Metamorfosi di Edipo nell’arte figurativa tra Otto e Novecento, in F. Citti A .Iannucci (a cura...

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Gian Luca Tusini METAMORFOSI DI EDIPO NELL’ARTE FIGURATIVA TRA OTTO E NOVECENTO 1. L’ombra di Freud Per tradizione scolastica e accademica (non da tui acceata) la no zione di ‘arte contemporanea’ copre un periodo fin troppo esteso, e si stende da fine Seecento ai giorni d’oggi. Un lasso di tempo lunghissimo e accorpa Neoclassicismo e Impressionismo, Avanguardie storie e Pop art, Performance, Posthuman, Ecleismo, Neoconceuale (e po tremmo continuare), fino alle ultimissime tendenze e controtendenze. A ben vedere una cesura, un giro d’anni cruciale in cui le cose cambiano, non solo rispeo ai decenni precedenti, ma a tua una con cezione dell’arte e bene o male aveva tenuto dal Rinascimento e dal l’Antiità, c’è, eccome: dopo l’orgia visiva dell’Impressionismo e il suo bagno nella sostanza mondana, il Simbolismo allontana il mondo di pinto dalla realtà verso i regni dell’Idea. Poco dopo, l’urlo primordiale degli espressionisti (Ursrei) partorisce figure mostruose, il Futurismo celebra un mondo sintetico e dinamico, mentre il Cubismo ricostrui sce intelleualisticamente la realtà, dando l’abbrivio a tue le poetie neoplastiecostruiviste. E dopo tuo questo distruggere e riplasmare, ecco Duamp e dice e non c’è quasi bisogno di fare un’opera d’ar te: basta pensarla. Tuo questo per precisare e il vero punto di svolta sta nei primi anni del secolo ventesimo, con quale avvisaglia appunto nella stagione simbolista: dopo di e, nulla sarà come prima. Nuove energie, di natura psiica, di natura eleromagnetica (ma non condividono, ambedue, la

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Gian Luca Tusini

METAMORFOSI DI EDIPO NELL’ARTE FIGURATIVA

TRA OTTO E NOVECENTO

1. L’ombra di Freud

Per tradizione scolastica e accademica (non da tutti accettata) la no­zione di ‘arte contemporanea’ copre un periodo fin troppo esteso, che si stende da fine Settecento ai giorni d’oggi. Un lasso di tempo lun ghis simo che accorpa Neoclassicismo e Impressionismo, Avanguardie sto riche e Pop art, Performance, Posthuman, Eclettismo, Neo con cett ua le (e po­tremmo continuare), fino alle ultimissime tendenze e con tro ten den ze.

A ben vedere una cesura, un giro d’anni cruciale in cui le cose cambiano, non solo rispetto ai decenni precedenti, ma a tutta una con­cezione dell’arte che bene o male aveva tenuto dal Rinascimento e dal­l’An tichità, c’è, eccome: dopo l’orgia visiva dell’Impressionismo e il suo ba gno nella sostanza mondana, il Simbolismo allontana il mondo di­pin to dalla realtà verso i regni dell’Idea. Poco dopo, l’urlo primordiale de gli espressionisti (Urschrei) partorisce figure mostruose, il Futurismo ce lebra un mondo sintetico e dinamico, mentre il Cubismo ricostrui­sce in tellettualisticamente la realtà, dando l’abbrivio a tutte le poetiche neo plastiche­costruttiviste. E dopo tutto questo distruggere e ripla sma re, ecco Duchamp che dice che non c’è quasi bisogno di fare un’opera d’ar­te: basta pensarla.

Tutto questo per precisare che il vero punto di svolta sta nei primi anni del secolo ventesimo, con qualche avvisaglia appunto nella stagio ne simbolista: dopo di che, nulla sarà come prima. Nuove energie, di na tura psichica, di natura elettromagnetica (ma non condividono, am be due, la

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stessa origine?) attraversano l’uomo e l’orizzonte mondano, mett endo in loop una sensibilità estetica nuova con cui fare i conti1.

Anche per Edipo, dall’inizio del Novecento in poi, nulla sarà come nei primi venticinque secoli e oltre della sua storia, dal momento che la sua iconografia cambia; e non si tratta solo di un cambiamento sti li sti co, legato a ciò che abbiamo appena ricordato, rispetto alla fortuna clas sica / neoclassica del soggetto: in molti casi non si può pensare a Edipo, nell’ar­te del Novecento, senza fare i conti con Sigmund Freud (più che con gli aggiustamenti teorici di Jung), ma anche con le sue cor ri ve applicazio­ni che indicano nell’eroe tebano la personificazione mi ti ca e ancestra­le del desiderio incestuoso e parricida nell’infanzia. Il tutto con buona pace di Jean­Pierre Vernant, poiché, se è indubbio che «l’in ter pretazione freudiana della tragedia in generale, dell’Edipo re in par ti colare, non ha influenzato i lavori degli ellenisti [che] hanno con ti nua to le loro ricer­che come se Freud non avesse parlato»2, è altrettanto ve ro che le teorie freudiane, banalizzate quanto si vuole al punto da di ven tare talvolta solo suggestioni o luoghi comuni, hanno filtrato la con sapevolezza di Edipo nella cultura contemporanea, popolare e non.

Occorre però aggiungere subito che il tema non è poi così fre quente tra gli artisti, quasi che la sua trattazione diventasse una pro ble ma tica messa a nudo del proprio inconscio, una sorta di auto­anamnesi nel­le pieghe più nascoste dell’io. Solo in poche occasioni la trian go la zio ne formata da Edipo, Freud e l’artista stesso, sembra avere avuto un fon­damento dal punto di vista propriamente psicanalitico. Per il resto mol­te sono state le congetture, spesso a buon mercato, di non pochi cri ti ci cui non è parso vero di psicanalizzare sic et simpliciter quel dipinto o quel disegno, a prescindere addirittura dal soggetto mitico­ico no gra fi co. È d’altra parte vero che taluni artisti novecenteschi che si sono im battuti in Edipo, sembrano aver accuratamente evitato qualsiasi e qui voca sug­gestione, consegnando l’iconografia a un aggiornato clas si cismo. Ma an­che in tal caso potrebbe sorgere il dubbio che costoro ab biano optato per una prudente e pudibonda reticenza, preferendo una ico nografia col­laudata (pur se aggiornata), sostanzialmente pro so po gra fica, dalla quale però potrebbero talvolta trasparire intriganti indizi.

