Lo Stato differenziato. Contributo allo studio dei principi di uniformità e differenziazione,...

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STUDI DI DIRITTO DELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE Collana diretta da Guido Corso - Giorgio Pastori - Domenico Sorace - Paolo Stella Richter —————————————————————————————— 14

Transcript of Lo Stato differenziato. Contributo allo studio dei principi di uniformità e differenziazione,...

STUDI DI DIRITTO DELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE

Collana diretta daGuido Corso - Giorgio Pastori - Domenico Sorace - Paolo Stella Richter

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14

ENRICO CARLONI

G. GIAPPICHELLI EDITORE – TORINO

LO STATO DIFFERENZIATOCONTRIBUTO ALLO STUDIO DEI PRINCIPI

DI UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE

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Bref, nous voici tous égaux – en tout cas, devant la loi. En tout cas, dans l’Etat unitaire. Mais [...] la meme principe d’égalité vaut-il-là ou les ordres juri-diques sont multiples? Vaut-il aussi dans l’Etat composé, dans l’Etat fédéral, dans l’Etat pluriel, dans l’Etat multiple?

F. DELPÉRÉE, Egalité et pluralité des ordres juridiques.

I SERVIZI DI PUBBLICA UTILITÀ VI

INDICE

pag.

Premessa XV

PARTE PRIMA

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO.

PROFILI TEORICI E STORICI

CAPITOLO PRIMO

CONTRIBUTI ALLA DEFINIZIONE DEI PRINCIPI DI UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE

1. Un’introduzione (di metodo e di merito) 3 2. Uniformità e differenziazione 10 2.1. L’uniformità come principio di organizzazione dell’ordina-

mento 10 2.2. Principio e modelli di uniformità 16 3. Autonoma rilevanza della nozione di uniformità 20 3.1. Unificazione internazionale, armonizzazione ed uni-

ficazione interna 20 3.2. Unità ed uniformità 23 3.3. Uguaglianza ed uniformità 28 3.4. Autonomia ed uniformità 33 3.4.1. Segue: non coincidenza delle nozioni di differenzia-

zione ed autonomia 36

INDICE VIII

pag.

CAPITOLO SECONDO

CONCETTI E GRADI DELL’UNIFORMITÀ E DELLA DIFFERENZIAZIONE

1. Emersione delle nozioni di uniformità e differenziazione e loro

caratteri 41 2. Variabili quantitative della differenziazione 44 3. Gradi di differenziazione come gradi di autonomia 48 3.1. Difformità 48 3.2. Differenziazione eteronoma, autonoma, normativa (autono-

mica) 53 4. L’uniformità ed i suoi oggetti. Sfere e fuochi dell’uniformità e del-

la differenziazione 57 5. L’uniformità come condizionamento dell’autonomia. I meccani-

smi dell’uniformità 60 6. Ulteriori scomposizioni: la differenziazione funzionale. Uniformità e

differenziazione come criteri di riparto di competenze 63

CAPITOLO TERZO

SPUNTI PER LA RICOSTRUZIONE DEI FONDAMENTI

DEL PRINCIPIO DI UNIFORMITÀ 1. Il principio di uniformità e del suo collegamento con i principi di

uguaglianza ed unità 69 2. Fondamenti teorici del modello dell’uniformità e resistenze e cri-

tiche alla sua affermazione 73 3. Uniformità e superamento dei particolarismi giuridici negli Stati

nazionali 78 4. Il modello “tradizionale”: l’uniformità formale e di principio (e la

differenziazione come eccezione) 83 5. Assunzione dell’uniformità amministrativa come valore (e sua

“confusione” con l’uniformità normativa) 85 5.1. L’uniformità come uguaglianza dei soggetti dotati di auto-

nomia 85 5.2. Uniformità delle amministrazioni come strumento per l’ugua-

glianza dei cittadini 89

INDICE IX

pag.

CAPITOLO QUARTO

SVILUPPO E DIFFUSIONE DELL’UNIFORMITÀ AMMINISTRATIVA LOCALE

NELL’ORDINAMENTO ITALIANO PRE REPUBBLICANO

1. Il Regno sabaudo e la diffusione del modello francese dell’uni-

formità amministrativa locale 91 1.1. Tendenze di fondo: continuità tra spinta accentratrice della

monarchia e modello francese 93 1.2. La legge Rattazzi del 1859 95 2. Uniformità ed unificazione: il dibattito politico e la scelta del-

l’uniformità nella legislazione dell’unificazione 97 3. Successivi sviluppi del modello: vere e presunte crepe nell’unifor-

mità amministrativa 100 3.1. Differenziazione organizzativa e differenziazione funzionale

nel periodo pre repubblicano 100

PARTE SECONDA

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE

CAPITOLO QUINTO

TRATTI GENERALI DEL (TRADIZIONALE) MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ

1. Eguaglianza e pluralismo nel quadro costituzionale. Tratti gene-

rali del modello costituzionale dell’uniformità 107 2. Il “regionalismo dell’uniformità” nelle previsioni costituzionali e

nella loro attuazione 112 2.1. Centralismo e autonomia nella ritardata istituzione delle

Regioni 112 2.2. La ripartizione competenziale come determinazione della

sfera (generale) dell’uniformità 116 2.3.1. Limiti alla differenziazione su base regionale: brevi

cenni sulla potestà legislativa ed amministrativa regio-nale e sui poteri uniformanti dello Stato centrale 122

INDICE X

pag.

3. I fatti differenziali nell’ordinamento costituzionale: le Regioni speciali 127

4. Del (vero o presunto) carattere necessario dell’uniformità delle amministrazioni pubbliche nel sistema costituzionale 130

4.1. L’uniformità delle pubbliche amministrazioni come applica-zione del principio di uguaglianza: due percorsi per la sua esclusione 130

4.2. La necessaria uniformità “a partire dai diritti”: uniforme di-sciplina dei diritti fondamentali e vincoli organizzativi al-l’uniformità (cenni introduttivi) 135

5. Affioramenti del principio dell’uniformità amministrativa 140 5.1. Limiti all’autodifferenziazione regionale: riflessioni intorno

alla potestà statutaria 140 5.2. I poteri locali come (presunto) archetipo del principio di uni-

formità nel sistema costituzionale: legislazione generale e di principio, differenziazione eteronoma ed autonoma 143

CAPITOLO SESTO

INCRINATURE DEL MODELLO DELL’UNIFORMITÀ LOCALE

NELL’EVOLUZIONE LEGISLATIVA DEL SISTEMA

1. L’ordinamento legislativo dei poteri locali nel periodo repubbli-

cano. La differenziazione come eccezione: uniformità e problema del riordino territoriale 149

2. La riforma dell’ordinamento locale: la legge n. 142 del 1990 e la prima rottura formale del principio di uniformità amministrativa locale 154

3. Aperture alla differenziazione nella legge n. 142 del 1990 157 3.1. Rapporto tra la potestà statutaria e l’art. 128 Cost. nell’evo-

luzione del sistema 157 3.2. L’art. 3 della legge n. 142 e l’eterodifferenziazione regionale

delle funzioni locali 160 3.3. Margini di autodifferenziazione funzionale nell’art. 9 della

legge n. 142: l’assunzione di “funzioni ulteriori” 164 4. I tentativi di risposta all’insufficienza della dimensione comuna-

le: soluzioni nella linea dell’uniformità e in quella della differen-ziazione 165

4.1. Le “Aree metropolitane” come enti locali a natura differen-ziata 167

INDICE XI

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4.2. Ordinamenti differenziati per le Comunità montane 169 4.3. Forme associative ed ambiti territoriali ottimali, tra diffe-

renziazione funzionale e riordino territoriale 174 5. La legge n. 59 del 1997 e la positivizzazione del principio di diffe-

renziazione (funzionale) 177 5.1. Lo scenario di fondo della legge n. 59: la riforma costituzio-

nale della Bicamerale ed il suo fallimento 177 5.2. Il principio di differenziazione funzionale nella legge n. 59

del 1997 179 6. Il decreto n. 112 del 1998 e l’attuazione dei principi della legge n.

59 del 1997. Recenti (e disorganiche) tendenze alla differenzia-zione nella normativa sulle autonomie locali 184

PARTE TERZA

LO STATO DIFFERENZIATO

CAPITOLO SETTIMO

VERSO UN NUOVO MODELLO DI UNIFORMITÀ: PROFILI GENERALI

DELLA RIFORMA COSTITUZIONALE 1. Dal modello in mutamento al mutamento di modello. La riforma

del Titolo V della parte II della Costituzione: prime suggestioni 191 2. Differenziazione amministrativa e differenziazione normativa. Ra-

gioni e caratteri del loro collegamento nel momento della loro scomposizione 197

3. Caratteri fondamentali del nuovo modello di uniformità 200 3.1. La scissione di uniformità normativa ed uniformità ammini-

strativa 200 3.2. Il nuovo modello e le definizioni: dall’uniformità forte al-

l’uniformità spessa, sottile, di base 203 3.3. Lo Stato autonomico e le sue conseguenze: prime riflessioni

intorno alle ripercussioni della riforma sulla prima parte della Costituzione 207

4. Differenziazione, specialità, asimmetria: differenziazione dei sog-getti di autonomia e differenziazione autonomia 212

4.1. Le Regioni speciali: ragione della persistenza di un modello e sua giustificazione (alla ricerca dei fatti differenziali nel-l’ordinamento repubblicano) 214

INDICE XII

pag.

4.2. Asimmetria e principio dispositivo: a proposito della clauso-la di asimmetria dell’art. 116 Cost. 218

5. Note ai margini dei progetti di “riforma della riforma” 224

CAPITOLO OTTAVO

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 1. Sfere di uniformità e di differenziazione normativa 233 2. La sfera dell’uniformità “spessa” (o di regolazione) 239 2.1. L’uniformità nella regolazione comunitaria. Il modello comuni-

tario dell’uniformità come riferimento per il nuovo ordine 239 2.2. L’uniformità “spessa” del secondo comma dell’art. 117 241 3. La sfera dell’uniformità “sottile” (o di principio) 244 3.1. La difficile compatibilità di un modello e le tensioni verso la

sua rilettura 250 4. Gli ambiti ad uniformità costituzionalmente garantita 254 4.1. Le materie ed i diritti: brevi riflessioni sui diritti costituzio-

nali tra universalità e differenziazione territoriale 258 4.2. Diritti sociali e diritti civili nella differenziazione autonomi-

ca: profili applicativi 261 5. L’uniformità di base nel godimento dei diritti. Il ruolo dei “livelli

essenziali” per la costruzione di un nuovo modello di uniformità 266 6. I meccanismi dell’uniformità nel federalismo fiscale: note intro-

duttive 275 7. La sfera della differenziazione su base regionale 279 7.1. Potestà legislativa regionale “generale e residuale” ed ampiez-

za (e limiti) della differenziazione autonomia 279

CAPITOLO NONO

PRINCIPIO E MODELLI DELLA DIFFERENZIAZIONE AMMINISTRATIVA

1. Il superamento dell’uniformità amministrativa 287 1.1. L’affermazione del principio di differenziazione (nell’ammi-

nistrazione) 287 1.2. La progressiva ascesa della differenziazione amministrativa 292 2. La “necessaria differenziazione” delle pubbliche amministrazio-

ni: carattere avaloriale dell’uniformità e della differenziazione amministrativa 296

INDICE XIII

pag.

3. Modelli differenziati per le autonomie locali 301 3.1. La previsione delle Città Metropolitane 301 3.2. La differenziazione come ius singulare: l’ordinamento (ete-

rodifferenziato) della Capitale 303 4. Le funzioni amministrative 305 4.1. Uniformità e differenziazione nell’attribuzione di funzioni

alle autonomie locali. Le funzioni fondamentali degli enti lo-cali come dimensione dell’uniformità. Problemi aperti 305

4.2. La costituzionalizazione del principio di differenziazione (nella sussidiarietà) come criterio di riparto competenziale. Il ruolo dello Stato ed il ruolo delle Regioni 311

5. L’organizzazione 314 5.1. Uniformità organizzative e funzioni statali “finali” e “tra-

sversali”: in particolare, i c.d. “livelli essenziali” 314 5.2. L’autonomia organizzativa regionale ed i suoi limiti. La di-

sciplina costituzionale dell’organizzazione regionale 319 5.3. L’autonomia organizzativa locale ed i suoi limiti. Previsioni

costituzionali e limiti alla differenziazione locale. La resi-stenza dell’uniformità organizzativa: la legge 5 giugno 2003, n. 131 327

6. Il ruolo della legislazione (statale e regionale) di fronte ad una am-ministrazione differenziata. Dalla garanzia dell’uniformità nell’am-ministrazione alla garanzia nella legge: verso una differenziazione amministrativa “ad effetto equivalente” 331

POST SCRIPTUM Resistibile o irresistibile ascesa della differenziazione? Spunti per

proseguire alla ricerca delle ragioni (metagiuridiche) dei processi in atto 335

Bibliografia 343

INDICE XIV

PREMESSA

Trasformare l’organizzazione senza toccare i valori che, attraverso questa stessa organizzazione, sono realizzati. Ridefinire i caratteri fon-danti la struttura dello Stato, senza toccare l’essenza degli interessi che questo persegue, senza interferire sugli scopi che questo si propone.

È forse questa la grande mistificazione dietro alla “piccola riforma” costituzionale del Titolo V della Parte II della Costituzione, dichiarata-mente rivolta a rimodellare lo strumentario organizzativo della Repub-blica a fronte di un immodificato assetto degli interessi pubblici primari prefigurati dalla prima parte della Costituzione, ed a fronte di una, pre-sunta, inattaccabilità dei diritti individuali e dei principi costituzionali ad opera della sovrastruttura organizzativa.

Vero è che i diritti ed i doveri degli individui, gli scopi dei pubblici poteri, i principi fondamentali, restano immodificati dalla riforma, così che resta impregiudicato il contenuto astratto delle situazioni giuridiche costituzionalmente rilevanti in quanto le si esamini “in sé”.

Ma appena si voglia scendere nel concreto della traduzione che, giu-ridicamente e non già solo di fatto, di questi stessi diritti e doveri è data dall’ordinamento, dobbiamo confrontarci con il momento organizzativo, che, attraverso la distribuzione di compiti e funzioni, i modelli di fun-zionamento e di strutturazione dei soggetti pubblici, definisce e prefigu-ra alcuni tratti del diritto e dell’interesse che questi stessi apparati sa-ranno chiamati a perseguire. Le scelte, costituzionali e legislative, di or-ganizzazione, incidono, in altri termini, sulle future modalità di garan-zia e tutela degli interessi.

Il problema organizzativo non è, allora, irrilevante per l’ammini-strazione, laddove attraverso la definizione dei profili organizzativi si predefinisce l’interesse oggetto di attenzione, e, soprattutto, si determi-nano i modi per assicurarne la cura. L’organizzazione fornisce, dunque, risposta agli interessi e, facendo questo, ne determina il contenuto giu-ridico.

L’analisi del principio di uniformità, riferito alle pubbliche ammini-

PREMESSA XVI

strazioni ed al ruolo di queste, agevola una lettura in trasparenza del ri-lievo che, pure, si vorrebbe negare alla dimensione organizzativa (ma-croorganizzativa, in questo caso), in favore di una “più evoluta logica dell’equivalenza”, quasi che la dimensione dei pezzi che compongono un puzzle fosse irrilevante rispetto alla visione finale dell’immagine deri-vante dalla composizione di questi.

L’uniformità, giunta al punto terminale della sua parabola, voleva es-sere, in realtà, traduzione in termini organizzativi delle esigenze di ugua-glianza e certezza che, per altri versi, si realizzavano (o volevano realiz-zarsi), attraverso i caratteri stessi della legge, generale ed astratta e, quin-di, uniforme e prevedibile.

Come questo modello, proprio del mondo di ieri, mal si adattasse allo Stato pluriclasse, ed ora globalizzato, è stato attentamente rilevato: dopo l’età della decodificazione del diritto privato assistiamo, ora, all’età della differenziazione del diritto pubblico, della quale la differenziazione delle amministrazioni ed attraverso le amministrazioni, che qui affrontiamo, non è che una (parziale) manifestazione.

Il modello dell’uniformità è in crisi, e dalle sue ceneri emerge un si-stema che si fonda su nuovi e diversi presupposti, su nuovi e diversi prin-cipi.

La disarticolazione dell’uniformità operata dalle recenti riforme, co-ronamento, a ben vedere, di una tendenza risalente, vale a dire il supe-ramento di un modello che informava l’ordinamento complessivo della Repubblica e che si poneva come strumentale all’uguaglianza dei citta-dini, essendone traduzione in principio organizzativo, pone ora la ne-cessità di rileggere i caratteri in cui la stessa uguaglianza si esprime. Il principio di uguaglianza, incardinatosi nei tratti costitutivi del modello di Stato delineato dall’Assemblea Costituente, è, infatti, esso stesso sog-getto a revisione, anche in quanto lo si intenda riferito alle situazioni giuridiche dei cittadini, essendo stato oggetto di progressivo ripensa-mento nelle modalità in cui si traduceva quale principio di articolazione della Repubblica.

La crisi dell’uniformità è, in questo senso, crisi di un determinato mo-dello di uguaglianza. È rimodulazione dell’equilibrio tra unità/eguaglianza ed autonomia/differenza, è superamento di un modello costituzionale di uniformità e ridefinizione dell’uniformità come principio.

A fronte della “rottura dell’uniformità”, amministrativa e normativa, vale a dire all’apertura di differenziazione delle amministrazioni ed ad opera delle amministrazioni (autonome), si va a definire un “nuovo ordi-ne”, che persegue l’uguaglianza (ora sostanziale e di base) attraverso nuovi e diversi meccanismi organizzativi.

PREMESSA XVII

Nel momento in cui è più forte la crisi dell’uniformità, quale princi-pio di articolazione di uno Stato pluralista, oltre che quale risultato (pe-raltro non univoco) di processi di regolazione condotti dal centro e, per-ciò, unitari, diviene necessario cercare di ripercorrere le ragioni che era-no state alla base della sua affermazione, così che il suo superamento, laddove acquisito, non comporti necessariamente il superamento dei va-lori di cui era stata espressione.

Questo perché mettere in discussione un modello di uniformità quale applicazione forte del principio di uguaglianza riferito alla strutturazio-ne della Repubblica, e quindi come “garanzia di diritto obiettivo”, signi-fica, inevitabilmente, dover rileggere il principio di uguaglianza in sé, e quindi circoscrivere l’area entro cui questo si manifesta (continua a ma-nifestarsi) nei suoi tratti tradizionali.

Un modello nuovo, dunque, quello che si presenta all’interprete: un modello difficilmente definibile in termini assoluti e valutativi (migliore, peggiore) rispetto al precedente. Una transizione frutto di continuità, espressione di una lenta, forse inesorabile, evoluzione dell’ordinamento, ma anche una transizione che si realizza, ora, attraverso una cesura, la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, con la quale dal modello in transizione si volta pagina, per realizzare la transizione del modello.

Dallo Stato uniforme, allo Stato differenziato, dunque, per usare delle definizioni evocative. Definizioni peraltro corrette solo dietro la precisa-zione che “differenziato” non è lo Stato apparato, ma lo Stato ordina-mento: la Repubblica differenziata sarebbe stata definizione più precisa, o meglio, che non avrebbe avuto bisogno di ulteriori precisazioni.

Un processo, la progressiva crisi del modello dell’uniformità, ed un punto di arrivo, la riforma costituzionale che ne segna il superamento, dunque. Il passaggio da una uniformità formale, quasi di facciata, che ammetteva implicitamente diversità sostanziali formidabili, ad una dif-ferenziazione (dei percorsi) in vista di una nuova uniformità. Il segno della discontinuità è forte, come sono rilevanti le conseguenze di questa cesura: una diversità nelle situazioni giuridiche formalmente riconosciu-te ai cittadini, un possibile superamento di una visione universalistica di diritti ora suscettibili di differenziazione in quanto affidati all’auto-nomia delle realtà territoriali; ma anche una reale, non più virtuale, uni-formità nelle condizioni di vita, nel contenuto essenziale dei diritti. Un’uniformità, ancora, che non passa più, in via generale, per l’unifor-mità delle amministrazioni.

* * *

PREMESSA XVIII

Questo lavoro è frutto di un’attività di studio e ricerca svolta, nel-l’arco di un quinquennio, prima presso la Scuola di Specializzazione in Scienze Amministrative dell’Università di Bologna, poi presso il Dipar-timento Istituzioni e Società dell’Università di Perugia. Questo rende di fatto difficile ringraziare quanti, a diverso titolo, hanno supportato e re-so quindi possibile l’inquadramento, l’articolazione, ed infine la definiti-va stesura di questo lavoro.

Un ringraziameno del tutto particolare va però senza dubbio a Fran-cesco Merloni, che sin dall’inizio ha seguito e guidato i miei studi, e a Luciano Vandelli. I loro “pensieri lunghi” sono all’origine di questo lavo-ro, ed è grazie a loro che ho potuto dedicarmi ad un tema che solo ora riesco a cogliere nella sua complessità.

Che poi sia riuscito a governare questa complessità è un’altra que-stione.

Un ringraziamento, ancora, ad Alessandra Pioggia ed ai curatori di questa Collana, i Professori Guido Corso, Giorgio Pastori, Domenico So-race e Paolo Stella Richter: i loro consigli sono stati di prezioso aiuto nella stesura definitiva di questo lavoro. Ciò non toglie, ovviamente, che gli errori eventualmente presenti siano da attribuire esclusivamente al-l’autore.

E. C.

Perugia, 29 marzo 2004

PARTE PRIMA

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO.

PROFILI TEORICI E STORICI

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 2

CONTRIBUTI ALLA DEFINIZIONE DEI PRINCIPI DI UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE 3

CAPITOLO PRIMO

CONTRIBUTI ALLA DEFINIZIONE DEI PRINCIPI DI UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE

SOMMARIO: 1. Un’introduzione (di metodo e di merito). – 2. Uniformità e differenziazio-ne. – 2.1. L’uniformità come principio di organizzazione dell’ordinamento. – 2.2. Prin-cipio e modelli di uniformità. – 3. Autonoma rilevanza della nozione di uniformità. – 3.1. Unificazione internazionale, armonizzazione ed unificazione interna. – 3.2. Unità ed uniformità. – 3.3. Uguaglianza ed uniformità. – 3.4. Autonomia ed uniformità. – 3.4.1. Segue: non coincidenza delle nozioni di differenziazione ed autonomia.

1. Un’introduzione (di metodo e di merito)

Affrontare lo studio delle nozioni di uniformità e differenziazione de-termina, in prima battuta, la necessità di confrontarci con l’estrema lati-tudine di questi concetti: utilizzati a livello giuridico ora con riferimento a fenomeni non omogenei, ora in un’accezione ampia e quasi atecnica, ora in modi e forme più circoscritti, ma spesso tra loro diversi. Pure è forte, in primo luogo nella dottrina, ma anche a livello giurisprudenziale e normativo, un ricorso a queste nozioni: un’attenzione, però, disconti-nua, che si concentra allo snodo di tensioni dell’ordinamento e tende a sfumare allorché queste tensioni si attenuano

1.

1 Questo, in particolare, è evidente nel nostro ordinamento con riferimento al tema dell’uniformità/differenziazione dei poteri locali: l’attenzione al problema emerge in cor-rispondenza di fasi di (realizzato o tentato) riordino territoriale o di nuova disciplina dell’ordinamento degli enti territoriali. Così, a titolo esemplificativo, si segnala la forte attenzione al tema in corrispondenza dell’estensione a tutto il territorio nazionale del mo-dello francese e sabaudo dell’uniformità comunale e fino al consolidamento del modello nel periodo giolittiano; di nuovo, in corrispondenza della prima fase repubblicana ed in occasione delle diverse fasi del decentramento (primo, secondo, terzo decentramento); in occasione dei tentativi di riordino territoriale locale ed in corrispondenza della definizio-ne del nuovo ordinamento delle autonomie locali. Si vedano, in tal senso, le ricche ricostru-zioni dell’evoluzione dei sistemi locali operate, tra gli altri, da L. VANDELLI, Poteri locali.

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 4

Non è certo possibile dare conto della molteplicità degli usi fatti di queste nozioni, né delle circostanze nelle quali il loro utilizzo è stato più forte: possiamo però muovere da due evidenze, l’una di ordine negativo, l’altra di ordine positivo.

La prima: in materia non esistono approfondimenti teorici che tratti-no le nozioni in sé

2. In particolare non nelle sedi deputate a questo (voci enciclopediche

3, manuali 4, saggi di teoria generale, monografie di teoria

Le origini nella Francia rivoluzionaria. Le prospettive nell’Europa delle regioni, Bologna, 1990 e successivamente da G. VESPERINI, I poteri locali, II voll., Catanzaro-Roma, 1999. Spunti nel senso indicato emergono però chiaramente anche dalla lettura di analisi precedenti: a partire da quella di U. BORSI, Regime uniforme e regime differenziale nell’autarchia locale, in Riv. dir. pubbl. giust. amm., 1927, 7 ss.; fino a quelle di S. CASSESE, Tendenze dei poteri locali in Italia, in Riv. trim. dir. pubbl., 1973, 283 ss. e G. BERTI, Crisi e trasformazione del-l’amministrazione locale, ivi, 681 ss.

2 Le nozioni di uniformità e differenziazione (né termini analoghi che definiscano le medesime problematiche) non sono rinvenibili, inoltre, come criteri classificatori nelle principali banche dati giuridiche (cfr., in tal senso, la banca dati di dottrina giuridica dell’Ittig, già IDG: DOGI).

3 Nelle enciclopedie giuspubblicistiche italiane non è rinvenibile una voce dedicata al-le nozioni in esame (cfr. Digesto delle discipline pubblicistiche; Enciclopedia del diritto; En-ciclopedia giuridica), e lo stesso avviene a livello di dizionari enciclopedici giuridici; nelle altre scienze sociali la nozione è trattata frequentemente, ma ha un senso evidentemente non comparabile (così, a solo titolo di esempio, la voce Differenziazione sociale, in L. GAL-LINO, Dizionario di sociologia, Torino, 1993, 226 ss.; o le voci Differenza, Differenziazione ed Uniforme, agg., in N. ABBAGNANO, Dizionario di filosofia, Torino, 2001, rispettivamente 286-287 e 1127).

4 Limitando, l’analisi ai manuali, recenti o riediti di recente, provvisti di indice analiti-co (questo non solo per evidenti ragioni pratiche), si evince come la nozione di uniformi-tà (o di differenziazione) non sia di norma menzionata tra gli argomenti trattati (e dalla classificazione in una specifica “voce” emerge la percezione dell’autonomia della nozio-ne). In tal senso, tra gli altri, cfr. M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, II voll., Milano, 1993; D. SORACE, Diritto delle amministrazioni pubbliche. Un’introduzione, Bologna, 2001; V. CERULLI IRELLI, Corso di diritto amministrativo, Torino, 1999; G. CORSO, Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2003; S. LARICCIA, Diritto amministrativo, Padova, 2000; R. GALLI-D. GALLI, Corso di diritto amministrativo, II voll., Padova, 2001; E. CASETTA, Ma-nuale di diritto amministrativo, Milano, 2001; F. CARINGELLA, Il diritto amministrativo, Napoli, 2001). Non si discostano da tale tendenza né i principali manuali di diritto pub-blico generale e di diritto costituzionale (per tutti: T. MARTINES, Diritto costituzionale, Mi-lano, 1996; C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, II voll., Padova, 1972; G. FALCON, Lineamenti di diritto pubblico, Padova, 1996; P. CARETTI-U. DE SIERVO, Istituzioni di dirit-to pubblico, Torino, 1996; F. CUOCOLO, Istituzioni di diritto pubblico, Milano, 1998; A. BARBERA-C. FUSARO, Corso di diritto pubblico, Bologna, 2001), né quelli “di settore”: di diritto regionale (cfr. per tutti, L. PALADIN, Diritto regionale, Padova, 1990), ma neppure di diritto degli enti locali (cfr., tra gli altri, F. STADERINI, Diritto degli enti locali, Padova, 2000; fa eccezione il manuale di L. VANDELLI, Le autonomie territoriali, II, I comuni e le province, Bologna, 1996 che, seppure sprovvisto di indice analitico, dedica un apposito paragrafo alla “uniformità del regime municipale” [ivi, 15]). Talora, nei manuali più re-centi, è altresì possibile rinvenire una menzione della nozione di differenziazione (come criterio di riparto competenziale), nel senso datone dalla L.59 del 1997 ed ora dell’art.118 Cost. (così V. ITALIA-G. LANDI-G. POTENZA, Manuale di diritto amministrativo, Milano,

CONTRIBUTI ALLA DEFINIZIONE DEI PRINCIPI DI UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE 5

generale 5. Esistono, altresì, una messe di spunti, suggestioni, slanci pro-

blematici di taglio anche generale 6.

La seconda, che ne consegue: esistono, questo sì, una pluralità di ap-procci al tema, che lo affrontano però da uno specifico punto di vista, con riferimento ad un possibile significato delle nozioni

7. Le quali sono suscettibili di approcci differenti, così che è tagliandole sotto una ango-lazione specifica che parlare di uniformità e differenziazione acquista un senso definito, utile a fini discretivi, prescrittivi, valutativi. Le catego-rie che ne discendono si prestano, però, ad un utilizzo plurale, entro il quale possiamo ricondurre fenomeni prima faciae non omogenei

8: il

2000). A livello generale, l’eccezione di maggior rilievo, anche per l’attenzione dedicata alla nozione, è data però da S. CASSESE, Le basi del diritto amministrativo, Torino, 1989 (poi Milano, 2000) (dove è riferita al tema dell’uniformità organizzativa, non solo dei sog-getti autonomi: l’uniformità, sul modello francese, è «strumento della centralizzazione e garanzia che tutte le parti dell’amministrazione si muovano all’unisono» [ivi, 15], secondo un modello che risale alla Costituzione rivoluzionaria dell’anno VIII, la quale portò al riordino delle strutture amministrative «secondo i criteri dell’uniformità, dell’accen-tramento e della gerarchia» [ivi, 35]); il manuale a cura di L. MAZZAROLLI ET AL. (Diritto amministrativo, II voll., Bologna, 1998) prevede la nozione di “plurimorfismo”, termine nel quale è evidente l’influsso di Nigro (cfr. M. NIGRO, voce Amministrazione pubblica, in Enc. giur. Treccani, II, 1988, spec. 3), come sottovoce di “Organizzazione amministrativa”.

5 Solo ripercorrendo alcuni contributi che espressamente trattano un profilo del tema, emerge però l’eterogeneità degli approcci: si va dalla differenziazione come speciali-tà/asimmetria delle realtà regionali (L. ANTONINI, Il regionalismo differenziato, Milano, 2000, che costituisce in parte eccezione, dal momento che mira a dare una definizione più ampia del fenomeno della differenziazione; in questo senso, da ultimo, v. anche C. BUZZACCHI, Uniformità e differenziazione nel sistema delle autonomie, Milano, 2003) e fe-derali (P. PERNTHALER, Lo Stato federale differenziato. Fondamenti teorici, conseguenze pratiche ed ambiti applicativi nella riforma del sistema federale austriaco, Bologna, 1998), alla differenziazione dei regimi locali (eteronoma: U. BORSI, Regime uniforme cit., 7 ss.; autonoma oltre che eteronoma: R. MARRAMA, Gli ordinamenti locali fra uniformismo ed autonomia, in Dir. e società, 1991, 283), alla differenziazione come esercizio di autonomia (così, ad esempio, M. CLARICH, Statuti per differenziare, in Il Mulino, 2000, 467). Ma l’applicabilità della nozione a fenomeni diversi è evidenziata da altri riferimenti: per tutti, N. LUHMANN, La differenziazione del diritto – Contributo alla sociologia e alla teoria del di-ritto, Bologna, 1990.

6 In tal senso, da ultimo: G. ROSSI-A. BENEDETTI, La competenza legislativa statale esclu-siva in materia di livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, in Lav. pubbl. amm., 2002, suppl., 22 ss.

7 Tra gli approcci di più ampio respiro, che restano però sul versante “amministrati-vo” (od “organizzativo”), cfr., per tutti, L. VANDELLI, Poteri locali, cit.

8 Tradizionalmente con le categorie dell’uniformità/ differenziazione si affrontano te-matiche significativamente diverse: la specialità regionale (per tutti, L. PALADIN, Diritto regionale, cit. e, più di recente, P. CAVALERI, Diritto regionale, Padova, 2000); l’insuf-ficienza della dimensione comunale ed il loro regime (così, tra gli altri, L. VANDELLI, Pote-ri locali cit., spec. 387 ss.; S. CASSESE, Tendenze dei poteri locali in Italia, cit.; M.S. GIAN-NINI, Il riassetto dei poteri locali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1971, 452 ss.; ID., I Comuni, in ID. (a cura di), L’ordinamento comunale e provinciale – 1, I Comuni, Vicenza, 1967, 9 ss.;

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 6

primo dato problematico, che costituisce il punto di partenza metodolo-gico nell’approfondimento del tema, è allora se, ed in che misura, sia possibile circoscrivere, entro questi differenti usi delle nozioni, un mi-nimo comune denominatore.

Cosa ricavare da queste due evidenze: l’utilità di un approccio genera-le al tema, pure necessariamente limitato all’area del diritto pubblico

9, è evidenziata dalla pluralità degli spunti in questa direzione

10. Tale opera-zione appare poi significativa per ridefinire i confini delle nozioni, che risentono della molteplicità di modi in cui sono utilizzate.

Sono, come detto, numerosi gli usi fatti di queste nozioni (ed, evi-

G. BERTI, Amministrazione comunale e provinciale, Padova, 1996); l’intervento straordina-rio nel mezzogiorno e gli enti chiamati a realizzarlo (così, tra gli altri, S. CASSESE, Le basi del diritto amministrativo, cit.; M. CAMMELLI, Governo locale e sistema amministrativo nel Mezzogiorno, in Il Mulino, 1999, 426 ss.); il carattere intrinseco dell’autonomia (in parti-colare, cfr. F. MERLONI, Autonomia e libertà nel sistema della ricerca scientifica, Milano, 1990, 107 ss.); l’organizzazione dello Stato centrale e la differenza nei modelli organizza-tivi, nazionali e non (tra gli altri G. D’ALESSIO, Prospettive di riforma, in S. SEPE (a cura di), I modelli organizzativi delle amministrazioni pubbliche tra accentramento e decentra-mento, Milano, 1998, 27 ss.; L. TORCHIA, La modernizzazione del sistema amministrativo: semplificazione e decentramento, in Regioni, 1997, 329 ss.; M. CAMMELLI, Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo Titolo V della Costituzione, in Regioni, 2001, 1273 ss.); la di-versa disciplina giuridica dei cittadini sul territorio (come risultato dell’autonomia: cfr. G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, in Regioni, 2001, 1247 ss.; come conseguenza di differenziazioni organizzative e finanziarie: cfr. J. GARCÌA MORILLO, Autonomia, asimmetria e principio di eguaglianza: il caso spagno-lo, in S. GAMBINO (a cura di), Stati nazionali e poteri locali. La distribuzione territoriale del-le competenze, Rimini, 1998, 103 ss., seppure in relazione all’esperienza spagnola); il ri-parto di funzioni tra i livelli territoriali (tema particolarmente trattato, anche alla luce delle recenti previsioni dell’art. 4 della legge n. 59 del 1997 e da ultimo dell’art. 118 Cost.: cfr., con riferimento alla riforma ordinaria, L. VANDELLI, Dalle aree metropolitane ai Co-muni minori: riordino territoriale e forme di collaborazione, in Regioni, 1997, 831 ss.). Il tutto, evidentemente, senza pretesa di esaustività.

9 Stimoli non minori emergono nell’ambito della scienza giusprivatistica: comune è la difficoltà di ricondurre una realtà via via più complessa entro modelli normativi generali ed astratti. Diverse sono però, evidentemente, le problematiche che i fenomeni sollevano nell’uno e nell’altro caso. Sul punto (e con la precisazione che le tensioni in atto non sono riducibili al solo fenomeno della decodificazione), salvo ritornarvi, cfr. sin d’ora N. IRTI, L’età della decodificazione, Milano, 1979; ed ID., L’età della decodificazione venti anni dopo, in Dir. e società, 1999, 193 ss.

10 Alla radice di questo lavoro gli stimoli di F. MERLONI (in riferimento al moltiplicarsi delle fonti che si affiancano e sostituiscono alla legge nazionale nella definizione delle politiche e nella disciplina delle forme di esercizio delle funzioni pubbliche ne «[…]sarebbe utile una ricostruzione complessiva […] all’interno della continua oscillazione tra spinte all’accentramento (e alla uniforme garanzia dei diritti) e al decentramento (e alla diffe-renziazione delle posizioni giuridiche)»: ID., Autonomia e libertà nel sistema della ricerca scientifica, cit., 110), e di L. VANDELLI, («[…]potrebbe risultare di grande utilità una veri-fica delle tendenze che hanno contrassegnato l’evoluzione dell’ordinamento […] cercando di individuare i quali ambiti e modi, e con quali obiettivi, siano stati applicati criteri di differenziazione […]»: ID., Dalle aree metropolitane, cit., 837-838).

CONTRIBUTI ALLA DEFINIZIONE DEI PRINCIPI DI UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE 7

dentemente, trattarle insieme come elementi di una coppia dicotomica 11

è già la prima scelta di metodo, che circoscrive lo spazio di analisi): pos-siamo ricavarne dei modelli generali, e tra questi evidenziare quelli uti-lizzati in modo ricorrente.

Non è possibile fare questo a livello di introduzione, se non a titolo esemplificativo: possiamo però anticipare, in questa sede, alcune con-clusioni.

La prima: esiste un utilizzo “in senso lato” dei termini che discende dal loro significato semantico, così che questi sono utilizzati ed utilizza-bili con riferimento ad ogni fenomeno giuridico in base al quale ed in virtù del quale realtà diverse sono trattate in modo uniforme o differen-ziato (tra di loro, in relazione ad altre realtà dell’ordinamento). In que-sto senso, la nozione di “uniformità”, come “medesima forma”

12 già ci dice qualcosa in più: le categorie sono utilizzabili, pure nella loro estre-ma latitudine, con riferimento a strutture formali; strutture che possono essere però tanto discipline normative di situazioni giuridiche, quanto organizzazioni

13. La seconda: emergono una serie di utilizzi del termine “in senso tec-

nico” tra loro però non omogenei, o meglio la cui omogeneità è data da un elemento che diversamente entra in rilievo nelle diverse fattispecie: il principio di autonomia. Semplificando

14, di nuovo, con uniformità e dif-

11 Sui caratteri del modello dicotomico, cfr. N. BOBBIO, La grande dicotomia pubblico-privato, in ID., Stato, Governo e Società. Per una teoria generale della politica, Torino, 1990. Recentemente, con riferimento ai termini qui in esame, si è parlato altresì di “coppia op-positiva” (così L. ANTONINI, Il regionalismo differenziato, cit., 11 ss.).

12 Uniforme è ciò «che ha una sola e medesima forma, un solo e medesimo aspetto, costantemente uguale, senza variazioni» (dal latino uni-formis: cfr. Vocabolario della Lin-gua Italiana, IV, Roma, 1987, 1046).

13 Cfr., ad vocem, G. DEVOTO e G.C. OLI, Il dizionario della lingua italiana, Firenze, 1996; non diversamente, tra gli altri, già il Vocabolario dell’Accademia della Crusca (uni-forme come “di una forma, simile, conforme”, secondo l’uso che già ne fece Dante: «sì uniformi son, ch’io non so dire – qual Beatrice, per luogo, mi scelse»; Divina Commedia, Paradiso, c. 1). Una simile limitazione del campo di analisi non emerge dalla nozione di “differenziazione”, etimologicamente più aperta. Sul punto cfr., ad vocem, Dizionario eti-mologico, Bologna, 2002.

14 In questa schematizzazione non rientrano, evidentemente, tutti i differenti usi delle nozioni: in particolare, non vi rientra (e sarà necessario articolarne le ragioni) la differen-ziazione come diversa disciplina di un fenomeno, rispetto ad altri omogenei, in relazione ad un parametro (in particolare di ordine territoriale): nello specifico, se è vero che ogni regolazione crea differenziazione, l’assunzione di un parametro territoriale come giustifi-cazione di politiche e regolazioni diverse viene frequentemente ricondotto ad una (più circoscritta) nozione di differenziazione (v., tra gli altri, S. CASSESE, La nuova costituzio-ne economica, Roma-Bari, 2001, 12 ss., per il quale le leggi speciali per Napoli, la Calabria e la Basilicata segnano, tra il 1885 ed il 1908, l’abbandono dell’uniformità legislativa, dal momento che «introducono […] nell’ordinamento italiano il principio della differenzia-

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 8

ferenziazione si è soliti riferirci tanto alla uniforme/differenziata disci-plina eteronoma dei soggetti dotati di autonomia

15, quanto all’uso di questa autonomia

16, che crea differenziazione 17; ed, ancora, all’apertura

ed al contenimento dall’autonomia degli enti territoriali, nella prospetti-va dell’uniformità/differenziazione della disciplina delle situazioni giuri-diche sul territorio

18. Fenomeni, questi, diversi: cambiano le fonti (statali, di autonomia),

cambiano i soggetti (enti territoriali, individui). Comune è il dato del-l’autonomia: la presenza di spazi (di differenziazione) riconosciuti a sog-getti autonomi spinge l’ordinamento a predisporre meccanismi, che sono meccanismi organizzativi, atti a contenere il potenziale differen-ziante insito in questo riconoscimento, tale che non ne discendano diffe-renziazioni nel godimento delle situazioni giuridiche sul territorio che

zione legislativa»). Tale fenomeno appare in realtà espressione della volontà di governare dal centro fenomeni territoriali, non certo di un apertura all’autonomia (da ultimo si ve-dano i casi di Venezia, Roma-capitale, del Giubileo: regolati dal centro previa dichiara-zione di “interesse nazionale” (la c.d. urbanistica statale), come evidenziato da F. MERLO-NI, La leale collaborazione nella Repubblica delle autonomie, in Dir. pubbl., 2002, 832).

15 In particolare, tanto con riferimento ad una disciplina eteronoma nazionale degli enti territoriali (Regioni, Province, ma soprattutto Comuni), quanto in relazione alla pos-sibilità da parte di enti territoriali diversi di disciplinare (e quindi differenziare) profili dell’ordinamento degli enti territoriali minori. Tale ultimo aspetto, che si lega anche alla problematica sintetizzabile come lo “scontro tra (neo)regionalismo e municipalismo” (su cui v., G. PITRUZZELLA, Municipalismo versus neoregionalismo, in Regioni, 1995, 652 ss.), è stato in particolare oggetto di specifica attenzione dopo l’approvazione della legge n. 142 del 1990 (v. art.3, su cui, per tutti, cfr. sin d’ora L. VANDELLI, L’ordinamento delle au-tonomie locali. 1999-2000: dieci anni di riforme, Rimini, 2000, cui si rinvia sin d’ora anche per la ricca bibliografia): sul punto, cfr. L. ANTONINI, Il regionalismo differenziato, cit. (che parla al riguardo, espressamente, di «rottura dell’uniformità del regime locale»: ivi, 39).

16 Sul tema il primo riferimento è M.S. GIANNINI, Autonomia (saggio sui concetti di au-tonomia), in Riv. trim. dir. pubbl., 1951, 851 ss.; ID., voce Autonomia (teoria generale e di-ritto pubblico), in Enc. dir., IV, 1959, 353 ss. Dello stesso autore, cfr., inoltre, ID., Autono-mia locale ed autogoverno, in Corr. amm., 1948, 1907 ss.; per la dottrina precedente, vedi per tutti S. ROMANO, Autonomia, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1957, 15 ss. e, dello stesso autore, la voce Decentramento amministrativo, in Enc. giur. it., IV, parte I, Milano, 1897, ora in ID., Scritti di diritto amministrativo, II, Milano, 1990, 7 ss. Più di recente, sul concetto di autonomia, vedi A. ROMANO, voce Autonomia nel diritto pubblico, in Dig. disc. pubbl., II, 1987, 31 ss., ed i profili di teoria generale in F. MERLONI, Autonomia e libertà nel sistema della ricerca scientifica, cit., 105 ss.

17 Così, ad esempio, nell’ambito del dibattito sul c.d. “regionalismo della uniformità”, su cui v., in particolare, F. TRIMARCHI BANFI, Il regionalismo e i modelli, in Regioni, 1995, 255 ss.

18 Come ravvisa ad esempio F. MERLONI (La leale collaborazione nella Repubblica delle autonomie, cit., 827 ss.), nel modello precedente alla riforma costituzionale del Titolo V, per le autonomie era «bassissima la capacità di differenziazione normativa», e lo Stato manteneva «importanti poteri […] di garanzia dell’uniformità giuridica e sostanziale nell’esercizio delle funzioni decentrate […]»: ivi, 829.

CONTRIBUTI ALLA DEFINIZIONE DEI PRINCIPI DI UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE 9

oltrepassino determinati limiti propri dell’ordinamento stesso. Questo si traduce, e si è tradotto, sia nella circoscrizione degli spazi suscettibili di differenziazione autonomica, sia nel condizionamento della differenzia-zione praticabile da parte dei soggetti autonomi, sia in una attenzione del tutto particolare (seppure variabile e soggetta a profonda revisione) all’uniforme organizzazione di questi

19. Dal legame con l’autonomia discende, peraltro, la possibilità di e-

stendere l’analisi anche a fenomeni che se pure non toccano la “forma di Stato” sono espressione di pluralismo ordinamentale: quello delle auto-nomie non territoriali (funzionali, non generali)

20. Anche in questo caso l’autonomia crea differenza, perché è ambito di differenziazione de-mandato ad una collettività organizzata

21. È però, diverso, da un lato, il ruolo di questa autonomia (che non è legato all’esigenza di una cura dif-ferenziata di interessi propri della collettività di riferimento), dall’altro sono diversi i meccanismi approntati dall’ordinamento per il suo condi-zionamento

22.

19 L’esame di questi fenomeni, posti allo snodo tra i principi di autonomia ed ugua-glianza, consente di evidenziare le tensioni cui è sottoposto il sistema, come anche le ri-sposte che (diverse da momento storico a momento storico) a queste tensioni si è cercato di fornire.

20 In merito alle quali sembra possibile sviluppare le linee di ragionamento qui evi-denziate: non a caso uno dei pochi atti normativi che espressamente prevede già nell’in-testazione i temi dell’uniformità e della differenziazione è riferito ad autonomie funziona-li (le Università: cfr. DPCM 30 aprile 1997, recante Uniformità nel trattamento sul diritto agli studi universitari). È evidente, peraltro, che, al di là dei caratteri fondamentali, è lo stesso “statuto costituzionale” di queste autonomie ad essere, nel nostro paese, sensibil-mente diverso da quello delle autonomie territoriali. A livello normativo il riferimento principale è dato dall’art. 1, comma 4°, lett. d) della legge n. 59 del 1997, che riferisce la nozione alle Università, accomunandole con le Camere di Commercio (su cui v. la legge n. 580 del 1993); per un primo esame del tema, cfr. P. BILANCIA, Sull’autonomia funziona-le delle camere di Commercio, in Dir. amm., 1999, 473 ss.; W. GASPARRI, Università degli studi, in Dig. disc. pubbl., Agg., 2000, 610 ss.

21 Anzi, il modello teorico dell’autonomia cui più frequentemente faremo riferimento (quello dell’autonomia come “spazio di differenziazione affidato ad una collettività orga-nizzata”) è stato sviluppato proprio con riferimento ad autonomie funzionali (l’Università e la ricerca scientifica, sulla quale ultima, peraltro, sarebbe necessaria una più attenta riflessione, nel momento della sua ultronea compressione): cfr. F. MERLONI, Autonomia e libertà nel sistema della ricerca scientifica, cit., 111, per il quale «[l]’autonomia in questo senso potrebbe essere definita come la misura, giuridicamente garantita, di tale differenzia-zione» (il corsivo è dell’Autore).

22 Nel corso di questo lavoro, l’analisi non si incentrerà su questo modello di autono-mia, né sulle (diverse) modalità del suo condizionamento: pure, alcune delle riflessioni che svilupperemo, a livello generale, potrebbero trovare applicazione anche con riferi-mento a questi fenomeni.

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 10

2. Uniformità e differenziazione

2.1. L’uniformità come principio di organizzazione dell’ordinamento

Fatta questa premessa, il termine uniformità definisce, in via genera-le, il fenomeno per il quale due o più fattispecie accomunabili in base ad un determinato parametro ricevono dall’ordinamento, in ragione di que-sto parametro, la medesima disciplina giuridica. Così, a contrario, diffe-renziazione esprime il fenomeno opposto, nel quale una fattispecie, pure accomunabile alle prime, riceve, in virtù di altri caratteri particolari, un trattamento giuridico diversificato

23. Intesa in questi termini, generalissimi, la fattispecie oggetto di un

trattamento differenziato finirebbe per racchiudere in sé la fattispecie generale (ed uniforme), risultando peraltro dotata di un carattere de-terminato (ed ulteriore) alla luce del quale troverebbe giustificazione la diversa disciplina. Individui, soggetti pubblici, beni: qualunque fenome-no materiale potrebbe, in tal senso, definirsi come “differenziato” od “uni-forme” (rispetto ad un altro assunto come riferimento), né potrebbe ta-cersi che la norma giuridica

24, per propria natura, attraverso l’azione di regolazione, crea al tempo stesso, inevitabilmente

25, nuove uniformità e

23 Da segnalare, in tal senso, la specifica accezione filosofica di differenza, come «alte-rità, ossia non identità, tra cose appartenenti allo stesso genere, ed aventi in comune la qualità per cui differiscono, sicché la differenza implica sempre una determinazione» (cfr. Vocabolario della lingua cit., II, 92).

24 Senza alcuna pretesa di completezza, sui caratteri della norma giuridica, v. F. MO-DUGNO, voce Norma (teoria generale) in Enc. dir., XXVIII, 1978, 340 ss. (per il quale il ca-rattere della generalità astrattezza è propria di qualsiasi norma, non solo di quella giuri-dica: per quanto riguarda la «[…] generalità (astrattezza) è piuttosto semplice mostrare la [sua] presenza in ogni norma di condotta o di azione» [ivi, 344]); C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, cit., 8 ss.; G.U. RESCIGNO, Corso di diritto pubblico, Bologna, 2001. In particolare su problema della “generalità-astrattezza” come carattere intrinseco della norma giuridica, v., in senso favorevole, V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, II, Padova, 1984, 19 ss.; e, contra, A. PIZZORUSSO, Delle fonti del diritto, in Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja-G. Branca, Bologna-Roma, 1977, 16 ss. e G. ZAGRE-BELSKY, Il sistema costituzionale delle fonti del diritto, Torino, 1984, 12 ss. (per il quale, in particolare, il carattere dell’astrattezza è da ritenersi che non rilevi più nel definire la giu-ridicità della norma, data una società come quella attuale «frammentata in gruppi e ceti sociali che richiedono trattamenti normativi differenziati»). Sul tema, cfr. N. BOBBIO, Governo degli uomini e governo delle leggi, in ID., Il futuro della democrazia, Torino, 1991, 169 ss.

25 L’uguaglianza “di tutti in tutto” non ha in sé nulla di giuridico, è «negazione dell’or-dinamento» (così C. ESPOSITO, Eguaglianza e giustizia nell’art.3 della Costituzione, in ID., La Costituzione italiana – Saggi, Padova, 1954, 25): «ordinare la società significa, appunto, differenziare, riconoscere, ad es., diversi doveri e diritti al creditore e al debitore, al comprato-re e al venditore […]» (così A. CERRI, Eguaglianza giuridica ed egualitarismo, L’Aquila-

CONTRIBUTI ALLA DEFINIZIONE DEI PRINCIPI DI UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE 11

nuove differenziazioni (tra i fenomeni regolati diversamente dalla nor-ma, tra quelli da questa regolati o meno)

26. Sotto questa angolazione appare discutibile una specifica rilevanza

della nozione, rispetto a concetti giuridici quali quelli di “regola” e od “eccezione”

27, norma “generale” e norma “speciale” 28 ed, eventualmente,

rispetto allo stesso principio di uguaglianza, laddove si intenda la disci-plina (uniforme o differenziata) applicata a soggetti dell’ordinamento. Ancora, sono riconducibili a questa nozione, in virtù del suo carattere “aperto”, fenomeni che, nell’ambito delle scienze giuridiche, si è soliti ricondurre a concetti determinati, quali unificazione del diritto (interna ed internazionale), uguaglianza (formale, paritaria e valutativa, e so-stanziale), o si è soliti articolare in ragione di variabili “quantitative” (deroga, eccezione, specialità

29, asimmetria) 30 e “qualitative” (privilegio

31, discriminazione)

32. In un’accezione “in senso lato”, uniformità e differen-

Roma, 1984, 26). Un simile modello può essere, al più, ritenuto (ed auspicato) compatibi-le con un ideale “stato di natura” (così per J.J. Rousseau, ma anche per VOLTAIRE [voce Eguaglianza in ID., Dizionario filosofico, Torino, 1971, 182]).

26 Risulta peraltro sin d’ora da segnalare come lo spazio di uniformità definito (e defi-nibile) da una norma risulti limitato allo spazio di azione della norma stessa. In tal senso cfr. F. DELPÉRÉE, Egalité et pluralité des ordres juridiques, in ASSOCIAZIONE ITALIANA DEI COSTITUZIONALISTI, Annuario 1998. Principio di uguaglianza e principio di legalità nella pluralità degli ordinamenti giuridici, Padova, 1999, 233 ss.

27 V. F. MODUGNO, Norme singolari, speciali, eccezionali, in Enc. dir., XXIII, 1978, 529 ss.; C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, cit., 297 ss. e L. PALADIN, In tema di leggi personali, in Giur. cost., 1961, 1262 ss.

28 In particolare, nelle società contemporanee, accanto a sistemi giuridici consolidati «si sono ormai affermati micro-sistemi normativi» (T. MARTINES, Diritto Costituzionale, cit., 51 et passim). Non diversamente C. COLALUCA, Norme speciali e criterio di specialità, in Dir. e società, 1998, 5 ss.; F. MODUGNO, Norme singolari, speciali, eccezionali, cit., 506 ss.

29 C. MORTATI (Istituzioni di diritto pubblico, cit., 298), ravvisa come «i tentativi effet-tuati per ricercare un diverso criterio di differenziazione tra speciale ed eccezionale […] si rivelano inappaganti […]», mentre «parrebbero più facilmente contrassegnabili le norme personali»; N. IRTI, L’età della decodificazione, cit. ed ID., L’età della decodificazione vent’anni dopo, cit., ravvisa, altresì, come la distinzione tra norme eccezionali e speciali risieda nel fatto che «le norme speciali lasciata la fluidità di un perenne movimento, [in-clinano] a raccogliersi secondo gradi di crescente stabilità» (ivi, 195).

30 Su cui v. G.U. RESCIGNO, Deroga (in materia legislativa), in Enc. dir., XII, 1964, 303 ss. 31 Quando si prevedono «eccezioni in favore o in danno di un soggetto o di un gruppo

(alle quali si dà anche il nome di “privilegi”, “favorevoli” o “odiosi”)»: cfr. C. MORTATI, Isti-tuzioni di diritto pubblico, cit., 298. Privilegio come «dispensa per chi ne beneficia e sco-raggiamento per tutti gli altri», secondo la nota critica di E.J. SIEYES (Saggio sui privilegi, in ID., Opere e testimonianze politiche, Tomo I, Vol. I, Milano, 1983, 85).

32 Discriminazione come “differenziazione contraria al principio di uguaglianza «consistant à rompre celle-ci au détriment de certaines personne en raison de leur appar-tenance […], plus généralement par l’application de critéres sur lesqueles la loi interdit de fonder des distinctions juridiques» (cfr. G. CORNU (a cura di), Vocabulaire juridique, Paris,

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 12

ziazione si configurano allora come nozioni aperte, entro le quali pos-siamo ricomprendere una tale vastità di fenomeni da perderne la portata esplicativa.

Seppure, come evidenziato, scomponibili e suscettibili di esame an-che nelle loro accezioni generali, uniformità e differenziazione sono no-zioni che possono, e devono ai fini della nostra analisi, essere circoscrit-te. Uniformità e differenziazione sono, infatti definibili come qualcosa di più specifico che non l’uguaglianza (o meno) delle regole giuridiche tra fenomeni omogenei: risultano, anzi, in grado di acquisire una pro-pria autonoma rilevanza in quanto le si intenda quali canoni e principi organizzatori dei pubblici poteri, finalizzati, in ultima istanza, al perse-guimento ed alla garanzia di determinati equilibri tra le contrapposte esigenze dell’autonomia e dell’uguaglianza

33. Nei sistemi complessi, articolati su una pluralità di sotto-insiemi giu-

ridici, di micro-sistemi di norme 34, su una molteplicità di soggetti e fonti

abilitati a produrre diritto e a darne autonoma attuazione, il modello semplice fondato su una generalità/astrattezza della legge e sulla unita-rietà della sua esecuzione risulta inidoneo a rappresentare la realtà dei rapporti (giuridici) che legano i soggetti sul territorio, tra di loro e nella relazione con i soggetti pubblici

35.

Presses Universitaires de France, 1983). Come tale, il divieto di discriminazione è, esso sì, un corollario del principio di uguaglianza, nel nostro ordinamento, e trova particolare applicazione, in materia di lavoro (così, già con la legge n. 405 del 1963 che ha ratificato la convenzione OIL, n. 111 del 1958, e successivamente, tra l’altro, con lo Statuto dei La-voratori, artt. 15 e 16, e con la legge n. 108 del 1990 che parla di “licenziamento discrimi-natorio”).

33 Modalità organizzative dell’uguaglianza “nell’autonomia”, non modalità organizza-tive dell’uguaglianza tout court (che sarebbe lo stesso che dire: ricadute organizzative del principio di uguaglianza). Gli esempi possono essere molteplici: per tutti, il principio or-ganizzativo del suffragio universale (dei maggiorenni, ché «l’universo giuridico è l’uni-verso del press’a poco e del per lo più»: cfr. N. BOBBIO, Eguaglianza e libertà, Torino, 1995, XIII) è la applicazione/traduzione organizzativa dell’uguaglianza, ma non è “trinci-pio di uniformità”.

34 Constatazione che, a partire dal noto saggio di N. IRTI (L’età della decodificazione, cit.) diviene comune nell’ambito delle scienze giuridiche: così per L. FERRAJOLI (Scienze giuridiche, in C. STAJANO (a cura di), La cultura italiana del novecento, Roma-Bari, 1996) «si perde progressivamente, con l’inflazione delle leggi speciali, la centralità del codice e l’unità del sistema» (ivi, 589); riflessione che Ferrajoli estende persino al diritto penale «ove si vengono affermando, contro la criminalità organizzata, modelli differenziati di processo penale e di trattamento penitenziario» (ivi, 590).

35 Così, in riferimento alla potestà legislativa regionale successiva alla riforma del Ti-tolo V, G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V, cit., 1258: «[s]e più soggetti hanno libertà di auto determinarsi [e, diremmo noi, nella misura in cui tale libertà sussi-sta, non sia condizionata], non ci si potrà poi lamentare che essi si siano orientati diver-samente».

CONTRIBUTI ALLA DEFINIZIONE DEI PRINCIPI DI UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE 13

L’uguaglianza nell’unicità ordinamentale (intesa come non molteplici-tà dei soggetti pubblici e delle fonti o come loro riconduzione ad unita-rietà tramite meccanismi gerarchici, in particolare come riconduzione ad una via gerarchica della risoluzione delle antinomie) risponde a que-sto modello semplice e semplificato: l’uguaglianza finisce per coincidere con l’uniformità, in quanto la legge risponda ad una ragionevolezza in-trinseca, tale che fenomeni uguali risulteranno regolati in modo uguale, fenomeni diversi in modo diverso

36. L’uguaglianza nella pluralità (dei soggetti pubblici autonomi, delle

fonti di autonomia, degli ordinamenti giuridici) 37 non è più in grado di

rispondere a questo modello 38: l’organizzazione dell’ordinamento, rico-

noscendo sedi autonome di produzione giuridica, prefigura spazi entro i quali l’uguaglianza come uniformità non può articolarsi, dal momento che viene meno la possibilità di confronto tra i fenomeni. L’autonomia crea differenza, disuguaglianza

39. Il principio in base al quale “tutti i cittadini sono uguali di fronte alla

legge” è in grado di sviluppare i suoi effetti in modo diverso in uno Stato unitario, regionale, federale; in modo inversamente proporzionale al crescere (quantitativo e qualitativo) degli spazi di autonomia riconosciu-

36 La differenziazione discenderà dal ragionevole uso della propria discrezionalità ca-tegorizzatrice da parte del legislatore, ma entro la medesima categoria si avrà uguaglian-za come uniformità, nei limiti territoriali di applicabilità della legge dello Stato (quindi, entro l’intero territorio nazionale, in questo modello). L’autonomia territoriale presuppo-ne, altresì “il governo della differenza” (cfr. E.C. PAGE, Localism and centralism in Europe: the political and legal bases of Local self-government, Oxford, 1991, 2 et passim).

37 Per una riflessione generale sulla problematica della pluralità degli ordinamenti, v. S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, Firenze, 1967; M.S. GIANNINI, Sulla pluralità degli ordinamenti giuridici, in Atti del XIV convegno di sociologia, Roma, 1950, 6 ss.; N. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento giuridico, Torino, 1955. Più recentemente, e con specifico riferi-mento all’amministrazione, cfr. A. ROMANO, Introduzione in L. MAZZAROLLI ET AL. (a cura di), Diritto amministrativo, cit., 27 et passim.

38 Cfr., di nuovo, F. DELPÉRÉE, Egalité et pluralité des ordres juridiques, cit.: l’approccio è in parte diverso da quello che vede la problematica della differenziazione /disu-guaglianza emergere essenzialmente in relazione alla tensione tra modello federale e Sta-to sociale, allorché nell’ordinamento manchino meccanismi di riequilibrio e, più in gene-rale, incisivi meccanismi di uniformità legati in primo luogo alla perequazione finanzia-ria: profili in ordine ai quali v. A. BRANCASI, Uguaglianze e disuguaglianze nell’assetto fi-nanziario di una Repubblica federale, in Dir. pubbl., 2002, 909 ss., e G. CORSO, Welfare e Stato federale: uguaglianza e diversità delle prestazioni, in AA.VV., Regionalismo, federali-smo, welfare state, Milano, 1997, 403 ss.

39 Ciò determina «l’insorgere di una tensione tra due poli in gran parte contrapposti: il diritto all’autogoverno ed al suo risultato, cioè ad essere diverso, e il principio di ugua-glianza» (così J. GARCÌA MORILLO, Autonomia, asimmetria e principio di eguaglianza cit., 105).

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 14

ti ai soggetti territoriali 40. Il cambiamento della struttura istituzionale

determina, allora, non già il cambiamento dei principi fondamentali, ma della loro capacità di riferirsi, in modo indifferenziato, a tutti i soggetti di un ordinamento (generale)

41. Il particolarismo giuridico può deter-minare l’inapplicabilità del meccanismo relazionale dell’uguaglianza.

La garanzia dell’uguaglianza passa, allora, prima che per i caratteri della legge, per la predefinizione dell’organizzazione dello Stato, tale che risulte-ranno limitate, condizionate, le possibili definizioni di “volontà particolari”, di scelte differenziate

42. Salendo dall’individuo verso lo Stato, passando at-traverso corpi sociali intermedi, le diversità anziché livellarsi l’un l’altra si espandono e prendono forza

43: l’organizzazione dell’ordinamento è chia-mata allora, laddove ammetta realtà territoriali autonome, a predetermina-re gli spazi in cui può realizzarsi la differenza, ed i suoi limiti

44.

