Strade e confini

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STRADE E CONFINI 1

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STRADE E CONFINI

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1. Confini

Fra i luoghi più stimolanti per chi si dedica allo

studio delle tradizioni popolari delle culture alpine, la

Valle di Susa occupa sicuramente un posto speciale. E non

solo per l’eccezionalità e la quantità delle

testimonianze vive che punteggiano ancora oggi il tessuto

sociale e il tempo calendariale delle comunità valsusine,

ma anche, a mio avviso, per la specificità del

territorio, quella specificità geografica che ne ha

condizionato la storia e il vissuto antropologico. La

lunga valle che si dipana lungo il corso della Dora tra

borghi, castelli e monasteri conducendo ai passi del

Monginevro e del Moncenisio, deve alla sua conformazione

naturale il privilegio di aver mantenuto un’importanza

millenaria anzitutto come strada, come ininterrotto

percorso verso l’altrove lontano: Roma o Santiago di

Compostella, Lione o Milano, i luoghi del Graal o la

Terrasanta.

La Valle di Susa come “porta” dell’Italia fa ormai

parte di quelle idées reçues che ogni storiografo di

invasori, pellegrini e viaggiatori, dalla discesa di

Annibale in poi, non ha mancato di addurre. Una porta

richiede tuttavia una soglia da varcare, un limes da

oltrepassare. Ma sono mai state, le Alpi, un vero limite?

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Certo, i numerosi viaggiatori nordeuropei che nei secoli

scorsi hanno valicato il Moncenisio, magari lungo il

corso del Grand Tour tanto di moda nel Sei-Settecento,

imbevuti di cultura classica e di tanto entusiasmo per

il Bel Paese prima ancora d’averlo visto, sentivano di

aver posato il piede sul suolo italico non appena

realizzavano di trovarsi al di qua dello spartiacque.

Inalavano profondamente l’aria che spirava dal

fondovalle, immaginandola la stessa respirata da Cesare e

Virgilio; poi, novelli Carli Magni, calando dall’alto dei

monti provavano a spingere lo sguardo oltre le “chiuse”

del monte Pirchiriano sovrastato dalla Sacra di San

Michele, verso la pianura “lombarda”, la vallis aurea di

antica memoria, terra di delizie, di infinita dolcezza e,

perché no, ancora di conquista. L’ultimo e più famoso di

costoro si chiamava Bonaparte e si era agli esordi

dell’Ottocento.

Queste sensazioni, caratteristiche di un certo

spirito europeo colto o semi-colto, di estrazione

fondamentalmente urbana, si conciliavano con il nuovo

modo di vivere il viaggio in epoca moderna. Non più

pellegrinaggi penitenziali, non più perigliosi trasbordi

con carovane di muli o con altri mezzi di fortuna

attraverso luoghi selvaggi e semisconosciuti per il fine

esclusivo di compiere qualche buon affare, non più belve

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in agguato - lupi ed orsi dietro ogni masso o cespuglio!

- ma, allo stato nascente, ecco affacciarsi nel costume

europeo il turismo, ovvero l’idea di una nuova ragione,

pura e non pratica, per viaggiare.

Il viaggiatore-turista colto, di allora come di oggi,

cerca esperienze formative inseguendo il mito del viaggio

di conoscenza e di perfezionamento, e usa la propria

erudizione come il bordone del pellegrino, appoggiandosi

ad essa per interpretare la realtà che gli viene

incontro. Il turista viaggia attraverso un universo per

lui del tutto nuovo di segni, che gli risultano sovente

indecifrabili, e si appiglia agli strumenti culturali di

cui si ritrova quanto più o quanto meno dotato per

suggerirsi rappresentazioni mentali e spiegazioni. Spesso

le idee sono già precostituite ma il turista è lieto,

almeno inconsciamente, di vederle confermate. Egli

procede sospinto da grandi aspettative già maturate alla

partenza e attribuisce enorme valore ai simboli, ovvero

ai luoghi simbolici e agli atti simbolici: palazzi e

monumenti assolutamente da vedere, località amene e piatti

regionali imperdibili, gesti rituali da compiere.

Uno di questi, il primo importante atto di ingresso

nel paese da visitare, è il passaggio del confine, che

acquista tanto maggior rilievo, e suggestione, quanto più

esso è marcato da evidenti segni materiali e da eventi

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caratterizzanti l’ufficialità del momento: pietre

miliari, terre-di-nessuno (perfetti non luoghi), barriere

che si alzano, soldati che salutano militarmente,

bandiere che garriscono, pratiche burocratiche, ostacoli

imprevisti, tempi di attesa, opposizioni e accomodamenti.

