Sartre, la psicanalisi esistenziale e l'antipsichiatria

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Giacomo Conserva Sartre, la psicanalisi esistenziale e l’antipsichiatria Le statue volavano basse, dolcemente; ronzavano. La camera (OR, 259) Un mondo (…) come quello delle panzerdivisionen e della R.A.F. L’essere e il nulla (NET), 582 Selbstmord gleich mord (suicidio=omicidio) SPK, Heidelberg 1971 [Una presentazione (aprile 2011) Questo testo è stato concepito nell’ottobre –novembre 2010 per il bollettino del centro di studi sartriani di Roma, dove doveva comparire- cosa che poi per un insieme di motivi non è avvenuto. ‘E variamente circolato per mail. Dalla sua origine dipende il carattere ‘specialistico’, il dare per scontato un abbastanza alto livello di conoscenza del pensiero e del significato storico di Jean Paul Sartre. Non mi è chiaramente possibile fornire in breve un simile sfondo, non posso che rinviare altrove. Cercherò comunque di chiarire alcuni dei temi di fondo di questa ricerca: a) cosa pensava Sartre della psichiatria? e, connessa a questa domanda, come e in che contesto si sono formate le sue posizioni? b) che rapporto vi è stato fra Sartre e i movimenti di trasformazione e rottura della psichiatria tradizionale? La risposta a queste domande non è scontata, e porta a una revisione sia della ‘psicologia’ (o antropologia) di Sartre che a un ripercorrere la storia della psichiatria antiistituzionale (al di là delle caricature alla Jervis, o del velo di silenzio/ normalizzazione che si è steso su quanto di più sinceramente e radicalmente innovativo era in ballo in quei movimenti). – La ricerca presenta fra l’altro alcuni testi sostanzialmente ignoti, come la prefazione scritta da Sartre per un libro di Laing e Cooper del 1964, o la sua lettera del 1972 ai “compagni dell’SPK” (Collettivo Socialista dei Pazienti, di Heidelberg); un tema centrale è l’esperienza con la mescalina del 1935, mai tematizzata da Sartre ma verosimilmente strettamente collegata a momenti centrali della sua opera ( cfr. la ‘estasi orribile del parco’ della Nausea, o il lungo brano sul ‘vischioso’ alla fine dell’Essere e il Nulla). Un punto sostanziale emerso per me- qui solo accennato- è la fondamentale differenza fra l’antropologia di Sartre e quella di Simone de Beauvoir, che tanto (e tanto contrastato) influsso ha avuto nello sviluppo del pensiero femminista; proprio qui sta comunque una delle frontiere davanti a cui si arresta la ricerca: il mutamento di paradigma fra il marxismo esistenziale/maoista (mi si perdoni la barbarie dell’espressione) di Sartre e il pensiero e gli sviluppi sociali successivi (che alla fine del saggio evoco nominando- solo nominando- Foucault, Derida, Deleuze, Guattari, Valerie Solanas, Luce Irigaray). Lo scavo archeologico forse permette di arrivare con occhi più aperti e sensibili al qui ed ora, più pronti a coglierne il contenuto ed il sapore- nella loro ricchezza come nella loro a volte atrocità.- Aggiungo che questo saggio si collega al mio precedente lavoro su Bernward Vesper e la Germania degli anni ’60-’70 (POLISCRITTURE 4), oltre che naturalmente alla mia pratica di lavoro (psichiatra e psicoterapeuta) e pratica generalmente sociale. Vi sono alcune persone (‘pazienti’) che nel loro rifiuto della psichiatria istituzionale odierna mi hanno costretto a fare i conti con diversi dei miei presupposti, e che sono de facto coautori di questo saggio. Esso è stato preannunciato in diversi dei suoi temi da ricerche più a largo raggio testimoniate p.e. sulle mie pagine facebook; là i 1

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Giacomo Conserva

Sartre, la psicanalisi esistenziale e l’antipsichiatria

Le statue volavano basse, dolcemente; ronzavano. La camera (OR, 259)

Un mondo (…) come quello delle panzerdivisionen e della R.A.F. L’essere e il nulla (NET), 582

Selbstmord gleich mord (suicidio=omicidio) SPK, Heidelberg 1971

[Una presentazione (aprile 2011)

Questo testo è stato concepito nell’ottobre –novembre 2010 per il bollettino del centro di studi sartriani di Roma, dove doveva comparire- cosa che poi per un insieme di motivi non è avvenuto. ‘E variamente circolato per mail. Dalla sua origine dipende il carattere ‘specialistico’, il dare per scontato un abbastanza alto livello di conoscenza del pensiero e delsignificato storico di Jean Paul Sartre. Non mi è chiaramente possibile fornire in breve un simile sfondo, non posso che rinviare altrove. Cercherò comunque di chiarire alcuni dei temi di fondo di questa ricerca:a) cosa pensava Sartre della psichiatria? e, connessa a questa domanda, come e in che contesto si sono formatele sue posizioni? b) che rapporto vi è stato fra Sartre e i movimenti di trasformazione e rottura della psichiatria tradizionale?

La risposta a queste domande non è scontata, e porta a una revisione sia della ‘psicologia’ (o antropologia) di Sartre che a un ripercorrere la storia della psichiatria antiistituzionale (al di là delle caricature alla Jervis, o del velo di silenzio/ normalizzazione che si è steso su quanto di più sinceramente e radicalmente innovativo era in ballo in quei movimenti). –La ricerca presenta fra l’altro alcuni testi sostanzialmente ignoti, come la prefazione scritta da Sartre per un libro di Laing e Cooper del 1964, o la sua lettera del 1972 ai “compagni dell’SPK” (Collettivo Socialista dei Pazienti, di Heidelberg); un tema centrale è l’esperienza con la mescalina del 1935, mai tematizzata da Sartre ma verosimilmente strettamente collegata a momenti centrali della sua opera ( cfr. la ‘estasi orribile del parco’ della Nausea, o il lungo brano sul ‘vischioso’ alla fine dell’Essere e il Nulla). Un punto sostanziale emerso per me- qui solo accennato- è la fondamentale differenza fra l’antropologia di Sartre e quella di Simone de Beauvoir, che tanto (e tanto contrastato) influsso ha avuto nello sviluppo del pensiero femminista; proprio qui sta comunque una delle frontiere davanti a cui si arresta la ricerca: il mutamento di paradigma fra il marxismo esistenziale/maoista (mi si perdoni la barbarie dell’espressione) di Sartre e il pensiero e gli sviluppi sociali successivi (che alla fine del saggio evoco nominando- solo nominando- Foucault, Derida, Deleuze, Guattari, Valerie Solanas, Luce Irigaray). Lo scavo archeologico forse permette di arrivare con occhi più aperti e sensibili al qui ed ora, più pronti a coglierne il contenuto ed il sapore- nella loro ricchezza come nella loro a volte atrocità.- Aggiungo che questo saggio si collega al mio precedente lavoro su Bernward Vesper e la Germania degli anni ’60-’70 (POLISCRITTURE 4), oltre che naturalmente alla mia pratica di lavoro (psichiatra e psicoterapeuta) e pratica generalmente sociale. Vi sono alcune persone (‘pazienti’) che nel loro rifiuto della psichiatria istituzionale odierna mi hanno costretto a fare i conti con diversi dei miei presupposti, e che sono de facto coautori di questo saggio. Esso è stato preannunciato in diversi dei suoi temi da ricerche più a largo raggio testimoniate p.e. sulle mie pagine facebook; là i

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‘cammini dell’antipsichiatria’ hanno portato a incontrare non solo Sartre ma Ginsberg, PK Dick, Breton, Artaud, Gerard deNerval, Anna Kavan, Sylvia Plath, Sarah Kane etc etc etc- oltre che p.e. Jared Lee Loughner, l’attentatore paranoico di Tucson, con i suoi ‘ultimi pensieri’ (‘No! Non avrò fiducia in Dio! Cos’è un governo se le parole non hanno un significato?’) Dalla fine di marzo, con alcuni colleghi e non, ho dato vita a un blog, ‘Oltre la società psichiatrica avanzata-un esperimento per una ricerca collettiva’; l’indirizzo è http://gconse.blogspot.com.

La bibliografia la fine del saggio è uno strumento di lavoro; parecchi dei testi citati sono raggiungibili con mezzi elettronici, oltre che nelle normali biblioteche e librerie.

Giacomo Conserva ([email protected])]

1. Lucidità e orgoglio

A poche pagine dall’inizio della ‘Nausea’ (p. 32 degli Oscar Mondadori) troviamo una scenad’orrore:

“Sono solo in mezzo a queste voci gioiose e ragionevoli. Tutti questi tipi passano il loro tempo a spiegarsi, a riconoscere felicitandosene che sono della stessa opinione. Quanta importanza attribuiscono, mio Dio, a pensare tutti quanti le stesse cose. Basta vedere la faccia chefanno quando passa in mezzo a loro uno di questi uomini dagli occhi di pesce, che sembranoguardare al di dentro e coi quali non si può più assolutamente trovarsi d’accordo. Quando avevootto anni e andavo a giocare al Lussemburgo, ce n’era uno che veniva a sedersi in un casottocontro la cancellata che costeggia vìa Auguste-Comte. Non parlava, ma ogni tanto stendeva unagamba e si guardava il piede con un’aria spaventata. Questo piede calzava uno stivaletto mentrel’altro era infilato in una pantofola. II guardiano disse a mio zio che si trattava di un ex censore. Erastato messo a riposo perché era andato nelle classi a leggere le votazioni trimestrali vestito daaccademico. Noi ne avevamo una paura terribile poiché sentivamo ch’era solo. Un giorno fece unsorriso a Roberto, tendendogli le braccia, da lontano: mancò poco che Roberto svenisse. Non eral’aspetto miserabile di quel tipo che ci faceva paura, né il tumore che aveva sul collo e che glistrusciava contro l’orlo del colletto: ma sentivamo che nella sua testa formava pensieri dagranchio1 o da aragosta. E questo ci terrorizzava, ci terrorizzava che si potessero formare pensierida aragosta sul casotto, sui nostri cerchi, sui cespugli.”[La Nausea, Oscar Mondadori, p. 32 ]

E lo stesso orrore e la stessa angoscia corrono nella descrizione che nella ‘Force de l’âge’ Simonede Beauvoir dà di una visita sua e di Sartre al manicomio di Rouen, o in tutta la narrazione della storia di ‘Louise Perron’ (in effetti Renée Ballon), una sua amica e collega che sviluppò un delirio erotomanico devastante; e così pure nella rievocazione della quasi-psicosi post-mescalina di Sartre (orrore che per parte sua la De Beauvoir tenta di combattere con la intellettualizzazione, fondamentalmente- e interpretando a volte la patologia come messa in scena, come problema di volontà). Fa impressione (ci si riferisce sempre a eventi del 1935) mettere a confronto tutto questo con la finezza e il distacco delle analisi fenomenologiche di allucinazioni, deliri, sindrome di automatismo mentale, vita onirica contenute nell’ultima parte de ‘L’imaginaire’, scritto in quegli anni; o con il breve marginale accenno che a un certo punto lì Sartre vi fa alla sua esperienza:

“Ho potuto constatare, dopo un’iniezione di mescalina che mi ero fatto praticare, un breve fenomeno allucinatorio. Presentava esattamente…un carattere laterale: qualcuno cantava nella

1 Ancora 20 anni dopo i granchi avranno un ruolo fondamentale ne ‘I sequestrati di Altona’ (cfr. il saggio di Louette in ‘Silences de Sartre’).

