Marketing ed eticità: in quale direzione stiamo andando?

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Istituto Statale di Istruzione Secondaria Superiore G. Verdi di Valdobbiadene (TV) Esame di Stato a.s. 2011-2012 Marketing

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Istituto Statale di Istruzione Secondaria Superiore G. Verdi di Valdobbiadene (TV) Esame di Stato a.s. 2011-2012

Marketing

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Ho deciso di svolgere la tesina sul marketing in quanto è un argomento che mi provoca grande

interesse, che mi infonde curiosità, e non tanto dal punto di vista economico, ma più che altro dal

punto di vista etico. L’interesse per questa disciplina è cominciato dal momento in cui decisi di

approfondire la crisi economica che ancora adesso è causa di disagi sociali, e da quando ho

scoperto tutti i complessi, ma soprattutto subdoli e astuti meccanismi che si nascondono dietro a

ciò che in prima istanza potrebbe sembrare un semplice errore di valutazione umano. Così, una

volta scoperto tutto ciò, mi sono reso conto di come il marketing sia lo strumento più illusorio

dell’intera branca dell’economia, perché, oltre ad ingannare, rende anche ciechi i consumatori. E ci

riesce talmente bene che tante persone ancora non si rendono conto di essere prese in giro. La

mia tesina perciò, dopo un excursus culturale, arriva ad analizzare questa “doppia faccia” del

marketing. Grazie a questo lavoro ho potuto approfondire sia argomenti specifici a tale scienza

economica sia argomenti di carattere culturale, alcuni dei quali non sono stati parte integrante del

mio percorso di studi.

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Indice

Introduzione Società di massa Esempi di marketing Consumismo Pop Art

Marketing 3.0: nuovi valori o presa in giro?

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Marketing

Il marketing è una scienza economica che indica l’attività di un’impresa volta a ottimizzare tutti i

fattori che permettono di migliorare la commercializzazione di merci o servizi offerti, mediante la

creazione, l’individuazione e lo stimolo dei bisogni dei consumatori, associata alla proposta di

prodotti o servizi idonei per il soddisfacimento dei bisogni stessi. Riguarda tutte le decisioni

relative al prodotto: caratteristiche, prezzo, pubblicità, promozione, canali di distribuzione, rete di

vendita. La sua finalità è di ottenere il maggiore profitto possibile. Esistono tre tipi di marketing:

Marketing analitico: studia il mercato, la clientela e i concorrenti;

Marketing strategico: pianifica le strategie per ottenere fedeltà e collaborazione da parte

degli agenti presenti sul mercato;

Marketing operativo: riguarda le scelte che l’azienda pone per raggiungere i suoi obiettivi.

Il marketing inoltre viene differenziato in marketing B2C (Business to Consumer: ci si rivolge ai

consumatori) o B2B (Business to Business: ci si rivolge alle altre imprese).

Esso viene attuato tramite dei piani, chiamati Marketing Plans, che rappresentano lo strumento

formale di pianificazione delle decisioni. Ogni piano è composto di 4 fasi: la fase Plan (definizione

degli obiettivi e le modalità di raggiungimento di essi), la fase Do (si sperimentano le decisioni

prese per raggiungere gli obiettivi), la fase Check (si verificano gli esperimenti ed eventualmente si

migliorano) e la fase Act (la fase finale, ossia l’attuazione del piano). Nello schema raffigurato qui

sotto ogni fase viene ampiamente spiegata.

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Il marketing, nella sua storia, si è atteggiato in modalità differenti. Gli anni che vanno dalla

Rivoluzione Industriale fino alla prima metà del Novecento erano caratterizzati da un

orientamento alla produzione: i consumatori necessitavano di ogni bene, avevano bisogno di

tutto, per cui tal periodo vide la predominanza della domanda sull’offerta; ciò fu a vantaggio degli

imprenditori i quali, proprio grazie alla forte domanda potevano produrre abbassando le spese.

Dagli anni ’30 invece ogni impresa si concentrò sulla tecnologia del prodotto, e non sui

consumatori: ci si interessava alla creazione di beni tecnologicamente avanzati ma non

effettivamente richiesti dalla popolazione. Tale orientamento subì ben presto una modifica,

avvenuta negli anni ’50: da quel momento fino alla fine degli anni ’60 l’interesse era soltanto

quello di vendere il prima possibile ciò che si produceva. Si è così arrivati all’ultima fase,

cominciata nei primi anni ’70 e che persiste ancora adesso, nella quale si cerca di carpire i desideri

dei clienti e soddisfarli. Dal punto di vista economico, la prima e ultima fase sono quelle che hanno

portato il maggior profitto alle aziende; in particolare, l’ultima fase fa capire come si cerchi un

profitto sicuro, anche se minimo.