40 Tale problematica risulta sottovalutata nel dibattito intorno alla riforma dell’or-dinamento in senso federale: («[i]l dibattito sul federalismo non ha fin qui tenuto presente il rovescio della medaglia che ogni riforma di questo tipo comporta: il tasso di disuguaglianza che l’ordinamento può tollerare per consentire la differenziazione delle entità autonome»: così G. ROSSI-A. BENEDETTI, La competenza legislativa statale esclusiva cit., 22).

41 Cfr. F. DELPEREE, Egalité et pluralité des ordres juridiques, cit., per il quale «[…] Bref, nous voici tous égaux – en tout cas, devant la loi –. En tout cas, dans l’Etat unitaire. Mais [...] la meme principe d’égalité vaut-illà ou les ordres juridiques sont multiples? Vaut-il aussi dans l’Etat composé, dans l’Etat fédéral, dans l’Etat pluriel, dans l’Etat mul-tiple?» (ivi, 233). Da ultimo, per una riflessione sulla tensione creata nell’ordinamento italiano dalla riforma costituzionale in senso autonomista (legge cost. n. 3 del 2001 di ri-forma del Titolo V), v. F. PIZZETTI, La ricerca del giusto equilibrio tra uniformità e differen-za: il problematico rapporto tra il progetto originario della Costituzione del 1948 e il progetto ispiratore della riforma costituzionale del 2001, in Regioni, 2003, 599 ss.

42 Il corporativismo, il localismo, ogni forma di particolarismo finisce allora per essere contrastante con la tutela dell’interesse pubblico generale, ed è in ultima istanza disgre-gante per la stessa struttura e legittimazione dello Stato. Diviene allora fondamentale la riduzione/condizionamento delle società parziali, cosicché ogni cittadino, libero di pensa-re con la propria testa, possa contribuire con la propria volontà individuale alla forma-zione della volontà generale; cfr., per questo approccio, J.J. ROUSSEAU, Il contratto socia-le, Roma-Bari, 1997, 40 et passim.

43 Se la volontà generale emerge da tutte le differenze individuali, tale che confrontan-do le une con le altre si giungerà ad un equilibrio che non è la somma, ma la sintesi del tutto, la volontà di ogni corpo sociale radica altresì le differenze; «[…] quando si formano delle consorterie, delle associazioni particolari a spese di quella grande, la volontà di cia-scuna di esse diviene generale rispetto all’associazione e particolare rispetto allo Stato […]. Le differenze si fanno meno numerose ed il risultato ha carattere meno generale», cfr. J.J. ROUSSEAU, Il contratto sociale, cit., 41. Il rifiuto rousseauiano delle “società par-ziali” prende spunto da Machiavelli, ma ne viene estesa la portata: «[v]era cosa è che al-cune divisioni nuocono alle Republiche, alcune giovano: quelle nuocono che sono dalle sette e partigiani accompagnate. Non potendo adunque provedere un fondatore d’una Republica che non siano nimicizie in quella, hà da proveder almeno che non vi siano set-te» (Historiae fiorentinae, L, VII).

44 In modello di riferimento è dato dall’ancien régime, e dalle riflessioni sulla disconti-nuità rivoluzionaria: sul punto cfr., in particolare, H. MOREL, Accentramento e decentra-

CONTRIBUTI ALLA DEFINIZIONE DEI PRINCIPI DI UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE 15

Il binomio dicotomico uniformità/differenziazione esprime, sotto questa angolazione, il bilanciamento definito tra rischio e valore autonomisti-co, ponendosi come riflesso organizzativo del binomio uguaglianza/ differenza: definisce, in sostanza, il limite della differenziazione ammes-sa da un ordinamento in conseguenza dell’apertura alle esigenze del-l’autonomia

45. È questa l’angolazione sotto la quale esamineremo i fenomeni, tale

che la nozione di uniformità risulta suscettibile di applicarsi tanto al-l’ambito delle funzioni amministrative (loro riparto, esercizio, organiz-zazione) che legislative: sia il fenomeno dell’attribuzione di competenze differenziate ai soggetti di autonomia che quello della loro capacità di articolare un’azione (amministrativa o normativa) differenziata ricado-no nel nostro campo di analisi. O, meglio, vi ricadono le modalità attra-verso le quali il nostro ordinamento ha tradizionalmente inteso, ed ora intende, condizionare il concreto dispiegarsi del potenziale differenzian-te insito nell’autonomia

46. Vi ricadono, ancora, le scelte in merito alla quantità e qualità della differenziazione ammessa, ad intendersi con questo non solo i limiti all’autonomia, ma anche gli oggetti

47 su cui que-sta è chiamata (ed abilitata) a dispiegarsi

48.

mento nella tradizione politica e giuridica francese, in A. ALBERTONI-M. GANCI (a cura di), Federalismo, regionalismo, autonomismo, II, Palermo, 1989, 499 ss.).

45 Diversamente L. ANTONINI, Il regionalismo differenziato, cit., 4 (dal quale traiamo il modello dei “binomi oppositivi”) ritiene che «un contesto differenziato potrebbe consen-tire l’affermarsi di modalità di tutela dei diritti sociali più praticabili di quelli affermabili in una dimensione troppo votata all’uniformità»: cosicché i binomi sono visti come tra loro indipendenti e non legati da un rapporto di strumentalità. All’opposto J. GARCÌA MO-RILLO, Autonomia, asimmetria e principio di eguaglianza, cit., 108 ss., per il quale la diffe-renziazione (come asimmetria delle competenze) moltiplica la differenza.

46 Un senso “ampio” analogo a quello assunto da L. ANTONINI, Il regionalismo differenzia-to, cit., 1, il quale distingue da questa accezione una più ristretta (e tecnica) già fatta propria da C. PINELLI, Mercati, amministrazioni e autonomie territoriali, Torino, 1999, 267 ss.

47 Come per l’analisi dei concetti di autonomia, l’approccio non deve essere solo sog-gettivo (come carattere generale di un soggetto pubblico: differenziazione organizzativa, funzionale, statutaria, normativa, le aggettivazioni possono essere diverse), ma anche og-gettivo (ratione materiae: anche per la differenziazione vale l’affermazione di non dare un valore eccessivo ad «una piena autonomia attribuita in una materia […] marginale» (cfr. F. MERLONI, Autonomia e libertà nel sistema della ricerca scientifica, cit., 119).

48 Il che è evidentemente di rilievo non secondario: basti riflettere, in relazione al nostro sistema, alle elencazioni delle materie del vecchio e del nuovo art.117. Non solo in termini quantitativi (vastità dell’intervento regionale), ma anche qualitativi (quanto a profondità di questo intervento e quanto a caratteri dei fenomeni in relazione ai quali è in grado di svi-lupparsi). Per un primo approccio al tema, v., sin d’ora, L. TORCHIA, La potestà legislativa re-siduale delle Regioni, in Regioni, 2001, spec. 352 ss., che è di ausilio anche attraverso una, inevitabilmente personale, individuazione delle “materie innominate” (e quindi regionali; un elenco in parte diverso è proposto da. B. CARAVITA, Prime osservazioni di contenuto e di

2.

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 16

Una coppia dicotomica ed oppositiva, nella quale trattare una nozio-ne è inevitabilmente trattare anche l’altra: uniformità e differenziazione sono concetti astratti la cui concreta traduzione in un ordinamento dato determina la scelta di un punto di equilibrio che si colloca in un con-tinuum. La necessità di definire la diversa, e mobile, collocazione che un ordinamento ha scelto in questo continuum ci spingerà a parlare di uni-formità e differenziazione tout court, ma in realtà sia l’uno che l’altro concetto esprimono assoluti irraggiungibili, cosicché in ogni loro con-creta traduzione troveremo una (variabile quanto a dosaggio) reciproca combinazione

49.

2.2. Principio e modelli di uniformità

La differenziazione è un portato ineliminabile dell’autonomia, ma, anche, un dato che l’ordinamento mira a contenere al fine di una garan-zia di uguaglianza sull’intero territorio nazionale

50: il principio di uni-formità prefigura quindi, in via generale, le modalità organizzative del-l’uguaglianza, ma la sua concreta traduzione varierà nelle diverse espe-rienze ordinamentali, ed all’interno di ciascuna esperienza sarà suscetti-bile di evolversi, svilupparsi, rimodularsi

51. Il principio di uniformità sottintende dunque, in via generale, la limi-

tazione (quanto ad oggetti) ed il condizionamento dell’autonomia, attra-verso la previsioni di strumenti, modalità di relazione (tra soggetti, tra fonti), procedure, in grado di limitare e contenere il potenziale differen-ziante insito nel riconoscimento di ambiti affidati a soggetti territoriali diversi dallo Stato. Racchiude, al suo interno, il senso forte dell’ugua-glianza, e vuole essere garanzia del fatto che nessun individuo possa ri-cevere un trattamento differenziato sul territorio, in ragione del territo-

metodo sulla riforma del Titolo V della Costituzione, in www.federalismi.it; un ulteriore elen-cazione, di nuovo differente dalle precedenti, è proposta dall’ANCI, in www.ancitel.it).

49 Ciò ci spingerà, in taluni casi, a parlare, tout court, di modelli, enti, regole, Stati dif-ferenziati od uniformi, il che aumenterà l’efficacia espositiva e descrittiva delle nostre ri-flessioni, ma è da ritenersi corretto solo in quanto si tenga conto di queste premesse.

50 In realtà non solo per il soddisfacimento di esigenze egalitarie, dal momento che ta-luni “meccanismi dell’uniformità” sono funzionali anche all’unità.

51 Ed allorché questo avviene, come ci insegna M. CAMMELLI (Amministrazione (e in-terpreti) davanti al nuovo Titolo V, cit., 1284 et passim), diviene necessario interpretare il sistema nel suo nuovo articolarsi, e non alla luce di un bagaglio di strumenti legato al vecchio ordine; così, come avviene ora nel nostro sistema dopo la riforma del Titolo V, può essere l’intero impianto ordinamentale a dover essere riletto alla luce di una riforma, perdendosi la possibilità di una lettura “continuista”.

CONTRIBUTI ALLA DEFINIZIONE DEI PRINCIPI DI UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE 17

rio, in ordine alle situazioni giuridiche assunte come indifferenziabili dall’ordinamento: se il riconoscimento dell’autonomia è ammissione del-la differenziazione, che ne è la naturale conseguenza, è proprio in pre-senza di questo riconoscimento che diviene necessario articolare mec-canismi in grado di contenere questa differenziazione nell’autonomia che è, strutturalmente, disuguaglianza

52. Così inteso, un principio di uniformità è insito nella stessa nozione di

autonomia (come diversa da sovranità), e quindi definibile in ragione dei limiti di questa. Così inteso, ancora, il principio di uniformità è di-stinto e distinguibile dall’uniformità come modello, che ne è la concreta (storica) traduzione.

L’organizzazione, attraverso la legislazione primaria e, ancor più, co-stituzionale, prefigura infatti in sé un modello, determinato, di unifor-mità, che definisce l’assetto che, entro un sistema costituzionale dato, è scelto in ordine alla tensione interna tra il valore dell’uguaglianza ed il valore dell’autonomia

53. Si tratta di un equilibrio delicato, complesso, che, nell’ordinamento italiano è stato oggetto di profonde modificazioni.

Il modello di uniformità (la concreta traduzione del principio) 54 defi-

nisce allora “la differenziazione accettabile” 55 o, più correttamente, non

52 V. G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V, cit., 1247 ss. 53 Sul rilievo da riconoscere alla dimensione organizzativa, v., tra gli altri, V. BACHE-

LET, Profili giuridici dell’organizzazione amministrativa, Milano, 1965; G. BERTI, La pub-blica amministrazione come organizzazione, Padova, 1968; M.S. GIANNINI, Diritto ammini-strativo, II voll., Milano, 1970; M. NIGRO, Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione, Milano, 1966, e, più recentemente, G. ROSSI, Introduzione al diritto am-ministrativo, Torino, 2000; A. PIOGGIA, La competenza amministrativa. L’organizzazione fra specialità pubblicistica e diritto privato, Torino, 2001; G. AZZARITI, Modelli di ammini-strazione e trasformazioni dello Stato, già in Pol. dir., 1996, 529 ss., ora in ID., Forme e sog-getti della democrazia pluralista, Torino, 2000, 78 ss.). Più in generale, per un’analisi delle problematiche inerenti all’organizzazione amministrativa, cfr. G. PALEOLOGO, voce Orga-nizzazione amministrativa, in Enc. dir., XXXI, 1981, 135 ss., G. DI GASPARE, Organizzazio-ne amministrativa, in Dig. disc. pubbl., X, 1995, 513 ss.; F.G. SCOCA, Organizzazione am-ministrativa, in L. MAZZAROLLI ET AL. (a cura di), Diritto amministrativo, cit., 345 ss.

54 Come per l’uguaglianza («[l]a forma di Stato specifica della democrazia può essere fon-data solo su un concetto specifico e sostanziale dell’uguaglianza»: cfr. C. SCHMITT, Dottrina della Costituzione, Milano, 1984, 297), principio generale suscettibile di traduzioni diverse, oc-corre scendere nel concreto di un ordinamento per darne una definizione più articolata

55 Il problema della “differenziazione/differenza accettabile” è posto, in particolare, dopo la riforma del Titolo V, da G. ROSSI-A. BENEDETTI, La competenza legislativa statale esclusiva, cit., 23 et passim, ma anche, seppure sotto profili in parte diversi, da M. CAM-MELLI, Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo Titolo V, cit., 1277 (che evidenzia come cruciale nel sistema delle autonomie, il tema della «diversità accettabile») ss., da L. TORCHIA, La potestà legislativa residuale delle Regioni, cit., 363 (che parla di differenzia-zione sostenibile e pone l’attenzione sulla necessità che «il fuoco della riflessione si sposti sul grado di differenziazione che il sistema può accogliere, sulle relazioni fra differenzia-

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 18

già la differenziazione/differenza astrattamente ammissibile alla luce dei principi e valori fondamentali che improntano il sistema, quanto la dif-ferenziazione/differenza in concreto ammessa, attraverso l’effettivo svi-lupparsi della macroorganizzazione di un ordinamento.

Così definito, il principio di uniformità racchiude, in ragione del-l’oggetto cui si riferisce, tanto l’esclusione e la riduzione degli spazi di differenziazione nella definizione territoriale dei diritti e delle posizioni giuridiche degli individui, quanto il contenimento degli spazi di auto-organizzazione delle realtà autonome: uniformità normativa ed unifor-mità amministrativa. In questo senso, l’uniformità è nozione che acqui-sta un significato in quanto la si aggettivi e qualifichi, al pari della no-zione di autonomia cui, inevitabilmente, si riferisce

56. Intesa in questi termini, però, non tutto ciò che tradizionalmente si

suole definire “uniformità” è riconducibile al “principio di uniformità”: la diversa disciplina dei diritti e delle situazioni giuridiche, come anche la diversa regolazione delle organizzazioni pubbliche autonome è, evi-dentemente, “differenziazione”, ma laddove ciò discenda da scelte nor-mative assunte dallo Stato centrale, questo non pone in discussione l’uni-formità come principio.

Può porre, però, in discussione un determinato modello di uniformità. La costruzione costituzionale dell’uniformità, come traduzione nel-

l’organizzazione fondamentale di un ordinamento dell’equilibrio scelto in ordine al rapporto tra le esigenze confliggenti di unità/eguaglianza ed

zione e unità, sulle condizioni e gli strumenti dell’unità a fronte di una forte autonomia politica e amministrativa») e, da ultimo, F. PIZZETTI, La ricerca del giusto equilibrio, cit., spec. 611; si tratta di un tema, che spesso criticamente, riemerge in particolare a livello di riflessioni di studiosi di discipline di settore: così in ambito degli studi di legislazione so-ciosanitaria (v. R. BALDUZZI, Titolo V e tutela della salute, in R. BALDUZZI-G. DI GASPARE (a cura di), Sanità e assistenza dopo la riforma del Titolo V, Milano, 2002, 19-20; ma anche E. MENICHETTI, Le pratiche terapeutiche nel nuovo assetto costituzionale: la tutela della sa-lute tra principi fondamentali e livelli essenziali (osservazioni a margine della sentenza Corte cost. 26 giugno 2002, n. 282), in Amministrazione in Cammino (www.amministrazione incammino.luiss.it) e V. MOLASCHI, Livelli essenziali delle prestazioni e Corte costituziona-le: prime osservazioni, in Foro it., 2003, di legislazione scolastica (v. A. POGGI, Istruzione, formazione professionale e Titolo V: alla ricerca di un (indispensabile) equilibrio tra cittadi-nanza sociale, decentramento regionale e autonomia funzionale delle Istituzioni scolastiche, in Regioni, 2002, 803 ss.), ma anche di diritto del lavoro (così, in particolare, M.V. BALLE-STRERO, Differenze e principio di uguaglianza, in Lavoro e dir., 2001, 424 ss.; T. TREU, Di-ritto del lavoro e federalismo, in corso di pubblicazione in Riv. trim. dir. proc. civ., ma sin d’ora in www.astrid-online.it).

56 Sulla necessità di aggettivare la nozione di autonomia v., per tutti, M.S. GIANNINI, Autonomia (saggio …), cit.: dall’eterogeneità dei significati della nozione, deriva la neces-sità di «accettare questa realtà e adottare questo criterio: di integrare sempre il termine autonomia con un aggettivo, sì da distinguere adeguatamente fra loro […] concetti profondamente diversi» (ivi, 852).

CONTRIBUTI ALLA DEFINIZIONE DEI PRINCIPI DI UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE 19

autonomia/differenza, determina l’approntamento di meccanismi e stru-menti che definiscono un determinato modello (costituzionale) di uni-formità. Il principio di uniformità vive in questi strumenti, e si connota in relazione al loro concreto dispiegarsi: si sostanzia, anzi, nella Costitu-zione vivente di un ordinamento, posto che in taluni casi non emerge se non flebilmente a livello di Costituzione formale

57. L’applicazione del di-ritto fatta dalle amministrazioni

58 e dalle corti 59, l’interpretazione costi-

tuzionale 60, la presenza di soggetti politici e sociali in grado di governare

di fatto il potenziale differenziante insito nell’autonomia 61, l’omogeneità

dei territori, i legami culturali tra le élites politiche ed amministrative 62:

57 Così, si pensi all’applicazione del “regionalismo dell’uniformità” nel nostro sistema: i limiti più pervasivi all’autonomia risultavano frutto dell’applicazione della Costituzione prima ancora che del suo contenuto formale (per tutti: la funzione di indirizzo e coordi-namento: profilo in merito al quale cfr. sin d’ora, tra gli altri, L. CALIFANO, L’irriducibile ascesa dell’indirizzo e coordinamento, in Regioni, 1999, 49 ss.

58 Basti pensare al fenomeno del “mimetismo” statutario successivo all’apertura alla differenziazione (organizzativa, seppure limitata) operata dalla legge n. 142 del 1990 at-traverso il riconoscimento della potestà statutaria locale. In merito v., tra gli altri, F. STA-DERINI, Diritto degli enti locali, cit., che segnala il rischio di un non uso dell’autonomia riconosciuta «per pigrizia mentale o sudditanza psicologica, da parte di amministrazioni locali non all’altezza del ruolo loro affidato» (ivi, 61).

59 La giurisprudenza, laddove abbia una centralizzazione della sede di ultima istanza, è strutturalmente produttrice di uniformità, determinando infatti una applicazione uni-forme del diritto sul territorio nazionale (così la Corte di cassazione assicura «l’esatta os-servanza e l’uniforme applicazione della legge»: cfr. c.p.c., artt. 65-68). Quello che qui pe-rò in particolare emerge è come una strutturazione accentrata dei gradi superiori di giu-dizio determini uniformità non solo laddove le norme siano le stesse, ma anche laddove le norme risultino (seppure parzialmente) diverse: questo si ravvisa, in particolare, nella giurisprudenza del Consiglio di Stato su materie attribuite alla competenza (concorrente) regionale dal “vecchio” art. 117.

60 In questo senso, rileva F. TRIMARCHI BANFI (Il regionalismo e i modelli, 256) che il fallimento del regionalismo italiano «si deve al fatto che l’ordinamento che si è andato formando attraverso l’azione congiunta del potere politico e del giudice costituzionale è un ordinamento rigorosamente orientato all’uniformità, vale a dire di un risultato che è auspicabile se è il prodotto di una omogeneità reale, ma che non può costituire l’obiettivo primario di un sistema fondato sul valore dell’autonomia».

61 Così, ad esempio, in riferimento all’ampliamento degli spazi di autonomia locale, M. NIGRO paventa il rischio che le scelte, anziché differenziate, siano l’applicazione di modelli preconfezionati provenienti da partiti o associazioni rappresentative (cfr. ID., in AA.VV., La riforma dell’amministrazione locale, Torino, 1978, 37). In tal senso da ultimo si veda G. PITRUZZELLA, per il quale i principi affermati dalle recenti riforme implicano «[…] l’accettazione e la valorizzazione del principio di differenza, in luogo della tenden-ziale uniformità imposta dall’accoppiata “Stato dei partiti” più “Stato sociale”, dovreb-be trovare ampia giustificazione il passaggio ad un assetto in cui ciascuna Regione potrà avere assetti istituzionali differenziati […]»: ID., La riforma del Titolo V, parte II della Co-stituzione. Il regionalismo differenziato del “progetto Bossi”, in AIC (www.associazionedei costituzionalisti.it).

62 In questo senso, si veda, nel nostro sistema l’attuazione regionale del d.lgs. n. 29 del

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 20

tutti questi ed altri fattori determinano, in concreto, la portata del prin-cipio di uniformità.

3. Autonoma rilevanza della nozione di uniformità

3.1. Unificazione internazionale, armonizzazione ed unificazione interna

Così ricostruito, il principio di uniformità emerge nella propria auto-nomia rispetto ad altre nozioni oggetto di una tradizionale, più articola-ta, attenzione nell’ambito delle scienze giuridiche. Nozioni, pure, idonee a ricadere nella definizione “generale” di uniformità, quale medesima disciplina giuridica di fenomeni

63. Nell’ambito delle scienze giuridiche è infatti possibile rinvenire una serie di concetti generali cui, in modo di-verso, risulta possibile applicare tale definizione “minimale” di unifor-mità. Frequentemente, in tali casi, ci si riferisce all’uniformità come ri-sultato (l’eguale regolazione dei fenomeni), senza che venga in emersio-ne il dato organizzativo che è preordinato a realizzarlo.

Ciò è vero, in particolare, per la nozione di “unificazione” internazio-nale del diritto

64. Unificazione è, in tal senso, il risultato dell’azione di regolazione condotta tra due o più ordinamenti nella prospettiva di una disciplina uniforme, seppure di norma non unitaria

65, in relazione ad un

1993, raramente caratterizzata, a fronte dell’innovazione di matrice statale, dalla ricerca di forme di differenziazione pure astrattamente prefigurabili («l’effetto uniformante è prodotto allora solo in parte da vincoli di tipo giuridico […] ma da una sorta di subalter-nità culturale che induce molte Regioni a riprodurre alla lettera molte norme statali»: F. MERLONI, Riforme amministrative e autonomia regionale nell’organizzazione degli uffici, in ID. (a cura di), Riforme amministrative e organizzazione regionale. Prima attuazione del D.lgs. n. 29/93, Milano, 1999, 26).

63 Cfr. G. CORNU (cur.), Vocabulaire juridique, cit., 804, che intende la voce «unifor-me», tanto come «[e]gal, invariable et sembamble au sein d’un meme ordre juridique», quanto riferibile ai fenomeni dell’unificazione (interna e internazionale, in questo secon-do senso con riferimento alla c.d. “loi uniforme”) e dell’armonizzazione. Fenomeni, que-sti, che producono uniformità come risultato.

64 Su cui, per tutti, cfr. M.J. BONELL, voce Unificazione internazionale del diritto, in Enc. dir., XLV, 1992, 720 ss., e R. SACCO, La diversità nel diritto (a proposito di problemi di unificazione), in Riv. dir. civ., 2000, 15 ss.

65 Nel senso che l’uniformità è il frutto dell’adozione di una pluralità di leggi uniformi, adottate dai diversi ordinamenti sulla stregua di un modello comune definito in sede in-ternazionale (in particolare, si segnala il ruolo svolto dall’Unidroit e dall’UNCITRAL: cfr. M.J. BONELL, voce Unificazione, cit., 725 et passim).

CONTRIBUTI ALLA DEFINIZIONE DEI PRINCIPI DI UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE 21

parametro dato 66. Al pari della stessa uniformità, l’unificazione interna-

zionale del diritto mira alla creazione di spazi di certezza giuridica, ri-sultando peraltro secondaria la funzione egalitaria, maggiormente con-naturata all’uniformità in senso proprio.

Non di meno, definendo ambiti regolati da leggi uniformi, il processo di unificazione crea sfere di uniformità come uguaglianza, le quali, però, si inseriscono entro sistemi giuridici tendenzialmente, e fortemente, di-somogenei, tale che questa è “localizzata” a determinati fenomeni mate-riali, generalmente mercantili: quelli oggetto, appunto, della normativa “comune”

67. È il mercato, più che l’esigenza di uguaglianza, il motore dell’unificazione di discipline di norma settoriali; è il mercato che, di pa-ri passo con lo sviluppo di una società commerciale globalizzata, mira a creare un ordine giuridico che corrisponda alle esigenze, in primo luogo di certezza e prevedibilità, che gli sono proprie

68. Non diversamente opera il meccanismo della armonizzazione, lad-

dove peraltro si determina la creazione di una uniformità di regolazio-ne di grado inferiore, restando uno spazio di libertà all’ordinamento “armonizzato” in ordine se non anche al risultato, alle modalità attra-verso le quali perseguire il fine posto dalla norma armonizzatrice

69.

66 Meriterebbe anzi un approfondimento più articolato lo studio della relazione, che sembra esservi, tra tendenza all’unificazione sovranazionale e contestuale aumento delle spinte alla differenziazione locale. Fenomeno, questo, che appare esaltarsi nella fase at-tuale, e che ha forti contiguità con quello economico e culturale che passa per la nozione di “glocale”. Spunti per lo studio sul versante giuridico di tali problematiche emergono in U. ALLEGRETTI, Diritti e Stato nella mondializzazione, Troina (En.), 2002 (per il quale, se la mondializzazione comporta “estese uniformità”, a questo si affiancano ripiegamenti loca-listici: cfr. ivi, 19). In senso analogo cfr. M.R. FERRARESE, Le istituzioni della globalizza-zione. Diritto e diritti nella società transnazionale, Bologna, 2002.

67 In particolare, l’UNCITRAL, commissione dell’ONU istituita nel 1966, ha svolto una rilevante opera di unificazione delle discipline elaborando convenzioni internazionali, leggi tipo, leggi uniformi in materia di commercio internazionale (vendita, arbitrato, re-sponsabilità, titoli di credito, ecc.).

68 Cfr. N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 1998, spec. 22 ss. L’unifor-mità come risultato è però, a ben veder, frutto di processi e dinamiche differenti, che non possiamo ascrivere unicamente alla nozione, in senso tecnico, di uniformità come princi-pio organizzativo. L’unificazione, interna ed esterna, ma in realtà ogni azione di regola-zione in ragione del territorio su cui dispiega i suoi effetti e dei soggetti cui si rivolge, ge-nera una sfera di uniformità normativa, quale risultato strettamente dipendente dai ca-ratteri stessi della norma, generale ed astratta.

69 Distinte, in realtà, da questi processi, in quanto li si intenda più strettamente come frutto di dinamiche interordinamentali, sono l’unificazione e l’armonizzazione del diritto operate dalle istituzioni comunitarie, essenzialmente attraverso le fonti del regolamento e della direttiva, nell’un caso e nell’altro. Processi e strumenti in merito ai quali, per tutti, v. M. CARTABIA-J.H.H. WEYLER, L’Italia in Europa. Profili istituzionali e costituzionali, Bolo-

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 22

L’unificazione interna del diritto è quel processo che, di norma, si rea-lizza in occasione della nascita, pure graduale, di una formazione sta-tuale che, per conquista od aggregazione, unifica sotto la medesima di-sciplina giuridica territori ed ordinamenti prima oggetto di regolazioni differenziate. L’unificazione è, allora, espressione della nascita od espan-sione della sovranità di uno Stato, pure composito, federale, regionale, che si sostituisce ad una pluralità di ordinamenti sovrani che, laddove mantengano una loro identità territoriale, residuano come poteri auto-nomi

70. In questo senso, l’unificazione è un processo temporaneo, seppure

non necessariamente di breve periodo ed a volte decisamente graduale, che mira alla creazione, attraverso l’unità ordinamentale, di uno spazio di uniformità nella disciplina giuridica tra territori prima (sovrani e quindi) differenziati

71. Dalle ceneri di una pluralità di ordinamenti sovrani, nasce, quindi, un

ordinamento unitario: la spinta uniformatrice, quale tendenza ad assog-gettare alla medesima disciplina giuridica un determinato fenomeno, come ad articolare l’organizzazione statuale in tale prospettiva, varierà da esperienza storica ad esperienza storica. Ma il permanere di entità pubbliche intrastatuali autonome, e non più sovrane, indica comunque, quale che siano gli spazi lasciati a questa autonomia, una diminuzione del potenziale di differenziazione, tendenzialmente illimitato nella so-

gna, 2000 e B. BEUTLER ET AL., L’Unione Europea. Istituzioni, ordinamento e politiche, Bo-logna, 2001 (cui si rinvia, in particolare per la problematica del “ravvicinamento delle le-gislazioni” di cui all’art.3, lett. h. del Trattato CE, ed alle differenze tra questo fenomeno e quello condotto attraverso sedi quali l’UNCITRAL: ivi, 518 ss.). Laddove si sposta il livello della sovranità, ed in presenza di un intreccio di ordinamenti quale quello che si realizza tra Unione e Stati membri, diviene improprio parlare di armonizzazione od unificazione “internazionale”, cosicché quello con cui ci confrontiamo è un sistema nel quale divengo-no progressivamente meno rilevanti queste nozioni, che sfumano in favore di modellisti-che più direttamente corrispondenti a quelle che si articolano e sviluppano entro sistemi ordinamentali pluralistici “interni”, per i quali risultano più pregnanti i concetti di unifi-cazione interna del diritto, oltre che di uniformità, ed uguaglianza.

70 Sul processo che, in tal senso, ha caratterizzato il nostro ordinamento, cfr. l’ampia ricostruzione di C. GHISALBERTI, Unità nazionale e unificazione giuridica, Roma-Bari, 2002.

71 Processi e fenomeni che evidentemente si legano e si confondono nel loro concreto realizzarsi. L’unificazione crea uniformità (come risultato, come è inevitabile), ma può anche pretendere la previsione di modelli organizzativi uniformi (cosa, quest’ultima, non inevitabile). Sul rapporto tra unificazione ed uniformità nel nostro sistema, cfr. sin d’ora S. ROMANO, Il Comune, in Trattato Orlando, II, parte I, Milano, 1908, 506, per il quale che differenziare l’ordinamento dei comuni «avrebbe condotto al riconoscimento di una so-pravvivenza, più o meno completa, degli antichi singoli Stati nel nuovo», la quale soprav-vivenza avrebbe potuto generare, se non uno Stato federale, «[…] uno Stato di frammenti di Stati».

CONTRIBUTI ALLA DEFINIZIONE DEI PRINCIPI DI UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE 23

vranità, necessariamente limitato nell’autonomia, in ragione dei caratte-ri di questa

72. L’unificazione (interna) del diritto è, dunque, un processo “a perdere”

che genera unità ordinamentale, ed una uniformità che varierà in ragio-ne delle scelte organizzative fatte proprie da ciascuna formazione stata-le. È, ancora, un processo potenzialmente reversibile, di diritto, ed evi-dentemente reversibile, di fatto, proprio in virtù del mutare di quelle condizioni storiche, politiche, sociali che avevano determinato, e giusti-ficato, l’unificazione

73. L’unificazione, l’armonizzazione, creano, perciò, spazi di uniformità (come risultato), senza che sia possibile parlare di uniformità come principio.

3.2. Unità ed uniformità

Il principio di uniformità, esprime e determina, al pari di altri fattori, l’eguale regolazione delle situazioni giuridiche, e lo fa in ragione delle modalità di articolazione dei pubblici poteri: si traduce, cioè, in un in-sieme di soluzioni organizzative, pensate nel pluralismo ordinamentale ed a controllo, contenimento, e garanzia di uguaglianza e certezza di fronte al riconoscimento, od alla non completa riduzione, dei poteri ter-ritoriali autonomi

74. Con uniformità intendiamo, quindi, il principio che impronta l’orga-

nizzazione complessiva di un ordinamento, traducendosi nelle concrete modalità di condizionamento dell’autonomia dei soggetti che lo compon-gono, pure astrattamente in grado di determinare differenziazione. Il prin-cipio di uniformità, in quanto tale, non trova la sua nemesi nella disciplina differenziata di fenomeni astrattamente omogenei, in quanto tale scelta sia operata dal centro e quindi la “disuguaglianza” sia sindacabile in termini

72 Sulla distinzione tra autonomia e sovranità, tra gli altri, A. ROMANO, voce Autono-mia, cit., 33: «la sovranità, per definizione, è illimitata».

73 Un processo, quello inverso, che consiste, nell’ottica dello Stato sovrano, nella disso-luzione di questo, ma che, con riferimento al risultato in termini di differenziazione ed uniformità delle regolazioni, può realizzarsi secondo modelli graduati, ed attraverso pro-cessi anche di lungo periodo.

74 Sin d’ora, cfr. G. VESPERINI, I poteri locali, cit., 84 ss.; lo Stato moderno è essen-zialmente unitario e unica e la sua sovranità, «in esso si assorbono i diritti di signoria, esercitati in altri tempi dai comuni e dagli altri enti minori» (ivi, 85). Il modello della so-vranità come concetto indivisibile ricorre con forza nelle riflessioni filosofiche sullo Sta-to, a partire da J. Bodin e proseguendo con J.J. Rousseau e Sieyes (così che si discute del-la sovranità «come se questa fosse […] simile a un uovo crudo di gallina, che non si può dividere senza rompere»: così P. PASQUINO, Il giudice e il voto, in Il Mulino, 2003, 804).

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 24

di ragionevolezza della scelta differenziante, quanto nell’apertura alla dif-ferenziazione operata dai soggetti dotati di autonomia

75. Come riflesso del principio di uguaglianza, il principio di uniformità ammette ed anzi sottin-tende una “diversa disciplina di fenomeni diversi”

76. Per come sin qui accennato, il principio di uniformità, collante di un

ordinamento composito, presenta forti similitudini ed affinità con un altro principio, quello di unità

77. Il principio di unità trova in se stesso la propria realizzazione e si connota autonomamente di tratti valoriali, non ha, in altri termini, il carattere strumentale (rispetto ad altri fini) proprio dell’uniformità: può tradursi in strumenti e meccanismi (del-l’unità), che peraltro spesso, ma evidentemente non necessariamente, coincidono con i meccanismi dell’uniformità, senza esaurirsi in questi

78. Strutturalmente diverso

79, il principio di unità mira, inoltre, al perse-

75 V., in particolare, F. DELPÉRÉE, Egalité et pluralité des ordres juridiques, cit., passim; G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V, cit., spec. 1258.

76 L’eterodifferenziazione, a carattere peraltro tendenzialmente eccezionale, “specia-le”, derogatorio, non costituisce quindi un elemento di superamento del principio dell’uniformità, come invece si è tradizionalmente ritenuto (a partire da U. BORSI, Regime uniforme, cit.). Peraltro, evidentemente, questo non esclude che un determinato modello di uniformità, funzionale alla realizzazione di una uguaglianza dai connotati essenzial-mente formali-paritari, possa non ammettere differenziazioni anche laddove queste siano frutto di scelte unitarie.

77 Risalendo al significato proprio delle due nozioni, è peraltro evidente la non coinci-denza, ed anzi la profonda diversità, tra la nozione di uniformità (pure minimale) e quel-la di unità. Una prima definizione di unità è quella che ricaviamo dal significato, etimo-logico, della parola: unità è, in questo senso, cio che è “necessariamente uno, cioè indivi-sibile […] nel senso che è privo di parti o che le sue parti sono inseparabili dalla totalità ed inseparabili le une dalle altre” (cfr. N. ABBAGNANO, Dizionario di filosofia, cit., 1128). Non diversamente per Aristotele, che elaborò il concetto (Met., V, 6, 1015 b 16) e Plotino («separati dall’uno gli esseri non ci sono più» […] «perdono l’essere che possedevano e non sono più quel che erano; si mutano in altri esseri che, in quanto tali, sono ciascuno un essere» (Enn., VI, 9, 1).

78 Cfr. M. CAMMELLI, Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo Titolo V, cit., spec. 1276, che, con riferimento all’ordinamento italiano successivo alla riforma del Tito-lo V individua in particolare i meccanismi dell’unità nei nuovi relais che collegano le parti autonome del sistema (per tutti, la circolazione delle informazioni: strumenti dell’unità che non sono strumenti dell’uniformità).

79 Il mantenimento di una realtà statuale passa per l’unità, senza passare necessaria-mente per l’uniformità, per quanto i caratteri stessi di uno Stato unitario possano dipen-dere dall’articolazione interna del principio di uniformità. Gli esempi che ci discendono dalla storia delle istituzioni, italiane ed europee, ma anche dall’analisi comparata sono, al riguardo, illuminanti. Dal secondo punto di vista, ad esempio, l’esperienza statunitense, fortemente caratterizzata da tratti unitari (incarnati dal modello del presidenzialismo), al fianco di spazi di differenziazione normativa rilevantissimi (ed inaccettabili nella cultura giuridica del nostro paese, quale la differenziazione dei sistemi penali, dalla possibilità di prevedere o meno la pena di morte, alla possibilità di prevedere o meno determinate fat-tispecie come reato). Spunti in questo senso emergono, in particolare, da L. VANDELLI,

CONTRIBUTI ALLA DEFINIZIONE DEI PRINCIPI DI UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE 25

guimento di una finalità (la garanzia dei caratteri unitari di un ordina-mento) che non coincide con quella propria del principio di uniformità (la predefinizione organizzativa dell’uguaglianza nei tratti definiti come insuscettibili di differenziazione dall’ordinamento): pure, spesso, l’uni-formità trova nell’unità (e nei suoi strumenti) il mezzo attraverso il qua-le realizzarsi, come è vero il contrario

80. L’uniformità come principio di organizzazione presuppone, inoltre,

la molteplicità, mentre l’unità può prescindere dalla molteplicità, ed in questo caso l’uniformità sarà solo un risultato, peraltro neppure neces-sario, della regolazione unitaria condotta dal centro, senza che nell’or-dinamento possa rinvenirsi un principio di uniformità, quale articola-zione degli strumenti organizzativi idonei a contenere la differenziazio-ne insita nell’autonomia. L’unità è, in questo senso, la qualità di un si-stema nel quale regna un unico regime, nel quale i meccanismi di rela-zione non devono contenere una (assente) potenziale differenziazione delle parti del sistema

81. Se un minimo di unità, ed un minimo di uniformità, costituiscono un

tratto imprescindibile di un ordinamento sovrano, possono però aversi, al di sopra di questo livello di base, vaste aree di oscillazione, senza ne-cessità di una corrispondenza, ed una proporzionalità, tra l’unità e l’uni-formità. Stati fortemente unitari e scarsamente differenziati (basti pen-sare agli ordinamenti di impronta giacobina)

82, Stati fortemente unitari, ma largamente differenziati (stati accentrati che riconoscano discipline giuridiche “per strati” sociali e con regimi territoriali differenziati

83; per-

Devolution e altre storie. Paradossi, ambiguità e rischi di un progetto politico, Bologna, 2002 e, non dissimilmente, seppure ancor più concisamente, da ID., Le collettività territo-riali nella riforma costituzionale francese: verso un superamento dell’uniformità, in Ammi-nistrare, 2003, 306.

80 L’uniformità favorisce l’unità, nel momento in cui riduce le tensioni ordinamentali e le pulsioni autonomistiche, e nel momento in cui favorisce quella che, rifacendoci alle nozioni aristoteliche, possiamo chiamare l’unità degli indiscernibili, ovvero la naturale unità di oggetti (e soggetti) che hanno la stessa forma o sostanza (giuridica). L’unità, d’altra parte, è un formidabile fattore di uniformità, intesa come regolazione uniforme sul territorio.

81 Cfr. G. CORNU (cur.), Vocabulaire, cit. 82 L’unità di un sistema è, peraltro, legata a fattori che vanno al di là della semplice

norma costituzionale. La percezione “come popolo” di una collettività è, evidentemente, uno dei più determinanti fattori di unità, o uno dei più formidabili antagonisti di questa unità allorché “il popolo” non coincida con “la nazione”. Per il primo esempio, basti pen-sare, a mo’ di archetipo, alla Francia. La collocazione dell’Italia è meno pacifica: tradizio-nalmente avremmo potuto collocarla tra gli ordinamenti “a media unità, e debole diffe-renziazione (formale)”.

83 In particolare, le monarchie d’ancien régime. In merito ai tratti fondamentali del siste-ma francese, che viene assunto come modello di riferimento, cfr. sin d’ora A. DE TOCQUE-

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 26

sino taluni Stati federali, laddove riconoscano forti, ma ristretti quanto a numero, poteri dell’entità federale)

84; Stati debolmente unitari e forte-mente differenziati (si tratta, evidentemente, della situazione di maggio-re rischio per la tenuta del sistema: Stati federali che affidano a mecca-nismi metagiuridici la tenuta dell’unità)

85; Stati debolmente unitari, ma a scarsa differenziazione (in questi casi, la tenuta inerziale del sistema è affidata alla “unità degli indiscernibili”, ma l’azione di singole forze poli-tiche può determinare la scomposizione dell’ordinamento

86. L’uniformità gioca, dunque, un ruolo relativo, rispetto ai caratteri di

una formazione statale, in quanto si guardi a questa sotto l’ottica del-l’unità: un sistema differenziato può affidare ad altri meccanismi, che non all’uniformità, la tenuta ordinamentale

87. In particolare, la soddisfa-zione delle esigenze unitarie di un sistema può prescindere dalla appli-

VILLE, L’antico regime e la rivoluzione, in ID., Scritti politici, I, a cura di N. Matteucci, To-rino, 1969, 637 ss.

84 Il modello statunitense (nel quale pure il rilievo della dimensione federale è via via cresciuto), dove è possibile la differenziazione in relazione ad oggetti di straordinario ri-lievo (oltre alla piena disponibilità del proprio assetto costituzionale, peraltro temperato dal “mimetismo costituzionale” che ne ha caratterizzato la redazione, basti pensare al di-ritto penale comune ed alla generalità del diritto privato, se si eccettua la c.d. “commerce clause”) secondo modalità difficilmente compatibili con un ordinamento regionale (la dif-ferenza principale tra sistemi federalisti e regionalisti è forse da rinvenire nell’intima es-senza che è frutto del diverso processo: che lì fosse la differenza era evidenziato già da M.S. GIANNINI (Istituzioni di diritto amministrativo, cit., 201): in tal senso v., da ultimo, F. MERLONI, La leale collaborazione nella Repubblica delle autonomie, cit., 403: «la differenza tra regionalismo e federalismo non è di intensità (maggiore o minore autonomia), ma di senso del cambiamento […]»). In merito al modello statunitense ed al riparto di compe-tenze (in particolare, in relazione alla c.d. clausola dei poteri impliciti o “implied powers” ed alla sua portata), cfr. P. BISCARETTI DI RUFFÌA, Introduzione al diritto costituzionale comparato, Milano, 1988, 158 ss.

85 Così nel caso delle Repubbliche sovietiche, laddove pure in presenza di un espresso “diritto di libera secessione” (art.72 della Costituzione sovietica), si riteneva per il ruolo esercitato dal Partito Comunista (che determinava un sistema di “doppia dipendenza”), essere in presenza non di uno Stato federale, ma solo di «uno Stato unitario dalle svilup-pate autonomie regionali» (così, riportando l’orientamento maggioritario della dottrina occidentale, P. BISCARETTI DI RUFFÌA, ult. op. cit., 424).

86 Spunti in tal senso sembrano potersi ricavare dall’esperienza della scissione della Cecoslovacchia in Repubblica Ceca e Slovacchia. Non diversamente sembrava potersi di-re con riferimento alle intenzioni dichiarate del partito della Lega Nord, nella sua fase “secessionista”: nel 1996, l’elaborazione della Lega giunge al suo estremo, «teorizzando e proclamando come obiettivo politico l’indipendenza del nord, vale a dire la secessione. Ed è con questo messaggio che la lega ottiene […] un successo superiore ad ogni aspetta-tiva» (cfr. L. VANDELLI, Devolution e altre storie, cit., 21 ss.).

87 Diversi sono gli strumenti: così la presenza di forti figure centrali (Presidente eletto direttamente ecc.), favorisce l’unità, ma è indifferente rispetto all’uniformità. In particola-re, attraverso forme di concertazione, attraverso i “relais” diversi (cfr. M. CAMMELLI, Am-ministrazione (e interpreti) davanti al nuovo Titolo V, cit., 1276), può realizzarsi l’unità senza che questa passi per una “eguale forma”.

CONTRIBUTI ALLA DEFINIZIONE DEI PRINCIPI DI UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE 27

cazione di modelli formali uniformi alle organizzazioni pubbliche, come anche può in larga parte muovere da basi diverse rispetto alla uniforme disciplina (di nuovo, formale) dei diritti sul territorio

88. Non di meno, i concetti, pure strutturalmente diversi, finiscono stori-

camente per confondersi. La riduzione dell’importanza dei corpi inter-medi

89, prime tra tutte le dimensioni municipali, ed il loro riassorbimen-to nello Stato, da cui traggono giustificazione e legittimità, può leggersi sia nell’ottica dell’uniformità che dell’unità

90. Nel momento in cui si af-ferma, cioè, l’unità dello Stato, questa richiede ed afferma, in modi e forme peraltro variabili, un’uniformità giuridica che è riduzione e com-pressione degli spazi di (sovranità

91 ed) autonomia 92.

88 Cfr., rispettivamente, nell’evoluzione del nostro sistema, l’abbandono del modello (generale) dell’uniformità amministrativa ed il modello dei c.d. “livelli essenziali”: model-lo, quest’ultimo, che guardando ai risultati e non alla forma, crea “parità”, ma non lo fa attraverso l’uniformità (delle forme).

89 Nella fase di abbandono del sistema feudale, i cui retaggi rimarranno comunque a lungo nelle diverse realtà nazionali e locali, si cercò, in primo luogo, di ridurre l’importanza dei corpi intermedi, che avevano costituito l’ossatura della società medievale (vedi, al ri-guardo, F. CALASSO, Medio evo del diritto, I, Milano, 1954, 415 et passim), ma che non si a-dattavano più alle mutate esigenze della società e, soprattutto, dello Stato moderno. Questo disegno arriverà a compimento solo successivamente, con il superamento delle istituzioni dell’ancien régime, ma era già chiaro nel momento in cui il monarca cercava di eliminare i diversi “ordini” che si frapponevano fra egli e i suoi sudditi. Nel medioevo, infatti, non ve-diamo, come nello Stato Moderno «… da un lato il Re, dall’altro la massa uniforme dei sud-diti; il Re non è che il vertice di una piramide, costituita da tutti quei sovrani di diverso gra-do che sono i vassalli, i principi, i grandi nobili, i feudatari ecclesiastici, le magistrature cit-tadine. Il “buon diritto antico”, difendere e tutelare il quale è supremo dovere del sovrano, è la somma degli infiniti diritti singoli dei diversi ordini»; cfr. G. RITTER, La formazione dell’Europa moderna, Roma-Bari, 1989, 20 ss.; sul tema della costruzione dello Stato mo-derno, vedi anche J.A. MARAVALL, Stato moderno e mentalità sociale, Bologna, 1991.

90 La legislazione accentratrice, a partire dal modello francese (successiva al pro-gramma Thouret), si fonda su un’ispirazione ideologica legata all’esigenza politica di uni-tà ed accentramento e ad una percezione formalistica del principio di uguaglianza, che voleva i cittadini tutti soggetti ad un eguale trattamento. Cfr., al riguardo, S. ROMANO, Il Comune, cit., spec. 508-510; G. JELLINEK, Sistema dei diritti pubblici subiettivi, Milano, 1912, 312 ss.

91 Questo, evidentemente, negli Stati federali. 92 L’inizio di questo processo si ha nel momento in cui il sovrano acquista una forza

tale da consentirgli, spesso appoggiandosi alla borghesia cittadina, di ridurre l’importan-za e la forza dei suoi feudatari. Diversamente realizzatasi nei diversi paesi, questa fase si manifesta in un arco di tempo limitato in alcuni grandi paesi dell’Europa occidentali, nei quali per primi si realizza un’unità nazionale in uno Stato monarchico accentrato ed as-solutistico: con Enrico VII in Inghilterra (1485-1509), Luigi XI in Francia (1461-1483) e Ferdinando d’Aragona in Spagna (1479-1516), quelli che Bacone da Verulamio chiamò “i tre grandi Re Magi”: cfr. G. RITTER, La formazione dell’Europa moderna, cit., 30 ss. Più strettamente sul tema della formazione degli Stati nazionali, cfr. anche C. TILLY (a cura di), La formazione degli Stati nazionali nell’Europa occidentale, Bologna, 1984, oltre al già citato J.A. MARAVALL, Stato moderno, cit.

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 28

3.3. Uguaglianza ed uniformità

Per affrontare la complessa relazione tra uniformità ed uguaglianza, è necessario chiarire come sia improprio sovrapporre e confondere le nozioni, già trattandole nella loro accezione generale: questo perché è evidente che, se correttamente inteso, il principio di uguaglianza (forma-le, paritaria e valutativa, e sostanziale) non implica unicamente unifor-mità (come eguale disciplina giuridica di fenomeni omogenei), ma sot-tintende differenziazione (laddove i fenomeni risultino diversi sulla base di un parametro preso come riferimento)

93. Così, laddove la generalità dei soggetti appartenenti ad una determinata categoria ricevano il me-desimo trattamento, la disciplina stessa potrebbe ben potersi definire uniforme, senza per questo essere rispondente ad un principio di ugua-glianza

94 che fosse inteso al di là della sua prima, e rudimentale, veste di uguaglianza formale paritaria.

La nozione (generale) di uniformità, quale medesima disciplina giu-ridica, se applicata ai soggetti di un ordinamento, appare, in tal senso, corrispondere ad un modello giuridico di uguaglianza formale, sostan-zialmente riconducibile alla tematica della uguaglianza di fronte alla legge. Questo principio, definibile anche attraverso la massima “la legge è uguale per tutti” è ricollegabile al concetto filosofico classico di iso-nomia

95 ed é, in questa accezione, strettamente connesso al principio di

93 Nell’accezione ormai affermatasi nel nostro ordinamento, l’uguaglianza risulta quin-di violata non già quando due soggetti ricevano un diverso trattamento in base alla legge, ma quando la legge, senza un ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso a citta-dini che si trovano in una situazione eguale: vedi, in questo senso, G. PECES-BARBA MAR-TINEZ, Teoria dei diritti fondamentali, Milano, 1993, 262. A pendant di questa affermazione si lega, nell’evoluzione dell’orientamento della Consulta, l’affermazione della incostituzio-nalità di quelle disposizioni che abbiano «disciplinato in maniera uguale situazioni diver-se»: cf. Corte cost., sent. n. 15 del 1960. In tal senso v. Cfr. A.S. AGRÒ, Commento all’art.3 I comma della Costituzione, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bolo-gna-Roma, 1975, 151 ss.

94 Anche in riferimento agli individui, un principio (giuridico) di uguaglianza è affer-mabile solo in quanto ne sia operata una categorizzazione (e quindi, distinzione: cfr. in-fra, nota 25): «[l]’idea dell’uguaglianza “di tutto ciò che porta un volto umano” non con-tiene né un criterio giuridico, né uno politico, né uno economico» […] «[o]gni uguaglian-za acquista il suo significato e la sua importanza per la correlazione di una possibile inu-guaglianza» (così C. SCHMITT, Dottrina della Costituzione, cit., 297-298).

95 I Greci distinguevano tra tre specie d’uguaglianza: tra queste l’isonomia (o isopoli-teia), eguaglianza di fronte alla legge (nell’antica Atene l’eguaglianza formale “venne cele-brata nel modo più pieno” (così per A. CERRI, Eguaglianza giuridica ed egualitarismo, cit., 82). La concezione greca di uguaglianza ci è stata tramandata, in questa accezione (e con riferimento all’età di Pericle) da Tucidide: la Costituzione ateniese non faceva l’interesse di pochi, ma «ha di proprio l’eguaglianza di tutti secondo le leggi». In questo senso, anche Aristotele (Etica nicomachea, VIII, 7): eguaglianza, sia inteso, che non era poi riferibile a

CONTRIBUTI ALLA DEFINIZIONE DEI PRINCIPI DI UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE 29

uguaglianza formale, in una delle accezioni che questo ha nello Stato moderno, la quale non esaurisce però il principio egalitario

96. L’applicazione piena del principio di uguaglianza formale, ovvero la

combinazione dell’uguaglianza paritaria con l’uguaglianza (anch’essa formale) valutativa

97, in base alla quale ultima situazioni differenti do-vranno essere trattate in modo egualmente differente, consente un rispet-to del principio egalitario anche a fronte di differenziazioni giuridiche che siano, però, corrispondenti a differenziazioni di fatto e “ragionevoli”

98. Sotto questa angolazione, generale, il principio è l’uguaglianza, men-

tre “uniformità” e “differenziazione” sono solo le modalità del suo con-creto articolarsi sulla base di un parametro . Se così inteso, lo studio del concetto di uniformità si esaurirebbe, quindi, nello studio del principio di uguaglianza (del quale costituirebbe solo una “declinazione”), oltre che della funzione legislativa e dei caratteri della legge

99: la legge, gene-

tutti realmente (gli schiavi ne erano ovviamente esclusi: «[L]’eguaglianza è considerata giusta, e lo è anche, ma non per tutti, sibbene per gli eguali»: Politica, III, 5, 8). Analoga-mente, a Roma venne affermato il valore di una eguale legge per tutti i cittadini, «di una legge uniformemente applicata» (cfr. C. CURCIO, voce Eguaglianza (Dottrina generale), in Enc. dir., XIV, 1965, 513); Cicerone parlava, al riguardo, di aequalitas (sul punto, più dif-fusamente, v. A. CERRI, ult. op. cit., spec. 91 ss.).

96 Così, il passaggio dalla regola generale a quella speciale «corrisponde ad un natura-le processo di differenziazione delle categorie, e ad una graduale scoperta, da parte del legislatore, di queste categorie. Avveduta o scoperta la differenziazione, il persistere nella regola generale importerebbe il trattamento eguale di persone o categorie diverse» (N. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento giuridico, cit., 100).

97 Il modello costituzionale con cui ci confrontiamo è, quindi, rivolto ad affermare l’uguaglianza formale di tutti i cittadini, ma non come uniforme loro parificazione, quan-to, piuttosto, come uguale trattamento a fronte dell’uguaglianza delle condizioni materia-li che il legislatore assume come parametro per l’applicazione di una data normativa. In questo senso, cfr. C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, cit., 935 ss., per il quale «[…] se è da escludere che il principio stesso imponga di dare alle leggi un contenuto eguale per tutti così che godano dello stesso trattamento, è tuttavia da chiedersi se, lasciando all’assoluto arbi-trio del legislatore la valutazione della diversità delle situazioni, nonché della sufficienza di questa a porre una differenziazione di regolamentazione giuridica, non si finisca con lo svuo-tare il principio di gran parte del suo valore […]».

98 Non è ora possibile approfondire il tema di come, dall’art. 3, comma 1°, Cost., la giurisprudenza e la dottrina, anche risentendo dell’influsso tedesco, hanno elaborato il principio di “ragionevolezza” della legge: in base a questo principio, comunque, il legisla-tore risulta tenuto a trattare allo stesso modo situazioni uguali, ed in modo razionalmente differente situazioni differenti. Sul punto, per il momento, cfr., tra gli altri, A.S. AGRÒ, Commento all’art. 3, cit., 134 ss., C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, cit., 1020 ss., e, più di recente, A. PIZZORUSSO, Ragionevolezza e razionalità nella creazione e nell’ap-plicazione della legge ed A. RUGGERI, Ragionevolezza e valori, attraverso il prisma della giu-stizia costituzionale, entrambi in M. LA TORRE-A. SPADARO (a cura di), La ragionevolezza nel diritto, Torino, 2002.

99 L’uniformità normativa può essere considerata un modello effettivo in quanto la legge (dello Stato) conservi i propri caratteri di generalità ed astrattezza: la crisi della leg-ge è, in quest’ottica, rottura del principio di uniformità normativa, punto critico del prin-

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 30

rale ed astratta, è lo strumento attraverso cui si assicura l’affermazione del principio di uguaglianza formale, attraverso l’uniformazione di ciò che è (ragionevolmente)

100 ritenuto uguale, la differenziazione di ciò che è (di nuovo, ragionevolmente) assunto come diverso

101. In un sistema unitario, la differenziazione può essere realizzazione

dell’uguaglianza in quanto risponda a “presupposti logici obiettivi” 102,

discenda da un “ragionevole motivo” 103, rispetti il “limite della ragione-

volezza” 104.

Il maggiore o minore ricorso ad una uniformità/differenziazione “uni-taria” (attraverso l’uso da parte del legislatore nazionale della propria di-screzionalità categorizzatrice) esprime, in un ordinamento, la tensione tra universalismo/particolarismo ed il suo scaricarsi sul modello della legge generale ed astratta, determinandone, eventualmente, la fibrilla-zione

105. Il porre l’accento su “ciò che divide” (attraverso il ricorso a ca-

cipio di uguaglianza (senza che questo risponda ad esigenze insite nell’autonomia). Il fe-nomeno della “crisi della legge” caratterizza l’epoca attuale, e si traduce nella crisi del principio d’uguaglianza inteso come “generalizzazione” con cui si supera l’idea del privi-legio concesso ad un settore di cittadini «e si concepiscono le norme giuridiche come di-rette ad un astratto homo iuridicus, che è uomo e cittadino. […] Norme che regolamenta-no gli effetti giuridici in maniera eguale per tutti i destinatari»: cfr. G. PECES-BARBA MARTINEZ, Teoria dei diritti fondamentali, cit., 262 (cfr., ivi, anche la Presentazione di N. BOBBIO).

100 Così, nel nostro sistema costituzionale, anche al di fuori dei parametri per i quali vige il divieto costituzionale di differenziazione (fissati dallo stesso primo comma dell’art. 3: razza, sesso, religione, ecc.), tale che deroghe saranno ammissibili solo in quanto di-sposte, o desumibili, dallo stesso testo costituzionale, od in quanto discendenti dalla «na-tura stessa delle cose, che può essere tale da rendere impossibile l’applicazione del prin-cipio» (Così per C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, cit., 935. Come si è progressi-vamente andato chiarendo attraverso la giurisprudenza della Corte costituzionale, la scel-ta del legislatore, nel senso di suddividere in “categorie” normativamente differenziate i cittadini, non è rimessa ad una sua discrezionalità assoluta, atteso che risulta suscettibile di un sindacato «sulla ragione per cui la legge presenta [un certo] contenuto». In questo senso, significativa per la rottura di una linea giurisprudenziale di segno diverso, la sen-tenza n. 56 del 1958.

101 L’evoluzione dottrinale e, innanzitutto, giurisprudenziale, ha condotto ad una af-fermazione del principio di uguaglianza formale nella sua espressione di “eguaglianza valutativa”: limite diviene, per il legislatore, non già “la differenziazione in sé”, ma piutto-sto la “ragionevolezza” di tale differenziazione. Gran parte della dottrina ed un ricchissi-mo filone giurisprudenziale, anche sulla scorta della dottrina tedesca, hanno interpretato l’art.3, I c., ricavandone un generale principio di ragionevolezza e “non arbitrarietà” della differenziazione stessa. (per cui la legge deve trattare in modo eguale situazioni eguali, ed in modo razionalmente diverso situazioni diverse). Cfr., tra gli altri, C. MORTATI, Istitu-zioni di diritto pubblico, cit., 1020 ss.; A.S. AGRÒ, Commento all’art. 3, cit., 134 ss.

102 Corte cost., sent. n. 7 del 1963. 103 Corte cost., sent. n. 61 del 1964. 104 Corte cost., sent. n. 22 del 1966; sul punto, cfr. A.S. AGRÒ, ult. op. cit. 105 Fenomeno, questo, che passa attraverso settorializzazioni/parcellizzazioni/differen-

CONTRIBUTI ALLA DEFINIZIONE DEI PRINCIPI DI UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE 31

tegorie particolari) 106 piuttosto che su ciò che unisce (attraverso il ricor-

so a categorie universali) 107, può determinare o ridurre la diversificazio-

ne tra i soggetti, ma non coinvolge, nell’accezione che qui ne diamo, il principio di uniformità.

È nella pluralità ordinamentale, laddove la legge non è più astrattamen-te in grado di conformare tutti i fenomeni

108 e di darne una tutela (anche solo come traduzione organizzativa) ragionevolmente uniforme/diffe-renziata che emerge un distinto principio di uniformità. L’uguaglianza nel-la molteplicità non trova la sua tutela a valle, nell’esercizio della (unitaria)

ziazioni. Questa tensione tra l’individuo universale e l’individuo particolare (trattato come parte di un sottoinsieme: v. A. ORSI BATTAGLINI, L’astratta e infeconda idea, in AA.VV. (Quaderni San Martino), La Necessaria discontinuità, Bologna, 1990, 69 ss.) risulta parti-colarmente significativa in relazione al godimento dei diritti (basti pensare al dibattito sulla segmentazione delle tutele riconosciute nel mercato del lavoro nel nostro sistema, ed alla tendenza attuale al superamento di un modello universale, quello del rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, in favore di una pluralità di status differenzia-ti: profili in merito ai quali v., da ultimo, T. TREU, Diritto del lavoro e federalismo, cit.).

106 Solo come spunto di riflessione, il problema si pone in relazione alla politica di ac-cettazione delle diversità, spesso profonde dal punto di vista culturale, che scaturisce dal-la società contemporanea, sempre più globalizzata e portata ad un modello di inclusione “post moderno”, attraverso l’accettazione della diversità piuttosto che attraverso l’inclu-sione democratica: il multiculturalismo è anch’esso un valore, ma non può condurre fino al punto di sacrificare i diritti dell’individuo in ragione di presunti diritti del “gruppo” (si pensi, ad esempio, al tema dell’accettazione della diversa condizione della donna spesso richiesta nel nome del “riconoscimento della specificità culturale islamica”). Su questo dibattito, si veda M. WALZER, Sulla tolleranza, Roma-Bari, 2000).

107 «Tutti gli uomini hanno due occhi, ma ognuno ha due occhi diversi da quelli di o-gni altro. […] Così possiamo chiamare egualitari coloro che, pur sapendo che gli uomini sono tanto uguali quanto diversi, danno importanza più a quello che li unisce che a quel-lo che li divide» (N. BOBBIO, Uguaglianza e libertà, cit.). Nell’ambito del dibattito rivolu-zionario, appare con evidenza la tensione verso una uguaglianza/universalismo, nel quale a tutti gli individui venissero riconosciuti i medesimi diritti e doveri: così il progetto costi-tuzionale di J. Pétion (Deputato all’Assemblea Nazionale Costituente nelle file dell’estre-ma sinistra, inizialmente legato a Robespierre, poi sindaco di Parigi e progressivamente vicino alle posizioni della Gironda) all’art.6 prevedeva come «le leggi debbono essere uni-formi, senza la più lieve differenza tra cittadino e cittadino»; non dissimili le tesi di E.J. Sie-yes, il cui progetto di Costituzione, di 49 articoli, ne conteneva ben sei sull’eguaglianza (v. ivi, 40-41; sul punto cfr. A. CERRI, Eguaglianza giuridica ed egualitarismo, cit., 46 et passim) e di Mirabeau (relatore del progetto del comitato dei cinque, che all’art. 5 prevedeva come «la legge, essendo espressione della volontà generale, deve essere generale nel suo oggetto»; cfr. A. SAITTA, ult. op. cit., 70). Da rilevare, peraltro, come l’elettorato attivo e passivo, in contra-sto con le solenni affermazioni della Dichiarazione del 1789, venne limitato, proprio su pro-posta di Sieyes, escludendo la main d’oeuvre perché priva di proprietà (v. S. MASTELLONE, Storia del pensiero politico europeo, II vol., Torino, 1989, 174-177).

