animo, pensieri, sentimenti), ordine che determinerebbe una volta per tutte, in base a una legge generale psichico-sociale da lui scoperta, ogni sviluppo della cultura. La storia della civiltà ci mostrerebbe sempre e dovunque la stessa sequenza e lo stes-so ritmo uniforme, secondo il seguente schema: (1) stadio primordiale dell’animismo, (2) era del simboli-smo, (3) era del tipismo, (4) era del convenzionalismo, (5) era dell’individualismo e del soggettivismo. Que-sto schema — desunto da Lamprecht induttivamente dai fatti della storia della Germania — sarebbe applica-bile a priori e senza eccezioni ovunque e in ogni tempo: nella Russia moderna come nella storia della Grecia e di Roma, in Asia come in Europa. 19 A. COMTE, Corso di filosofia positiva, a cura di L. Geymonat e M. Quaranta, Padova, 1967, p. 57. 20 Qui Kant applica il nuovo metodo della fisica newtoniana alla soluzione di un problema storico: ipotesi della nebulosa originaria, e descrizione dell’evoluzione della materia da un precedente stato indifferenziato e non organizzato al presente ordine cosmico. L’ipotesi di Kant fu poi ripresa e riproposta con maggior rigore matematico dall’astronomo e fisico francese Pierre Simon de Laplace [1749-1827]. Nel corso dell’Ottocento lo «spirito di Laplace» diventò un modo di pensare generale e diffuso in ogni ambito delle scienze della natu-ra; ancora oggi l’espressione «teoria di Laplace» designa insieme un certo spirito di sistema e un particolare metodo matematico, sviluppati originariamente nell’ambito della fisica classica, secondo cui, essendo note le condizioni di un qualunque sistema fisico a un dato istante e le azioni cui esso è sottoposto, è possibile pre-vedere gli stati futuri e desumere quelli passati.

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coerente le varietà morfologiche degli esseri viventi in generale. Da questo punto di vista le stesse teorie di Darwin sull’origine della specie umana rappresentano un frutto genuino dello storicismo ottocentesco: senza i concetti di «evoluzione», «sviluppo», «continuità», ecc., esse non sarebbero neppure immaginabili. Ciò nondimeno, da un punto di vista filosofico, la concezione dell’«accadere biologico» non è sufficiente per spiegare o per dare un senso completo anche al fenomeno specifi-co, inoppugnabile ed unico, dell’«accadere storico». La «vita storica» non è dunque riducibile né a cieca «concatenazione di cause e di effetti» (mondo fisico), né a mera «esistenza biologica» (orga-nismo naturale): essa è e si afferma piuttosto come un evento spirituale. Di conseguenza la cono-scenza storica, propriamente intesa, mette in un certo senso tra parentesi o in sordina il passato del mondo naturale, per concentrarsi invece sul passato del mondo umano, della vita umana e della cul-tura.

Il fenomeno della storia umana ha una sua realtà e, al pari di ogni altro fenomeno della «vita spirituale», non è certo campato in aria. I fatti storici, i fatti della cultura e della vita umana, sono anch’essi radicati e incorporati nel mondo naturale (nella realtà fisica e biologica), ma il loro senso non si riduce alla natura delle cause e degli effetti, alla raccolta e alla ricostruzione semplicemente empirica dei dati. Lo storico non può certo ignorare i contributi e i metodi di altre discipline cosid-dette «scientifiche», quali la geologia o la paleontologia, le cui sparse «tracce» e i cui «messaggi», di per sé muti e insignificanti, egli deve però saper leggere e interpretare. Così egli non potrà neppu-re fare a meno dei metodi di discipline cosiddette «umanistiche», quali la linguistica e la filologia, per decifrare libri, annali, memoriali; ma i linguaggi parlati e scritti dell’umanità sono solo una par-te degli idiomi simbolici con cui lo storico deve misurarsi; egli deve anche saper leggere iscrizioni geroglifiche e cuneiformi; e, se è uno storico dell’arte e della civiltà, deve anche esaminare dipinti, tavole e tele colorate, sculture di marmo e di bronzo, cattedrali e templi, monete e gemme.

Egli però — come dimostra, per es., l’intera opera di Mommsen21 — non è un raccoglitore e un conservatore di materiali e reperti, non è un antiquario né un collezionista; a lui non interessano le «monete» in sé, ma ciò che in esse può presentarsi, per così dire, come un «deposito» o un «pre-cipitato» storico, come la materializzazione dello spirito di una precedente età, per es. dell’età augu-stea in Roma. E il medesimo spirito egli cercherà allora nelle leggi dello Stato romano, nelle sue i-scrizioni, negli editti, nelle sue istituzioni sociali e politiche, nei riti e nelle cerimonie religiose, nel-le opere d’arte e nell’architettura, nell’organizzazione militare e nell’economia. Compito della sto-ria è la ricostruzione simbolica di tutte queste voci, di tutti questi messaggi, che altrimenti restereb-bero muti e indecifrabili. Essa tenta di riunire le membra sparse del passato, di sintetizzarle e inte-grarle in una nuova «forma», che non è necessariamente solo quella della successione cronologica e della connessione causale.

Pioniere in questa direzione, come si è detto, fu Herder (e prima ancora Vico), ma sulla strada ideale da lui indicata si sono potuti accompagnare o anche semplicemente incrociare spiriti diversis-simi, quali il poeta, scrittore e genio multiforme Wolfgang Goethe, lo storico puro Leopold von Ranke, il filosofo idealista Hegel, il critico e letterato romantico Friedrich Schlegel22, il filologo Barthold G. Niebuhr23, il filosofo, linguista, letterato e uomo politico Wilhelm von Humboldt24, ed

21 Theodor Mommsen [1817-1903] storico e filologo tedesco: I dialetti italici del sud (1850), Storia romana (1854-56), Diritto pubblico romano (3 volumi, 1874-87). Avviò la ricerca nel campo delle scienze ausiliarie delle storia: epigrafia, numismatica, cronologia, papirologia, linguistica. 22 Friedrich Schlegel [1772-1829] critico e filosofo tedesco: Sullo studio della poesia greca (1797), Storia della poesia dei greci e dei romani (1798), Dialogo sulla poesia (1800), Filosofia della vita (1827), Filosofia della storia (1827), Filosofia del linguaggio e della parola (1828). 23 Barthold Georg Niebuhr [1776-1831] storico e filologo tedesco: Storia romana (3 volumi, 1811-12 e 1832). 24 Karl Wilhelm von Humboldt [1767-1835] filosofo, linguista, letterato e uomo politico tedesco: Idee sulla costituzione, occasionate dalla nuova costituzione francese (1791), Idee di un saggio volto a determinare i limiti dell’attività dello Stato (1792), Il secolo diciottesimo (1797), I baschi (1801), Lazio o Ellade, ossia os-servazioni sull’antichità classica (1806), Memoriale sulla costituzione tedesca (1813), Osservazioni sulla

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altri ancora. Più che le discordanze, inevitabili e sempre fruttuose sul piano della storia, qui conver-rà dunque precisare e sottolineare ancora una volta, da un punto di vista strettamente filosofico, i punti essenziali verso cui convergono e su cui armonicamente concordano, pur dissonanti per tona-lità e timbro, tutte queste voci.

V. La memoria storica La funzione più semplice ed insieme più universale della conoscenza storica consiste dunque

nel «ricordare», nel semplice mantenimento di ciò che è passato, inteso come conservazione nella «memoria». In effetti il primo indispensabile passo di ogni possibile «storia» è appunto la conserva-zione, riproduzione, restituzione di ciò che è avvenuto. Questo continuo «ri-petere» (re-petere = ri-chiamare e ri-chiedere) è anzi una condizione fondamentale non solo della «vita storica», ma di o-gni «vita spirituale» e forse anche di ogni «vita» in generale. Ciò significa che l’idea della storia — pur presupponendo e condividendo essa con l’idea del cosmo fisico il concetto del tempo, nonché l’ordine cronologico delle cose e degli eventi — non può ridursi a un puro e semplice scorrere e passar oltre da una fase temporale all’altra (= panta rei); essa non può essere solo un costante pas-saggio, ma deve anche includere il concetto della durata e della continuazione, ossia si deve presup-porre che gli stadi precedenti si conservino in qualche modo negli stadi successivi. Del resto già la materia organica — in quanto totalità strutturata, i cui effetti non vanno mai perduti, ma anzi si con-servano in vista della riproduzione dell’intero organismo individuale — sarebbe inconcepibile senza la funzione universale della memoria; e in virtù di tale principio anche ogni «vita» ci appare innan-zitutto come una tale serie di effetti, che in forma temporale si affermano e si concatenano l’uno all’altro. Ogni organismo individuale, ogni specie naturale capace di riprodursi da sé forma una tale «catena» di esistenza; e alla fine (dal punto di vista della teoria della discendenza, in senso evolu-zionistico) la totalità delle forme di esistenza ci si presenta appunto come un’unica ed uniforme ca-tena di esistenza e di attività. Questa è la concezione dell’accadere «biologico», come essa da un punto di vista filosofico è già abbozzata in Aristotele, e come anche in forma più matura essa è atte-stata nelle tesi di Leibniz sul principio di continuità. In verità per ogni vita in senso lato, in quanto essa appartiene a ciò che noi chiamiamo «natura», è essenziale un tale continuare a sussistere. Ma è sufficiente questo richiamo al principio di continuità e al concetto dell’accadere biologico per com-prendere e spiegare anche la «vita storica»?

