Settembre 1943, Cefalonia: nel baule della storia. La memoria dell'eccidio

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Collana Extravagantes 30

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Collana Extravagantes30

Titolo dell’operaSettembre 1943. Cefalonia, nel baule della storia: la memoria dell’eccidio

AutoreVincenzo Grienti e Laura Malandrino

Progetto grafico copertinaMatteo Liberti per nuanda & nuanda

Editing & impaginazioneAndrea Bajocco

© 2013 GB EditoriA, Romawww.gbeditoria.itProprietà letteraria riservata

Finito di stampare nel mese di settembre 2013presso Digital Book, Città di Castello

ISBN: 978-88-98158-39-3

Vincenzo Grienti e Laura Malandrino

SETTEMBRE 1943CEFALONIA

nel baule della storia: la memoria dell’eccidio

GBE / Ginevra Bentivoglio EditoriA

IndIce

Prefazione p. 11

Introduzione p. 15

PARTE I - Cefalonia, 8-25 settembre: cronaca dal fronte p. 21

Parte II - Testimonianze p. 77

Conclusioni p. 113

Ringraziamenti p. 115

Appendice p. 121

Bibliografia & Sitografia p. 145

Ai nati nel 2013

“I bambini e gli anziani costruiscono il futuro dei popoli; i bambini perché porteranno avanti la storia,

gli anziani perché trasmettono l’esperienza e la saggezza della loro vita”

(Documento di Aparecida, n. 447)

Papa FrancescoRio de Janeiro, 26 luglio 2013

PrefazIone

L’estate del 2013 sarà ricordata per molteplici casi dicronaca: la crisi economica, una sempre più rissosapolitica italiana, la guerra civile in Siria e in Egitto,

gli sbarchi dei migranti in Sicilia e il caldo. Settant’anni fa,questo specchio di mare che bagna la costa sud-orientaledell’isola fu teatro di una delle più importanti operazionimilitari compiute in Europa dagli Alleati.

Era il 10 luglio 1943 quando gli americani della 45a divi-sione di Fanteria della 7a armata comandata dal generale Ge-orge Patton sbarcarono intorno alle ore 3:45 su un fronte di17 chilometri tra Punta Zafaglione e Punta Braccetto mentrela 1a e la 3a divisione occupavano il tratto di spiaggia com-preso tra Gela e Licata. In contemporanea l’8a armata bri-tannica guidata dal generale Bernard Law Montgomery siattestò sulla fascia costiera tra Siracusa, Pachino e Portopalodi Capo Passero. Lo sbarco degli americani è ancora vivo neiricordi di molte donne siciliane, all’epoca rimaste sole per-ché i loro mariti erano partiti per la guerra.

Oggi percorrendo le dissestate strade provinciali della Si-cilia orientale capita spesso di imbattersi in casematte e pic-coli bunker del diametro circolare di circa 20 metri quadrati.Sono la testimonianza di cemento della debole linea di difesacostiera dei soldati dell’Asse che si trovarono a fronteggiaregli anglo-americani. Questi pillbox, così come li chiamavanoinglesi e statunitensi, sono ben visibili lungo la strade ex-traurbane che collegano Modica a Pozzallo, Sampieri a Scicli,Donnalucata a Ragusa e a Vittoria. Si tratta di monumenti

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silenziosi che, nascosti tra gli alberi di carrubo e di ulivo, ri-cordano che la Seconda guerra mondiale e la fine del con-flitto fu decisa anche qui.

Le casematte sono cimeli a cielo aperto che riportano allamemoria i giorni in cui tantissime famiglie siciliane con com-mozione, tristezza e preoccupazione, da questo lembo diterra videro partire tanti giovani per la guerra voluta daMussolini. Molti di loro non tornarono più. Basta andare inuna di queste famiglie e chiedere il permesso di guardaregli scaffali delle librerie in salotto o di aprire i cassetti e i bauligelosamente conservati per sottrarli al consumo del tempoper entrare nelle storie personali di uomini e donne chequella guerra l’hanno vissuta in pieno. È così che si conservala memoria nella Sicilia, terra di approdo e territorio storicodi conquista per numerosi eserciti e differenti occupanti.Qui gli anziani come mia nonna Agnese di 93 anni ricordanoancora quel che accadde dopo il proclama di Badoglio, i sen-timenti verso quel piccolo Re e non solo di statura. Quantosbandamento, quante incertezze per il futuro, quanta gioiaper l’arrivo degli americani e degli inglesi, quanta trepida-zione durante l’attesa per il ritorno dei propri cari. La pre-occupazione di Nonna Agnese per Giorgio Agosta, reclutatocome carabiniere istruttore ai tiri, si avverte ancora nei suoiracconti a distanza di così tanto tempo.

L’8 settembre 1943 era ben vivo nel ricordo di nonno AngeloEmilio, caporal maggiore del III battaglione del 317° Fanteriadella Divisione Acqui di stanza a Cefalonia. Con il dovuto per-messo nell’estate del 2013 grazie all’aiuto della famiglia è statoaperto il “baule dei ricordi” di nonno Angelo, un mondo riccodi fotografie, lettere, corrispondenze, libri, mappe geografichee ritagli di giornali. Ma la cosa più preziosa resta una piccolaagenda, un diario dalle pagine ingiallite, scritto di suo pugno,in cui si leggono nomi, date, avvenimenti, luoghi. Nonno An-gelo, giorno per giorno, appuntava tutto. Nel baule c’è l’im-maginetta della Madonna donata da un sacerdote polacco che

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lo salvò nei giorni della prigionia, un foulard giallo che ricordaun raduno dell’Associazione Divisione Acqui a Palermo neglianni ‘70. Nonno Angelo ci ha lasciati nel 2008, ma le sue coseancora parlano di Cefalonia.

Ogni nonno è un patrimonio di vita e di memoria, un’ere-dità che ogni nipote dovrebbe raccogliere, custodire, recupe-rare, non dimenticare. Basta poco per raccogliere questaeredità: basta solo ascoltarli in silenzio nelle sere d’estate conrispetto per la loro storia e le loro vicende umane.

Forse per i mass media non saranno “notiziabili” come ilmeteo, le code in autostrada verso i luoghi di relax, i ladrid’appartamento, i flirt sotto l’ombrellone e l’ultimo tormen-tone estivo prima del solito “autunno caldo” per via dei rincarialle bollette della luce e del gas, ma le storie di vita dei nostrinonni sono così grandi, così intense, così vere, così ricche diamore, di affetto, di nostalgia, di sentimenti autentici. Bastapoco, basta ascoltarli, i nostri nonni.

Un po’ come hanno fatto i figli e i nipoti diretti e acquisitidi nonna Agnese e di nonno Angelo. Un po’ come si è fattoper questo saggio entrando in punta di piedi nel “baule deiricordi” di Angelo Emilio.

Tutto è partito da un libro dal titolo Cefalonia a cura di Giu-seppe Moscardelli, stampato nel 1945. Solo due anni dopol’eccidio che si consumò nelle isole greche occupate dagli ita-liani. A questo se ne aggiunge un altro: I 9000 di Cefaloniadi Rino Zavatti, pubblicato nel 1946, e così via tutte le altrepubblicazioni fino a quelle più recenti come Italiani dovetemorire di Alfio Caruso oppure La vera storia dell’eccidio di Ce-falonia di Massimo Filippini, le stampe commemorative pub-blicate dalle Associazioni dei superstiti, delle famiglie e deicaduti della Divisione Acqui, ma anche le personali corri-spondenze con padre Romualdo Formato, indimenticatocappellano militare a Cefalonia, o con l’ex capitano RenzoApollonio, poi divenuto generale, di sicuro tra i protagonistinel bene o nel male di quei giorni.

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Ogni cosa, ogni fotografia, ogni cartolina minuziosamenteconservata da Angelo Emilio non è altro che il tentativo delreduce siciliano di recuperare la memoria dei fatti e delle cir-costanze che condussero ai tragici eventi destinati a scrivereuna delle pagine più tristi della storia militare italiana.

Non è stato difficile entrare in sintonia con il materiale rac-colto da Angelo Emilio perché era già ordinato e ben collocato,quasi aspettasse che qualcuno si adoperasse per renderlo noto.

Nasce così Settembre 1943. Cefalonia, nel baule della storia: lamemoria dell’eccidio. Un instant book che ha una sola velleità: ri-portare quel che accadde nelle isole Jonie per non dimenti-care il sacrificio di quei giovani soldati che dalla Siciliapartirono e non tornarono più proprio nel momento in cuil’isola in cui erano nati veniva per l’ennesima volta nella storiaconquistata e liberata, stavolta dagli anglo-americani.

Angelo Emilio miracolosamente ritornò e, pur non es-sendo più con noi da alcuni anni, ancora una volta, in questaestate del 2013, le carte da lui raccolte hanno donato a chiscrive – e si spera anche a quanti leggeranno questo libro –le pagine drammatiche della sua storia personale e dei suoicompagni in armi, incastonata nella più grande Storia dellaSeconda guerra mondiale.

Vincenzo Grienti

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IntroduzIone

Alle 19.42 dell’8 settembre 1943 la radio interrompevai programmi e la voce del maresciallo Pietro Badoglioannunciava la firma dell’armistizio avvenuta nei giorni

precedenti a Cassibile, in provincia di Siracusa, in Sicilia: «Ilgoverno italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuarel’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nel-l’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla na-zione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower,comandante in capo delle forze anglo-americane. La richiestaè stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità controle forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze ita-liane in ogni luogo. Esse però reagiranno a eventuali attacchidi qualsiasi altra provenienza».

Lo sbarco delle truppe inglesi e americane era avvenutoin Sicilia il 10 luglio del ’43 tra Licata e Siracusa in quellache in codice fu definita “Operazione Husky”. Una svoltadecisiva che cambiò definitivamente le sorti della Secondaguerra mondiale arrivando alla caduta del fascismo quindicigiorni dopo, il 25 luglio 1943.

Gli anglo-americani con “l’Operazione Husky” fecero di-ventare la penisola italiana terreno di scontro tra le truppetedesche e gli Alleati.

L’intenzione degli anglo-americani fu comprensibile findalla prima decade di quel settembre 1943, cioè quando, su-perato lo Stretto di Messina, iniziarono le operazioni disbarco sulla costa salernitana, facendo chiaramente com-prendere che l’Italia era l’obiettivo militare principale ri-

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spetto ad altri seppur importanti teatri di guerra e campi dibattaglia, come appunto la Grecia.

La campagna di aggressione alla Grecia era iniziata daparte del Duce al fine di concretizzare il concetto di “guerraparallela” secondo il quale l’Italia avrebbe combattuto afianco degli alleati tedeschi, ma raggiungendo obiettivi in-dipendenti al fine di creare una zona egemonica in Africa enel Mediterraneo da poter utilizzare in seguito nei tavoli ditrattativa a conflitto concluso.

La pianificazione dell’attacco avvenne nell’agosto del1940. Mussolini e l’allora ministro degli esteri GaleazzoCiano valutarono la possibile conquista del territorio grecocome facilmente realizzabile per le truppe italiane nono-stante il maresciallo Pietro Badoglio e gli altri capi di StatoMaggiore delle Forze Armate si espressero diversamente ein più occasioni. L’offensiva degli italiani fu tutt’altro che fa-cile per la strenua e tenace difesa degli ellenici. Per tale ra-gione la campagna di Grecia si rivelò un fallimento dellastrategia tattica degli italiani. Cosa che portò alla sostituzionedel generale Pietro Badoglio. Poi, dal 9 marzo 1941 il qua-dro della situazione cambiò con l’arrivo della Wehrmacht edei soldati tedeschi accorsi in aiuto degli alleati italiani. Il 21aprile 1941 la Grecia firmò l’armistizio con Germania e Ita-lia. Il rapporto tra i soldati italiani “occupanti” e la popola-zione greca fu tendenzialmente pacifica.

Scrive Angelo Emilio nel suo diario: «Il sole caldo di Cefa-lonia era diverso, forse più tiepido, rispetto a Zante. L’unicacosa che continuò a rimanere immutata fu l’accoglienza e lagenerosità dei greci. Nonostante il conflitto avesse portatopovertà in tutte le case gli abitanti dell’isola conservarononei confronti dei soldati italiani uno spirito di carità cristianache nella desolazione della guerra ricordava la lezione diCristo nel Vangelo: “Date da mangiare agli affamati e dabere agli assetati”. Era questo il clima che si respirava fino alfatidico 8 settembre 19431».

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Nelle isole Jonie prima dell’annuncio dell’armistizio del ma-resciallo d’Italia Pietro Badoglio, tedeschi e italiani, in qualitàdi occupanti, convivevano ed erano schierati in modo tale dapresidiare l’intera area da eventuali attacchi degli Alleatianglo-americani. Quest’ultimi, avendo preso il definitivoorientamento di proseguire le operazioni militari nel cuoredel Mediterraneo tralasciando i balcani, provocarono due ef-fetti opposti: uno di vantaggio per i tedeschi che furono sol-levati dalla preoccupazione di effettuare grandi manovrenell’area balcanica; il secondo, di svantaggio, per gli italianidi non essere “coperti” in alcun modo né dalla madrepatriadove si stava consumando il dissolvimento graduale del re-gime fascista e perché no anche delle Forze Armate, né da uneventuale intervento da parte degli anglo-americani impe-gnati su altri fronti. Il quadro generale in Grecia pendevadunque a favore dei tedeschi che potevano posizionare me-glio i propri armamenti per controllare la penisola greca e learee insulari come Cefalonia, Corfù e le altre isole Jonie.

Come scrive Giuseppe Moscardelli, incaricato dall’UfficioStorico dello Stato Maggiore dell’Esercito, di ricostruirequanto accadde a Cefalonia attraverso le storie e le testimo-nianze dei reduci, alle 18.00 dell’8 settembre 1943 i radio-telegrafisti della Marina appresero da Radio Londra che ilGoverno italiano aveva concluso l’armistizio.

Dopo attimi di gioia e di felicità per la fine della guerra imilitari italiani precipitano nell’incubo. Tra questi anche ilcaporal maggiore Angelo Emilio che, scampato miracolosa-mente e più volte alla morte, riuscì a riportare a casa al ter-mine della deportazione e della prigionia il suo personalediario. Un diario ritrovato dagli autori insieme a tutti glialtri materiali in quel “baule dei ricordi” del reduce sicilianoconservato con cura.

Una cosa è certa: dopo 70 anni dagli eventi sono ancoratanti gli interrogativi sulla strage di Cefalonia e Corfù senzarisposta, innanzitutto la domanda se si sarebbe potuta evitare.

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Questo instant book ha solo una pretesa: riportare alla me-moria un episodio di storia militare italiana ancora ampia-mente dibattuto: fu davvero il primo atto della Resistenzacome ha avuto modo di dire l’allora Presidente della Re-pubblica, Carlo Azeglio Ciampi nel suo discorso pronun-ciato alla commemorazione dei caduti della Divisione Acquia Cefalonia il 1° marzo 2001? Perché i soldati italiani si ri-fiutarono di consegnare le armi ai tedeschi? Quale atteg-giamento ebbe il generale Antonio Gandin, comandantedella Divisione Acqui? Gli ordini del Comando Supremo daBrindisi furono discordanti? Perché i tedeschi reagironocon una violenza così inaudita?

La Storia non potrà mai dimenticare tanto spargimento disangue. Tra i soldati italiani, molti furono i siciliani caduti interra ellenica3, ma tanti anche quelli che come il caporal mag-giore Angelo Emilio fecero ritorno a casa. Segnato in modoindelebile dalla guerra, negli anni ha cercato di ricostruiretassello dopo tassello un puzzle i cui pezzi, molto spesso, sonoandati perduti in fondo al mare della baia di Argostoli o negliarchivi militari tedeschi e americani.

Settembre 1943. Cefalonia, nel baule della storia: la memoriadell’eccidio si aggiunge alle numerose pubblicazioni di stampodivulgativo sull’argomento, nella consapevolezza che il cro-nista non ha gli stessi strumenti dello storico, ma a differenzada questi ha il compito semplice e allo stesso tempo delicatodi dare la notizia affinché un fatto possa essere portato a co-noscenza dell’opinione pubblica sulla base delle fonti a di-sposizione. Le ricostruzioni legate alla tragedia di Cefaloniae Corfù sono numerose e complesse, e oggi complice la fa-cilità di reperire informazioni dalle fonti più disparate attra-verso Internet, anche dispersive e confusionarie.

Tuttavia, c’è un modo di raccontare che può rendere acces-sibile a tutti anche le storie più intricate per il semplice gustodi informare e stimolare ulteriori domande, come questo vo-lumetto si propone di fare.

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Parte I

Cefalonia, 8-25 settembre: cronaca dal fronte

cefalonIa, 8-25 settembre: cronaca dal fronte

In Grecia aveva sede l’11a Armata al comando delgenerale Carlo Vecchiarelli da cui dipendevano tutte leotto Divisioni operanti nel territorio, Acqui compresa.

Santi Corvaja, pilota dell’idrovolante Cant Z 506, cheaccompagnò Vecchiarelli l’11 giugno 1943, giungendo daPatrasso e ammarando a Mègara, ebbe l’impressione chel’alto ufficiale non era “eccessivamente felice per l’incaricoche gli era stato conferito personalmente da Mussolini”4.

Qualche giorno dopo, il 16 giugno 19435, giunse ilgenerale Antonio Gandin6, comandante della Acqui, unacarriera nello Stato Maggiore ed esperienze nel ComandoSupremo con conoscenze degli alti vertici della Germanianazista anche per via della sua ottima conoscenza dellalingua tedesca, molto stimato da Wilhem Keitel7, AlbertKesserling8 e Erwin Rommel9. A lui, in partenza per laGrecia, erano state date istruzioni ben precise in caso diarmistizio: «Dire francamente ai tedeschi che le truppeitaliane non avrebbero mai preso le armi contro di loro senon fossero state soggette ad atti di violenza armata».

Quanto all’Egeo, che era sotto la responsabilitàdell’ammiraglio Inigo Campioni, si stabiliva che venisseattuato il disarmo delle truppe tedesche qualora fossero“prevedibili” aggressioni da parte loro. Un particolare nonindifferente, poi, che ebbe non poche ripercussioni in Greciaper la vita dei militari italiani a Cefalonia, Corfù e nelle altre

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isole Jonie fu la caduta di Benito Mussolini (25 luglio 1943).Il 27 luglio, infatti, l’11a Armata fu trasformata in Armatamista italo-germanica, passando alle dipendenze del GruppoArmate tedesche E di stanza a Salonicco.

Tra il 5 e il 10 agosto, a Cefalonia, sbarcò un contingentedi truppe tedesche composto da circa 2mila soldati e 25ufficiali costituito dal 966° Reggimento granatieri di fortezzasu due battaglioni (909° e 910°) comandato dal tenentecolonnello Hans Barge e da una batteria semoventecomandata dal tenente Fauth. Barge, secondo laricostruzione di Santi Corvaja, andò a collocarsi a Lixuri,spedendo Fauth con circa 500 uomini e sei pezzi da 75 adArgostoli. La baia interna di Cefalonia con l’arrivo delcontinente germanico fu divisa praticamente nei seguentisettori: nord-occidentale controllata dai tedeschi; orientalee sud-occidentale dagli italiani. Un luogo davvero strategicofu Kardakata, controllato dagli italiani.

Per bilanciare la presenza tedesca ad Argostoli, Gandinlasciò nell’area di influenza delle truppe della Wehrmachtdue batterie italiane: la prima a Chavriata e la seconda a SanGiorgio. Infine la sezione sanità si trovava a Phrankata; dueospedali da campo e il nucleo chirurgico ad Argostoli e lasezione sussistenza a Valsamata.

Scrive Giuseppe Moscardelli nelle sue memorie redatte perconto dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito epubblicato nel 1945: ”Le condizioni materiali del soldato aCefalonia erano quelle comuni a tutte le truppe italiane inpatria e nei diversi teatri di operazioni. Ossia, nel più dei casi,al di sotto del mediocre. Fra l’altro, per quanto riguardaCefalonia: scarso il vestiario e più specialmente le calzature;ridotto all’indispensabile il vitto, e tuttavia quasi sempreinsufficiente alle condizioni di vita di un soldato in guerra.Sicché, per queste e per altre deficienze, il regime disciplinare,costretto a reggersi, pur nelle contingenze ordinarie, su unosproporzionato spirito di sacrifizio dei gregari, non

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presentava – qui allo stesso modo che altrove – sintomirassicuranti di stabilità”.

Nonostante quanto rilevato da Moscardelli non eranopochi i militari italiani, specialmente soldati di truppa, cheprovavano sentimenti di stima e di affetto per i loro direttisuperiori. Scrive Angelo Emilio, caporal maggiore del 317°Reggimento di Fanteria nel suo diario: “Dopo lo sbarco degliAlleati in Sicilia anche il generale Antonio Gandin,comandante di tutta la Divisione Acqui, andò a trovare i suoiuomini di stanza a Cefalonia. Ricordo ancora quell’incontro,le sue mani grandi e sicure e quella luce negli occhi chevoleva trasmettere speranza. Consegnò a ciascun militare unpacco dono. Quando toccò a me fui subito avvicinato daltenente Aldo Freddi, il comandante della Compagnia. Eracurioso di vedere cosa avessi trovato. Secondo lui troppopoco. Per questo mi fece avere un altro pacco con lametta,sapone da barba e uno specchietto. Il suo è stato un gestosemplice che mi è rimasto nel cuore, quasi da padre chevoleva prendersi cura del figlio”. Una testimonianza che staa dimostrare come, malgrado tutto, il morale delle truppenell’isola era tendenzialmente buono.

La Divisione Acqui a quella data presidiava Cefalonia con11.500 uomini di truppa e 525 ufficiali e con circa 4milauomini di truppa e 160 ufficiali nella vicina Corfù. I repartischierati a Corfù dipendevano dal XXVI Corpo d’armata. Idue corpi d’armata erano inquadrati nella 11a armata.

La stragrande maggioranza della Divisione – chedipendeva dall’VIII Corpo d’Armata guidata da MarioMarghinotti con sede ad Agrinion – era costituito da trereggimenti di fanteria: il 17° guidato dal tenente colonnelloErnesto Cessari e il 317° guidato dal colonnello Ezio Ricci aCefalonia mentre il 18° comandato dal colonnello LuigiLusignani di stanza a Corfù. La fanteria era al comando delgenerale Luigi Gherzi mentre l’artiglieria italiana, in campoa Cefalonia, Corfù e Santa Maura era al comando del

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colonnello Mario Romagnoli alla guida del 33° reggimento. Il Genio divisionale, poi, era al comando del maggiore

Federico Filippini. La Divisione Acqui era composta poi daalcuni reparti servizi, polizia e tre ospedali da campo mentrela Marina era al comando del capitano di fregata MarioMastrangelo e disponeva di tre batterie: E-208 a Faraò; SP-33 a Minies e una ad Akrotiri. Il capitano Mastrangelocomandava anche un gruppo di Mas per la vigilanza a maree il dragaggio. Il rapporto tra forze italiane e tedesche incampo era pari a 6 a 1.

8 settembre 1943

All’annuncio dell’armistizio la reazione dei soldati italianifu prima di esultanza, seguita subito dopo da un profondodisorientamento. Sia al comando di divisione che tra gliufficiali dei vari reparti la gioia fu soppiantata dalla completaassenza di indicazioni precise sul da farsi da parte delGoverno legittimo e, soprattutto, su quale comportamentotenere nei confronti dei tedeschi.

La sera dell’armistizio il generale Vecchiarelli alle 21.30trasmise a Cefalonia un primo radiogramma con il qualetraduceva gli orientamenti provenienti da Roma. Nelmessaggio diceva:

“Seguito armistizio truppe italiane 11ª Armata seguirannoseguente linea di condotta: se i tedeschi non faranno atti di violenzaarmata, italiani non, dico non, rivolgeranno armi contro di loro,non, dico non, faranno causa comune con i ribelli né con le truppeanglo-americane che sbarcassero. Reagiranno con la forza a ogniviolenza armata”.

9 settembre 1943

Alle 9.50 del 9 settembre segue un secondo ordine delgenerale Vecchiarelli tramite il seguente radio-messaggiopervenuto alle ore 20.30 in cui si stabiliva:

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“… presìdi costieri dovranno rimanere in attuali posizioni sinoat cambio con reparti tedeschi, non, dico non, oltre ore 10 giorno10 Alt In aderenza clausole armistizio truppe italiane nonoppongano da detta ora resistenza alcune at eventuali azioni truppeanglo-americane; reagiscono invece at eventuali azioni ribelli AltTruppe rientreranno al più presto in Italia Alt Pertanto una voltasostituite grandi unità si concentreranno in zone che mi riservofissare… Siano lasciate at reparti tedeschi subentranti armicollettive et tutte artiglierie. Siano portate at seguito armiindividuali… in misura adeguata at eventuali esigenze controribelli… Consegna armi collettive per tutte forze armate italiane inGrecia avrà inizio at richiesta comandi tedeschi at partire ore 12.00di oggi Alt Vecchiarelli”.

Dunque i presidi costieri dovevano essere sostituiti conreparti tedeschi entro le ore 10.00 del 10 settembre perspostarsi in altre zone e fare rientro in Italia. Ai repartitedeschi dovevano essere consegnate le armi pesanticollettive come mitragliatrici e le artiglierie con relativomunizionamento. I tedeschi si impegnavano – secondo ilradiomessaggio – a riportare gli italiani in patria.

Come scrive Moscardelli nel citato report redatto perconto dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercitoe pubblicato nel 1945 riprendendo nove testimonianze trale quali le parole del capitano Ermanno Bronzini, strettocollaboratore di Gandin: “Il messaggio destò nel comandodi divisione un doloroso stupore. Come conciliare questoordine del comandante dell’armata con l’ordine delGoverno di cessare le ostilità contro gli Alleati – il cheimpone di non dare le armi a chi rimane ancora loro nemico– e di reagire ad atti di violenza?”.

Un interrogativo che quella sera del 9 settembre spianavala strada al dramma di Cefalonia. Gandin comunque neldubbio sollecitò chiarimenti ai comandi di Atene, Agrinion eGiannina che, avendo capitolato, non poterono rispondere.A quel punto chiese numi al comando di Brindisi che tacque

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fino alla mattina dell’11 settembre. Per tale ragione il generaleGandin giudicò il secondo radiogramma “apocrifo”, quindida non diramare ai reparti. Di fatto all’atto della sua stesurail generale Vecchiarelli era già prigioniero dei tedeschi.

Dunque l’ipotesi che si affacciò nella mente del generaleGandin fu quella che la stesura del radiogramma potesseessere opera dai tedeschi che, magari, erano venuti inpossesso dei cifrari italiani. Quest’ultima resta un’ipotesi, mapuò essere il motivo alla base della volontà dello stesso Gandindi respingere il radiomessaggio al comando dell’VIII Armatadal quale era pervenuto come “parzialmente indecifrabile”10.

