Strategia del reimpiego, topografia dello scarto. Due casi fra archeologia e diritto

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Mariavittoria Antico Gallina*, Giuseppina Legrottaglie* Strategia del reimpiego, topografia dello scarto. Due casi fra archeologia e diritto 1. Premessa Figli della lievitazione demografica, rifiuti materiali, organici, d’officina, macerie dovettero richiedere ovunque consuetudini, norme, sanzioni a vantaggio della qualità di vita, così come si ebbero ad affrontare i primi significativi problemi di alterazione dell’equilibrio ambientale. Alla ela- borazione di soluzioni efficaci per la tutela della salubritas si affiancarono una più generale ricerca dell’uso razionale degli scarti e una contestuale tutela del territorio cittadino 1 . Nell’ambito di questi interventi si colloca la pratica del ‘riciclo’, a cui è dedicato il presente intervento. Il percorso che intendiamo sviluppare trova il suo necessario punto di partenza nella fase dello ‘scarto’ e vede il suo esito finale nella attribuzione di nuova funzione d’uso. Tuttavia né all’uno né all’altro di questi momenti, oggetto di ampio dibattito scientifico 2 , è dedicata la nostra attenzione: vo- gliamo piuttosto insinuarci in quella fase intermedia fra il tempo del butto e quello del riuso, in quelle dinamiche che portino a escludere un oggetto dal novero dei rifiuti. Il tentativo di sintesi che qui si propone è affidato, in modo paradigmatico, a due tipologie di materiali certamente diverse fra loro, ma che sembrano soggiacere ad analoghe dinamiche gestionali: i contenitori anforari da un lato, i rottami metallici dall’altro 3 . Attraverso le risposte che fonti letterarie, giuridiche, dati epigrafici ed evidenze archeologi- che sapranno suggerire si delineeranno le possibili ragioni di una ‘fisionomia dello scarto’ che, contravvenendo ad una pratica altrimenti abituale, porta in qualche caso a ‘negare’ la scelta del riciclo. M.A.G., G.L. 2. La strategia del reimpiego. I contenitori anforari per la bonifica Si diceva della salubritas: di fronte al macrofenomeno dell’uso anforario in edilizia radicatosi nel mondo di una romanità sensibile al miglior uso del territorio e propo- sitiva in termini di soluzioni per la vivibilità, ci sentiamo in diritto di pensare ad una strategia del reimpiego 4 . * Dipartimento di Storia, Archeologia e Storia dell’arte, UCSC, Milano. 1 Con l’occasione esprimiamo la nostra gratitudine all’amica Lauretta Maganzani, prof. Ordinario di Istituzioni di Diritto romano (Università Catto- lica, Milano), sempre pronta a discutere tematiche verso le quali reciprocamente ricerchiamo i vantaggi dell’apporto interdisciplinare. 2 Sulle discariche, fra gli altri, vd. Sordes urbis 2000 e Horti et sordes 2008. Sul concetto del reimpiego in generale vd. Manacorda 2008, pp. 118-126. 3 La scelta nasce dalle esperienze personali delle Autrici; ampliare ad altri contesti l’analisi potrà in futuro contribuire a meglio definire il quadro qui delineato. 4 Per la metodica della bonifica ad anfore, nata dalle esperienze del mondo microasiatico, vd. Antico Gallina 1996, 1998, 2011c. Non parliamo delle anfore-signacolo funerario, né delle anfore-urne per infanti, non certo definibili ‘macrofeno- meno’. Parliamo dei sistemi ad anfore, macrofenomeni legati alla pedologia di terreni scadenti 5 . Il dato materiale è quantitativamente e topograficamente senza raffronti, poiché investe tutto l’ecumene e interessa ambiti privati e pubblici. Nonostante ciò né le fonti scritte, che pur citano importanti bonifiche territoriali 6 , né i giuristi pare abbiano incrociato vicende relative agli accumuli anforari entro il suolo, per quanto la pertinenza dei terreni ‘mi- gliorati’ dal sistema (in prevalenza privati) si prestasse al sorgere di controversie e, dall’altra, la condizione idraulica dell’Italia settentrionale, confrontabile con vari ambiti provinciali 7 , ponga agli occhi dell’osservatore l’applica- zione ’esponenziale’ delle bonifiche ad anfore 8 (fig. 1). Si direbbe dunque che la giurisprudenza romanistica non si fosse trovata ad affrontare questioni privatistiche 9 e am- ministrative su questo tema. Eppure l’ampiezza d’uso del sistema sottende tutta una serie di momenti – circolazione contenitori, accantonamento o immagazzinamento, avvio alle discariche, eventuale distruzione, recupero e sua cir- colazione – che dovevano incidere sull’aspetto gestionale e topografico di una città. Si legge che non esistesse un sistema pubblico di smaltimento dei rifiuti solidi 10 . Esistevano, però, stru- 5 Di cui essi diventano utile ‘spia’: Antico Gallina 2011a. Il consolida- mento è il problema edilizio più frequente: un terreno di ridotta portanza per componenti mineralogiche e/o organiche e per comportamento in presenza di acqua, ipogea e non, necessita di quegli interventi migliorativi non risolvibili con il puro allontanamento dell’elemento liquido, ma con altre soluzioni geotecniche e/o idrauliche. Allora come oggi costipare comporta aumentare artificialmente la densità del terreno (costruzioni, rilevati stradali, argini, dighe) ottenendo un miglioramento delle caratteristiche meccaniche delle terre e contestuale ridu- zione degli effetti dell’imbibizione. Nelle geografie instabili anche livellamenti (la compattazione, eseguita con rulli, per ridurre spazio e continuità dei pori) o colmatazioni (riempimenti di depressioni) possono essere soddisfatti dal sistema ad anfore. 6 Cfr. Strab. 5, 1, 11; 5, 4, 13; Val. Max. 5, 3, 2; Stat. 4, 3, 66; Sil. It. 7, 281; Liv. 1, 59, 9; 30, 26-28; 35, 9; 35, 21; 38, 28; Tac. Ann. 1, 61, 1: prosciu- gamenti di aree acquitrinose, canali di drenaggio per paludi. 7 Le aree geografiche coinvolte nell’uso del sistema toccano zone dall’i- drogeologia complessa, dall’Hispania alle Gallie, alle province orientali: Antico Gallina 1996, pp. 100-107; Ead. 2004; Ead. 2011b. 8 Solo al fenomeno idraulico padano di altrettanta massima evidenza come la risorgenza della falda facevano indiretto riferimento la descrizione straboniana di una pianura ai tempi di Annibale “coperta da paludi” (Strab. V, 1, 11), la puntualizzazione polibiana sui tipi di cereali coltivati (Polyb. II, 15, 2-3), il suggerimento virgiliano a controllo dell’eccedenza di acque (Verg., Georg. I, 269-270: «rivos deducere nulla religio vetuit»). 9 Da tenere in debito conto non solo la prospettiva privatistica della giurisprudenza, ma anche il frequente ricorso a figure ‘intermedie’ per rapide risoluzioni, quali l’arbiter, o nominato dal magistrato (Cic. De leg. 1, 21, 55; D. 8, 2, 11, 1) o scelto dalle parti (ex compromissso/ex conventione: Tac. Hist. 1, 24; Front. De controv. agr. P. 43, 23; D. 4, 8, 44). 10 Così Monaco 2012, p. 2. alludendo però ai rifiuti raccolti in pozzi neri e fogne a cielo aperto. Archeologia dell’Architettura XVII 2012, pp. 127-143

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Mariavittoria Antico Gallina*, Giuseppina Legrottaglie*

Strategia del reimpiego, topografia dello scarto. Due casi fra archeologia e diritto

1. Premessa

Figli della lievitazione demografica, rifiuti materiali, organici, d’officina, macerie dovettero richiedere ovunque consuetudini, norme, sanzioni a vantaggio della qualità di vita, così come si ebbero ad affrontare i primi significativi problemi di alterazione dell’equilibrio ambientale. Alla ela-borazione di soluzioni efficaci per la tutela della salubritas si affiancarono una più generale ricerca dell’uso razionale degli scarti e una contestuale tutela del territorio cittadino 1.

Nell’ambito di questi interventi si colloca la pratica del ‘riciclo’, a cui è dedicato il presente intervento. Il percorso che intendiamo sviluppare trova il suo necessario punto di partenza nella fase dello ‘scarto’ e vede il suo esito finale nella attribuzione di nuova funzione d’uso. Tuttavia né all’uno né all’altro di questi momenti, oggetto di ampio dibattito scientifico 2, è dedicata la nostra attenzione: vo-gliamo piuttosto insinuarci in quella fase intermedia fra il tempo del butto e quello del riuso, in quelle dinamiche che portino a escludere un oggetto dal novero dei rifiuti. Il tentativo di sintesi che qui si propone è affidato, in modo paradigmatico, a due tipologie di materiali certamente diverse fra loro, ma che sembrano soggiacere ad analoghe dinamiche gestionali: i contenitori anforari da un lato, i rottami metallici dall’altro 3. Attraverso le risposte che fonti letterarie, giuridiche, dati epigrafici ed evidenze archeologi-che sapranno suggerire si delineeranno le possibili ragioni di una ‘fisionomia dello scarto’ che, contravvenendo ad una pratica altrimenti abituale, porta in qualche caso a ‘negare’ la scelta del riciclo.

M.A.G., G.L.

2. La strategia del reimpiego. I contenitori anforari per la bonifica

Si diceva della salubritas: di fronte al macrofenomeno dell’uso anforario in edilizia radicatosi nel mondo di una romanità sensibile al miglior uso del territorio e propo-sitiva in termini di soluzioni per la vivibilità, ci sentiamo in diritto di pensare ad una strategia del reimpiego 4.

* Dipartimento di Storia, Archeologia e Storia dell’arte, UCSC, Milano.1 Con l’occasione esprimiamo la nostra gratitudine all’amica Lauretta

Maganzani, prof. Ordinario di Istituzioni di Diritto romano (Università Catto-lica, Milano), sempre pronta a discutere tematiche verso le quali reciprocamente ricerchiamo i vantaggi dell’apporto interdisciplinare.

2 Sulle discariche, fra gli altri, vd. Sordes urbis 2000 e Horti et sordes 2008. Sul concetto del reimpiego in generale vd. Manacorda 2008, pp. 118-126.

3 La scelta nasce dalle esperienze personali delle Autrici; ampliare ad altri contesti l’analisi potrà in futuro contribuire a meglio definire il quadro qui delineato.

4 Per la metodica della bonifica ad anfore, nata dalle esperienze del mondo microasiatico, vd. Antico Gallina 1996, 1998, 2011c.

Non parliamo delle anfore-signacolo funerario, né delle anfore-urne per infanti, non certo definibili ‘macrofeno-meno’. Parliamo dei sistemi ad anfore, macrofenomeni legati alla pedologia di terreni scadenti 5. Il dato materiale è quantitativamente e topograficamente senza raffronti, poiché investe tutto l’ecumene e interessa ambiti privati e pubblici. Nonostante ciò né le fonti scritte, che pur citano importanti bonifiche territoriali 6, né i giuristi pare abbiano incrociato vicende relative agli accumuli anforari entro il suolo, per quanto la pertinenza dei terreni ‘mi-gliorati’ dal sistema (in prevalenza privati) si prestasse al sorgere di controversie e, dall’altra, la condizione idraulica dell’Italia settentrionale, confrontabile con vari ambiti provinciali 7, ponga agli occhi dell’osservatore l’applica-zione ’esponenziale’ delle bonifiche ad anfore 8 (fig. 1). Si direbbe dunque che la giurisprudenza romanistica non si fosse trovata ad affrontare questioni privatistiche 9 e am-ministrative su questo tema. Eppure l’ampiezza d’uso del sistema sottende tutta una serie di momenti – circolazione contenitori, accantonamento o immagazzinamento, avvio alle discariche, eventuale distruzione, recupero e sua cir-colazione – che dovevano incidere sull’aspetto gestionale e topografico di una città.

Si legge che non esistesse un sistema pubblico di smaltimento dei rifiuti solidi 10. Esistevano, però, stru-

5 Di cui essi diventano utile ‘spia’: Antico Gallina 2011a. Il consolida-mento è il problema edilizio più frequente: un terreno di ridotta portanza per componenti mineralogiche e/o organiche e per comportamento in presenza di acqua, ipogea e non, necessita di quegli interventi migliorativi non risolvibili con il puro allontanamento dell’elemento liquido, ma con altre soluzioni geotecniche e/o idrauliche. Allora come oggi costipare comporta aumentare artificialmente la densità del terreno (costruzioni, rilevati stradali, argini, dighe) ottenendo un miglioramento delle caratteristiche meccaniche delle terre e contestuale ridu-zione degli effetti dell’imbibizione. Nelle geografie instabili anche livellamenti (la compattazione, eseguita con rulli, per ridurre spazio e continuità dei pori) o colmatazioni (riempimenti di depressioni) possono essere soddisfatti dal sistema ad anfore.

6 Cfr. Strab. 5, 1, 11; 5, 4, 13; Val. Max. 5, 3, 2; Stat. 4, 3, 66; Sil. It. 7, 281; Liv. 1, 59, 9; 30, 26-28; 35, 9; 35, 21; 38, 28; Tac. Ann. 1, 61, 1: prosciu-gamenti di aree acquitrinose, canali di drenaggio per paludi.

