Pasolini al Corriere della Sera

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1 Corso di Laurea in Studi Storici e filologico-letterari Pasolini al «Corriere della Sera» Docente responsabile Laureando Prof. Claudio Giunta Valerio Valentini Anno Accademico 2012/2013.

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Corso di Laurea in Studi Storici e filologico-letterari

Pasolini al «Corriere della Sera»

Docente responsabile Laureando Prof. Claudio Giunta Valerio Valentini

Anno Accademico 2012/2013.

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Prologo .......................................................................................................................... 3

1. Perché il «Corriere della Sera» sceglie Pasolini ................................................... 4

1.1 «Il diavolo a via Solferino» ..................................................................... 4

1.2 I perché di una «impensabile collaborazione» ............................................ 8

2. Perché Pasolini sceglie il «Corriere della Sera» ................................................. 11

2.1 «Sfruttare cinicamente il sistema» .......................................................... 11

2.2 «Gettare il proprio corpo nella lotta» ...................................................... 15

3. Tre anni di costanti polemiche ............................................................................. 19

3.1 La «rivoluzione antropologica in Italia » ................................................. 19

3.2 Il «nuovo Potere» e il «vero antifascismo» .............................................. 22

3.3 «Estetismo» e «linguaggio della presenza fisica» ..................................... 30

3.4 «Quello che rimpiango» ........................................................................ 33

3.5 «Il potere ha bisogno del mio pensiero autonomo» ................................... 38

4. Come Pasolini riesce a sfruttare le polemiche .................................................... 40

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Prologo Caro ineffabile Ottone, sarebbe ora ti vergognassi per quello che «fai» scrivere ai tuoi disonesti redattori sul Vietnam! È un atto vergognoso che solo i servi e quelli che come te non possiedono alcuna dignità morale hanno l’impudenza di compiere. Perché non sei ignorante tu, dal momento che una volta almeno il testo del Trattato di Ginevra si deve presumere che l’hai letto; sei solo in malafede, tu come il tuo galoppino Sormani che scrive i suoi sudici e cinici articoli dal Vietnam perché i lettori benpensanti leggano sul tuo giornale «tanto serio e autorevole» quello che s’aspettano da una stampa padrona in casa e serva e servile fuori. Non è poi un caso che non ti sal-terebbe mai in testa, né a te né a nessuno della tua immorale falange, di pubblicare per esteso un documento che parla così chiaro come il testo di quel trattato, che la tua e la vostra vocazione all’illibertà e la tua e la vostra mancanza di coraggio morale offendono quotidianamente. E allora, direttore, con che animo tu, voi avete la spudoratezza di cogliere ogni occasione per parlare di li-bertà di stampa, quando tu e voi di questa libertà fate volgare mercimonio irridendo ai suoi valori con l’inconfessato e inconfessabile scopo di concimare l’ignoranza e diffondere l’inganno? Dun-que, caro Ottone, se t’insegno a chiamare ogni cosa col nome che gli conviene, vorrai non avertene come uomo (come direttore sarebbe pretendere l’impossibile) se ti dico che sei una triviale e laida puttana. A Cesare quel che è di Cesare, alle puttane... E ora seguita pure a venderti per comprare gli altri. Lascia pure lo spazio della tua rubrica alla lettera della gentile signorina Cesira che es-sendosi fratturata la caviglia sciando a Cortina si interessa tanto ad un nuovo metodo per aggiu-starsela (vivaddio, visto che non ci hanno regalato la riforma sanitaria è pur sempre qualcosa che vi interessiate almeno voi di qualche questione spicciola, davvero!). Infatti comprendo perfettamen-te che questa mia non puoi pubblicarla per non solleticare la pruderie dei tuoi cari lettori che non d’altro arrossirebbero se non di quel «puttana» che ti do. Prendi però nota di questo, direttore: anche fra i tuoi lettori sono sempre meno quelli che accendo-no i loro «ceri» con la tua lascivia. È un fatto che potrebbe riuscire utile sapere in Consiglio di amministrazione. Ma aspetta, dove vai, finisci di leggere la lettera prima di andarglielo a dire!? Scherzi a parte, caro Ottone, attento che la Crespi non scarichi anche te, sarebbe così cattivona e antidemocratica... che faremo tutti quadrato intorno a te e a Indro e a Spadolini contro l’attacco padronale... oibò! Ma tu una cosa ricorda soprattutto, come direttore-difensore-della-libertà-di-stampa-e-non-solo-di-questa-ma-anche-delle-libertà-democratiche: quelli che oggi sono gli sfrutta-ti e gli oppressi spazzeranno via voi e le vostre libertà. Costoro sanno oggi meglio che mai che que-sta non è retorica millenaristica. Ciao e a presto

A indirizzare questa lettera all’allora direttore del «Corriere della Sera», Piero Ottone, è Pier

Paolo Pasolini. Motivo di una tale rancorosa indignazione, al di là dell’atteggiamento tenuto dal quotidiano di via Solferino rispetto agli avvenimenti del Vietnam, è tutta la linea editoriale seguita da Ottone, che secondo il giudizio di Pasolini si fa velleitariamente paladino della libertà di stampa ma è in realtà asservito alle logiche economiche e politiche del consiglio d’amministrazione, presie-duto allora dalla famiglia Crespi.

La lettera1 è datata 30 aprile 1972. Otto mesi dopo, con un articolo pubblicato in seconda pa-gina, Pier Paolo Pasolini inaugurerà la sua collaborazione con il «Corriere della Sera».

1 Pubblicata per la prima volta dal Corriere della Sera l’1 Novembre 2000, in occasione del venticinquesimo anniversa-rio della morte di Pasolini.

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1. Perché il «Corriere della Sera» sceglie Pasolini

1.1 «Il diavolo a via Solferino»

Quando Pasolini, all’inizio del 1973, accetta la proposta di collaborazione con il «Corriere della Sera», il quotidiano milanese è un giornale in profonda trasformazione.

A dirigerlo è Piero Ottone, che di quel giornale è stato, prima, corrispondente estero negli anni Cinquanta, e in un secondo tempo redattore. Approdato nel 1968 alla guida del «Secolo XIX», torna di nuovo a via Solferino nel marzo del 1972, chiamato a rivestire il ruolo di direttore. La scelta è stata presa da Giulia Maria Crespi, che è responsabile della gestione editoriale del Corriere e ne amministra la proprietà insieme ai suoi due cugini, Mario Crespi e Antonio Leonardi. È comunque lei la personalità più carismatica all’interno del consiglio di amministrazione, la vera regista delle varie operazioni editoriali. Lo dimostra anche la satira di quegli anni:

I padroni del «Corriere» sono tre: la signora Giulia Maria Crespi in Mozzoni, figlia

di Aldo, una dama gentile e svagata, nella quale vibra una sola incrollabile certezza, quella del suo potere. […]. Il secondo proprietario è un giovane, Mario Crespi Morbio, detto Mariolino […]. Che egli possa avere una idea, in famiglia non lo considerano neppure come ipotesi. […] Il terzo è Antonio Leonardi, detto Tonino, […] un uomo di una intelligenza e di una cultura allarmanti. Ci ha raccontato un suo amico che una vol-ta in aereo egli leggeva il «Corriere» e brontolava: «Questo giornale è incomprensibi-le». L’amico gli fece notare che teneva il foglio alla rovescia.2 È per volere di Giulia Maria Crespi, dunque, che Ottone succede a Giovanni Spadolini, già e-

ditorialista del Corriere dal ’53 al ‘55, successivamente, per ben tredici anni, alla direzione de «Il resto del Carlino» e, a partire dal 1968, direttore del più importante giornale italiano a soli quaranta-tré anni. Se, però, quello alla guida del quotidiano bolognese è stato un periodo straordinariamente lungo, il rapporto col «Corriere della Sera» si conclude anzitempo. Il contratto firmato da Giovanni Spadolini nel 1968, infatti, prevede una collaborazione di cinque anni con la famiglia Crespi; invece il 3 marzo 1972 viene recapitata a Spadolini la lettera che gli notifica il sollevamento dal suo incari-co. È la prima volta, da quando i Crespi sono editori esclusivi del «Corriere della Sera», che un di-rettore viene ufficialmente licenziato prima della scadenza del quinquennio.

Cosa spinge la Crespi a questa scelta così radicale? La prima motivazione risiede nelle divergenze di vedute politiche tra la Crespi stessa e Spado-

lini. Il quale, pur mostrandosi timidamente progressista, nei suoi quattro anni di direzione ha man-tenuto la testata di via Solferino nel solco tracciato da Alfio Russo, e prima di lui da Mario Missiro-li: il «Corriere della Sera» rimane un giornale che ha come uditorio preferenziale la borghesia con-servatrice, e come organi politico-economici di riferimento la Democrazia Cristiana e la Confindu-stria. Giulia Maria Crespi, precocemente sensibile alle tematiche ecologiste, non nasconde le sue simpatie per ambienti progressisti, talvolta vicini alla sinistra radicale, che le valgono i soprannomi di “contessa rossa” e “zarina rossa”. Così la apostrofano alcune cronache dell’epoca, e in questi termini si riferirà a lei, ancora il 25 maggio 2011, Giancarlo Perna su «Il Giornale»3, in un articolo che criticherà la decisione dell’ex proprietaria del Corriere di sostenere Giuliano Pisapia in vista del ballottaggio per l’elezione del nuovo sindaco di Milano.

Inevitabile che tra due personalità così diverse si generino delle costanti frizioni, soprattutto in anni in cui le contrapposizioni ideologiche vengono inasprite da un costante clima di tensione socia-le. La sera dell’8 giugno 1968, alcune migliaia di militanti della sinistra extraparlamentare assaltano

2 Fortebraccio, I coriandoli. 3 Perna, E la Zarina rossa che cacciò Montanelli si schiera con Pisapia.

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il civico 28 di via Solferino, bloccano i portoni e creano delle barricate nelle vie antistanti, impe-dendo alle copie appena stampate del Corriere di raggiungere le edicole. Solo grazie all’intervento della polizia, e solo alle cinque del mattino, alcuni anonimi camioncini – sulle cui fiancate l’insegna “Corriere della Sera” è stata appositamente oscurata con della vernice – riescono ad uscire dalla se-de milanese4. Il giorno seguente, Spadolini si reca dalla sua editrice per manifestare il proprio di-sappunto, ritenendo non più tollerabile quella vaga simpatia che la Crespi non nasconde di nutrire verso i contestatori.

I già problematici rapporti tra Spadolini e la Crespi si fanno ancor più conflittuali nei primi mesi del 1972, caratterizzati da una situazione politica nazionale piuttosto instabile. Il governo gui-dato da Emilio Colombo, espressione di una DC aperta a sinistra, entra in crisi all’inizio di febbraio; il 17 di quel mese gli succede il primo governo guidato da Giulio Andreotti, segnato da una decisa svolta conservatrice. Vedutasi negata la fiducia da parte del Parlamento, tuttavia, l’esecutivo rimane formalmente in carica soltanto fino alle nuove elezioni anticipate. Anche questo clima influisce, ve-rosimilmente, sulla decisione della Crespi di affrettare l’avvicendamento alla direzione del quoti-diano.

E certo, non da ultimo, gioca la sua parte anche una ragione strettamente commerciale: il «Corriere della Sera» guidato da Spadolini conosce un netto calo delle vendite. Il 1971 vede per la prima volta il bilancio della società guidata dai Crespi chiudersi in rosso, con un deficit di quasi 2 miliardi.

È così che il 3 marzo 1972 la proprietà del giornale comunica alla redazione la decisione di rimuovere Spadolini dalla direzione e sostituirlo con Piero Ottone. Le reazioni dei giornalisti del Corriere sono piuttosto piccate, e monta la polemica per una scelta caduta dall’alto senza alcuna consultazione dei lavoratori del giornale. Viene subito proclamato uno sciopero e il quotidiano non esce il giorno successivo: l’intera stampa nazionale se ne occupa, riportando sia il comunicato dei giornalisti del Corriere, i quali richiedono alla proprietà di avviare una trattativa per concordare una procedura “per casi di sostituzione di direttori responsabili, che dia a tutti i giornalisti garanzie in conformità alle loro responsabilità pubbliche e professionali”, sia quello attraverso il quale la Fede-razione Nazionale della Stampa Italiana ritiene opportuno richiamare l’attenzione “della categoria, del Parlamento, del potere politico, dei sindacati” sull’”urgenza di affrontare con la massima deci-sione lo studio di una riforma generale dell’informazione che tuteli il giornalista nella sua attività” 5.

In questa polemica interviene anche la firma più prestigiosa del quotidiano milanese, Indro Montanelli. Lo fa, il 12 marzo, attraverso un’intervista rilasciata a Nello Ajello per il settimanale «L’Espresso». “Un direttore non lo si caccia via come un domestico ladro”, afferma Montanelli, criticando il “modo autoritario, prepotente e guatemalteco” che i Crespi “hanno scelto per imporre la loro decisione”. Facendo poi riferimento al riconoscimento di alcuni diritti sindacali ottenuti a seguito delle rimostranze dei giornalisti in quelle settimane, Montanelli esulta: “dopo quello che è accaduto negli ultimi giorni, nessun gruppo di potere politico o economico può più coltivare il so-gno di disporre o impossessarsi del giornale facendone veicolo di interessi extraeditoriali”6. Di fat-to, l’unica reale vittoria sarà l’istituzione della consultazione preventiva nella nomina dei direttori: da allora in poi, ogniqualvolta la proprietà di un quotidiano propone un nuovo direttore, il comitato di redazione ha il diritto di esprimere il proprio parere, tuttavia non vincolante, su tale proposta di nomina, attraverso uno scrutinio nominale segreto.

È in un clima tutt’altro che pacifico, dunque, che il 15 marzo 1972 prende vita il nuovo «Cor-riere della Sera», diretto da Piero Ottone. Ma perché proprio su di lui è ricaduta la scelta del consi-glio d’amministrazione?

Quando glielo chiedo, la voce di Ottone risponde convinta: “La decisione fu presa da Giulia Maria Crespi in persona. E lo fece innanzitutto perché aveva una concezione di quotidiano molto simile alla mia: anche lei era per un giornale autonomo e indipendente, e anche lei era stata in In- 4 Balestrini & Moroni, L' orda d'oro. 1968-1977: la grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, pp. 249-252. 5 Il «Corriere» non è uscito per lo sciopero. 6 Ajello, “D’ora in poi i padroni siamo noi”.

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ghilterra, e come me aveva mutuato molte idee in questo senso dalla mentalità giornalistica anglo-sassone. In secondo luogo – continua Ottone, nel corso di un’intervista che ha voluto concedermi – la mia direzione al «Secolo XIX» era andata molto bene, e fu segnata da un successo di vendite. Così al «Corriere della Sera», che invece con Spadolini perdeva copie, l’arrivo di un direttore di “nuovo tipo” che aumentasse le vendite era assolutamente importante”.

Le resistenze e i malumori che il nuovo corso inaugurato da Ottone deve affrontare provengo-no sia dagli stessi collaboratori del quotidiano, sia da molti lettori. È ovviamente la borghesia con-servatrice lombarda la più severa nell’esprimere la propria insoddisfazione nei confronti della nuova linea editoriale del Corriere: ai suoi occhi, quello attuato da Ottone è un vero tradimento. Non passa neppure un anno dall’insediamento del nuovo direttore, infatti, e la cosiddetta “maggioranza silen-ziosa” della destra milanese organizza una manifestazione di protesta e, al grido di “Corriere gior-nale comunista”, tappezza i muri delle vie del centro cittadino con manifesti che riportano scritte del tipo: “Corriere della Sera, quotidiano indipendente della sovversione nazionale”. Neanche gli esponenti politici democristiani, di fronte alla spiazzante inversione di tendenza imposta da Ottone, lesinano critiche. “I radicali rossi filocomunisti di Via Solferino non prevarranno”, dichiara Aminto-re Fanfani, in un comizio tenutosi nel 1974 in Piazza Duomo, a Milano7.

Ancora più aspri si fanno gli attacchi al «Corriere della Sera» nell’estate dell’anno seguente, quando molti partiti imputano anche e soprattutto alla nuova linea editoriale del giornale la respon-sabilità per i propri insuccessi alle elezioni amministrative del 15 e 16 giugno, che vedono un so-stanziale trionfo del PCI. Il partito guidato da Enrico Berlinguer, grazie al 32,5% dei voti, si aggiu-dica molte giunte in comuni e province in cui mai aveva prevalso, come ad esempio Milano. Il 20 giugno, Bettino Craxi, amareggiato per la disfatta del PSI, di cui è vicesegretario, denuncia “una sapiente orchestrazione a favore dei comunisti” condotta durante la campagna elettorale “dal Cor-riere della Sera e dal Corriere d’Informazione” impegnati a ispirare “una linea di svalutazione e di omissione delle ragioni del PSI”8.

Altro motivo di condanna è la presunta volontà di favorire il compromesso storico messa in at-to da Ottone e la Crespi, secondo una visione che è sia degli ambienti più reazionari della borghesia, sia di larga parte del Partito Socialista, che teme di rimanere estromessa da questo accordo, e relega-ta ad un ruolo marginale. Ecco, per esempio, il parere di Giorgio Bocca:

C’è nel giornale [il «Corriere della Sera», nda] oggi una propensione al compro-

messo storico, una forzatura propagandistica al medesimo che, a mio avviso, non entra-no nella funzione di un grande giornale borghese.9 Il titolo di copertina del numero di «Panorma» del 28 agosto 1975 riassume perfettamente le

polemiche che investono via Solferino: “Il Corriere è comunista?”. “Il direttore del settimanale, allora, era Lamberto Sechi – ricorda Piero Ottone – che era un

mio amico e che in quel periodo era molto divertito da questa reazione della Milano borghese nei confronti del Corriere. Del resto anche lui aveva una concezione del giornalismo molto simile alla mia, tanto che il suo «Panorama» era per certi versi la controparte, tra i settimanali, del nostro quo-tidiano. Quel titolo fu una provocazione che invogliasse i lettori a comprare il settimanale. E difatti leggendo gli articoli interni, si capiva che l’idea di «Panorama» era ben diversa: noi non eravamo affatto di sinistra, ma equidistanti”. In effetti, la lunga analisi a firma di Carlo Rossella – dal titolo corrosivo: “Il diavolo a via Solferino” – riconosce a Ottone i meriti di un netto affrancamento dai dettami delle vecchie autorità del giornale milanese.

Abituato, per tradizione, al rispetto dei potenti, legato storicamente ai settori più re-

trivi del capitale finanziario e industriale, ritenuto, da sempre, un organo ufficioso dell’establishment politico, il Corriere ha cambiato volto a partire dal 15 marzo 1972,

7 Rossella, Il diavolo a via Solferino. 8 Ibidem. 9 Ibidem.

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giorno della nomina a direttore di Piero Ottone. Liberale di tradizioni anglosassoni, e-ducato da una lunga esperienza di corrispondente all’estero, commentatore politico, di-rettore del Secolo XIX di Genova, Ottone, sin dai primi mesi, ha fatto perdere al quoti-diano milanese i suoi connotati da Pravda della borghesia.10

Come rileva Rossella, alcune critiche di filocomunismo rivolte a Piero Ottone si rivelano

strumentali e pretestuose. Paradigmatica quella legata all’approvazione del nuovo statuto dei dipen-denti del Corriere: quando vengono riconosciuti alcuni diritti al consiglio di fabbrica e al comitato di redazione, come quello di pubblicare i propri comunicati sul giornale, in molti a via Solferino lamentano una “abdicazione del direttore” e addirittura una “sovietizzazione legittimata”, rimpian-gendo di non aver abbandonato la redazione insieme con “l’argenteria di famiglia”11.

Ci si riferisce qui ad un altro evento che segna profondamente il Corriere di quegli anni: una vera e propria diaspora provocata dalla rottura tra Piero Ottone e Indro Montanelli. Il quale, mal di-gerendo quella che anche a lui doveva apparire un’eccessiva apertura del suo direttore a sinistra, decide di fondare, insieme con altri transfughi, «Il Giornale». Il divorzio si consuma il 10 ottobre 1973, giorno in cui il settimanale «Il Mondo» pubblica un’intervista concessa da Montanelli a Cesa-re Lanza, in cui il giornalista toscano annuncia l’imminente “secessione”, e si rivolge al pubblico tradizionale del «Corriere della Sera», a suo dire tradito dalla nuova direzione: “Ecco, ci vorrebbe da parte di una certa borghesia lombarda, che si sente defraudata dal suo giornale, un gesto di co-raggio, di cui però questa borghesia, capace in fondo solo di brontolare, non è capace”12.

Piero Ottone, invece, racconta di “una vera e propria fronda interna, portata avanti clandesti-namente, sempre più subdola, da parte di Montanelli”. E prosegue nella ricostruzione: “Diventò un vero oppositore nascosto all’interno della redazione, senza che però mi avesse mai manifestato di-rettamente una parola di aperto dissenso. E del resto non era la prima volta che Montanelli ricorreva a queste critiche sottobanco: aveva fatto la stessa cosa nei confronti di Alfio Russo, al punto da arri-vare a scrivere una lettera ai Crespi mettendoli di fronte a una terribile alternativa: «O via lui o via io!». Poi, dopo la celebre intervista al Mondo, la sua permanenza al Corriere divenne non più soste-nibile”.

Nel frattempo, altri significativi cambiamenti avvengono a via Solferino. Nel luglio del 1974 la casa editrice Rizzoli, col sostegno economico della Montedison di Eugenio Cefis, rileva dappri-ma le quote societarie di Giulia Maria Crespi – decisasi improvvisamente a vendere perché oberata da svariati miliardi di deficit – e poi dei Moratti e degli Agnelli. Mercoledì 17 luglio Angelo Rizzoli fa per la prima volta ingresso nella sede del giornale, affermando che “da generazioni i Rizzoli so-gnavano di entrare al «Corriere» e che Piero Ottone «è il direttore ideale»”13.

