Nuovo Cinema Italia: per una mappa della produzione contemporanea, tra tendenze, formule e...

20

Transcript of Nuovo Cinema Italia: per una mappa della produzione contemporanea, tra tendenze, formule e...

Publ

ishe

d by

Man

ey P

ublis

hing

(c) T

he D

epar

tmen

t of I

talia

n St

udie

s, U

nive

rsity

of R

eadi

ng &

Dep

artm

ent o

f Ita

lian,

Uni

vers

ity o

f Cam

brid

gethe italianist 29 · 2009 · 306-324

E D I T I N G S U I T E

Nuovo cinema Italia: Per una mappa della produzione contemporanea, tra tendenze, formule e linguaggi

Christian Uva

La videocamera digitale di Saverio Costanzo che in Private (2005) si getta ostinatamente dentro al dramma, diventando testimone primo della difficile coabitazione tra una famiglia palestinese ed un manipolo di soldati israeliani; le liberatorie raffiche di kalashnikov scaricate dalle acerbe figure seminude dei due predestinati Marco e Ciro, emuli di Scarface (Brian De Palma, 1983), nel quinto atto della tragedia cinematografica Gomorra (2008) di Matteo Garrone; il fulminante e postmoderno incipit di quel cine-glossario politico italiano che è Il Divo (2008) di Paolo Sorrentino, con il serrato montaggio di repentini carrelli, prodigiosi dolly e violenti zoom in cui si condensano alcuni dei principali misteri della storia repubblicana italiana.

Queste schegge filmiche, tanto differenti per ambito di appartenenza, linguaggio, ispirazione, estetica, possono forse essere impiegate come spunti per una ricognizione negli scenari del cinema italiano degli ultimi anni, delle opere che lo contraddistinguono e delle linee di tendenza che in tale panorama possono essere rintracciate. Dunque Private, Gomorra, Il Divo: film che, per motivi differenti, si sono imposti all’attenzione nazionale e internazionale, consentendo di formulare nuove ipotesi circa una rinascita del cinema italiano.

Da un lato, ad imporsi è un cinema che torna a dialogare con la realtà, che con essa si ‘sporca’, immergendosi senza remore nelle sue profondità, siano esse i nuovi problemi del mondo globalizzato o quelle di una apocalittica Gomorra italica in cui la Camorra dell’omonimo romanzo-saggio di Roberto Saviano del 2006 (e del film di Garrone da esso derivato) si fa metafora (pre)potente dei tanti mali che affliggono il Paese.

Su un lato apparentemente opposto, ma forse contiguo, si delinea invece un nuovo cinema di genere che, parimenti, pur nella generale indecifrabilità di un’epoca come quella attuale, sembra cercare un rapporto col mondo, tanto quello

Publ

ishe

d by

Man

ey P

ublis

hing

(c) T

he D

epar

tmen

t of I

talia

n St

udie

s, U

nive

rsity

of R

eadi

ng &

Dep

artm

ent o

f Ita

lian,

Uni

vers

ity o

f Cam

brid

geUva · Nuovo cinema Italia 307

oscuro, corrotto e marginale nel quale trovano ambientazione i numerosi noir, thriller e gialli degli ultimi anni, quanto quello giovanile affrontato dal filone in cui si colloca un titolo come Notte prima degli esami di Fausto Brizzi (2006), contesto considerato da Gian Piero Brunetta quale riserva di esempi ‘utili come elettroencefalogrammi capaci di misurare le attività intellettuali, culturali, emotive, sentimentali delle nuove generazioni’.1

Nelle diverse declinazioni in cui si offre, il cinema italiano degli ultimi anni sembra di fatto caratterizzarsi, come annota Mariagrazia Fanchi, ‘anzitutto per la vicinanza allo spettatore. Il primo fattore di ingaggio con il pubblico è la familiarità con i temi, le atmosfere, i linguaggi, i plot dei film’.2

Per orientarsi dunque nel territorio della produzione filmica più recente, può risultare utile avvalersi di una mappa nella quale la riemersione della Realtà (come della Politica) e il sistema dei generi possono essere rispettivamente considerati come un Nord e un Sud accanto ai quali, secondo una visione orizzontale, si collocano un Est e un Ovest coincidenti con l’irruzione delle nuove tecnologie e con una produzione di derivazione letteraria.

In tale prospettiva si rileverà come, inevitabilmente, i casi più interessanti si posizionino perlopiù nelle zone di frontiera (non tanto terre di nessuno, quanto spazi comuni); in quei luoghi, cioè, in cui si attuano stimolanti ibridazioni tra formule narrative, linguaggi, tecnologie, stili: come accade ad esempio quando lo standard digitale si pone al servizio di una missione testimoniale per la sua capacità di penetrare il reale, oppure nelle occasioni in cui l’adozione degli stilemi e dei codici del cinema di genere, lungi dal coincidere con la pura ‘evasione’, può farsi strumento per riportare al centro del dibattito pubblico nodi storico-politici ancora irrisolti (dal terrorismo ai cosiddetti ‘Misteri d’Italia’).

Ciò di cui si sta parlando è quel ‘cinema a geometria variabile’ menzionato da Gianni Canova, ossia una configurazione ‘capace di muoversi con rapidità (e spesso in modo imprevedibile) nel territorio di cerniera che sta fra il sociale e l’immaginario, ma capace anche […] di operare continue verifiche delle proprie procedure e di praticare forme sempre più radicali di intermedialità’.3 L’avvento del nuovo millennio coincide insomma – prendendo in prestito il titolo di un volume di Hal Foster – con un sostanziale ‘ritorno del Reale’,4 forse conseguenza della fine del Postmoderno determinata, secondo taluni, dal crollo delle Torri Gemelle. Di certo il cinema italiano degli ultimi anni è permeato, in forme più o meno evidenti, da un’‘idea documentaria’5 che si riverbera direttamente nel modo di guardare alla realtà e nell’atteggiamento etico ed estetico con cui essa viene messa in forma: a dominare sono ‘fatti reali, attori non professionisti, ambienti veri, una macchina da presa quasi documentaristica’, per usare le parole di uno dei protagonisti di questa stagione, il regista Francesco Munzi, ‘eppure tutto narrato con un rigore formale e una sperimentazione espressiva nuova di alto livello, dove il vero si

Publ

ishe

d by

Man

ey P

ublis

hing

(c) T

he D

epar

tmen

t of I

talia

n St

udie

s, U

nive

rsity

of R

eadi

ng &

Dep

artm

ent o

f Ita

lian,

Uni

vers

ity o

f Cam

brid

ge308 the italianist 29 · 2009

sovverte in finzione, e il tempo, sottraendosi alla linearità cronologica degli eventi, si frantuma, si interiorizza, si fa soggettivo’.6

Si tratta di una tendenza riscontrabile soprattutto nella produzione più giovane, o addirittura esordiente, che fa capo al Garrone degli anni Novanta, quello di Terra di mezzo (1997), Ospiti (1998), Estate romana (2000); un cinema la cui istanza documentaria si coniuga con uno stile estremamente personale e con uno sguardo fortemente connotato, come confermano, restando a Garrone, il grottesco L’imbalsamatore (2002), il crudo Primo amore (2004) e naturalmente il costruito realismo di Gomorra. Titoli ai quali, su un fronte di messa in scena più marcatamente stilizzata, si devono affiancare quelli della filmografia di Paolo Sorrentino, ovvero L’uomo in più (2001), Le conseguenze dell’amore (2004), L’amico di famiglia (2006) e Il Divo, opere a proposito delle quali si è parlato di riflessi postmoderni e, a tratti, prettamente tarantiniani, sempre associati, tuttavia, a narrazioni fortemente radicate nella realtà italiana.

‘Ai cocomeri e i tulipani di tanto cinema intimistico, ripiegato su se stesso entro i confini delle proprie mura domestiche’, evidenzia Giovanna Taviani riferendosi al cinema claustrofobico dei decenni Ottanta e (in parte) Novanta, anni della ‘fuga’ (si pensi al primo Salvatores) e dell’oblio, ‘si oppongono ora paesi, lavoro, mondi, fabbriche, albanesi, uomini’.7 A posarsi su tali ‘oggetti’ è non di rado uno sguardo capace di dare conto della realtà nella sua bruta materialità, come accade nel già citato Private di Saverio Costanzo (di cui si dirà più avanti), in Saimir di Francesco Munzi (2004), esordio di ascendenze neorealiste ma debitore anche del rigore dei fratelli Dardenne, nato da un corposo lavoro di documentazione durato mesi, oppure in Tornando a casa di Vincenzo Marra (uscito poco dopo l’11 settembre 2001), con i suoi pescatori verghiani (pre)destinati a sicura sconfitta. La stessa realtà è quella che trasuda dall’intricato Nemmeno il destino (2004) di Daniele Gaglianone, vicenda di degrado sociale e affettivo ambientata in una città desolata e postindustriale, da Velocità massima (2002) di Daniele Vicari (pur nell’ambito di un buddy movie all’italiana), ma anche dal promettente debutto L’aria salata (2006) di Alessandro Angelini e dalla produzione più propriamente regionalistica di Alessandro Piva (soprattutto Lacapagira del 1999) e di Edoardo Winspeare (di cui si ricordano, nel nuovo millennio, Sangue vivo nel 2000 e Il miracolo nel 2003).