La risposta a tale quesito contrassegna lo sviluppo della nascente filosofia della storia in Ger-mania da Leibniz a Hegel. Volendo caratterizzare il rapporto della mente umana con la divinità, Leibniz aveva sostenuto che la mente umana non è parte della divinità, bensì suo «simbolo», perché la mente si limita a «rappresentare» l’universo. Secondo i fondamenti della metafisica leibniziana il tutto dell’universo è veramente dato solo nel suo essere «concentrato» e rispecchiato in forma sim-bolica da parte delle singole unità individuali. Essenzialmente in ciò consiste l’attività spirituale, la vita rappresentativa di ogni «monade», come pure l’attività vitale, ossia l’esistenza e lo sviluppo di ogni «organismo», i quali implicano entrambi il concetto di «fine». Ne consegue che il progresso storico «integrale» si deve poter rappresentare in tutta la sua ampiezza anche nello sviluppo degli individui viventi dotati di «appercezione teoretica» (Autocoscienza) e di «personalità etico-giuridica». Così risulta evidente che l’insieme delle cause meccaniche (le leggi matematiche del movimento), pur necessario, non è però sufficiente per rendere conto di ogni accadere universale. Il mondo non è solo una macchina meravigliosa («orologio astronomico», «regno della Natura») ma anche la più perfetta «costituzione» [Verfassung, «ordinamento» sociale, politico, etico] degli spiriti storia universale (1818), Il compito dello storico (1820-1), Sullo studio comparativo della lingua in rapporto alle diverse epoche dello sviluppo delle lingue (1820), Sull’origine delle forme grammaticali e il loro influs-so sulle idee (1822), Sulla differenza della struttura linguistica dell’uomo e sulla sua influenza sullo sviluppo spirituale del genere umano, introduzione a Sulla lingua Kawi dell’isola di Giava (incompiuto, 1830-35).

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(«regno della Grazia» in Leibniz, «regno dei fini» in Kant). Se il mondo spirituale emerge progres-sivamente dal mondo naturale e dal mondo biologico, si deve anche postulare un «principio armo-nico» capace di assicurare un’intima relazione tra questi mondi pur differenti e contrastanti. Qui emerge, in tutta la sua importanza, la funzione della monade e del suo principio costitutivo («Das Individuum»), che fonda e insieme congiunge in unità e continuità di sviluppo la materia, le pure leggi del movimento, l’esistenza biologica, la cultura spirituale e la coscienza storica. Così, una vol-ta proiettata nell’evoluzione dell’individuo e insieme della specie, questa idea leibniziana dell’«armonia» diventa l’origine da cui deriva la filosofia della storia propria dell’età classica tede-sca. Ciò che qui è solo accennato da Leibniz, ha ottenuto la sua chiara espressione nelle parole che indicano la concezione di fondo della Erziehung des Menchengeschlechts (L’educazione del genere umano, 1780) di Lessing25: «Proprio la strada sulla quale il genere umano giunge alla sua perfezio-ne, non può non averla percorsa prima ogni singolo uomo (chi prima, chi dopo) …»26.

Esiste certo un abisso tra la visione strettamente empirica della storia (= l’unico mondo esi-stente, ossia l’umano punto di vista su ciò che l’uomo effettivamente ha fatto e fa) e l’ordinamento universale delle possibili direzioni teleologiche verso un fine ultimo e unico (= gli infiniti mondi possibili, ossia lo sguardo divino su ciò che l’uomo, in quanto essere dotato di libertà, avrebbe in realtà il potere di fare e anche il dovere di fare, benché non lo faccia). Ma questa differenza, questo contrasto tra esistenza e possibilità, tra esistenza e necessità, così come tra poter essere [Können] e dover essere [Sollen], non è l’indice di una limitazione assoluta, ontologicamente fissata ed immu-tabile, bensì è sempre di volta in volta, in ogni campo e aspetto della cultura umana, un fattore rela-tivo, o meglio «relazionale», ossia espressione della nostra «umana», soggettiva perfettibilità e del nostro umano punto di vista, per necessità ristretto, ma non per questo assolutamente incapace di progresso e di ampliamento. Quale «esempio sintomatico», la seguente considerazione leibniziana sul cambiamento copernicano del punto di osservazione preannuncia in forma simbolica la «rivolu-zione del modo di pensare» anche in campo storico:

«È vero che noi non possiamo affatto vedere un siffatto ordine — si dice in un saggio tede-sco, Von dem Verhängnis (De fato) — perché non stiamo nel punto di vista giusto, allo stesso modo che un quadro prospettico si può scorgere nel migliore dei modi solo da certi punti, ma non si può mostrare bene di lato. Solo ci dobbiamo porre con gli occhi dell’intelletto là dove non ci troviamo né possiamo trovarci con gli occhi del corpo. Quando per esempio si studia il corso delle stelle dal-la sfera terrestre su cui ci troviamo, risulta una strana confusione che in un migliaio di anni gli e-sperti di astronomia a malapena hanno potuto portare ad alcune regole certe, e tali regole sono così ardue e scomode che un re di Castiglia di nome Alfonso, dopo aver fatto costruire tavole su tavole del decorso celeste, per difetto di giusta conoscenza deve aver detto che, se egli fosse stato consi-gliere di Dio quando questi aveva creato il mondo, la cosa sarebbe venuta meglio. Ma dopo aver in-fine scoperto che, se si voleva studiare bene il decorso dei cieli, si doveva porre l’occhio nel sole, e che allora tutto risultava stupendamente bello, si vede che del presunto disordine e caos non aveva colpa la natura, ma il nostro intelletto»27.

Questo è dunque l’imperativo ipotetico del conoscere umano in generale: se realmente noi vogliamo [wollen] trasformare il caos apparente in qualcosa di ordinato ed armonico, allora noi dobbiamo [müssen] di volta in volta sforzarci di «mettere il nostro occhio nel sole». Di qui anche il problema e il compito essenziale dello storico: trasformare il caos dei dati empirici, la selva delle fonti, dei documenti, delle testimonianze in un tutto ordinato ed orientato verso ciò che di epoca in epoca può presentarsi o dimostrarsi come il possibile «punto focale» dei fatti, delle azioni e soprat-25 Gotthold Ephraim Lessing [1729-1781] drammaturgo e filosofo tedesco: Il cristianesimo della ragione (1753), Sulla genesi della religione rivelata (1753-55), Laocoonte (1766), L’educazione del genere umano (1780). 26 Cfr. E. CASSIRER, Leibniz’ System in seinen wissenschaftlichen Grundlagen [1899], in ID. Gesammelte Werke, Band 1, Hamburger Ausgabe, Felix Meiner Verlag, 1998 [ECW 1] (trad. it. di G. A. De Toni, Carte-sio e Leibniz, Laterza, Roma-Bari, 1986), p. 396-97 (trad. it. p. 323). 27 ECW 1, 399 (trad. it., pp. 325-326); i corsivi sono di Cassirer.

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tutto delle intenzioni dei vari individui e gruppi. Per quanto contrastanti o divergenti le singole linee di forza (i loro atti, i loro mezzi e i loro fini) possano apparire, spetterà all’occhio dello storico indi-viduare e scoprire la tendenza armonica dominante, il punto di convergenza eminente, che possa comprenderle e tutte compenetrare in un unico sguardo storico. Ed appunto alla medesima esigenza metodica obbedisce il «giudizio storico» dello stesso Cassirer, quando proprio in questo punto cen-trale della metafisica leibniziana egli individua il principio e la tendenza unitaria della nascente filo-sofia della storia tedesca, che nell’armonia e nel contrasto da Lessing porterà fino a Hegel28.

«Il pensiero dell’armonia universale ci dispensa dalla questione dei fini materiali di ogni sin-golo accadere. Il sapere che la vera visione teleologica (die echte teleologische Ansicht) risulta solo dal piano complessivo dell’accadere, supera la concezione ingenua che nel processo storico vuole vedere ovunque il realizzarsi di determinati fini empirici. Insegnandoci a “porre l’occhio nel sole”, tale conoscenza elimina ogni unilaterale considerazione dell’utile che confonde con l’assoluto il punto di vista accidentale del soggetto. Ora nessun singolo popolo, né alcuna singola religione può più valere da unico portatore e rappresentante dell’evoluzione teleologica della storia. Nell’universalismo del concetto di armonia si vengono così preparando l’unità complessiva del concetto di humanitas (Humanität) e l’applicazione di tale concetto alla filosofia della storia»29.

Nello sviluppo effettivo dell’idealismo classico tedesco il passaggio decisivo dalla biologia alla storia viene operato da Schelling, che in questo modo intende rifondare la «filosofia della natu-ra» nella forma più pura. Quando Schelling parla di natura, egli non pensa a un essere che si esauri-sce nell’estensione e nel moto (come ancora essenzialmente in Descartes e in Spinoza). Egli la co-glie non come una totalità di ordinamenti geometrici e leggi meccaniche, ma come una totalità di forme e forze viventi. La natura della fisica matematica decade per lui a mera astrazione, a ombra. La natura possiede un’autentica e vera realtà solo nella forma dell’accadere organico e della confi-gurazione organica. Da questo primo gradino dell’essere il pensiero filosofico si eleva verso il mondo dello spirito: verso il mondo della storia e della cultura. Perché ci sia autentica «storia», è necessario che il mero divenire biologico accada per una coscienza, ossia per l’«osservatore uma-no», per lo «spirito contemplatore», il quale così si immette in questo accadere, vi si proietta dentro, considerando se stesso come «la fine» ed «il fine» dell’accadere. Immettendo il concetto dell’«Io» (= «Spirito») nel concetto della «Natura» (= «Vita»), Schelling enfatizza in senso metafisico il rap-porto dinamico interno/esterno («conscio»/«inconscio», soggetto/oggetto, forma/materia), ossia il divenire dell’«Autoconsapevolezza della Vita», il suo continuo perdersi e ritrovarsi nelle forme del-la natura, la quale altro non è ora che «l’Odissea dello spirito», il quale cercando se stesso fugge se stesso30.