È un avvicendamento che però non vale a placare le critiche. Ora quello che si imputa a Otto-ne e ai Rizzoli stessi è di aver accettato un compromesso sindacale con il consiglio di fabbrica, de-scritto come una sorta di soviet di ispirazione leninista: in sostanza, dopo l’arrivo della nuova pro-prietà, sarebbe stata inaugurata a via Solferino “una «pace sociale» pagata, secondo le accuse” di conservatori e socialisti, “con lo spostamento in senso filocomunista del giornale, con la pubblica-zione continua di comunicati sindacali […], con uno strapotere del Comitato di redazione e del Consiglio di fabbrica dei 2 mila impiegati e operai” 14. Commentatori esterni arrivano ad ipotizzare una vera e propria dittatura del consiglio di fabbrica, al punto che i tipografi comunisti oserebbero imporre modifiche nell’impaginazione alla redazione del giornale. Neppure i sindacati risparmiano critiche nei confronti degli equilibri interni a via Solferino. Il 30 settembre 1975 la Cisl milanese emette due comunicati per denunciare “la crescente influenza del PCI e della CGIL nelle strutture del giornale, anche a prezzo di una «normalizzazione» interna gradita alla proprietà”15. Intanto i

10 Ibidem. 11 Ibidem. 12 Pansa, Comprati e venduti. I giornali e il potere negli anni ‘70, p. 143. 13 Abbiati, Il Corriere al 100% proprietà di Rizzoli. 14 Rossella, Il diavolo a via Solferino. 15 Le ambiguità della linea del «Corriere».

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rappresentanti politici, di vari schieramenti, continuano nella loro offensiva. Per il deputato sociali-sta milanese Michele Achilli “la pace sociale” instauratasi all’interno della redazione del Corriere “è pagata dall’editore in termini di benevolente apertura, specie nella cronaca, verso il compromes-so, che non è quello storico di via delle Botteghe Oscure, ma quello più ambrosiano e pratico di via Solferino”16. Marco Pannella accusa Ottone di aver imposto al Corriere una linea editoriale che “è rigorosamente, quanto subdolamente, antisocialista e antiradicale”, facendo di nuovo del quotidiano milanese “il giornale dei ‘padroni’ (mentre con la ‘padrona’ Giulia Maria Crespi aveva cessato di esserlo)”17.

Giorgio Bocca, nell’ottobre del 1976, condanna invece, in un suo articolo pubblicato su «Pri-ma Comunicazione», il tentativo impossibile, da parte del Corriere, di non scontentare nessuno dei suoi referenti politici e finanziari.

«Ottone deve fare un giornale che non dispiace ai comunisti e neppure ai democri-

stiani, che non procura grane a Cefis ma neppure ad Agnelli, che non si mette contro la finanza di Stato da cui Rizzoli riceve i prestiti, ma che non può attaccare quella privata di cui Rizzoli resta comunque un rappresentante. Diciamo, un giornale senza più una politica, che non sa più dove mirare, che riempie la prima pagina di editoriali di socio-logi e romanzieri».18

“Idiozie – è il commento di Ottone, a distanza di oltre trent’anni – Queste ricostruzioni sono

frutto di un’ossessione politicizzante tutta italiana secondo cui ogni giornalista deve avere un cartel-lino: o destra o sinistra. È bene chiarirlo una volta per tutte: noi non eravamo né sinistrorsi né filo-comunisti. Eravamo un giornale libero. Semmai, lo shock che molti ebbero nel constatare la nuova linea editoriale del Corriere fu dovuta al fatto che quello diretto da Spadolini e dai suoi predecessori era un giornale dichiaratamente schierato. Schierato per la destra, per i conservatori, per i democri-stiani, per la Confindustria, contro i sindacati, contro i comunisti. Questo lo si vedeva non soltanto negli editoriali, ma anche nella presentazione stessa delle notizie. Puntualmente, l’opinione della Confindustria era riportata in un articolo a cinque colonne, mentre quella dei sindacati, se pure ve-niva riferita, era relegata in un articolo di una colonna, seguito magari da un commento sfavorevole oppure presentato attraverso una stesura già essa stessa di parte”.

Quanto invece alla scelta, secondo Bocca infamante, di riempire le prime pagine “di editoriali di sociologi e romanzieri”, Ottone la rivendica come “una dei più prestigiosi risultati” dei suoi anni alla direzione del quotidiano milanese. Una scelta figlia di una politica editoriale ben precisa, all’interno della quale maturerà la collaborazione tra il «Corriere della Sera» e Pier Paolo Pasolini.

1.2 I perché di una «impensabile collaborazione»

“Un giorno nel mio studio arriva Gaspare Barbiellini Amidei e mi propone: «Cosa ne dici se chiediamo a Pasolini di scrivere per noi?». Io rispondo subito: «Ottimo, proviamo». Ecco, quando mi trovo a narrare questo aneddoto – racconta sorridendo Ottone – ho sempre paura di deludere i miei interlocutori, che magari si immaginano chissà quali macchinazioni o scoop. Ma la cosa è nata davvero così. Pensi che io non l’ho neppure mai visto di persona, Pasolini”.

Quando ha inizio la collaborazione di Pier Paolo Pasolini al «Corriere della Sera», Gaspare Barbiellini Amidei è stato da poco nominato, per volere di Ottone, vicedirettore della testata. Rive-ste questa carica insieme a Franco Di Bella, responsabile dell’economia e della politica interna e Michele Tito, che cura la parte relativa alla politica estera. Barbiellini Amidei è invece l’uomo della Terza Pagina. È lui, dunque, l’artefice dell’operazione che porterà Pasolini a scrivere sulle colonne

16 Rossella, Il diavolo a via Solferino. 17 Ibidem. 18 Candotti, Pier Paolo Pasolini, giornalista corsaro, «www.pasolini.net».

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del quotidiano di via Solferino, dopo una breve contrattazione portata avanti col cugino dello scrit-tore, Nico Naldini.

Certo, sia a Ottone sia al suo vice, non doveva sfuggire la portata rivoluzionaria di un’operazione del genere: dichiaratamente marxista, irresolubilmente in contrasto con la borghesia liberale e conservatrice, coi suoi valori e con le sue morali, da anni al centro di scandali e di pole-miche legate al contenuto dei suoi film e alla sua dichiarata omosessualità, affezionato al suo inte-gralismo e al suo narcisistico gusto per la provocazione, Pier Paolo Pasolini, all’inizio del 1973, non riscuote alcun apprezzamento tra i lettori abituali del «Corriere della Sera». Anzi, dall’universo cul-turale di quei lettori, Pasolini è lontanissimo.

“Ma io non mi preoccupavo assolutamente dell’eventuale reazione sdegnata che avrebbe avu-to il nostro lettore medio. Ero convinto – spiega Ottone – che Pasolini avesse delle cose intelligenti da dire, e inoltre scriveva molto bene. Dunque era una voce a cui ero ben contento di dare spazio: i lettori avrebbero capito”. E difatti, in quei mesi, le vendite del Corriere aumentano sensibilmente. “Questo era inevitabile. Quando un giornale si apre al dibattito, ospitando idee interessanti ancorché discordanti, il risultato è che il pubblico apprezza. E del resto bisogna contestualizzare: l’avvicinamento di Pasolini non nasce dal nulla. La nostra ferma intenzione era quella di evitare di ridurre il giornale a un bollettino di informazioni schierato e propagandistico; piuttosto, volevamo fare del Corriere la sede di un costante scambio di idee, una tribuna in cui si potessero confrontare le opinioni di intellettuali, politici, rappresentanti della classe dirigente del Paese”.

In effetti, sfogliando le pagine del Corriere di quegli anni, ci si imbatte in nomi davvero im-portanti per la storia della letteratura italiana del secondo ‘Novecento: da Sciascia a Moravia, da Parisse a Natalia Ginzburg, da Calvino a Fortini. Ci si trova di fronte a quello che proprio Italo Cal-vino ha definito come “il giornalismo degli scrittori” degli anni ’70; anni in cui, a suo dire, tutto av-viene “per i giornali e sui giornali”19.

Quella di suscitare stimoli interessanti attraverso l’attrito tra le varie opinioni di intellettuali diversi, nell’ambito di un contraddittorio pluralista e costruttivo, è un’idea che Ottone afferma di aver “assorbito dalla mentalità giornalistica anglosassone” durante la sua permanenza in Inghilterra. “Lì i giornali erano tribune di idee dei loro collaboratori più importanti, i cui interventi, però, non impegnavano in nessun modo la direzione: anche se in quel caso si trattava di collaboratori fissi e stipendiati, mentre gli intellettuali che scrivevano sulle nostre rubriche erano saltuari e non riceve-vano, neppure i più prestigiosi, alcun compenso”.

Interventi che non impegnano la direzione del quotidiano, dunque. E infatti, gli articoli di mol-ti di questi intellettuali, a partire da quelli di Pier Paolo Pasolini, vengono pubblicati in un’apposita rubrica, intitolata Tribuna aperta, e sono spesso preceduti da una sorta di puntualizzazione precau-zionale da parte della redazione:

Su queste colonne intervengono autorevoli voci delle più diverse tendenze, invitate

ad esprimere intorno a temi d’attualità il loro giudizio, che non sempre rappresenta quello del «Corriere»

“Anche quella della Tribuna aperta – conferma Ottone – fu un’idea di Gaspare. Fu una propo-

sta che io approvai in pieno, in quanto la ritenni molto intelligente: noi, di fatto, affittavamo un an-golo del giornale a chi ritenevamo potesse offrire spunti interessanti, anteponendo gli interessi del giornale e della comunità alle nostre convinzioni politiche e ideologiche. Certo io non condividevo sempre quello che diceva Pasolini: ma, ripeto, ero convinto che la sua fosse una voce che andava ascoltata. Non bastò, come deterrente a pubblicarlo, neppure quella filippica che scrisse contro di me, non ricordo neppure più dove, dai toni a dir poco offensivi20. In fondo anche le offese contri-buiscono al dibattito, e spesso attirano il pubblico. Quando fui nominato direttore del Corriere, ad esempio, un lettore, sdegnato, inviò una lettera alla redazione: «Dopo Missiroli, Russo; dopo Russo,

19 Belpoliti, Settanta, p.152. 20 Si tratta della lettera riportata a p. 3.

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Spadolini; dopo Spadolini, Ottone. Non c’è limite al peggio». La pubblicai il giorno dopo, senza alcun commento. Oltretutto la trovavo spiritosa. Ecco, bisogna tenere presente tutta questa situazio-ne, per comprendere il retroscena che portò il Corriere a questa impensabile collaborazione con Pa-solini”.

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2. Perché Pasolini sceglie il «Corriere della Sera»

2.1 «Sfruttare cinicamente il sistema»

Quello che resta da comprendere sono invece i motivi che spingono Pasolini, nel gennaio del 1973, ad accettare di scrivere su quel giornale che solo qualche mese prima ha investito di critiche e di insulti, condannandone l'“illibertà” e la “mancanza di coraggio morale”.

La motivazione principale è forse anche la più ovvia: scrivere per il «Corriere della Sera», so-prattutto all’inizio degli anni ’70, significa godere di una visibilità fuori dal comune. Visibilità di cui Pasolini è sempre andato disperatamente alla ricerca, al fine di raggiungere il maggior numero possibile di persone e accrescere il proprio pubblico, con l’intento di provocarlo e soprattutto di scuoterlo dai torpori del conformismo. Ecco che dunque scrivere sulle pagine del Corriere diventa per Pasolini il modo migliore per affermare la propria presenza nell’ambito del quotidiano dibattito politico. E del resto in pochi, in quegli anni, sanno cogliere con la stessa lucida prontezza di Pasoli-ni l’urgenza di ripensare il ruolo dell’intellettuale, e di adattarlo alle nuove potenzialità dei mass media e alle nuove esigenze del mercato editoriale.

Prima di tutto devo dire che non mi trovo in un momento molto felice della mia vita

di intellettuale: sento, vagamente, per esempio, che qui le mie parole suonano senza i caratteri né della novità né dell’autorità.

La spiegazione psicologica di questo potrebbe essere per me la più facile e la più at-traente, ma ci rinuncio. La reale spiegazione è economica: io cioè ho cominciato a lavo-rare in un’epoca in cui ai prodotti si richiedeva la qualità della lunga durata, garanzia senza la quale non venivano nemmeno presi in considerazione. Mentre oggi continuo a lavorare (senza essermi adattato ai tempi) in un’epoca in cui, al contrario, si richiede ai prodotti la qualità del rapido consumo. Il buon risultato, non il valore.21

È questo l’incipit di un suo scritto pubblicato da «Nuovi Argomenti» sul numero di gennaio-

febbraio del 1973 – dunque in contemporanea con il suo esordio sul «Corriere della Sera» – che pe-rò riflette una convinzione che Pasolini è andato maturando con gli anni, come dimostra il suo arti-colo di presentazione al pubblico di «Tempo», settimanale sul quale lo scrittore ha tenuto una rubri-ca di dialogo con i lettori – Il caos – dal 6 agosto 1968 al 24 gennaio 1970:

Mi caccio con questo [cioè con la decisione di collaborare con la rivista, nda], lo so, in un’impresa ingrata e disperata; ma è naturale, è fatale, del resto, che, in una civil-tà in cui conta più un gesto, un’accusa, una presa di posizione, che un lavoro letterario di anni, uno scrittore scelga di comportarsi in questo modo. Deve pur cercar di essere presente, almeno pragmaticamente e esistenzialmente, se in linea teorica la sua presen-za sembra indimostrabile!22

È proprio quest’ansia di intervenire nelle polemiche dell’attualità – ansia non priva di un certo

egocentrismo – che costringe Pasolini, negli ultimi anni della sua vita, a concentrarsi con impegno sempre più assiduo sull’attività giornalistica, e a inibirlo nel tentativo di lasciar sedimentare il fondo di una grande e strutturata opera letteraria. Quanto quest’ansia sia stringente lo si può constatare nell’incapacità di portare a termine il cantiere infinito di Petrolio, il romanzo in cui Pasolini vorreb-be far confluire gli ultimi aberranti vent’anni della storia d’Italia. La morte prematura, certo, arriva a impedire il compimento di un’opera così ambiziosa; ma a rendere oltremodo difficile e lenta la

21 Pasolini, Prologo: E.M., in Id., Saggi sulla politica e sulla società, p.242. 22 Id., Dov’è l’intellettuale?, ivi, p. 1098.

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realizzazione di quel monumentale “lungo romanzo, di almeno duemila pagine”23, avviato nel 197224 e realizzato soltanto per “pochissimo più di un quarto”25 dopo oltre tre anni, è soprattutto l’impegno giornalistico, che assorbe sempre più Pasolini, le cui collaborazioni con i quotidiani si infittiscono, alcune più durature, altre estemporanee: oltre che al «Corriere della Sera», i suoi artico-li sono destinati, tra il ’73 ed il ’75, a «Il Mondo», «Dramma», «Tempo», «Nuova Generazione», «Epoca», «Rinascita», «L’Europeo», «Paese Sera», «Panorama», «L’Espresso». E a dimostrazione di come l’attività giornalistica diventi in lui preminente sta il fatto che, per la prima volta nella sua carriera, Pasolini decide di raccogliere i suoi articoli e pubblicarli in antologia.

La prima raccolta, data alle stampe presso l’editore Garzanti nel marzo del ‘75, è quella degli Scritti corsari. In essa confluiscono gli articoli realizzati da Pasolini tra il gennaio del 1973 ed il febbraio di quello stesso 1975, disposti per volere dell’autore in due sezioni, all’interno delle quali gli interventi si succedono secondo un ordine cronologico. La prima sezione è quella eponima dell’intera raccolta, e contiene gli articoli legati all’attualità e alla politica pubblicati su vari quoti-diani; fanno eccezione Cani, rimasto inedito fino ad allora, Vuoto di Carità, vuoto di Cultura: un linguaggio senza origini, che è in realtà la prefazione che Pasolini ha scritto ad una raccolta di Sen-tenze della Sacra Rota a cura di Francesco Perego, e Altra previsione della vittoria al referendum, rimasto inedito prima di allora in quanto la rivista «Nuova Generazione», che aveva commissionato questo articolo allo scrittore, si è poi rifiutata di pubblicarlo. La seconda sezione, invece, intitolata Documenti e allegati, presenta numerose riflessioni in bilico tra la letteratura e l’attualità, recensioni che si trasformano spesso in vere e proprie analisi di carattere politico e sociologico, scritte tutte per il settimanale «Tempo».

L’altra raccolta si intitola Lettere luterane. Si tratta di un’opera “semipostuma”26: sarà infatti la cugina di Pier Paolo Pasolini, Graziella Chiarcossi, a darla alle stampe presso Einaudi nel 1976, rispettando la disposizione delle carte preparate dallo scrittore. Tre sezioni compongono le Lettere luterane: la prima, intitolata Gennariello, consiste in un “trattatello pedagogico” a puntate, ciascuna delle quali è stata precedentemente pubblicata sul settimanale «Il Mondo» tra il 6 marzo ed il 5 giu-gno 1975; questi articoli sono preceduti da un testo inedito, I giovani infelici, scritto appositamente da Pasolini in vista della raccolta in volume del “trattatello”, di cui va a costituire una sorta di pro-emio. La seconda sezione, Lettere luterane, presenta gli articoli giornalistici che riguardano attualità e politica, usciti sul «Corriere della Sera» e su «Il Mondo» tra luglio e ottobre dello stesso anno. Anche in questo caso, il principio che regola la successione degli scritti è di tipo cronologico, rite-nendo valida, però, sempre la data di scrittura e non quella di pubblicazione27. Postilla in versi è invece il titolo della terza sezione, costituita soltanto da tre poesie, l’ultima delle quali inedita, pub-blicata su «Giorni-Vie Nuove» soltanto il 7 aprile 1976.

Ora, se si vanno a contare solo gli articoli riguardanti più strettamente temi di attualità e poli-tica raccolti nelle due sillogi (dunque tralasciando la seconda parte di Scritti corsari e la prima e la terza di Lettere luterane), si scopre che gli scritti giornalistici del 1973 ritenuti degni di essere anto-logizzati sono solo quattro, di cui 3 usciti sul «Corriere della Sera». Quelli risalenti al ’74 sono ben dodici (di cui sette pubblicati sul Corriere), oltre alla già citata prefazione alla raccolta di Sentenze della Sacra Rota. Del ’75, in parte in Scritti Corsari e in parte in Lettere luterane, vengono antolo-gizzati addirittura ventisei interventi (dei quali sedici usciti sul Corriere). Che Pasolini, nella sua

23 Cfr. la testimonianza di Paolo Volponi in Perché Pasolini, pp. 25-26. 24 Pasolini, Lettere 1955-1975, p.706. 25 Roncaglia, Nota filologica, in Pasolini, Petrolio, p. 618. 26 Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, p. 1783. 27 È per questo che si registrano due apparenti infrazioni alla norma. L’abiura dalla «Trilogia della vita», infatti, apre la seconda sezione della raccolta pur essendo stata pubblicata postuma, sul «Corriere della Sera», soltanto il 9 Novembre 1975, poiché è stata scritta il 15 giugno. Bisognerebbe processare i gerarchi DC, invece, compare prima de Il Processo, nonostante il primo articolo risulti esser stato pubblicato su «Il Mondo» il 28 agosto e il secondo sul «Corriere della Sera» il 24 agosto. Questo perché, in realtà, Bisognerebbe processare i gerarchi DC è stato scritto ben prima dell’uscita del numero del settimanale sul quale è comparso, dunque prima ancora del 24 agosto. Lo stesso Pasolini aveva disposto, nelle sue carte, questa successione, al fine di garantire una coerenza logica alla silloge, in quanto l’articolo su «Il Mon-do» era il primo nel quale veniva teorizzata la necessità di portare a processo gli esponenti democristiani.

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pur costante poliedricità, si dedichi con sempre maggiore costanza al giornalismo, lo dimostra an-che un altro dato: dei ventisei articoli scritti nel suo ultimo anno di vita, dieci vengono scritti nel primo semestre, e ben sedici nei restanti quattro mesi (Pasolini muore nella notte tra l’1 e il 2 No-vembre). Non solo: di quei sedici scritti, addirittura sei vanno collocati nell’ultimo mese, quello di ottobre. Un aumento progressivo e inesorabile, dunque, anche se non sempre costante (a febbraio scrive più articoli che non a giugno).

Salta agli occhi anche un altro dato, e cioè che il luogo di pubblicazione privilegiato per gli ar-ticoli di Pasolini è senza dubbio il «Corriere della Sera»: lì vengono stampati quasi i due terzi dei suoi scritti giornalistici di quei tre anni (25 su 42). E questa così assidua presenza sulle pagine del quotidiano milanese pone anche un’altra questione: la firma di Pier Paolo Pasolini non è una firma come tutte le altre.