108 In tal senso v. anche A. BRANCASI, Uguaglianze e disuguaglianze, cit., che, seppure con riferimento al modello federale, rinviene come «[p]er quanto possa esservi corri-spondenza nei diritti riconosciuti negli Stati federati, il principio di uguaglianza rimane relegato a ciascuno di tali ordinamenti ed è destinato ad operare soltanto nell’ambito di esso» (ivi, 910).

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 32

funzione legislativa, sindacabile per ragionevolezza 109. Questo perché nel-

l’area affidata ad ordinamenti particolari, viene meno la possibilità di indi-viduare nell’ordinamento generale una pietra di paragone

110. La tutela dell’uguaglianza passa, allora, per le scelte fatte a monte

dell’esercizio, in concreto, di questa funzione legislativa: scelte macroor-ganizzative, attraverso le quali l’ordinamento predefinisce gli spazi, i li-miti, i confini e le forme di condizionamento di quest’area sottratta al-l’uguaglianza nella legge dello Stato. In queste scelte organizzative vive il principio di uniformità

111. L’importanza del principio egalitario, tra i cittadini come tra i territo-

ri, emerge quale uno dei cardini fondamentali dello Stato moderno, ma deve essere però considerato da una duplice prospettiva, sia quale diritto dei cittadini che come principio di articolazione dello Stato

112. È in questa chiave di lettura che affiora la stretta connessione tra ugua-

glianza ed uniformità, nelle sue diverse accezioni. Ed in effetti è in questo contesto

113 che il principio di uguaglianza si

109 Lo strumento logico attraverso il quale si è esteso il sindacato di uguaglianza è sta-to quello secondo il quale la struttura del giudizio di uguaglianza «non corrisponde ad un giudizio binario basato sulla mera comparazione tra disciplina oggetto del giudizio costi-tuzionale e norma parametro, ma segue lo schema ternario della comparazione della di-sciplina di cui si sospetta l’illegittimità con la norma per il tramite di un parametro nor-mativo assunto quale tertium comparationis» (così, da ultimo, A. MOSCARINI, Principio co-stituzionale di eguaglianza e diritti fondamentali, in R. NANIA-P. RIDOLA (a cura di), I diritti costituzionali, I, Torino, 2001, 164). Sul punto, amplius, v. A. RUGGERI, Ragionevolezza e valori, cit.

110 Così, nell’ordinamento francese, a margine del tentativo di affermazione di una au-tonomia differenziata della Corsica (con il riconoscimento di potestà legislativa ad un en-te espressione di una realtà territoriale: tema su cui v. A. MASTROMARINO, Il Conseil Con-stitutionnel francese frena la Corsica: brevi note a proposito della decisione n. 2001-454 DC, in Regioni, 2003, 625 ss.), possono leggersi affermazioni che esprimono con forza questo conflitto (reale, e la sua percezione) tra eguaglianza ed autonomia: «si la loi que la repré-sentation nationale a adoptée pour tout le peuple francais peut etre modifiée pour une section de ce peuple, il en résultera nécessairement une rupture d’égalité devant la loi qui sera sans rapport avec son objet puisqu’elle résultera de critères extérieurs» (Cons. Const., Dec. 2001-454 DC).

111 Tutti i fatti di organizzazione «in maggiore o minore misura “agiscono” sull’attività e ne influenzano lo sviluppo» (v. M. NIGRO, Studi sulla funzione organizzatrice, cit., 131), talvolta, anzi, è dall’esame delle scelte di organizzazione, prese nel loro complesso come disegno organizzativo che emerge o si predetermina l’attività, la “scelta sostanziale” (ivi, 131-132 et passim).

112 L’aspirazione all’uguaglianza, intesa nell’accezione più ampia e generale, è stata, a partire dalla Rivoluzione francese, un fondamentale veicolo di civiltà giuridica e politica e di democrazia, senza la quale non ci sarebbe lo Stato costituzionale; cfr., in questo senso, J. GARCÌA MORILLO, Autonomia, asimmetria e principio di eguaglianza, cit., 103.

113 L’eguaglianza quale carattere dello Stato moderno può essere definita quale “iden-tità di status di fronte all’ordinamento giuridico”, quale uguaglianza della posizione giu-ridica dei cittadini di fronte alla legge (cfr. J. GARCÌA MORILLO, ult. op. cit., 104).

CONTRIBUTI ALLA DEFINIZIONE DEI PRINCIPI DI UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE 33

fonde con il concetto stesso dell’uniformità, tanto a fondo che tuttora sembra difficile scinderli: allorché si afferma l’uguaglianza di fronte alla legge a contrario, talché non vi siano più «per alcuna parte della nazio-ne, né per alcun individuo, alcun privilegio o eccezione al diritto comu-ne» di tutto il popolo

114. In questa affermazione vive una accezione for-male dell’uguaglianza, come identità delle posizioni dei destinatari del comando normativo (uguaglianza di fronte alla forza ed agli effetti della legge)

115: questa affermazione non si riflette unicamente sui caratteri della legge, ma anche sulla struttura dello Stato. Emerge, allora, il prin-cipio di uniformità, che costituisce la traduzione organizzativa del prin-cipio di uguaglianza in un sistema pluralistico.

Dunque, così inquadrata, si evidenzia la differenza tra uguaglianza (che è fine e valore dell’ordinamento) ed uniformità (che è il principio organizzativo strumentale alla sua realizzazione in un sistema plurale). Tra le due allora vige un rapporto di mezzo a fine (l’uniformità è stru-mentale all’uguaglianza, mentre non è sostenibile il contrario): ed inol-tre, come principio di organizzazione rivolto a realizzare l’uguaglianza nella pluralità, l’uniformità si sostanzia nell’equilibrio tra il principio di uguaglianza e quello di autonomia

116.

3.4. Autonomia ed uniformità

In un sistema amministrativamente unitario, capace di risolvere ogni antinomia alla luce di un criterio gerarchico

117, trattare il tema dell’uni-

114 Sin d’ora merita evidenziare, da un lato, come il regime prerivoluzionario fosse ca-ratterizzato da amplissimi spazi di differenziazione (su base territoriale e personale), che qui è impossibile approfondire, dall’altro come alla legislazione accentratrice ed unifor-matrice rivoluzionaria (e bonapartista) non fu estranea l’esigenza politica di unità, così come «la percezione del principio di uguaglianza, da applicare anche nell’ammini-strazione locale, affinché tutti i cittadini fossero soggetti ad un eguale trattamento da par-te delle autorità locali» (cfr. G. BERTI, Amministrazione comunale e provinciale, cit., 32, il quale peraltro rileva come si trattasse di «una percezione evidentemente formalistica del principio stesso»).

115 Contro un sistema (l’ancien régime) che ammetteva una pluralità di ordinamenti e di principi giuridici: sia in base a variabili territoriali che personali. In merito, tra gli altri, cfr. L. VANDELLI, Poteri locali, cit., 15 ss. e, a partire dalla non dissimile esperienza spagnola, J. GARCÌA MORILLO, Autonomia, asimmetria e principio di eguaglianza, cit., 104 et passim.

116 Mentre, al pari dell’unità, l’uguaglianza non presuppone la presenza di spazi di au-tonomia: essa può realizzarsi appieno, anzi, proprio laddove autonomia non c’è, nello Stato unitario “non composto”; cfr. F. DELPÉRÉE, Egalité et pluralité des ordres juridiques, cit., 233 ss.

117 Il più limpido modello di riduzione delle antinomie attraverso la gerarchia è quello kelseniano della c.d. “teoria gradualista”: cfr. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 34

formità e della differenziazione sarebbe forse tutt’uno con il trattare il tema dell’uguaglianza e della ragionevolezza della legge differenziante; ma in un sistema plurale e complesso, che distribuisce su più livelli la funzione amministrativa e normativa, e che articola una pluralità di cen-tri di autonomia politica, nel quale si determinano antinomie risolvibili in virtù di un principio di competenza

118 prima ancora che di gerar-chia

119, affrontare le nozioni di uniformità e differenziazione significa confrontarci con i caratteri stessi di questo sistema, e con la sua capaci-tà di realizzare l’uguaglianza (e con quali caratteri) nell’autonomia.

Una disciplina differenziata può corrispondere o meno all’esigenza egalitaria insita in un ordinamento, e come tale sarà sindacabile in ordi-ne alla sua ragionevolezza, se non a livello giurisdizionale certo a livello dottrinale e politico

120. Ma se questa stessa disciplina è di competenza, in virtù dell’organizzazione che, a livello costituzionale od ordinario si è data l’ordinamento, di soggetti dotati di autonomia, la differenziazione che ne scaturirà non sarà più, necessariamente, frutto di una valutazio-ne, pure discrezionale, sulla rilevanza di un determinato fatto differen-ziale, ma sarà frutto di autonome scelte e della definizione di autonome priorità

121. L’autonomia crea differenziazione, o meglio, la differenzia-zione è il naturale prodotto di un effettivo esercizio di autonomia.

Non diversamente, seppure con un grado di capacità differenziante e-videntemente minore, laddove il medesimo comando normativo sia tra-dotto da soggetti autonomi tra loro differenziati (quanto a organizzazio-

Stato, Milano, 1952, 125 et passim; per una lettura, sintetica e parzialmente critica, cfr. C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, cit., 287 ss.

118 Da rilevare, peraltro, come sia diffuso nel dibattito scientifico il rilievo del-l’insufficienza dei criteri della gerarchia e della competenza (G.U. RESCIGNO lo definisce addirittura “un luogo comune”, rilevando come questi siano utili strumenti per organiz-zare l’insieme delle fonti, ma «non sono sufficienti, né per estensione, né per intensione»: cfr. ID., Note per la costruzione di un nuovo sistema delle fonti, in Dir. pubbl., 2002, 801).

119 Così, in relazione al sistema italiano successivo alla legge cost. n. 3 del 2001, G.U. RESCIGNO rileva come «il nuovo testo costituzionale ha aumentato grandemente il raggio di azione del criterio della competenza, diminuendo di altrettanto il raggio di azione del criterio gerarchico» (ID., Note per la costruzione, cit., 823).

120 In relazione al diverso trattamento dato da leggi regionali «[n]on vi sarà invece u-guaglianza in relazione ai soggetti ai quali essa non si applica, trovando invece applica-zione la legislazione di altre Regioni»: cfr. G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Ti-tolo V, cit., 1248.

121 Cfr. G. CEREA (Regionalismo possibile e regionalismo auspicabile, in Regioni, 1997, 105 ss.) che anzi, spostando l’attenzione sul dato sostanziale, arriva a ritenere fuorviante l’imposizione di vincoli di uniformità negli spazi affidati alle autonomie: questo perché non solo le risposte devono potere essere differenti, ma perché in un sistema autonomo il dato di partenza (che è la giustificazione stessa del riconoscimento dell’autonomia) è che sono già le domande ad esserlo.

CONTRIBUTI ALLA DEFINIZIONE DEI PRINCIPI DI UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE 35

ne, funzioni, quanto a soggetto competente), cosicché la traduzione della volontà (uniforme) della legge sarà diversamente realizzata non in virtù tanto (e solo) di una sua diversa applicazione “nel caso concreto”, ma in virtù dei caratteri stessi delle organizzazioni chiamate ad eseguirla.

In ragione del differente comando normativo, o della sua differente traduzione, il trattamento giuridico di un cittadino entro l’ordinamento sarà, allora, differenziato, senza poter essere valutato in termini egalitari, rispetto a quello riconosciuto ad un altro soggetto poiché ricadente entro la sfera di azione di un altro soggetto pubblico dotato di autonomia

122. Viene meno il tertium comparationis per un giudizio sulla ragionevolezza del trattamento differenziato

123. Il principio d’uniformità è, allora, autonomamente rilevante proprio a

fronte di un sistema pluralistico di poteri, e si traduce nei meccanismi organizzativi che, in un dato ordinamento, sono predisposti a garanzia dell’uguaglianza nella molteplicità delle fonti e dei soggetti chiamati a dare cura concreta agli interessi collettivi. L’organizzazione predefini-sce, cioè, i tratti dell’uguaglianza possibile entro un sistema che ricono-sce il pluralismo dei soggetti e delle fonti, e promuove l’autonomia, che è differenziazione (o, più correttamente, la misura, giuridicamente garan-tita di tale differenziazione

124. In questo senso, possiamo definire il principio di uniformità come

il vettore organizzativo dell’uguaglianza in un sistema plurale, che am-mette la differenziazione: un principio che si muove al confine tra le opposte forze dell’autonomia (come concetto relazionale)

125 e dell’uni-

122 È, allora, lo stesso principio di uguaglianza a dover essere riletto alla luce del-l’organizzazione della Repubblica, scelta dal legislatore costituzionale. Come una riforma di regole organizzative finisca per incidere fortemente su valori è denunciato da S. RODO-TÀ (Audizione, in Indagine conoscitiva sugli effetti nell’ordinamento delle revisioni del Titolo V, cit.). Le scelte d’organizzazione, determinano però, inevitabilmente, le future modalità di garanzia e tutela degli interessi (cfr., A. PIOGGIA, La competenza amministrativa, cit., spec. 207; G. ROSSI, Introduzione al diritto amministrativo, cit., spec. 95 ss.; in questo sen-so, v. già M. NIGRO, Studi sulla funzione organizzatrice, cit.: «l’organizzazione è modellata sugli interessi che deve curare», e proprio per questo «l’organizzazione reagisce su tali interessi e ne influenza la realizzazione, assumendo una funzione attiva e direttiva nel-l’intero processo di soddisfazione di essi» [ivi, 117, 119]).

123 Cfr., in tal senso, di nuovo, cfr. F. DELPÉRÉE, Egalité et pluralité des ordres juridiques, cit.; e G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V, cit., 1258: la legge regionale «è sog-getta al principio di uguaglianza solo per ciò che attiene al proprio ambito di efficacia».

124 In merito v., nuovamente (e cfr. supra), F. MERLONI, Autonomia e libertà nel sistema della ricerca scientifica, cit., 111.

125 Sul carattere relazionale del concetto di autonomia, cfr. da ultimo A. ROMANO, voce Autonomia, cit. («[…]il valore dell’autonomia, di una qualsiasi autonomia, emerge solo se essa viene delineata nei confronti di chi, o di che cosa, la scelta che garantisce sia, appun-

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 36

tà 126, dell’autonomia (come potere differenziante)

127 e dell’uguaglianza. Un principio che acquista caratteri definiti nel concreto articolarsi di un sistema, laddove assume connotati specifici rispondenti ad un modello determinato di uniformità, capace di evidenziare quale sia il grado di differenziazione ammesso in un ordinamento

128.

3.4.1. Segue: non coincidenza delle nozioni di differenziazione ed autonomia

Se è enucleabile un autonomo principio di uniformità come trasposizio-ne in termini organizzativi della lettura che, un determinato ordinamento, dà del principio di uguaglianza nel pluralismo dei soggetti territoriali, me-no pacifica appare l’individuazione di un autonomo, ed opposto, principio di differenziazione che abbia caratteri ed un rilievo proprio rispetto al prin-cipio, anch’esso organizzativo (oltre che valore), di autonomia.

Talune accezioni 129 del principio di autonomia ne segnalano l’affinità

con la nozione di differenziazione: come l’autonomia, la differenziazio-ne è un concetto relazionale, ed al pari della prima, l’estrema latitudine della nozione ne suggerisce l’aggettivazione per darne una definizione significativa

130. Come l’autonomia, la differenziazione è scomponibile ed esaminabile per gradi, momenti, concetti.

La differenziazione, poi, muove naturalmente dall’autonomia, dal mo-

to, autonoma. L’autonomia, dunque, non è una situazione in sé, ma è una situazione all’interno di un rapporto, di una relazione.» [ivi, 32]). In questo senso, cfr. M.S. GIANNI-NI, Autonomia (saggio …), cit., 851 ss.; S. ROMANO, Autonomia, cit., 15 ss.

126 In merito, cfr. U. ALLEGRETTI, Autonomia regionale e unità nazionale, in Regioni, 1995, 9 ss.; l’ordinamento italiano ha tradizionalmente accordato una preferenza/preva-lenza al valore dell’unità rispetto a quello del pluralismo e dell’autonomia (come ravvisa G. PASTORI, Unità nazionale, autonomie e federalismo, in Regioni, 1995, 71 ss.).

127 O come spazio demandato alla differenziazione («[l]’autonomia […] è una misura del grado di differenziazione consentito a determinati soggetti nella disciplina della loro organizzazione ovvero delle funzioni loro attribuite come proprie»: così, di nuovo, F. MERLONI, ult. op. cit., 112.

128 La qual cosa non è definibile in astratto, ma in concreto: esso discende dall’or-ganizzazione che è propria di un ordinamento e dalla sua concreta attuazione/appli-cazione, entro i limiti espressi o immanenti nell’ordinamento. Questo rispondendo (o meglio, cercando di costruire strumenti per rispondere) agli stimoli di G. ROSSI-A. BENE-DETTI, La competenza legislativa statale esclusiva, cit., 23 et passim.

129 La nozione, come noto, può assumere diversi significati (sul punto, per tutti, M.S. GIANNINI, Autonomia (saggio …), cit., 852), talune accezioni (di autonomia tout court, non aggettivata) portano a sovrapporre in larga parte autonomia e differenziazione, talune altri invece non determinano questo rischio (tra gli altri, cfr. V. CERULLI IRELLI, Corso di diritto amministrativo, cit., 275: il principio di autonomia come affermato nella nostra Costituzio-ne significa questo «che le comunità territoriali […] esprimono organizzazioni di governo dotate della natura e dei caratteri dei pubblici poteri, in senso proprio e pieno»).

130 Di nuovo, per tutti, v. M.S. GIANNINI, Autonomia (saggio …), cit.

CONTRIBUTI ALLA DEFINIZIONE DEI PRINCIPI DI UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE 37

mento che essa è la naturale conseguenza del concreto uso del potere diffe-renziante insito in questa: da questo punto di vista potremmo distinguere tra differenziazione in concreto (la scelta autonoma, quindi diversa) da dif-ferenziazione in astratto (il riconoscimento di spazi di autonomia)

131. Il fatto è che, a ben vedere, se l’uguaglianza non presuppone, necessa-

riamente, uniformità, la nozione più corretta di autonomia implica la determinazione, da parte dell’ordinamento, di uno spazio di differenzia-zione, così che le due nozioni finiscono per sovrapporsi in larga misura, tanto che diviene difficile scinderle.

Pure, gli spazi di sovrapposizione non sono completi, cosicché appare enucleabile un concetto di differenziazione distinto da quello di auto-nomia: questo avviene se centriamo l’attenzione sui soggetti pubblici do-tati di autonomia, ed in particolare sulla loro organizzazione.

Secondo quanto sin qui sostenuto, differenziazione ed autonomia non coincidono necessariamente (come fenomeni), dal momento che può es-servi differenziazione senza autonomia: ovvero, differenziazione eteronoma di soggetti dotati di autonomia

132. Seppure difficilmente enucleabile come principio generale diverso da quello di autonomia, la nozione di differen-ziazione non si presta, dunque, ad essere esaurita nell’autonomia.

Operare questa riduzione (della differenziazione “in senso stretto” nell’autonomia) non ci consentirebbe, infatti, di articolare l’analisi ri-spetto ai fenomeni che pure, tradizionalmente, maggiormente sono stati oggetto di riflessione attraverso i canoni dell’uniformità e della differen-ziazione, vale a dire la disciplina giuridica, spesso eterodiretta, dei sog-getti autonomi entro un ordinamento sovrano.

La differenziazione delle strutture formali è, infatti, operazione che può essere il frutto di un’azione di regolazione eteronoma, e, come tale, decisamente non riconducibile entro il solco dell’autonomia

133. Nell’ambito di questo fenomeno complessivo (l’uniformità/ differen-

ziazione dei soggetti autonomi, sulla base di regolazioni autonome/ete-

131 Precisando, peraltro, che, al diritto sfugge il fatto, e quello che qui possiamo inda-gare sono le precondizioni (giuridiche, ma anche metagiuridiche) che permettono/im-pediscono la differenziazione “in concreto”.

132 Fenomeno cui possiamo ricondurre la gran parte delle ipotesi di regolazione delle organizzazioni pubbliche («il criterio del tutto prevalente nelle fonti dell’organizzazione è quello della etero-organizzazione»: cfr. G. ROSSI, Introduzione al diritto amministrativo, cit., 91), ma che possiamo inquadrare nella nozione (come qui intesa) di differenziazione solo se legato al carattere autonomo del soggetto oggetto di regolazione.

133 Si veda ad esempio tutta la tematica del “pariforme sistema” degli enti locali: si tratta di uno dei profili in merito ai quali è stato tradizionalmente più forte e frequente il ricorso alle categorie dell’uniformità e della differenziazione (che, anzi, emergono in quest’ambito: cfr. già U. BORSI, Regime uniforme, cit., 7 ss.).

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 38

ronome) è forse possibile enucleare uno specifico principio di diffe-renziazione (amministrativa), che postula l’assunzione dell’irrilevanza della dimensione organizzativa anche (proprio) nella prospettiva di una uguale tutela dei diritti, o comunque di una loro adeguata soddi-sfazione, sul territorio

134. La strutturazione dei soggetti autonomi, la loro organizzazione, le loro funzioni, divengono, in un ordinamento connotato da un principio di differenziazione

135, delle variabili indi-pendenti, in una logica di equivalenza che assume come invariante il risultato

136, non più l’uniformità dei percorsi e dei soggetti chiamati a perseguirlo.

Detto questo, le nozioni di differenziazione e di autonomia, anche al di là di questo specifico approccio (amministrativo-organizzativo) non appaiono riducibili l’una nell’altra.

Se riconoscere spazi di autonomia significa, inevitabilmente, ricono-scere spazi di potenziale differenziazione, i quali varieranno in ragione dei caratteri e dei limiti dell’autonomia stessa (caratteri e limiti che di-stinguono la nozione di autonomia da quella di sovranità)

137, autonomia e differenziazione sembrano porsi, a prima vista, in un rapporto di cau-sa effetto che è opposto rispetto a quello intercorrente tra uguaglianza ed uniformità.

Qui, l’autonomia non è frutto della differenziazione, ma ne è causa. La differenziazione, inoltre, è un risultato solo potenziale dell’auto-

134 Ribaltando l’affermazione Rivoluzionaria e la connessa “confusione” di egalité ed uniformité (su cui, per tutti, cfr. sin d’ora L. VANDELLI, Poteri locali, cit., 20 ss.).

135 Che è tale, a nostro avviso, in quanto si colleghi all’autonomia, cosicché i diversi percorsi organizzativi non acquistano solo una valenza in termini di efficienza/efficacia/ flessibilità, ma nella prospettiva di una diversa cura degli interessi propri di una collettivi-tà organizzata (quindi: differenziazione come principio, e non solo come criterio).

136 Espressione, questa, di una duplice tendenza, da un lato la complessificazione della realtà amministrativa, non limitata al versante degli enti autonomi, è un dato assunto via via come irriducibile dallo stesso legislatore (v., tra gli altri, L. TORCHIA, La modernizza-zione del sistema amministrativo, cit., 333 ss., che ravvisa nelle recenti evoluzioni del no-stro ordinamento «l’accettazione della differenziazione come caratteristica propria del-l’universo amministrativo [ed] il corrispettivo abbandono di dettare regole uniformi per tutti i soggetti dell’universo»); dall’altro emerge come modello di riferimento quello delle organizzazioni private, dove la dimensione interna dell’amministrazione-impresa è vista come in larga parte irrilevante per coloro che sono chiamati a relazionarsi con essa (sul punto, cfr. la ricca ricostruzione di A. PIOGGIA, La competenza amministrativa, cit., spec. 62 ss., e G. BERTI, Interpretazione costituzionale, Padova, 1990, che rileva come, a diffe-renza che nel pubblico, «nel diritto privato, l’aspetto organizzativo non è mai fondamen-tale» [ivi, 296]).

137 «La sovranità, per definizione, è illimitata […]. L’autonomia, un’autonomia, qual-siasi autonomia, in quanto relazione, è delineabile solo come riconosciuta da un’isti-tuzione, da un ordinamento: ossia in quanto da questa istituzione, da questo ordinamen-to sia derivata»: così A. ROMANO, voce Autonomia, cit., 33.

CONTRIBUTI ALLA DEFINIZIONE DEI PRINCIPI DI UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE 39

nomia 138, cosicché l’ordinamento può riconoscere formalmente un livel-

lo di autonomia maggiore di quanto non sia il livello di differenziazione compatibile con il sistema e con la sua stessa tenuta

139, in quanto nel si-stema operino attori in grado di frenare, anche ad un livello metagiuri-dico, il potenziale differenziante insito nell’autonomia. Può, cioè, opera-re a livello di Costituzione vivente

140, seppure non già a livello di Costi-tuzione formale, un principio di uniformità che si traduce in una serie di meccanismi, anche non giuridicizzati, che contengono la differenziazio-ne pure formalmente riconosciuta contestualmente al riconoscimento di spazi di autonomia

141. Non solo l’organizzazione costituzionalizzata dei poteri dello Stato e

della loro articolazione, non solo le limitazioni espresse degli spazi di autonomia, costituiscono, cioè, espressione di un, manifesto od imma-nente, principio di uniformità.

138 Come ci dimostra l’esperienza del regionalismo italiano “dell’uniformità” (in tal senso, di nuovo, v. F. TRIMARCHI BANFI, Il regionalismo e i modelli, cit., 256 ss.), ma anche l’esperienza locale.

139 Basti riflettere, nuovamente sull’ordinamento dell’Unione Sovietica, che come detto riconosceva formalmente (ma a lungo ha negato di fatto) persino un “diritto alla libera secessione” delle Repubbliche che componevano l’entità federale (cfr. P. BISCARETTI DI RUFFÌA, Introduzione al diritto costituzionale comparato, cit.); da notare come sia proprio con riferimento a questa previsione che C. MORTATI esemplifichi la differenza tra costitu-zione formale e costituzione materiale, rilevando il carattere di “mera facciata” dell’affer-mazione per la quale «ogni repubblica dell’Unione conserva il diritto di uscire liberamen-te dall’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche» (ID., Istituzioni di diritto pubblico, cit., 33).

140 Dunque nel senso che Costantino Mortati attribuisce alla nozione di costituzione materiale (come espressione della dialettica tra costituzione formale e mutevole vincola-tività della realtà giuridico istituzionale presente in un contesto dato: v. ID., Costituzione (Dottrine generali), in Enc. dir., XI, Milano, 1961, 152 ss.).

141 Così nel sistema italiano tradizionale è stata rimarcata la distanza tra la solenne af-fermazione (art. 5) dell’autonomia e la sua concreta traduzione (nel Titolo V, prima della sua riforma): in tal senso, in particolare, v. A. ORSI BATTAGLINI, Le autonomie locali nell’or-dinamento regionale, Milano, 1974; G.C. DE MARTIN, L’amministrazione locale nel sistema delle autonomie, Milano, 1984. Da ultimo, V. CERULLI IRELLI, che rileva come la riforma del Titolo V «realizz[i], portandolo alle sue più rilevanti conseguenze, il principio già fissato dall’art. 5 della Costituzione, precedentemente trascurato dalla legislazione ordinaria» (ID., La nuova Costituzione e l’ordinamento della Città di Roma, in www.federalismi.it, luglio 2002, 4).

CAPITOLO SECONDO

CONCETTI E GRADI DELL’UNIFORMITÀ E DELLA DIFFERENZIAZIONE

SOMMARIO: 1. Emersione delle nozioni di uniformità e differenziazione e loro caratteri. – 2. Variabili quantitative della differenziazione. – 3. Gradi di differenziazione come gradi di autonomia. – 3.1. Difformità. – 3.2. Differenziazione eteronoma, autonoma, norma-tiva (autonomica). – 4. L’uniformità ed i suoi oggetti. Sfere e fuochi dell’uniformità e della differenziazione. – 5. L’uniformità come condizionamento dell’autonomia. I meccanismi dell’uniformità. – 6. Ulteriori scomposizioni: la differenziazione funzio-nale. Uniformità e differenziazione come criteri di riparto di competenze.

1. Emersione delle nozioni di uniformità e differenziazione e loro ca-ratteri

Se di uniformità possiamo parlare, in senso ampio, ogni qual volta uno stesso fenomeno risulti oggetto della medesima disciplina normati-va, è però possibile enucleare un principio giuridico di uniformità che, nella scienza giuridica e politica moderna, si ricollega direttamente al principio di uguaglianza, divenendone traduzione in termini organizza-tivi. Si tratta, inoltre, di un principio in sé scomponibile, in virtù della sua riferibilità, in particolare, ora alla disciplina sostanziale data da enti autonomi alle situazioni giuridiche degli individui ora alla disciplina or-dinamentale degli stessi soggetti pubblici dotati di autonomia: uniformi-tà normativa ed uniformità amministrativa

1.

1 In tal senso v., tra gli altri, G. D’ALESSIO (Prospettive di riforma, cit., 27 ss.), che evi-denzia la tendenza progressiva al superamento tanto dell’uniformità amministrativa quanto dell’uniformità normativa. La distinzione è ricorrente: così, ancora, distingue tra uniformità amministrativa ed uniformità normativa, rifuggendo la prima ma accogliendo la seconda, Don Sturzo, il quale afferma «sono unitario, ma federalista impenitente. La-sciate che noi del Meridione possiamo amministrarci da noi, da noi designare il nostro indirizzo finanziario, distribuire i nostri tributi, assumere la responsabilità delle nostre opere, trovare l’iniziativa dei rimedi ai nostri mali; […] non siamo pupilli, non abbiamo

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 42

La possibilità di questa scomposizione è frutto della genesi dei con-cetti, posto che le nozioni di uniformità e differenziazione, pure nella estre-ma latitudine che le caratterizza, entrano nello scenario della riflessione giuspubblicistica in connessione alle discipline, positivamente date, de-gli ordinamenti locali (più precisamente comunali)

2. Certo, ascrivere le nozioni in esame solo a questi fenomeni appare limitativo

3, oltre che scorretto: non di meno, non possiamo prescindere dall’analizzare questi fenomeni nel momento in cui andiamo ad esaminare i concetti (princi-pi) di uniformità e differenziazione. Limitare il campo d’analisi al solo “pariforme sistema locale” è d’altronde improprio, dal momento che qualsiasi soggetto pubblico, autonomo o meno, può ricevere una regola-zione diversificata rispetto al genus cui appartiene

4; ma, soprattutto, una visuale così ristretta non ci consente di misurarci con gli ambiti do-ve più forti e problematiche emergono le tensioni tra valori dell’ugua-glianza e dell’autonomia. Non ci permette, in particolare, di confrontarci con la differenziazione nelle autonomie (ad opera di queste), dove pure si può rinvenire il delicato equilibrio tra ragioni dell’uguaglianza e ra-gioni della differenza

5.

bisogno della tutela interessata del Nord; e uniti nell’affetto di fratelli e nell’unità di regi-me, non nell’uniformità dell’amministrazione, seguiremo ognuno la nostra via economica, amministrativa e morale nell’esplicazione della nostra vita» (citato in AA.VV., Storia del federalismo, in www.fedlib.it).

2 E solo indirettamente, degli ordinamenti provinciali. Si tratta di una riferibilità senz’altro corretta, posto anzi che è proprio in relazione a questi enti che le categorie giu-ridiche in oggetto risultano particolarmente utili anche a fini esplicativi. Ciò non di meno è improprio affermare che le problematiche giuridiche, pure così inquadrate, dell’uni-formità e della differenziazione risultino applicabili solo ai minori enti territoriali. In tal senso si veda, da ultimo, F. MERLONI, La ricerca scientifica tra autonomia e indirizzo poli-tico, tra uniformità e differenziazione, in Ist. del federalismo, 2002, 797 ss.; ma anche L. AN-TONINI, Il regionalismo differenziato, cit., 7 et passim (oltre all’applicazione più generale della nozione, ad intendere tanto i fenomeni della “non differenziazione” che della “non difformi-tà”, da parte di S. CASSESE, Le basi del diritto amministrativo, cit., 15, 35 et passim).

3 La differenziazione non si pone sempre come modello, ma spesso come deroga: nel caso in cui sussiste un assetto di “norma” ed “eccezione” non può ritenersi però intaccato un modello di “uniformità”. Si veda, sul punto, sin d’ora, L. TORCHIA, La modernizzazione del sistema amministrativo, cit., 329 ss., per la quale l’affermazione di un principio di dif-ferenziazione passa per il «superamento della logica elementare regola/deroga, che ac-compagna, inevitabilmente, tutti i disegni basati sull’uniformità» (ivi, 333).

4 Altri enti dotati di autonomia possono appartenere a categorie entro le quali si di-stinguono per tratti differenziali (per tutti, le Regioni e le entità di dimensione sovraco-munale), come ci mostra ampiamente l’esperienza del regionalismo italiano, oltre che quello, spesso preso come riferimento, spagnolo (sul quale, da ultimo, cfr. J.F. LÒPEZ AGUILAR, Lo Stato autonomico spagnolo. Stato composto asimmetrico e fatti differenziali nella Costituzione spagnola del 1978, Padova, 1999).

5 Sul tema uguaglianza/differenza v. le stimolanti riflessioni di C. AMIRANTE, Diritti dell’uomo e sistema costituzionale: un futuro dal cuore antico, Introduzione ad E. DENNIN-GER, Diritti dell’uomo e legge fondamentale, Torino, 1998.

CONCETTI E GRADI DELL’UNIFORMITÀ E DELLA DIFFERENZIAZIONE 43

Secondo quanto sin qui detto, come criteri giuridicamente validi a fi-ni discretivi, i termini “uniformità” e “differenziazione” risultano quindi suscettibili di applicazione non solo alle problematiche delle organizza-zioni (uniformi o differenziate) locali, ed alle problematiche analoghe

6, ma più complessivamente all’analisi della dimensione macroorganizza-tiva nella prospettiva dell’uguaglianza in un sistema policentrico. L’uni-formità che qui analizziamo è un principio generale, che informa di sé l’ordinamento, un principio organizzativo che pervade le strutture pub-bliche, le loro attribuzioni, la loro organizzazione, la loro azione: nella prospettiva dell’uguaglianza, quali fattori di questa uguaglianza e di pre-vedibilità

7. Questa pluralità di riflessi è espressione del rilievo che gli ordinamen-

ti (pure in modi diversi) hanno riconosciuto al principio di uguaglianza, la cui tutela ed il cui perseguimento è stato tradotto non solo in esigenze di uniformità nella disciplina giuridica, ma anche nella necessità di mo-delli organizzativi tendenzialmente uniformi dei pubblici poteri nel ter-ritorio nazionale

8. Uniformità del trattamento giuridico sostanziale dei cittadini sul ter-

ritorio, come carattere stesso della legge nazionale, generale ed astratta. Uniformità delle amministrazioni, come riflesso e garanzia di questa stessa uniformità “nei diritti”, come estrinsecazione in formula organiz-zatoria e, quindi, come prima modalità di composizione degli interessi in un assetto strutturalmente idoneo ad assicurare l’uguaglianza (forma-le). Uniformità in evidente contrapposizione con le esigenze insite nel riconoscimento di spazi di autonomia, ma in contrapposizione, soprat-tutto, con il prodotto naturale dell’autonomia: la differenziazione.

6 Così, a livello di diritto positivo interno, sono definiti frequentemente come “diffe-renziati” tanto i regimi delle aziende autonome, quanto quelli delle “Regioni a Statuto speciale”. In realta la categoria della differenziazione non sembra correttamente applica-bile ai fenomeni di mera difformità delle articolazioni dello Stato (entificate o meno).

7 È evidente, perciò, il collegamento dell’uniformità ad altri principi, così che essa stessa finisce per connotarsi per un contenuto valoriale: è in questo collegamento il rilievo dell’uniformità. Del resto, come rilevava G. BERTI (La pubblica amministrazione come orga-nizzazione, cit., 1) «l’organizzazione giuridica dell’amministrazione, per meritare considera-zione appunto sul piano della scienza giuridica, deve presentarsi come un valore».

8 Scelta, questa, che rispondeva alle esigenze, ed all’ideologia, delle classi borghesi af-fermatesi nell’epoca post-rivoluzionaria, per le quali il ruolo del diritto era in primo luogo delimitazione di uno spazio di certezze, entro il quale potesse svilupparsi “liberamente” l’azione degli individui. Questo emerge anche dall’analisi della continuità tra esperienza rivoluzionaria/napoleonica e restaurazione per quanto attiene alle più rilevanti strutture formali dello Stato e del diritto: continuità che è evidente, in particolare, nella concezione della cittadinanza come legame biunivoco monopolistico tra cittadino e Stato, secondo un modello affermatosi a partire dalla legge Le Chapelier del 1791.

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 44

Uniformità entrate, l’una dopo l’altra, in crisi: l’età che si apre all’at-tenzione dell’interprete è, nel momento attuale, l’età della differenzia-zione del diritto pubblico, dopo essere stata l’età della decodificazione del diritto privato

9. Uniformità che, per essere esaminata, deve essere però scomposta, ed

articolata.

2. Variabili quantitative della differenziazione

Le nozioni di uniformità e di differenziazione risultano, se intese in senso generale, suscettibili di una utilizzazione estremamente ampia, come tale capace, quindi, di ricomprendere ogni “eguale” o “differente regolazione” di fenomeni omogenei.

Al fianco di una nozione geneticamente invariante, quale quella di uni-formità, assistiamo però, già a questo livello, ad una possibile modula-zione della nozione di differenziazione, secondo coordinate quantitative; il che, valido in termini generali, permette di articolare gli strumenti di analisi anche nella prospettiva di un uso più tecnico, e ristretto, del ter-mine. Muovendo da una situazione “ideale” di uniformità

10, la differente

9 Stimoli in tal senso non mancano: da un lato la riflessione sul fenomeno della c.d. decodificazione privatistica è ormai consolidata (in particolare, attraverso i già citati con-tributi di N. IRTI, a partire da L’età della decodificazione, cit.), dall’altro gli spunti in ordi-ne all’apertura alla differenziazione delle (ed attraverso le) strutture pubbliche sono nu-merosi: la già diffusa e risalente percezione del plurimorfismo organizzativo (in tal senso già M. NIGRO, voce Amministrazione pubblica, cit.), le via via crescenti affermazioni in ordine alla “rottura dell’uniformità amministrativa” prendono forza alla luce delle più recenti riforme ed alla crescente percezione della portata delle innovazioni ordinamentali degli ultimi anni (delle sue conseguenze: v., per una lettura problematica, tra gli altri G. ROSSI-A. BENEDETTI, La competenza legislativa statale esclusiva, cit., 23 et passim). Da ri-levare, peraltro, come i diversi processi non siano in realtà rigidamente scomponibili: la riforma del Titolo V, così, si ripercuote sul sistema del diritto privato e non solo su quello del diritto pubblico (in particolare, in merito alla portata della riforma nel diritto del la-voro, v., da ultimo, T. TREU, Diritto del lavoro e federalismo, cit.).

10 Situazione ideale, quanto meno a livello di effettività, se non anche a livello formale, espressione di una visione che vede(va) la natura composita della pubblica amministra-zione «come una patologia di un ideale – e mai realizzato – ordine primigenio» (così L. TORCHIA, Il riordino dell’amministrazione centrale: criteri, condizioni e strumenti, in Dir. pubbl., 1999, 691). Il modello geometrico che era alla base di un simile approccio è bene evidenziato da S. CASSESE che, risalendo alle sue origini, evidenzia come questo richie-desse apparati pubblici uguali tra di loro per ricevere in modo sincronico la trasmissione degli ordini e della legge «avec la rapidité du fluide électrique» (Rapport Chaptal, 28 plu-viose An VIII, citato in ID., Le basi del diritto amministrativo, cit., 151).

CONCETTI E GRADI DELL’UNIFORMITÀ E DELLA DIFFERENZIAZIONE 45

disciplina giuridica può quindi svilupparsi secondo variabili che atten-gono al quantum: profili quantitativi o livelli di differenziazione.

Questa “misurabilità” è possibile, peraltro, nell’ambito di un sistema che consenta la raffrontabilità dei fenomeni (e quindi unitario): il che, come sin qui evidenziato, appare quindi rilevante, ai fini della nostra analisi, essenzialmente con riferimento alla regolazione eteronoma dei soggetti dotati di autonomia. Si tratta, però, di una griglia di riflessione che appare sin d’ora utile per confrontarci con numerosi fenomeni ri-conducibili entro questo modello, tra di loro peraltro fortemente diso-mogenei

11. In un’ottica quantitativa, e ponendo come riferimento una situazione

di uniformità, quale differenziazione di livello zero (assenza di differen-ziazioni nella disciplina giuridica tra fenomeni omogenei), possiamo ar-rivare, a delineare una griglia di “livelli di differenziazione”

12, in relazio-ne al rapporto intercorrente tra la norma speciale e la norma generale

13. Intesa in questi termini, la differenziazione potrà allora esprimersi at-

traverso la “disapplicazione di una regola uniforme”, sottrazione alla nor-ma generale per sottostare ad una norma speciale

14. Ma la differenzia-

11 Nell’ambito della “eterodifferenziazione”, prendendo a riferimento la recente rifor-ma del Titolo V della Costituzione italiana, rientrano infatti, a titolo meramente esempli-ficativo, tanto ipotesi di modelli puntuali (ius singulare: Roma capitale, ma anche la Re-gione Trentino Alto Adige - Süd Titol), speciali (le Regioni “differenziate”) ed asimmetrici (con la “clausola di asimmetria” dell’art. 116, comma 3°, Cost.).

12 Per una riflessione più generale cfr. la classificazione delle norme (in otto classi, fra universalismo e particolarismo) proposta da A. CERRI, Eguaglianza giuridica ed egualitari-smo, cit., 63.

13 La tematica in oggetto risulta ampiamente dibattuta in dottrina, attraverso studi sulla legge, sui suoi caratteri (teorici o effettivi), sulla sua efficacia: in particolare, la pro-blematica, così come definita, emerge in primo luogo nel rapporto tra legge generale e leggi speciali (particolari, perfino personali o “provvedimentali”, eccezionali): riconoscere l’ammissibilità di leggi “non generali”, implica il riconoscimento di possibili differenzia-zioni giuridiche tra i soggetti. Sul rapporto tra uguaglianza e leggi speciali e personali, in particolare, v. C. ESPOSITO, La Costituzione italiana, cit., 53 ss., L. PALADIN, voce Egua-glianza (diritto costituzionale), in Enc. dir., XIV, 1965, 519 ss. e ID., In tema di leggi perso-nali, cit., 1262 ss.; sulle problematiche connesse al principio di eguaglianza, cfr., preva-lentemente in un’ottica di teoria generale del diritto, P. BISCARETTI DI RUFFÌA, voce Ugua-glianza, in N.mo Dig. It., XIX, 1973, 1088 ss.

14 In questo senso, al pari di quanto avviene per le norme speciali, la differenziazione ha un carattere di relazione che è tanto più forte quanto più ci si trovi ad operare in un sistema uniforme. Tanto più questo accade, tanto più la differenziazione riveste un carattere “spe-ciale” e di “deroga” (su cui cfr. F. MODUGNO, Norme singolari, speciali, eccezionali, cit., spec. 514 et passim (per il quale norme singolari, speciali ed eccezionali, pur tra tratti diversi, possono essere ricondotte alla «comune matrice, che è quella della singolarità contrapposta all’uniformità, della specialità a fronte della generalità, dell’eccezione rispetto alla regola» [ivi, 506]); non diversamente G.U. RESCIGNO (voce Deroga (in materia legislativa), cit.); un sistema a forte differenziazione implica, invece, una tendenziale sottrazione da questo mo-

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 46

zione non è necessariamente caratterizzata dai connotati della atipicità, che ricomprende, senza esaurirvisi, il concetto di deroga

15. A ben vedere, possiamo quindi immaginare, sin d’ora, tre livelli di dif-

ferenziazione: la differenziazione come eccezione o deroga, la differen-ziazione come specialità, la differenziazione come regola. Si tratta di fe-nomeni che determinano, nell’uno come nell’altro caso, una regolazione che mira a rispondere alle caratteristiche proprie della fattispecie con-creta in virtù del riconoscimento della sua natura “differente”.

Nel caso della differenziazione come deroga o eccezione (differenziazione di primo livello), la regola generale, che assumiamo uniforme, viene ad es-sere sostituita, per un caso determinato, dalla norma di specie (senza che questo ne comporti però una messa in discussione), attraverso la definizio-ne di una norma chiamata a regolare in modo eccezionale, temporaneo, derogatorio la fattispecie differenziata. La “legge eccezionale”, segnando una deroga a carattere temporaneo ai principi generali che non sono posti in discussione, non contiene, in sé, «il germe di un nuovo diritto»

16.

La differenziazione come eccezione non pone in discussione l’uni-formità, anzi, in certa misura, ne è il necessario corollario

17: attraverso la rottura puntuale, derogatoria, dell’uniformità si introducono elementi di flessibilità in un sistema per definizione caratterizzato da una forte (potenzialmente eccessiva) rigidità

18.

dello giuridico, cosicché si individua «il concetto di diritto speciale non come relativo ad un altro non speciale, ma come concetto assoluto» (così, in riferimento alle norme speciali, N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, 169 ss.).

15 In realtà il carattere di specialità ed eccezionalità di una norma è peraltro necessaria-mente relativo: «la norma che può considerarsi come eccezionale, storicamente e dogmatica-mente dovrà col mutare del tempo e delle circostanze venire considerata come regola e princi-pio generale» (N. BOBBIO, ult. op. cit., 165). Questa logica di ragionamento può, peraltro, con-durre fino al punto di considerare che «tutte le norme giuridiche in sé considerate si pongono come genere e non come specie, come regole e non come eccezioni» (così C. COLALUCA, Nor-me speciali e criterio di specialità, cit., 5), il che è corretto in quanto un confronto tra norme in tale senso è possibile, ma solo quando queste abbiano lo stesso ambito di validità, atteso che «ogni norma è espressione di una ratio» (N. BOBBIO, ult. op. cit., 164).

16 Così N. IRTI, L’età della decodificazione, cit., 34. Possiamo ricondurre entro questo modello anche le ipotesi di ius singulare (leggi personali quale, riferendoci a soggetti pubblici dotati di autonomia, l’ipotesi contenuta nell’art. 114 Cost. con la previsione di “Roma Capitale”).

17 Basti pensare che la Francia, paese dove più forte è la tensione all’uniformità, ha tradi-zionalmente conosciuto regimi eterodifferenziati, oltre che per la Corsica, per la regione dell’Ile-de-France (elementi di differenziazione quasi eliminati dalla riforma del 1982: cfr. F. MERLONI, Francia, in F. MERLONI-A. BOURS (a cura di), Amministrazione e territorio in Europa, Bologna, 1994, 268 ss.). Ancor più risalente la previsione di un regime differenziato per la Ca-pitale, Parigi: sul punto v., amplius, L. VANDELLI, Poteri locali, cit., 193 ss.).

18 In questa lettura, la differenziazione “eccezionale” o “derogatoria” può essere in-quadrata sì come dimostrazione della crisi di un modello di uniformità, troppo rigido per disciplinare effettivamente la realtà nella sua complessità (crisi che cresce al crescere del-

CONCETTI E GRADI DELL’UNIFORMITÀ E DELLA DIFFERENZIAZIONE 47

Per il suo carattere di provvisorietà, la norma eccezionale si distingue dalla norma speciale

19, la quale pure può nascere dal consolidamento della disciplina derogatoria: differenziazione come specialità (e, quindi, differenziazione di secondo livello) si ha quando la norma differenziata è chiamata a regolare stabilmente una fattispecie che, rispetto a quella di-sciplinata dalla regola generale (“uniforme”), ha l’elemento di fatto in comune, cui aggiunge soltanto un momento proprio. La disciplina uni-forme continua ad avere una funzione di norma generale, risultando la disciplina speciale un completamento di questa, legato alla presenza di fatti differenziali ritenuti rilevanti dall’ordinamento, insuscettibili, peral-tro, di applicazione analogica

20. Residua, cioè, una norma uniforme, e generale, dalla quale continuano a desumersi i principi dell’ordina-mento

21. La differenziazione di terzo livello si ha quando la norma speciale non

si affianca ad un sistema uniforme di regole, o ad una norma a carattere generale, cosicché non vi sono più regole speciali, ma uniche ed esclusi-ve regole reciprocamente differenziate, prive di un centro comune

22. L’uniformità come “generalità della legge”, di cui l’ordinamento non può privarsi in modo completo, diviene allora l’elemento residuale, e non più generale, del sistema, chiamato semplicemente a coprire i casi e le fatti-specie non diversamente regolati da norme differenziate

23. Si tratta di un processo riscontrabile in vari campi del diritto, che, se

riferito alla dimensione organizzativa dell’amministrazione, si è soliti definire come asimmetria

24. Ciò che si determina è, in sostanza, la con-

la “normalità” di queste eccezioni), ma è anche strumento attraverso il quale se ne garan-tisce il mantenimento, fungendo da “valvola di sfogo” alla rigidità delle strutture formali uniformi.

19 In tal senso C. COLALUCA, Norme speciali e criterio di specialità, cit., 5 ss. 20 Sul punto, v., di nuovo N. IRTI, L’età della decodificazione, cit., 8 et passim. 21 Così avviene anche in relazione all’apertura agli spazi di autonomia, fintanto che la

griglia comune di tenuta del sistema ne determina, nei singoli oggetti, tracce di uniformità (nei principi, nei modelli): in tal senso v. C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, cit., 859 ss., in relazione alla possibilità di sindacare le disuguaglianze tra le discipline regionali (del-le Regioni speciali, assumendo la disciplina comune nazionale come riferimento).

22 Si segnalano, in questo senso, di nuovo le riflessioni di L. TORCHIA (La modernizza-zione del sistema amministrativo, cit., 329 ss.).

23 Cfr. N. IRTI, ult. op. cit., cit., 22 ss. 24 In particolare, v. C. PINELLI, Mercati, amministrazioni e autonomie territoriali, cit.,

267 ss., per il quale il diverso riconoscimento di potestà legislative seguendo procedure bilaterali è ascrivibile altresì alla nozione di “modello asimmetrico”, e quindi di asimme-tria. Il termine “asimmetria” è utilizzato in particolare con riferimento al modello spa-gnolo (che è poi, alla fine, una “asimmetria nel processo”, vale a dire nei tempi e modi, piuttosto che una asimmetria negli ordinamenti a “regime”, tanto che ora l’attenzione

3.

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 48

figurazione di modelli organizzativi e di sistemi di norme articolati se-condo proprie ed autonome logiche, tenute insieme da tratti sempre più esili di uniformità, limitata a quanto necessario per il mantenimento di un sistema unitario. Tutti questi livelli costituiscono differenziazione: tanto la deroga ad un modello che resta, però, uniforme, quanto l’arti-colazione di approcci plurali, nel quale la differenziazione diviene prin-cipio generale, ma nel quale ciascun sottosistema di norme risponderà tendenzialmente alle proprie logiche interne

25.

3. Gradi di differenziazione come gradi di autonomia

3.1. Difformità

Uniformità e differenziazione si pongono, alla luce di quanto sin qui si è cercato di evidenziare e dimostrare, sia quali categorie generali del diritto, sia quali principi e criteri storicamente determinati, definibili all’interno di un ordinamento nel rapporto tra esigenze dell’uguaglianza ed esigenze dell’autonomia

26. Con tali termini ci riferiamo però ad una serie di fenomeni tra loro

diversi: così, in particolare, possiamo riferirli alla semplice presenza di

sembra essersi spostata sull’individuazione dei “fatti differenziali” (la Carta fondamentale da un lato attribuisce alle Comunità autonome livelli competenziali diversi in relazione alle loro modalità di costituzione, dall’altro distingue, infatti, tra “Regioni” e “nazionali-tà”: cfr. J.F. LÒPEZ AGUILAR, Lo Stato autonomico spagnolo, cit., spec. 97 ss.), ed è recen-temente entrato con forza nel dibattito dottrinale interno (a partire dai lavori della Bica-merale “D’Alema”, già prima del “nuovo art. 116”: così R. BIN, Del federalismo asimmetri-co all’italiana e di altri mostri della fantasia costituente, in Regioni, 1997, 232 ss.). Di asim-metria parla anche F. PALERMO (Federalismo asimmetrico e riforma della Costituzione ita-liana, in Regioni, 1997, 291 ss.), che evidenzia, di nuovo, il carattere “dispositivo” del mo-dello asimmetrico (salvo ravvisarne il germe già nel regionalismo speciale conosciuto dal nostro ordinamento: «nel quadro di singole richieste avanzate vis a vis con lo Stato dalle varie Regioni [speciali]»: ivi, 292).

25 Come già evidenziato sia la “discriminazione” che il “privilegio” appartengono al più largo genus “differenziazione”(in senso ampio): i primi risultano caratterizzati da specifici connotati valoriali, mentre la nozione di differenziazione ha carattere neutro. Peraltro se la differenziazione nell’autonomia esclude l’applicabilità di connotazioni valo-riali, escludendo di norma la configurabilità di un tertium comparationis, la differenzia-zione eteronoma si presta ad essere valutata in termini di ragionevolezza e quindi, caso per caso, a divenire privilegio/discriminazione.

26 Sul quale ultimo principio si vedano però le riflessioni (critiche) di U.ALLEGRETTI, Autonomia regionale e unità nazionale, cit., 9 ss., che ne rileva lo scarso approfondimento a livello teorico.

CONCETTI E GRADI DELL’UNIFORMITÀ E DELLA DIFFERENZIAZIONE 49

una pluralità di modelli e forme organizzative in una struttura formale data

27. Utilizzato atecnicamente, il termine differenziazione esprime bene il

fenomeno generale attraverso il quale le strutture formali cercano di te-nere dietro alla complessificazione del sistema sociale, politico ed am-ministrativo

28. Usato in senso proprio, diviene però corretto utilizzare il modello della differenziazione/uniformità, solo in relazione ai processi di riconoscimento/ negazione di spazi di differenziazione o di modelli e regole eterodifferenziate a soggetti pubblici esponenziali dotati di auto-nomia, cosicché la scelta operata non abbia carattere meramente tecni-co-organizzativo, ma coinvolga valori (l’unità del sistema, l’autonomia dei corpi sociali, l’uguaglianza degli individui “in ogni parte del regno”).

Di conseguenza possiamo affermare, nell’interpretazione che diamo di questi fenomeni, che mentre la difformità può legarsi alla semplice presenza di una pluralità di soggetti e strutture pubbliche (e, quindi, tendenzialmente al decentramento

29 e non all’autonomia), la differenzia-zione è connessa al fenomeno autonomistico

30.

27 La “differenziazione delle tipologie” è essa stessa espressione dei fenomeni oggetto della nostra analisi, ma può coinvolgere più direttamente i concetti della “differenziazione”, ove si assista alla creazione di nuove tipologie (nuovi livelli) di amministrazione autonoma esponen-ziale, o della “difformazione”, ove si assista alla genesi di nuove tipologie di enti non autono-mi. Un interessante spunto di riflessione sulle discipline differenziate, e sui caratteri in base ai quali articolare una tipologia complessiva degli enti pubblici, può essere rinvenuto in F. BASSI, Tipologia degli enti pubblici nell’ordinamento vigente, in Studi in onore di Vittorio Ottaviano, I, Milano, 1993, 75 ss., per il quale «la tipologia degli enti pubblici va rilevata con riferimento alla specificità della disciplina differenziata propria del singolo ente pubblico o della categoria cui l’ente pubblico appartiene. A noi sembra che la disciplina differenziata possa attenere alla struttura organizzativa, alle modalità operative, ai rapporti con l’ordinamento generale» (ivi, 80): dalla tipizzazione che ne deriva, incrociando i tre parametri, si ottiene una griglia che può consentire una primo inquadramento, necessariamente sintetico, della complessità del plura-lismo/plurimorfismo amministrativo.

28 Il legame, stringente, delle categorie in esame con le problematiche connesse, in primis, all’unità del sistema ed all’uguaglianza dei soggetti e delle parti che lo compongo-no, suggerisce però un utilizzo più definito dei termini, quindi non applicabile alla mera difformità delle forme organizzative di soggetti privi di autonomia.

29 Decentramento senza autonomia, rectius deconcentrazione (cfr. S. DE FINA, voce Autonomia, in Enc. giur. Treccani, IV, 1988); sulla nozione di decentramento cfr. S. RO-MANO, Decentramento amministrativo in Enc. giur. it., IV, parte I, 1897, ora in ID., Scritti di diritto amministrativo, II, Milano, 1990, 12 ss., e F. ROVERSI MONACO, Profili giuridici del decentramento nell’organizzazione amministrativa, Padova, 1970.

30 I due fenomeni, a ben vedere, si confondono nel momento in cui la modellistica de-gli apparati organizzativi va differenziandosi (difformandosi) sempre più, tanto che l’am-ministrazione dello Stato non solo assume forme diverse, ma è andata costituendo strut-ture dotate di soggettività propria, «tale da fare ritenere esse, e n on più lo Stato, effettivi centri di interessi della collettività» (così F.G. SCOCA, I modelli organizzativi, in MAZZA-ROLLI ET AL. (a cura di), Diritto amministrativo, cit., 465).

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 50

Così il progressivo abbandono del modello “piramidale classico”, de-finito tradizionalmente “ministeriale”

31, è un esempio del processo di continua affermazione della natura multiforme della amministrazione pubblica

32, senza che ne derivi, nella nostra lettura, l’affermazione di un principio di differenziazione

33. La natura sempre più manifestamente pluralistica della pubblica amministrazione determina invero l’emergere di una sempre maggiore “difformità amministrativa”: “difformità”, con-trapposta all’uniformità organizzativa tradizionale, che può anche essere definita quale espressione del generale fenomeno del “plurimorfismo”

34. Il plurimorfismo ricomprende dunque al suo interno tanto i fenomeni

della difformità che quelli della differenziazione (delle amministrazioni): processi in parte intimamente legati, se è vero, che quella presente è l’età della “differenziazione necessaria”, quale risposta alla complessità

35. Entrambi i fenomeni, la difformità (che potremmo definire grado zero

della differenziazione) e la differenziazione, sono allora espressione del comune rifiuto/superamento di modelli organizzativi assolutizzati e con-notati in senso valoriale, in favore di modelli caratterizzati da un forte relativismo: le strutture formali vengono allora sempre più rapportate agli obiettivi perseguiti, ai vincoli da rispettare, alle funzioni da esercita-re, alle risorse (umane, finanziarie, strumentali) a disposizione

36. Né a

31 Modello ministeriale, peraltro, da tempo reso variabile, con la previsione o meno del Segretario generale e l’istituzione o meno dei dipartimenti (senza affrontare gli altri apparati di disegno atipico, previsti già prima delle ultime riforme, quali agenzie, autorità indipendenti, autorità di bacino ecc.).

32 È peraltro indubitabile come sia l’affermazione di un policentrismo organizzativo (ricollegabile anche al pluralismo sociale di cui all’art. 2 cost.), sia l’attenuazione del prin-cipio di gerarchia (quale principio di organizzazione pubblico a carattere intersoggetti-vo), si leghino alla «dissoluzione della funzione centralizzatrice ed unificante nella cura del pubblico interesse dello Stato-persona» (cfr. R. MARRAMA, Nascita ed evoluzione dello Stato e dell’amministrazione pubblica, ivi, 381).

33 S. CASSESE usa, altresì, il termine di difformità (funzionale) in relazione a fenomeni riconducibili al complessivo fenomeno del plurimorfismo: cfr. ID., La costruzione del dirit-to amministrativo: Francia e Regno Unito, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di S. Cassese, Parte generale, I, Milano, 2000, spec. 14 ss.

34 Per una descrizione del “plurimorfismo”, si veda, di nuovo, M. NIGRO, voce Ammi-nistrazione pubblica, cit., 3 ss.

35 Spunti in tal senso emergono dal confronto con le conclusioni cui sembrano giun-gere altre scienze sociali: v. G. BOCCHI-M. CERUTI (a cura di), La sfida della complessità, Milano, 1985 (in particolare v. G. PASQUINO, La scienza politica e la sfida della complessità, ivi, 347).

36 Il passo, che riportiamo, di C. FRANCHINI (L’organizzazione, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di S. Cassese, Parte generale, I, Milano, 2000, 319-320), dà bene il quadro della vigente difformità amministrativa: «attualmente vi sono ministeri, diparti-menti istituiti per legge e dotati di compiti propri e permanenti, enti pubblici nazionali,

CONCETTI E GRADI DELL’UNIFORMITÀ E DELLA DIFFERENZIAZIONE 51

tale tendenza sembra estranea la circolazione dei modelli privatistici, nell’ambito dei quali la dimensione organizzativa è assunta come una variabile libera, sostanzialmente irrilevante per il destinatario dell’azio-ne degli apparati privati

37. Il tentativo di costruire un modello “cartesiano” di amministrazio-

ne 38, organizzata secondo forme e schemi comuni, ideologicamente as-

sunti come ottimali ed applicabili univocamente anche a fronte del va-riare degli elementi di contesto

39, è decisamente risalente, e fa da pen-dant all’analogo processo che ha caratterizzato le autonomie locali ed i “corpi sociali intermedi”, senza che però possa confondersi, né esaurirsi, con esso

40. L’affermazione del plurimorfismo organizzativo 41, di un si-

stema “a composizione multipla” 42 di cui la differenziazione delle am-

autorità indipendenti, regioni ordinarie e a statuto speciale, province, comuni, Comunità montane, consorzi di enti locali, aziende sanitarie locali, università, istituti scolastici, a-ziende municipalizzate e molte altre unità amministrative; tra le quali anche gli organi-smi di diritto pubblico di derivazione comunitaria, oltre alle amministrazioni pubbliche in forma privata ed ai soggetti che operano in funzione di pubblica amministrazione». Una elencazione non meno stimolante può essere rinvenuta nell’art. 1, comma 2°, del d.lgs. n. 29 del 1993, che qualifica gli apparati organizzativi definiti quali “amministra-zioni pubbliche”.

37 Sempre che non ne leda il legittimo affidamento e sempre che, nei rapporti interni all’impresa, la scelta organizzativa non fuoriesca da criteri di razionalità cui deve comun-que ispirarsi l’azione del datore di lavoro (anche) privato: i merito e per i caratteri dell’organizzazione privata (come diversa da quella pubblica), cfr., amplius, A. PIOGGIA, La competenza amministrativa, cit., 65 et passim.

38 Da notare, altresì, come l’amministrazione inglese «[…] non è mai stata conformata con preoccupazioni di uniformità. Essa è oggi composta di una varietà di corpi e struttu-re, spesso difficilmente classificabili e per questo raggruppate in famiglie che costituisco-no concetti-ombrello» (così S. CASSESE, La costruzione del diritto amministrativo, cit., 71).

39 Cfr., al riguardo, L. TORCHIA, Il riordino dell’amministrazione centrale, cit., 689: «[p]er lungo tempo ai riformatori della pubblica amministrazione si è potuto applicare il monito che si dice Platone avesse iscritto sull’ingresso dell’Accademia di Atene: “Non entri chi non conosce la geometria”».