Ma questa «storia dello sviluppo», anche se essa viene da Schelling descritta ed interpretata come «storia dello spirito» in senso metafisico, ancora non è quel fenomeno che in realtà ci compa-re davanti nella forma della «storia umana». In quest’ultima infatti il momento soggettivo, l’affiorare della coscienza storica, si presenta in modo del tutto diverso. Perché il puro e semplice accadere possa diventare «storia», non basta che esso continui e in questa continuazione progredi-sca in forme nuove, non basta neppure che esso si ripeta nel tempo, bensì è necessario e fondamen-tale che esso venga anche «saputo» come una tale ripetizione, ossia come un accadere unitario, i-

28 Per un’esposizione più dettagliata su questo punto, cfr. G. SAPONARO, Appunti cassireriani sul concetto della storia, in AA. VV., «Il contesto è il filo di Arianna». Studi in onore di Nicolao Merker, a cura di S. Gensini, R. Petrilli, G. Punzo, Edizioni ETS, Pisa, 2009, pp. 215-237. 29 ECW 1, 400 (trad. it., p. 326). 30 Cfr. F.W.J. SCHELLING, System des transzendentalen Idealismus [1800], cap. 6, par. 3, in Sämtliche Wer-ke, III, p. 628 (trad. it. a cura di G. Boffi, Sistema dell’idealismo trascendentale, Bompiani testi a fronte, Mi-lano, 2006, p. 579): «Ciò che chiamiamo natura è un poema che giace nascosto in una segreta, meravigliosa scrittura. Se però l’enigma potesse svelarsi [Schelling qui allude al velo di Iside, la divinità di Saïs], vi po-tremmo riconoscere l’odissea dello spirito che, mirabilmente ingannato, rifugge se stesso nell’atto di cercar-si; giacché attraverso il mondo sensibile, al pari del senso attraverso le parole, traluce stentatamente come in una semidiafana nebbia quel paese della fantasia cui aneliamo».

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dentico a sé, come un accadere «continuo». A tale scopo l’accadere ha bisogno della «ri-petizione» in un senso nuovo, non già passivamente (come in Schelling, conscia o inconscia che essa sia), ben-sì in senso attivo. Qui non basta che l’accadere ritorni continuamente e in questo ritorno si riprodu-ca in modo sempre nuovo, e lo faccia in determinate forme, esso ora deve essere soprattutto «ricor-dato», ossia, sempre di nuovo, esso deve essere strappato al pericolo dello scomparire, essere atti-vamente afferrato e tirato fuori dall’abisso del dimenticare, essere «ri-preso», «ri-chiamato» [wie-der-geholt]. Questo ri-petere [Wider-Holen] (dal latino re-petere, di novo chiedere, di nuovo cerca-re di avere) è la grande funzione del «ricordo», della «memoria», della «Mneme» storica, della «Mnemosyne» (= reminiscenza). Aver riconosciuto questa funzione nel suo significato più proprio ed averla reintegrata nei suoi diritti: è questo il passo in più, un passo importante, che Hegel compie rispetto a Schelling.

Nel giudizio di Cassirer e nella ricostruzione storica da lui proposta, questo passo — nonché l’uso del termine Erinnerung, che è l’equivalente di Mnemosyne, con cui Hegel, giunto al termine della sua Fenomenologia dello spirito, si volge a contemplare il cammino percorso — rappresenta il primo riconoscimento strettamente «filosofico» della storia, la prima volta che la storia in quanto tale viene innalzata a «tema» filosofico, e questa tematica è del tutto indipendente dalla «soluzione metafisica» che Hegel ha poi dato. Non è soltanto una «sua» filosofia della storia (pur discutibile, quanto al suo contenuto materiale, su cui non è possibile soffermarsi in questa sede) ciò che Hegel ha dato, ma piuttosto, ancora più importate ai fini del presente studio, la prima analisi della forma storica del conoscere:

«Il sapere non conosce solamente sé, ma anche il negativo di se stesso, ossia il proprio limite. Sapere il proprio limite significa sapersi sacrificare. Questo sacrificio è l’esteriorizzazione [Entäuß-erung] in cui lo spirito presenta il proprio divenire spirito nella forma dell’evento libero contingente [freien zufälligen Geschehens], intuendo il proprio Sé come il tempo che gli è esterno, e così pure il proprio essere come spazio. Questa modalità estrema del divenire dello spirito, la natura, ne costi-tuisce il divenire vivente immediato; la natura — lo spirito esteriorizzato — nella sua esistenza non è null’altro che questa eterna esteriorizzazione del suo sussistere [Bestehens], nonché il movimento che instaura il soggetto.

«Ma l’altro lato del divenire dello spirito, la storia, è il divenire nell’atto del sapere e del me-diare se stesso: lo spirito esteriorizzato nel tempo; […] Tale divenire [dello Spirito] presenta un movimento greve e una lenta successione di spiriti: una galleria di immagini, ciascuna delle quali, provvista dell’intera ricchezza dello Spirito, si muove tanto grevemente proprio perché il Sé deve compenetrare e digerire tutta questa ricchezza della sua sostanza. Dato che il compimento dello spi-rito consiste nel sapere perfettamente ciò che esso è — la sua sostanza —, questo sapere è allora il suo introiettarsi [In-sich-gehen, l’andare in se stesso], in cui esso abbandona la propria esistenza e dà la sua figura in consegna al ricordo [Erinnerung]. Nel suo introiettarsi lo spirito è immerso nella notte della sua autocoscienza, ma il suo esistere dileguato è conservato in quel ricordo, e questa esi-stenza levata — l’esistenza precedente, ma ormai rinata dal sapere — costituisce l’esistenza nuova, un nuovo mondo e una nuova figura dello spirito. In tale figura esso deve ricominciare daccapo, in maniera altrettanto ingenua, presso la sua immediatezza, e muovendo di qui deve ricominciare la sua generosa ascesa e farsi grande, come se tutto quanto precede fosse per lui perduto, e come se non avesse imparato nulla dall’esperienza degli spiriti che lo hanno preceduto. Ma essi sono stati conservati da questo processo di ri-cordo e interiorizzazione [Er-Innerung], che è l’interno e, di fat-to, la forma più elevata della sostanza. Se dunque questo spirito ricomincia nuovamente daccapo a coltivare la propria formazione prendendo in apparenza le mosse solamente da sé, nel contempo es-so ricomincia comunque da un gradino più elevato. […] La meta, il sapere assoluto, ossia lo spirito che si sa come spirito, ha per proprio cammino il ricordo [Erinnerung] degli spiriti, per come sono in se stessi, e per come danno compimento all’organizzazione del loro regno. La loro conservazio-ne, secondo il lato della loro libera esistenza che si manifesta fenomenicamente nella forma della contingenza, è la storia [Geschichte]; mentre secondo il lato della loro organizzazione intesa concet-tualmente è la scienza del sapere che appare nel fenomeno [Wissenschaft des erscheinenden Wis-

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sens]. I due lati insieme — cioè la storia concettualmente intesa — formano la memoria e il Calva-rio [die Erinnerung und die Schädelstätte31] dello spirito assoluto, l’effettualità, la verità e la certez-za del suo trono, senza il quale esso sarebbe l’entità solitaria priva di vita»32.

Era necessario richiamare questa lunga pagina per comprendere, pur nell’unità della meta e nel convergere degli intenti, la fondamentale differenza che corre tra il tipo di reminescenza cui perviene la conoscenza metafisica speculativa e il tipo di ricordo che rende invece possibile, attra-verso la conoscenza empirica, il lento e paziente lavoro degli storici, i quali nel corso dell’intero Ot-tocento hanno voluto, spesso in polemica e in concorrenza con la storia dei filosofi, conferire digni-tà di scienza (reale ed accertabile) alla loro disciplina, senza con ciò mai pretendere da essa la verità assoluta. La conoscenza storica, in quanto sapere empirico (ex datis), non può pensare i fatti e i fe-nomeni della cultura umana, le opere d’arte, i miti, le religioni, i linguaggi, le organizzazioni sociali e politiche, senza collocare tutto ciò nella dimensione del tempo. Per lo storico le relazioni tempora-li costituiscono per così dire il tessuto connettivo del suo pensiero, l’elemento in cui la storia vive, si muove e ha la propria realtà. Sia i fatti della storia (res gestae) sia la conoscenza che di questi si può ottenere (historia rerum gestarum) dovranno sempre entrambi essere considerati frutti del tem-po infinito; di conseguenza la loro verità potrà via via completarsi e perfezionarsi, senza con ciò mai pretendere di essere la verità totale ed assoluta. Quest’ultima per lo storico rimarrà sempre ciò che effettivamente essa è, ossia un puro e semplice «ideale» da raggiungere, inattingibile ex datis, e perciò appunto ragion d’essere e fondamento del compito infinito della storia. Ma la filosofia specu-lativa, in quanto sapere puramente razionale (ex principiis) non può accettare questo modo di vede-re. Per Hegel, come si è visto, la verità è il «tutto», e il tutto è però solo l’essenza che giunge al compimento di sé attraverso il suo «sviluppo». Scaturendo spontaneamente dalla necessità così in-tesa del suo divenire, il vero è da Hegel designato come la «frenesia bacchica in cui non v’è mem-bro che non sia ebbro»33. Ciò significa che, anche quando la filosofia speculativa s’interessa ai fe-nomeni del tempo, al flusso e riflusso della storia, questa sfera non la soddisfa. Essa tende a levarsi al di sopra di essa, a contemplare il regno della realtà effettuale sub specie aeternitatis.

«L’idealismo speculativo di Hegel si presenta come un processo mediante il quale questa tra-sformazione, questa metamorfosi spirituale del tempo, si realizza. Tempo e storia non sono altro che aufgehobene Momente [momenti levati], ovvero l’auto-attualizzazione dell’Idea assoluta. In sé pre-sa, l’Idea va esente da tutti i condizionamenti e le determinazioni del tempo. Non ha passato né fu-turo. È assoluta e onnipresente. È wesentlich jetzt [essenzialmente adesso], come dice Hegel»34.

VI. Oggi, ieri, domani Friedrich Schlegel definì lo storico «einen rückwärts gekehrten Propheten», ossia un profeta

dallo sguardo rivolto indietro; in effetti una «profezia» del passato è quella che di esso ci rivela per la prima volta la vita finora nascosta. Questa connessione tra passato e presente è innegabile, ma si è prestata anche a interpretazioni diverse, le cui conclusioni, talvolta inconciliabili, hanno finito col gettare ombre sulla certezza e sul valore della conoscenza storica in generale. Postulando il primato del presente sul passato, si rischia di approdare a un’assolutizzazione dell’attualità contemporanea (del potere dell’«adesso»), la quale per le sue eccessive pretese può generare riserve e dubbi sul va-lore della storicità, proprio nel momento in cui essa la vuole accreditare in massimo grado. È questa 31 Cfr. MATTEO 27. 33: «Giunti a un luogo detto Golgota, che significa luogo del cranio, gli diedero da bere vino mescolato con fiele». 32 G.W.F. HEGEL, La fenomenologia dello spirito, a cura di Gianluca Garelli, Einaudi, Torino, 2008, pp. 530-532. 33 Ivi, p. 33. 34 Cfr. E. CASSIRER, L’idealismo critico come filosofia della cultura [1936], in ID., Simbolo, mito e cultura, cit., p. 88.