“Certamente per i nostri lettori, per alcuni nostri collaboratori e anche per la direzione, la fir-ma di Pasolini sul Corriere risultò inaspettata. Per taluni si trattò di una sorpresa, per altri di un vero e proprio shock”. Queste le parole di Ottone, che prosegue: “Per non dire di quando lo pubblicam-mo in prima pagina. Mi ricordo che era una domenica sera; Barbiellini viene nel mio ufficio, con quella sua solita aria strascicata e addormentata, e mi dice: «Piero, domani abbiamo una prima pa-gina abbastanza piatta; ma avrei pensato a un modo per renderla un po’ più interessante. Ho qui nel-la mia cartella un articolo di Pasolini, destinato alla Tribuna aperta: cosa ne dici se lo pubblichiamo in prima pagina per dargli più rilievo?». Io accetto e il giorno dopo l’articolo di Pasolini [si tratta di Gli italiani non sono più quelli, pubblicato il 10 giugno 1974, nda] esce in prima pagina. Questo suscitò lo scandalo di qualcuno, compreso della mia cara Giulia Maria, che in quanto editrice era d’accordo con la nostra impostazione del giornale libera e indipendente, ma Pasolini in prima pagi-na le sembrava quantomeno una stranezza. Forse questa sua reazione fu dovuta anche a qualcuno dei suoi amici milanesi che le avrà certamente detto sdegnato: «Ma Giulia, cosa combina il Corrie-re, addirittura Pasolini in prima pagina?». Ma io le dissi che la trovavo un’operazione interessante, e difatti poi ebbe seguito”.

Lo stesso Pasolini, ovviamente, non può, nel momento in cui scrive i suoi articoli per il «Cor-riere della Sera», non essere consapevole del dirompente valore della sua semplice “presenza” sulle pagine del quotidiano di via Solferino. Tanto più che sul modo in cui il semplice intervento di un intellettuale può spesso risultare un contributo alla rivolta, Pasolini si è più volte espresso negli an-ni.

Un negro che presenti la sua «faccia» – nient’altro che la sua faccia, ossia la sua ne-

gritudine esistenziale – in un cocktail tutto di purissimi anglosassoni, in un quartiere re-sidenziale, dove è proibito abitare perfino ai «sudeuropei»!, compie evidentemente un atto di rivolta. Col suo stesso «esserci», col suo stesso «esserci come negro».

Ebbene, l’opera di un autore è come la faccia di un negro. È con la sua stessa pre-senza, con il suo «esserci», che è rivoluzionaria.28

L’importanza della “presenza fisica” di Pasolini sul «Corriere della Sera» è stata sottolineata

anche da Walter Siti – che ha recuperato delle osservazioni già fatte da Franco Fortini nel 197929 – in un’intervista rilasciata alla Rai nel 2001:

Corpo o persona, proprio la presenza fisica di Pasolini è stato un dato importante

nell'immaginario collettivo. Per vari motivi […]. Da un lato credo che sia una cosa av-venuta indipendentemente dalla volontà di Pasolini stesso, però è anche vero che lui a un certo punto della sua vita ha incominciato a pensare che questa "presenza" fisica po-

28 Pasolini, Gli studenti di «Ombre Rosse», in Id., Saggi sulla politica e sulla società, pp. 1157-1159. 29 Negli appunti preparatori di una conferenza tenuta da Fortini a Berna nel 1979 su Pasolini come autore politico si legge: “Pasolini invece non si rende conto (o finge: e questo è grave perché lo apparenta al politico e al pubblicista) che, da una certa data in poi, il significato dei suoi discorsi è anche se non soprattutto, nel suo nome, nella firma in calce all’articolo”. (Fortini, Attraverso Pasolini, p. 199).

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tesse essere invece funzionale, proprio per dare "peso" a quello che scriveva. […] Il ti-po di "presenza" che Pasolini si era guadagnato con questo rapporto, anche molto con-flittuale con i media, è certamente la ragione per cui i suoi interventi hanno un "peso", che diventa poi anche qualità estetica. Pasolini ha sempre avuto uno straordinario talen-to nel valorizzare al massimo i suoi testi, rendendo ciascuno di essi problematico e sor-prendente. A un certo punto credo che lui si sia reso conto che c'era questa sorta di ef-fetto "addizionale" legato proprio alla sua presenza fisica e lo ha usato anche un po' ci-nicamente per dare spessore a quello che andava scrivendo.30

Vale la pena richiamare l’attenzione su un avverbio utilizzato da Walter Siti: cinicamente. Cinicamente, Pasolini non esita dunque a ricorrere ad uno stratagemma per certi versi subdo-

lo: approfittare della fama di cui lui gode in quanto personaggio pubblico per conferire ai testi che lui scrive un sovrappiù di significato. Nella nuova poetica del Pasolini giornalista, quella che Siti definisce “poetica del non finito”, è infatti “previsto che la parola scritta venga in qualche misura integrata dalla persona stessa dello scrittore, cioè da quello che il lettore sa e conosce dello scrittore o se vogliamo dalla tensione che il testo lascia presupporre al di fuori del testo”31.

E non è un caso che cinicamente sia un avverbio che anche lo stesso Pasolini utilizza con una notevole frequenza per descrivere un aspetto della sua attività di giornalista. Tuttavia, lui si autode-finisce cinico intendendo qualcosa che è in parte diverso – eppure in qualche modo complementare – rispetto a quanto espresso da Siti. Fa riferimento, cioè, ad un suo personale atteggiamento di intel-lettuale che sfrutta, cinicamente appunto, le «strutture culturali» e mediatiche preesistenti, anche se borghesi e asservite alle logiche commerciali del capitalismo, proprio con l’obiettivo dichiarato di lanciare le sue accuse alla borghesia e diffondere le sue condanne contro il capitalismo. Ancora una volta è l’articolo con cui Pasolini si presenta ai lettori di «Tempo», ribadendo la sua indipendenza rispetto al giornale che ospita la sua rubrica Il caos, a dirci di come questi convincimenti sul rappor-to che un intellettuale può cinicamente instaurare con gli organi di informazione siano ormai ben radicati nello scrittore corsaro che deciderà di accettare la collaborazione con il «Corriere della Se-ra».

[…] alla buonora, proprio ieri, uno studente marocchino […] mi ha detto che biso-

gna approfittare del tipo di produzione attuale, finché non ce ne sarà un’altra. E noi del resto leggiamo Marx e Lenin perché pubblicati da editori capitalisti borghesi.

Personalmente io, dunque, mi comporto con Tofanelli, il direttore di questa rivista, e Palazzi, l’editore, come ci si comporta con degli amici: al di fuori del rapporto perso-nale, però, io mi riservo di comportarmi con loro cinicamente.

Un lettore che mi abbia seguito fin qui, con un po’ d’attenzione, si stupirà di questa espressione, «cinicamente», che non ha nulla a che fare con quanto ho detto finora, so-prattutto col sentimento con cui l’ho detto. […]

Ma quest’avverbio «cinicamente» si riferisce al mio comportamento pubblico, non personale: è un’affermazione ideologica: io approfitto delle strutture capitalistiche per esprimermi: e lo faccio, appunto, cinicamente […].32

Pochi giorni dopo la pubblicazione di questo articolo, Pasolini ribadisce i suoi convincimenti

nelle vesti di regista ritrovatosi al centro di un’aspra polemica a proposito della sua scelta di parte-cipare, con Teorema, alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, nonostante ne abbia lui stesso condannato il modo in cui essa è gestita, rispondente in misura pressoché esclusiva alle esi-

30 Intervista a Walter Siti, «Italica». 31 Ibidem. 32Pasolini, Nessun patto o patteggiamento & Una malattia molto contagiosa, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, pp. 1095-1097.

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genze commerciali dei produttori. Secondo Pasolini, fin quando non si affermerà un nuovo sistema di distribuzione non borghese e non capitalistico, “l’artista non può essere obbligato a tacere” 33.

Io non mi sento obbligato a non fare più film, finché, per esempio, non si sarà trova-

to il modo di aprire in seno al movimento operaio un canale per distribuirli. Perciò, nell’interregno (mentre […] continuerò la mia lotta politica, «gettandovi il mio corpo» come sempre, e sfido qualcuno a dimostrare il contrario), io penso che si debba «conti-nuare a sfruttare cinicamente il sistema». […] Voglio dire che io purtroppo, e così tutti i miei colleghi cineasti e scrittori, dovremmo continuare a usare, per fare le nostre opere e farle conoscere, ancora per molto tempo, delle «strutture culturali» esistenti. E lo fa-remo appunto cinicamente, mentre continueremo a lottare (con le opere e con le azioni) contro di esse, per crearne di nuove.34

Appare a questo punto evidente come anche la collaborazione di Pasolini al «Corriere della

Sera» possa essere considerata un’operazione cinica. Egli sfrutta, infatti, l’importanza del giornale che lo ospita per estendere quanto più possibile le proprie convinzioni, e per dar loro un peso speci-fico maggiore nell’ambito del dibattito quotidiano.

Anche l’analisi del linguaggio utilizzato da Pasolini sulle colonne del giornale di via Solferino conferma, in fondo, come egli intenda approfittare al meglio dell’occasione che gli è capitata, nel tentativo di corroborare con tutta l’efficacia di cui è capace i suoi scritti. Non è un caso, infatti, se lo stile di Pasolini – come ha evidenziato Piergiorgio Bellocchio35 – cambia, ora che si rivolge ad una platea così vasta come quella del Corriere.

Le analisi e i giudizi del Pasolini “corsaro” e “luterano” non presentano […] sostan-

ziali novità rispetto al Pasolini precedente. Ma stavolta Pasolini dà un nuovo ordine re-torico-stilistico al suo discorso, rendendolo immediatamente percepibile, anzitutto a li-vello emotivo. […] Pasolini taglia, sfronda, lascia cadere finalmente molte occasioni e pretesti di polemica secondaria da cui aveva sempre avuto la debolezza di farsi immi-schiare. Semplifica. E ripete.36 E che i cambiamenti apportati in questo senso al proprio stile siano studiati, è lo stesso Pasoli-

ni a confermarlo. Recensendo, nel settembre del 1973, L’Europa semilibera, “libro giornalistico” che Piovene scrive raccogliendo alcuni dei suoi articoli pubblicati su «La Stampa», Pasolini ricono-sce tutta la fatica a cui uno scrittore è costretto per adattare la propria prosa ai canoni del giornali-smo. È una fatica che arriva “a stringere il cuore”, ammette Pasolini, “soprattutto a un critico come me, che, in questo momento, sta facendo ciò che ha fatto” Piovene “nel libro preso in esame, cioè un lavoro di semplificazione a cui la coscienza, in parte, si ribella, in parte acquiesce, come una specie di dovere inferiore ma non meno necessario”37.

2.2 «Gettare il proprio corpo nella lotta» “Continuerò la mia lotta politica «gettandovi il mio corpo»”. È quanto afferma Pasolini

nell’articolo prima citato, Perché vado a Venezia, pubblicato su «Il Giorno» il 15 agosto 1968, e nel quale lo stesso concetto viene espresso anche poche righe prima:

33 Id., Perché vado a Venezia, ivi, p. 167. 34 Ibidem. 35 Cfr. un giudizio analogo espresso in Alfonso Berardinelli, Introduzione, in Pasolini, Scritti Corsari, p. XII. 36 Bellocchio, Disperatamente italiano, in Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, pp. XXXV-XXXV. 37 Pasolini, Descrizioni di descrizioni, p. 215.

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Siamo d’accordo sul fatto che l’opera di un artista deve … essere impegnata! […]. Siamo d’accordo che l’opera di un artista deve nascere nello stesso terreno in cui nasce la sua azione politica; e che è anzi una cosa sola con questa […]. Siamo d’accordo sul fatto che in certi momenti l’artista deve avere il coraggio civile di smettere di esprimer-si attraverso la mediazione delle opere, ed esprimersi invece direttamente, attraverso la sua propria esistenza: cioè «gettare il proprio corpo nella lotta», come dice un meravi-glioso slogan della Nuova Sinistra americana.38

“Gettare il proprio corpo nella lotta” è un imperativo che definisce in maniera efficace il nuo-

vo impegno che negli ultimi anni della sua vita Pasolini decide di assumere in quanto intellettuale. È vero che per certi versi si tratta di un approdo naturale per lo scrittore bolognese, alla luce di quel-le sono state fin qui, e fin dagli esordi, le sue opere artistiche: si può senza dubbio sostenere, infatti, che l’ansia di costituirsi come punto di riferimento per la propria generazione è rintracciabile già nel Pasolini poco più che adolescente. Eppure, leggendo i suoi scritti giovanili, lì quell’ansia sembra declinarsi piuttosto come volontà di essere una guida esclusivamente letteraria. Non sorprende che il modello di Pasolini in quel periodo sia Contini, e non certo Gramsci.

È soltanto a partire dal dopoguerra, trascorso nel Friuli, che il giovane intellettuale avverte l’urgenza di affrontare, e sin da subito in maniera piuttosto veemente e anticonformista, le proble-matiche politiche della sua regione. È lì che si forma la sua coscienza marxista, nata prima dalla frequentazione dei contadini di Casarsa che non dalla lettura del Codice o del Capitale39. Quello di Pasolini, come dirà Moravia, è un comunismo “populista e romantico” che è “fondamentalmente sentimentale, nel senso di esistenziale, creaturale, irrazionale”40. È un dato, questo, da tenere in con-siderazione se si vogliono comprendere a pieno le critiche che alcuni intellettuali di sinistra, presen-tandosi come esponenti di un marxismo ortodosso, muoveranno al Pasolini articolista del «Corriere della Sera»41.

Almeno per una decina d’anni, quelli successivi alla Liberazione, Pasolini si mostra dunque convinto di “poter situare la propria posizione di intellettuale piccolo-borghese tra il partito e le masse, diventando un vero e proprio perno di mediazione tra le classi”42. Convinzione che però si sfalda verso la fine degli anni ’50, per lasciare posto, con le prime avvisaglie del neo-capitalismo, ad una crescente disillusione sulla reale capacità dell’intellettuale di instaurare una relazione diretta e simpatetica con il proletariato. Ne sono testimoni, sicuramente, Le ceneri di Gramsci (1957) e, in una fase più acuta, Uccellacci e uccellini (1966). Ed è indicativa, in questo senso, l’intera sua colla-borazione alla rivista «Vie Nuove», sulle cui colonne Pasolini tiene, in maniera molto saltuaria, la sua prima rubrica di “Dialoghi con i lettori” tra il maggio del ’60 e il settembre del ’65. Come ha giustamente osservato Franco Fortini, “in questi dialoghi si consuma una delle ultime illusioni po-stresistenziali: quella di un dialogo, appunto, fra un ‘popolo’ e un ‘intellettuale’ sotto il segno di un grande partito democratico popolare”43. E l’articolo con cui Pasolini prende congedo dai suoi letto-ri, è più che mai eloquente.44

38 Id., Perché vado a Venezia, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, p. 165. 39 Il background pasoliniano, ivi, pp. 1291-1292. 40 Golino, Tra lucciole e Palazzo, p.21. 41 Cfr. Fortini, Attraverso Pasolini, pp. 194-197. 42 Naldini, Cronologia, in Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, p. LXVIII. 43 Fortini, Attraverso Pasolini, p. 150. 44 Pasolini, La figura dello scrittore, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, pp. 1088-1089: “Se poi, a concludere questa mia nuova lettera di congedo […] dovessi aggiungere qualche considerazione sul lavoro fatto, direi che oggetti-vamente è stato infinitamente più difficile che qualche anno fa. E questo un po’ per le condizioni effettivamente mutate, per il diverso ruolo del Pci nella vita italiana e il diverso corso del marxismo nella vita del mondo: per cui la figura dello scrittore «compagno di strada» o tout court compagno, è profondamente mutata. Mentre negli anni Cinquanta egli era una specie di custode del fuoco sacro, e l’allusione, fra lui e la massa dei lettori operai, era alla comune speranza degli uomini, ora tale allusione pare decaduta: anche se moltissimi compagni della base non vogliono ancora rendersene con-to, e quindi continuano, nella coscienza, ad aspettarsi da uno scrittore quel tipo di colloquio e di solidarietà che si aspet-tavano qualche anno fa. D’altra parte una nuova «figura» dello scrittore non si è ancora delineata: le necessità sono an-

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Nell’agosto del 1966 si situa però un viaggio di Pasolini negli Stati Uniti che segna profonda-mente l’animo dello scrittore. Il quale torna in Italia con una sorta di new deal: “gettare il proprio corpo nella lotta”. Il resoconto del viaggio è in un articolo che viene pubblicato il 18 novembre su «Paese Sera». Pasolini descrive gli entusiasmi e i fermenti proto-rivoluzionari che agitano larghe fasce della popolazione americana, per poi rivolgere una critica, amara e radicale, contro la società europea, che vive una condizione storica – e l'analisi vale particolarmente per l'Italia – davvero infe-lice. Un eventuale riscatto, secondo Pasolini, sarebbe però possibile se l'élite culturale del vecchio continente giurasse fedeltà allo slogan della Nuova Sinistra:

Ciò che si richiede a un letterato americano «non integrato», è tutto se stesso […]. Gli intellettuali americani della Nuova Sinistra […] sembrano fare proprio ciò che dice il verso di un innocente canto della Resistenza negra: «Bisogna gettare il proprio corpo nella lotta».

Ecco il nuovo motto di un impegno, reale, e non noiosamente moralistico: gettare il proprio corpo nella lotta... Chi c’è, in Italia, in Europa, che scrive spinto da tanta e così disperata forza di contestazione? Che sente questa necessità di opporsi, come una ne-cessità originaria, credendola nuova nella storia, assolutamente significativa, e piena in-sieme di morte e di futuro?45

Pasolini sente la necessità di rivestire un ruolo nuovo, che poi forse è soltanto il suo modo di

incarnare l’intellettuale engagé senza sentirsi imbarazzato in un habitus che ormai è troppo confor-mistico, per uno come lui, ed è indicato da una formula – “scrittore impegnato”, appunto – che Pa-solini deve ritenere abusata e consunta. Potrebbe apparire come un vezzo da esteta, o più banalmen-te un capriccio, il voler per forza codificare la propria esperienza di intellettuale in termini diversi da quelli di altri colleghi, ma non c’è dubbio che questo vezzo, questo capriccio, nascano da un’esigenza sincera di Pier Paolo Pasolini di non adeguarsi a nessuno dei canoni dell’intellettuale imposti da quelle che lui ritiene le “due mode sottoculturali e terroristiche” dell’ultimo decennio, le due “idiozie che sono state il neoavanguardismo e il gauchismo letterario”46. La neoavanguardia prima, e il Movimento Studentesco poi, infatti, sono da poco arrivati a mettere in discussione cer-tezze che sembravano acquisite circa gli obblighi sociali di artisti e scrittori, e hanno costretto, an-che Pasolini, a porsi domande angosciate in tal senso, nell’estate del ‘68: “cacciato, come traditore dai centri della borghesia, testimone esterno al mondo operaio: dov’è l’intellettuale, perché e come esiste?”47.

In realtà, Pasolini ha già la risposta a questa domanda. O, almeno, lui ha assunto come tale proprio lo slogan mutuato dalla Nuova Sinistra statunitense due anni prima. Non si spiega altrimenti la ricorrenza ossessiva con la quale lo ripete in quei mesi, rivendicandolo quasi come una conquista personale.48

E forse, se proprio nel settembre del ‘68 Pasolini vorrà essere tra i principali animatori della protesta che avrà luogo nella Sala Volpi del Palazzo del Cinema di Venezia, tra occupazioni, confe-renze stampa improvvisate, tentativi di autogestioni del Festival, scontri con la polizia e risse con i

cora fluttuanti. Io, si può dire, attraverso la rubrica di «Vie nuove» mi sono trovato a vivere questo passaggio come in corpore vili”. 45 Id., Guerra Civile, «Paese Sera», 18 novembre 1966, ora in Id., Empirismo eretico, pp. 144-150. 46 Id., Descrizioni di descrizioni, p. 41. 47 Id., Dov’è l’intellettuale?, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, pp. 1098-1099. 48 Pasolini lo cita anche pochi mesi prima, nel corso di un incontro tenutosi il 17 ottobre del 1967 alla Casa della Cultu-ra di Milano. Parlando ai ragazzi della scuola di Barbiana, gli allievi di don Lorenzo Milani, da poco scomparso, Pasoli-ni spiega loro le sue impressioni sul libro che essi hanno scritto insieme con il sacerdote: Lettera a una professoressa, per poi concludere “[...] dico che forse vi ho delusi in questo mio intervento, non soltanto per la sua critica violenta, ma forse anche per il suo disordine, per la sua improvvisazione. Ma voi sapete che c’è un motto meraviglioso, della nuova sinistra americana, in cui si dice che bisogna gettare il proprio corpo nella lotta: ebbene fate conto che, invece che a parlare, io sia venuto qui a portare il mio corpo”. (Pasolini, La cultura contadina nella scuola di Barbiana, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, pp. 830-831).

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fascisti, questo lo si deve proprio a quel suo voler “soltanto vivere / pur essendo poeta / perché la vita si esprime anche solo con se stessa”. Sono versi tratti da un inedito resoconto, in forma di poe-sia, del viaggio fatto negli Stati Uniti nel 1966. Pasolini prosegue: “Vorrei esprimermi con gli e-sempi / gettare il mio corpo nella lotta / […] Le azioni della vita saranno solo comunicate / e saran-no esse, la poesia, / poiché, ti ripeto, non c’è altra poesia che l’azione reale”49.

È evidente, allora, che sarà un voler gettare il proprio corpo nella lotta, o quantomeno la pro-pria “presenza fisica”, anche la decisione di accettare di scrivere, pochi anni dopo, sulle colonne del «Corriere della Sera».