40 Ogni ente pubblico è, in quanto tale, uniformabile o differenziabile quanto a disci-plina normativa rispetto agli altri enti che compongono la medesima categoria, ed a ben vedere la stessa operazione di categorizzazione (sotto-categorizzazione) si presta ad esse-re letta come un processo di riduzione/ampliamento della differenziazione o dell’uni-formità. Per un’introduzione a tale problematica, v. F. BASSI, Tipologia degli enti pubblici, cit., 75 ss.

41 In questo senso v., tra gli altri, A. PIOGGIA Linee di evoluzione della funzione organiz-zatrice della pubblica amministrazione: organizzazione degli uffici e organizzazione del lavo-ro nelle esperienze regionali di attuazione della riforma organizzativa, in F. MERLONI (a cura di), Riforme amministrative e organizzazione regionale. Prima attuazione del D.lgs. n. 29/93, Milano, 1999, 31, che riscontra il progressivo «proliferare di nuovi modelli organizzativi».

42 Definizione data della forma di Stato italiana da G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite. Legge, diritti, giustizia, Torino, 1992, 47. Un modello nel quale la pubblica amministrazio-ne deve necessariamente differenziarsi, adeguandosi alla «molteplicità delle sedi di elabo-

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 52

ministrazioni autonome è comunque espressione 43, ha una propria sto-

ria, anch’essa risalente, che solo in parte si lega al fenomeno della diffe-renziazione. Questa progressiva “diversificazione”, in senso generale, si fonde, d’altra parte, con la crescita dei fini assegnati alla pubblica am-ministrazione e, conseguentemente, con la stessa espansione dimen-sionale della macchina pubblica: l’assunzione nella sfera pubblica di funzioni sempre maggiori, e differenti

44, in risposta alle esigenze della società pluriclasse

45, «ha comportato la creazione di apparati organizza-tivi morfologicamente e giuridicamente diversi dagli apparati ammini-strativi originari»

46. Il radicarsi, progressivo, della “amministrazione per enti”

47 è, in sé, espressione dell’impossibilità di ricondurre ad un unico modello organiz-zativo le pubbliche amministrazioni: non solo quelle dotate di autonomia, ma anche quelle collegate allo Stato da un rapporto di indipendenza, strumentalità, o addirittura confuse con la stessa personalità giuridica dello Stato. Così la difficoltà di operarne una riconduzione ad una logica unitaria

48 è espressione della irreversibilità di un fenomeno che pure le strutture formali cercano di governare

49. Ma, seppure tra spinte a volte

razione degli indirizzi, strutturandosi secondo un modello pluralistico, che assume quali punti di convergenza l’insieme degli enti territoriali anziché il solo Stato»

43 Così per F.G. SCOCA, La pubblica amministrazione come organizzazione, in L. MAZ-ZAROLLI ET AL. (a cura di), Diritto amministrativo, cit., 462-464.

44 Rientra, ad esempio, in questo fenomeno di complessificazione/rottura dell’uni-formità (come “non difformità”, non come “non differenziazione”), l’esperienza italiana dell’intervento straordinario nel mezzogiorno, attraverso apparati speciali. Così per S. CASSESE, Le basi del diritto amministrativo, cit., 15: «l’uniformità, strumento di centraliz-zazione e garanzia che tutte le parti dell’amministrazione si muovano all’unisono, fu adot-tata anche in Italia […] [m]a […] fu abbandonata, appena un ventennio dopo, con le leggi e gli istituti speciali per le zone sottosviluppate».

45 La categoria è, come noto, di M.S. GIANNINI (v. ID., Il pubblico potere. Stati e ammi-nistrazioni pubbliche, Bologna, 1986, spec. 69 ss.). Con questa nozione, Giannini intende la fase di evoluzione dello Stato moderno successiva al suffragio universale, con il conse-guente allargamento dei compiti pubblici (e la conseguente crescita dell’amministrazione, tale che nello Stato pluriclasse «quasi ogni attività umana trova corrispondenza in una qualche pubblica amministrazione»: ID., Diritto amministrativo, cit., 1993, 49).

46 I quali erano sostanzialmente riconducibili al modello ministeriale e al modello del-l’ente territoriale locale, salvo poche eccezioni; cfr. F.G. SCOCA, ult. op. cit., 443.

47 Su cui, per una lettura complessiva, si veda G. ROSSI, Gli enti pubblici, Bologna, 1991.

48 Segnalato, ad esempio, in relazione al fallimento del tentativo operato con la legge n. 70 del 1975. Sul punto, v. G. D’ALESSIO, Prospettive di riforma, cit., 41.

49 Che conosce ora, con la molteplicità delle forme organizzative previste per gli stessi Ministeri nella recente riforma, forse il proprio apice. Attraverso una «differenziazione di strutture» (rectius, nella nostra lettura, attraverso il ricorso a modelli di difformità ammi-nistrativa), si determina che la stessa «figura unitaria del Ministero viene a stemperarsi

CONCETTI E GRADI DELL’UNIFORMITÀ E DELLA DIFFERENZIAZIONE 53

contrastanti, la tendenza di fondo appare quella per la quale il disegno or-ganizzativo della pubblica amministrazione si caratterizza, progressiva-mente, per la perdita di uno schema lineare

50: si passa da una articolazio-ne piramidale ad una articolazione stellare dei soggetti pubblici 51.

3.2. Differenziazione eteronoma, autonoma, normativa (autonomica)

Il tema della difformità non pone problemi per l’uguaglianza del go-dimento dei diritti sul territorio: si tratta di una diversa disciplina di ap-parati preposti alla cura di determinate funzioni, che mira a dare rispo-sta alle diverse esigenze legate alla cura di interessi differenti, alla neces-sità di porre in essere una azione slegata da particolari vincoli, frutto di scelte consapevoli od episodiche del legislatore

52. Laddove interviene la dimensione dell’autonomia, possiamo parlare

propriamente di differenziazione: questo avviene secondo modalità di-verse, che è necessario esaminare separatamente. Sono varie le distin-zioni ipotizzabili, e che qui assumiamo come significative in termini quanto meno esplicativi, della differenziazione (e, corrispondentemente) dell’uniformità. Ed, a ben vedere, queste distinzioni consentono di defi-nire la differenziazione articolandone una gradazione

53. Il primo grado è quello della differenziazione non autonoma, o della

eterodifferenziazione, nel quale un ente, pure autonomo (presupposto di partenza, come detto), è oggetto di una disciplina differenziata (in ordine

[nei dipartimenti e nelle agenzie]»: così G. PASTORI, Trasformazioni del centro e ordina-mento regionale, in Dir. pubbl., 1999, 683. Per un’analisi complessiva della riforma che ha interessato le strutture ministeriali, cfr., tra gli altri, C. FRANCHINI, L’organizzazione, cit., spec. 255 ss.

50 S. CASSESE ravvisa, ad esempio, come, nell’esperienza francese “secondo il modello tradizionale, l’amministrazione […] non era solo accentrata. Essa era ordinata in un unico polo centrale, senza corpi satelliti” (ID., La costruzione del diritto amministrativo, cit., 55).

51 Così, al modello “ministeriale classico”, di derivazione e ispirazione francese, si è af-fiancato «quello di tipo stellare, ordinato per corpi autonomi, che è ormai prevalente» (in tal senso v. C. FRANCHINI, L’organizzazione, cit., 320, per il quale tutto il processo si è però realizzato «tendendo a mantenere regole uniformi per situazioni differenziate, sicché l’assetto complessivo non risulta idoneo alle funzioni»).

52 Sul carattere spesso disorganico ed estemporaneo dell’intervento pubblico e della formazione di strutture pubbliche (in particolare, il fenomeno degli enti pubblici econo-mici e la loro evoluzione), v, tra gli altri, S. CASSESE, La nuova Costituzione economica, cit., 7 ss.

53 Il modello qui seguito trae ispirazione, mutatis mutandis, da quello proposto da F. MERLONI (Autonomia e libertà nel sistema della ricerca scientifica, cit., 107 ss.) nell’esa-minare i “concetti e gradi dell’autonomia”.

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 54

all’organizzazione, alle funzioni assegnate), in virtù di una scelta che è operata dal livello di governo centrale

54. Una simile ipotesi ricorre, in particolare, laddove il riparto di competenze tra enti territoriali sia ope-rato “per categorie”, o comunque in virtù di criteri di non piena uniformi-tà

55. Tale modello trova applicazione (intrecciandosi peraltro con quelli successivi) anche laddove la diversa disciplina dei soggetti autonomi sia demandata ad un livello territoriale di autonomia superiore a quello dell’ente interessato: in questo caso le scelte autonome operate dalla di-mensione territoriale superiore (regionale, ad esempio) determineranno differenziazione del regime giuridico (funzioni, organizzazione, risorse) delle realtà minori. Visto dall’angolazione dell’ente differenziato, si trat-ta, nell’uno e nell’altro caso, di un percorso eteronomo

56. Il secondo grado è quello della differenziazione amministrativa “auto-

noma”, la quale può incidere sulle modalità di esercizio delle funzioni, sui tratti organizzativi dell’ente esponenziale, senza per questo giungere ad aprire, direttamente, ad una conseguente differenziazione sostanziale delle situazioni giuridiche individuali in ragione di coordinate di tipo territoriale. L’ente autonomo è, cioè, in grado di organizzarsi in relazio-ne ai fini che gli sono assegnati ed, eventualmente, toccando il massimo della differenziazione come autonomia propria di questo grado, di as-sumere, amministrativamente, nuovi ed ulteriori fini, in virtù di potestà di autoattribuzione delle funzioni “libere”, come conseguenza di una compe-tenza generale

57. Rientra in quest’ambito la differenziazione organizzativa (autonoma), che ne costituisce la più rilevante manifestazione.

A questo livello, differenziazione ed autonomia coincidono, cosicché qualificare l’autonomia è contestualmente qualificare la differenziazio-

54 La differenziazione, di regimi giuridici, può essere un’opzione fatta dal legislatore il quale riconosca a soggetti diversi, facenti parte della medesima categoria ed in ragione di un parametro determinato, una disciplina diversificata. (in ragione di processi politici e storici, spesso preesistenti allo stesso Stato unitario); gli esempi al riguardo possono esse-re innumerevoli: in particolare, v. l’evoluzione storica del “modello francese” in L. VAN-DELLI, Poteri locali, cit., 82 ss. e 349 ss.

55 Per tutti, cfr. le, seppure risalenti, riflessioni di G. ZANOBINI, Corso di diritto ammi-nistrativo, III, Milano, 1946, spec. 201 ss.

56 Anzi, dall’angolazione dell’ente differenziato, la possibilità di ricevere un trattamen-to diverso rispetto ad enti analoghi in ragione dei poteri ordinamentali riconosciuti al li-vello superiore di autonomia è spesso vista con sospetto, come ci mostra l’esperienza ita-liana, da ultimo, la reviviscenza dell’uniformità locale che sembra emergere, pure sotto mutate forme, dalla legge n. 131 del 2003 (c.d. legge “La Loggia”) ne costituisce un’ul-teriore manifestazione.

57 Che è poi, seguendo lo schema proposto da F. MERLONI (Autonomia e libertà nel si-stema della ricerca scientifica, cit., 107 ss.), il grado massimo di autonomia (amministrativa).

CONCETTI E GRADI DELL’UNIFORMITÀ E DELLA DIFFERENZIAZIONE 55

ne 58. In particolare, lo strumento attraverso cui si realizza questa poten-

ziale differenziazione sarà lo in primo luogo la fonte statutaria (dove presente), per quanto non possa escludersi, a tal fine, il rilievo di fonti diverse

59 (regolamenti, atti amministrativi ed anche fonti non pubblici-stiche)

60. Il terzo grado di differenziazione è quello normativo, il quale giunge

essenzialmente a coincidere anch’esso con i caratteri propri dell’auto-nomia (come differenziazione). A questo livello, l’autonomia riconosciu-ta a soggetti pubblici ha in sé un potenziale differenziante che, laddove si concreti nell’adozione di norme di rango (formalmente o sostanzial-mente) primario, si traduce nella astratta possibilità di diversificare, in ragione del territorio, le situazioni giuridiche degli individui

61. Definia-mo, in questo senso, la differenziazione autonomica come una specie della differenziazione normativa, caratterizzata da una più forte capaci-tà di creare differenza nelle situazioni giuridiche dei cittadini in ragione del territorio: questo discende dalla natura (equiordinata alla legge dello Stato) delle fonti attraverso le quali si manifesta

62. A questo livello l’au-

58 Come per il concetto di autonomia, di cui l’evidenziata multisemanticità ha condot-to a classificazioni multiple (cfr. M.S. GIANNINI, voce Autonomia, cit.), anche quello di differenziazione può meglio essere analizzato abbinando al termine delle qualificazioni.

59 Nel complesso, le fonti di organizzazione, che non sono (più) necessariamente fonti pubblicistiche. In merito a questo fenomeno (ed alle sue conseguenze) v., tra gli altri, A. PIOGGIA, che ricostruisce il sistema delineato dalle recenti riforme in materia (in partico-lare, od opera del d.lgs. n. 80 del 1998), operando la distinzione tra organizzazione – indi-rizzo, definita con atti pubblici, ed organizzazione – gestione, articolata mediante poteri esercitati con strumenti di diritto privato (ID., La competenza amministrativa, cit., spec. 256).

60 Questa possibilità, di disciplinare la microorganizzazione attraverso “i poteri del privato datore di lavoro”, non incidendo (fisiologicamente) sull’assetto degli interessi non sembra toccare una dimensione rilevante ai fini della nostra analisi.

61 Questa è la dimensione, che diviene centrale nella prospettiva della riforma del Tito-lo V, in cui l’ampliamento degli spazi di autonomia significa, naturaliter, consentire che si realizzino differenze in ragione del territorio. Da qui la delicatezza dell’operazione di de-limitazione in ordine al quanto differenziare, ma soprattutto in ordine agli oggetti di que-sta differenziazione.

62 Da segnalare al riguardo la resistenza, in ordinamenti dove il principio di uniformi-tà ha un radicamento particolarmente significativo (nel suo modello “forte”), al ricono-scimento di autonomie normative di rango primario, proprio per la chiara percezione delle conseguenze che ne discendono: se la legge è l’affermazione della volontà generale, il riconoscimento della potestà legislativa a “società particolari” ne è la rottura. Si veda, in tal senso, in Francia, la decisione del Conseil Consitutionnel, che ha sancito l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, par. IV del progetto di legge n. 751, mirante a riconoscere una potestà legislativa agli organi della Regione Corsica (su cui v., di nuovo, amplius, A. MA-STROMARINO, Il “Conseil Constitutionnel” francese, cit., 625 ss.). Intervento che ha portato, peraltro, alla decisione del Parlamento francese di intervenire proprio a livello costituzio-nale (sul punto, per una ricostruzione complessiva del processo che ha condotto alla ri-

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 56

tonomia è una formidabile antagonista dell’uguaglianza (formale, se non anche sostanziale), ed il sistema deve predisporre specifici strumenti per limitare il potenziale differenziante entro i confini ritenuti compatibili con la tenuta del principio egalitario nell’ordinamento

63. Al variare di un determinato carattere personale (la residenza, il do-

micilio) ed attraverso l’azione dei poteri autonomi, la situazione giuridi-ca sostanziale dei cittadini potrà variare, e questo anche a fronte di si-tuazioni fattuali identiche, e quindi a prescindere dall’uso della “discre-zionalità categorizzatrice” del legislatore (unitario)

64. L’analisi della differenziazione “di grado tre” ci consente, in partico-

lare, di definire quale modello di uguaglianza venga assunto come rife-rimento dall’ordinamento: ci serve, cioè, quale canone interpretativo per lo studio dello stesso principio di uguaglianza, ai fini della definizione dei contenuti che, concretamente, a questo possono riferirsi. Di nuovo, la dimensione (macro) organizzativa appare decisamente rilevante nella prefigurazione dell’assetto degli interessi, e, nel caso in esame, anche nell’articolazione dei caratteri degli stessi principi fondamentali di un ordinamento.

Il tutto, peraltro, con la precisazione che le classificazioni proposte seguono linee di confine non nette, sia perché nella differenziazione amministrativa il soggetto autonomo può essere egli stesso fattore della propria differenziazione, sia perché attraverso tale differenziazione pos-sono aversi, pure indirettamente, diversità nel trattamento riconosciuto alle posizioni giuridiche individuali, non essendo invariabilmente l’or-ganizzazione un momento neutro rispetto alla soddisfazione degli inte-ressi.

forma del 17 marzo 2003, v. J.B. AUBY, La riforma dell’amministrazione territoriale in Francia, nel numero monografico dedicato al tema di Amministrare, 2003, 173 ss.).

63 È dunque evidente che la differenziazione ammessa discenderà non solo dagli spazi (competenzialmente) demandati alle fonti di autonomia, ma anche dalle modalità di con-dizionamento comunque esercitabili nei confronti di queste (nel loro esercizio): in tal senso v., tra gli altri, F. PIZZETTI, che parla al riguardo di «poteri uniformanti dello Stato centrale» (v. ID., Federalismo, regionalismo e riforma dello Stato, Torino, 1996, 12 ss.).

64 «Per quanto possa esservi corrispondenza nei diritti riconosciuti dagli Stati federati, il principio di uguaglianza rimane relegato a ciascuno di tali ordinamenti ed è destinato ad operare solo nell’ambito di esso, per cui risulta in ogni caso depotenziata la valenza espansiva di un eventuale sindacato di costituzionalità […]»: così A. BRANCASI, Ugua-glianze e disuguaglianze nell’assetto finanziario di una Repubblica federale, in Dir. pubbl., 2002, 910. Non diversamente si leggano le riflessioni, tra gli altri, di G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V, cit., spec. 1257 ss.; F. DELPÉRÉE, Egalité et pluralité des or-dres juridiques, cit., 233.

CONCETTI E GRADI DELL’UNIFORMITÀ E DELLA DIFFERENZIAZIONE 57

4. L’uniformità ed i suoi oggetti. Sfere e fuochi dell’uniformità e del-la differenziazione

Consistendo in un tratto connesso all’autonomia, la differenziazione non è, al pari di questa, priva di limiti e vincoli: in un sistema, per quan-to fortemente autonomistico, l’autonomia non arriva mai a coincidere con la sovranità, e quindi l’ordinamento mantiene, inevitabilmente, trat-ti uniformanti, che però, possono diversamente svilupparsi, risultando maggiormente penetranti, fino ad escludere ogni possibile differenzia-zione, o sfumando decisamente in ragione di specifici oggetti

65. L’uniformità e la differenziazione conoscono, cioè, materie, funzioni,

compiti ed oggetti, rispetto ai quali possono diversamente articolarsi en-tro un sistema, che, in estremo, può quindi limitare gli spazi di unifor-mità a certe sole materie ritenute fondamentali per l’unità ordinamenta-le e per il modello di uguaglianza assunto come riferimento, lasciando, fuori da questi sfera di uniformità, piena libertà differenziante all’auto-nomia territoriale

66. Un sistema entro il quale operasse un rigido principio di riparto

competenziale “per materie”, fortemente separate, le une oggetto di una disciplina statale uniforme, le altre totalmente demandate al sistema delle autonomie, senza funzioni e compiti trasversali, senza limiti legati all’azione dell’uno o dell’altro soggetto dell’ordinamento, conoscerebbe momenti di forte uniformità, coesistenti con momenti di forte differen-ziazione. Non molto diversamente avviene nelle formazioni statuali di tipo federale e, in misura più sfumata, regionale: ma il concreto artico-larsi delle realtà ordinamentale offre inevitabilmente un panorama di chiaroscuri

67, cosicché agli spazi di autonomia come differenziazione si

65 La riflessione in relazione a questa tematica è ampia, ma verte in gran parte sulla (dif-ficile) individuazione di confini delle singole materie, operazione che nel nostro sistema si è segnalata per la sua particolare complessità già nella prima fase del nostro regionalismo (v., in tal senso, tra gli altri, già A. D’ATENA, L’autonomia legislativa delle Regioni, Roma, 1974, spec. 117 ss.; P. VIRGA, Problemi legislativi ed interpretativi nella definizione delle materie di competenza regionale, in Foro amm., 1971, 113 ss. e, più recentemente, S. MANGIAMELI, Le materie di competenza regionale, Milano, 1992) e che ora si pone in tutta la sua (rinnovata) problematicità dopo la riforma del Titolo V della Costituzione. Sin d’ora, tra quanti già si sono confrontati (spesso criticamente) con gli elenchi del nuovo art. 117 Cost., v. A. D’ATENA, Materie legislative e tipologia delle competenze, in Quad. cost., 2003, 15.

66 Affermazione da precisare, nel senso che, evidentemente ed inevitabilmente, tale li-bertà di differenziazione conoscerà dei limiti, discendenti da esigenze sistemiche, dalla supremazia dei principi costituzionali e dal rispetto delle altre realtà autonome.

67 In realtà, anche nei sistemi compiutamente federali, esistono generalmente clausole trasversali, in grado di determinare forme, pure tenui, di condizionamento nell’ambito

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 58

accompagnano, secondo sfumature diverse, momenti di ricomposizione uniforme ed unitaria, attraverso specifici poteri e compiti riconosciuti alla dimensione nazionale, a garanzia ultima del soddisfacimento del-l’uniformità assunta come necessaria dall’ordinamento.

Pure, i caratteri ed i connotati di questi poteri, e quindi l’intensità del potenziale differenziante autonomico negli spazi assegnati alla compe-tenza normativa degli enti a competenza territoriale limitata, possono variare in modo rilevantissimo, alla luce del concreto strutturarsi del principio di uniformità in un ordinamento dato.

Un sistema conoscerà un’intensità di uniformità che varierà in ragio-ne dei diversi oggetti, al variare del numero e dell’importanza di questi

68. La distribuzione delle competenze normative ne fornisce, in larga misu-ra, il quadro, determinando i confini, più o meno netti, tra la sfera dell’uniformità e quella della differenziazione

69. Ogni singolo oggetto di regolazione, ogni materia, compito e funzio-

ne, in quanto assegnata al sistema delle autonomie od altresì mantenuto

delle materie affidate alle realtà federate: avviene così, ad esempio, nell’ordinamento sta-tunitense, non solo attraverso gli Implied powers, ma anche attraverso lo Spending power e la Commerce clause. Il condizionamento può discendere, ancora, da carattere non omo-geneo, e quindi non esclusivo, delle varie materie: in particolare funzioni rivolte a realiz-zare uno specifico scopo possono significativamente interagire e condizionare materie “oggetto” (sempre con riferimento al modello americano, basti pensare alle previsioni del XIV e XV emendamento, che mirano a garantire, tra l’altro, il giusto procedimento, l’eguale applicazione della legge e l’eliminazione di ogni discriminazione razziale nel-l’esercizio del diritto di voto: cfr. M. COMBA, Il modello americano, in F. PIZZETTI, Federa-lismo, regionalismo e riforma dello Stato, cit., 222 ss.).

68 Che «negli Stati decentrati (federali o regionali) contemporanei […] si esprime nella esistenza di un nucleo di “uguaglianza nei diritti” che consente il mantenimento di una “cittadinanza nazionale” (in senso sostanziale)» (così, peraltro riferendosi al principio unitario, T. GROPPI, La garanzia dei diritti tra Stato e Regioni dopo la riforma del Titolo V, in www.federalismi.it, gennaio 2001, 1).

69 Esemplare, quanto a “confusione” è il modello, pure costruito come di “separazio-ne” (ed in quanto tale, però, significativamente messo in discussione dall’interpretazione “neo-parallelizzante” della Corte costituzionale, a partire dalla sentenza n. 303 del 2003, su cui sin d’ora v., tra gli altri, L. TORCHIA, In principio sono le funzioni (amministrative): la legislazione seguirà (a proposito della sentenza 303/2003 della Corte costituzionale), in www.astrid-online.it e R. DICKMANN, La Corte costituzionale attua (ed integra) il Titolo V (osservazioni a Corte cost., 1 ottobre 2003, n. 303, in www.federalismi.it, novembre 2003), delineato nel nostro ordinamento dalla riforma del Titolo V della Costituzione, dove le “materie” possono essere classificate secondo molteplici criteri (attività, fini pubblici, ap-parati amministrativi, modi di disciplina, rapporti, istituti giuridici: cfr. G. CORSO, La tu-tela della concorrenza come limite della potestà legislativa (delle Regioni e dello Stato), in Dir. pubbl., 2002, 981 ss.; si vedano, non dissimilmente, le riflessioni di A. D’ATENA, Mate-rie legislative e tipologia delle competenze, cit.): «[q]uando questo avviene, le classi non so-no mutuamente esclusive», il che, come ci ricorda Guido Corso, è possibile solo quando il criterio di classificazione è unico (ma questo «[l]o aveva già spiegato Aristotele»: ID., ult. op. cit., 981).

CONCETTI E GRADI DELL’UNIFORMITÀ E DELLA DIFFERENZIAZIONE 59

nell’attribuzione dello Stato, conoscerà un livello di differenziazione od uniformità che varierà al variare delle forme di condizionamento del-l’autonomia: seguendo limiti, dunque, potenzialmente diversi caso per caso, materia per materia. Una differenziazione sostanzialmente “libe-ra”, od altresì limitata ad una regolazione di solo dettaglio (nel rispetto di principi uniformi), o comunque limitata dalla definizione di determi-nati contenuti, caratteri della regolazione, od in ragione degli effetti di questa: sono numerose le modalità in cui concretamente può tradursi il principio di uniformità entro un sistema dato, a limitare l’autonomia differenziante, in modo variabile oggetto per oggetto.

Il concreto atteggiarsi dei tratti uniformanti entro un sistema, in ra-gione della estensione dell’uniformità alla generalità (o meno) dei feno-meni, così come in ragione del suo diverso modularsi in riferimento ad ogni oggetto specifico, definisce (in termini quantitativi) il modello stesso di eguaglianza fatto proprio da un ordinamento, ed esprime l’equilibrio assunto in relazione ai confliggenti valori autonomistici ed egalitari

70. Ma, con riferimento ad un sistema costituzionale dato, è forse possibi-

le valutare anche il rilievo qualitativo degli spazi di differenziazione e di uniformità. Esistono, cioè, ambiti normativi strettamente connessi a valo-ri fondanti un ordinamento, in relazione con diritti e principi costituzio-nali, rispetto ai quali più rilevanti appaiono le esigenze di uniformità, e più delicata diviene la possibilità di un riconoscimento di spazi di auto-nomia. Laddove ciò avvenga, vale a dire in presenza di possibili differen-ziazioni in relazione al godimento di diritti costituzionali, ed in maniera direttamente correlata al variare dell’autonomia, la differenziazione nor-mativa assume carattere generale, e diviene criterio di interpretazione di un sistema (autonomico) nel quale si articolerà un modello di uguaglian-za dai tratti solo debolmente formali e paritari, ma dai connotati preva-lentemente valutativi, sostanziali, e, necessariamente, di base.

70 Stimoli in tal senso sembrano emergere già dall’esame dell’ordinamento italiano an-te riforma, dove pure l’uniformità operava in via generale e forti erano le modalità di condizionamento dell’autonomia negli esigui spazi riconosciuti. Così, ad esempio, la par-ticolare attenzione ad ogni, anche minimale, “contaminazione” della materia processuale da parte delle Regioni, sembra spingere a distinguere (graduandone la resistenza alla “microdifferenziazione”) tra “materie sottratte alle autonomie” (in quanto non affidate a queste dal “vecchio” art. 117) e “materie riservate allo Stato” (attraverso l’espressa riserva a legge statale). Così, la sentenza n. 303 del 1994 della Corte costituzionale, dalla quale sembra potersi ricavare l’ammissibilità del rinvio regionale alla disciplina statale nel pri-mo caso, ma non nel secondo (dove ciò che altrove era ammesso quale “mero rinvio”, ri-sulta negato in quanto “novazione” della fonte): «[a]lla luce di ciò potrebbe ammettersi che il richiamo in materia riservata alla fonte nazionale abbia conseguenze diverse rispet-to a quello operato in materie solo implicitamente precluse al legislatore regionale» (così A. PIOGGIA, Rinvio e novazione della fonte nel rapporto fra legge regionale e legge dello Stato, in Giur. it., 1995, Disp. 12, P. I, 7).

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 60

È, comunque, con riferimento ad uno specifico sistema, storicamente determinato, che è possibile definire l’incerto e permeabile confine tra i due contrapposti principi, espressione dell’instabile equilibrio di egua-glianza ed autonomia, ed è, ancora, possibile definire i fuochi 71, sempre necessari, seppure diversi da esperienza ad esperienza, dell’uniformità, va-le a dire gli spazi normativi sottratti a processi di differenziazione, in virtù di opzioni di valore fatte proprie, e fondanti, un ordinamento dato

72. Questi fuochi, di norma, coincidono con le funzioni proprie dello Sta-

to liberale, ma questa corrispondenza è frutto di un’evoluzione storica, e come tale non imprescindibile. Coincidono, ancora di norma, con la tu-tela dei diritti affermati come fondamentali da un ordinamento.

Nel momento in cui riconosce spazi di autonomia e quindi di diffe-renziazione, un sistema costituzionale definisce, in altre parole, il cuore dell’uguaglianza come uniformità, attraverso l’individuazione di specifi-ci ambiti materiali in quanto non attribuiti al sistema delle autonomie, od in quanto espressamente sottratti a questo. Si circoscrive, allora, uno spazio, variabilmente esteso in termini quantitativi (al variare dell’in-tensità della differenziazione sistemica) ed in termini qualitativi (in ra-gione del rilievo costituzionale proprio dei diversi oggetti della differen-ziazione), che articolando i fuochi dell’uniformità di un ordinamento, traduce, attraverso coordinate organizzative, i principi di uguaglianza ed autonomia.

5. L’uniformità come condizionamento dell’autonomia. I meccani-smi dell’uniformità

In parte a valle di questo fenomeno, che attiene in primo luogo alla ripartizione tra i soggetti che compongono l’ordinamento delle diverse

71 Fuoco nell’accezione (tecnica) di «zona in cui si ha la massima concentrazione» (di raggi ottici): v. G. DEVOTO e G.C. OLI, Il dizionario della lingua italiana, cit., ad vocem, sign. 6, 821.

72 Di stimolo, in tal senso, le riflessioni di Carlo Cattaneo, il quale, mentre affermava l’esigenza di un riconoscimento della libertà e della sovranità di “ogni Stato d’Italia”, del pari manteneva come cardine del sistema dei fuochi dell’uniformità normativa, tale che, nella sua concezione, ogni Stato federato avrebbe dovuto «esercitare il commercio frater-no in più vasto campo, e deliberare leggi uniformi e strade e monete»: il patto federale, allora immaginato, avrebbe quindi mirato a valorizzare una dimensione unitaria e, legi-slativamente, uniforme in campi ritenuti fondamentali (v. C. CATTANEO, Federalismo e libertà, ora in C. Petraccone (a cura di), Federalismo e autonomia dall’unità ad oggi, Roma-Bari, 1995, 11 ss.).

CONCETTI E GRADI DELL’UNIFORMITÀ E DELLA DIFFERENZIAZIONE 61

funzioni, anzitutto normative, in parte intrecciato con esso, operano nei sistemi policentrici una serie di meccanismi dell’uniformità, che vivono nelle forme di condizionamento dell’autonomia pure laddove questa ri-sulti riconosciuta

73. Qui, a ben vedere, siamo al di fuori della sfera dell’uniformità, sem-

pre che la portata di questi meccanismi non sia tale da condurre alla ne-gazione della differenziazione (pure ammessa attraverso il riconosci-mento, ai soggetti autonomi, della competenza in ordine a determinate materie e funzioni)

74. Tali meccanismi mirano al contenimento del prodotto dell’auto-

nomia, spesso nel momento stesso in cui questa è più solennemente af-fermata; traducono, attraverso le dinamiche che gli sono proprie, il con-creto equilibrio tra esigenze dell’uguaglianza e della differenza

75. Le modalità di questa traduzione varieranno poi nelle varie esperienze, ar-ticolandosi in modi diversi: mirando a conformare (uniformandole) le strutture organizzative, le funzioni (anche normative) ed il loro eserci-zio, i risultati dell’intervento pubblico.

Il contenimento della differenziazione e la funzionalizzazione delle amministrazioni autonome può, dunque, svilupparsi seguendo diverse modalità di condizionamento, che costituiscono poi il confine dell’au-tonomia presente nei diversi ambiti: condizionamento dei risultati dell’azione dei soggetti dotati di autonomia; condizionamento delle mo-dalità (anche normative) di questa azione; condizionamento dell’orga-nizzazione dei soggetti autonomi

76. Tale condizionamento si realizza attraverso interventi rivolti ad una

sola delle finalità indicate, come attraverso discipline, spesso di settore, in grado di pervadere i vari momenti: tale “condizionamento” risulterà, poi, caso per caso, forte o debole, determinando una uniformità nell’or-ganizzazione, nelle modalità di azione, o solo nei risultati.

73 Cfr. F. PIZZETTI, Federalismo, regionalismo e riforma dello Stato, cit., che evidenzia i diversi livelli attraverso i quali si realizza il potere uniformante dello stato centrale (ivi, spec. 13 ss.).

74 L’esperienza italiana del “regionalismo dell’uniformità” ci mostra efficacemente la portata di questi meccanismi, operanti proprio negli spazi astrattamente affidati ai sog-getti autonomi: cfr. infra, spec. cap. 5, § 2.3.

75 Mirando, in ultima istanza, a contenere (e ad incanalare) la tensione tra i due poli contrapposti: tra l’autonomia ed il suo risultato, l’essere diverso, e il principio di ugua-glianza (così J. GARCÌA MORILLO, Autonomia, asimmetria e principio di eguaglianza, cit., 105).

76 Spunti in tal senso emergono, in particolare, da F. MERLONI, L’informazione e la co-municazione pubblica: dalla legge 150 alle prospettive di differenziazione regionale, in AA.VV., Regioni ed ordinamento della Comunicazione, Perugia, 2003, 77 ss.

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 62

La fonte eteronoma può anche rivolgersi in modo differenziato ai vari soggetti dotati di autonomia: pure, generalmente, tale condizionamento eteronomo, posto da realtà “sovraordinate”, si rivolgerà in modo indi-scriminato ai diversi soggetti omogenei, cosicché l’ambito del “condizio-namento” finirà per coincidere con l’ambito dell’uniformità, e lo spazio che residua all’autonomia sarà, quindi, l’area della (potenziale) differen-ziazione.

Il quantum di questo condizionamento, come anche le modalità at-traverso il quale potrà realizzarsi e le fonti abilitate a realizzarlo, varierà in ragione delle scelte di fondo fatte proprie da un ordinamento in rela-zione al bilanciamento macroorganizzativo che questo si è dato tra le ragioni dell’uguaglianza e dell’unità e quelle dell’autonomia. Ne discende un possibile articolarsi di queste forme di condizionamento che varie-ranno sia in termini assoluti, sia con riferimento a singoli “momenti”, diversamente andando ad incidere (uniformandoli) sui risultati, sul-l’azione, sull’organizzazione

77. “Momenti” dell’uniformità tra i quali è possibile, riscontare una gra-

dazione, pure non necessaria, nel senso che all’ampliamento degli spazi di autonomia corrisponderà, tendenzialmente, in primo luogo una ridu-zione della rilevanza della dimensione organizzativa (progressivamente rimessa alle scelte proprie delle realtà autonome)

78. Questo, peraltro, senza che sia possibile riscontrare in questo una re-

lazione diretta, dal momento che le scelte ordinamentali proprie di una realtà nazionale possono condurre ad un’attenuazione “proporzionale” delle diverse modalità di condizionamento, ma possono altresì condurre (come anzi frequentemente avviene) ad una attenzione maggiore al con-dizionamento dei risultati al decrescere dell’attenzione sull’organiz-zazione, e così via. Fintanto che l’ordinamento bilancia l’accresciuta au-tonomia in determinati momenti con l’aumento dell’attenzione sul con-dizionamento di altri, cambiano i meccanismi dell’uniformità, non è po-sto in sofferenza il principio egalitario, ma muteranno le modalità della

77 Come ora emerge con evidenza analizzando il sistema italiano successivo alla ri-forma del Titolo V. Il condizionamento uniformante sul versante dei “risultati” è un mo-dello che, se conosce una particolare attenzione nel momento attuale alla luce della pre-visione dell’art. 117, comma 2°, lett. m) della Costituzione, è ampiamente (e progressiva-mente) diffuso, tanto a livello interno, che in un’ottica comunitaria o comparata. Sul pun-to, cfr., amplius, infra, spec. cap. 8, § 5.

78 Spesso, peraltro, il confine tra i “momenti” della differenziazione, come sin qui de-finiti, è permeabile: strumenti rivolti a condizionare i risultati non mancheranno di avere ricadute sulle modalità di azione, persino sull’organizzazione. Viceversa, evidentemente, determinare l’organizzazione significa predeterminare in certa misura le successive mo-dalità di azione, persino i risultati della successiva azione.

CONCETTI E GRADI DELL’UNIFORMITÀ E DELLA DIFFERENZIAZIONE 63

sua traduzione, senza che questo possa peraltro considerarsi, in assolu-to, indifferente

79.

6. Ulteriori scomposizioni: la differenziazione funzionale. Uniformi-tà e differenziazione come criteri di riparto di competenze

Il ricorso alle categorizzazioni sin qui operate sembra significativo a fini descrittivi, ma non esaurisce i possibili criteri classificatori. Tra i quali, in particolare, si segnala la qualificazione “funzionale” della diffe-renziazione, pure non riconducibile unicamente nella dimensione “am-ministrativa” (la differenziazione del riparto delle funzioni legislative in-cide sulla uniformità normativa più ancora che su quella amministrati-va), oggetto di particolare attenzione a livello normativo e dottrinale

80. La differenziazione funzionale tra soggetti autonomi omogenei, specie

recentemente, sembra anzi configurabile come il modello puro della dif-ferenziazione, assunto come principio

81 e come tale inteso in assenza di aggettivazioni a livello di legislazione e nel dibattito dottrinale

82. Attra-verso questa nozione si vuole dunque intendere l’abbandono di una allo-cazione uniforme, che comporti assegnazione di identiche funzioni a tutti i soggetti di una stessa categoria, in favore di «una allocazione dif-ferenziata e asimmetrica», corrispondente, almeno in parte, alla «etero-

79 In questo senso possono rileggersi alcune affermazioni di L. VANDELLI, che segnala-va l’opportunità di (e la tendenza a) spostare attenzione, in particolare, sulla “uniformità delle prestazioni” piuttosto che sulla mera uniformità formale (ID., Poteri locali, cit., 376 et passim).

80 Dove l’attenzione a questo profilo è un riflesso di quella recentemente mostrata dal legislatore nei confronti del principio/criterio di differenziazione (nell’allocazione delle funzioni amministrative), prima a livello ordinario, con l’art. 4 della legge n. 59 del 1997, poi a livello costituzionale, con l’art. 118, comma 1°, come riformulato dalla legge cost. n. 3 del 2001 (da rilevare, peraltro, come anche il progetto di riforma della Bicamerale, poi naufragato, prevedesse il medesimo principio).

81 Questo, evidentemente, soprattutto nell’ordinamento italiano, dopo le riforme della XIII legislatura (ordinarie e costituzionali), che hanno affermato il principio (o criterio) di differenziazione e quello di adeguatezza. In merito v. già, tra gli altri, L. VANDELLI, Dal-le aree metropolitane ai Comuni minori, cit., 832 et passim; C. TUBERTINI, Le forme asso-ciative e di cooperazione fra enti locali tra i principi di autonomia e di adeguatezza, in Ist. del federalismo, 2000, 315 ss.

82 Da ultimo cfr. F. MERLONI, La leale collaborazione nella Repubblica delle autonomie, cit., 836 (nota 23) che intende con differenziazione «la possibilità che i soggetti dello stes-so livello di governo non abbiano necessariamente le stesse funzioni; il suo contrario è l’uniformità» (e da questa distingue la differenziazione organizzativa, come «possibilità di differenziare l’organizzazione della funzione», non necessariamente legata alla prima).

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 64

geneità di fatto dei soggetti destinatari, anche all’interno della medesima categoria»

83. Se uniformità e differenziazione, nell’ottica di questo lavoro, sono

ben più di questo, nondimeno le categorie risultano (e sono tradizio-nalmente state) oggetto di una particolare attenzione quali criteri di ri-parto delle competenze

84, in primo luogo amministrative, ma anche le-gislative. In questo, l’esperienza negli ordinamenti europei è articolata, e non si limita certo alle più recenti evoluzioni dell’ordinamento interno del nostro paese, dove pure ha trovato molteplici modalità di manifesta-zione

85. Anche qui, di nuovo, ci aiutano nell’analisi le categorie sin qui esami-

nate, cosicché potremo definire una pluralità di tipologie, anzitutto con riferimento alle variabili quantitative della differenziazione, evidenzian-do quindi modelli di riparto funzionale uniforme, modelli di riparto uni-forme con eccezioni e deroghe, modelli di riparto uniforme con aree di specialità, modelli di differenziazione.

In un sistema, queste diverse tipologie di differenziazione possono anzi convivere. Questo fenomeno si muove su un piano che (si sovrap-pone largamente ma) non coincide con quello dell’autonomia: così è, in

83 Così L. VANDELLI, La distribuzione delle competenze: le tendenze in Italia dopo l’attuazione della legge n. 59 del 1997, in S. GAMBINO (a cura di), Stati nazionali e poteri locali, cit., 287 ss.

84 Il fatto che uniformità/differenziazione siano suscettibili di essere assunti, in via ge-nerale, come criteri per l’analisi del riparto di competenze tra i soggetti che compongono un ordinamento, a prescindere del carattere e della natura della funzione, è attentamente evidenziato nel rapporto per il CPLRE (Congresso dei poteri locali e regionali in Europa) del Consiglio d’Europa, redatto dal Gruppo di esperti indipendenti sull’attuazione della Carta delle Autonomie Locali, Les regions a pouvoir legislatif et la repartition des compe-tences en europe, dove si distingue tra «uniformité: attribution des mêmes compétences aux collectivités du même niveau de gouvernement» e «[d]ifférenciation: attribution de compétences différenciées à collectivités du même niveau (en rapport à la dimension ou a la capacité effective d’exercice)». V., in merito, F. MERLONI, Informe del Congreso de Pode-res Locales y Regionales de Europa del Consejo de Europa sobre la aplicación de la Carta Europea de Autonomía Local en España, in Anuario del Gobierno Local, 2002, 357 ss.

85 Così, in particolare, come “differenziazione funzionale degli enti autonomi”: la dif-ferenziazione aministrativo-funzionale, espressione di una tensione risalente, è esplicita-ta, già prima della recente riforma costituzionale (v. art. 118, comma 1°) dall’art. 4, com-ma 3°, lett. h), della legge n. 59 del 1997, ai sensi del quale, nell’allocazione delle funzioni, il legislatore dovrà differenziare le stesse, «in considerazione delle diverse caratteristiche, anche associative, demografiche, territoriali e strutturali degli enti riceventi». In relazione a questo principio (e al suo rapporto con quello di sussidiarietà nell’impianto della rifor-ma ordinaria), cfr., sin d’ora, L. VANDELLI, Dalle aree metropolitane ai Comuni minori, cit., 831 ss.; V. CERULLI IRELLI, I quattro pilastri della riforma amministrativa in corso, in Nuo-va fase, 1998, 54 ss.; sulla resistenza dell’uniformità locale negli ordinamenti di deriva-zione francese, si veda, più diffusamente, L. VANDELLI, Poteri locali, cit., 349 ss.

CONCETTI E GRADI DELL’UNIFORMITÀ E DELLA DIFFERENZIAZIONE 65

particolare, per la differenziazione eteronoma delle amministrazioni, che si presenta, ad esempio, allorché si assume la scelta di assegnare fun-zioni differenziate a soggetti pubblici omogenei. Spesso, a ben vedere, tale fenomeno non è riconducibile all’esigenza di valorizzarne l’auto-nomia, quanto ad esigenze sistemiche diverse. La differenziazione, da questo punto di vista, può realizzarsi attraverso molteplici modalità: non sembrano estranee a questo, in taluni casi, le stesse scelte in ordine alla articolazione periferica dello Stato, al punto che appare, pure latu senso, possibile ricondurvi la stessa problematica della coincidenza

86 tra la di-mensione delle circoscrizioni amministrative statali e quella degli enti autonomi

87. Sotto questa angolazione, con uniformità si intende il riconoscimento

della medesima “dotazione competenziale” agli enti autonomi omogenei, il che, però, può significare anche affidare la cura dei medesimi interessi pubblici a soggetti pubblici fortemente differenziati, quanto a risorse, mezzi, personale, oltre che, eventualmente, capacità organizzative.

Riconoscere una uniformità funzionale significa, infatti, come è stato attentamente rilevato, riconoscere gli stessi compiti ad un ente di grande dimensioni come ad uno estremamente piccolo (comuni polvere, “ridico-laggini giuridiche e sociali” come le definì Giannini)

88, con la naturale conseguenza di creare una media funzionale (quanto ad attribuzioni) in-soddisfacente tanto per le realtà maggiori, che vedono riconoscersi meno funzioni di quelle che potrebbero assolvere, che per le realtà minori, co-munque non in grado di fare fronte alle funzioni loro assegnate

89.

86 In tal senso si veda, già prima delle recenti riforme ordinarie (che affermeranno il venir meno della necessaria coincidenza tra Provincia ed uffici periferici dello Stato), F. MERLONI, L’amministrazione periferica dello Stato in Europa, in Riv. trim. dir. pubbl., 1992, 1008 ss., per il quale nei diversi Paesi europei si registra una convergente tendenza ad un ribaltamento tra amministrazioni territoriali subcentrali, che tendono ad essere di tipo generale, e amministrazioni nazionali, che sono sempre più di tipo settoriale. Ne di-scende come la mappa amministrativa degli enti territoriali e degli uffici periferici delle amministrazioni nazionali tenda a differenziarsi liberamente, venendosi così a rompere il principio della necessaria coincidenza territoriale.

87 Il che, a titolo esemplificativo, si realizzava attraverso la ora ricordata coincidenza tra Provincia e livello di amministrazione periferica dello Stato, tradizionalmente presen-te nel nostro ordinamento (il cui superamento determina la possibilità di una differenzia-zione, entro la stessa categoria, tra Province sede di amministrazione periferica, e Pro-vince che non lo sono). È chiaramente impropria la riconduzione di quest’ultima ipotesi ad un modello di differenziazione funzionale, seppure da questa differenziazioni derivino conseguenze non irrilevanti sullo stesso ruolo (e la stessa identità) dell’ente provinciale.

88 Cfr. M.S. GIANNINI, Il riassetto dei poteri locali, cit., 452. 89 Profilo segnalato, tra gli altri, da M. NIGRO, Il governo locale, I, Storia e problemi. Le-

zioni di diritto amministrativo 1978-79, Roma, 1980, 48.

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 66

Profili, questi, che sono stati attentamente esaminati ed incisivamen-te criticati

90. Un sistema, quello dell’uniformità, che finisce per costringere soggetti

diversi a muoversi a velocità comunque non soddisfacenti, ora eccessive per le proprie capacità, ora troppo ridotte per le proprie potenzialità

91. A queste problematiche le realtà territoriali rispondono attraverso

percorsi diversi, nell’uno come nell’altro caso: ora rinunciando ad eserci-tare funzioni rispetto alle quali esse sono (strutturalmente) inadeguate

92, ora ponendo in essere, sempre che l’ordinamento lo consenta, percorsi differenziali autonomi, tramite l’assunzione di compiti e funzioni nuove, come la stessa storia dei servizi pubblici locali ci dimostra.

La possibilità di una autodifferenziazione su base locale delle funzio-ni degli enti pubblici ne presuppone, però, da un lato l’autonomia nor-mativa, ma anche il carattere residuale (o aperto) delle attribuzioni

93.

90 Così, per tutti, M.S. GIANNINI, Il riassetto dei poteri locali, cit., 455 ss.; L. VANDELLI, Poteri locali, cit., spec. 387 ss.; G. BERTI, Crisi e trasformazione dell’amministrazione locale, cit., 681 ss.; S. CASSESE, Tendenze dei poteri locali in Italia, cit., 283 ss.; F. MERLONI, Il de-centramento, in AA.VV., Riforma dello Stato e riforma dell’amministrazione in Italia e in Francia, Milano, 1998, 71 ss. L’esperienza straniera sul punto è ampia ed articolata, ed è passata tanto attraverso un approccio funzionale (forme di gestione associata delle fun-zioni da parte dei comuni minori: ne sono, secondo modi diversi, esempio i consorzi, le Unioni di comuni, le Comunità montane, le convenzioni, le ASL in Italia; i Syndicats à vocation unique e multiple, le Communautés de communes in Francia; le associazioni tra Demoi e Koinotites in Grecia; le Comarcas in Spagna, le Associaçoes e le Federaçoes in Portogallo) che attraverso un approccio organico (ridisegno della mappa comunale trami-te operazioni di accorpamento e, del caso, scorporamento: tale modello è stato seguito, tra l’altro, da Svezia [con un tasso di fusione dell’88,9%, di cui il 58,5% è dovuto agli esiti di due riforme avvenute nel 1952 e nel 1974], Danimarca, Belgio, Germania, Regno Unito, Austria, Norvegia, Olanda, Finlandia e Svizzera): tanto per questa categorizzazione che per la concreta ricognizione delle diverse esperienze europee, cfr. F. SPALLA, L’accor-pamento degli enti locali di base. Indagine comparativa europea e prospettive per il caso ita-liano, in Nuovo gov. loc., 1998, 9 ss. Sul punto v. anche l’Introduzione di F. MERLONI in F. MERLONI-A. BOURS (a cura di), Amministrazione e territorio in Europa, cit., 13 ss.

91 V. le riflessioni di B. CONSTANT in ID., Corso di politica costituzionale in ID., Antolo-gia degli scritti politici di, a cura di A. Zanfarino, Bologna, 1962, 125 ss.

92 Si veda in tal senso la ricerca curata dall’ISR-CNR Le funzioni del governo locale (F. MERLONI-L. TORCHIA-V. SANTANTONIO, I, Il dato normativo, Milano, 1988; S. MANNOZZI-V. VISCO COMANDINI, II, Verifica dell’effettività, Milano, 1990): secondo i dati di questa ri-cerca, in particolare, l’area di mancato adempimento delle funzioni da parte dei Comuni è inversamente proporzionale alla popolazione, fino ad arrivare, per i piccoli Comuni al di sotto dei 1000 abitanti, ad un’area di non esercizio dell’82% delle funzioni considerate essenziali.

93 Quale è riscontrabile, ad esempio, a livello di Comuni (e Province: cfr. Corte cost., sent. n. 343 del 1991, in Giur. cost., 1991, 2718 ss. con nota di L. Vandelli) dopo la legge n. 142 del 1990: come è stato evidenziato, infatti, la legge n. 142, con l’art. 9, ha demanda-to all’ente locale un complesso di attribuzioni di tipo “aperto”, non previamente tipizzate: esiste, cioè, per i Comuni un campo di intervento autonomamente individuato a tutela

CONCETTI E GRADI DELL’UNIFORMITÀ E DELLA DIFFERENZIAZIONE 67

Diverso è il caso in cui una differenziazione funzionale sia non già il frutto di percorsi di autonomia, né di categorizzazioni operate a livello centrale, ma diretta conseguenza del riconoscimento di potestà ordina-mentali sulle realtà minori attribuita a soggetti diversi dallo Stato

94. In questo caso, infatti, per i profili riconosciuti nella disponibilità di sog-getti pubblici, solitamente di carattere regionale, si aprono prospettive di differenziazione che articolano e, in via generale, rendono estrema-mente complessi i modelli possibili.

È evidente che, da un simile riconoscimento di poteri ordinamentali, deriva (può derivare) sia una differenziazione

95 tra enti omogenei in quanto appartenenti a realtà territoriali (regionali) diverse, ma anche differenziazioni infraregionali in quanto l’autonomia regionale operi (essa sì) categorizzazioni e differenziazioni

96. Soprattutto, e con riferimento all’esperienza regionale, a volte l’ordi-

namento ha previsto, a fronte di una uniformità funzionale generale, modelli derogatori di largo impatto, assunti, pur nella loro dichiarata specialità, come non secondari nel sistema

97. Questa scelta appare, peral-tro, frutto di esigenze che, con riserva di approfondimento, a volte esplici-

degli interessi della collettività locale, che trova limite solo in quanto le funzioni risultino espressamente attribuite ad altri soggetti (v. in tal senso v. TAR Brescia, 7 aprile 1999, n. 256, in Giornale dir. amm., 1999, 1161 ss., con nota di F. Merloni).

94 In tal senso si veda già il dibattito sorto intorno alla previsione dell’art. 3 della legge n. 142: per tutti, L. VANDELLI, L’ordinamento delle autonomie locali, cit., 89 ss.; G. PASTO-RI, Il riordino delle funzioni locali e le regioni, in Regioni, 1993, 340 ss.; G.C. DE MARTIN, Il nodo della determinazione delle funzioni locali dopo la legge di riforma del 1990: elementi per un’interpretazione dell’art. 3 della legge 142, in G.C. DE MARTIN-G. MELONI-F. MERLONI (A CURA DI), Regioni e riforma delle autonomie, Milano, 1995, 27 ss.

95 Su come questo possa ledere l’autonomia locale, cfr. T. GROPPI, La garanzia dell’au-tonomia costituzionale degli enti locali: una analisi comparata, in Regioni, 1998, 1024 ss., per la quale la disciplina dell’autonomia locale ad opera del legislatore nazionale non è solo un limite, ma anche una “cinta muraria” che costituisce allo stesso tempo la difesa e il confine dell’autonomia locale.

96 Come avviene (può avvenire) ora nell’ordinamento italiano, dove non solo si sono ampliati i poteri ordinamentali regionali sulle autonomie locali, soprattutto in merito alle funzioni di queste (cfr. art. 118, comma 2°, Cost.: nelle materie di competenza legislativa regionale le funzioni amministrative sono allocate dalle Regioni; vedi però, ad integrare il ragionamento per le materie di competenza concorrente, anche, da ultimo, la sentenza n. 303 del 2003 della Corte costituzionale), ma dove l’allocazione regionale è espressamente previsto debba avvenire (anche) in modo differenziato (sulla base dei principi di sussidia-rietà, differenziazione ed adeguatezza, ai sensi dell’art. 118, comma 1°, Cost.).

97 Così nel sistema che ha tradizionalmente caratterizzato l’ordinamento italiano, fino a fasi recenti, pure a fronte di un generale mantenimento di un modello di uniformità (di principio) si è assistito, in modi peraltro significativamente diversi, all’articolazione di tali percorsi differenziali.

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 68

tamente richiamano fatti differenziali costituzionalmente rilevanti 98. Tradizionalmente quanto autorevolmente, la dottrina allorché ha

trattato i temi dell’uniformità e della differenziazione “in sé”, enuclean-done cioè un valore autonomo rispetto ad altri fenomeni e ad altre cate-gorie giuridiche, lo ha fatto trattando il problema della dimensione terri-toriale degli enti minori

99, affrontando, cioè, il problema del criterio di riparto delle competenze amministrative a livello territoriale

100. Visto in questi termini, il tema dell’uniformità e della differenziazione

sarebbe risolvibile nell’analisi di un criterio di riparto di competenze. Il che è, però, riduttivo e, come visto, inesatto. Riduttivo sia con riferimen-to allo stesso “criterio di riparto” in quanto applicato alle sole compe-tenze amministrative (ché si tratta di criterio generale, applicabile anche alla funzione normativa, ed in particolare alla funzione legislativa)

101, sia con riferimento al carattere “ad una dimensione” del riparto, che sin qui è stato approcciato nel suo modello “semplificato” di “differenziazione condotta dal centro”

102. Soprattutto, la differenziazione (uniformità) funzionale non è che

una parte della differenziazione amministrativa, la quale, pur potendo riguardare tratti organizzativi, profili di attività, aspetti finanziari, non è a sua volta che una parte della differenziazione (uniformità) in senso complessivo, suscettibile di riferirsi non solo a strutture amministrative, ma all’azione di queste nei confronti dei cittadini (quali causa di ugua-glianza/ disuguaglianza).

98 Talora preesistenti alla Costituzione formale: cfr., con riferimento all’esperienza spa-gnola, J.F. LÒPEZ AGUILAR, Lo Stato autonomico spagnolo, cit., spec. 95 ss.

99 Sul problema dell’inadeguatezza delle dimensioni comunali, v., in primo luogo, M.S. GIANNINI, Il riassetto dei poteri locali, cit., 452 ss.; ID., Enti territoriali locali e pro-grammazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1973, 203 ss.; G. BERTI, Crisi e trasformazione della amministrazione locale, cit., 677 ss.

100 Uniformità contra differenziazione, quindi, quali criteri alternativi a fronte di un’ope-razione di riparto competenziale (condotta unicamente dal centro, od anche da livelli terri-toriali diversi). Da un lato, allora, la scelta di un riparto “uniforme”, nel quale al medesimo livello territoriale è affidata la cura delle medesime funzioni, con tutti i problemi che ciò genera in un panorama amministrativo disomogeneo quanto a dimensioni territoriali, or-ganizzative, di popolazione. Dall’altro lato, la scelta di un riparto “differenziato”, che tenga conto delle variabili prima indicate (organizzative, dimensionali, di popolazione).

101 Come, a titolo esemplificativo, ci mostra l’esperienza italiana delle Regioni speciali. 102 Ma il riparto di competenze può essere operato (anche) da soggetti decentrati, co-

me anche essere espressione di potestà proprie degli stessi enti locali chiamati ad eserci-tarle, che in virtù della propria autonomia possono (contribuire a) definire il proprio as-setto competenziale.

CAPITOLO TERZO

SPUNTI PER LA RICOSTRUZIONE DEI FONDAMENTI DEL PRINCIPIO DI UNIFORMITÀ

SOMMARIO: 1. Il principio di uniformità e del suo collegamento con i principi di ugua-glianza ed unità. – 2. Fondamenti teorici del modello dell’uniformità e resistenze e cri-tiche alla sua affermazione. – 3. Uniformità e superamento dei particolarismi giuridici negli Stati nazionali. – 4. Il modello “tradizionale”: l’uniformità formale e di principio (e la differenziazione come eccezione). – 5. Assunzione dell’uniformità amministrativa come valore (e sua “confusione” con l’uniformità normativa). – 5.1. L’uniformità come uguaglianza dei soggetti dotati di autonomia. – 5.2. Uniformità delle amministrazioni come strumento per l’uguaglianza dei cittadini.

1. Il principio di uniformità e del suo collegamento con i principi di uguaglianza ed unità

I diversi principi e concetti, pure sin qui scomposti, trovano nell’evo-luzione storica e politica uno stretto collegamento. È possibile cogliere in questo fenomeno, complessivamente inteso, la trasposizione nel dirit-to pubblico delle categorie di pensiero, politico ed economico, che por-tavano contestualmente all’affermazione dei valori della codificazione. Un diritto generatore di certezze e prevedibilità, che mirava a plasmare, uniformandola, la realtà attraverso previsioni generali ed astratte. Un diritto, quello del mondo di ieri

1, che garantiva l’uguaglianza attraverso l’uniformità della disciplina giuridica delle situazioni giuridiche degli in-dividui, ed al contempo perseguiva questa stessa uguaglianza, attraverso l’uniformazione delle strutture preposte alla garanzia ed alla soddisfa-zione degli interessi individuali: le pubbliche amministrazioni.

Semplificazioni, queste, che meritano certo di essere spiegate, e pre-cisate: non di meno il modello dell’uniformità, a lungo proprio di larga

1 Di “mondo di ieri” parla N. IRTI, L’età della decodificazione, cit., 4.

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 70

parte delle strutture amministrative continentali 2, si fondava su questo

duplice assunto, e su questa duplice prospettiva 3.

L’accentramento dei poteri in una struttura dipendente direttamente dal sovrano, l’eliminazione di statuti locali, municipali, regionali parti-colari e differenziati, la riduzione di corpi autonomi, l’affermazione del-la legge come principio unificatore, i principi di gerarchia ed autorità sono tutte espressioni di una comune tendenza

4. Le realtà sostanziali, siano esse settoriali, territoriali o funzionali, differenziate, devono essere sacrificate alle esigenze di un ordinamento giuridico sovrano cui tutto sia riconducibile e che possa regolare le eventuali crisi ed antinomie se-condo un principio di gerarchia ed autorità

5. Tali manifestazioni sono espressione di una fase nella quale la plura-

lità degli ordinamenti giuridici subisce una crisi, tale che, ove essi resi-duano, questo avviene comunque in ragione di una riconducibilità di

2 Uniformità oggetto, oggi, delle prime rivisitazioni anche (e proprio) nel Paese che con più forza e coerenza ne è stato il propugnatore: la Francia. In tal senso v., peraltro con una diversa valutazione del fenomeno, L. VANDELLI, Le collettività territoriali nella ri-forma costituzionale francese: verso un superamento dell’uniformità e S. GAMBINO, Conti-nuità (molte) e discontinuità (poche) nel recente decentramento francese, entrambi nel nu-mero monografico sulla riforma del regionalismo francese di Amministrare, 2003, rispet-tivamente 253 ss. e 301 ss.

3 Vi è, cioè, un sottinteso rapporto di strumentalità tra uniformità amministrativa ed altri principi, assunti come valori fondanti un dato ordinamento: in quanto questo avven-ga, l’uniformità amministrativa diviene una struttura totemica, che trae forza non da sé, ma da ciò che la sua presenza sottintende (nell’ambito delle scienze sociali si parla anche di norme contestuali: mentre le norme primarie sono diretta espressione di un valore, le norme contestuali sono in rapporto indiretto con questo, ma necessarie ad attuare le norme primarie: cfr. L. GALLINO, voce Norma sociale in Dizionario di sociologia, cit., 459).

4 Si tratta, chiaramente, di una fase evolutiva dello Stato moderno già avanzata, che possiamo identificare nell’abbandono dei modelli propri dell’ancien régime (prima in Francia, poi nel resto dell’Europa occidentale) nel corso dell’800. La parentesi rivoluzio-naria non costituisce al riguardo, un momento di rottura: la Rivoluzione prima e Napole-one poi completeranno, in Francia, un disegno accentratore già chiaramente delineatosi con Luigi XIV e Colbert: cfr. F. FURET, Critica della Rivoluzione francese, Bari-Roma, 1989, 19 et passim. L’autore si rifà, in quest’interpretazione, ad A. DE TOCQUEVILLE, L’antico regime e la rivoluzione, in ID., Scritti politici, cit., 637 ss.; sul punto e per una ricostruzione delle teorie politiche che hanno accompagnato la nascita dello realtà statuale che conosciamo, vedi anche P.P. PORTINARO, Stato, Bologna, 1999, 11 ss.

5 Questo, quantomeno, in relazione ai soggetti operanti con pubbliche potestà e nell’ambito del diritto pubblico. Diverso è il discorso ove ci si riferisca a corpi sociali or-ganizzati operanti nel diritto comune, in relazione ai quali lo Stato accentrato opera spes-so sì forme di controllo, ma con riguardo ai quali non si pone il problema di originarietà o derivazione, autonomia o sovranità che si pone per i soggetti cui sono attribuiti pubbli-ci poteri. Lo Stato, per questi ultimi, ponendosi in posizione di sovranità, «fornisce il cri-terio per attribuire il contrassegno della pubblicità ad altri soggetti nel proprio territorio» (cfr. C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, cit., 42).