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la posizione radicale dello «storicismo assoluto» di Benedetto Croce, secondo cui la storicità non è solo un aspetto particolare della realtà, una sua caratteristica accanto ad altre e al pari di altre, ma si afferma come l’essenza stessa della realtà. Di conseguenza, ogni storia è storia contemporanea e la stessa filosofia altro non è che storia della filosofia. Così pure, se tutto è storia, la storia è tutto: non esiste nessun regno dell’essere al di fuori e al di sopra della realtà storica, né altro oggetto per il pensiero filosofico.

Già prima di Croce, nella seconda metà dell’Ottocento, Friedrich Nietzsche, partendo anch’egli dal primato della vita presente sul passato storico, era però giunto ad una conclusione diametralmente opposta. Nella seconda delle sue Considerazioni inattuali35 egli si prodiga in un vi-olento attacco contro il valore della storia e contro il cosiddetto «senso storico», il quale, lungi dall’essere un privilegio e una conquista della cultura moderna, rappresenterebbe in verità, per essa, un pericolo intrinseco, anzi una malattia. Il passato (= ciò che è morto) lo si può spiegare con quel che vi è di più alto nel presente (= con ciò che è vivo); dunque il passato deve restare sempre subor-dinato al presente, come il servo al suo padrone. La storia (= la vita nel pensiero e del pensiero) non avrebbe altro scopo, secondo Nietzsche, se non quello di stare al servizio della vita e dell’uomo (= la vita fuori del pensiero, la vita come mero operare, come pura dimensione della volontà e dell’agire). Ora la «malattia» portata dal «senso storico» è il sintomo della usurpazione del potere del padrone da parte del servo, che in tal modo ha voluto ergersi a padrone, ossia del dominio del passato che succhia le energie vitali del presente, anziché alimentarle; così per un eccesso di storici-tà la nostra vita è stata mutilata ed è degenerata. La storicità (= lo spirito) ostacola ogni più potente impulso all’azione e paralizza il manifestarsi della volontà (= della vita). Infatti, per agire — secon-do Nietzsche — la maggior parte degli uomini avrebbe bisogno di dimenticare. Così il senso stori-co, portato all’estremo, pregiudica gravemente il futuro.

Su questa svalutazione dello «storicismo» grava una presunta contrapposizione, tanto tragica quanto metafisica, tra «Vita» e «Spirito», ipostatizzati qui come potenze assolutamente inconciliabi-li ed in eterno conflitto tra di loro, alla stregua del Bene e del Male. In particolare essa presuppone l’adesione di Nietzsche alla filosofia di Schopenhauer: la vita altro non è che la manifestazione di una «volontà cieca»; la vera vita attiva implica come sua autentica condizione tale «cecità» del vo-lere e dunque il rifiuto di vedere; tale rifiuto va a scapito soprattutto del pensare e del conoscere, es-sendo il pensiero e la conoscenza «per essenza» antagonisti dell’energia vitale. Questa «considera-zione inattuale» di Nietzsche in realtà si smentisce da sé, già per il semplice fatto di essere essa stessa «passata» in senso storico, senza avere con ciò mai smesso di destare in seguito, e ancora og-gi, «vivaci» dibattiti e stimolanti, diversificate interpretazioni.

In verità non si può modellare il futuro, senza al tempo stesso essere coscienti sia delle condi-zioni presenti sia delle limitazioni che derivano dal passato. Anche questa nostra breve riflessione storiografica sulla genesi e sullo sviluppo dell’idea della storia nell’Ottocento, benché incompleta, conferma questo assunto. Come si è cercato di mostrare, sia Herder sia il nuovo umanismo tedesco ripartono da Leibniz, per il quale il presente, inteso non solo come essere fisico, ma come puro pre-sente spirituale, racchiude in sé sempre un doppio momento. Esso è «chargé du passé et gros de l’avenir», è carico di passato, ma nello stesso tempo gravido di futuro.

«La storia non può predire gli avvenimenti futuri, può solo interpretare il passato. Ma la vita umana è un organismo in cui tutti gli elementi si implicano e si spiegano a vicenda. Così ogni nuova comprensione del passato apre contemporaneamente una nuova prospettiva sul futuro, la quale a sua volta si traduce in un impulso per la vita intellettuale e sociale. Per questa doppia visione del mondo, nel passato e nell’avvenire, lo storico deve scegliere un punto di partenza. Non può trovarlo che nel proprio tempo, perché non può prescindere dalle condizioni della sua esperienza attuale. La conoscenza storica è la risposta a precise domande; la risposta viene data dal passato, ma le doman-

35 Cfr. F. NIETZSCHE, Unzeitgemäße Betrachtungen, II: Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben (Sull’utilità e il danno della storia per la vita), Leipzig, 1874.

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de sono poste e dettate dal presente — dai nostri interessi intellettuali, dai bisogni morali e sociali attuali»36.

Ma nessuna domanda e nessuna risposta sarà mai l’ultima e la definitiva; almeno per noi, per-ché anche i nostri interessi e i nostri bisogni sono soggetto e oggetto di storia. Ciò significa che ogni risposta della storia è in grado di dirci la verità, ma non necessariamente tutta la verità. Proprio la coscienza di questo limite apre ogni volta la strada alle domande e alle risposte future. Dunque il passato resterebbe muto e privo di senso per noi, se esso non venisse di continuo interrogato e rein-terpretato nel presente, senza però mai giungere a una conclusione definitiva, pena la fine del passa-to, ma anche del futuro. Nel campo della storia delle idee, per es., nessuna interpretazione potrà pre-tendere il monopolio della verità. L’ipotesi che Omero non sia in realtà mai esistito non toglie nulla alla «verità» dell’Iliade e dell’Odissea. Così come il non aver lasciato nulla di scritto non ha preclu-so il futuro né tolto spessore alla «figura storica» di Socrate. La storia della filosofia ci ha fatto co-noscere il Socrate di Senofonte e quello di Platone, ma anche un Socrate stoico, scettico, mistico, razionalista, romantico. Essa ci presenta immagini e interpretazioni del tutto diverse, ma non per questo false; anzi, ciascuna di esse completa la verità storica e la arricchisce, facendola di volta in volta «rinascere» da punti di vista nuovi e sempre interessanti.

Talvolta, pur di eludere l’oneroso ufficio del restauro e del rinnovamento storici, si può essere tentati di anteporre l’opinione immediata e diretta, che ogni autore può esprimere su se stesso e sul-la propria opera, ad ogni altra interpretazione successiva. Tuttavia non è affatto certo che un autore comprenda se stesso e la propria opera sempre meglio di quanto possano fare i suoi interpreti. In un’importante sezione della Critica della ragione pura, confrontandosi da interprete e da filosofo con la dottrina platonica delle idee, Kant ha voluto mettere in evidenza questo punto:

«Secondo la sua [di Platone] opinione, le idee emanarono dalla ragione suprema, onde furono partecipate alla ragione umana: quest’ultima, peraltro, adesso non si trova più nel suo stato origina-rio, ma deve richiamare faticosamente, attraverso la reminiscenza (che si chiama filosofia), le vec-chie idee, ora assai oscurate. Non entrerò qui in una discussione letteraria, per stabilire esauriente-mente il senso, con cui quel sublime filosofo congiungeva tale espressione. Osservo soltanto che non vi è nulla d’insolito nel fatto che — tanto nelle conversazioni comuni quanto negli scritti, e mediante il raffronto dei pensieri espressi da un autore sul suo oggetto — si possa intendere l’autore anche meglio di quanto egli intendesse se stesso: può accadere infatti, che costui non abbia deter-minato sufficientemente il suo concetto, e così abbia talvolta parlato, o anche pensato, contraria-mente alla propria intenzione»37.

La serie delle interpretazioni, soprattutto nel campo dei concetti e dei problemi filosofici, è storicamente infinita, perché ogni nuova soluzione non manca mai di aprire nuovi problemi. A suo modo, per proiettarsi in avanti verso il futuro, anche la comprensione filosofica deve fare qualche passo indietro, deve, per così dire, procedere a ritroso («profetizzare il passato»). Tutto ciò vale an-che per altri soggetti storici e persino per singoli fatti della storia politica. La «battaglia di Azio», per es., può essere osservata e compresa a distanza molto ravvicinata, con l’aiuto di un immaginario zoom temporale (rivelandosi così essa come il punto decisivo in cui si incrociano e si scontrano in-nanzitutto le personalità e le trame dei principali protagonisti, Antonio, Cleopatra, Ottaviano …), oppure ripresa più da lontano con il grandangolo della storia (ridimensionandosi allora come un e-pisodio bellico tra mille nel contesto più ampio di quattro secoli di lotte tra Oriente ed Occidente, fino alla distruzione dell’impero romano, ed oltre …). Ma, lungo o corto che possa essere lo sguar-do, scrivendo e riscrivendo la propria storia l’uomo tenta ogni volta di sfidare il potere del tempo. Egli cerca in tal modo di sottrarsi al perenne fluire delle cose, di rendere eterna e di immortalare la propria vita. L’uomo non può vivere e sopravvivere solo in senso biologico, come un puro animale (hic et nunc). Per vivere pienamente la propria vita, l’uomo deve anche sforzarsi continuamente di esprimerla, di esteriorizzarla e di oggettivarla in una forma che sia in grado di durare nel tempo, tra-

36 E. CASSIRER, Saggio sull’uomo, cit., p. 301. 37 I. KANT, Critica della ragione pura, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano, 1976, p. 375.