Caso a parte, da assimilare a quelli di Garrone e Sorrentino (soprattutto per il successo internazionale riscontrato dalle sue opere), è quello di Emanuele Crialese, il cui cinema appare contraddistinto da una suggestiva fusione di realtà e mito, come dimostra Respiro (2002), incentrato sull’osservazione di un’arcaica comunità siciliana, e ancor più il realismo allegorico ed epico di Nuovomondo (2006).

Tentare in questi casi di resuscitare la nozione di ‘Neo-neorealismo’ coniata alla fine degli anni Ottanta per etichettare sbrigativamente il cinema esemplificato dal Marco Risi di Mery per sempre (1989) e di Ragazzi fuori (1990) può forse risultare fuorviante, anche perché le opere degli autori in questione sono

Publ

ishe

d by

Man

ey P

ublis

hing

(c) T

he D

epar

tmen

t of I

talia

n St

udie

s, U

nive

rsity

of R

eadi

ng &

Dep

artm

ent o

f Ita

lian,

Uni

vers

ity o

f Cam

brid

geUva · Nuovo cinema Italia 309

improntate ad una forma e ad un rapporto con la realtà diversi geneticamente dall’approccio di Risi, in fondo molto di ‘genere’. Si può semmai affermare che il ‘cinema della realtà’ degli anni 2000, senza affatto volersi costituire in scuola, sappia recuperare in maniera più profonda e consapevole la lezione di Maestri come De Sica, Rossellini, Visconti, Pasolini, Antonioni. Come dimostra un’altra, paradigmatica, dichiarazione di Francesco Munzi:

il neorealismo è stato sempre il mio grande amore e mi ha lasciato una grande eredità. Posso dire solo che il primo titolo di Saimir era Girasoli, da un film minore di De Sica; e che fino a ora il titolo migliore che ho trovato per il film che sto finendo […] è La notte (come il film di Antonioni).8

Parte integrante della zona di cinema appena descritta è, come accennato, l’area che segnala un ritorno degli autori alla Politica.

Se a risultare a suo modo ‘politica’ è anche la produzione che si è appena menzionata – laddove la sua politicità coincide con la capacità di tornare a guardare l’uomo e il contesto in cui vive, raccontando ed eventualmente denunciando una data situazione – nel momento in cui si parla di una rinascita del cinema politico si vuole fare riferimento più strettamente a quei casi nei quali l’attenzione si rivolge esplicitamente a nodi essenziali della storia repubblicana e a vicende chiave della vita pubblica.

È questo il contesto in cui spicca la ‘doppietta’ di riconoscimenti incassata a Cannes nel 2008 proprio da Gomorra con il Gran Premio Speciale della Giuria e da Il Divo con il Premio della Giuria; fenomeno che, come da più parti segnalato, richiama alla memoria la Palma d’Oro del 1972 conferita ex-aequo a Il caso Mattei di Francesco Rosi e a La classe operaia va in paradiso di Elio Petri, due opere incarnate dal medesimo attore, Gian Maria Volonté, esattamente come avviene per i due film italiani più recenti, entrambi affidati alla mirabile interpretazione di Toni Servillo, vera e propria maschera ricorrente del nuovo cinema italiano di qualità.

Il paragone, d’altronde, può essere esteso anche al lato estetico, come sottolineano Giovanni Spagnoletti e Roy Menarini, visto che ‘il grottesco barocco di Sorrentino sta un po’ a quello di Petri come l’indagine ricognitiva, semisaggistica di Garrone sta a quella di Rosi’.9 È così che, nel caso de Il Divo, si ha a che fare con uno sguardo deformante su una summa dei peggiori ‘fattacci’ italiani dal dopoguerra ad oggi, evocati tramite la fisicità espressionista del loro comune denominatore, il ‘divo Giulio’ (Andreotti). La macchina da presa di Sorrentino, dando vita ad un’estetica pop, ripercorre con le sue evoluzioni portentose, i suoi grandangoli esasperati, i suoi improvvisi zoom e carrelli, i principali tabù della recente storia italiana, dal caso Moro al delitto Ambrosoli, dall’omicidio di Giovanni Falcone a quello di Carlo Alberto Dalla Chiesa, dalla morte del banchiere Calvi al delitto Pecorelli:10 zone ancora buie di un passato su cui si stende l’ombra lunga di un personaggio politico la cui rappresentazione sembra mettere in gioco, a tratti,

Publ

ishe

d by

Man

ey P

ublis

hing

(c) T

he D

epar

tmen

t of I

talia

n St

udie

s, U

nive

rsity

of R

eadi

ng &

Dep

artm

ent o

f Ita

lian,

Uni

vers

ity o

f Cam

brid

ge310 the italianist 29 · 2009

quella del Dracula coppoliano (tutto il cinema di Sorrentino risulta d’altronde popolato da corpi ‘deformi e mortuari [...] corpi dove l’umanità si svela proprio nel momento in cui sembra inabissarsi nella deformità’).11

In tal modo l’opera di Sorrentino condensa, quasi facendone il punto, una linea che, nel nuovo millennio, annovera altri titoli di spicco nei quali la pregnanza della riflessione sulle medesime zone oscure della storia va di pari passi con un ragionamento sulle forme attraverso cui oggi il cinema può tentare di guardare a quel passato. Buongiorno, notte (2003) di Marco Bellocchio – di cui non si devono dimenticare anche L’ora di religione del 2002 e Il regista di matrimoni del 2006,12 per la loro capacità di fare i conti col presente – costituisce senz’altro, in questo ambito, l’opera nella quale la ‘questione dello stile’ si fa centrale per il modo in cui si decide di affondare lo sguardo nella profonda ferita costituita dall’affaire Moro. Scegliendo la strada del ‘bagno di sensazioni’, il film del regista piacentino è una sorta di quadro impressionista in cui si mescolano le tinte eterogenee dell’immaginario composito dei terroristi che, tra il marzo e il maggio del 1978, sequestrarono e uccisero lo statista democristiano: ad affastellarsi in tale scenario sono icone ideologiche (e cinematografiche) quali la panchina dove morì Lenin (estrapolata da Tre canti su Lenin (Tri pesni o Lenine, 1934) di Dziga Vertov), le parate dell’Unione Sovietica stalinista, le fucilazioni dei condannati a morte della Resistenza (prelevate in questo caso da Paisà (1946) di Roberto Rossellini), ma anche icone pop provenienti dall’incipiente ‘TV spazzatura’ di quegli anni o, ancora, le icone lugubri rappresentate dai volti dei veri politici alla messa in suffragio di Moro. Così, l’opera di Bellocchio, attraverso la precisa, politica, opzione di mettere sullo stesso piano realtà e immaginazione, si configura come una delle più inventive e libere della filmografia sugli anni di piombo, intendendo non già offrire una verità su quella stagione, bensì mostrare ‘che cosa sia accaduto, quale evento oggettivo si sia prodotto nella nostra storia con il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro al di là della volontà e delle intenzioni di tutte le parti in causa’, dimostrando come questo tragico evento abbia segnato ‘l’ingresso nella notte della politica’.13 Quella stessa ‘notte’ in cui immerge la macchina da presa Michele Placido nella saga della ‘peggio gioventù’ al centro di Romanzo criminale (2005), gangster movie sulla Banda della Magliana, la più potente organizzazione criminale che abbia mai operato a Roma, cui vennero attribuiti legami con diversi tipi di organizzazioni quali Cosa nostra, Camorra, ‘Ndrangheta, ma anche con esponenti del mondo della politica come Licio Gelli e Loggia P2, nonché estrema destra eversiva e servizi segreti. Con scelte stilistiche molto differenti, a guardare agli stessi anni è anche il Daniele Luchetti di Mio fratello è figlio unico (2007), nel quale il terrorismo si configura come esito estremo di una conflittualità tra destra e sinistra che trova personificazione nei volti di due tra gli attori-simbolo del cinema italiano contemporaneo: Elio Germano e Riccardo Scamarcio. Il medesimo scenario fa in parte da sfondo anche a I cento passi (2000) di Marco Tullio Giordana, in cui la tradizione del cinema di impegno