7 Le aree geografiche coinvolte nell’uso del sistema toccano zone dall’i-drogeologia complessa, dall’Hispania alle Gallie, alle province orientali: Antico Gallina 1996, pp. 100-107; Ead. 2004; Ead. 2011b.

8 Solo al fenomeno idraulico padano di altrettanta massima evidenza come la risorgenza della falda facevano indiretto riferimento la descrizione straboniana di una pianura ai tempi di Annibale “coperta da paludi” (Strab. V, 1, 11), la puntualizzazione polibiana sui tipi di cereali coltivati (Polyb. II, 15, 2-3), il suggerimento virgiliano a controllo dell’eccedenza di acque (Verg., Georg. I, 269-270: «rivos deducere nulla religio vetuit»).

9 Da tenere in debito conto non solo la prospettiva privatistica della giurisprudenza, ma anche il frequente ricorso a figure ‘intermedie’ per rapide risoluzioni, quali l’arbiter, o nominato dal magistrato (Cic. De leg. 1, 21, 55; D. 8, 2, 11, 1) o scelto dalle parti (ex compromissso/ex conventione: Tac. Hist. 1, 24; Front. De controv. agr. P. 43, 23; D. 4, 8, 44).

10 Così Monaco 2012, p. 2. alludendo però ai rifiuti raccolti in pozzi neri e fogne a cielo aperto.

Archeologia dell’ArchitetturaXVII 2012, pp. 127-143

128 M. ANTICO GALLINA, GIUSEPPINA LEGrOTTAGLIE

fig. 1 – Strutture ad anfore: la topografia delle attestazioni (da Antico Gallina 2011a).

menti di tutela per talune situazioni ambientali, anche preventivi rispetto alla formazione del rifiuto solido, e regole di convivenza, di opportunità che dettarono norme comportamentali 11 per la collettività. Fra le ‘opportunità’ da perseguire l’abbattimento dei costi dovette incidere sulla sorte della mole di contenitori.

Delle anfore sotto terra e capovolte parlavano anche i gromatici: Siculo Flacco 12 indicava i vertices amphorarum defixos inversos in luogo dei termini fra proprietà 13 e altri, più tardi, menzionavano, come elementi confinari, la lago-ena o l’orcularius, identificati 14 con la tipologia dell’anfora: un ulteriore modo di reimpiego che riecheggia, per sola ‘morfologia’, le bonifiche 15. Ma non si vuole qui declinare i riusi del contenitore, quanto la fase che sta fra il ‘butto’

11 Era ad esempio proibito danneggiare o occupare le strade con immon-dizie: Ulp. D. 43, 11, 1-2; 7, 2; 8, 2, 35 e 8, 10, 2.

12 Sic. Flac., De cond. agr. (La. 142, 1 e 27) a proposito dei cippi confi-nari fra 4 proprietari (quindi nel quadrifinium) di cui spiega la collocazione e il rituale di consacrazione. Per Dolabella (La. 303, 12) «Fines sepolturarios sine cineratios sic intellegis, quo vadunt rigores inter possessiones, iuxta sepulturam sine buxus sive etiam cineates aut cacabos invenis aut orcas fractas aut certe integras… si inveneris ea signa finalis est sepultura». Vitalis et Arcadius auctores citano «terminus lagoenaris vel orcularis, id est laguna vel orcula» (La. 344, 25). Faustus et Valerius VV.PP. auctores scrivono: «laguinas tres quadrifinium faciunt» (Per Gallias et per Africam=La. 308, 21). Leggiamo infine nell’Expositio limitum vel terminorum: «noi abbiamo fatto un allineamento di ripe come limes. Troverai degli alberi precedentemente piantati e di specie straniera, un ponte di marmo o di pietra o di muratura, orcas in fines invenies, un sarcofago, degli embrici» (La. 361, 28).

13 Non sappiamo dire se nasca comunque da tale consuetudine o se corrisponda a un più banale uso dell’anfora come puro contenitore il caso di quattro anfore ispaniche piene di resti bovini, poste ai vertici di un quadrato a ridosso della cortina interna delle mura di Augusta Taurinorum, lette come traccia della cerimonia rituale a conclusione del tratto orientale (50-75 d.C.): Brecciaroli et al. 2007, p. 250.

14 Peyras 1995, p. 197.15 Tanto da sentirsi in dovere di allertare i giovani archeologi sul rischio di

incorrere nell’equivoco interpretativo e perciò di porsi una serie di interrogativi di fronte a casi di accumuli costituiti da pochissime unità.

e il riciclo: un butto che forse non fu tale, che forse non giungeva alle discariche, che prendeva una diversa strada, che era ‘strategia’. Cerchiamone le argomentazioni a favore.

Il vasto fenomeno del ‘riuso’ causò, in tempi di crescita urbana, un problema ‘invasivo’, non tenendo il passo con l’aumentata produzione di rifiuti. Da qui la destinazione di settori periferici e/o suburbani a discarica: dal caso notissimo di roma (monte Testaccio et alii), a Pompei, ad Augusta Praetoria (Aosta), ad Augusta Taurinorum, a Mutina e ovunque 16. In generale, il riuso in situ è il modo più rapido e proficuo per l’eliminazione 17: macerie e mate-riali da escavazioni per massicciate e riempimenti murari; residui edilizi e artigianali (anche frantumi anforari) per livellare o ripristinare fondi stradali 18; residui fittili triturati

16 La discarica quale infrastruttura connessa allo stoccaggio è uno dei temi di una ricerca sulle modalità di individuazione delle aree di stoccaggio e sulle tipologie dei magazzini romani (Sebastiani 2011a, b). Anche per le anfore, al di là del rapporto fra aree di produzione, assi di commercializzazione, esigenze di raccolta o smaltimento, è forse ammissibile ipotizzare punti di stoccaggio per il riciclo in relazione alle topografie più problematiche. Per Cremona, ad esempio, l’indizio di una discarica è offerto dai camminamenti di via Amidani-Bissolati: una distesa di anfore rendeva transitabile un’area deficitaria, perché a buche con materiali edilizi e resti di attività di macellazione. Nelle vicinanze (via Massarotti, suburbio W, sfiorato in età romana dal fiume Po)due ordini sovrapposti di anfore verticali (21×6 m, metà I sec. d.C.) compattati da terra di riporto ricco di materiali di scarto fungevano ancora da supporto consolidativo per una lastricatura in sesquipedali (Bishop, Mariotti 1985, pp. 116-118). Era usualmente la fascia di ‘rispetto’ entro e fuori le mura a essere oggetto di smaltimento rifiuti, con l’unica differenza dello scarto mettallurgico fuori delle mura (cfr. parte di Legrottaglie).

17 Così anche Bernardi 2008, pp. 503-516.18 Porto l’esempio di roma, via Garibaldi (tra via di P. ta S. Pancrazio e

via dei Panieri): una trincea profonda 3,5 m costipata da strati antropici, fran-tumi ceramici, edilizi, scarti di fornace, intonaci, ha documentato la continua attività di discarica nella parte della bassa pendice del Gianicolo, zona mai urbanizzata, ma a vocazione industriale, inclusa entro le Mura Aureliane solo per esigenze strategiche. La discarica fu obliterata da un battuto in pozzolana e dalla preparazione della strada postantica: Munzi, Schingo 2002, pp. 222-224.

STrATEGIA DEL rEIMPIEGO, TOPOGrAFIA DELLO SCArTO. DUE CASI FrA ArChEOLOGIA E DIrITTO 129

per il noto impasto idraulico (cocciopesto) o sagomati per tappi, piastrelle, pedine, bottoni. Le anfore, infilate le une nelle altre, con un minimo adattamento, diventavano condotte, una soluzione ‘fai da te’ in linea con quanto consigliava Columella a chi, non avendo un pozzo, volesse garantirsi la scorta d’acqua con una cisterna d’acqua pluvia convogliata da tubi fittili 19.

Pensando all’equazione anfore-riuso, fu, per la Ci-salpina cui ci limitiamo, il divenire stesso della cosiddetta romanizzazione a stimolare, con la migrazione di famiglie e capitali, richieste di gusto, abitudini e quindi produzioni all’uopo. Fu la variabile che riflettendo mutamenti sociali dell’età augustea, spostamento dei poli agricoli, sviluppo colturale, economico, urbanistico e dei consumi – della quotidianità 20 e del benessere – decuplicò la presenza anforaria e il ricorso alle strutture ad anfore. Dunque, al di là della viticoltura per l’autosufficienza documentata ovunque, vino e olio ‘nostrani’ (regioni centro-adriatiche, padane orientali, istriane) trasportati con anfore ‘nostrane’ (soprattutto le Dr. 6A e B), il cui costo, presumibilmente compreso in quello del contenuto, sconsigliava il riciclo alimentare 21, ma suscitava l’esigenza dello smaltimento. Le scelte di consumo (come le produzioni adriatiche) e le importazioni hanno un riflesso dunque sulle bonifiche e i tipi anforari usati: la prevalente domanda di prodotti ‘nazionali’ trova corrispondenza nella massiccia presenza e uso di anfore Dr. 6A e, in minor misura, Dr. 6 B (I-II sec. d.C.), mentre, alla luce sempre delle strutture ad anfore, non appare ancora incisiva l’importazione di altri alimenti: penso alle Dr. 7-11 per l’apprezzatissimo garum e altre salse di pesce (come l’allec, versione meno pregiata del garum, utile in culinaria e in farmacopea) prodotte lungo le coste spagnole e commercializzate con anfore ispaniche 22. Penso anche alle Dr. 2/4 23, alle Dr. 8 e 12, presenze ‘minime’ negli accumuli.

In effetti, se per la media repubblica il ricorso – raro – alle strutture ad anfore su suolo italico interessa contesti culturali magnogreci 24, per la tarda repubblica esso inizia a evidenziarsi anche altrove. Uno dei più antichi esempi è Al-binia (Ortebello): sito tormentato dalle piene dell’Albegna, ma ai lati della via Aurelia, specializzato nella produzione di anfore Dr.1 e Dr. 2/4 per i commerci verso il Mediterra-neo W, ha restituito un vasto settore di demolizione di un

19 Colum. R.r. I, 5, 1-2; cfr. Pall. I, 16.20 Oltre che a scopo alimentare l’olio era usato per l’illuminazione e per

i riti sacri: Cipriano, Mazzocchin 2004, col. 95. 21 Per quanto si abbia prova, grazie a tituli picti e all’analisi del carico

di relitti, del riuso di anfore olearie, di per sé ‘monouso’, per salse di pesce o di contenitori di frutta secca per il trasporto di materie quali l’allume: cfr. Cipriano, De Vecchi, Mazzocchin 2000, pp. 193-195; di anfore vinarie impeciate per mediocre olio d’oliva (Garnier 2007, pp. 39-57; Massy 2013, p. 60), a dimostrazione della «polivalenza di certi contenitori» (Silvino, Poux 2005, pp. 501-514). Interessanti dati sono poi emersi dall’analisi del Dna su anfore greche di V-III sec. a.C. da parte di Brendan Foley, della Woods hole Oceanographic Institution. Esse hanno provato non solo la commercializzazione di origano, timo, menta, ginepro, ma anche il loro riutilizzo alimentare: Foley, hansson et al. 2012, pp. 389-398.

22 Cfr. la tipologia Beltràn II B per il trasporto di allec: Annibaletto, Pettenò 2012, p. 443 (ivi rimandi bibliografici).

23 Delle vinarie Dr. 2/4 tarraconesi erano ricolme molte navi naufragate lungo il tragitto Spagna-Italia: vd. il censimento in Massy 2013, passim e, per il relitto Perduto 1, Ehmig, heising, hermanns 2008, cc. 389-439.

24 Mi riferisco a Metaponto per cui vd. Antico Gallina 1996, p. 98; Ead. 2014a, pp. 86-87.

forno riempito con gettate di frammenti d’anfore, tegole e scarti e di una sommitale, ordinata distesa di 400/500 e più Dr.1 (fig. 2). L’opera parla di un immediato riuso per una bonifica geotecnica che creava un piano di calpestio solido 25. Sono qualche milione le Dr. 1 prodotte fra Albinia e Cosa per il trasporto di vini italici (Etruria) verso l’edua ricca Bibracte 26, qui ampiamente reimpiegate (pavimenti, strade, riempimenti) almeno fino a che, dalla metà del I sec. a.C., la Gallia non avviò una propria produzione 27. La stessa area di produzione ha fornito Dr. 1 per bonifiche di ambito laziale 28. Per la Cisalpina le anfore Lamb. 2 sono le più diffuse, come sempre più diffuse ne sono le zone di fabbricazione: nel quadro tardorepubblicano dobbiamo dunque inserire gli accumuli con Lamb. 2 rinvenuti a Cremona 29, a Milano 30 e le svariate decine di Lamb. 2, presumibilmente prodotte nel Pordenonese, usate nei primi decenni del I sec. a.C. per bonificare settori imbibiti come a Sevegliano e a Padova (metà I sec. a.C.).