1 Cf. Barilli 2005.2 J.P. Vernant, Edipo senza complesso, in Ver nant — Vidal­Naquet 1976, 71.

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Venendo poi a questioni di metodo potrebbe essere che il fermarsi all’Edipo sofocleo (in primis) e, in second’ordine, alla sua interpre ta zio­ne ‘freudiana’ o ‘junghiana’, senza tener conto delle riletture che sono state fatte in seguito, sempre in chiave critica, psicanalitica e/o antropo­lo gica (da Ernst Bloch, a James Hillman, a Claude Lévi­Strauss, Vladi­mir Propp, fino a Jacques Lacan o addirittura a Deleuze e Guattari con l’An ti-Edipo) potrebbe essere limitante; così come prediligere Sofocle, ri spetto alle varie rivisitazioni del mito, fatte nei secoli a seguire (da Se­ne ca a Corneille, a Voltaire e soprattutto forse al più ‘freudiano’ von Hof­mann sthal).

Ma, in effetti, quello che sembra più suggestionante è proprio il nu­cleo mitico in quei termini essenziali e – in un certo senso, come ap­pun to obbiettava Vernant – antistorici e antitragici, che Freud ha ap pli­ca to alle pulsioni erotico­infantili. Inoltre, cercare trascrizioni pitt o ri­che, riduzioni figurative iconologicamente complesse del dibattito psi­ca nalitico sarebbe inutile, e nella maggior parte dei casi non porterebbe a nulla. La dissoluzione e la riconversione del mito edipico nell’arte del No vecento obbligano a partire ogni volta dall’opera stessa, per tentare di ricomporre un mosaico frammentato. Non è un caso che lo stesso Bre ton «had made a point about symbols which is essentially the psy cho analytic one: that anything could in fact be used to symbolize any thing else in the unconscious, ‘tout, au bésoin, peut servir de symbole’»3.

Occorre tuttavia procedere con ordine. Il secolo decimonono sem­bra preferire, nei non numerosi riferimenti iconografici, i luoghi no te­vo li della vicenda umana di Edipo nella narrazione sofoclea, vale a dire il trionfo della sua intelligenza contro le forze oscure e, d’altra parte, la ine vitabile ‘catastrofe del suo eroico destino’, disposta dalla superio­re vo lontà delle potenze religiose: a titolo di esempio, il confronto con la Sfin ge nelle opere di Jean­Auguste­Dominique Ingres e di Gustave Mo reau, su cui presto ci intratterremo, ma anche il buio esilio, soste­nuto dal la fida Antigone, nella desolazione immaginata da Fulchran­Jean Har riet (Edipo a Colono, 1798) o nell’enfasi teatrale di un attardato Char les François Talibert (Edipo e Antigone, 1860) che presenta Edipo come φαρμακός, capro espiatorio bandito per allontanare il μίασμα o – per finire – la drammatica scena finale della predizione della morte,

3 Legge 1986, 51.

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co me la dipinse l’anglo­elvetico Füssli (Edipo riceve in presenza delle fi glie la predizione della propria morte, 1784). L’artista immaginò un a po calittico vegliardo, pianto da Antigone e Ismene, che ci fa ricordare i ver si sofoclei: «“O figlie, in questo giorno voi non avete più un padre […]” Tali lamenti singhiozzando levavano, abbracciati l’uno alle al tre»4. Edipo sta infatti per essere inghiottito nelle tenebre dello sfondo, scre­ziate da deboli e fantasmatici bagliori lampeggianti, «poiché non lo fi­nì un fiammeggiante fulmine del dio, né una procella levatasi dal ma re in quel momento ma una guida venuta da parte degli dei, oppure l’a ­bisso sotterraneo senza luce, a lui spalancandosi benigno»5. A questo pro posito vale la pena spendere qualche parola in più: Johann Heinrich Füssli (1741­1825)6 fa parte di quella pattuglia di ‘pittori dell’imma gi na ­rio’7 cui giustamente si appiccica l’etichetta di preromantico, nella ac­cezione nordica, di timbro Sturm und Drang, disposta alla scoperta del la linea d’ombra dell’inconscio, dell’irrazionale.

Tutto questo andrebbe però forse meglio discusso, non mancando di notare (al di qua di ogni riferimento precisamente freudiano, che sa­reb be quantomeno anacronistico) che Füssli, assieme ad altri artisti che la critica usa rubricare con diverse etichette (William Blake, An to nio Ca ­nova, Jacques­Louis David, William Turner ecc.) cominciano ve ra men­te a rivelare, pur in forma embrionale e sperimentale, quelle sin go la ri caratteristiche che matureranno più tardi e saranno distintive della Età contemporanea. In altre parole, questi artisti dell’‘alba del contem po­raneo’, rivelano «uno zampillare di energie primarie, di intensità e for za altrimenti incomprensibili»8 nelle quali si può riconoscere una an cora confusa coscienza delle forze del profondo o addirittura delle for ze re­condite della fisica.

Al di là e al di fuori da ogni ambientazione archeologica, l’Edipo di Füssli si appresta dunque a varcare le soglie dell’Ade, pianto dalle figlie ac casciate ai suoi piedi, in una composizione piramidale, tra clas si ci smo e neomanierismo, il cui statico equilibrio è però subito minato dal ma­

4 Soph. OC 1611­1612; 1620­1621, trad. ?????, ?????.5 Soph. OC 1658­1662.6 Esiste un altro dipinto di Füssli la cui iconografia si riferisce sempre all’Edipo a Co lo no, intitolato Edipo maledice il figlio Polinice, 1786.7 Cf. Briganti 1977.8 Barilli 1996, 9.

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nifestarsi di quelle misteriose energie endogene che la scienza del tem po cominciava a indagare.