49 Siciliano, Vita di Pasolini, pp. 353-354.

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3. Tre anni di costanti polemiche

Voler comprendere a pieno l’esperienza giornalistica di Pier Paolo Pasolini al «Corriere della Sera» implica necessariamente il tener conto anche di quelle che furono le reazioni agli articoli che lui scrisse in quegli anni. Se le analisi e le provocazioni di Pasolini sono l’ordito degli Scritti corsa-ri e delle Lettere luterane, le repliche degli altri intellettuali che con lui si confrontarono ne costitui-scono la trama. È per questo che nei capitoli successivi mi propongo di analizzare i vari interventi di Pasolini sul Corriere collocandoli nel contesto generale del panorama giornalistico di quegli anni, nella convinzione che ciò servirà anche a mostrare un altro elemento molto importante. E cioè come il modo di lavorare, da parte di Pasolini, fu enormemente condizionato dagli atteggiamenti assunti dai suoi colleghi in reazione ai suoi articoli, e come il confronto che egli volle instaurare con i suoi interlocutori gli risultò funzionale a collocare in una particolare posizione – estrema e controversa – la propria figura di intellettuale all’interno del dibattito politico contemporaneo.

3.1 La «rivoluzione antropologica in Italia » Il 10 giugno 1974 il «Corriere della Sera» pubblica in prima pagina Gli italiani non sono più

quelli. Si tratta dell’intervento che, più d’ogni altro, affronta in maniera strutturata e programmatica quello che è il vero filo conduttore di tutta la saggistica corsara e luterana: la mutazione antropolo-gica degli italiani. Ed è anche lo scritto che, più d’ogni altro, riesce a calamitare attenzioni e pole-miche, aprendo un dibattito che si trascinerà per mesi.

Pasolini ottiene questo risultato – e lo fa scientemente, come vedremo – grazie a vari fattori. In primo luogo, innesta il suo ragionamento sull’analisi di due eventi che hanno entusiasmato e scioccato l’opinione pubblica: “la vittoria schiacciante del «no» il 12 maggio” e “la strage fascista di Brescia del 28 dello stesso mese”50. E, soprattutto, Pasolini ottiene questo risultato proponendo letture che si distaccano radicalmente da quelle fornite dal resto degli intellettuali, soprattutto quelli di sinistra, che hanno salutato la vittoria del “no” al referendum con toni trionfalistici e che hanno descritto l’attentato di piazza della Loggia come un vile atto terroristico di matrice fascista.

Per quanto riguarda il referendum, Pasolini critica innanzitutto il Pci, che pur risultando for-malmente vincitore nella campagna contro l’abrogazione della legge Fortuna-Baslini51, ha dimostra-to – coi suoi iniziali tatticismi, con la sua prolungata paura di subire una cocente sconfitta, con i suoi tentativi di mediazione per non inimicarsi il Vaticano – “di non aver capito bene cos’è successo nel nostro paese negli ultimi vent’anni”52.

Pasolini sentenzia con l’autorevolezza di chi ha saputo formulare, in due precedenti occasioni, previsioni corrette circa la vittoria del fronte divorzista. La prima di queste previsioni è in un artico-lo pubblicato su «Il Mondo», in cui Pasolini evidenziava come la possibilità per la Democrazia Cri-stiana di subire il primo grande smacco della sua storia trentennale fosse quanto mai concreta53. La seconda previsione, in realtà, non esce mai sui giornali. Il settimanale comunista «Nuova genera-zione», infatti, rifiuta a Pasolini la pubblicazione di un articolo – rimasto inedito fino al suo inseri-mento negli Scritti corsari – che dichiarava ormai svanito “non solo il prestigio”, ma anche “il valo-re della Chiesa” e che, appurato “il crollo dei valori ecclesiastici”, pronosticava: “Il problema del divorzio, dovrebbe concludersi con una grande vittoria laica”54.

50 Pasolini, Scritti corsari, p. 39. 51 La legge Fortuna-Baslini nel 1970 aveva introdotto l’istituto del divorzio in Italia. 52 Pasolini, Scritti corsari, pp. 39-40. 53 Ivi, p. 31. 54 Ibidem.

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Ebbene, il Pci non è stato in grado di decifrare il profondo cambiamento avvenuto nelle coscien-ze degli Italiani, i quali “si sono mostrati infinitamente più moderni di quanto il più ottimista dei comunisti fosse capace di immaginare”55: è questa l’accusa che Pasolini rivolge al partito di Berlin-guer. Ma non è quest’accusa l’unica provocazione che causerà le rimostranze di molti intellettuali di sinistra. Pasolini passa infatti a domandarsi se l’esito del referendum sia effettivamente “un vero trionfo”, una grande vittoria progressista del popolo italiano, come molti sostengono.

Egli, in realtà, è senza dubbio felice dell’esito del referendum: lui stesso lo definisce “una vit-toria, indubitabilmente”56, e nella Lettera luterana a Italo Calvino, scritta pochi giorni prima di mo-rire, Pasolini si ricorderà di questo successo e lo inserirà tra i meriti che rendono la borghesia di al-lora migliore rispetto a quella di dieci anni prima. Tuttavia, per Pasolini questa vittoria sta anche a dimostrare la perdita, da parte del popolo italiano, di tutti quei valori che lo mantenevano puro nella sua fedeltà ad una cultura millenaria, la quale non concepiva modelli a cui aderire che non fossero quelli ormai radicati nella coscienza comune. A soppiantare un certo bigottismo e una certa arretra-tezza culturale delle masse italiane – che Pasolini ha ben presenti, ma in questo momento tace – non è stato, in verità, un reale progresso delle coscienze, o quantomeno non in misura preponderante: a sconsacrare quei valori arcaici è intervenuto piuttosto un nuovo Potere transnazionale, dai connotati non ancora molto chiari, e rispondente alle logiche del capitale. E se questo è lo stato dei fatti, al-meno per Pasolini, allora non si tratta per nulla di un trionfo. Perché, al di là del felice evento – il mantenimento della legge che sancisce l’istituzione del divorzio – gli Italiani dimostrano di essersi affrancati da un vecchio potere clericale e antidemocratico per obbedire ad un altro potere ancor più repressivo: la cultura italiana, quindi, “si allontana tanto dal fascismo tradizionale che dal progressi-smo socialista”57.

In un contesto simile le varie categorie sociali canoniche a cui gli Italiani sentono di apparte-nere perdono qualsiasi valore. E questo, a livello politico, provoca pericolose incomprensioni e a-nomalie profonde, che Pasolini ritiene indispensabile investigare per comprendere la nuova realtà che si sta generando.

L’omologazione «culturale» […] riguarda tutti: popolo e borghesia, operai e sotto-

proletari. […] Non c’è più dunque differenza apprezzabile – al di fuori di una scelta po-litica come schema morto da riempire gesticolando – tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologi-camente e, quel che è più impressionante, fisicamente interscambiabili.58 È così che Pasolini passa ad analizzare l’altro avvenimento preso in considerazione

nell’incipit del suo articolo. Per lo scrittore è troppo sbrigativo derubricare quanto è accaduto a Piazza della Loggia soltanto ad atto terroristico ascrivibile ad una precisa minoranza politica di e-strema destra. La responsabilità fattuale della strage ricade, è vero, su un manipolo di terroristi, ma la cultura di questi criminali è in realtà, al di là di differenze puramente nominali, il prodotto della stessa mutazione antropologica che ha portato gli Italiani a sbarazzarsi dei valori clericali e a votare “no” al referendum.

Le reazioni ad analisi tanto estreme e deliberatamente provocatorie sono altrettanto veementi. Il settimanale «L’Espresso» organizza subito una tavola rotonda, alla quale prendono parte

Sciascia, Moravia, Fortini, Colletti e Fachinelli, per discutere dell’effettivo significato della vittoria dei “no” al referendum e delle osservazioni espresse al riguardo da Pasolini. Il resoconto della di-scussione, pubblicato il 23 giugno, è introdotto da un fondo redazionale dai toni mordaci, e dal tito-lo beffardo: È nato un bimbo: c’è un fascista in più, sotto l’occhiello Gli italiani secondo Pasolini. Nelle poche righe d’apertura, oltre a riportare un resoconto parziale del contenuto dell’articolo di Pasolini, a quest’ultimo viene rimproverata una vaga solidarietà morale con gli attentatori di Piazza 55 Ivi, pp. 39-40. 56 Ivi, p. 41. 57 Ibidem. 58 Ibidem.

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della Loggia, e si arriva addirittura a supporre che Almirante e Rauti abbiano trovato, in Pasolini medesimo, “un nuovo Plebe”59, facendo riferimento al responsabile culturale del Msi di quegli anni.

Alberto Moravia, nel suo intervento intitolato Lascia che ti spieghi la differenza tra noi due e…, si affianca ai molti intellettuali che ritengono l’analisi di Pasolini fondamentalmente sterile a livello politico. Essa “può avere”, secondo Moravia, anzi “ha senz’altro un suo valore di verità”, ma soltanto “sul piano esistenziale cioè premorale e preideologico”60. Moravia isola un passo, in parti-colare, di Gli italiani non sono più quelli: il passo in cui Pasolini ha inteso mostrare come l’opposizione ideologica tra fascisti e antifascisti sia ormai priva di un reale significato, chiedendosi ironicamente se Giancarlo Esposti61, “nel caso che in Italia fosse stato restaurato, a suon di bombe, il fascismo, sarebbe stato disposto ad accettare l’Italia della sua falsa e retorica nostalgia”, ovvero a rinunciare a tutte le “conquiste dello «sviluppo»”, le quali vanificano, soltanto attraverso la loro presenza, “ogni misticismo e ogni moralismo del fascismo tradizionale”62.

Moravia ribatte che, indipendentemente dall’omologazione culturale in atto, Esposti era a tutti gli effetti un fascista. E se pure, non lasciandosi corrompere da un’ipotetica mutazione antropologi-ca, avesse obbedito con più rigore all’ideologia cui si dichiarava fedele, non avrebbe mutato in al-cun modo, “neppure un poco”, il corso della storia. Anzi, in quel caso avrebbe contribuito a mante-nere lo status quo, dal momento che, come il passato dimostra, “fascismo e conservazione sono si-nonimi”63.

Eppure Pasolini non sta affatto, come in quei giorni molti ipotizzano e come Moravia sembra adombrare, ricercando nei fascisti degli alleati per attuare una sorta di reazione anticapitalista e an-ticonsumista. Per Pasolini, piuttosto – ed è lui stesso a chiarirlo, proprio a Moravia, in un’intervista concessa a «Il Mondo» l’11 luglio – è preoccupante pensare che il nuovo Potere ha del tutto stravol-to la grammatica ideologica preesistente, così che ormai le scelte politiche, “innestandosi in questo nuovo humus culturale”, hanno un significato totalmente diverso rispetto a quello che avevano fino a qualche anno prima. Di conseguenza, “sotto le scelte coscienti, c’è una scelta coatta, «ormai co-mune a tutti gli italiani»: la quale ultima non può che deformare le prime”64.

Ma smettila di dire che la storia non c’è più è il titolo del contributo alla tavola rotonda di Franco Fortini. Il quale, a più riprese e in molti suoi saggi, continuerà per tutta la sua carriera a so-stenere che, nel ruolo di osservatore e teorico politico, Pasolini abbia espresso il peggio di sé e che infatti “una delle operazioni di bonifica intellettuale e politica in Italia debba cominciare con la de-molizione rappresentata da Pasolini politico”65. Tuttavia, nella circostanza attuale, non si mostra affatto in totale disaccordo con le osservazioni del collega; ritiene anzi del tutto plausibile che la vittoria del fronte progressista al referendum possa in realtà costituire un’ingannevole concessione di quello che Pasolini addita come il “nuovo Potere”. “La tolleranza repressiva e «progressista» è solo una delle armi del capitalismo moderno”, argomenta Fortini, ribadendo che “ad una condizione socioeconomica di sviluppo […] può corrispondere benissimo la peggiore repressione sanfedista”66. La critica che però egli muove a Pasolini, anche alla luce dei loro pregressi attriti, verte sulla con-vinzione, espressa in Gli italiani non sono più quelli, secondo la quale nella nuova fase storica che si sta inaugurando sia necessario vedere una catastrofe.

Il “progressismo” mi dà noia; ma non ho nostalgie per la umile Italia. Sulle ceneri

gramsciane, già vent’anni fa si diceva che la nostra storia era finita. Credo invece finita la mia, non la nostra.

59 È nato un bimbo: c’è un fascista in più. 60 Ibidem. 61 Giovane militante di Ordine Nero rimasto ucciso durante uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine sull’altopiano di Rascino il 30 maggio 1975. 62Pasolini, Scritti corsari, p. 42. 63 È nato un bimbo: c’è un fascista in più. 64 Pasolini, Scritti corsari, pp. 57-58. 65 Fortini, Attraverso Pasolini, p. 205. 66 È nato un bimbo: c’è un fascista in più.

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Negli ultimi anni Sessanta e non solo in Italia si sono viste masse di studenti e di o-perai opporsi alla unificazione forzata e al controllo capitalistico. […] Oggi, insomma, dentro la crisi del capitale si riproducono simultaneamente tanto il mito del progresso borghese, con le sue battaglie arretrate e il suo formalismo imbroglione e la sua tolle-ranza repressiva quanto la spinta al suo superamento, politico e metapolitico, socialista e non.67 Laddove Pasolini constata un collasso, Fortini è convinto invece di vedere nient’altro che un

nuovo modo di declinare la dialettica politica, che è in perenne e costante mutazione per adeguarsi ai nuovi rapporti di forza dettati dal capitalismo. Si tratta quindi di due approcci per certi versi ana-loghi alla medesima realtà: semplicemente, Fortini sembra poter con più tranquillità fare i conti col nuovo, Pasolini no68. E lo spiega nella lunga intervista a «Il Mondo» dell’11 luglio.

Penso che il breve intervento di Fortini potrebbe essere da me utilizzato a mio favore

[…]. Solo che l’accanimento di Fortini a voler stare sempre sul punto più avanzato di ciò che si chiama storia – facendo ciò molto pesare sugli altri – mi dà un istintivo senso di noia e prevaricazione. Io smetterò di «dire che la storia non c’è più» quando Fortini la smetterà di parlare col dito alzato.69 L’unico partecipante alla tavola rotonda organizzata da «L’Espresso» che si dichiara sostan-

zialmente d’accordo con l’analisi di Pasolini è Leonardo Sciascia.

Entrerei in contraddizione con me stesso se dicessi di non essere d’accordo con l’articolo di Pasolini […]. Forse la mia visione delle cose […] è meno radicale della sua, nel senso che mi pare di non dover perdere di vista il fascismo come fenomeno di clas-se, di una classe; ma la paura più profonda è tanto vicina alla sua.70

Riferendosi, poi, a organizzazioni terroristiche di segno opposto rispetto a quelle ritenute re-

sponsabili della strage di Brescia, Sciascia offre un’ulteriore dimostrazione della validità della tesi di Pasolini.

L’azione delle “Brigate rosse” è stata intesa e spiegata in tanti modi, tranne che in

quello più ovvio: e cioè come il modo di preparare o di cominciare a fare una rivoluzio-ne. […].

È possibile parlare ancora di rivoluzione se il gesto rivoluzionario è temuto nell’ambito stesso delle forze che dovrebbero generarlo non solo per la risposta del ge-sto controrivoluzionario, che potrebbe facilmente e sproporzionatamente arrivare, ma anche perché in sé, intrinsecamente, rivoluzione? Non c’è dunque da pensare, e da ri-flettere?

E mi pare sia, appunto, quel che fa Pasolini. Può anche sbagliare, può anche contrad-dirsi: ma sa pensare con quella libertà che pochi oggi riescono ad avere e ad affermare.71

3.2 Il «nuovo Potere» e il «vero antifascismo»

67 Ibidem. 68 Sul concetto di “fine della storia” e sulle polemiche al riguardo trascinatesi per quasi due decenni tra Pasolini e Forti-ni, cfr. Fortini, Attraverso Pasolini (in particolare Introduzione, pp. XII-XIII), e Scotti, “Una polemica in versi”: Forti-ni, Pasolini e la crisi del ’56, passim. 69 Pasolini, Scritti corsari, p. 58. 70 È nato un bimbo: c’è un fascista in più. 71 Ibidem.

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“Tutto ciò che io ho detto «scandalosamente» sul vecchio e nuovo fascismo è […] quanto di più realmente antifascista si potesse dire”72. Così afferma Pier Paolo Pasolini in uno scritto inedito del novembre 1974, poi inserito negli Scritti corsari. E continua: “Questo ormai è divenuto chiaro a tutti”73.

A leggere le critiche che molti giornalisti muovono ai suoi articoli in quei mesi, però, non sembra affatto così chiaro. Tutt’altro. Lo dimostrano proprio le repliche a Gli italiani non sono più quelli, in cui il rifiuto di Pasolini a condannare esclusivamente una falange fascista per la strage di Brescia, nel tentativo di analizzare più a fondo i motivi che hanno spinto quei ragazzi ad un atto tan-to tremendo, appare a molti intellettuali come una sfacciata correità di Pasolini stesso col mondo dell’estrema destra. O, quantomeno, un’apertura pericolosamente indulgente verso quegli ambienti.

Lo ribadisce, nell’ambito della tavola rotonda de «L’Espresso», anche Elvio Fachinelli. Il quale, immaginando di trasporre su una pellicola cinematografica la vicenda dell’intellettuale Paso-lini, lo descrive come un ex militante di sinistra che ora “partecipa con indifferenza alla lotta antifa-scista, dice che non è questo il pericolo principale” e “parla di psicanalisi, di anti-psicanalisi, di gio-co, di magia”. Gli atteggiamenti di Pasolini vengono considerati non solo inadeguati alla lotta poli-tica contro il terrorismo nero, ma addirittura dannosi, in quanto capaci di corrompere anche le co-scienze più determinate nella battaglia per debellare il fascismo. E infatti il protagonista dell’ipotetica sceneggiatura di Fachinelli finisce con l’innamorarsi ciecamente dell’alter ego di Pa-solini, e così “la lotta fascismo-antifascismo non gli interessa più (eppure nel paese, e fin nella sua città, esplodono bombe fasciste)”. Gli spettatori del film, però, si accorgerebbero a questo punto che in realtà “i persecutori” fascisti “di ieri ricordano da vicino l’amato di oggi” e constaterebbero che “l’intensità di quel terrore è pari a questo amore”74.

Con il numero successivo de «L’Espresso», quello del 30 giugno, riprende il dibattito intorno all’esito del referendum. A intervenire nella discussione è ora Giorgio Bocca, il cui articolo si apre con una critica a Gli italiani non sono più quelli di Pasolini e al relativo commento di Sciascia, ri-cordando agli “amici letterati” un’osservazione di Quinet “sull’uso del sofisma come primo segno di una intelligenza che non ha più il coraggio della verità”. Bocca invita poi tutte le forze sociali e gli intellettuali progressisti a fare fronte comune contro la minaccia del fascismo, che è quanto mai concreta, invitando a lasciare “ai Giannettini […] e a tutti gli altri, che siano mitomani o prezzolati o canaglie, di strisciare tra il finto rosso e il vero nero, di rivoltarsi nel tritume ideologico della falsa rivoluzione e della sperata restaurazione”. Bisogna smetterla, in definitiva, con “le ambiguità sull’antifascismo che è fascismo e sulla sovversione nera o rosso-nera che sarebbe rivoluzione”75.

Non è questo l’unico intervento nel quale Giorgio Bocca critica l’atteggiamento controverso con cui Pasolini si rapporta con i giovani di estrema destra. Lo fa anche il 7 luglio, in un articolo pubblicato sulla prima pagina de «Il Giorno», dove racconta che Pasolini – il quale definirà questo scritto di Bocca un atto di linciaggio nei suoi confronti76 – è “andato in orbita” dopo esser stato ac-colto “a fischi e pernacchie” da un’assemblea studentesca nel 1968, e da allora “si è messo […] a insolentire” e “a scoprire l’acqua calda” dicendo che “gli studenti contestatori sono i nuovi squadri-sti, l’antifascismo è una minestra fredda, fascisti e antifascisti sono irriconoscibili”77.

Ora, ciò che rende le idee di Pasolini così inconciliabili con l’impegno antifascista di molti in-tellettuali progressisti, non è la scarsa propensione dello scrittore corsaro a condannare il terrorismo o a denunciare i tentativi di svolta autoritaria ripetutamente messi in atto nell’Italia degli anni ’60 e ’70. È piuttosto un diverso modo di intendere la lotta al fascismo, o meglio a quello che Pasolini definisce “il vero fascismo”78. Su questo punto, egli ha maturato delle proprie convinzioni ormai da moltissimi anni: è il settembre del 1962 quando Pasolini scrive su «Vie Nuove»:

72 Pasolini, Scritti corsari, p. 241. 73 Ibidem. 74 È nato un bimbo: c’è un fascista in più, «L’Espresso». 75 Bocca, A proposito di P.P. Pasolini. 76 Pasolini, Scritti corsari, pp. 74-75. 77 Bocca, L’acqua calda di Pasolini. 78 Pasolini, Scritti corsari, p. 45.

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Non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridi-

cole: occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codifica-zione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società.79

Questa frase spiega benissimo come Pasolini decida, da quel momento in avanti, di coniugare

il proprio antifascismo in una forma estrema e personale, perseguita con lucida costanza. Le incom-prensioni tra Pasolini e i vari Bocca, Calvino e Ferrara, derivano proprio da una diversa concezione di cosa sia, nell’Italia di allora, il fascismo da combattere. Per la maggior parte degli intellettuali di sinistra dell’epoca, esso è ancora un fascismo di tipo tradizionale, che ha l’aspetto minaccioso dei terroristi neri e quello più indecifrabile del Sid. Per Pasolini, invece, in queste che sono le sue forme più classiche – “le forme pazzesche e ridicole”, appunto – il fascismo è soltanto “un pietoso rude-re”, e i suoi principali esponenti “«sono paleofascisti e quindi non fascisti»”80. Piuttosto, il fascismo che Pasolini intende affrontare è incarnato ormai da quel nuovo Potere fintamente democratico e falsamente tollerante, che rappresenta il più totalitario e repressivo dei regimi della storia. Quella che Pasolini denuncia sul «Corriere della Sera» è “una forma «totale» di fascismo”, che “attraverso l’imposizione dell’edonismo e della joie de vivre” 81 si prefigge come fine “la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo”82, e tende quindi “alla identificazione di borghe-sia con umanità”83.