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stanza accanto, e mentre tendevo l’orecchio per sentire meglio- smettendo perciò del tutto di guardare davanti a me- mi comparvero davanti tre piccole nuvole parallele. Questo fenomeno scomparve da solo non appena cercai di percepirlo chiaramente. Non era compatibile con la coscienza visiva piena e chiara. Non poteva esistere che di sfruso e d’altra parte si presentava esattamente come tale; nel modo che avevano queste tre piccole brume di darsi al mio ricordo, non appena scomparse, vi era qualcosa insieme di inconsistente e di misterioso, che, mi sembra, esprimeva con correttezza l’esistenza di questi fenomeni spontanei liberati sul margine della coscienza” [‘L’imaginaire’, pag. 302] 2

In molti brani della ‘Nausea’ (l’estasi orribile del parco, il premere della vegetazione sulle città,la visione apocalittica dall’alto della collina di una Bouville soggetta a trasformazioni mostruoseetc) è difficile non cogliere un influsso di quel tipo di Erlebnis (Sartre aveva partecipato allatraduzione in francese della ‘Psicopatologia generale’ di Jaspers- sapeva benissimo cos’era p.e. ilWahn-Stimmung, lo stato d’animo pre-delirante); e tutto un racconto bellissimo e crudele come ‘Lachambre’ affronta il tema nell’ingresso nel delirio. Al contrario, ne ‘L’essere e il nulla’, che fral’altro fonda il progetto della psicanalisi esistenziale, non si parla quasi di follia. Vi è unsignificativo accenno in nota (un accenno che sarà ripreso dagli antipsichiatri inglesi): ‘Un fou nefait jamais que réaliser à sa manière la condition humaine’[EN 414]; vi è, verso la conclusione dellibro, alla fine del brano sul vischioso (pag. 676-677 della edizione italiana), l’esplicita menzionedelle psicosi di influenzamento e del furto del pensiero3 (che è costitutivo della sindrome diautomatismo mentale di De Clérambault, preliminare alla psicosi allucinatoria cronica di cui Sartreaveva temuto di soffrire)- e i toni della prosa (“ma è orribile una coscienza che diventi vischiosa…”)ricordano una volta di più quel 1935 terribile. Ma la follia, appunto, non è tematizzata. Quanto alla psicanalisi esistenziale, il suo ruolo sembra essere quello di chiarire al soggetto leproprie scelte di fondo: sia a livello maieutico (gnōthi seautón) che a livello ermeneutico, o diculture studies, come si direbbe oggi; non a caso il metodo è stato applicato soprattutto da Sartreagli studi biografici su Baudelaire, Genet, Flaubert- oltre che, in modo discretamente inappropriato,negli scritti su o contro Camus e Merleau-Ponty. Sartre pensa comunque che, mentre si negaesistenza e ruolo dell’Inconscio freudiano, il chiarire al soggetto le motivazione di base, le scelte difondo (non ulteriormente riducibili né deducibili) che la sua libertà ha fatto può permettergli un

2 Nella ‘Fenomenologia della percezione’, a un certo punto Merleau-Ponty riporta una ‘nota autobiografica inedita di Sartre’ che si riferisce alla stessa occasione (è molto probabile che esistesse una memoria di Sartre su tutto l’esperimento):

‘Un soggetto sotto mescalina percepisce la vite di un’apparecchiatura

tipo ampolla di vetro come un’erniatura in un pallone di caucciù. Ma cosa vede in effetti? “Percepisco un mondo di rigonfiamenti… ‘E come se venisse bruscamente cambiata la chiave della mia percezione, e mi si facesse percepire tutto come rigonfiato, esattamente come un brano viene suonato in do, o in si bemolle. In quel momento tutta la mia percezione si trasformò e, per un secondo, percepii una ampolla di caucciù. C’è da dire che non vidi nulla di più? No, ma mi sentivo come spinto a tal punto da non poter percepire diversamente. Mi convinsi che il mondo era fatto proprio in quel modo… Più tardi ci fu un altro mutamento… Tutto mi parve pastoso e scaglioso assieme, come certi grossi serpenti che ho visto svolgere i loro anelli allo Zoo di Berlino. In quel momento, mi venne addosso la paura di essere su un isolotto, circondato da serpenti.” [PdP 392]

3 Non ‘volo del pensiero’ come nella traduzione italiana abituale.

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maggior grado di autenticità; e può pure agevolare quelle trasformazioni improvvise, istantanee,decisive, che a volte si producono in una storia personale; il che sicuramente può essere unmomento terapeutico (o di facilitazione) estremamente importante. Anche nei momenti di massima fortuna del pensiero esistenzialista vi sono state molteplici voci anegare a questa proposta un qualunque significato terapeutico; primo fra tutti Rollo May in America(il curatore della fondamentale antologia ‘Existence’ del 1958, che portò nei paesi di lingua ingleseMinkowski, Binswanger, Von Gebsattel etc); lo stesso venne sostenuto più tardi da un altro grandepsicoterapeuta esistenziale come lo svizzero Gion Condrau; nel recente molto notevole commentocollettivo all’’Essere e il nulla’ della Akademie Verlag, Jean-Christophe Merle è addiritturasarcastico nella trattazione di questa sezione dell’opera. Vi sono però state anche significativeposizioni diverse; prima di tutte quella di Binswanger, che manifestò grande interesse per questitemi di Sartre, oltre che una congruenza di fondo con aspetti base della sua Daseinanalyse. KenWilber vede in Sartre (pur ‘estremista’) una interessante esplorazione del ‘livello egoico’ (lacoscienza decaduta, della quotidianità); in modo simile Thomas Flynn (cfr. il commento tedesco),pur ammettendo che p.e. le analisi fatte in EN del rapporto con altri sono assolutamente unilaterali,conclude che rispecchiano fedelmente un mondo hobbesiano di violenza, sopraffazione,sfruttamento. Stanislav Grof, il grande esponente della psicoterapia transpersonale, ritiene che nellastrutturazione e nella tematica di EN sia fondamentale il ruolo di una esperienza psichedelica maleelaborata (cfr. le considerazioni svolte sopra). Ma vi è stato anche chi (v. Masquelier) ha trovato unaconsonanza fra le posizioni di Sartre e quelle di Perls e dei gestaltisti- con il richiamo al ‘qui ed ora’ed alla attività e attivazione del soggetto (per non parlare poi della terapia cognitivo-comportamentale, o della neuroprogrammazione linguistica).- D’altra parte, in tempi in cui simoltiplicano i libri sulla ‘consulenza filosofica’, da Gerd Achenbach in poi, ed esiste addirittura unacollana editoriale interamente dedicata ad essa, è difficile non pensare che anche un metodo comequello proposto da Sartre non possa avere profonde giustificazioni, e ottenere risultati.4 Dasegnalare pure che il brano sul ‘vischioso’ venne ripreso e commentato da Mary Douglas nelclassico ‘Purezza e pericolo’ (e di lì, senza che venisse citato Sartre, passò a ‘Poteri dell’orrore’della Kristeva: vedi il saggio di Sara Heinämaa sulla ‘psicanalisi delle cose’ ne ’L’essere e ilnulla’). Sartre non ha mai rivendicato la déraison, i doni divini della follia, la liberazione dell’inconscio odella immaginazione; è abissalmente lontano da Breton, Artaud, Foucault. Le sue droghe di elezionesono sempre stati anfetamine, nicotina, barbiturici, non certo gli allucinogeni- l’ethos psichedelicodella fine degli anni ’60 non pare averlo minimamente toccato. Il suo maggior valore è semprestato, assieme alla libertà, la lucidità- la consapevolezza. Non a caso ha scritto un fondamentalesaggio sulla ‘libertà cartesiana’: il diritto della ragione a mettere in dubbio, contro tutto e tutti, ognipresupposto, e a costruire un mondo su questa base.- Certo, tutto questo aveva anche dei lati oscuri,e non solo nel timore di fondo di quanto è profondo, nascosto, avvolgente, troppo naturale. Moltoprima della geometrica costruzione de ‘Le parole’, Sartre scrisse nel 1939, nei suoi diari di guerra(stampati postumi) un brano amaro e sorprendente:

“’E vero, non sono autentico. Tutto quello che sento, ancora prima di sentirlo so che lo sento. E non lo sento più che a metà, allora, tutto impegnato come sono a definirlo e a pensarlo. Le mie più grandi passioni non sono che dei movimenti di nervi. Il resto del tempo, sento di fretta e poi sviluppo in parole, comprimo un po’ di qui, spingo un po’ di là ed ecco costruita una sensazione esemplare, buona da inserire in un libro rilegato. Tutto quello che gli uomini sentono posso indovinarlo, spiegarlo, metterlo nero su bianco. Ma non sentirlo. Illudo, ho l’aria di essere una persona sensibile e sono un deserto. D’altra parte, quando considero il mio destino esso non mi

4 In fondo, questo è stato sempre uno dei campi di fondo della filosofia: la comprensione di sé, il distacco dall’immediatezza subita o dalle abitudini malsane accumulate- la capacità di accettare quanto è immodificabile e cercare di cambiare quanto non lo è; si pensi solo a Montaigne, o, in modo diverso, ai libri di Hadot.