Nel nostro percorso ci soffermeremo su pochi esempi, avendo già chia ro subito che la stessa levigata e massiccia corporeità di un eroico Edi po, ancora visibile nella sua florida giovinezza o nella drammatica se nescenza in tutta la pittura ottocentesca, nel Novecento cede talvolta il passo a una frammentazione, a una dissoluzione e a una simmetrica con densazione che molto deve – consapevolmente o no – alla analisi freu diana del sogno, cioè al fatto che «dobbiamo prendere come og get­to della nostra attenzione non il sogno nel suo insieme, ma parti se pa­ra te del suo contenuto», superando in tal modo la tradizione popola­re del l’interpretazione onirica su base simbolica o allegorica9, tenendo pre sente anche il fatto che i sogni dispongono di «certi ricordi che sono inac cessibili nella vita da svegli»10.

2. Il balzo della sfinge

Veniamo dunque a due capolavori ottocenteschi su cui la critica non ha mancato di concentrare le sue legittime argomentazioni; per questio­ni di buon metodo non si può certo tirare in ballo Freud, ma non si è per­sa l’occasione di vedervi, a diverse condizioni, implicazioni al legoriche non di poco conto, generalmente comprese entro l’orizzonte del fare ar­tistico, della attività pittorica vera e propria in rapporto al mi lieu cultu­rale dell’epoca e alla storia personale degli artisti, forse pe rò anche con qualche malcelata tentazione (psico)analitica.

Edipo e la Sfinge di Jean­Auguste­Dominique Ingres (1780­1867), di­pinto nel 1808 (Fig. 1) e inviato in Francia da Roma ove l’artista era pen-sion nai re come vincitore del Prix de Rome, e il medesimo soggetto ad opera di Gustave Moreau (1826­1898) compiuto nel 1864, hanno buone ra gio ni per esser confrontati. Ingres concepisce la Sfinge quasi come una di vi nità sull’altare che interroga il futuro re di Tebe – citata sullo sfondo – il cui eroico corpo atletico non sembra dimostrare la menomazione in­flittagli da Laio. I resti degli sfortunati predecessori che si sono mi su ra­ti con la «dura cantatrice» (σκληρά ἀοιδός)11 si sve la no in primo pia no,

9 Freud 1983, 10210 Freud 1983, 33.11 Soph. OT 36.

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e il piede di un malcapitato che sbuca dal fondo al lude forse al de stino Edipo.

Alcuni particolari della tela furono modificati o aggiunti da Ingres di versi anni dopo, per esibire l’opera a Salon del 1827, in modo da me­glio connotare e dare un senso profondo a quello che era in origine un eser cizio accademico. Secondo James H. Rubin proprio in questo sta la na tura allegorica e, in un certo senso autobiografica, del dipinto: la for­za della ragione e lo sguardo penetrante dell’eroico Edipo che risolve co raggiosamente l’enigma (anzi, commenterà Barbey d’Aurevilly: «Oe­di pe debout semblait provoquer l’enigme»)12, dietro cui si celano le po­ten ze occulte, si convertirebbero nella personalità artistica di Ingres me­desimo alle prese con quel conformismo accademico che si arresta al la superficie della natura senza potere o volere andare più a fondo. In tal modo «the force of reason, with which Oedipus confronts the Sphinx, is comparable to the force of penetrating vision, with which the artist must confront, dominate, and ultimately clarify nature»13.

Una lettura del genere sembra del tutto legittima, pur se opinabile, vi sto che non è raro che attraverso un camouflage di carattere storico o mi tologico, l’artista superi una certa assodata iconografia per spingersi verso i domini dell’ allegoria, al fine di delineare, in sottotraccia, un si­gni ficato più personale o occasionale. Curioso però constatare come il Ru bin, forse ben consapevole che la identificazione dell’artista in Edipo po tesse innescare pericolose allusioni di tipo psicanalitico ante litteram, sem bra usare qualche cautela, argomentando in modo piuttosto con tor to sulla possibile omologia tra pittore ed Edipo. Lo studioso fa infatti no­tare come Ingres si sarebbe in un qualche modo voluto identificare in un altro dipinto, mai terminato, Ercole e i Pigmei, poi sostituito dal l’E dipo come testimonianza dell’attività romana. Ingres scrisse infatti nel 1806, in una lettera al suo futuro suocero: «May I one day, a new Her cules, hold in my hand and put in my lionskin those of my jealous colleagues who attack me»14. Secondo Rubin la definitiva versione di Edi po (ricor­diamo che il dipinto fu modificato da Ingres stesso prima del 1827), meno anodina e più ricca, si accorderebbe assai bene con la vo lontà dell’auto­re di identificarvisi, come egli stesso aveva già espli ci ta mente ammes­

12 Cit. in Cuzin — Salmon 2006, 135.13 Rubin 1979, 133.14 Rubin 1979, 131.

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so per Ercole. Lo studioso afferma infatti che «while I am unaware of any document that says Ingres actually saw himself as an Oedipus, and even his reference to himself as Hercules might have been a joke» non ci sarebbero d’altra parte ragioni per rifiutare una tale ipotesi. Addirittura, egli soggiunge (avvicinandosi perico lo sa men te, solo per un attimo, a te­matiche freudiane) che questa affinità tra In gres e Edipo «is relegated to the inconscious or semi­conscious level», aff rettandosi però a rientrare nei limiti del buon senso storico, con si de ran do che «such identifications between artist and hero were so com mon in romanticism that it would be historically blind to refuse the oppor tunity to exploit it»15.

Il dipinto di Ingres dovette ben fornire l’ispirazione a Gustave Mo­reau per il suo Edipo e la Sfinge (1864: Fig. 2), contemporaneo, tra l’altro, a una ulteriore ultima versione del vecchio maestro con la quale si no­ta no alcune tangenze. Anzi, «Moreau’s Oedipus is clearly conceived as a challenge»16 proprio nei confronti di Ingres e fu salutato al Salon del 1864 come la speranza che la pittura di storia, la pittura ‘alta’ non ave­va ceduto del tutto all’ingresso della volgarità quotidiana nell’arte. Ma se, da un lato, il soggetto eroico­mitologico, il tenore ‘alto’ dell’opera, il citazionismo, o per meglio dire, le suggestioni rinascimentali che so no da più parti state notate, autorizzano a vedere l’opera nella grande tra­dizione classica, non c’è dubbio che una più accorta valutazione ci por ta a considerarlo un dipinto già affacciato su nuovi scenari estetici.