L’attraversamento di una frontiera, così efficacemente

denotato, si connota anche come un rito di passaggio

corredato di tutti gli elementi della prova iniziatica da

superare. È dunque l’attraversamento della linea di

confine che fa sentire chi la oltrepassa come di essere

arrivato “in un altro mondo”. Di là, il sole, la luce,

l’aria, le piante, le rocce, gli uomini, tutto è diverso,

anche se si sa in fondo che sono sempre lo stesso sole,

aria, piante e gente, perché il confine spesso altro non

è che una convenzione, un tratto d’inchiostro su una

carta che può essere cancellato e spostato un po’ più in

qua, un po’ più in là.

Oggi, nell’Europa che ha pressoché annullato le

frontiere, la sensazione dell’essere catapultati altrove

forse la percepiamo solo dopo una lunga trasvolata verso

climi e terre più lontane ed esotiche, ma il viaggiatore

dei secoli scorsi, almeno fino alla prima metà del

Novecento, viaggiava lentamente, e di continuo incappava

in una gran quantità di confini, dazi, dogane, ponti a

pedaggio, eccetera; pagava balzelli, rischiava parte del

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suo bagaglio e subiva le angherie dei doganieri. Si pensi

per esempio all’Italia prima dell’unificazione,

frammentata in stati e staterelli.

Un passo di montagna, invece, di per sé non ha mai

rappresentato una reale barriera, essendo, semmai, una

via di transito e quindi di comunicazione. Le difficoltà

del valico alpino, prima che si costruissero le comode

strade napoleoniche, erano tali solo per gli inesperti di

pianura che dovevano affidarsi alle guide del posto per

essere condotti sani e salvi dall’altra parte. Peraltro,

vi era consapevolezza di dover affrontare territori

variegati, a tratti anche aspri, e tale ipotesi entrava

normalmente in preventivo a molti viaggi, come il

rischio del brigantaggio o la rottura delle ruote dei

carri. Ogni europeo, già da bambino sapeva bene come

viaggiavano gli eroi delle fiabe. Per mezzo di locuzioni

del tipo “cammina cammina…”, “per boschi e foreste…”,

“traversati mari e monti…”, la fiaba popolare fin

dall’infanzia rendeva normale l’idea del viaggio come di

un non sempre facile, anzi, sovente piuttosto

accidentato, tragitto del corpo e dello spirito. Oltre

che sulle Alpi, si attraversavano montagne dalla Francia

alla Spagna, dalla Polonia all’Ungheria, da Firenze a

Bologna, dal Piemonte alla Liguria. I viaggiatori

seguivano percorsi millenari, come i passi di

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Roncisvalle, del Sempione, del Monginevro, del

Moncenisio; non sempre la linea di confine è passata

sulla cresta di quei monti e non sempre le differenze tra

i popoli hanno coinciso con i sistemi geopolitici.

La cartografia linguistica, nata ai primi del

Novecento su impulso di Jean Gilliéron, ha potuto

mostrare con tutta evidenza come le lingue non conoscano

i limiti territoriali che i regimi politici impongono. Le

parole valicano i fiumi, i deserti e le montagne, altre

volte si fermano inspiegabilmente sul poggio a fianco del

nostro villaggio e quel dato oggetto a un certo punto

viene chiamato con un altro nome. Un viaggiatore del

Seicento notava come un confine linguistico passasse

addirittura all’interno della città di Trento, e non si

trattava di sole differenze idiomatiche, ma anche di usi

e costumi. Infatti, nemmeno la sola lingua può dirsi una

sicura spia della diversità. Recenti ricerche

scientifiche sulle cosiddette barriere genetiche in Europa,

ossia quelle particolari varianti dei confini che non

sono disegnate sulle carte ma per l’appunto nei nostri

geni, hanno dimostrato che su 33 barriere genetiche

individuate, queste coincidono in 31 casi con variazioni

linguistiche o dialettali, ma solo in 22 casi anche con

barriere fisiche (mari, fiumi, catene montuose).