Ma di qualsiasi fase si parli, è importante capire come il marketing incroci il concetto di massa.

La società di massa

La società di massa nasce tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900. Essa è una società dominata dalle

grandi aggregazioni e dai grandi numeri, in cui le mentalità, le culture e i modelli di

comportamento tendevano a uniformarsi a modelli generali, in parallelo con la diffusione

dell’istruzione e con lo sviluppo dei mezzi di trasporto e di comunicazione. Il suo punto di forza è la

voce, una voce preponderante, che detta ordini ai re, che esercita una grande influenza in tutti gli

aspetti della vita. È caratterizzata da una bassa inclinazione al ragionamento e da una forte

propensione all’azione: la massa quindi si pone un obiettivo e cerca di raggiungerlo senza riflettere

sulle modalità, senza pensare alle astuzie con cui ottenerlo, ma agendo in base alle emozioni; tutto

ciò è guidato da una sorta di anima collettiva che ogni individuo incarna nel momento in cui entra

a far parte di una folla, un’anima impulsiva, ossessiva, sprovvista della possibilità di controllare i

riflessi (come dice Gustave Le Bon nella sua opera “La psicologia delle folle”): insomma, un’anima

schiava degli impulsi ricevuti. Essendo poi gli stimoli differenti, la massa è mutevole; ciò ne

accentua la difficoltà nel suo controllo, “specie quando una parte dei poteri pubblici è finita nelle

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loro mani” (passim). Altra caratteristica della massa è il fatto di essere guidata da un leader, un

uomo a detta di E. Lederer “emotivo e passionale, che sente ciò che si muove nell’aria un modo

più profondo della folla. Questo leader, nel mentre dà espressione ai propri sentimenti, è in grado

di accordare la folla”. Il leader è un uomo carismatico che è capace di esprimere le emozioni

provate dalla folla e che ha più esperienza e conoscenza di questa; “non commette errori e anche

se lo fa i suoi errori contribuiranno al successo finale” (passim); la sua personalità forma la folla

stessa e ne dirige le azioni.

Il concetto di massa si lega anche alla cultura. La cultura di massa, durante la prima metà del

Novecento, è rifiutata di essere conosciuta dalla critica, specialmente quella accademica. Appariva

come un fenomeno di cui si sospettava sì la vasta estensione ma che, proprio per la sua

estensione, non poteva pretendere la dignità di essere presa sul serio; inoltre, essa era sostenuta

dai regimi fascista e nazionalsocialista, contro i quali le elites accademiche si scagliavano. Il silenzio

di questa cultura era quindi dovuto non solo al carattere basso, convenzionale e ripetitivo, ma

anche al fatto che portava dietro di sé l’ombra stigmatizzante del nazismo e della sua cultura di

massa nazionale. Ciò ha portato alla critica della cultura che, a partire dagli anni Sessanta, venne

definita industria culturale (Adorno).

Detto questo, risulta chiaro il ruolo del marketing nella società: i consumatori diventano una sorta

di massa, esprimono alcuni desideri, chiedono la soddisfazione di alcuni loro bisogni collettivi. Ma

è importante sottolineare che tali bisogni spesso sono ricercati dalle aziende stesse: attraverso

sondaggi, ricerche sul mercato, indagini, gli esperti di marketing individuano le richieste dei

consumatori e su ciò basano i successivi processi produttivi. E se un determinato prodotto non

sembra soddisfare i clienti, è proprio compito del marketing far sì che tal prodotto crei nei clienti

stessi un inaspettato desiderio/bisogno di esso. A tal proposito, è possibile fare alcuni esempi.

Esempi di Marketing

Un primo esempio di marketing

riguarda l’azienda Mulino Bianco.

Mulino Bianco è un marchio di

prodotti da forno, di proprietà

della Barilla. Nel suo sito

(www.nelmulinochevorrei.it) ha recentemente proposto un commento: si chiede agli utenti di

esprimere una propria opinione riguardo i prodotti, le promozioni e le confezioni di ogni prodotto;

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la community sceglie le idee migliori e le vincenti vengono realizzate dalla Mulino Bianco. Questo

esempio mostra chiaramente l’intenzione dell’affiliata di Barilla: avvicinarsi ai consumatori in

modo da ottenere le informazioni necessarie alla realizzazione di un prodotto che soddisfi la

maggior parte dei desideri.