Cala invece il ricorso ad anfore per le bonifiche contestualmente all’aumentare di importazioni (specie nel II secolo) di contenitori dal corpo globulare, mal adattabili a finalità geotecniche così ben assolte invece da quelli con corpo affusolato. Le voluminose Dr. 20 sono infatti assai raramente riusate e non tanto per opere geotecniche 31, mentre costituiscono, significativamente, una componente ‘ingombrante’ delle discariche, come nel noto caso del Monte Testaccio, vicino alla zona portuale: una collina artificiale – non dissimile dunque da quelle odierne convertite e convertibili in parchi piantumati – di 2.200 m², alta 35 m 32, nella quale lo stoccaggio di testae fu nel tempo (I-III sec. d.C.) disciplinato e organizzato in settori con muri di contenimento fatti con le anfore stesse. Completata la compattazione del materiale in un settore, se ne creava uno successivo 33. Altri fattori che poterono incidere sul calo del sistema ad anfore dovettero essere,

25 Analogo, entro il complesso produttivo di Loron, il piano di calpestio creato su un precedente e costituito da uno spesso riempimento di macerie di un forno distrutto e di anfore Dr. 6B, marcate Sisenna, pertinenti a una prima fase produttiva: rousse, Tassaux, 2008, pp. 184-187.

26 Caes. B.g., I, 23; VII, 55, 63, 90. Dalla zona di produzione, Albinia e La Feniglia, il vino di mediocre qualità raggiungeva nelle Dr. 1 la Gallia meri-dionale o le città della Corsica: cfr. Alfonsi, Gandolfo 2004, p. 227. Un carico di anfore di Albinia affondò a 1 km da Fos-sur Mer: Vitali, Laubenheimer, Benquet, Cottafava, Calastri 2005, p. 265. Ibid. per le bonifiche con partite di Dr. 1 di riciclo o di scarto individuate ad Ostia e a Torre Saline.

27 Olmer, Vitali 2002, p. 460.28 Quilici Gigli 1998, pp. 16-18 e nota 5 per la piana di Fondi,

Terracina-Sperlonga, Minturno.29 Piazza Cavour, prima metà I sec. a.C.: Bruno 1995, p. 43; Nicodemo,

ravasi, Volonté 2008, pp. 291-292.30 Via Falcone, scavo 1967, I sec. a.C.: Bruno 1995, p. 40.31 Vd. infra, nota 75. Bonifiche idrauliche sono da leggersi negli accumuli

di cui Laubenheimer 1998, pp. 56-69. Caso interessante quello del muro di sostruzione (45 m, I sec. d.C.) rinvenuto a roma, sulla collina tufacea (via delle Sette Chiese) in sin. Tevere: il contenimento delle spinte su tale muro, rafforzato a valle da contrafforti e a monte da muri semicircolari, è coerente con il materiale edilizio leggero (cubilia tufacei) e con i riempimenti ‘leggeri’ delle parti semicircolari – in modo da creare delle sostruzioni piene – con frr. anforari, anfore Dr. 20 su più ordini (2/4: La rocca 2008, pp. 365-372, 377). L’uso di malta pozzolanica e la tipologia anforaria posta entro terreno sabbioso e pozzolanico mi pare suggeriscano un’ulteriore scelta funzionale: la salvaguardia del muro rettilineo da ristagni d’umidità attraverso la struttura di aerazione che i corpi anforari e l’aria circolante andavano a costituire.

32 Per alcuni 49 m: Panella 1985, p. 184.33 I futuri ritrovamenti porteranno ulteriori verifiche sull’incidenza delle

tipologie ispaniche nelle opere di bonifica, ben sapendo che, specie dall’età augustea, fu notevolmente favorita e controllata la distribuzione di olio betico,

130 M. ANTICO GALLINA, GIUSEPPINA LEGrOTTAGLIE

fig. 2 – La documentazione di Albinia (Ortebello) (da Vitali 2007).

dopo la metà del IV secolo, in un contesto di variazione di strutture colturali, di forme anforiche, ora di dimensioni più ridotte e più frequentemente globulari, il rincaro del vino 34 e il mutare della gestione produttiva denunziato dal marchio: concause dell’abbattimento quantitativo della presenza anforaria, sostituita da contenitori in legno o otri in pelle, quella stessa tipologia che già soddisfaceva lo smercio locale dell’età repubblicana 35.

Bypassando il tema della pura discarica – che qui non ci è utile – ma mantenendo aperto il discorso sull’equa-zione anfore-riuso, un diverso modo di categorizzarne il reimpiego, cioè come ‘contenitori cavi’ – uno dei manufatti ‘cavi’ usati nell’edilizia, al pari delle olle e dei tubuli – non avvantaggia le nostre riflessioni. Fu questa una consuetu-dine che dalla tarda repubblica vide nel tardoimpero la specializzazione produttiva di morfologie ad hoc (tubuli), ampiamente adottate in luogo di anfore (a corpo cilin-

diffuso ovunque: Strabone, III, 2, 6 ricorda le numerose navi che affondavano all’altezza di Pozzuoli e Ostia.

34 Già l’iniziativa dioclezianea (a.301)mirava a fissare i prezzi massimi di mercato per merci e salari: per 1 sestarius (1/2 l) di vino rustico 8 denari, del pregiato Falerno 30 – quando nel I secolo occorrevano 4 assi (CIL IV, 1679) –, dell’olio migliore 40: CIL III, 2, pp. 824 ss, Edictum de maximis pretiis re-rum venalium. Per il pasto di un operaio al dì il prezzo era di 25 denari e 250 denari per una trave in rovere “qubitorum quattuordecim in longum, latitudinis in quadrum digitorum sexaginta octo”. Alla rarefazione delle bonifiche di tipo geotecnico si contrappone l’uso di tipo idraulico (aerazione/ risanamento) – di pieno IV secolo è il caso urbano del Templum Pacis (Ceci 2010, pp. 427-428) con anfore Almagro 51 c e Keay XXV e IV, per salvaguardia di un muro ipogeo –, e quello, già peraltro noto, dei contenitori per riempimento di murature e/o alleggerimento di coperture voltate: cfr. Antico Gallina 1996, p. 71 e nota 29. Non è un caso che l’uso della discarica del Monte Testaccio si contragga contestualmente alle attività degli architetti massenziani: 10.000 le anfore usate nei settori delle gradinate nel circo di Massenzio. remesal rodriguez 2005, pp. 249-256 individua nella costruzione delle mura di Aureliano che resero inusabile la zona portuale la causa della fine del Testaccio. Per altri casi di volte alleggerite vd. Antico Gallina 2009, pp. 23-25.

35 Volpe 2009, p. 390.

drico, di produzione africana) e orci 36. Un accenno solo nell’Editto di Liutprando (Mem. 7A) – i caccabi nelle cupole dei forni per l’aumento della superficie irradiante e l’isotermia –, ma nell’ambito di una tematica incentrata sul problema della codificazione dei costi di precipue opere edilizie realizzabili da professionisti 37.

Ci domandiamo, allora, se non fosse proprio la ca-tegoria del materiale (anfore /olle/ tubuli)a penalizzarne l’interesse e la trasmissione di notizie, sebbene l’impatto dell’attività di riciclo sul mercato del lavoro dovesse essere considerevole, anche in termini di forze-lavoro e di salari. Gli storici del diritto rispondono che non esisteva limite al soggetto delle contese e qualsivoglia questione potesse coinvolgere i privati era oggetto di diritto, ma un diritto talora esplicitato da figure stragiudiziali, come l’arbiter, un privato competente chiamato all’occorrenza per problemi di cui il giurista non veniva nemmeno a conoscenza 38. Anfore e olle, più che i tubuli, erano indubbiamente esito di riciclo, ma mentre il sistema dei rifiuti urbani meritò una normativa 39 in quanto connesso con la fruibilità dell’impianto urbano 40, il riciclo anforario, per quanto strategia ‘intelligente’ legata pre lo più a una economia dell’autosufficienza ‘privata’, resta, ad oggi, avvolto nel silenzio. Un reimpiego come tanti, di cui non ci capaci-tiamo di fronte a casi di centinaia di anfore utilizzate per interventi su superfici pubbliche ed ai non trascurabili

36 Al riguardo si rimanda alle considerazioni di Antico Gallina 2009, pp. 15-20 e 27.

37 Su questa tematica Antico Gallina 2009, pp. 9-18.38 Per i pubblici appalti rimando a. Trisciuoglio 1998.39 Vd. Di Porto 1999, pp. 46-64.40 Basti pensare alle autorizzazioni, interdetti, limitazioni, dinieghi pre-

ventivi ad attività costruttive che danneggiassero i luoghi pubblici e il decoro urbano. Ma si pensi anche alla stessa distribuzione topografica delle discariche autorizzate.

STrATEGIA DEL rEIMPIEGO, TOPOGrAFIA DELLO SCArTO. DUE CASI FrA ArChEOLOGIA E DIrITTO 131

vantaggi: forma, volume, robustezza, basso peso specifico, durabilità, maneggevolezza, facile trasporto, facile approv-vigionamento, rapidità di esecuzione dell’intervento, non necessità di operai specializzati, economicità.

Il ‘mondo’ dell’anfora ci prospetta ancora due realtà in contrasto di cui tener conto: la percentuale dei consumi alimentari e le modalità del trasporto. La roma del I-II secolo consumava solo di olio 22.400 tonnellate annue, pari a 321.000 anfore, quando la capacità media di una nave oneraria era di 330 tonnellate, pari a 10.000 anfore 41. I costi di commercializzazione, carico e scarico (anche con macchine elevatorie) dovevano dunque essere alti; il trasporto via acqua era privilegiato perché meno one-roso, e, conseguentemente, le anfore per le quali il riuso alimentare fosse stato sconsigliabile non potevano esaurire la loro vita una volta vuotate 42. I vasai, del resto, fabbrica-vano 10 anfore al giorno 43 e i tempi tecnici si allungavano considerando asciugatura e cottura: da ciò l’autonomia di molte aziende, con un proprio laboratorio ceramico. Quanto, allora, poteva incidere il costo del contenitore sul contenuto? In sostanza – poiché anche ciò dovette incidere su tempi e modi del riciclo – erano care le anfore o a buon mercato? Si riusavano – fatti salvi i vantaggi di cui sopra – per abbatterne il soprannumero o celano una accorta politica organizzativa?

Qualche accostamento tra fonti letterarie ed epigra-fiche può esser utile in tal senso.

A grandi linee, se una consumazione di vino locale (la eguagliamo a 0,50 l) in una taberna pompeiana costava 1 asse 44 e un’anfora di vino almeno 15 sesterzi (=60 assi) 45, poiché l’amphora come unità di misura corrispondeva al contenuto medio di 26 l 46, se ne può dedurre che 26 litri di vino consumati nella taberna sarebbero costati 52 assi (2 denari e 1 sesterzio) e che il costo del contenitore avrebbe allora inciso per 8 assi: un costo non bassissimo, pari a quello della paga di un operaio al dì (8-16 assi), del prezzo di 1 l di vino di qualità 47, di 3 pentole, di 4

41 Il relitto della Mandrague de Giens conteneva 6000/6.500 anfore vinarie (vd. anche Disantarosa 2009, p. 143). Da Liv. XXI, 63, 2 e Cic. Verr., 2, 5, 18, 45, sappiamo che per legge i senatori non potevano possedere navi che trasportassero più di 300 anfore non essendo consentite loro attività commerciali.

42 riporto al riguardo un passo di Pomponio, D. 33. 6. 14: «Vino legato ea demum vasa sequuntur, quae ita diffusa sunt, ut non ad perpetuum usum vasa reservarentur, veluti amphorae et cadi». Fra i numerosi casi a riprova di ciò ricor-do le 814 anfore di plaza de Las Tenerìas (Saragozza) di tipologie che vanno a coprire due secoli (Dr. 2-4, 7-11, 12, 24, 25, Pascual 1, Dr. 1 A, B, Lamb. 2, Dr. 20: Cebolla Berlanga, Dominguez Arraz et al. 2004, pp. 466-469).

43 Il procedimento, al di là della preparazione dell’impasto, comportava tre delicate fasi: realizzazione del corpo, modellamento di collo, anse e peduncolo e assemblaggio delle componenti con rifinitura finale. Dieci i giorni di asciugatura, 24 di cottura, 15 di raffreddamento. Un forno di 70 m³ alimentato da 60 m³ di legna cuoceva 1000 anfore per volta: Panella 2001, p. 187.

44 CIL IV, 1679. Una porzione di vino corrispondeva a un sestarius= 0,57 l.45 Colum, III, 3, 8-10 (metà I sec. d.C.) ragiona su una produzione di

20 anfore=524 l, vendibili a 300 sesterzi= 75 denari e dunque un’anfora costava almeno 15 sesterzi (= 60 assi). Non teniamo qui conto delle oscillazioni di prezzo per anfora documentate a Pompei (da 12 a 48 sesterzi), Ercolano (da 24 a 54), roma (fino a 88 sesterzi) legate anche alla qualità del contenuto: Duncan Jones 1974, p. 364. Alla metà del II sec. a.C. (Polyb. II, 15, 1) un metreta di vino padano (35/39 l, pari al contenuto di un’anfora e mezza) costava 2 oboli (= 4 assi), dunque a buon prezzo per carenza di infrastrutture di collegamento.

46 È noto che l’anfora fosse rimasta come unità di capacità (26,20 l) fino al medioevo: Disantarosa 2009, p. 137

47 CIL IV, 1679: 2 assi per il vino buono, 4 per il Falerno. Nel I secolo la spesa giornaliera di una famiglia era di 6-7 sesterzi, quando il reddito annuo pro capite era 380 sesterzi e la paga giornaliera di un operaio 2-4 sesterzi.

pezzi di salsiccia 48, di ca. hg. 9 di lardo 49, del lavaggio di ‘mezza’ tunica 50, di 4 prestazioni di una prostituta a buon mercato 51. Efficace Marziale che fotografava un dato e una condizione di certo diffusa: «L’anfora di vino costa venti soldi[sesterzi], un moggio di frumento[kg 6, 503] appena quattro. Ubriaco e sazio, il contadino è senza soldi» 52.