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Le differenze tra i popoli perciò si misurano anche

in atti culturali, confrontando i sistemi di vita, di

credenze magico-religiose, di miti, di tradizioni, e

spesso succede che attraverso usanze apparentemente

eterogenee trapeli un lascito comune riconoscibile

risalendo poche generazioni. Un pastore delle Alpi è

tale, con minime differenze rispetto a un altro,

indipendentemente dal versante sul quale si trova la sua

grangia. Non sempre le varianti del suo dialetto si

accompagnano ad un radicalmente diverso modo di vestire

(l’abito folklorico è un abito mentale, veicola identità

culturale), a inconsuete particolarità culinarie, ad

altri specifici rituali della vita quotidiana. La cultura

materiale, condizionata dall’ambiente e dal clima, è

quasi sempre la stessa e di norma quel montanaro svolge

altresì funzione di cerniera, è veicolo della

divulgazione orale di lingue, storie, ballate,

costumanze, credenze.

Un viaggiatore scozzese sul finire del Settecento,

durante il tragitto da Novalesa a Lansleburg, si

sorprende nel constatare come la sua guida, un giovane

marron di Novalesa, analfabeta, parlasse ben quattro

lingue: il dialetto piemontese, il patois della Savoia,

l’italiano e il francese. Non era un caso raro in

montagna, e non lo sarebbe nemmeno in tempi a noi più

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vicini. Penso a individui come il compianto Robert

Tagliero di Torre Pellice, meglio noto come Robert “Le

Diable”, classe 1909, ben conosciuto da ricercatori ed

etnomusicologi, formidabile portatore di un enorme

patrimonio orale di canti francesi, italiani, piemontesi

e nel patois provenzale delle sue valli. Robert, pur

essendo sicuramente dotato di una personalità

eccezionale, non poteva non affondare le proprie radici

in un ricco humus popolare, avendo attinto la sua

conoscenza da un vasto repertorio familiare (il padre e

la madre, da lui definite vere “enciclopedie di

canzoni”), costantemente accresciuto da nuovi apporti (i

fratelli, lo zio che lavorava a Gap…), in una valle dove

le comunità valdesi hanno per secoli attribuito estrema

importanza agli strumenti della parola, del canto e della

perpetuazione del ricordo. A sua volta Robert “Le Diable”

ha trasmesso i dati della sua inesauribile memoria ad un

erede, oltre che ai numerosi ricercatori che l’hanno

conosciuto ed apprezzato per decenni, ed è uno degli

ultimi epigoni di un’epoca in cui un ampio sapere,

proprio una “enciclopedia”, come amava dire Robert, si

conservava e si diffondeva per canali non scritti ed

attraverso le vie tortuose disegnate dai sentieri di

montagna. Appunto, le vie: si è mai riflettuto abbastanza

sulla valenza antropologica delle strade?

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2. Le strade

Gli abitati vengono collegati dalle strade o, invece,

sorgono lungo le strade? Nel caso della Valle di Susa

(come per molte altre valli alpine) pare più evidente la

seconda tesi. Una valle è una strada naturale lungo la

quale si edificano insediamenti umani che restano in

contatto costante tra loro. Nell’incavo della valle

scorre l’acqua per le necessità vitali dell’uomo e del

suo bestiame, mentre la strada viene percorsa per il

lavoro quotidiano nelle campagne, per le transumanze

stagionali, ma anche per raggiungere fiere e mercati,

cioè per lo scambio materiale di beni ed oggetti oltre

che per lo scambio di informazione. Lungo una via di gran

traffico sorgono, poi, stazioni di posta, locande,

botteghe di fabbri: la popolazione locale mette a

disposizione tutti i servizi di cui possono necessitare i

viandanti che transitano da/verso la frontiera. È dunque

la geografia del luogo a determinare il suo vissuto. Non

si costruisce la prosperità di una comunità vivendo

isolati: il sito abitato può collocarsi su una posizione

elevata e meglio difendibile, può essere anche

fortificato, ma allo stesso tempo deve essere facilmente

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raggiungibile e deve potersi aprire al mondo. E in Valle

di Susa il mondo passava.

Una storiella inglese raccontava di un villico

ignorante che, interrogato circa il nome di un fiume che

scorreva attraverso il suo villaggio, aveva risposto di

non aver mai sentito il bisogno di chiamarlo per nome

perché, tanto, il fiume sarebbe passato lo stesso. Si è

osservato che qualcosa di simile poteva avvenire anche

per le grandi strade di collegamento che intersecavano i

paesi di campagna: secondo un principio che potremmo

definire relativistico, nella duplice accezione sia

culturale che spazio-temporale, un mondo veloce di

veicoli, cavalli e passeggeri poteva transitare per la

strada senza all’apparenza lasciare tracce nella vita

lenta e consuetudinaria che si conduceva ai suoi bordi.