Publ

ishe

d by

Man

ey P

ublis

hing

(c) T

he D

epar

tmen

t of I

talia

n St

udie

s, U

nive

rsity

of R

eadi

ng &

Dep

artm

ent o

f Ita

lian,

Uni

vers

ity o

f Cam

brid

geUva · Nuovo cinema Italia 311

civile si ibrida con umori più personali, e all’’epopea generazionale’ La meglio gioventù (2003), film che, secondo Alan O’Leary, tenta di elaborare il trauma del terrorismo proseguendo ‘il lavoro incompleto di reintegrazione dell’alieno’ incominciato nei film degli anni ’90 centrati su figure di terroristi o ex terroristi.14

Si delinea così un panorama contraddistinto dall’esigenza

di offrire degli spaccati differenti di storia generazionale, accentuando comunque il senso della dis-unità nazionale, cercando non solo di confermare, ma anche di ridiscutere la Resistenza come valore e come elemento comune alla base della nascita dell’Italia repubblicana o di rivederla in un’ottica non più monumentale.15

Come, peraltro, dimostrano eloquentemente le due incursioni nella Storia da parte del regista ‘di genere’ Michele Soavi: Arrivederci amore, ciao (2006), cinica vicenda di un ex estremista di sinistra scampato alle macerie degli anni ’70, e soprattutto Il sangue dei vinti (2008), a metà tra ricostruzione storica e thriller politico, ripensamento della lotta partigiana sulla scorta dell’omonimo romanzo ‘revisionista’ di Giampaolo Pansa del quale è una trasposizione.16

Quella di ‘re-visionare’ la storia è da intendersi del resto anche come, letteralmente, volontà di ri-vedere (e dunque ri-mettere in scena) sotto diversi angoli prospettici vicende epocali dalla portata transnazionale, quali ad esempio il dramma dell’Olocausto. Il cinema italiano del nuovo millennio, riprendendo un filone che affonda le radici nel passato, torna così a riflettere su questa delicata materia sulla scorta del successo mondiale de La vita è bella (1997) di Roberto Benigni. Come ha evidenziato Millicent Marcus nel suo studio dedicato all’argomento, il recupero di tale Memoria vede impegnati dall’inizio degli anni 2000 autori molto diversi per pratiche e provenienza: si va da Canone inverso (2000) di Ricky Tognazzi al televisivo Perlasca: un eroe italiano (2001) di Alberto Negrin, da La finestra di fronte (2003) di Ferzan Ozpetek a Il servo ungherese (2004) di Massimo Piesco e Giorgio Molteni, da Il cielo cade (2000) dei fratelli Frazzi a Concorrenza sleale (2000) di Ettore Scola, opera, quest’ultima, in cui la Storia con la ‘S’ maiuscola viene lasciata (in maniera tutta scoliana) al di là della macchina da presa, in uno spazio irrappresentabile al quale il regista antepone una molteplicità di micro-storie, nella convinzione che le concrete esperienze dei personaggi ‘express the movements and conflicts of the great historical processes that condition their lives’.17

Se gli esempi citati delimitano quel settore di produzione italiana la cui politicità si colloca nella scelta di rivolgere l’attenzione a questioni ‘calde’ della recente storia italiana, vi è un’altra serie di opere, spesso contigue a quelle appena ricordate, al cui centro si pongono analisi, dirette e indirette, delle attuali forme politiche del Paese. In questo scenario Il Caimano (2006) di Nanni Moretti è certamente uno dei titoli più rappresentativi, costituendosi come l’opera più

Publ

ishe

d by

Man

ey P

ublis

hing

(c) T

he D

epar

tmen

t of I

talia

n St

udie

s, U

nive

rsity

of R

eadi

ng &

Dep

artm

ent o

f Ita

lian,

Uni

vers

ity o

f Cam

brid

ge312 the italianist 29 · 2009

conseguente a quel ritorno alla militanza politica che ha visto lo stesso Moretti agire, all’inizio degli anni 2000, all’interno del movimento dei cosiddetti ‘girotondi’.18

Il Caimano che irrompe sul grande schermo non è tuttavia, semplicisticamente, Silvio Berlusconi, così come evidentemente l’ultima opera di Nanni Moretti non è riduttivamente un film su, o contro, il Presidente del Consiglio italiano, ma una personalissima, vorace, sarcastica, dolente riflessione sulla ‘conformazione-Berlusconi’, in particolare sull’irrappresentabilità di una figura che sempre più spazio si è conquistata, oltre che sulla scena politica, nell’immaginario contemporaneo italiano. Il Caimano è tuttavia anche, e forse soprattutto, un film sul Cinema, caratterizzato da un’estetica nutrita degli apporti più diversi, ognuno dotato di un robusto potere evocativo. Berlusconi e il berlusconismo, da questo punto di vista, sembrano configurarsi semplicemente come uno dei tanti universi che si giustappongono nel puzzle visivo creato dal regista. Uno scenario intimo e al tempo stesso collettivo, nel quale si compie, in occasione del gran finale, il ‘rito eucaristico’ celebrato dall’autore, dal regista, dal cittadino; quello per cui, con il gesto di narcisismo più potente di tutto il suo cinema, Nanni Moretti – dopo Il portaborse (Daniele Luchetti, 1991) – torna a sacrificare chaplinianamente il suo corpo, rivestendolo dei panni del ‘Grande dittatore’, dell’Antagonista per eccellenza. In tal modo, dando il proprio volto al Caimano, ‘Moretti ottiene l’incredibile risultato di togliere a Berlusconi la maschera che questi si è costruito con anni e anni di lifting, trapianti di capelli, filtri alle telecamere e barzellette a raffica’,19 ottenendo l’effetto di un cupo deus ex machina che si cala nel vitale, colorato, ‘caos cinematografico’ da lui stesso creato per ricondurne i variopinti frammenti entro una fredda, monocromatica, ferale prospettiva.

Aldilà dell’esemplare opera appena citata, il numero dei film che già a partire dall’inizio del nuovo millennio alludono agli aspetti del vissuto e dell’immaginario politici non è certo esiguo. Si pensi ad opere come Caterina va in città (2003) di Paolo Virzì, racconto satireggiante che, attraverso il gusto corrosivo tipico della migliore commedia italiana, traccia un quadro dei peggiori vizi e vezzi della Roma borghese, giocando con i cliché della sinistra e della destra di inizio millennio (materia al centro anche del mucciniano Ricordati di me, del 2003, e del vanziniano Il pranzo della domenica, dello stesso anno); oppure si faccia riferimento a La febbre (2005) di Alessandro D’Alatri, affresco di un’Italia ricca di risorse umane sistematicamente impoverite da una mentalità ottusa che trova espressione operativa in ambito politico; o, ancora, si guardi alla serie di opere incentrate sulla ‘nuova corruzione’, da A casa nostra (2006) di Francesca Comencini a L’ora di punta di Marra (2007), ma anche alla progressiva riemersione di una corrente di cinema attento a denunciare, con un preciso intendimento politico, tematiche legate al mondo del lavoro, alla società postfordista e alla piaga del precariato, da Mi piace lavorare (2003) di Francesca Comencini, primo film italiano ad affrontare di petto il tema del mobbing, passando per Il posto dell’anima (2003) di Riccardo

Publ

ishe

d by

Man

ey P

ublis

hing

(c) T

he D

epar

tmen

t of I

talia

n St

udie

s, U

nive

rsity

of R

eadi

ng &

Dep

artm

ent o

f Ita

lian,

Uni

vers

ity o

f Cam

brid

geUva · Nuovo cinema Italia 313

Milani, Volevo solo dormirle addosso (2004) di Eugenio Cappuccio e L’orizzonte degli eventi (2005) di Daniele Vicari, fino ai più recenti Signorina Effe (2007) di Wilma Labate, vicenda ambientata nella Torino del 1980 sullo sfondo delle lotte sindacali contro la riorganizzazione aziendale della FIAT, Giorni e nuvole (2007) di Silvio Soldini, racconto doloroso, legato fortemente all’attualità e calato in un paesaggio sociale fatto di disagio e di insicurezza, e Tutta la vita davanti (2008) di Paolo Virzì, bildungsroman su una neolaureata che, uscita dall’università con il massimo dei voti (e tante speranze), riesce a trovare lavoro solo in un call center. Un’opera che tenta di raccontare, come annota Vincenzo Buccheri, un’‘Italietta di plastica’ attraverso la trovata di ‘spiegare il precariato con la televisione, i call center con i reality, facendo piazza pulita del politically correct’.20