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sembra così disprezzabile; mi pare di avere davanti a me una quantità di terre promesse dove non entrerò. Non ho avuto la ‘nausea’, non sono autentico, sono bloccato al confine delle terre promesse. Ma almeno le indico, e altri potranno recarvisi. Sono uno che indica, è il mio ruolo. Mi pare di cogliermi in questo momento nella mia struttura più essenziale, in questa specie di squallore desolato a vedermi sentire, a vedermi soffrire non per conoscere me stesso ma per conoscere tutte le ‘nature’, la sofferenza, la gioia, l’essere-nel-mondo. Sono io, questo raddoppiamento continuo e riflessivo, questa spinta avida a trarre profitto da me stesso, questo sguardo. Lo so bene- e spesso ne sono stanco. ‘E di là che viene questa attrazione magica che esercitano su di me le donne oscure e affogate, T. , in altri tempi O.. E poi ancora, di tanto in tanto, ho dei piaceri innocenti d’anima pura- subito riconosciuti, depistati, espressi, sparsi nelle mie lettere. Non sono che orgoglio e lucidità.” [CDG, 82-83]

Sia quel che sia (e sia per un capriccio del destino o per la pura forza di un pensiero o per l’effetto trainante di una testimonianza di vita), con tutti i limiti che ha avuto Sartre ha dato fra gli anni ’50 e ’70 un contributo fondamentale alla messa in crisi della psichiatria tradizionale- e della psicanalisi tradizionale. ‘E questo contributo che adesso cercherò di rintracciare.

2. Antipsichiatria

Molti dei protagonisti di questa storia sono morti: Sartre, Basaglia, Laing, Cooper, Mario Tommasini (Deleuze, Guattari, Foucault, Derida, Carla Lonzi, Valerie Solanas); ed è da poco mancato anche Francis Jeanson, che negli ultimi decenni della sua vita si occupò di alternative alla psichiatria tradizionale.- Molti altri sono vivi. Dove cercare l’antipsichiatria oggi? Su nopazzia.it, al telefono viola, al gruppo Artaud di Pisa, sul sito del Dr. Breggin (autore fra l’altro di ‘Toxic Psychiatry’) in USA? O sul sito multilingue del Patientenfront/Sozialistisches Patientenkollektiv(H) del Dr. Huber (fondatore nel 1971 dell’SPK)?Conosco persone diagnosticate psicotiche che dedicano moltissimo tempo ed energie a questo settore della Rete. Ma c’è anche il DSM di Trieste, con il suo accumulo di esperienza, prassi, discorsi; o il progetto Soteria, fondato da Mosher in California e da Luc Ciompi in Svizzera; esiste ancora in Inghilterra la Philadelphia Association, a suo tempo messa in piedi da Ronald Laing e c.. E, più in generale, esiste una miriade di gruppi, di operatori pubblici o di cooperative, di associazioni sparse in ogni dove; con il discorso dell’alternativa alla esclusione, ai manicomi, alla psichiatria oggettivante che in molti settori è diventato parte del senso comune e delle politiche sociali e sanitarie, e si è materializzata in centri di trattamento e riabilitazione, in associazioni di auto-aiuto, in pratiche consolidate e magari continuamente reinventate. Così come la critica alla psichiatria (e alla psicanalisi) tradizionale si è mescolata variamente con i contributi del femminismo, e dei gruppi omosessuali, oltre che con il discorso e la pratica post-coloniale e la autoorganizzazione delle minoranze. E c’è un rapporto fra gli eventi di allora e il nascere delle terapie alternative (di cui p.e. lo stesso Laing si interessò molto soprattutto dopo il ’70- dando così un suo contributo al libro di Stanislav e Christina Grof sul potere curativo della crisi e le emergenze spirituali). C’è anche un’altra faccia della realtà, naturalmente (o un altro modo di considerarla): l’uso prevalente di psicofarmaci, il taglio delle risorse per i servizi sociali, una psichiatria biologica spesso terribilmente oggettivante, i problemi creati dall’uso diffuso e caotico di sostanze psicoattive, l’estensione di aree di anomia, disgregazione, povertà, sfruttamento (ignoranza), la dittatura mediatica che a volte pare coprire il pianeta, le guerre e le migrazioni forzate, e così via. Sono cose note. Diciamo che la realtà è contradditoria- come del resto è sempre stata.

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3. Asylums

Il mondo degli anni ’60-’70 era molto diverso dal nostro; anche la psichiatria era diversa all’inizio di questo periodo- molto più sicura di sé, per certi aspetti sicuramente molto più bieca- anche se, naturalmente, il quadro era differenziato: c’erano stati Sullivan, la Fromm-Reichmann, la Sechehaye; negli anni ’30 Lacan aveva scritto un ammirevole libro sulla ‘psicosi paranoide nei suoi rapporti con la personalità’; c’erano la Tavistock Clinic e il William Alanson White Institute; si iniziava pure a disporre di farmaci capaci a volte di ottenere risultati impensati sulle patologie; lo sviluppo stesso della cibernetica (oltre che della socializzazione complessiva del sistema sociale e produttivo) agevolò l’emergere di una attenzione rivolta alle interazioni di gruppo più che agli elementi isolati. Iniziarono alcune esperienze timidamente riformatrici.- Però per esempio il manicomio di Washington, ove Goffman trascorse un anno intero per la ricerca che portò ad ‘Asylums’, aveva 6000 ricoverati (10000 in quello dell’isola greca di Lero negli anni ’70); e le condizioni degli ospedali psichiatrici erano spesso davvero sconvolgenti. Già a suo tempo i surrealisti si erano scagliati contro la psichiatria asilare (si pensi alla conclusione di ‘Nadja’ di Breton). Ma adesso si crearono svariati gruppi attivi su questo fronte- con partecipazione di tecnici, studenti, ‘pazienti’. Erano del resto gli anni attorno al ’68- che fu un fenomeno di crisi sistemica mondiale delle società capitalistiche avanzate (e non solo di queste). La protesta contro un mondo ossificato e assurdo fu diffusissima; necessariamente coinvolse anche la psichiatria, con accentuazioni, vicende, agencements molto diversi da luogo a luogo- sempre comunque nell’ambitodi un clima comune. Nella discussione che segue parlerò (in rapporto a Sartre) di tre esperienze diversissime fra loro ma tutte molto significative: Franco Basaglia; l’antipsichiatria inglese; l’SPK di Heidelberg.- Molto resta fuori: la psicoterapia istituzionale di Oury a La Borde (da cui prese il via Felix Guattari); il libro di Phyllis Chesler (‘Donne e pazzia’); il contributo specifico di Foucault;‘Il mito della malattia mentale’ di Szasz, e così via; la stessa Italia non si riduce certo alla figura di Franco Basaglia e della sua cerchia. ‘E comunque una scelta rappresentativa, credo, di un clima complessivo.

4. Basaglia

Franco Basaglia veniva dalla fenomenologia e dal pensiero esistenzialista. In tutti gli anni in cui- a Gorizia, a Colorno, a Trieste- si trovò a gestire (e trasformare radicalmente) servizi psichiatrici e manicomi la figura di Sartre funzionò per lui (erano gli anni della “gloria” di Sartre, come la chiama Bernard-Henry Lévy all’inizio del suo libro) come istanza etica, come interlocuzione critica,come fondamentale agente di legittimazione. Così in un’opera come ‘Crimini di pace’, del ’75, Sartre è onnipresente; e in tutti gli interventi di Basaglia sono molteplici i richiami a lui; da ‘Che cos’è la letteratura’ si desume il richiamo agli intellettuali, ai tecnici del sapere pratico a mettersi al servizio degli oppressi; e da Fanon (mediato da Sartre e dalla sua celebre introduzione), oltre che dall’’Essere e il nulla’ e dalle altre opere sue e scelte concrete di impegno, la spinta a esaminare le tecniche non solo di oppressione ma anche di negazione dell’identità e della esperienza interna (nei confronti dei folli e degli esclusi non meno che dei colonizzati), e il significato fondante che esse hanno nella definizione dell’essere stesso dei dominanti; il carattere violento della ‘normalità’; il

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ritenere infine necessaria e possibile una trasformazione sociale e culturale globale, che coinvolga tutti i settori dell’esistenza. Nella attività di Basaglia, la psichiatria comunitaria di Maxwell Jones, la psichiatria di settore francese vengono stravolti da un processo antigerarchico ed antiistituzionale, capace di mettere in moto radicali trasformazioni nei soggetti e nelle strutture; mentre fondamentale (e fondante) è il contatto con momenti autonomi di presenza (i ‘volontari’) e con aggregazioni e forze sociali e intellettuali, sollecitando una moltiplicazione degli interlocutori e dei soggetti agenti (si pensi all’uso realmente democratico delle assemblee, al mutamento oggettivo e soggettivo del ruolo dei ricoverati o del corpo curante, al rapporto così importante con una figura come quella di Mario Tommasini o il movimento studentesco di Medicina di Parma). Nella lunga intervista del ’72 a Sartre sulla psichiatria, riportata in ‘Crimini di pace’, vi è una netta differenza di posizioni: Sartre insiste (in termini più morbidi, ma non sostanzialmente diversi da quelli della contemporanea lettera ai ‘compagni dell’SPK’- per la quale si veda dopo) sulla necessità della autoorganizzazione e della azione diretta, immediatamente politica- mentre Basaglia è molto più interessato alla governance e alla stabilizzazione dei processi trasformativi ( radicali!) innescati; intatto è comunque il suo tono di profonda deferenza nei confronti del filosofo. Nel numero di Aut Aut da lei curato su ‘Basaglia a Colorno’, Giovanna Gallio scrive a un certo punto (si parla dell’inizio del 1971, nell’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Colorno, appunto): ‘Ricordo Basaglia in una stanza non grande, dipinta di bianco, mentre parla sporgendosi da un tavolo anch’esso bianco, con dietro un grande ritratto di Jean-Paul Sartre. Era l’unico arredo, insieme forse ad un divano nero e ad alcune sedie sparse qua e là…’ (p. 63). Partito Basaglia quello stesso ‘71, il quadro, mi pare, rimase.