Tutto ciò mentre Marina Argostoli proseguiva l’incessantetentativo di riprendere le comunicazioni via radio con l’Italiae i giovani partigiani greci facevano pressione sui soldatiitaliani attraverso un’opera di volantinaggio in cui venivadichiarato:

“Noi greci non siamo contro di voi perciò fraternizzate col popolo,unitevi ad esso, lottate contro il nemico vostro e nostro. Nonconsegnate le armi ai tedeschi che vogliono continuare a massacrarel’umanità. Opponetevi ai vostri superiori se questi vogliono farveleconsegnare”.

Il volantino era firmato dal Partito Comunista della Greciaed era scritto anche in greco affinché per la popolazione diCefalonia ne fosse a conoscenza11.

10 settembre 1943

La mattina del 10 settembre il tenente colonnello HansBarge insieme al tenente Fauth si presentò da Gandin. Comescrive Moscardelli “il colloquio si svolse a porte chiuse.Presente solo il capo di stato maggiore della divisione,tenente colonnello Giovanni Battista Fioretti”.

Più volte però il generale Gandin chiamava il capitanoVincenzo Saettone, capo ufficio operazioni. ScriveMoscardelli: “Quando questi ritornava – dice il capitanoBronzini – mi teneva informato della situazione. Io e lui

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eravamo chiusi a chiave in una stanza perché il generale avevaordinato che noi due soltanto, all’infuori di ogni contatto,anche con gli ufficiali del comando, dovessimo essere messial corrente e prender nota degli avvenimenti in corso”.

La richiesta di Barge fu quella di consegnare le armi entrole 10 dell’11 settembre 1943 nella piazza principale diArgostoli. La risposta di Gandin, anche per prendere tempo,fu quella che tale ordine poteva essere contenuto in unradiogramma dell’VIII Armata rispedito al mittente per unaconferma definitiva a seguito di una trasmissione risultatadifettosa, dunque indecifrabile. Tuttavia, il generale Gandinrestava del parere che la piazza di Argostoli come luogoconvenuto per la cessione delle armi non era il posto adattoe ci si poteva accordare per un altro posto da concordarefuori dallo sguardo e dai commenti dei greci.

Per Gandin non sarebbe stato onorevole per gli italianicedere le armi nella piazza centrale del paese. L’ufficialetedesco si congedò dal generale Gandin promettendo diriferire al suo comando e comunque dimostrando dicomprendere le difficoltà del generale Gandin. Nonappena Barge partì per Lixuri Gandin convocò un primoConsiglio di Guerra. Da rilevare, in questa circostanza, cheprevalse la scelta di cedere le armi collettive, ma non quelleindividuali.

Tuttavia, bisogna dire che la decisione non fu unanime:diversi comandanti erano contrari alla cessione di qualsiasitipo di arma. Scrive Moscardelli: “Le opinioni, allaconclusione del rapporto, furono tuttavia discordi: favorevolialla cessione delle armi il generale Gherzi, i due comandantidei reggimenti di fanteria (colonnello Ricci e il tenentecolonnello Cessari) e il comandante del genio divisionale(maggiore Filippini); sfavorevole il comandante di MarinaArgostoli (capitano di fregata Mastrangelo); il comandante delreggimento di artiglieria (colonnello Romagnoli) incerto, mapiù propenso alla non cessione”.

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Al termine del rapporto, il generale Gandin autorizzò icomandanti a informare i propri reparti circa il contenutodel radiogramma ricevuto da Vecchiarelli.

Elio Sfiligoi, anch’egli sopravvissuto alla strage diCefalonia, nel suo diario personale pubblicato dalla EdizioniDella Laguna, (Mariano del Friuli, Gorizia, 1993) dal titoloQui Marina Argostoli Cefalonia... scrive che, il medesimogiorno, a Faraò si tenne una riunione ristretta di ufficiali diMarina, alla quale presenziò il comandante Mastrangelo.

Nel corso dell’incontro il capitano di corvetta Barone riferìi risultati dell’incontro avvenuto poche ore prima alcomando Marina tra i massimi dirigenti greci dellaresistenza locale e gli ufficiali. Tutti concordarono chebisognava resistere ai tedeschi con tutti i mezzi.

Dunque, i pareri sul cedere o meno le armi furonoampiamente discordanti. Se da una parte i capitaniPampaloni e Apollonio furono palesemente schierati controi tedeschi e a fianco ai partigiani greci, dall’altra parteuomini come il tenente colonnello Fiandini, comandante diun gruppo contraerei dichiarò che rifiutava ognicollaborazione e che avrebbe unicamente seguito gli ordinidel comandante di divisione.

Scrive Moscardelli citando la testimonianza del capitanoPampaloni: “Presi contatto col comandante dei patrioti grecia Cefalonia e con altri elementi del Fronte Nazionale diLiberazione: assicurandomi della loro collaborazionecompleta, mi accordai per la consegna delle armi e dellemunizioni. Feci quindi ritirare dalla nostra polveriera armie munizioni che furono messe a disposizione dei greci”.

Nella notte il tenente colonnello Barge ritornò dal generaleGandin a colloquio: il comando tedesco era disposto arimandare a giorno da convenirsi la cessione delle armi.Dunque vi era un’accettazione delle artiglierie e delle armipesanti. « Al momento non poteva essere garantito ilrimpatrio della Divisione Acqui ma – assicurò Barge – lo si

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sarebbe fatto non appena consentito dalle disponibilità dinaviglio ». Gandin voleva ulteriori rassicurazioni e garanzieda parte dei tedeschi. Egli acconsentiva alla cessione dellearmi ma a patto che le artiglierie sarebbero state cedute almomento dalla partenza degli italiani da Cefalonia e le armipesanti all’atto in cui i reparti avrebbero messo piede in Italia.

11 settembre 1943

L’alba dell’11 settembre non iniziò nel migliore dei modi.Una imbarcazione italiana a vela che stava muovendo nellarada di Argostoli fu “avvertita” dalla batteria semoventitedesca che sparò alcuni colpi di monito. Moltoprobabilmente i tedeschi sospettavano che il veliero volessetentare la fuga. Quasi in contemporanea a questo episodioarrivò al comando di divisione la risposta del comandotedesco tramite il tenente colonnello Barge sulle proposteavanzate da Gandin la sera precedente.

Da quanto emerge da diverse fonti storiche e bibliografichele richieste del generale Gandin furono in linea di massimaaccolte, ma non venivano illustrati gli aspetti tecnici edesecutivi. Il comando tedesco, però, data l’urgenza diassumere in sostituzione degli italiani la difesa di Cefaloniaprospettò la necessità che tutta la Divisione Acqui lasciasse lacosta trasferendosi verso l’interno dell’isola nei pressi dell’aerea di Valsamata, spostando inoltre il quartier generale aSamos. Ma non finì qui. Il messaggio, come scrive Moscardellinel suo rapporto per l’Ufficio Storico dello Stato Maggioredell’Esercito, fu concluso così:

“Il comando tedesco desidera chiaramente conoscere l’atteggiamentoche la Divisione Acqui intende assumere in questa situazione. Ilgenerale deve quindi esplicitamente optare per uno di questi tre punti:a favore dei tedeschi – contro i tedeschi – cessione delle armi. Termineper la risposta: ore 19 dello stesso giorno”12.

Come ebbe modo di commentare il capitano Bronzini:“Questa lettera, per quanto non redatta in termini ostili,

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costringe il generale a dare quella definitiva risposta che erariuscito finora a evitare”.

Per tutta la mattina dell’11 settembre, così come scriveRino Zavatti nel suo diario I 9000 di Cefalonia (Bèrben,1946), “si prolunga la riunione del generale Gandin e deicomandanti del Corpo. Si discute a lungo senza arrivare auna chiara conclusione. I comandanti di fanteria insistonoper una cessione delle armi, contro tale soluzione sono ilcomandante di artiglieria e il comandante di Marina”. È inquesto frangente che Gandin decide di sentire il parere deicappellani militari della Divisione. “La conoscenza che essihanno delle truppe per il quotidiano e libero contatto conessa, nonché la serenità del loro giudizio, sono elementi cheil generale, in sì grave situazione, non poteva trascurare”dichiarò lo stesso capitano Bronzini a Giuseppe Moscardelli.

I cappellani militari raggiunsero il comando italiano tra le16 e le 18 circa. Quanto si svolse durante questa riunione loriferì padre Romualdo Formato, autore subito dopo ilconflitto del libro L’eccidio di Cefalonia: “Andiamo al rapportopensando che il generale voglia esortarci a intensificare lanostra opera sacerdotale per tenere alto fiducioso e serenol’animo della truppa in una contingenza così estremamentecritica e ripetiamo fra noi: se il generale riuscisse a manteneresenza incidenti lo stato di reciprocità cordialità con le truppetedesche bisognerebbe fargli un monumento d’oro. Tantosiamo lontani dall’immaginare quale ingrata sorpresa ciattende, quale grave parere siamo chiamati a proferire”.

Il generale, secondo la testimonianza di padre RomualdoFormato era pallido, ritto dietro al suo tavolo. Si trattava didecidere se passare ai tedeschi oppure lottare contro di loro,oppure ancora di cedere le armi. Ma non si trattava solo diquello: come ebbe modo di dire in quella circostanza ilgenerale Gandin “ho sulla coscienza la responsabilità dellavita di oltre diecimila figli di mamma. La vita di questi ragazzipuò essere messa a repentaglio dalla decisione che sto per

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prendere. Un ultimatum del comando tedesco di Atene miinvita a decidermi su uno dei seguenti punti: continuare lalotta accanto ai tedeschi; combattere contro i tedeschi; cederele armi. Premetto che siamo legati davanti a Dio e davanti allaPatria da un giuramento di fedeltà alla Maestà del Re. Nonsarò io a ricordare ai sacerdoti che il giuramento è un attosacro col quale chiamiamo Iddio stesso a diretta testimonianzadi quanto affermiamo e promettiamo. Il nuovo legittimoGoverno del Re ha firmato un armistizio. Non possiamodunque più impegnare le armi conto il nemico di ieri. D’altraparte, perché senza grave motivo e provocazione, rivolgerele armi contro un popolo che ci è stato alleato per tre annicombattendo la nostra stessa guerra e condividendo i nostristessi sacrifici? Resta la soluzione di cedere pacificamente learmi. Mi hanno assicurato che si tratterebbe soltanto dellearmi pesanti, le quali ci sono state date quasi tutte dai tedeschistessi. Ma questo atto della cessione non viola forse lo spiritodell’armistizio e, per conseguenza, non verremmoegualmente meno al giuramento di fedeltà al Re?13”.

Questi e altri furono gli interrogativi che attanagliavano ilgenerale Gandin. Il comandante di divisione condividendola situazione con i cappellani militari esplicò chiaramente diessere consapevole che, qualora si fosse verificato unconflitto armato contro i tedeschi, sebbene gli italiani eranonumerosi e forti nell’isola, dalla Grecia continentalepotevano venire in soccorso parte dei 300mila militaritedeschi supportati dai cacciabombardieri Stukas.

Dopo aver ascoltato le parole del generale Gandin, i settecappellani militari (padre Romualdo Formato, don BiagioPellizzari, don Angelo Ragnoli, don Mario Di Trapani, padreDuilio Capozzi, padre Luigi Ghilardini, padre AngeloCavagnini) consigliarono – tranne uno – la cessione dellearmi. A rapporto ultimato i cappellani si riunirono nella casadelle suore missionarie italiane ad Argostoli compilando unalettera inviata immediatamente al comandante Gandin dove

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affermavano i principi alla base della soluzione migliorepossibile, seppur dolorosa, cioè quella di cedere le armi14.

Quando alle 19 il tenente colonnello Hans Barge sipresentò al generale Gandin questi chiese un ulterioredifferimento del termine di consegna. Dalla testimonianzaraccolta da Moscardelli per bocca del capitano Bronzini “ilgenerale Gandin richiamò l’attenzione del tenente colonnelloBarge su altre importanti questioni” come per esempio ilfatto che il presidio tedesco di Lixuri ogni giorno si rifornivacon aerei da trasporto o via mare di rinforzi oppure che,come rilevava Gandin “i tedeschi negli ultimi due giorniavevano trasferito ad Argostoli, dove c’era la loro batteriasemovente circa una compagnia di fanteria”. Era questo unmovimento giustificato? Chi lo aveva ordinato? Nonostantequeste dimostrazioni non certo di cameratismo da parte deitedeschi verso gli italiani, il generale Gandin,“per dare unasicura prova delle sue buone intenzioni, dichiarò che eradisposto a ritirare da Kardakata il battaglione di fanteria chepresidiava questa località”.

Alfio Caruso, nel suo libro Italiani dovete morire. Il massacrodella divisione Acqui a Cefalonia riporta la lettera integrale afirma del generale Gandin a testimonianza della lungarichiesta di chiarimenti da parte del comandante di divisionee la conseguente risposta del tenente colonnello tedesco15.

Il capitano Bronzini racconta a Moscardelli che “Kardakataera una posizione chiave, il cui possesso significava il dominiodella penisola di Lixuri e il generale Gandin non voleva chel’occupazione italiana di questa località fosse interpretatacome minaccia o atto ostile verso i tedeschi. Col tenentecolonnello Barge, che si diceva autorizzato dal suo comandoa trattare la cosa, il generale Gandin stabilì pertanto quantosegue: il comando di divisione avrebbe subito ritirato daKardakata il battaglione di fanteria; il comando tedesco siimpegnava a non inviare più rinforzi e a non far piùmovimenti di truppe in Cefalonia fino a quando fossero

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durate le trattative e si fosse giunti a un accordo definitivo.Qualora tali impegni non fossero stati rispettati dal comandotedesco, il comando della Acqui avrebbe dovuto senz’altroagire secondo le direttive governative dell’8 settembre”.

È in questo frangente che giunge la notizia che il Governoitaliano dopo l’armistizio si era trasferito a Bari o a Brindisi.In questa circostanza il generale Gandin tentò uncollegamento tramite ponte radio da Corfù per trasmettereun messaggio cifrato dalla stazione della Marina al ComandoSupremo. Ma il tentativo non sortì alcun effetto.

La decisione di spostare i soldati italiani da Kardakatasuscitò non poche critiche anche tra gli ufficiali perché potevasembrare già l’inizio del processo verso la consegna delle armiai tedeschi. Questo ritiro condusse uomini come il capitanoPantano a prendere contatti con il capitano Pampaloni perstabilire una linea di condotta comune. Pampaloni assicurò aPantano che “gli artiglieri sarebbero morti piuttosto checonsegnare le armi”. Nella stessa giornata Apollonio, la cuibatteria era diventata ben presto il centro motore dellaresistenza antitedesca, passava parola al capitano di corvettaVittorio Barone, al sottotenente di vascello Vincenzo Di Roccoe al tenente Luigi Seggiaro e poi naturalmente a Mastrangeloil quale già con Romagnoli aveva opposto il proprio no a ognicedimento delle armi nel Consiglio di Guerra riunitosi allapresenza del comandante Gandin. Rispondendo adApollonio, Mastrangelo non esitò a dire con fermezza che “nelcaso l’Artiglieria dell’esercito avesse iniziato le ostilità, laMarina si sarebbe affiancata nella lotta”.

Anche i partigiani comunisti greci si fecero sentirediffondendo ancora volantini con espressioni di solidarietàverso i soldati italiani.

12 settembre 1943

Il comandante della divisione, col consenso della maggiorparte dei comandanti, dunque, portò avanti l’idea di una

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cessione “onorevole”. Gandin non aveva perso fiducia esperanza nella possibilità di una serena conclusione delletrattative facendo leva anche del prestigio che egli godevapresso i comandi superiori della Germania.

Come scrive sempre Moscardelli “pur di giungere a tanto,sembra che non abbia dato rilievo a incidenti minimi matuttavia sintomatici: il disarmo da parte tedesca di due nostrisoldati e dal drappello inviato ad Ankonas per recuperare idue moschetti; le cannonate contro il tre alberi nella rada diArgostoli (c’è però chi asserisce che il veliero tentasseveramente la fuga); la presa di posizione del semoventetedesco contro il dragamine armato di mitragliere.

E nemmeno, sembra, dette peso a quanto avevano riferito imilitari di Santa Maura: che cioè il presidio di quell’isola, unavolta arresosi, era stato, contrariamente ai patti, internato aMissolungi. Aveva infine ceduto ai tedeschi (e dato l’ordineche fu eseguito nel pomeriggio del 12) l’importante posizionedi Kardakata”.

Alle 04.00 il Comando Divisione ribadì, stavolta per iscritto,l’impegno della Divisione Acqui di cedere le armi al Comandotedesco. Qualche ora dopo, il capitano Apollonio ricevettealcuni esponenti militari tra i patrioti greci, inviatigli dalcapitano Pampaloni; con essi, venne elaborato un piano – inseguito approvato dal colonnello Romagnoli – da attuarenell’eventualità di un’azione.

Alle 10.30 il tenente Fauth si recò al Comando Divisioneminacciando una rappresaglia aerea con gli Stukas inquanto non si era provveduto a dare inizio alla consegnadelle armi.

Il generale Gandin chiese al tenente colonnello Barge altre24 ore rispetto all’orario stabilito per la consegna delle armi,cosa che gli fu accordata. Ci si accordò per la consegna alleore 8 del 13 settembre.

Quelli vissuti tra l’11 e il 13 settembre per via di tanti episodiframmentati furono ore convulse, di tensione, di ansia, di

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attesa e di speranza. Tutti sentimenti che emergono dalletestimonianze dei reduci, dai diari e dai libri scritti daisopravvissuti oppure da storici e studiosi.

Cefalonia e quanto accadde in quel settembre 1943 è una“matassa” storica non facile da sbrogliare, ma non per questosi deve rinunciare a rileggere, lungi da qualsiasi intentorevisionista, quanto prodotto in questi anni. Non è facilericostruire quei giorni, quei momenti e quegli attimi per chigiornalisticamente – non avendo gli strumenti dello storico –si tuffa nell’avventura divulgativa, ma cercare di capire è ilprimo passo per suscitare riflessioni, domande, interrogativi.

Per quanto ci riguarda, qui, ci atteniamo alle testimonianzeraccolte e pubblicate da autorevoli protagonisti e testimoni,magari su cui si potrò discutere, confutare, ribattere edialogare, ma pur sempre punti di visti utili a comprendereper elaborare un’idea attorno ai fatti di Cefalonia.

Tra le testimonianze prese in considerazione c’è peresempio quella di padre Romualdo Formato, ma anche delcapitano Ermanno Bronzini, addetto all’ufficio operazionidel comando di divisione che compilò il Diario storico dellaDivisione Acqui e fu incaricato di stendere una relazioneper conto del Ministero della Guerra nel 1946, così comeGiuseppe Moscardelli, incaricato anch’egli un anno prima,nel 1945, dall’Ufficio Storico dello Stato Maggioredell’Esercito di raccogliere testimonianze e dichiarazioni disopravvissuti e reduci.

Scrive Moscardelli: “Nelle prime ore del pomeriggio del12, per iniziativa del capitano Apollonio, venivano posti inlibertà i prigionieri politici greci che si trovavano nellecarceri di Argostoli sotto custodia italiana”. e aggiunge:“Verso le 17, si diffuse la voce – risultata poi vera – che itedeschi, nel settore di Lixuri, avevano sopraffatto lestazioni di carabinieri e di guardie di finanza dislocate nellacittadina di Lixuri e le due nostre batterie in posizione aSan Giorgio e a Kavriata”.

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Sono momenti di tensione e di “incidenti” che, come haraccontato padre Romualdo Formato “non si contavanoormai più”.

La notizia di quanto accaduto a Lixuri aveva dato un corsodiverso nello sviluppo delle trattative. “Il generale Gandin– testimonia il capitano Bronzini - era indignato. Subitodopo, essendosi a lui presentato il ten. col. Barge, il generalegli chiese duramente spiegazione dei fatti di Lixuri. Ilcolonnello tedesco, con la consueta cortesia, si scusò dicendoche lui non aveva dato ordini, ma che erano stati i suoisoldati che avevano agito di iniziativa. Prometteva però chesarebbero stati senz’altro posti in libertà gli uomini. Perquanto riguardava le artiglierie, invece, si riservava direstituirle appena possibile”.

Il tenente colonnello Barge, al termine della discussionespiegò che il comando superiore tedesco gli aveva tolto ipoteri di trattare con il comando della Divisione Acqui e perciòle trattative fino a quel momento svolte erano da considerarsinulle. In pratica era un modo molto semplice per farintendere l’impazienza del comando tedesco al generaleGandin sulla questione Acqui: la Divisione era contro itedeschi oppure si decideva a cedere le armi? Forse c’era unfilo di verità in quel che disse Barge al generale Gandin se siconsidera che il tenente colonnello tedesco sarebbe statosollevato dal suo incaricato da lì a poco per far ritorno nellaGrecia continentale. “Fu un colpo di scena – testimonia ilcapitano Bronzini – che rovesciò interamente la situazione”.Mentre al comando accadevano questi fatti un nuova vocecircolò tra le truppe italiane: il generale Gandin aveva decisoe “ordinato” la cessione delle armi ai tedeschi16.

La notizia fece agitare non poco il capitano Apollonio chechiese e ottenne di conferire con il generale Gandin.

“Io e il capitano Apollonio – testimonia il capitanoPampaloni a Giuseppe Moscardelli – entrammo in unastanza dove si trovavano il generale Gherzi, comandante la

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fanteria divisionale, il colonnello Romagnoli e i colonnellidei reggimenti di fanteria Cesari e Ricci. Apollonio e ioesprimemmo la nostra indignazione contro un “ordine” checi imponeva la cessione delle armi. Tale ordine, aggiunsi io,non poteva essere dato perché sarebbe stato giudicato un“tradimento”. A questa parola, il generale Gherzi mirichiamò duramente all’ordine e mi proibì di continuare suquel tono. Il colonnello Romagnoli, seduto in un angolo,sopra un tavolo, con al testa fra le mani, faceva segni diassenso a quanto io e Apollonio dicevamo”.

Sempre a Moscardelli in merito a questo episodio ilcapitano Bronzini non parla di “ordine”. Egli dice: “Questiufficiali in previsione che il generale cedesse le armi,venivano a fargli presente che non avrebbero eseguitol’ordine”. Si legge nel report di Moscardelli: “Fummointrodotti alla presenza del generale – continua il capitanoApollonio – io, il col. Romagnoli, il capitano Pampaloni eun ufficiale del 317° fanteria di cui non ricordo il nome”.

Il colloquio, pur contenuto nei limiti della rigidità militare,fu drammatico. Il generale fece presente che, esclusisenz’altro il primo e il terzo dei punti imposti dai tedeschi,l’adozione del secondo non avrebbe avuto per gli italiani unrisultato positivo perché i tedeschi sarebbero stati subitosoccorsi dalle forze nel continente greco e la loro aviazioneavrebbe imperversato senza contrasto su tutta l’isola. Avevaperciò, sino ad allora, tentato l’impossibile per venire a unaccordo “onorevole”.

Gli ufficiali presenti – e più specialmente i capitani Apollonioe Pampaloni – ribatterono le argomentazioni del generaleriaffermando che, secondo loro, non vi erano che due vie:andare con i tedeschi o andare contro. La cessione delle armiera fuori del loro sentimento dell’onore militare e poichéquesto sentimento era condiviso da “tutte” le truppe delpresidio, essi desideravano che il generale venisse incontroalla loro unanime volontà di combattere contro i tedeschi.

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“Durante il colloquio, – dice il capitano Apollonio – il generaleGandin stava ritto dietro al tavolo con le mani a esso poggiate.Il suo volto bianco e imperlato di freddo sudore rivelava unaindicibile interna sofferenza. Il suo atteggiamento e le sueparole rivelavano un uomo sovraccarico del peso delle sueresponsabilità. Il generale Gandin, sebbene comandasse dapoco tempo la divisione, era molto conosciuto. Non passavagiorno senza che visitasse i reparti, senza che scendessepaternamente fra i suoi soldati portando loro doni di ognigenere. Amava troppo i suoi dipendenti e questo amore,soprattutto, l’indusse a temporeggiare.

A conclusione della discussione, il generale si riservavalibertà d’azione e pregava gli astanti di non prendere,frattanto, alcuna iniziativa.

Per la cronaca occorre qui sottolineare che nelle memoriedi don Ghilardini lo stesso episodio viene descritto così: “Nelcorso del rapporto, al quale partecipano pure il Col.Romagnoli, il Cap. Pampaloni, il Cap. Pantano, il Cap. Gascoe il Ten. Ambrosini, viene serenamente rappresentato alGenerale che la cessione delle armi senza combattere èritenuta contraria al sentimento dell’Onor Militare; che dellealtre due alternative, affiancamento ai tedeschi, contro itedeschi, la prima va scartata perché costituirebbe violazionedell’Armistizio appena sottoscritto; che i reparti invocano inobbedienza agli ordini del legittimo Governo, di reagire conle armi all’atto di violenza perpetrata dai tedeschi contro lenostre batterie; che, comunque, un ordine di cessione dellearmi potrebbe provocare un rifiuto di obbedienza17”.

A conclusione il generale Gandin dopo aver esposto la suavalutazione della situazione, promette che tenterà diriprendere le trattative su nuove basi. “Era dunque vera ofalsa la voce secondo cui il generale aveva già dato l’ordineper la cessione delle armi?” si chiede Moscardelli nel suorapporto. E ancora: “E, se non proprio l’ordine, unpreavviso o qualche cosa di simile?”.

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Al riguardo lo stesso Moscardelli spiega:” Non è possibileuna risposta esauriente a tali interrogativi. Resta il fatto cheun tale ordine – per quanto abbiamo visto e vedremo inseguito – non trova giustapposizione logica nel minutosviluppo dei fatti qui descritto. Ed è anche certo che deitestimoni finora interrogati nessuno asserisce di aver vistol’ordine con i propri occhi”.

Nelle stesse ore in cui avvenivano richieste di conferimento,colloqui e rapporti presso il generale Gandin, il sottocaporadio telegrafista Francesco Mauro di Marina Argostoli con ilconsenso del tenente Seggiaro, comandante in 2° dellabatteria E-208 (Faraò) e del capitano commissari Pozzi,spiccava un telegramma al comando di Malta. Ne riceve unarisposta: ”Ricordatevi che i tedeschi hanno affondato lacorazzata Roma, sicchè bisogna in alcun modo consegnare,senza combattere, le armi ai tedeschi”.