È ben vero che Moreau fu suggestionato dai grandi maestri pre raf­fael leschi amati e studiati durante il suo soggiorno italiano e, suc ces si­va mente, a Parigi, visitando la collezione Campana, esposta al Louvre nel 186217. Charles Clément bollò, sul Journal des Débats nel maggio del 1864, le suggestioni mantegnesche ravvisabili in Edipo come abba stan­za ingenue perché «exemples qu’il suit avec la ferveur d’un néophyte» pur comprendendo come questa eccessiva aderenza al passato fosse de­ter minata dall’incertezza dei tempi18. Ma è un fatto che «Moreau’s ar­chaising homage to the hard, linear quattrocento style of Mantegna, Si­gnorelli, Tura and others indicates a fundamental reaction against the

15 Rubin 1979, 131.16 Cooke 2004, 611.17 Id., 610.18 Cit. in Id., 611.

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soft decadence often perceived in contemporary Salon paintings»19. Il linearismo quattrocentesco che nelle suggestioni di Mantegna e dell’ ‘officina ferrarese’ si arricchisce di artificiose preziosità minerali è per­fett amente consono a un ideale estetico sofisticato e antinaturalistico, par nassiano, allora in voga, ma che presto si convertirà a quelle sug ge­sti ve evocazioni che la stagione simbolista, ormai alle porte, andava in­di cando. Anche in Edipo «ogni particolare è tornito, levigato, bloccato in una spettrale ibernazione»20, tanto che non c’è paradossalmente quel sen so di racconto, di ambientazione che Ingres aveva ritenuto neces sa­rio; addirittura Moreau scelse, tra sei possibili episodi riferiti alla leg gen­da di Edipo abbozzati sul suo quaderno di schizzi, proprio il mo men to dell’incontro con la Sfinge21.

La critica del tempo vide poi, sulla scorta della scelta stilistica neo­quatt rocentesca, un certo spirito ascetico, piuttosto che classico, tanto da suggerire interpretazioni allegorico­moralistiche che trovano con fer ma in considerazioni più generali nelle lettere dell’autore stes so22. Ma quel che appare notevole e innovante nell’iconografia è il bal zo, l’ag gressione di una Sfinge sensuosa e algida, che fissa ipno ti ca men te un Edipo im­passibile, tra ricercate citazioni antiquarie (l’urna e la co lon na, mutuate da incisioni di Piranesi) e l’orrido dello sfondo. Se in In gres la Sfinge ed Edipo potevano contare su una impaginazione spa zia le che teneva ben distinte le forze ultraterrene dall’uomo (l’anfratto in cui troneggia in ag­guato la «dura cantatrice»), qui invece il mistero cer ca di insinuarsi con femminea dissimulazione quasi a provocare il fu turo re tebano, violan­done il corpo eroico scaltramente, con irruenza ma anche con equivoche blandizie.

Ebbene questa sorta di ‘corpo a corpo’ di cui lo stesso Moreau par la nelle sue lettere (ma nel senso più generale di un faticoso esercizio, un «lutter corps à corps avec une œuvre»)23, viene interpretato da Scott C. Allan come una lotta tra il pittore e materia, attuando anche in que sto caso una sorta di transfert psicologico di Moreau in Edipo. Ma, att en­zione, non si tratta di una lotta tra Edipo e la Sfinge, come si po treb be

19 Id., ibid.20 Barilli 1967, 321 Cf. Lacambre 1999, 78.22 Cf. Cooke 2004, 612.23 Cit. in Allan 2008, n. 34.

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arguire superficialmente, quanto piuttosto del fatto che Edipo, o me­glio l’artista­eroe, mette le proprie fatiche sotto l’egida protettrice della Sfin ge per perseguire il proprio ideale, interrogando i misteri degli an­ti chi maestri (incarnati dalla Sfinge, appunto) e rimanendo così im mu­ne dalle facili glorie del mondo: «Has Moreau not painted the image of the artist­hero fixed upon his ideal (in the form of the sphinx), an artist who has overcome the superficial lures of worldly fame, official honors and material success, the emblematic signs of which litter the bottom of the composition and are associated with the sphinx’s victims? […] Oe-dipus stands as a testament to that credo»24. Una siffatta inter pre ta zio ne può certo coincidere, occasionalmente, con la storia privata del l’ar tista, ma questa vicinanza della Sfinge a Edipo non ci sembra leg gi bi le uni­vocamente in termini così propositivi ed etici, bensì come un effi cace monogramma dei complessi equilibri della coscienza e del de si derio. In conclusione, sembra che proprio il balzo della Sfinge an nun ci qualche cosa di nuovo nell’iconografia: il tentativo delle potenze e nig ma tiche e misteriche di scalfire l’atletico e levigato corpo di Edipo per insinuarvisi, è un primo avviso di quella fusion frammentaria che il No vecento e le avanguardie ormai alle porte definiranno.

Comune a Ingres e a Moreau è l’insistenza sulla intensa forza del­lo sguar do che incatena τὰν γαμψώνυχα παρθένον, «la vergine dagli adun chi artigli»25 a Edipo in una sorta di muto colloquio, in una sfida ine luttabile contro il mistero. Ma fatalmente proprio da quello sguardo co raggioso e limpido di Edipo, si verseranno non già «liquide stille di san gue» ma addirittura «una nera pioggia, una sanguinosa tempesta»26 una volta che sarà stato disvelato (ἀναγνώρισις) il suo destino.