Altro importante esempio è fornito da McDonald’s, la

famosa multinazionale di fast food. Al fine di ottenere

come target (ossia i destinatari del prodotto) anche i

bambini, l’azienda non ha solo creato dei menù

appositi ma anche fornito con essi dei giocattoli.

Il marketing da parte della compagnia americana ha

svolto un lavoro assai efficace; a testimoniarlo è uno

studio della Stanford University condotto dal dottor

Tom Robinson, nel quale 63 bambini al di sotto dei 12 anni dovevano testare prodotti senza

etichetta e prodotti col marchio McDonald’s. Dalla ricerca è emerso che la maggior parte dei

bambini ha saputo riconoscere il marchio e ha dichiarato il cibo della multinazionale migliore degli

altri cibi anche senza assaggiare questi ultimi.

Ulteriore esempio riguarda la marca di abbigliamento sportivo Nike, un’azienda che nasce nel

1972 e il cui nome (che riprende quello della dea greca della vittoria) già infonde un interesse

positivo da parte dei consumatori.

Nike è una delle imprese più attive

nel marketing 3.0, ossia quel

marketing che punta ad

emozionare i clienti, a coinvolgere

il loro animo, ma anche ad

esprimere la loro creatività (un po’

come fa Mulino Bianco) creando

slogan di grande effetto quale “Just

Do It!”. La campagna di

commercializzazione della

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multinazionale americana ha si avuto grande effetto, ma al contempo ha creato un’idea un po’

distorta del marchio; ciò è stato notato dall’illustratore MyHotJuly che ha tradotto in immagine il

pensiero dei clienti (immagine sopra), facendo capire come l’azienda faccia notare abbastanza

facilmente il desiderio di fare profitto, quasi come se ogni campagna pubblicitaria sia una sorta di

messaggio subliminale che invoglia all’acquisto inconscio.

L’immagine sopra rappresentata è emblematica perché indica una caratterizzazione della società

che il marketing ha contribuito a sviluppare (se non creato): il consumismo.

Il consumismo

Il consumismo è un fenomeno economico-sociale tipico dei Paesi a reddito elevato – ma presente

anche nei Paesi in via di sviluppo – consistente nell’aumento dei consumi al fine di soddisfare i

bisogni indotti dalla pressione della pubblicità e da fenomeni di imitazione sociale diffusi tra ampi

strati della popolazione. È quindi una tendenza al consumo veloce di beni e servizi. Il consumismo

ha come premessa storica la fine della II Guerra Mondiale; infatti, dopo il termine del conflitto, si

cercò di sistemare i conti delle Nazioni. A tal proposito già nel 1944 gli Accordi di Bretton Woods

(conferenza tenutasi dall’1 al 22 Luglio nell’omonima città a cui parteciparono i delegati di ben 44

nazioni) fecero fondare il Fondo Monetario Internazionale, un organo che aveva il compito di

costituire un adeguato ammontare di riserve valutarie mondiali e di assicurare la stabilità dei

cambi fra le monete; ma un passo importante venne compiuto nel 1947 quando, grazie

all’Accordo generale sulle tariffe e sul commercio (Gatt), si instaurò un sistema fondamentalmente

liberoscambista. La ripresa economica cominciò negli anni ’50 e vide il suo apice negli anni ’60 e

’70; l’Italia fu uno dei protagonisti della crescita: nonostante avesse perso la guerra, essa venne

aiutata fin dall’inizio dagli Stati Uniti per via della sua strategica posizione tra Europa Occidentale,

Penisola Balcanica, Europa Orientale e Africa Settentrionale, arrivando così al periodo del Boom

economico. Ma in generale molti Paesi risollevarono le proprie sorti economiche; la gente

ricominciò a lavorare, le aziende tornarono a produrre, i redditi famigliari aumentarono. Maggiori

beni vengono prodotti, più persone possono permetterseli. Questo è un cambio epocale: i popoli,

per anni percossi dalle guerre, ora hanno la possibilità di essere felici e di acquistare prodotti in

gran quantità. La svolta sta specialmente nel tipo di consumo: i prodotti comprati non sono più

soltanto quelli necessari alla sopravvivenza, ma sono anche secondari, beni cioè che soddisfano

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desideri riguardanti il tempo libero o gli hobby. Questi ultimi prodotti avevano già ottenuto

un’ottima vendita nel periodo tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, ma negli anni ’60

riguardarono certamente una fetta molto più ampia della popolazione mondiale. La possibilità di

acquistare beni di seconda necessità dunque

appariva come motivo di orgoglio e felicità per la

gente, e a risentirne positivamente fu sicuramente

la qualità della vita. Come detto prima, l’Italia fu uno

dei protagonisti di questo cambiamento; la

televisione e l’automobile ne furono i principali

strumenti e simboli. I primi apparecchi televisivi

comparvero intorno alla metà degli anni ’50, con

l’inizio di regolari trasmissioni da parte della Rai, l’ente di Stato che già deteneva il monopolio

dell’emittenza radiofonica. Ma il vero e proprio boom avvenne alla fine del decennio: se nel 1955

c’erano 4 TV ogni 1000 abitanti, nel 1960 ce n’erano ben 43, arrivando addirittura a 117 nel 1965.