In serata scrive don Luigi Ghilardini “un sintomaticoincidente presso il II/317° fanteria che, su iniziativa delsottotenente Chirola, si rifiuta di trasfersi da Frankata allazona di raccolta di Razata nella certezza, come confermatodal capitano Minelli che il movimento è connesso allacessione delle armi. Inoltre tra le cose da segnalare c’è ilpuntamento della prima batteria guidata dal capitanoPampaloni sul Comando Divisione, nel timore che gliufficiali recatisi a rapporto siano stati arrestati. In pienanotte, su invocazione del capitano Pampaloni, sollecitatoanche dal tenente colonnello Siervo e dal capitanoPantano, avviene un ulteriore intervento del colonnelloRomagnoli sul generale Gandin al fine di revocare l’ordinedi ripiegamento del III/317° Fanteria. Nella stessa notte,presso la batteria guidata dal capitano Apollonio ha luogouna riunione di alcuni ufficiali di reparti minori che siconclude con l’impegno di non cedere le armi. Tuttavia,per l’eventualità di una aggressione da parte dei tedeschivengono concordate alcune linee guida da seguire:

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reazione di fuoco da parte delle batterie, eliminazione dellabatteria semovente tedesca di Argostoli da parte di ungruppo di volontari, l’attacco alle postazioni tedesche daparte della II/317° e del III/317°”18.

A seguito dei fatti accaduti a Lixuri, il generale Gandinconvocò un nuovo Consiglio di Guerra. Scrive Moscardelli:“Nel recarsi qualche minuto prima, alla riunione, unabomba a mano fu lanciata contro la sua automobile; maesplose senza conseguenze. Gruppi di soldati circondaronola macchina gridandogli «traditore»; uno più audace strappòdal cofano il guidoncino di comando urlando che il generaleera indegno di portarlo”.

La riunione comunque si tenne. Alla fine di essa, secondola testimonianza del capitano Bronzini “furono prese leseguenti decisioni: il generale Gandin, offeso per il mododi procedere da parte del comando superiore tedesco, sirifiutava d’ora in avanti di trattare con ufficiali tedeschi chenon fossero suoi pari grado e che non si rivolgessero a luicon garantite funzioni plenipotenziarie; gli ufficialitedeschi che fossero venuti d’ora in avanti a trattaredovevano essere accompagnati da un ufficiale del comandodell’XI armata conosciuto dal generale Gandin; si intimavaai tedeschi di non effettuare invii di rinforzi dal continentené movimenti nell’interno di Cefalonia prima dellaconclusione delle trattative; si garantiva, infine, da parteitaliana, di non compiere atti ostili qualora i tedeschiavessero rispettato gli impegni di cui sopra”.

La lettera con queste decisioni fu direttamente indirizzata alcomando superiore tedesco e consegnata al tenente colonnelloBarge perché la trasmettesse con la sua stazione radio.

13 settembre 1943

Alle 6.30 un gruppo di delegati tedeschi si presenta alComando Divisione per prendere in consegna le artiglieriecome convenuto. In questo frangente il capitano Renzo

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Apollonio vedendo due grossi pontoni da sbarco chedoppiavano Capo San Teodoro ordinò alle sue batterie del33° Artiglieria di aprire il fuoco. Il primo pontone venneaffondato a pochi metri dalla banchina; il secondo avvertitala rotta e sottrattosi al fuoco delle batterie italiane, appenadoppiato Capo San Teodoro fu investito dal fuoco di duebatterie della Marina SP-33 (Minies) ed E-208 (Faraò) e issòsubito bandiera bianca. Contemporaneamente a questaazione fu impartito dal Comando Divisione l’ordine disospensione del fuoco19.

Tale ordine dopo qualche attimo di indugio dovuto al fattoche la batteria semovente tedesca di Argostoli persistevanella reazione di fuoco contro la prima batteria guidata dalcapitano Pampaloni trovò infine esecuzione soprattutto perl’intervento del capitano Postal, aiutante maggiore in primadel 33° artiglieria sul capitano Apollonio.

L’ordine di aprire il fuoco, così come ricorda l’ex Sotto Capodella Marina Elio Sfiligoi nel suo libro Qui Marina ArgostoliCefalonia... fu dato dal capitano Apollonio, dal capitanoPampaloni, appoggiati dal comandante della MarinaMastrangelo. Sempre facendo riferimento alla suddettaricostruzione degli eventi di quella giornata, la decisione diaprire il fuoco sorprese il comando italiano che mandò unufficiale sul posto dove erano posizionate le batterie.

L’ufficiale diede l’ordine di sospendere immediatamente ilfuoco e si scagliò contro il capitano Pampaloni per aver datol’ordine di sparare senza il consenso da parte del comando.L’ufficiale rischiò di essere assalito dagli artiglieri, che furonofermati dal capitano stesso. Secondo altre interpretazioni ilcapitano Postal intervenne convincendo il capitanoApollonio, che non aveva ancora dato l’ordine di cessare ilfuoco perché la batteria semovente di Argostoli continuavaa sparare contro la batteria del capitano Pampaloni.

Nel frattempo a Minies gli italiani presero la locale stazionedi presidio senza che i tedeschi sparassero un colpo.

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Intanto verso le ore 10.00 arrivò ad Atene in idrovolanteil tenente colonnello Bush del X Corpo Aereo tedesco comerappresentante del Gruppo Armate E di Salonicco. Adaccompagnarlo, con funzioni di interprete, il capitanodell’Aeronautica Arnaldo Brezzi, ufficiale di collegamentotra Superaereo e X Corpo Aereo tedesco. Bush invitò ilgenerale Gandin a incontrarsi con Mussolini a Vienna per ilconferimento di un alto incarico con la promessa che saràlui stesso ad accompagnarlo.

Il generale Gandin declinò l’invito, ma Bush, forse nellasperanza di un ripensamento trattò con il generale Gandinanche il problema della cessione delle armi, pervenendo aun accordo da considerarsi accettabile per la Divisione Acqui.In sostanza, la Divisione Acqui in attesa di rimpatrio sisarebbe concentrata entro le 12 del 14 settembre nella zonadi Sami-Digaletu-Porto-Poros mantenendo tutte le armi,salvo le batterie pesanti campali e controcarro, quellecontraeree e quelle a installazione fissa della Marina. All’attodell’imbarco la Divisione Acqui avrebbe dovuto lasciare aterra tutte le armi.

A questo punto le trattative sembravano risolversi con uncompromesso onorevole, pur sussistendo seri dubbi sullaeffettiva volontà e sulla possibilità da parte tedesca diprovvedere al rimpatrio.

Padre Formato scrive: “Il risultato delle trattative parvedistendere un po’ i nervi di tutti. Infatti il comando didivisione comunicò ufficialmente a tutti i reparti che si eraraggiunto un pieno accordo mediante il quale la divisioneavrebbe raggiunto quanto prima la Patria portando secotutte le armi sia pesanti che leggere. Si invitava quindi allaserenità e alla calma essendo stato tutelato in pieno – dicevail comunicato – l’onore della divisione e dell’esercito.Seguivano gli ordini di spostamento di tutti i reparti versola regione di Samos, dove si sarebbe raccolta la divisione inattesa dell’imbarco”.

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Dice il capitano Pampaloni a Moscardelli: “A sera tardi ilcolonnello Romagnoli mi telefonò per avvertirmi, con miostupore, che i tedeschi avevano accordato di riunire tutti gliitaliani in un’ampia zona nei pressi di Samos in attesadell’imbarco per l’Italia: ci sarebbero state lasciate tutte learmi. Il colonnello Romagnoli insistette per convincermi chenon potevamo pretendere di più dato che non tutti gli italianierano decisi a una azione energica. Infatti nella nottata stessami recai in autocarretta al comando di reggimento, alcomando di divisione, ai comandi di tre battaglioni di fanteria,mi incontrai con molti ufficiali e mi resi conto che lamaggioranza accettava questa decisione”.

Quando i reparti, soprattutto quelli di fanteria come il IIe il III del 17° e il II e il III del 317° iniziarono i movimentipreliminari per il trasferimento nella zona prestabilita,giunse a Lixuri, da Giannina il generale Karl Hubert Lanz20,comandante della XXII Corpo d’Armata da Montagnatedesco. Nelle prime ore del pomeriggio dopo un breveincontro con il tenente colonnello Bush, egli impartì algenerale Gandin prima verbalmente e poi per iscrittol’ordine ultimativo di consegnare tutte le armi compresequelle in dotazioni agli ufficiali con inizio alle ore 12.00 delsuccessivo 14 settembre.

A garanzia fu richiesta successivamente anche la consegnaal tenente colonnello Barge entro le 21.00 del 14 settembredi 12 ostaggi da trattenere fino al completamentodell’operazione. Tale ordine che sconfessava il precedenteaccordo con Bush determinò non solo una presa di posizionedi diversi ufficiali, ma indusse anche a un opportunoripensamento del generale Gandin che dispose la sospensionedell’ordine di movimento delle batterie del I/33° Artiglieria.

Barge a sua volta dispose lo schieramento del battaglianegranatieri di arresto sulle posizioni di Kardakata e,contemporaneamente impartìsce al tenente Fauth,comandante del gruppo tattico, gli ordini di attacco alle

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posizioni di Argostoli, nell’eventualità di un rifiuto dellaAcqui a cedere le armi.

In tarda serata, il tenente colonnello Barge diede altenente Fauth le disposizioni per l’attacco alle posizioni diArgostoli, da utilizzare nel caso in cui la Divisione Acqui sifosse rifiutata di cedere le armi.

14 settembre 1943

Siamo alla giornata decisiva non solo per quel che accaddetra ex alleati, cioè italiani e tedeschi, ma per ciò che sembròaccadere in seno alle truppe italiane. Una fase, questa,oggetto di confronto ancora aperto per via delle diversechiavi di lettura esistenti – peraltro ben documentate – siada una parte che dell’altra. Ma andiamo per ordine.

Scrive Moscardelli: “Verso le ore 1.30 del 14 – continua ilcapitano Apollonio – giungeva dal generale Gherzi aicomandanti di battaglione del 17° Fanteria un fonogrammaurgentissimo con l’ordine di invitare i soldati a esprimere ilproprio parere sui tre punti: contro i tedeschi, con itedeschi, cessione delle armi”.

Dice padre Formato: “Contemporaneamente ufficiali,espressamente a ciò incaricati dal generale Gandin, fecerooralmente conoscere a tutti i reparti che l’intenzione delgenerale era orientata verso un’azione decisa contro itedeschi”.

Secondo quanto scrive Moscardelli citando sia il capitanoApollonio che padre Formato, in sintesi, il generale Gandin,a detta dell’ufficiale d’artiglieria e del cappellano militare,“cominciò a orientarsi verso l’idea di un’azione decisa”.

È evidente che, stando ai racconti e alle testimonianze, ilfatto che i tedeschi si erano riservati di imbarcare le armipesanti aveva influito sull’animo del generale, così come avevainfluito a creare agitazione nelle truppe che si preparavanoal traferimento a Samos. È qui, però che il capitano Bronzinifornisce un particolare importante che dà comunque una

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svolta al nostro percorso di ricostruzione: “Giungeva intantola risposta del Comando Supremo italiano al radiogrammainviato dal generale Gandin la notte tra l’11 e il 12 attraversoil radioponte di Corfù. Era un cifrato a firma «generaleFrancesco Rossi» che ordinava di resistere alle richiestetedesche e confermava l’ordine governativo dell’8 settembre”.

A questo punto, prosegue il capitano Bronzini “la posizionedella Acqui è ormai chiara: l’ordine del Comando Supremoelimina ogni dubbio. La situazione generale appare evidente:nel continente l’11a Armata si è lasciata ingannare dai tedeschie ha ceduto alle loro richieste. Nelle Jonie, Santa Maura eZante sono nelle mani tedesche. Soltanto Cefalonia e Corfùancora resistono”.

Come scrive Angelo Scalvini, reduce della Divisione Acquinella prefazione del suo libro Prigioniero a Cefalonia. Diario1943-1945 (Mursia, 2001; p.10): “Confortato dal contenutodell’ordine n° 1029/CS appena pervenuto – resistere con learmi alla intimidazione tedesca di disarmo – e sostenutodalla volontà unanime dei suoi soldati, il gen. Gandin, versomezzogiorno del 14, fa consegnare ai parlamentari tedeschila risposta alla intimidazione di resa: «... la Divisione Acquiintende rimanere nelle sue posizioni fino a quando nonotterrà assicurazione che essa possa mantenere le sue armie le sue munizioni e che solo al momento dell’imbarco possaconsegnare le artiglierie… Se ciò non accadrà, la Divisionepreferirà combattere piuttosto che subire l’onta dellacessione delle armi».

Ma ritorniamo alla testimonianza resa dal capitano Bronzinia Moscardelli: “Il mattino del 14 giunge al comando delladivisione l’esito del plebiscito ordinato la sera precedente: ilprimo – «contro i tedeschi» – ha riscosso il cento per centodelle adesioni”. Dunque quel giorno il generale Gandin presela decisione di effettuare una verifica di tipo plebiscitaria trai suoi soldati, quello che giornalisti, diversi storici, ma anchesopravvissuti hanno definito “un referendum tra i reparti”

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per esprimersi se continuare a combattere a fianco deitedeschi, cedere le armi o combattere contro i tedeschi con ilrisultato unanime, “al cento per cento” su quest’ultima via,cioè andare «contro i tedeschi».

Tuttavia è doveroso in merito accennare anche al lavorodi ricerca che nei decenni scorsi, e fino a oggi, ha compiutoMassimo Filippini, figlio del maggiore Federico Filippini,comandante del Genio della Acqui fucilato a Cefalonia, eautore di diversi libri come La tragedia di Cefalonia, unaverità scomoda; Cefalonia, dal mito alla realtà; I caduti diCefalonia, fine di un mito.

Massimo Filippini, che cura anche il sito www.cefalonia.it,scrive: “A questo punto viene spontaneo chiedersi perchél’accordo non si tradusse in realtà ma fu seguito – quandoormai l’XI Armata italiana si era dissolta come neve al sole– da un successivo Ordine di resistere inviato dal ComandoSupremo italiano alla sola Divisione Acqui da cui derivò loscontro e la rappresaglia sugli ufficiali come tragico epilogodi una vicenda che Gandin cercò di evitare, purtroppo nonriuscendovi.

Per quale motivo – ci si deve chiedere – le trattativedurarono circa una settimana consentendo a tale ordine ditrovare la Acqui in una situazione anomala rispetto alle altreDivisioni che si erano adeguate prontamente a quantoprescritto dal Comando d’Armata e, pur fatte prigioniere,non pagarono certo il contributo di sangue della Acqui?

Prima di rispondere – prosegue Filippini nel suo interventopubblicato nella Rivista di Storia Cultura Attualità Il SecondoRisorgimento D’Italia – osserviamo preliminarmente che iltenore letterale di questo secondo ordine, inviato tra l’11 e il13 settembre dal Comando Supremo del Governo Badoglioriparato precipitosamente a Brindisi (Badoglio che, è benesaperlo, aveva cinicamente previsto la perdita di almenocinquecentomila militari tra quelli che all’8 settembre sitrovavano oltremare) fu: «Comunicate at generale Gandin

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che deve resistere con le armi at intimazione tedesca didisarmo a Cefalonia, Corfù e altre isole»21.

Ciò, sottolinea ancora Filippini “fa cadere nel nulla leinteressate fantasticherie in merito al presunto referenduminteso come motore unico della vicenda per effetto del qualesoldati e ufficiali avrebbero intrapreso la lotta.

È logico invece ritenere che a fronte della prevedibilereazione tedesca Gandin, chiamato a eseguire un ordine«suicida», abbia cercato di sondare l’animo della truppa cheegli sapeva quanto fosse impreparata, specie in alcunireparti di fanteria, a sopportare il peso di un’offensivanemica soprattutto aerea (che poi si rivelò assolutamentedecisiva per le sorti della battaglia)”22.

E aggiunge, sempre Filippini: “In proposito mi limiteròad accennare che tale consultazione non fu affattoplebiscitaria perché a essa non parteciparono tutti i soldati,in particolare quelli dei due Reggimenti di fanteriadecentrati nell’isola rispetto al capoluogo Argostoli doveprevalse il parere di una minoranza aprioristicamenteostile ai Tedeschi costituita da artiglieri e marinai che,accentrati nella zona di Argostoli, ebbero buon gioco nelfar passare il loro volere per quello della totalità dei soldati,che invece – nella stragrande maggioranza – non neseppero assolutamente nulla. A riprova di ciò moltisuperstiti – da me interpellati – hanno dichiarato di nonaver espresso alcun parere o addirittura che di referendumnon sentirono nemmeno parlare: le loro testimonianze, dienorme valore storico, sono riportate nel sitowww.cefalonia.it che da anni curo sulla vicenda”23.

“Se dunque è provato “che nell’ordine di resistere e nonin un assai presunto referendum va individuata la causadello scontro tra la Acqui e i tedeschi, è necessario orachiarire perché – si chiede Filippini, a differenza delle altreDivisioni che eseguirono l’ordine dell’XI Armata – solo laAcqui non si allineò e rimase in una situazione di incertezza

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divenendo unica destinataria dell’ordine di Brindisi. Solola Acqui, perché”?

Nella risposta a tale interrogativo è la spiegazione cruda eagghiacciante della tragedia che ne fa l’avvocato Filippiniriassume brevemente nel già citato intervento pubblicato dallasuddetta Rivista di Storia Cultura Attualità: “Avvenne dunqueche – per circa sette giorni – in seno alla Acqui e con epicentronel 33° Reggimento artiglieria si sviluppò una cospirazionedapprima silente e strisciante e via via sempre più aperta neiconfronti del Comando accusato – senza mezzi termini – divoler cedere ‘sua sponte’ le armi; e ciò malgrado Gandinavesse provveduto a far diramare ai Comandi dipendenti –quello di Artiglieria compreso – il testo dell’ordine ricevutodal Comando d’Armata. Alla responsabile attività di Gandinfece riscontro dunque, in quei giorni, un fermento – usochiaramente un eufemismo – fra alcuni ufficiali inferiori,quasi tutti di complemento, che fu trasmesso ai proprisubordinati creando in una parte di essi uno stato di rivoltasu cui influirono anche notizie inventate di sana pianta daiGreci per cui l’arrivo degli Alleati era imminente. Il checontribuì a eccitare ulteriormente gli animi dei predetti chene trassero l’errata convinzione che Gandin e i suoi diretticollaboratori fossero dei “traditori” disposti a cedere, di loroiniziativa, le armi ai Tedeschi”24.

Inoltre, riguardo a tale fermento” Filippini sottolineacome, già nel 1947 l’Ufficio Storico SME, “in una suapubblicazione intitolata Cefalonia parlava espressamente di«rivolta contro il generale a opera di una parte della truppa»(per amore di verità, aggiungerei «sobillata da alcuni ufficialiinferiori, mentre la grande maggioranza di essa era stancadella guerra e con l’intervenuto armistizio anelava soltantodi tornare a casa») – su tale fermento, dicevo, la quasi totalitàdegli «studiosi di Cefalonia», per evidente imbarazzo, haspesso glissato o minimizzato; ma gli episodi sononumerosissimi e i fatti incontrovertibili”25. Episodi e fatti che

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Filippini, così come la questione del numero dei caduti, nonmanca di argomentare con ampia documentazione sia nelcitato intervento (disponibile peraltro anche su internetNdA) ma anche e soprattutto nei suoi libri e nel sito .

Fatta questa parentesi ricca di spunti di riflessionesicuramente da approfondire ritorniamo sull’ordine di“resistere con le armi alla intimazione tedesca di disarmo”Gandin a questo punto non ha più dubbi. La volontà èassoluta nel resistere ai tedeschi. Verso mezzogiornomentre è in corso il trasferimento del Comando Divisionee del comando artiglieria verso il comando tattico aProcopata fu fatta brillare una mina per interrompere larotabile Argostoli-Kardakata. Subito dopo il tenentecolonnello Fioretti, capo di stato maggiore della DivisioneAcqui consegna ai tedeschi la risposta italiana:

“Per ordine del Comando Supremo italiano, e per volontà degliufficiali e dei soldati, la Divisione Acqui non cede le armi. Il comandosuperiore tedesco, sulla base di questa decisione, è pregato di presentareuna risposta definitiva entro le ore 9 di domani 15 settembre”.

In merito alla risposta degli italiani ai tedeschi a quanto pareesistono diversi punti di vista almeno leggendo un articolopubblicato su Il Domenicale del 29 novembre 2003: “Secondoaltri, però, quel giorno il generale Gandin avrebbe inviato unalettere del tenore assai diverso, iniziante con le parole «LaDivisione si rifiuta di obbedire al mio ordine…», in praticaall’ordine di arrendersi (lettera che è stata ritrovata nelmateriale tedesco sequestrato dagli americani nel 1945)”.

Ciò, sottolinea Il Domenicale nell’approfondimento di dueampie pagine che si apre con un articolo a firma di LucianoGaribaldi, “cambierebbe radicalmente il quadro dellasituazione, ponendo i soldati italiani nella situazione esplicitadi ribelli e ammutinati”26.

Come sappiamo il comando supremo tedesco reagì conl’ordine a quanto pare dato direttamente da Adolf Hitler di“non fare prigionieri” tra i soldati della Divisione Acqui.

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Verso le 15, scrive padre Formato “il cielo si coprì diStukas tedeschi che sorvolarono ripetutamente l’isola e lazona di Argostoli facendo audaci evoluzioni rasente alsuolo. Le nostre batterie contraeree tacquero. Ma da partedei velivoli germanici nessuna offesa venne effettuata.Quell’azione aerea voleva solo significare un serio e graveammonimento nei nostri riguardi”.

15 settembre 1943

All’alba del 15 il tenente colonnello Barge chiese pertelefono al generale Gandin una dilazione fino alle ore 14per rispondere all’ultimatum del giorno prima che scadevaalle 9. Gli fu concesso. Poi si venne a sapere che Barge erastato richiamato dal comando tedesco di stanza nelcontinente greco. Attorno alle 11 due idrovolanti datrasporto tedeschi furono abbattuti dalla nostra contraerei.Appena circa un’ora dopo, racconta il capitano Bronzini “io,il capitano Saettone e il capo di stato maggiore ci trovavamonella baracca del generale. a un tratto si ode un improvvisorumore di aerei. Dapprima pochi, poi sempre più numerosi,gli Stukas fanno la loro comparsa”.

Quasi trenta Stukas con il loro lacerante rumore volavanosopra le teste dei soldati della Divisione Acqui. La battagliaebbe iniziò. Così la testimonianza di padre Formato: “il cielosi copre di aerei germanici e in un attimo la terra sottostantediviene un inferno di fischi, di scoppi, di fiamme”.

Quel 15 settembre la battaglia diventa aspra e sanguinosa. Ilnumero delle forze in campo propendeva a favore degliitaliani, ma i tedeschi sono meglio attrezzati, armati edequipaggiati. Inoltre disponevano di un formidabile appoggioe supporto aereo. In questa prima giornata il successo nellabattaglia andò comunque agli uomini della Divisione Acqui.

Nei combattimenti si distinsero il capitano GuglielmoPantano; il tenente Aldo Freddi, il sottotenente Calecla. Maanche il tenente colonnello Maltesi, il maggiore Altavilla, il

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capitano Bianchi e tanti tantissimi altri, ufficiali, sottufficiali euomini di truppa.

Il teatro delle operazioni non fu facile, specialmente sottoil bombardamento degli Stukas tedeschi la cui azione erasenz’altro coordinata con l’attività di terra della Wehrmacht.Il principale obiettivo seguito dalle truppe del generaleGandin fu quello di espropriare i tedeschi dalla penisola diArgostoli e poi riconquistare le posizioni di Kardakata. Intal modo sarebbe stato eliminato qualsiasi pericolo alle spalledel settore orientale e avrebbe potuto consentire eventualisviluppi nelle operazioni verso nord. Per tale ragioneGandin ordinò l’attacco alle posizioni tedesche ad Argostolialle 14, ora della scadenza della proroga concessa ai tedeschiper la risposta al suo ultimatum. Naturalmente l’attacco noniniziò per via dei bombardamenti. Nel giro di tre oredall’attacco degli Stukas i tedeschi gestivano la situazione suiprincipali settori italiani.

La situazione penalizzò molto gli uomini della Acqui chereagirono con l’artiglieria che intervenne facendo fuococontro i semoventi tedeschi riuscendo a neutralizzarli pertutta la durata del combattimento. Questa azione proseguìfinché l’intera batteria tedesca non fu catturata. L’azionedell’artiglieria “coprì” da un lato il II battaglione del 17°Fanteria nel settore di Argostoli, dall’altro con un’attività diinterdizione sulla “rotabile” proveniente da Kardakata.

Quasi inesistente l’obsoleta contraerea italiana che rimasecon la speranza di un intervento che mai arrivò dai nostriaerei. Intanto nel settore di Argostoli i tedeschi riuscironoad accerchiare e far prigionieri un plotone di mitraglieridel II battaglione del 17° Fanteria. Il punto di contesa peròin quei momenti restò il Monte Telegrafo anche se, comedichiarò il capitano Bronzini a Moscardelli “i progressitedeschi erano molto lenti. I resti del II battaglione sidifendevano con estrema decisione. Erano comandati dalvaloroso maggiore Altavilla ed erano costituiti da veterani

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di questa guerra”. Verso le ore 16.30 proseguì Bronzini nelracconto “ripiega il primo caposaldo del III battaglione del317° Fanteria. Dopo circa un’ora è un altro caposaldo cheminaccia di non reggere. Il generale Gandin ordina allorache il II battaglione dello stesso reggimento, già nei pressidi Pharaklata, avanzi in direzione di Davgata.

Il battaglione, in altri termini, deve contrattaccare sul fiancosinistro le truppe tedesche e giungere al mare per tagliare aesse la ritirata. In attesa che si compia questa manovra, ilcapitano Saettone con la sua compagnia di carabinieri vieneinviato in questo settore per arginare il ripiegamento, che siaccentua sempre più, del III battaglione”. In contemporaneaGandin ordina il fuoco a tutte le artiglierie del presidio aprotezione del fronte orientale. Un’azione che ebbe comerisultato l’arresto delle operazioni dei tedeschi dopo mezz’oradi fuoco italiano. Le truppe tedesche infatti ripiegarono suPharsa. Se da una parte la situazione si stabilizzò sul fronteorientale, in quello di Argostoli intorno alle 18 i tedeschiconquistarono il “Telegrafo”.

Scrive Moscardelli nel suo report raccogliendo latestimonianza di Bronzini: “Verso le ore 18 – dice il capitanoBronzini – l’aviazione tedesca, vista scendere la sera, e ormaiconvinta di averci massacrati, si ritirò dalla battaglia”.

Col ritirarsi dell’aviazione e col sopraggiungere inentrambi i settori: i reparti si dettero a ricostituire la lorocompagine e a constatare le gravissime perdite subìte inuomini e materiali. Ma alle 19, a tramonto avvenuto, comescrive Moscardelli, avvenne quello che tutti i reduci diCefalonia chiamano “miracolo”. I resti del II e del IIIbattaglione del 17° Fanteria contrattaccarono i tedeschisulle alture del “Telegrafo”.