SPUNTI PER LA RICOSTRUZIONE DEI FONDAMENTI DEL PRINCIPIO DI UNIFORMITÀ 71

questi allo Stato o nello Stato 6. L’autonomia dei corpi intermedi trova

legittimazione non già e non più nella loro tutela degli interessi della real-tà di cui sono espressione, ma nella loro funzionalità alla tutela ed al servizio dell’interesse generale

7: lo Stato, alla luce di questo processo, mantiene i corpi intermedi perché in questi vede un momento necessa-rio al perseguimento dei fini che gli sono propri, primo tra tutti la pro-pria continuazione, ma li controlla e li funzionalizza in relazione alle proprie finalità, con le quali gli ordinamenti “minori” non possono en-trare in conflittualità

8. Tra i titolari di pubblici poteri, in particolare, si giunge allora ad af-

fermare come uno ed uno solo, cioè lo Stato, sia il titolare dei poteri e delle attribuzioni di carattere pubblico

9. Le dimensioni locali del-l’imperium esistono allora solo in quanto siano giustificate, delegate

10 e riconosciute dall’imperium statale.

La legge, generale ed astratta, unica in tutte le parti del regno, uni-forme ed uniformante è lo strumento che più di ogni altro è causa e strumento di questa riduzione di complessità

11. Si uniscono a questa si-

6 Cfr. M. WEBER, Economia e società, a cura di P. Rossi, Milano, 1968, 692: «[l]’aspetto specifico dell’epoca moderna è costituto dal fatto che l’esercizio della forza viene attribui-to a tutti gli altri individui o gruppi soltanto nei limiti in cui lo Stato lo ammette: lo Stato vale come unica fonte del diritto all’uso della forza».

7 Ne discende la critica ricorrente alla teoria del pouvoir municipal. Per le origini e l’evoluzione di questo concetto, cfr. i saggi in E. GARCÌA DE ENTERRÌA, Revolucìon france-sa y administracìon contemporànea, Madrid, 1972 (spec. 72 ss.). Tra i sostenitori del pou-voir municipal ricordiamo B.Constant e H.de Pansey; cfr., in questo senso, L. VANDELLI, Poteri locali cit., 42 ss.; sul tema in oggetto, sulle sue origini nel pensiero giusnaturalista, cfr. anche S. MANNONI, Une et indivisible. Storia dell’accentramento amministrativo in Francia, Milano, 1994, 262 ss. e A. DE TOCQUEVILLE, La democrazia in America, Milano, 1992, 70. La posizione del giusnaturalismo in tema di poteri municipali viene esaminata (criticamente) anche da H. KELSEN, La democrazia nell’amministrazione, in ID., Il Primato del Parlamento, Milano, 1982, 63 (nell’ottica in oggetto, il Comune va visto «al pari dell’es-sere umano del diritto naturale individualista, come soggetto che esiste indipendente-mente dallo Stato»). Per Kelsen questa visione è inammissibile su piano della teoria giu-ridica, poiché crea un inaccettabile dualismo di sistemi. Per ulteriori approfondimenti sul tema (anche in relazione alla riflessione fatta in Italia) si veda la ricca bibliografia ripor-tata da G. VESPERINI, I poteri locali, cit., 11.

8 La distinzione, cui in sostanza si fa riferimento, è tra Stato-governo e Stato-comu-nità (quali articolazioni dello Stato-ordinamento): cfr. C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, cit., 43 et passim.

9 Sul punto, sin d’ora, cfr. G. BERTI, Amministrazione comunale e provinciale, cit., 44 ss. 10 Se questa era l’impostazione inizialmente prevalente, il concetto di potere delegato

fu successivamente superato nell’elaborazione dottrinale: cfr. S. ROMANO, Il Comune cit., per il quale le attribuzioni degli enti autarchici potevano dirsi statuali solo con riguardo «agli interessi dello Stato, con i quali appaiono in intima connessione»: cfr. ivi, 497.

11 La legge, in realtà, se è questo, è anche garanzia per i corpi sociali intermedi stessi, in particolare per quelli che preesistono o che comunque esistono indipendentemente

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 72

stemi gerarchici, non solo di fonti, ma anche a livello organizzativo, tali che l’autorità centrale sempre può reprimere e livellare le differenti si-tuazioni ed i momenti di crisi.

Un sistema statale di controlli, che verifichi l’applicazione, innanzitutto a livello locale, dei principi generali uniformi e delle norme comuni; un sistema di corti che reprima e sanzioni i comportamenti difformi, ricon-ducendo ad unità mediante l’applicazione di un sistema normativo d’im-pronta gerarchica; il ricorso allo stesso Re, ove presente, come rimedio straordinario esperibile dai cittadini: sono tutti sistemi e modelli nei quali trova poco spazio la possibilità per i diversi ordinamenti, pure riconduci-bili come legittimazione alla sovranità statale, di differenziarsi 12.

Il principio di autorità è, allora, l’architrave di questo modello, e la pi-ramide kelseniana ne è chiave di lettura: le antinomie sono risolte sem-plicemente in base gerarchica; le norme superiori hanno un effetto con-formativo diretto ed immediato sulle norme inferiori

13. Le fonti locali e dei corpi sociali organizzati, pure ove ammesse ed

ammissibili, sono sotto-ordinate non alle sole norme costituzionali e del-le norme di rango legislativo primario, delle quali è unico detentore lo Stato, ma spesso anche alle stesse fonti secondarie statali, cosicché le i-stanze autonomistiche trovano, a livello normativo, margini di espres-sione, che non sia meramente attuativa od esecutiva, fortemente limita-ti. La legge è il confine dell’azione dei corpi sociali intermedi, pure dota-ti, ove lo siano, di pubblici poteri, ma ne è anche garanzia di fronte al potere dello Stato accentrato.

La base di partenza di questa riflessione si radica nel vedere l’ordina-mento sovrano non solamente come superiorem non recognoscentes, ma anche unitario ed indivisibile: i diritti dei corpi sociali e politici non compongono la sovranità, posto che i diritti scambiati per parti della so-vranità «le sono tutti subordinati, e presuppongono sempre delle volontà

dallo Stato stesso. Si tratta però di un concetto, quello della legge come limite all’accen-tramento amministrativo, che tende ad essere sostituito da un principio di autonomia che ne modifica la portata e l’effetto (cfr., in tal senso, G. BERTI, Amministrazione comunale e provinciale, cit., 23).

12 Nel modello dell’ancien régime, come rileva A. DE TOCQUEVILLE la diversità degli sta-tuti locali era stata ridotta tramite la figura dell’intendente, ma le situazioni permanevano comunque come significativamente differenziate: «[l]La Francia è disseminata di corpi amministrativi, o di funzionari, che non dipendono gli uni dagli altri […]. Le città hanno costituzioni molto varie. I loro magistrati hanno nomi diversi, o ripetono i loro poteri da fonti diverse […]. Sono questi i residui degli antichi poteri»: cfr. ID., L’antico regime e la rivoluzione, cit., 640 ss.

13 V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, cit., spec. 125 ss.

SPUNTI PER LA RICOSTRUZIONE DEI FONDAMENTI DEL PRINCIPIO DI UNIFORMITÀ 73

supreme rispetto a cui tali diritti hanno solo funzione esecutiva» 14.

La stessa esistenza dello Stato in quanto tale, ovvero la sua capacità di resistere a tendenze disgregatrici tanto più forti quanto più l’unità na-zionale sia storicamente recente, si fonda quindi su un principio di au-torità e di sovranità per cui le istanze delle autonomie e degli interessi particolari sono soggette allo Stato, sono da questo controllate, ammes-se e giustificate

15.

2. Fondamenti teorici del modello dell’uniformità e resistenze e criti-che alla sua affermazione

La crisi di un modello di società, quella dell’ancien régime, sfocia, in Francia

16, e negli ordinamenti che a questa si rifaranno, in una scelta accentratrice che, sulla scorta delle teorie di Rousseau che largo seguito ebbero negli ambienti rivoluzionari

17, rifiuta i corpi intermedi e, per quello che ora ci interessa, ogni forma di ordinamento differenziato

Il radicarsi di questi modelli sinteticamente abbozzati, è in particola-re espressione dell’esigenza di affermazione dell’uguaglianza di fronte alla legge, che è tutt’uno (dati i caratteri di questa) con l’affermazione della volontà generale rispetto a interessi individuali o collettivi in con-trasto, anche solo potenziale, con questa. L’ottica rousseauiana è quella

14 Così per J.J. ROUSSEAU, Il contratto sociale, cit., 39. 15 Le politiche accentratrici condotte dalle monarchie, in particolare da quella france-

se, nell’ancien régime, avevano già prodotto una forte centralizzazione ed uniformazione, la cui portata era, nell’epoca prerivoluzionaria, però parziale, trovandosi a coesistere con una serie rilevante di privilegi, in particolare di carattere locale e territoriale: cfr. L. VAN-DELLI, Poteri locali cit., 15 ss.; più in generale, cfr. G. TARELLO, Storia della cultura giuridi-ca moderna, I: Assolutismo e codificazione del diritto, Bologna, 1976.

16 La ricostruzione teorica e storica del modello “uniforme” di poteri locali conosciuta dal nostro ordinamento, parte tradizionalmente dalla parentesi rivoluzionaria avutasi in Francia alla fine del XVIII secolo. Questa “rottura” è storicamente ravvisabile, ma si trat-ta, allo stesso tempo, del punto di arrivo di un processo che prende il via con la stessa cri-si dei modelli politici e sociali del feudalesimo. Risulta allora condivisibile la posizione di chi, come TOCQUEVILLE (L’antico regime e la rivoluzione, cit., 650 ss.), ha visto nella rivo-luzione un momento di continuità, piuttosto che di rottura, nella costruzione del moder-no stato accentrato avviatasi, in Francia, con Luigi XIV. In un’ottica di storia del diritto, vedi, al riguardo G. TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna, cit.

17 Particolarmente influenzato dal pensiero di Rousseau fu, oltre al già citato Sieyès, Maximilien Robespierre: cfr. Robespierre. Dizionario delle idee, a cura di M. Armandi, Roma, 1999. L’uniformità trovava però, come ci ricorda L. VANDELLI un illustre sosteni-tore anche in Voltaire, che considerava “l’uniformità di ogni genere di amministrazione una virtù” (cfr. ID., Le collettività territoriali, cit., 315).

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 74

che, per l’importanza della concettualizzazione teorica, ma anche per l’in-flusso esercitato nel pensiero politico europeo, ci aiuta più di altre nel-l’analisi

18. La volontà generale non è la somma delle volontà degli individui e dei

corpi sociali intermedi, così come l’interesse pubblico non è la somma dei singoli interessi particolari e collettivi. Lo Stato, è questa l’ottica di riferimento che ispirerà alcuni dei futuri sviluppi rivoluzionari e post-rivoluzionari francesi, non deve fondarsi sulle realtà intermedie: tra Sta-to e cittadino, individuo, non devono esservi mediatori, i quali, facendo-si portatori di interessi particolari, possano deviare l’azione dello Stato dalla tutela dell’interesse generale.

Il modello dell’uniformità e del centralismo trova allora già nel 700 il suo più illustre sostenitore

19, e la più valida argomentazione a sua giu-stificazione: quando si formano delle associazioni, delle aggregazioni portatrici di volontà particolari, la volontà di queste, l’interesse di queste diviene generale per i suoi membri, ma resta particolare per lo Stato

20. Il principio di uguaglianza, frenato nella sua emersione dall’esistenza di sotto-insiemi, non è in grado di sviluppare appieno le proprie potenziali-tà: le differenze invece di attenuarsi prendono forza.

18 Appare quindi sostenibile come l’affermazione di modelli uniformi di organizzazio-ne ed azione dello Stato, sia in relazione allo Stato-persona che allo Stato-ordinamento, rispondano, o vogliano rispondere, ad un’esigenza di tutela di un interesse pubblico gene-rale, che sia autentico in quanto diretta trasposizione e sintesi della volontà dei singoli consociati.Questa posizione, di diretta ispirazione rousseauiana, è possibile riscontrarla anche in autori successivi, a dimostrazione dell’influsso di quest’autore sul pensiero poli-tico che precede, accompagna e segue la Rivoluzione del 1789: così ad esempio per E.J. Sieyes, per il quale l’uniformità è fondamentale non solo per raggiungere l’eguaglianza, ma anche ai fini dell’unità del popolo francese (cfr. L. VANDELLI, Poteri locali cit., 17 ss.; S. MANNONI, Une et indivisible, cit., 320 ss.); Sieyes sosteneva essere la nazione «un corpo di associati sotto una legge comune»: occorre realizzare un sistema unitario, come una è la nazione ed una è la volontà generale. Sieyes rappresenta simbolicamente la rivoluzione francese come frattura ideologica (così per. V.I. COMPARATO, Vent’anni di storia del pen-siero politico in Italia, in Il pensiero politico, 1987, 3 ss.): in merito v. E.J. SIEYES, Opere e testimonianze politiche, cit.; per una schematizzazione sintetica ed un inquadramento sto-rico pure conciso, cfr. S. MASTELLONE, Storia del pensiero politico, cit., 148 ss.; più artico-latamente, sul ruolo di Sieyes (di là dalle facili semplificazioni) nella costruzione dello Stato accentrato francese, v., di nuovo, l’attenta ricostruzione di S. MANNONI, ult. op. cit., I, spec. 325-327.

19 Sul pensiero politico di Rousseau, cfr. P. CASINI, Introduzione a Rousseau, Roma-Bari, 2002, dove sono ricostruite accuratamente le diverse interpretazioni di cui è stato oggetto questo autore.

20 I cittadini e gli individui perdono il loro rapporto diretto con lo Stato, che finisce per acquisire volontà particolari scambiate per generali (cfr. J.J. ROUSSEAU, Il contratto sociale, cit., 40 et passim), nelle quali non conta più la posizione dell’individuo, ma solo quella del corpo sociale in quanto tale.

SPUNTI PER LA RICOSTRUZIONE DEI FONDAMENTI DEL PRINCIPIO DI UNIFORMITÀ 75

Nel momento in cui la spinta uniformante ed accentratrice propria degli ideali rivoluzionari e del moderno Stato nazione si diffondono nel continente europeo

21, ecco però apparire le critiche al modello accentra-to ed uniforme di ispirazione francese. Già con Tocqueville

22 e Constant alcune delle più acute critiche al modello dell’uniformità occupano il campo del pensiero politico, seppure non riescono sempre ad incidere sul dibattito politico, né tanto meno ad influenzare i successivi sviluppi normativi

23. Il modello di riferimento resterà a lungo quello di uno Stato forte, accentrato, in cui poco spazio è lasciato alle autonomie, vedendosi nel rapporto diretto Stato-cittadino, non mediato od intralciato da corpi intermedi, una garanzia dell’effettività della volontà generale e della completa applicazione del principio di uguaglianza: è un modello in cui, ad ogni modo, i tratti autoritari del potere si faranno via via più nitidi

24. La fine dell’ancien régime è la fine di ordinamenti differenziati, di pri-

vilegi, è affermazione di uguaglianza dei cittadini (seppure, non ancora il superamento dei principi censitari), ma diviene anche affermazione di un modello di Stato forte ed accentrato

25, burocratizzato ed uniforman-

21 Sulla diffusione del modello d’oltralpe, cfr., oltre agli autori già citati (e con partico-lare riferimento all’esperienza della codificazione), R. SACCO, La circolazione del modello giuridico francese, in Riv. dir. civ., 1995, 515 ss., ma anche C. GHISALBERTI, Unità naziona-le e unificazione giuridica, cit.

22 Nel pensiero di Tocqueville (v., in particolare sul punto v. il Discorso pronunciato nella seduta di accoglimento all’Accademia di Francia, in Tocqueville. Dizionario delle idee, a cura di G. Pisanò, Roma, 1997, 115-116), per difendersi dai rischi connessi ad un potere eccessivamente centralizzato, era infatti necessario ripristinare e rafforzare una “visione pluralista della società”: dovevano essere potenziate ed istituite delle “stanze di compen-sazione” che includevano il decentramento di alcune funzioni del governo, ma anche la presenza di associazioni ed organizzazioni forti e indipendenti della vita politica e socia-le, che si interponessero tra individuo e Stato (sul punto, cfr. D. HELD, Modelli di demo-crazia, Bologna, 1987, 119). La visioni pluralista di Tocqueville fu condivisa, in particola-re, da J.S. Mill: vedi, al riguardo, J.S. MILL, Saggio sulla libertà, Milano, 1981, 140 ss.

23 In tal senso, si segnalano nuovamente le riflessioni di B. CONSTANT (in ID., Antologia degli scritti politici, cit., spec. 125 ss.).

24 Così è per il bonapartismo, che, appropriatosi degli ideali rivoluzionari, li utilizza ai pro-pri fini, seppure non possa tacersi la portata modernizzatrice diffusa da Napoleone di pari passo con le sue conquiste militari. Sulla diffusione in Europa degli ideali rivoluzionari, già prima delle conquiste napoleoniche, cfr. J. GODECHOT, La Grande Nazione. L’espansione rivo-luzionaria della Francia nel mondo. 1789-1799, Bari, 1962. Sulle imprese napoleoniche e l’importanza avuta nella diffusione del modello francese, cfr. S.J. WOOLF, Napoleone e la con-quista dell’Europa, Roma-Bari, 1990.

25 Se questo è vero, è però anche vero come questo processo di accentramento parte ben prima della fase rivoluzionaria: dal punto di vista dell’amministrazione c’è continuità e non rottura tra ancien régime e Rivoluzione: cfr. F. FURET, Critica della rivoluzione francese, cit., 150 ss.; questo emerge, in modo particolarmente efficace, dalla ricca ricostruzione di S. MANNONI, Une et indivisible, cit., spec. 325 ss. In relazione ai processi di accentramento rea-lizzatisi già nel corso del ’600 ed ai processi di costruzione dello stato moderno, cfr. nuova-

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 76

te, spesso oggetto di critica da parte dei pensatori liberali: «la stessa leg-ge può convenire dove luci e risorse variano in proporzioni così ampie? Una legge uniforme pone il legislatore in una rigida alternativa: restringe-re i diritti di tutti a causa dell’incapacità di alcuni, il che è un’ingiustizia, o accordare diritti che alcuni sono incapaci di usare, il che è compro-mettere gli interessi generali […]»

26. L’argomentazione più forte a favore dell’uniformismo, quella della tu-

tela e garanzia del perseguimento dell’uguaglianza e dell’interesse gene-rale, viene ad essere essa stessa sottoposta a critica; ciononostante «l’unità, l’ubiquità, l’onnipotenza del potere sociale, l’uniformità delle sue regole»

27 continueranno a costituire il modello di Stato con il quale si confronteranno i pensatori più attenti della metà del XIX secolo. Si tratta dell’applicazione ad una realtà complessa, ma non quanto potrà esserlo la “società pluriclasse”

28 del secolo successivo, di un modello i-deale: l’uniformità e l’accentramento sono dei principi di riferimento per i partiti politici europei dell’ottocento («li si trova in fondo alle utopie più bizzarre. Lo spirito umano continua ad inseguire queste immagini anche quando sogna»)

29. L’idea, condivisa tanto da Constant quanto da Tocqueville, che la

frantumazione dei poteri sociali, che avevano caratterizzato il complesso mondo dell’ancien régime, «lasciasse ormai gli individui soli e disarmati di fronte al potere sovrano», diviene uno dei punti di attacco dei pensa-tori liberali al modello di Stato accentrato delineatosi negli sviluppi post rivoluzionari

30: il nesso “atomizzazione sociale-accentramento”, che pre-

mente G. RITTER, La formazione dell’Europa moderna, cit., 23 et passim. In questo senso v. anche S. CASSESE, Le basi del diritto amministrativo, cit., 35 et passim.

26 Così per Vivien (citato da L. VANDELLI, Poteri locali, cit., 32-33). 27 A. DE TOCQUEVILLE, Democrazia, cit., 787. 28 La nozione, è, come noto (e come già accennato), di M.S. GIANNINI (Il pubblico pote-

re, cit., 56 et passim.). 29 Così, di nuovo, A. DE TOCQUEVILLE, ult. op. cit., 787. 30 Per capire il significato del modello di società liberale, occorre in realtà distinguere

tra liberali della prima generazione e liberali della seconda generazione: i primi si erano posti il problema della libertà essenzialmente in termini di governo (sostenendo la solu-zione della “separazione dei poteri” e degli “equilibri costituzionali” al fine di limitare il potere regio), successivamente ci si accorse però che la vecchia separazione dei poteri non bastava più. Il rimedio venne allora trovato nella società civile, valorizzando la sua complessa articolazione (partiti politici e associazioni), sia rafforzando con una divisione verticale del potere le autonomie e le istituzioni rappresentative locali; cfr. N. MATTEUCCI, Il liberalismo in un mondo in trasformazione, Bologna, 1972, 80 e ss. In relazione allo spe-cifico campo delle autonomie locali (nella realtà italiana), vedi sin d’ora R. GHERARDI, Le autonomie locali nel liberalismo italiano: 1861-1900, Milano, 1984.

SPUNTI PER LA RICOSTRUZIONE DEI FONDAMENTI DEL PRINCIPIO DI UNIFORMITÀ 77

figura il successivo “individualismo estremo-tirannide” 31, spinge molti a

richiedere un rafforzamento ed una rivalutazione di quei corpi sociali intermedi, prime tra tutte le autonomie locali, in grado di ricostruire il tessuto sociale sconvolto dalla parentesi rivoluzionaria

32. Il discorso riveste carattere generale, non è cioè riferibile ai soli enti

locali, ma certo l’aspirazione giacobina e napoleonica ad un’uniformità totale, nel momento in cui eliminava alla radice il caos determinato da una molteplicità di regimi differenziati

33, concessi spesso da carte regie, operava un’estensione di un modello unico a sistemi fortemente diversi, creando le basi per quell’inefficienza complessiva del sistema che da più parti verrà ravvisata.

Il contenimento delle spinte centrifughe, momento forse fondamenta-le nella costruzione di una solida realtà nazionale, unito con ideali gia-cobini (che ben supportano uno Stato centrale forte ed autoritario in grado di assicurare una piena eguaglianza formale), combinando i ca-ratteri della legge generale ed astratta con modelli unici ed uniformi di azione dell’amministrazione e di organizzazione delle realtà locali, sono le forze “storiche” che portano alla affermazione di un modello di Stato, prima che di amministrazione, che si porrà come prototipo esemplare per numerose esperienze nazionali, non ultima quella italiana

34.

31 Così, nel dibattito francese dell’ottocento, Royer-Collard, prestigioso doctrinaire che più di ogni altro legò il suo nome alla battaglia per il decentramento, cercò di rilanciare la centralità e l’importanza delle “società naturali”: «il comune, come la famiglia, viene pri-ma dello Stato; la legge politica lo trova già, non lo crea» (citato da J.L. MESTRE, La ri-vendicazione della decentralizzazione in Francia nel XIX secolo, in N. MATTEUCCI-P. POM-BENI, L’organizzazione della politica, Bologna, 1988, 473 ss.). Per una sintetica ricostruzione del pensiero di Royer-Collard ed il suo influsso sul dibattito politico francese, cfr. S. MA-STELLONE, Storia del pensiero politico, cit., 289 ss.

32 In relazione al dibattito politico francese post-rivoluzionario sul tema delle autono-mie, si veda il ricco saggio di D. COFRANCESCO, Per una introduzione al dibattito sul mo-dello delle autonomie locali in Francia tra la fine della restaurazione ed il secondo impero, in Modelli nella storia del pensiero politico, III, Modelli di società tra ’800 e ’900, a cura di C. CARINI e V.I. COMPARATO, Firenze, 1993, 71 ss.

33 Sul punto, vedi anche l’incisiva polemica di VOLTAIRE (Contro il particolarismo giu-ridico, nell’antologia, a cura di P. COMANDUCCI, L’Illuminismo giuridico, Bologna, 1978, 161 ss.).

34 Come noto, seppure tra voci dissonanti, fu preferito il modello centralistico-uni-forme della Francia; cfr., tra gli altri, C. GHISALBERTI, Storia costituzionale d’Italia. 1848/1948, Roma-Bari, 1991, 87 ss., L. VANDELLI, Le autonomie territoriali, cit., 13 ss., nonché M.S. GIANNINI, I Comuni, cit., spec. 16 ss.; più specificatamente ricostruttivo del dibattito poli-tico dell’epoca, vedi R. RUFFILLI, Governo, Parlamento e correnti politiche nella genesi della legge 20 marzo 1865, in F. BENVENUTI-G. MIGLIO (a cura di), L’unificazione amministrati-va e i suoi protagonisti, Vicenza, Neri Pozza, 1969, 221 ss. Anticipando brevemente un problema che tratteremo successivamente, vale la pena di segnalare il dibattito, tra gli studiosi di diritto pubblico ed amministrativo, sull’opportunità di questa scelta: a soste-

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 78

3. Uniformità e superamento dei particolarismi giuridici negli Stati nazionali

L’originaria autonomia delle realtà locali, inizialmente contrapposta-si alla stessa sovranità statale, successivamente ricondotta in questa, ma comunque ancora in grado di esprimere, nel territorio nazionale, istanze e regimi in parte differenziati, cessa di colpo

35. Nella rivoluzione france-se arriva a piena maturazione quel processo di costruzione di uno Stato accentrato, propugnatore di un modello di eguaglianza

36 la cui compati-bilità con la complessità della società moderna, di cui pure si fa portato-re, entrerà in crisi nel corso dei secoli successivi

37.

gno del modello dell’uniformità in relazione al governo locale, e per un suo mantenimen-to, per tutti, cfr. S. ROMANO, Il Comune, cit. (per il quale pure “da un punto di vista a-stratto” potesse convenirsi sul fatto che «comunelli di centinaia di abitanti e città fiorenti, o magari la capitale, richiedono un ordinamento che tenga conto di queste differenze»: ivi, 510); in senso contrario, e quindi a favore dell’opportunità di consentire ai Comuni di avere discipline differenziate, cfr., fra gli altri, M.S. GIANNINI, ult. op. cit., spec. 28, G. ZA-NOBINI, L’amministrazione locale, Padova, 1936, e, successivamente di nuovo lo stesso M.S. GIANNINI, Il riassetto dei poteri locali, cit., 451 ss. (il quale afferma come non sia pos-sibile «rendere omogenei […] enti che per loro natura sono eterogenei»), nonché G. BER-TI, Crisi e trasformazione dell’amministrazione locale, cit., 681 e ss. e S. CASSESE, Tendenze dei poteri locali in Italia, cit., 283 ss.

35 Cfr., per tutti, L. VANDELLI, Poteri locali, cit., 14 et passim. 36 Sul modello di eguaglianza “rivoluzionario”, ovvero sul principio di egalité, molto è

stato scritto (specificatamente sul punto, cfr. i contributi in J. FERRARI-A. POSTIGLIOLA (a cura di), Egalité – Uguaglianza. Actes du colloque franco-italien de philosophie politique (Rome, 21 et 22 nov. 1988), Napoli, 1990). Si tratta, come accennato nel primo capitolo, di un modello di uguaglianza “formale paritaria”, ovvero “di fronte agli effetti ed alla for-za della legge”, la cui importanza può essere compresa appieno laddove si abbia a riferi-mento la situazione preesistente di differenziazione o, meglio, di “privilegio” quale mo-dello generale. Il rifiuto del modello preesistente è, allora, affermazione “rivoluzionaria” (e connotato essenziale dello Stato moderno) dell’eguaglianza di fronte alla legge. Sul te-ma, senza pretesa di esaustività, oltre ai riferimenti già citati vedi, per un quadro genera-le, F.E. OPPENHEIM, voce Uguaglianza, in Dizionario di politica, diretto da N. Bobbio, N. Matteucci e G. Pasquino, Torino, 1983, 121 ss.; C. CURCIO, voce Eguaglianza, cit., 511 ss. e, soprattutto, L. PALADIN, voce Eguaglianza, cit., 517 ss.; sullo specifico dell’uguaglianza formale (e paritaria), cfr. C. ESPOSITO, La costituzione italiana, cit., 26 ss.; più di recente, cfr. N. BOBBIO, Eguaglianza e libertà, cit., 20 ss.

37 In realtà l’idea di “un problema, una soluzione” è una caratteristica della modernità, cosicché il superamento della convinzione di poter ricondurre ad unità una realtà a pre-scindere dalla sua complessità entrerà in crisi attraverso il fenomeno che, nelle analisi delle scienze sociali, si ricollega alla nozione di “post modernità”: la crisi dell’assioma il-luminista della possibilità di “controllare ed ordinare razionalmente il mondo” che era stato condiviso da autori pure tra loro diversi, come Voltaire, Diderot, Condorcet, Hume, Smith, Comte, Saint Simon, Bentham e Stuart Mill, caratterizza l’evoluzione della società contemporanea (emersa, per D. Harvey, sul finire dell’800, questa tendenza troverà chiara affermazione intorno al 1915 (nella letteratura, con Proust, Joyce, Mann; nella musica, con Schonberg, Berg, Bartok; nella pittura con Picasso, Braque, De Chirico, Klee, Matisse

SPUNTI PER LA RICOSTRUZIONE DEI FONDAMENTI DEL PRINCIPIO DI UNIFORMITÀ 79

Una delle ragioni fondanti il processo in questione è l’affermazione dello Stato moderno, il quale passa attraverso il superamento dei parti-colarismi e dei privilegi locali, caratterizzanti, altresì, l’evo intermedio

38. Lo Stato moderno sorge, come in parte già ravvisato, attraverso un pro-cesso storico risalente e complesso, variabile in ragione delle diverse espe-rienze storiche. Nel suo affermarsi, comunque, porta con sé il supera-mento della realtà politica disgregata propria dell’antico sistema

39. La rilevanza del principio di uniformità può essere, invero, colta in-

nanzitutto partendo da questo dato fattuale: che esso si afferma su real-tà in cui la differenziazione, intesa sia come “autonomia” che come “pri-vilegio”, delle singole parti del regno era forte e radicata, e mira al supe-ramento ed alla eliminazione di questi privilegi ed anche di queste stesse forti autonomie

40. Uniformità ed accentramento non sono, evidentemente, concetti coin-

cidenti, posto che può esservi l’una senza l’altro: ma nell’evoluzione sto-rica degli Stati nazionali tendono spesso a coincidere, o almeno così è nell’esperienza francese ed in quella, ad essa ricollegabile, piemontese ed italiana. Né, uniformità amministrativa ed uniformità normativa devono per forza coincidere, tanto che vari autori, pur propugnando modelli dif-ferenziati di amministrazione, non mettono in discussione la necessaria uniformità legislativa

41.

ed altri; a livello di scienze sperimentali (Einstein) e sociali (de Saussure): cfr. D. HARVEY, La crisi della modernità. Riflessioni sulle origini del presente, Milano, 2002, 42-43.

38 Il superamento dell’antico regime è il punto di partenza (e di discontinuità storica) per ogni riflessione sulle realtà autonome: «[s]olo la rottura del sistema feudale e l’affer-marsi dello Stato moderno ha consentito […] di impostare su basi nuove il problema del riconoscimento di diritti di autonomia (come opportuna ed auspicabile differenziazione degli eccessi di uniformità degli ordinamenti unitari)»: cfr. F. MERLONI, Autonomia e li-bertà nel sistema della ricerca scientifica, cit., 110.

39 Così la monarchia “assoluta” è la vittoria del potere centrale sulla nobiltà come autorità tradizionale delle comunità locali: l’aristocrazia, domata, sotto Luigi XIV, dall’etichetta di cor-te, relegata nell’attività militare ed arruolata nell’amministrazione statale, perdendo la sua funzione e la sua legittimazione, inizia una parabola discendente che la Rivoluzione sancirà definitivamente; cfr. F. FURET, Critica della Rivoluzione francese, cit., 122 ss.

40 La stessa affermazione di una eguaglianza formale, quale era il postulato rivoluzio-nario della equiparazione “di fronte agli effetti e alla forza della legge” nasce da un conte-sto politico e sociale in cui esistevano «una pluralità di ordinamenti e, quindi, di principi giuridici: la legge da applicare era diversa, così come il Tribunale che l’applicava sulla ba-se della condizione personale del destinatario della norma» (cfr. J. GARCÌA MORILLO, Au-tonomia, asimmetria e principio di eguaglianza, cit., 103 ss.).

41 Policentrismo autonomistico ed uniformità normativa non appaiono, infatti, nelle con-cezioni dei pensatori liberali, necessariamente contrastanti: una unità articolata, policentrica e federalista è vista come garanzia nei confronti del potere accentrato, con Tocqueville, ma an-che nei confronti di un appiattimento frutto di un rifiuto della pluralità. L’uniformità ammini-strativa può, allora, non essere un rischio, laddove si veda nella «pluralità delle forme, delle

4.

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 80

In Francia, il modello, per come poi verrà definito, “prefettizio”, si svi-luppa gradatamente, prima nell’ancien régime per giungere a corona-mento, attraverso la rivoluzione, con Napoleone

42. In Italia, il percorso è differente e, in qualche misura, più traumatico, in ragione dello stesso processo di unificazione, realizzatosi tardi

43: se nel Regno sabaudo pos-siamo riscontrare una forte omogeneità (non senza spinte contrastanti) con il processo francese, in altre parti d’Italia percorsi diversi, e scelte differenti, verranno bruscamente deviati ed interrotti con l’unificazione del Regno e la conseguente estensione indiscriminata a tutto il territorio nazionale del modello piemontese (e, quindi, francese) dell’uniformità

44. Quale che sia stato il percorso attraverso cui si sono affermati, nei si-

stemi di ispirazione francese, i principi dell’accentramento e dell’uni-formità, certo è che, con il loro radicarsi, proprio mentre l’unificazione elimina progressivamente una pluralità di ordinamenti sovrani

45, l’an-tico sistema delle autonomie comunali, fondato su statuti speciali e re-taggio di una fase storica in cui queste realtà erano state protagoniste sulla scena politica, cessa definitivamente di esistere

46.

forze, dei principi, dei sistemi, degli interessi e delle tendenze, un fattore di vitalità e di pro-gresso». Cfr., in questo senso, P.J. PROUDHON, Contradictions politiques, in ID., Oeuvres com-plètes, Parigi, 1952, ed it. L’accentramento, in www.fedlib.it.

42 Sull’evoluzione di questo assetto di poteri pubblici, ci sia consentito rinviare nuo-vamente all’analisi di L.VANDELLI, Poteri locali, cit., 349 ss.; in tal senso cfr. anche S. CAS-SESE, Le basi del diritto amministrativo, cit., 35 et passim oltre al più volte citato S. MAN-NONI, Une et indivisible, cit., 262 ss.

43 Ordinamenti la cui “differenziazione reciproca” era in parte stata ridotta dalla circo-lazione del modello francese, sia come organizzazione accentrata dei pubblici poteri, sia come codificazione del diritto civile sul riferimento del Code Napoleon.

44 Una uniformità locale frutto, quindi, tanto di un processo di “circolazione di model-li giuridici” (tale che il modello “francese” era già, all’alba dell’unificazione del Regno, ampiamente diffuso nei diversi ordinamenti della penisola), quanto di un processo di “u-nificazione interna del diritto” (con la conseguente estensione a tutto il Regno del model-lo dell’uniformità). I due processi sono però tra loro distinti, come è evidente esaminando l’esperienza del Lombardo-Veneto. Da ultimo, in materia, si veda S. SEPE, I modelli orga-nizzativi, cit., 12 ss.

45 Se consideriamo l’ampiezza delle libertà di cui godevano i Comuni all’epoca delle città-Stato, dell’Italia centrale e settentrionale, che è arriva fino all’età delle Signorie, ci rendiamo conto che la storia dei Comuni, anzi, la storia dei loro poteri è stata caratteriz-zata da un continuo «processo di spossessamento» (M.S. GIANNINI, Il riassetto dei poteri locali, cit., 207).

46 L’affermazione dello Stato nazionale, realizzatasi progressivamente ed in tempi di-versi, coincide con la fine dell’antica libertà comunale, la quale resterà a lungo (e forse tuttora) nell’immaginario collettivo delle popolazioni locali, senza peraltro che si possa ravvisare una reale continuità tra i poteri locali quali oggi li conosciamo e le antiche real-tà comunali: quale che sia il momento storico in cui è possibile collocare questa frattura, certo è che tra l’antico comune e il comune contemporaneo non esiste continuità, se non una mera continuità “fisica”: in questo senso, vedi M.S. GIANNINI, I Comuni, cit., 11 ss. Va rimarcato, al riguardo, come già nelle trattazioni dell’inizio di questo secolo evidenzi-

SPUNTI PER LA RICOSTRUZIONE DEI FONDAMENTI DEL PRINCIPIO DI UNIFORMITÀ 81

Tale è, in realtà, la differenza dei soggetti in campo (tanto lo Stato quanto i poteri locali) che, per quanto suggestiva, sembra doversi negare ogni tendenza “circolare” di fondo: se il superamento delle differenzia-zioni locali e l’affermazione dell’uniformità e dell’accentramento statale segna la fine dei liberi comuni, il venir meno di questo accentramento e di questa uniformità (o la sua riduzione) non ne segna la reviviscenza

47. Nel momento in cui il Comune diviene, da ordinamento generale or-

dinamento particolare, «per il sorgere del nuovo tipo di ordinamento generale che è lo Stato»

48, i caratteri giuridici e politici dell’ordinamento giuridico delle culture cittadine scompaiono. Le libertà comunali, stori-camente autodifferenziate attraverso propri Statuti, per le quali prima era improprio utilizzare i concetti di uniformità e differenziazione, in quanto non correttamente riferibili a realtà sovrane diverse, e ad ordi-namenti quindi distinti

49, divengono progressivamente parti di un nuovo ordinamento a carattere generale, dal quale derivano i propri poteri e la propria autonomia: attraverso questo processo divengono ordinamenti particolari e vedono venir condizionati/ridotti i propri caratteri differen-ziali.

Si tratta di un sistema che si integra perfettamente non solo con il portato della Rivoluzione fatto proprio dal modello napoleonico, ma an-che con i tratti autoritari di questo, frutto in questo caso di una tradi-zione ancor più risalente, che non è difficile ricondurre alle più chiare

no la distinzione tra l’esperienza del Comune medievale, soggetto politico titolare di pote-ri originari di sovranità, e l’esperienza del Comune moderno, soggetto amministrativo, parte dello Stato unitario da cui trae legittimazione; cfr., in tal senso, S. ROMANO, Decen-tramento amministrativo, cit., 17 ss.; U. BORSI, Le funzioni del Comune italiano, in Trattato Orlando, II, parte II, Milano, 1908, 425 ss.

47 Seguendo l’avvertimento di M.S. Giannini, è, infatti, necessario resistere alla tenta-zione di cercare una circolarità di lungo periodo tra fenomeni profondamente diversi (“quasi vi fosse una continuità storica fra istituti di civiltà così diverse”): cfr. ID., Le Re-gioni: rettificazioni e prospettive, in E. ROTELLI (a cura di), Dal regionalismo alla Regione, Bologna, 1973, 177).

48 Cfr., ancora, M.S. GIANNINI, I Comuni, cit., 13. 49 Nel XIII e XIV secolo, infatti, come racconta Bartolo da Sassoferrato nella sua fa-

mosa definizione, il comune si presentava quale «civitas superiorem non recognoscens», dandoci l’idea della piena autonomia appartenente alle città. In quest’epoca, chiamata “età comunale”, «la città è al centro della nuova storia: praticamente padrona assoluta della sua sorte crea con piena libertà i propri ordinamenti, si dà proprie leggi (statuti), esercita la giurisdizione, impone tributi, batte moneta, stringe patti politici ed economici con altre città. Giuridicamente, secondo la concezione pluralistica dominante in quel-l’epoca, costituisce un ordinamento particolare nell’orbita dell’ordinamento universale del-l’Impero, del quale riconosce il potere, e al cui sistema normativo (jus commune) subor-dina e coordina il proprio (jus proprium)»: così F. CALASSO, voce Comune (premessa stori-ca), in Enc. dir., VI, 1961, 169.

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 82

affermazioni dello stesso assolutismo regio 50. Un modello, questo, nel

quale la presenza di ordinamenti differenziati, sorti spesso come dimen-sione aggregativa degli individui, generalmente intorno ad una autorità feudale

51 o ad un borgo 52, divenivano punti di tensione rispetto all’affer-

mazione di un principio di autorità unitario, riconducibile generalmente al Sovrano.

L’esigenza di ordinamenti uniformi, nei quali lo Stato garantisca a tutti i cittadini, indipendentemente dal territorio in cui risiedono, un eguale trattamento e nei quali, al contempo, vengono limitate le spinte centrifughe e le istanze autonomistiche, è connaturata ad una fase della vita degli Stati che, generalmente, coincide con la loro esigenza di af-fermarsi come tali, come ordinamenti sovrani legittimi ed unitari

53. Lo Stato moderno

54, sorto dalle ceneri di particolarismi localistici, esige, per la

50 Lo Stato moderno, inteso come ordinamento in un’impostazione kelseniana, ma an-che in un’ottica weberiana, come titolare, cioè, del legittimo utilizzo della forza, richiede la creazione di condizioni giuridiche e materiali per la propria affermazione. Per que-st’autore, come noto, il diritto è «quell’ordinamento legittimo la cui validità è garantita dall’esterno mediante la possibilità di una coercizione fisica o psichica da parte dell’agire diretto ad ottenere l’osservanza o a punire l’infrazione di un apparato di uomini espres-samente disposto a tale scopo»: cfr. M. WEBER, Economia e società, cit., 31.

51 La chiave fondamentale della crisi dell’aristocrazia del XVIII secolo, da cui prenderà forza la rottura rivoluzionaria, non va individuata nella sua chiusura alla società borghe-se in nome di una “feudalità” più immaginaria che reale, ma piuttosto nella sua apertura, «troppo larga per la coesione dell’ordine e troppo stretta per la prosperità del secolo: i due grandi retaggi della storia di Francia, la società d’ordini e l’assolutismo, entrano in un conflitto senza via d’uscita»: così F. FURET, Critica della rivoluzione francese, cit., 123.

52 Tra gli autori che hanno cercato di ricostruire il fenomeno della nascita e dello svi-luppo delle città come ordinamenti autonomi e della loro rilevanza ai fini dello sviluppo della società moderna, vedi M. WEBER, Economia e società, cit., spec. 540 ss. Per Weber, in sintesi, la città si caratterizza per il suo essere il primo momento di affermazione di un diritto non solo autonomo, ma razionale, ed in quanto tale moderno. La città medioevale nasce, in quest’ottica, come «svincolata da ogni autorità sovraordinata» (ivi, 205): è evi-dente allora come lo Stato unitario che si afferma voglia ridurre questi spazi di autono-mia o comunque ricondurli nel controllo statale. Sul sistema del diritto comune, cfr. F. CALASSO, Medio evo del diritto, cit., 410 ss.

53 Per la ricostruzione, anche a fini più strettamente giuridici, della nozione di Stato, si veda A. PASSERIN D’ENTREVES, La dottrina dello stato: elementi di analisi ed interpreta-zione, Torino, 1967, 48 ss.; nella sua ricostruzione teorica, Bobbio ritiene, altresì, che per definire lo Stato come lo conosciamo, si possa prescindere dall’aggettivo “moderno”, po-sto è solo con N. MACHIAVELLI (Il Principe, Milano, 1993, 5) che il termine “Stato” si af-ferma nell’uso corrente: «[c]osa aggiunge al significato pregnante di “Stato” l’aggettivo “moderno”, che non sia già nel sostantivo che infatti gli antichi non conoscevano?», cfr. N. BOBBIO, Stato, governo, società, cit., 56.

54 Lo Stato moderno in quanto tale, seppure diversamente realizzatasi nelle realtà na-zionali europee, inizia ad affermarsi nel corso del XV e XVI secolo. I vasti privilegi, le dif-ferenziazioni riconosciute a realtà locali come a corporazioni, sono un retaggio medioe-vale che rimarrà a lungo anche dopo la nascita degli Stati moderni, che pure opereranno

SPUNTI PER LA RICOSTRUZIONE DEI FONDAMENTI DEL PRINCIPIO DI UNIFORMITÀ 83

sua affermazione, un prezzo da pagare, che è riconducibile, tra l’altro, ad una riduzione della complessità

55 dei corpi intermedi, o comunque ad una loro riconduzione nello Stato

56.

La perdita del carattere originario del Comune e delle altre formazio-ni politiche territoriali non coincide però sempre con l’uniformazione del loro regime giuridico: spesso a territori o realtà specifiche resta rico-nosciuto uno statuto speciale e speciali privilegi.

Spesso, ancora, particolari privilegi e discipline differenziate vengono riconosciute a territori e Comuni non già per il loro carattere preesisten-te, ma con motivazioni e per ragioni diverse: si tratta quindi di processi, quello del superamento del pluralismo ordinamentale dell’età interme-dia e quello del superamento di regimi e discipline differenziate, che si sommano nel corso dell’epoca moderna senza per questo coincidere

57.

4. Il modello “tradizionale”: l’uniformità formale e di principio (e la differenziazione come eccezione)

Un modello nel quale garantendo una eguale disciplina giuridica del-le amministrazioni pubbliche si mira a (presume di) garantire l’unità del-l’ordinamento e l’uguaglianza dei cittadini, ma in misura non secondaria

una loro drastica riduzione. «A forza di concedere immunità a chiese, capitoli o abbazie, qualche volta, specie in Germania, anche a domini laici, di accordare privilegi d’ogni ge-nere a corporazioni ecclesiastiche, laiche e cittadine, d’ipotecare, vendere e abbandonare su larga scala ogni sorta di diritti della Corona, e infine di lasciare che i membri dei vari “ordini” dell’impero, soprattutto le città, i cavalieri o anche le corporazioni contadine, stringendo alleanze fra di loro, formassero uno Stato dentro lo Stato, la compagine di questo era andata sempre più disgregandosi»: cfr. G. RITTER, La formazione dell’Europa moderna, cit., 21.

55 Per il concetto di “riduzione di complessità”, si veda in particolare, la teorizzazione di F. CRESPI, Azione sociale e potere, Bologna, 1989.

56 Lo Stato, in quanto specie del genus ordinamento giuridico, ha un carattere diffe-renziale che è «la supremazia rispetto agli altri ordinamenti sussistenti nell’ambito nel quale agisce» (così per C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, cit., 22).

57 Il processo dell’accentramento e quello dell’uniformità non coincidono, seppure spesso si sovrappongono. Così, mentre è netta la linea di continuità tra ancien régime e rivoluzione per quanto attiene alle dinamiche dell’accentramento (ed in tal senso v. S. MANNONI, Une et indivisible, cit., 262 et passim), l’evento rivoluzionario segna una cesura più netta nell’ottica dell’uniformità: così i tratti distintivi del modello francese si afferma-rono in netta contrapposizione rispetto al sistema dei privilegi precedente, in cui ad ogni territorio corrispondeva o meno un diverso “privilegio” a seconda dei rapporti intercor-renti tra i signori locali e il sovrano. In merito v., tra gli altri (e nuovamente), L. VANDEL-LI, Poteri locali, cit., 15 et passim.

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 84

anche l’uniforme applicazione delle decisioni dell’autorità nazionali, che discendono come un fluido la catena gerarchica e piramidale, risente, evidentemente, di una visione semplificata della realtà, pacificamente ed efficacemente ordinabile entro schemi geometrici.

Si tratta, però, di un modello caratterizzato da una fortissima rigidi-tà, compatibile con sistemi fortemente omogenei quanto a tratti struttu-rali e condizioni sostanziali, evidentemente in difficoltà di fronte a realtà in cui luci ed ombre variano in maniera rilevante

58. Arriva, nondimeno, ad affermarsi un regime che richiede, ed esige,

una eguale disciplina giuridica per gli enti autonomi esponenziali (au-tarchici, usando una dizione più corretta se riferita ai fenomeni dell’epo-ca), sia sotto il profilo delle funzioni, dell’organizzazione, dell’attività.

In un simile modello l’uniformità acquista una portata generale, su-scettibile di deroghe che, proprio perché tali, non mettono in discussio-ne il principio, cui anzi finiscono per essere funzionali a questo

59. Un si-stema che assume come fondamento una uniformità che, in quanto tale, mal si concilia con le differenze reali esistenti, tollera, ma a ben vedere richiede, eccezioni che, senza metterlo in discussione, introducano al suo interno quei tratti di flessibilità (rispetto al differenziato reale) ne-cessari alla sua sopravvivenza. La differenziazione speciale, in deroga, è, cioè, valvola di sfogo di un sistema uniforme, ma non ne costituisce la negazione (come pure veniva rilevato)

60, essendone, piuttosto, un tratto funzionale.

L’insoddisfacente resa di un modello “a forte (ma non esclusiva) uni-formità” non porta, peraltro, ad un suo superamento, sia per la forza dei valori sottesi all’uniformità delle amministrazioni (e fusi con questa), ma anche per la difficoltà pratica legata all’assunzione di un criterio classificatorio efficiente ed obiettivo.

58 Come sostenne Constant, con una delle argomentazioni che restano a tutt’oggi tra le più incisive critiche al modello dell’uniformità, «una regola si falsa applicandola a casi troppo diversi e che il giogo diviene pesante se lo si mantiene uniforme in circostanze dif-ferenti» (cfr. B. CONSTANT, Antologia degli scritti politici, cit., 125).

59 La qual cosa è confermata dall’esperienza francese, dove il principio dell’uniformità amministrativa non è stato messo in discussione (ma anzi supportato) da regimi speciali per la Capitale (e dal 1982, con la legge n. 1169, per le tre maggiori città urbane: cfr. L. VANDELLI, Le collettività territoriali, cit., 305).

60 Già da U. BORSI (Regime uniforme, cit., 7 et passim).

SPUNTI PER LA RICOSTRUZIONE DEI FONDAMENTI DEL PRINCIPIO DI UNIFORMITÀ 85

5. Assunzione dell’uniformità amministrativa come valore (e sua “confusione” con l’uniformità normativa)

5.1. L’uniformità come uguaglianza dei soggetti dotati di autonomia

Storicamente uniformità delle pubbliche amministrazioni e esigenze di uguaglianza dei cittadini hanno finito per fondersi e confondersi, co-sicché si è finito per tutelare l’uniformità in sé, a prescindere dalla (o meglio presupponendo la) sua strumentalità rispetto all’uguaglianza. Né è derivata la tendenza ad apprezzare quest’uniformità «in se stessa, in-dipendentemente dalle cose cui si applica; come quei devoti che adorano la statua, dimenticando la divinità che rappresenta»

61.

Ed in effetti è in una specifica accezione del principio di uguaglianza, storicamente definita, che questo si fonde con il concetto stesso dell’uni-formità

62, tanto a fondo che tuttora sembra difficile scinderli: allorché si afferma l’uguaglianza di fronte alla legge a contrario, talché non vi siano più «per alcuna parte della nazione, né per alcun individuo, alcun privi-legio o eccezione al diritto comune» di tutto il popolo

63. Il concetto di uniformità è, quindi, definibile efficacemente solo in quanto si accom-pagni ad una lettura teorica, una seconda lettura che, storicizzandolo, ne determini l’effettivo senso e l’effettiva portata.

Perché il modello forte dell’uniformità ha ragioni antiche, ed affonda le sue radici in epoche in cui la rottura di una società di diseguali era passata attraverso l’uniformazione dei diritti, dei cittadini come dei ter-ritori, “in tutte le parti del regno”.

64 Come formidabile strumento di di-

61 A. DE TOCQUEVILLE, Gli effetti politici del decentramento amministrativo negli Stati Uniti, in ID., Scritti politici, cit., II, 113-114.

62 Il fondamento della generalizzata creazione di municipi derivava dal principio di égalité, ispirazione e fondamento della rivoluzione e si tradusse, nell’ambito amministra-tivo, in quello di uniformité che significò l’estensione a tutti i Comuni, indipendentemente dalle dimensioni, dello stesso ordinamento. Sul punto, cfr., tra gli altri, L. VANDELLI, Le autonomie territoriali, cit., 10 ss.

63 Merita, di nuovo, evidenziare, da un lato, come il regime prerivoluzionario fosse ca-ratterizzato da amplissimi spazi di differenziazione (su base territoriale e personale), dal-l’altro come alla legislazione accentratrice ed uniformatrice rivoluzionaria (e bonaparti-sta) non fu estranea l’esigenza politica di unità, «la percezione del principio di uguaglian-za, da applicare anche nell’amministrazione locale, affinché tutti i cittadini fossero sog-getti ad un eguale trattamento da parte delle autorità locali» (cfr. G. BERTI, Amministra-zione comunale e provinciale, cit., 32, il quale peraltro rileva come si trattasse di «una per-cezione evidentemente formalistica del principio stesso»).

64 La differenza giuridica delle diverse realtà locali è evidente allorché si abbia a rife-rimento il fatto che, nella realtà prerivoluzionaria, non solo i regimi locali erano i più va-ri, ma mancava lo stesso carattere di “necessarietà” degli enti territoriali: tanto che il “po-

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 86

sarticolazione di un modello fondato su privilegi e corporazioni, partico-larismi e localismi, che erano la regola e non l’eccezione, l’uniformità ha svolto un ruolo di rilievo.

L’uguaglianza di fronte alla legge è stata, allora, anche uguaglianza “di fronte alla amministrazione”, quindi, di converso, amministrazioni tra loro eguali, a prescindere da coordinate spaziali: il cittadino doveva, in virtù di una rigida applicazione di una egalité formale, potersi rappor-tare nello stesso modo di fronte allo stesso ente, a prescindere, in ultima istanza, dalle sue dimensioni, territoriali e personali.

L’affermazione di questo modello, riferito ai poteri locali, è stato, da un lato, frutto di questa spinta, dall’altro frutto di un autorevole, quanto non pacifico, accomunamento tra “uguaglianza dei cittadini” e “ugua-glianza delle collettività organizzate” composte dai cittadini stessi: se di-viene fondamentale per lo Stato che tutti i cittadini ricevano un uguale trattamento, allora è naturale che detta uguaglianza valga anche per le formazioni sociali dei cittadini stessi, in primo luogo i Comuni

65. Il fatto che l’uguale posizione di tutti i cittadini e l’uguale regime giu-

ridico degli enti pubblici diversi dallo Stato, ed in particolare dei Comu-ni, vengano apparentati nell’esperienza francese ed in una serie di espe-rienze, tra cui quella italiana, ad essa collegate, ha ragioni complesse

66. Emerge, in particolare, in una simile lettura

67, un retaggio del pouvoir local 68, come sostenuto da parte della dottrina giuridica della seconda

tere locale” era, nell’ancien régime, un “privilegio” concesso, di volta in volta, a determina-te zone. A partire dal decreto, già visto, dell’Assemblea costituente del 1789 («Il y aura une municipalité dans chaque ville, bourg, paroisse ou communauté de campagne»), le realtà mu-nicipali perdono, da un lato, le loro discipline speciali, ed acquistano, dall’altro, il carattere della necessarietà. Questa estensione “a tutto il territorio del regno” verrà operata, in Italia, con la legislazione del 1865. Sul punto, cfr. G. VESPERINI, I poteri locali, cit., 13 ss.

65 Tale posizione, affatto minoritaria nelle riflessioni dell’epoca e fino a tutta la prima parte del novecento, è chiaramente espressa da S. ROMANO (Il Comune, cit., 507): «quei medesimi motivi che avevano imposto la più rigorosa applicazione del principio di ugua-glianza tra gli individui, richiedevano che al principio medesimo non si venisse meno per le più elementari aggregazioni politiche di questi ultimi». Sul punto si veda, più recente-mente, S. CASSESE, Tendenze dei poteri locali in Italia, cit., 283 ss.

66 Questa impostazione risente, in effetti, anche della teoria, progressivamente supera-ta, del pouvoir local; al riguardo, cfr. S. ROMANO, Decentramento amministrativo, cit., 7, 19 et passim.

67 Fatta propria, tra gli altri, da un federalista come Proudhon, che mentre ritiene fon-damentale il riconoscimento delle realtà territoriali diverse dallo Stato, giustifica questa rivendicazione proprio in nome dell’uguaglianza tra i soggetti pubblici, non sottacendo quindi una condivisione di un modello di uniformità (ma non di accentramento): «[…] come i cittadini sono tutti uguali davanti alla legge e alle elezioni, le Città (cités), a loro volta, sono uguali nella sovranità e nel governo, come si conviene a personalità morali o a individualità collettive»: P.J. PROUDHON, Contradictions politiques, cit., 235-247.

68 La teoria del pouvoir local (su cui v., di nuovo, S. ROMANO, Il Comune, cit., passim)

SPUNTI PER LA RICOSTRUZIONE DEI FONDAMENTI DEL PRINCIPIO DI UNIFORMITÀ 87

parte dell’800: fuori da questa lettura, l’estensione ai soggetti pubblici, per analogia, dell’egalité riconosciuta agli individui appare oggi, ed è ap-parsa a molti, dubbia.

Questa riflessione ci permette, però, qualche precisazione. Quella con cui ci confrontiamo è l’uniformità (differenziazione) delle

amministrazioni non fine a se stessa, ma strumentale al controllo della loro autonomia, all’uguaglianza dei cittadini, all’unità del sistema. Ma accanto a questa, vi è un altro carattere della (stessa) uniformità, ovvero il suo essere espressione dell’uguaglianza degli enti, e quindi, in ultima istanza, garanzia per questi ultimi, a fronte di possibili differenziazioni eteronome (discriminazioni, privilegi)

69. «[N]on vi sarà che un unico diritto, per tutti i cittadini, ed in ogni parte

del regno»: il proclama rivoluzionario diviene, progressivamente, tutt’uno con i caratteri fondamentali dello Stato moderno

70; è a partire da questa af-fermazione che si affiancano, e finiscono spesso per fondersi, due principi non sempre, e non necessariamente coincidenti e correlati, quello dell’uni-formità normativa e quello dell’uniformità amministrativa.

71 Pure, come ampiamente evidenziato a livello dottrinale, la scelta del

confluita in parte nelle teorie sostenitrici del decentramento, vedeva nei Comuni le entità costitutive dello Stato, le quali godevano, secondo le teorie proprie del diritto naturale, al pari degli individui, di diritti inalienabili, di cui lo Stato non poteva appropriarsi («donde la conseguenza che anche agli enti locali spetta una sfera di attribuzioni proprie, per mo-do che lo Stato non può esercitare da sé medesimo tutte le funzioni che la pubblica am-ministrazione richiede», ivi, 17). La crisi del pouvoir local, e delle concezioni alla luce del-le quali nelle autonomie locali veniva vista l’espressione di un potere né propriamente pubblico, né privato, originario rispetto allo Stato e contrappeso di questo, è un portato del-l’affermazione dello Stato moderno, la cui struttura unitaria ammette poteri di imperio solo in quanto derivino dallo Stato.

69 La differenziazione eteronoma, operata dallo Stato o da altri soggetti (le Regioni), è infatti, come evidenziato, potenzialmente antagonista dell’autonomia, e rispetto a questa l’uniformità è stata vista tradizionalmente come strumento di garanzia, dagli stessi enti autonomi. In merito, tra gli altri, cfr. G. PITRUZZELLA, Municipalismo versus neoregionali-smo, cit., 654 ss.

70 Si è detto, in effetti, di come la scelta per l’uniformità fosse un portato dello stesso prin-cipio di uguaglianza, fortemente affermato a partire dalla Rivoluzione del 1789: la riven-dicazione dell’egalité è, nel pensiero dei rivoluzionari francesi, ma anche nella riflessione degli autori ottocenteschi, rivolta all’affermazione dell’uguaglianza di fronte alla legge di tutti i cit-tadini. Influsso nella costruzione di questo modello, fu dato, nel secolo XVIII, anche dalle teo-rie dei Fisiocratici e del loro allievo Turgot, che miravano ad uniformare i regimi amministra-tivi delle città e delle province, in modo autoritativo, per fare della nazione “un unico corpo” (sul punto, cfr. H. MOREL, Accentramento e decentramento, cit., 501 ss.).

71 Per quanto il “parallelismo” tra uguaglianza di fronte alla legge ed uniformità am-ministrativa, come vedremo, non appaia necessariamente obbligato, le affermazioni rivo-luzionarie, nel sancire la soppressione di ogni privilegio di natura territoriale e preveden-do una uguale normativa per “tutti i municipi del regno” (così nei decreti 4 agosto e 11 novembre 1789, e poi con il decreto 14 dicembre dello stesso anno), miravano in primo luogo a garantire l’uguaglianza tra i cittadini.

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 88

modello dell’uniformità, e la sua individuazione come strumento per ga-rantire l’uguaglianza, non era una scelta obbligata, né l’unica suggerita dai caratteri ordinamentali dei sistemi preunitari

72. Se l’estensione “analogica” dell’uguaglianza formale dai cittadini ai

poteri locali appare, ad oggi, in qualche misura criticabile 73, è anche in

questo processo che va cercata la ragione dell’applicazione del “parifor-me sistema”

74 agli enti territoriali minori, per come storicamente deter-minatasi nel corso del diciannovesimo secolo

75. Ma un diverso profilo contribuisce all’affermazione dell’uniformità

amministrativa come portato dell’uguaglianza formale: i cittadini trova-no garanzia dell’effettività della loro uguaglianza in quanto i diversi ter-ritori restino soggetti alla medesima normativa comune ed in quanto la loro posizione nei confronti di tutti i pubblici poteri resti la medesima ovunque essi si trovino ed indipendentemente da qualsivoglia coordina-ta spaziale. Allora l’uniformità amministrativa è lo strumento con cui più efficacemente si può garantire un’uguaglianza formale, alla luce del-la quale tutti i cittadini ricevano il medesimo trattamento

76.

72 Seguendo un solco di continuità le cui origini risalgono, a ben vedere, a fasi storiche precedenti la stessa rivoluzione francese, il modello “franco-sabaudo” dell’uniformità si è comunque affermato, travolgendo tanto le differenze tra ordinamenti che le differenzia-zioni infraordinamentali, laddove presenti (come nel Lombardo Veneto): secondo proces-si di unificazione del diritto ed, entro questi, di uniformazione delle realtà territoriali, si è definito un sistema (in via generale) scevro da (generali) differenziazioni normative rife-ribili agli enti territoriali, pure a fronte di difformità sostanziali rilevantissime, esaltate dalla disomogeneità culturale ed economica del paese, oltre che frutto di diversità, per territorio e popolazione, estreme.

73 Come rileva, già nel 1927, Borsi, l’analogia che si è preteso di ravvisare tra il princi-pio di uniformità (amministrativa) e quello di uguaglianza dei cittadini fissato dalle Carte costituzionali è in parte impropria, innanzitutto perché il principio di uniformità è ante-riore (cfr. U. BORSI, Regime uniforme, cit., 68).

74 Utilizzando la terminologia del programma tracciato da Vittorio Emanuele I nelle patenti del 31 dicembre 1815.

75 È in realtà complesso individuare con chiarezza dei caratteri condivisi in merito a quelli che, a seconda dei filoni di pensiero, venivano definiti pouvoirs o libertà locali: ca-rattere accomunante di queste concezioni, fondamentalmente giusnaturaliste, era nel ri-tenere che i Comuni, preesistenti allo Stato, godessero di una propria libertà imprescin-dibile e fossero, sostanzialmente, «soggetti che esistono indipendentemente dallo Stato» (cfr., seppur criticamente, H. KELSEN, La democrazia nell’amministrazione, cit., 62).

76 Le ragioni di una simile scelta, non possono però, a ben vedere, ricondursi solo ad esigenze “ideologiche” di uguaglianza, dei cittadini se non anche dei territori: in realtà le spinte all’uniformità sono più risalenti della stessa ventata rivoluzionaria, attraverso la quale, pure, l’uniformité e l’egalité sembrano fondersi. È lo Stato moderno, accentrato ed assoluto, delle monarchie nazionali a richiedere una riduzione delle differenziazioni terri-toriali che significa, anzitutto, riduzione del ruolo (e dei privilegi) delle aristocrazie locali: l’uniformità, della legge e dell’amministrazione è in primo luogo superamento di un si-stema che tradizionalmente l’aveva sempre negata («[…] questo concetto d’una regola uni-forme egualmente imposta a tutti i membri del corpo sociale, è come estraneo allo spirito

SPUNTI PER LA RICOSTRUZIONE DEI FONDAMENTI DEL PRINCIPIO DI UNIFORMITÀ 89

A fronte di un sistema statale disarticolato e disomogeneo, in cui il privilegio dei territori e dei gruppi sociali era la norma, non l’eccezione, l’uniformità (anche amministrativa) manifesta la propria forza di rottura ed è, per ciò stesso, fondamentale strumento per l’uguaglianza. È stru-mento, ancora, per la riduzione del ruolo e del peso dei territori che com-pongono lo Stato, e per questo garanzia, anche, della unità nazionale, lad-dove questa è giovane o ancora a rischio. Come un simulacro che si con-tinua ad adorare a prescindere da ciò che rappresentava, l’uniformità amministrativa diviene strumento e fine in sé, a prescindere dalla sua connessione con le esigenze di uguaglianza ed unità pure presenti nel si-stema, e quindi, in ultima istanza, a prescindere dalla sua capacità di ga-rantirne il perseguimento.