In realtà, un certo scambio tra i due mondi doveva per

forza di cose avvenire, solo che il primo, poco

interessato all’osservazione di un contesto giudicato

poco attraente rispetto a quanto lo attendeva alla sua

meta, si contentava di soddisfare con la maggiore

rapidità le necessità dettate dal viaggio (il cambio dei

cavalli o la ferratura, un pasto leggero, un

pernottamento), il secondo, invece, assimilava lentamente

grumi di informazioni la cui metabolizzazione impiegava

anni, se non decenni, prima che ne fosse ravvisabile una

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sedimentazione nel corpo sociale. Già Levi-Strauss ci ha

insegnato che quando due culture vengono messe a

confronto possono dare luogo ad equivoci in seguito ai

quali una delle due, la più “primitiva”, può apparire

priva di storia e sempre uguale a se stessa. In realtà

esse hanno semplicemente velocità diverse e, aggiungerei,

il più delle volte anche diverso indirizzo.

Come si è detto, lungo le grandi vie di transito si

organizzava un complesso di attività che andava

intensificandosi laddove si era nei pressi di un confine

territoriale, di un passo. Gli ultimi avamposti di

frontiera somigliano sempre ad un porto di mare.

Edward Gibbon riferisce che nel 1764 si contavano

centoventi portatori a Lansleburg e centocinquanta a

Novalesa, e che questo era il mestiere preferito dai

contadini. I portantini affrontavano le “scale” del

Moncenisio con il passo rapido dei montanari abituati

alle transumanze d’alta quota, e pare che questo fosse il

mezzo privilegiato da tutti. Non mancavano ovviamente le

bestie da soma incaricate del trasporto del bagaglio e

delle carrozze che venivano smontate prima di affrontare

il valico. Montesquieu dice che occorrevano tre muli per

trasportare una carrozza: uno portava le stanghe, uno il

corpo, un altro le ruote. Novalesa possedeva ampi

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stallaggi per cavalli e muli, oltre ad arrivare a contare

ben settantotto locande per i viandanti ed un ospizio-

ospedale sul colle con trecento posti letto. Dopo la

costruzione della strada napoleonica, sul tracciato per

Giaglione che eliminava le “scale”, andò in declino il

mestiere di portantino ma non certo quello di mulattiere

che perdurò almeno fino alla costruzione della prima

ferrovia nel 1868. Si calcola che nel 1810 transitassero

sulla strada 17.000 veicoli trainati da ben 37.000

quadrupedi. Per far inerpicare una carrozza dalla salita

di Lansleburg al colle occorreva apprestare un tiro di

almeno quattordici cavalli. La Guida del Viaggiatore in Italia,

edita per i tipi di Artaria nel 1845, ci informa che il

percorso da Torino a Chambery conta in quel periodo una

trentina di stazioni di posta e che la strada del

Moncenisio “quantunque tortuosa, è comoda ed accessibile

a qualsiasi sorta di vetture”. Rari nella Guida sono i

cenni sugli abitanti. Di Lansleburg, scesi nella Val

d’Arc, si apprende che essi “traggono la principal loro

sussistenza dal trasporto delle mercanzie e dei

viaggiatori sul monte Cenisio”; di Saint Jean de

Maurienne che ne annovera circa tremila, “i quali in

generale sono malfatti e gozzuti, imperfezioni che

regnano in quasi tutta questa vallata”, il che fa pensare

ad una popolazione fortemente stanziale, ad alto tasso di

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endogamia e dall’alimentazione povera e poco variata. Il

taglio della Guida, seppur sintetico, è tuttavia non

dissimile dalle moderne guide turistiche in cui si

indicano gli edifici notevoli, i paesaggi pittoreschi, le

sottili maniere per rendere più piacevole il viaggio. Che

ci si trovi su un percorso ad alta frequentazione è

sempre abbastanza esplicito.

Dunque i contatti di questi montanari con il mondo

esterno sono stati per secoli costanti e assidui,

cionondimeno in Valle di Susa si osserva ancora oggi una

rara tenacia nella conservazione di antiche tradizioni

popolari: penso alla danza delle spade di Giaglione e

Venaus (a un passo da Novalesa, senza trascurare San

Giorio sulla strada della sponda destra non distante da

Bussoleno) o all’arcaica maschera dell’orso di Mompantero

nei pressi di Susa.