5. La politica dell’esperienza

Il gruppo inglese (Laing, Cooper, Esterson, Schatzman etc) seppe negli anni ’60 sviluppare un discorso teorico di penetranza estrema, e pure mettere in moto esperienze alternative alla psichiatriatradizionale. ‘E rimasta celebre Kingsley Hall, un centro in cui agli psicotici si cercava, al di là di qualunque gerarchia o oggettivazione, di agevolare il passaggio attraverso la pazzia5. Questa era intesa da una parte come espressione di una etichettatura sociale, poi come risposta di una mente/corpo a situazioni invivibili; come processo capace di portare non solo a guarigione ma anche a un superiore livello di integrazione; come modalità esperienziale suscettibile di dare profondi insight al soggetto, e preziosi insegnamenti alla società nel suo complesso (se solo questa avesse accettato il confronto). Il tutto si inseriva in una ricca messe di studi in corso a livello internazionale sulle dinamiche e sul concetto della schizofrenia (cfr. il libro di Boszormenyi-Nagy eFramo), e aveva base in una salda preparazione psicoterapica e filosofica, oltre che in notevoli doti umane, e in una esperienza clinica vastissima. Per tutta una fase il gruppo esercitò una quasi-egemonia intellettuale; espressione ne fu tra l’altro il congresso di 15 giorni ‘Dialettica della liberazione’ che si tenne a Londra nel ’67 (da cui fu tratto un libro); furono presenti e tennero relazioni, oltre a Cooper e a Laing, figure come Marcuse, Paul Sweezy, Lucien Goldmann, il filosofo jugoslavo Petrovic, John Gerassi (il biografo di Sartre), Bateson, Stokely Carmichael (leader delle Pantere Nere), Ginsberg, Julian Beck del Living Theatre, Paul Goodman, Jules Henry, Paul Edwards; parteciparono inoltre folti gruppi di studenti e non provenienti da vari paesi (fra cui Bernward Vesper, l’autore di ‘Die Reise’). L’introduzione venne tenuta da David Cooper, che insistette sulla dimensione politico/culturale del problema (non si trattava di guarire malati, ma di andare verso la liberazione da una società violenta e disumana). Si delineò già allora il passaggio di Laing a una posizione distinta, con il suo sempre maggior interesse per esperienza psichedelica/esperienza trascendentale, mentre vi era una scissione in fieri fra gli apostoli di un

5 A Kingsley Hall venne girato nel ’72 un documentario, ‘Asylum’, di Peter Robinson.

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cambiamento radicale ottenuto tramite azione politica diretta e trasformazione personale accelerata (cfr. l’articolo di David Gale, ex paziente di Cooper) e chi pensava a un lavoro di più vasta portata emeno immediatamente dirompente.- A ogni modo, la lettura di Sartre fatta dal gruppo inglese fu completamente diversa da quella di F. Basaglia, con un utilizzo della fenomenologia dei rapporti con altri e con sé stessi (basandosi sull’’Essere e il nulla’ e sulle opere successive) per esplicitare le varie modalità intrasoggettive ed interpersonali di inautenticità: insicurezza ontologica, sistema del falso Io, elusione, complementarietà (=dipendenza), disconferma, oggettivazione, trasformazione diuna prassi in un processo, mistificazione, assoggettamento ai valori del gruppo (il ‘serment’) assunto come valore primario, nexus famigliare, caduta nella serialità. Cooper riprese l’espressione sartriana ‘emorragia di essere’ 6per illustrare gli effetti distruttivi della interazione. Si analizzarono i rispecchiamenti multipli (io penso che tu pensi che io penso…), la attribuzione (prescrizione) di stati interni, il doppio legame. E tutto questo venne sviluppato in modo estremamente raffinato, partendo dalla tradizione di Minkowski, Binswanger, Tillich, Bultmann- con riferimenti a autori come Dostoievsky, Genet, Kafka, Kierkegaard, oltre che dalla scuola psicanalitica inglese- e appunto con una conoscenza molto approfondita e sofisticata dell’opera di Sartre. Alla sua filosofia post-1950 Laing e Cooper dedicarono un libro intero, ‘Reason and violence’, del ’64- con trattazione di ‘Saint Genet’, di ‘Questioni di metodo’, e della ‘Critica della ragione dialettica’. Per questo libro Sartre scrisse una significativa prefazione:

“Ho letto con attenzione l’opera che mi avete inviato, e ho avuto il grande piacere di trovarvi una esposizione molto chiara e molto fedele del mio pensiero. Più ancora della vostra perfetta comprensione della ‘Critica della ragione dialettica’, quello che mi seduce in questo libro, come nelle vostre opere precedenti, è la vostra preoccupazione costante di realizzare un approccio ‘esistenziale’ ai malati mentali. Penso come voi che non si possono comprendere i disturbi psichici dal di fuori, a partire dal determinismo positivista- né ricostruirli con una combinazione di concetti che restino esterni alla malattia vissuta. Credo anche che non si può né studiare né guarire una nevrosi senza un rispetto di base per la persona del paziente, senza uno sforzo costante di comprendere e rivivere la sua situazione di base, senza il tentativo di ritrovare la risposta a questa situazione della persona; e ritengo- come voi, credo- che la malattia mentale è la via d’uscita che illibero organismo, nella sua unità totale, inventa per potere vivere una situazione invivibile. Per questa ragione attribuisco la più grande importanza alle vostre ricerche, in particolare allo studio che state tentando di fare dell’ambiente famigliare, preso come gruppo e come serie- e sono convinto che i vostri sforzi contribuiscono ad avvicinarci al tempo in cui la psichiatria sarà, infine, umana.”[RV, p.7]

E pure molto significativo è il modo in cui Laing nel ’64 presentò la edizione Penguin de ‘L’Io diviso’, la sua prima opera (‘uno studio esistenziale di salute e follia’)- originariamente pubblicata, cinque anni prima, dalla Tavistock Clinic:

“Non si può dire tutto in una volta sola. Quando ho scritto questo libro avevo ventotto anni: volevo soprattutto dimostrare che, contrariamente a quello che generalmente si crede, è possibilissimo capire gli psicotici. Ciò comportava già per me la necessità di capire il loro contesto sociale, e particolarmente la distribuzione del potere nella loro famiglia: anche così, e anche limitatamente al mio tentativo di rappresentare un certo tipo di esistenza schizoide, oggi mi

6 “Così, la nozione d’altri non può assolutamente riguardare una coscienza soltaria ed extramondana che io non posso neanche pensare: l’uomo si definisce in rapporto al mondo ed in rapporto a me: è l’oggetto del mondo che determina un deflusso interno dell’universo, un’emorragia interna; è il soggetto che mi si manifesta nella mia fuga verso l’oggettivazione.” [EN 303]

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accorgo di essere in parte caduto nella trappola che volevo evitare. In questo libro si parla ancora troppo di loro, e ancora troppo poco di noi. Freud ha detto che la nostra è una civiltà repressiva, in cui le esigenze che spingono all’adattamento e al conformismo e quelle delle nostre energie istintuali, esplicitamente sessuali, sono in conflitto fra loro. Freud riteneva che non vi fosse soluzione per questo antagonismo, ed eraconvinto che, al giorno d’oggi, non vi potesse essere più alcuna possibilità di amore semplice e naturale fra gli esseri umani. La nostra civiltà non reprime soltanto gli ‘istinti’ o la sessualità, ma anche ogni forma di trascendenza. Fra uomini a una dimensione (cfr. H. Marcuse, ‘L’uomo a una dimensione’) non c’è da meravigliarsi se qualcuno, avendo esperienze insistenti di altre dimensioni e non potendo né rinnegarle né dimenticarle completamente, è disposto a correre il rischio di farsi distruggere dagli altri o di tradire ciò che conosce. Nel contesto della follia che attualmente ci circonda, e che chiamiamo normalità, salute, libertà, tutti i nostri sistemi di riferimento sono destinati a restare ambigui ed equivoci. Un uomo che preferisce la morte al comunismo è normale; ma uno che dice di aver perduto la sua anima è matto. Un uomo che dice che gli uomini sono macchine può essere un grande scienziato; ma uno che dice di essere lui stesso una macchina è, nel gergo psichiatrico, ‘depersonalizzato’. Un uomo che dice che i negri sono una razza inferiore può ottenere stima e rispetto; ma uno che dice che la bianchezza della sua pelle è una forma di cancro perde i diritti civili. Una ricoverata, una ragazzina di diciassette anni, mi disse una volta di essere in preda al terrore perché aveva dentro di sé una bomba atomica. Questo è un delirio: ma gli uomini di stato che vantano minacciosamente il possesso dell’arma finale sono di gran lunga più pericolosi e più estraniati dalla ‘realtà’ di molti ai quali è stata applicata l’etichetta di ‘psicotico’. La psichiatria può mettersi dalla parte della trascendenza, della libertà vera, del genuino sviluppo umano: alcuni psichiatri sono già di fatto da questa parte. Ma è estremamente facile per lapsichiatria ridursi ad essere una tecnica di lavaggio del cervello: un metodo per produrre, mediantetorture preferibilmente non dolorose, degli esseri dalla condotta ben adattata. Nei luoghi di cura migliori, dove la camicia di forza è stata abolita, dove le porte sono senza chiavistelli, dove le leucotomie non si fanno quasi più, si usano tuttavia mezzi di aspetto più innocuo, lobotomie e tranquillanti che ri-istituiscono, questa volta dentro il paziente, le sbarre e i catenacci del manicomio. Ecco perché voglio ripetere che il nostro stato ‘normale’ e ‘ben adattato’ non è, molto spesso, che una rinuncia all’estasi, un tradimento delle nostre più vere potenzialità; e che molti di noi riescono fin troppo bene a costruirsi un falso io, per adattarsi a false realtà. Ma per ora basta. Questa è l’opera di un uomo giovane e vecchio al tempo stesso: oggi sono più vecchio, ma sono anche più giovane.Londra, settembre 1964” [“L’io diviso”, pag. 15-16]

Successivamente, come ho accennato, le strade del gruppo si divisero, con Laing in particolare che iniziò un lungo vagabondaggio intellettuale e spirituale (cfr. l’articolo di Itten); Cooper, per parte sua, passando per una drammatica crisi esistenziale-spirituale, ebbe la forza di scrivere un testo veramente di frontiera come ‘La morte della famiglia’.- Il contributo del gruppo al geist degli anni ’70 rimase, e fu estremamente importante (si vedano per esempio i riferimenti a Laing e Cooper in ‘Movimento a più voci’ di Maria Schiavo); Cooper si era trasferito a Parigi, dove lavorò fino alla morte a stretto contatto con Foucault, Guattari etc.; Laing, dopo soggiorni e viaggi in Oriente e altrove, approdò all’Austria (e all’alcool, come si sa).