La televisione fu molto importante dal punto di vista culturale perché aumentò la conoscenza della

lingua comune e si formarono nuovi modelli culturali. Anche l’automobile ebbe una crescita

esponenziale: la produzione annuale passò da 318.000 unità nel 1957 a 1.100.000 nel 1963; a

beneficiarne in grande misura fu la Fiat che, trainata principalmente dalla 600 e dalla 500, arrivò a

detenere l’80% del mercato automobilistico italiano. In questo periodo inoltre, nella penisola

italiana nacque il Made in Italy, ossia una cultura che integra la ricerca del design nell’industria.

Simbolo di questo periodo, che corrispose a una ripresa contemporaneamente economica morale

e culturale, è la Vespa, un motociclo che rivoluziona il settore delle due ruote e che in pochi anni si

impone a livello mondiale con volumi di vendite mai più conseguiti da nessun altro.

Ma il consumismo dilagò in tutto il Mondo, spingendo la gente a comprare inconsapevolmente.

Tale spinta venne provocata dal diffondersi della pubblicità, ossia quell’attività di propaganda

volta a far ottenere ad un determinato prodotto la preferenza del pubblico. Negli anni ’50 la

pubblicità cominciò ad avvalersi della televisione; in Italia, ad esempio, nel 1957 cominciò la

programmazione di Carosello, un piccolo spettacolo di due minuti nel quale, tramite scenette

comiche, si presentava un prodotto per poi esplicitarne il nome negli ultimi 15 secondi. Il mezzo

trainante rimaneva però la carta stampata, grazie anche alla diffusione di conoscenze teoriche e

scientifiche sulla comunicazione pubblicitaria. È però importante sottolineare che la pubblicità non

si sarebbe così ampliamente diffusa se non ci fosse stata la ripresa economica e la produzione dei

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beni in serie, beni adatti per precisi target di clientela, in larga scala. Il marketing quindi cominciò a

servirsi della pubblicità per riuscire a vendere tutte le grandi quantità di beni prodotti dalle

aziende. Si avviò così una sorta di “soggiogazione delle masse”, un processo per il quale la gente

doveva venire convinta all’acquisto di molti prodotti. Effettivamente, il processo riuscì nel suo

intento: la ripresa economica, come detto prima, fece aumentare il reddito delle famiglie le quali

cominciarono a comprare, comprare e comprare, spesso inconsciamente e senza chiedersi se i

prodotti acquistati avessero un’effettiva utilità.

Pop-Art Il consumismo, come si è visto, è un fenomeno sociale per il quale molti prodotti vengono

comprati e consumati senza che ci sia un effettivo bisogno dei prodotti stessi.

Un’importante documentazione di questo fenomeno giunse dal campo artistico con la corrente

della Pop-Art. Essa nasce in Gran Bretagna alla fine degli anni ’50, ma si sviluppa principalmente in

America negli anni ’60, e rivolge la propria attenzione agli oggetti, ai miti e ai linguaggi della

società dei consumi. L’abbreviativo Pop sta per popular, ossia un’arte di massa, cioè prodotta in

serie. E poiché la massa non ha volto, l’arte che la esprime deve essere il più possibile anonima;

solo così potrà essere compresa e accettata dal maggior numero possibile di individui. La Pop-Art

attinge i propri soggetti dal mondo del quotidiano e fonda la

propria comprensibilità sul fatto che quei soggetti sono per

tutti assolutamente noti e riconoscibili. Gli artisti di questa

corrente non sono dei ribelli, ma vivono e lavorano in perfetta

simbiosi con il sistema comunicativo e pubblicitario dal quale

traggono i propri spunti e del quale finiscono, in definitiva, per

essere una delle infinite varianti.