Non ci si poteva, dunque, permettere, nonostante la prorompente quantità anforaria, di non riusarle e la loro duttilità nel quadro delle esigenze dell’uomo è pari alla sua fantasia.

La bonifica ad anfore nella sua bivalente rispondenza ai caratteri dei terreni e alle risoluzioni (bonifica geotecnica/ idraulica) e l’uso anforario in opere non annoverabili fra le bonifiche (arginature, ecc.), fu un ‘fenomeno’ 53, come si è detto, e se vogliamo un esempio di ecologia del paesaggio, un metodo ‘ereditabile’ (fig. 3). Coinvolse ambiti privati e pubblici e in tal senso dovette esser messa in atto sia da privati sia dalla pubblica amministrazione 54. Possiamo inoltre ritenere che il rifiuto ‘da riciclo’, cioè per il riciclo, comportasse – specie per le anfore – una vera filiera: raccolta, stoccaggio, reinserimento nel ciclo d’uso, specie costrutti-vo, in qualità di elemento fondamentale per il novus usus. Tralascio al momento l’aspetto topografico del sistema a ‘filiera’, ipotizzando, per quello messo in atto dal privato, una immediatezza fra uso domestico del contenitore e uso edilizio, senza nemmeno il ricorso al sistema ‘filiera’.

Passi della letteratura e dei Digesta testimoniano l’or-ganizzazione a ‘sistema’ degli smaltimenti dei rifiuti liquidi attraverso una gerarchia di canalizzazioni (rete a più livelli documentata anche archeologicamente) e cloache di cui era garantita la salvaguardia 55. L’attenzione per acque e cause di inquinamento – a partire da Labeone – sono un ulteriore argomento in favore di una visione ‘imprenditoriale’ dei tanti materiali da smaltire a vantaggio di uno scenario urbano pienamente usufruibile. Gli interdetti (D. 43, 10, 1, 5) 56, cui si riconducono decisioni pretorie 57 e statuti mu-

48 CIL IV, 10674.49 CIL IV, 8561.50 Il lavaggio di una tunica costava un denario: CIL IV, 1392.51 CIL IV, 5203. Per Ardola, la meglio pagata, occorrevano 10,5 sesterzi,

quanto mezza anfora di vino (CIL IV, 10218). Se il fabbisogno annuo a persona era di 20 l d’olio (Lo Cascio 2009, p. 177), quello familiare annuo di vino era di 400 l e quindi 15 approssimativamente erano le anfore vinarie consumate, per una spesa di 225 sesterzi. Il reddito annuo di una media azienda agricola era, nel I sec. d.C., di 10.000/20.000 sesterzi (= 2.500/5.000 denari), quello di una persona di 380 sesterzi, quando una tunica costava 15 sesterzi, un mulo 520 sesterzi e la spesa giornaliera media per un nucleo di almeno tre individui era di 6-7 sesterzi: CIL IV, 5380 e Breglia 1950, p. 51, con rimando alle fonti epigrafiche. L’inflazione, cui Diocleziano tentò di sopperire con il noto Editto, portò al costo di 3 antoniniani (= 6 denari) per una pentola, a 145 antoniniani (=290 denari) per un asino (rodriguez Almeida 1984, pp. 116-119); un muratore al dì prendeva 50 denari, un cloacario al dì 25 (Edictum de pretiis rerum venalium: cfr. CIL III, 2, pp. 824 ss.). Dopo la metà del IV secolo con una libbra d’oro si acquistavano 2250 anfore di vino. Vd. Lo Cascio 2009, pp. 235-259 per il prezzo dell’oro.

52 Mart. 12, 76: «Amphora vigesis, modius datur aere quaterno. Ebrius et crudus, nil habet agricola».

53 Osiamo definirlo un ulteriore “monumento” della romanità, al pari della suddivisione agraria: cfr. Antico Gallina 2011c.

54 Appalti sostenuti con denaro della cassa pubblica per interventi di ordinaria o di straordinaria amministrazione. Vd. anche Trisciuoglio 1998, pp. 65-74.

55 Vd. al riguardo Di Porto 1999, pp. 44-63.56 Quelli che Di Porto 1999, p. 54 definiva ‘un reticolato di divieti’

enumerandoli alle pp. 54-58.57 CIL VI, 31614= ILS 8208: il pretore sentenzia che nessuno «intra

terminos propius urbem ustrinam fecisse velit sive stercus cadaver iniecisse velit».

132 M. ANTICO GALLINA, GIUSEPPINA LEGrOTTAGLIE

fig. 3 – Sintesi delle possibili funzioni assolte dalle strutture ad anfore (da Antico Gallina 2011a).

nicipali (Lex Iulia municipalis, 66 sulla regolamentazione dei passaggi notturni dei carri da trasporto), riguardano rifiuti organici e acque nere, limite alla salubritas dell’aria e delle persone 58. Il fatto, anzi, che la lex regoli il passaggio di plostra inania aut stercoris exportandei caussa prefigura un servizio di pubblico appalto per la nettezza sistematica di città e suburbio 59.

I rifiuti ‘ingombranti’ come le macerie – le ruinae che Ulpiano dichiarava da prevenire perché causa di “defor-mazione” della città 60 – non paiono normati se non dalla regola del ripristino edilizio e del buon senso di smaltire in aree libere da abitazioni e non nei fiumi – per non limitarne la navigabilità – ma soprattutto nell’ottica della majestas urbana e del rispetto dovuto a luoghi e res pubblici per la fruibilità collettiva 61 (Lex Iulia municipalis, 68-73).

58 Per i liquami vd. Cat. Agr. 36; Varr, r.r. 1, 38, 2; Plin. N.H. 18, 6; Colum. Agr. 10, 85; 11, 3, 12; per la raccolta di urina vd. Plin. N.H. 17, 51, 23, 140, 28, 66 e 91 e 174; Mart. 6, 93; 12,48.

59 Vd. anche Panciera 2000, pp. 95-105; Manacorda 2007, pp.195-204; Filippi 2008, pp. 86-87.

60 D. 43, 7, 2; 43, 8, 2, 11 e 12 e 17 («[…]ne ruinis urbs deformetur[…]»); D. 43. 8, 1, 2, rifacendosi in ciò al dettato già contenuto nelle XII Tavole.

61 La presenza di materiali edilizi è indirettamente provata dalle norme municipali che stabilivano la demolizione di costruzioni illecite o che limitava-no la distruzione se non autorizzata: vd. in FIRA 2, 1, 13, p. 140 e 21, p. 177 la Lex coloniae Genetive Iuliae s. Ursonensis, 73 («monimentum aedificato[…]demoliendum curanto»); ibid., 75 («aedificium detegito neve demolito») e la Lex Iulia minucipalis, 20-49 (ove si cita più volte la tuitio del cittadino, in assenza della quale lo stato provvedeva con appalto rivalendosi sugli inadempienti) e 68-70. L’esistenza di norme corrobora il quadro di una diffusa disattenzione dei cittadini e, ancora una volta, di ambiti urbani abusivamente occupati da scarti di varia natura. Per l’abbandono degli immobili in rovina, tale da danneggiare la via pubblica vd. Solidoro Maruotti 1989, pp. 109-130.

Eppure il pensiero giuridico nella sua articolata rifles-sione sulle res ebbe anche a distinguere fra res deteriorabili e indeteriorabili (come le anfore dunque), ma se la volontà di definire le res è funzionale a casi di controversia, anche i materiali di risulta su cui riflettiamo vi furono compresi, se non altro per analogia. Ciò almeno pare di poter dire ri-cordando le macerie dell’incendio di roma che Tacito disse smaltite nelle paludi ostiensi 62: dunque una colmatazione a bonifica dell’area che in altri punti topografici tiberini riscontriamo effettuata con anfore e gestita dalla pubbli-ca amministrazione 63. Ai rifiuti ingombranti alludeva la Lex Iulia municipalis, 56, laddove limitando il passaggio di carri per le strade urbane dal tramonto all’ora X, lo consentiva ai carri che avessero trasportato materiali per edifici sacri o pubblici o dalla demolizione “per pubblica utilità” (publice); ai divieti legislativi – evidentemente disattesi – di accumulo di rifiuti presso le porte Urbane fanno riferimento tre iscrizioni che citano l’intervento di restauro del prefetto Macrobio Longiniano con asporta-zione degli scarichi abusivi 64.

Di Porto si esprimeva in favore della visione di un “modello” di gestione-rifiuti tale da aver previsto solu-zioni adeguate, come appunto il “sistema delle cloache” e specifici strumenti giuridici estensibili alla collettività 65.

62 Tac. Ann. 15, 43.63 Antico Gallina 2014a, p. 87; Ead. 2014b.64 CIL VI, 1188-1190: «egestis immensis ruderibus»; Spera 1999, p. 444.65 Vd. Ulp. 71 ad ed. D. 43, 21, 1 pr. per l’interdictum de rivis, e Ulp.

70 ad ed. D. 43. 22. 1. 6 e 10 per i fontes e per la tutela estesa anche a putei, lacus, piscinae.

STrATEGIA DEL rEIMPIEGO, TOPOGrAFIA DELLO SCArTO. DUE CASI FrA ArChEOLOGIA E DIrITTO 133

Vorrei affiancarmi a questa opinione per il ‘sistema delle strutture ad anfore’ all’interno del “modello” di gestione-rifiuti, questa volta rifiuti ingombranti, peraltro congruo con progetti di urbanizzazione. Il valore documentario del ‘sistema ad anfore’ equivale a quello dei resti materiali del “sistema delle cloache” e non si vede motivo per negare un riciclo anforario con stoccaggio anche differenziato. E questo è l’aspetto che vorremmo dibattere.

I lagonarii impegnati al porto fluviale di roma erano nella condizione di smistare i manufatti riusabili 66. Gli esempi di reimpiego noti – seppur parzialmente – at-traverso le fonti scritte, ma soprattutto quello legato alle bonifiche, fanno supporre infatti uno stoccaggio selettivo per elevare il livello della riciclabilità – dalla più ovvia distinzione fra integre, meno integre, frammentarie, a quella per morfologie (affusolate, peduncolo pieno/globulari) – e per velocizzarne la ricommercializzazione. Pensiamo, del resto, agli ambulanti, trafficanti e media-tori, come potevano essere gli institores e i proxenetae, che raccoglievano vetri rotti a domicilio o che davano in cambio dei fiammiferi 67: era presumibilmente lo stesso per le anfore 68. Il caso di una bonifica paduana con 70 anfore integre, arrivate – dall’Egeo o dalla Turchia – e riusate nell’arco della prima metà del I sec. d.C., dimostra, proprio grazie alla omogeneità tipologica (richborough 527), la propensione al pressoché immediato novus usus 69 e una efficiente organizzazione del riciclo, con un ‘salto’: le anfore non passarono dalla discarica.

I frantumi anforari misti a ciottoli usati come zavorra nel fondo delle navi hanno talora mostrato scelte di cali-bro, tanto da far pensare a mescolanze pronte all’uso sulla banchina dei porti 70.

Al riguardo significativa l’analisi del carico del relitto naufragato alla metà del III secolo al largo di Grado, men-tre dall’Adriatico portava verso le coste tunisine 600 anfore con pesce sotto sale e una botte con 140 kg di frammenti vitrei (12.000, ma non scarti di lavorazione). Le anfore erano di tipologia selezionata in base alla capienza e il loro ciclo produttivo denunzia il fatto che furono mantenute in uso per numerosi viaggi, se al momento del disastro

66 CIL VI, 37807 (I-II sec. d.C.: negotiarius lagonarius (de) porto vina-rio); ibid., 9488 per una lagunara di Porta Trigemina. Cfr. inoltre holleran 2012, p. 80.

67 D. 50. 14. 3, Ulp.: «est enim proxenetarum genus qui emptionibus venditionibus commerciis contractibus licitis utiles non adeo improbabili more se exhibent: sic tamen ut et in his modus esse deleat et quantitatis … officinae». Mart. 1, 41, 3-5: «verna, hoc quod transtiberinus ambulator, qui pallentia sulphurata fractis permutat vitreis». Id. 10, 3, 4: «Quae sulphurato nolit empta ramento vatini-orum proxeneta fractorum»; Le cd. Coppe vatiniane erano fabbricate da Vatinio, calzolaio beneventano per cui vd. Mart., 14, 96: «Vilia sutoris calicem monimenta Vatini accipe». Iuv. V, 481: «et rupto poscentem sulphura vitro».

68 Ed era lo stesso per il recupero di mattoni crudi, preferiti da Vitruvio in quanto ‘sperimentati dal tempo’ (Vitr. 2, 3, 1) e per il legname, specie quello ‘forte’ da travature. Così fa pensare la richiesta di un liberto imperiale ad Aquilius Felix, per la cessione di travi di legno di recupero per la propria casa: CIL VI, 1585-b, ll. 33-37 (età severiana, da roma-Campo Marzio): «tignorum vehes/decem, quanti fisco consti/terunt cum pontem neces/se fuit compingi petimus/dari iubeas». Aquilius Felix era, secondo la ricerca epigrafica di Daguet-Gagey 1998, p. 898, procurator operum publicorum et fiscalium Urbis sacrae.