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6. Distruggi quello che ti distrugge

“La nostra pratica ha dimostrato come l’azione debba svilupparsi a partire dalla sofferenza. I bisogni dell’individuo sono presi per quello che sono, come prodotti specifici, non misurabili con criteri esterni: si tratta, attraverso un lavoro collettivo, di sviluppare le loro contraddizioni immanenti. Da ciò si impone un superamento, ed è così che ciascuno è portato a sentire la necessità soggettiva di rovesciare i rapporti esistenti.- ‘E importante quindi spiegare che spiriti e corpi sono programmati dal capitalismo, che la miseria personale si identifica con le contraddizioni della società, che il passaggio da oggetto a soggetto storico si potrà realizzare solo collettivamente. Così la protesta inibita che i sintomi della malattia fanno intravedere si risolverà nella dialettica individuo-società. I sentimenti repressi dei pazienti (cioè di coloro che soffrono coscientemente) libereranno l’energia necessaria all’azione che innescherà la bomba necessaria per far saltare in aria il sistema dominante di assassinio permanente. In questo modo l’agitazione si fa azione, è la messa in moto di un processo unico di rivoluzione della coscienza e della realtà”.[FDMA, p. 34]

“La malattia: tesi e principi dell’SPK.

1. la malattia è la condizione e il risultato dei rapporti di produzione capitalisti.2. come condizione dei rapporti di produzione, la malattia è forza produttiva per il capitale.3. come risultato dei rapporti di produzione capitalisti, la malattia è, nelle sue forme di sviluppo

di protesta della vita contro il capitale, forza produttiva rivoluzionaria per gli uomini.4. la malattia è la sola forma di “vita” possibile sotto il dominio del capitale.5. malattia e capitale sono identità: l’intensità e l’estendersi della malattia aumentano nella

misura in cui si ammortizza il capitale, movimento che va di pari passo con la distruzione del lavoro umano o distruzione del capitale umano.

6. i rapporti di produzione capitalisti implicano la trasformazione del lavoro vivente (creatività) in materiale morto (merci, capitali). La malattia è l’espressione di questo processo in perpetua estensione centrifuga.

7. come disoccupazione velata e sotto la forma di assistenza sociale, la malattia è il tampone delle crisi nello sviluppo capitalista.

8. l’inibizione, la malattia cioè nella sua forma non sviluppata, è la prigione interiore dell’individuo.

9. se si toglie all’organizzazione degli Istituti di Sanità l’amministrazione, l’utilizzazione e la conservazione della malattia e se la malattia prende forma di resistenza collettiva dei pazienti, lo Stato è allora obbligato a reagire e a sostituire alla mancanza di una prigione interiore delle vere e proprie prigioni esterne.

10. le istituzioni sanitarie si occupano della malattia ad una sola condizione: che il paziente nonabbia alcun diritto.

11. la salute è una chimera biologico-fascista che ha la funzione di nascondere la necessità sociale della malattia e di nascondere altresì la propria funzione agli occhi degli abbrutiti e di coloro che abbrutiscono.”

[FDMA, p.17-18]

Il Collettivo Socialista dei Pazienti di Heidelberg (SPK) nacque dal lavoro portato avanti da alcuni medici della Clinica Psichiatrica Universitaria di Heidelberg –guidati dal Dr. Wolfgang Huber- nel dopo-’68. Si sviluppò fra il ’70 e il ’71, giungendo fino ad avere 500 membri (pazienti, operatori sanitari, studenti, lavoratori). Riuscì inizialmente a ottenere- a prezzo di aspre lotte- una certa copertura istituzionale, che saltò a metà 1971. L’attività terapeutica- condotta in ‘sedute di agitazione’ sia individuali che collettive (e accompagnata da gruppi di studio teorici) partiva dal presupposto che non vi era distinzione di fondo fra malato e sano, né fra curante e curato; che la

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messa in comune della sofferenza e delle esperienze avrebbe permesso sia una elevazione del livellodi coscienza politica che un calo del malessere. Si utilizzavano Hegel, Marx, Lukacs. Per un certo tempo le cose parvero funzionare bene, l’influsso dell’SPK crebbe, così come le simpatie di cui godeva in ambienti intellettuali di sinistra. La repressione crescente e la politicizzazione sempre più spinta fecero sì, pare accertato, che al progetto originario si sovrapponesse una attività coperta di vera e propria preparazione alla lotta armata. Furono organizzati gruppi che falsificavano documenti, altri di addestramento alle armi da fuoco etc; si svilupparono contatti con la RAF (Rote Armee Fraktion, la c.d. banda Baader-Meinhof). Dopo l’incarcerazione di parecchi degli elementi più attivi, molti passarono nella clandestinità, entrando nella RAF vera e propria (nomi famosi come Elisabeth von Dyck, uccisa nel ’79, Sieglinde Hofmann, Klaus Jünschke ). Uno di questi, Siegfried Hausner, uno studente di 23 anni, prese parte nel 1975 alla occupazione della ambasciata tedesca di Stoccolma, morendo poi in prigione in conseguenza delle ferite riportate nell’assalto delle teste di cuoio tedesche. In suo nome era intitolato il gruppo della RAF (commando Siegfried Hausner) che nel settembre del ’77 rapì il presidente della Confindustria tedesca Schleyer (ucciso 45 giorni dopo), dando il via al terribile autunno tedesco. Nel suo carattere estremo, sono comunque significativi i rapporti fra l’esperienza dell’SPK e altredi lotta antiistituzionale. Attribuire alla società capitalistica e ai suoi funzionari pagati l’origine di miseria e sofferenza era qualcosa di molto diffuso in quegli anni. Notevole il carattere di gruppo percerti aspetti autoreferenziale, e dall’altro il passaggio dalle armi della critica alla critica delle armi- che non era comunque qualcosa di assolutamente isolato nella Repubblica Federale Tedesca di allora. Sartre scrisse, quasi un anno dopo i primi arresti, una lunga lettera di solidarietà, che fu poi usata come prefazione per le nuove edizioni del più importante scritto teorico dell’SPK, ‘Fare della malattia un’arma’. La lettera, credo, merita di essere letta integralmente:

“Cari compagni! Ho letto il vostro libro con il più grande interesse. Vi ho trovato non solo l’unica radicalizzazione possibile dell’antipsichiatria ma anche una pratica coerente intesa a sostituirsi alla pretesa “cura” della malattia mentale. A quello che Marx chiama l’alienazione, fatto generale in una società capitalistica, pare che voi diate il nome di malattia, per esprimersi in termini grossolani. Credo che abbiate ragione. Nel 1845, Engels scriveva nella ‘Situazione della classe operaia in Inghilterra’: “l’industrializzazione ha creato un mondo siffatto che solo una razza di umanità disumanizzata, degradata, abbassata a unlivello bestiale, tanto dal punto di vista intellettuale che morale, può adattarvisi.” Visto che le forze atomizzanti agiscono in modo sistematico per degradare (all’interno e all’esterno) in sotto-uomini una classe di uomini, si può comprendere come l’insieme delle personedi cui parla Engels siano state colpite dalla “malattia”- malattia che si può assieme concepire globalmente come una danno che si è fatto subire ai salariati e come una rivolta della vita contro questo danno che tende a ridurli alla condizione di oggetto. Dal 1845 le cose sono profondamentecambiate ma l’alienazione resta, e resterà fin quando esisterà il regime capitalistico, poiché essa è,come voi dite, “condizione e risultato” della produzione economica. La malattia, voi dite, è la sola forma di vita possibile nel capitalismo. Di fatto lo psichiatra, che è un salariato, è un malato come tutti. Soltanto che la classe dirigente gli dà il potere di “guarire” e di internare. La “guarigione”, va da sé, non può essere, nel nostro regime sociale, la eliminazione della malattia: è la capacità di continuare a produrre rimanendo ammalato. Nella nostra società vi sono dunque i sani ed i guariti (due categorie di ammalati che ignorano di esserlo, e che osservano le norme della produzione), e dall’altra parte gli “ammalati” riconosciuti, coloro che una rivolta contradditoria rende incapaci di produrre in cambio di un salario, e che vengono consegnati allo psichiatra. Questo poliziotto inizia con il metterli fuori legge rifiutando loro i diritti più elementari. ‘E naturalmente complice delle forze atomizzanti: considera i casi individuali isolatamente, come se i disturbi psiconevrotici fossero delle tare proprie e certe soggettività, dei destini peculiari. Unendo allora ammalati che paiono somigliare fra loro in quanto singolarità egli studia dei comportamenti diversi – che non sono che effetti- e li lega fra loro, creando delle entità nosologiche che tratta come singole malattie, e che