Il maggior esponente della Pop-Art fu certamente Andy

Warhol, nome d’arte di Andrew Warhola, un pubblicitario,

pittore e scultore statunitense. Warhol nasce il 6 Agosto 1928 a

Pittsburgh, in Pennsylvania, studia nella città stessa presso il

Carnegie Institute of Technology, poi si trasferisce a New York dove lavora come pubblicitario; più

avanti si reinventa anche regista, pittore, discografico, scrittore. Egli costruisce il suo personaggio

secondo i tempi e i modi di una ben orchestrata campagna pubblicitaria: oltre al nome, si tinge i

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capelli di un assai strano biondo paglierino e si veste rigorosamente di nero presentandosi spesso

a cerimonie e inaugurazioni ufficiali in scarpe da tennis e con uno zaino sulle spalle.

Numerose sono le opere di Warhol. Green Coca-Cola Bottles è un olio su tela realizzato nel 1962.

Ne emerge la tecnica pittorica del pubblicitario: una volta scelto il soggetto, questo viene ripetuto

un’infinità di volte utilizzando di fatto lo stesso linguaggio della propaganda pubblicitaria. Poiché –

secondo l’autore – la gente comprende solo ciò che conosce, nulla meglio degli oggetti-simbolo

della società dei consumi può prestarsi a essere rappresentato artisticamente. Per cui Warhol

osserva più che interpretare, e anche nel dipinto in esame la ripetizione quasi ossessiva del tema

ha lo stesso significato estraniante degli spot televisivi.

Tuttavia non solo gli oggetti sono fatti per essere consumati. Con la stessa logica e nello stesso

modo possono essere consumati anche miti di altro tipo, come quelli cinematografici, musicali e

politici. Ciò non perché le masse si intendano di cinema, di musica o di politica ma,

semplicemente, perché anche

in questi settori più della

bravura del singolo o della

validità di una teoria contano

le immagini che vengono

proposte. E questo vale anche

per il mito di Marilyn Monroe,

quell’icona degli anni ’50 e ’60

famosa non tanto per la

bravura o per la sensualità

della donna stessa ma appunto

per l’incalzante riproposizione

della sua immagine da parte

dei mezzi di comunicazione di

massa. Warhol non si sottrae alla logica commerciale, e per questo lavora a decine di dipinti e

serigrafie nei quali riproduce il volto sorridente dell’attrice mutandone semplicemente i colori. La

ripetizione della stessa immagine, nella quale cambiano solo pochi dettagli, fa si che essa perda il

suo significato originale, arrivando ad apparire quasi buffa se non addirittura sconosciuta. L’infinita

ripetitività dunque finisce per togliere espressività: se la conoscenza aiuta la comprensione, la

troppa conoscenza consuma senza indugi l’oggetto, rendendolo subito vecchio e richiedendone in

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gran fretta uno nuovo. E ciò è un effetto tipico del consumismo, per il quale la gente, indotta dalla

pubblicità, cerca in continuazione nuovi prodotti senza coglierne l’essenza o la funzionalità,

prodotti che possono essere reperibili da tutti, perché la produzione in serie ha consentito

l’abbassamento dei prezzi. Warhol a proposito afferma: “Quel che c'è di veramente grande in

questo paese è che l'America ha dato il via al costume per cui il consumatore più ricco compra

essenzialmente le stesse cose del più povero. Mentre guardi alla televisione la pubblicità della

Coca-Cola, sai che anche il Presidente beve Coca-Cola, Liz Taylor beve Coca-Cola, e anche tu puoi

berla. Una Coca è una Coca, e nessuna somma di denaro può procurarti una Coca migliore di

quella che beve il barbone all'angolo della strada. Tutte le Coche sono uguali e tutte le Coche sono

buone. Liz Taylor lo sa, lo sa il Presidente, lo sa il barbone e lo sai anche tu”. Come la Coca, anche

l’arte è un prodotto, e l’artista è una persona che non ha niente di particolare rispetto agli altri.

Warhol era solito dire: “Un artista! Che cosa intendi per 'artista'? Anche un artista può affettare un

salame! Perché la gente pensa sempre che gli artisti siano qualcosa di speciale? È solo un altro

lavoro.”. Tutti insomma possono essere in qualche modo artisti, esprimere una propria visione del

mondo, ma essere artisti significa essere lavoratori come tanti altri, creare oggetti che avranno

valore per poco tempo, senza veramente influenzare i costumi dei consumatori.