Così raccontò il capitano Apollonio a Moscardelli: “Lemagnifiche compagnie dei due migliori battaglioni della Acquiscattavano all’assalto al grido di «Savoia!» La commozionepervadeva anche i cuori più duri. Non ci sono parole per

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lodare il senso del dovere del tenente colonnello Maltesi,comandante del III battaglione. Pur essendo uscito appena ilgiorno prima dall’ospedale, volle accorrere egualmente inlinea col suo magnifico battaglione dislocando il suo posto dicomando vicino a quello del maggiore Altavilla. Tutta questaseconda fase della battaglia venne così diretta sul posto daltenente colonnello Maltesi, coadiuvato, con estremo spirito disacrifizio dal capitano Pietro Bianchi”.

I tedeschi furono presi di fronte e sui fianchi. La fanteriaitaliana ebbe la meglio costringendo i tedeschi a ripiegare. Lealture del “Telegrafo” furono riconquistate di notte anche se itedeschi resistevano decisi a non abbandonare il campo. È inquesto momento che reparti del III battaglione entrarono inArgostoli attaccando i tedeschi, disperdendoli e catturandoli.

Come testimoniò il capitano Apollonio a Moscardelli“mentre erano in corso accaniti combattimenti sulle pendicisettentrionali del «Telegrafo» furono avvistate dalle forzecostiere di sicurezza quindici barconi tedeschi che tentavanodi approdare nella baia di Lardigo, cioè alle spalle del nostroschieramento. Una motozzattera puntava invece direttamentesu capo S. Teodoro. Dette imbarcazioni trasportavanoquattrocento uomini. Non appena dato l’allarme, essevenivano subito individuate e poste sotto i fasci di luce deinostri riflettori”. Il racconto a Moscardelli prosegue con leparole di Bronzini: “La nostra artiglieria e tutte le armidislocate a difesa della costa – dice il capitano – si scatenanosu di esse. La penisola di Argostoli pare un inferno: nellaoscurità della notte divampano le esplosioni e i bagliori dellabattaglia. Nessuna delle imbarcazioni si salva: tutte vengonodistrutte e i tedeschi, che per il momento non possedevanoin Cefalonia altri mezzi di sbarco, rimangono ingabbiati nellaestrema punta della penisola di Argostoli”.

Solo una trentina di soldati tedeschi, riferì il capitanoApollonio a Moscardelli, quasi tutti feriti, potevano esseretratti in salvo per il generoso intervento dei nostri marinai

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della batteria di Lardigo. Anche nel settore orientale, versole 19, alcuni reparti di italiani passarono al contrattacco. Unacompagnia e un plotone mortai del II battaglione del 317°Fanteria al comando del capitano Pantano, partironoall’assalto, in direzione di Davgata riuscendo a riconquistarealcune posizioni che i tedeschi abbandonarono in rotta.

“È così – concluse il capitano Bronzini nel suo racconto aMoscardelli di questo episodio – il bilancio della primagiornata di battaglia si chiudeva in questo modo:eliminazione dei tedeschi dalla penisola di Argostoli eriduzione dei settori di lotta a un unico fronte terrestre,quello orientale. Perdite inflitte al nemico: molti morti, moltiferiti, 500 prigionieri, la cattura di tutti i semoventi, quindicimezzi da sbarco distrutti, una ventina di autocarri catturati.Perdite nostre: molti morti e molti feriti in tutti i reparti, duecompagnie del II battaglione del 17° Fanteria distrutte, unasezione da 70/15 sul «Telegrafo» distrutta. Nella notte stessail generale Gandin trasmise al Comando Supremo ilbollettino del primo giorno di lotta e i successi ottenuti dallenostre armi. Contemporaneamente indirizzò un messaggiodi elogio al presidio di Corfù per aver tutelato contro itedeschi l’onore delle armi italiani”.

Purtroppo però, come scrive lo stesso don Ghilardininelle sue memorie: “in quella sera, proprio per l’asprezzadei combattimenti e le alterne vicende del loro sviluppo,nessuno avvertì la portata del successo conseguito. Bastava,infatti, data la situazione, dar corso immediatamenteall’inseguimento con il I/17° non ancora impiegato e loscontro si sarebbe concluso. Verso la mezzanotte, data lasituazione, giudicata molto critica il comandante del XIICorpo d’Armata tedesco dati gli sviluppi, si vede costrettoa differire l’attacco a Corfù programmato per il 17settembre, di disporre il concentramento di due battaglionie di un gruppo di artiglieria a Prevesa, di chiedere ilconcorso di tutti i cacciabombardieri disponibili per il

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sostegno delle operazioni in corso sull’isola di Cefalonia.Infine, sollecitare il concentramento a Prevesa di tutte leunità navali disponibili per provvedere al trasferimento deirinforzi da Prevesa a Cefalonia. Questi rinforzidetermineranno le sorti della battaglia e il capovolgimentodel fronte della vittoria a favore dei tedeschi.

16 settembre 1943

Fu una giornata di bombardamenti senza sosta da partedegli aerei tedeschi e dell’incendio di Argostoli. Il generaleGandin predispose per il giorno seguente un attaccoconvergente da sud da parte del I/17° e del III/317° Fanteriamentre da est da parte del II/317° e da Nord-Est del I/317°Fanteria per la riconquista di Kardakata. Intanto, ingiornata, dal Comando Marina di Corfù fu rivolto alComando Supremo una prima richiesta di concorso aereosottolineando come la resistenza sarebbe stata possibile solocon l’appoggio dei caccia italiani.

L’attacco degli Stukas tedeschi invece durò dalle 6 alle 19così come testimoniò a Moscardelli il capitano Bronzinimentre sul fronte terrestre non ci furono combattimenti dirilievo. Nella mattinata, secondo le informazioni fornite dalcapitano Bronzini dal comando della divisione fu presoanche in considerazione l’apporto che i greci potevano darenel conflitto, soprattutto molti ex ufficiali dell’esercito grecoche risedevano a Cefalonia e che cercavano di essere ricevuticontinuamente dal generale che decise di impiegarli comevolontari per il servizio informazioni “non sembrandoglileale verso il nemico assumere apertamente i greci fra leproprie formazioni”27.

17 settembre

Nelle prime ore del mattino la disposizione degli italianisi distribuì nel seguente modo: il I battaglione del 17°

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Fanteria nella zona nord di Pharsa; il II battaglione del 317°a nord di Davgata; il III battaglione del 317° a nord diMonte Rizocuzolo.

L’azione più aspra, però, restò quella del I battaglione del317° Fanteria che fu sorpreso attorno a Ponte Kimoniko. Inpratica questo battaglione avrebbe dovuto “muovere” verso lazone di Sant’Eufemia alle 6 del mattino in contemporaneaall’inizio dell’azione sul fronte di Pharsa. Il punto più delicatoera rappresentato dal ponte sul Kimoniko alle spalle deitedeschi che stazionavano ad Ankona. Tuttavia, a seguito didifficoltà nella manovra l’autotrasporto iniziò tardi e, una voltagiunti sul ponte Kimoniko il I battaglione del 317° dovettefermarsi perché il ponte era stato interrotto dai tedeschi e inpiù perché una squadriglia di Stukas attaccò l’autocolonnadistruggendo materiale e disperdendo gli uomini.

Solo nel pomeriggio nonostante gli attacchi degli aerei dellaLuftwaffe riuscì a schierarsi nell’area sud-ovest di Kimoniko,ma nonostante tutto fu quasi completamente distrutto. Dalleinformazioni fornite dal capitano Bronzini “il generale Gandininviò alcuni ufficiali del comando di divisione a perlustrare lazona dove era avvenuto lo sfacelo del I battaglione del 317°Fanteria. Essi dovevano raccogliere i dispersi e recuperaretutto il materiale possibile. In queste operazioni trovò la morteil tenente di fanteria di complemento Michele Sablum, il qualeriuscito a recuperare e organizzare quasi un plotone, si scontròcon forze tedesche nei pressi del ponte Kimoniko. Caddecolpito al petto da raffica di mitragliatrice mentre incitava isoldati a resistere ed egli stesso si era messo a un’arma insostituzione di un servente ferito”. La manovra che fu tesa adaggirare a nord le posizioni dell’obiettivo sensibile eimportante di Kardakata fallì.

“Nel pomeriggio – testimoniò il capitano Bronzini – giunsela prima risposta del Comando Supremo ai nostri bollettini. Ilgenerale Ambrosio elogiava il contegno della divisione. Questoelogio venne trasmesso alle truppe con un adeguato commento

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del generale Gandin. Intanto il generale continuava a chiedereal Comando Supremo l’intervento dell’aviazione e l’invio dimunizioni già quasi esaurite, specie quelle per i mortai. In tregiorni di combattimento non ci era giunto alcun aiuto nérifornimento”. Tutto ciò senza dimenticare l’incessante attaccodegli Stukas sulle forze italiane in tutto il teatro operativo.

Per ciò che riguarda quel che rimase del I battaglione del317° ripiegò su Divarata. I soldati italiani di questo battaglionefurono attaccati da tutti le parti alle prime ore dell’alba del 18settembre dai tedeschi. Inutile dire che ci furono molti episodiin cui ufficiali, sottufficiali e truppa si distinsero, dal capitanoVerro, al sottotenente Marano, dal sergente Occhipinti, alsergente Belluca, dai caporali Busin e Asta ai fanti Sessa eSozzi. Tantissimi episodi di valore insomma sotto il profiloindividuale come quelli del caporal maggiore Tortora, delsergente maggiore Pentasuglia, del sottotenente Tummino, isottotenenti Boccacchi, Quattrone e moltissimi altri.

Intanto, per la cronaca, il tenente colonnello Barge,sollevato dall’incarico, fu sostituito nella direzione delleoperazioni dal maggiore von Hirshfeld che, insieme algenerale Hubert Lanz, prepararono il piano di attaccodecisivo da realizzarsi il 21 settembre prevedendo l’impiegodi due raggruppamenti di forze: a Ovest della rotabilePhalari-Dilinata-Faraclata, CMX battaglione granatieri diarresto e I/724° battaglione cacciatori, col compito diattaccare frontalmente le posizioni italiane; a Est dellasuddetta rotabile, il Gruppo tattico Klebe comprendente ilIII/98° e il LIV battaglione cacciatori di montagna colcompito di avvolgere di sorpresa, ad ampio raggio.

I tedeschi in queste ore lanciarono i volantini cheinvitavano le truppe italiane ad arrendersi.

18 settembre 1943

La situazione che si era venuta a creare era evidente echiara. Dopo gli avvertimenti dei tedeschi tramite i volantini

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lanciati dagli Stukas, Gandin disse: ”Se perdiamo cifucileranno tutti. Io li conosco bene”28.

Il II battaglione del 317° Fanteria, giunto a Kardakata,nonostante gli attacchi tedeschi con mitragliatrici e aerei,mantenne le posizioni fino al pomeriggio quando,contrattaccato dai tedeschi fu costretto a ripiegare congrosse perdite di uomini e pezzi. Il III battaglione del 317°Fanteria invece si diresse verso Kuruklata e riuscì a farebreccia sui nemici tedeschi con un’azione condottamagistralmente dal capitano Pantano.

I combattimenti più sanguinosi si svolsero casa per casa.Un vero e proprio assalto alla baionetta. Al fianco delcapitano Pantano c’era anche il tenente Freddi e ilsottotenente Caleca che, ferito mortalmente durante unassalto alla baionetta, secondo le ricostruzioni di donGhilardini, mormorò al fante Minella accorso per sottrarlodalla mischia: ”Lasciami morire fra i miei soldati”.

Dopo il susseguirsi di violenti scontri, nel corso dei qualile posizioni di Kuruklata furono tre volte occupate e tre volteperdute, il III battaglione del 317° fu costretto a ripiegare.

Sono questi episodi che faranno prendere la decisione alComando Supremo delle Forze armate tedesche diordinare, secondo quanto si legge (da più fonti pubblicatedurante gli anni e in occasione degli anniversari e dellecommemorazioni, NdA) nel Diario di guerra del ComandoSupremo tedesco, al comandante in capo del Fronte Sud Est distanza a Belgrado che “a Cefalonia non venga fatto alcunprigioniero italiano a causa dell’insolente e proditoriocontegno da essi tenuto”.

Nella tarda serata del 18 settembre il generale Gandin,secondo la ricostruzione di don Ghilardini, inviò a Brindisicon un motoscafo della Croce Rossa Italiana il sottotenentedi vascello Vincenzo Di Rocco per prospettare al ComandoSupremo la situazione e sollecitare l’intervento di forzeaeree. La missione, purtroppo, non avrà nessun esito29.

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19 settembre 1943

Fu una giornata in cui entrambi gli schieramenti siriorganizzarono nonostante nella notte ci fu il tentativoitaliano di conquistare con un battaglione Capo Munta, unpresidio della Marina tedesca fornito di stazione radio. sirisolve con un grave insuccesso. L’azione fu affidata a unbattaglione guidato dal maggiore Oscar Altavilla.

“Nel pomeriggio del 18 – raccontò il capitano Bianchi aGiuseppe Moscardelli – io, travestito da civile greco assieme aun greco della zona, entrai nel caposaldo di Capo Munta qualevenditore di frutta. Ebbi così modo di osservare le postazionidelle armi e la resistenza degli ostacoli”.

La sera alle ore 23.30, proseguì l’ufficiale “ebbe inizio lapreparazione di artiglieria e alle 24 passammo all’attacco”.E poi: “Il terreno era sfavorevole per l’attaccante perchépianeggiante e senza alcun riparo. Pur tuttavia ciportammo sotto al caposaldo assai velocemente e circa alleore 3 giungemmo sotto i reticolati. L’effetto dei nostrimortai su questi era stato minimo e fummo quindi costrettia ricorrere alle pinze”30.

I tedeschi si accorsero e reagirono servendosi di mitragliereda 20 mm. “Alle ore 4 circa, – proseguì nel racconto il capitanoBianchi, – parte del mio secondo plotone poteva penetrarenel caposaldo. Ma veniva immediatamente contrattaccato ecostretto a ripiegare. Ma circa un’ora dopo tutta la miacompagnia penetrava nel caposaldo. Si combatteva tra urla edetonazioni, all’arma bianca e a bombe a mano, con graviperdite da ambo le parti. a un tratto una bomba da mortaiotedesco da 50 mi cadde vicinissima. Intesi una vampata allafaccia e caddi disteso a terra. Ero colpito alla gamba destra, albraccio destro e alla testa”.

Sembrava fatta. Invece arrivarono gli Stukas chepuntarono sui soldati italiani completamente scoperti. Dasottolineare, qui, che il capitano Apollonio dichiarò aMoscardelli: “L’azione finiva disastrosamente nel sangue. I

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patrioti greci, che dovevano partecipare all’azione, almomento buono si erano dileguati. Sotto Capo Muntaperirono 150 uomini. I feriti rimasti sul terreno vennerofatti fucilare dal tenente tedesco Rademaker, al quale fuconcessa la croce di ferro. Le salme non furono sepolte, mafatte sparire con altri sistemi”31.

Scrive ancora Moscardelli riprendendo le parole delcapitano Bronzini: “Nella notte tra il 18 e il 19 pervenne dalComando Supremo un telegramma col quale venimmoinformati che nella giornata del 18 duecento bombardieriamericani avevano bombardato l’aeroporto di Araxos. Lanotizia, comunicata alle truppe il mattino del 19, sollevòl’animo dei soldati i quali erano depressi non solo per gliincessanti bombardamenti quanto anche, e soprattutto, peressersi visti privi di aiuti dall’Italia e abbandonati neimomenti più duri della lotta”. Aggiunge inoltre Bronzini:”L’assenza della nostra aviazione e la mancanza di quegli aiutidall’Italia sui quali, all’inizio della lotta, tutti avevamo ripostomolta fiducia furono i fattori che, uniti a tutti gli altri,indebolirono lo spirito del nostro soldato. L’inferiorità nostraera ormai evidente”.

Il generale Gandin nel frattempo dà luogo a un ulterioreriposizionamento della situazione in campo e ciò comportaaltri due eventi bellici di rilievo: il lancio da parte tedesca divolantini che invitano alla resa in cui viene rivolto ai soldatiitaliani di “passare subito ai tedeschi” e che “è l’ultimapossibilità” di salvezza”32.

L’altro fattore rilevante è la richiesta di concorso aereoavanzata dal generale Gandin al Comando Supremo. Silegge: “Occupazione tedesca limitata Lixuri – Capo MuntaAlt Urge intervento Caccia onde eliminare eventualesbarco Alt”, e la deludente risposta: “Impossibilità invioaiuti richiesti infliggete nemico più gravi perdite possibiliAlt Ogni vostro sacrificio sarà ricompensato AltAmbrosio33”.

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20 settembre 1943

La giornata del 20 settembre passa con il perfezionamentoda entrambe le parti del dispositivo di offesa. Italiani etedeschi sono pronti alla tornata finale di quella che è statadefinita la “guerra di Cefalonia”.

21 settembre 1943

A Kardakata l’artiglieria iniziò a prepararsi intorno alle5.30. Per le 6 fu stabilito l’attacco. Secondo le informazionifornite dal capitano Bronzini “il generale, con il capo di statomaggiore e con altri cinque ufficiali del comando delladivisione si recò a Dilinata. L’osservatorio del comando delladivisione era allestito sulla sommità della collina chedominava il paese”.

Secondo la ricostruzione fornita dal cappellano militaredon Luigi Ghilardini “i tedeschi iniziano i movimenti diattacco già da dopo mezzanotte precedendo l’ordined’attacco italiano previsto invece alle 6.30”.

Il battaglione cacciatori sorprende sul fianco e sul tergo ilIII battaglione 317° pronto per l’attacco a Kardakata,neutralizzandolo e costringendolo alla resa.

Ecco quel che accadde nel racconto del capitanoApollonio reso a Moscardelli: “Il terzo battaglione del 317°aveva appena iniziato la manovra di avvolgimento, quando,improvvisamente, gli elementi più avanzati cominciaronoa gridare: i tedeschi, i tedeschi. Era proprio vero: durantela notte, due grossi battaglioni di alpini germanici – sbarcatinei giorni precedenti nella baia di Kiriaki – da Ankonaavevano raggiunto Phalari indi, avanzando lungo la stradaPhalari – Dilinata, erano passati a oriente del Dafni, e qui,fatti prigionieri senza colpo ferire alcuni elementi del terzobattaglione del 317°, avevano proseguito l’avanzata finsotto il Rizocuzolo. Il comandante del battaglione fu cosìsorpreso in pieno”.

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Intanto gli Stukas iniziarono il bombardamento dal cielomentre si interruppero tutti i collegamenti telefonici. Il IIIbattaglione del 317° dopo circa un’ora di combattimento siarrese. Anche il I battaglione del 317° nonostante lo sforzooffensivo fu sorpreso dai tedeschi. Stessa fine anche per il IIbattaglione del 17° Fanteria che finì letteralmente accerchiato.

Da rilevare il comportamento del sottotenente EttoreFerrari della 5a compagnia del II battaglione del 317° che,per ben due volte ferito, nel momento in cui i resti delbattaglione si raccoglievano al fine di ricongiungersi agli altrimilitari per un contrattacco, si fece trascinare con unamitragliatrice su una zone elevata del monte Kutsuli eproseguì da solo a sparare contro i tedeschi. Non fece sortediversa il ricostituito I battaglione del 17° che doveva teneresul fronte di Pharsa. Fu annientato dalla Luftwaffe.

Sono ore di confusione, di tensione e di angoscia che sipossono leggere nel racconto che il capitano Bronzini fece aGiuseppe Moscardelli: “I tedeschi avanzavano ormai lungotutto il fronte, dal Rizocuzolo al mare. Le nostre fanteriesono state travolte e si sono date, terrorizzate, a precipitosafuga. Io mi trovo al comando tattico di Prokopata, unicoufficiale colà rimasto, essendo gli altri ufficiali, col generaleall’osservatorio di Dilinata. Verso le 10 arriva la macchinadel generale: c’è solo l’autista, il quale mi racconta che ilgenerale e gli altri ufficiali sono stati circondati e fattiprigionieri; lui solo, sceso sulla strada, vi ha trovato lamacchina ed è riuscito a fuggire, “Io capisco che ormai èfinita per la mia divisione, l’unica linea telefonica che ancorafunziona è quella del generale Gherzi: mi metto incomunicazione, ma mi rispondono che il generale è ancorasul luogo della lotta. Che fare? Do fuoco a tutto il carteggiodella divisione (ad eccezione dei documenti riguardanti letrattative dall’8 settembre in poi) ai cifrari, alle pubblicazionisegrete. Chiamo a raccolta elementi della compagniacarabinieri e predispongo la difesa vicina al comando della

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divisione. A firma del gen. Gandin invio al ComandoSupremo il seguente appello: Nemico appoggiato daviolentissima azione aerea avanza rapidamente su tutto ilfronte, urge immediato invio caccia et bombardieri”.

Ormai con in mano la vittoria, i tedeschi si diedero alrastrellamento e alle fucilazioni sul posto non appenafacevano prigionieri italiani. Tra questi il maggiore ItaloGalli del 317° che non volendosi arrendere a pochi passidall’arrivo dei tedeschi estrasse la pistola e si sparò. È soloun episodio tra tantissimi altri che si consumarono in quellache fu ricordata come la più grande tragedia della Secondaguerra mondiale dopo l’8 settembre 1943.

Fu questa l’ultima fase della battaglia dove l’iniziativadelle operazioni fu presa dai tedeschi e condusserapidamente alla presa e alla distruzione dell’artiglieria edelle tre batterie del primo colpo, in particolare della 5a edella 3a che a Dilimata resistettero fino allo spasimo,offrendo alla Patria il sacrificio di 180 uomini, tra i quali iltenente Ambrosini, i sottotenenti Zanassi, Pillepich, DiCarlo, Tognato, il caporal maggiore Maffeis34”.

I tedeschi proseguirono con il Gruppo tattico guidato daKlebe su per la zona montana, piombando di sorpresa suiservizi divisionali a Frankata e Valsamata mentre ilraggruppamento Hartman rotta la resistenza del Ibattaglione del 17° Fanteria conquistò Pharsa, Davgata,Pharaklata a quattro chilometri da Procopata dove si trovavail comando tattico del generale Gandin.

22 settembre 1943

La conclusione della battaglia fu raccontata mestamentedal capitano Bronzini a Moscardelli: “Gli eventiprecipitarono. All’alba i tedeschi hanno ripreso violento ilbombardamento aereo su tutta l’isola. Le nostre truppe sulfronte da Pharaklata al mare, dopo strenua resistenza,hanno ceduto. C’è di più: colonne tedesche hanno compiuto

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durante la notte un aggiramento più largo. Attraversandole montagne della catena dell’Aenos, hanno occupato laconca di Valsamata e nella mattinata sono già quasi aKeramies. Il generale decide di chiedere la resa. Invia inmacchina il capitano Saettone, con l’interprete capitanoTomasi, a parlamentare con i tedeschi. Sulla sede delcomando della divisione viene issata bandiera bianca. Sonole 11 del 22 settembre. I nostri parlamentari vengonoammessi a parlare con un maggiore degli alpini tedesco.Questi accorda la resa senza condizioni e invia unsottotenente dal generale Gandin per trattare le modalità.Gli aerei tedeschi cessano il bombardamento e abbandonanoil cielo dell’isola. Un silenzio di tomba cade su tutta l’isola.La battaglia di Cefalonia è finita”35.

Dal 15 al 22 settembre gli atti di valore dei soldati della Acquifurono molti. La mattina del 15 settembre 1943 secondo variefonti il generale Gandin si tolse dalla giubba la croce di ferrotedesca ricevuta per meriti nella cooperazione con gli exalleati. L’aveva tenuta indosso durante i giorni delle trattative.

Gandin successivamente riceverà alla memoria la Medagliad’Oro al valore militare con la seguente motivazione: “Indifficile posizione politica-militare comandante della difesadi un’isola, attaccato con forze preponderanti dal mare e dalcielo riusciva con le poche forze a sua disposizione, in unprimo tempo a stroncare l’azione nemica, successivamentea contenere palmo a palmo l’avanzata dell’avversario,sempre più crescente e in forza, animando con valore e concapacità professionale le sue truppe sino alla estremapossibilità di resistenza. Catturato dal nemico coronava colsupplizio stoicamente rapportato, l’eroismo e l’alto spirito dicui aveva dato luminosa prova in combattimento”.

Disse padre Formato a Moscardelli durante la suatestimonianza: “Con ogni probabilità, i tedeschi avevanoricevuto l’ordine di annientare, a lotta finita, l’intera divisioneo di decimarla in larghissima scala. Sta di fatto che fin dal

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mattino del giorno 21, di mano in mano che i reparti italianicominciavano ad arrendersi, venivano in gran parteannientati. Gli ufficiali venivano condotti in luoghi appartatidalla truppa. Gli ufficiali venivano trucidati, la truppalargamente decimata. Persino la 44a sezione di sanità, i cuisoldati portavano al braccio la fascia della Croce Rossa, fucondotta in luogo appartato e quasi completamenteannientata: di novanta uomini ne sopravvissero unaquindicina. L’opera di decimazione dei reparti – proseguìpadre Formato nel suo racconto – continuò anche dopo laresa ufficiale del comando di divisione, per tutto il pomeriggiodel 22 e per tutta la giornata del 23”.

Padre Duilio Capozzi, cappellano militare della 44a

sezione di sanità, raccontò ogni drammatico atto della finedella sua sezione proprio nella testimonianza raccolta daMoscardelli a pagina 99 del testo stampato a Roma nel1945. In queste pagine, nel racconto sulla “fine della 44a

sezione di sanità” il capitano Pampaloni racconta ciò cheavvenne nella sua batteria all’arrivo dei tedeschi fino almomento in cui fu sparato da un capitano tedesco emiracolosamente sopravvissuto in quanto i militarigermanici lo credettero morto.