Vengono alla mente altre valli e altri passi di

montagna in Piemonte legati da circostanze analoghe.

Ancora oggi a Vernante, centro della Val Vermenagna sorto

lungo la strada del Colle di Tenda che congiunge il

cuneese con il territorio di Nizza, si perpetua nel mese

di luglio la celebrazione della baìa dei carrettieri,

l’antico mestiere dei vernantini, che un tempo fornivano

la loro fondamentale prestazione su una delle più

importanti vie del sale. Gli scarsi muli rimasti vengono

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bardati a festa e fatti sfilare per il paese per la

benedizione di rito, seguono poi le musiche e le danze

tradizionali di area occitana: principalmente curente e

balèt che la popolazione esegue da sempre con

partecipazione e rinnovato entusiasmo. È significativo,

inoltre, come in Val Vermenagna, segnatamente nei centri

di Robilante, Vernante e Limone, si collochi la più alta

percentuale di musicisti popolari di tutta la regione con

almeno un’ottantina tra suonatori di clarino, fisarmonica

cromatica e semitùn, gli strumenti entrati in uso nella

tradizione locale di musica da ballo.

Anche il passaggio verso il mare, il viaggio al sud

dei piemontesi e dei lombardi, che avvenisse sulle alpi

marittime o sull’appennino ligure, ha rappresentato in

passato una sorta di confine da superare, e talvolta lo è

stato pure politicamente. Lungo un itinerario

determinante per i collegamenti tra Lombardia e Genova si

trova il territorio di Ovada, là dove finisce la pianura

padana e hanno inizio i primi contrafforti appenninici

per i quali si accede alla Liguria superando il passo

del Turchino. Già confine amministrativo romano e

bizantino, la zona si è sempre sentita un avamposto di

frontiera ed ha sviluppato una sua vocazione naturale al

trasporto e al commercio. A metà Ottocento il Casalis

riferisce che per le relazioni commerciali tra Ovada e

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Genova sono impiegati più di duecento muli oltre a

numerosi carri per i trasporti verso la Lombardia.

Nelle immediate vicinanze di Ovada sorge il borgo di

Rocca Grimalda, posto strategicamente a dominare un

restringimento della valle dell’Orba lungo la quale passa

obbligatoriamente la strada per la Liguria, dal quale

diverse famiglie hanno fornito esperti mulattieri fino a

tempi non lontani, principalmente per il trasporto

dell’ottimo vino Dolcetto prodotto in zona. Come in altri

luoghi, anche a Rocca Grimalda, ancora alla fine

dell’Ottocento, i carrettieri celebravano la propria

festa conducendo alla benedizione nel giorno di S.

Antonio abate i muli abbelliti con i migliori finimenti e

ornati di collane d’arance. Finita l’epoca dei carri e

dei muli, resta oggi l’interessante sfilata della Lachera,

il carnevale di Rocca Grimalda, con i Lachè a far da

scorta armati di spade e la maschera dei Trapulin, quattro

uomini muniti di una lungo staffile da carrettiere, il

cui compito è di sopravanzare e chiudere il “corteo

nuziale”, aprendo e delimitando lo spazio scenico con

schiocchi di frustate sonore come petardi. Qui, come in

Val Vermenagna e in Valle di Susa, troviamo ancora quella

stessa tenacia di un popolo, secolarmente aperto a tutti

i traffici e a tutte le migrazioni, nell’aggrapparsi a

cerimonie e valori che sono retaggio di un’antica

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tradizione, risultata da una lunga opera di

stratificazione culturale, le cui origini lontane e

complesse difficilmente potranno essere mai ricostruite

storicamente con esattezza.

E qui sta il punto. Vediamo comunità aperte che

conservano più di altre. Pare un’incongruenza. Ma

torniamo al concetto di doppia velocità già espresso: non

solo in vallate isolate di montagna, ma perfino ai bordi

di strade a grande percorrenza, la vita sembra svolgersi

anno dopo anno senza sussulti in virtù del fatto che la

popolazione ha propri parametri di riferimento che

divergono dallo spazio-tempo lineare di chi viaggia. Il

viaggiatore ragiona pressappoco in questi termini: arrivo

da X avendo impiegato N giorni, proseguo per Y prevedendo

di impiegare ulteriori N1 giorni; in totale dunque devo

metterci un tempo T=N+N1 in funzione del tragitto XY. Il

suo tempo è una linea orizzontale come il suo percorso,

una sequenza in progressione di attimi e di passi (o di

altre unità di misura: oggi valutiamo i nostri

spostamenti in chilometri orari). Il tempo della tradizione

popolare è invece un tempo circolare, determinato dai

cicli naturali stagionali, lunari, solari, specifico

della cultura stanziale contadina. Per le popolazioni di

montagna, alle stagioni erano inoltre legati i tempi

della transumanza in alpeggio, dell’accoppiamento del

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bestiame - affinchè nessuna mucca si trovasse a partorire