Ma se in Moreau27 il rapporto tra i due esseri si mostra ambigua­men te sospeso, nella resa di un altro celebre pittore simbolista, Fernand

24 Allan 2008, 6.25 Soph. OT 1199.26 Soph. OT 1276­1279. Cf. anche Bettini — Guidorizzi 2004, 121.27 Gustave Moreau dipingerà nel 1887 un’altra tela con Edipo e la Sfinge, laddove però l’e roe è ‘derubricato’ nella figura dimessa di un povero viandante (l’opera è infatti co­no sciu ta come The Wayfarer) che, timoroso, si presenta a una preziosa e dura Sfinge, trion fante sulle sue vittime. Dalle note stese a commento dallo stesso autore sembra che in Edipo si possa riconoscere il destino dell’uomo davanti al mistero della morte e all’i­gnoto: «bowed down by the weight of life, he has scaled the great height, he reaches the platform, a natural altar where absides the monster […]. The enigma is there for all. It is

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Khnopff (La Sfinge, 1896: Fig. 3) il mostro ha acquisito le sembianze se­mi fe ri ne e voluttuose di una misteriosa e suadente femme fatale, icona assai ti pica di quel passaggio tra i due secoli. Non più dunque quel­la ag gres sio ne sospesa dipinta da Moreau: ora una Sfinge dalla subdo­la espres sio ne – veramente una «cantatrice ingannevole» (ποικι λῳ δὸς Σφίγξ)28 – blandisce un efebico e troppo giovane Edipo, dis si mu lando, in un tratt enuto trasporto, una seduzione velenosa e fatale, non senza ac­centi tor bidi e allusivi29.

3. Schegge di Edipo

Passato il periplo del secolo, dopo le avanguardie – troppo im pe­gna te con problemi di forma e di rinnovamento epocale per andare a ri­spolverare un mito che forse non aveva più molto da dire – non po te va che essere la tematica meditata dal Surrealismo (dunque una att en zio ne alle più riposte pieghe della mente umana, la ricerca di una pur in distinta dottrina dopo il nichilismo dada) il più fertile terreno di col tu ra ove il seme della tradizione leggendaria di Edipo poteva crescere pro ducendo frutti abnormi. Surrealismo è, secondo la definizione del Ma nifesto del 1924, «automatismo psichico puro […] in assenza di qual siasi controllo esercitato dalla ragione»30. André Breton invocò ad di ritt u ra l’autorità di Karl Marx e di Sigmund Freud, quali numi tu te la ri in un doppio binario sociale­rivoluzionario e psicologico, sotto l’e gi da del la libertà, sostenen­do che «bisogna renderne grazie alle scoperte di Freud» poiché «l’imma­ginazione è forse sul punto di riconquistare i pro pri diritti» e ciò non può che avvenire nella fase onirica; e infatti «mol to op portunamente Freud ha concentrato la propria critica sul so gno»31.

È per altro ben noto che lo stesso Freud, che pure non aveva perso oc casione per applicare le sue dottrine al mondo dell’arte (basti per tut­ti il nome di Leonardo da Vinci)32 ed era egli stesso un collezionista con

the final ordeal, triumphant or fatal», cf. Lacambre 1999, 222.28 Soph. OT 130.29 Si veda poi nel contributo di Ieranò, supra, 206­207, la citazione di F. von Stuck, Der Kuss der Sphinx, 1895, che sembra indicare, in un voluttuoso amplesso, un’ulteriore fase, benché solo ‘fisica’ della fusione delle due entità.30 Breton 1987, 30.31 Breton 1987, 17.32 Cf. Freud 1988.

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gu sti abbastanza ‘orientati’33, si sentì chiamato in causa in modo del tut­to gratuito, tanto da dover rispondere a Breton stesso: «Benché io ri ce va tante testimonianze dell’interesse che voi e i vostri amici portate al le mie ricerche, io stesso non sono capace di spiegarmi che cosa sia e che cosa voglia il surrealismo. Può darsi che non sia fatto per capirlo, io che sono così lontano dall’arte»34. Con buona pace di Freud e pure del la sua non innocente falsa modestia, l’indubbia contiguità tra il pen sie ro freudiano e le poetiche surrealiste (come con altre teorie artistiche del Novecento) sono la ennesima conferma che la omologia tra arti e scien ze supera i confini dei diversi campi del sapere, secondo quella ine vitabile e natura­le collaborazione a distanza tra diversi operatori cul turali35.

La babele delle avanguardie storiche sovverte dunque quello che be ne o male era stato un assetto iconografico riconoscibile: con Oedi pus rex dipinto nel 1922 da Max Ernst (1891­1976: Fig. 4) scompare qualsia­si ri ferimento mitografico o archeologico. Non c’è Edipo, tantomeno la Sfin ge, men che meno Tebe, Corinto o il Citerone. L’unico elemento che sembrerebbe autorizzare il titolo è la didascalia in basso, simme tri ca a data e firma. Un affollato primo piano di apparenti nonsensi con den sati, dislocati e incombenti, messi in circolo da un automatismo psi chi co che evoca simboli criptici, parla effettivamente di un interesse rea le di Ernst per le teorie freudiane, conosciute per il tramite dello stes so Breton e di Paul Eluard e anche di una mascherata ammissione del proprio proble­ma edipico36.

Ma, in effetti, un insieme così caotico, costretto in una prospettiva an gusta e sfuggente, quasi dechirichiana, è esso stesso una nuova Sfin ge, un rebus che rivela la sua ragione nel vissuto dell’autore. L’att rez zo me­tallico che fora le dita (le cui punte, dietro la noce, ri cor da no la sa go ma del seno materno) sarebbe da mettere in relazione a uno stru men to per bucare le zampe agli uccelli da allevamento, in mo do da mar carne l’età (già citato in altre opere dall’artista) che trova la sua eco nei piedi forati dell’eroe; ma un tale attrezzo ha pure le am bi gue sem bian ze di una sega, cui è naturale associare la ca stra zione37. Così come la noce semichiu­

33 Cf. Le Pichon — Harari 1991.34 Cit. in De Micheli 1966, 180 n 00.35 Cf. Barilli 2007, 67. 36 Cf. Camfield 1993, 113. Per le sue ossessioni cf. Lippard 1970, 188 ss.37 Cf. Gee 1981, 86.