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scendendo i limiti ristretti e fuggenti dell’«adesso». Già nell’idea platonica dell’amore questo desi-derio di durata e di immortalità si esprime perfettamente nelle due principali forme di fecondità ero-tica con cui l’uomo cercherebbe di trascendere i limiti della sua esistenza individuale effimera: «Tutti gli uomini […] sono gravidi secondo il corpo e secondo l’anima, e quindi in un certo periodo della vita la nostra natura brama partorire. Ma partorire nel brutto non è possibile, mentre è possibi-le nel bello. L’unione dell’uomo e della donna comporta un parto. E questa cosa è divina. Nell’essere vivente mortale vi è questo di immortale: la gravidanza e la generazione. […] Ebbene, quelli che sono fecondi nel corpo si rivolgono di più verso le donne, e attuano il loro amore in que-sta maniera, credendo, mediante la generazione dei figli, di procurarsi immortalità, ricordo e felicità per tutto il tempo che deve venire. E veniamo a quelli che sono fecondi nell’anima. Ci sono infatti quelli che sono gravidi nell’anima più che nei corpi, di quelle cose che appunto all’anima conviene concepire e partorire. E che cosa, precisamente, conviene all’anima? La saggezza e le altre virtù, delle quali sono genitori tutti i poeti e quelli fra gli artefici che vengono chiamati inventori»38.

Le «invenzioni» e le espressioni simboliche della cultura umana, nelle forme del mito, nella religione, nell’arte, nella filosofia — e anche nella «storia» — si potrebbero definire come prodotti e creazioni («parti») del secondo genere di eros di cui parla Platone. Le piramidi egiziane sembrano essere state costruite per l’eternità. E così pure, come le epigrafi marmoree, le opere dei grandi sto-rici e dei grandi poeti: «Exegi monumentum aere perennius / regalique situ pyramidum altius, / quod non imber edax, non Aquilo inpotens / possit diruere aut innumerabilis / annorum series et fu-ga temporum»39.

Ma, perché ciò accada, è richiesta in ogni caso una condizione particolare. Per poter durare le opere dell’uomo debbono essere continuamente rinnovate e restaurate. Le opere umane sono vulne-rabili, possono modificarsi e decadere non solamente in senso materiale, ma anche in senso spiritua-le. Pur continuando ad esistere, esse sono esposte al pericolo di perdere il loro «significato». La loro realtà è «simbolica», non fisica; come tale essa ha bisogno di essere sempre di nuovo interpretata e reinterpretata40. Qui comincia il grande compito della storia, ma si ripropongono nello stesso tempo anche gli interrogativi fondamentali del sapere storico. Per rendere possibile la storia, è sufficiente richiamare il passato attraverso il ricordo? E questo ricordare può ridursi a un semplice ri-petere, ri-produrre, ri-specchiare? Potranno forse essere rispecchiati e ricopiati dalla coscienza e nella co-scienza cose e fatti del presente, eventi ad essa contemporanei, non già però cose e fatti «passati», anzi, «passati per sempre». Per l’astronomo le albe e i tramonti ritornano regolarmente tutti i giorni, per il fisico la caduta dei gravi o le oscillazioni del pendolo sono sempre a sua disposizione, sono perfettamente reiterabili in laboratorio, sperimentabili a piacimento e in qualsiasi momento. Ma po-trebbe lo storico fare la stessa cosa con le «guerre puniche» o con la «vita di Giulio Cesare», che in-tanto hanno un «significato» storico, in quanto rappresentano fatti unici ed irripetibili? Qui governa la legge implacabile del flusso eracliteo: nessuno può bagnarsi due volte nello stesso fiume. Questa legge vale per tutto e per tutti; a maggior ragione per lo storico, e per il flusso della storia. Quest’ultimo, inteso «in senso reale», è svanito per sempre: l’accaduto non ritorna. Come può allo-ra, ciò non di meno, esserci dato un conoscere storico senza questo ritorno? È questo il problema fondamentale del sapere storico.

La storiografia non sarà mai in grado di operare miracoli, nel senso che nessuno storico pre-tenderà mai di far «risorgere» i fatti del passato in senso fisico ed oggettivo. Ciò che invece essa può e deve fare è — come si è ampiamente già detto — «ricordarli», ossia, procurar loro una «nuo-va esistenza ideale». Come il fisico dialoga con la natura per mezzo di simboli matematici, così lo storico può interrogare i fatti del passato e attendersi da essi una risposta adeguata alle sue domande 38 PLATONE, Simposio, 208 C-209 A, in PLATONE, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Mila-no, 1991, pp. 514-516. 39 ORAZIO, Carmina, Liber III, 30, righe 1-4: «Ho eretto un monumento più durevole del bronzo e più alto della regia mole delle piramidi, che né la pioggia devastatrice, né il violento aquilone riuscirà ad abbattere, o l’innumerevole successione degli anni e il trascorrere dei secoli». 40 Cfr. E. CASSIRER, Saggio sull’uomo, cit., p. 310.

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scientifiche, solo se egli è in grado di leggere e di interpretare i simboli specifici della storia. Papiri, carte, colonne marmoree sono in se stessi solo «pezzi di materia», «cose fisiche», oggetti morti e insignificanti per noi, ma diventano subito «fonti vive», «spiriti parlanti», «documenti e monumen-ti» della storia non appena se ne decifri il linguaggio e se ne valuti la pregnanza simbolica. Se non viene adeguatamente e sapientemente interpellato, nessun fatto, nessun testo di per sé parla o dice qualcosa di sensato. Il primo passo della conoscenza storica non è la pura e semplice osservazione empirica dei dati materiali, che nella maggior parte dei casi sono frammentari, incompleti, oscuri, ma la ricostruzione ideale delle fonti riguardanti il soggetto che si vuole indagare e conoscere. Per ottenere ciò, lo storico deve seguire una via indiretta, ossia deve innanzitutto imparare a leggere e a interpretare i simboli (ermeneutica storica), risalire dalle singole fonti, dai singoli segni dispersi e accidentali a un’unità coerente e costante, capace di raccoglierli, ordinarli, connetterli insieme in una totalità significativa. Quanto più è lontano da noi l’oggetto (o il «soggetto») di cui si tratta, tan-to più difficile e complessa diventa la mediazione simbolica, la stessa arte ermeneutica, in mancan-za della quale non solo lo storico non farebbe mai parlare testi e fatti, ma non potrebbe farsi neppure un’«idea» della realtà storica, degli avvenimenti e degli uomini del passato.

Così dunque, come già sottolineato da Herder (e da Vico), riemerge anche la funzione impor-tante assolta dalla «fantasia» e dall’«immaginazione» nella speciale «palingenesi» operata dalla memoria storica. Qui ogni restituzione è di fatto possibile, non per mezzo di un rispecchiamento re-ale, ma solo attraverso una ri-costruzione ideale. In tal senso ogni racconto storico, per quanto semplice, contiene una speciale «sintesi intellettuale», presuppone un «atto costruttivo». Questo co-struire rende in un certo senso affine il lavoro dello storico alla costruzione dell’artista; non però al-la riproduzione dell’artista «mimetico» — come già detto, nessuno storico serio potrà mai pretende-re o illudersi di restituire una «copia fedele del passato» — bensì alla sintesi originale dell’artista «creatore», capace di condensare le vaghe tracce, i dispersi frammenti del passato in singoli punti di forza saldi e stabili, di farli per così dire precipitare in «figure» viventi. Questo, dunque, è il primo essenziale compito dello storico: dare forma al passato attraverso la sintesi immaginativa e la co-struzione figurativa; ossia renderlo innanzitutto «visibile», presentarlo come figura. Come ogni grande artista, un grande storico si riconosce subito dalla «forza simbolica» che anima e vivifica ogni configurazione, ogni affresco, ogni personaggio del suo racconto.

Ciò vale per tutte le principali forme storiografiche. Goethe non avrebbe potuto scrivere il suo capolavoro autobiografico, sintesi perfetta di «Poesia» e «Verità» — Dichtung und Wahrheit, come già annuncia il titolo —, senza la sua capacità di «trasformare il passato in una immagine», ossia di unificare la «storia dell’Io» (= la Verità della sua vita) nella forma del «romanzo dell’Io» (= la Poe-sia della sua vita). Questa primaria capacità del «trasformare il passato in una immagine» non è pri-vilegio di poeti, ma è un requisito di cui nessuno storico autentico potrà mai fare a meno. Ciò non ha nulla a che fare con l’arte retorica del raccontare, ossia con la tecnica o con la forma espositiva mediante cui vengono comunicate ad altri le proprie visioni. Prima ancora di imparare a fare ciò, l’autentico storico deve essere già abbastanza «artista» nel modo in cui egli ottiene e si dà da sé le proprie «immagini», le proprie «visioni», ossia, nel suo stesso originario ed unico «modo di vede-re». Ciò vale non solo per un poeta come Goethe, ma anche per storici come Ranke, come Mom-msen o Burckhardt. Dopo aver creato il Corpus Inscriptionum, organizzato la numismatica, pubbli-cato una Storia della moneta — imprese queste ascrivibili a uno storico non certo a un artista —, nominato infine rettore dell’università di Berlino, nella sua prolusione Mommsen sostenne che la figura ideale dello storico fosse da annoverare più fra gli artisti che non fra gli eruditi. Pur essendo lui stesso un eminente maestro nel campo delle discipline storiche, egli non esitò ad affermare che la storia non è materia che si possa padroneggiare solamente in base ad un insegnamento e all’apprendimento:

«Saper ordinare migliaia di fili e penetrare l’individualità di uomini e nazioni è una dote da genio, non acquisibile per mezzo di tutto ciò che è insegnamento e apprendimento. Se un professore di storia crede di essere capace di formare degli storici allo stesso modo in cui vengono formati gli

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studenti delle discipline classiche o della matematica, egli nutre una illusione pericolosa e dannosa. Storici non si diviene, si nasce; lo storico non può venire formato da altri, deve formarsi da sé»41.