69 rinvenute “in gran parte” integre e dunque poste originariamente sane. Vd. Cipriano, De Vecchi, Mazzocchin 2000, pp. 191-196.

70 Joncheray 1997, p. 116 e 119: i frammenti erano “usati” e non appartenevano alle anfore del carico; nella “mescolanza” anche frammenti di III sec. a.C.

sono presenti ancora contenitori egei e nordafricani della prima metà del II secolo 71.

Del resto in un settore recentemente scavato della domus dei Valerii al Celio uno scarico di macerie andò ad occupare un corridoio secondo una distribuzione che, lasciato un passaggio mediano, distingueva gli scarti: late-rizi e esagonette distinti da frantumi laterizi e marmorei, per una rapida scelta nel riuso. Il criterio della raccolta differenziata ha la riprova nell’area del viridarium della stessa domus: qui lo scarico di residui avvenne in modo disordinato e casuale 72. Se ci soffermiamo sul riuso dei soli colli (per condotte; per potenziamento dell’infiltrazione di acqua freatica; per bonifica geotecnica, isolamento termico e termoregolazione) 73 o dei colli con anse il pensare a una attività di gestione dell’usato prima che esso sia ‘rifiuto’ non pare una fantasia. Tutto ciò a maggior ragione alla luce degli scavi romani del Nuovo Mercato di Testaccio: i due settori, E e W, hanno restituito aree aperte recintate da allineamenti anforari, destinate allo smaltimento di anfore e altre macerie e forse al riciclo; ancora a N un magazzino di Dr. 20. Dal primo impero quindi l’area W fu adibita a stoccaggio forse anche del foraggio; la parte E, utile per carico e scarico e prossima agli horrea Galbiana, doveva essere più direttamente coinvolta nelle operazioni di immagazzinamento e presumibilmente di smaltimento e riciclo 74.

Qualche altra osservazione diretta. A fronte di accu-muli rispondenti alle tipologie circolanti, abbiamo casi selettivi: la disposizione “per tipi” nella bonifica geotecnica di Mogontiacum (le oblunghe, tipo Dr. 7-11 e Pelichet 46 sono percentualmente prevalenti su altre forme); l’esclusivo uso delle Dr. 20 nelle bonifiche idrauliche lungo il rodano nella zona di Vienne 75 e come materiale di riempimento 76 o quelle con tipi Dr. 23, sempre nella regione meridionale della Gallia.

L’omogeneità di tipi, entro un range di forme diverse circolanti, racconta dunque di una selezione: pensiamo an-cora alle strutture con sole Dr. 1, indizio di scelta forse non unicamente dovuta alla forte importazione di vini italici 77.

71 Toniolo 2008b, cc. 483-486: anfore Dr.5 (capacità 26 l); Tripolitana 1 (capacità 85 l); Africana 1 (capacità 43 l); anforotti adriatico-orientali (capacità 17 l) per un carico totale di 24 tonnellate.

72 Palladino, Paterna 2008, p. 94. Per il caso di Concordia rimando alla parte di Giuseppina Legrottaglie.

73 Antico Gallina 1997, p. 143.74 Serlorenzi, Sebastiani 2007, pp. 3-7. Sebastiani 2011b. Non

concorderei sull’ipotesi alternativa di un sistema di gestione dei regimi idrici avanzata in Contino, D’Alessandro 2013.

75 Laubenheimer 1998, p. 68. Le strutture con sole Dr. 20 risultano più numerose in Gallia meridionale che altrove e con prevalente funzione di aerazione (vd. le 5000 Dr. 20 dell’horreum di Vienne): per alcune descrizioni di bonifiche con Dr. 20 vd. ibid., pp. 58-63. Per l’aerazione nell’horreum di Ostia con anfore africane vd. Antico Gallina 1996, pp. 96-97.

76 Vd. supra, nota 31.77 Centri di produzione di Dr. 1 in Campania e Toscana. In Gallia tro-

viamo precedenti interventi con anfore massaliote e etrusche e poi una grande quantità di Dr. 1. Per un’agile panoramica delle presenze di anfore Dr. 1 vd. Laubenheimer 1998, pp. 48-53. rileviamo un’indiretta conferma alla ‘scelta’ anforaria di cui parliamo nelle parole di C. Panella che rimarcava come talune concentrazioni anforarie non possano rispecchiare compiutamente il quadro della loro diffusione per il dubbio di una “scelta” a monte (Panella 1981, p. 79). E porta l’esempio della località Longarina (Ostia), la cui bonifica ha fun-zione innanzitutto idraulica e secondariamente geotecnica: Antico Gallina 2014 a, p. 85.

134 M. ANTICO GALLINA, GIUSEPPINA LEGrOTTAGLIE

È allora inevitabile ritenere il Monte Testaccio (85% di anfore olearie Dr. 20), come caso di raccolta ‘indirizza-ta’, di gestione pubblica, in nome del criterio di ‘maggior funzionalità’ all’interno del processo di riciclaggio: accan-tonavano ben conoscendone il miglior uso. Ma l’aspetto dimensionale della discarica pare comunque provare, insieme al massiccio consumo del prezioso alimento 78, un allentato processo di riuso contestuale al decremento della domanda di bonifica, e, cosa non trascurabile, a una morfologia poco adatta alla funzione geotecnica 79.

Come nel sistema delle cloache vi fu un ruolo attivo dei cittadini nella manutenzione e ampliamento della rete fognaria sostenuto dallo strumento giuridico, per via analogica dovette essere altrettanto per stoccaggio e reim-piego di elementi così tanto utili proprio e soprattutto nei contesti costruttivi. Stoccaggio e reimpiego risolutivi, fra l’altro, anche nei termini di riduzione delle aree destinabili a un puro e semplice smaltimento. Talora, pensiamo, un reimpiego ancor prima dello stoccaggio.

Stimolante per l’archeologo arricchire gli orizzonti della conoscenza e riflettere accanto agli storici del diritto su eventuali distinzioni fra interventi privati o dello stato attraverso appalti decisi dagli edili 80. Ma anche una fonte come Vitruvio, che pure dava suggerimenti topografico-ambientali e dettami per fondazioni in terreni scadenti, ignorò l’uso, pur a lui contemporaneo e già consistente, delle anfore, parlando dei pali lignei. Si riferiva a edifici pubblici, di ampio respiro e notevole carico (templi, teatri), quelli cioè per i quali la palificata era più diffusa rispetto alle strutture ad anfore, privilegiate dall’edilizia privata. Doveva essere, questa, una tecnica semplice, una pratica di cantiere trasmessa dai capimastri o dall’empiria dei privati 81 come dettame di antica tradizione, ma l’archeologo può introdurre l’esempio di bonifiche con centinaia, migliaia di anfore, poste lungo (o al di sotto di) strade pubbliche o rive fluviali 82 (fig. 4).

Interessa perciò non solo il ‘come’ furono posti in essere questi interventi, ma ‘chi’ se ne fece carico 83. A ciò potrebbe legarsi l’eventuale selezione anforaria a monte del processo di riciclaggio, ad esempio sulla base del ‘peso’ di gentes capitaliste, proprietarie di tenute e figlinae, della loro

78 La Betica continuò a esportare olio verso roma fino al VI secolo. 25 i milioni di anfore del Testaccio, pari alla razione annua ad personam di 6 l: remesal rodrìguez 2005, pp. 149-250.

79 In suolo italico, dunque, assai meno applicate, troviamo tuttavia Dr. 20 e Tripolitane di II-III secolo a Ostia, a -7 m sotto piazza delle Erbe (vecchi mercati generali), area destinata al Progetto Città dei Giovani: centinaia di anfore facevano da sottofondo alla strada di collegamento fra la consolare ostiense e l’Ardeatina, passando vicino al fiume Almone (scavi A.M. Durante e r. Paris). Per usi di carattere idraulico (strutture di aerazione) o per alleggerimenti delle murature vd. supra, note 31, 34. Elementi di riflessione sulla circolazione delle Dr. 20 e il coinvolgimento dell’amministrazione imperiale nella produzione e trasporto sulla base delle variazioni di bolli e di tituli picti in Lo Cascio 2009, pp. 277-295.

80 Si vd. Trisciuoglio 1998, p. 134 ss.81 Vitruvio contrappose la semplicistica empiria dei profani alla perfezione

dell’ars dell’architetto: Vitr. I, 11.82 rimando per questo aspetto ad Antico Gallina 2014b.83 Ben noto l’interesse di figure pubbliche tenute al versamento di summae

honorariae, di figure pubbliche e private sollecitate dall’assunzione del ruolo di benefattore e patrono della città: vd. anche Duncan-Jones 1990, pp. 174-184. Per il settore est del Nuovo Mercato del testaccio, laddove sono stati individuati anche ambienti coperti, Sebastiani 2011 b, ha supposto, data l’ubicazione nei pressi o nella proprietà di Galba, una diretta gestione, al cui aspetto ammini-strativo dovevano esser destinati gli ambienti coperti.

fig. 4 – La distesa anforaria di Parma, via Palermo (da Dall’A-glio 2009).

incisività politica, dunque del loro valore contrattuale, o, al contrario, della irrilevanza di altre. Potrebbe allora deli-nearsi una dimensione speculativa di questo tipo di riciclo.

È solo per una preferenza alimentare o di costi che le Dr. 6B della figlina istriana di Fasana, proprietà di C. Laecanius Bassus, console del 44 d.C., produttore di olio nell’agro di Pola 84, divenute esclusive dalla metà del I secolo soppiantando le Dr. 6B similes dei piccoli ateliers padani, siano presenti nelle bonifiche cisalpine per una percentuale appena al di sotto di quella delle Dr. 6 A, ma che in vari casi siano nettamente predominanti (Oderzo, Padova, Pola e anche Cremona) 85?

È un caso che il console C. Laecanius Bassus Caecina Paetus fosse l’adottato di C. Laecanius Bassus, console del 64 d.C., e curator Tiberis nel 74 d.C., una curatela che non può non ricondurre al delta tiberino, al suburbio ostiense 86 e alle risoluzioni con anfore sia di drenaggio (bonifica idraulica) sia di colmatazione 87, accanto a quella testimoniata da Tacito?

84 Tre le generazioni di Laecanii proprietari di fundi, produttori e fab-bricanti, dall’età augustea fino a quando le attività non passarono alla gestione imperiale (età traianea): Cipriano Mazzocchin 2012, pp. 245-246; Toniolo 2008a, pp. 175-177 parla di una “nuova sferzata imprenditoriale” data dai Laeca-nii, prima produttori di tegole, mattoni, dolia, lampade e tubi per riscaldamento, poi di anfore (Callender 1965, pp. 103-104, n. 365).

85 Per i tempi del quadro produttivo vd. Cipriano Mazzocchin 2012, pp. 241-246.

86 Pannuzi 2012, pp. 321-326; Ead. 2013, pp. 1-6: vari i punti di inter-cettazione di strutture ad anfore e di colmate di terra e macerie a risanamento dell’area paludosa.

87 Il riassetto ripario dell’antico stagno di Ostia (Longarina) consistette in anfore (25% di Dr. 2/4; 12% di Dr. 6) in trincee ortogonali di profondità crescente verso lo stagno (rivello, 2002, pp. 429-441: prima metà I sec. a.C.-50

STrATEGIA DEL rEIMPIEGO, TOPOGrAFIA DELLO SCArTO. DUE CASI FrA ArChEOLOGIA E DIrITTO 135

Si tratta di naturali ripercussioni dell’economia dei consumi o si può intravvedere una traccia da approfondire nella direzione indicata? Insomma un reimpiego ‘indiriz-zato’, già allora e non solo oggi.

M.A.G.

3. Riciclo attuato, riciclo negato. I materiali in bronzo

«Del gran numero di statue d’oro, ferro, bronzo e pietra costruite dai romani in onore delle persone degne di fama, solo sei sono sopravvissute, quelle d’oro e d’argento sono state rifuse» 88.

Il metallo non è mai stato un rifiuto. La possibilità di rifonderlo all’infinito ne ha escluso l’uscita, come scarto, dai cicli produttivi di età antica 89 e ha comportato la nota perdita dell’enorme patrimonio di oggetti realizzati in questo materiale: non solo statue ma anche decorazione architettonica, vasellame, strumenti tecnici, fino alle grap-pe in ferro impiegate nelle strutture murarie 90.

Il fenomeno del riciclo è soprattutto legato alla tarda Antichità e all’alto Medioevo, quando vennero defunziona-lizzati gli spazi pubblici e i principali monumenti del mondo romano: alle attestazioni archeologiche di accumuli di reperti metallici da rifondere nelle fasi di obliterazione di diversi edifici, si affiancano indicative testimonianze storiche 91.

Ma un ciclo dei metalli che prevedesse il riutilizzo dei materiali rotti, defunzionalizzati, non più attuali, esisteva anche nella piena romanità, per quanto ne restino in parte oscure le modalità organizzative. Esso comportava talora il ripristino di prodotti semplicemente riadattati ad un secondo impiego – è ad esempio il caso delle statue-ritratto che tornavano ad essere esposte dopo la sostituzione della testa –, talora il riciclo del materiale in sé a seguito di rifu-sione. Se è ben noto il primo fenomeno 92, più labili sono le tracce che consentono di seguire le dinamiche del secondo.