Quando però bisogna definire concretamente in cosa questo nuovo “Potere” consista, Pasolini non lo fa se non in modo molto vago, soprattutto fino alla metà del ’74. E questa sua parziale inca-pacità ispira molte ironiche critiche.

“Il demiurgo che ha presieduto alla vittoria del “no” e alla strage di Brescia è sempre lo stes-so: il Potere (con la P maiuscola) espressione egemonica incontrastata della società dei consumi”: è così che Maurizio Ferrara, su «L’Unità» del 12 giugno, riassume in maniera sarcastica il contenuto di Gli italiani non sono più quelli. “Credevamo di avere il diritto di non sentire più parlare del pote-re in termini metafisici – continua Ferrara – almeno tra persone di media preparazione politica”, e invece Pasolini “cerca rimedio alle proprie crisi involutive scaricando le difficoltà sulla esistenza imbattibile di un Potere-mostro, fuori dalle classi, il Moloch”. Ferrara ci tiene a rivendicare la pro-pria concretezza scientifica nell’analizzare gli eventi politici, e a denunciare qualunque tipo di irra-zionalismo: “ogni volta che ci troviamo di fronte all'evocazione di questo Potere con la P maiusco-la, sentiamo la presenza di una fuga intellettuale dalla ragione e dai suoi obblighi”84.

Pasolini risponde ammettendo le proprie difficoltà – “scrivo Potere con la P maiuscola […] solo perché sinceramente non so in cosa consista questo Potere e chi lo rappresenti. So semplice-mente che c’è”85 – e ammette che quello che sta cercando di fornire ai suoi lettori è “l’identikit di un volto ancora bianco”. In ogni caso, si sforza di far assumere a quella sua intuizione dei lineamen-ti sempre più riconoscibili, evidenziando innanzitutto come le istituzioni ritenute da tutti detentrici di potere siano in realtà state esautorate di molte delle loro prerogative. Il potere è altrove: “non lo riconosco più né nel Vaticano, né nei Potenti democristiani, né nelle Forze Armate. Non lo ricono-sco più neanche nella grande industria”86.

In qualche modo, è come se Pasolini riuscisse a comprendere la maniera in cui questo nuovo Potere eserciti la propria forza e quali finalità persegua, ma non sappia dire da chi esso sia detenuto. Quello che è certo, in ogni caso, è che per Pasolini quel Potere ha il suo centro direttivo al di fuori

79 Id., Fascisti: padri e figli, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, p. 1014. 80 Id., Scritti corsari, p. 64. 81 Ivi, p. 46. 82 Ivi, p. 50. 83 Ivi, p. 18. 84 Ferrara, I pasticci dell’esteta. 85 Pasolini, Scritti corsari, p. 46. 86 Ibidem.

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dell’Italia: il nostro Paese ne viene investito dall’ondata colonizzatrice, e non può fare altro che pie-garsi ai suoi interessi. Maurizio Ferrara, su «L’Unità» del 27 giugno, rimproverando di nuovo a Pa-solini il suo “misticismo fuori epoca”, ribadisce che il Potere che questi va cercando chissà dove “non è vero che non abbia un volto: si chiama DC, padronato ottuso, neofascismo incallito, «tradi-mento dei chierici», pregiudizio borghese e clericale”87. Per Pasolini quest’analisi, circoscritta alla realtà nazionale, non è soddisfacente: la rivoluzione antropologica che sta avvenendo in Italia pre-senta, è vero, delle peculiarità che rendono la nostra situazione incomparabile con quella del resto dei Paesi capitalisti88; tuttavia essa si inscrive in un disegno di sviluppo ben più vasto, che risponde a interessi internazionali, di tipo economico-finanziario prima che politico. È per questo che, a giu-dizio di Pasolini, “delle varie componenti che formano oggi in Italia il mosaico fascista hanno senso «unicamente» quelle che vengono manovrate dalla CIA e da altre forme del capitalismo internazio-nale, tutto volto alla conquista dei mercati”89. Ed è per questo che il nuovo Potere si rende indipen-dente dagli organi di potere più strettamente nazionali, aggirandoli o addirittura servendosene cini-camente.

In particolare, è proprio la DC ad esser stata spodestata, ad aver perso il proprio ruolo di guida per le masse. Ed è proprio alla DC che Pasolini decide di rivolgersi direttamente, a partire dal 1975. È il 1° febbraio, quando sulla prima pagina del «Corriere della Sera», appare Il vuoto di potere in Italia: si tratta del primo passo verso la proposta, che lo scrittore formulerà nell’agosto successivo, di istituire un vero e proprio processo penale ai danni dei maggiori esponenti dello scudo crociato. In questo articolo, tra i più noti dell’intera carriera giornalistica di Pasolini, è percepibile lo sforzo dell’autore di riprendere molti temi già affrontati in vari altri interventi sui quotidiani, ritagliandone alcuni passi o riproponendone singole affermazioni, e di ricucirli in maniera magistrale90. È così che il testo assume i connotati di un centone autoprodotto, e diventa un compendio di straordinaria in-tensità dell’intera silloge che lo contiene. È come se Pasolini volesse far ordine, riassumendo gli ultimi due anni della sua polemica giornalistica. Non solo: ricorrendo ad un’efficace immagine poe-tica, quella della scomparsa delle lucciole, Pasolini ottiene di esemplificare quella che è la sua parti-colare cronologia del secondo ‘Novecento italiano, una cronologia con scadenze e avvicendamenti che non coincidono con quelli della storiografia ufficiale. Secondo Pasolini, innanzitutto, non c’è alcun vero cambiamento, se non di tipo formale, nel 1945. La continuità che egli vede tra il regime

87 Ferrara, I connotati di un potere reale. 88 Pasolini, Scritti corsari, pp. 73-74: “Nessun paese ha posseduto come il nostro una tale quantità di culture «particolari e reali», una tale quantità di «piccole patrie», una tale quantità di mondi dialettali: nessun paese, dico, in cui si sia poi avuto un così travolgente «sviluppo». Negli altri grandi paesi c’erano già state in precedenza imponenti «acculturazio-ni»: a cui l’ultima e definitiva, quella del consumo, si sovrappone con una certa logica”. 89 Ivi, p. 64. 90 In particolare: cfr. “La continuità tra fascismo fascista … … era spudoratamente formale” in Pasolini, Scritti corsari, p. 129, con “Su ciò si è fondato lo Stato poliziesco … … ma hanno sempre la stessa politica del fascismo” in ivi, pp. 94-95; cfr. “Si fondava su una maggioranza assoluta … … erano il pragmatismo e il formalismo vaticani” in ivi, pp. 129-130, con “La Dc esprime (o ha espresso) … … cioè retorici e repressivi” e “Infatti, in quanto direttamente padrona-le … … è culturalmente una meschinità addirittura volgare” in ivi, pp. 94-96; cfr. “il grande paese che si stava forman-do … … massa operaia e contadina organizzata dal Pci” in ivi, p. 130, con “Il Partito comunista italiano è un paese puli-to … … una pese umanistico in un paese consumistico” in ivi, p. 91; cfr “A sostituirli sono i «valori» … … alla ulterio-re unificazione della rivoluzione borghese e industriale” in ivi, p. 131, con “Ebbene io ritengo di poter ragionevolmente sostenere … … non in senso così perfettamente geopolitico come in Italia” in ivi, pp. 73-74; cfr. “Ho visto dunque «coi miei sensi» … … il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza” in ivi, p. 131, con “Nessun centrali-smo fascista è riuscito … … l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata” e “Il fascismo, voglio ripeterlo … … m’ha lacerata, violata, bruttata per sempre” in ivi, pp. 22-25; cfr “I «modelli» fascisti non erano che ma-schere … … come se l’ultimo lo avesse celebrato l’anno prima” in ivi, p. 131, con “Infatti – guarda caso – il totalitari-smo … … come se l’ultima volta fosse stato ieri” p. 64; cfr “Essi si sono illusi che il loro regime … … eserciti nuovi in quanto transnazionali, quasi polizie tecnocratiche” in ivi, p. 133, con “Ma la loro protervia, la loro corruzione … … insomma tutti i vecchi «buoni sentimenti» in ivi, p. 95; cfr. “E lo stesso si dica per la famiglia … … in quanto violen-temente totalizzante” in ivi, p. 133, con “Tuttavia la Famiglia è tornata a diventare … … lo specimen minimo della ci-viltà consumistica di massa” in ivi, p. 36; cfr. “Di tale «potere reale» noi abbiamo immagini astratte … … lo hanno pre-so per una semplice «modernizzazione» di tecniche” in ivi, p. 134, con “Scrivo «Potere» con la P maiuscola … … e a una ideologia edonistica perfettamente autosufficiente” in ivi, pp. 45-46.

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democristiano e quello fascista è “completa e assoluta”, e si protrae all’incirca fino al termine degli anni ‘50. È lì che succede qualcosa di molto importante: s’interrompe un’intera fase storica, vecchia di secoli e secoli, e dopo un periodo di transizione che va fino alla metà dei ’60, si inaugura una nuova era, che è quella del consumismo, dell’industrializzazione esasperata e del neo-capitalismo. Ciò che ne sancisce la nascita, e che la rende unica, è l’affermazione di un processo di corruzione delle coscienze, di imposizione di modelli estranei alla cultura degli individui, di omologazione centralistica e totalitaria: è l’era, cioè, dell’avvento del nuovo “Potere” consumistico.

Ma se quest’ultimo è andato a riempire il “drammatico vuoto di potere” creatosi in Italia, non è soltanto per un’inevitabile congiunzione storica: una responsabilità enorme ricade sulla criminale ingenuità politica dei “gerarchi” democristiani, i quali hanno permesso che quel vuoto si generasse, non accorgendosi di essersi ridotti a “«teste di legno»” al servizio del nuovo regime transnazionale. E nonostante i “radiosi sorrisi” che “continuano a sfoderare” e gli “sproloqui incomprensibili” che “continuano imperterriti” a recitare, “in realtà essi sono appunto delle maschere”. E Pasolini si di-chiara certo “che, a sollevare quelle maschere, non si troverebbe nemmeno un mucchio d’ossa o di cenere: ci sarebbe il nulla, il vuoto”91.

Il giorno seguente, nella rubrica Tribuna aperta, pubblicata sulla prima pagina del «Corriere della Sera», appare la replica all’articolo delle lucciole. Lo scritto s’intitola Non è mai esistito un regime democristiano, e l’autore è Giulio Andreotti.

“Non ricordo con esattezza l’episodio – spiega Piero Ottone – ma mi sento di poter escludere che a sollecitare Andreotti fossimo stati noi. Fu senz’altro una sua iniziativa”.

Andreotti risponde alla denuncia di “lucciolicidio” di Pasolini proponendo una diversa rico-struzione della storia italiana a partire dal 1948, nel corso della quale egli enuncia gli enormi meriti della DC, che ha di fatto reso più moderno ed efficiente il Paese. “Il presunto regime sarebbe stato quindi artefice di una eccezionale trasformazione” che ha permesso all’Italia, tra l’altro, di presen-tarsi “al mondo con una consistenza economico-produttiva prima sconosciuta”. Quanto alle cause del “mal sottile degli anni ’60, dal quale sarebbe arduo dire che l’Italia sia guarita”, esse vanno ri-condotte alla sconfitta di De Gasperi nel 1953, a seguito della quale si generò un’instabilità gover-nativa connessa anche ad una crisi della DC. In ogni caso, di fronte all’accusa di chi considera quel-lo democristiano un regime, la risposta di Andreotti è “nettissima”, e ovviamente “negativa”: la DC ha del resto sempre ricercato il dialogo e la collaborazione con socialdemocratici, socialisti e libera-li, considerati tutt’altro che “portatori d’acqua”. Semmai, c’è da rilevare che “senza la DC nell’Italia di oggi maggioranze in Parlamento non si formano”, e non essendoci “alternative democratiche in vista”, un eventuale “cambio di forze al potere”, che pure sarebbe “naturale”, non è affatto pensabi-le92.

Il confronto tra Pier Paolo Pasolini e Giulio Andreotti si rinnova, sempre sulle colonne del «Corriere della Sera», il 18 febbraio, quando il quotidiano pubblica, appaiati in prima pagina, gli interventi dei due antagonisti. Gli insostituibili Nixon italiani, a firma dello scrittore bolognese, e Le lucciole e i potenti, dell’allora ministro del bilancio, compaiono nel medesimo riquadro con il titolo Processo alla DC, accusa e difesa93.

Rispetto alla scelta del Corriere di ricorrere ad un’impaginazione così efficace, mettendo fisi-camente a confronto i due articoli, la testimonianza di Piero Ottone non è purtroppo d’aiuto. “Sono passati tanti anni – scherza l’ex direttore del quotidiano milanese – mi si conceda almeno quest’alibi”. Quello che però appare evidente è che Andreotti, prima di scrivere la sua ulteriore ri-sposta alla controreplica di Pasolini, deve aver letto in anteprima l’articolo di quest’ultimo, dal mo-mento che il suo Le lucciole e i potenti contiene una confutazione metodica delle tesi sostenute in Gli insostituibili Nixon italiani. Che la redazione del «Corriere della Sera», ricevuto lo scritto di Pa-solini, lo abbia fatto pervenire ad Andreotti per dargli la possibilità di replicare sullo stesso numero del quotidiano? “Non lo escludo – afferma Ottone – ma non posso neppure confermarlo”. 91 Ivi, pp. 129-132. 92 Andreotti, Non è mai esistito un regime democristiano. 93 Si noti che sino a questa data Pasolini non ha ancora mai parlato, esplicitamente, di un “processo” ai danni dei politici democristiani.

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Pier Paolo Pasolini, nel suo intervento, insinua innanzitutto che Andreotti abbia voluto prodi-toriamente spostare il dibattito su argomenti diversi rispetto a quelli affrontati in Il vuoto del potere in Italia, riducendo l’intero scritto ad un resoconto sul malgoverno democristiano, e rispondendo così con “una finta difesa d’ufficio”. Ipotizzando comunque che la replica di Andreotti sia dovuta soltanto ad una sua errata comprensione del contenuto dell’articolo delle lucciole, Pasolini sostiene che “il lungo, prevedibile e diligente elenco dei meriti” della DC stilato da Andreotti, non consista in altro che in “un elenco delle Opere del Regime”. Ovvero di quelle opere che, in certi momenti storici, i regimi non possono esimersi dal realizzare. E prendendo in esame proprio una di quelle opere del regime, l’edilizia popolare, Pasolini sostiene che i tempi e le modalità con cui essa è av-venuta confermano l’esistenza delle “due «fasi delle lucciole»”94. Se negli anni Cinquanta, infatti, l’edificazione degli alloggi popolari è stata imposta “dalla più normale e tradizionale lotta di clas-se”, nei due decenni successivi, “a spingere la Democrazia cristiana alle opere” sono stati gli inte-ressi economici della grande industria. E in tutto ciò, la DC “non si è accorta di essere divenuta, quasi di colpo, nient’altro che uno strumento di potere formale sopravvissuto, attraverso cui un nuovo potere reale ha distrutto un paese”95.

Pasolini torna poi alla prima e “assai più divertente ipotesi”, secondo la quale Andreotti a-vrebbe volutamente fornito “una risposta che ha fuorviato e seppellito tutto”. Lo scrittore, riferen-dosi al passaggio di Non è mai esistito un regime democristiano relativo all’impossibilità di creare governi senza l’ausilio della DC, peculiarità che rende il caso italiano diverso da quello inglese e da quello americano, cerca di decifrare un’“oscura allusione alla sorte di Nixon” fatta da Andreotti, il significato della quale sarebbe però chiarissimo: “qui in Italia, miei cari, non si può fare come si è fatto in America con Nixon, cioè cacciare via chi si è reso responsabile di gravi violazioni al patto democratico: qui in Italia i potenti democristiani sono insostituibili”. Rimarcando questa allusione e sottolineando al contempo una altrettanto significativa dimenticanza da parte dell’interlocutore – “Andreotti ha omesso nel suo articolo di parlare della strategia della tensione e delle stragi” – Paso-lini arriva a formulare il suo giudizio definitivo sugli “uomini che decidono la politica italiana”. Es-si “non sanno nulla, o fingono di non saper nulla, di ciò che è radicalmente cambiato nel «potere» che essi servono”; in secondo luogo, essi “non sanno nulla, o fingono di non saper nulla, sull’unica «continuità» di tale potere, cioè sulla serie delle stragi”. Dunque, “fin che i potenti democristiani taceranno sul cambiamento traumatico del mondo avvenuto sotto i loro occhi”, e fin che essi “tace-ranno su ciò che, invece, in tale cambiamento costituisce la continuità cioè la criminalità di Stato, non solo un dialogo con loro è impossibile, ma è inammissibile il loro permanere alla guida del pae-se”96.

Giulio Andreotti risponde punto su punto. Distingue innanzitutto il consumismo dall’edonismo: se quest’ultimo è sempre “riprovevole”, sarebbe invece sbagliato “condannare in blocco la dilatazione intervenuta di alcuni effetti sensibili dello sviluppo industriale”. Per ciò che concerne la strategia della tensione, invece, Andreotti ricorda di averne sempre denunciato la gravi-tà, anche “quando molti fautori degli extraparlamentari chiudevano volentieri ambo gli occhi scu-sando come ragazzate i pestaggi o l’artigianato delle bombe molotov”. Egli, al contrario, quando ne ha avuto la possibilità, “anche a costo di esser momentaneamente incompreso”, ha sempre “agito senza esitazione e forse con qualche risultato” nel tentativo di “far luce su responsabilità ovunque collocate”, ben consapevole che “fino al giorno in cui rimarranno oscuri i mandanti e gli esecutori dei troppi atti di terrorismo che hanno funestato l’Italia, resta all’orizzonte una nube nerissima e as-sai preoccupante”. “In quanto a Nixon – continua il ministro democristiano – non vedo dove e quando lo abbia citato. Pasolini ha equivocato sul concetto di mutamento non traumatico dei partiti al potere che stabilmente avviene sia negli Stati Uniti che in Inghilterra”97. (E qui bisogna specifica-re che in effetti Andreotti, nel suo Non è mai esistito un regime democristiano, non ha mai accenna-

94 Pasolini tralascia, in questa sede, la fase intermedia tra il prima e il dopo la scomparsa delle lucciole. 95 Pasolini, Scritti corsari, pp. 135-138. 96 Ivi, pp. 138-140. 97 Andreotti, Le lucciole e i potenti.

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to direttamente al presidente degli Stati Uniti98). Piuttosto, se non si sono verificati avvicendamenti alla guida del nostro Paese, è perché per quasi trent’anni “gli elettori in maggioranza hanno ragiona-to e deciso diversamente dal modo di opinare pasoliniano”. “Dopo le lucciole – conclude Andreotti, rivolgendosi al suo avversario – si dovrebbero vedere spenti anche i dirigenti dc. Non è un po’ trop-po per un auspicio ricostruttivo?”99.

L’interrogativo sarcastico con cui si conclude l’articolo di Andreotti introduce in una questio-ne a lungo dibattuta, e cioè se quella del Pasolini corsaro e luterano vada considerata come una cri-tica limitata alla sola pars destruens. Gli intellettuali, soprattutto quelli marxisti, che con Pasolini polemizzano nel periodo ’73-’75, appaiono tutti concordi – pur se con motivazioni diverse – sul fat-to che egli rinunci a formulare una concreta proposta progressista, e si limiti a una condanna irrevo-cabile nei confronti del presente. In realtà non è così. E lo si comprende soprattutto leggendo quella che è la prosecuzione, e il momento costruttivo, del discorso intrapreso negli Scritti corsari, e cioè le Lettere luterane.

Innanzitutto, va notato come il Pasolini che emerge negli Scritti corsari è un intellettuale che, in maniera orgogliosa, e spesso contro ogni evidenza, rifiuta programmaticamente qualunque tipo di autorevolezza. Lo si può constatare in Nuove prospettive storiche: la Chiesa è inutile al Potere, in cui Pasolini, replicando ad un articolo de «L’Osservatore Romano», afferma: “Io non ho alle spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla mai volu-ta”100, ribadendo convinzioni espresse già su «Vie Nuove»101 nel 1964 e su «Tempo»102 nel 1968.

Ora, invece, nel pieno 1975, Pasolini rinuncia a questa sua prerogativa. Ciò è evidente nella prima sezione delle Lettere luterane, nella quale Pasolini assume proprio quel tono un po’ cattedra-tico e un po’ paternalistico che ha sempre ostinatamente detto di voler rifuggire. Lo fa rivolgendosi a Gennariello, l’immaginario adolescente napoletano col quale l’autore instaura un rapporto paideu-tico: rapporto che sembra inteso come preludio a quella “conoscenza di classe”103 che Pasolini ritie-ne indispensabile per un intellettuale che voglia avvicinare il proprio stato antropologico a quello di un giovane proletario. In ogni caso, anche nella seconda sezione delle Lettere luterane Pasolini non rifiuta più alcuna autorevolezza, soprattutto quando si rivolge ai giovani, “imbecilli” e “criminaloi-di”, che diventano, in molti casi, i suoi interlocutori privilegiati.