Si tratta di una materia sulla quale, da tutt’altro punto di vista e secondo codici differenti, rivolge l’obiettivo anche certa produzione di genere che pure rappresenta una novità degli ultimi anni. Accanto alla sempiterna commedia, sono soprattutto il noir, il thriller, l’horror, la detective story i territori nei quali tanto cinema italiano rinnova le proprie modalità d’espressione,21 trovando in tali generi classici un’ulteriore possibilità di approccio alla realtà (non a caso, molti dei film già citati nel contesto della produzione politica si qualificano proprio come thriller o noir). Se esempi come quello di Almost Blue (2000) di Alex Infascelli e dei successivi Il siero della vanità (2004) e H2Odio (2006) – distribuito direttamente in DVD – come anche quelli di Occhi di cristallo (2004) e AD Project (2005) di Eros Puglielli (in cui irrompe la fantascienza), o La cura del gorilla di Carlo Sigon (2006), adottano in maniera esplicita i codici dei generi citati (spesso mescolandoli, come nel caso di Infascelli e di Puglielli), ci sono altri casi in cui questi ultimi vengono piegati ad un discorso autoriale maggiormente calato in un contesto sociale, come avviene nel duro quanto intenso La sconosciuta (2006) di Giuseppe Tornatore, nel cruedele e carnale Galantuomini (2008) di Edoardo Winspeare, o in Nessuna qualità agli eroi (2008), opera seconda di Paolo Franchi, cineasta proveniente dalla scuola di Ermanno Olmi segnalatosi nel 2004 con il pluripremiato La spettatrice, ma anche in Quo vadis, baby? (2004) e nel recente Come Dio comanda (2008) di Gabriele Salvatores.

Come sopra accennato, è tuttavia la commedia, nella sua versione più popolare, a confermarsi anche nel nuovo millennio come il fenomeno di genere maggiormente longevo in Italia. Il riferimento va soprattutto ai cosiddetti ‘cinepanettoni’, ossia ai film la cui uscita è ritualmente quanto rigidamente programmata per le feste natalizie e il cui artefice primario resta, ormai da circa venti anni, il regista Neri Parenti (erede, all’inizio degli anni ’80, di quell’altra saga rappresentata dalla serie di Fantozzi, portata per primo sul grande schermo da Luciano Salce). Caratteristica imprescindibile dei vari ‘film di Natale’ è la presenza dell’attore feticcio Christian De Sica, alla cui vis comica (fondata ‘sul contrasto aspetto/linguaggio’ tutto infarcito di ogni trivialità)22 la regia di Parenti concede il

Publ

ishe

d by

Man

ey P

ublis

hing

(c) T

he D

epar

tmen

t of I

talia

n St

udie

s, U

nive

rsity

of R

eadi

ng &

Dep

artm

ent o

f Ita

lian,

Uni

vers

ity o

f Cam

brid

ge314 the italianist 29 · 2009

massimo spazio d’espressione, nel contesto di uno stile di stampo televisivo e di una sceneggiatura che prende la forma dell’instant-script in cui echeggiano, per nulla velatamente, vicende e personaggi che hanno contraddistinto la scena pubblica e politica italiana nel corso dei mesi durante i quali il film è stato concepito.

A tale filone si è aggiunto di recente il nascente fenomeno del ‘cinecocomero’ – beach movie speculare al film natalizio, programmato per un’uscita estiva che sfrutti lo spazio lasciato libero in tale periodo dell’anno dai campioni di incassi americani – il cui titolo d’esordio è stato nel 2008 Un’estate al mare di Carlo Vanzina, omaggio, almeno nelle intenzioni, alla commedia ad episodi in voga in Italia negli anni ’60, e in particolare allo sguardo graffiante di autori come Dino Risi e Luciano Salce.

Per restare nel versante di un cinema popolare ancora capace di sostenere la concorrenza dei blockbuster provenienti da oltreoceano, non è un caso che, scorrendo la lista degli sceneggiatori dei ‘cinepanettoni’, ci si imbatta nel nome di Fausto Brizzi, regista del citato campione d’incassi Notte prima degli esami (e del sequel Notte prima degli esami - oggi del 2007), a conferma dell’osmosi che inevitabilmente caratterizza alcune zone contigue del recente scenario cinematografico italiano. Il film d’esordio di Brizzi – con uno sguardo più vicino ad American Graffiti (George Lucas, 1973) ‘che non ai tremori e alle regressioni ginnasiali dei trentenni protagonisti di L’ultimo bacio’23 – conferma la solidità del filone giovanilistico avviato nel 2004 da Tre metri sopra il cielo di Luca Lucini, sorta di rivisitazione, secondo Brunetta

di Il tempo delle mele nell’era degli SMS, con facili richiami al cinema degli anni Cinquanta (Gioventù bruciata [Rebel Without a Cause, Nicholas Ray, 1955] o Peccatori in blue-jeans [Les tricheurs, Marcel Carné, 1958]), alla cultura dei fotoromanzi ovviamente rivisitati, ma anche ai modi del primo Muccino (quello dell’esordio di Ecco fatto del 1998 o del successivo Come te nessuno mai del 1999).24

Anche in questo caso si ha a che fare con un territorio in cui la serialità diventa una vera e propria formula industriale tale per cui, una volta testato il format, se ne fanno discendere tutte le possibili ‘puntate’, contando sul classico meccanismo della fidelizzazione del pubblico (quello dei giovanissimi ma non solo, se si pensa che proprio Notte prima degli esami fa esplicitamente leva su un immaginario ‘anni ’80’ capace di attrarre anche la fascia generazionale degli attuali trenta/quarantenni).

Sono proprio i titoli citati, insieme con i rispettivi sequel e derivazioni – ma anche con altri esempi vicini (Manuale d’amore, 2005, di Giovanni Veronesi; Il mio miglior nemico, 2006, di Carlo Verdone o Anplagghed al cinema, 2006, del trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo) e con qualche opera d’autore (come Centochiodi, 2005, di Ermanno Olmi) – ad aver segnato, intorno alla metà del

Publ

ishe

d by

Man

ey P

ublis

hing

(c) T

he D

epar

tmen

t of I

talia

n St

udie

s, U

nive

rsity

of R

eadi

ng &

Dep

artm

ent o

f Ita

lian,

Uni

vers

ity o

f Cam

brid

geUva · Nuovo cinema Italia 315

primo decennio degli anni 2000, una vera e propria inversione di tendenza nel rapporto tra cinema e pubblico, fino a tale periodo caratterizzato da una certa sfiducia nei confronti del ‘prodotto italiano’ che ora, invece, arriva ‘a vette altissime e a numeri che non venivano raggiunti dalla fine degli anni Settanta’.25 La novità, in particolare, è rappresentata proprio dal ritorno in sala della grande massa di giovani, richiamati in particolare da operazioni il cui tratto comune è la derivazione da prodotti editoriali di ampio successo.

È in tale ambito che si impone il nome di Federico Moccia, scrittore la cui impeccabile tecnica narrativa, associata ad un linguaggio elementare, si fa strumento capace di fotografare nitidamente la conformazione dell’attuale società in senso trans-generazionale. Tale realismo diaristico – rintracciabile anche nell’altro fenomeno letterario 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire della scrittrice catanese Melissa Panarello, diventato il film Melissa P. (2005) per la regia di Luca Guadagnino – viene arricchito sul grande schermo da una patina costituita, oltre che dai volti di giovani attori alla moda, da una fotografia laccata e da una regia dinamica fondata su accattivanti movimenti di macchina e su un serrato montaggio debitori dell’estetica da videoclip e pubblicitaria. Non si dimentichi d’altronde che, come avviene per molta altra letteratura di diverso genere, la pagina scritta di Moccia nasce già prevedendo di essere trasferita sul grande schermo, configurandosi quale sorta di pre-sceneggiatura quanto mai disponibile a tradursi con immediatezza in immagini e suoni. Non stupisce così che nel 2008 l’ennesimo film tratto da un suo libro (Scusa ma ti chiamo amore) lo veda coinvolto anche nella veste di regista (come dovrebbe accadere nel 2009 per Amore 14, titolo di un suo ricente best seller).26

In tal modo la ‘corrente’ giovanilistica ha raggiunto in brevissimo tempo una solidità tale da far sì che il teen movie costituisca uno dei fili principali su cui si regge l’attuale tessuto dell’industria cinematografica italiana; la riprova è rappresentata dall’uscita in sala, nel 2008, di un film intitolato Ti stramo (Pino Insegno, Gianluca Sodaro), primo vero tentativo di caricatura in stile Scary Movie del filone appena esaminato – come esplicita l’ironico sottotitolo Ho Voglia di un’ultima Notte da Manuale prima di Tre baci sopra il cielo – e al contempo implicita legittimazione di quest’ultimo, se è vero che ‘l’esistenza di parodie è sempre un indice del grado di visibilità e di identificazione del genere’.27