5.2. Uniformità delle amministrazioni come strumento per l’uguaglianza dei cittadini

Il fatto che, in realtà, una lettura complessiva del principio di ugua-glianza formale faccia riferimento ad una uguale disciplina di ciò che è uguale, ma anche, di converso, alla necessaria differenziazione normati-va di ciò che uguale non è, ci porta a dire come anche questa afferma-zione dell’uniformità amministrativa come conseguenza diretta e neces-saria dell’eguaglianza di tutti i cittadini possa essere vista come fondata su basi cedevoli.

Se tutto questo è vero, ciò non di meno è in questi processi, in questi collegamenti che trova maggiore forza l’affermazione della uniformità amministrativa.

Uniformità amministrativa che però, come già ravvisavamo, non na-sce in realtà con la Rivoluzione, né con le riflessioni che a questa hanno condotto: l’uniformità amministrativa è una linea di tendenza che parte, come già detto, con l’azione accentratrice delle monarchie nazionali, e che trova semmai nel suo collegamento con l’egalité rivoluzionaria mag-gior forza e maggior vigore, senza per questo coincidere con essa. Po-tremmo anzi, al riguardo, affermare come questo collegamento abbia inciso più a livello di convalidazione teorica del processo dell’accen-tramento e dell’uniformità, che non nel determinarlo concretamente.

Come si è infatti cercato di evidenziare, uno dei principi fondamenta-li da cui nasce il modello di stato moderno affermatosi progressivamen-

umano nelle epoche aristocratiche: esso o non l’accetta o lo respinge»: così A. DE TOC-QUEVILLE, La democrazia in America, cit., II, 785).

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 90

te nell’Europa occidentale è quello di uguaglianza: uguaglianza fra i cit-tadini e fra i territori che compongono lo Stato. L’affermazione del prin-cipio di uguaglianza nasceva quale risposta ad una società di privilegi, individuali e territoriali, in cui esistevano «una pluralità di ordinamenti e, quindi, di principi giuridici»

77. Il processo che ha condotto all’uniformazione normativa delle realtà lo-

cali, trova, quindi, fondamento tanto in ragioni ed affermazioni ideologi-che, quanto in spinte accentratrici proprie delle realtà statuali in via di progressiva affermazione. A questo, nell’esperienza italiana, vanno aggiun-te, come vedremo, esigenze di unità dello Stato recentemente unificato

78. Il timore per il pregiudizio per l’unità faticosamente raggiunta, sup-

porta e convalida il modello dell’uniformità 79. La scelta di un modello di

uniformità calato su situazioni profondamente diversificate, e su di una pluralità di ordinamenti preesistenti, sancisce l’affermazione di un si-stema che supportava l’unità, ma che, sull’impronta di Rousseau, vedeva anche nei particolarismi il rischio per l’uguaglianza dei cittadini: da qui la riduzione delle realtà locali e regionali, ed il rifiuto di un assetto fede-rale che avrebbe, di contro, potuto permettere in uno o più degli Stati membri l’impianto di una legislazione tendente a fomentare “le distin-zioni e la disuguaglianza”.

77 Cfr. J. GARCÌA MORILLO, Autonomia, asimmetria e principio di eguaglianza, cit., 103 ss.; la riflessione di Morillo, che abbiamo più volte ripreso, si evidenzia per il particolare rilievo che assume il “modello spagnolo” di regionalismo alla luce dei recenti interventi riformatori (progettati e realizzati).

78 Occorre ravvisare come la spinta data dall’affermazione del principio di uguaglian-za, la spinta accentratrice delle monarchie e poi degli Stati contro le tendenze alla disgre-gazione del sistema, si sommino ad una esigenza di ordine permanente, data dalle mag-giori opportunità offerte da un regime uniforme al fine di governare dal centro le struttu-re locali: in questo senso, cfr. G. VESPERINI, I poteri locali, cit., 14 ss. e, in particolare, M. NIGRO, Il governo locale, cit., 48 et passim.

79 Risalendo alle radici del pensiero politico ottocentesco su cui si fondano le più rile-vanti affermazioni del principio di uguaglianza, cardine dello Stato moderno, è anche per questo stesso principio che si afferma l’esigenza di una opzione unitaria e, al tempo, uni-forme. Vedi, in questo senso, il pensiero politico di Filippo Buonarroti: «[…] la moltepli-cità e la piccolezza di queste [piccole] repubbliche sono potentissimi ostacoli allo stabili-mento dell’uguaglianza, senza la quale la sovranità popolare se ne va in fumo» (in F. DELLA PERUTA (a cura di), Scrittori politici dell’Ottocento, I, Giuseppe Mazzini e i democra-tici, Milano-Napoli, 1969, 184 ss.); lo stesso Buonarroti disconosceva, inoltre, le differen-ze locali: «che le frivole distinzioni di esser nati a Napoli, a Milano, a Genova o a Torino sparissero per sempre tra i patrioti. Noi siamo tutti di un medesimo paese e di una mede-sima patria. Gli italiani sono tutti fratelli».

CAPITOLO QUARTO

SVILUPPO E DIFFUSIONE DELL’UNIFORMITÀ AMMINISTRATIVA LOCALE

NELL’ORDINAMENTO ITALIANO PREREPUBBLICANO

SOMMARIO: 1. Il Regno sabaudo e la diffusione del modello francese dell’uniformità amministrativa locale. – 1.1. Tendenze di fondo: continuità tra spinta accentratrice della monarchia e modello francese. – 1.2. La legge Rattazzi del 1859. – 2. Uniformità ed unificazione: il dibattito politico e la scelta dell’uniformità nella legislazione del-l’unificazione. – 3. Successivi sviluppi del modello: vere e presunte crepe nell’uni-formità amministrativa. – 3.1. Differenziazione organizzativa e differenziazione fun-zionale nel periodo prerepubblicano.

1. Il Regno sabaudo e la diffusione del modello francese dell’uni-formità amministrativa locale

Il tema dell’uniformità viene trattato, nel dibattito politico e giuridico successivo alle leggi di unificazione, principalmente con riguardo alla disciplina del regime degli enti (locali) omogenei, e questo con una at-tenzione che appare difficile ravvisare in altri periodi della vita del Pae-se, eccezion fatta, forse, per la fase attuale

1. L’attenzione al problema trae giustificazione, in effetti, dal particola-

re momento, storico e politico, tale che il dibattito dottrinale è espres-sione della percezione dell’importanza della scelta, nel momento stesso in cui si andava a farla, tra “regime uniforme” e “regime differenziale”, in relazione agli enti “autarchici” locali.

Si è detto, in effetti, di come l’opzione per l’uniformità fosse un porta-

1 Per una ricostruzione complessiva del dibattito dell’epoca, con particolare riferimen-to ai progetti di legge del Governo ed al dibattito su di essi, riferimento obbligato è l’opera di A. PETRACCHI, Le origini dell’ordinamento comunale e provinciale italiano, Vicenza, 1962. Si veda, ancora, per tutti: M.S. GIANNINI, I Comuni, cit., spec. 17 ss.

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 92

to dello stesso principio di uguaglianza, fortemente affermato a partire dalla Rivoluzione del 1789: la rivendicazione dell’egalité è, nel pensiero dei rivoluzionari francesi, ma anche nella riflessione degli autori otto-centeschi, rivolta all’affermazione dell’uguaglianza di fronte alla legge di tutti i cittadini

2. L’uniformità degli enti locali, ed in particolare dei Comuni, successi-

vamente estesa all’intero territorio nazionale, trova fondamento nella le-gislazione piemontese preunitaria, ed è quindi a questa che, pur breve-mente, dovremo fare riferimento

3. Le voci, dissonanti, rivolte ad affermare l’esigenza di una scelta in

senso diverso, attraverso l’affermazione di opzioni di tipo “differenziale a livello locale” ricorrono, senza apparire peraltro centrali nel dibattito intorno all’unificazione del regno: passano in secondo piano, anzi, ri-spetto alle richieste di riconoscimento di enti territoriali autonomi di maggiori dimensioni (Regioni, se non Stati federati)

4. Il dibattito in ma-teria è complesso, articolato, e si nutre di molteplici contributi, primo tra tutti quello di Cattaneo e della sua scuola

5. Tale dibattito non condurrà, peraltro, ad esiti normativi, cosicché il

modello che emerge dall’unificazione passa attraverso la riduzione delle realtà sovracomunali, la negazione di spazi di autodifferenziazione loca-le, l’uniformità amministrativa dei poteri locali: è su quest’ultimo aspet-

2 Per la ricostruzione del dibattito rivoluzionario e delle sue conseguenze, v. di nuovo, L. VANDELLI, Poteri locali, cit., 20 ss.; in tal senso si veda anche, tra gli altri, A. CERRI, Eguaglianza giuridica ed egualitarismo, cit., spec. 42-47.

3 Cfr., tra gli altri, C. GHISALBERTI, Storia costituzionale d’Italia, cit., 87 ss., nonché M.S. GIANNINI, I Comuni, cit., 16 ss.; R. RUFFILLI, Governo, Parlamento e correnti politiche cit., 221 ss.

4 Per una lettura complessiva del dibattito intellettuale dell’epoca in materia, cfr. R. GHERARDI, Le autonomie locali, cit.

5 Cattaneo, di cui sono note le idee federaliste, era un sostenitore delle realtà territo-riali autonome, in quanto autentiche espressioni della storia e della cultura delle parti di Italia: «il dialetto segna l’opera indelebile di quei primitivi consorzi, e col dialetto varia, di provincia in provincia, non solo l’indole e l’umore, ma la cultura, la capacità, l’industria, e l’ordine intero delle ricchezze. Questo fa sì che gli uomini non si possono facilmente di-sgregare da quei loro centri naturali. Chi in Italia prescinde da questo amore delle patrie singolari, seminerà sempre nell’arena» (C. CATTANEO, Per le Autonomie Locali, in ID., An-tologia di scritti politici, Bologna, 1978). Ma la cultura nazionale e sociale di Giuseppe Mazzini, fondata sul valore dell’unità organica del popolo italiano, ha avuto la meglio sul pragmatismo e sull’ispirazione federalista di Carlo Cattaneo: unificata dall’esercito pie-montese e da un nazionalismo nutrito di patriottismo conservatore e di aspirazioni maz-ziniane, l’Italia del 1861 ha già in sé il germe della propria successiva evoluzione. Per una riflessione sul pensiero federalista (ed autonomista) di Cattaneo, v., da ultimo, E. ROTEL-LI, L’eclissi del federalismo. Da Cattaneo al Partito d’azione, Bologna, 2003.

SVILUPPO E DIFFUSIONE DELL’UNIFORMITÀ AMMINISTRATIVA LOCALE 93

to, che mostrerà una straordinaria resistenza (come regola generale), che occorre soffermarci.

1.1. Tendenze di fondo: continuità tra spinta accentratrice della monarchia e modello francese

L’adattamento ad un regime uniforme di realtà locali storicamente dif-ferenziate, autodifferenziatesi in forza della loro autonomia, come anche eterodifferenziate attraverso carte e patenti regie, prende avvio, nel Pie-monte sabaudo, a partire dalla prima metà del 1600, per poi svilupparsi progressivamente nel corso del secolo successivo

6. Il sistema, che rag-giunge un certo grado di caratterizzazione già nella seconda metà del 1700, precisamente con il “regolamento dei pubblici” del 1775, è quindi, evidentemente, preesistente al “vento rivoluzionario” ed all’influsso che il principio dell’eguaglianza formale potrà avere nel secolo successivo allor-ché, comunque, il modello giungerà a pieno compimento

7. Si giunge, quindi, nel Piemonte preunitario, all’elaborazione «di un

nuovo generale regolamento per tutte le città e comunità […], onde con pariforme sistema vengano tutte amministrate»

8. Su come questo model-lo si radichi nell’esperienza sabauda, per poi venire esteso all’intero ter-ritorio nazionale attraverso le leggi di unificazione del 1865, non sareb-be il caso si soffermarsi a lungo, non fosse che la legislazione piemonte-se preunitaria risulterà, pur con progressive modificazioni, l’ossatura di base della legislazione comunale e provinciale italiana fino a tempi re-centi.

Le realtà locali giungono all’epoca delle rivoluzioni borghesi attraver-so secoli di assolutismo regio: il recepimento del modello dato dagli or-dinamenti francesi del Primo Impero sancisce una rottura definitiva nel-la continuità tra “Comune medievale” e “Comune moderno”, che però

6 I passaggi che portano alla progressiva affermazione di un regime uniforme, pren-dono avvio dai Decreti ducali del 16 aprile 1633 e 23 dicembre 1634, si sviluppano suc-cessivamente con il Regolamento del 1668 e con le Costituzioni del 1729 e 1770. Una buona definizione del modello è quindi già presente nel “regolamento dei pubblici” del 6 giugno 1775.

7 Come rilevato da A. DE TOCQUEVILLE (L’antico regime e la rivoluzione, cit.) nell’espe-rienza francese, anche in quella piemontese ritroviamo, a livello amministrativo, elementi di forte continuità nel senso di un sempre maggiore accentramento ed uniformazione del-le realtà territoriali diverse dallo Stato.

8 Così il Re Vittorio Emanuele I nelle Patenti del 31 dicembre 1815; cfr., in merito, U. BORSI, Regime uniforme, cit., 67.

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 94

non è che il completamento di un processo risalente nel tempo. La frat-tura data dal recepimento della legislazione imperiale francese è la cesu-ra definitiva rispetto all’esperienza dei liberi comuni

9. La trasposizione, in Italia, del modello francese relativamente agli

ordinamenti territoriali fu sostanzialmente immediata, e la Restaurazio-ne non rinnegò il modello: le classi al potere avevano, rispetto agli ideali rivoluzionari come tradotti nel periodo imperiale, gli stessi interessi. L’accentramento e l’uniformità (divennero e) restarono i cardini portanti del nuovo sistema, perché funzionali al moderno Stato e alle esigenze della borghesia che in questo si riflettevano.

Affermare che il modello venne recepito dalla legislazione sabauda per poi transitare, attraverso il processo di unificazione, in tutto il terri-torio italiano è vero, ma in parte scorretto: lo è, in particolare, perché non è solo attraverso al processo di unificazione che il modello francese viene ad essere fatto proprio dalle varie parti del futuro regno d’Italia. La (precedente) circolazione del modello giuridico francese, aveva contri-buito ad “avvicinare” le legislazioni dei diversi ordinamenti, il che con-tribuì a rendere meno traumatica l’unificazione, e questo non solo con riferimento al tema dei poteri locali

10. Il sistema accentrato ed uniforme, fondato sulla figura del Prefetto

11, è quello che la gran parte degli territori che comporranno il futuro Stato unitario applicavano e perseguivano sin dalla restaurazione

12. Ciò che cambia, e sensibilmente, con le leggi di unificazione non è già, quindi,

9 Il processo di costruzione dello Stato moderno, in Francia, si caratterizza per l’opera della Monarchia: i Re, però, come rileva M. Bloch, «riunirono la Francia molto più di quanto l’unificarono». Con l’annessione dei principati feudali (Provenza e Bretagna) al suo dominio, il Re promette di mantenere i loro privilegi: di fatto, fino alla Rivoluzione, la Francia sarà divisa tra “pays d’élections”, sottomessi all’amministrazione diretta degli intendenti, e “pays d’Etats” dotati di ampie franchigie ed autonomie. Sul punto, cfr. H. MOREL, Accentramento e decentramento, cit., 498 ss., ma anche S. MANNONI, Une et indi-visible, cit., II, spec. 148 ss.

10 Questo può riscontrarsi, in particolare, per quanto attiene al diritto privato: la circo-lazione del modello della codificazione napoleonica contribuì ad avvicinare la legislazio-ne dei diversi ordinamenti, favorendone quindi l’unificazione. Per un’accurata analisi dei processi che condussero all’unificazione, con particolare attenzione al tema qui accenna-to, v. C. GHISALBERTI, Unità nazionale e unificazione giuridica, cit., passim.

11 Il sistema viene generalmente definito, per l’appunto, “prefettizio”, anche a prescin-dere dalla denominazione scelta per l’organo statale con poteri sugli enti locali: in effetti, le terminologie sono eterogenee. In Piemonte, in effetti, esso rispondeva al nome di “In-tendente”, e così anche nel Regno delle due Sicilie; la terminologia utilizzata era di “Com-missario distrettuale” a Parma, di “Cardinale delegato” nello Stato Pontificio; ma la natu-ra era la stessa, di organo dello Stato con funzioni di controllo sugli enti locali.

12 Eccezion fatta per il Lombardo Veneto in cui si applica il sistema “differenziato” austriaco. Cfr., tra gli altri, M.S. GIANNINI, I Comuni, cit., 17 et passim.

SVILUPPO E DIFFUSIONE DELL’UNIFORMITÀ AMMINISTRATIVA LOCALE 95

pur con la rilevante eccezione ora accennata, il “modello” di riferimento, che resta il medesimo, quanto la disciplina positiva, che è, essa sì, appli-cazione generalizzata (e sostanzialmente immutata) della legislazione piemontese e sabauda

13. Risulta, in questo quadro, non omogenea l’esperienza del Lombardo

Veneto, nel quale era stato adottato il modello austriaco, in base al quale i Comuni venivano classificati per gruppi di importanza: a ciascun gruppo corrispondeva, quindi, un regime giuridico differenziato

14. In par-ticolare vigeva, in ragione dell’appartenenza alle diverse classi di Comu-ni, una differenziazione di regime che era, in primo luogo, differenzia-zione organizzativa

15 e diversa disciplina dei controlli “prefettizi”. Il modello lombardo-veneto, giudicato all’epoca macchinoso, combi-

nava quindi il regime prefettizio con differenziazioni ordinamentali col-legate alla dimensione ed all’importanza dei Comuni

16.

1.2. La legge Rattazzi del 1859

La legislazione accentratrice e, sul modello francese, uniformante contenuta nelle regie patenti di Carlo Felice del 1826, ridusse progressi-vamente le differenze (formali) ove esistenti, anche se al prezzo di una sempre maggiore limitazione delle prerogative locali. Con alterne fortu-ne il modello si consolida, sino ad arrivare alla legislazione preunitaria, nella quale il principio dell’uniformità trovò pieno compimento e piena realizzazione

17. Appare quasi incongruo, in un momento storico caratterizzato da

13 Così, tra gli altri, S. SEPE, I modelli organizzativi, cit., spec. 15 ss. 14 Cfr. S. ROMANO, Il Comune, cit., spec. 508-510. 15 Le classi erano tre: nei Comuni di prima classe (Milano, Venezia e le c.d. Città mu-

nicipali) trovavamo un Consiglio comunale di nomina del Governatore, che eleggeva una congregazione municipale (organo deliberativo) ed un presidente; le funzioni esecutive erano del Podestà, nominato dalla Corona su designazione del Consiglio. Nei comuni di seconda classe (con più di trecento estimati) il Consiglio eleggeva una Deputazione di tre membri, la quale riuniva le funzioni deliberative ed esecutive (della congregazione e del podestà nei comuni maggiori). Nei comuni di terza fascia non esisteva un Consiglio, ma un “convocato generale degli estimati”, il quale eleggeva una Deputazione, la cui funzione deliberativa era però subordinata alla presenza del commissario distrettuale. In merito ai controlli, questi erano di competenza del Commissario distrettuale per le ultime due fasce di Comuni, al regio delegato per i Comuni di prima fascia. Sul punto, vedi M.S. GIANNINI, I Comuni, cit., 19 ss.

16 S. ROMANO (ult. op. cit., 507) parlava, al riguardo, del modello della “classificazione”. 17 Cfr., in merito, innanzi tutto (e nuovamente) U. BORSI, Regime uniforme, cit., passim.

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 96

una gran velocità e volatilità dei sistemi normativi, fare riferimento ad una disciplina così datata, eppure è nella legislazione sabauda preunita-ria che rinveniamo la struttura portante del modello di ordinamento del-le autonomie locali che verrà esteso a tutto il Regno con le leggi di unifi-cazione e che resterà in vigore fino a tempi a noi recenti.

L’ispirazione della legislazione del 1859 al modello francese era non solo evidente, ma proclamata, e fu condotta a termine, in una situazione complessa ed in presenza di posizioni contrastanti, grazie ai pieni poteri concessi al Governo in virtù della guerra

18: la prevista annessione della Lombardia poneva, infatti, il problema dell’assetto dei pubblici poteri da dare a questa nuova parte del Regno. La legislazione, di chiara impronta piemontese e di espressa riferibilità al modello napoleonico, venne fissa-ta per regolare la “nuova realtà statale” che si stava costituendo

19. La scelta per il regime dell’uniformità degli enti locali risultava indubbia-mente nel solco della continuità rispetto alla tradizione ed all’evoluzione della legislazione piemontese, mentre segnava, come detto, una svolta rispetto al sistema ed al modello previgente in Lombardia.

Una disciplina, per quello che qui interessa 20, uniformemente appli-

cata a tutti gli enti locali. La legge Rattazzi è stata, da questo punto di vista, il massimo punto raggiunto in merito all’uniformità degli enti ter-ritoriali omogenei: ma è stata anche, come si è accennato, la normativa che nei suoi tratti fondamentali è rimasta in vigore, attraverso la legisla-zione dell’unificazione e la legge quadro del 1934, fino alla legislazione sulle autonomie del 1990

21.

18 La legge sugli ordinamenti comunali e provinciali che va sotto il nome di legge Rat-tazzi, fu emanata dal Governo in base ai pieni poteri concessi per la guerra: grazie a que-sti poteri fu approvata una normativa che si sapeva non gradita al parlamento. Sul punto, vedi A. PETRACCHI, Le origini dell’ordinamento comunale e provinciale, cit.

19 Nelle intenzioni del legislatore se è evidente il superamento del modello lombardo, ma neppure l’estensione ai nuovi territori della legislazione previgente nel Regno di Sar-degna Questo, perlomeno, nelle “intenzioni espresse”; sul punto, cfr. M.S. GIANNINI, I Co-muni, cit., 25.

20 Non è questa, evidentemente, la sede per fissare nella loro interezza i tratti essenzia-li della legislazione comunale e provinciale: merita comunque rilevare come la normativa in questione fissi le strutture dell’organizzazione comunale che poi verranno riportate dalla legge del 1865: il Comune organizzato su tre organi (Sindaco, Giunta e Consiglio), ciascuno con proprie competenze, ed i primi con competenze esecutive rispetto all’ul-timo; controlli generali di legittimità e speciali di opportunità; rigida distinzione tra spese facoltative e spese obbligatorie.

21 Nella nostra analisi non approfondiamo l’evoluzione dell’ordinamento nel periodo fascista, sia per l’impossibilità di ricondurre l’esperienza del ventennio nell’alveo dei valo-ri posti a fondamento della nostra Costituzione, ma anche per la sostanziale continuità dell’esperienza amministrativa (con eccezioni, beninteso, non irrilevanti, quali il venire meno dell’elezione del Sindaco); cfr. M.S. GIANNINI, ult. op. cit., 9 ss.; i tratti salienti della

SVILUPPO E DIFFUSIONE DELL’UNIFORMITÀ AMMINISTRATIVA LOCALE 97

Il passaggio dagli antichi ordinamenti statutari all’unico ordinamento legislativo giunge, qui, a coronamento: con l’estensione della legislazione in esame alle altre parti del Regno si assiste quindi alla «scomparsa di quelle differenze di ordinamento, proprie degli antichi comuni e conse-guenza naturale delle differenti condizioni demografiche ed economi-che»

22.

2. Uniformità ed unificazione: il dibattito politico e la scelta dell’uni-formità nella legislazione dell’unificazione

La legislazione del 1865, come è stato da più parti autorevolmente ri-levato, «accolse senza discussione il principio dell’uniformità dei Comu-ni»

23, ed uguale principio fu adottato per le Province. Scartato il proget-to “regionalista” di Minghetti

24, l’opzione che prevalse allorché si trattò di scegliere la legislazione con cui regolare i regimi locali nel Regno d’Italia, fu nel senso dell’applicazione di un modello fondato sulla figura del Prefetto e su quella “pariforme disciplina” di impronta napoleonica recentemente affermatasi in modo pieno e consapevole con la legisla-zione del 1859 in Piemonte. Una scelta che si tradusse semplicemente nella revisione della legge Rattazzi: e, di fatto, in una revisione modesta.

L’uniformità si afferma non tanto per forza propria, quanto per debo-lezza dello Stato italiano di recente formazione: al fianco della mancata scelta regionalista, e nel rispetto quindi dell’insegnamento di Rousseau, si decide, così, di “prevenire la disuguaglianza” dei corpi sociali inter-medi. L’uniformità cala, consapevolmente, su realtà sociali e politiche fortemente disomogenee, ed è evidente sin dall’affermazione normativa

disciplina scaturente da questa fase storica, sono come detto sostanzialmente riconduci-bile al modello sabaudo e vigente fino al 1990. Sulla continuità amministrativa del perio-do in esame, cfr. E. ROTELLI, Le trasformazioni dell’ordinamento comunale e provinciale durante il regime fascista, in Storia contemporanea, n. 1, 1973, 57 ss.

22 Così G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, cit., 210. 23 M.S. GIANNINI, I Comuni, cit., 31. 24 Minghetti presentò nel 1861, in Consiglio dei ministri, quattro progetti: riparti-

zione del regno e autorità governative, amministrazione comunale e provinciale, con-sorzi, amministrazione regionale. Per i documenti in merito, in particolare il dibattito che ne seguì alla Camera (16 maggio-18 luglio 1862), vedi C. PAVONE, Amministrazione centrale e amministrazione periferica. Da Rattazzi a Ricasoli (1859-1966), Milano, 1964, spec. 411 ss.; sul punto, si veda comunque A. PETRACCHI, Le origini dell’ordinamento comunale e provinciale, cit. e, più sinteticamente, G. BERTI, Amministrazione comunale e provinciale, cit.

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 98

della medesima disciplina per tutti gli enti locali, come questa stessa af-fermazione non tenga conto di differenze di fatto rilevantissime

25. «Disconoscendo esigenze di fatto, insopprimibili o per lo meno non

soppresse» in ragione di un riordino territoriale non operato al momen-to dell’unificazione, il regime dell’uniformità genererà, perciò, «inconve-nienti molteplici»

26. Ciò non di meno, l’uniformità si afferma perché funzionale, più ancora che all’uguaglianza tra i cittadini, all’unità del re-gno, da poco conquistata

27. L’uniformità transita, attraverso l’ordinamento sabaudo, nel nascente

Stato italiano e qui si radica e si cristallizza per oltre un secolo: o, alme-no, così verrebbe da dire ponendo l’attenzione sulle sole leggi fondamen-tali sull’ordinamento locale

28. Se l’attenzione si sposta, altresì, alle disposizioni speciali ed eccezio-

nali, che introducono, in specifiche materie o settori, delle differenzia-zioni, il discorso cambia; questo, in quanto si faccia riferimento, negli sviluppi successivi, non solo al “quadro formale”, ma all’effettivo regime “di fatto” degli enti locali, in particolare dei Comuni

29. Si tratta però, di problemi e sviluppi in parte successivi: quella cui si

assiste, nella fase storicamente conosciuta come unificazione del Regno, è, per quanto qui ci interessa, l’affermazione di una uniformità di “dop-pio livello”

30: da un lato, come si è cercato di evidenziare, si estende un modello di uniformità delle realtà locali minori comunque non alieno nel panorama delle legislazione degli Stati preunitari (eccezion fatta, come detto, per la Lombardia) attraverso l’estensione della legislazione

25 Così Marco Minghetti individuava il nodo essenziale del rapporto tra funzioni e isti-tuzioni locali: «[q]uanto maggiori sono le attribuzioni che si vogliono dare ad un Ente locale, tanto bisogna assicurarsi che esso abbia le forze corrispondenti a bene reggerle. Dico le forze non solo morali, ma materiali» (citato in Federalismo unitario e solidale, ri-cerca promossa dalla Fondazione Giovanni Agnelli, in web.rivista8.it).

26 Cfr. U. BORSI, Regime uniforme, cit., 70. 27 Su questo collegamento, si veda criticamente, da ultimo U. ALLEGRETTI, Autonomia

regionale e unità nazionale, cit., 9 ss. 28 In merito all’evoluzione del “modello francese” nell’epoca in esame (e non solo in

questa), cfr., diffusamente, L. VANDELLI, Poteri locali cit., 68 ss.; sul punto, più recente-mente, S. SEPE, I modelli organizzativi, cit., 14 et passim. Nella mancata scelta regionali-stica, incisero, nell’opzione per il modello “prefettizio”, timori politici: quello che ci inte-ressa, aldilà del dibattito, comunque rilevante, che all’epoca si sviluppò sul punto è però “il modello a regime”.

29 Risulta peraltro sin d’ora evidente come il modello dell’uniformità implichi, come corollario, delle “differenziazioni derogatorie”. In merito, cfr. L. TORCHIA, La modernizza-zione del sistema amministrativo, cit., 303 ss.

30 Rectius: uniformità come risultato dell’unificazione cui si somma l’affermazione del-l’uniformità come modello.

SVILUPPO E DIFFUSIONE DELL’UNIFORMITÀ AMMINISTRATIVA LOCALE 99

Rattazzi, dall’altro si eliminano le diversità ordinamentali di carattere nazionale senza riconoscere, di converso, possibili dimensioni differen-ziali di tipo regionale.

L’affermazione dell’uniformità si radica attraverso il sacrificio, quin-di, non tanto e non solo delle diversità locali, quanto soprattutto attra-verso la riduzione delle diversità regionali. Il dibattito preunitario sulle opzioni da seguire in merito alle libertà locali, passa quindi significati-vamente attraverso “la questione regionale”, la quale pure verrà superata in favore di un modello semplificato, uniforme ed accentrato, di chiara modellistica transalpina ed incardinato nella figura del Prefetto. L’ordi-namento giuridico del Comune, e più in generale “degli enti territoriali diversi dallo Stato”, risulta quindi sostanzialmente sottratto a fonti di autodifferenziazione, posto che esso risulta determinato quasi comple-tamente dalla legge

31. Pur nel riconoscimento di fonti di autonomia, di cui non può peraltro

tacersi il carattere “esecutivo”, l’uniformazione delle autonomie territo-riali passa, anche, attraverso il disconoscimento di una loro sfera di de-terminazione del proprio ordinamento fondamentale: in una parola, nel-la negazione della autonomia statutaria dell’ente

32. La materia dell’orga-nizzazione comunale e provinciale resterà, a lungo, oggetto di riserva al-lo Stato

33.

31 La posizione del Comune rispetto all’ordinamento statale viene, in quest’epoca, in-quadrata non nella “autonomia”, quanto nella “autarchia” In generale su questo concetto, cfr. S. CASSESE, voce Autarchia, in Enc. dir., IV, 1959, 324 ss. e F. ROVERSI MONACO, voce Autarchia, in Enc. giur. Treccani, IV, 1988.

32 Cfr. G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, cit., il quale, in riferimento al mo-dello determinatosi in seguito alle riforme in esame, afferma (siamo nel 1946) che se il Comune odierno possiede una limitata autonomia, questa riguarda solo alcune parti se-condarie della sua organizzazione e della disciplina dei suoi poteri» (ivi, 211): l’ordina-mento giuridico dei Comuni risulta infatti determinato quasi completamente dalla legge «ciò esclude che a tale ente sia oggi riconosciuto quel potere statutario che già fu proprio degli antichi comuni italiani» (ivi, 210).

33 In tal senso cfr. L. VANDELLI, Le autonomie territoriali cit., 16 et passim. Così si ve-dano le sentenze che, oltre un secolo dopo, ancora negavano spazi all’autodifferen-ziazione organizzativa locale (per tutte, TAR Piemonte, 25 luglio 1975, n. 198; Cons. Sta-to, sez. I, 31 ottobre 1975, n. 2242, per le quali risultava emessa in carenza di potere una delibera comunale istitutiva di nuovi organi, non previsti dalla legislazione vigente).

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 100

3. Successivi sviluppi del modello: vere e presunte crepe nell’unifor-mità amministrativa

3.1. Differenziazione organizzativa e differenziazione funzionale nel perio-do prerepubblicano

Mentre il Comune diviene «organo dello Stato per ciò che attiene ai rapporti con gli individui, e suddito dello Stato, [...] per ciò che concerne invece la propria condizione»

34, si afferma e consolida un modello di uni-formità amministrativa (funzionale ed organizzativa) che subirà notevo-li deroghe, ma non verrà, per lungo tempo, messo in discussione.

La volontà dello Stato si sostituisce a quella dell’ente locale, così co-me gli interessi nazionali divengono prevalenti ed assorbenti sugli inte-ressi locali: l’esigenza di uguaglianza dei cittadini viene utilizzata per uniformare l’apparato amministrativo, la disciplina normativa diventa sempre più dettagliata, così da far corrispondere all’uniformità legislati-va quella amministrativa, quale eguale regime giuridico per tutti gli enti territoriali omogenei

35. Questa affermazione dell’uniformità appare tan-to più evidente in quanto si abbia a riferimento la legislazione dell’unifi-cazione come anche i successivi sviluppi della normativa “comunale e provinciale”, non ultimo il testo unico del 1934.

Il regime dell’uniformità, sia che tragga fondamento dall’afferma-zione del principio di uguaglianza formale, sia che basi la sua ragione di essere nell’esigenza di unità del sistema

36, sia che lo si intenda come ga-ranzia dell’uguaglianza degli stessi enti locali

37, resta, per oltre un seco-

34 Così G. BERTI, Crisi e trasformazione dell’amministrazione locale, cit., 683, per il qua-le «la naturale attitudine del Comune ad essere potere, a interpretare cioè esigenze co-munitarie e a soddisfare interessi generali, si tradusse in una posizione giuridica verso lo Stato […] e in una funzione di tramite della volontà statale verso gli individui che costi-tuivano nell’insieme il suo sostrato sociale».

35 Sul punto si veda, in particolare, G. BERTI, Commento art. 5 Cost., in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, I, Bologna-Roma, 1975, 277 ss.

36 Così, S. ROMANO, Il Comune, cit., ad esempio, temeva che differenziare l’ordina-mento dei comuni «avrebbe condotto al riconoscimento di una sopravvivenza, più o me-no completa, degli antichi singoli Stati nel nuovo», la quale sopravvivenza avrebbe potuto generare, se non uno Stato federale, «uno Stato di frammenti di Stati» (ivi, 506); con di-verso approccio v. anche U. ALLEGRETTI, Autonomia regionale e unità nazionale, cit., 9 ss.

37 In tal senso si veda, in particolare, S. ROMANO, ult. op. cit., 507: «come la compagine […] dello Stato italiano non avrebbe tollerato distinzione assolute e insormontabili nelle relazioni di sudditanza dei cittadini […] medesimamenteessa non avrebbe comportato differenze specifiche in quelle relazioni di sudditanza qualificata che stringono la massi-ma comunità politica con le altre minori, e, specialmente, coi Comuni».

SVILUPPO E DIFFUSIONE DELL’UNIFORMITÀ AMMINISTRATIVA LOCALE 101

lo, un principio generale del sistema dell’autarchia (prima) e (poi) del-l’autonomia locale.

Si tratta, però anche, di un principio che, come spesso accade, riceve nel corso del tempo tante e tali deroghe puntuali e speciali, da far affer-mare, già nella prima parte del secolo scorso, ad autorevole dottrina, come «il principio di differenziazione domina dunque ormai nella disci-plina giuridica degli enti locali»

38. La “rottura” dell’uniformità verrà af-fermata ripetutamente a livello dottrinale, ma a ben vedere la differen-ziazione (eteronoma) speciale, dichiaratamente eccezionale, straordina-ria, segue un modello “derogatorio” che non pone in discussione l’uni-formità, ma è anzi funzionale a mitigarne il rigore geometrico.

Uniformità come regola, differenziazione (ai margini del modello) co-me, non infrequente, eccezione; si attenua l’uniformità (come risultato), resiste l’uniformità (come principio e come modello). Si riduce, attraverso queste previsioni spesso puntuali, l’uniformità formale, ma aumenta la capacità del modello di fornire risposte a situazioni di fatto differenti.

Già nel primo quarto del secolo scorso si instaura una prassi che a lungo caratterizzerà il sistema italiano dell’uniformità amministrativa: il principio resta saldamente affermato nella legislazione fondamentale in tema di enti locali, quale cardine indiscusso di riferimento. Ma l’unifor-mità stessa risulta oggetto di continue deroghe, di specificazioni, di ec-cezioni contenute in legislazioni di settore o speciali

39. Un processo analogo a quello, però di diversa natura, che si realizza,

nello stesso periodo, attraverso il progressivo radicarsi di forme di inter-vento speciale, legislazioni “ad effetto territorialmente localizzato” (con le leggi per Napoli, del 1885 e del 1904, per la Calabria, del 1906, per la Basilicata, del 1908)

40, che segnano la comune incapacità di modelli ri-gorosamente uniformi (di legislazione, come di amministrazione) di go-vernare la complessità di una realtà sociale disomogenea

41.

38 Così U. BORSI, Regime uniforme, cit., 78; si tratta di una analisi che però, a nostro avviso, non evidenzia il dato di stretta consequenzialità tra “regola ed eccezione”: perché si possa parlare dell’affermazione di un principio di differenziazione, occorre che si rom-pa questo schema in favore di assetti più articolati, in cui la differenziazione assume ca-rattere di “generalità”.

39 Una puntuale elencazione delle differenziazioni giuridiche operate dalla legislazione della prima metà del secolo, e precisamente del periodo prerepubblicano, sarebbe opera-zione complessa e, comunque, difficilmente realizzabile in modo esaustivo. Ciò non di me-no, possiamo sin d’ora dare alcune chiavi di lettura ed di interpretazione del fenomeno. Si veda, in merito e per una ricca serie di esempi, U. BORSI, Regime uniforme, cit., 71 ss.

40 Discipline che segnano, per S. CASSESE, l’introduzione, nell’ordinamento italiano del principio della differenziazione amministrativa (ID., La nuova costituzione economica, cit., 12).

41 Il tema non è specifico oggetto della nostra analisi, ma non può essere sottaciuto:

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 102

Procedendo nell’analisi, è interessante riscontrare quali siano, nella legislazione del periodo, i “fatti differenziali” rilevanti: il criterio della “dimensione”, nel senso del numero di abitanti, appare prevalente, ma accanto a questo parametro, il legislatore ne assume, via via, senza un modello che appaia coerente, anche altri (dalla distinzione per classi di co-muni “urbani” e “rurali”, che richiama il criterio della popolazione, ma non coincide con esso, ad altri criteri “dimensionali”, cioè nel senso dell’esten-sione territoriale, a criteri fondati su elementi di tipo economico).

A queste differenziazioni “in astratto”, pur nella loro specificità, si aggiungono poi differenziazioni “in concreto”, allorché il legislatore si riferisce a determinati Comuni “nominati nella legge”: così, percorrendo un modello che ha avuto nella stessa Francia un certo seguito, preve-dendo una disciplina “di specie” per la Capitale

42. Quello che emerge, comunque, dall’analisi del periodo in questione, è

l’assenza di un modello “differenziale” che si contrapponga a quello del-l’uniformità: cosicché, possiamo dire che se, nella prima metà del XX seco-lo, il regime uniforme continua ad essere il modello di riferimento non è perché non vi siano differenziazioni, quanto piuttosto perché le, pure rile-vanti, “deroghe” (eteronome) all’uniformità si inseriscono, quasi a corolla-rio, in questo stesso modello che non è per questo posto in discussione.

Nel corso del periodo in esame, numerosi progetti di legge mirarono,

quello della “differenziazione speciale” (teoricamente transitoria) in relazione al Mezzo-giorno d’Italia. Il processo di differenziazione amministrativa del Mezzogiorno risale alla fine dell’Ottocento. Con l’unificazione, lo Stato italiano, in forza di modelli giuridici uni-versalistici, risolve il problema della zone a sviluppo ritardato del Meridione, attraverso l’opzione di fondo dell’uniformità amministrativa. Così, si eliminavano di autorità i disli-velli e i differenziali storici, sociali ed anche istituzionali ed amministrativi, ricorrendo ad un modello organizzativo uniforme. Proprio il Mezzogiorno, con la stratificazione di pro-blematiche e realtà specifiche emergeva però come il primo momento di crisi di questo modello, ponendo sotto discussione il carattere astratto e inconciliabile di una uguaglian-za delle strutture formali per situazioni a rilevantissima differenziazione materiale. Que-sto ha indotto, necessariamente, alla adozione di modelli differenziati a carattere, però, dichiaratamente “derogatorio” e “straordinario”. Sotto questa ottica, la crisi del principio di uniformità si stabilizza nella fase 1885-1908 e si consolida e allarga, fino al periodo fa-scista. L’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, nel 1950, avverrà su un terreno di interventi legislativi speciali già a carattere risalente. È con la prima cesura, avvenuta nel 1885, che il sistema amministrativo meridionale comincia a scrivere la propria storia spe-cifica all’interno della più generale evoluzione del sistema amministrativo italiano. Sulla necessità muovere dal riconoscimento di un sistema amministrativo ormai differenziato per trovare risposta alle problematiche delle istituzioni meridionali, v. M. CAMMELLI, Go-verno locale e sistema amministrativo nel Mezzogiorno, cit., 426 ss.

42 «Assimilando il principio di uniformité a quello fondamentale di égalité, i decreti del 1789 determinarono un ordinamento uniforme per tutti i Comuni, indipendentemente dalle dimensioni […] ad eccezione di Parigi, per cui si previde già nel 1789 un regime speciale» (L. VANDELLI, Le autonomie territoriali, cit., 15). Da ultimo, una previsione in certa misura analoga è presente, per Roma, ai sensi del riformato Titolo V Costituzione (art. 114, u.c.).

SVILUPPO E DIFFUSIONE DELL’UNIFORMITÀ AMMINISTRATIVA LOCALE 103

peraltro, partendo dal dato del carattere non soddisfacente di una nor-mativa uniforme a fronte di dati fattuali fortemente eterogenei, all’affer-mazione di una ripartizione dei Comuni in classi differenti

43. Nessuno dei progetti di legge risultò però coronato da successo, né quello fondato su una ripartizione normativa dei Comuni in base alla popolazione, né quelli che prendevano a fondamento altri criteri

44. L’idea della classificazione dei Comuni, resterà a lungo uno stimolo

ed un progetto di riferimento per i critici del modello dell’uniformità: in tutti i tentativi di riforma della legislazione comunale e provinciale ma-turati in questa fase, ma anche, frequentemente, nei progetti post-re-pubblicani, un’ipotesi di “classificazione” sarà un dato ricorrente. Meno pacifico, però, l’accordo su quali parametri assumere a fondamento di una divisione in classi: così, autorevolmente, Orlando segnalava l’astrat-tezza di una divisione dei comuni nelle due grandi categorie dei comuni “urbani o rurali” assumendo a metro la popolazione

45. Ed, in effetti, le difficoltà pratiche legate alla scelta di una classificazione

anziché un’altra, sono forse tra le ragioni che hanno consentito una perma-nenza così di lungo periodo del modello dell’uniformità: se la proposta di stabilire una classificazione tra i Comuni, allo scopo di tenere nel loro ordi-namento in debito conto la diversità delle condizioni di fatto, economiche e sociali, demografiche e territoriali, è stata molte volte avanzata in disegni legislativi, come ravvisava Santi Romano «non si può negare che ai vantag-gi che tale classificazione apporterebbe, farebbe riscontro una serie di in-convenienti non lievi, e ciò a prescindere dalle difficoltà, talvolta gravissi-me, alle quali si andrebbe incontro nella sua attuazione»

46.

43 Si segnalano, in particolare, nel periodo che va dall’unificazione ai primi del XX se-colo, i progetti di legge della Commissione parlamentare nominata dallo stesso Rattazzi (1867), il progetto Nicotera (1876), Rudinì (1887), Pelloux (1898) e Saracco (1901).

44 La Commissione del 1867, nominata dal Rattazzi, proponeva di dividere i Comuni in due classi, in relazione alla popolazione. Così anche la proposta della Commissione Nicotera (187) comprendeva nella prima classe i comuni con oltre 4000 abitanti, nella seconda i comuni con meno di 4000 abitanti, mentre il seguente progetto dello stesso Ni-cotera fissava come spartiacque la dimensione di 8.000 abitanti (anche sparsi, non neces-sariamente agglomerati). Di contro, possiamo rinvenire anche altri criteri di discrimine, quali la qualità di Comune capoluogo di Provincia e mandamento, ecc.

45 Così, per V.E. ORLANDO, «la qualità di città e di campagna, di comune urbano e ru-rale, discende da ragioni peculiarissime di cui la popolazione non è che un elemento mol-to accessorio. Ognuno potrà trovare da sé esempi di non pochi comuni italiani aventi in-discutibilmente carattere cittadino, che sono sede di elevati uffici pubblici, di Università, di Corti di Appello, di Arcivescovadi e la cui popolazione, intanto, non supera i diecimila abitanti; mentre viceversa agglomerazioni assai popolose, persino di trenta o quarantami-la abitanti, hanno tutti i caratteri distintivi dei comuni rurali» (ID., Principi di diritto am-ministrativo, Firenze, 1915, 188).

46 S. ROMANO, Il Comune, cit., 508.

UNIFORMITÀ E DIFFERENZIAZIONE NEL DIRITTO PUBBLICO. PROFILI TEORICI E STORICI 104

Ciò posto, pure a fronte di critiche mosse da più fronti, e di progetti di riforma via via succedutisi, il modello di derivazione franco-pie-montese, ovvero dell’uniformità amministrativa, venne intaccato da de-roghe ed eccezioni

47, senza per questo venire superato, quantomeno nel periodo in esame. In realtà, si scontava, da questo punto di vista, una duplice spinta, da un lato all’unità e dall’altro all’uguaglianza, in relazio-ne alle quali il principio di uniformità, amministrativo ed anche norma-tivo, venivano visti come funzionali

48. Il modello dell’uniformità (come regola) amministrativa locale non

verrà abbandonato nel corso del periodo prerepubblicano 49, e dimostre-

rà anzi una straordinaria capacità di resistenza, pure nella mutata cor-nice costituzionale.

47 Più radicalmente, alcuni autori ritengono che l’utilizzo di previsioni derogatorie e speciali, abbia condotto all’abbandono del modello dell’uniformità amministrativa, sin dalla fine del XIX secolo: così S. CASSESE, in relazione alle previsioni differenziate per il Mezzogiorno, dato che caratterizzerà la storia amministrativa italiana, afferma come l’uniformità «fu abbandonata, appena un ventennio dopo [l’unificazione] con le leggi e gli istituti speciali per le zone sottosviluppate» (cfr. ID., Le basi del diritto amministrativo, cit., 15). Lo stesso autore rileva, successivamente, come «si accentua la difformità ammi-nistrativa con l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno (1950)» (cfr., ivi, 19): in effetti, senza approfondire tematiche oggetto di successivi approfondimenti, pare più corretto ricondurre le tipologie di intervento dello Stato in modo diretto o attraverso enti stru-mentali al modello della “difformità”.

48 Tra gli altri, cfr., in questo senso, la lettura fatta (pure criticamente) da G. BERTI, Amministrazione comunale e provinciale, cit., 32: «fu forse anche facile affermare che il principio di uguaglianza giuridica non tollerava la sussistenza di ordinamenti liberi in confronto all’ordinamento statale e nei quali, senza il controllo dello Stato, potevano ope-rare delle leggi e dei regolamenti contrastanti con quello statale e risolventesi spesso nell’imporre discriminazioni tra i cittadini dello Stato, in conflitto diretto dunque con l’esigenza di libertà e di uguaglianza».

49 Possiamo infatti affermare come, in questa fase, che a livello storico e politico rien-tra in un arco ampio, dalla fase preunitaria all’avvento del fascismo Fase storica general-mente classificata, negli studi di storia dell’amministrazione, come “età del centralismo” (cfr., in questo senso, da ultimo, G. VESPERINI, I poteri locali, cit.).

PARTE SECONDA

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 106

TRATTI GENERALI DEL (TRADIZIONALE) MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ 107

CAPITOLO QUINTO

TRATTI GENERALI DEL (TRADIZIONALE) MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ

SOMMARIO: 1. Eguaglianza e pluralismo nel quadro costituzionale. Tratti generali del modello costituzionale dell’uniformità. – 2. Il “regionalismo dell’uniformità” nelle pre-visioni costituzionali e nella loro attuazione. – 2.1. Centralismo e autonomia nella ri-tardata istituzione delle Regioni. – 2.2. La ripartizione competenziale come determi-nazione della sfera (generale) dell’uniformità. – 2.3. Limiti alla differenziazione su ba-se regionale: brevi cenni sulla potestà legislativa ed amministrativa regionale e sui po-teri uniformanti dello Stato centrale. – 3. I fatti differenziali nell’ordinamento costitu-zionale: le Regioni speciali. – 4. Del (vero o presunto) carattere necessario dell’uni-formità delle amministrazioni pubbliche nel sistema costituzionale. – 4.1. L’unifor-mità delle pubbliche amministrazioni come applicazione del principio di uguaglianza: due percorsi per la sua esclusione. – 4.2. La necessaria uniformità “a partire dai dirit-ti”: uniforme disciplina dei diritti fondamentali e vincoli organizzativi all’uniformità (cenni introduttivi). – 5. Affioramenti del principio dell’uniformità amministrativa. – 5.1. Limiti all’autodifferenziazione regionale: riflessioni intorno alla potestà statuta-ria. – 5.2. I poteri locali come (presunto) archetipo del principio di uniformità nel si-stema costituzionale: legislazione generale e di principio, differenziazione eteronoma ed autonoma.

1. Eguaglianza e pluralismo nel quadro costituzionale. Tratti genera-li del modello costituzionale dell’uniformità

Come il principio di libertà si traduce, negli ordinamenti improntati ai valori del Costitituzionalismo, in principi di organizzazione

1, che a questa stessa libertà forniscono lo spazio entro cui svilupparsi, alla luce di garanzie “di diritto obiettivo”, lo stesso avviene per il principio di u-guaglianza.

Senza che nella Costituzione repubblicana ne emerga l’espressa men-

1 Anzitutto, quello di separazione dei poteri: cfr. C. SCHMITT, Dottrina della Costitu-zione, cit., spec. 173 ss.

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 108

zione 2, il principio di uniformità risulta radicato nella Carta repubblicana

del 1948 nel suo modello forte, che combina, come criteri entrambi gene-rali, l’uniformità normativa e quella amministrativa. Questo emerge dal sistema definito dal Costituente, ma più ancora dallo sviluppo di questo nella Costituzione materiale repubblicana fino a tempi recenti

3. Sotto queste forme, il principio di uniformità, quale omogeneità delle ammini-strazioni autonome e quale riduzione del potenziale differenziante insito nell’autonomia, pure riconosciuta, emerge, prima ancora che dal dato te-stuale, dalla sua traduzione legislativa e giurisprudenziale

4. L’uguaglianza, tradotta come principio organizzatorio dei pubblici

poteri, opera attraverso meccanismi storicamente determinati e definibi-li entro un sistema costituzionale dato, i quali delineano i tratti che, di fatto, l’ordinamento riconosce all’uguaglianza entro il territorio dello Stato policentrico. Se questo è vero, pure a fronte di una posizione di apertura nei confronti del pluralismo istituzionale e dell’autonomia, che emerge in primo luogo dall’art. 5 Cost., la traduzione dell’equilibrio tra questi valori e quello dell’uguaglianza delinea una prevalenza, non senza ambivalenze, di quest’ultimo

5. Ripercorrere gli affioramenti organizza-

2 La nozione ricorre, però, frequentemente nelle sentenze della Corte costituzionale. Una menzione espressa dei principi (o, meglio, di alcune delle loro manifestazioni) è al-tresì rinvenibile nelle tentate, e riuscite, riforme della Costituzione degli ultimi anni. La legge cost. n. 3 del 2001 prevede, sulla scorta delle riforme ordinarie (cfr. art. 4, comma 3°, legge n. 59 del 1997), un principio di differenziazione (e di adeguatezza, che definisce un fenomeno non dissimile) nel primo comma dell’art. 118 (in una declinazione “funzio-nale” del principio).

3 In tal senso v., ad esempio, S. MANGIAMELI, per il quale, con riferimento all’assetto costituzionale dei rapporti tra Stato e Regioni, «si può dire che in questa parte la Carta ha subito […] sin dall’inizio dell’esperienza regionale, una distorsione che non ha pari in nessun altro ambito della Costituzione» (v. ID., La riforma del regionalismo italiano, Tori-no, 2002, 44).

4 Per L. ANTONINI sono state essenzialmente tre le coordinate sulle quali si è svilup-pato il “regionalismo dell’uniformità”: quella della legittimazione delle leggi statali “non di principio” (ma di dettaglio) nelle materie di competenza regionale; quella dell’espansione della funzione di indirizzo e coordinamento; quello della legittimità del ricorso statale all’uso di penetranti poteri sostitutivi (ID., Il regionalismo differenziato, cit., 10 ss.). Sul punto cfr., tra gli altri, T. MARTINES-A. RUGGERI, Lineamenti di diritto regionale, Milano, 1992, 135 ss., ma già F. BASSANINI, Rapporti e tensioni tra Regioni e Stato, in E. ROTELLI (a cura di), Dal regionalismo alla Regione, cit., 200 ss. Sull’azione della giurisprudenza amministrativa, la cui portata uniformante è stata esaltata anche dalla scarsa resistenza dimostrata dal mondo delle autonomie, v. anche M.P. GUERRA, Orientamenti giurisprudenziali dei T.A.R. su contrattazione sindacale e autonomia rego-lamentare degli enti locali, in U. ALLEGRETTI-A. ORSI BATTAGLINI-D. SORACE (a cura di), Diritto amministrativo e giustizia amministrativa nel bilancio di un decennio di giuri-sprudenza, II, Rimini, 1987, 551 ss.

5 Così, sulla distanza tra art. 5 e Titolo V (ante riforma), v. A. ORSI BATTAGLINI, Le au-tonomie locali nell’ordinamento regionale, cit., spec. 381 ss.; G.C. DE MARTIN, L’ammini-

TRATTI GENERALI DEL (TRADIZIONALE) MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ 109

tivi di quest’equilibrio (e di questa prevalenza) significa esaminare il modello in cui si concreta(va) il principio di uniformità nel nostro ordi-namento

6. La Repubblica, la Costituzione, riconosce e promuove l’autonomia,

ma afferma solennemente l’uguaglianza: principi diversi, tutti articolati come valori fondamentali dell’ordinamento costituzionale, il cui com-plesso bilanciamento trova espressione e sviluppo nel corso di tutta la Carta repubblicana

7. L’uniformità (come principio) passa allora, ad un tempo, per l’unità

delle funzioni legislativa, normativa, amministrativa, garantita dalla gui-da centrale rispetto alle attività svolte ai diversi livelli; per la supremazia della legge statale, e quindi per il carattere generale, oltre che residuale, dell’azione normativa nazionale; per l’articolazione di strumenti di con-trollo, interno ed esterno, degli spazi di autonomia, improntati a valuta-zioni di legittimità, di norma, ma anche di merito

8. Il modello risulta, allora, quello dell’uniformità generale e della differenziazione ecceziona-le: questo si verifica tanto in relazione alla disciplina delle situazioni giuridiche dei cittadini sul territorio, quanto alla disciplina ordinamen-tale degli stessi soggetti (pubblici) dotati di autonomia. Si realizza attra-verso meccanismi e strumenti dell’uniformità, che qui ripercorreremo senza pretesa di esaustività, che delineano un modello di organizzazione dei pubblici poteri, nell’ordinamento repubblicano precedente alle più recenti riforme, orientato all’uniformità

9.

strazione locale nel sistema delle autonomie, cit., spec. 60 ss.; da ultimo, F. MERLONI, La leale collaborazione nella Repubblica delle autonomie, cit., 841 ss.

6 Fino agli anni ’90 del secolo scorso, quando inizia a parlarsi di “rottura dell’uni-formità” (così, in particolare, con riferimento all’art. 3 della legge n. 142 del 1990), e poi nel corso della XIII legislatura (dalla legge n. 59 del 1997 alla legge cost. n. 3 del 2001). Da segnalare, come detto, in tal senso anche i lavori della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali (c.d. “Bicamerale D’Alema”).

7 Il territorio nazionale è, in pratica, il confine del modello di uguaglianza delineato dal costituente, cosicché la “necessaria disuguaglianza” è quella tra cittadini (ed individui nel territorio) e stranieri (residenti all’estero), mentre nel territorio si persegue, attraverso l’articolazione organizzativa della Repubblica, una uguaglianza fortemente calata nei suoi tratti formali, prima ancora che sostanziali, pure a fronte di un riconoscimento di spazi di autonomia.

8 Il tutto senza pretesa, evidentemente, di esaustività. Un quadro schematico dei mec-canismi dell’uniformità è ricavabile incrociando le riflessioni di F. MERLONI, La leale col-laborazione nella Repubblica delle autonomie, cit., 829-831; S. MANGIAMELI, La riforma del regionalismo italiano, cit., spec. 43-45; F. TRIMARCHI BANFI, Il regionalismo e i modelli, cit., spec. 256 e 259.

9 Così F. TRIMARCHI BANFI, ult. op. cit., 256 (per la quale il sistema emerso dall’attuazione/ interpretazione del dettato costituzionale è quello di «[…] un ordinamento rigorosamente orientato all’uniformità»). Non diversamente L. ANTONINI, Il regionalismo differenziato, cit., 37, per il quale il regionalismo italiano è stato segnato «da una deriva verso l’unifor-

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 110

L’uguaglianza nel pluralismo passa, nel sistema che il Costituente suggerisce, attraverso l’uniformità delle amministrazioni (locali, ma an-che, di norma, regionali), e l’uniformità dei diritti pure negli spazi la-sciati alle autonomie (limitati e contenuti da vincoli e controlli, poteri statali e supremazia della legge del Parlamento): attraverso l’uniformità amministrativa e normativa.

Uniformità normativa che vive, in primo luogo, negli spazi, generali e residuali, sottratti all’intervento delle autonomie

10, nei caratteri della legge nazionale, e nella sua pervasività rispetto agli spazi pure assegnati alla legge regionale

11, nel contenimento, operato dalla Costituzione for-male, ma in misura non minore da quella materiale

12, del principio della competenza quale regolatore delle antinomie normative, in favore di un, pure implicito, principio di gerarchia sostanziale

13. Così il limite di merito (e poi di legittimità)

14 dell’interesse nazionale, ed il suo risvolto positivo, l’indirizzo e coordinamento

15, sottintendono

mità […] nella quale le Regioni hanno trovato spazi assai limitati per realizzare una “poli-tica delle differenze».

10 Quindi, non solo in tutto ciò che non rientrava nell’elencazione dell’art. 117, ma so-prattutto nel concreto spazio affidato (attraverso il ritaglio, la riduzione, la sottrazione) alle autonomie regionali. Quindi non solo l’elencazione, ma la concreta individuazione degli ambiti riconducibili ai “nomi” dell’art. 117 (definiti, prima della riforma, dal legisla-tore statale: cfr., per tutti, G. FALCON, Lineamenti di diritto pubblico, cit., 339: «non si può negare che tocchi al legislatore statale ordinario, nel momento in cui stabilisce i “principi fondamentali” della materia, di indicarne precisamente i confini» [corsivi dell’Autore]).

11 Nell’affermazione del costituente, «[l]e Regioni, infatti, “rompono” il monopolio le-gislativo del Parlamento nazionale» (così F. PIZZETTI, Federalismo, regionalismo e riforma dello Stato, cit., 56), ma la concreta portata di questa affermazione deve essere valutata tenuto conto, in particolare, dei «vincoli uniformanti che il legislatore statale può impor-re al legislatore regionale, ovvero [dei] limiti uniformanti che, comunque, le Regioni in-contrano nell’esercizio delle loro competenze legislative» (ivi, 57).

12 In questo si segnala, in particolare, l’azione della Corte costituzionale, che ha tradi-zionalmente operato «enfatizzando le ragioni dell’uniformità» (così F. PIZZETTI, ult. op. cit., 59): emblematica è la giurisprudenza che ha avallato la legislazione statale “di detta-glio” quando ciò risultava necessario alla garanzia dell’uniformità (in particolare, v. Corte cost., sent. n. 482 del 1995).

13 Per tutti, cfr. L. PALADIN, Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996. 14 In merito alla trasformazione dell’interesse nazionale in limite di legittimità, con le

conseguenze che ne sono derivate per l’autonomia regionale v., di nuovo, L. PALADIN, ult. op. cit., 324 ss.

15 tema sul quale molto è stato scritto, e qui non possiamo che dare alcuni riferimenti: S. BARTOLE, Supremazia e collaborazione nei rapporti fra Stato e Regioni, in Riv. trim. dir. pubbl., 1971, 84 ss.; sulla funzione di indirizzo e coordinamento, invece, in una prospetti-va diacronica, a partire dagli anni ’70, vedi L. PALADIN, Sulle funzioni di indirizzo e coor-dinamento nelle materie di competenza regionale, in Giur. cost., 1971, 189 ss; F. TRIMARCHI BANFI, Questioni formali in tema di indirizzo e coordinamento, in Regioni, 1990, 1711 ss.; P. CARETTI, Indirizzo e coordinamento e poteri sostitutivi nella più recente giurisprudenza

TRATTI GENERALI DEL (TRADIZIONALE) MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ 111

in particolare un modello nel quale la legge regionale non ha spazi riservati, e non può, dunque, mai esplicitare liberamente, ed in profon-dità, il potenziale differenziante insito nell’autonomia

16. Laddove ciò è possibile, questo avviene in virtù di espressi riconosci-

menti costituzionali di fatti differenziali, alla luce dei quali è attribuita una più forte potestà differenziante, che è, però, eccezionale prima an-cora che speciale, e comunque soggetta a limiti significativi: il modello dell’uniformità non è, per questo, posto in discussione.

Uniformità amministrativa, da intendersi tanto nelle sue declinazioni funzionali (le quali, pure, possono direttamente incidere sul versante “normativo”) ed organizzative.

La forma (amministrativa) è vista come variabile dipendente nella prospettiva dell’uguaglianza: la tutela di uguali diritti passa per ammini-strazioni uniformi (di norma non eterodifferenziate e limitate nella loro autodifferenziabilità).

Uguali sono, da quest’ultimo punto di vista, le amministrazioni auto-nome, salvo “eccezioni” (dichiaratamente speciali)

17, pure ammesse: i Comuni e le Province sono retti da una legge generale (che sarà a lungo il Testo Unico del 1934)

18, le Regioni ordinarie trovano puntuale regola-zione dei loro tratti fondamentali nella Costituzione stessa, ed ambigui sono i caratteri di reale autonomia della potestà statutaria. Le Regioni speciali sono, allora, l’eccezione (eterodisciplinata) che, come è evidente analizzando il modello stesso dell’uniformità, è funzionale ad un sistema che non mette in discussione la regola generale, pure nella sua rigidità.

della Corte costituzionale, in Regioni, 1992, 338 ss.; L. CALIFANO, L’irriducibile ascesa del-l’indirizzo e coordinamento, cit., 49 ss, sui poteri sostitutivi statali, v., a livello monografi-co, G. SIRIANNI, Inerzia amministrativa e poteri sostitutivi, Milano, 1991.