Del resto può accadere che un popolo intero venga trattato come se fosse un «Io collettivo» e la «storia nazionale» diventi in questo senso una forma storiografica affine all’autobiografia. In tal caso si assiste anche ad un’elevazione e ad un allargamento della funzione storica: chi diventa criti-camente «consapevole» di sé, attraverso il medium della ricostruzione del proprio passato, ora non è più soltanto il singolo individuo, bensì l’intera nazione. «E la vera grande storia nazionale, come essa fu esercitata dagli autentici maestri, di conseguenza non mirò neppure mai alla nuda esaltazio-ne del proprio popolo, essa non incorse nella mania di grandezza del nazionalismo, ma tenne gior-no d’udienza davanti al foro della storia del mondo, che valse per essa come il tribunale del mon-do. Essa interrogò il passato, per ottenere risposte sul presente e sul futuro, essa ebbe bisogno del ricordo, per far maturare le nuove decisioni. In questo senso uno storico come Huizinga42 defini-sce ogni conoscenza storica come un atto della autoriflessione [Selbstbesinnung]»43. Ad ulteriore conferma del fatto che in fondo nella storia si cerca una conoscenza non di cose esteriori ma di se stessi.

Anche nella forma «psico-sociologica» della storia lo sguardo configurante dello storico non può venire meno. In questo caso la «figura» principale su cui esso si dirige è costituita non già e non più dai singoli eventi del divenire (come nella storia strettamente politica) ma dai «momenti ti-pici» del medesimo, come avviene nella storiografia di Lamprecht44.

Tuttavia, di là dalla vita di un individuo (biografia), di una nazione (storia politica) o di una comunità più complessa (storia sociologica), un’ultima forma di vita sembra agevolare e rendere possibile, meglio di ogni altra, il compito della conoscenza storica: la speciale forma di vita dell’opera culturale. Non solo le piramidi e il Colosseo, ma anche opere come la Gioconda di Leo-nardo, la Nona sinfonia di Beethoven, la Critica della ragione pura di Kant, la Divina commedia di Dante Alighieri, sono state costruite, dipinte, composte, scritte per restare e per durare. Per la fun-zione culturale che esse assolvono, non appartengono ai rispettivi autori, né al popolo italiano o te-desco, ma sono patrimonio dell’umanità. Non sono solo eventi culturali del loro tempo e per il loro tempo, ma «monumenti perenni» della storia dell’arte, della letteratura, della musica, della filosofia; sono beni inesauribili, infinitamente rievocabili e replicabili nella contemplazione estetica, nella let-tura, nell’ascolto, nella riflessione e nella meditazione. Non sono beni di consumo della giornata, ma investimenti spirituali permanenti, assicurazione e patrimonio per le generazioni future. Tutto ciò è però possibile ad una condizione: ancor più dei valori materiali, ogni eredità spirituale non è semplicemente un «dono» [Gabe], bensì un dovere e un «compito da assolvere» [Auf-gabe]. Senza il lavoro assiduo e costante degli storici, senza la filologia storica, senza l’arte dell’interpretazione contenuta in ogni autentica opera storiografica, non solo le opere culturali sarebbero mute per noi, ma la stessa vita umana sarebbe assai povera cosa, perderebbe la sua energia animatrice. Sarebbe una «vita senza ricerca», senza idealità, un’«esistenza gettata», confinata in un unico momento del tempo, prigioniera dell’hic et nunc. Non avrebbe passato, e pertanto neppure futuro: giacché il pen-siero del passato e il pensiero del futuro dipendono l’uno dall’altro.

41 T. MOMMSEN, Rektoratsrede (1874) in Reden und Aufsätze, Berlin, 1912, cit. in E. CASSIRER, Saggio sull’uomo, cit., p. 338. Un analogo punto di vista fu espresso in una lettera da Jakob Burckhardt: «Ciò che io costruisco storicamente non è il risultato di una critica o di una speculazione ma dell’immaginazione, la qua-le ha cercato di colmare le lacune presentate dal materiale da me considerato. Per me, la storia è sempre, in alto grado, poesia; è una serie di composizioni bellissime e pittoresche». Ivi, p. 337. Jacob Burckhardt [1818-1897] storico svizzero: Costantino il Grande e i suoi tempi (1853), Il Cicerone, guida al godimento dell’arte in Italia (1855), La civiltà del rinascimento in Italia (1860), Storia della civiltà greca (4 volumi, postumo, 1894-1902), Considerazioni sulla storia universale (postumo, 1905). 42 Johan Huizinga [1872-1945] storico e saggista olandese: Autunno del medioevo (1919), Erasmo (1924-25), Homo ludens (1939). 43 Cfr. G. SAPONARO, Appunti cassireriani sul concetto della storia, cit., p. 230-231. 44 Vedi, sopra, nota 18.

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VII. Romanticismo e naturalismo Il punto di forza della filosofia della storia (e della filosofia della cultura) del romanticismo

costituisce anche il suo punto di debolezza. Esso consiste nell’aver voluto cogliere con un unico colpo d’occhio [Blick] e illustrare sulla base di un unico principio tutte le manifestazioni della co-scienza, dal primo magico crepuscolo del mondo mitico, dalla saga e dalla poesia fino alle più alte oggettivazioni del pensiero nel linguaggio, nella scienza, nella filosofia. Il «regno della fantasia» di cui parla Schelling e il campo del conoscere rigorosamente logico si compenetrano qui in modo co-stante e continuo, senza mai approdare ad una differenziazione critica. Le maggiori prestazioni creative del romanticismo si debbono alla forza unificante dell’immaginazione e dell’intuizione, che abbraccia insieme la vita della natura e tutte le forme dell’essere spirituale. È sembrato che si dischiudessero qui per la prima volta le autentiche e profonde fonti del mito e della religione, del linguaggio e della poesia, dell’eticità e del diritto. Basterebbe semplicemente menzionare nomi co-me Eichhorn45 o Savigny46, come Jakob Grimm47 o August Boeckh48, per accennare a ciò che que-sto movimento ha significato ed ha generato per la fondazione della storia del diritto, della storia del linguaggio, della scienza dell’antichità classica. La filosofia del romanticismo ha indubbiamente preparato il terreno per questo imponente lavoro scientifico e lo ha anche alimentato e ispirato in modo particolare.

Ma ispirare questo lavoro per mezzo dell’intuizione o dell’immaginazione e fondarlo in senso logico non sono la stessa cosa. Questa filosofia anti-illuministica poteva vagheggiare per ogni pro-dotto della cultura un misterioso «inizio» [Anfang] nella notte della natura e del mito, non già riflet-tere in termini rigorosamente critici e razionali sul «principio» [Prinzip] logico delle scienze della cultura. Nel primo romanticismo l’interesse per la «storia» eclissò ogni altro interesse. È da tale punto di vista che i pensatori romantici denunciano le teorie giusnaturalistiche dello Stato. Il con-tratto sociale non è un fatto storico, ma una mera finzione. Tutte le teorie dello Stato che muovono da presupposti del genere sono costruite sulla sabbia. Il diritto e lo Stato non sono stati «fatti» dagli uomini. E, non essendo il prodotto di volontà individuali, non sono di conseguenza neppure posti sotto la giurisdizione di tali volontà. Non sono dunque vincolati, né limitati dai nostri pretesi diritti individuali.

Per quanto la filosofia romantica tenti di «spiritualizzare la natura» e parli il linguaggio della metafisica spiritualistica, essa resta fondamentalmente ancorata al naturalismo. Infatti, storia e cul-tura sono da essa ricondotte interamente nel grembo della vita organica. L’una e l’altra non possie-dono una vera e propria «autonomia», nessuna originalità e indipendenza. Non sorgono dal fondo di un’originaria spontaneità dell’io, ma sono un tranquillo divenire e crescere, che, per così dire, si compie da sé. Come il seme che ha solo bisogno di essere affondato nella terra, per far nascere da essa un albero, così il diritto, il linguaggio, l’arte, la moralità sorgono dalla forza originaria dello «spirito del popolo» [Volksgeist]. Questa calma e questa sicurezza racchiudono in sé un elemento di passiva accettazione e di rassegnazione nel modo di pensare e di riflettere. Il mondo della cultura

45 Johann Gottfried Eichhorn [1752-1827] orientalista, teologo ed erudito tedesco: Introduzione ai libri apo-crifi dell’Antico Testamento (1793). 46 Friedrich Karl von Savigny [1779-1861] giurista tedesco, fondatore della scuola storica del diritto: Il dirit-to possessorio (1803), Storia del diritto romano nel medioevo (1815-31), Sistema del diritto romano attuale (1840-49), Le obbligazioni (1851-53). 47 Jacob Grimm [1785-1863] filologo, linguista e scrittore tedesco: Fiabe dei bambini e del folclore (1812-1822), Le antichità giuridiche germaniche (1828), Mitologia germanica (1835), Grammatica germanica (1819-37). 48 August Boeckh [1785-1867] filologo e storico tedesco: L’economia pubblica degli ateniesi (1817), Enci-clopedia e metodologia delle scienze filologiche (1877).

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non è più visto come un mondo del libero agire; è vissuto piuttosto come un destino. Secondo i principî della scuola storica del diritto così come furono esposti da Savigny, l’uomo non ha potuto creare il diritto più di quanto abbia potuto creare il linguaggio, il mito, la religione. La cultura u-mana non è il frutto di attività umane libere e consapevoli, ma nasce sul terreno di una «necessità superiore». Nasce dallo spirito della nazione, il quale opera e crea inconsapevolmente. In tal senso, per esempio, Savigny ha cercato di fondare ogni formazione del diritto sul «costume», sulla «con-suetudine» e sulla «credenza popolare», e di limitarla a queste sfere, proclamando continuamente che il vero diritto possa nascere solo attraverso tali «forze interne, silenziosamente agenti»49. Nell’immagine della trasognante e sicura esistenza delle piante si presenta con evidente plasticità e forza il fermo e radicale dominio di una potenza, rispetto al cui secolare avanzamento tutti gli scon-volgimenti e le lacerazioni del corso del mondo significano solo un’increspatura della sua superfi-cie. Ma questo modo di pensare l’organismo sprigiona una forza e un fascino che ne manifestano insieme tutta la debolezza, perché esso mette in evidenza la dissoluzione dell’individuo nella specie e la nullità dell’esistenza personale, conseguenze imbarazzanti, che questa dottrina non può in alcun modo né nascondere né eludere.