Il metallo poteva rifondersi per fini propagandistici: nel III sec. a.C. il console Spurio Carvilio fece realizzare un colosso di Giove sul Campidoglio dal bronzo delle corazze, gambali ed elmi sottratti ai Sanniti che aveva sconfitto, e coi residui della limatura commissionò una propria statua posta ai piedi di quella del dio 93.

d.C. e rimodulazione della bonifica al III sec. d.C.). Una soluzione – di probabile iniziativa pubblica – di bonifica idraulica (vero drenaggio), ma contestualmente geotecnica, per ottenere una superficie continua, priva di canali a pelo libero. Ancora a Ostia una bonifica idraulica nell’horreum all’Isola Sacra (a più corpi e a più piani, con spessi muri laterizi, II sec. d.C.)presso un’ansa del fiume Tevere, ove dal I secolo sorsero edifici che subirono ristrutturazioni (Zevi, 1972, p. 416). Nel piano di anfore ‘aficane’, orizzontali, forse su due ordini e prive di materiali interstiziali, al di sotto di uno dei vani pavimentati riconosciamo un’efficace struttura di aerazione a contrasto dell’umidità di risalita capillare (metà III sec. d.C.). Vd. da ultimo Antico Gallina 2014a, p. 85.

88 Così scriveva nel 1452 Nikolaus Muffel, in visita a roma. Per il testo e la sua traduzione Lahusen, Formigli 2001, p. 6.

89 Mannoni, Giannichedda 2003, p. 193.90 Sul destino dei bronzi antichi, in particolare quelli statuari: Bol 1985,

pp. 179-184.91 Un quadro delle evidenze è in Bernard 2008, pp. 45-46.92 Lahusen, Formigli 2001, p. 459, con ulteriore bibliografia.93 Plin. N.H. 34, 43; Bernard 2008, p. 43. Sulla base di un passo di

Plinio (N.H. 34, 41) il Bernard ritiene che anche il Colosso di rodi fosse stato realizzato con materiale di recupero proveniente dalle macchine da guerra abbandonate da Demetrio dopo l’assedio dell’isola; tuttavia il passo sembra suggerire che fu la vendita dei rottami metallici a fruttare in questo caso i 300

Non mancavano presunti motivi tecnici. Secondo Plinio, una quantità di metallo riciclato nella formazione delle leghe di rame impiegate per i tavoli o nella statuaria serviva a migliorare la qualità del prodotto. Nel XXXIV libro della Naturalis Historia egli quantifica il dato pre-scrivendo l’aggiunta, nella fusione, di «una terza parte di rame di recupero, cioè del rame messo insieme dopo che è fuori uso. Questo rame – precisa ancora l’Autore – ha una mitezza particolare, conferitagli dallo strofinamento che l’ha domato e dall’uso di lucidarlo che l’ha, per così dire, addolcito» 94.

Ma le ragioni che giustificano il fenomeno sono in massima parte economiche: il metallo è un bene prezioso, redditizio, scevro da rischi di svalutazione. Ciò valse soprat-tutto per l’età imperiale, quando quotazioni e domanda crebbero a dismisura per sostenere le esigenze celebrative della famiglia regnante e delle aristocrazie dell’impero, nonché l’architettura monumentale dei centri del potere 95. I carichi di lingotti rinvenuti nei siti più disparati e talora sul fondo del mare, insieme agli scafi che li trasportavano, danno un’idea dell’ampia circolazione del materiale 96. Lo sfruttamento delle miniere si intensifica: nella Lex Metallis Dicta, documento prezioso per entrare nelle logiche della gestione mineraria romana, una domanda crescente è il presupposto che trapela dalla volontà di incentivare la col-tivazione di nuovi giacimenti e della contestuale attenzione ad evitare periodi di inattività nell’estrazione di filoni già noti: bastano 10 giorni di fermo perché un colonus perda il diritto di gestione legittimando altri soggetti a subentrar-gli 97. D’altronde la grande crisi del III secolo è contestuale alla drastica riduzione delle estrazioni nei principali centri minerari dell’impero 98.

In questo quadro i rottami metallici costituivano una ricchezza per il loro valore intrinseco, e offrivano materia prima di facile accesso e immediato sfruttamento. Ma come avveniva la gestione del loro riciclo? Quali luoghi disegnano la topografia della raccolta e stoccaggio dei materiali? Quali le norme, i canali, le figure professionali impiegate? A fronte del generale silenzio riservato al tema nei testi giuridici, letterari, epigrafici a noi noti, si apre il campo ad una serie di ragionamenti che procedano prin-cipalmente per ipotesi e deduzioni.

L’assenza di figure professionali specializzate fa pensare che il riciclo si attuasse direttamente nell’ambito delle officine bronzistiche: d’altronde i rottami erano materiali già pronti all’uso senza bisogno di processi lavorativi in-termedi 99. I laboratori stessi erano poi i primi produttori di scarti da riciclare: nei contesti maggiori, una gestione

talenti che finanziarono l’opera. Si veda la traduzione del brano proposta in Corso et al. 1988.

94 Plin. N.H. 34, 97; per la traduzione: Corso et al. 1988. Si veda anche Bernard 2008, pp. 43-44.

95 Ciò comportò il graduale scadimento della qualità delle leghe statua-rie denunciato da Plinio: Lahusen, Formigli 2001, pp. 501-504. Lo stesso fenomeno è chiaramente percettibile nelle leghe della monetazione corrente: fra gli altri Wilson 2007.

96 Si pensi ai 102 lingotti di piombo della nave di Comacchio (fine I sec. a.C., Fortuna maris 1990), al noto relitto di Port-Vendres II o a quello carico di lingotti di stagno da Cala rossano, entrambi del I sec. d.C. (Arata 1994).

97 Sulla Lex, datata al 117-138 d.C., vd. Lazzarini 2001.98 Wilson 2007, p. 121.99 Diversamente da quanto accadeva, ad esempio, per le statue marmoree,

dove la possibilità di fasi intermedie nella gestione degli scarti aveva dato vita,

136 M. ANTICO GALLINA, GIUSEPPINA LEGrOTTAGLIE

oculata degli spazi di lavoro e dei rifiuti interni doveva portare ad un ordinato stoccaggio dei materiali di risulta, in vista di differenti percorsi di smaltimento 100.

resta tuttavia il vuoto sulle fasi di approvvigionamen-to, assemblaggio, smistamento dei materiali.

Analizzando le modalità di prelievo degli elementi metallici impiegati in architettura nel corso dell’età tardoantica e altomedievale, Jean-François Bernard ha evidenziato due modalità operative: una ufficiale, piani-ficata e condotta su ampia scala, l’altra artigianale, nata dall’intervento occasionale dei singoli. Se il recupero delle tegole bronzee del tempio di Giove Capitolino, attuata da Genserico nel 455, o il sistematico smontaggio della copertura del Pantheon voluto da Costante II si legano a committenze ufficiali, a volte l’iniziativa del recupero si connota per un livello occasionale e privato: i fori praticati lungo le pareti del Colosseo per razziare le grappe metalli-che interne, ad esempio, sono attuati esclusivamente nei settori raggiungibili con facilità e l’operazione poteva essere agevolmente condotta anche da un uomo solo munito di mazza e scalpello 101.

Questo doppio canale operativo va probabilmente applicato, con diverse modalità, anche al pieno periodo romano. Doveva essere possibile già per il singolo disfarsi di metalli non più utilizzati vendendoli alle officine fuso-rie del territorio in modo diretto o tramite intermediari: come i proxenetae passavano a raccogliere il vetro rotto a domicilio, è probabile che analoghe figure si occupassero dell’acquisto dei metalli dismessi, tanto più se si pensa alla analogia delle modalità di riciclo di questi materia-li 102. Si trattava con tutta probabilità di operazioni molto redditizie, tanto che frequenti dovevano essere i furti: in un’iscrizione pompeiana scolpita lungo la Via dei Teatri, il proprietario offre 65 sesterzi a chi gli riporti una urna aenia che gli era stata rubata dalla taberna, una cifra esor-bitante se paragonata ai 2-4 sesterzi che costituivano la paga giornaliera di un operaio 103. Data la sede d’impiego, inoltre, dobbiamo pensare ad un grande contenitore, il cui valore dipendesse in massima parte dal materiale piuttosto che dalla manodopera necessaria alla sua realizzazione.

Nell’ambito di un riciclo ‘privato’ vanno verosimil-mente spiegate alcune evidenze archeologiche. A Bergamo, lungo la centrale via San Lorenzo, nel contesto di una domus edificata in età tardorepubblicana si rinvenne un accumulo di rottami bronzei eterogenei raccolti per poi essere rifusi: frammenti di vasellame, fibbie, appliques, porzioni di cornici e di statue, borchie, anche monete. Il

ad esempio, ai calcarenses (produttori di calce). Su questa schola: CIL VI, 9224; Diosono 2007, p. 49.

100 Ciò sembra suggerito dalle modalità di rinvenimento degli scarti di lavorazione nelle discariche, dove essi compaiono spesso distinti per tipologia. Nel quartiere artigianale di Autun si è notato come i frammenti di matrici siano generalmente associati a pochissimo altro materiale se non a crogioli, e la fossa di scarico primario nell’ambiente 1-26 presentava una evidente stratificazione in cui si succedevano prima i crogioli e poi le matrici: Un quartier antique 1999, pp. 167, 194. Nella discarica extraurbana aperta lungo il lato orientale della cinta muraria di Torino erano accumulate solo grandi quantità di camicie di fusione, senza ulteriori scarti produttivi se non piccoli frustuli di metallo: Legrottaglie c.s.

101 Bernard 2008, p. 45.102 Mannoni, Giannichedda 2003, p. 193. Sui proxenetae si veda

supra, p. 177. 103 Vd. supra, nota 47. Per l’iscrizione: CIL IV, 64.

nucleo rimase inutilizzato perché coinvolto in un evento distruttivo che ne comportò, tra fine II e III sec. d.C., l’o-bliterazione; la contestuale presenza di scolature di fusione fa pensare che in prossimità del deposito fosse ubicata la fucina (facente parte della domus?) a cui era destinato il materiale 104.

Un analogo contesto è emerso in anni recenti a Ca-steggio: nel cortile di un edificio a vocazione produttiva scavato in via Anselmi giacevano frammenti di oggetti bronzei intenzionalmente spezzati e destinati, con tutta probabilità, ad una adiacente officina fusoria. Si tratta di piccola e grande scultura, oggetti di arredo domestico e ornamenti personali. Una alluvione comportò, nella seconda metà del IV secolo, il seppellimento dei reperti e l’obliterazione della struttura 105.

Un accumulo di oggetti metallici rotti già in antico occupava l’area interna o immediatamente attigua all’of-ficina di un fabbro-bronzista nel suburbio di Tridentum: anche in questo caso i materiali sono stati interpretati come scarti da rifondere in quello che si presentava come un piccolo laboratorio, attivo fino alla prima metà del III secolo, dotato di forno e scarico idrico, e collegato con una adiacente bottega per la vendita al pubblico 106.

Non sorprende questa presenza in ambiti di produ-zione medio-piccoli: contrariamente alle indicazioni di Plinio, infatti, l’uso del materiale di scarto non sembra ap-pannaggio della grande statuaria. Al contrario un capillare censimento delle leghe metalliche porta Josef riederer a concludere che esso costituisse una componente costante nella realizzazione di statuette, aghi e oggetti di piccolo formato laddove non era necessario rispettare, nel dosaggio dei componenti, valori standard che garantissero resistenza o facilità di lavorazione 107.

Al commercio e trasporto dei rottami va invece ricondotto, con tutta probabilità, il cumulo di elementi bronzei rinvenuti a Concordia, in un complesso interpre-tato come infrastruttura di tipo portuale o mercato extra moenia. In questo caso i manufatti, per lo più in ferro, erano affiancati da ulteriori materiali di spoglio, frutto dello smontaggio di uno o più edifici, e apparivano ordi-nati per tipologie: laterizi di vario tipo, marmi lavorati, statuaria, intonaci dipinti. L’insieme fa pensare ad un’area di stoccaggio e suddivisione di materiale edile in vista del suo reimpiego 108.

Le evidenze concordiesi sembrano già presupporre una organizzazione più complessa e in qualche modo controllata dall’autorità pubblica. Di fatto una larga parte dell’attività di riciclo doveva prevedere una pianificazione

104 Su queste evidenze Fortunati 2002, pp. 352-360.105 Invernizzi 2012, con precedente bibliografia. ringrazio la dott.ssa

Grazia Facchinetti, funzionario archeologo presso la Soprintendenza per i Beni archeologici della Lombardia, per avermi segnalato il caso.

106 Bassi et al. 2002, pp. 581-582.107 riederer 2002a, pp. 290-291; riederer 2002b, p. 300. Lo studioso

osserva che il ricorso a metallo di riciclo è indiziato, a livello di lega, dalla presenza di una quantità variabile fra 1 e 3% di un singolo componente. Questi valori sono troppo alti per essere casuali, ma troppo bassi per collegarsi ad una scelta intenzionale dell’artigiano, tale da influire sulle proprietà della lega stessa. Le conclusioni dello studioso esprimono una tendenza che non va intesa in termini assoluti. Le variazioni che intercorrono nelle leghe impiegate anche in una sola scultura possono spiegarsi come conseguenza dei materiali di reimpiego in relazione alla grande statuaria.