Poco sopra si accennava ad un aspetto che costituisce la costante di quasi tutti i prodotti rientranti nel sottogenere ‘giovanilistico’, vale a dire la loro origine letteraria. Ebbene, tale denominatore non è comune soltanto agli esempi sopra citati ma, come ormai noto, ad una sezione sempre più cospicua del cinema italiano recente, al punto che le sinergie tra le due arti costituiscono da qualche anno un elemento sul quale da più parti e da molteplici prospettive si è appuntata l’attenzione degli studiosi. Gli anni Duemila, infatti, confermano e rafforzano la vocazione del cinema del decennio precedente a guardare alla letteratura; tuttavia ‘quella che

Publ

ishe

d by

Man

ey P

ublis

hing

(c) T

he D

epar

tmen

t of I

talia

n St

udie

s, U

nive

rsity

of R

eadi

ng &

Dep

artm

ent o

f Ita

lian,

Uni

vers

ity o

f Cam

brid

ge316 the italianist 29 · 2009

pare cambiata è la modalità “industriale” con cui si favorisce la produzione di “fonti” utili al cinema’.28

È in coincidenza con la popolarità registrata negli ultimi due decenni da romanzieri come Niccolò Ammaniti, Carlo Lucarelli, Alessandro Baricco che il reciproco scambio e la vicendevole influenza tra cinema e letteratura italiana raggiungono un’intensità del tutto inedita, anche in corrispondenza con l’introduzione delle nuove tecnologie digitali, capaci di incidere con modalità diverse, ma in maniera preponderante, nell’uno e nell’altro campo. Nell’attuale orizzonte dell’intermedialità non deve del resto stupire una simile permeabilità tra linguaggi che rende la migrazione di contenuti da un’area all’altra quanto mai immediata e priva di ostacoli. È così che, mentre il romanzo contemporaneo appare sempre più informato ad una strategia narrativa influenzata dal ‘pensare digitale’, marcato com’è dalla riemersione dei generi e dal ‘dominio di forme visive di narrazione veicolate dal cinema così come dalla televisione e, più recentemente, dalle tecnologie basate sul computer, dall’internet ai giochi elettronici’,29 il cinema guarda alla produzione letteraria come ad un bacino sempre prodigo di materiali cui attingere, soprattutto quando questi si inseriscono nell’ambito di generi o fenomeni autoriali di successo. Si pensi agli stessi Niccolò Ammaniti e Carlo Lucarelli, oppure ad un altro autore molto popolare come Massimo Carlotto, e alla loro cultura cinematografica evidente tanto nel ‘montaggio’ dei testi quanto nei numerosi riferimenti diretti alla cinefilia. Lo stesso vale per Sandro Veronesi (fratello del regista Giovanni), anch’egli gettonatissimo dal grande schermo, i cui libri sono, per usare un’espressione di Ronald De Rooy impiegata in riferimento a La forza del passato (portato sullo schermo da Piergiorgio Gay nel 2002), ‘romanzi filmici’ intrisi di citazioni e di figure retoriche prese in prestito dal cinema.30 Non stupisce, da questo punto di vista, che, mentre alcuni scrittori decidono di passare direttamente dietro alla macchina da presa (come Alessandro Baricco per Lezione 21 del 2008 e, in precedenza, Susanna Tamaro per Nel mio amore del 2004), o addirittura davanti (il Vitaliano Trevisan, oltre che autore del romanzo d’origine, interprete e sceneggiatore nel 2004 di Primo amore di Garrone), molti altri ricoprano anche il ruolo di sceneggiatori (Giancarlo De Cataldo, Carlo Lucarelli, Niccolò Ammaniti, Domenico Starnone, Ivan Cotroneo); senza contare il fenomeno inverso, quello di sceneggiatori puri che tentano il salto nella letteratura, come avviene per Franco Bernini (già collaboratore di Luchetti, Piccioni, Salvatores, Mazzacurati, e regista nel 1997 di Le mani forti) che pubblica per Einaudi La prima volta, o per Umberto Contarello (autore tra gli anni ’80 e ’90 di importanti script per Salvatores e Mazzacurati) che dà alle stampe per Feltrinelli Una questione di cuore.31

Non è casuale, dunque, che già tra la fine dello scorso millennio e l’inizio del nuovo, due delle principali società di produzione cinematografica, la Fandango di Domenico Procacci e la Colorado Film di Gabriele Salvatores e Maurizio Totti, compiano il proprio ingresso nel mondo editoriale dando vita, rispettivamente, alla

Publ

ishe

d by

Man

ey P

ublis

hing

(c) T

he D

epar

tmen

t of I

talia

n St

udie

s, U

nive

rsity

of R

eadi

ng &

Dep

artm

ent o

f Ita

lian,

Uni

vers

ity o

f Cam

brid

geUva · Nuovo cinema Italia 317

Fandango Libri e alla Colorado Noir, con il preciso obiettivo di costruirsi in ‘casa’ una cellula produttiva mirata a pubblicare libri già geneticamente predisposti a diventare sceneggiature filmiche.

Uno degli esperimenti più interessanti in questo senso, soprattutto dal punto di vista della ricerca sulle forme e sui linguaggi nell’ambito della transizione dalla pagina scritta a quella audiovisiva, è Quo vadis, baby?, l’opera cinematografica che Gabriele Salvatores trae nel 2004 dall’omonimo romanzo di Grazia Verasani, il primo ad essere pubblicato dalla Colorado Noir.

La scelta di una scrittrice poco nota e di un genere quale il noir costituisce il chiaro indizio di una volontà sperimentale che trova totale compimento nell’‘opzione digitale’ di ripresa alla quale Salvatores ricorre per la prima volta nel suo cinema. Il supporto numerico si fa così intermediario di una traduzione che intende restituire, nei termini cinematografici, la pluralità di piani narrativi che contraddistingue il flusso di coscienza della pagina scritta della Verasani, operazione che ha indotto il regista ad affidarsi ad una molteplicità di tracce che il digitale ha contribuito a distinguere nella loro peculiarità, al fine di dare forma ad una storia che non venisse semplicemente raccontata, bensì ricostruita gradualmente dallo spettatore attraverso la serie di indizi disseminati nel corso del film.

È anche per questo che il dodicesimo lungometraggio di Gabriele Salvatores è soprattutto una messa alla prova delle capacità della nuova tecnologia di tradurre e reinventare linguaggi, modalità narrative e stilistiche provenienti da altri territori grazie all’impiego di un dispositivo che, in più momenti, si fa letteralmente videocaméra-stylo, per parafrasare Alexandre Astruc. Proprio come avviene in un altro esempio a proposito del quale bisognerebbe parlare, più che di cine-penna, di cine-matita visto che la materia d’origine è in questo caso il fumetto: il riferimento va a Paz! (2002) di Renato De Maria, film anch’esso digitale nato con l’intento di fotografare per il grande schermo il mondo fumettistico di Andrea Pazienza, universo complesso e visionario nel quale la generazione ribelle del ’77 ha trovato un’originale quanto problematica rappresentazione.

Aldilà delle opere appena citate, l’attenzione delle società di produzione nei confronti della letteratura trova comunque il suo esempio più lampante nell’attività della Cattleya di Riccardo Tozzi, Giovanni Stabilini e Marco Chimenz che, pur non avendo creato una propria divisione editoriale, tuttavia si configura come una delle realtà produttive italiane più specializzate nella trasposizione cinematografica di materiali letterari, secondo la formula: ‘drammi realistici portati avanti da personaggi forti con i quali lo spettatore possa identificarsi’.32 Lo dimostrano successi commerciali e opere autoriali come Un viaggio chiamato amore (Michele Placido, 2002, basato sul carteggio tra Dino Campana e Sibilla Aleramo), Il gioco di Ripley (Liliana Cavani, 2002, dal romanzo di Patricia Highsmith), Io non ho paura (Gabriele Salvatores, 2003, dal romanzo di Ammaniti, nato già come soggetto cinematografico), Non ti muovere (Sergio Castellitto, 2004,

Publ

ishe

d by

Man

ey P

ublis

hing

(c) T

he D

epar

tmen

t of I

talia

n St

udie

s, U

nive

rsity

of R

eadi

ng &

Dep

artm

ent o

f Ita

lian,

Uni

vers

ity o

f Cam

brid

ge318 the italianist 29 · 2009

dall’omonimo romanzo di Margaret Mazzantini), i già citati Romanzo criminale (da Giancarlo De Cataldo), Mio fratello è figlio unico (da Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi) e Tre metri sopra il cielo (da Federico Moccia),33 e poi, ancora, La bestia nel cuore (Cristina Comencini, 2005, dal romanzo della stessa regista), N-Napoelone (2006) di Paolo Virzì (da Ernesto Ferrero) e i recenti Parlami d’amore (Silvio Muccino, 2008, dal romanzo dello stesso Muccino e di Carla Vangelista) e Come Dio comanda di Gabriele Salvatores (ancora da Ammaniti).