mentre si era ad un pascolo d’alta quota - e persino di

quella emigrazione periodica (oggi diremmo “pendolare”)

verso la Francia o verso le pianure del Piemonte per la

prestazione di lavori di manovalanza temporanea. È

evidente che l’evoluzione di una società a tempo

circolare debba essere inevitabilmente più lenta di una a

tempo lineare. Cionondimeno il prestito culturale avviene

grazie proprio a quell’incessante scambio con l’esterno.

È noto che le danze delle spade e le mascherate con

l’orso non sono fenomeni isolati esistenti solo in

Italia in Valle di Susa, ma si ha conoscenza o memoria di

cerimonie analoghe in tutta Europa. La maschera

carnevalesca dell’orso ha rivestito grande importanza in

passato per la cultura contadina, sia con l’aspetto di

indicatore calendariale, sia con l’assunzione del ruolo

di simbolo rappresentativo della comunità. Assieme ai

componenti delle badìe, o abbazie dei folli, un uomo

mascherato con pelli o frasche usciva selvaggiamente ad

annunciare il carnevale e il prossimo avvento della buona

stagione. Con funzione propiziatoria quasi analoga, era

talvolta la medesima maschera ad incaricarsi di dare il

benvenuto alle autorità di passaggio alle soglie dei

villaggi. È ricordato che nel 1550, a Saint Jean de

Maurienne, ben cento uomini travestiti da orso accolgono

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l’ingresso del Re di Francia Enrico II e, imitando le

goffe movenze dell’animale, rivolgono questo allegro e

singolare saluto all’ospite per suscitare l’ilarità sua

e del suo seguito. Non lontano da qui, sull’Isére nel

Delfinato, durante il ribollente carnevale di Romans del

1580 in cui avviene di tutto in un clima semi-

insurrezionale, dalle danze delle spade ai più svariati

cortei mascherati cui partecipano in contrapposizione

ceti alti e ceti bassi, un certo Paumier, postosi a capo

della protesta popolare, indossa emblematicamente il

costume da orso. L’evento ha un epilogo cruento, tuttavia

sempre in qualche modo compreso nel solco della

tradizione folklorica, concludendonsi con una sorta di

caccia e uccisione del ribelle.

Ancora oggi in Valle di Susa, nella frazione Urbiano

di Mompantero, nel giorno di santa Brigida (2 febbraio)

viene “catturato” l’orso da alcuni “cacciatori” che lo

conducono per il paese a suon di legnate e bevute di vino

per addomesticare i suoi istinti belluini. L’orso, tenuto

a stento con corde e catene, si dimena, lancia ruggiti

feroci attraverso un imbuto che ne amplifica il suono, si

slancia contro la folla per aggredirla. Alla fine

riuscirà ad ammansirlo solo una fanciulla del paese che

la sera lo farà ballare.

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In Savoia e Delfinato è diffuso il culto di San

Biagio (la cui ricorrenza cade significativamente il 3

febbraio: lo stesso periodo dell’uscita dell’orso),

martire cui furono straziate le carni con pettini di

ferro, ragione per la quale è divenuto patrono dei

cardatori di lana. Nell’occasione della sua festa si

svolgono a Venaus le evoluzioni degli spadonari, i quali

affermano esservi alcune figure della loro danza che

richiamano direttamente il martirio del santo. Un

viaggiatore francese dei primi dell’Ottocento che ha modo

di assistere alla danza delle spade a Salbertrand,

sostiene che gli spadonari sono un relitto di forme più

antiche di teatro sacro e che in particolare essi

avrebbero a lungo composto la scorta armata del drappello

che si incaricava di rappresentare la decapitazione di

San Giovanni Battista.