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poi procede a classificare. L’ammalato è dunque atomizzato in quanto malato, e rigettato in una categoria particolare (schizofrenia, paranoia, etc.) nella quale si trovano altri malati che non possono avere alcun rapporto sociale con lui dato che sono tutti considerati esemplari identici della stessa psiconevrosi. Voi, invece, vi siete proposti di giungere- al di là della varietà degli effetti- al fatto fondamentale e collettivo: la malattia “mentale” è indissolubilmente legata al sistemacapitalistico che trasforma la forza lavoro in merce e, di conseguenza, i salariati in cose (Verdinglichung). Vi pare che l’isolamento degli ammalati non può che portare avanti l’atomizzazione iniziata a livello dei rapporti di produzione e che, nella misura in cui i pazienti nella loro rivolta reclamano oscuramente una società diversa, è bene che essi stiano insieme e agiscano l’uno sull’altro e tramite l’altro- in breve che costituiscano un collettivo socialista. E, poiché lo “psichiatra” è anche lui un malato, voi rifiutate di considerare malato e medico comedue individui organicamente separati: questa distinzione, in effetti, ha sempre avuto l’effetto di rendere lo “psichiatra” il solo significante, e il malato isolato e messo fuori legge l’unico significato, quindi puro oggetto. Voi considerate, al contrario, la relazione paziente-medico una relazione dialettica che si trova in ciascuno e che, secondo il corso degli avvenimenti, una volta uniti fra loro i malati manifesterà soprattutto l’uno o l’altro di questi due termini, nella misura in cui i pazienti insisteranno maggiormente sugli aspetti reazionari della malattia o prenderanno coscienzadella loro rivolta e dei loro veri bisogni, negati o sfigurati dalla società. Diventa necessario- dato che la malattia, al di là degli effetti diversi, è una contraddizione comune, e dato che ogni individuoè un significante-significato- mettere assieme gli ammalati perché l’uno con l’altro isolino gli aspetti reazionari della malattia (p.e. l’ideologia borghese) e gli elementi progressisti (esigenza di una società diversa il cui fine supremo sia l’uomo e non più il profitto). Va da sé che questi collettivi non mirano a guarire, dato che la malattia è prodotta in ogni uomo dal capitalismo, e dato che la “guarigione” psichiatrica non è che un reinserimento dei malati nella nostra società- ma tendono a spingere la malattia verso il suo sviluppo, cioè verso il momento in cui diventerà, tramite la presa di coscienza comune, una forza rivoluzionaria. Quello che mi pare rimarchevole nell’SPK è che i pazienti senza un medico individuale- cioè senza un polo individuale dei significati- stabiliscono delle relazioni umane e si aiutano reciprocamente a una presa di coscienza della situazione guardandosi negli occhi, cioè in quanto soggetti significanti-significati, mentre nella forma modernista della psichiatria, la psicanalisi, il malato non guarda nessuno ed il medico è posto dietro a lui per registrare le sue dichiarazioni e ordinarle a suo piacimento- con questa determinazione spaziale del rapporto paziente-medico che mette il primo nella condizione di puro oggetto e fa del secondo il significante assoluto, che decifra il discorso della malattia con un’ermeneutica di cui pretende di possedere lui solo il segreto. Sono felice di aver compreso il progresso reale costituito dall’SPK. Apprezzando le vostre ricerche, capisco anche che esse vi espongono alla peggiore repressione della società capitalistica. E che esse devono scatenare contro di voi, oltre ai rappresentanti della “cultura”, politici e poliziotti. Dovrete lottare in tutti i modi, poiché coloro che dirigono la nostra società intendono impedirvi di portare avanti le vostre pratiche. Non fosse che accusandovi gratuitamentedi complotto criminale. Non è sulla base di stupide incarcerazioni che sarete giudicati, ma sulla base dei risultati che avrete ottenuto.17 aprile 1972 Jean-Paul Sartre” [l’originale autografo è riprodotto sul sito dell’SPK]

Sartre era nel pieno della sua fase maoista. Qualche anno più tardi, avrebbe usato termini e toni molto più critici e sommessi riferendo dell’incontro che nel dicembre ’74 ebbe nel carcere di Stammheim con Andreas Baader. Non di meno, riletta adesso, la lettera è di una durezza sconvolgente.

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7.In una intervista Foucault disse di considerare Sartre un uomo del XIX secolo che cercava di pensare il XX. ‘Glas’ di Derrida soprassedè ‘Saint Genet’ (senza mai menzionarlo). Ne ‘L’AntiOedipe’ e ‘Mille Plateaux’ di Deleuze e Guattari Sartre è praticamente assente; spicca un lungo riferimento a ‘L’homme au magnétophone’ (MP, 65); poco più altro. (‘Speculum. De l’autre femme’ della Irigaray apparve nel ’74, ‘SCUM’ di Valerie Solanas già nel ‘67). Il panorama è diverso, la posta un’altra.

APPENDICE

a) Sulla psicanalisi esistenziale. Da ‘L’Essere e il Nulla’:

Si tratta invece di ritrovare, sotto aspetti parziali e incompleti del soggetto, la vera concretezza che non può essere altro che la totalità del suo slancio verso l’essere,il suo rapporto originale con se stesso, col modo, con l‘altro, nell’unità di relazioni interne e di un progetto fondamentale. Questo slancio non può essere che puramente individuale ed unico: anziché allontanarci dalla persona, come fa, per esempio, l’analisi di Bourget che costituisce l’individuale con la somma di massime generali, non ci farà trovare sotto il bisogno di scrivere- e di scrivere tali libri- il bisogno di attività in generale: ma invece, respingendo parimenti la teoria della creta docile e quella del fascio di tendenze, scopriremo la persona nel progetto iniziale che la costituisce. ‘E appunto per questa ragione che si svelerà con evidenza l’rriducibilità del risultato raggiunto; non perché è il più povero ed il più astratto ma perché è il più ricco; l’intuizione qui sarà apprensione di una pienezza individuale.[EN 625]

Psicanalisi empirica e psicanalisi esistenziale ricercano ambedue un atteggiamento fondamentale in situazione che non può esprimersi con definizioni semplici e logiche perché è anteriore ad ogni logica, e che richiede di essere ricostruito seondo delle leggi di sintesi specifiche. La psicanalisi empirica cerca di determinare il complesso, il cui nome stesso indica la polivalenza di tutti i significati che vi si riferiscono. La psicanalisi esistenziale cerca di determinare la scelta originale. Questa scelta originale, operantesi di fronte al mondo e come scelta della posizione nel mondo, è totalitaria come il complesso; è anteriore alla logica come il complesso, è essa che sceglie l’atteggiamento della persona di fronte alla logica ed ai principi; non si tratta dunque qui di interrogarla conformemente alla logica. La scelta unisce, in una sintesi prelogica, la totalità dell’esistente, e, come tale, è il centro di riferimento di una infinità di significati polivalenti.[EN 633]

Questo confronto ci permette di comprendere meglio quello che deve essere una psicanalisi esistenziale se deve poter esistere. ‘E un metodo destinato a mettere in luce, sotto una forma rigorosamente obiettiva, la scelta soggettiva per mezzo della quale ogni persona si fa persona, cioè si fa annunciare a se stessa ciò che è. E poiché ciò che cerca è contemporaneamente una scelta d’essere e un essere, essa deve ridurre i comportamenti singoli alle relazioni fondamentali, non delle sessualità e delle volontà di potenza, ma dell’essere, che si esprimono nei suoi comportamenti. ‘E dunque guidata, fin dall’origine, verso una comprensione dell’essere, e non deve assegnarsi altro scopo che trovare l’essere ed il modo d’essere dell’essere di fronte a questo

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essere. Prima di raggiungere questo scopo, le viene proibito di fermarsi. Utilizzerà la comprensione dell’essere che caratterizza colui che conduce l’inchiesta in quanto è lui stesso realtà umana: e siccome cerca di svincolare l’essere dalle sue espressioni simboliche, dovrà inventare ogni volta, sulle basi di uno studio comparativo dei comportamenti, una simbolica destinata a decifrarli. Il criterio della riuscita sarà per lei il numero dei fatti che la sua ipotesi permette di spiegare e di unificare come pure l’intuizione evidente della irriducibilità del termine raggiunto. A questo criterio si aggiungerà, in tutti i casi in cui sarà possibile, la testimonianza decisiva del soggetto. I risultati così raggiunti- cioè i fini ultimi dell’individuo- potranno essere oggetto di una classificazione, ed è appunto sul confronto di questi risultati che potremo stabilire delle considerazioni generali sulla realtà umana in quanto scelta empirica dei propri fini. I comportamenti studiati da questa psicanalisi non saranno solamente i sogni, gli atti mancati, le ossessioni e le nevrosi, ma anche e soprattutto i pensieri di quando si è svegli, gli atti riusciti e adatti, lo stile ecc. Questa psicanalisi non ha ancora trovato il suo Freud; tutt’al più si può trovarne il presentimento in certe biografie particolarmente riuscite. Speriamo di poter darne altrove due esempi, a proposito di Flaubert e di Dostoevskij. Ma qui ci importa poco che essa sia di fatto: l’importante per noi è che essa sia possibile.[EN 638]

La psicanalisi esistenziale gli scoprirà lo scopo reale della sua ricerca che è l’essere come fusione sintetica dell’in-sé col per-sé: essa lo porterà dinanzi al fatto della sua passione. Per dire il vero, ci sono molti uomini che hanno praticato su se stessi questa psicanalisi, e che non hanno aspettato di conoscerne i principi per servirsene come di un mezzo di liberazione e di salvezza. Molti uomini sanno che, in realtà, lo scopo della loro ricerca è l’essere; e nei limiti in cui possiedono questa conoscenza essi trascurano di impadronirsi delle cose per se stesse e tentano di realizzare l’appropriazione simbolica del loro essere-in-sé. Ma nei limiti in cui questo tentativo partecipa ancora dello spirito di serietà e fintantochè gli uomini possono ancora credere che la loro missione di far esistere l’in-sé sia scritta nelle cose, essi sono condannati alla disperazione, perché scoprono nello stesso tempo che tutte le attività umane sono equivalenti- perché tendono tutte a sacrificare l’uomo per far nascere la causa di sé- e che sono tutte votate per principio allo scacco. Così è la stessa cosa ubriacarsi in solitudine o guidare i popoli. Se una di queste attività prevale sull’altra non sarà a causa del suo scopo reale, ma a causa del grado di coscienza che essa possiede del suo scopo ideale; e, in questo caso, succederà che il quietismo dell’ubriaco solitario prevarrà sull’inutile agitazione del condottiero di popoli. Ma l’ontologia e la psicanalisi esistenziale ( o l’applicazione spontanea ed empirica che gli uomini hanno sempre fatto di queste discipline) devono scoprire all’agente morale che esso è l’essere per cui i valori esistono. ‘E appunto allora che la sua libertà prenderà coscienza di se stessa e si scoprirà nell’angoscia come l’unica sorgente del valore, e il nulla mediante il quali il mondo esiste. Non appena la richiesta dell’essere e l’appropriazione dell’in-sé le saranno manifesticome suoi possibili, essa comprenderà attraverso l’angoscia che essi non sono possibili se non sullo sfondo di possibilità di altri possibili. Ma fin qui, sebbene i possibili potessero essere scelti e revocati ad libitum, il tema che costituiva l’unità di tutte le scelte di possibili era il valore o presenza ideale dell’ens causa sui. Cosa diventerà la libertà se si ripiega su questo valore? Se lo porterà con sé, qualsiasi cosa faccia, e nel suo ripiegamento verso l’in-sé-per-sé sarà essa riafferrata dal valore che vuole contemplare? Oppure, per il semplice fatto che si coglie come libertà in rapporto a se stessa, potrà porre un temine al regno del valore? ‘E possibile, in particolare, che essa prenda se stessa come valore in quanto sorgente di ogni valore o deve necessariamente definirsi in base a un valore trascendente che vive in essa? E, nel caso in cui si rivolgesse a se stessa come proprio possibile e valore determinante, cosa bisognerebbe intendere con ciò? Una libertà che si vuole libertà è infatti un essere-che-non-è-ciò-che-è e che-è-ciò-che-non-è, che sceglie, come ideale d’essere, l’essere-ciò-che-non-è ed il non-essere-ciò-che-è. Sceglie dunque non di riprendersi ma di fuggirsi, non di coincidere con sè ma di essere sempre a distanza da sé. Cosa bisogna intendere, con questo essere che vuole tenersi a bada ed a distanzada se stesso? Si tratta della malafede o di un altro atteggiamento fondamentale? Si può vivere questo nuovo aspetto dell’essere? In particolare, la libertà, prendendo se stessa come fine, sfuggirà ad ogni situazione? Oppure, invece, resterà situata? O si situerà tanto più precisamente