A tale lista si devono aggiungere ulteriori titoli realizzati da altre case di produzione che dimostrano parimenti quanto il cinema italiano contemporaneo sia fatalmente condizionato dalla produzione letteraria: si pensi, nuovamente, ad Almost Blue di Alex Infascelli (da Carlo Lucarelli), all’altro esordio Il cielo cade (2000) dei fratelli Frazzi (da Lorenza Mazzetti), cui segue Certi Bambini nel 2004 (da Diego Da Silva), e poi a Nemmeno il destino (2003) di Daniele Gaglianone (da Gianfranco Bettin), a La forza del passato di Piergiorgio Gay e Caos calmo (2007) di Antonello Grimaldi (entrambi da Sandro Veronesi), a Brucio nel vento (2002) di Silvio Soldini (da Agota Kristof), a I Viceré (2007) di Roberto Faenza (da Federico De Roberto), all’altro folgorante esordio del 2007, La ragazza del lago di Andrea Molaioli (ispirato a Lo sguardo di uno sconosciuto di Karin Fossum) e ai recenti Un giorno perfetto (2008) di Ferzan Ozpetek (da Melania Mazzucco) e Il passato è una terra straniera (2008) di Daniele Vicari (dal giallo di Gianrico Carofiglio). Ma si guardi anche agli esempi di autori già ampiamente consacrati come il Gianni Amelio di Le chiavi di casa del 2004 e La stella che non c’è del 2006 (rispettivamente da Nati due volte di Giuseppe Pontiggia e La dismissione di Ermanno Rea), il Bernardo Bertolucci di The Dreamers (2003, da Gilbert Adair), i fratelli Taviani di La masseria delle allodole (2007, da Antonia Arslan), lo stesso Bellocchio di Buongiorno, notte (da Il prigioniero dell’ex brigatista Anna Laura Braghetti con Paola Tavella), il Mario Monicelli di Le rose del deserto (2006, da Mario Tobino).

Questa lunga lista di casi cine-letterari non può che culminare, ancora una volta, con l’opera il cui successo di critica e di pubblico, anche a livello internazionale, appare direttamente proporzionale a quello della pagina scritta da cui è tratta: Gomorra di Matteo Garrone, derivato dall’omonima creatura letteraria di Roberto Saviano, esempio emblematico, già citato in apertura, del ritorno del cinema italiano all’interesse per la realtà attraverso una forma produttivamente ambigua che si situa a metà strada tra fiction e non fiction, tra visionarietà e testimonialità, come del resto già avviene nel libro d’origine, ‘oggetto narrativo non-identificato’:34 né romanzo e né reportage, né narrativa e né giornalismo, o forse tutte queste cose messe insieme. Naturalmente la trasposizione filmica di Garrone non può che prendere le dovute distanze da una materia per altro estremamente ampia, densa, fitta di strade narrative funzionali, ognuna, ad un preciso livello del racconto. In primis, a qualificare la scelta del regista romano è una visione ‘il più possibile oggettiva e priva di mediazioni’ calata in una struttura

Publ

ishe

d by

Man

ey P

ublis

hing

(c) T

he D

epar

tmen

t of I

talia

n St

udie

s, U

nive

rsity

of R

eadi

ng &

Dep

artm

ent o

f Ita

lian,

Uni

vers

ity o

f Cam

brid

geUva · Nuovo cinema Italia 319

corale che richiama, per stessa ammissione di uno degli sceneggiatori (Massimo Gaudioso), quella di Paisà.35 Il baricentro del film è, così, un punto di vista posizionato alla giusta distanza (per citare il titolo di un’altra opera calata nel tessuto socio-antropologico di una provincia italiana)36 dagli eventi e al servizio di una narrazione mostrativa e non dimostrativa, ben diversa da quella del libro, strutturata sull’io narrante autobiografico del giovane reporter che si immerge nei gironi infernali del Sistema camorristico (indagato nel film di Garrone non già al livello dei boss che abitano normalmente i mafia movie, bensì sul piano degli ‘ultimi’, delle pedine posizionate alla base della scala gerarchica).

È probabilmente per tale motivo che Gomorra, tanto nella sua veste letteraria quanto in quella cinematografica, costituisce il punto di riferimento più lucido e paradigmatico della nuova vague espressiva italiana fondata, come nella migliore tradizione neorealista, sull’adozione di uno sguardo ibrido sul mondo, al tempo stesso rivelatore e costruttore di realtà. Quello stesso che caratterizza anche molta parte del cinema girato in digitale, laddove lo strumento impiegato, la videocamera, si fa quanto mai capace (benjaminianamente) di ‘struccare la realtà’,37 di svelare ciò che si nasconde tra le sue pieghe, riattualizzando la funzione del kinoglaz vertoviano e dello sguardo zavattiniano (artefice di una costante ‘cineanalisi’ dei fatti) proprio nella loro peculiarità di creatori e non di semplici riproduttori di realtà.

Non a caso è grazie all’avvento della nuova tecnologia che riprende vigore anche quella produzione più prettamente documentaria latitante quasi totalmente dalle sale italiane negli ultimi decenni. Scomparso il pregiudizio nei confronti di un genere considerato a lungo solo ‘ancella’ del cinema narrativo, ottengono importanti riconoscimenti di pubblico e di critica opere molto diverse l’una dall’altra, come Viva Zapatero! (2005) di Sabina Guzzanti, L’orchestra di Piazza Vittorio (2006) di Agostino Ferrente, Il mio paese (2006) di Daniele Vicari (che trae spunto da L’Italia non è un paese povero di Joris Ivens, 1962), Un’ora sola ti vorrei (2002) e Vogliamo anche le rose (2007) di Alina Marazzi. Senza dimenticare opere più strettamente legate alle grandi tematiche della Storia passata e recente su cui il dibattito contemporaneo resta, per motivi diversi, ancora aperto: si veda in tal senso La strada di Levi (2006), documentario sui generis di Davide Ferrario che ripercorre, sessant’anni dopo, il lungo e tortuoso cammino compiuto dall’autore de La tregua da Auschwitz a Torino; oppure si guardi a Il sol dell’avvenire (2008) di Gianfranco Pannone, viaggio nella memoria alla ricerca delle motivazioni più profonde che condussero alla nascita delle Brigate Rosse, e a Predappio in Luce (2008) di Marco Bertozzi, esplorazione architettonica e socio-antropologica della cittadina romagnola in cui nacque Mussolini, meta tutt’oggi per molti ‘nostalgici’ di un intenso turismo della memoria.

Quanto alla produzione ‘di finzione’, è perlopiù il cinema esordiente, o comunque giovane, a fare uso della nuova tecnologia per tentare il grande salto nel lungometraggio, anche se non devono essere dimenticati alcuni casi nei quali

Publ

ishe

d by

Man

ey P

ublis

hing

(c) T

he D

epar

tmen

t of I

talia

n St

udie

s, U

nive

rsity

of R

eadi

ng &

Dep

artm

ent o

f Ita

lian,

Uni

vers

ity o

f Cam

brid

ge320 the italianist 29 · 2009

autori già ampiamente consolidati raccolgono la sfida del digitale. Oltre ai già citati Salvatores e De Maria, si pensi al Giuseppe Bertolucci de L’amore probabilmente (2001), in cui la costruzione della fiction si affida, per un terzo del film, alla pasta patinata della pellicola (16 mm) mentre il video si incarica di incarnare un linguaggio ed un’estetica che denunciano metalinguisticamente la macchina-cinema, in maniera tale che, come spiega lo stesso Bertolucci, le riprese diventano ‘una sorta di “diretta”, di monitoraggio di quel che accade’.38

Allo stesso modo, si ricordi Dopo mezzanotte (2003) di Davide Ferrario, opera in cui si articola la continua ricomposizione del rapporto tra finzionalità e documentalità che qui trova particolare forza nella dialettica tra la ‘seconda scrittura’ del montaggio e l’estetica ‘purovisibilista’ delle riprese affidate all’Alta Definizione digitale. Oppure, ancora, si pensi allo Scola di Gente di Roma (2003), personale album di brevi e fulminanti annotazioni, affidate alla versatilità e alla leggerezza di piccole videocamere digitali, sulla città che il regista considera in tutto e per tutto sua, anche se non gli ha dato i natali.