È veramente drammatico, poi, il racconto del sottotenenteBeretta del 317° Fanteria: “Vengo fermato, io e i miei uomini,da una pattuglia tedesca. Ci viene chiesto: ci sono ufficiali?Rispondiamo negativamente. Allora ci danno ordine dideporre in mezzo alla strada tutte le armi e di proseguire perArgostoli, senza scorta. Durante il percorso non si vedono checadaveri di soldati di ogni arma nelle più diverse posizioni.Molti hanno ancora l’elmetto in testa e lo zaino sulle spalle.Molti sono completamente denudati col corpo intriso disangue. Giungo e supero Phrankata. Siamo a 2 km da passoColumi. A un tratto da un cespuglio esce un fanciullo grecodi poco più di dieci anni e mi dice: non passate per Columi,là fucilano tutti. Stamane qui, a Phrankata, hanno fucilato

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tutta la sezione di sanità e altri soldati che si trovavano conessa. Decido allora di cambiare itinerario. Giungo ad Argostoliverso la mezzanotte – prosegue Beretta nel suo racconto –veniamo circondati da una pattuglia tedesca, ma io e ilsergente maggiore Mucci riusciamo a fuggire. Io mi dirigopresso una famiglia che conoscevo. Busso, ma mi apre unsoldato tedesco che mi afferra e mi chiede se sono ufficiale.Gli rispondo che sono un soldato semplice. Egli allora mispinge col calcio del fucile in una stanza chiudendomi dentro.Durante la notte mi vengono a interrogare un maresciallotedesco e un interprete, tedesco anche lui. Ma quest’ultimoha un viso umano; appena può mi dice: parla poco, dìsolamente che sei soldato. Se ti scoprono che sei un ufficialevieni fucilato e buttato nel pozzo del cortile come è accadutopoco fa a un ufficiale di marina.

A mezzogiorno del 23 vengo nuovamente interrogato. Mami si pone il dilemma: o divenire soldato tedesco od ilcarcere. Rispondo che mi sentirei onoratissimo di diveniresoldato tedesco ma che sono costretto a scegliere il carcereper ritrovare alcuni miei amici molto cari. Vengoaccompagnato nel carcere. Raccomando a tutti di nonsvelare la mia qualità di ufficiale. Qui trovo il sottotenenteMazzarino, del mio reggimento, anch’egli in panni disoldato. Ogni tanto i tedeschi vengono in cerca di ufficialima non riescono a identificarci”3.

Da numerose pubblicazioni e testimonianze sembra che ilmaggiore tedesco von Hirshfeld abbia intimato ai suoisoldati: “Miei alpini, le 24 ore che seguono viappartengono”. Tra le condizioni di resa c’era quella che gliufficiali del comando della Acqui col bagaglio personale e unattendente a persona dovevano trasferirsi ad Argostoli. Cosìfu. La macchina del generale Gandin in testa e le altreautomobili con a bordo gli ufficiali del comando daKeramiaes giunsero all’ex comando della Marina diArgostoli e furono fatti salire all’ultimo piano.

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23 settembre 1943

La sera del 23 settembre la corte marziale condannò a morteGandin e venti suoi ufficiali accusati di ammutinamento. Il suoultimo tentativo di parlare con il quartiere generale del Führerfu respinto e il mattino seguente, il 24 settembre 1943, ilplotone di esecuzione procedette alla fucilazione.

Così il capitano Bronzini raccontò a Moscardelli gli ultimiistanti insieme a Gandin: “Il mattino del 24 il capo di statomaggiore entra nella stanza occupata da me e dai capitaniSaettone e Carocci e ci dice: un sottotenente tedesco è venutoora a prendere il nostro generale. Sono le 7.30. Un brivido ditristezza ci corse per il sangue e per l’anima. Ci guardammoin viso, colpiti dal dolore di questa separazione. Alle ore 8 ilcapo di stato maggiore ritorna: presto – dice – sono venuti achiamare anche noi. L’interprete ha detto che dobbiamoandare al comando tedesco per essere trasferiti in un altroluogo dove ci assicura che staremo meglio. Intanto gliattendenti trasporteranno là il bagaglio personale”.

Così il capitano Bronzini e gli altri salgono su delleautocarrette che li condurranno verso punta San Teodoro.Anzi, la doppiano per proseguire a sud, sulla strada diLardigo. A un km sotto San Teodoro c’è una piccola villettarossa distrutta dai bombardamenti dei giorni precedenti checonserva ancora intatto l’alto muro di cinta che circonda ilgiardino. Il ricordo del capitano Bronzini: “Le autocarrette sifermano davanti al cancello. Soldati tedeschi armati di mitraci fanno entrare nel recinto. Intanto giungono, l’una dietrol’altra, altre autocarrette che scaricano a decine ufficiali di ogniarma: tutti quelli che sono stati fatti prigionieri durante icombattimenti o si sono arresi, a capitolazione avvenuta, il 22”.

La strage fu orrenda: seicento soldati tra cui moltiufficiali furono falciati a raffiche di mitragliatrice, mentrealtri 360 ufficiali giustiziati a gruppetti. Gli uominimassacrati dalla furia vendicatrice tedesca furonocinquemila, 1.200 i caduti in combattimento. Ad aggravare

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il bilancio della tragedia si aggiunse l’affondamento, acausa delle mine, di tre dei piroscafi che avrebbero dovutotrasportare i superstiti nei lager tedeschi.

A Rodi, l’ammiraglio Campioni era ancora in trattative coni tedeschi. Ma il suo interlocutore, il generale Kleeman, tiravasolo a guadagnare tempo. Mentre gli inglesi facevano sapereche prima del 15 settembre non avrebbero potuto far niente,gli Stukas tedeschi si avventarono su Rodi e Campioni sirassegnava alla resa. Più ostinata fu la lotta a Lero e a Samodove erano sbarcati anche contingenti inglesi e dovel’ammiraglio Luigi Mascherpa era risoluto a non cedere. Unaresistenza, questa, che fu la firma della condanna a morte diMaschera e dei suoi uomini. Solo in Sardegna e in Corsica lavicenda armistiziale ebbe esiti meno terribili: al generaleBasso, comandante superiore in Sardegna, il comandantetedesco della 90a Divisione aveva chiesto semplicemente dilasciargli libero il passaggio per portare le sue truppe verso ilcontinente attraverso la Corsica.

Nel corso della “battaglia di Cefalonia” erano caduti incombattimento 65 ufficiali, 1250 sottufficiali e soldati; a seguitodi esecuzioni sommarie sul campo 189 ufficiali e oltre 5milasottufficiali e soldati. Secondo alcune cifre ufficiali, il capo diStato Maggiore della Wehrmacht, Jodl, dopo l’8 settembre siè vantato di aver disarmato circa ventinove divisioni (solo tresarebbero state quelle non disarmate); e di aver fatto 547milaprigionieri, di cui 34.744 ufficiali; oltre ad aver sottoposto isoldati italiani a grandi sofferenze e umiliazioni. Quelli che nonfinirono nei campi di concentramento tedeschi furono ridottiin schiavitù dovunque si trovassero. Il 4 gennaio 1944 LuigiBolla annota sul suo diario che “a Belgrado i nostri soldati siaggirano in condizioni pietose, mentre persino i russi sono statirivestiti con le uniformi trovate, tra enormi quantità di altromateriale, nei nostri magazzini militari in Serbia. Essicompiono i lavori più umili, affamati e laceri come sono, perguadagnarsi di che non morire”.

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Unica eccezione alla durezza di questo trattamento ful’umanità delle popolazioni che diedero protezione e rifugioagli sbandati.

24 settembre 1943

Alle 7.00 a San Teodoro, dietro la ormai triste e famigerata“Casetta Rossa” venne fucilato il generale Antonio Gandine gli altri ufficiali della Acqui.

Questo il racconto di padre Formato a Moscardelli: “Lamattina del 24 verso le 7, vediamo il generale partirebruscamente prelevato da un ufficiale tedesco. Ci vienecomunicato che dobbiamo tenerci pronti per subire uninterrogatorio, alle 8, presso un comando tedesco. Alle 7.45ci riuniscono tutti e ci fanno salire su varie autocarrette. Unasentinella tedesca vedendomi in veste sacerdotale col braccialedella Croce Rossa vorrebbe impedirmi di salire. Ma unufficiale presente alla scena fa bruscamente cenno che salgaanch’io con gli altri. L’episodio, dal modo come si svolge, ponenell’animo mio e degli altri un presentimento angoscioso.Tuttavia si è quasi tutti sereni. Le autocarrette oltrepassanol’ospedale civile, la polveriera, le ultime abitazioni di Argostoli,filano veloci dietro la penisola di S. Teodoro dove sappiamoche altro non c’è che deserto roccioso. A una rustica villettasolitaria di color rosso ci addossano al muro di cinta. Di frontea noi una decina di soldati tedeschi indossano l’elmetto dicombattimento e imbracciano il mitra. Tutti allora cirendiamo conto della situazione”.

Sulla sorte del generale Gandin riferì a Moscardelli inmodo più dettagliato il capitano Bianchi: “Alle ore 15 del 24settembre entrava in ospedale il tenente tedesco Eric Deetz,ferito a un braccio il giorno 16, il quale ci comunicava che ilgen. Gandin era stato fucilato nella mattinata”.

Il capitano Bronzini commentò così la triste fine delcomandante di divisione: “Dal momento in cui il generaleGandin fu separato dagli ufficiali nessuno degli italiani né dei

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greci l’ha più visto. Un soldato tedesco, nello stessopomeriggio del 24 settembre, mi disse che il generale Gandinera stato fucilato al mattino presto, da solo, e primo di tuttala serie degli ufficiali italiani fucilati in quel giorno. La stessacosa, in tempi diversi, ripeterono altri soldati tedeschi e altriufficiali italiani”. Stessa “confermò pure il caporal maggioreCastellani, autista del generale, che si era subito interessatopresso i tedeschi della sorte del suo superiore. Il tenentecolonnello medico Briganti parlò, in proposito, con tenentemedico Helmotz, dirigente il servizio sanitario tedesconell’isola. L’Helmotz ha dunque detto al tenente colonnelloBriganti che il gen. Gandin fu fucilato il mattino del 24settembre. Fu la prima esecuzione della giornata. Il generaleera solo. Il medico Helmotz presenziò per ordine del suocomando, all’esecuzione e constatò il decesso”.

Dalle 8.30 alle 12.30 di quel giorno giunsero in quel postole autocarrette che portarono alla rinfusa coloro che eranodestinati alla fucilazione. Qui li accolse il cappellano militarepadre Romualdo Formato prima dell’esecuzione a gruppidi otto o di dodici alla volta.

“Venivano accompagnati fuori dal recinto. Subito dopo sisentiva la breve scarica di fucileria” ricordò padre Formatonella sua testimonianza. Un sottufficiale tedesco sipreoccupava di prendere i nomi dei “condannati” mentreFormato cercava di sottrarre qualcuno alla morte. Ma larisposta era quasi sempre la stessa:” Tradimento Badoglio.Tutti a morte. Questo è l’ordine”.

Quegli attimi, quei momenti vissuti da padre Formatosono ben descritti nel libro L’Eccidio di Cefalonia. La tragicatestimonianza dell’isola della morte (Roma, Donatello De LuigiEditore, 1946).

La memoria di quella che da più parti fu definita “strage”,“eccidio”, “massacro” e così via fu animata dai superstiti edalle associazioni combattentistiche e dei reduci, ma anchesingolarmente dai parenti dei caduti. Lo stesso padre

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Formato raccontò a Moscardelli come si arrivò alla “grazia”di 37 ufficiali che, come il capitano Bronzini, si salvarono dafucilazione sicura. Dice padre Formato: “Come potreidescrivere le strazianti scene che mi dilaniarono l’animo inquelle quattro ore di martirio?”.

Ogni volta che si presentavano le vittime Formato rinnovavale preghiere e le assoluzioni. I tedeschi lo lasciavano fare. Poiun ufficiale tedesco, con l’aiuto di un interprete comunica chetutti gli ufficiali delle provincie di Trento, Belluno, Bolzano,Merano sono graziati. Si vedono scene come quella di untenente colonnello di fanteria di complemento che mostrò aitedeschi una fotografia in cui egli, in divisa di console dellamilizia, è a fianco di Mussolini. Un episodio che apre unosquarcio tra i tedeschi che prendono in considerazionequesti titoli. Tuttavia, come emerge dai racconti furonoappena una decina gli ufficiali che, in virtù di documentifascisti, furono messi da parte e piantonati.

Infine l’episodio conclusivo descritto a Moscardelli dallaviva voce di padre Formato: “Erano le tredici quando, percaso, posai lo sguardo sul volto del sottotenente tedesco. Viscorsi un senso di stanchezza e di terrore. Aveva le occhiaiecerchiate e gonfie”. Allora padre Formato si avvicinò a lui econ le mani in alto disse: “Pietà! Pietà! Signor tenente, viprego salvatemi almeno questo ultimo gruppo! Sono ormaiquattro ore che fucilate! Basta, basta! Pietà in nome di Dio!Altro non potei dire, perché caddi in ginocchio e disperatisinghiozzi mi scossero il petto. Il mio pianto – proseguì nelracconto Formato – forse contribuì a commuoveremaggiormente l’ufficiale”. Poco dopo si accostò al prete ilsottufficiale interprete e, battendo ripetutamente la manosulla spalla di padre Formato disse: “Buono, buono! Oral’ufficiale andrà a chiedere la grazia al comando tedesco”.Un senso di fiducia, ricordò Formato “mi balenò nell’animo.Ma pensai subito di far chiedere collettivamente allaMadonna conferma alla mia speranza”.

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Le fasi di quegli attimi, poi, proseguirono con il raccontodi uno dei testimoni: il capitano Bronzini che ricordò aMoscardelli: “Padre Formato si avvicinò al gruppo disuperstiti, molti dei quali erano in pianto, e disse: fratelli,coraggio. Recitiamo tre Ave Maria alla Madonna perchériesca questo ultimo tentativo! Tutti assieme, ad alta voce,implorammo: prega per noi peccatori. E attendemmopregando il ritorno dell’ufficiale tedesco”.

Dopo circa mezz’ora l’ufficiale torna e attraversol’interprete comunicò che “il comando tedesco concede lavita a quelli che sono qui presenti”. Padre Formato strinsela mano all’ufficiale e proruppe in un nuovo e irrefrenabilepianto. “Noi ultimi rimasti – raccontò il capitano Bronzini –ci guardammo in volto. Poi ci contammo: eravamo tredici,più don Formato quattordici. Si unirono a noi gli ufficialitrentini e quelli discriminati per meriti fascisti: siamo in tuttotrentasette. Dalle 8:30 alle 13:30 sono passati per il cortiledella Casa Rossa circa quattrocento ufficiali: siamo rimastiin vita segnati per sempre nell’anima, soli trentasette”.

25 settembre 1943

Gli ufficiali scampati all’eccidio furono portati nei localidell’ex mensa del comando della Acqui per restare rinchiusilì fino al 12 novembre per ben cinquanta giorni. In questoperiodo il capitano Bronzini apprese molte cose sulla sortedei militari di truppa della Acqui. Tutte notizie desunte daconversazioni con soldati e sottufficiali italiani con medici ecappellani degli ospedali, da civili greci e da soldati tedeschiche montavano di guardia fuori dagli alloggi.

“Perirono per fucilazione immediata sul campo deibattaglia gli ufficiali del terzo battaglione del 317° Fanteria,gli ufficiali del comando del 17° Fanteria, gli ufficiali del 7°gruppo, da 105/28 – raccontò il capitano Bronzini aMoscardelli – il maggiore Galli, aiutante maggiore in primadel 317° Fanteria, non volle arrendersi e si suicidò. Furono

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fucilati allo stesso modo anche gli ufficiali medici. Nella nottefra il 24 e il 25 settembre, due ufficiali fuggirono dal 37°ospedale da campo. I tedeschi, il mattino del 25 fucilaronoper rappresaglia sette ufficiali ivi ricoverati, tra cui ilmaggiore Filippini, comandante del genio divisionale e ilsuo aiutante maggiore tenente Fraticelli. Gli ufficiali dellaAcqui erano, all’8 settembre 525. Di questi, 37, come hodetto, scamparono alle fucilazioni della Casa Rossa. Sisalvarono pure – perché medici, cappellani, ricoverati inospedale – altri 20 o 25 ufficiali. Un’altra ventina (ciframassima) riuscirono a salvarsi rifugiandosi presso civili greci.Sicché, in totale, gli ufficiali salvatisi, furono 80 a al massimo90. Tenuto conto che un sessantacinque perirono sul campodi battaglia nelle operazioni tra il 15 e il 22, gli ufficialifucilato dai tedeschi fra il 21 e il 25 settembre, furono circa370. La forza dei sottufficiali e truppa, all’8 settembre siaggirava sugli undicimila uomini”.

Questa la versione del capitano Bronzini in quella che puòdefinirsi l’intervista “a caldo” resa a Giuseppe Moscardelli inqualità di uomo incaricato dall’Ufficio Storico dello StatoMaggiore dell’Esercito a raccogliere notizie e testimonianzealla fine della Guerra.

Un documento che, seppur agile e datato 1945, come scriveMoscardelli nella prefazione “è stato scrupolosamente lasciatocosì come quei testimoni lo hanno vissuto e descritto”.Moscardelli prosegue: “Non è quindi una relazione ufficialeod ufficiosa; e tanto meno storia. Le testimonianze a cui hoattinto sono appena nove”.

Il dramma però non finì qui. All’inizio di ottobre del 1943i tedeschi decisero di imbarcare i prigionieri per condurlinei campi di internamento europei. Così organizzarono itrasferimenti attraverso il piroscafo Ardena che all’uscitadel golfo di Argostoli urtò le mine collocate nello specchiod’acqua adiacente il capoluogo di Cefalonia. Poi la volta deipiroscafi Margherita e Maria Marta. Stessa sorte.

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Chi era sui ponti dei piroscafi si salvò nuotando oppurevenne recuperato dai pescherecci greci e ricondotto inprigionia. Dei soldati italiani sopravvissuti al massacro e alnaufragio dei piroscafi, due terzi furono mandati nei campidi prigionia europei, un terzo fu tenuto prigionierosull’isola, obbligato al lavoro coatto. Tra questi ultimi che ilcapitano Apollonio alla guida del così detto raggruppamento“banditi Acqui” che, fino all’estate del 1944, svolsero compitidi sabotaggio e collaborazione con i partigiani dellaresistenza greca.

Nel novembre dello stesso anno il rimpatrio in Italia sunavi inglesi e con l’onore delle armi. Questo fu l’unicoreparto dell’Esercito a tornare in Patria con la propriabandiera, tra i pochi, se non l’unico dei reparti d’oltremare.Gli altri connazionali non riuscirono a tornare in Italiaprima della primavera del 1945.

Sul numero dei caduti, sulle cifre, sulle responsabilità,sulla condotta strategica si è scritto e detto tanto. Ci sonostudi di storici, esperti, giornalisti, cultori di stori e sempliciappassionati che hanno tentato di ricostruire una storiacomplessa dai tanti risvolti.

I punti di vista sono diversi e i più disparati. Sono darispettare però tutte le verità, in particolare quelle deiparenti che per tanto tempo sono stati alla ricerca dirisposte sui tanti perché di Cefalonia, una tragedia che liha strappati per sempre dall’affetto dei propri cari.

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Parte II

Testimonianze

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testImonIanze

angelo emilio: sopravvissuto all’inferno di Kardakata

La fine di agosto del 1943 segna per il 317° Reg.to Fanteria iltrasferimento nell’Isola di Cefalonia, la maggiore delle isole Ionieall’imboccatura del Golfo di Patrasso, con capoluogo la città diArgostoli.

Un luogo considerato obiettivo strategico per diversi motivi. Tra icirca 11mila soldati italiani c’era anche Angelo Emilio, classe 1920,scomparso nell’aprile del 2008 nella sua città, Pozzallo, in provinciadi Ragusa, dove per anni è stato comandante dei vigili urbani finoalla pensione.

Angelo Emilio, insignito della Croce al merito di guerra e a numerosedecorazioni tra le cose più care conservava le lettere di padre RomualdoRomualdo. Con padre Formato, al ritorno a casa dopo la sua prigioniain Russia e in Polonia, ebbe una corrispondenza epistolare che pubblicònel suo diario, stampato in poche copie.

«Devi essere davvero grato a Dio per tutte le grazie che ti ha fatto,specialmente per averti salvato la vita da quella tragica carneficinadi Cefalonia e nei campi di prigionia – gli scrive in una missiva del7 ottobre 1946 padre Romualdo – I voti e le preghiere di tua madresono stati accolti dal Signore e misericordiosamente esauditi».

Diceva Angelo Emilio a commento della sua esperienza aCefalonia: «La storia non si fa da sola. È Dio che la determina egli uomini la costruiscono nella quotidianità. Non sono un filosofoné un teologo, ma penso che occorra “costruire” l’Uomo dal puntodi vista culturale per evitare che l’umanità possa ripetere terribilierrori».

Quella che segue è la sua testimonianza di quei drammatici fattiaccaduti in quel settembre 1943.

«Il sole di Cefalonia era caldo come quello della miaSicilia – ricorda il reduce – il mare azzurro cristallino e lagente accogliente e generosa. Nonostante la guerra avesseportato povertà in tutte le case, i greci conservarono nelperiodo della nostra permanenza uno spirito di caritàcristiana che nella desolazione della guerra ricordava lalezione di Cristo nel Vangelo: “Date da mangiare agliaffamati e da bere agli assetati”».

Alla fine di agosto del 1943 al 317° Reggimento Fanteriache si trovava a Zante arrivò l’ordine di trasferimento aCefalonia, la maggiore delle isole Ionie all’imboccatura delGolfo di Patrasso. L’obiettivo era strategico: concentrare quitutti gli uomini della Divisione Acqui.

«Cefalonia mi colpì subito per la sua bellezza: clima mite enatura incontaminata. E poi la sua popolazione, ancora unavolta ben predisposta nei confronti di noi italiani, che pureeravamo esercito di occupazione. Seppure sfiancati dalla famee dal pensiero della guerra i giorni continuavano a passare inun clima di serenità incosciente – commenta Angelo – dopo losbarco degli Alleati in Sicilia venne a trovarci il generaleAntonio Gandin, il comandante di tutta la Divisione Acqui.Ricordo ancora quell’incontro, le sue mani grandi e sicure equella luce negli occhi che voleva trasmettere speranza.Consegnò a ciascun militare un pacco dono. Quando toccò ame fui subito avvicinato dal tenente Aldo Freddi, ilcomandante della Compagnia. Era curioso di vedere cosaavessi trovato. Secondo lui troppo poco e per questo mi feceavere un altro pacco con lametta, sapone da barba, e unospecchietto. Il suo è stato un gesto semplice che mi è rimastonel cuore quasi da padre che voleva prendersi cura del figlio».

In quella fase a presidiare Cefalonia insieme ai dodicimilaitaliani della Divisione Acqui c’era un reparto di militari

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tedeschi di circa duemila soldati. La convivenza tra i dueeserciti fu pacifica e gli interessi da tutelare comuni, almenofino a quando giunse la notizia che il Governo italiano avevafirmato un armistizio con gli Alleati. Da questo momento laguerra, di cui in Patria si festeggiava la fine, scoppiò come unincubo a Cefalonia. All’atto dell’armistizio i tedeschi preteseroche gli italiani cedessero le armi. Per loro non c’era scelta:accogliere le intimazioni dell’ex alleato e consegnare tutto ilmunizionamento o rifiutare e combattere. Subito iniziaronole trattative: il generale Gandin cercò di mettersi in contattocon il comando di Brindisi chiedendo insistentementerinforzi, soprattutto mezzi aerei per far fronte a un eventualeattacco tedesco. Solo il contrammiraglio Giovanni Galatiricevendo il messaggio di aiuto inviò due torpedinieri, Sirio eClio, carichi di materiale bellico, di pezzi antiaerei e dimunizioni, verso Cefalonia.

«Avrebbero potuto essere la nostra salvezza – dice Angelo –ma la notizia, rivelatasi poi infondata, che l’unico approdonotturno disponibile sull’isola fosse controllato dai tedeschi,fermò l’operazione e i rinforzi raggiunsero solo la vicina isoladi Corfù. Dietro questa scelta pare ci sia stata la volontàdell’ammiraglio inglese Peters che da Taranto dispose il rientrodelle due torpediniere perché avevano salpato le ancore senzal’autorizzazione dei vincitori. Ma i disegni Divini non sonocomprensibili alla mente dell’uomo».

Fallita la missione di soccorso a decidere era rimasto soloil generale Gandin. Ogni trattativa fu inutile e gli italianigiunsero allo scontro armato. La vendetta dei tedeschi nonsi fece attendere. Fu violenta e atroce. I rinforzi alle truppedi Hitler arrivarono dalla terra ferma, ma fu l’intervento deitemuti aerei Stuka a segnare le sorti del conflitto. In brevetempo la Divisione Acqui fu travolta e massacrata. Non si saancora con sicurezza chi abbia dato ai tedeschi l’ordine diattaccare. Tuttavia un fatto è certo: gli ufficiali italiani furonoeliminati contro ogni norma internazionale e i soldati

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sottoposti a decimazione mentre i feriti sul campo nonfurono soccorsi ma fucilati sul posto.

«In quei giorni sotto il cielo di Cefalonia si sono consumatiatti di barbarie umana inaudita – commenta Angelo -. Inpoche ore l’orrore della morte ha stravolto la bellezza diquella terra e l’odore dei corpi senza vita abbandonati sulcampo ha invaso l’aria. Dalla nostra parte avevamo solo ilbuio della notte che scendeva a proteggerci dallo sguardofurioso del nemico. Quello che l’uomo può essere capace dicompiere fa paura e se oggi Dio vuole che io sia qui araccontarlo è perché possa testimoniare il dolore che derivadalla guerra, e da questo si possa comprendere la necessitàdella pace. La vita umana è un dono da custodire non unaproprietà da conquistare. La dignità di ogni individuo èsacra perché Cristo ha insegnato che Dio ha fatto l’uomo aSua immagine e somiglianza. Non si può denigrare la vita:non è ha diritto nessun uomo. Neppure il carnefice hadiritto di essere tale perché anche lui è uomo e anche la suavita è un dono».

La resistenza della guarnigione italiana fu accanita e il 18settembre attirò anche l’attenzione di Hitler chepersonalmente diede ordine di fucilare in combattimentotutti i militari italiani che opponessero resistenza. Moltiufficiali furono colpiti dal fuoco tedesco all’atto della resa,altri rastrellati e trasportati con autocarri alla tristementenota casetta rossa, nella zona di san Teodoro. Qui facendofuoco per quattro ore consecutive il plotone di esecuzionefucilò 146 ufficiali, a gruppi di quattro o sei alla volta. Fusolo dietro le suppliche del cappellano militare padreRomualdo Formato che trentasette ufficiali italiani ebberosalva la vita.

«L’episodio della casetta rossa è tra quelli che l’umanità nondovrebbe mai più dimenticare – dice Angelo mentre sfoglia illibro scritto da don Romualdo che di quella vicenda fuprotagonista e testimone -. Giovani condannati a morte

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ammucchiati in uno spiazzale in attesa del proprio turnomentre il rumore degli spari che accasciavano a terra icompagni echeggiavano nelle orecchie. Il pensiero dei propricari che non avrebbero mai più rivisto, la paura della mortee del dolore che si poteva provare, eppure il coraggio e ladignità di andare incontro a quella morte a testa alta perchéDio non li avrebbe abbandonati. Ecco allora che la forza dellapreghiera, la richiesta del perdono per i propri peccati, lasperanza e la fiducia nell’amore del Signore hanno sostenutoi mariti, i padri, e figli nel momento estremo dell’abbandonodella vita terrena. Solo in Dio esiste risposta a tanto strazio.Solo Lui può consolare tanta sofferenza. Tra coloro chevissero questa terribile esperienza voglio ricordare ilsopravvissuto sottotenente Silvio Rigo, mio ufficiale nelreparto della Reggimentale a Merano, con il quale dopo laguerra ho avuto una corrispondenza epistolare».