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ed individualmente quanto maggiormente si proietterà nell’angoscia come libertà in condizione e quanto maggiormente rivendicherà la sua responsabilità, a titolo di un esistente per il quale il mondo giunge all’essere? Tutti questi problemi, che ci rinviano alla riflessione pura e non “complice”, non possono trovare risposta che sul terreno morale. Vi dedicheremo un’altra opera.[EN 695-696]

b) è orribile per una coscienza diventare vischiosa.

Ma l’immagine che il vischioso ci offre è orribile: è orribile per una coscienza diventare vischiosa. ‘E che l’essere del vischioso è aderenza molle, e, a causa delle ventose di tutte le sue parti, solidarietà e complicità sorniona di ognuna con ciascuna, sforzo vago e molle di ognuna per individualizzarsi, seguito da una ricaduta, in un appiattimento svuotato dell’individuo, succhiato da ogni parte dalla sostanza. Una coscienza che diventasse vischiosa si trasformerebbe impastando le sue idee. Fin dal nostro sorgere nel mondo, noi abbiamo questo presentimento di una coscienzache vorrebbe slanciarsi verso il futuro, verso un progetto di sé, ma che nel momento stesso in cui avrebbe coscienza di giungervi si sentirebbe trattenuta cupamente, invisibilmente dal risucchio del suo passato e che dovrebbe assistere alla sua lenta diluizione in questo passato che essa fugge, all’invasione del suo progetto da parte di mille parassiti, finchè perde completamente se-stessa. Di questa orribile condizione, il “furto del pensiero” delle psicosi di influenzamento7 ci dà la migliore delle immagini. Ma questa paura cosa traduce dunque, sul piano ontologico, se non la fuga del per-sé di fronte all’in-sé della fatticità, cioè la temporalizzazione? L’orrore del vischioso è l’orrore che il tempo diventi vischioso, che la fatticità progredisca continuamente ed insensibilmente ed aspiri il per-sè che “la esiste”. ‘E la paura non della morte, non dell’in-sé puro, non del nulla, ma di un tipo di essere particolare, che non esiste più di quanto esista l’in-sé-per-sé e che il vischioso rappresenta soltanto. Un essere ideale che io riprovo con tutte le mie forze e che abita in me comeil valore abita nel mio essere: un essere ideale dove l’in-sé non fondato ha priorità sul per-sé, e che noi chiameremo Antivalore. Così, nel progetto appropriativo del vischioso, la vischiosità si rivela come simbolo di un antivalore; cioè di un tipo di essere non realizzato, ma minaccioso, che assilla la coscienza come ilpericolo costante che essa fugge e, con questo, trasforma subito il progetto di appropriazione in progetto di fuga. Qualche cosa è apparso che non risulta da alcuna esperienza precedente, ma solo dalla comprensione preontologica dell’in-sé e del per-sé e che è propriamente il senso del vischioso. In un certo senso, è una esperienza, poiché la vischiosità è una scoperta intuitiva; e in un altro senso è come l’invenzione di una avventura dell’essere. A partire da ciò, appare per il per-sé un certo pericolo nuovo, un modo di essere minaccioso e da evitarsi, una categoria concreta che egli ritroverà dappertutto. Il vischioso non simbolizza alcuna condotta psichica a priori: manifesta una certa relazione dell’essere con se stesso, e questa relazione è originariamente psichizzata, perché l’ho scoperta in un abbozzo di appropriazione e perché la vischiosità mi ha rimandato la mia immagine. Così, fin dal mio primo contatto col vischioso, sono arricchito di uno schema ontologico valido, al di là della distinzione di psichico e non-psichico, per interpretare il senso dell’essere di tutti gli esistenti di una certa categoria, categoria la quale, d’altra parte, nasce come una cornice vuota prima dell’esperienza delle differenti specie del vischioso. L’ho gettata nel mondo col mio progetto originale di fronte al vischioso, è una struttura oggettiva del mondo e, nellostesso tempo, è un antivalore, cioè determina un settore dove verranno a sistemarsi gli oggetti vischiosi. Allora, ogni volta che un oggetto manifesterà per me questo rapporto di essere, si tratti diuna stretta di mano, di un sorriso o di un pensiero, sarà per definizione colto come vischioso, cioè,

7 La traduzione di Giuseppe del Bo contiene qui un grave errore- rendendo “le ‘vol de la pensée’ despsychoses d’influence” (qualificato come ‘condizione orribile’) con un insensato ‘volo del pensiero‘, invece che, conformemente al senso e alla terminologia psichiatrica francese ben nota a Sartre (v.sopra) , ‘furto del pensiero’- sintomo appunto caratteristico delle psicosi di influenzamento.

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al di là della sua struttura fenomenica, mi apparirà come costituente, in unione con le resine, le colle, i mieli, ecc., il grande settore ontologico della vischiosità.[EN 676-678]

c) 1935: Sartre e la mescalina.

“Un giorno di novembre, seduti sotto la veranda del caffè delle Mouettes a le Havre, avevamo a lungo deplorato la monotonia del nostro avvenire. Le nostre due vite erano impegnate l’una con l’altra, le nostre amicizie per sempre stabili, le nostre carriere fissate- ed il mondo continuava il suocorso. Ancora non avevamo trent’anni, e nulla di nuovo ci sarebbe mai capitato, per sempre! Di solito non prendevo troppo sul serio queste lamentazioni. Qualche volta, non di meno, cadevo giù dal mio olimpo. MI capitava, se una sera bevevo un bicchiere di troppo, di versare torrenti di lacrime; si risvegliava la mia vecchia nostalgia dell’assoluto; di nuovo scoprivo la vanità degli scopi umani, e l’imminenza della morte; rimproveravo a Sartre di lasciarsi prendere da quella odiosa mistificazione che è la vita. L’indomani restavo ancora sotto l’influsso di quella illuminazione. Un giorno, passeggiando lungo quel blocco di gesso ricoperto di erba stinta che domina la Senna, a Rouen, avemmo una lunga discussione. Sartre negava che la verità si trovasse nel vino e nei pianti; secondo lui l’alcool mi deprimeva, ed io davo in modo fallace ragioni metafisiche al mio stato. Io argomentavo che, distruggendo i controlli e le difese che di solito ci proteggono da evidenze insopportabili, l’ubriachezza mi obbligava a guardarle in faccia. Oggi penso che, in una condizione privilegiata come la mia, la vita ha in sé due diverse verità, fra le quali non si può scegliere e che bisogna affrontare insieme: la gioia di esistere, e l’orrore che ciò debba finire. Allora però io oscillavo dall’una all’altra; la seconda aveva il sopravvento solo a tratti, ma sospettavo che essa fosse la più reale. Avevo un’altra preoccupazione: invecchiavo. Né la mia salute né il mio aspetto ne soffrivano. Madi tanto in tanto mi lamentavo che tutto intorno a me si scoloriva: Non sento più niente, gemevo. Ero ancora capace di estasi, però avevo la sensazione di una perdita insopportabile.Il bagliore delle scoperte che avevo fatto all’uscita dalla Sorbona si era a poco a poco dileguato. La mia curiosità trovava ancora del nutrimento; ma non più novità folgoranti. Pure, intorno a me, la realtà traboccava, ma io commisi l’errore di non cercare di penetrarla; la trattenevo in schemi o miti che erano più o meno consunti: quello del pittoresco, per esempio. Mi sembrava che le cose si ripetessero perché mi ripetevo io stessa. Questa malinconia però non disturbava in modo serio la mia vita. Sartre aveva redatto la parte critica del libro sull’immaginazione che gli aveva domandato il Professor Delacroix; aveva posto mano a una seconda parte, molto più originale, in cui riprendeva alla radice il problema dell’immagine, utilizzando le nozioni fenomenologiche di intenzionalità e di hyle; fu allora che mise a punto le prime idee chiave della sua filosofia: l’assolutà vacuità della coscienza, ed il suo potere di nullificazione. Questa ricerca, nella quale inventava insieme metodo e contenuto, prendendo dalla propria esperienza tutti i materiali, richiedeva una considerevole concentrazione; non arrestato da nessuna preoccupazione per la forma, scriveva con una rapidità estrema, sforzandosi di seguire con la penna il movimento del pensiero; diversamente dal suo lavoro letterario questa invenzione continua e accelerata lo affaticava. Si interessava evidentemente al sogno, alle immagini ipnagogiche, alle anomalie della percezione. In febbraio, uno dei suoi antichi compagni, il Dr. Lagache, gli propose di andare all’ospedale di Sainte-Anne per farsi fare una puntura di mescalina; questa droga provocava allucinazioni, e Sartre avrebbe potuto osservarne l’effetto su sé stesso. Lagache l’avvertì che l’avventura sarebbe stata poco piacevole; però, non comportava nessun pericolo. Sartre rischiava tutt’al più di presentare per la durata di alcune ore dei ‘comportamenti bizzarri’. Passai la giornata a Boulevard Raspail con Mme Lemaire e Paigniez. A fine pomeriggio, come d’accordo, telefonai a Sainte-Anne: con una voce impastata Sartre mi disse che la mia chiamata lostrappava a un combattimento contro delle piovre nel quale sicuramente non avrebbe avuto la meglio. Giunse mezz’ora più tardi. Lo avevano steso su un letto, in una stanza debolmente illuminata; non aveva avuto allucinazioni; ma gli oggetti che aveva attorno si deformavano in modo