Comunque, gli oggetti per eccellenza nella

concezione artistica di Warhol, quelli che meglio

incarnano lo spirito consumista, sono i cibi, cibi quasi

mai naturali e appetitosi, ma preferibilmente

conservati, disidratati e surgelati; alimenti quindi

adatti ad essere consumati velocemente, fatti per

chi non ha tempo o voglia di cucinare. Emblematica

a riguardo è la serigrafia su tela della Minestra in

scatola Campbell’s, che Warhol comincia ad eseguire

dagli anni ’60. Ritrovare in un dipinto da museo un

prodotto da supermercato rende paradossalmente

artistico il quotidiano o, al contrario, smitizza l’arte

portandola al livello della massaia media che sta

facendo la spesa, per cui tutto è bello ma allo stesso

tempo tutto è noioso. Warhol interpreta la lattina di

zuppa, così come gli altri oggetti, come se fosse un’immagine divulgata dalla stampa quotidiana,

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rendendola logora e consumata, così che l’immagine è guardata ma non osservata; perdendo

valore intrinseco, acquista valore consumistico.

Marketing 3.0: nuovi valori o presa in giro?

Fino ad ora sono stati indagati i principali aspetti del marketing, prendendo in considerazione le

origini dal punto di vista sociale e storico, e le influenze nel campo artistico che esso ha generato.

Il marketing, dalla sua nascita, ha conosciuto diversi stadi evolutivi, raggruppabili in tre sezioni.

La prima è quella del marketing 1.0, la prima fase in assoluto: lo scopo era di creare prodotti in

grado di sfruttare al massimo le potenzialità di ogni tipo di produzione; aveva soltanto il compito

di facilitare l’assorbimento da parte del mercato di volumi crescenti di prodotti standardizzati

proposti a prezzi tali da consentirne l’acquisto da parte della gran massa dei consumatori. La

seconda è quella del marketing 2.0, ossia quel marketing caratterizzato dallo sviluppo della società

dell’informazione; esso consente ad un’impresa di comprendere e soddisfare un consumatore

sempre più informato ed esigente, dotato di un potere crescente che lo rende protagonista del

mercato. La terza ed ultima sezione è quella del marketing 3.0, chiamato anche marketing

esperienziale e rivolto a dei consumatori soggetti non solo di bisogni ma anche di sentimenti. La

gente ora viene coinvolta interiormente e pensa non più con la propria testa ma con il cuore:

valori ed emozioni sono al primo posto. Il marketing 3.0 è una fase nata da pochi anni ma che pian

piano sta prendendo piede nella vita quotidiana dei consumatori, specialmente attraverso la

pubblicità e i social network. Ciò che cambia per quanto riguarda le principali attività di marketing

è la prospettiva e le modalità con le quali esse stesse vengono pensate all’interno delle imprese.

Ad esempio la combinazione di marca, posizionamento e differenziazione, nel marketing 3.0, viene

completata con le “tre i”: identità (posizionamento della marca nella mente del pubblico), integrità

(capacità di mantenere ciò che si afferma mediante il posizionamento e la differenziazione) e

immagine di marca (riguarda l’acquisizione di una quota consistente delle emozioni dei

consumatori). Per tradurre nella pratica questo orientamento è necessario partire dalla missione,

visione e valori dell’impresa. La missione è il centro, il nucleo del business e della personalità

dell’impresa e ha le sue radici nel passato, partendo dalla fondazione dell’azienda. È essenziale

elaborare una missione che sia “buona”, proponendo una prospettiva di business in grado di

migliorare la vita dei consumatori. Per fare ciò aiuta molto creare una storia che sappia appunto

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toccare il pubblico, con le potenzialità di avere un impatto significativo sul mercato e che sia

semplice e chiara al tempo stesso. La visione riguarda invece il futuro e ciò che l’impresa aspira a

diventare e conseguire. Nel marketing 3.0 si dovrebbe incarnare il concetto di sostenibilità che è

fonte di vantaggio competitivo a lungo termine in quanto l’adozione di prassi sostenibili consente

di migliorare la produttività a livello di costi, accelerare la crescita del fatturato e il valore di marca.

I valori rappresentano invece l’insieme dei criteri, simboli, priorità e regole che caratterizzano i

comportamenti della gestione. La sfida sta poi nel riuscire ad allineare missione, visione, valori e

comportamenti dell’azienda e contemporaneamente stabilire delle regole per legare direttamente

le azioni ai valori.

Il marketing 3.0 include vari strumenti di operazione.

Uno di essi è la rivisitazione di alcuni oggetti, eventi, emblemi cult del passato tramite un aspetto

particolare. Un chiaro esempio di ciò lo fornisce Lego, l’azienda danese produttrice di mattoncini

giocattolo, che ha ricostruito alcune scene di film cult tramite, appunto, questi mattoncini. Ecco

quindi ripresi, tra gli altri, i vari American Beauty, Pulp Fiction, Inception e Star Wars (da sinistra

verso destra, dall’alto verso il basso), creando una campagna che all’inizio potrebbe far sorridere,

ma che poi coinvolge ed emoziona i consumatori.