Questo sensibile cambio di atteggiamento è il sintomo di una consapevolezza che non è affat-to nuova nello scrittore, ma che negli ultimi mesi della sua vita matura in modo particolare. Si tratta della consapevolezza dell’urgenza di creare, o meglio di riscoprire, un patrimonio di valori da poter proporre alle giovani generazioni. E in questo è evidente il suo desiderio di ricostruire, non soltanto di abbattere.

L’articolo più emblematico di questa sua volontà è forse quello pubblicato dal «Corriere della Sera» il 18 luglio, Pannella e il dissenso, nel quale lo scrittore si rivolge al leader radicale per trova-re un alleato in questo suo progetto pedagogico. Il contesto in cui questo intervento si inserisce è quello di una situazione politica nazionale in profondo fermento, dopo la vittoria del PCI alle recen-ti elezioni amministrative. Nonostante questa felice affermazione dei comunisti, lo scenario italiano resta però quello di un Paese a strapiombo su una degradazione antropologica terribile, il cui uni-

98 Il passaggio incriminato è il seguente: “Se vi fossero alternative democratiche in vista, sarebbe naturale un cambio di forze al potere. Quando avviene in Inghilterra o negli Stati Uniti, non è mai traumatico per il partito battuto, che comin-cia la strada della riconquista attraverso l’opposizione efficace e una revisione interna adeguata. Ma senza la DC nell’Italia di oggi maggioranze in parlamento non si formano”. 99 Andreotti, Le lucciole e i potenti. 100 Pasolini, Scritti corsari, p. 82. 101 Id., Dopo un anno, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, pp. 1024-1025: “Non voglio avere autorità, sappiatelo. Se ce l’avrò, l’avrò di volta in volta, per l’eventuale forza dei miei argomenti di quel dato momento, di quella data cir-costanza: e soprattutto per la sincerità. […]”. 102 Id., Il perché di questa rubrica, ivi, p. 1095: “Ebbene, ecco: io mi rifiuto, intanto, di comportarmi da persona pubbli-ca. Se una qualche autorità ho ottenuto […] sono qui per rimetterla del tutto in discussione […]. […] l’autorità, infatti, è sempre terrore […]”. 103 Id., Scritti corsari, p. 209.

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verso morale è stato ridotto a un cumulo di “«macerie di valori»”104dal nuovo Potere consumistico, che ha avuto bisogno di creare un vero e proprio vuoto culturale per poter poi riempirlo dei suoi nuovi valori, e così espandersi. “La distruttività”, scrive Pasolini, è “la caratteristica più intransigen-te della «prima vera grande rivoluzione di destra»”105, che egli identifica con la rivoluzione del neo-capitalismo transnazionale. Questa traumatica disintegrazione dei fondamenti culturali genera un pericolosissimo senso di sbandamento, un “trauma” che, come in altre sedi Pasolini ha specificato, “ha forse un solo precedente: la Germania prima di Hitler”106.

A soffrire in maniera più profonda gli effetti di questa omologazione sono le masse giovanili, costituite in gran parte da potenziali criminali, i quali si fanno vanto della loro violenza e della loro volgarità in quanto per loro “vale la figura o «modello» del «disobbediente»”107, imposta anch’essa dal consumismo. Figura che però è ormai completamente svuotata di qualunque significato real-mente rivoluzionario: anzi, in quanto specimen del perfetto consumatore, il “disobbediente” è oggi il più fedele sostenitore del “Potere”. Se “una decina d’anni fa”, spiega Pasolini a Pannella, “la pa-rola «obbedienza» indicava ancora quell’orrendo sentimento che essa era stata in secoli di controri-forma, di clericalismo, di moralismo piccolo-borghese, di fascismo”, e “la parola «disobbedienza» indicava ancora quel meraviglioso sentimento che spingeva a ribellarsi a tutto questo”, oggi, dal punto di vista semantico, “le parole hanno rovesciato il loro senso scambiandoselo”108. Il vero di-sobbediente, in realtà, è l’“«obbediente»”, cioè colui il quale “crede nei valori che il nuovo capitali-smo vuole distruggere”109.

Da qui nasce l’invito a Pannella ad aggiornare il proprio linguaggio: “non devi più chiamare la tua «disobbedienza», ma «obbedienza», o meglio, se vuoi, «nuova obbedienza» e di tale «nuova obbedienza» offrirti come modello”110. Non è, però, un’esortazione che Pasolini intende rivolgere soltanto al leader del PRI. È piuttosto una sorta di chiamata alle armi, un invito ad un nuovo impe-gno che riguarda anche e soprattutto la classe dirigente del PCI, in cui è riposta l’attesa non solo “pratica ed economica”, ma anche “antropologica”, di tutti i milioni di elettori che ne hanno deter-minato la vittoria alle urne. E poi, ovviamente, ci sono gli intellettuali. Pasolini vorrebbe ricompat-tare, insomma, un fronte realmente progressista, che si assuma il compito di offrire un’alternativa esistenziale a milioni di giovani, i quali, privati d’ogni fondamento ideologico e morale, non posso-no far altro che accettare “da una parte i valori della «cultura del consumo»” e “dall’altra i valori di un progressismo verbalistico”111; oppure – questo Pasolini lo scriverà la settimana successiva sul Corriere – di fronte a questa “perdita non risarcita dei valori”, si rifugiano in scelte tragiche, come la droga, che sono in realtà surrogati della cultura112.

La chiusura dell’articolo indirizzato a Pannella è in realtà un appello denso di speranza. Forse utopico o forse disperato. Sicuramente sincero.

[…] è chiaro che ciò che, oggi, conta individuare e vivere è una «obbedienza a leggi

migliori» – simile a quella che, dopo piazzale Loreto, è nata dalla Resistenza – e la con-seguente volontà di «ricostruzione». Fondare la possibilità di una simile «obbedienza» e di una simile «volontà di ricostruzione» è il vero nuovo grande ruolo storico del Pci. Ma anche tuo; anche dei radicali; anche di ogni singolo intellettuale, di ogni uomo solo e mite.113

104 Id., Pannella e il dissenso, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, p. 610. 105 Ivi, p. 607. 106 Id., Scritti corsari, p. 131. 107 Id., Lettere luterane, p. 81. 108 Ivi, pp. 80-81. 109 Ibidem. 110 Ivi, p. 82. 111 Ivi, p. 81. 112 Ivi, p. 86. 113 Ivi, p. 83-84.

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Queste righe richiamano alla mente altre parole, che dalle colonne di «Paese Sera», l’8 luglio 1974, Pasolini indirizzava a Italo Calvino. Quest’ultimo, in un’intervista rilasciata a «Il Messagge-ro» il 18 giugno, aveva criticato l’analisi del collega in merito alla rivoluzione antropologica italia-na, e si era augurato di non aver mai nulla a che fare coi giovani fascisti di oggi: “non li conosco e spero di non aver occasione di conoscerli”114. A questa affermazione, ripetendo quasi alla lettera una tesi esposta in un articolo pubblicato pochi giorni prima sul «Corriere della Sera»115, Pasolini aveva replicato così:

[…] augurarsi di non incontrare mai dei giovani fascisti è una bestemmia, perché, al

contrario, noi dovremmo far di tutto per individuarli e per incontrarli. Essi non sono i fatali predestinati rappresentanti del Male: non sono nati per essere fascisti. Nessuno – quando sono diventati adolescenti e sono stati in grado di scegliere, secondo chissà quali ragioni e necessità – ha posto loro razzisticamente il marchio di fascisti. È un’atroce forma di disperazione e di nevrosi che spinge un giovane a una simile scelta; e forse sa-rebbe bastata una sola piccola diversa esperienza nella sua vita, un solo semplice incon-tro, perché il suo destino fosse diverso.116 Se in molti casi l’incoerenza è un difetto innegabile di Pier Paolo Pasolini, per quanto concer-

ne il suo impegno antifascista gli va riconosciuta una ferrea e intransigente fermezza: leggendo i suoi scritti giornalistici dal 1960 – anno in cui, su «Vie Nuove»117, auspicava una riforma scolastica e una riscrittura dei manuali di storia improntate su concezioni antifasciste – fino alla fine della sua vita, si percepisce come il compito che egli si prefigge, in quanto intellettuale marxista, sia quello di dissodare le coscienze “bruttate” degli individui, in particolar modo dei giovani. Se il nuovo Potere è il vero fascismo, Pasolini tenta allora di combatterlo sottraendo ai suoi tentacoli possibili discepo-li, recuperandoli ad una vita diversa rispetto a quella imposta dal regime. L’obiettivo ultimo di Pier Paolo Pasolini diventa non più soltanto quello di evitare che i ragazzi cadano nel baratro dell’omologazione, ma di fornire loro un modello culturale, sociologico ed esistenziale diverso. Qualcosa, di profondamente antifascista, in cui si possa credere, e a cui si possa obbedire.

3.3 «Estetismo» e «linguaggio della presenza fisica» “Il mio estetismo è inscindibile dalla mia cultura”118, ammette Pasolini nell’aprile del 1975. E

proprio attorno al suo estetismo – di volta in volta definito “nostalgico”, “d’annunziano”, “malapar-tiano”, “reazionario” – gravita una lunga polemica nel corso della collaborazione dello scrittore con il «Corriere della Sera». Ciò accade perché molti suoi interlocutori non accettano che sulla base di quel suo estetismo, rispondente a canoni del tutto personali, Pasolini formuli dei giudizi sull’attualità politica che hanno pretesa di oggettività.

Ma è davvero da un mero estetismo individuale che scaturiscono le analisi pasoliniane? Ancora una volta è Gli italiani non sono più quelli, sia in virtù dei suoi contenuti sia in virtù

dei lunghi dibattiti che esso genera, a prestarsi come testo emblematico dell’intera attività di artico-lista di Pasolini al Corriere. “Si può parlare casualmente per ore con un giovane fascista dinamitar-do – spiega Pasolini in quell’articolo – e non accorgersi che è un fascista. Mentre solo fino a dieci anni fa bastava non dico una parola, ma uno sguardo, per distinguerlo e riconoscerlo”119. La confu-sione politica che Pasolini riscontra viene fatta da lui risalire alla perdita di riferimenti e di distintivi culturali concreti, legati all’atteggiamento, al vestiario, al modo di comportarsi: a quello, cioè, che

114 Guarini, Quelli che dicono «no». 115 Pasolini, Scritti corsari, p. 49. 116 Ivi, p. 55. 117 Id., risposta n. 40, 8 ottobre 1960, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, pp. 907-908. 118 Id., Impotenza contro il linguaggio pedagogico delle cose, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, p. 573. 119 Id., Scritti corsari, pp. 42-43.

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nel primo articolo scritto per il «Corriere della Sera», Contro i capelli lunghi, Pasolini ha definito il “linguaggio della presenza fisica”120.

Una decina d’anni fa, pensavo, tra noi della generazione precedente, un provocatore

era quasi inconcepibile […]: infatti la sua sottocultura si sarebbe distinta, anche fisica-mente, dalla nostra cultura. […] Ora questo non è più possibile. Nessuno mai al mondo potrebbe distinguere dalla presenza fisica un rivoluzionario da un provocatore. Destra e Sinistra si sono fisicamente fuse.121 Se metto in relazione questi due articoli – uno del 10 giugno 1974 e l’altro del 7 gennaio 1973

– non è soltanto per rimarcare quello che è un innegabile dato di fatto, e cioè che l’ultima fase della carriera giornalistica pasoliniana è caratterizzata dall’insistenza morbosa su poche ricorrenti temati-che. Piuttosto, quello che intendo mostrare, è come in entrambi i casi le reazioni di quasi tutti gli intellettuali siano le medesime: i discorsi di Pasolini, sul modo in cui i giovani si atteggiano, non sono altro che “scritti nostalgici” frutto di un’analisi estetica, e pertanto inutili ai fini del dibattito politico.

In risposta a Contro i capelli lunghi interviene su «Paese Sera» dell’11 gennaio ’73 Adolfo Chiesa, il quale ritiene l’analisi di Pasolini un “discorso futile”, una delle sue “uscite infelici” nella quale, in modo “quantomeno forzato”, si cerca di “mischiare la politica alla lunghezza dei capelli, la destra e la sinistra alle sfumature e alle cotonature”122. Sulla Tribuna aperta del «Corriere della Se-ra» del 21 gennaio è invece Giuseppe Prezzolini a contestare a Pasolini le sue fatue osservazioni da esteta, che “vuol salire sulle montagne, ma prima di arrivare alla cima scivola sopra una buccia di mandarino, e fa un ruzzolone”: e così si riduce ad informare i suoi lettori “di essersi disamorato dei capelloni perché son diventati di destra”123.

A distanza di un anno e mezzo, quando Pasolini, proprio attraverso l’analisi del “linguaggio della presenza fisica” dei giovani, intende mostrare l’evanescenza delle loro convinzioni politiche, Maurizio Ferrara manifesta il suo sdegnato dissenso:

[…] quando, e con pretesa di analisi e indicazione, […] nel giudizio si fa spazio do-

minante alla circostanza che i giovani, fascisti e antifascisti, vestano egualmente e ab-biamo identici «dati somatici», il discorso si fa difficile, quasi impossibile. Parlare il linguaggio delle idee è d'obbligo: parlare il linguaggio delle «facce» è pasticcio, sedi-mento lombrosiano vagamente razziale.124

Ferrara, dunque, è categorico nel negare legittimità ad un’analisi di carattere semiologico che

Pasolini è solito riproporre ormai da anni. E che per lo scrittore è inscindibile dall’analisi politica, come ribadisce, rispondendo proprio a Ferrara, sulle colonne del «Corriere della Sera» il 24 giugno.

Ci sono certi pazzi che guardano le facce della gente e il suo comportamento. Ma

non perché epigoni del positivismo lombrosiano (come rozzamente insinua Ferrara), ma perché conoscono la semiologia. Sanno che la cultura produce dei codici; che i codici producono il comportamento; che il comportamento è un linguaggio; e che in un mo-mento storico in cui il linguaggio verbale è tutto convenzionale e sterilizzato (tecniciz-zato) il linguaggio del comportamento (fisico e mimico) assume una decisiva importan-za.125

120 Ivi, p. 6. 121 Ivi, p. 9. 122 Chiesa, Pasolini e i capelloni, «Paese Sera». 123 Prezzolini, Prezzolini risponde a Pasolini sui capelloni. 124 Ferrara, I pasticci dell’esteta, «L’Unità». 125 Pasolini, Scritti corsari, p. 47.

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Queste precisazioni non valgono ad evitare che Ferrara rinnovi a Pasolini, su «L’Unità» del 27 giugno, l’accusa di credere in un “rozzo positivismo lombrosiano” e di “vivere esteticamente la vicenda politica, aiutandosi con un po’ di semiologia”126. A quel punto arriva secca l’ulteriore repli-ca di Pasolini, nel corso dell’intervista a «Il Mondo» dell’11 luglio.

Sono le lacune culturali di Ferrara – che evidentemente non legge più un libro dai

tempi di Lombroso e di Carolina Invernizio – che gli fanno sembrare esperienze esteti-che tutte le esperienze che le sue lacune culturali e umane gli impediscono di fare.127 Pasolini ritiene quella offerta dal “linguaggio della presenza fisica” non semplicemente una

delle tante chiavi di lettura possibili in quegli anni, ma, proprio per la particolare congiuntura stori-ca in atto, un’analisi efficacissima. Lo chiarisce a più riprese, sia nelle vesti di critico cinematogra-fico128, sia in quelle di articolista. Come quando, nella già citata Lettera aperta a Italo Calvino, par-lando del modello che viene imposto agli Italiani dal nuovo Potere, scrive:

La conformazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto e nell’esistenziale: e

quindi nel corpo e nel comportamento. È qui che si vivono i valori, non ancora espressi, della nuova cultura della civiltà dei consumi, cioè del nuovo e del più repressivo totali-tarismo che si sia mai visto.129 Cosa emerge, in conclusione, da queste polemiche? A mio avviso un fatto evidente, e cioè che

l’analisi somatica e semiologica che Pasolini compie, in particolare sui giovani, non è soltanto il frutto del suo estetismo. L’omologazione, e dunque lo svilimento, del “linguaggio della presenza fisica”, è per Pasolini la materializzazione dell’ormai avvenuto sgretolamento delle ideologie, e la riprova della permanenza di un’opposizione tra destra e sinistra soltanto come sopravvivenza di una vecchia abitudine. Studiando, nelle sue evoluzioni e nelle sue corruzioni, il comportamento delle generazioni che si affacciano in quegli anni alla partecipazione politica, Pasolini cerca di decifrare la loro coscienza, e di intervenire per correggerne le storture. Individuare i soggetti maggiormente esposti al rischio di una deriva consumistica e criminale è un compito preliminare a quello che, co-me ho già mostrato, lo scrittore si prefigge di perseguire: recuperare ad un’umanità più integra i giovani in preda ad una crisi culturale.

Padre Zosima […] ha subito saputo distinguere, tra tutti quelli che si erano ammassa-

ti nella sua cella, Dmitrj Karamazov, il parricida. Allora si è alzato dalla sua seggioletta ed è andato a prosternarsi davanti a lui. E l’ha fatto […] perché Dmitrj era destinato a fare la cosa più orribile e a sopportare il più disumano dolore.

Pensate […] a quei ragazzi che sono andati a mettere le bombe nella piazza di Bre-scia. Non c’era da alzarsi e da andare a prosternarsi davanti a loro? Ma erano giovani con capelli lunghi, oppure con baffetti tipo primo Novecento, avevano in testa bende oppure scopolette calate sugli occhi, erano pallidi e presuntuosi, il loro problema era ve-stirsi alla moda tutti allo stesso modo, avere Porsche o Ferrari, oppure motociclette da guidare come piccoli idioti arcangeli con dietro le ragazze ornamentali, sì, ma moderne, e a favore del divorzio, della liberazione della donna, e in generale dello sviluppo … Erano insomma giovani come tutti gli altri: niente li distingueva in alcun modo. Anche se avessimo voluto non avremmo potuto andare a prosternarci davanti a loro.130

126 Ferrara, I connotati di un potere reale. 127 Pasolini, Scritti corsari, p. 63. 128 Id., Tetis, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, pp. 260-261. 129 Id., Scritti corsari, pp. 53-54. 130 Ivi, pp. 49-50.

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3.4 «Quello che rimpiango» Il 23 dicembre 1973, meno di un mese dopo il varo delle politiche di austerità da parte del go-

verno Rumor, «L’Unità» organizza una tavola rotonda alla quale partecipano Giorgio Napolitano, Luciano Lama, Paolo Rossi e Giorgio Ruffolo, per discutere di “sviluppo economico” e “modelli di vita”. Da parte di Ruffolo giungono critiche aspre contro “possibili interpretazioni regressive che si tende ad avallare quando si parla di un nuovo modo di sviluppo”: interpretazioni “mistico-reazionarie, che ad ogni crisi dell'umanità ripropongono lo spauracchio di un'apocalisse”. Sulle stes-se posizioni si colloca Rossi, che dapprima condanna tutti quegli “ingredienti della rivolta neoro-mantica contro la scienza” che stanno “riemergendo nella cultura italiana anche in quest'occasione di crisi”, e poi ribadisce la propria contrarietà a tutta “una serie di prediche sul ritorno alla natura incontaminata, sull'opportunità di un ridimensionamento radicale della tecnologia”131.

Nessuno lo nomina, ma è chiaro che uno dei principali destinatari di quelle critiche è Pier Paolo Pasolini. Il quale, sentendosi evidentemente chiamato in causa, invia a «Paese Sera» cinque poesie132, il cui tema è il rimpianto per la povera, ma dignitosa, condizione dell’Italia rurale, ormai distrutta dagli abomini dello sviluppo. Il 5 gennaio del 1974 il quotidiano pubblica, dopo alcuni in-dugi e qualche iniziale riluttanza, i cinque componimenti, accompagnati da una lunga nota redazio-nale anonima – in realtà scritta da Gianni Rodari – che sottolinea la validità artistica di quei testi in quanto, appunto, poesie, ma la sostanziale insostenibilità delle tesi politiche che vi sono contenu-te133. La stroncatura più radicale a quei testi arriva il 13 gennaio da Valerio Riva, che sulle colonne de «L’Espresso» prima li definisce “fregnacce di un poeta”, e poi liquida l’intera ideologia pasoli-niana come una serie di “farneticazioni di un’Arcadia che non è mai esistita sul serio”134.

Sulla stessa rivista, pochi mesi dopo, è Lucio Coletti, nel corso della già citata tavola rotonda organizzata da «L’Espresso» il 23 giugno, a muovere accuse analoghe a Pasolini, affermando che quest’ultimo “ha solo nostalgia dell’Italia rustica e paesana”, cioè di “un mito letterario che non serve a niente”. È un rimpianto di una “bella epoque” che non è “mai esistita”135.

Che è poi quello che a Pasolini rinfaccia Italo Calvino, in un’intervista concessa a «Il Mes-saggero» il 18 giugno 1974, nell’ambito del dibattito sulla vittoria del “no” al referendum e sulla presunta mutazione antropologica degli Italiani.