16 Di diverso spessore della potestà legislativa regionale dopo le recenti riforme parla G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V, cit., 1257.

17 La previsione delle Regioni ad autonomia differenziata (speciali rispetto alle Regio-ni ordinarie, ma anche tra di loro).

18 In base all’art. 128, dove, anche a leggere i lavori preparatori del Comitato di redazio-ne, sembra suffragata l’ipotesi che con l’espressione «leggi generali» si intendesse «impe-gnare il legislatore ad una disciplina uniforme per tutti i Comuni e Province, in modo che, rispettivamente, tutte le Province e tutti i Comuni siano posti su un piede di perfetta ugua-glianza di fronte alle leggi dello Stato»: così V. FALZONE-F. PALERMO-F. COSENTINO, La Co-stituzione della Repubblica italiana: illustrata con i lavori preparatori, Roma, 1954, 341.

5.

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 112

2. Il “regionalismo dell’uniformità” nelle previsioni costituzionali e nella loro attuazione

2.1. Centralismo e autonomia nella ritardata istituzione delle Regioni

La tutela del principio di uguaglianza non comporta, nel sistema co-stituzionale, assoluta uniformità: da un lato, evidentemente, la “diffe-renziazione di ciò che è diverso” non lede (ma realizza) questo principio, dall’altro il riconoscimento costituzionale del valore dell’autonomia, sancito dall’art. 5, è accettazione della differenza. Tale affermazione, af-fiancata al riconoscimento di potestà normativa (persino legislativa) a soggetti dotati di autonomia politica comporta, in questo senso, una “necessaria differenziazione” che non può considerarsi, ex se, lesiva del principio di eguaglianza. O meglio, i principi degli artt. 3 e 5 devono re-ciprocamente contemperarsi, e l’equilibrio del loro bilanciamento di-scende dalla traduzione organizzativa che ne viene data (e si manifesta nel principio di uniformità).

Da una prima lettura del (tradizionale) dato costituzionale, non sem-bra così netta la prevalenza (organizzativamente) accordata al valore dell’uguaglianza su quello dell’autonomia, od almeno questo non appare espressione di una spinta univoca: lo stesso riconoscimento di una pote-stà legislativa prefigura, in realtà, affermazione forte dei valori dell’auto-nomia (e della differenza)

19. La scelta, operata dal Costituente, nel senso dell’istituzione delle Regioni

nel nostro ordinamento, come anche nel senso, pure in parte obbligato, dell’affermazione di forme di regionalismo differenziato (rectius speciale), indica chiaramente un mutamento di prospettiva, tra i valori dell’unità e dell’uguaglianza, pure non discutibili, e quelli dell’autonomia. È stato, al ri-guardo, evidenziato come lo spirito autonomistico fosse forte tra i membri della Costituente

20, ma se questo è vero, ciò emerge più che non dal Titolo V della seconda parte della Costituzione, dai principi fondamentali della Repubblica, tra i quali si colloca, con evidente rilevanza, l’art. 5

21.

19 Al di là di tutte le limitazioni ed i condizionamenti che accompagnano questa scelta, è indubitabile che con «le Regioni si è voluto rompere la formula organizzatoria dell’accen-tramento, sia in sede normativa che in sede organizzativa» (così M.S. GIANNINI, Le Regioni: rettificazioni e prospettive, in E. ROTELLI (a cura di), Dal regionalismo alla Regione, cit., 192).

20 Per una ricostruzione, sintetica ma completa, degli orientamenti in seno all’As-semblea costituente, cfr. M.S. GIANNINI, ult. op. cit., 177 ss. e F. BASSANINI, Rapporti e tensioni tra Regioni e Stato, cit., 197 ss.

21 «Profonde trasformazioni democratiche sono implicate nello svolgimento dei prin-cipi fondamentali contenuti negli artt. 2, 3, comma 2° e 5 della Costituzione» (così, in re-

TRATTI GENERALI DEL (TRADIZIONALE) MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ 113

È nel riconoscimento di una autonomia legislativa, quali che siano gli stretti confini entro cui è circoscritta e quali che siano le forme di con-dizionamento volte a limitarne l’esercizio differenziato, che emerge la tensione verso i valori della differenza

22. Tale riconoscimento determina naturalmente aree destinate ad essere regolate, in modo diverso, attra-verso le fonti in cui detta autonomia si esprime.

Ma, come già rimarcato, ad affermazioni forti si accompagnano tra-duzioni organizzative che ne limitano la portata.

Se la potestà legislativa riconosciuta alle Regioni fa sì che possa esse-re differenziata, in certe materie, la posizione giuridica dei cittadini nel-le diverse parti del territorio nazionale, è in primo luogo nella predeter-minazione dei “luoghi” (oggetti)

23 di questa differenziazione possibile, prima ancora che nei meccanismi del suo condizionamento, che opera il principio di uniformità

24. Principio, questo, che si articola definendo una sfera di differenziazio-

ne, come insieme dei soli fenomeni conoscibili da parte della potestà normativa regionale: l’estensione qualitativa e quantitativa di tale sfera, il cui confine è dato dalle materie elencate, esprime la diffidenza del Co-stituente (e poi del giudice costituzionale) per quell’autonomia pure af-fermata

25. Un modello, questo, nel quale l’uniformità opera come criterio gene-

rale e residuale, e nel quale, quindi, è necessario non già individuare i limiti alla differenziazione, quanto la sfera entro cui la differenziazione stessa può manifestarsi: sfera ridotta (quantitativamente e qualitativa-

lazione al dibattito nell’Assemblea costituente ed in particolare al pensiero di Costantino Mortati, E. BALBONI, Le riforme della pubblica amministrazione nel periodo costituente e nella prima legislatura, in U. DE SIERVO (a cura di), Scelte della Costituente e cultura giuri-dica, II, Bologna, 1980, 227.

22 Così, in tema di autonomia statutaria dei Comuni e delle Province, è stata rilevato come il riconoscimento di autonomia sia «incompatibile con una normativa che, negando il principio, confermi o imponga a tutti i Comuni e le Province […] un’organizzazione co-stituzionale uniforme» (cfr. E. ROTELLI, Le Regioni, le Province, i Comuni. Commento al-l’art. 128, in Commentario della Costituzione, III, a cura di G. Branca-A. Pizzorusso, Bolo-gna, 1990).

23 “Oggetti” (rectius “materie”) definiti frequentemente, come noto, secondo criteri etero-genei: in base all’oggetto, all’attività, all’ente, all’istituto giuridico: in tal senso, come visto, v. già P. VIRGA, Problemi legislativi ed interpretativi, cit., 113 ss.

24 In questo senso v. F. PIZZETTI, Federalismo, regionalismo e riforma dello Stato, cit., 56 ss.

25 Vero è che «negli ordinamenti plasmati da moderno costituzionalismo la garanzia delle specificità non può tradursi nel disconoscimento dell’uguaglianza di tutti i cittadini nel godimento dei diritti fondamentali, sia civili che sociali» (così G. ROLLA, Differenzia-zioni regionali e riparto delle competenze: considerazioni riassuntive, in S. GAMBINO (a cura di), Stati nazionali e poteri locali, cit., 545).

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 114

mente), disponibile al legislatore statale 26 e, a valle di questo, comunque

condizionabile 27.

La forza di questo modello di uniformità, ed il suo radicamento, emer-ge, ancora, alla luce dell’analisi del regionalismo praticato dal nostro or-dinamento, come risultante dalla (ritardata)

28 attuazione delle disposi-zioni costituzionali, attraverso la normativa di istituzione

29 e con i suc-cessivi interventi, legislativi e giurisprudenziali

30. Vero è, peraltro, che la stessa fase istitutiva delle Regioni ordinarie,

pure attraversata da un ricco dibattito politico e culturale, non appare

26 Nel sistema prima delle più recenti riforme era riconosciuta al legislatore ordinario, proprio con riferimento alle competenze regionali, la possibilità di «aggiornare la Costi-tuzione senza alterarne la lettera» (così G. BERTI, La riforma dello Stato, in L. GRAZIANI-S. TARROW (a cura di), La crisi italiana, Torino, 1979, 483).

27 A monte opera la predefinizione (riduzione) della sfera della differenziazione, a valle i meccanismi del contenimento (nella sfera della differenziazione, a definirne i caratteri).

28 La prima fase del contenimento dei rischi percepiti nel riconoscimento di istanze autonome (da leggersi però, all’epoca, non necessariamente come percezione dei rischi della differenziazione, quanto anche «naturale riflesso accentratore di chi detiene il pote-re», ma forse soprattutto come «espressione di un atteggiamento ideologico di fondo» contrario all’apertura a nuove sedi di partecipazione democratica) precede l’istituzione delle Regioni e prende l’avvio già con la prima legislatura repubblicana. Qui il centrali-smo è realizzato prima ancora che dichiarato, ma emerge con evidenza «nella legislazio-ne e nella non legislazione, cioè negli atti legislativi approvati e in quelli che la costituzio-ne imponeva di approvare e che invece non [lo] furono» (così F. BASSANINI, Rapporti e tensioni tra Regioni e Stato, cit., 198, cui si rinvia per una più articolata ricostruzione del-l’evoluzione dell’ordinamento nel ventennio che ha preceduto l’istituzione delle Regioni ordinarie).

29 Il «secondo tempo della politica regionalistica (o antiregionalistica) […] si muove, appunto, su questo piano, nel tentativo di svuotare ogni potenzialità di rottura implicita nella riforma regionale» […] «facendone quasi delle Province di dimensioni […] maggio-ri» (F. BASSANINI, L’attuazione dell’ordinamento regionale tra centralismo e principi costitu-zionali, Firenze, 1970, 20). Una tattica di svuotamento dell’autonomia, che emerge chia-ramente nei progetti istitutivi, ma che era già stata anticipata dall’esperienza del regiona-lismo speciale, non solo a livello legislativo (con la legge Scelba e i decreti legislativi di attuazione degli statuti delle Regioni speciali) ma anche, già nel corso degli anni ’60, «dal-la giurisprudenza della Corte costituzionale, che è risultata per lo più compressiva o ri-duttiva dell’autonomia delle Regioni speciali» (cfr., ivi, 21).

30 In senso critico, rileva F. TRIMARCHI BANFI (Il regionalismo e i modelli, cit., 256) co-me il fallimento del regionalismo italiano «si deve al fatto che l’ordinamento che si è an-dato formando attraverso l’azione congiunta del potere politico e del giudice costituziona-le è un ordinamento rigorosamente orientato all’uniformità, vale a dire di un risultato che è auspicabile se è il prodotto di una omogeneità reale, ma che non può costituire l’obiet-tivo primario di un sistema fondato sul valore dell’autonomia». Soprattutto nella prima fase della sua giurisprudenza, la Corte costituzionale ha avuto un ruolo significativo nel contenimento delle istanze regionaliste, tratteggiando e poi consolidando, in nome dell’unità e indivisibilità della Repubblica, «il disegno di comprimere i pur timidi sforzi espansivi tentati nelle Regioni a statuto speciale» (così S. D’ALBERGO, L’antiregionalismo nell’indirizzo della Corte costituzionale, in E. ROTELLI (a cura di), Dal regionalismo alla Re-gione, cit., 168, che parla al riguardo di “cripto-antiregionalismo”).

TRATTI GENERALI DEL (TRADIZIONALE) MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ 115

contraddistinta da una ricerca di (una sede di) autonomia e differenzia-zione. Non è «il montare di una pressione di lealismo costituzionale»

31 o il rinascere di una coscienza regionalista che porta, nel corso degli anni ’70 all’istituzione e poi all’attuazione del sistema regionale: seppure di non semplice ricostruzione, i processi del rinato regionalismo italiano dell’epoca sembrano legati a ragioni politiche di ordine più contingente, ma soprattutto alla crisi della stessa amministrazione statale, che ri-chiede luoghi di decentramento di funzioni, poteri e, soprattutto, re-sponsabilità

32. Così, è nella ricerca di sedi che favoriscano il rilancio della program-

mazione (statale) 33, prima e piuttosto che in risposta ad istanze di auto-

nomia, ad esigenze di differenziazione, che trova nuovo slancio e realiz-zazione il regionalismo italiano

34. Un retaggio, questo, che avrà un peso significativo

35 nell’affermazione del regionalismo dell’uniformità nel no-stro paese

36.

31 Così, di nuovo, F. BASSANINI, Rapporti e tensioni tra Stato e Regioni, cit., 201. 32 Il tutto, in un periodo di grande tensione sociale: da qui la spinta a «togliere il pote-

re politico centrale dall’occhio del ciclone», proteggendolo «con una serie di comparti-menti stagni, di cuscinetti di protezione» (ivi, 200). Per il collegamento tra attuazione del-le Regioni e declino dello Stato, v. anche M.S. GIANNINI, Le Regioni: rettificazioni e pro-spettive, cit., 195.

33 In questo senso cfr. A. ORSI BATTAGLINI-D. SORACE, Finanza regionale e programma-zione, in Democrazia e diritto, 1973, 75 ss., per i quali nell’insufficienza del sistema di fi-nanziamento delle attività regionali era rintracciabile un modello nel quale la Regione, impossibilitata a divenire centro autonomo di programmazione, diveniva strumento dello Stato e, perciò, funzionale alla conservazione dello stato burocratico accentrato.

34 In tal senso v., ad esempio, S. BARTOLE, Le Regioni, Bologna, 1997, 17, che rileva da un lato come il terreno d’intesa per l’istituzione delle Regioni fosse stato trovato nella pro-grammazione economica (della quale la riforma regionale era ritenuta struttura portan-te), ma dall’altro come la programmazione, per come si realizzò, almeno inizialmente «accentuò l’orientamento accentratore».

35 Questo, peraltro, con la dovuta precisazione che la ragione per cui un’istituzione viene posta in essere non coincide necessariamente col “ruolo” che essa finisce collo svol-gere dopo la sua nascita” (così già E. ROTELLI, Dal regionalismo alla Regione, in ID. (a cu-ra di), Dal Regionalismo alla Regione, cit., 9): cosa particolarmente evidente alla luce della fase attuale del “regionalismo” italiano.

36 Per un quadro, sintetico ma complessivo, del bilancio della fase dell’istituzione dell’attuazione dell’ordinamento regionale, cfr., tra gli altri, D. SORACE, Le regioni italiane alla fine degli anni ’70, in Regioni, 1979, 521 ss.

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 116

2.2. La ripartizione competenziale come determinazione della sfera (genera-le) dell’uniformità

La ripartizione delle competenze è il luogo in cui, più che altrove, si definisce l’assetto tra ragioni dell’uguaglianza e ragioni della differenza: qui si definisce il primo, e più forte, confine tra uniformità e differenzia-zione normativa. Il confine potrà essere permeabile, attraversato, i con-dizionamenti potranno essere forti ed a volte mutare i caratteri stessi dei fenomeni: pure è questo il più rilevante momento in cui emergono (de-vono emergere) i fuochi dell’uniformità e quelli della differenza.

La delimitazione delle competenze manifesta, allora, tutto il suo caratte-re sostanziale

37, dal momento che, operando la “riferibilità di un oggetto ad un soggetto”, predefinisce l’assetto degli interessi e la loro cura

38. Tali regole di riparto risultano dall’art. 117 e dall’intero impianto del

(previgente) Titolo V, oltre che, secondo modalità diverse caso per caso, dagli statuti speciali

39: restando ad un’analisi generale 40, è quindi l’elen-

co delle materie di competenza concorrente regionale a costituirne la più evidente manifestazione

41.

37 Non è solo attraverso l’interpositio della legge «cui spetterebbe di inverare il conte-nuto delle disposizioni costituzionali», che dette disposizioni acquistano carattere sostan-ziale (v. S. MANGIAMELI, Le materie di competenza regionale, cit., 7 et passim, spec. 17-20).

38 Su come la regola di competenza dell’art. 117 sia stata vista come «inidone[a] a dare contenuto alla distribuzione della competenza concernente le funzioni legislative ed am-ministrative ed abbisognevol[e] della determinazione normativa di fonti sottordinate», v. S. MANGIAMELI, ult. op. cit., 11.

39 Da segnalare, peraltro, come anche le competenze fissate dagli statuti speciali siano state oggetto di “rilettura” da parte del legislatore, in sede di attuazione: si è in particolare riconosciuto come attraverso le norme di attuazione, lo Stato potesse precisare, interpre-tando ed integrando gli statuti speciali, le sfere di competenza statali e regionali (v. in particolare Corte cost., sent. nn. 14 e 15 del 1956, in Giur. cost., 1956, rispettivamente 627 ss. e 632 ss.).

40 È evidentemente impossibile, in questa sede, ricostruire con una sufficiente am-piezza i diversi limiti alla competenza legislativa regionale. Per una lettura sistematica dei quali ci sia consentito rinviare alla manualistica di diritto regionale (ed in particolare a L. PALADIN, Diritto regionale, cit., spec. 64-116; e, più recentemente, P. CAVALERI, Diritto re-gionale, cit., 139-192). Taluni limiti saranno peraltro ripresi, e riesaminati, nel corso del-l’esame del sistema come ridefinito dalla legge cost. n. 3 del 2001.

41 Si potevano, prima della riforma, individuare schematicamente quattro tipi di pote-stà legislativa regionale: esclusiva (o primaria, cui per semplicità riconduciamo anche la potestà legislativa “esclusiva” della Regione Sicilia, che, ai sensi dell’art. 14 dello Statuto, ha caratteri in parte propri), concorrente (o ripartita), attuativa ed integrativa-attuativa. La differenza tra le varie potestà discende dai limiti (via via crescenti), cui ciascuna è sot-toposta: uno schema che ne fornisce efficacemente il quadro può trovarsi in P. CAVALERI, Diritto regionale, cit., 141.

TRATTI GENERALI DEL (TRADIZIONALE) MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ 117

Il carattere chiuso di queste competenze 42, e gli ambiti materiali cui

risulta in grado di riferirsi 43 delineano un sistema in cui l’autonomia le-

gislativa, già prima dei meccanismi che ne opereranno il condiziona-mento, è oggettivamente

44 limitata. L’autonomia determina tra i cittadini, salvo che non si decida di aste-

nersi dall’esercitarla o che, piuttosto, essa non sia realmente tale, diffe-renti posizioni giuridiche di fronte alla legge (o meglio, in ragione della diversità di questa)

45. Spetta, allora, all’ordinamento predeterminare le sfere dell’uniformità, vale a dire gli spazi insuscettibili di differenziazio-ne, o a più ridotta differenziabilità: quelle materie in cui deve essere as-sicurata, in modo unitario, una parità di trattamento dei cittadini.

Ma la sfera della differenziazione regionale, già circoscritta a livello di Costituzione formale, è stata oggetto di profonda riduzione ad opera dell’attuazione e dell’interpretazione costituzionale: tanto che si è provocatoriamente ritenuto

46 trattarsi di «una pagina bianca, o quanto-meno di un tema da svolgere con ampia discrezionalità», ad opera del legislatore statale

47. Vero è che dall’orientamento legato alla (ritenuta) impossibilità di di

definire le materie regionali in via interpretativa 48 (confermata dalle la-

42 Che delinea il c.d. “limite delle materie”: da segnalare, peraltro, come il plenum del-l’Assemblea Costituente non solo escluse, rispetto alla proposta della II Sottocommissio-ne, la potestà esclusiva per le Regioni ordinarie, ma trasformò anche da eventuale a ne-cessario il limite dei “principi”.

43 Tutti legati ad una dimensione locale: le eccezioni dove vi sono discendono in larga parte dall’evoluzione dell’intervento pubblico, secondo modalità all’epoca non percepibili dal Costituente. Un rilievo, quello delle materie di competenza regionale, ritenuto dunque “generalmente modesto” (cfr. F. BENVENUTI, L’ordinamento repubblicano, in E. ROTELLI (a cura di), Dal regionalismo alla Regione, cit., 121).

44 Quanto ad oggetti. 45 Per una riflessione sul punto, con riferimento al sistema regionale italiano (tra teo-

ria e pratica), cfr. U. ALLEGRETTI, Autonomia regionale e unità nazionale, cit., 10 ss. e, di nuovo, F. TRIMARCHI BANFI, Il regionalismo e i modelli, cit., 255 ss.

46 Che si tratti “soltanto di una tesi o una proposizione polemica” è evidente, poiché diversamente perderebbe senso la costituzionalizzazione dei vari elenchi delle materie regionali (v. S. MANGIAMELI, Le materie di competenza regionale, cit., 13 [n. 45]).

47 Così L. PALADIN, Problemi legislativi e interpretativi nella definizione delle materie di competenza regionale, in Foro amm., 1971, 39.

48 Seppure in una prima fase la Corte abbia operato applicando, fin dove possibile, un criterio “normativo” od “oggettivo” (interpretando le diverse formule «secondo il signifi-cato che hanno nel comune linguaggio legislativo e nel vigente ordinamento giuridico»: Corte cost., dec. 66 del 1971), ha finito per prevalere un diverso metro, quello delle norme attuative statali, cosicché «le disposizioni dettate per fissare i termini e le forme del tra-sferimento delle funzioni amministrative hanno finito per condizionare l’esercizio delle parallele funzioni legislative regionali»: così L. PALADIN, Diritto regionale, cit., 84.

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 118

cune, dalle incertezze, dalle disarmonie nell’elencazione costituzionale delle materie regionali)

49, è discesa la (eccessiva, rispetto al dato testua-le) valorizzazione del legislatore statale ordinario, ritenuto competente ad operare le ragionevoli definizioni e ridefinizioni

50 dei settori 51. Tale

posizione, ampiamente avvalorata dalla giurisprudenza costituzionale e dalla legislazione ordinaria, per quanto oggetto di critiche

52, ha confer-mato la forza ed il radicamento dell’uniformità nel sistema.

53 Il ritardo nell’attuazione delle Regioni

54, ed una serie di altre dinami-

49 V. S. MANGIAMELI, Le materie di competenza regionale, cit., 13. 50 Non solo nel senso di “interpretare” gli oggetti elencati, ma anche nel senso di ride-

finirne il contenuto sulla base di scelte politiche: spetta «al legislatore statale ordinario […] di operare ragionevoli ridefinizioni […] sia pure nel duplice senso di allargare o re-stringere le competenze regionali in atto, secondo che le riforme legislative si muovano nell’una o nell’altra direzione» (così L. PALADIN, Il nuovo trasferimento di funzioni statali alle Regioni e l’attuazione della legge n. 382, secondo le proposte della Commissione Gianni-ni, in Regioni, 1976, 639).

51 «[P]er mezzo di valutazioni politiche», come ravvisa L. PALADIN, Problemi legislativi e interpretativi, cit., 39.

52 In particolare, S. MANGIAMELI, ult. op. cit., spec. 13 ss., fonda le critiche sull’art. 117, comma 1°, ultimo alinea, che riserva(va) alla sola fonte costituzionale gli interventi di ridefinizione degli oggetti di competenza regionale (ed in tal senso v. anche A. D’ATENA, L’autonomia legislativa delle Regioni, cit., 115 ss.), «ma soprattutto […] le voci enumerate, ben lungi dall’essere una “pagina bianca”, presentano una ricchezza di significato tale da poter fondare un procedimento logico di verificabilità dell’uso delle competenze, nel qua-le le materie regionali vengono in rilievo come canone di valutazione» (S. MANGIAMELI, Le materie di competenza regionale, cit., 15).

53 Questo emerge efficacemente dalla ricostruzione delle sentenze della Corte in me-rito all’interesse nazionale ed alla funzione di indirizzo e coordinamento (tema su cui, da ultimo, v. C. MAINARDIS, I poteri sostitutivi statali: una riforma costituzionale con (po-che) luci e (molte) ombre, in Regioni, 2001, 1357 ss.): giurisprudenza che ha progressi-vamente ampliato (v., tra le altre, la sentenza della Corte costituzionale n. 31 del 1983, con commento di G. MOR, Poteri e ruolo della Corte costituzionale di fronte alla specialità delle due Province autonome e alle interferenze statali sull’amministrazione regionale, in Regioni, 1983, 718 ss.; e le sentt. nn. 151 e 153 del 1986) la legittimazione dell’intervento statale a tutela di interessi nazionali non suscettibili di frazionamento (e di fronte ad una violazione della funzione di indirizzo e coordinamento). Ciò era espressione di una tendenza al superamento del principio della separazione delle competenze verso modelli di coordinamento e collaborazione (ma «non pariordinazione; lo Stato mantiene poteri di prevalenza e di uniformità»: F. MERLONI, La leale collaborazione nella Repubblica delle autonomie, cit., 833), a cui si è accompagnata la trasformazione definitiva dell’interesse nazionale da limite di merito a limite di legittimità.

54 Sul punto, cfr. L. PALADIN, La riforma regionale fra Costituzione e prassi, in AA.VV., Attualità e attuazione della Costituzione, Roma-Bari, 1979, 106 ss., il quale rileva non solo le problematiche che sono derivate dalla tardata istituzione delle Regioni, ma anche le lacune sia del Titolo V della Costituzione, che appare «la meno felice delle varie compo-nenti la Costituzione repubblicana» (ivi, 106, ed in questo senso cfr., da ultimo, F. MER-LONI, Il decentramento, cit., spec. 71) sia degli statuti delle Regioni speciali («basti dire che i primi quattro Statuti speciali sono stati adottati dall’Assemblea costituente in quattro soli giorni: con le conseguenze che tutti conoscono, a cominciare dal gravissimo scoordi-

TRATTI GENERALI DEL (TRADIZIONALE) MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ 119

che, politiche e sociali, su cui qui è impossibile soffermarsi, hanno con-dotto ad uno stentato insediamento delle maggiori autonomie territoria-li, affermatesi secondo un modello di “regionalismo dell’uniformità” che è stato oggetto di acute critiche

55. L’abbandono dello Stato accentrato, che ha caratterizzato la Costitu-

zione, non ha dunque condotto ad un riconoscimento delle autonomie come strumento per l’affermazione di una nuova e più forte unità nazio-nale

56: i timori sul possibile pregiudizio per l’uguaglianza dei cittadini, nonché una identificazione nell’autonomia regionale di un potenziale rischio per l’unità dello Stato, hanno fatto sì che si affermasse un model-lo di uniformità radicato tanto nella legislazione che nell’amministra-zione.

La logica che ha prevalso, a livello statale e regionale, è stata a lungo quella del decentramento (facente perno sempre sullo Stato)

57, piuttosto che quella dell’autonomia politica

58. Né il (vecchio) Titolo V è stato estraneo all’affermazione di un model-

lo che di fatto mirava al (o comunque consentiva il) contenimento di una effettiva differenziazione regionale, come espressione dell’autono-mia riconosciuta a questi enti.

L’esclusione di interi campi di normazione dalla competenza regiona-le pure nelle materie dell’art. 117 indica, più di altri aspetti, la diffidenza verso la differenziazione regionale, laddove in grado di incidere su fe-nomeni di dimensione non meramente locale, o comunque più stretta-mente legati al godimento di diritti sul territorio

59.

namento tra lo Statuto siciliano e la Carta costituzionale» (L. PALADIN, ult. op. cit., 108). 55 In questo senso, cfr. F. TRIMARCHI BANFI, Il regionalismo e i modelli, cit., 257 et pas-

sim. Nella stessa direzione, L. PALADIN (La riforma regionale, cit., 126) rileva come nelle materie di competenza regionale si sia provveduto all’emanazione di «leggi cornice” dalla trama «estremamente fitta, lasciando alla legislazione regionale puntuali funzioni attua-tive anzi confondendo in un solo contesto le disposizioni di principio con quelle di detta-glio».

56 Spunti in questa direzione emergono da U. ALLEGRETTI, Autonomia regionale e uni-tà nazionale, cit., che ravvisa il carattere gerarchico di un’unità costruita attraverso i limi-ti all’autonomia, mentre è forse possibile costruire un’altra unità fondata «sull’artico-lazione dei contenuti, il pluralismo dei rapporti, i poteri diffusi […] persino più efficace-mente che attraverso rigidi meccanismi centrali» (ivi, 14).

57 In questo senso, v. G. PASTORI, L’amministrazione regionale in evoluzione. Conside-razioni introduttive, in V. ANGIOLINI-L. VIOLINI-N. ZANON (a cura di), Le trasformazioni dello Stato regionale italiano. In ricordo di Gianfranco Mor, Milano, 2002, 279 ss.

58 Secondo una dinamica caratterizzata da «un doppio binario di rapporti Stato-Regioni e Stato-enti locali» (cfr. G. PASTORI, ult. op. cit., 281).

59 A questa resezione si accompagna, inoltre, l’ampio ricorso ai più diversi meccanismi di condizionamento dell’autonomia: emblematico è il caso della sanità.

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 120

Nel complesso dei tradizionali limiti alla potestà legislativa regionale, se ne possono rinvenire alcuni capaci di operare vere e proprie resezioni di parti di materie: limiti, quindi, rilevanti non già nel condizionamento della differenziazione, quanto nella definizione del confine tra sfera dell’uniformità e sfera della differenziazione (e questo proprio nelle mate-rie “regionali”). Il limite del “diritto privato”, ma anche quello della “mate-ria penale”, strettamente collegati ad esigenze di uniformità

60, hanno ope-rato definendo una sfera di uniformità in grado di sovrapporsi, per tratti non irrilevanti, alla sfera delle competenze regionali (la quale, quindi, non coincideva con la sfera della differenziazione, ma la ricomprendeva)

61. L’analisi della giurisprudenza costituzionale in relazione a questi limiti, non espressi, evidenzia un fuoco dell’uniformità normativa come coinci-dente con quelle regolazioni in grado di incidere «sugli attributi e sui beni fondamentali della persona umana»

62. Tale giurisprudenza si è radicata in una lettura delle riserve di legge come riserve “a legge dello Stato”

63, lad-dove ci si trovi di fronte alla disciplina dei diritti individuali 64.

In un simile sistema, la disciplina dei diritti, pure di fronte ad am-ministrazioni autonome, non muta nel territorio nazionale, almeno da un punto di vista formale

65. Se variazioni vi sono, queste sono, prima ancora che quantitativamente, qualitativamente di rilievo secondario: sia

60 L’ambito dei rapporti interprivati «[…] appartiene alla competenza istituzionale del-lo Stato, giacché ad esso sottostanno esigenze di unità ed eguaglianza che possono essere salvaguardate solo se è esclusivamente all’ente esponenziale dell’intera collettività nazio-nale è riconosciuto il potere di emanare norme in proposito» (Corte cost., sent. n. 154 del 1972). Da segnalare alcune episodiche aperture, laddove l’intervento regionale «non violi neppure indirettamente i principi civilistici» (Corte cost., sent. n. 35 del 1992).

61 Sfera della differenziazione che risulta data, entro le materie regionali, dai rapporti di diritto pubblico (rectius, amministrativo): così «la disciplina uniforme dei rapporti in-terprivati attiene all’unità dell’ordinamento statale […]» ed è come tale sottratta alle au-tonomie regionali «il cui ambito naturale è costituito dai rapporti di diritto pubblico» (cfr. Corte cost., sent. n. 72 del 1965).

62 Così Corte cost., sent. 21 del 1957, in materia penale. 63 Mediante affermazioni in una prima fase molto nette («la Costituzione quando rin-

via puramente o semplicemente alla legge la disciplina di una determinata materia, si ri-ferisce soltanto alla legge dello Stato»: Corte cost., sent. n. 4 del 1956), il cui rigore è stato poi parzialmente attenuato (così, in particolare, in riferimento alla riserva dell’art. 23 in tema di prestazioni patrimoniali, v. già Corte cost., sent. n. 64 del 1965).

64 In tal senso, v., oltre alla appena citata, la sent. n. 21 del 1957 della stessa Corte co-stituzionale.

65 Dal punto di vista sostanziale, altresì, questo modello non ha dato buona prova di sé: in tal senso v., da ultimo, L. ANTONINI, per il quale “il paradosso del metodo implicato nel regionalismo dell’uniformità, peraltro, è stato quello di non essere riuscito, nonostan-te i vari decenni d’applicazione, a garantire l’unificazione delle condizioni di vita (ID., Il regionalismo italiano nella prospettiva della differenziazione, in V. ANGIOLINI-L. VIOLINI-N. ZANON (a cura di), Le trasformazioni dello Stato regionale italiano, cit., 308).

TRATTI GENERALI DEL (TRADIZIONALE) MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ 121

in ragione del grado di differenziazione che di fatto si realizza (di mero dettaglio, di norma), sia delle situazioni in relazione ai quali si sviluppa (non toccando, in via generale, i diritti fondamentali e costituzionali)

66. Così, ancora, il limite territoriale, unitamente al limite dell’interesse

nazionale 67, ha operato su due fronti: da un lato condizionando l’eser-

cizio dell’autonomia regionale, ma dall’altro (cosa che qui maggiormen-te rileva), contribuendo a delimitare ulteriormente la sfera della diffe-renziazione (dovendosi limitare l’intervento regionale ad interessi «e-sclusivamente o almeno prevalentemente localizzati nel territorio»)

68. Al limite delle materie (che definisce la sfera delle competenze regionali in astratto), si sovrapponevano allora i limiti del diritto privato

69, della ma-teria penale

70 e processuale 71, del territorio e dell’interesse nazionale

72: tutto questo ha definito (riducendola) la sfera della differenziazione re-gionale.

66 Nella consolidata giurisprudenza costituzionale, i fondamenti dello Stato liberale mo-derno, la disciplina civile, penale e processuale, sono aree nelle quali l’uniformità normativa resta a presidio dell’unità dell’ordinamento, con conseguente compatibilità di differenzia-zioni ragionevoli, a carattere generale, ma solo in quanto operate dallo Stato. Così, in mate-ria civilistica, si è rimarcato come «solo allo Stato spetta di valutare, pur nel quadro della fondamentale unità della disciplina privatistica, la sussistenza di situazioni locali che giusti-fichino un regime razionalmente differenziato» (Corte cost., sent. n. 154 del 1972).

67 La Corte si riconosce la possibilità di verificare che «la natura dell’interesse posto alla base della disciplina impugnata sia, per dimensione o complessità, tale che una sua adeguata soddisfazione […] non possa avvenire senza disciplinare profili che esorbitano dalle competenze regionali […] e tuttavia sono necessariamente connessi con il tema og-getto della normativa in questione» (Corte cost., sent. n. 177 del 1988, che richiama la c.d. “infrazionabilità dell’interesse”).

68 Cfr. sent. n. 28 del 1958. Tale limite opera «per ogni materia e quindi anche per l’or-dinamento degli uffici e del personale»: v. Corte cost., sent. 96 del 1974.

69 Limite che, unitamente ai seguenti del diritto penale e processuale, possiamo uni-tamente definire come “limite costituzionale” (così, ad esempio, v. P. CAVALERI, Diritto regionale, cit.).

70 Così la materia penale, in particolare, evidenzia la necessità di un trattamento che tenga sì conto delle condizioni personali, ma che sia stabilito solo alla luce di una «gene-rale e comune valutazione degli interessi della vita sociale, quale può essere compiuta sol-tanto dalla legge dello Stato». Corte cost., n. 21 del 1975 (cfr. sul punto, P. CAVALERI, Di-ritto regionale, cit., 145 ss.)

71 Sulla forza di questo limite (con una riflessione suscettibile peraltro di riferirsi più in generale alle materie escluse dall’intervento regionale in virtù di una riserva di legge statale), tale da rifiutare “anche il semplice richiamo” delle fonti statali perché ciò ne co-stituisce comunque (l’inammissibile) “novazione” (evento che in altre circostanze era sta-to ritenuto possibile, data la natura di “mero rinvio”), v. Corte cost., sent. n. 303 del 1994, con nota di A. PIOGGIA, Rinvio e novazione, cit., spec. 7.

72 Limite, quest’ultimo, che giunge a configurarsi come un «presupposto di competen-za statale» anche nella materie regionali, e che diviene nella giurisprudenza della Corte un criterio normale per definire «sia lo spessore che l’estensione della competenza regio-nale» (così L. PALADIN, Diritto regionale, cit., 93).

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 122

Questo è frutto, in primo luogo, dell’orientamento giurisprudenziale della Corte, che ha inteso gli oggetti enumerati come scomponibili, risul-tandone diversamente affidati a Regioni e Stato i possibili modi di disci-plina

73. La sfera competenziale ne è risultata scomposta, e solo parte di essa è residuata nella sfera della differenziazione, sulla quale, pure, era-no chiamati ad operare ulteriori meccanismi di uniformità.

2.3. Limiti alla differenziazione su base regionale: brevi cenni sulla potestà legislativa ed amministrativa regionale e sui poteri uniformanti dello Stato centrale

L’uniformità ha operato, in misura non minore nella sfera, pure così ridotta, della differenziazione, come è chiaro dall’esame degli innumere-voli limiti che hanno caratterizzato l’esercizio della legislazione regiona-le proprio negli spazi, già angusti, ad essa affidati.

Il modello di Regione “ordinaria” radicatosi nel tessuto politico ed amministrativo del nostro paese si è caratterizzato per una forte tensio-ne all’uniformità: uniformità amministrativa, come avremo modo di evi-denziare trattando degli statuti regionali, ma anche uniformità normati-va, proprio laddove le Regioni avrebbero dovuto caratterizzarsi per la loro potestà di differenziazione nell’ambito dei principi fissati dalle leggi c.d. “cornice” dello Stato

74. Le cause di questa sostanziale omogeneità normativa nell’autonomia

legislativa, sono da ricercare nei caratteri della legge statale, nell’azione uniformante della giurisprudenza, nella stessa scarsa capacità innovati-va manifestatasi a livello Regionale

75; oltre ad altre e complesse concau-se, tra cui preme evidenziare lo stesso ruolo “centralizzatore” dei mag-

73 V. L. PALADIN, Diritto regionale, cit., 86-87: «svariate materie presentano tuttora un carattere “misto”, regionale o statale in dipendenza della prospettiva assunta».

74 Quanta parte abbia avuto, ai fini di questa evoluzione, la mancata attuazione delle Regioni ordinarie protrattasi per oltre un ventennio, è stato efficacemente evidenziato dalla dottrina (così, tra gli altri, P. CARETTI-U. DE SIERVO, Istituzioni di diritto pubblico, cit., 419: «questo ritardo avrà effetti ben più gravi di quelli immaginabili. In primo luogo, le Regioni ad autonomia particolare risultavano enti del tutto atipici rispetto al quadro isti-tuzionale […] e quindi le loro funzioni, pur definite negli statuti speciali in modo partico-larmente ampio, vennero non poco ridimensionate dall’azione degli organi dello Stato centrale»); in tal senso, cfr. L. PALADIN, La riforma regionale, cit., 111 ss.

75 Pure tra molte ragioni e giustificazioni, «[l]imitata è stata anche la capacità delle Regioni nel definire funzioni, strutture, sistemi propri: non sono mancate le novità, ma hanno avuto carattere più che altro aggiuntivo rispetto a quanto impostato in sede cen-trale» (così G. PASTORI, L’amministrazione regionale in evoluzione, cit., 281).

TRATTI GENERALI DEL (TRADIZIONALE) MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ 123

giori partiti nazionali 76. La critica ad una politica legislativa che ha evi-

denziato, di fatto, la sfiducia dello Stato e della sua classe politica nei confronti dei “potenziali comportamenti divergenti” delle maggiori au-tonomie territoriali, è stata più volte rimarcata in dottrina. «Piani na-zionali, trasferimenti vincolati, norme statali di riferimento per le diver-se politiche»

77, sono tutti strumenti attraverso i quali lo Stato nazionale ha di fatto perseguito una uniformità, anche a fronte dell’autonomia, e quindi del potenziale di differenziazione, delle Regioni.

Un modello, questo, nel quale è risultato centrale il carattere par-zialmente eterodiretto della legislazione regionale ordinaria, che ha de-terminato una uniformità nei fini (individuati o desunti dai principi del-la legislazione statale), e, di converso, una “gerarchia dei contenuti”

78 (risultando le scelte regionali subordinate a quelle assunte dal legislatore statale) che ha finito per essere ad un solo, breve, passo di distanza da una gerarchia tra le stesse fonti. Né a conclusioni molto diverse sembra giungere larga parte della dottrina con riferimento alle fonti di autono-mia speciale

79. Non è qui possibile, ripercorrere i limiti che, complessivamente, han-

no inciso sulla potestà legislativa regionale, determinandone il carattere secondario: il tema è stato peraltro oggetto di attente trattazioni, che hanno rilevato come dall’incrocio dei molteplici limiti posti alle fonti di autonomia discenda che «tra le fonti statali e le fonti regionali non pos-sono mai stabilirsi rapporti di pari ordinazione, neanche quando si tratti di materie spettanti alla legislazione “esclusiva”»

80. Il limite costituzionale, quello territoriale, quello dato dalle “riforme

economico-sociali”, il limite dell’ordinamento internazionale, quello dei principi generali dell’ordinamento giuridico, per non parlare poi del li-mite degli interessi, hanno posto altrettanti paletti a garanzia di una so-stanziale uniformità nell’autonomia legislativa regionale, a conferma di quanto sin qui rilevato

81.

76 Sul punto, cfr. U. ALLEGRETTI, Autonomia regionale e unità nazionale, cit., 11 ss. 77 Così F. TRIMARCHI BANFI, Il regionalismo e i modelli, cit., 261. In questo senso, cfr.

U. ALLEGRETTI, Autonomia regionale e unità nazionale, cit., 9 ss. 78 V. CRISAFULLI, La legge regionale nel sistema delle fonti, in Riv. trim. dir. pubbl., 1960, 262. 79 Suscettibili di “vere e proprie resezioni di materie” da parte dello Stato (tramite le

“grandi riforme” e gli accordi internazionali. 80 V. L. PALADIN, Diritto regionale, cit., 72; ne discende che «la legge regionale di qua-

lunque specie si configura – in sostanza – come fonte intermedia fra la legge statale ordi-naria ed il regolamento comunale e provinciale», senza che sia possibile peraltro operar-ne una collocazione unicamente gerarchica (ivi, 76; il corsivo è dell’Autore).

81 In questa sede non è possibile che una mera elencazione, è evidente che ciascuno di

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 124

Limiti, questi, cui si aggiungeva, per le Regioni ordinarie, il limite dei principi della legislazione statale secondo il modello (teorico) della c.d. legge cornice

82. Si tratta, come è stato evidenziato, di una serie di limiti che hanno

conosciuto occasione di rafforzamento nella giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo un approccio che ha riflettuto, probabilmente, la sfiducia, diffusa a livello politico, istituzionale e, più in generale, cultu-rale, nei confronti della capacità delle Regioni, o almeno di “tutte le Re-gioni”, di garantire efficacemente i fondamentali diritti di cittadinanza attraverso le proprie fonti di (vera) autonomia

83. Più che in altri strumenti, quest’esigenza di uniformità, affidata a

forme di controllo nei confronti delle maggiori autonomie, si è manife-stata in quella che è stata definita la “irriducibile ascesa dell’indirizzo e coordinamento”

84. È qui impossibile approfondire la tematica, oggetto di un ricco dibattito dottrinale e di una altrettanto ricca produzione giu-risprudenziale: creata dalla legge finanziaria del 1970, come limite alle autonomie regionali nel momento in cui non si aveva ancora chiara consapevolezza di cosa sarebbero potute divenire le Regioni ordinarie, questa funzione è stata progressivamente precisata nei suoi caratteri e nelle sue forme da una serie di successivi interventi legislativi

85.

questi limiti meriterebbe specifici approfondimenti. Da questa schematica elencazione, ma anche dall’esame della funzione di indirizzo e coordinamento, può ben risultare con-fermata la lettura di chi ha visto nella tradizione istituzionale italiana, veicolata dalla stessa Costituzione, ma più ancora dalla giurisprudenza e dalla legislazione, l’afferma-zione di una «equazione “unità nazionale = limiti all’autonomia» (così U. ALLEGRETTI, Autonomia regionale e unità nazionale, cit., 12).

82 Sul rapporto fra legge statale e legge regionale nell’ambito della potestà legislativa concorrente, v., tra gli altri, R. TOSI, “Principi fondamentali” e leggi statali nelle materia di competenza regionale, Padova, 1987, spec. 15 ss., e M. CARLI, Il limite dei principi fonda-mentali (alla ricerca di un consuntivo), Torino, 1992 (in particolare, in relazione alla du-plice connotazione dei principi, come “limite” e come “guida” dell’autonomia regionale: ivi, spec. 176 ss.).

83 Una “politica dell’uniformità” che è stata espressione della sfiducia nella capacità degli amministratori regionali, spesso «assumendo come naturale punto di riferimento le situazioni dove maggiore era l’inefficienza amministrativa e più corrotto il costume» (così F. TRIMARCHI BANFI, Il regionalismo e i modelli, cit., 258).

84 Secondo l’evocativo titolo del saggio di L. CALIFANO (L’irriducibile ascesa dell’indirizzo e coordinamento, cit.); sul punto, molto è stato scritto, si veda, in merito, tra gli altri, M. CAM-MELLI, Indirizzo e coordinamento nel nuovo assetto dei rapporti tra Stato e Regioni, in Pol. dir., 1976, 573 ss.; L. PALADIN, Sulle funzioni statali di indirizzo e coordinamento, cit., 189 ss.; P. CARETTI, Indirizzo e coordinamento e potere sostitutivo, cit., 338 ss.; F. TRIMARCHI BANFI, Questioni formali in tema di indirizzo e coordinamento, cit., 1711; amplius cfr. E. GIZZI-A. OR-SI BATTAGLINI (a cura di), La funzione di indirizzo e coordinamento, Milano, 1988.

85 Così la legge n. 382 del 1975, il d.p.r. n. 616 del 1977, la legge n. 13 del 1991 e la leg-ge n. 59 del 1997.

TRATTI GENERALI DEL (TRADIZIONALE) MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ 125

Questa funzione ha subito, attraverso la giurisprudenza della Consulta, una progressiva costituzionalizzazione

86: la legislazione e la giurisprudenza costituzionale hanno operato, concordemente, nella direzione di una limi-tazione dell’autonomia regionale, vedendo in questi stessi “limiti” la garan-zia per l’unità della Repubblica e per l’uguaglianza tra i cittadini.

La costruzione teorica di una funzione in grado di vincolare le Re-gioni per quanto riguarda i loro atti, normativi come amministrativi, è quindi la massima espressione di quel regionalismo dell’uniformità che attentamente è stato evidenziato: le stesse Regioni a statuto speciale non si sono sottratte a questo “limite”, che veniva quindi in rilievo quale ga-ranzia dell’unità dell’ordinamento nei confronti dei soggetti a competen-za territorialmente limitata

87. Si tratta di una politica che ha caratterizzato più settori, ma che si è

mostrato, in particolare, con evidenza in relazione alla materia della sa-nità pubblica; un campo nel quale si pone, in effetti, con particolare for-za il problema della uniforme garanzia di diritti fondamentali, e per il quale il principio di uguaglianza e quello di autonomia entrano in po-tenziale conflitto

88. Un fuoco dell’uniformità affidato, formalmente, al-l’autonomia e ad essa, materialmente, sottratto

89. Ci troviamo di fronte ad una tensione che è stata congelata, oltre che

con pregiudizio della finanza pubblica, ricorrendo a strumenti e mecca-nismi giuridici che, regolando anche aspetti minimi dell’organizzazione dei servizi sanitari, hanno di fatto impedito una differenziazione su base

86 Afferma da ultimo la Consulta, che non è sindacabile «l’esistenza dei poteri [di indi-rizzo e coordinamento] in sé, che per la Corte risiede nella Costituzione stessa, ma solo le concrete condizioni e modalità per il loro esercizio» (Corte cost., sent. n. 18 del 1997). Sul punto, per maggiori riferimenti ad una giurisprudenza costituzionale molto vasta, cfr. L. CALIFANO, L’irriducibile ascesa dell’indirizzo e coordinamento, cit., spec. 50.

87 Tema che meriterebbe un ulteriore approfondimento è dato poi dalla possibilità che un regolamento, autoqualificandosi “atto di indirizzo e coordinamento” imponga vincoli e deroghe alla stessa legislazione regionale, con buona pace del sistema della gerarchia delle fonti. Ma il problema è in realtà ben più complesso, toccando anzitutto la tematica della “autoqualificazione”. Sul punto, per tutti, cfr. L. CALIFANO, ult. op. cit., 60 ss.

88 In merito v., da ultimo, G. ROLLA, Differenziazioni regionali, cit., per il quale, se da un lato è evidente che la garanzia delle specificità non può tradursi nel disconoscimento dell’eguaglianza di tutti i cittadini nel godimento dei diritti fondamentali, sia civili che sociali, «si pone uno specifico problema di bilanciamento […] fondato nella ricerca di un ragionevole equilibrio tra i diritti dell’autonomia territoriale e i diritti fondamentali del-l’uomo» (ivi, 547).

89 Non attraverso la sua resezione (come, ad esempio, per la “materia penale”), ma at-traverso un condizionamento così forte da condurre all’impossibilità di differenziare, se non in spazi interstiziali di mero dettaglio. F. PIZZETTI, Federalismo, regionalismo e rifor-ma dello Stato, cit.

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 126

regionale, senza che peraltro si realizzassero le condizioni per una effet-tiva uniformità delle prestazioni sul territorio nazionale

90. L’esigenza di una uniformità di trattamento su tutto il territorio na-

zionale in relazione a diritti sociali fondamentali ha creato quindi, nel sistema costituzionale tradizionale ed in assenza di strumenti diversi, una tensione critica con l’autonomia regionale: con la conseguenza del suo condizionamento

91. Sono stati dunque tanti e tali i vincoli posti a tutela dell’unità e del-

l’uguaglianza, e quindi a freno della possibilità di differenziazione re-gionale, che risulta difficile approfondire se non gli elementi di maggior rilievo: dall’analisi complessiva emerge, comunque, un generale princi-pio informatore, quale limite di ordine costituzionale all’autonomia nor-mativa regionale, nel senso di una impossibilità di legiferare nel campo che attiene a quella salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo che la Costituzione afferma e pone anzi a base di tutto l’ordinamento giuri-dico dello Stato.

In questo senso, l’uniformità degli ordinamenti regionali non stata tanto il frutto di una disciplina “pariforme”, quanto di una costruzione in cui la garanzia dell’uguaglianza e dell’unità si sono tradotti in una se-rie di limiti all’autonomia

92. In una simile lettura, per la quale «il carattere unitario e indivisibile

della Repubblica condiziona e subordina le autonomie locali» 93, l’inte-

resse nazionale si pone come fondamentale griglia interpretativa: una unità così intesa assume, allora, una forma gerarchica, che uniforma ciò

90 Cfr., sul punto, G. CEREA, Regionalismo possibile e regionalismo auspicabile, in Re-gioni, 1997, 115 ss.

91 Come sembra invece fare, ad esempio, lo stesso G. CEREA, Regionalismo possibile, cit., 115, allorché afferma l’esigenza della differenziazione come possibilità di “competi-zione” tra i soggetti che producono i servizi pubblici.

92 In particolare, allora, l’unità si astrae dai valori che dovrebbe essa stessa garantire, e si traduce in uniformità: «si riduce a pura forma organizzativa, in virtù della quale ciò che si sente istintivamente, oscuramente, interesse nazionale è sottratto alle autonomie» (così, di nuovo, U. ALLEGRETTI, Autonomia regionale e unità nazionale, cit., 14). Sulla ten-denza a leggere l’unità «in termini che, più che giovare agli interessi dello Stato o nazio-nali, valgono a impedire l’attuazione di un potere politico decentrato» cfr., con riferimen-to agli orientamenti iniziali della Consulta, già S. D’ALBERGO, L’antiregionalismo nell’indi-rizzo della Corte costituzionale, cit., 170.

93 In questo senso la Corte cost., sent. n. 265 del 1989 (con riferimento ad un referen-dum regionale sulle basi militari). Illuminante, è G. MIELE (La Regione nella Costituzione italiana, in E. ROTELLI (a cura di), Dal regionalismo alla Regione, cit.): non è il principio dell’autonomia, quanto quello dell’unità ed indivisibilità dello stesso art. 5 a trovare pun-tuale traduzione nell’organizzazione complessiva dell’ordinamento: «[i]l principio pro-clamato nell’art. 5 (“La Repubblica, una e indivisibile …”) è svolto in modo conseguente in tutte le disposizioni che vi hanno attinenza» (ivi, 87).

TRATTI GENERALI DEL (TRADIZIONALE) MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ 127

che naturalmente dovrebbe essere differente, interpretando la limitazio-ne dell’autonomia come espressione dell’unità e dell’uguaglianza. Se tut-to questo è vero, il problema diviene immaginare un nuovo modello di rapporti tra Stato ed autonomie, in cui si cali «una unità non più forma-le, ma di contenuto, non più gerarchica ma pluralistica»

94.

3. I fatti differenziali nell’ordinamento costituzionale: le Regioni speciali

In parte “preesistenti” alla stessa Costituzione repubblicana, in parte riconosciuti da questa

95, dall’analisi del modello di ordinamento dei maggiori poteri locali in Italia emerge la presenza di “fatti differenzia-li”

96 di valenza costituzionale in ragione di specifiche parti della Repub-blica. Sicilia, Sardegna, Val d’Aosta, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia sono definiti come ordinamenti differenziati attraverso leggi co-stituzionali che ne contengono gli statuti di autonomia “speciale”.

La “specialità” è la formula che riassume «un trattamento differen-ziato e in un certo senso di favore che alcune Regioni hanno ottenuto per diverse ragioni storiche»

97. Le “forme e condizioni particolari di au-tonomia”

98, realizzate secondo statuti speciali in ossequio al disposto

94 U. ALLEGRETTI, Autonomia regionale e unità nazionale, cit., 23. 95 Sulla diversa tempistica dell’istituzione delle differenti realtà regionali (ordinarie e

speciali, basti pensare al fatto che l’avvio effettivo dell’autonomia friulana, sbloccatasi so-lo dopo il memorandum di Trieste del 1953, è del 1964), cfr., tra gli altri, S. BARTOLE, Par-te I. Le Regioni, in S. BARTOLE-F. MASTRAGOSTINO-L. VANDELLI, Le autonomie territoriali, Bologna, 1984, 13 ss.

96 Per le ragioni della “specialità” e le basi giuridico-istituzionali di questa scelta, v. anche, pure brevemente, C. GHISALBERTI, Storia costituzionale d’Italia, cit., 424 ss.

97 Cfr. G. PITRUZZELLA, Regioni a statuto speciale e altre forme particolari di autonomia regionale, in G. BERTI-G.C. DE MARTIN (a cura di), Le autonomie territoriali: dalla riforma amministrativa alla riforma costituzionale, Milano, 2001, 131. Mentre la disciplina delle Regioni ordinarie è maturata in seno all’Assemblea Costituente, per le Regioni a statuto speciale «l’ordinamento e con esso la definizione dei poteri discendono da scelte maturate nell’ambito di un diretto rapporto tra organi dello Stato e rappresentanze locali, ovvero da contesti estranei a quelli dell’Assemblea» (così G. CEREA, Regionalismo possibile, cit., 105).

98 Queste Regioni sono “speciali” non solo rispetto alle Regioni ordinarie, ma anche tra di loro (il che ne esalta il carattere di “differenziazione eccezionale”): sul piano so-stanziale si può infatti affermare come in Italia non esistano due tipi di ordinamenti re-gionali (ordinari e speciali), ma sei, uno per le Regioni ordinarie ed uno ciascuno per le singole Regioni speciali. Sul punto, cfr., ad esempio, G. CEREA, Regionalismo possibile, cit., 102 ss., per il quale, peraltro, «a ben vedere però gli ordinamenti definiti sono otto, in quanto l’elenco andrebbe integrato con le Province autonome di Trento e Bolzano, cia-scuna delle quali gode di un ordinamento specifico» (ivi, 104).

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 128

dell’art. 116, costituiscono modelli differenziati di organizzazione dei maggiori poteri territoriali, in considerazione di specifici motivi di rilievo costituzionale: si tratta da un lato di una rottura significativa dell’uni-formità, amministrativa e normativa, in relazione a queste cinque “parti del paese”, ma di una rottura che è priva del suo carattere più qualificante di riconoscimento di una potestà di autodifferenziazione regionale

99. Né, come già evidenziato in relazione ai poteri locali, la previsione di

discipline speciali eteronome è estranea al modello stesso dell’unifor-mità.

In effetti, la specialità delle cinque Regioni il cui statuto risulta fissa-to da una legge costituzionale non è dirompente per l’unità del paese, più di quanto non lo siano le stesse Regioni ordinarie, anche perché non suscettibile di autonoma modificazione da parte degli stessi enti

100. La fonte costituzionale in cui si incardinano gli statuti delle Regioni specia-li, ne determina il tratto eteronomo, statale, ed anche, di fatto, una forte rigidità, che è proprio il contrario della “flessibilità” che si vorrebbe rea-lizzare con l’accettazione di modelli differenziati, più in grado di corri-spondere alle esigenze di un territorio, e meglio adattabili alle differenze reali

101. A ben vedere, poi, gli spazi di effettiva autonomia delle Regioni speciali

sono risultati ben più ristretti di quello che la lettura degli statuti lasciasse-ro intendere: anche qui la Corte costituzionale

102 ha operato nel senso di ri-

99 Pur dando per assodate forti eterogeneità, giustificative delle condizioni di speciali-tà, ma presenti anche tra altre parti del paese, il modello adottato dalla Costituente non appare caratterizzato da una traduzione in forme flessibili, idonee a consentire alle auto-nomie di affrontare le problematiche specifiche di ogni Regione. Su come questo modello sia stato invece perseguito nel sistema costituzionale Spagnolo, spesso preso a riferimen-to nei recenti progetti di riforma costituzionale in Italia, cfr., tra gli altri, L. VANDELLI, L’ordinamento regionale spagnolo, Milano, 1980, che rileva come «la tendenza a respinge-re formule uniformi si è spinta ad un livello considerevole, sì che il disegno costituzionale lascia spazi tanto importanti alla disciplina statutaria ed alla legislazione (organica od ordinaria) da ridurre al minimo le caratteristiche determinate costituzionalmente, comu-ni a tutte le comunidades autònomas» (ivi, 207).

100 Da segnalare sin d’ora come tale carattere risulti, seppure con alcuni ridotti “aggiusta-menti”, confermato dalle recenti riforme: tale che il carattere eteronomo degli statuti speciali diviene sempre più vulnus per la loro autonomia: da ultimo, in tal senso, v. T.E. FROSINI, La differenziazione regionale nel regionalismo differenziato, in AIC (www.associazione deicostitu-zionalisti.it).

101 Da qui la diffusa riflessione sui rischi della specialità, tra marginalità ed omogeneiz-zazione: in tal senso v. G. PASTORI (La nuova specialità, in Regioni, 2001, 487 ss.), che evi-denzia il rischio di esclusione, ma anche di appiattimento rispetto al sistema ordinario.

102 Il cui ruolo di artefice del mantenimento dell’uniformità è evidenziato, tra gli altri, da. F. PIZZETTI, Federalismo, regionalismo e riforma dello Stato, cit. (ma non dissimilmen-te F. TRIMARCHI BANFI, Il regionalismo e i modelli, cit., 256).

TRATTI GENERALI DEL (TRADIZIONALE) MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ 129

durre il potenziale differenziante regionale, costruendo una serie di vincoli che sono andati anche al di là di quelli direttamente espressi nella Costitu-zione repubblicana

103. La “specialità” è un tratto caratteristico del modello italiano di regio-

nalismo, che, pur con tutti i suoi limiti, era espressione di un riconosci-mento di assetti differenziati, seppure concessi da fonti eteronome: una sorta di federalismo asimmetrico

104 ante litteram. Sempre che nell’asim-metria non si voglia leggere un elemento “dinamico”, “graduale” e “di pro-cesso”, oltre che “concertato”: elementi questi non presenti

105 nel (tradi-zionale) sistema italiano

106. In questo quadro, un profilo di specifico rilievo per queste autonomie

regionali, era poi dato dal riconoscimento di un potere ordinamentale sugli enti locali. Una competenza sull’ordinamento locale, riconosciuta nell’ambito del fenomeno della specialità regionale (ed in particolar mo-do della Sicilia), ma vista con timore dalle stesse realtà locali

107.

103 Sul punto, ancora G. CEREA, Regionalismo possibile, cit., 106 ss.; in particolare, questo è evidente con riferimento alla funzione di indirizzo e coordinamento.

104 Il “federalismo asimmetrico” o “differenziato” (sempre che non si voglia ulterior-mente distinguere tra di loro queste categorie), è oggetto, nella fase attuale, di una certa attenzione, a livello dottrinale, come politico. Il modello della differenziazione, che so-stanzialmente ha come riferimento l’assetto competenziale, riferito alle maggiori auto-nomie territoriali è stato sperimentato, a livello europeo, soprattutto in Spagna ed in Au-stria: sul punto, tra gli altri, cfr. F. PALERMO, Federalismo asimmetrico e riforma della Co-stituzione, cit., 291 ss., per il quale, partendo dall’esperienza delle regioni speciali, «l’in-troduzione di elementi di possibile differenziazione competenziale tra le varie istituzioni periferiche non andrebbe a costituire una sostanziale novità rispetto a quanto già noto all’ordinamento italiano». Per una lettura, più generale e diffusa, del fenomeno (partendo dall’esperienza austriaca) cfr. P. PERNTHALER, Lo Stato federale differenziato, cit.; L. AN-TONINI, Il regionalismo differenziato, cit. e, da ultimo, C. BUZZACCHI, Uniformità e differen-ziazione, cit.

105 Contra v. però L. ANTONINI, Il regionalismo differenziato, cit., che ravvisa nel siste-ma italiano una sorta di modello asimmetrico proprio nella prassi concertativa tra singo-le Regioni e Stato.

106 E sempre, come pure si è evidenziato, che nel modello dell’asimmetria non si rico-nosca, come pare corretto, un carattere “a-derogatorio”. Nella lettura tradizionale del fe-nomeno, “sistema federale asimmetrico tipico” viene descritto come “quello composto da unità politiche corrispondenti alle differenze di interessi, condizioni e caratteristiche che sono presenti nell’intera società” (in questo senso C. TARLTON, Symmetry and Asymmetry as Elements of Federalism: a Theoretical Speculation, in Journal of Politics, 1965, 861 ss). Da segnalare, peraltro, come le categorie utilizzate da Tarlton si riferiscano alla (e con-sentano di descrivere la) misura in cui le singole entità federali hanno problemi ed inte-ressi che sono tra di loro comuni a livello nazionale. Sul punto cfr. R. PADDISON, Il federa-lismo: diversità regionale nell’unione nazionale, in G. BROSIO (a cura di), Governo decentra-lizzato e federalismo. Problemi ed esperienze internazionali (Quad. amm. pubbl., 1995, 45 et passim).

107 Sul punto, cfr. T. GROPPI, La garanzia dell’autonomia costituzionale degli enti locali, cit., 1021 ss., per la quale conformazione dell’autonomia locale ad opera del legislatore

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 130

Un potere di eterodifferenziazione regionale, sorta di “competenza sulla competenza” (locale), che non è stato, però, riconosciuto alle Re-gioni ordinarie

108, pur con progressive aperture nel senso di una valoriz-zazione del loro ruolo

109. Nel disegno del Costituente, in relazione alle Regioni ordinarie, infatti, al di fuori delle ipotesi considerate dagli artt. 117, secondo alinea (e 132, comma 2°), 118 comma ultimo e 130 Cost., «ogni altro aspetto del regime dei Comuni e delle Province ricade per in-tero nella competenza dello Stato»

110.