Quando ritorna con il pensiero a quei giorni di settembredel 1943 Angelo sente ancora il rombo degli Stuka chevolano bassi, in picchiata, e sparano senza tregua. Durantele incursioni aeree del 9 settembre, infatti, si trovava propriovicino ad Araxas, la base dove i tedeschi si rifornivano dicarburante e polvere da sparo, e cambiavano i turni dellesquadriglie impegnate negli attacchi. Da questo stessomomento tutte le navi del porto - due Mas 514 e 515, duemotovelieri di vigilanza, due vedette della Guardia diFinanza marittima, la nave da carico Piero Lanciotto el’esploratore Vergada – lasciarono l’isola per raggiungere iporti dell’Italia meridionale ormai liberata. L’operazioneavvenne in gran segreto agli ordini del capitano di corvettaGirolamo Delfino di Varazze. Alle quattordici del 15settembre gli Stuka si gettarono in picchiata e cominciaronoun furioso bombardamento che annientò la prima Batteriasul monte Telegrafo.

«Subito una bomba cadde sul settore del plotonetelefonisti causando molti feriti – racconta il reduce -. Uno

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di loro era un mio caro amico, il fante Natalizio Franzò diIspica. A nulla servì il soccorso immediato che gli diederoalcuni commilitoni subito dopo lo scoppio. Nonostantetrasportato nel vicino ospedale da campo, Natalizio morìprima che il medico potesse operarlo. Dio ha volutoprenderlo con sé. Ricordo che aveva partecipato in quartoconcorso al bando per l’arruolamento nei Carabinieri, manon era risultato idoneo alla visita medica. Non avevasaputo darsene pace. Già da allora una volontà più forte lostava chiamando a sé».

Solo i caccia bombardieri tedeschi, comunque, riuscirono aspezzare la resistenza della fanteria della Acqui favoritidall’assoluta mancanza di una reazione contraerea e dallaconcentrazione dei reparti italiani. Erano le 14.00 del 22settembre 1943 quando l’Italia accordò con la Germania laresa senza condizioni. A guerra conclusa, in memoriadell’eroico sacrificio di tante giovani vite, alla bandiera del317° Reggimento Fanteria della Divisione Acqui è stataconferita una Medaglia d’Oro al valore militare perché«nell’isola di Cefalonia, con il valore e il sangue dei suoisoldati, primi assertori della lotta contro i tedeschi, seppetenere alto il prestigio dell’esercito e per tenere fede alle leggidell’onore militare, disprezzò la resa offerta dal nemico,preferendo affrontare in condizioni disperate una impari lottaimmolandosi in olocausto alla Patria lontana».

Il 21 settembre 1943 il primo reparto del 724° BattaglioneCacciatori tedesco sorprese sul fianco e alle spalle il terzoBattaglione del 317° Reggimento. L’attacco costrinse la città diKardakata alla resa e Angelo Emilio fu preso prigioniero.

«Rimasi vivo per miracolo. Ancora una volta la Madonnaaveva ascoltato le mie preghiere. Penso spesso a questoepisodio e durante questi anni mi sono sempre chiestoperché mai i tedeschi salvarono me e non altri. La rispostal’ho trovata nella volontà del Signore che mi ha dato lapossibilità di percorrere il mio personale pellegrinaggio

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fino a 85 anni con la lucidità di poter raccontare i momentibrutti della guerra ai miei figli e ai miei nipoti. Oggi piùche mai in un mondo dove ci sono ancora troppe guerre etroppi morti».

Per un reduce fare memoria è una responsabilità verso icompagni che non ci sono più e nei confronti delle nuovegenerazioni. Un modo per dare senso alla vita che gli èstata donata e conservata e per lanciare un messaggio dipace rendendo testimonianza della futilità di tutte leguerre.

«Ricordo ancora, a distanza di tanti anni, il tragico momentodella resa. Fui scaricato accanto a un ufficiale tedesco che conil binocolo in mano dirigeva le operazioni di guerra delproprio reparto –prosegue –. Messo in fila con tutti gli altriprigionieri a un certo punto fui tirato fuori dalla colonnasaltuariamente sottoposta a decimazione perché incaricato daun tedesco di guidare fino ad Argostoli un asinello rastrellatosul campo e caricato dei loro zaini».

Arrivato in città Angelo fu rinchiuso nel campo diconcentramento della vecchia caserma “Mussolini” primaintitolata a “Vittorio Veneto” dove restò senza cibo e senzaacqua, e dove, ammucchiato con altri tre o quattromilaprigionieri, cercò di dormire all’aperto, sdraiato per terra,nel grande cortile di circa 1500 metri quadrati.

«Qui incontrai il mio concittadino Giovanni Santaera.Insieme a noi, travestiti da soldati, c’erano anche alcuniufficiali. Al centro del piazzale un antico pozzo in fondo alquale si vedeva luccicare qualcosa di limaccioso. Con legavette ogni tanto attingevamo un po’ di melma dasucchiare attraverso i fazzoletti. L’acqua veniva portata conuna nave cisterna e la distribuivano tipo rancio ma non tuttii giorni e solo se riuscivamo ad avere un recipiente adeguatoa contenerla. Per la fame alcuni prigionieri arrivarono adare la caccia ai topi. Un giorno da una nave cadde un muloin mare che annegò.

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Quando il mare lo portò all’accampamento, sulla scoglieravicina, molti prigionieri assaltarono i resti putrefattidell’animale e li cucinarono con la gavetta riuscendo aricavarne un buon brodo. Nella notte fra il 23 e il 24settembre gli ufficiali superstiti, circa duecento, furonoavvertiti tramite un interprete di tenersi pronti per lamattina successiva perché sarebbero dovuti partire: ignotala destinazione. Ai militari fu ordinato di lasciare lo zainocon su scritto l’indirizzo della famiglia. Era la condanna amorte per ordine di Hitler. Tutti quanti scrissero l’ultimalettera ai propri cari in Italia – ricorda Angelo –. Alle 7.30gli ufficiali furono caricati su autocarri e portati alla casettarossa. Qui operavano tre plotoni regolari di esecuzione. Ilcontegno degli ufficiali fu ammirevole. Le fucilazionecontinuarono fino alle 11 di quella stessa mattina. Gli ultimitrentasette si salvarono per intercessione del tenentecappellano padre Romualdo Formato».

Il 31 ottobre 1943 i tedeschi decisero di trasferire iprigionieri dal campo di concentramento sull’isola diCefalonia per avviarli al lavoro laddove era necessario.L’imbarco sulle navi da carico fu semiforzato, nel senso chei prigionieri erano portati via alla rinfusa. «Tre navi:l’Ardea, l’Alma e la Maria Marta piene di italiani urtandocontro mine disseminate nel golfo nel corso della guerraaffondarono – ricorda Angelo con le lacrime agli occhi –.Di tutti i prigionieri, solo 2.600 raggiunsero il continente,1.350 morirono annegati. Grazie a Dio ho scansatol’imbarco per tre volte, quindi la morte, e insieme a meanche Giovanni Santaera che si era staccato dal gruppo diamici per restarmi vicino. Solo la quarta volta ho sentitoche potevo partire. Durante la traversata il comandante delpiroscafo avvistò una mina vagante. Fece in tempo aeffettuare la virata e la evitò miracolosamente. Il 2novembre 1943 attraversammo il canale di Corinto. Per ilmomento eravamo fuori pericolo».

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Giovanni santaera, tra i costruttori della nuova Italiadopo la tragedia di cefalonia

Santo Santaera è il figlio del sergente maggiore Giovanni San-taera. Parlare del proprio padre a pochi mesi dalla morte è un eser-cizio che ancora muove il dolore ma dà nel contempo la possibilità,una volta di più, di ripercorrere le vicende legate all’eccidio di Ce-falonia che lo vide tra i protagonisti di quella tragedia che fu deter-minante e fondamentale per la sua vita privata, sociale e persinospirituale. La sua testimonianza è il suo racconto lungo sessant’anninarrato e ripetuto a tutti in tutte le circostanze ed infine scritto sullepagine di un libricino scritto per tramandare ai figli, ai parenti,agli amici e quanti lo conoscevano l’impegno per non dimenticare.

Giovanni Santaera nasce a Pozzallo, ora provincia di Ra-gusa, il 1° novembre del 1919 da famiglia numerosa e conta-dina. Avviato dal padre al lavoro dei campi, non si accontentadella sua condizione, riprende gli studi interrotti e al conse-guimento della licenza media (avviamento al lavoro) si arruolanell’Esercito col grado di allievo sottufficiale nel Marzo del1939 alla vigilia della Seconda guerra mondiale.

Entrato a far parte del 17° Reggimento Fanteria del IIIBattaglione, 12a compagnia, 4° plotone al comando del 16a

squadra mitraglieri, sulle note di Illusione, canzone all’epocamolto in voga, inizia la sua storia militare e di guerra fino aitragici fatti di Cefalonia del 1943 e la conseguente prigionianei campi di concentramento e di sterminio tedeschi finoalla fine del conflitto.

Tra l’esaltazione di molti e l’ovvio sconforto, quella che ini-ziò per essere una breve avventura bellica si trasformò inpochi mesi nella Seconda guerra mondiale e il sottufficialeSantaera Giovanni al seguito del 17° passa dal fronte occi-dentale, dove resta lievemente ferito, a quello greco-albanesein “piroscafo” e al comando di oltre cento muli e dei relativiconducenti con i quali aveva il compito di rifornire di muni-zioni, reticolati e rancio le prime linee.

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Così dopo le alterne vicende sul fronte greco la DivisioneAcqui vincitrice in Grecia resta a presidiare le isole Ionie diCorfù, Cefalonia, Zante, Itaca e Santa Maura.

Il 17° Reggimento Fanteria, il 33° Artiglieria, i reparti ser-vizi, genio, sussistenza, sanità e il Comando Divisione, a no-vembre del ‘41, dopo Corfù, raggiungono Cefalonia seguitinel ‘43 anche dal 317° Reggimento di nuova costituzione. Peril sergente Santaera sarà l’ultima sede fino al tragico epilogo.

Una volta posizionati sull’isola, la 12a Compagnia mitra-glieri, si accampa nei pressi del comune di Keramies, il Co-mando battaglione in una splendida villa non molto lontanodalle scuderie dell’ex esercito greco dove trovano posto lesalmerie e il sergente Santaera, addetto al carreggio, iniziail suo compito di prelevare vettovaglie di sussistenza concen-trarle nei magazzini del battaglione per poi ridistribuirle allecompagnie dislocate nei vari caposaldi oltre che ritirare lalegna per le cucine.

Il «ippolaghiè mularia», sergente maggiore dei muli, sim-patico alla popolazione civile che concedeva, non senza il ta-cito permesso del comando, il cibo in esubero o quelloconsiderato avariato nel tentativo di alleviare la fame deiGreci, prima a Keramies e poi a Lurdata a seguito del Co-mando battaglione,veniva ricambiato con gesti di simpatiaed erba fresca per i suoi muli.

Quello della familiarizzazione tra truppe italiane e civiligreci ha sempre assunto nei racconti di Giovanni Santaeradei risvolti di grande umanità e nostalgia per le tante amici-zie praticate e per le affinità tra i due popoli da lui sempresottolineate e ricordate anche con l’uso di un inaspettato,ricco vocabolario greco

Lontani dai nuovi scenari di guerra – come la sconfitta inAfrica – e dalla confusa situazione politica in patria, culmi-nata con l’arresto di Mussolini, la vita a Cefalonia procedettecon un’apparente normalità, con qualche cambiamento nellelinee di difesa e niente più, ma non per i tedeschi che, in

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previsione di occupare l’Italia, la Jugoslavia e il Dodecan-neso sbarcarono sull’isola truppe e armamenti presidiandouna parte dell’isola d’intesa con un alleato italiano verso cuiavevano da sempre poca stima e molti rancori.

Con l’8 settembre e la firma dell’armistizio con gli alleati, siaprirono per gli italiani improvvisamente nuove prospettive esperanze per una guerra che molti diedero troppo presto perconclusa. I tedeschi che si erano però preparati a quell’ipotesiin pochi giorni presero il controllo di un Italia allo sbando, di-sarmando l’esercito italiano in Jugoslavia e in Grecia.

A Cefalonia, così come su tutte le altre isole dell’Egeo, cifu il tentativo da parte dei tedeschi di assoggettare le truppeitaliane.

In assenza di ordini dallo Stato Maggiore una drammaticatrattativa si intavolò tra i due ex alleati, ma le richieste deitedeschi furono ritenute inaccettabili e un referendum in-detto tra la truppa italiana che, di fronte alle tre opzioni: diarrendersi, di andare con i tedeschi oppure contro i tede-schi, scelse di combattere in nome di una Patria che altri inquel momento, Savoia in testa, stavano abbandonando alproprio destino.

Solo l’uso intenso dell’aviazione rese possibile ai tedeschinei combattimenti, dal 15 settembre al 22 settembre di ri-baltare i valori in campo portando l’esercito italiano con ilsuo generale Gandin a chiedere la resa una volta sopraffattidal pur minoritario contingente tedesco. Si assistette in queigiorni a una delle più disumane pagine della Secondaguerra mondiale, cosa a cui i tedeschi purtroppo ci avreb-bero drammaticamente abituato.

Le 48 ore che seguirono la resa furono inenarrabili: i te-deschi continuarono a compiere, contravvenendo ad ogniconvenzione internazionale e con singolare accanimento,crimini efferati, esecuzioni di massa, cinici omicidi e atti in-degni nei confronti dei soldati italiani ormai disarmati edimbelli.

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Il giovane sergente Santaera con gli uomini del 5° plotonedella 12a compagnia da lui comandato dopo aver preso parteai primi combattimenti attorno ad Argostoli fu inviato dal co-mando a Lurdata, a difesa di una piccola baia. È lì fu infor-mato dai partigiani greci di quello che stava succedendo nelresto dell’isola: la sconfitta e gli eccidi bestiali dei tedeschi.

Questo allontanamento dallo scenario principale della bat-taglia, racconterà poi il sergente maggiore, ordinato dal suocomandante tenente colonnello Giovanni Maltese, sicilianocome lui, fu il primo di tre incontri con la fortuna che glisalveranno la vita a Cefalonia

Consegnate parte delle armi ai partigiani si apprestò colsuo plotone ad arrendersi ai tedeschi sperando nella sorte.Sorte che per altre due volte lo baciò benevola.

Grazie all’intercessione del suo vice comandante di squa-dra al tempo della campagna di Francia, Giovanni Ferrara,ma a Cefalonia con il ruolo di interprete al fianco di un ma-resciallo tedesco nelle cui mani avvenne la resa, al sergenteSantaera viene fatta salva la vita, unico tra i suoi 42 uominibarbaramente trucidati dopo la resa, non prima di essersiscavato insieme a loro la fossa.

A niente e a nessuno servirono preghiere e disperate sup-pliche e ad essi Giovanni Santaera ha sempre dedicato il pro-prio impegno per non dimenticare.

Fatto prigioniero e condotto nella ex caserma Mussoliniadibita a campo di concentramento incontrò fortuitamenteun paesano, Angelo Emilio, e da lui venne a sapere della fu-cilazione di un caro amico e paesano: Giovanni Gugliotta,così come del Capitano Antonio Paternò, originario della vi-cina Modica. Successivamente si seppe poi anche della mortedi Giuseppe Giardina, altro paesano.

Angelo Emilio lo convinse ad unirsi al suo gruppo dissua-dendolo ad imbarcarsi per il continente; la nave che loavrebbe dovuto trasportare con a bordo più di 3.000 altrisoldati prigionieri da lì a poco venne deliberatamente indi-

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rizzata sullo sbarramento di mine poste a protezione del-l’isola già prima dell’8 settembre e fatta affondare. I tedeschidopo aver bloccato i timoni ed essersi allontanati a bordodelle scialuppe spareranno sui pochi superstiti che cerca-vano la salvezza a nuoto.

Dopo questo terzo bacio della sorte e sempre insieme adAngelo Emilio, a cui restò molto legato per il resto della vita,iniziò per entrambi un drammatico periodo di prigionia, undoloroso peregrinare per i campi di concentramento e ster-minio tedeschi, sempre a braccetto con la morte, nelle Russiee in Polonia da dove tornò alla fine del ‘45 dopo la libera-zione per mano dei Russi e con una nuova odissea che que-sta volta lo riportava a casa.

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antonino Gennaro: da zante ho sentito gli echi della tragedia di cefalonia

Il giornalista Duccio Gennaro ripercorre il “diario di viaggio” delpadre, Antonino Gennaro, che vive a Modica, anch’egli reduce dellaDivisione Acqui assegnato al 18° reggimento di Fanteria.

La memoria dell’eccidio di Cefalonia è presente da semprenella nostra famiglia. Mio padre, Antonino Gennaro, oggiquasi 96enne, ha avuto sempre un vivo ricordo di quei tra-gici giorni e lo ha tramandato a figli, nipoti e parenti. Nel1997 le sue memorie sono state affidate a un diario familiaretra lo storico e il letterario proprio partendo dai fatti ante-cedenti al settembre del ‘43 intitolato Et in Arcadia Ego. Diariodi un viaggio in Grecia. Solo per un caso fortuito il sottouffi-ciale Antonino Gennaro assegnato dopo la leva al Corpo diFanteria e destinato al 18° reggimento della Divisione“Acqui” di stanza a Merano alla Caserma Cascino non fucoinvolto nell’eccidio di Cefalonia come invece avvenne peraltri suoi commilitoni e “paesani”.

Ricorda ancora oggi mio padre, non senza un filo di emo-zione pur nella lontananza del tempo: “Nel luglio del 1942mi ritrovo a Merano, sulle rive del Passirio. La città è invasada truppe di ogni specialità. A Maja bassa sono acquartie-rati reggimenti di Fanteria, Artiglieria, Alpini, Cavalleria,Bersaglieri e unità varie di sussistenza. A Merano ho ritro-vato un amico di Ispica, Giovanni Canto, e un altro amicodi Pozzallo, Angelo Emilio. Il 15 luglio arriva l’ordine dipartire per la Grecia, destinazione Zante per una non me-glio precisata missione speciale; sono 170 uomini con quat-tro sergenti allievi ufficiali, tra cui io, e un ufficiale a capo.Siamo andati in treno fino a Bari e ci siamo poi imbarcatilunedì 20 sul piroscafo “Città di Spezia” con prima desti-nazione Valona in Albania.

Dall’Albania ci siamo diretti a Corfù da dove siamo ripartitivenerdì 24 luglio. Dal 26 luglio al 14 agosto siamo di stanza

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a Prevesa dove il reggimento è acquartierato. Ripartiamoverso Leucade a bordo della motonave “Capo Amiata” e poiverso Itaca e Sami. Domenica 16 agosto da Sami la nave sidirige verso Cefalonia e superato lo stretto ci dirigiamo versola città di Argostoli”.

Ecco come il sottoufficiale Antonino Gennaro descrive, cosìcome gli apparve, l’isola nel suo Et in Arcadia Ego: “La cittàappare ampia e pulita attraversata da larghe strade nellequali soffia e penetra la brezza marina. Le case sono linde eben strutturate, i palazzi non molto elevati”. E a Cefaloniache si consumerà l’anno seguente il massacro che AntoninoGennaro ricorda pur non avendolo vissuto in modo diretto:“Fu una tristissima sorte per la Divisione Acqui alla quale sionoravano di appartenere quanti viaggiavano con me sullanave “Città di Spezia”.

La tragedia non si consumò solo sulla terra ma anche inmare perché due delle navi più grandi che dovevano tra-sportare i superstiti nei campi di prigionia in Polonia, ap-pena doppiata la punta di S. Teodoro, quando l’inizio dellasalvezza cominciava a delinearsi, urtarono sui campi di minee trascinarono a fondo tre mila uomini!

A Cefalonia persero la vita, tra gli altri, compaesani e amicicome il capitano Antonio Paternò di Modica, appartenenteal 117mo reggimento, i soldati Antonino Giardina e Gio-vanni Gugliotta di Pozzallo, il soldato Natalizio Franzò diIspica. Si salvarono invece il sergente maggiore GiovanniSantaera di Pozzallo, che per ben due volte rimandò grazieall’amicizia stretta con un ufficiale tedesco l’imbarco sullanave, e Angelo Emilio che insieme a Santaera ritardò l’im-barco che gli sarebbe stato fatale.

Io e gli altri uomini che erano con me ci rendemmo contosolo dopo che la nostra missione a Zante dove sono siamorimasti fino al 27 agosto 1942 ci aveva salvato la vita anchese solo il caso, almeno nella nostra percezione, determinò lascelta fatta a monte dal nostro comando”.

orazio cavallo: dalla lotta contro i tedeschi alla prigionia“forzata” a cefalonia

La testimonianze del modicano Orazio Cavallo appartenente al-l’Unità di Appoggio del 33° reggimento di Artiglieria, 7° gruppocannoni 105/128, 1° batteria, comandato dal capitano Aldo Hen-geller, raccolta da Gaia Abbondo.

Orazio Cavallo, nato a Modica il 10 febbraio 1922, partìper la guerra dal distretto di Siracusa il 5 febbraio 1942.Poi fu trasferito a Cremona. Ricorda: “Qui mi hanno inse-rito nella Divisione Acqui presso la 1a batteria del 33° reg-gimento Artiglieria. Venivamo istruiti sui pezzi checomponevano i cannoni da 128. A ogni cannone erano de-stinati nove soldati e ognuno di essi aveva un compito, ioero addetto al tiro, in pratica premevo il grilletto mentreun mio amico di Rosolini era capopezzo”.

Finita la fase di preparazione, la batteria formata da 120-130persone fu mandata nell’isola di Corfù in Grecia: “Mi ricordoche quando sbarcammo a Corfù ci portarono in una fortezzae ho visto che i cannoni erano molto antichi, le canne dei can-noni avevano il «femminante» invece del grilletto – prosegueCavallo nel suo racconto – la fortezza era sottoterra. A Corfùci hanno istruito sui cannoni, ma non sparammo mai. Poi ciportarono a Cefalonia: qui facemmo tiri, ma in tempo di paceperché la campagna di Grecia ormai era conclusa”.

Per capire quel che accadde al soldato semplice Cavalloe ai suoi compagni occorre brevemente ripercorrere le vi-cende del suo reparto: “Il nostro reparto aveva catturatoquattro o cinque tedeschi. Li avevamo disarmati per or-dine degli ufficiali italiani, sono stati con noi e davamo loroda mangiare, erano nostri prigionieri – ricorda il reduce– poi quando i tedeschi hanno sopraffatto i militari italianinella battaglia di Cefalonia la situazione si è capovolta esono stati loro a disarmare noi. Per quanto mi riguarda cihanno portato lo stesso rispetto che avevano ricevuto da

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noi. Una volta disarmati fummo utilizzati come forza la-voro per piazzare una batteria antiaerea. C’era un ser-gente tedesco che comandava, non era cattivo, non cihanno trattato male, dovevamo solo fare bene il nostro la-voro – prosegue Cavallo – per questo non posso parlarmale dei tedeschi”.

Dopo aver piazzato la batteria il soldato modicano e isuoi compagni sono stati impiegati “a fare delle buchenella roccia perché i cannoni avevano dei perni per girare,in quanto era una batteria anti-aerea. I proiettili arriva-vano fino a 35 km e i cannoni appartenevano a una batte-ria francese, si trovavano sotto alberi di ulivo e non eranostati piazzati né dai francesi, né dagli italiani. I tedeschi lipiazzarono rapidamente con il nostro lavoro. In questafase eravamo dichiarati prigionieri e come tali ci toccavamezza razione di rancio”.

Orazio Cavallo ricorda bene quei momenti così comequando fu costretto a diventare “soldato tedesco” e rac-conta: “Un giorno fummo chiamati con l’ordine di nonportare roba dietro e con i camion ci condussero in unpaese dentro una scuola abbandonata. Eravamo credo circa80-100 persone. Per quasi due giorni non abbiamo vistonessuno, ci hanno lasciati da soli con una guardia. Questoè stato il momento dove ho avuto molta paura. Si pensavache dovevamo essere fucilati. A un certo momento si pre-sentarono quattro ufficiali, due tedeschi e due italiani, cimisero sull’attenti e ci dissero: o volete o non volete da questomomento siete armati per conto dei tedeschi, con tutti i diritti deitedeschi: di paga, di mangiare, di viveri, di tutte cose. Ci hannocostretto a combattere a fianco dei tedeschi e la razione damezza la passarono tutta e ci pagavano. Se vedevamo ita-liani dovevamo sparare loro, ma ormai italiani non c’è neerano tanti. Erano morti perché si volevano difendere e itedeschi hanno avuto più forza. I tedeschi passavano inmezzo ai morti e gli sparavano se vedevano qualche piccolo

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movimento. Però io con i miei occhi non le ho viste questecose. Il capitano della mia batteria si trovò sotto i morti, glispararono con la pistola in volto, il proiettile gli entrò dauna guancia e gli uscì dall’altra senza toccargli la mascellae si è salvato. Ho visto morti in quantità”.

Nonostante l’atrocità con cui i tedeschi uccidevano tramiterappresaglie i soldati italiani, Orazio Cavallo non dimenticaalcuni tratti dei militari germanici che lui stesso ha potutotoccare con mano: “Del mio raggruppamento noi siamo statifortunati perché a morire furono solo i primi che partironocon i cannoni. Noi invece siamo stati fatti prigionieri e siamostati anche qui fortunati perché non ci hanno portato neicampi di concentramento, ma ci hanno lasciati a lavorareprigionieri a Cefalonia”.

Orazio Cavallo è rimasto sull’isola fino all’agosto 1944quando Cefalonia fu finalmente liberata: “La cosa più do-lorosa che non posso dimenticare è quando prima di par-tire per l’Italia andammo alla casetta rossa dove uccisero gliufficiali e poi in un cimitero, un ampio terreno con tantecroci. Non fui capace di domandare se erano croci di ita-liani o di greci. Ricordo che c’era una chiesetta accanto alcimitero e dentro era piena di ossa di italiani e questo ri-mane il momento più forte e indimenticabile perché il miocapitano, quello che era stato sparato in volto, ci fece pre-sentare le armi a quelle ossa e poi si inginocchiò a terra,noi sull’attenti. Egli prese un pugno di terra, la baciò edisse: «terra greca bagnata dal sangue italiano» e a noi cadderoi moschetti dalle mani per la commozione. Questa è la cosache mi ha fatto più male – aggiunge il reduce – vedere queiteschi buttati come legna accatastata. Cosa hanno fatto conquelle ossa non lo so”.