108 Concordia 2001, pp. 190-192.

STrATEGIA DEL rEIMPIEGO, TOPOGrAFIA DELLO SCArTO. DUE CASI FrA ArChEOLOGIA E DIrITTO 137

definita e gestita a livello statale, in via diretta o tramite appaltatori, soprattutto quando si interveniva in contesti monumentali e sacri. Il raffronto con la realtà greca può essere indicativo al riguardo. Una cospicua mole di testi-monianze epigrafiche attesta con chiarezza che le offerte in metallo dei grandi santuari ellenici restavano esposte solo per un certo periodo di tempo, dopo il quale sacerdoti e amministratori decidevano per il loro riciclo, soprattutto se rovinate dal tempo. Le linee operative seguivano una pro-cedura minuziosa che prevedeva una relazione preliminare sullo stato dei materiali, una richiesta alle autorità pubbli-che, talora l’istituzione di una commissione di verifica. Il metallo ottenuto poteva impiegarsi per realizzare nuove suppellettili cultuali o venire tesaurizzato in lingotti che arricchivano il tesoro degli dei; in casi eccezionali veniva impiegato per ragioni di pubblica utilità, con la promessa di restituire, appena possibile, quanto tolto alle divinità 109.

Qualcosa di simile doveva accadere anche a roma. I principali spazi pubblici, politici come religiosi, erano assiepati di sculture e votivi, anche metallici, che necessi-tavano di periodici interventi di risistemazione e/o rimo-zione, ora per garantire la fruibilità degli spazi, ora per un necessario ‘aggiornamento’ dei programmi iconografici o semplicemente perché logorati dal tempo. Talora erano la damnatio memoriae o l’arbitrio di qualche imperatore a decidere la dismissione di statue 110, talora l’intervento giungeva a seguito di eventi traumatici: qualcosa del ge-nere comportò, dopo il 223 d.C., la rimozione dei clipei bronzei che decoravano l’attico del Colosseo, in parte già compromessi da una ridotta manutenzione 111. In questi casi siamo certamente di fronte a iniziative pubbliche. Nel 179 a.C. fu M. Emilio Lepido, in qualità di censore, ad appaltare ex pecunia adtributa la rimozione delle sta-tue che ingombravano l’area capitolina a roma 112; nel II sec. d.C. un analogo provvedimento interessò il foro di Cirta, in Numidia, e fu promosso ex auctoritate D. Fontei Fr[ontoniani] 113.

Che fine facevano sculture e arredi rimossi, molti dei quali erano senz’altro in metallo, anche prezioso?

Un interessante passo di Appiano ricorda che, subito dopo l’assassinio di Cesare, le statue del dittatore furono immediatamente spiccate dai loro basamenti e portate in una officina (ἐργαστηριον) dove esse ἀνεσκευα ζοντο: che si traduca, col Gabba, «rimaneggiate per essere poi uti-lizzate» o che si intenda «mises en pièce» come propone il Goukowsky 114, e al di là delle ragioni politiche di una operazione recentemente spiegata come «réaction contre un excès» 115, è indubbio che siamo di fronte ad un piani-

109 Il fenomeno è analizzato in Patera 2012, pp. 91-97. Per ulteriori testimonianze sulla rifusione di statue pubbliche in ambito greco: Donderer 1991-92, cc. 271-274.

110 Caligola fece abbattere e rompere quelle degli uomini illustri che Augusto aveva portato nel Campo Marzio: Suet. Cal. 34.

111 Legrottaglie 2008, pp. 46-48.112 Liv. 40, 51, 2-3; nella stessa occasione vennero staccati gli scudi e le

insegne militari di ogni tipo che pendevano dalle colonne del portico.113 CIL VIII, 7046. 114 rispettivamente: Gabba, Magnino 2001; Goukowsky, Torrens

2010. Per una vera e propria distruzione si propende anche in Donderer 1991-92, c. 220 nota 119.

115 Così Ph. Torrens nell’edizione del testo appianeo delle Belles Lettres: Goukowsky, Torrens 2010, p. 97 nota 29.

ficato intervento di rimozione e riciclo, promosso dalle autorità e condotto in botteghe specializzate. Qualche tempo dopo, nel racconti di Giovenale, la fiamma delle fucine strideva per realizzare padelle e pitali dalle statue abbattute dell’odiato Seiano 116. Iniziative di questo tipo si moltiplicano a partire dal IV secolo, quando la chiusura dei templi pagani legittimò interventi di riciclo su larga scala. Andrew Wilson sostiene che fu proprio l’immissione dei metalli di recupero a contribuire alla ripresa economica nell’età di Costantino e a spiegare la migliore qualità delle leghe nei coni di questo periodo; d’altronde Eusebio di Cesarea riferisce che l’imperatore rifuse le statue d’oro e d’argento sottratte ai templi per battere moneta 117.

Alla luce di questi dati appare suggestivo constatare come officine in qualche modo legate alla lavorazione del bronzo siano emerse nel cuore dei complessi capitolini di alcune città romane. Ben noto è il caso di Brescia: qui, in un condotto sotterraneo praticato lungo il limite occiden-tale dell’area sacra, si rinvennero i materiali di scarico di una piccola bottega che operava, con tutta probabilità, in stretta relazione col santuario. Il tipo di reperti emersi – crogioli, frammenti di statue, scolature, tasselli, strumenti di lavoro – ha fatto pensare ad un impianto artigianale di piccole dimensioni che gestisse, a tutto campo, i materiali in metallo esposti nell’area, curandone sia la riparazione che la rimozione e/o il recupero 118.

Di grande interesse sono anche alcune evidenze re-lative alla colonia di Luni. Scavando all’interno dell’area capitolina, fra l’ala orientale del portico che cingeva il tempio ed il piccolo sacello antistante, realizzato in età claudia, Carlo Promis mise in luce, nel 1837, quella che egli definì «la stanza dei bronzi»: si trattava di un locale in cui era accumulato un cospicuo nucleo di reperti frammentari ed eterogenei – sculture di vario modulo, una maniglia, borchie, fiori, chiodi, ecc. – rimasto in situ forse per il crollo del tetto in tegole. La contestuale presenza di «tante colature di bronzo» e qualche pezzo di crogiolo, insieme all’aspetto sobrio del locale, portò lo scavatore a parlare di officina fusoria 119. I successivi interventi hanno permesso di circoscrivere il deposito al periodo fra la seconda metà del II e il III sec. d.C. 120, ma scorie di bronzo e scarti di fusione emersero, nella stessa area, anche negli strati di età giulio-claudia indagati nel 1977, e il muro che chiude il vano ad est si presenta del tutto analogo alle strutture edilizie di questa fase 121.

116 Iuv. X, 61-64. 117 Euseb. VConst. 3, 54; Wilson 2007, p. 121.118 Da ultimo Miazzo, Formigli 2011, pp. 53-54. Si veda anche Miazzo

2002; rossi, Miazzo 2002. La datazione dello scarico agli anni fra fine IV e inizi V secolo non esclude che l’officina operasse anche prima; peraltro Filli rossi parlava, nel 2002, di un deposito omogeneo con materiali prevalentemente databili fra fine II e III secolo (rossi, Miazzo 2002, p. 430). In ogni caso il buon numero di tasselli di riparazione e lamine funzionali alla loro realizzazione dimostra che non si trattava dell’area di smontaggio realizzata contestualmente all’obliterazione dell’edificio, ma di una officina preposta alla manutenzione del suo apparato decorativo.

119 Una breve relazione degli scavi è pubblicata in Promis 1857, pp. 111-112 e Sforza 1904, pp. 325-326, con catalogo dei bronzi rinvenuti alle pp. 329-332. Su questi interventi si veda anche Frova 1973, cc. 3-5.

120 Così Lavizzari Pedrazzini 1977, p. 357; più genericamente di tarda età imperiale si parla in rossignani 1989, p. 61.

121 Lavizzari Pedrazzini 1977, p. 357. Più tardo è invece il muro di delimitazione occidentale, che potrebbe attestare una ristrutturazione più tarda di un ambiente artigianale attivo già in epoca precedente.

138 M. ANTICO GALLINA, GIUSEPPINA LEGrOTTAGLIE

Poste nel cuore monumentale dei rispettivi centri, le due botteghe sembrano costituire, di fatto, dei punti nodali nella topografia del riciclo, connotandosi come il luogo fisico in cui si operava la gestione dei materiali bronzei pertinenti all’area sacra, la sede nella quale, sotto il diretto controllo delle autorità religiose e politiche, si attuavano riparazioni e restauri, ma si procedeva anche ad accantonamenti, smistamenti, dismissioni.

Forse in una analoga struttura si predispose, per il viaggio e la rifusione, il carico di statue bronzee che dalla Grecia mosse, fra IV e V sec. d.C., verso il porto di Brin-disi e che si perse, in seguito ad un naufragio, nel braccio di mare antistante la città, presso Punta del Serrone. Le sculture sembrano infatti provenire da un’area pubblica e vennero preliminarmente trattate allo scopo, come mostrano i chiari segni di demolizione ancora leggibili sulle superfici: colpi inferti presso le giunture, margini trinciati e distorti, riduzione in forme aperte 122 (fig. 5). Meglio di qualunque altro deposito, i bronzi di Brindisi, nella loro eccezionalità, danno un’idea dell’organizzazione e ampiezza del riciclo dei metalli, nonché della continua domanda che, ancora nella tarda età imperiale, induceva a tradurre via mare, insieme ai lingotti di materia prima, anche rottami da rifondere, non solo a roma ma in tutti i centri dell’impero 123.

Il quadro delineato di un riciclo pianificato e diffuso, tanto da coniare, per roma, la definizione di città ‘self-cleaning’ 124, sembra contraddetto da alcune evidenze che parlano invece per un consapevole ‘butto’ di materiali metallici. È ad esempio il caso dell’obliterazione volon-taria e irreversibile di statue bronzee, dettagliatamente analizzato in un saggio di Michael Donderer. Lo studioso evidenzia la pratica, attestata sia in Grecia che a roma, di deporre intenzionalmente sculture intere o frammentarie, in pietra o metallo, sia in terra che in acqua, e la spiega con gli intenti opposti ora di proteggere simulacri di culto o materiali votivi dalla profanazione, ora di eliminare im-magini invise, per varie ragioni, agli autori del gesto. Nel quadro estremamente eterogeneo delle evidenze, emerge il caso delle numerose sculture in bronzo gettate nei fiumi: si tratta di una pratica prevalentemente romana che sem-bra interessare soprattutto teste-ritratto. La presenza, fra di esse, di alcune effigi di imperatori colpiti da damnatio memoriae porta lo studioso a spiegare il fenomeno con la volontà di disfarsi delle loro immagini 125. Sulle stesse posizioni si sono espressi più di recente Götz Lahusen ed Edilberto Formigli: il getto nel fiume appare l’esito

122 Questa lettura storica del carico, già proposta al momento dello scavo ma messa in seguito in discussione, viene recentemente ribadita nel volume monografico I bronzi di Punta del Serrone 2010. Si vedano in particolare i contributi di G. De Palma e K. Mannino, a cui si deve anche l’indagine sul possibile contesto di provenienza dei materiali. Sul carico e la sua funzione anche Mazzatenta 1995.

123 Il trasporto via mare di materiale da riciclo trova un interessante paral-lelo nel carico di vetri rotti del relitto Grado I, della metà del III secolo (Toniolo 2008b); ma già nel VI sec. a.C. una nave naufragata a rochelongue trasportava verso i centri di produzione greci ed etruschi, insieme a lingotti di metallo, anche un cospicuo nucleo di oggetti da rifondere: Garcia 2002, pp. 38-41.

124 rodríguez Almeida 2000.125 Donderer 1991-92, cc. 219-230. L’elenco delle sculture bronzee

emerse nei fiumi è alle cc. 259-264, Anhang III.

fig. 5 – Frammenti bronzei dal relitto di Punta del Serrone (da Mazzatenta 1995).

finale della ‘furia’ del popolo, che alla morte del tiranno si scaglia contro le sue statue, le divelle dai basamenti, le priva della testa 126.

riteniamo che questa interpretazione meriti qual-che riflessione. Dei 17 ritratti bronzei rinvenuti in fiumi quattro soltanto rappresentano imperatori dalla memoria dannata, né mancano augusti particolarmente amati dal popolo quali Traiano e Adriano. Solo in un caso, inoltre, si leggono sul viso colpi tali da evocare le conseguenze fisiche di una damnatio: si tratta peraltro di un bustino di Caligola che, con i suoi 10 cm di altezza, sembra riconducibile ad un contesto privato e poco convince come bersaglio della furia ‘iconoclasta’ di una folla inferocita 127. Lo stesso dicasi per un bustino di Domiziano, di analoghe dimensioni, emerso nel Tevere, per il quale è stata addirittura ipotizzata una realizzazione postuma ad opera di un ‘nostalgico’, in barba ai divieti della condanna delle immagini 128!

Mentre i busti sono generalmente integri, le teste pertinenti a statue si presentano tagliate alla base del collo, anche se in modo talora irregolare: ne risulta una sostanziale sistematicità degli interventi che difficilmente può spiegarsi come esito di azioni caotiche e violente 129.