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Panasonic invece, in occasione delle Olimpiadi

di Londra 2012, ha puntato sull’orgoglio per la

Nazione, creando un’applicazione (Flag Tag)

che consente di caricare una propria foto su

Facebook e modificarla applicando un effetto

body painting al proprio volto utilizzando i

colori della propria bandiera nazionale,

condividerla con i propri amici e impostarla

come immagine profilo. L’applicazione ha avuto

– e sta avendo – molto successo: moltissime

persone hanno partecipato a questa iniziativa, desiderose di condividere con gli amici online la

passione calcistica e l’amore per il proprio Paese.

Altro esempio è quello delle Smartbox. Le Smartbox sono dei cofanetti regalo legati al benessere,

all' avventura, ai soggiorni e alle cene che permettono ai fruitori di vivere nuove esperienze e

provare emozioni magari mai vissute prima. Ogni cofanetto contiene un buono, chiamato assegno,

che può essere usato per una delle varie opzioni disponibili all’interno del cofanetto stesso. Ci

sono otto tipi di Smartbox che variano dalle pause benessere ai soggiorni in hotel lussuosi, dalle

immersioni nei fondali marini ai soggiorni culturali. Il concetto che sta alla base di esse è che non vi

è lo scambio di un bene preciso, ma di una potenzialità di esperienze ed emozioni da scegliere e

vivere negli esercizi convenzionati; vi è quindi la possibilità di provare esperienze nuove,

personalizzabili, esplorative, che conducono alla scoperta di oggetti, luoghi e attività che una

persona potrebbe anche non aver mai preso in considerazione nella propria vita.

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Mirko Pallera, digital strategist per grandi aziende tra cui Barilla, Telecom e Unilever, nel suo libro

“C.R.E.A.T.E.” analizza in profondità questo modo di agire da parte del marketing. Egli afferma che

le emozioni governano la società dell’informazione. Del resto, più ci si emoziona, più ci si ricorda,

più si reagisce; le emozioni sono qualcosa di assolutamente naturale, istintivo, che spinge

all’azione. Le emozioni sono tutto, e anche le aziende hanno cominciato a capirlo pensando

sempre più in termini di categorie emozionali e sempre meno secondo categorie di prodotti. Sono

facoltà uniche che fungono da perno nelle relazioni sociali, utili a creare, controllare e conservare i

legami; possono essere gestite e regolate: basti pensare a quando si scelgono i colori delle varie

stanze della casa dedicate a diverse attività: studio, riposo, gioco. Possono essere gestite anche

lavorando di immaginazione, agendo sui ricordi che attivano le emozioni stesse, e ciò può avvenire

meglio tramite l’acquisto di prodotti specifici. Le aziende quindi utilizzano questo concetto di

emozione per vendere i propri prodotti, e lo fanno stabilendo una connessione tra le emozioni; ma

tal connessione si deve basare sull’autenticità delle intenzioni e sulla coerenza di chi le attiva,

ovvero su un sentito e reale supporto al progetto esistenziale degli individui che si dimostra

comprendendone i bisogni più profondi.

Su questo punto, a mio parere, c’è molto da discutere. Chi è che effettivamente crea un progetto

con l’intenzione di produrre e, al tempo stesso, donare emozioni? Chi è che effettivamente vuole

creare un’esperienza interiore, che accompagni il consumatore durante l’uso del prodotto,

facendo entusiasmare le persone solo per donare sorrisi o felicità? Chi è che effettivamente si

basa sull’autenticità delle intenzioni di emozionare i consumatori? Potrebbe invece essere che le

emozioni siano soltanto un subdolo strumento per illudere le persone?

Una recente pubblicità dell’Enel mostra le difficoltà che una donna incinta ha nella gestazione,

enfatizzando il fatto di aver consumato molta energia. Certamente una pubblicità che colpisce, che

emoziona, che coinvolge ma, pensandoci bene, la relazione tra energia nel percorso del parto ed

energia elettrica alla fine appare un po’

azzardato; di sicuro è più azzeccato il

binomio famiglia – colazione tipico delle

pubblicità della Mulino Bianco (ma resta

lo stesso il dubbio espresso in

precedenza). Un lavoro ancora migliore lo

ha svolto Samsung che, per lanciare al

pubblico il suo ultimo smartphone Galaxy SIII, ha proposto una pubblicità che rende il cellulare una

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sorta di umano capace di carpire, di comprendere i desideri degli utenti, creando un’atmosfera

assai realistica e chiudendo il tutto con uno slogan ad effetto: “Galaxy SIII, designed for

humans”(vedere immagine sopra).