Orazio Cavallo fa ritorno a Modica solo il 29 novembre1944.

carmelo onorato: storia di un eroe siciliano

Nel baule dei ricordi del caporal maggiore Angelo Emilio insiemeai libri, agli articoli dei giornali datati e ingialliti dal tempo c’èanche una stampa tipografica che racconta le gesta e gli ultimi attimidi vita del tenente Carmelo Onorato di Palermo appartenente al 17°Reggimento Fanteria, medaglia d’oro alla memoria. Di seguito lamotivazione della medaglia d’oro conferitagli seguito dal brevescritto ritrovato.

Nato a Palermo il 26 febbraio 1916, diplomato ragionieree perito commerciale, iscritto al IV anno della facoltà diScienze economiche presso l’Università di Palermo.

Senza nessun commento riportiamo qui di seguito lamotivazione della medaglia d’oro, che descrive così benel’animo di questo Eroe che è da annoverarsi tra le piùfulgide figure della Divisione Acqui:

Ufficiale addetto al comando di una divisione, chiedevaripetutamente l’onore di essere inviato ad uno dei reparti impiegatiin battaglia. Ottenuto il comando di un reparto, impegnavacombattimento col nemico in forze preponderanti, attaccandocoraggiosamente e contendendo il ripiegamento delle rimanenti forzedel battaglione su posizioni arretrate. Colpito in più parti mentrepersonalmente azionava un’arma, si abbatteva al suolo svenuto, e,creduto morto, vi rimaneva abbandonato. Raccolto in serata daalcuni civili, veniva sommariamente medicato e, benché esortato acelarsi nella loro casa, rifiutava fermamente per tornare al suo postodi lotta. Catturato dai tedeschi e condannato a morte, affattosgomento del supplizio che lo attendeva, si offriva spontaneamenteal plotone di esecuzione tedesco, togliendosi le bende e scoprendo legloriose ferite dinanzi al nemico attonito da tanta forza d’animo.

Luminoso esempio di attaccamento all’arma ed al reparto, dialtissimo senso di responsabilità e di sprezzo alla morte.

Cefalonia, 15-24 settembre 1943

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Come sempre, il suo pensiero non può non soffermarsi sullasua Patria diletta. Il 30 aprile, infatti, con un pugno di uomini,è mandato a occupare l’Isola di Corfù che trova “incantevoleper vegetazione e per clima”, che gli ricorda la sua natìa Sicilia:“Ieri, alle ore 9,30 sono sbarcato, col I Battaglione e ilComando del Reggimento, a Corfù: primo ufficiale di tutto ilreparto al comando del plotone d’avanguardia, avente comescopo la sicurezza della colonna”. E quando riesce araggiungere una cima e può girare lo sguardo intorno, scorgegiù, al piano, il carro dell’Istituto Luce che sta girando laripresa cinematografica dello sbarco nell’Isola di un gruppodi militi fascisti...!

A Corfù, dopo essersi sistemato alla meglio, lo riprende lamalinconia dovuta allo stato d’inerzia cui è costretto e allesolite, noiose istruzioni, che gli comandano di fare effettuarealla truppa. E scrive: “Argirades, quanto mi sei pesante con latua vita monotona. Oggi sono di giornata: le solite istruzioni,come si fa con le reclute... Cose assurde, che quasi offendonoil vecchio soldato... A questi combattenti, reduci dalla recentebattaglia, io darei sole e riposo per rimetterli in gamba, semmaiuna leggera istruzione giornaliera per tenerli in forma”.

Lamenta inoltre di avere trovato i soldati in uno statomiserevole a causa del mal trattamento che viene loro usatoe della scarsezza di indumenti: “Un uomo che ha fatto laguerra, che ha sofferto la trincea, che ha visto cadere i suoicompagni e ha visto da presso il ghigno infernale dellamorte, ha diritto di essere meglio considerato. Un soldato,in un paese vinto, deve almeno vestire decentemente, deveessere ben nutrito”. E lì manca tutto: “I soldati non hannoscarpe, il vitto è scarso... Bianchini, Fattori e io cerchiamo dipenetrare nell’animo dei soldati, molti dei quali sono padridi parecchi figliuoli, e cerchiamo di addolcire la lontananza,mentre dovremmo punire, punire, sempre punire... e ancheaddebitare! Non c’è che dire!”. Ma le punizioni, viceversa,vengono inflitte a lui per il suo... feroce altruismo: “Oggi ho

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preso gli arresti perché le tende e il campo non erano inordine... Da un plotone distaccato, che fa servizio di giornoe di notte, si pretende la perfettissima pulizia del campo!”

Continuando nella sua opera rincuoratrice, scrive allamadre di un soldato, perché lo vede triste a causa della suamancanza di notizie: “Oggi ho scritto alla mamma del soldatoDuci Apollo del mio plotone, pregandola di mandare suenotizie al figlio, che ne è privo da molto tempo”.

È la festa dello Statuto nazionale; egli pensa alla paratamilitare che si svolge in Italia in tale ricorrenza e, nelraffrontare la effettiva situazione in cui si trova il soldato inarmi con quella – coreografica – del soldato in Patria, scrivecosì: “Ieri l’Italia è stata in festa: ricorrenza dello Statuto: festad’armi dunque. Elmetti ben lucidi; armi bene ingrassate,scarpe nere e corredo completo, avranno voluto dimostraredi essere completamente a posto, noi soldati! Qui, invece, oltretutto, mancano ancora molti capi di corredo indispensabili eil soldato, che ha tanto lottato e sofferto, ne ha molto eurgentissimo bisogno”.

Una breve licenza di 15 giorni trascorsa in seno alla famiglia,durante la quale non ha mancato di chiedere ancora – mainvano – di essere inviato in Russia od in Africa Settentrionale,lo riporta a Corfù, al suo reparto, dove giunge nottetempo.E i soldati, anche a rischio di subire una punizione, (essendoda tempo, suonato il silenzio), lo accolgono con gran festa edentusiasmo. Ciò lo commuove.

Riprende la solita vita: di giorno le solite istruzioni“faticose, ma inutili”; di notte servizio di pattuglia. Non èfrequente il caso di guerriglie notturne con i contrabbandieriche tentano di fuggire per via del mare. Spesso fa buonacaccia col “fermo” di essi e con il sequestro della refurtiva.

Ma la sua aspirazione è la linea del fronte, cui sempre mira,cui sempre anela, dove “il nemico si presume, almeno, ovesia”; anziché questi appostamenti notturni nei quali “facile èricevere una fucilata alle spalle senza che te l’aspetti”.

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Un giorno capita in un cimitero di guerra italiano e unnodo gli sale alla gola. Lo percorre tutto e vede: ”qua è làqualche spoletta, qualche scheggia di bomba da mortaio,qualche pezzo di reticolato”.

“... Questo, ieri, fu un campo di battaglia” ... e, col cuoregonfio di commozione, scrive il “RICORDO AI CADUTI”che verrà pubblicato su “L’APPELLO”.

La sua breve esistenza è tutta un inno all’Amore: amore alCreatore, amore alla Patria, amore alla famiglia! Infatti eglitrova grande conforto solo nell’elevare la sua anima a Dio,con l’assistere alla Santa Messa.

“Oggi, alle 9, Messa al Campo. La sacra funzione, comesempre, ci ha attanagliati. Accostarsi a Dio in un momentocome questo non è un dovere, ma un forte bisognodell’anima che nella fede della religione può ritrovare quellaserenità per andare sempre avanti... A fine funzione misentivo più leggero; l’anima plasmata da un sen timentoquasi nuovo: era la Fede che tornava a incoraggiarmi, aspingermi verso l’avvenire...”

E l’amore alla sua terra gli fa ricordare sovente “una concatutta piena di sole e di azzurro, una casetta, una bimba...”.

Che dire poi dell’amore verso la famiglia? “... ci sarebbe dapiangere per lo sconforto di trovarsi lontano dalla famigliache adoro, e per la quale darei la vita per sollevarla da tantesofferenze fisiche e morali...” (Era il periodo del pane nero edella pasta di farina di legumi).

Ed è sempre l’amore – stavolta per i suoi soldati – che lo fasoffrire quando gli capita di afferrare qualche loropettegolezzo. In una simile occasione, infatti, li riunisce etiene loro una conversazione che è un’esortazione all’amorefraterno, ma soprattutto fa appello all’amore che tuttidovranno sentire per la grande Patria adorata.

Ora che la fredda morte rapisce ai compagni il Ten. Manelli,non rimane tacito osservatore, ma nel suo cupo dolore cosìscrive: “Anche tu, Manelli, te ne sei andato! La tua morte è

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stata così improvvisa che ancora non riesco a credere! Tirivedo forte e aitante, ricco dei tuoi 27 anni, in pieno sole, odalla luce di una candela, tra la polvere e il fango; o sotto untelo da tenda... e ora, povero corpo straziato da cinque giorniin agonia, riposi tra quattro assi, amato sempre da superiori eda fanti, sotto poche zolle di terra, quasi a testimoniare chequi, a Corfù, è passato il 17° Reggimento Acqui. Quando pensoalla tua immatura fine, mi domando: chi di noi si fermerà persempre a Zante, ove saremo fra giorni?”

La sosta a Zante è breve, interrotta sola da una gita aSantamaura dove egli si recò per le gare di “montaggio esmontaggio di armi” classificandosi secondo vincitore.

Ma, ahimé, anche le sue 27 primavere dovevano fermarsiper sempre nell’isola della morte, l’isola della tragedia,Cefalonia: ultima tappa del suo breve cammino! Cefaloniafermò la sua fresca ed egli quasi l’attendeva, Sorella Morte!

Si leggono frasi come queste, nei suoi appunti:“Che è mai la Morte? Un cambiamento, un trapasso da

una condizione a un’altra e niente più, ed è sciocco temerla!Meglio, forse, morire giovani dopo aver conosciuto l’amoredella donna e la follia della guerra, che affondare pian pianocome bestie colte nella melma dell’età!”

E poi “... la guerra e l’amore: ecco due cose più grandidella vita, conosciute le quali non si vuol conoscere altro, chémai più possono tornare in tutto il loro fulgore”.

E quasi presago, come l’eroico Ettore di Omero, così scrivealla moglie: “A volte, pensandoti, ti vedo in gramaglie, conuna bimbetta anch’essa vestita di nero, con i fiori in mano,recarti al cimitero, dove non vi saranno nemmeno le mieossa, che riposeranno in terra straniera!”

Pure questa visione lo tiene fermo al suo posto finoall’ultimo, né lo distoglierà dal compiere il proprio doveresino all’estremo sacrificio della vita!

Il 27 marzo del 1943 ottiene un mese di licenza (che dovràessere l’ultima) e lo trascorre in letizia fra i suoi cari: la

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moglie, i genitori, i fratelli, la bimba! Quante incursioni equanti bombardamenti, in quel tempo, a Palermo!

In uno di tali bombardamenti egli si trovava fuori casa e,dopo il cessato allarme, la moglie e la mamma escono incerca di lui. Dove lo trovano? In cima a un mucchio dimacerie fumanti, in Corso Olivuzza, che disponeva, aiutava,soccorreva le vittime di cui si udivano tenui lamenti. Facenno ai suoi di ritornare a casa ché lui a momenti liraggiungerà. Tornò, infatti, dopo aver avuto la certezza chele vittime potevano essere salvate dalle squadre di soccorsogiunte nel frattempo. Altro bombardamento: altra occasionedi rendersi utile: lui era fuori. Era l’ora di pranzo all’incircae, subito dopo il bombardamento, egli arriva a casa, inforcala bicicletta, pregando la moglie di preparare ché a momentisarebbe tornato.

Cosa fa? Si reca a Boccadifalco, dove erano cadute lebombe, e lungo la strada trova un tedesco a terra, colpito daalcune schegge. In tutta velocità, corre in cerca di untelefono e chiama la Croce Rossa perché mandi subitoun’Autombulanza. Appena questa arriva, carica il ferito sullamacchina e via di ritorno a casa, in tempo – come avevapromesso – per il pranzo! La licenza sta per scadere: lamoglie, e la mamma soprattutto, lo scongiurano di rimanerecon loro ancora qualche tempo, perché già si delineavaprossima la fine della guerra. Egli non le ascolta: vuoletornare tra i soldati che lo attendono e non gli debbonol’appellativo di “imboscato!” Quindi – egli dice – anche seavessi la febbre partirei ugualmente.

Un ufficiale, che si trova in licenza qui a Palermo, comelui, lo prega di interessarsi perché rimanga qualche tempoancora; ed egli gli ottiene dal Direttore dell’Ospedale suoamico, una licenza di tre mesi per malattia...”.

Ripartì dunque da Palermo esattamente il 27 aprile e da quelgiorno sino al 9 maggio fu a Brindisi in attesa dell’aereo.L’armistizio dell’8 settembre 1943 non tiene conto che fuori

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d’Italia (in Grecia e altrove) vi sono i nostri uomini che finoa ieri erano alleati coi tedeschi; no!

“Da oggi il vostro nemico è l’alleato d’ieri; resistetegli”.Questo pressapoco l’ordine giunto dall’Italia.

E lotta ha inizio: sanguinosa, cruenta.Pochi giorni bastano per falciare numerose vite umane.A un dato momento il Generale Gandin ebbe bisogno di

ufficiali di rincalzo da mandare in linea. Chiese chi fossedisposto ad andare. Nessuno rispose. Una sola voce fu uditachiara, netta, fiera: “Signor Generale, vado io!”.

Altri non era che il Tenente Onorato.E andò. Venne ferito alla testa, al braccio, alla gamba, ma

disdegnò di recarsi in infermeria e si medicò alla meglio, comepoteva, rimanendo fermo al suo posto di combattimento.

Appreso ciò il Generale, pur elogiando il suo comportamentocon un “bravo! Avrà la medaglia d’argento”, gli ordina direcarsi in infermeria a farsi medicare.

Va unicamente per obbedire, ma – forse per la grandeperdita di sangue – sviene lungo la strada e lì lo ritrova unsoldato il quale se lo carica sulle spalle finché, giunti in unacasa, gli lava le ferite con acqua e sale.

“Quando abbiamo ripreso il cammino – così riferisce ilsoldato – il tenente Onorato, che intanto si era rimesso,camminava con un passo talmente lesto che non riuscivo atenergli dietro”.

Giunto in infermeria egli consegna al bravo soldato alcunefotografie e l’indirizzo della famiglia, pregandolo direcapitarle, ove non fosse più ritornato …

Dopo due giorni di degenza in ospedale, scappòportandosi nuovamente in linea.

Intanto la battaglia infuriava. Le nostre fila, rimasero senzarinforzi di sorta né ordine alcuno dall’Italia, furonodecimate e i superstiti sbandati. Egli rimase isolato. Pressouna famiglia di sua conoscenza passò la notte dal 22 al 23settembre e lì ebbe assistenza, pulizia, vitto.

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Quella sera scrisse alla moglie: “Sono leggermente ferito.Spero guarire presto. Sono in angoscia per voi, pensiericarissimi…”.

All’alba del 23, malgrado le affettuose insistenze di quellabuona famiglia, che aveva possibilità di nasconderlo e glioffriva financo degli abiti borghesi (che egli rifiutòdecisamente), uscì in cerca del suo comando. Lo ritrovò?Non si sa!

La signora riferì poi che egli disse: “Debbo compiere tuttoil mio dovere; forse poi premieranno mia moglie con unamedaglia e mia figlia con un bacio in fronte!”

Quel pomeriggio del 23 fu visto dietro la finestra di uncaseggiato dove, insieme a molti altri, era a disposizione delcomando tedesco.

Passò di lì una ragazza del luogo, ed egli le chiese notiziedel fidanzato, suo caro amico; ma l’altra non seppedargliene, anzi disse che ne era alla ricerca.

Il mattino del successivo 24 settembre egli, con quasi tutti isuoi compagni, e in testa il Generale Gandin, furono condottisu alcune camionette fuori del paese, in una villa abbandonata(che fu detta poi la Casa Rossa non so se per il colore dellasua facciata o per tutto quel sangue ivi versato).

Prima di partire per la Casa Rossa, l’Onorato, ritenendodi venire inviato in un campo di prigionieri, consegna al suoattendente le chiavi delle valigie perché gli porti dellabiancheria pulita, ma quando tornò, il suo tenente era statospedito alla Casa Rossa.

Lì un plotone di esecuzione tedesco li attendeva! Motivo?Tradimento, kaputAlle 7 cominciarono le esecuzioni e, a ogni scarica, egli si

stringeva nelle spalle!Intanto che attendeva il suo turno, il capitano Apollonio

gli propose di buttarsi, insieme a lui, da una finestra, giù nelcortile e frammischiarsi ai soldati travestito; ma eglidisdegnò tale proposta.

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I tedeschi chiesero se fra i presenti vi fosse alcuno che avessedei meriti fascisti: sarebbe stato messo da parte in attesa didecisione. Egli possedeva la tessera d’Ufficiale della milizia:non la mostrò! (Si seppe poi che questi furono risparmiati).

Al capitano Bronzini, che gli era vicino, parlò della suabambina, gli disse che desiderava abbracciarla l’ultima volta...

Le fucilazioni continuano: un gruppo di SS tedesche, alcomando di un sottufficiale, chiama le vittime a gran voce:“Fuori quattro, fuori otto” ... senza un ordine, senza un elenco.

I più coraggiosi si fanno avanti per primi, spontaneamente,e più in là i carnefici sparano senza pietà.

Alle 10 circa l’Onorato, che si stringeva nelle spalle ognivolta che la scarica atterrava i suoi amici, i suoi compagni, isuoi superiori... non ne può più...

Tutti i presenti, disperati e affranti, si stringono attorno alcappellano don Formato che in quel momento rappresenta illoro rifugio spirituale; Onorato riesce a farsi un varco earrivare al Cappellano e, togliendosi la fede dal dito, glielaporge, pregandolo di consegnarla alla moglie e di riferirle cheil suo ultimo pensiero è stato per lei e per la bambina...

Don Formato lo abbraccia, gli dà l’assoluzione sacramentaleed egli ritorna fra i più restii, i più mesti, rincuorandoli eincoraggiandoli col suo abituale sorriso.

Indi, abbracciando il collega Bronzini, si strappa la bendache ancora gli fascia la ferita del capo e: “Io credo – gli dice– che questa fasciatura sia ormai inutile...”. Poi si muove peroffrirsi spontaneamente alla morte: se si deve morire, sequesto è il tragico e ineluttabile destino di chi è colpevolesolo di avere ubbidito agli ordini dei suoi superiori, è assaimeglio affrettarsi onde mettere fine al tormento...

Con serena fermezza fu visto uscire dal cancello: un istantedopo si udì la scarica fatale!

Il tenente Onorato: il fiero, il leale, il temerario CarmeloOnorato era entrato gloriosamente nella eletta schiera degliEroi!

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Ecco quanto scrive il Cappellano don Ghilardini nel suolibro: “A gruppetti, chiamati dai tedeschi o volontariamente,gli ufficiali italiani si avviano verso lo spiazzo dove il plotoned’esecuzione è in attesa. Il crepitio delle armi si mescola aigemiti dei moribondi: il colpo di grazia – un colpo secco dipistola – mette fine alla sofferenza di molti. Il massacrocontinua inesorabile. Addossati al muro ora non vi sono chetredici ufficiali. Don Formato si rivolge al tedesco: lo prega,lo supplica di salvare la vita almeno a quei pochi. Il tedescocon un motocicletta si reca al Comando. Dopo alcuni,interminabili minuti in cui i superstiti inginocchiati preganocol Cappellano la Vergine Santissima, ritorna e dice alcuneparole all’interprete. Questi traduce: Il Comando tedescoconcede la vita ai presenti!”.

Si contano: erano in tutto trentasette; tredici scampati e ilresto per meriti particolari.

Le esecuzioni, iniziate verso le otto e mezzo, sonoterminate alle ore dodici e mezzo!

Per questi soldati non vi fu una tomba, né una croce: leloro salme sono rimaste senza nome. Accatastati, i loro corpifinirono in una grossa buca, come carogne indegne diqualunque rispetto, e a sera, bruciati, illuminarono il cielodell’Isola!

antonio Paternò: dalla campagna di Grecia al tragicoepilogo a cefalonia

Un’altra storia dall’epilogo drammatico è quella del capitanoAntonio Paternò nato a Ispica, in provincia di Ragusa, il 5 apriledel 1914 ma modicano di adozione. È caduto a Cefalonia il 22settembre del 1943 finito con un colpo di pistola alla tempia dopoessere stato fucilato con un gruppo di ufficiali prelevati subito dopola resa da una grotta presso Lakitra, nei pressi di Argostoli. Aveva29 anni ed era ufficiale effettivo del 17° reggimento. Di seguito lasua vita raccontata dal fratello Corrado Paternò, nella testimonianzaraccolta da Marcella Burderi.

Antonio Paternò nella prima fase della campagna di Greciain testa alla sua compagnia aveva condotto i suoi fanti all’as-salto dei fortini greci, con bombe a mano e baionette in canna.Ferito alla gola fu ricoverato per 40 giorni all’ospedale e di-messo dopo la guarigione raggiunse il suo reparto. In quellaoccasione ebbe una medaglia e la proposta di promozione chegli pervenne quando era di stanza a Cefalonia. Tornato in Si-cilia dalla famiglia, che in quel periodo viveva a Modica, perla morte del padre, durante la sua breve permanenza ebbemodo di raccontare le crudeltà della guerra, di come la suacompagnia era stata decimata e di come i greci erano accanitinel difendere la loro terra. Come scrive il fratello Corrado Pa-ternò nel libro La strage di Cefalonia 1943, Aletti Editore, 2005dopo questi fatti eclatanti Antonio comprese cosa fosse vera-mente il fascismo e come il popolo italiano fosse stato ingan-nato e mandato al macello da veri incoscienti. «Ormai dopo20 anni di regime informati a quella dottrina, gli italiani cre-devano ciecamente nel Duce che li faceva vivere in unagrande illusione, pervasa tutta dalla grandezza di Roma im-periale e li voleva, geni, navigatori e guerrieri».

Ricostruire quanto accadeva al fronte attraverso le lettereinviate dal capitano Paternò alla famiglia, come riferisce il fra-tello Corrado è impossibile. Infatti, nelle missive che perve-

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nivano si poteva leggere ormai solo l’inizio “Cara mamma...”e la fine “baci e abbracci a tutti”, perché il resto veniva can-cellato dalla censura con inchiostro nero indelebile.

Pochi giorni prima dei tragici fatti festeggiò con i colleghidel reggimento la sua nomina a capitano, tanto desideratain quanto con gli altri titoli già in possesso gli avrebbe con-sentito di accedere alla scuola di guerra di Torino e abban-donare le dogane per intraprendere la carriera militare. Ariportare questo episodio è un sopravvissuto di Cefaloniache conosceva molto bene Antonio, Ignazio Battaglia, excompagno di scuola del fratello Corrado. Lo stesso che sem-pre pochi giorni prima che avvenisse l’eccidio racconta diessersi recato a parlare con Antonio per sapere da lui cosastesse accadendo e di avere avuto come risposta l’invito a na-scondersi se avesse conosciuto qualche famiglia greca perchélì sarebbe finita male.

Il capitano Paternò conosceva la lingua tedesca e spessoaveva avuto contatti, per motivi di lavoro, con parecchi te-deschi. Era amico anche di un sottoufficiale, scrive il fratello,che però non è riuscito a intervenire in tempo per farglisalva la vita. La conferma della morte del giovane capitano,già comunicata qualche mese prima alla famiglia dallo stessoBattaglia, infatti arriva da un altro reduce: il maresciallo Gio-vanni Santaera, anche lui siciliano di Pozzallo nella stessaprovincia di Ragusa, che faceva parte del 17° reggimentofanteria allora con il grado di sergente maggiore, in forzaalla 12° compagnia del 3° battaglione. Anzi, proprio graziealla lucida testimonianza resa al fratello Corrado da San-taera, scomparso nel 2012, che conosceva bene tutti i postie altrettanto bene li ricordava malgrado gli allora suoi 84anni, trova conferma l’ipotesi del 22 settembre come datadella morte di Paternò e non il 24 come risulta dai docu-menti ufficiali dello Stato. E ancora trova conferma il luogodell’esecuzione, che non è la famigerata “casetta rossa” chedivenne la tomba per la maggior parte degli ufficiali vittime

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delle fucilazioni di massa, ma una grotta presso Lakitra, lo-calità a 6 chilometri da Argostoli. Come scrive lo storicoFranco Massara nella sua opera intitolata I grandi enigmi deglianni terribili, volume 1° stampato nel 1970 presso gli stabili-menti di Printer S.A. a Barcellona di Spagna con la collabo-razione di Bruno Moschetti «Soldati e ufficiali del 17° sonosorpresi nell’interno di una grotta che durante le operazionifungeva da comando tattico. Ci si aspetta un massacro inmassa. Niente. Gli ufficiali sono cortesemente invitati a saliresu una autocarretta. Un ufficiale il maestro di banda del 17°fanteria vuole salirvi a ogni costo anche lui. Fucilati. Tra que-sti, il tenente Gracco Mosci architetto perugino, ideatore ecostruttore del cimitero militare di Argostoli. Al momentodell’armistizio il tenente Mosci stava occupandosi della co-struzione di un piccolo cimitero per i caduti tedeschi. Ine-sorabilmente abbattuto. Con lui, il tenente Antonio Paternò,siciliano. Colpito al ventre dalla prima scarica, cerca ineso-rabilmente la fuga, non fa molti metri che si accascia al suolocontorcendosi, finito con un colpo di pistola alla tempia».

Di lui alla famiglia non è rimasto nulla perché dopo esserestato cremato assieme a tanti altri le ceneri furono sparse alvento e gettate a mare. A ricordarlo c’è solo una lapide nellatomba di famiglia a Ispica con la scritta Antonio Paternò n. il5-4-1914, fucilato a Cefalonia dai tedeschi nel settembre del 1943.

“Sapemmo – ricorda oggi il fratello Corrado - della suamorte grazie a un freddo comunicato. Mia madre rimasepietrificata dal dolore e così anche le mie sorelle. Per anni,dopo la guerra ho avuto modo di parlare di mio fratello conil signor Battaglia del quale oggi ho perso le tracce. Grazieai suoi racconti ho potuto dare, in qualche modo, sepolturaal corpo di mio fratello”.

conclusIonI

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conclusIonI

Potremmo definire il presente saggio un libro che si èfatto da sé. Le notizie, i dettagli, le “derive” e i puntidi vista contrapposti sui fatti di Cefalonia e sugli

avvenimenti che hanno avuto come protagonisti gli uominidella Divisione Acqui, sono usciti dal “baule dei ricordi” diun reduce come Angelo Emilio per essere ulteriormenteriletti, ripensati e ricostruiti.