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sa potrebbe avere allusioni femminili e uterine38, ma la pre senza della freccia riporta indubitabilmente all’atto autolesionistico di Edipo, così come l’uccello (elemento fondamentale nell’analisi freu dia na) dipinto sulla destra, fu in effetti una presenza nelle allucinazioni di Ernst, quan­do egli, ancora bambino, mise in relazione la nascita del la sorella Loni con la morte del proprio pappagallo39, mentre il toro sa reb be un indizio della figura paterna.

Non è difficile vedere in tutto ciò pure una relazione con il celebre caso clinico del piccolo Hans, che diede a Freud lo stimolo per con ce pi re la sua teoria edipica, laddove il bambino (affezionatissimo alla ma dre e animato da un irrisolto odio ­ amore per la figura paterna), non si spie ga la nascita della propria sorellina e rimane turbato dalle diff e ren ze degli organi genitali tra maschio e femmina40. L’Oedipus risulta dun que esse­re, per Ernst, una propria personale elaborazione delle teo rie freudiane. Un altro riferimento a Edipo, o meglio alla Sfinge, diede Max Ernst in modo più ‘iconographically correct’ alcuni anni dopo, in un collage che frammenta e ricompone in modo originale il binomio Edi po / Sfinge, che però diventa ora una sorta di unico geroglifico, un es sere ridondante esso stesso enigmatico e combinatorio: il corpo virile di Edipo diventa corpo della Sfinge, privato del seno, che tiene tra le ma ni un leone. La meta­morfosi sembra così essersi compiuta; quel pro gres sivo avvicinamento di Edipo e della Sfinge, ancora ‘l’un contro l’al tro armati’ in Ingres, sem­pre più vicini in Khnopff, Moreau e von Stuck, ora si è rea lizzato in una irrisolvibile confusione nei labirinti dell’inconscio.

Tant’è; e non conviene forse prestarsi troppo al gioco di questa sel va iconologica, proprio per il carattere ambiguo, trascolorante che han no i simboli tanto nella prospettiva freudiana quanto in un più ge ne ra le con­testo storico artistico contemporaneo, ove lo spettatore è tenuto spes so in uno stato di tensione continua proprio per la polisemia tal vol ta inde­cidibile dell’opera, che rivendica un carattere ‘aperto’ su mol te pli ci spie­gazioni non necessariamente concordi. Lo stesso può dirsi per Sal va dor Dalì (1904­1989) la cui ‘paranoia critica’ si è misurata con sug gestioni freudiane ed edipiche, ma in modo laterale, come ad e sem pio nel dipinto

38 Cf. Legge 1986, 52.39 Cf. Simonis 1972, 31.40 Cf. Legge 1986, 51.

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L’enigma del desiderio (1929)41 ove compare, ossessivo, il riferimento alla madre perduta in tenera età.

Una sorta di apparente rappel à l’ordre ci viene invece presentato da Giorgio de Chirico (1888­1978), la cui poetica fu senza dubbio vi ci na, per un certo tempo, al surrealismo bretoniano, salvo poi prendere stra de di­verse. L’arte di de Chirico è improntata all’‘originarietà’ che il pitt ore ita­liano poneva tra i fondamenti della Metafisica e delle sue ri pre se, contra­riamente alla ‘originalità’ delle avanguardie esplosive e an tipittoriche. La sua è una poetica dell’eterno ritorno, del rivedere e del riscoprire, del dar forma a nessi imprevisti e in apparenza illogici, del la rivisitazione anche di se stesso, addirittura nella autocitazione, in di cando in tal modo una circolarità del tempo che preconizza già il pen siero postmoderno42.

De Chirico dipinse nel 1920 un singolare Edipo e la Sfinge (Fig. 5) ove gli ele menti ‘classici’ ci sono tutti, ma si colgono al contempo echi di com po sizioni precedenti e temi da lui molto frequentati; lo stesso Edi­po è di pinto in modo statuario, meditando l’enigma, incrociando forse qual che lontana allusione alla statua vivente del mito di Pigmalione. Lo stes so de Chirico poi, quando vendette il dipinto, ne cambiò il titolo in Il tempio di Apollo, forse per lasciare intatta la sua ‘enigmatologia’, o for­se – potremmo azzardare – per non scoprirsi troppo, proprio in ter mi ni freudiani. Lo stesso si può dire per un dipinto ancora precedente, Sfin ge (1909) ove un picco di scogliera a piombo sul mare assume le in quie tanti sembianze di una Sfinge scolpita. Anche di quest’opera l’ar ti sta mutò il titolo con un meno conturbante Marina con scogli. Una più re cente versione, già neometafisica, del tema è Edipo e la Sfinge (1968: Fig. 6) che propone un pensoso e malinconico Edipo nelle vesti meccaniche di un manichino, atteggiato come l’autore stesso si dipinse nel celebre au­to ritratto datato 1908 (ma eseguito nel 1911) in cui compare la fatidica do manda: et quid amabo nisi quod aenigma est? Le suggestioni favo lo­sa mente classicistiche e museali di de Chirico hanno dunque, almeno in apparenza, ricomposto i disiecta membra del nucleo mitografico, in­sistendo nuovamente sul carattere enigmatico dell’eroe tebano, la scian­done inalterata la misteriosa evocazione. Tuttavia, questa ripro po si zione delle suggestioni antiquarie, ha forse perso quella forza epi fa ni ca del

41 Cf. Ades 2004, 120­122.42 Cf. Barilli 1981, 268­303.

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tempo delle avanguardie, tanto che si parla, per questo ‘ritorno’, di «una chiave creativa del tutto nuova, vitalizzata da una assoluta co scien za di libertà e di dominio sul proprio mondo poetico e persino psi chi co; da cui non è più sopraffatto ma di cui diviene il disincantato re gi sta; o se si vuole il burattinaio di una recita ricca di sorprese; il pre sti di gitatore di segreti ben conosciuti»43.