Per ciò che concerne il cinema italiano più giovane, data la relativa facilità di accesso a mezzi di produzione sempre più capaci di garantire risultati professionali, si verifica oggi quel che una quindicina di anni fa è accaduto per il cortometraggio: se negli anni ’90, infatti, grazie all’ampia diffusione dei mezzi amatoriali di ripresa si è registrato un vertiginoso aumento della produzione indipendente di film brevi, negli ultimi quattro/cinque anni è andato crescendo esponenzialmente il numero di giovani passati autarchicamente al lungometraggio, senza cioè fare i conti con il mondo della produzione ufficiale, al punto che esiste oggi un paesaggio sommerso di film dei quali è difficile realizzare un censimento.39 Come rileva Vito Zagarrio, ‘l’irruzione del digitale e la proliferazione del corto rendono più complessa, infatti, la nozione stessa di opera prima, e di esordiente. Nozioni che rischiano di andare rapidamente in soffitta, o di essere riviste, in termini di burocrazia, leggi e finanziamenti’.40

Un’opera come Un altro pianeta di Stefano Tummolini – film costato appena 1000 euro ed approdato con ottimi riscontri alle Giornate degli Autori della Mostra del Cinema di Venezia 2008 – è solo l’ultima di una serie di micro-produzioni tra le quali si ricorda soprattutto Il dono (2002) di Michelangelo Frammartino, costato 5.000 euro e stampato su pellicola grazie ai premi in denaro ottenuti ad alcuni festival e alla vendita dei diritti televisivi a Rai Cinema, ma anche gli esordi home made (ancora pre-digitali) di Eros Puglielli (Dorme, realizzato nel 1994 e distribuito nel 2000) e di Gionata Zarantonello (Medley. Brandelli di scuola, 2000). Film, quest’ultimo, appartenente a quello stesso genere horror in cui rientrano le produzioni low budget di Lorenzo Bianchini, regista ‘cult-regionale’, e Il bosco fuori (2007) di Gabriele Albanesi, lungometraggio d’esordio girato con tecnologia HDV capace di varcare le frontiere di Paesi come il Giappone, la Russia, la Spagna e soprattutto gli Stati Uniti, dove viene distribuito in Home Video dalla Ghost House Underground di Sam Raimi in associazione con LionsGate.

Publ

ishe

d by

Man

ey P

ublis

hing

(c) T

he D

epar

tmen

t of I

talia

n St

udie

s, U

nive

rsity

of R

eadi

ng &

Dep

artm

ent o

f Ita

lian,

Uni

vers

ity o

f Cam

brid

geUva · Nuovo cinema Italia 321

Oltre che come grimaldello per scardinare le troppo serrate porte della produzione ufficiale, il digitale si configura anche quale tecnologia al centro di una costante riflessione metalinguistica sul mezzo utilizzato e sulle sue potenzialità per il futuro, come accade in Quello che cerchi, esordio del 2002 di Marco Simon Puccioni, in cui si mettono a confronto all’interno dello stesso corpo filmico diversi standard di ripresa nel tentativo di definirne le peculiarità espressive e linguistiche, dando vita ad un vero e proprio osservatorio sulle varie declinazioni della tecnologia numerica.

Nello stesso periodo il digitale segna il debutto nel lungometraggio di realtà artistiche e produttive che tentano di radicare la sperimentazione dei nuovi formati nell’affascinante territorio di confine tra fiction e documentario. Si guardi in questo senso ad opere come Italian Sud Est (2003), docufiction firmata Fluid Video Crew di un viaggio sulla vecchia ferrovia del Salento presentata alla 60ma Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Nuovi Territori, e soprattutto si faccia riferimento a Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti, ex allievo di Ermanno Olmi: uscito in sala nel 2007 con distribuzione indipendente, il film digitale – coraggiosamente girato in presa diretta con dialoghi in italiano, occitano e francese – si è guadagnato progressivamente l’attenzione grazie al passaparola e ai numerosi premi ricevuti all’estero, al punto da meritarsi nel 2008 ben cinque candidature per i Nastri d’Argento e per i David di Donatello.

A tali titoli va affiancata, pur su tutt’altro versante tematico, la recente docufiction di denuncia La fabbrica dei tedeschi (2008), in cui Mimmo Calopresti, facendo convivere la pellicola 35mm con lo standard HD, avvicina uno spicchio di fiction interpretata da attori alle testimonianze reali per ripercorre i tragici avvenimenti accaduti nel dicembre 2007 nell’acciaieria ThyssenKrupp di Torino, dove, a seguito di un grave incidente, morirono sette operai.

Confermando la fertilità espressiva connaturata allo spazio di ibridazione tra finzione e realtà nel quale si collocano le opere appena citate, negli ultimi anni numerose sono così le opere digitali che, pur percorrendo strade molto diverse tra loro, si ritrovano a frequentare il medesimo territorio, esplorandone ogni possibile anfratto linguistico ed esplicitandone la profonda congenialità con lo strumento digitale.

Esempio particolarmente alto in tal senso è il più volte menzionato Private di Saverio Costanzo, debutto che si conquista nel 2004 il Pardo d’Oro al Festival di Locarno per il miglior film e per la migliore interpretazione maschile (Mohammed Bakri).

Il film si costituisce come work in progress a partire da un copione appena abbozzato destinato ad essere ‘scritto’ direttamente dal dispositivo nel corso delle riprese effettuate in Calabria, presso Riace, con attori quasi interamente provenienti dalle cinematografie palestinese e israeliana, calati nella situazione di convivenza forzata del set. Ad agire in questo caso è uno strumento che, grazie alle ridotte

Publ

ishe

d by

Man

ey P

ublis

hing

(c) T

he D

epar

tmen

t of I

talia

n St

udie

s, U

nive

rsity

of R

eadi

ng &

Dep

artm

ent o

f Ita

lian,

Uni

vers

ity o

f Cam

brid

ge322 the italianist 29 · 2009

dimensioni e alla sua versatilità, viene costantemente immerso all’interno della scena, penetrandone le maglie, confondendosi tra gli interpreti, avvicinandone i corpi fino quasi a toccarli, sconvolgendo qualsiasi principio di grammatica filmica a tutto vantaggio della performance attoriale, lasciata libera di espletarsi grazie all’uso dei long take.

Su tali basi si edifica un realismo debitore di certa pratica rosselliniana e, in quanto tale, fortemente contraddistinto da un’ambiguità formale che trova proprio nello statuto dell’icona digitale la condizione per la sua massima espressione. A conferire nuova forza e significato alla dialettica documento/finzione, realtà/simbolo è qui, infatti, proprio l’immagine post-fotografica, la cui natura rivela un’inedita attitudine a trasfigurare la realtà in una nuova forma, dando concretezza all’esigenza di costruire, a partire dall’epifania del reale, una dimensione simbolica che possa sfiorare persino l’irrealismo. È in tal modo che Private si profila come uno degli esordi più interessanti e rappresentativi della ‘meglio gioventù’ cinematografica di inizio millennio;41 l’emblema di un ‘modello digitale’ che anche in Italia riesce a dimostrarsi strumento seducente tanto sul piano espressivo quanto su quello teorico.

Proprio con tale esempio filmico si vuole concludere questo itinerario necessariamente sommario all’interno dei territori che definiscono il cinema italiano del nuovo millennio; un panorama contraddistinto, come sottolineano Francesco Casetti e Severino Salvemini, da ‘una nuova attenzione al racconto: meno “di testa”, aperto a storie ispirate a generi prediletti dal pubblico nazionale, tutt’altro che autoreferenziale e in grado di interessare fasce sempre più ampie di spettatori’.42 Un cinema insomma qualificato, nelle sue punte di eccellenza, dalla voglia di tornare a rischiare, portando definitivamente la cinepresa (o la videocamera) fuori dai famigerati ‘ottanta metri quadri’ di certa produzione claustrofobica degli anni passati, recuperando al contempo la migliore lezione impartita dalle generazioni precedenti.43

Dopo aver ‘messo a morte’, da adolescente, i propri padri, questo nuovo cinema sembra infatti avviato a recuperare con maturità il rapporto con quegli stessi ‘genitori’ di cui si ripensa l’eredità senza più timori reverenziali, bensì per prelevarne modelli e linee guida utili a meglio decifrare, comprendere e interpretare il presente.

Note1 Gian Piero Brunetta,

(Roma-Bari: Laterza,

2007), p. 627.

2 Mariagrazia Fanchi, ‘Il cinema italiano nei contesti di

visione’, in

a cura di Francesco Casetti e Severino

Salvemini (Milano: Egea, 2007), pp. 113-24 (pp. 114-15).