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orribile: aveva visto degli ombrelli-avvoltoio, delle scarpe-scheletro, dei visi mostruosi; e di lato a lui, dietro, brulicavano dei granchi, dei polipi, delle cose ghignanti. Uno degli interni se ne era meravigliato: nel suo caso, aveva raccontato alla fine della seduta, la mescalina aveva avuto degli effetti del tutto differenti; aveva saltellato per praterie fiorite, in mezzo a urì meravigliose. Forse, Sartre si diceva con rincrescimento, se si fosse aspettato queste delizie, invece che degli incubi, si sarebbe poi orientato verso quelle visioni paradisiache. Ma lo avevano influenzato le predizioni di Lagache. Parlava senza gioia, osservando intanto con aria sospettosa i fili telefonici che correvanosul tappeto. In treno tacque a lungo. Portavo delle scarpe di lucertola i cui lacci terminavano in unaspecie di ghianda: si aspettava di vederli, da un minuto all’altro, trasformarsi in giganteschi scarabei. Ci fu anche un orangutàn, senza dubbio sospeso per le zampe al tetto della carrozza, che incollava al finestrino un volto minaccioso. Il giorno dopo Sartre era in buone condizioni, e mi parlò con distacco di Sainte-Anne. Una delle domeniche successive Colette Audry mi accompagnò a Le Havre. Con le persone chegli piacevano Sartre si metteva sempre in mostra; fui stupita del suo malumore. Abbiamo camminato lungo la spiaggia e raccolto delle stelle di mare, quasi senza parlare. Sartre sembrava non sapere che ci stessimo a fare lì Colette ed io, né cosa ci stesse a fare lui stesso. Lo lasciai un poco irritata. Quando lo rividi, si spiegò. Da qualche giorno gli succedeva di essere in preda all’angoscia; gli stati in cui cadeva ricordavano quelli in cui l’aveva gettato la mescalina, e di ciò era terrorizzato. Lesue percezioni si deformavano; le case avevano delle facce ghignanti, con occhi e mascelle dappertutto; non poteva impedirsi di cercare, e trovare, su ogni quadrante di orologio un volto di civetta. Beninteso sapeva che erano delle case, degli orologi; gli occhi, i ghigni- non si poteva dire che ci credesse, ma un giorno ci avrebbe creduto; un giorno si sarebbe veramente convinto che un’aragosta gli trotterellava dietro. Di già una macchia nera danzava ostinatamente nello spazio, all’altezza dei suoi occhi. Un pomeriggio passeggiavano a Rouen, sulla sponda sinistra della Senna, fra binari, cantieri, vagoni e pezzi di praterie malate; mi disse bruscamente: “lo so di cosa sitratta: sono all’inizio di una psicosi allucinatoria cronica”. Così come la si definiva allora, era una malattia che nel giro di dieci anni portava fatalmente alla demenza. Protestai energicamente e, unavolta tanto, non per partito preso di ottimismo ma per buon senso. Il caso di Sartre non somigliava in nulla agli esordi di una psicosi allucinatoria. Né la macchia nera né l’ossessione delle case-mascella indicavano la nascita di una psicosi incurabile. Sapevo inoltre con quale facilità l’immaginazione di Sartre correva verso la catastrofe. “La vostra sola pazzia è di credervi pazzo”, gli dissi. “Vedrete”, rispose cupamente. Non vidi nulla tranne un abbattimento da cui faceva la più grande fatica a sollevarsi. A volte gli riusciva. Per Pasqua andammo sui laghi italiani. Sembrava molto allegro, finchè andavamo in barca sul lago di Como, e nelle stradine di Bellagio, dove una notte vedemmo una processione conle torce. Ma tornati a Parigi non riuscì più nemmeno a fingere la salute. Fernand espose dei quadri alla galleria Bonjean; durante tutta l’inaugurazione Sartre rimase seduto in un angolo, silenzioso, con il viso spento. Lui che un tempo guardava tutto non osservava più niente. Restavamo a volte fianco a fianco in un caffè o camminavamo per le strade senza scambiarci una parola. Mme Lemaire pensava che fosse esaurito; lo mandò da un medico suo amico, ma questi rifiutò di fargli dare un periodo di congedo; a suo avviso, Sartre aveva bisogno della minor quantità possibile di tempo libero, e di stare da solo il meno possibile; si limitò a prescrivergli mezza pastiglia di belladenal mattino e sera. Sartre continuò dunque a far lezione e a scrivere. Il fatto è che si perdeva con più difficoltà nelle sue paure se qualcuno era con lui. Si mise a uscire spesso con due suoi ex allievi, per i quali aveva molta amicizia: Albert Palle e Jacques Bost, fratello minore di Pierre Bost: la loro presenza lo difendeva dai crostacei. A Rouen, quando io facevo lezione, gli faceva compagnia Olga8; questa prendeva assolutamente sul serio il suo ruolo di infermiera. Sartrele raccontava una quantità di storie, che divertivano lei e aiutavano lui a distrarsi. I medici hanno sostenuto che la mescalina non poteva assolutamente avere provocato quella crisi; la seduta al Sainte-Anne aveva solo fornito a Sartre certi schemi allucinatori; erano indubbiamente state la fatica e la tensione generata dalle sue ricerche filosofiche a ravvivare le sue paure. Più tardi noi abbiamo pensato che esse esprimevano un malessere profondo: Sartre

8 Olga Kosakiewicz, verso cui nacque poi una disperata storia d’amore; cfr. Ivich ne ‘L’ âge de raison’, e Xavière de ‘L’invitée’.

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non si rassegnava a passare alla ’età della ragione’, alla ‘maturità’. Nei tempi in cui alloggiava alla Scuola Normale, vi si cantava un lamento assai carino sulla tristesorte riservata ai normalisti. Ho già raccontato con quale ripugnanza Sartre la vedeva allora. Si erabene adattato ai primi due anni di insegnamento tanto era felice di aver concluso il servizio militare: la novità di quella esistenza lo aiutava a sopportarla. A Berlino aveva ritrovato la libertà, lagioia della sua vita di studente; Tanto maggior disagio ebbe a ripiombare nella serietà e nella monotonia della condizione di adulto. La conversazione che avevamo avuto al caffè delle Mouettes non era stata per lui un chiacchierare superficialmente. Certo amava i suoi allievi, e insegnare; ma detestava avere dei rapporti con un direttore, un censore, dei colleghi, dei genitori distudenti; l’orrore che gli ispiravano i ‘porci’ non era solo un tema letterario; questo mondo borghesedi cui si sentiva prigioniero lo opprimeva. Non era sposato, manteneva alcune libertà: non di meno,la sua vita era saldata alla mia. In breve, a trent’anni si metteva su un cammino tracciato fin dall’inizio: le sue sole avventure sarebbero state i libri che avrebbe scritto. Il primo era stato rifiutato; il secondo esigeva ancora del lavoro. Quanto al suo libro su ‘L’immagine’, Alcan aveva accettato solo la prima parte, e lui prevedeva che la seconda, che lo interessava molto di più, non sarebbe stata pubblicata che molti anni dopo. Avevamo entrambe una assoluta fiducia nel suo avvenire; ma l’avvenire non sempre basta a illuminare il presente. Sartre aveva messo tanto ardore ad essere giovane che nel momento in cui la sua giovinezza lo abbandonava ci sarebbero volute delle gioie molto grandi per consolarlo di ciò. Ho già detto che malgrado le apparenze la mia condizione era completamente diversa dalla sua.Passare l’esame di stato, avere in mano un mestiere era per lui una cosa scontata. Io, in cima a quella scalinata a Marsiglia, avevo avuto una vertigine di gioia: non mi sembrava di subire un destino, ma di averlo scelto. La carriera in cui Sartre vedeva impantanarsi la sua libertà non aveva smesso di rappresentare per me una liberazione. E poi, come ha scritto Rilke a proposito di Rodin, Sartre era ‘il proprio cielo’; sempre in questione dunque fra le cose incerte, ma mai in questione per me, la sua esistenza giustificava per me il mondo, che nulla invece giustificava ai suoi occhi. La mia personale esperienza non mi permetteva dunque di capire i motivi della sua depressione; si è già visto d’altra parte che la psicologia non era il mio forte, e nei riguardi di Sartrein particolare mi guardavo bene dal ricorrervi; per me, lui era pura coscienza e radicale libertà; mi rifiutavo di considerarlo pura pedina di circostanze oscure, oggetto passivo; preferivo pensare che lui stesso produceva le sue angosce, le sue illusioni per via di una sorta di volontà cattiva; più che spaventarmi, la sua crisi mi irritò; discussi, ragionai, gli rimproverai la sua compiacenza a ritenersi condannato. Vi vedevo una specie di tradimento; non aveva il diritto di lanciarsi in stati d’animo cheminacciavano le nostre costruzioni comuni. C’era anche della viltà in questo mio modo di fuggire davanti alla verità, ma la lucidità non mi sarebbe servita a molto; i problemi di Sartre non potevo risolverli io al suo posto; per guarirlo dei suoi passeggeri disturbi mi mancavano l’esperienza e le tecniche necessarie. Non l’avrei certamente aiutato se avessi condiviso le sue paure. La mia collera fu senza dubbio una reazione sana.” [Simone de Beauvoir, FA, 214-220]

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