126 Lahusen, Formigli 2001, pp. 458-459. I due studiosi individuano un nucleo di 16 ritratti (cat. nn. 6, 40, 53, 69, 70, 89, 99, 106, 107, 110, 114, 156, 165, 174, 189, 197), ad integrazione dell’elenco del Donderer. Ad essi può aggiungersi un busto in argento dalla Saona: Donderer 1991-92, c. 223; Lahusen, Formigli 2001, p. 521.

127 Lahusen, Formigli 2001, pp. 126-127, n. 69.128 Ibid., p. 167, n. 99.129 Talora il taglio segue addirittura la linea di saldatura con cui la testa

originariamente aderiva alla statua di pertinenza: Lahusen, Formigli 2001, p. 88 n. 40 (Germanico dal Tevere); p. 149 n. 89 (Nerone dall’Alde).

STrATEGIA DEL rEIMPIEGO, TOPOGrAFIA DELLO SCArTO. DUE CASI FrA ArChEOLOGIA E DIrITTO 139

fig. 6 – Distribuzione dei votivi in bronzo nel letto del fiume Ljubljanica (da Gaspari, Krempuš 2002).

Proprio il ritratto di Gordiano III dal fiume Jantra, portato a prova della furia popolare per il dettaglio delle orecchie recise 130, sembra di fatto escludere questa lettura: i tagli sono infatti condotti con grande precisione e regolarità, in modo assolutamente simmetrico, con un’operazione che appare piuttosto riconducibile al lavoro certosino di un artigiano che intendeva riciclare le orecchie in un altro ri-tratto. Nel complesso riteniamo dunque più plausibile che le numerose teste rinvenute nei fiumi siano prima passate da un’officina, e che qui siano state recise per reimpiegare la statua a cui appartenevano con l’inserimento di un nuovo ritratto. La presenza di teste di imperatori damnati non appare così rilevante, ed in ogni caso potrebbe ragio-nevolmente spiegarsi come conseguenza della sistematica rimozione delle loro immagini già in antico.

Se dunque il getto nel fiume non sembra essere un atto istintivo, dettato dalla foga del momento, ma viene pianificato dopo la dismissione delle statue, diventa più difficile coglierne il senso: perché disfarsi di un ritratto, anche se inviso, buttandolo via quando esso manteneva un valore intrinseco legato al materiale impiegato e poteva fruttare denaro? Nelle descrizioni di attacchi collettivi ad statuas riportate dalle fonti non si accenna mai al getto

130 Donderer 1991-92, c. 222; Lahusen, Formigli 2001, p. 459.

delle teste; la furia collettiva si placa costantemente di fronte al fuoco delle fucine in cui fondono le immagini degli odiati nemici 131.

La domanda è tanto più pertinente se pensiamo che le teste nei fiumi erano gettate, con tutta probabilità, a titolo personale: la distribuzione regolare del fenomeno nel corso dell’età imperiale, la limitata incidenza nei diversi periodi, escluderebbero operazioni sistematiche e piani-ficate, che peraltro avrebbero rischiato di contravvenire alle dettagliate normative di tutela delle acque fluviali 132. Perché dunque un singolo – o un piccolo gruppo – doveva scegliere di disfarsi intenzionalmente di oggetti comunque dotati di un certo valore 133?

Una possibile risposta a questa domanda viene sug-gerita dal Gianfrotta, quando ipotizza che i metalli emersi nel Tevere fossero ‘corpi di reato’, frettolosamente gettati da ladri colti in flagrante 134; ma si tratta di un’eventualità troppo circoscritta in rapporto all’ampiezza delle evidenze.

131 Iuv. Sat. X, 56-68; Plin. Pan. 52. Ben altra cosa è la scelta di Nerone di gettare nelle latrine le statue dei cantanti che oscuravano la sua fama di artista: Suet. Nero 24; Donderer 1991-92, c. 225.

132 Sul tema: Grosso 2001, pp. 41-60.133 Plin., N.H. 33, 1, afferma che metalla nunc ipsaeque opes et rerum

pretia dicentur; in 34, 1 sostiene che il valore del bronzo sia prossimo a quello di oro e argento.

134 Gianfrotta 2000, p. 30.

140 M. ANTICO GALLINA, GIUSEPPINA LEGrOTTAGLIE

È forse nell’ambito della ritualità che si offrono in-terpretazioni più convincenti. Il gran numero di reperti metallici rinvenuti nei letti dei fiumi come in sorgenti o in bacini idrici porta di fatto a leggere la presenza di grande statuaria all’interno di un fenomeno di più ampia portata, che già il Donderer cercava di spiegare con pratiche in-tenzionali di deposizione: si tratta di recipienti, statuette, laminette, armi, gioielli, qualche statua di divinità 135. Nelle stesse dinamiche si inseriscono le stipi monetali, poste nelle acque con intenti propiziatori o con la funzione di raccordo con la sfera ctonia 136.

Queste forme di ‘negazione’ del riciclo, di consapevole esclusione di materiale spendibile dal ciclo produttivo e dall’economia reale, hanno sovente trovato una spiegazio-ne plausibile come atti di natura cultuale, da legare alla sacralità attribuita alle acque nel mondo antico. Alcuni interessanti contesti archeologici permettono di delineare in modo più chiaro le linee di una vera e propria ritualità e di definirne i termini cronologici. Indagini subacquee condotte nel letto del Ljubljanica, in un tratto di 1000 m presso la confluenza col Bistra, delineano il quadro di una intensa deposizione di reperti metallici, datati dall’età del Bronzo al periodo romano e uniformemente distribuiti sulla sabbia del fondale: si tratta di armi, recipienti, fibule, insieme ad una statuetta di offerente (fig. 6). La pratica di gettare oggetti nel fiume rientrava, secondo gli scavatori, in una più ampia ritualità forse da ricondurre ad un sito religioso o ad un vero e proprio santuario 137.

Due stipi votive sono state messe in luce a Parma, nell’alveo dell’omonimo torrente che attraversava la città, presso un punto di guado. Esse raccoglievano esclusi-vamente oggetti metallici: monete, laminette plumbee, bronzetti figurati di varia tipologia, votivi a forma di con-chiglie o navicelle, recipienti, oggetti di adorno personale, monete; i materiali furono deposti in un ampio periodo di tempo che va dal III-II sec. a.C. fino al II d.C. Frutto di intenti certamente votivi, il nucleo è di grande interesse per l’assoluta preminenza del metallo, la cui deposizione in relazione a un corso d’acqua, in alternativa alla moneta, viene legata alla tradizione italica che vede «particolarmen-te nel bronzo e nel rame, un comune mezzo di scambio e riserva di valore» 138. Nel gran numero di bronzetti figurati, in particolare, se non mancano alcuni soggetti dotati di uno specifico carattere religioso, vi sono pure esemplari per cui il valore economico del metallo ‘sacrificato’ sembra soverchiare quello devozionale 139.

Di grande interesse è peraltro il caso dell’offerta di laminette plumbee iscritte: si tratta di etichette di accompagno, allegate a prodotti tessili, che registrano le caratteristiche merceologiche del materiale venduto. La loro presenza nelle stipi parmensi induce ad interpre-tare come votivi anche gli ulteriori esemplari, del tutti simili, rinvenuti in diversi letti fluviali 140. Quelli gettati

135 Donderer 1991-92, c. 199, con ampia esemplificazione. Per quanto riguarda depositi in sorgenti o laghi: Facchinetti 2003, pp. 39-47.

136 Id. 2003, 2004.137 Gaspari, Krempuš 2002.138 Poggi 2013, p. 72.139 Così Catarsi 2013, p. 76.140 Forte 2013. La studiosa ricorda i casi di Altino, Feltre, Sisak, Kalsdorf;

si aggiungano anche i rinvenimenti concordiesi ricordati di seguito.

nel canale interno di Concordia, studiati in dettaglio, dimostrano che le laminette terminavano in acqua solo dopo un sistematico riutilizzo, attestato da ripetute cancellazioni e riscritture; si trattava dunque di prodotti ‘di scarto’, ormai defunzionalizzati, comunque privi di valore estetico o di alcuna connotazione sacrale 141. Per quali ragioni venivano deposti? Per valenze simboliche che ci sfuggono, per il materiale in cui erano realizzati, o per entrambe le cose 142? D’altronde l’abitudine di do-nare anche ‘rottami’ metallici agli dei è una pratica ben documentata in ambito italico 143.

In questo quadro, ancora labile per la difficoltà di datare e interpretare diversi contesti e per la variabilità che domina l’agire umano nel suo rapportarsi al trascen-dente, mi chiedo se anche la presenza di grandi sculture, intere o frammentarie, nei letti fluviali possa intendersi come frutto di un atto votivo, come sostituto monetale. Oltre al valore intrinseco del metallo, la predominanza di teste-ritratto potrebbe in questo caso connotare il getto nel fiume come un ‘sacrificio di riscatto’, e adombrare il ricordo delle vittime umane di antichi rituali, secondo una pratica diffusa nel mondo romano-italico. Analizzando il fenomeno la Calisti sottolinea peraltro come negli ex voto antropomorfi dotati di tale funzione spesso si raffiguri in dettaglio solo il volto e che alcuni si riducano alla testa soltanto, simbolo dell’intero individuo 144.

Qualunque fosse l’intenzione dell’offerta, che anche teste-ritratto di personaggi noti, per quanto invisi, potes-sero donarsi agli dei lo dimostra la presenza, fra i votivi sepolti presso l’altare di Dioniso a Cos, di un bustino bronzeo di Caligola, di dimensioni analoghe a quelli rin-venuti nel letto del Tevere 145.

G.L.

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141 Sulle laminette concordiesi, da ultimo, Annibaletto, Pettenò 2012, con ulteriore bibliografia. Gli studiosi non prendono posizione, in questo caso, sulle ragioni della presenza delle laminette in acqua, ma osservano come «il legame tra questo tipo di manufatto e i corsi d’acqua emerge anche altrove in maniera significativa» (nota 20).

142 Si tenga conto che, insieme al valore meramente economico, ai metalli vengono attribuite anche virtù magiche e protettive: Pera 1993, pp. 348-349.

143 Analizzando la frequenza di offerte metalliche nel culto demetriaco nei santuari greci d’occidente e indigeni, Ardovino sottolinea come, insieme a lingotti e oggetti finiti, la dedica possa attuarsi con materiale frammentario: è il caso dei 3 kg di frustali bronzei sepolti nel terreno, sotto una mezza anfora capovolta, nel Thesmophorion di Bitalemi (Ardovino 1999, pp. 171-172). Ad Aosta, in un contesto precoloniale fortemente romanizzato, all’interno di alcune fosse ricche di materiali in regione Consolata, si rinvenne una armilla aurea rotta, avvolta da un ulteriore filo in oro, e associata, fra l’altro, a monete e ad una laminetta iscritta: interpretata in un primo momento come oggetto da rifondere, per il suo stato frammentario (Mollo Mezzena 1982, p. 218, fig. 14), l’armilla e l’intero nucleo vengono più recentemente ritenuti materiale votivo: Frumusa 2010, p. 42. ringrazio la dott.ssa Patrizia Framarin, funzionario del Dipartimento della Soprintendenza per i Beni e le Attività Culturali della Valle d’Aosta, per le puntuali informazioni offertemi al riguardo.

144 Calisti 2010, pp. 33-40.145 Lahusen, Formigli 2001, p. 123 n. 66. Non è forse un caso che il

deposito contenesse soprattutto reperti bronzei: statuette, oggetti d’uso, monete.

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SummaryA strategy for re-use, a topography of waste. Two cases between archaeology and law.The authors deal with the issue of the recycling process in relation to materials of different nature (such as amphorae and metal scrap) and, following two different directives, they insert the practice of “re-use” into the context of economic and social dynamics. The potential of informa-tion given by the amphorae used on land reclamation ground does not end with the reconstruction of trade flows, it also affects different aspects of roman law as well. The first part of the article (M.A.G.) develops this theme and arrives at the conclusion that here existed a real recycling chain, that is, a system that assumed both the knowledge of the characteristics of each material, and an organisation for their collection and selection for different uses. In particular, a very extensive organization seems to have regulated the recycling of bronze (G.L.), which was practiced at a private level by each workshop, although under the control and management of the public authorities. In this sense, the custom of throwing away bronze portrait heads in the rivers has to be reconsidered: since it is “anti-economical”, it must preferably be explained as a ritual or votive practice.

RiassuntoLe Autrici affrontano il tema del riciclo in relazione a materiali di dif-ferente natura (contenitori anforari; rottami metallici) e, seguendo due percorsi paralleli, inseriscono la pratica del ‘riuso’ all’interno di dinamiche economiche e sociali. La potenzialità informativa delle anfore usate nella bonifica dei terreni o nell’edilizia non si esaurisce nella ricostruzione dei flussi commerciali ma tocca per diversi aspetti il diritto romano. La prima parte dell’articolo (M.A.G.) sviluppa questo assunto e giunge a prefigurare una vera filiera del riciclo, un sistema che presuppone sia la conoscenza delle qualità dei materiali, sia un’organizzazione di raccolta e selezione in funzione di scopi differenziati. Una capillare organizzazione pare in-teressare anche il riciclo dei materiali in bronzo (G.L.), che si attua sia a livello ‘privato’, nelle singole botteghe, sia sotto il controllo e la gestione dell’autorità pubblica. In queste dinamiche si propone di rivalutare la pratica di gettare nei fiumi teste-ritratto in bronzo: in quanto ‘antiecono-mica’, essa sembra preferibilmente spiegabile in termini rituali e/o votivi.