Non condivido il rimpianto di Pasolini per la sua Italietta contadina quale abbiamo

avuto modo di conoscerla a fondo nella nostra giovinezza e che ha continuato a soprav-vivere per buona parte degli anni cinquanta. Questa critica del presente che si volta in-dietro non porta a niente […]. Quei valori dell’Italietta contadina e paleocapitalistica comportavano aspetti detestabili per noi che la vivevamo in condizioni in qualche modo privilegiate; figuriamoci cos’erano per milioni di persone che erano contadini davvero e ne portavano tutto il peso. È strano dire queste cose in polemica con Pasolini, che le sa benissimo, ma lui […] ha finito per idealizzare un’immagine della nostra società che, se possiamo rallegrarci di qualche cosa, è di aver contribuito poco o tanto a farla scompari-re.136

131 Sviluppo economico e modelli di vita. 132 Si tratta di: “Significato del rimpianto”, Poesia popolare”, “Appunto per una poesia in lappone”, La recessione”, “Appunto per una poesia in terrone”. Ora in Pier Paolo Pasolini, La nuova gioventù, Torino, Einaudi 2002. 133 Viene da chiedersi se non abbia in realtà ragione Alfonso Berardinelli, quando afferma, a proposito della poesia di Pasolini, che è del tutto impossibile valutarla “da un punto di vista puramente formale”, giacché di un autore che dichia-ra “di volersi liberare dello stile a vantaggio del messaggio e del contenuto” risulterebbe quantomeno inopportuno giu-dicare i versi a prescindere dalle convinzioni ideologiche che essi esprimono. Cfr. Berardinelli, Tra il libro e la vita, p. 58. 134 Riva, Com’era verde la mia borgata. 135 È nato un bimbo: c’è un fascista in più. 136 Guarini, Quelli che dicono «no».

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E la mitizzazione pasoliniana delle masse proletarie dell’Italia rurale è il bersaglio delle criti-che anche di Maurizio Ferrara, su «L’Unità» del 12 giugno 1974:

Forse Pasolini, queste masse le amava di più come erano trent'anni fa, quando in una

loro intatta purezza (tutta da dimostrare) contavano indubbiamente meno della metà di quanto contano oggi, per inquinate dai «caroselli» che siano?137

Tutto quanto Pasolini scrive sulla mutazione antropologica degli Italiani costituisce, a giudi-

zio di Ferrara, “un anelito che richiama le voglie della migliore intellettualità reazionaria fissata in un rimpianto oscuro per l'età dell'oro perduta”, e nelle sue analisi si riscontra “una carica evidente di estetismo insoddisfatto, di un manicheismo intellettualistico”, che non tiene conto del fatto che “qualsiasi età dell'oro – se mai ne è esistita una – è improponibile. E che, quindi, l'epoca migliore per fare politica non era quella, sognata, dei conti che tornavano sempre ma, piuttosto, quella in cui è dato vivere e nella quale, sfumati gli schemi delle mitologie […] la cosa fondamentale è vivere e lottare con gli occhi aperti”. Cosa, però, che Pasolini non può fare, dal momento che “non si vive ad occhi aperti guardandosi indietro”: ciò costituisce “un gesto allarmante, di totale deprezzamento della dimensione politica, a vantaggio di una sorta di stato di necessità della disperazione esistenzia-le”. Vaneggiamenti, insomma, quelli di Pasolini, dovuti al “tormento per l’usura della ragione” tipi-co di chi “assiste, e anche partecipa, allo scontro politico e sociale pretendendone effetti non politici ma estetici” e addirittura “guarda alla lotta politica e di classe con occhio mitologico”138.

Sia le critiche di Ferrara, sia quelle di Calvino, sono più che comprensibili: nel momento in cui la maggioranza del popolo italiano ha dimostrato di credere in ideali laici e non più bigotti, guardare al passato con un senso di vaga nostalgia è un atteggiamento che appare non degno di un intellettuale che si prefigga di contribuire al progresso sociale. Non è un caso che entrambi ricorra-no all’immagine di un uomo con la testa rivolta indietro per descrivere il modo in cui lo scrittore corsaro analizza quanto accade intorno a lui.139

La replica di Pier Paolo Pasolini a queste critiche arriva l’8 luglio, nella lettera aperta indirizzata proprio a Italo Calvino. “L’«Italietta» – ribatte innanzitutto Pasolini – è piccolo-borghese, fascista, democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico for-male e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo?”. Quello che Pasolini dice di rimpiangere è piut-tosto “l’universo contadino”, “pre-nazionale e pre-industriale”, che è “un universo transnazionale” il quale “addirittura non riconosce le nazioni” in quanto “avanzo di una civiltà precedente”. Quanto poi ad un’altra accusa che gli è stata rivolta, secondo la quale la sua nostalgia per l’Italia perduta gli annebbierebbe la lucidità nell’analizzare l’Italia presente, Pasolini chiarisce che quel suo rimpianto non gli impedisce affatto di esercitare la sua critica “sul mondo attuale così com’è”. È, al contrario, proprio perché egli sceglie di vivere “solo stoicamente” nella società attuale, che riesce a riscontrare quella che è la caratteristica discriminante della nuova epoca rispetto a qualunque altra epoca passa-ta: e cioè una “ansiosa volontà di uniformarsi” che non opera più soltanto, come è sempre stato, all’interno dei confini delle classi sociali e nel rispetto dei particolarismi culturali, ma che agisce “secondo un codice interclassista”140. L’Italia che Pasolini rimpiange è dunque quella in cui nessu-no si sentiva costretto ad abiurare la propria cultura per ottenere di vedersi accettato nell’unica clas-se sociale che il Potere dei consumi è disposto ad ammettere: la borghesia. L’Italia, cioè, “della gen-te povera e vera che si batteva per abbattere” il padrone “senza diventare quel padrone”141.

137 Ferrara, I pasticci dell’esteta, «L’Unità». 138 Ibidem. 139 Pasolini, a sua volta, rivolgerà la stessa accusa ai suoi colleghi, “la bella truppa di intellettuali” tutti simili a “quelle marionette che fanno tanto ridere i bambini perché hanno il corpo voltato da una parte e la testa dalla parte opposta”. Sono parole riferite da Pasolini il 1° novembre 1975 a Furio Colombo, in un’intervista ora in PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, p. 1727. 140 Pasolini, Scritti corsari, pp. 51-55. 141 Dalla stessa intervista a Colombo, in Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, p. 1727.

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Se, tuttavia, questo suo rimpianto diventa oggetto di pesanti accuse – di revisionismo, di apo-logia del fascismo, di reazionarismo – lo si deve anche al modo in cui Pasolini descrive l’Italia di cui dichiara di aver nostalgia. Egli non rinuncia, infatti, a proporne immagini vaghe e poetiche, vo-lutamente mitizzate; oppure si rifà ad esperienze e ricordi del tutto personali per arrivare a dimostra-re la superiorità di quel mondo ormai perduto. Il tutto, tra l’altro, unito ad una innegabile voluttà nel portare le proprie argomentazioni fino ad esiti estremi per poter provocare lo scandalo di interlocu-tori e rivali. Come accade il 9 dicembre 1973, sulle colonne del «Corriere della Sera»:

Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civil-

tà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limi-tava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli im-posti dal Centro, è totale e incondizionata […]. Si può dunque affermare che la “tolle-ranza” della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana.142 È evidente come Pasolini, nel condannare la dilagante omologazione non dei costumi esterio-

ri, ma delle coscienze fin nella loro più profonda intimità, arriva a sminuire le atrocità vissute, nel corso del ventennio fascista, dalle masse del popolo italiano, che vengono di nuovo viste sotto una luce eccessivamente idilliaca.

Tutto ciò offre a Edoardo Sanguineti la possibilità di ironizzare, su «Paese Sera» del 27 di-cembre, in maniera feroce sulle convinzioni di Pasolini.

Com’era verde, però, la nostra valle! E com’erano carini i sottoproletari di una volta!

Io me li ricordo benissimo, pittoreschi e straccioni, che con la selezione naturale veni-vano su come tante querce. […] Ah, i nostri ragazzi di Vita, che bella Vita violenta che si facevano.143 Il sarcasmo di Sanguineti investe anche l’ipotesi pasolinana secondo cui i giovani proletari,

fino a qualche anno prima, “erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso del mistero della realtà”, mentre ora, vergognandosi della propria ignoranza, “hanno cominciato a di-sprezzare anche la cultura”144.

Brutti tempi, quando i sottoproletari si infilano la cattiva strada che li può portare, un

giorno o l’altro, non so, a leggere Vico, a leggere Gramsci. Perduta la splendida «roz-zezza» di un tempo, si sono messi anche a fare gli «studenti», i maleducati […].

Insomma, per me, a dirla schietta, mi andava benissimo il Fascismo. Era centralista anche quello, va bene, ma almeno non funzionava, e gli «antichi modelli» prosperavano come non mai […].145 In maniera piuttosto aspra Sanguineti declassa il discorso di Pasolini a semplice “nostalgia del

fascismo” e a rimpianto dell’“analfabeta felice”. Egli si insinua nelle crepe che l’estremismo retori-co di Pasolini lascia aperte nel suo articolo del Corriere, rendendolo, in alcuni punti e a prima vista, troppo radicale e sentenzioso per essere condiviso. E allargando quelle crepe, Sanguineti mostra l’apparente fragilità dell’intera ideologia dell’avversario.

142 Pasolini, Scritti corsari, p. 22. 143 Sanguineti, La bisaccia del mendicante. 144 Pasolini, Scritti corsari, p. 24. 145 Sanguineti, La bisaccia del mendicante.

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Ma da dove nasce questo senso di nostalgia di Pasolini nei confronti dell’Italia arcaica? E so-prattutto: perché Pasolini arriva a rimpiangerla, secondo quanto sostengono i suoi avversari, fino al punto di ridimensionarne ingiustizie e storture, esponendosi così a facili critiche?

Premesso che l’amore di cui Pasolini ama le masse proletarie è in gran parte sinceramente i-stintivo, dunque non razionalmente spiegabile, credo che a determinare questo sentimento di straor-dinaria vicinanza contribuiscano anche motivi più concreti.

Innanzitutto, Pier Paolo Pasolini, nella disperata tensione a ritagliarsi uno spazio importante nel panorama intellettuale degli anni ‘50, si scopre un analista acuto di quelle masse, in parte per la sua non comune capacità di osservazione, in parte per la sua morbosa curiosità antropologica che lo spinge a frequentare ambienti solitamente rifuggiti da scrittori e registi. Nel corso di pochi anni – quelli che vanno dalla pubblicazione di Ragazzi di vita (1955) alla produzione di Accattone (1961) – Pasolini diventa una sorta di autorità in materia di “analisi del sottoproletariato”. Un’autorità di-scussa e spesso criticata, ma indubbiamente un’autorità. Non è da escludere, dunque, che il narcisi-smo che affligge Pasolini lo porti a riversare su quelle classi sociali un amore che è anche il riverbe-ro di un autocompiacimento: si affeziona a certe tipologie umane in virtù del fatto che esse costitui-scono il soggetto delle sue opere artistiche, grazie alle quali è divenuto famoso, sia in Italia sia all’estero.

In secondo luogo, come un’intera “micro-sezione” della prima parte delle Lettere luterane146 sta a testimoniare, Pasolini è riconoscente al sottoproletariato rurale per avergli rivelato l’esistenza di “altri mondi”, oltre a quello che lui, nei primi anni della sua vita, riteneva fosse l’unico mondo esistente, “così cosmicamente assoluto”: il mondo piccolo-borghese147. Ed è proprio questa consa-pevolezza, che Pasolini è convinto d’aver maturato con maggiore precocità e radicalità rispetto ad altri intellettuali, che gli ha permesso di distaccarsi dalla schiera di quelli che lui definisce “i teppisti del conformismo”, ovvero quegli scrittori che “oppongono al vero scandalo della ricerca libera e critica, il falso scandalo di una cultura stabilita”, ponendo, più o meno volontariamente, “l’universo conformista cui essi appartengono per nascita” come l’unico universo esistente148. Non ritengo per-ciò condivisibile l’affermazione espressa su «L’Unità» del 6 marzo 1995 da Sanguineti, secondo cui “Pasolini è scrittore antiborghese perché in lui c’è una volontà di martirio che lo porta a voler espia-re una colpa assoluta e a trasformare in rito negativo la propria colpevolezza di borghese”149. Paso-lini, infatti, quel senso di colpa non lo avverte affatto: la sua appartenenza alla borghesia è vissuta in maniera tutto sommato pacifica, poiché il suo orgoglio di intellettuale che sa “rompere le barriere” di classe e sospingersi nel mondo sottoproletario inibisce in lui qualunque istinto al martirio. E di-fatti Pasolini benedice più volte il suo “amore tradizionale e non ortodosso per il popolo” che gli ha permesso di vivere “fuori dall’inferno cui per nascita, censo e cultura” era “destinato”150.

Quest’amore di Pasolini per l’Italia “prima della scomparsa delle lucciole” non deve però in-gannare: quella era la stessa Italia che presentava, anche agli occhi dello scrittore bolognese, delle storture assolutamente tragiche. Tant’è che quando Calvino gli rimprovera di rimpiangere l’Italietta, Pasolini afferma: “per quel che mi riguarda personalmente, questa Italietta è stata un paese di gen-darmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni”151, esprimendo un disagio nei confronti di quella società che è tangibile, e che emerge chiaramente, tra l’altro, dai dialoghi che Pasolini intrattiene nel 1960 con i lettori di «Vie Nuove».

Se dunque, a distanza di qualche anno, quell’Italia risplende nelle memorie dell’articolista del «Corriere della Sera» come una società così idillica, il motivo che fa assumere all’“universo «popo-lare»” descritto da Pasolini “caratteri più arcaici del vero”152, non può essere un banale rimpianto figlio della nostalgia. Le ragioni sono più complesse.

146 Consistente negli articoli pubblicati su «Il Mondo» tra il 10 aprile e il 1° maggio 1975. 147 Cfr. Pasolini, Lettere luterane, pp. 35-36. 148 Cfr. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, pp. 263-264. 149 Golino, Tra lucciole e Palazzo, p. 53. 150 Pasolini, Liberty in borghese, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, p. 1242. 151 Id., Scritti corsari, p. 51. 152 Fortini, Attraverso Pasolini, p. 35.

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Di fronte all’avvento del neocapitalismo e di tutte le mutazioni, antropologiche e socio-economiche, che esso comporta, Pasolini si sente inorridito. Forse perché riesce ad arguire con par-ticolare perspicacia le conseguenze peggiori a cui l’affermarsi di quel nuovo Potere condurrà, egli è irremovibile nel condannarne ogni aspetto. Nel far questo non accetta alcun invito alla moderazio-ne, neppure laddove dei distinguo apparirebbero doverosi. Pasolini è consapevole di questo suo e-stremismo – se confessa a Calvino: “naturalmente queste mia «visione» della nuova realtà culturale italiana è radicale: riguarda il fenomeno come fenomeno globale, non le sue eccezioni, le sue resi-stenze, le sue sopravvivenze”153 – ma non se ne cura. Il suo rifiuto così totale per la “nuova epoca” deve esprimersi in maniera altrettanto drastica e definitiva. È per questo che Pasolini traccia un’immaginaria linea di demarcazione, ben netta: da un lato sta l’Italia arcaica e rurale, dall’altro l’Italia assoggettata alle logiche del neocapitalismo. E tanto più quella attuale deve apparire mo-struosa agli occhi dei lettori, per poter essere compresa in tutto il suo orrore, tanto più quella prece-dente deve assurgere a modello. La mitizzazione dell’Italia arcaica e contadina è dunque funzionale a rendere più efficace la critica alla società contemporanea. Di fronte a quest’esigenza, Pasolini si sforza di ignorare tutte le deformità del passato: di volta in volta le sottovaluta, le declassa a sempli-ci segni del tempo, le dilava fino a farle scolorire. E spesso arriva anche a nobilitarle e a contrappor-le agli obbrobri, quelli sempre estremizzati, del presente; noncurante, anzi forse desideroso, delle eventuali critiche che quelle sue affermazioni così radicali si attirano.

Come quando, recensendo il libro di Sandro Penna, Un po’ di febbre, esordisce con un’affermazione volutamente provocatoria: “Che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo! La vita era come la si era conosciuta da bambini, e per venti trent’anni non è più cambiata”. E da lì ha inizio un panegirico, dai tratti bozzettistici e surreali al contempo, sull’aspetto “profondo e bello” delle città e degli uomini di una volta, che non rifiuta neppure di lo-dare l’emarginazione e la subalternità cui erano relegate le donne e la “qualità meravigliosa” dei ladri di allora, i quali “non erano mai volgari”. Naturalmente, quando si arriva al confronto con la situazione attuale, tutto diventa “laido e pervaso da un mostruoso senso di colpa” 154.

L’ambiguità è evidente, ma va contestualizzata all’interno di quella che credo si possa defini-re la “poetica dell’urgenza” che è del Pasolini corsaro e luterano, e che si manifesta in una prosa dogmatica e sentenziosa, unita ad una foga retorica travolgente. Urgenza che non consiste, tuttavia, nel voler bloccare la storia, portare indietro le lancette del tempo e ripartire da un punto stabilito, come talvolta, leggendo gli Scritti corsari e le Lettere luterane, si è indotti a pensare. Nel Pasolini che scrive sulle colonne del «Corriere della Sera» c’è un’urgenza più autentica che non quella di condannare e distruggere, e cioè quella di spiegare agli Italiani la trasformazione cui essi stanno an-dando incontro, affinché la vivano, visto che ormai la vivono sulla propria pelle, “consapevolmen-te” e non, come invece accade, “esistenzialmente”.

Tutto ciò appare più che mai evidente negli articoli in cui Pasolini denuncia la necessità di portare alla sbarra del tribunale i “gerarchi Dc”. Quella che lui ricerca, attraverso l’istituzione di un processo penale ai loro danni, non è soltanto una legittima richiesta di giustizia per gli abominevoli errori commessi dal regime democristiano negli ultimi vent’anni; Pasolini vuole piuttosto rendere consapevoli i cittadini italiani che ormai il vero potere non è più detenuto dal “nulla ideologico ma-fioso”155 che è la DC, ed è per questo che i suoi dirigenti possono sfilare ammanettati in un’aula di tribunale.

Cosa verrebbe rivelato alla coscienza dei cittadini da tale Processo […]? Verrebbe rivelato […] qualcosa di essenziale per la loro esistenza, cioè questo: i po-

tenti democristiani che ci hanno governato negli ultimi dieci anni non hanno capito che si era storicamente esaurita la forma del potere che essi avevano servilmente servito nei vent’anni precedenti […] e che la nuova forma di potere non sapeva più (e non sa più) che farsene di loro.

153 Pasolini, Scritti corsari, p. 54. 154 Ivi, p. 143. 155 Id., Lettere luterane, p. 78.

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Questa «millenaristica» verità è dunque essenziale per capire […] che è finita l’epoca, appunto millenaria, di un «certo» potere ed è cominciata l’epoca di un certo «altro» potere.156 L’urgenza ultima di Pasolini è, in definitiva, quella di convincere le parti migliori e per certi

versi ancora sane dell’Italia – molti suoi colleghi intellettuali, una parte dei “giovani iscritti, ma proprio iscritti, al Pci”, il PCI medesimo, non a caso definito “un paese pulito in un paese sporco”, una parte del mondo cattolico, con cui il rapporto è però molto più problematico – ad opporsi alla deriva capitalistica e a proporre un nuovo modello sociale, che abbia come obiettivo il “progresso” e non lo “sviluppo”, come punti di riferimento valori “umanistici” e non “consumistici”, come dot-trine politiche fondanti quelle “marxiste” e non quelle “neocapitaliste”. Chi accusa Pasolini di desi-derare una restaurazione, chi riscontra nel suo pensiero una “nostalgia di un passato anche tinto di nero”157, dimentica che mai si potrebbe considerare Pasolini come un reazionario, proprio perché è lui stesso il primo a sapere che non c’è nulla da restaurare: c’è semmai da andare a ricercare, tra le macerie di un passato ormai distrutto dalla storia, quei valori che possono offrirsi come una valida base d’appoggio per costruire una nuova società. Pasolini sapeva, come ha evidenziato Fortini, che la realtà da lui tante volte rimpianta “non era mai esistita”, e che essa piuttosto “era ‘davanti’, da conquistare, non da recuperare”158.

3.5 «Il potere ha bisogno del mio pensiero autonomo» Per Pier Paolo Pasolini, la critica dei valori affermati dal potere vigente è un atto irrinunciabi-

le: non soltanto per un’esigenza personale, ma soprattutto per un preciso impegno civico che, a suo avviso, un intellettuale non può esimersi dall’assumere. Il “no prestabilito” è per lui un atto d’amore nei confronti della società, oltre che “un esercizio del dovere / politico come esercizio di ragio-ne”159, tanto più in una fase in cui i mutamenti in atto dei rapporti di forza tra DC e PCI sembrano preludere a nuovi equilibri politici.

Io vi prospetto – in un momento di giusta euforia delle sinistre – quello che per me è

il maggiore e peggiore pericolo che attende specialmente noi intellettuali nel prossimo futuro. Una nuova trahison des clercs: una nuova accettazione; una nuova adesione; un nuovo cedimento al fatto compiuto; un nuovo regime sia pure ancora soltanto come nuova cultura e nuova qualità della vita.160

Sono le parole che Pasolini avrebbe dovuto pronunciare, il 4 novembre 1975, al Congresso

del Partito Radicale. E significativamente quell’intervento, la cui versione scritta verrà inserita nelle Lettere luterane, si sarebbe concluso con un appello ai militanti del PRI a “continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificar[si] col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare”161.

Esortazioni e previsioni, queste, nelle quali si rintracciano anche i motivi che negli ultimi anni di vita spingono lo scrittore corsaro ad un rapporto così conflittuale e problematico non solo col nuovo Potere, ma anche con molti degli intellettuali marxisti. Pasolini, infatti, nel momento in cui realizza che il neocapitalismo ha letteralmente “gettato a mare” i vecchi valori clerico-fascisti, che egli e molti suoi colleghi hanno contestato negli anni ’50, e ha invece fatto propri, almeno apparen-temente, i valori del laicismo e della tolleranza in quanto funzionali alle logiche del consumo, deci-

156 Ivi., pp. 115-116. 157 Casalegno, Chi è peggiore?. 158 Fortini, Attraverso Pasolini, p. 145. 159 Siciliano, Vita di Pasolini, p. 321. 160 Pasolini, Lettere luterane, p. 194. 161 Ivi, p. 195.