Qui cade l’incantesimo del pensiero romantico. Il velo magico in cui esso aveva avvolto la na-tura e la storia si lacera completamente nel momento in cui la conoscenza non si accontenta più di sprofondare in modo puramente intuitivo o sentimentale nelle fonti oscure ed irrazionali della vita, ma in luogo di ciò esige un «sapere» della vita. Viene a questo punto abbandonata la «filosofia della natura» di Schelling; al suo posto subentra l’ideale di una conoscenza puramente empirica, di una scienza unica, capace di spiegare, sulla base delle leggi universali della natura, tanto i fenomeni del-la «vita» quanto i fenomeni dello «spirito». Ora alla biologia poetica e fantastica deve subentrare una biologia rigorosamente teoretica, ossia una dottrina universale della vita, che possa fungere da prototipo e da modello anche per ogni trattazione storica e per ogni filosofia della cultura. Verso questo nuovo ideale scientifico convergeranno intorno alla metà dell’Ottocento i pensatori che si ri-chiamano al positivismo di Comte, al principio dell’evoluzione di Darwin e di Spencer e, quale co-mune denominatore, al modello scientifico e metodologico ereditato dalla fisica classica: allo spirito romantico subentra ora in varie forme e in vari modi lo «spirito di Laplace». Così il principio di causalità non solo ritorna assolutamente egemone, ma impone un rigoroso determinismo in tutti i campi del pensiero, della ricerca e della conoscenza umana. In tale prospettiva scompare ogni diffe-renza tra le scienze del mondo morale, ivi compresa la storia, e quelle del mondo fisico.

In un denso opuscolo pubblicato nel 1884, il filosofo Otto Liebmann [1840-1912], un convin-to sostenitore del «ritorno a Kant», riassume nei seguenti termini la peculiare congiuntura del pen-siero scientifico a lui contemporanea e nella quale egli stesso si è formato:

«Adesso, sia che si tratti del movimento dei corpi celesti e degli atomi o di quello dei prezzi di mercato e dei titoli azionari, sia che si debba ricostruire la serie delle rivoluzioni geologiche e delle metamorfosi del nostro globo terrestre oppure la storia delle origini di Roma celata dietro i racconti leggendari di Tito Livio, sia che si discuta di caratteri umani, decisioni e azioni o di corren-ti marine e processi meteorologici, in ogni caso la scienza razionale a differenza della superstizione

49 In un suo famoso scritto polemico, Vom Beruf unserer Zeit für Gesetzgebung und Rechtswissenschaft [1814] (La vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza), Savigny sostiene che «ogni diritto si sviluppa e si afferma in quel modo che l’uso linguistico predominate, uso non del tutto appropriato, designa come diritto consuetudinario [Gewohnheitsrecht]; ciò significa che esso si sviluppa dapprima me-diante il costume e la credenza popolare, successivamente con la giurisprudenza, ovunque dunque in virtù di forze interne, forze che operano in silenzio, quietamente, non mediante l’arbitrio di un legislatore». Non a caso uno tra i più noti critici di Savigny sarà proprio Hegel: «Negare ad una nazione civile, o alla classe giu-ridica della medesima, la capacità di fare un codice — poiché non può trattarsi di fare un sistema di leggi nuove pel loro contenuto, ma di riconoscere nella sua universalità determinata il contenuto legale esistente, cioè di intenderlo pensando, con aggiunta dell’applicazione al particolare — , sarebbe uno dei più grandi af-fronti, che possa essere fatto a una nazione o a quella classe»; G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del di-ritto, a cura di F. Messineo, Laterza, Bari, 1974, § 211, p. 209.

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infantile si fonda sul presupposto fondamentale che nella nostra osservazione delle parti inaccessi-bili dell’accadere reale governi un rigoroso nesso causale, il quale corrisponderebbe fondamental-mente al nesso causale che noi sporadicamente constatiamo in singoli momenti della nostra espe-rienza. Il difficile problema, di come si possa conciliare con tale fondamentale convinzione scienti-fica la libertà morale del volere e la libertà logica del pensare, è però un affare trascendente e, da qualunque parte si voglia poi cercare la soluzione del problema, esso non può assolutamente intro-mettersi nella nostra ricerca sulla teoria della conoscenza. Si tratterebbe in tal caso di un’intrusione esterna e fastidiosa e provocherebbe solo confusione. È un problema che appartiene a una sfera del tutto diversa. […] “Non credere ai miracoli” e “credere nella rigorosa legalità di tutto l’accadere senza ammettere eccezioni”, cioè non dubitare in nessun modo e in nessun caso dell’incondizionata, oggettiva validità universale del principio di causalità, — entrambe le cose so-no senz’altro concetti reciproci o sinonimi»50.

Il tramonto delle fantasie romantiche e metafisiche ribalta, per così dire, i rapporti di forza tra le scienze della natura e le scienze dello spirito a vantaggio delle prime, ma non risolve i problemi epistemologici, anzi ne crea di nuovi sia nello sviluppo delle scienze biologiche sia in quello delle scienze storiche. Come già la filosofia della natura di Schelling e dei pensatori romantici, anche la scienza empirica, che si richiama ora a Darwin e a Spencer, si sforza di unificare la natura e la cul-tura, la vita e la storia, sussumendole sotto l’idea dello «sviluppo», qui assunta però come principio comune e legge fondamentale di ogni sapere scientifico. La meta da raggiungere resta dunque la stessa, ciò che sembra cambiare è solo la direzione e il metodo per raggiungerla, benché si tratti, per così dire, di una semplice inversione di flussi di corrente tra due poli energetici (il positivo e il ne-gativo) che in realtà si confermano e si stabilizzano proprio nella loro opposizione. La differenza, infatti, che sembra ancora sussistere tra natura e cultura, adesso deve essere colmata non più attra-verso una «spiritualizzazione della natura», come nel romanticismo, bensì attraverso una «materia-lizzazione dello spirito» e, più esattamente, attraverso una «naturalizzazione delle scienze dello spi-rito e della cultura», ivi compresa la storia. Se si vuole ottenere effettivamente una scienza della cultura, occorre ora mettere da parte le fantasie della metafisica e della teologia e assegnare il posto di comando alla chimica e alla fisica, alla zoologia e alla botanica, all’anatomia e alla fisiologia. Nelle stesse scienze biologiche, che nel corso dell’Ottocento pur conoscono un notevole sviluppo, l’idea e l’immagine dell’organismo vengono ormai riferite a qualcosa che possa essere spiegato o descritto solo in base a leggi di sviluppo meccaniche, fisiche o chimiche51.

Di conseguenza anche nel campo della storia nascono e fioriscono i primi «naturalisti dello spirito», o i «geni del ritratto letterario e del dettaglio biografico», come lo scrittore e critico france-se Charles Augustin de Sainte-Beuve, celebre per le sue ricostruzioni storico-ambientali, per le sue penetranti analisi psicologiche di personaggi storici e per la sua capacità di valorizzare aneddoti e particolari apparentemente insignificanti52. L’attività che Sainte-Beuve aveva avviato con spirito giocoso, facendo leva soprattutto sulla sua spontanea capacità di immedesimarsi in ogni carattere umano, sarà poi proseguita, ma con intenzioni rigorosamente scientifiche e con spirito metodico,

50 O. LIEBMANN, Die Klimax der Theorien. Eine Untersuchung aus dem Bereich der allgemeinen Wissen-schaftslehre, Staßburg, 1884, pp. 87 sg., cit. in E. CASSIRER, Naturalistische und humanistische Begründung der Kulturphilosophie, in ID., Erkenntnis, Begriff, Kultur, Felix Meiner Verlag, Hamburg, 1993, pp. 236-237 [traduzione mia]. 51 Questa dialettica bipolare tra meccanicismo e vitalismo — tra la spiegazione causale fisico-chimica dei fatti biologici e il bisogno di ipotesi metafisiche supplementari per la giustificazione dei fenomeni organici — ha contrassegnato l’intera storia delle scienze biologiche nel corso dell’Ottocento. Cfr. su questa proble-matica teoretica e storica E. CASSIRER EP/IV, in particolare il libro secondo: «L’ideale della conoscenza nel-la biologia e le sue trasformazioni» (pp. 191-336). 52 Charles Augustin de Sainte-Beuve [1804-1869] scrittore e critico francese: Ritratti di donne (1844), Ritrat-ti letterari (1844), Conversazioni del lunedì (11 voll., 1851-62), Chateaubriand e il suo gruppo letterario sotto l’Impero (1860), Nuovi lunedì (13 voll., 1863-70), Port-Royal (1840-70).

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dal suo allievo Hippolyte Taine53. Questi comincia con l’introdurre uno schema fisso, che deve va-lere per ogni trattazione scientifica dei fatti storici e in particolare delle opere culturali. La spiega-zione di qualsiasi fenomeno particolare è resa possibile da una triade di condizioni universali: (1) la «razza», (2) l’«ambiente» fisico e sociale e (3) il «momento», cioè la somma delle forze storiche e naturali che agiscono in modo deterministico sugli individui. Basterebbe dunque congiungere e combinare tra loro questi tre fattori nella maniera più corretta ed appropriata, per affrontare ogni problema storico e rendere conto come per magia di qualsiasi fenomeno spirituale e culturale.

Il primo passo consiste nella semplice raccolta di tutti i fatti particolari possibili. Per fare ciò non sarebbe neppure richiesto un determinato criterio di cernita, trattandosi di fatti che «parlano da soli»: aneddoti, resoconti storici, fonti documentarie, una parola presa da una predica, da una satira del tempo, da un memoriale. Queste fonti e questi dati vengono posti tutti sullo stesso piano e senza un eccessivo scrupolo critico, come tessere di un mosaico o frammenti di un puzzle:

«Di piccoli fatti ben scelti, importanti, significativi, ampiamente circostanziati e minuziosa-mente annotati, ecco di cosa è fatta al giorno d’oggi la materia di ogni scienza; ciascuno di essi è un caso speciale, istruttivo, un capolinea, un esemplare notevole, un tipo puro, al quale si ricollega tut-ta una serie di casi analoghi» [De l’intelligence (prefazione)].