Anche il poliedrico fratello Alberto Savinio (1891­1952) subì la fa­sci nazione del mito e del mondo greco, rivissuto in una memoria fa mi­lia re e universale, ma declinato con il disincanto e la stupefazione del me raviglioso44. Savinio dipinse nel 1928 un Œdipe et Antigone (Fig. 7) in cui l’e roe affiancato dalla figlia, ambedue transfughi e senza volto, sem­bra no presentarsi in primo piano su una scena di poliedri grigio­azzurri e co lorati, dopo che si è consumata la tragedia a Tebe. Anzi, forse si trat­ta proprio di una sorta di uscita di scena, poiché, secondo le stesse parole del l’autore, la tragedia è una forma di lotta contro il male e una volta «as solto il suo compito di trasformare la natura in arte (cristianamente di ciamo il male in bene) la tragedia non ha più ragione d’essere»45. Oc­cor re aggiungere poi che Savinio ideò scene e costumi per Oedipus rex, o pera oratorio in due atti con musiche di Igor Stravinskij e testo di Jean Cocteau, che venne rappresentata per la prima volta al Teatro alla Sca la di Milano (con successive tre repliche), il 24 aprile 1948. L’artista di segnò la scena, unica, una sorta di acropoli con l’occhio divino che tutt o scruta, ma sono assai più interessanti i figurini con l’immagine di E dipo, diver­samente abbigliato prima e dopo la scoperta dei suoi ne fan di cri mini. Se la vittoria sulla Sfinge e la sua ascesa al trono di Tebe ave vano reso Edipo vano, tanto da essere rappresentato da Savinio (se con do le sue stesse pa­role) «in specie di uomo piumato, che ricopre di una su per ficie irridescen­te [sic] la propria vacuità», la consapevolezza del par ri cidio e dell’incesto fanno sì che «la sua grande miseria in te rio re [viene] al lo scoperto»46, mo­stran do un petto aperto sulle interiora – cuo re, vi sce ri – come un pla sti­co anatomico per studenti di medicina, non senza quel gu sto (sottil men te ironico e distaccato) per l’oggetto cu rio so e goloso, non ché per l’ar tificio

43 M. Calvesi, La “nuova” Metafisica, in Calvesi — Ursino 1995, 17.44 Cf. P. Vivarelli, Alberto Savinio artista dallo sguardo “leggero”. Un percorso tra mito greco e scienza moderna, in Vivarelli — Baldacci 2002, 11­15.45 Cit. in Vivarelli — Baldacci 2002, 15­16.46 Cit. in Barbero 1991, 48­73; 187­189.

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e lo spaesamento, che non si coglie nel dipinto del 1928. In con clusione, quello squarcio sul corpo di Edipo, ul teriore passo sul la via della fram­mentazione, squarcia il velo sul suo de stino, in di can do ap punto che la tragedia ha assolto finalmente il suo com pito.

Un altro riferimento, rimanendo in ambito italiano, ci è offerto da Cor rado Cagli (1910­1976) che immaginò Edipo a Tebe (1933), in una me tastorica e severissima ambientazione, ove i personaggi sono resi con un arcaico stupore. L’ambiente fecondo e antinovecentista della Scuo la Romana all’inizio degli anni Trenta consente a Cagli di espri mer si in un caldo tonalismo, in sintetiche figure stese ‘a corpo’ ove si co glie l’idea appunto del ‘primordio’. E in effetti quello di Cagli è un Edi po accolto a Tebe dai cittadini grati per averli liberati dalla Sfinge, tutt i ritratti in una nudità ‘ginnica’, addirittura archetipica47.

Una riduzione metonimica non già sui temi forti di parricidio e in­ce sto, bensì riguardo alla cecità procuratasi dall’eroe, è invece l’Oe di pus dello statunitense Adolph Gottlieb (1903­1974: Fig. 9), dipinto nel 1943. Qui la dissoluzione iconografica ha raggiunto un limite probabilmente in superabile in una sorta di singolare scacchiera ove pare giocarsi l’ul ti­mo atto della tragedia dell’Edipo re; dello sguardo fisso negli occhi del­la Sfinge rimangono solo reiterate e mute vestigia che sembrano an che avere una sorta di feedback con la cecità di Tiresia, dalla quale ini ziò per il re di Tebe la consapevolezza dei propri crimini.

La coerenza di una prestigioso percorso artistico tutto rivolto al­l’in dagine sull’uomo, consente a Francis Bacon (1909­1992) una rivi si­ta zione allucinata dello storico dipinto di Ingres, addirittura dichiarata espli citamente nel titolo: Oedipus and the Sphinx after Ingres (1983: Fig. 10). Ma se l’iconografia tutto sommato ‘tiene’ nei suoi termini generali, sen za mettere in circolo simboli segreti, tutto si traduce in una vi sio na­ria instabilità, in una prospettiva sfuggente, resa ancor più urtante dal­la luminosità endogena delle larghe campiture di colore rosa pallido e mar rone. Si fronteggiano una sommaria Sfinge48 dai tratti indefiniti e un muscoloso Edipo dei nostri giorni (che non senza una punta d’ironia vie­ne mostrato come vittima di un ovvio infortunio al piede, e la cui fi gu ra pare essere un debito da una fotografia di Muybridge)49, mentre com pare

47 Cf. Crispolti 2006.48 Bacon dipinse un ritratto di Muriel Belcher in forma di Sfinge nel 1979.49 Cf. Chiappini 2008, 243. Cf. anche Farr — Martino 1999, 196. In Ades — Forge 1985, 22

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un nuovo elemento non ingresiano, l’erinni sanguinaria – una del le tre «dee venerande dallo sguardo terribile» (πότνιαι δεινῶπες)50 – che en­tra dalla finestra sullo fondo per ossessionare il parricida51.

Ma, appunto, l’interesse di Bacon per l’uomo contemporaneo e le sue sfiguranti angosce (ma anche per il mito52 e le immagini di massa) ri consegna al nostro presente quell’Edipo in abiti sportivi e quei sim bo li dell’ignoto e del dolore che ormai hanno smarrito la loro natura de mo­niaca e sotterranea per abitare nel profondo di ciascuno. Ogni con no­tazione fisiognomica sembra sfumare in una sorta di in de ter mi na tez za embrionale, in fluidità rapprese, piuttosto che nella maschera di gri gnan­te, sigla di tante sue opere. Potremmo forse supporre che proprio que sta anonimia artificiale e questo apparente ossequio alla tradizione, sia no un filtro poderoso sulle vicende personali del pittore che, sco per ta pre­sto la propria omosessualità, scandalizzava la famiglia con am bi gue ma­scherate in abiti femminili? È ben vero che questi fatti de ter mi na rono la rottura con il genitore, uomo iracondo e poco amato, mentre mi gliori furono i rapporti con la madre. In realtà egli confessò in una in tervista di provare una confusa attrazione per il padre, pur non a man dolo, attrazio­ne che poi aprirà la strada alle proprie tendenze omo ses suali. Anche per questi motivi Saverio Falcone, concordemente alla pre dilezione dell’arti­sta per Eschilo, ritiene che «come Oreste, Francis ha assassinato la madre per amore del padre. Ma a differenza di Oreste, Francis non trova un pa­dre che ne contraccambi l’amore […]», con fi gu randosi in tal modo come una sorta di ‘Edipo capovolto’53.