Come si vede, culto dei santi e feste carnevalesche

sono sovente intrecciati nelle tradizioni popolari e non

è sempre facile distinguere il motore principale di

cerimonie così stratificate. Quel che è certo, è che non

sembra esservi un “al di qua” o un “al di là” dell’arco

alpino dal punto di vista della trasmissione culturale, e

che i popoli di montagna hanno sempre condiviso

largamente costumi e tradizioni.

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3. Confini mobili

Storicamente in Valle di Susa sono stati tracciati

molti confini. Al tempo di Augusto era situata una

stazione doganale presso Avigliana (ad fines qudragesima

galliarum) che segnava il confine tra l’Italia e la Gallia

e dove le merci in transito erano soggette ad un dazio

pari a un quarantesimo del loro valore. Qui, per i

Romani, aveva inizio la strada per le Gallie. Una

conferma tarda ci viene dall’Itinerario di Gerusalemme del

terzo secolo dopo Cristo che fornisce informazioni ai

primi pellegrini sulle distanze da percorrere per chi

scende da Briançon: a Cesana, 10 milia; a Oulx, 9 milia;

a Susa, per Salbertrand, Exilles, Chiomonte, 16 milia; ad

Avigliana, 12 milia; “inde incipit Italia”. Poi comincia

l’Italia.

Un importante confine naturale era costituito dalla

strettoia prodotta dal Monte Pirchiriano e dal Monte

Caprasio all’altezza dell’attuale borgo di Chiusa, il cui

nome, risalente al termine militare claustra, sta a

indicare per l’appunto una chiusura, un luogo stretto tra

un fiume e una montagna dove è difficoltoso il passaggio

e sul quale è più vantaggioso esercitare un presidio

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difensivo. In questa zona i Longobardi avevano posto le

loro fortificazioni a difesa del regno minacciato dai

Franchi. Nell’estate del 773 Carlo Magno valica il

Moncenisio e si trova di fronte ad un poderoso

sbarramento. Narra la Cronaca di Novalesa che un giullare

traditore offrì al re Carlo di condurre le truppe

attraverso quello che ancor oggi è chiamato “sentiero dei

Franchi” per aggirare le difese Longobarde e prenderle di

sorpresa. L’impresa segnò la fine del regno Longobardo e

anche il declino strategico di quel confine. Diviene

molto più importante, dopo Carlo Magno, il controllo del

Moncenisio.

Nel secolo XI prendono forma i possedimenti di alcune

nuove potenti casate feudali, gli Arduinici a Torino, i

Savoia sul versante nord occidentale delle Alpi, i

Delfini più a sud, e nuovi confini si instaurano. Tra

Gravere e Chiomonte passerà per lungo tempo la linea di

demarcazione tra Savoia e Delfinato. Quest’ultimo, sul

versante italiano, comprende tutta l’alta Valle di Susa e

la Val Chisone: il Colle di Sestriéres, Cesana,

Bardonecchia, Oulx, Exilles. Più tardi, l’annessione del

Piemonte alla Savoia invece annullerà per qualche tempo

tutti i confini tra Chambery e Torino.

Poi verranno i lunghi anni delle guerre di

successione e dell’interminabile scontro tra stato

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sabaudo e Francia. Il Piemonte è terra dove passano tutti

gli eserciti e dove le città cambiano padrone

rapidamente. I confini si spostano di conseguenza con la

medesima celerità. Oggi un territorio è piemontese,

domani non più. Il generale Catinat lascerà una triste

memoria di scorrerie e devastazioni: i castelli di San

Giorio e di Avigliana saranno incendiati e semi-distrutti

dai suoi guastatori. Le valli alpine si rivelano quanto

mai di vitale importanza strategica e vi sorgono

imponenti opere di difesa come i forti di Fenestrelle e

di Exilles. Per tale ragione, nel 1747, dopo avere

superato il Monginevro, l’esercito francese tenterà, e

fallirà, una manovra di penetrazione sul crinale del

colle dell’Assietta, tra le valli del Chisone e della

Dora. All’epoca della rivoluzione francese, nel 1794, i

Francesi strappano il valico del Moncenisio ai Piemontesi

che lo riconquistano nel 1800 con l’aiuto austriaco. Sarà

poi nuovamente ripreso da Napoleone Bonaparte, e il

Piemonte annesso alla Francia. Napoleone sa qual’è la

rilevanza strategica del passaggio sul Moncenisio e lo

renderà più agevole costruendo la strada carrozzabile, il

cui tracciato è quello sostanzialmente ancora in uso

oggi.

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Napoleone conosceva bene l’importanza di un confine ma

ancor di più quella di una strada, e non solo a fini

militari.