3 Gianni Canova, ‘Eppur si muove: innovazione, rottura,

discontinuità’, in

Publ

ishe

d by

Man

ey P

ublis

hing

(c) T

he D

epar

tmen

t of I

talia

n St

udie

s, U

nive

rsity

of R

eadi

ng &

Dep

artm

ent o

f Ita

lian,

Uni

vers

ity o

f Cam

brid

geUva · Nuovo cinema Italia 323

, a cura di Vito Zagarrio (Venezia:

Marsilio, 2006), p. 33-39 (p. 33).

4 Hal Foster,

(Cambridge, MA: MIT Press, 1996);

traduzione italiana,

(Milano: Postmedia, 2006).

5 Dal titolo di un altro volume: Marco Bertozzi,

(Torino:

Lindau, 2007).

6 Giovanna Taviani e Daniele Vicari, ‘La realtà torna al

cinema: sette interviste a registi e sceneggiatori italiani’,

, 57 (2008), 55-73 (p. 69).

7 Giovanna Taviani, ‘Inventare il vero: il rischio del reale

nel nuovo cinema italiano’, , 57 (2008), 82-93

(p. 83).

8 Taviani e Vicari, p. 71. L’opera a cui si riferisce è diventata

poi (2008), ispirata al romanzo

( , 1965) di Truman Capote.

9 Roy Menarini e Giovanni Spagnoletti, ‘Istruzioni per l’uso:

forme della politica nel cinema italiano contemporaneo’,

, 23 (2008), p. 3.

10 Le stesse tematiche su cui punta l’attenzione anche

Renzo Martinelli con (2003), sulla

vicenda Moro, Giuseppe Ferrara con titoli come

(2002), sul caso Calvi-Sindona, e

(2007), sull’operaio sindacalista ucciso dai

terroristi nel 1979, e Paolo Benvenuti con

(2003), opera che tenta di gettare nuova luce sulla strage

di Portella della Ginestra, la prima ‘strage di Stato’.

11 Enrico Carocci, ‘Paolo Sorrentino, l’immaginazione e il

potere’, in

a cura di Vito Zagarrio (Torino: Kaplan, 2009), pp. 92-97

(p. 96).

12 Con riferimento a quest’ultima opera, affiancata al

morettiano, Vito Zagarrio scrive tra l’altro: ‘film

come e non sono solo

importanti come politici sull’oggi […] ma

anche come grandi sforzi visionari, come indagini sulla

struttura e sulla composizione stessa del Cinema’. Vito

Zagarrio, ‘Certi bambini…I nuovi cineasti italiani’, in

, pp. 11-20 (p. 19).

13 Pietro Montani, ‘Senso della storia e debito della

finzione: una lettura di ’, in

, a cura di Carlo Tatasciore (Milano: Bruno

Mondadori, 2006), pp. 86-95 (p. 93).

14 Alan O’Leary,

(Tissi: Angelica, 2007), p. 22.

15 Brunetta, p. 658.

16 Per una ricostruzione sistematica del dibattito su

fascismo, cultura e cinema dagli anni Settanta ai Duemila

si rinvia a Vito Zagarrio,

(Roma: Bulzoni,

2009).

17 Millicent Marcus,

(Toronto: University of Toronto Press, 2007),

p. 113.

18 Nato da un gruppo di intellettuali e personaggi pubblici

che, in difesa dell’autonomia della magistratura, per primi

hanno pensato di organizzare un ‘girotondo’ intorno al

Palazzo di Giustizia di Milano il 26 gennaio 2002.

19 Alberto Crespi, ‘Il Caimano’, , 24 marzo 2006,

p. 14.

20 Vincenzo Buccheri, ‘Tutta la vita davanti’, ,

153 (2008), p. 75.

21 Ad essi si devono affiancare, anche nel nuovo millennio,

il genere melodrammatico incarnato dal cinema di Ferzan

Ozpetek e l’horror di Dario Argento.

22 Mario Molinari, ‘Natale in crociera’, , 153

(2008), p. 55.

23 Canova, p. 34.

24 Brunetta, pp. 614-15.

25 Casetti e Salvemini, p. 3.

26 Si noti, tra l’altro, che l’inevitabile ricorrere del tema

e, letteralmente, della parola in tale contesto

appare per taluni aspetti come una radicalizzazione di

una tendenza che Brunetta rileva non secondaria anche

nel cinema italiano più ‘colto’, quello cioè fortemente

imperniato sul tema della passione amorosa intesa

in un’accezione perlopiù disgiunta dalla dimensione

prettamente sessuale: ne sono testimonianza alcuni titoli

paradigmatici, da (2000) di Sergio

Rubini a (2004) di Carlo Mazzacurati, da

di Giuseppe Bertolucci a

(2003) del cantautore Franco Battiato, fino a

(2003) di Pupi Avati, (2004)

Publ

ishe

d by

Man

ey P

ublis

hing

(c) T

he D

epar

tmen

t of I

talia

n St

udie

s, U

nive

rsity

of R

eadi

ng &

Dep

artm

ent o

f Ita

lian,

Uni

vers

ity o

f Cam

brid

ge324 the italianist 29 · 2009

di Matteo Garrone, di Paolo

Sorrentino o (2005) di Renato De Maria.

27 Jean-Loup Bourget, ‘I generi hollywoodiani’, in

, a cura di Gian Piero Brunetta, 5 volumi

(Torino: Einaudi, 1999-2001), II: (2000),

1535-68 (p.1550).

28 Zagarrio, ‘Certi bambini’, p.16.

29 Guido Bonsaver, Martin McLaughlin, e Franca Pellegrini,

‘Sinergie, quali sinergie?’, in

, a cura di Guido

Bonsaver, Martin McLaughlin, e Franca Pellegrini (Firenze:

Cesati, 2008), pp. 11-21 (pp. 13-14).

30 Si veda Ronald De Rooy, ‘ : un

romanzo filmico e un film letterario’, in Zagarrio,

, pp. 264-72 (p. 264).

31 Caso tutto a parte in tale contesto è quello di Cristina

Comencini che affianca all’attività di regista una parallela

e prolifica carriera da scrittrice.

32 Dichiarazione di Riccardo Tozzi citata nel comunicato

stampa conclusivo del Book Film Bridge 2007.

33 Autore per altro scoperto letterariamente proprio

da Riccardo Tozzi il quale, scovato il manoscritto che

circolava quasi clandestino tra gli studenti romani, ne

suggerì la pubblicazione all’editore Feltrinelli, ottenendo

come risultato per il libro e per il film, usciti quasi

simultaneamente, una reciproca e contemporanea

promozione.

34 Wu Ming 1, ‘Noi dobbiamo essere i genitori’, ,

8 ottobre 2008.

35 Pierpaolo De Sanctis, ‘Da Saviano a Garrone. Oltre lo

specchio: visionaria’, in

, a cura di Pierpaolo De

Sanctis, Domenico Monetti e Luca Pallanch (Cantalupo in

Sabina (RI): Edizioni Sabinae, 2008), pp. 35-44 (p. 36).

36 , per l’appunto, di Carlo Mazzacurati

(2007).

37 Walter Benjamin,

(Francoforte: Suhrkamp,

1955); traduzione italiana,

(Torino:

Einaudi, 2000), p. 69.

38 Giuseppe Bertolucci, ‘Giornale di viaggio (il digitale e

dintorni)’ , 14 (2003), pp. 21-27 (p. 22).

39 A partire dal 2000 il numero degli esordi assoluti è

piuttosto rilevante: solo nella stagione 2004-2005 tale

quota ammonta a ben il 35% di tutta la produzione

nazionale.

40 Vito Zagarrio, ‘Gli esordi: il modo di produzione degli

esordienti. Due film in uno?’, in

, a cura di Franco

Montini (Torino: Lindau, 2002), pp. 170-76 (p. 171).

41 Per fare riferimento al più volte citato volume curato

da Vito Zagarrio,

, uscito in occasione del XX Evento

Speciale tenutosi nell’ambito della 42a edizione della

Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. In tale

contesto è stata presentata una retrospettiva sulle più

interessanti opere prime prodotte tra il 2000 e il 2006, da

(2002) di Francesco Patierno a

(2005) di Kim Rossi Stuart, da

(2003) di Antonio Bocola e Paolo Vari a

(2004) di Vittorio Moroni, oltre naturalmente ai molti

titoli già citati nel saggio.

42 Casetti e Salvemini, p. 4.

43 (1993) è un film a episodi di

Cecilia Calvi, Luca Manfredi, Ignazio Agosta, Dido Castelli,

e Luca D’Ascanio in cui si racconta, secondo prospettive

di volta in volta differenti, il rapporto tra i due sessi

contestualizzato in un ‘interno’.

Christian Uva, Università Roma Tre [email protected]

© Department of Italian Studies, University of Reading and Departments of Italian, University of Cambridge and University of Leeds

10.1179/026143409X12488561926621