Ma cumuli di fatti non costituiscono ancora un’immagine, una forma, una «teoria». Occorre dunque un altro passo: « […] e, qui come altrove, dopo la collezione dei fatti deve venire la ricerca delle cause» [Histoire de la Littérature anglaise (introduzione)]. Trovare queste cause, secondo Taine, non è impresa difficile; basta attenersi rigorosamente al metodo e ai principî del positivismo. A differenza delle teorie romantiche, questi escludono per la spiegazione dei fatti il ricorso a forze sovrasensibili e irrazionali, a potenze fantastiche che «trascendono» ogni possibile esperienza, ma impongono di cercare le cause fra le forze e i dati «immanenti», fra i fattori materiali effettivamente operanti e rinvenibili nel mondo sensibile. Ogni conoscenza scientifica è infatti conoscenza causale; e, se è vero che non ci sono due tipi di cause, quelle «spirituali» e quelle «materiali», allora non può esistere neppure una «scienza dello spirito» accanto alla «scienza della natura»:

«Il metodo moderno che cerco di seguire — afferma Taine nella sua Philosophie de l’art, par-te 1, cap. 1 — e che comincia a introdursi in tutte le scienze morali, consiste nel considerare le ope-re umane, e in particolare le opere d’arte, come dei fatti e dei prodotti di cui bisogna indicare i ca-ratteri e cercare le cause; niente di più. Così intesa, la scienza né condanna né assolve; essa constata e spiega. […] Esso [il metodo moderno] fa come la botanica, che studia con pari interesse tanto l’arancio e l’alloro, quanto l’abete e la betulla; è esso stesso una sorta di botanica applicata, non alle piante, ma alle opere umane. A questo titolo, essa segue il movimento generale che avvicina oggi le scienze dello spirito (sciences morales) alle scienze naturali, e che, dando alle prime i principî, le precauzioni, le direzioni delle seconde, comunica loro la stessa solidità e assicura loro lo stesso pro-gresso».

Accettando questo punto di vista, il problema della oggettività storiografica sembrerebbe es-sere risolto in modo assai semplice. Lo storico deve procedere come il naturalista; deve liberarsi non soltanto di tutti i pregiudizi convenzionali ma anche delle sue predilezioni personali e di ogni criterio morale di misura. Volente o nolente, consapevole o meno, egli deformerà sempre la verità oggettiva, finché continuerà ad accusare o lodare, approvare o disapprovare.

«Che i fatti siano fisici o morali, poco importa: essi hanno sempre delle cause. Vi è una causa per l’ambizione, per il coraggio, per la sincerità, proprio come ve ne è una per la digestione, per il movimento muscolare, per il calore animale. Il vizio e la virtù sono dei prodotti come il vetriolo e lo zucchero, e ogni dato complesso nasce dall’incontro di altri dati più semplici dai quali dipende. Cerchiamo dunque i dati semplici per le qualità morali, allo stesso modo che per le qualità fisiche, e prendiamo in considerazione il primo fatto che si presenti» [Histoire de la letterature anglaise, in-troduzione]. 53 Hippolyte Taine [1828-1893] storico, saggista e filosofo francese: Saggi di critica e storia (1856), Storia della letteratura inglese (1863), Filosofia dell’arte (1865), Viaggio in Italia (1866), Sull’intelligenza (1870), Le origini della Francia contemporanea (6 voll. 1875-93).

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In entrambi i casi tutto sempre dipende dalle stesse cause costanti e generali (la razza, l’ambiente, il momento), «[…] cause universali e permanenti, presenti in ogni momento e in ogni caso, ovunque e sempre agenti, indistruttibili e alla fine dominanti in modo infallibile, dato che gli accidenti che le ostacolano, essendo limitati e parziali, finiscono col cedere alla sorda e incessante ripetizione della loro azione; sicché la struttura generale delle cose e le caratteristiche fondamentali degli avvenimenti sono sempre opera loro: in realtà le religioni, le filosofie, le poesie, le industrie, le forme della società e della famiglia altro non sono, in definitiva, che impronte che recano il loro sigillo» [Ivi].

«Oggi, la storia come la zoologia ha trovato la sua anatomia, e quale che sia la branca storica cui si faccia riferimento, filologia, linguistica o mitologia, si lavora sempre in questo modo per farle produrre nuovi frutti» [Ivi]54.

Ed in effetti nuovi frutti, abbastanza gustosi ed apprezzabili, sono arrivati anche con il lavoro storiografico dello stesso Taine. Ma — qui è il sorprendente controsenso e la flagrante contraddi-zione — lo «storico» Taine non sembra andare molto d’accordo con il «filosofo della storia» Taine: quel che il primo fa, il secondo nega. A ben guardare, la sua opera storica, per i suoi particolari pre-gi, sembra non dipendere affatto dai principî scientifici generali che lo stesso Taine pur ha voluto affermare come teorico della storia. Tali principî universali sono solo declamati nelle prefazioni e nelle introduzioni, e formano, per così dire, soltanto la cornice esterna del quadro. Quest’ultimo, con le sue linee e i suoi colori particolari, si presenta invece come una vera e propria opera d’arte e deriva da fonti del tutto diverse. Nei suoi affreschi storici Taine si affida con perfetta naturalezza a una specie di conoscenza pratica dell’uomo, ad una singolare «fisiognomica» cresciuta in un terreno ben diverso dall’analisi scientifica. Egli esercita con maestria una sorta di «arte interpretativa della espressione», che consiste nella magica capacità di trarre dai pochi tratti esteriori (fisici, corporei, comportamentali) i caratteri psicologici e la dimensione spirituale universale degli individui umani. Qui lo «storico» Taine mette tra parentesi lo «scienziato» e lascia libero campo alla sua virtù di arti-sta, alla sua fantasia e al suo linguaggio chiaro e intuitivo; qui egli dipinge ritratti pieni di verità e di vita e in pochi tratti, come il suo maestro Sainte-Beuve, riesce a fissare tutta la «fisionomia» di un’epoca. Come il paleontologo dietro il «guscio fossile» vuole scoprire l’animale, così lo storico dietro il documento cerca l’uomo.

«Quando guardate con i vostri occhi l’uomo visibile, cosa cercate?», domanda ancora Taine nella sua Introduzione all’Histoire de la letterature anglaise. Egli risponde:

«L’uomo invisibile. Le parole che entrano nei vostri orecchi, i gesti, i movimenti del suo ca-po, gli abiti che indossa, gli atti e comportamenti visibili di ogni specie, sono mere espressioni; al di sotto di tutto questo si rivela qualcosa, e questo qualcosa è un’anima. Un uomo interiore è celato dietro l’uomo esteriore; ed il secondo non fa che rivelare il primo. Voi guardate alla sua casa, all’arredamento di questa, al suo modo di vestire; e lo fate appunto per scoprirvi i segni delle sue abitudini e dei suoi gusti, per scoprire in qual misura sia raffinato oppure rozzo, se sia prodigo op-pure parsimonioso, stupido oppure astuto. Ascoltate la sua conversazione, notando le inflessioni della sua voce, i mutamenti del suo atteggiarsi; e ciò appunto per valutare la sua personalità, il suo altruismo o la sua gaiezza, la sua energia o la sua riservatezza. Esaminate i suoi scritti, le sue produ-zioni artistiche, le sue transazioni d’affari o intraprese politiche, mirando con ciò a misurare il rag-gio ed i limiti della sua intelligenza, la sua inventività, il suo sangue freddo; ed a scoprire l’ordinamento, la fisionomia ed il vigore delle sue idee, il modo del suo pensiero e delle sue deci-sioni. Tutti questi aspetti esterni sono altrettante vie convergenti in un centro. Voi imboccate queste vie al solo scopo di raggiungere il centro, il quale è poi l’uomo autentico; intendo l’insieme delle facoltà e dei sentimenti prodotti dall’uomo interiore. Noi abbiamo così raggiunto un mondo nuovo, il quale è infinito, giacché ogni azione che vediamo comporta una catena associativa infinitamente 54 I passi di Taine sono tutti riportati in E. CASSIRER, Erkenntnis, Begriff, Kultur, cit., pp. 298-299 [traduzio-ne mia]. Per ulteriori approfondimenti sulla filosofia della storia di Taine, cfr. ID., Sulla logica delle scienze della cultura. Cinque studi, a cura di M. Maggi, La Nuova Italia, Firenze, 1979, pp. 72-79; e, da un punto di vista strettamente gnoseologico, anche CASSIRER, EP/IV, 250-261 (376-393).

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prolungantesi di vecchi e nuovi ragionamenti, vecchie e nuove emozioni, vecchie e nuove sensazio-ni, i quali tutti hanno contribuito a produrre quella azione, e, a mo’ di grandi rocce confitte in pro-fondità nel terreno, trovano in essa il loro termine e il loro livello. Questo mondo sotterraneo è un nuovo campo d’indagine per lo storico. Se il suo addestramento critico è adeguato, egli sarà in gra-do di svelare sotto ciascun dettaglio architettonico, sotto ciascuna pennellata di un quadro, sotto cia-scuna frase di uno scritto, la speciale sensazione da cui quel dettaglio architettonico, quella pennel-lata, quella frase ebbero origine. Si farà presente al dramma che si svolse nell’anima dell’artista o dello scrittore. La scelta di una parola, la brevità o lunghezza di un periodo, la natura di una metafo-ra, il ritmo di un verso, lo sviluppo di un’argomentazione: ogni cosa è per lui un simbolo. Mentre i suoi occhi leggono il testo, la sua anima e la sua mente seguono l’ininterrotto sviluppo e la sempre mutevole successione delle emozioni e dei pensieri da cui quel testo è nato»55.

55 Cfr. E. CASSIRER, La filosofia della storia [1942], in ID., Simbolo, mito e cultura, cit., pp. 145-146.