Si inferisce dalle vicende storiche che la vita

quotidiana delle popolazioni poteva essere in certi

periodi quanto mai precaria e difficile, esposta com’era

ad ogni tipo di violenze ed abusi. Tuttavia, dobbiamo

pensare che i devastanti passaggi degli eserciti e i

repentini rivolgimenti politici, seppure potenziali

portatori nel medio termine di profondi mutamenti socio-

economici e culturali, lasciavano localmente spazio a

periodi di relativa tranquillità nel corso dei quali la

vita poteva scorrere pacificamente secondo abitudini

consolidate. Ho potuto personalmente verificare

attraverso uno studio sull’andamento dei matrimoni e

delle nascite di una comunità piemontese del Settecento,

che neppure in periodi di intensa attività bellica, come

ad esempio durante la campagna iniziata nel 1704 e

culminata con l’assedio di Torino da parte dei Francesi

del 1706, si può riscontrare una qualche significativa

flessione numerica nei registri parrocchiali da me

consultati, almeno per una popolazione che si fosse

trovata in quel periodo marginalmente coinvolta dagli

eventi.

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Ciò può farci teorizzare una sorta di principio di priorità

locale secondo il quale le condizioni date dal contesto

particolare, costituite da un impasto formato da elementi

della tradizione e circostanze geo-socio-ambientali siano

risultate prevalenti in più occasioni sui cambiamenti

politici generali. È la micro-storia che prende il

sopravvento sulla Storia. Osservava già Montesquieu come

i lazzari di Napoli, fossero ancora come i liberti

dell’antica Roma la “plebe più plebe delle altre”,

nonostante in quel periodo il dominio sulla città fosse

passato dal regno di Spagna all’Imperatore d’Austria. La

gente del popolo, impegnata nella dura lotta quotidiana

per la sopravvivenza, sa che la politica fa e disfa le

regole emanando nuove leggi, inventando balzelli e

stabilendo frontiere, ma conosce altrettanto la caducità

dei regimi, delle leggi, dei balzelli e degli

“inviolabili sacri confini”.

Le strade, come i valori forti e reali, tendono a

restare. Esse, seguendo il loro corso naturale, penetrano

i confini, li oltrepassano, li ignorano. I confini sono

mobili, sovente effimeri, le strade durano nel tempo. I

percorsi millenari, i sentieri del contrabbando del sale

e delle transumanze ai pascoli d’altura non conoscono

frontiere e sono il carsico sistema venoso di una

comunicazione culturale “altra”. Questa non si può

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interrompere se non con la forza ottusa di una brutale

imposizione dall’alto.

Gli etnologi ben conoscono i danni inflitti alle

popolazioni di pastori nomadi dalle arbitrarie

delimitazioni politiche post-coloniali di certi stati

africani.

Solo il tema retorico di fine Ottocento della

sacralità del suolo patrio poteva far scrivere alla

novellista torinese Maria Savi Lopez che “i petti dei

nostri soldati sono un baluardo più forte ancora che

tutte le rupi accumulate sui colossi alpini... e quando

nei secoli che verranno, ogni memoria delle fate, dei

folletti o delle processioni dei morti sarà forse perduta

sulle nostre montagne, l’Italia tutta ricorderebbe ancora

la gloria dei soldati delle Alpi, divenuti gli eroi

leggendari di epici racconti ed i geni tutelari della

patria, fra le nevi eterne e lo splendore degli immensi

ghiacciai”. Non più lo spartiacque della catena alpina ma

“i petti dei nostri soldati” erano divenuti, in questa

visione, la nuova linea di confine, anch’essa nondimeno

destinata a spezzarsi, come le altre, insieme alla

retorica che l’accompagnava, mentre la sensibilità

odierna ci fa riflettere sul fatto che, forse, è valsa la

pena continuare a prodigarsi perché ancora qualche

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vecchia fiaba di fate e di folletti perdurasse nella

memoria di qualcuno.

08/2000

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BIBLIOGRAFIA

CAVALLI-SFORZA L.L., 1996, Geni, popoli e lingue, Adelphi,

Milano

LEVI-STRAUSS C., 1968, Razza e storia, Einaudi, Torino

MONTESQUIEU, 1971, Viaggio in Italia, Laterza, Bari

PEYER H.C., 1991,Viaggiare nel Medioevo. Dall’ospitalità alla locanda,

Laterza, Bari

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