A mio avviso, a molti marketing managers interessa, come alla fine è giusto che sia, solamente il

profitto. Da questo punto di vista gioca un ruolo di chiave la teoria di Clotaire Rapaille, uno

psicologo francese naturalizzato americano che lavora per aziende come Chrysler, Nestlé e l’Oréal

e che ha capito che per vendere molto è importante coinvolgere il consumatore dal punto di vista

emozionale, non razionale; ciò avviene carpendo i codici culturali determinati da un preciso

contesto socio – economico che caratterizzano una società. Lo scopo di Rapaille quindi è si quello

di emozionare, ma non per il gusto di farlo: l’emozione è solo uno strumento per realizzare

maggiori guadagni, non un qualcosa da donare ai consumatori. Lo psicologo nella sua teoria parla

anche di imprinting, ossia una specie di inconscio collettivo che caratterizza ogni cultura e che

indica l’apprendimento di un comportamento conseguente a delle particolari esperienze vissute.

Esiste un imprinting per gli americani, un imprinting per gli inglesi, un imprinting per i francesi e

così via. L’imprinting degli italiani corrisponde alla concezione della vita come una commedia; essi

pensano che l’amore porti piacere, bellezza e divertimento e per questo non amano un rapporto

troppo drammatico o complesso. La cultura italiana è fortemente incentrata sulla famiglia e la

mamma è considerata la sua colonna portante. L’amore è quindi associato a quello materno: gli

uomini cercano il vero amore in relazione al rapporto che hanno avuto con la madre e le donne

pensano che il modo migliore per sperimentare l’amore sia diventare madri. Per questo molto

spesso l’uomo giusto è quello che riesce a dare loro un figlio. L’imprinting è fondamentale per

riconoscere il codice culturale: ad esempio i francesi, quando vedono una Jeep, hanno dei ricordi

relativi alla seconda Guerra Mondiale; ecco, le emozioni e le reazioni provocate da questi ricordi

costituiscono l’imprinting, e il codice culturale implica le concezioni relative alla guerra e derivanti

dagli imprinting stessi.

Per Rapaille quindi, questi due concetti sono necessari per esercitare nel migliore dei modi il

marketing emozionale. E Rapaille è un punto di riferimento per molte persone che lavorano in

quest’ambito, soprattutto da alcuni anni a questa parte. L’emozione è entrata sempre più nel

mondo delle vendite, specialmente nelle pubblicità, e di questi tempi svolge un ruolo chiave: saper

vincere la concorrenza in tempi di crisi come quelli attuali, infatti, è diventata la prima regola in

molte aziende.

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Io personalmente non reputo giusta dal punto di vista etico questa evoluzione del marketing.

L’emozione caratterizza ogni persona ed ogni cultura, ed è qualcosa che non ha un valore

monetario, un prezzo. Il marketing l’ha resa così, una merce, associandola con un forte legame ai

prodotti. Non è giusto a mio avviso giocare con essa, perché appunto è qualcosa di riservato, di

individuale sia a livello di persone sia a livello di collettività. L’errore di questo tipo di marketing è

stato appunto quello di rendere le emozioni un oggetto da comprare, un prodotto, facendo

perdere loro il valore spirituale. E molte persone senza scrupoli, purtroppo, ci giocano con esse. È

così che i consumatori diventano dei burattini, e gli uomini d’affari coloro che li governano.

Addirittura, li governano così bene che spesso la gente non si accorge di ciò che sta subendo, anzi,

cade ciecamente nella trappola che è stata loro tesa. Questo, personalmente, è l’aspetto che più

infastidisce: una volta caduti nella trappola, quando è ora di acquistare, è come se si comprasse

una seconda anima. Ogni persona invece ne ha già una di sua, frutto di esperienze e relazioni, di

piaceri e di sofferenze, di gioie e di dolori, diversa da ogni altra e che per questo non ha prezzo.

C’è chi prova a vendercela, incurante del suo profondo significato. Ma, si sa, gli affari sono affari.

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Bibliografia e Sitografia

“Nuovi profili storici, vol. 3” di Andrea Giardina, Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto

(Editori Laterza)

“Itinerario nell’arte, vol. 3” di Giorgio Cricco e Francesco Paolo di Teodoro (Zanichelli)

“C.R.E.A.T.E.” di Mirko Pallera (Sperling & Kupfer)

www.wikipedia.it

www.ninjamarketing.it