Settant’anni dopo si parla ancora una volta di “stragedimenticata”, di “insabbiamenti” e di verità nascoste.Cefalonia è stata una tragedia nella più grande tragediadella Seconda guerra mondiale, conclusasi inevitabilmenteper l’Italia con delle clausole armistiziali che provocaronoricadute pesanti per chi, il giorno dopo quell’8 settembre1943, si trovava al fronte.

Cefalonia resta un caso con numerose ombre, interrogativied enigmi che emergono non solo ripercorrendo i giorniseguenti la firma dell’armistizio, ma anche rileggendo gli annidella Guerra fredda e della ricostruzione, dell’ingressodell’Italia nel Patto Atlantico (1949) e all’Organizzazione delleNazioni Unite il 14 dicembre 1955 concludendo dopo oltredieci anni il lavoro della diplomazia italiana teso a ottenerel’entrata all’Onu. Non solo per condividerne gli ideali, maanche per chiudere la brutta parentesi del secondo conflittomondiale fuoriuscendo finalmente da una posizione di exnemici agli occhi dei rappresentanti dei consessi internazionali.

Cefalonia rimane oggetto delle interpretazioni e delle analisigeopolitiche più disparate. Per la delicatezza dei nodi

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problematici in questo saggio si è cercato di ricostruire glieventi nella maniera più obiettiva possibile, lasciando spazioal dibattito, consapevoli che l’oggettività assoluta non esiste inquanto già selezionando i fatti si esprime un orientamento.

Nella prima parte del saggio, i tragici fatti che accadderoa Cefalonia dall’8 al 25 settembre 1943 trovano spunto dallibro di Giuseppe Moscardelli dal titolo Cefalonia (TipografiaRegionale Roma, 1945) cioè quello con l’approccio piùcronachistico che meglio si confaceva alla nostra sensibilitàgiornalistica.

Nella seconda parte ci sono le testimonianze dei reduci edei parenti che contribuiscono a fare luce negli angoli piùbui di questa terribile esperienza. Dare voce a più punti divista è stata una scelta nella convinzione che anche le singolestorie umane, apparentemente “piccole”, contribuiscono inrealtà a scrivere la Storia, soprattutto di fronte a una vicendacome quella di Cefalonia che a quanto pare non è del tuttochiarita, se si pensa che ancora a settant’anni di distanza sonoaperte polemiche politiche e culturali e soprattutto dossier eprocedimenti nei tribunali militari.

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rInGrazIamentI

Ad Annamaria Emilio per averci aperto il “baule deiricordi” di nonno Angelo e a Nuccio Malandrino checon dedizione e precisione ci ha aiutato nella raccolta

di materiali utili per la pubblicazione di questo saggio.Un ringraziamento anche a Duccio Gennaro, per aver

raccolto la testimonianza del padre Antonino, reduce modicanoancora vivente; alla giovane Gaia Abbondo per aver dato vocealla storia del soldato Orazio Cavallo; a Santo Santaera per averripercorso le vicissitudini di suo padre, il sergente maggioreGiovanni Santaera recentemente scomparso; a MarcellaBurderi e Corrado Paternò per aver condiviso la memoria delcapitano Antonio Paternò.

Infine, un ringraziamento al prof. Carmelo Nolano,Presidente della sezione Sicilia dell’Associazione Nazionale DivisioneAcqui, per la sua disponibilità e il suo impegno nel sollecitareiniziative che ricordano la tragedia di Cefalonia e Corfù.

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1 Esistono tuttavia anche altreversioni dei fatti relativi alla con-vivenza tra italiani e greci. Unacerta vulgata afferma che i mili-tari italiani cercarono di teneresotto controllo la resistenza elle-nica e che si arrivò in certi casianche all’arresto di rivoltosi ap-partenenti a gruppi partigiani.Un’altra versione rileva che a Ce-falonia i soldati dell’Asse erano aconoscenza della presenza delMovimento di Liberazione Na-zionale Ellenico. Una situazioneche, sempre secondo questa tesi,non inficiò il rapporto tra occu-panti e occupati. Tuttavia, dainumerosi libri e diari scritti daireduci della Divisione Acqui,come del resto anche dalle tesi-monianze di Angelo Emilio,emerge un sentimento di affettodella popolazione greca per i sol-dati italiani. 2 A. Emilio, La guerra di Cefalonianella cronaca di un sopravvissuto,La Copisteria, Ispica (Rg) 2003.3 Vedi Elenco Caduti alle pagg.132-137 dell’Appendice.4 S. Corvaja, Settembre 1943. Gli

eroi di Cefalonia, Rivista StoriaIllustrata n. 322 del settembre1984, pp. 20-37.5 Per approfondimenti sulla vi-cenda di Cefalonia consultare laseguente bibliografia: L’eccidio diCefalonia, di don Romualdo For-mato; La Divisione Acqui a Cefalo-nia, a cura di G. Rochat - M.Venturi; Sull’Arma si cade ma nonsi cede, di Luigi Ghilardini; I Mar-tiri di Cefalonia, di don Luigi Ghi-lardini; A Cefalonia e Corfù sicombatte, di Giovanni Giraudi; Ce-falonia, di Giuseppe Moscardelli;I 9.000 di Cefalonia, di Rino Za-vatti; Divisione Acqui - Figlia di nes-suno, di Olindo Perosa; Italianidovete morire, di Alfio Caruso; Ban-diera Bianca a Cefalonia, di Mar-cello Venturi; La vera storiadell’eccidio di Cefalonia (I parte), diMassimo Filippini; La vera storiadell’eccidio di Cefalonia (II parte), diMassimo Filippini; La DivisioneAcqui. A Cefalonia e Corfù, del Co-mitato per la celebrazione del 30°Anniversario, Bologna; La stragedi Cefalonia, di Corrado Paternò.6 Antonio Gandin (1891-1943),

note

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veronese. Frequenta la scuola Mi-litare di Modena, combatte inLibia e nella Prima Guerra Mon-diale meritandosi una Medagliad’Argento. Dopo il conflitto al-terna il comando di reparti diFanteria all’insegnamento pressola Scuola di guerra e al serviziopresso lo Stato Maggiore. Nel1937-39 è capo della segreteria diBadoglio. Dal dicembre 1940 ècapo del primo reparto opera-zione del Comando Supremo ediventa il più importante collabo-ratore del generale Ugo Caval-laro. Nel giugno 1943 è assegnatoal comando della Divisione Acqui,ma prima si occupa di pianifica-zione operativa presso il Co-mando Supremo svolgendofrequenti e importanti missioni dirappresentanza, ispezione e col-legamento con le forze tedeschedurante le quali stringe contatticon Rommel, Kesserling e con lostesso Hitler. 7 Wilhelm Keitel con il grado difeldmaresciallo fu il capo del-lOkw, l’Oberkommando dellaWehrmacht, durante la Secondaguerra mondiale. Fu uno deiprincipali imputati al processodi Norimberga, dove venne giu-dicato colpevole per crimini diguerra e contro l’umanità. Con-dannato a morte (Norimberga16 ottobre 1946).8 Albert Kesselring con il gradodi feldmaresciallo fu al comandodella Luftwaffe nell’invasione

della Polonia, della Francia, nellabattaglia d’Inghilterra e nelcorso dell’Operazione Barba-rossa. Fu capo delle operazioninel Mediterraneo e nel NordAfrica. Si impegnò contro controgli Alleati durante la campagnad’Italia. Durante la guerra fu re-sponsabile di crimini di guerrain Italia. Fu accusato dagli Alleatie condannato a morte, sentenzapoi ridotta all’ergastolo grazie al-l’intervento del Governo britan-nico. Fu rilasciato nel 1952.Pubblicò le sue memorie intito-late Soldat bis zum letzten Tag (Sol-dato sino all’ultimo giorno).Morì di attacco cardiaco il 16 lu-glio 1960 in Germania. 9 Erwin Rommel fu uno dei re-duci della Prima Guerra Mon-diale dove combatté con il gradodi tenente ricevendo la più altadecorazione al valore per i risul-tati raggiunti con il suo reparto ditruppe da montagna durante labattaglia di Caporetto nel 1917.Durante la Seconda guerra mon-diale Rommel si distinse allaguida della Panzer-Division nel1940 e, godendo della piena fi-ducia di Adolf Hitler, guidò conabilità l’Afrikakorps guadagnan-dosi l’appellativo di “volpe deldeserto” per la sua capacità dicondurre agilmente i mezzi co-razzati nel deserto contro gli in-glesi. Cosciente dell’inevitabilesconfitta della Germania si op-pose a Hitler. Per questo, una

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volta coinvolto nel complotto del20 luglio 1944 preferì suicidarsianziché subire un processo peralto tradimento.10 Da notare la differente pro-venienza dei due radio-mes-saggi di Vecchiarelli: il primodall’11a Armata, il secondodall’VIII Armata.11 In appendice la fotografia diun volantino scritto in italiano egreco che i partigiani ellenici di-stribuivano ai nostri soldati e allapopolazione greca.12 In appendice la fotografia deltesto integrale della lettera innove punti che il tenente colon-nello Hans Barge invia al gene-rale Gandin. 13 Dichiarazione tratta da G. Mo-scardelli, Cefalonia, TipografiaRegionale, Roma, 1945. 14 Il testo della lettera che i settecappellani militari si trova allepagg. 117 e 118 dell’Appendice.15 A. Caruso, Italiani dovete morire,Milano, 2000, Longanesi & Co.16 Don Luigi Ghilardini nel “Nu-mero Unico” del trentennalestampato a cura dell’Associa-zione Nazionale Reduci e Fami-glie Caduti della Divisione Acquia pagina 24 scrive: ”12 settem-bre. Alle 04.00 il Comando Divi-sione conferma, per iscritto, alComando tedesco l’impegnoche la Acqui è disposta, di mas-sima, a cedere le armi”.17 Cefalonia-Corfù, 1943 settem-bre 1973, Genova 1973, Numero

Unico del trentennale stampatoa cura dell’Associazione Nazio-nale Reduci e Famiglie Cadutidella Divisione “Acqui”. 18 ibidem.19 Al riguardo il Tribunale mili-tare di Roma, a proposito di que-sta iniziativa di fuoco di cuiriconosce “l’alto valore militare”,come scrive don Ghilardini nellesue memorie, precisa: “Se da unlato consegue l’effetto immediatoe determinante di salvaguardareil Comando Divisione da un im-mancabile colpo di mano tedescooffre anche lo spunto al GeneraleComandante, rinfrancato dal sin-golare spirito combattivo dellesue truppe di smuovere le tratta-tive dall’impasse in cui eranopervenute e di continuare conrinnovata energia”. 20 Karl Hubert Lanz è stato co-mandante delle truppe di mon-tagna tedesche con il grado digenerale. Fu impegnato durantela Seconda guerra mondiale sulfronte orientale e nei Balcani.Nel dopoguerra fu incriminatoper diverse atrocità ma venne ri-lasciato nel 1951. È stato compo-nente del Partito liberaledemocratico in Germania comeesperto di sicurezza e questionimilitari. 21 M. Filippini, La vicenda di Ce-falonia: dal Mito alla Realtà. La ri-visitazione, alla luce di recentiapprofondimenti, di una pagina tra-gica della nostra storia in Il Secondo

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Risorgimento D’Italia - Rivista diStoria Cultura Attualità, AnnoXX, n.3 2010 - p. 99. Relazioneal Convegno La tragedia della Di-visione a Cefalonia del 21 aprile2007. 22 ibidem.23 ibidem.24 ibidem.25 ibidem.26 Sessant’anni dopo, nuova inchie-sta tedesca e italiana, Il Domenicale,29 novembre 2003, pp.gg. 6-7in, Cefalonia 1943: una stragetutta da riscrivere? a cura di L.Garibaldi. 27 G. Moscardelli, Cefalonia,Roma 1945, Tipografia Regio-nale Roma, p. 74.28 S.Corvaja, Gli eroi di Cefalonia,in Rivista Storia Illustrata n. 322del settembre 1984.29 Nel report di Giuseppe Mo-scardelli, naturalmente antece-dente a quello di don Ghilardini,l’orario di invio di Di Rocco si at-testa alle prime ore del 19. Tut-tavia, il risultato non cambiò ilquadro della situazione perchéDi Rocco una volta raggiuntaGallipoli poté presentarsi a Brin-disi solo il 21 settembre quandola sorte della Divisione Acqui eragià segnata. 30 G. Moscardelli, Cefalonia,

Roma 1945, Tipografia Regio-nale Roma, p. 84.31 ibidem.32 In appendice le fotografie delvolantino generico lanciato daitedeschi il 17 settembre 1943 edel volantino ultimativo del 19settembre 1943 tratti da La Divi-sione Acqui a Cefalonia e Corfù set-tembre 1943 - novembre 1944 dataalle stampe dal Comune di Bo-logna in collaborazione con ilComitato per le celebrazioni delXXX della Resistenza e dellaGuerra di liberazione nazionalee dall’Associazione nazionale su-perstiti, reduci e famiglie cadutidella Divisione “Acqui”.33 Cit. Cefalonia – Corfù 1943 set-tembre 1973, Numero unico deltrentennale stampato a cura del-l’Associazione Nazionale Reducie Famiglie Caduti della Divi-sione “Acqui”, Genova 1973, p.37.34 S.Corvaja, Gli eroi di Cefalonia,in Rivista Storia Illustrata n. 322del settembre 198435 G. Moscardelli, Cefalonia,Roma 1945, Tipografia Regio-nale Roma, p. 95 36 La testimonianza è stata rac-colta nel libro di G. Moscardelli,Cefalonia, Roma 1945, Tipogra-fia Regionale Roma p. 105

aPPendIce

«Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuarel’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intentodi risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, hachiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capodelle forze anglo-americane.

La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di osti-lità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delleforze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno a eventualiattacchi di qualsiasi altra provenienza».

Il messaggio letto alla Radio dal maresciallo d’Italia Pietro Badoglio l’8 settembre 1943

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Appendice

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Signor Generale, appena usciti dal vostro ufficio, ci siamo recatiin Chiesa ad invocare l’aiuto di Dio e ci siamo nuovamente riunitinel salone dell’Istituto delle Suore Italiane. Abbiamo, con maggiorecalma, esaminato e ponderato quanto voi ci avete esposto ed il parereche ciascuno di noi ha creduto, in coscienza, di darvi in un momentocosì grave. Abbiamo dovuto, questa volta all’unanimità, nuova-mente constatare che il nostro consiglio non poteva essere che quelloche vi abbiamo schiettamente espresso. Per evitare un lotta cruentae forse impari e fatale contro l’alleato di ieri, per tenere fede al giu-ramento di fedeltà alla Maestà del Re (giuramento che, come voistesso ci avete ricordato, è un atto sacro, col quale si chiama Diostesso a testimonianza della parola data) e, infine, e soprattutto, perevitare un inutile spargimento di sangue fraterno, signor Generale,altra via non c’è. Non resta che cedere pacificamente le armi.

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Dinanzi al tenore dell’ultimatum germanico, voi, signor gene-rale, isolato da tutti, impossibilitato di mettervi in comunicazionecoi superiori comandi di Grecia e d’Italia e di ricevere ordini pre-cisi, voi vi trovate nella ineluttabile necessità di dover cedere aduna dura imposizione per evitare l’inutile supremo sacrificio deivostri ufficiali e dei vostri soldati. Siamo profondamente compresidella gravissima responsabilità che in questo tragico momento pesasul vostro animo. Ora, più che mai, i vostri cappellani si sentonostrettamente uniti a voi. Contate sul nostro devoto affetto, sullanostra opera, e soprattutto sulla nostra preghiera. Da Dio invo-chiamo infatti luce al vostro intelletto e conforto al vostro cuore.Egli vi protegga e vi benedica, signor generale! E benedica, convoi, la vostra famiglia lontana e la vostra amatissima divisione.

I vostri cappellani: P. Romualdo Formato – Don Biagio Pelliz-zari – Don Angelo Ragnoli – Don Mario di Trapani – P. DuilioCapozzi – P. Luigi Gherardini – P. Angelo Cavagnini”.

Lettera dei cappellani militari inviata al GeneraleAntonio Gandin l’11 settembre 1943

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Decisero di non cedere le armi. Preferirono combattere e morire perla patria. Tennero fede al giuramento. Questa – Signor Presidentedella Repubblica Ellenica – è l’essenza della vicenda di Cefalonianel settembre del 1943. Noi ricordiamo oggi la tragedia e la gloriadella Divisione “Acqui”. Il cuore è gonfio di pena per la sorte di quelliche ci furono compagni della giovinezza; di orgoglio per la loro con-dotta. La loro scelta consapevole fu il primo atto della Resistenza, diun’Italia libera dal fascismo. La Sua presenza, Signor Presidente, èper me, per tutti noi Italiani, motivo di gratitudine. E’ anche motivodi riflessione. Rappresentiamo due popoli uniti nella grande impresadi costruire un’Europa di pace, una nuova patria comune di nazionisorelle, che si sono lasciate alle spalle secoli di barbari conflitti. Lastoria, con le sue tragedie, ci ha ammaestrato. Molti sentimenti si af-fiancano, nel nostro animo, al dolore per i tanti morti di Cefalonia:morti in combattimento, o trucidati, in violazione di tutte le leggidella guerra e dell’umanità. L’inaudito eccidio di massa, di cui furono

vittime migliaia di soldati italiani, denota quanto profonda fosse lacorruzione degli animi prodotta dall’ideologia nazista. Non dimen-tichiamo le tremende sofferenze della popolazione di Cefalonia e ditutta la Grecia, vittima di una guerra di aggressione. A voi, ufficiali,sottufficiali e soldati della Acqui qui presenti, sopravvissuti al tragicodestino della vostra Divisione, mi rivolgo con animo fraterno. Noi,che portavamo allora la divisa, che avevamo giurato, e volevamomantenere fede al nostro giuramento, ci trovammo d’improvviso allosbaraglio, privi di ordini. La memoria di quei giorni è ancora benviva in noi. Interrogammo la nostra coscienza. Avemmo, per gui-darci, soltanto il senso dell’onore, l’amor di Patria, maturato nellegrandi gesta del Risorgimento. Voi, alla fine del lungo travaglio cau-sato dal colpevole abbandono, foste posti, il 14 settembre 1943, dalvostro comandante, Generale Gandin, di fronte a tre alternative:combattere al fianco dei tedeschi; cedere loro le armi; tenere le armie combattere. Schierati di fronte ai vostri comandanti di reparto, vifu chiesto, in circostanze del tutto eccezionali, in cui mai un’unitàmilitare dovrebbe trovarsi, di pronunciarvi. Con un orgoglioso passoavanti faceste la vostra scelta, “unanime, concorde, plebiscitaria”:“combattere, piuttosto di subire l’onta della cessione delle armi”. De-cideste così, consapevolmente, il vostro destino. Dimostraste che laPatria non era morta. Anzi, con la vostra decisione, ne riaffermastel’esistenza. Su queste fondamenta risorse l’Italia. Combatteste con co-raggio, senza ricevere alcun aiuto, al di fuori di quello offerto dallaResistenza greca. Poi andaste incontro a una sorte tragica, senza pre-cedenti nella pur sanguinosa storia delle guerre europee. Si leggono,con orrore, i resoconti degli eccidi; con commozione, le testimonianzeunivoche sulla dignità, sulla compostezza, sulla fierezza di coloro cheerano in procinto di essere giustiziati. Dove trovarono tanto coraggioragazzi ventenni, soldati sottufficiali, ufficiali di complemento e dicarriera? La fedeltà ai valori nazionali e risorgimentali diede com-pattezza alla scelta di combattere.

L’onore, i valori di una grande tradizione di civiltà, la forza diuna Fede antica e viva, generarono l’eroismo di fronte al plotoned’esecuzione. Coloro che si salvarono, coloro che dovettero la vita aicoraggiosi aiuti degli abitanti dell’isola di Cefalonia, coloro che poicombatterono al fianco della Resistenza greca, non hanno dimenti-cato, non dimenticheranno. Questa terra, bagnata dal sangue di

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tanti loro compagni, è anche la loro terra. Divenne chiaro in noi, inquell’estate del 1943, che il conflitto non era più fra Stati, ma fraprincìpi, fra valori. Un filo ideale, un uguale sentire, unirono aimilitari di Cefalonia quelli di stanza in Corsica, nelle isole dell’Egeo,in Albania o in altri teatri di guerra. Agli stessi sentimenti si ispira-rono le centinaia di migliaia di militari italiani che, nei campi di in-ternamento, si rifiutarono di piegarsi e di collaborare, mentre le forzedella Resistenza prendevano corpo sulle nostre montagne, nelle città.Ai giovani di oggi, educati nello spirito di libertà e di concordia frale nazioni europee, eventi come quelli che commemoriamo sembranoappartenere a un passato remoto, difficilmente comprensibile. Possarimanere vivo, nel loro animo, il ricordo dei loro padri che diederola vita perché rinascesse l’Italia, perché nascesse un’Europa di libertàe di pace. Ai giovani italiani, ai giovani greci e di tutte le nazionisorelle dell’Unione Europea, dico: non dimenticate.

Caro Presidente della Repubblica Ellenica, Le sono grato peravermi accolto nella Sua terra, e per aver voluto vivere con mequesta giornata di memorie, di pietà, nell’isola di Cefalonia, ri-cordando insieme i Caduti greci e italiani. Oggi i nostri popolicondividono, con convinzione e con determinazione, la missionedi fare dell’Europa un’area di stabilità, di progresso, di pace. Lanuova Europa, un tempo origine di sanguinose guerre, ha giàdato a tre generazioni dei suoi figli pace e benessere. Proponel’esempio della sua concordia a tutti i popoli. Uomini della Divi-sione “Acqui”: l’Italia è orgogliosa della pagina che voi avetescritto, fra le più gloriose della nostra millenaria storia. Soldati, Sottufficiali e Ufficiali delle Forze Armate Italiane: onoreai Caduti di Cefalonia; onore a tutti coloro che tennero alta la di-gnità della Patria. Il loro ricordo vi ispiri coraggio e fermezza,nell’affrontare i compiti che la Patria oggi vi affida, per missioninon più di guerra, ma di pace.Viva le Forze Armate d’Italia e di Grecia.Viva la Grecia. Viva l’Italia. Viva l’Unione Europea

Discorso del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampialla commemorazione dei caduti italiani della divisione Acqui

Cefalonia, 1° marzo 2001

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Nel “baule dei ricordi” di Angelo Emilio c’è anche unapubblicazione ricca di immagini e di documenti che il capo-ral maggiore ha conservato con tanta cura affinché nulla an-dasse perduto dal titolo La Divisione Acqui a Cefalonia e Corfùsettembre 1943-novembre 1944 (Comune di Bologna, Comitato perle celebrazioni del XXX della Resistenza e della Guerra di Libera-zione Nazionale, Associazione nazionale superstiti, reduci e famigliecaduti Divisione «Acqui»).

Ciò per dire che l’apporto delle Associazioni dei reduci edelle famiglie dei caduti è stato fondamentale per mantenerevivo il ricordo di quanti hanno perso la vita sui fronti diguerra come Cefalonia e Corfù.

Di seguito un’ampia documentazione tratta dalla suddettapubblicazione.

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Figura 1. 11 settembre 1943.Testo dell’ultimatum inviato al Generale Gandin dal comandante Barge.

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Figura 2. 11 settembre 1943. Il telegrammadel Comando Supremo n. 1029 che comunica al generale Gandin

di resistere all'intimidazione tedesca di disarmo con le armi.

Figura 3. 13 settembre 1943. Comunicazione del generale Hubert Lanz

al suo diretto superiore generale Lohr.

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Figura 4. 15 settembre 1943. Direttive sul trattamento da riservare ai militari italiani.

131

Figura 5. 17 settembre 1943.Volantino lanciato dai tedeschi.

132

Figura 6. 18 settembre 1943.Direttive sul trattamento da riservare ai militari italiani.

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Figura 7. 19 settembre 1943.Volantino ultimativo lanciato dai tedeschi.

134

Figura 8. 19 settembre 1943. Richiesta di concorso aereo al Comando Supremo da parte del presidio di Cefalonia

e relativa risposta.

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Figura 9. 20 settembre 1943. Disposizione del generale Gandin sull’attacco postazioni nemiche.

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Figura 10. 20 settembre 1943. Disposizione del generale Gandin sull’attacco postazioni nemiche (secondo foglio).

137

Figura 11. 26 settembre 1943. Direttiva del generale Lanz per la fucilazione degli ufficiali italiani a Corfù.

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I SoLDATI SICILIANI CAuTI NELLE ISoLE DI CEfALoNIA E CoRfù

(fonte: Associazione Divisione Aqui)

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Collana Extravagantes [storia, antropologia & società]

1. Io, non io, super io / Lorenzo Pio Massimo Martino

2. Alessandro il Grande / Antonio Montesanti (fuori catalogo)

3. Dossier Portopalo / Sergio Taccone

4. La mia guerra in mare / Ugo Foschini

5. Guerre a tappeto / Edoardo Marino

6. L’Elba tra Medioevo e Rinascimento / Marcello Camici

7. Il canto, la festa, il ballo / Monica Sanfilippo

8. Alfabeto Italia / Aldo Marinelli

9. Portali di Calabria / Daniela Borgese

10. La Scelta / Roberto Maffioletti

11. Domenico De Caridi, un magistrato, un uomo / Adele Iacona De Caridi

12. Rapporti epistolari per la Storia dell’Arte / Maurizia Migliorini e Giulia Savio

13. Asia, Buddha e un reporter senza lavoro / Gianrigo Marletta

14. Regalbuto. Storie, leggende, uomini ed eroi / Francesco Miranda

15. Alessandro Magno / Antonio Montesanti

16. JFK. Un uomo dai mille volti / Emilio Vaccaro

17. La forma dell’ideale / Marina Mezzina

18. Alexander Islamicus / Vincenzo La Salandra

19. La follia al potere / Domenico Vecchioni

20. Napoleone e Letizia all’Isola d’Elba / Marcello Camici

21. L’abito delle mani / Franco Biancacci

22. La dolce nemica / Carlo Gallina

23. Chi ha assassinato Rasputin? / Domenico Vecchioni

24. La diplomazia dei “piccoli passi” / Marco Lavopa

25. Protocristianesimo / Andrea Filippini

26. Web 3.0. Il futuro del web è ibrido? / Vincenzo Grienti

27. La mia guerra in mare... e dintorni / Ugo Foschini

28. Stonehenge. Tra Archeologia e Storia / Paolo Malagrinò

29. Via Rasella e le Fosse Ardeatine. Una storia da riscrivere? / Luigi Iaquinti