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de di spingersi ancora oltre nella critica. Il suo obiettivo diventa allora quello di rendere palese l’inganno perpetrato dai nuovi detentori del potere. E nel tentativo di riuscire in questo proposito, non si tira indietro dal condannare anche chi continua, ingenuamente, a salutare certe pur lodevoli conquiste sociali soltanto come reali vittorie del progressismo. È proprio quello che Pasolini rivela a Calvino, in un passaggio di un articolo comparso sul «Corriere della Sera» il 1° marzo 1975, Non aver paura di avere un cuore, che vale la pena di riportare in maniera estesa.

Quando eravamo adolescenti c'era il fascismo: poi la prima Democrazia cristiana,

che era la continuazione letterale del fascismo. Dunque era giusto che noi reagissimo come abbiamo reagito. Dunque era giusto che noi ricorressimo alla ragione per sconsa-crare tutta la merda che i clerico-fascisti avevano consacrato. Dunque era giusto essere laici, illuministi, progressisti a qualunque patto.

Ora Calvino […] mi rimprovera un certo sentimentalismo "irrazionalistico" e una certa tendenza, altrettanto "irrazionalistica", a sentire una ingiustificata sacralità nella vita. Ma non è questo che qui importa. Il problema è ben più vasto, e comporta tutto un modo di concepire il proprio modo di essere intellettuali: consiste prima di tutto nel do-vere di rimettere sempre in discussione la propria funzione, specialmente là dove essa pare più indiscutibile: cioè i presupposti di illuminismo, di laicità, di razionalismo. […]

Il potere non è più infatti clerico-fascista, non è più repressivo. Non possiamo più u-sare contro di esso gli argomenti – a cui ci eravamo tanto abituati e quasi affezionati – che tanto abbiamo adoperato contro il potere clerico-fascista, contro il potere repressivo.

Il nuovo potere consumistico e permissivo si è valso proprio delle nostre conquiste di laici, di illuministi, di razionalisti, per costruire la propria impalcatura di falso laicismo, di falso illuminismo, di falsa razionalità. Si è valso delle nostre sconsacrazioni per libe-rarsi di un passato che, con tutte le sue atroci e idiote consacrazioni, non gli serviva più.162

E sulla inutilità, anzi sulla sua effettiva utilità al potere, del “vecchio illuminismo” che “conti-

nuano a macinare” gli “intellettuali progressisti”, Pasolini parla in quegli stessi giorni (13 marzo) anche in una puntata del trattatello pedagogico pubblicato su «Il Mondo». In quella sede Pasolini ribadisce il suo auspicio “a tutte le sconsacrazioni possibili, alla mancanza di ogni rispetto per ogni sentimento istituito”, ma nel contempo afferma la necessità di “non temere la sacralità e i sentimen-ti, di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in brutti e stupidi automi a-doratori di feticci”163. Pasolini lamenterà fino agli ultimi giorni della sua vita la “sopravvivenza di una retorica progressista che non ha più nulla a che fare con la realtà”, ribadendo la necessità di ca-pire che “bisogna essere progressisti in un altro modo”164.

È evidente che Pier Paolo Pasolini, per rispondere alle sue convinzioni, si pone deliberata-mente in una posizione ambigua, o quantomeno facilmente travisabile. Egli è progressista, ma a dif-ferenza dei “vecchi progressisti” esplica il suo progressismo attraverso una riproposizione di valori antichi, apparentemente superati. E di questa sorta di contraddizione insanabile è lui il primo ad es-sere consapevole, come spiega a Gennariello: “Un uomo di cultura […] non può essere che estre-mamente anticipato o estremamente ritardato (o magari tutte e due le cose insieme, com’è il mio caso)”165.

Si tratta, in fondo, di una estrema riproposizione in veste prosaica e giornalistica di quanto Pa-solini ha già scritto in poesia. Mi riferisco, ad esempio, ai versi che il regista bolognese, dodici anni prima, ha fatto pronunciare a Orson Welles ne La ricotta, nei quali si definiva “una forza del passa-to”, un “feto adulto” che però si aggira “più moderno di ogni moderno / a cercare fratelli che non sono più”. 162 Pasolini, Scritti corsari, pp. 125-126. 163 Id., Lettere luterane, p. 22. 164 Ivi, p. 168. 165 Ivi, p. 40.

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4. Come Pasolini riesce a sfruttare le polemiche Ho definito quella di Pasolini collaboratore del «Corriere della Sera» come la “poetica

dell’urgenza”. Le principali caratteristiche di questa poetica – veemenza, radicalità, tendenza alla reiterazione – emergono soprattutto dal dialogo con gli altri intellettuali. Negli ultimi tre anni della sua vita Pasolini modifica sensibilmente il modo di intendere il suo rapporto con scrittori, giornalisti ed esponenti politici, assumendosi ora tutto il peso della polemica e del dibattito, spesso aspri, che i suoi scritti provocano.

Se è vero che il gusto della provocazione e la voluttà nell’affrontare in maniera stravagante temi delicati sono attributi peculiari di tutta la carriera di Pasolini – viene da dire: della sua indole – è altrettanto vero che, per tutti gli anni ’50 e ‘60, quegli attributi si manifestavano attraverso opere artistiche di cui un’ampia parte di pubblico a stento comprendeva implicazioni e valenze sociali e politiche. Si trattava di incursioni folgoranti e spesso scandalose, ma destinate in molti casi a risul-tare scarsamente incisive nel dibattito quotidiano, a causa del loro sperimentalismo e della loro e-stemporaneità. Inoltre, tutte le opere di Pasolini, in quanto espressioni artistiche, erano di fatto pro-tette da quella che Franco Fortini ha definito “immunità dalla confutazione”: nel momento in cui ricevevano critiche o contestazioni, esse si rifugiavano infatti “nell’extraterritorialità lirica”166. Fino agli inizi degli anni ’70 l’artista Pasolini, “se era messo alle strette per i suoi giudizi e gli atteggia-menti pratici e intellettuali tendeva a volgere il discorso in sofisma, in dialettica d’apparato, a invo-care l’irresponsabilità del nume poetico”167.

Il Pasolini articolista del «Corriere della Sera», invece, rinuncia a quell’immunità e si getta nello scontro, accoglie con intima soddisfazione le critiche e non si risparmia mai di replicarvi, an-che a costo di ripetersi. La poetica dell’urgenza, dunque, si concretizza in un furioso e inesausto slancio invettivo che travolge pressoché tutti gli interlocutori. Uno slancio che, col passare del tem-po, impedisce letteralmente allo scrittore di tacere le sue convinzioni, e che concorre, insieme al suo incontrollato egocentrismo, a renderlo odiosamente insopportabile agli occhi di molti intellettuali. Già nel 1971 Franco Fortini polemizza, sulle pagine di «Quaderni piacentini», proprio sul fatto che “molte cose Pasolini sa fare. Non la più importante per lui: che sarebbe di stare un po’ zitto”168. E se quest’accusa è, appunto, del 1971, negli anni successivi l’ansia di partecipazione alla discussione politica e intellettuale si farà ancora più compulsiva in Pasolini, senza che questo venga da lui av-vertito come un’anomalia. Tanto che, in una replica a Calvino pubblicata su «Il Mondo» del 30 ot-tobre 1975, egli sembra rispondere a distanza all’accusa di Fortini di quattro anni prima, ammetten-do di non “essere stato in grado” di starsene zitto, ma ribadendo, come “stupendamente” insegna “uno storico cinese”, che “«bisogna aver molto parlato per poter tacere»”169. Semmai, Pasolini arri-va a considerare anomala l’indolenza con la quale tanti suoi colleghi decidono di rispondere ad al-cune sue provocazioni.

Va notato, ancora una volta, che le lamentele a proposito della sua condizione di isolato sono una costante nella carriera di Pier Paolo Pasolini. Già nel 1969, sulle colonne di «Tempo», egli si lamentava di essere “completamente solo”, arrivando a sostenere: “la mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza”170. È però impressionante l’intensità con cui Pasolini, proprio negli ultimi mesi della sua vita, si sente e si descrive come un intellettuale la-sciato ad urlare da solo, a confrontarsi soltanto con la propria eco. È vero che spesso questi lamenti appaiono piuttosto patetici; ed è altrettanto vero che nel presentarsi come un polemista condannato dai colleghi alla solitudine, Pasolini ricorre ad una sorta di “effetto teatrale”, come scrive di nuovo Fortini, un “effetto di monologo tragicomico” che è paradossale se si tiene conto di un profonda 166 Fortini, Attraverso Pasolini, pp. 153-154. 167 Ivi, p. XII. 168 Ivi, p. 44. 169 Pasolini, Lettere luterane, p. 180. 170 Id., La mia provocatoria indipendenza, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, p. 1173.

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contraddizione: “una voce clamante nel deserto non può usare un microfono”171. Tuttavia, è un dato di fatto che molti intellettuali rifiutano il confronto diretto con Pasolini, soprattutto in virtù dell’innegabile prepotenza con la quale lo scrittore tende a stabilire i confini del dibattito. Polemiz-zare con Pasolini, in quei mesi, significa “scendere su un livello” che finisce inevitabilmente col fare “il suo gioco”; piuttosto, “con Pasolini l’unica è fare come se non esistesse”172. È quanto scrive Italo Calvino in una lettera a Giorgio Manganelli, nel gennaio 1975.

Che sia per pretattica o per rifiuto di abbassarsi al suo livello, è comunque innegabile che a molti degli articoli di Pasolini – soprattutto quelli in cui vengono formulate le accuse alla DC e le analisi sulle masse criminaloidi dei giovani italiani, tra il marzo e l’ottobre del ’75 – quasi nessuno risponda se non in maniera vaga, pretestuosa o fugace. Nessuno, né politico né intellettuale – fatte salve poche eccezioni – accetta di accompagnare Pasolini in quella sua furente, e spesso scomposta, ricerca di idee per una riforma radicale della società, al fine di renderle concrete e attuabili. Di que-sta scarsità di repliche, Pasolini a volte si fa un vanto, considerandola come una palese mancanza di argomentazioni da opporre alle sue denunce che si risolve in un “silenzio sepolcrale”; altre volte, invece, rinfaccia con astio ai suoi interlocutori questo loro silenzio.

L’immagine dei potenti democristiani ammanettati tra i carabinieri è un’immagine su

cui riflettere seriamente. Ma devo farlo solo io, in mezzo a un bosco di querce? Questa volta non mi va di es-

sere ignorato, snobbato, lasciato solo al mio monologo […]. Farò dunque un appello nominale, sia pur limitato e un po’ fazioso.173

E così arriva a convocare, ad un ipotetico tavolo di discussione, uno per uno, Leo Valiani e Claudio Petruccioli; Giorgio Bocca e Alberto Moravia; Giuseppe Branca e Livio Zanetti, che Pasolini ini-zialmente confonde con Vittore Branca e Italo Zanetti, salvo poi correggersi, il giorno seguente, con una breve lettera chiarificatrice al Corriere. (Anche la furia è una caratteristica della poetica dell’urgenza, la furia che fa “tremare le mani”174). Tra questi, solo Valiani risponderà. E a tutti gli altri, con l’aggiunta di Italo Calvino, Pasolini imputerà la colpa di restare colpevolmente in silenzio: un “silenzio che è cattolico”, egli scrive, alludendo ad un loro mutismo all’ombra del potere, pro-prio nella Lettera luterana a Italo Calvino pubblicata su «Il Mondo» il 30 ottobre. Calvino non avrà modo di replicare al suo interlocutore vivo: risponderà il 4 novembre, nell’Ultima lettera a Pier Pa-olo Pasolini, sulla prima pagina dal «Corriere della Sera».

Non era vero che io non avessi detto la mia: solo che io la facevo entrare in altri di-

scorsi senza nominarlo mai: lui capiva benissimo che lo facevo per non dare soddisfa-zione al suo personalismo, ma invece di ripagarmi con la stessa moneta, mi prendeva di petto, come era nel suo temperamento.175 La verità, però, è che Pasolini non sarebbe mai stato capace di “ripagare” i suoi interlocutori

reticenti “con la stessa moneta”. Glielo impediva, sicuramente, la sua ansia di dimostrare la superio-rità delle proprie convinzioni; ma soprattutto un altro fattore, a cui occorre prestare particolare at-tenzione. Durante la sua collaborazione al Corriere, Pasolini sviluppa una capacità per certi versi nuova, o quantomeno la rende estremamente efficace: quella di sfruttare le critiche e gli attacchi degli avversari. È come se nel corso delle varie polemiche che si trascinano, spesso anche per setti-mane, Pasolini riuscisse via via a formulare meglio il suo ragionamento, a corredarlo di corollari e chiose tutt’altro che accessorie, a stemperarlo nei suoi paradossi, col risultato di ridimensionare

171 Fortini, Attraverso Pasolini, p. 199. 172 Cfr. Andrea Cortellessa, Misero e impotente Socrate. Sul Pasolini “corsaro e luterano”, «Zibaldoni e altre meravi-glie». 173 Pasolini, Lettere luterane, p. 122. 174 Ivi, p. 123. 175 Calvino, Ultima lettera a Pier Paolo Pasolini.

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spesso alcune sue proposte che in prima istanza risultavano eccessive. Fortini ha parlato, a ragion veduta, di una particolare “resilienza di Pasolini alle critiche”176; io credo che quella di Pasolini possa essere addirittura pensata come una capacità, subdola e geniale, di speculare sulle critiche.

Il processo si ripete più volte: il primo articolo che Pasolini scrive su un tema che ritiene im-portante è puntualmente quello più scandaloso e radicale, e ottiene di calamitare l’attenzione e le critiche degli altri intellettuali. Quando questi hanno attaccato le sue tesi nelle parti più estreme, al-lora Pasolini risponde indignato: quasi sempre dice di non essere stato compreso, talvolta denuncia una vera e propria malafede nei suoi interlocutori. Ma questo gli serve per proporre una versione meno provocatoria e più ragionevole delle sue argomentazioni. Il risultato finale è che Pasolini rie-sce, anche se non sempre in maniera efficace, a garantire un enorme impatto mediatico alle sue pro-poste, che lui ritiene essere le uniche davvero eretiche nella folla di prudenti e conformistiche af-fermazioni da parte degli esponenti di un progressismo di facciata.

E non è un caso se ancora oggi di Pasolini in molti ricordano l’accusa al PCI di “aver perso” il referendum sul divorzio o la proposta di “abolire” la scuola dell’obbligo e la televisione. Questo succede perché nella memoria comune resta impressa l’affermazione apparentemente più assurda, la provocazione più corrosiva. Ma in realtà Pasolini, in molti casi, quelle affermazioni e quelle provo-cazioni ha finito col ricalibrarle in maniera sostanziale.

Tanto per rimanere sugli esempi appena citati, il 10 giugno 1974 Pasolini afferma che “la vit-toria del «no» è in realtà una sconfitta non solo di Fanfani e del Vaticano, ma, in certo senso, anche di Berlinguer e del Partito comunista”177. Il 26 luglio, in un articolo pubblicato sul «Corriere della Sera» col titolo Abrogare Pasolini – ma significativamente antologizzato negli Scritti corsari come In che senso parlare di una sconfitta del Pci al referendum – Pasolini risponde alle accuse di Mau-rizio Ferrara, che ha contestato le sue affermazioni circa l’ipotetica disfatta del PCI.

Ora, anche un bambino avrebbe capito la «relatività» di tale affermazione: e che

mentre la parola «sconfitta», riferita alla Dc e al Vaticano, suona nel pieno significato letterale e oggettivo, la stessa parola riferita al Pci, ha un significato infinitamente più sottile e composito.178

Passano poche settimane, e durante un dibattito alla Festa dell’Unità di Milano, quindi una sede più defilata, Pasolini ridimensiona ancora il suo giudizio e ammette che quella al PCI è stata piuttosto una critica volta a spronare militanti e dirigenti a farsi interpreti di un cambiamento profondo e non formale.

Per questo mi è accaduto di dire – in maniera troppo violenta ed esagitata, forse – che

nel «no» vi è una doppia anima: da una parte un progresso reale e cosciente, in cui i comunisti e la sinistra hanno avuto un grande ruolo; dall’altra un progresso falso […]. Ecco perché […] io posso giungere anche a una previsione di tipo apocalittico, ed è questa: se dovesse prevalere, nella massa dei «no», la parte che vi ha avuto il potere, sa-rebbe la fine della nostra società. Non accadrà, perché appunto in Italia c’è un forte Par-tito comunista […].179 La stessa procedura si ripropone più di un anno dopo. Sul «Corriere della Sera» del 18 ottobre

1975 Pasolini formula due proposte “per eliminare la criminalità in Italia”: “abolire immediatamen-te la scuola media d’obbligo” e “abolire immediatamente la televisione”. Non solo: “quanto agli insegnanti e agli impiegati della televisione”, essi “semplicemente possono essere messi sotto cassa

176 Fortini, Attraverso Pasolini, p. 216. 177 Pasolini, Scritti corsari, p 39. 178 Ivi, p. 71. 179 Ivi, p. 230.

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integrazione”180. Quattro giorni dopo, sempre sul Corriere, Moravia critica le proposte di Pasolini, che il 29 ottobre chiarisce, ancora sul quotidiano di via Solferino:

[…] va detto che le mie «due modeste proposte» di abolizione intendevano chiara-

mente riferirsi a una abolizione provvisoria. […] In altre parole chiamavo in causa il Pci, le migliori forze di sinistra ecc., il cui interesse per una radicale riforma della scuola e della televisione non dovrebbe essere messo in dubbio […]181.

E alla fine conclude: “infatti la mia proposta di «abolizione» – ancora una volta – non è che la meta-fora di una radicale riforma”182.

Questo modo di intendere la comunicazione giornalistica e di sfruttare le polemiche ha secon-do me almeno un precedente molto importante, che riguarda Il Pci ai giovani!!. Anche in quel caso, è evidente come, nella vulgata, Pasolini sia l’intellettuale anticonformista che si schiera al fianco dei poliziotti durante gli scontri di Valle Giulia. Ma, al di là delle numerose letture che da oltre qua-rant’anni di quella poesia si danno, va detto che pure in quella circostanza, nel suo desiderio di dare ampia risonanza ad una sua personale lettura dei fatti, Pasolini ha voluto provocare lo scandalo, consapevole che le sue parole sarebbero risultate equivoche. Salvo poi intervenire, a più di un anno di distanza, nella rubrica Il caos, per spiegare il vero senso delle sue affermazioni:

Nella mia poesia dicevo, in due versi, di simpatizzare per i poliziotti, figli di poveri,

piuttosto che per i signorini della facoltà di architettura di Roma […]: nessuno […] si è accorto che questa non era che una boutade, una piccola furberia oratoria paradossale, per richiamare l’attenzione del lettore, e dirigerla su ciò che veniva dopo, in una dozzina di versi, dove i poliziotti erano visti come oggetti di un odio razziale a rovescia […]. Nessuno […] si è soffermato su questo: e tutti si sono soffermati al primo paradosso in-troduttivo appartenente ai formulari della più ovvia ars retorica.183

Quella di speculare sulle critiche è già a fine anni ’60, dunque, una qualità del polemista Pasolini, ma è una qualità che sembra scoppiargli tra le mani: il procedimento di progressiva ricalibratura delle tesi, nel caso di Il Pci ai giovani!!, appare decisamente macchinoso, e di fatto lo scrittore si vede costretto ad ammettere la paradossalità delle proprie provocazioni per non rimanere schiaccia-to tra le contraddizioni che esse implicano. Quando approda al «Corriere della Sera», invece, Paso-lini non lascia mai che la sua tendenza a ricercare una continua formulazione in fieri delle sue tesi, nel corso delle polemiche, si manifesti evidente o lo costringa a recedere. Ogni articolo completa e precisa il precedente, fino ad ottenere un risultato imprevedibile: le iniziali provocazioni vengono stemperate negli articoli successivi, ma al contempo, proprio in virtù di quelle attenuazioni, le tesi di Pasolini finiscono col risultare sempre più accettabili, fino a diventare legittime nella loro inte-rezza, e dunque anche nelle parti più radicali.

È questa un'ulteriore e fondamentale componente di quella poetica dell’urgenza che caratte-rizza la stagione corsara e luterana di Pier Paolo Pasolini. La sua “disperata vitalità”, di fronte al pericolo tremendo e concreto di dover rinunciare per sempre all’oggetto del proprio amore – l’Italia “di prima della scomparsa delle lucciole” – non rifugge neppure da metodi ambigui e sleali: Pasoli-ni si propone ideologo radicale e incorruttibile, ma in realtà pretende che i suoi lettori interpretino moderatamente le sue provocazioni, cogliendo in esse quanto c’è di ragionevole e ammissibile. Ci-nicamente, Pasolini opera allo stesso modo di un minatore: l’articolo d’esordio intorno a qualsiasi tema da lui affrontato è l’esplosivo che serve a frantumare la parete rocciosa delle convinzioni co-munemente e conformisticamente accettate; i successivi lavorano di piccozza e scalpello per estrar-re la materia pregiata, la reale proposta sulle cui basi tentare – a Pasolini, nel 1975, quest’illusione 180 Id., Lettere luterane, p. 169. 181 Ivi, p. 176. 182 Ivi, p. 177. 183 Id., I cappelli goliardici, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, p. 1210.

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non doveva apparire del tutto ingenua – insieme alle parti migliori della classe dirigente e intellettu-ale italiana, di ricostruire un Paese dalle sue macerie.

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