In definitiva, se bisogna esser cauti, anche in tal caso, nel farsi ten­ta re sic et simpliciter dalle sirene della psicanalisi, non c’è dubbio che la presenza della erinni, qui addirittura sottolineata da una freccia (e, al

non si ricorda questo dipinto come debito di Muybridge.50 Soph. OT 84.51 Visto il debito con Ingres esplicitamente ammesso da Bacon, non è forse privo di sen so collegare in termini di compositio l’erinni che sta entrando in scena da lontano a quel la figurina di uomo spaventato (forse mutuata da Poussin) che il pittore neo clas si co dipin­se sullo sfondo della sua composizione, modificandola in vista del Salon del 1827, come ricordiamo sopra.52 Ricordiamo qui un suo celebre trittico dedicato all’Orestea di Eschilo dipinto nel 1981, ma il suo interesse per il mito data da molti anni prima. A quanto pare Bacon pre diligeva Eschilo a Sofocle ed Euripide; cf. Ades — Forge 1985, 19­20.53 Falcone 1998, 34.

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con trario, sempre evocata da lontano nelle due tragedie sofoclee), si ma­nifesta come un inquietante indice della sua storia familiare.

Poche brevi note conclusive su qualche altro esempio a noi più vi­ci no. Il clima della pop art converte le immagini a quella necessaria le­vi tà e bidimensionalità che le abilitano a circolare, liberamente e leg ger­mente, nella nostra iconosfera. Su quell’onda si muove Valerio Ada mi (1935), che usa dipingere con una figurazione sintetica, dallo squil lan te cromatismo interrotto da robusti margini neri, come una leggera la vo­razione a cloison, nella quale forse «la perfezione assoluta delle su per fici […] serve a cancellare l’ansia racchiusa nella loro profondità»54. L’E dipo di Adami (1980) sembra essere una ricostruzione artificiale di tan ti pez­zi, un corpo mascherato o meglio una sorta di manichino rias sem blato in uno scenario da fumetto, in parte incongruo e sconnesso, fatt o di am­bientazioni che non collimano, a bande sovrapposte, tra una spiag gia e un arco poderoso oltre il quale non è dato vedere. Anche la Sfin ge, in gran parte ‘fuori campo’ svela la sua natura solo per il piede leo nino, mentre il volto è dissimulato da una sorta di maschera che pe ral tro ne riprende i poco comprensibili connotati.

Tutto ciò pare dunque essere una operazione visionaria di postpro­duzione, di rimontaggio che ha conseguito solo parzialmente il suo sco­po e che nulla concede alla soluzione dell’enigma. Lo stesso Edipo, as­sorto e meditabondo, sembra aver perso quella serena tracotanza del­l’i co no gra fia romantica. Il lume del suo ingegno che aveva sconfitto il mostro si riduce alla lampadina penzolante, che non può illuminare uno sce na rio superflat di luci endogene e senza ombre.

Recenti interventi sul tema sono quelli di Louise Bourgeois (1911­2010) e di Stefano Di Stasio (1948). L’artista francese infrange ancora una volta la compattezza iconografica con il suo Oedipus (2003: Fig 11), ap pron tando una mini installazione, quasi un giocattolo infantile, ove fi gu rine non poco conturbanti di materiale morbido con tonalità carno­se al ludono alla vicenda: la Sfinge, un uomo e una donna che copulano, un volto trafitto negli occhi ecc., sono bambolotti o larve che potrebbero po polare un incubo, forse non lontano da certo trash horror­ cine ma to­gra fico di qualche decennio fa.

54 Damisch — Martin 1974, 66.

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Di Stasio, esponente del movimento degli ‘Anacronisti’ che negli an­ni Ottanta perseguì un citazionismo neobarocco al limite del kitsch, dà in modi pittoricamente convenzionali Un altro enigma per Edipo (2006: Fig. 12), o ve con qualche ricordo tra Surrealismo e Metafisica si im ma gi­na l’in con tro con una Sfinge che sembra animarsi in panni quotidiani e inu sitati.

Per concludere merita menzione la arguta vignetta di Matteo Ber­tel li (1972), ove un fanciullo (potrebbe essere il ‘piccolo Hans’ freu dia­no?) si stupisce nel vedere il capezzolo materno, su cui sta a cavalcioni, tra sfigurarsi nel proprio membro: un calembour edipico e una sintesi fa­ceta di una irrisolta vicenda secolare.

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Fig. 1. J. A. D. Ingres, Edipo e la Sfinge, 1808.

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Fig. 2. G. Moreau, Edipo e la Sfinge, 1864.

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Fig. 3. F. Khnopff, La Sfinge (Des caresses), part., 1898.

Fig. 4. M. Ernst, Oedipus rex, 1921.

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Fig. 5. G. de Chirico, Edipo e la Sfinge, 1920.

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Fig. 6. G. de Chirico, Edipo e la Sfinge, 1968.

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Fig. 7. A. Savinio, Edipe et Antigone, 1928.

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Fig. 8. A Savinio, costume per Edipo ‘rivelato’, 1948.

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Fig. 9. A. Gottlieb, Oedipus, 1943.

Fig. 10. F. Bacon, Oedipus andthe Sphinx after Ingres, 1983.

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Fig. 11. L. Bourgeois, Oedipus, 2003.

Fig. 12. M. Bertel li, Edipo, 1911.