4. Del (vero o presunto) carattere necessario dell’uniformità delle am-ministrazioni pubbliche nel sistema costituzionale

4.1. L’ uniformità delle pubbliche amministrazioni come applicazione del principio di uguaglianza: due percorsi per la sua esclusione

Prima di addentrarci ulteriormente nell’analisi dello specifico model-lo costituzionale dell’uniformità, sembra utile chiarire la portata di al-cuni profili generali, dai quali risulta opportuno sgombrare il campo. In particolare, appare sin d’ora necessario verificare, anche nella prospetti-va del cambiamento delle previsioni organizzative contenute nel Titolo V della Parte seconda della nostra Carta costituzionale, se risieda altrove un generale principio di “necessaria uniformità” amministrativa.

In primo luogo, merita esaminare un particolare profilo che ha costi-tuito e costituisce ragione di giustificazione del mantenimento dell’unifor-mità, nella sua declinazione amministrativa: quella di una, vera o presun-ta, estensione del principio di uguaglianza dai cittadini agli enti esponen-ziali delle collettività

111. In questa ottica, allora, l’uniformità si porrebbe

nazionale ne configura la “cinta muraria”: «essa ne costituisce ad un tempo la difesa e il limite» (ivi, 1024).

108 Vero è, peraltro, che questa interpretazione è stata progressivamente oggetto di ri-lettura da parte del legislatore e della giurisprudenza costituzionale (superando la visione che vedeva nell’art. 128 Cost. il mantenimento «alle Province e ai Comuni della figura da essi tradizionalmente rivestita di parti dell’ordinamento generale dello Stato, al quale per-tanto deve rimanere riservata l’intera loro disciplina organizzativa e funzionale»: Corte cost., sent. n. 164 del 1972). Per un maggiore approfondimento dei primi orientamenti della giurisprudenza costituzionale in materia, si veda S. BARTOLE-L. VANDELLI (a cura di), Le Regioni nella giurisprudenza, Bologna, 1980, in particolare alle 617 ss.

109 Cfr., in una lettura evolutiva, E. ROTELLI, Le Regioni, le Province, i Comuni, cit. 110 Cfr. Corte cost., sent. 23 maggio 1973, n. 62. 111 In Italia, come accennato, già S. ROMANO (Il Comune, cit., 509 ss.) parlava del prin-

TRATTI GENERALI DEL (TRADIZIONALE) MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ 131

come espressione dell’uguaglianza degli enti pubblici territoriali; ciò ap-pare verosimile, posto che il principio di uguaglianza formale è in effetti suscettibile di essere riferito non solo agli individui, ma anche alle perso-ne giuridiche e, per quello che qui rileva, agli stessi enti pubblici 112.

In questo senso, ci è di guida la giurisprudenza costituzionale, la qua-le ha costantemente ritenuto che detto principio trovi applicazione non solo per le persone fisiche, ma anche per le persone giuridiche, private o pubbliche

113: al di fuori dei caratteri distintivi che giustificano regimi dif-ferenziati, non si può affermare che vi sia una sottrazione degli enti pub-blici, e per quello che qui interessa, di quelli territoriali, dal principio di uguaglianza

114. Questo, evidentemente, in quanto si abbia a riferimento enti pubblici omogenei

115. Quello che, però, occorre evidenziare, è che stante la comunque rico-

nosciuta applicabilità del principio di uguaglianza formale alle persone giuridiche pubbliche, la differenziazione tra enti pubblici omogenei, ov-vero appartenenti alla medesima categoria, sarà sì possibile, ma in quanto vi sia il riconoscimento di caratteri differenziali: riconoscimento che dovrà essere non irragionevole né arbitrario.

Il principio di uguaglianza trasferito sul piano degli “enti morali” 116,

risente allora delle stesse letture e delle stesse formulazioni “valutative”

cipio di uniformità come principio di eguaglianza giuridica dei Comuni; sul punto cfr. S. CASSESE, Tendenze dei poteri locali in Italia, cit., 306 ss., per il quale se si considera che «sotto ed entro l’eguaglianza degli enti locali è andata crescendo una notevole eterogenei-tà di istituzioni, perché richiedere un’omogeneità di disciplina?» (ivi, 307). Per una rifles-sione complessiva (astratta dal solo riferimento alle autonomie locali) sull’applicabilità del principio di uguaglianza agli enti pubblici (dove la natura pubblica non può certo condurre a sostenere la sottrazione a tale principio), cfr., anche per ulteriori riferimenti, G. ROSSI, Gli enti pubblici, cit., 223 ss.

112 Cfr. A. REPOSO, Eguaglianza costituzionale e persone giuridiche, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1973, 360.

113 V., tra le altre, le sentt. n. 40 del 1965, n. 25 del 1966 e n. 2 del 1969. Per un esame di questi casi, si veda A. CERRI, L’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituziona-le, Milano, 1976, 59 ss.

114 Ad intendere, evidentemente, non la differenziazione degli enti pubblici (dagli enti privati: profilo in relazione al quale può affermarsi come la natura pubblica degli enti giustifichi, seppur entro limiti determinati, la differenziazione degli enti stessi rispetto al-la disciplina valida per la generalità delle persone giuridiche e questo in relazione a carat-teri differenziali, in primis la loro funzionalizzazione al perseguimento di interessi pub-blici), quanto la differenziazione tra enti pubblici (omogenei).

115 Approfondendo il discorso, però, la giurisprudenza della Corte costituzionale non è più così univoca, né chiarissima: in relazione agli enti locali, in realtà la questione è spes-so non posta, atteso che la specifica previsione dell’art. 128 poneva una garanzia maggio-re ed ulteriore all’uguaglianza (paritaria) tra gli enti locali, rispetto a quanto non poteva aversi con l’applicazione del principio contenuto nell’art. 3, comma 1°.

116 Sull’applicabilità del principio di uguaglianza agli enti morali si veda di nuovo A. REPOSO, Eguaglianza costituzionale e persone giuridiche, cit., 360 ss.

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 132

(non solo “paritarie”) che hanno caratterizzato l’art. 3, comma 1°, della Carta costituzionale nell’evoluzione normativa e giurisprudenziale: dif-ferenziazioni (tra enti, così come tra individui) saranno possibili in quanto la discrezionalità categorizzatrice del legislatore sia “ragione-volmente esercitata”

117. Tale discorso può essere applicato, ma con le dovute precisazioni, al

regime delle autonomie territoriali 118.

È una garanzia, questa, che acquista un rilievo particolare per gli enti autonomi, riconosciuti e promossi ai sensi dell’art. 5 Cost. La differen-ziazione amministrativa, ovvero la differenziazione dei modelli di am-ministrazione, si pone allora come circoscritta e delimitata dalle dispo-sizioni costituzionali, ma solo in quanto il diseguale trattamento sia ri-tenuto irragionevole o lesivo della personalità e dell’autonomia dell’ente (locale) in quanto tale.

Né, a ben vedere, un rigido vincolo alla differenziazione sembra po-tersi far discendere da altri principi fondamentali e previsioni della Car-ta costituzionale estranee al Titolo V.

Questo vale per il principio di uguaglianza sostanziale, contenuto nel secondo comma dell’art. 3 della Cost. 119. Senza che sia possibile, in que-sta sede, affrontarne la ricostruzione complessiva, è però evidente come, a prescindere dalla diversità di formulazioni e l’ampiezza di contenuto che, conseguentemente, può essere riconosciuta a questo principio, l’art. 3 incardina nell’ordinamento italiano un principio che impone un pro-cesso di realizzazione in astratto e in concreto dell’uguaglianza fra i cit-tadini

120. Come tale, l’art. 3 è anche e soprattutto un metro alla luce del quale leggere le altre norme costituzionali, ed alla luce del quale valutare le scelte ordinamentali ed organizzative operate dal legislatore ordina-rio

121.

117 Nello specifico, cfr. L. PALADIN, voce Eguaglianza, cit., 525 et passim. Da notare sin d’ora come l’art. 128, imponesse una più rigorosa valutazione della ragionevolezza della differenziazione, che deve discendere dalla natura stessa delle cose, o dalla necessità di tutelare altri valori costituzionalmente rilevanti

118 Il limite alla differenziazione degli enti locali omogenei può ritenersi collegato, al-lora, non già e non solo all’art. 128 (nella sua tradizionale formulazione), ma allo stesso prin-cipio di uguaglianza formale, seppure solo in quanto a sindacabilità in termini di ragio-nevolezza delle scelte differenzianti del legislatore.

119 Sul quale v., tra gli altri, G. BALLADORE PALLIERI, Diritto costituzionale, Milano, 1976, 368.

120 In questo senso, vedi C. ROSSANO, L’eguaglianza giuridica nell’ordinamento costitu-zionale, Napoli, 1966, 412.

121 Il valore morale dell’uguaglianza non è l’unico valore con il quale ci confrontiamo. L’esistenza di una pluralità di valori morali determina una complessità, anche etica, della

TRATTI GENERALI DEL (TRADIZIONALE) MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ 133

Si tratta, di un principio che, complessivamente inteso, si rivolge im-mediatamente alla funzione legislativa (e normativa più in generale), la quale poi medierà questo principio in relazione alle altre funzioni dello Stato e degli altri enti pubblici. È però, questo, anche un principio che la stessa amministrazione è chiamata a realizzare

122. L’art. 3, attraverso la previsione di un complessivo modello di ugua-

glianza, formale e sostanziale, apre la strada a percorsi differenziali che, in quanto unitariamente condotti, possono produrre differenziazione senza ledere il principio egalitario

123. I due momenti che compongono l’art. 3 possono, anzi, entrare in una tensione interna, come avviene, in particolare, di fronte ad “azioni positive”

124, che sono il più potente stru-mento a disposizione del legislatore, che, nel rispetto della libertà e del-l’autonomia dei singoli individui, tende a innalzare la soglia di partenza per le singole categorie di persone socialmente svantaggiate

125. Spetta alla legge contemperare queste tensioni, spetta all’ammini-

strazione darne attuazione 126: il vincolo

127 contenuto nel secondo comma

società, cui non può fornire risposta un modello univoco di uguaglianza Sul tema cfr., da ultimo, N. BOBBIO, Uguaglianza e libertà, cit., in particolare 6 ss.

122 Cfr. G. ARENA, Valori costituzionali e ruolo dell’amministrazione, in Studi in onore di Vittorio Ottaviano, I, Milano, 4 ss.

123 Un problema che emerge dalla lettura del comma in esame, è, in particolare, connes-so alla possibilità che “la rimozione degli ostacoli” consenta o meno interventi in contrasto con altre norme costituzionali, in particolare con il primo comma dello stesso articolo 3.

124 Azioni, queste, legittime se ed in quanto ricollegabili all’art. 3, comma 2°, della Costi-tuzione (peraltro illegittime laddove non si limitino a “rimuovere gli ostacoli” che impedi-scono di raggiungere determinati risultati, ma mirino ad «attribuire direttamente quei risul-tati medesimi»: cfr. Corte cost., sent. 12 settembre 1995, n. 422), ma «difficilmente concilia-bili con il principio di uguaglianza formale, garantito dal primo comma del medesimo arti-colo, che impone una disciplina generale» (v. voce Azioni positive, in M. AINIS (a cura di), Dizionario costituzionale, Roma-Bari, 2000, 36). Così la recente giurisprudenza della Corte appare orientata in senso sfavorevole a tali azioni, in particolare con riferimento alla disci-plina “promozionale” prevista per le donne in ambito lavorativo e di rappresentanza politica dalle leggi n. 125 del 1991 e n. 215 del 1992 (sul punto, cfr. amplius A. MOSCARINI, Principio costituzionale, cit., 178 et passim; né diversamente sembra orientata la dottrina prevalente, in relazione a differenziazioni “positive” in questi ambiti materiali M. AINIS, Azioni positive e principio d’eguaglianza, in Giur. cost., 1992, 582 ss.)

125 Fondamentalmente quelle riconducibili ai divieti di discriminazione espressi nel primo comma dello stesso art. 3 (sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condi-zioni personali e sociali), al fine di assicurare alle categorie medesime uno statuto effetti-vo di pari opportunità di inserimento sociale, economico e politico.

126 La garanzia del soddisfacimento del principio di uguaglianza, e nello specifico di quello di uguaglianza sostanziale, è perseguito, nel disegno costituzionale strutturato nel-la divisione razionalizzata dei poteri, dalla funzione legislativa ed attraverso la funzione legislativa (così come ripartita): è nella legge ed attraverso la legge che, in primo luogo, trova concretizzazione il dovere dei pubblici poteri incardinato nell’art. 3.

127 Il contenuto materiale del secondo comma dell’art. 3 fissa un vincolo per i pubblici

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 134

dell’art. 3 si riferisce anche all’amministrazione, nella misura in cui la legge la lasci libera di definire modalità di azione e di organizzazione al fine del suo perseguimento.

Come tale, l’amministrazione può trovare, di nuovo, spazi per la dif-ferenziazione della propria azione proprio nella necessità di perseguire l’uguaglianza “in concreto”

128, come tale risultato, prima che forma. Ciò può richiedere, però, modalità flessibili di azione, laddove ciò sia neces-sario per il perseguimento dell’uguaglianza, come rimozione dei limiti che la impediscono

129. Una via, quella che passa attraverso il principio contenuto nel secondo comma dell’art. 3 che, di nuovo, non sembra supportare la tesi del radicamento dell’uniformità amministrativa nel te-sto costituzionale, al di fuori del Titolo V della parte seconda.

Ma se questo è vero, un limite all’uniformità sembra, altresì, discen-dere dalla Carta repubblicana in quanto si intenda la differenziazione come espressione dell’esigenza di flessibilità dell’organizzazione/azione amministrativa connaturata al principio del buon andamento.

Attraverso un simile percorso, che si collega alle previsioni dell’art. 97 e che, sulla scorta di autorevole dottrina, arriva a leggere nel “buon an-damento” una riserva di diversificazione

130, emerge la mancata l’as-sunzione, a livello di valori costituzionali, dell’uniformità delle ammini-strazioni: questo, peraltro, in un’ottica più ampia, nella quale possiamo ricondurre il complessivo fenomeno del plurimorfismo, vale a dire tanto la difformità che la differenziazione

131.

poteri. Dalla dizione utilizzata (“è compito”) deriva uno specifico dovere in capo ai poteri pubblici, che però non risulta oggettivamente in grado di determinare un corrispondente diritto azionabile in capo al cittadino in caso di “inazione” dello Stato. La norma però risulta violata allorché l’azione dello Stato ordinamento opera di fatto nel senso di con-traddirla: questo si ha in ogni caso in cui il legislatore giunga comunque ad un effetto op-posto da quello indicato dalla norma come suo compito, ovvero quando, anziché “rimuo-vere gli ostacoli” concorra a determinarne l’affermazione o il rafforzamento, di che si ab-bia una riduzione dell’uguaglianza tra i cittadini.

128 Un limite alla differenziazione, quindi, può farsi discendere dall’art. 3, comma 2°, solo in quanto queste concorrano a costruire, anziché rimuovere, ostacoli all’uguaglianza tra i cittadini. Dalla necessità di rimuovere ostacoli alla piena parità “di fatto” tra i citta-dini possono, altrimenti, discendere modalità diversificate di azione/organizzazione dei pubblici poteri, in relazione alla specificità delle situazioni materiali.

129 La necessità di mitigare modelli formali cartesiani laddove se ne verifichi l’inef-ficacia è, quindi, coerente con i principi costituzionali; non si percepisce, allora, quale valore sia perseguito dal modello dell’uniformità laddove «il modello normativo […] risul-ta costantemente non applicato, perché moltissime funzioni, mediamente il 50% […], non vengono esercitate affatto» (dalla già citata ricerca dell’ISR-CNR: cfr. S. MANNOZZI-V. VI-SCO COMANDINI, Le funzioni, cit., 15-16).

130 Su questa interpretazione dell’art. 97 Cost. (con conseguente riserva al potere rego-lamentare) v. M. NIGRO, Studi sulla funzione organizzatrice, cit., spec. 157 ss.

131 Se inteso in senso ampio, il tema della differenziazione si lega, come evidenziato,

TRATTI GENERALI DEL (TRADIZIONALE) MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ 135

4.2. La necessaria uniformità “a partire dai diritti”: uniforme disciplina dei diritti fondamentali e vincoli organizzativi all’uniformità (cenni intro-duttivi)

Se, dunque, il carattere necessario dell’uniformità amministrativa (fun-zionale ed organizzativa) non sembra potersi ricavare in via generale (ed al di fuori del Titolo V) dalla nostra Carta costituzionale, questo sembra altresì potersi desumere, in forme però attenuate, con riferimento ad ambiti circoscritti ed a diritti determinati

132. Si tratta, peraltro, di un’operazione che, seppure ad un livello introduttivo, qui potremo con-durre solo con riferimento a taluni diritti costituzionali, in riferimento ai quali, data la loro collocazione materiale, già nel “vecchio sistema” si è posto il problema della possibile differenziazione regionale “per la via dell’organizzazione”

133. Tale riflessione non esaurisce, peraltro, né l’esame dei fenomeni che

già hanno mostrato il sottile confine tra disciplina dell’organizzazione e tutela del diritto (e, quindi, mostrato l’indifferenziabilità della prima laddove questa sia legata indissolubilmente alla necessaria uniformità della seconda), né tantomeno l’analisi di quelli che, in prospettiva, sem-brano suscettibili di conoscere, nel mutato quadro costituzionale, tale problematica.

Il diritto alla salute pare, al riguardo, quello in ordine al quale con maggiore forza è emersa la problematica della difficile compatibilità di una differenziazione amministrativa a fronte di una uniforme garanzia di un diritto la cui soddisfazione richiede presupposti organizzativi

134.

alla necessaria flessibilità del quadro legale in ragione delle esigenze diversificate che e-mergono dalla realtà, sociale ed amministrativa. In questa accezione, nella Costituzione repubblicana un principio di “diversificazione” è allora implicito nel principio di buon andamento, di cui all’art. 97 cost., in quanto in esso si legga la “necessaria flessibilità” del-l’organizzazione (nella prospettiva dell’attività) amministrativa. Cfr., nuovamente, M. NI-GRO, Studi sulla funzione organizzatrice, cit.; ID., voce Amministrazione pubblica, cit., 3 ss.

132 Non è, al riguardo, possibile costruire uno statuto costituzionale di categorie di di-ritti (quali, ad esempio, i diritti sociali previsti in Costituzione): ciascun diritto dovrà es-sere esaminato nel suo contenuto essenziale, per rinvenire in questo, laddove vi sia, l’evidenza di tratti organizzativi determinati per la sua tutela.

133 Più frequentemente, dalla giurisprudenza costituzionale, si ricavano limiti alla di-screzionalità del legislatore (ordinario) nella definizione di tratti organizzativi del diritto: in tali casi, mutatis mutandis, è possibile ricercare (ma non necessariamente rinvenire) vincoli organizzativi che, nel mutato quadro costituzionale, saranno suscettibili di giusti-ficare, attraverso la leva dei “livelli essenziali”, condizionamenti organizzativi (come limi-te all’autonomia) in quanto ciò sia strettamente necessario alla garanzia del “contenuto essenziale del diritto”.

134 Non che, a ben vedere, presupposti organizzativi non siano rinvenibili anche nei

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 136

Seppure posta sotto la riserva “del possibile e del ragionevole” 135, di

fronte al diritto alla salute dobbiamo tenere conto, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale, del carattere e del valore di un diritto che, definito fondamentale dalla Costituzione, gode di un rango primario che «assurge a vera e propria inviolabilità»

136. Si tratta, secondo quanto sin qui evidenziato, di un “fuoco dell’uni-

formità” (già) affidato, almeno parzialmente, al sistema delle autono-mie, in relazione al quale il principio di uniformità ha operato non tanto attraverso la sua sottrazione dal novero degli spazi differenziabili, quan-to attraverso un contenimento particolarmente attento della differenzia-zione esercitabile, attraverso molteplici meccanismi dell’uniformità

137. In larga parte, tali meccanismi sono stati (ed hanno coinciso con) quelli che in via generale hanno caratterizzato il “regionalismo dell’unifor-mità”: forme di indirizzo e coordinamento, controlli, superiorità della legislazione statale, interventi legislativi di dettaglio

138, e l’elenco potreb-be proseguire

139. Ma in maniera del tutto particolare l’attenzione, del le-

c.d. diritti di libertà: la stessa sostenibilità di una rigida distinzione tra diritti sociali (che richiederebbero «una funzione riequilibratrice dello Stato»: così M. MAZZIOTTI, Diritti sociali, in Enc. dir., XII, 1964, 802) e diritti civili (come libertà “negative”, su cui per tutti C. SCHMITT, Dottrina della Costituzione, cit.), per quanto consolidata appare in via di pro-gressivo superamento. Il fatto che la tutela di “libertà negative” richieda l’intervento di appositi soggetti pubblici (basti pensare al ruolo dell’Autorità Garante per la tutela del diritto alla privacy) sembra dare ragione all’orientamento che, basandosi sul concetto di “libertà positiva”, attenua la diversità strutturale tra le diverse posizioni giuridiche «per quanto concerne la strumentazione tecnica della loro garanzia», dal momento che le li-bertà positive sono «suscettibili di ricevere attuazione in modi diversi, sia mediante istitu-ti di garanzia “negativa” che mediante istituti di garanzia “positiva”» (così G. ROSSI-A. BENEDETTI, La competenza legislativa statale esclusiva, cit., 31).

135 Come avviene in via generale per i diritto sociali, come rileva A. BALDASSARRE (vo-ce Diritti sociali, in Enc. giur. Treccani, XI, 1989, spec. 31-32).

136 Cfr. ivi, 32. 137 Cfr. F. PIZZETTI, Federalismo, regionalismo e riforma dello Stato, cit., 10 et passim. 138 Sia il legislatore che la Corte costituzionale hanno progressivamente stretto sempre

più le maglie “uniformanti” nei confronti delle Regioni: «portata all’estremo, questa logi-ca produce atti […] che prescrivono la larghezza minima dei corridoi delle case di cura o che precisano il numero di frigoriferi dei quali deve essere dotato un laboratorio di anali-si» (cfr. F. TRIMARCHI BANFI, Il regionalismo e i modelli, cit., 257, con riferimento anche alla tematica dell’indirizzo e coordinamento).

139 In ambito sanitario, E. MENICHETTI segnala, in particolare, come «[g]li strumenti giuridici utilizzati a tal fine consistevano nell’autoqualificazione delle disposizioni statali in termini di “principi fondamentali e norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica” (art. 19, d.lgs. n. 502 del 1992 e s.m.); nello spostamento del confine del “limite dei principi” sino alla copertura della disciplina statale di dettaglio; nell’ampio utilizzo degli atti di indirizzo e coordinamento come vero e proprio strumento di governo della sanità» (v. ID., L’organizzazione sanitaria tra legislazione ordinaria, nuovo Titolo V della Costituzione e progetto di devoluzione (osservazioni a margine della sentenza Corte costituzionale n. 510 del 2002), in Amministrazione in Cammino (www.amministrazioneincammino.luiss.it).

TRATTI GENERALI DEL (TRADIZIONALE) MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ 137

gislatore ma anche della giurisprudenza costituzionale, si è concentrata sul dato organizzativo.

Qui il modello forte dell’uniformità si è radicato in modo esemplare ed è stato ritenuto discendere dal diritto (che nel suo contenuto essen-ziale, indifferenziabile, ha un momento organizzativo) prima ancora che dal generale sistema di uniformità caratterizzante l’ordinamento. E que-sto pure a fronte della collocazione (tra “ciò che è differenziabile”) della disciplina dell’organizzazione del diritto.

Se, soprattutto in relazione ai diritti “finanziariamente condizionati” 140,

in reciproca competizione, spetta al legislatore la scelta in ordine al loro soddisfacimento, d’altra parte la costituzionalizzazione di questi diritti sociali «pone dei vincoli e degli indirizzi a carico del legislatore»

141. Il riconoscimento alle Regioni delle competenza in merito alla “de-

terminazione dei principi sull’organizzazione dei servizi e sull’attività destinata alla tutela della salute”, è stato sancito da circa un decennio

142, ma a tale previsione, peraltro condizionata, non ha fatto seguito una corrispondente apertura alla differenziazione (organizzativa) dei servizi sanitari

143 «che sono stati (e continuano ad essere) ampiamente confor-mati dalle scelte di organizzazione del livello statale»

144.

140 In merito ai quali, anche nella prospettiva dell’evoluzione del nostro ordinamento, si veda, in particolare, G. CORSO, Welfare e Stato federale, cit., 420 passim.

141 Così, di nuovo, G. CORSO, Welfare e Stato federale, cit., 420. Questo dato emerge con evidenza dall’analisi della giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale è giunta a riconoscere che quando la legge prevede un diritto ad una certa prestazione sociale, essa non può essere legittimamente abrogata (così la sentenza n. 106 del 1992 a proposito del-la soppressione dell’assegno di accompagnamento a favore dei minori non deambulanti e non completamente invalidi). La regola che vorrebbe riservata al legislatore la scelta tra i diritti sociali da soddisfare non è quindi valida in assoluto.

142 Il servizio sanitario nazionale è stato costruito, nell’arco di un ventennio, come un servizio pubblico unitario, ma in senso oggettivo prima che soggettivo, che trovava la sua unitarietà nell’obiettivo finale della tutela del diritto alla salute: diritto individuale ed in-teresse della collettività “da perseguire in modo generale, universale ed uniforme”. Così in base all’art. 3 del d.lgs. n. 517 del 1993, che ha novellato l’art. 2, commi 1° e 2°, del d.lgs. n. 502 del 1992, in merito al quale v. G. CARPANI, Commento all’art. 2, in F. ROVERSI MO-NACO (a cura di), Il nuovo servizio sanitario nazionale, Rimini, 2000, 57 ss.

143 Non l’organizzazione di un soggetto, ma un’organizzazione (unitaria) di una plura-lità di soggetti: cfr. G. PASTORI, Sussidiarietà e diritto alla salute, in Dir. pubbl., 2003, 86. Nel complessivo sistema dei servizi socio-sanitari si è affiancato, secondo schemi che lar-vatamente prefigurano già i successivi sviluppi del sistema, ad un modello organizzativo governato dal centro e gestito attraverso apparati uniformi, un modello, quello dei servizi socioassitenzali, a rete che, non senza reciproci condizionamenti, si fa portatore di spazi di progettualità e di gestione anche differenziata in sede locale (sul punto, cfr. G. PASTO-RI, che [ivi, 88] parla al riguardo di passaggio da un modello top-down ad un modello bot-tom-up).

144 In tal senso v. E. MENICHETTI, L’organizzazione sanitaria, cit.

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 138

Vincoli di uniformità in tutti i profili dell’organizzazione non sem-brano potersi ricavare dalla disciplina costituzionale del diritto prevista dall’art. 32. Dalla quale disposizione può, infatti, di certo ricavarsi, per la Repubblica, un obbligo di risultato (garantire la cura agli indigenti), ma non anche un obbligo modale (rectius organizzativo): «il diritto all’as-sistenza sanitaria (che comunque deve essere tutelato […]) può essere tutelato in innumerevoli modi che spetta al legislatore individuare»

145. D’altra parte, a fronte a taluni diritti sociali condizionati (al presup-

posto della presenza di un’organizzazione erogatrice, quale il diritto alla salute)

146, si è ritenuto che «l’ancoraggio alla Costituzione della garanzia relativa al se e al quid […] permette di affermare che la discrezionalità del legislatore per quel che riguarda il come e il quando non è affatto piena ed insindacabile»

147. Affermazioni entrambe vere (per certo corrette)

148, che devono evi-dentemente essere combinate: discrezionalità nelle modalità organizza-tive, ma discrezionalità limitata, condizionata; non uniformità organiz-zativa, ma, questo sì, vincoli organizzativi (meccanismi di uniformità nel-l’organizzazione), limitati a quanto indispensabile per la soddisfazione di un diritto in ordine al quale la connessione con il principio di ugua-glianza è particolarmente forte. È questo, probabilmente, lo statuto co-stituzionale del diritto alla salute. Nel vecchio, ma (salvo ritornarvi) an-che nel nuovo ordine.

La giurisprudenza della Consulta sembra tenere conto della (necessa-ria) presenza di una traccia di uniformità organizzativa come rientrante nel contenuto essenziale del diritto alla salute

149, ed in quanto tale sot-

145 Così G.U. RESCIGNO, Principio di sussidiarietà orizzontale e diritti sociali, in Dir. pubbl., 2002, 35.

146 La differenza tra diritti sociali e di libertà è evidente, in quanto i primi risultando col-legati inscindibilmente alle risorse disponibili, si trovano nella condizione di essere «neces-sariamente competitivi tra di loro» (così G. CORSO, Welfare e Stato federale, cit., 416).

147 V. A. BALDASSARRE, voce Diritti sociali, cit., 31. 148 Ma, come ci insegna lo stesso G.U. RESCIGNO, nel diritto (ma, più in generale, nelle

scienze che riguardano i rapporti tra gli esseri umani, «in linea generale, non esistono linee nette di confine tra le cose» (ID., Ripensando le convenzioni costituzionali, in Pol. dir., 1997, 499).

149 Il che deve essere letto, soprattutto, nella prospettiva della riforma del Titolo V e nell’ipotesi della sua ulteriore revisione. In questo senso, un problema può essere rappre-sentato dal fatto che, a differenza di quanto accade per altri diritti fondamentali (per esempio l’istruzione), non è testualmente in Costituzione l’obbligo per lo Stato di essere presente con proprie emanazioni istituzionali di assistenza su tutto il territorio nazionale, rima-nendo in capo allo stesso solo l’obbligo di assicurare cure gratuite agli indigenti, in osse-quio al precetto espresso nell’articolo 32. Cfr. N. DIRINDIN, I livelli essenziali delle presta-zioni sanitarie e sociali, relazione al Convegno I Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) nella Costituzione. Doveri dello Stato, diritti dei cittadini, 12 marzo 2002, Roma.

TRATTI GENERALI DEL (TRADIZIONALE) MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ 139

tratta alla discrezionalità del legislatore: l’esclusione dell’assoggettabilità del Ministero per la Salute a referendum abrogativo

150 ne è una chiara manifestazione, né si tratta dell’unico intervento di rilievo in materia.

Il discorso si presta però ad essere esteso anche ad altri diritti, né si possono ritenere queste riflessioni necessariamente limitate ai soli diritti sociali. Ma, evidentemente, per un diritto che si realizza attraverso l’azione di un’amministrazione le modalità della sua organizzazione non appaiono irrilevanti per la sua tutela (salvo verificare se, ed in che misu-ra, questo incida anche sulla soddisfazione del contenuto essenziale di questo diritto).

La stretta connessione tra diritti ed organizzazione è un dato impre-scindibile nella moderna sensibilità giuridica: il diritto ad un eguale trat-tamento è effettivamente tale in quanto vi sia una organizzazione che garantisca, da un lato, e favorisca, dall’altro, la sua concreta estrinseca-zione. Non sempre, per quanto attiene ai diritti ed alle libertà costitu-zionali, l’organizzazione risulta espressa a livello di normativa fonda-mentale al pari del diritto e della libertà stessa: a volte ciò avviene, ma in altri casi le misure organizzative da adottare non risultano esplicitate

151. Come ravvisato efficacemente dalla Corte costituzionale, «organiz-

zazione e diritti sono però aspetti speculari della stessa materia, l’una e gli altri implicandosi e condizionandosi reciprocamente. Non c’è organizzazione che, direttamente o almeno indirettamente, non sia finalizzata a diritti»

152, e non ci sono diritti che non richiedano una

150 Cfr. Corte cost., sent. n. 17 del 1997, in Giur. cost., 1997, 125 ss. che nel rigettare la richiesta di abrogazione referendaria delle disposizioni che prevedono l’esistenza del Mi-nistero della Sanità, ha sottolineato, come dai principi costituzionali in materia discenda che «le funzioni anche amministrative […] attribuite allo Stato in materia sanitaria sono, almeno in parte, sicuramente da considerarsi come costituzionalmente necessarie» [il corsi-vo è nostro].

151 Si veda, con una particolare sensibilità alla connessione tra interessi ed organizza-zione, G. ROSSI, Introduzione al diritto amministrativo, cit., 95 et passim. Vi sono, come è stato attentamente ravvisato, nella nostra Costituzione varie disposizioni e principi che incidono sulla organizzazione amministrativa: prescindendo per il momento da quelle previsioni che fissano “principi funzionali della organizzazione”, quali quelli di imparzia-lità, buon andamento, responsabilità, vi sono norme che fissano diritti, obblighi, doveri, da cui derivano obblighi organizzativi e vi sono, infine, norme che si riferiscono alla ri-partizione delle funzioni tra poteri pubblici e tra questi e le formazioni sociali. Ciascuna di queste ultime due tipologie di norme riveste indubbia importanza per le tematiche og-getto della nostra analisi: in effetti, uniformità e differenziazione rilevano tanto come modelli organizzativi conseguenti al riconoscimento (o mancato riconoscimento) di de-terminati diritti, doveri, obblighi di rango costituzionale, come anche quali modelli di al-locazione di funzioni tra le diverse entità territoriali che compongono lo Stato, oltre che tra queste e le formazioni sociali.

152 Cfr. Corte cost., sent. n. 383 del 1998.

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 140

qualche organizzazione (che li garantisca e li tuteli 153, se non già che

fornisca le prestazioni che li compongono) 154.

La rappresentanza diretta di soggetti portatori di certi interessi, e la loro partecipazione alla fase decisionale; la capillarità territoriale di una organizzazione di erogazione; il coinvolgimento nella programmazione di soggetti specifici, sono tutti elementi che attengono a profili organiz-zativi, ma che esercitano un effetto diretto sulla fruibilità del diritto, se non sulla sua stessa conformazione.

Se questo è vero, come è confermato dall’esame della giurisprudenza costituzionale, il problema diviene allora se, ed in che misura, la tutela di questi diritti richieda spazi di uniformità amministrativa insuscettibi-li di essere oggetto di scomposizione in una pluralità di regimi differen-ziati: ma se una risposta positiva a questa domanda appare inevitabile nell’ordinamento costituzionale precedente alle più recenti riforme, alle medesime conclusioni non necessariamente sarà possibile giungere al-lorché ci confronteremo con un sistema profondamente mutato.

5. Affioramenti del principio dell’uniformità amministrativa

5.1. Limiti all’autodifferenziazione regionale: riflessioni intorno alla pote-stà statutaria

Se nella prima parte della Costituzione, o come principio comune, non è rinvenibile un’affermazione od un generale vincolo all’uniformità amministrativa, nella tradizionale disciplina fondamentale dell’organiz-zazione della Repubblica risultava possibile rinvenirne una pluralità di emersioni. Questo si è realizzato a livello di Regioni, Province e Comuni, seguendo un modello di uniformità che, seppure a carattere generale, ha ammesso numerose differenziazioni, purché eteronome, eccezionali o dichiaratamente speciali. L’applicazione di questo modello è stato evi-

153 La crisi connessa ad eventi bellici che coinvolgono il territorio di uno Stato ne sono dimostrazione: un sistema che perde ogni (effettiva) struttura organizzativa, non sono solo i diritti “sociali” a perdere consistenza (dal che l’obbligo, per le forze di occupazione, di garantire l’ordine). Senza arrivare a questi estremi, vero è che appare sempre più evi-dente come anche la cura di diritti civili richieda l’intervento pubblico quantomeno attra-verso specifiche azioni di regolazione (così per la libertà di iniziativa economica, il diritto alla riservatezza, è fondamentale il ruolo delle apposite autorità di garanzia).

154 La qual ultima cosa è un elemento che compone la stessa nozione di diritto sociale (cfr. A. BALDASSARRE, Diritti sociali, cit., passim).

TRATTI GENERALI DEL (TRADIZIONALE) MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ 141

dente a livello regionale, laddove, pure, più forti sembravano essere le ragioni dell’autonomia e, soprattutto, laddove più ampi spazi di diffe-renziazione sembravano naturalmente legarsi alla potestà legislativa ri-conosciuta a tali enti a competenza territoriale limitata

155. Questo emerge in particolare esaminando, nel tradizionale assetto del

nostro ordinamento, la potestà statutaria regionale: il disporre di poteri di autodifferenziazione in relazione alla propria struttura fondamentale ed in relazione al proprio ordinamento “costituzionale”, è elemento de-cisivo per valutare il livello di autonomia (come differenziazione) orga-nizzativa riconosciuta ad un ente pubblico esponenziale

156. Nel quadro costituzionale che discende dalla Costituzione del 1948

157, si rileva, peraltro, una relazione inversa tra funzioni riconosciute e pote-ri di autodifferenziazione ordinamentale: così le Regioni speciali, forte-mente valorizzate sotto il profilo del quantum delle attribuzioni, hanno visto sostanzialmente non riconosciuto un potere di autodifferenziazio-ne nella struttura fondamentale

158. Espressione, questa, di un timore evi-dente per la tenuta dell’unità nazionale (rischio ritenuto insito in una va-lorizzazione quantitativamente e qualitativamente molto forte delle au-tonomie regionali “speciali”), che ha condotto, unitamente ad altri fatto-ri, ad una specialità spesso “negativa” delle cinque Regioni “a regime co-stituzionalmente differenziato”

159.

155 Cfr. F. PIZZETTI, Federalismo, regionalismo e riforma dello Stato, cit., 10 ss. 156 Sull’autonomia statutaria regionale, cfr., tra tutti, L. PALADIN, Diritto regionale, cit.,

37 ss.; in merito alle recenti riforme, cfr., tra gli altri, P. CAVALERI, Diritto regionale, cit., 40 ss. e, amplius, M. OLIVETTI, Nuovi statuti e forma di governo regionale. Verso le Costitu-zioni regionali?, Bologna, 2002.

157 Ma il discorso non muta nel nuovo ordine, nei suoi tratti generali: alle Regioni spe-ciali viene, di nuovo, sottratta la potestà di darsi uno statuto autonomo, se non per quan-to attiene a tratti limitati (in particolare: la forma di governo regionale, secondo quanto fissato dalla legge cost. n. 2 del 2001, recante “Disposizioni concernenti l’elezione diretta dei Presidenti delle Regioni a Statuto speciale e delle Province autonome di Trento e Bolzano”).

158 Da rilevare, peraltro, come prima delle recenti riforme lo Statuto delle Regioni or-dinarie fosse una fonte, se non eteronoma, non pienamente autonoma, data la necessaria approvazione con legge, formale, della Repubblica (rectius, dello Stato, diremmo ora): ed anzi l’esperienza dell’approvazione degli statuti delle Regioni ordinarie ne ha, di nuovo, confermato «la situazione di dipendenza» (v. L. PALADIN, Diritto regionale, cit., 53). Per una critica al carattere eteronomo degli statuti speciali, confermato dalla riforma del Ti-tolo V, cfr. T.E. FROSINI, La differenziazione regionale, cit., per il quale ciò deve ritenersi «non più una prerogativa ma piuttosto un vulnus all’autonomia regionale, visto e consi-derato che le Regioni ordinarie, invece e giustamente, approvano con propria legge re-gionale i propri statuti».

159 Il tema della “specialità negativa” (anzitutto come marginalità rispetto ai processi di innovazione amministrativa promossi dal centro) delle Regioni differenziate è frequen-temente ripreso in dottrina.

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 142

Se per tali Regioni ci troviamo di fronte a statuti eteronomi fissati con legge costituzionale, per quelle ordinarie il modello tradizionale ap-pare, sì riconducibile al sistema c.d. misto, nel quale coesistono insieme elementi di uniformità, fissati nella Carta fondamentale, «ed elementi di potenziale difformità, rimessi alla autonomia normativa»

160 delle Regio-ni, ma con una decisa prevalenza dei tratti uniformanti

161. Il potere di “autodifferenziazione fondamentale”, ovvero di darsi una “propria costi-tuzione”, è, nel sistema che emerge dalla Carta costituzionale repubbli-cana, significativamente limitato, senza che però si possa parlare di una fonte eteronoma quale statuto delle Regioni ordinarie

162. Una fonte, que-sta, atipica, limitata quanto a competenza, deliberata sì dal Consiglio re-gionale, secondo il disposto dell’art. 123 Cost., ma subordinata all’appro-vazione attraverso una legge dello Stato.

Un modello, inoltre, nel quale la disciplina costituzionale dei tratti fondamentali dell’ordinamento della Regione, determinava una strin-gente griglia di uniformità, che lasciava margini esigui alla “auto” diffe-renziazione regionale

163. Né i limiti alla differenziazione discendevano unicamente dalla diret-

ta disciplina costituzionale.

160 Cfr., in un’ottica di diritto comparato, F. PIZZETTI, Federalismo, regionalismo e ri-forma dello Stato, cit., 10 ss.

161 La schematizzazione proposta da F. PIZZETTI (ult. op. cit., 11), fissa, in via generale, tre modelli: uno a totale uniformità costituzionale e/o nazionale, uno a totale differenzia-zione regionale/federale, un terzo (che poi è quello di fatto presente quasi ovunque, con tendenze verso l’uno o verso l’altro dei due modelli “estremi” suddetti) che unisce tratti uniformi dati dalla costituzione a tratti differenziati espressione della propria autonomia statutaria/ordinamentale. Va peraltro sin d’ora premesso che la legge cost. n. 1 del 1999 ha realizzato un significativo spostamento del punto di equilibrio nell’ambito della ten-sione uniformità-differenziazione, pur sempre mantenendosi nell’ambito del modello “misto” prima accennato.

162 Vero è, peraltro, che in sede di approvazione parlamentare, si è sindacato non solo della legittimità (e, quindi della “armonia con la Costituzione” oltre che con le “leggi della Repubblica, ai sensi del previgente art. 123: inciso, quest’ultimo, da intendersi come ne-cessità di armonizzarsi non già con ogni disposizione legislativa statale, come pure ini-zialmente richiedeva la legge Scelba (v. artt. 1, 2, 3, 4, 5 e 7 della legge n. 62 del 1953, poi sostituiti ad opera della legge n. 1084 del 1970), ma con i principi generali dell’ordi-namento giuridico e con i principi fondamentali della legislazione statale: v. Corte cost., sent. n. 40 del 1972), ma lo stesso merito costituzionale delle previsioni statutarie. La pro-cedura delle audizioni informali dei rappresentanti regionali, e della richiesta di emen-damenti quale condizione per l’approvazione degli statuti (9 Consigli regionali su 15 han-no dovuto procedere addirittura ad un duplice riesame: cfr. L. PALADIN, Diritto regionale, cit., 56), conferma il tradizionale carattere eterodiretto dell’autonomia regionale, anche (e soprattutto) nella sua manifestazione statutaria.

163 In particolare, senza attardarci in un esame puntuale delle singole disposizioni, si evidenzia la forma di governo (art. 121) fosse fissata in modo uniforme, al pari della ne-cessaria derivazione consiliare di Presidente della Giunta e della Giunta stessa (art. 122, comma ultimo).

TRATTI GENERALI DEL (TRADIZIONALE) MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ 143

Così, le modalità di elezione dei rappresentanti della comunità regio-nale in seno agli organi politici risultavano, in particolare, oggetto di una sottrazione ai poteri di differenziazione regionali, seppure non di-sciplinate dalla Costituzione: il rinvio alla legge nazionale (art. 122, com-ma 1°), evidenziava, in ogni caso, la chiara opzione in favore di un mo-dello uniforme di legislazione elettorale. Il quadro complessivo delinea-va, quindi, un modello a forte uniformità, nel quale gli spazi, pure, come detto riconosciuti, alla autonomia come autodifferenziazione ordina-mentale regionale, risultavano contenuti entro confini rigidi.

5.2. I poteri locali come (presunto) archetipo del principio di uniformità nel sistema costituzionale: legislazione generale e di principio, diffe-renziazione eteronoma ed autonoma

Ancora più chiara sembra, nella Costituzione del 1948, la scelta in fa-vore dell’uniformità amministrativa locale: l’opzione per un modello di ispirazione francese “a tendenziale uniformità”, è apparsa, tradizional-mente, evidente, non solo per ciò che la Costituzione stessa ha afferma-to, ma anche per ciò che, non diversamente disciplinandolo, ha di fatto accettato così come preesistente

164. Se questo è vero, come è peraltro confermato dal vigore che a lungo

ha dimostrato la legge comunale e provinciale del 1934 (che, a sua volta, era sostanzialmente la ripetizione del modello sabaudo di chiara im-pronta francese)

165, è però vero anche che i principi costituzionali non sempre hanno trovato immediata (o pronta) applicazione, talché il fatto che venissero disattesi è risultato spesso frutto di un inadempimento del legislatore e di una scarsa sensibilità della Corte costituzionale, prima ancora che segno di una compatibilità piena della legislazione primaria con norme di rango costituzionale.

L’affermazione del valore dell’autonomia è forte nella Costituzione del 1948

166, come ne è, però, forte il contenimento. Da un lato il principio autonomistico locale è ribadito due volte nella

164 Per un approccio al tema, ampiamente trattato dalla dottrina, cfr., tra gli altri, F. BENVENUTI, L’ordinamento repubblicano, cit., 113 ss.; G. BERTI, I caratteri dell’ammini-strazione comunale e provinciale, in Riv. amm., 1959, 59 ss.

165 Come visto, l’opzione a favore del modello franco-piemontese dell’uniformità, ri-spetto a quello austriaco della differenziazione, fu sancito dalla legge sull’unificazione amministrativa, 20 marzo 1965, n. 2248.

166 Sul punto, tra tutti, v. C. ESPOSITO, Autonomie locali e decentramento amministrati-vo art. 5 della Costituzione, in ID., La Costituzione italiana, cit., 67 ss.

6.

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 144

Costituzione, dall’altro è stato per molto tempo inattuato ed a lungo i no-stri Comuni e le nostre Province hanno vissuto «sulla base di una legge che non dico comprimesse, ma certo ignorava l’autonomia locale»

167. Il modello di autonomia locale suggerito dalla Carta repubblicana

emerge dall’art. 128, ai sensi del quale «le Province ed i Comuni sono en-ti autonomi nell’ambito dei principi fissati da leggi generali della Repub-blica, che ne determinano le funzioni»: disposizioni dalle quali si è trat-to, tradizionalmente, la “costituzionalizzazione” del modello francese del-l’uniformità.

L’articolo in questione, da leggersi (ma non sempre letto) in combina-to con l’art. 5, risultava composto da due disposizioni diverse: «le Pro-vince ed i Comuni sono enti autonomi nell’ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica», «leggi generali della Repubblica deter-minano le funzioni di Comuni e Province»

168. Per l’ordinamento locale, dalla dizione “legge generale”

169 discendeva, come è stato affermato, una scelta a favore di un modello uniforme nel campo delle autonomie e quindi una conferma di questo

170. L’interpre-tazione alla luce della quale il legislatore ordinario era vincolato a disci-plinare in maniera uniforme l’ordinamento di tutti i Comuni e di tutte le Province, risultava, peraltro, prima faciae dalla lettura delle disposizioni dell’art. 128, e confermata dalla lettura dei lavori preparatori della nor-ma in oggetto

171. Da questi si evince infatti come il Comitato di redazio-

167 Così M.S. GIANNINI, L’ordinamento dei pubblici uffici e la Costituzione, in AA.VV., Attualità e attuazione della Costituzione, cit., 99 (con riferimento alla legge comunale e provinciale del 1934).

168 Nella seconda di queste disposizioni scompare il riferimento ad una normazione “di solo principio”, pur restando in entrambi i casi il riferimento a “leggi generali”. Per quanto riguarda dette leggi generali come “leggi della Repubblica”, viene da riflettere sul significato di detta terminologia, altrove utilizzata per ricomprendere, correttamente, sia lo Stato-persona che le Regioni, nel Titolo V in un primo tempo letta nell’accezione ri-stretta di “leggi dello Stato-persona”. Questa impostazione è stata, peraltro, successiva-mente superata (si veda, ad esempio, sul ruolo regionale dopo la legge n. 142 del 1990, G.C. DE MARTIN, Il ruolo della Regione nel processo di riforma delle autonomie locali, in Studi Ottaviano, I, Milano, 1993, 339 ss.

169 Il riferimento costituzionale appare confermare la tesi di chi ritiene non necessa-riamente “generali ed astratte” le leggi, posto che lo stesso costituente quando ha voluto riferirsi ad una legge “generale” lo ha fatto espressamente; cfr. T. MARTINES, Diritto costi-tuzionale, cit., 61. Vedi, in tal senso, anche Corte cost., sent. n. 60 del 1957 e, più di recen-te, n. 143 del 1989.

170 Per una lettura dell’art. 128, nelle sue possibili interpretazioni, cfr. A. ORSI BATTA-GLINI, Le autonomie locali nell’ordinamento regionale, cit., spec. 381 ss.

171 In tal senso, tra gli altri, v. F. STADERINI, Diritto degli enti locali, cit., 52 ss.: le finali-tà sottese all’art. 128 erano quella di vincolare il legislatore ordinario a disciplinare in maniera uniforme l’ordinamento di tutti i Comuni e di tutte le province e quella di de-terminare uniformemente le loro funzioni.

TRATTI GENERALI DEL (TRADIZIONALE) MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ 145

ne, con questa norma, avesse inteso obbligare il legislatore ad «una di-sciplina uniforme per tutti i Comuni e Province, in modo che, rispetti-vamente, tutti le Province e tutti i Comuni siano posti su un piede di perfetta uguaglianza di fronte alle leggi dello Stato»

172. La Corte costituzionale, laddove è stata chiamata a pronunciarsi sulla

materia, ha poi costantemente affermato come l’art. 128 comportasse necessariamente il divieto a «leggi singolari o di deroga», dovendosi re-golare l’ordinamento degli enti locali territoriali in «modo organico ed uniforme»

173. In relazione quindi alle autonomie locali riconosciute dal-la Costituzione, la Carta del 1948 prevedeva una duplice forma di garan-zia: nei confronti delle Regioni, impossibilitate ad esercitare ingerenze in tema di ordinamento degli enti locali, ma anche nei confronti dello stesso Stato, cui risultava interdetta la possibilità di regolare in modo differenziato i diversi Comuni e le diverse Province, potendo fare ricorso unicamente allo strumento della “legge generale”

174. Nei confronti della legge statale la Costituzione prevedeva poi, come accennato, l’ulteriore limite di una legislazione di soli principi: la scelta di una eterostruttura-zione uniforme, garanzia per le autonomie, ma anche per i cittadini in quanto letta come un precipitato del principio di eguaglianza

175, risulta-va però compatibile con differenziazioni “nel dettaglio”, operate da parte delle stesse autonomie; o almeno questo è quanto si poteva ricavare dal-la lettura delle norme costituzionali in oggetto, principalmente dall’art. 128

176.

172 Cfr., al riguardo, V. FALZONE-F. PALERMO-F. COSENTINO, La Costituzione della Re-pubblica italiana, cit., 341.

173 V. Corte cost., sent. n. 9 del 1961, in Giur. cost., 1961, 51 ss, con nota di V. Crisaful-li. La decisione della Corte, riferita alla competenza legislativa della regione siciliana, può essere estesa a fortiori alla legislazione statale, proprio in virtù del disposto dell’art. 128. La potestà legislativa in tema di enti locali deve essere esercitata in modo organico ed u-niforme, e non può discostarsi in casi singoli dalla disciplina comune dettata in sede di regolamentazione generale della materia: «ogni deroga per un caso singolo dà luogo ad illegittimità costituzionale» (ivi, 53).

174 Cfr., ancora, F. STADERINI, La potestà statutaria dei minori enti locali territoriali e la riforma della legge comunale e provinciale, in Foro amm., 1977, 276 ss. ed il commento all’art. 128 Cost. in V. FALZONE-F. PALERMO-F. COSENTINO, La Costituzione della Repub-blica italiana, cit., 340 ss.

175 Il fondamento della generalizzazione dei municipi derivava dal principio di égalité, che si tradusse, nell’ambito amministrativo, in quello di uniformité che significò l’esten-sione a tutti i comuni, indipendentemente dalle dimensioni, dello stesso ordinamento. Sul punto, cfr., in particolare, L. VANDELLI, Poteri locali, cit., 194 et passim.

176 L’impostazione tradizionale, precedente alla legge n. 142, era altresì nel senso di ne-gare una autonomia normativa di carattere ordinamentale alle realtà locali: a differenza del-le altre categorie di enti pubblici, i Comuni e le Province erano considerati privi di ogni po-testà statutaria (in questo senso cfr. L. VANDELLI, Le autonomie territoriali, cit., 221).

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 146

Ma se la “legge generale” è quella che, in relazione ad una determina-ta materia, intesa nella sua interezza, la disciplina in modo uniforme per tutto il territorio dello Stato

177, e se una lettura complessiva del principio di uguaglianza comporta l’affermazione del carattere necessariamente valutativo delle disposizioni normative, anche il carattere “costituzio-nalmente doveroso” dell’uniformità amministrativa viene meno. Quindi, anche alla luce della evoluzione che ha caratterizzato il principio costi-tuzionale di uguaglianza, più corretto affermare che il legislatore costi-tuzionale, prevedendo la “generalità della legge”, non mirasse a porre un vincolo assoluto alla uniformità tra gli enti locali

178, quanto ad impedire al legislatore di differenziare sulla base di caratteri specifici (non gene-rali).

In questo senso si è orientata la stessa Corte costituzionale, la quale ha confermato l’esclusione della possibilità di regimi di privilegio per de-terminati enti locali, ma ha riconosciuto la possibilità di utilizzare forme organicamente differenziate nella misura in cui queste rispondessero ad esigenze costituzionalmente significative

179. In quest’ottica, lo stesso prin-cipio di uniformità dei modelli di amministrazione, ferme restando le garanzie connesse al riconoscimento dell’autonomia locale, ha perso il proprio carattere “necessario”, non potendosi desumere dal dettato co-stituzionale un assoluto divieto di differenziazione

180.

177 Cfr. C. ESPOSITO, Eguaglianza e giustizia, cit., 53 et passim; F. STADERINI, Diritto de-gli enti locali, cit., 51 ss.; sul tema, vedi, in particolare, L. PALADIN, voce Eguaglianza, cit., 526 ss. La legge generale non consente, infatti, quale che ne sia il contenuto, «né il privi-legio, cioè il provvedimento a favore di uno solo, né la discriminazione, cioè il provvedi-mento a sfavore di uno solo» (N. BOBBIO, Governo degli uomini o governo delle leggi?, in ID., Il futuro della democrazia, cit., 176): questa riflessione, in teoria applicabile ad ogni legge “in quanto generale per sua natura”, è per certo valida per quelle leggi volute “gene-rali” dal Costituente.

178 Se questo è il principio fissato dal legislatore costituzionale, si tratta di un princi-pio che, a nostro avviso, resta aperto ad una lettura che lo raffronti con altre disposizioni e che lo combini con altri principi, di pari rango, contenuti nella stessa Costituzione: in particolare il più volte rimarcato principio di uguaglianza, oltre che quello di buon an-damento, oltre allo stesso principio di autonomia, ci portano a poter affermare come non sia necessariamente conforme a questi ultimi principi una regolazione “rigidamente uni-forme” anche a fronte di differenze sostanziali rilevanti. In particolare, dal principio di “buon andamento” sembra potersi ricavare un principio di “flessibilità dell’azione ammi-nistrativa”; cfr. in questo senso M. NIGRO, Studi sulla funzione organizzatrice, cit.; su co-me il principio autonomistico implichi una necessaria differenziazione, cfr. E. ROTELLI, Le Regioni, le Province, i Comuni, cit., 13 ss.

179 Il caso de qua si riferiva alla sottrazione di competenze ai Comuni ricompresi nei territori delle aree metropolitane siciliane, operata, in Sicilia, con legge regionale.

180 Sempre ai sensi della sent. n. 286 del 1997 della Corte cost.; in merito si veda anche il commento di D. Morana, in L. DE ANGELIS-D. MORANA, Materiali sull’attuazione della riforma delle autonomie locali, II, Milano, 1999, 80 ss.

TRATTI GENERALI DEL (TRADIZIONALE) MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ 147

In tal senso, in presenza di valori costituzionalmente rilevanti e di dif-ferenziazioni materiali significative, trovano giustificazione discipline differenziate. Se questo ha legittimato discipline derogatorie, eterodiffe-renziate, più sofferta è stata l’affermazione di spazi di differenziazione affidati alle stesse autonomie.

La dizione dell’art. 128, laddove prevedeva la disciplina dell’autonomia degli enti locali territoriali ad opera di una legislazione nazionale generale e di principio, sembrava suggerire altresì quest’ultima opzione.

Una regolazione tendenzialmente uniforme, ai sensi dell’art. 128, ma anche, a livello teorico, una regolazione “di principi”, secondo un model-lo presente anche in altre parti della Carta costituzionale (per tutte nel-l’istituto della legislazione regionale concorrente), posto a garanzia, ad un tempo, di uguaglianza (dei cittadini, ma anche degli stessi enti) e di libertà (o, qui, di autonomia).

Dal che, astrattamente, sembrava discendere uno spazio per una re-golazione autonoma in relazione all’organizzazione, se non anche alle funzioni, dell’ente autonomo

181. A Comuni e Province, “parti del Regno” al pari delle Regioni, non

viene però riconosciuta, fino alla legge n. 142 del 1990, quella potestà statutaria

182 pure generalmente attribuita ad altri enti pubblici. In que-sto senso, fino alla riforma dell’ordinamento locale del 1990, il princi-pio di uniformità si poneva come «negazione di spazi di autorganizza-zione agli enti locali»

183, risultando di fatto affermato un modello nel quale l’uniformità

184 era vista come garanzia dell’unità e della coesione

181 In quest’ottica, infatti, la previsione di una autonomia statutaria locale, non mo-strava certo dubbi di costituzionalità, ma si poneva anzi come corollario necessario delle disposizioni dell’art. 128 (alla luce dell’art. 5), e, quindi, come attuazione della Carta del 1948. Posizione diversa veniva però sostenuta prima della legge n. 142 del 1990, nel sen-so, come visto, rilevato da L. VANDELLI, Le autonomie territoriali, cit., 221.

182 Questo tema ha sempre avuto una grande forza evocativa, in quanto richiama il processo di autodeterminazione dei corpi sociali. In particolare, in relazione agli gli sta-tuti comunali la suggestione è anche di carattere storico, richiamando il diritto delle anti-che municipalità, divenute recessive con l’avvento della Rivoluzione francese e poi defini-tivamente dispersesi nell’ambito dello Stato moderno. Cfr., in questo senso M.L. ZUPPET-TA, Statuto e autonomia dei “nuovi” Comuni, in Giustizia amministrativa (www.giust.it).

183 Così L. VANDELLI, Poteri locali, cit., 225. 184 Pure l’affermazione del superamento di questo modello è frequente, in corrispon-

denza delle diverse fasi dell’evoluzione del sistema delle autonomie (regionali, locali): co-sì, ad esempio, R. DI PASSIO (Autonomie e pubblica amministrazione, in AA.VV., Lo Stato delle autonomie, Torino, 1980, 58 ss.) rilevava già l’abbandono del tentativo di raggiunge-re l’unità dell’azione amministrativa attraverso uniformità strutturali, coerentemente con un sistema che, ammettendo l’autonomia, «rifugge l’uniformità» (ivi, 60).

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 148

nazionale, attraverso un indirizzo «sostanzialmente livellatore degli or-dinamenti»

185. Lo spartiacque, se di questo si può parlare, in tema di passaggio da

un modello rigidamente uniforme ad uno in cui si accrescono via via gli spazi di differenziazione, è allora proprio nel riconoscimento di potestà statutaria agli enti territoriali minori, ma più complessivamente nelle previsioni della legge n. 142 del 1992, senza che peraltro si possa, anco-ra, parlare di rottura dell’uniformità amministrativa locale

186.

185 In questo senso, è molto chiara la lettura del principio di uniformità in connessione con quello di unità nazionale, data dalla giurisprudenza; cfr., al riguardo, TAR Piemonte, 25 giugno 1975, n. 198, in Foro amm., 1975, 1356, per il quale la Costituzione ha confer-mato l’opzione unitaria di evitare «di consentire differenziazioni strutturali fra l’ordina-mento dei massimi Comuni e quello dei più modesti».

186 L’affermazione della “rottura dell’uniformità” ricorre tra i più attenti commentatori della legge n. 142 del 1990. L’attuazione della legge ha però minimizzato i tratti di diffe-renziazione prefigurati dalla legge, tanto che, ad oggi, questa piuttosto che una “rottura” si afferma che l’uniformità del regime locale, ha trovato di fatto una conferma nella legge sulle autonomie, «nonostante qualche marginale articolazione» (così V. CERULLI IRELLI, La nuova Costituzione e l’ordinamento della città di Roma, cit., 1).

CAPITOLO SESTO

INCRINATURE NEL MODELLO DELL’UNIFORMITÀ LOCALE

NELL’EVOLUZIONE LEGISLATIVA DEL SISTEMA

SOMMARIO: 1. L’ordinamento legislativo dei poteri locali nel periodo repubblicano. La diffe-renziazione come eccezione: uniformità e problema del riordino territoriale. – 2. La rifor-ma dell’ordinamento locale: la legge n. 142 del 1990 e la prima rottura formale del princi-pio di uniformità amministrativa locale. – 3. Aperture alla differenziazione nella legge n. 142 del 1990. – 3.1. Rapporto tra la potestà statutaria e l’art. 128 Cost. nell’evoluzione del sistema. – 3.2. L’art. 3 della legge n. 142 e l’eterodifferenziazione regionale delle funzioni locali. – 3.3. Margini di autodifferenziazione funzionale nell’art. 9 della legge n. 142: l’assunzione di “funzioni ulteriori”. – 4. I tentativi di risposta all’insufficienza della dimen-sione comunale: soluzioni nella linea dell’uniformità e in quella della differenziazione. – 4.1. Le “Aree metropolitane” come enti locali a natura differenziata. – 4.2. Ordinamenti differenziati per le Comunità montane. – 4.3. Forme associative ed ambiti territoriali otti-mali, tra differenziazione funzionale e riordino territoriale. – 5. La legge n. 59 del 1997 e la positivizzazione del principio di differenziazione (funzionale). – 5.1. Lo scenario di fondo della legge n. 59: la riforma costituzionale della Bicamerale ed il suo fallimento. – 5.2. Il principio di differenziazione funzionale nella legge n. 59 del 1997. – 6. Il decreto n. 112 del 1998 e l’attuazione dei principi della legge n. 59 del 1997. Recenti (e disorganiche) tenden-ze alla differenziazione nella normativa sulle autonomie locali.

1. L’ordinamento legislativo dei poteri locali nel periodo repubblicano. La differenziazione come eccezione: uniformità e problema del rior-dino territoriale

Il modello dell’uniformità, con tutte le eccezioni che i più attenti cri-tici avevano da tempo segnalato (ed anzi, anche grazie a queste), reggerà a lungo, a livello di principio, nel sistema amministrativo locale: la Carta repubblicana, d’altro canto, ha se non costituzionalizzato, certo non smentito il modello previgente, quantomeno allorché ha previsto l’ob-bligo, per il legislatore, di una disciplina ordinamentale di Comuni e Province da effettuarsi con “legge generale”.

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 150

La “necessaria differenziazione”, invocata da giuristi autorevoli quali Zanobini e, successivamente, Giannini, specie a fronte di un mancato riordino territoriale che permettesse quantomeno di ridurre le diversità di fatto esistenti

1, innanzitutto a livello dimensionale tra Comuni, divie-ne sempre più “la normale eccezione” ad un modello comunque teori-camente uniforme. Nonostante da più parti venisse, quindi, ravvisato come pur nel suo collegamento ideale al principio di uguaglianza, il principio di uniformità nascondesse elementi di ingiustizia, il sistema di cui abbiamo analizzato le origini risalenti, attraverserà indenne, fino a tempi recenti, larga parte della storia dell’Italia repubblicana

2. La posizione, emersa ancora in seno all’Assemblea Costituente, volta

a garantire che tutte le Province e tutti i comuni continuassero a porsi «su un piede di perfetta uguaglianza di fronte alle leggi dello Stato»

3, ri-sultava, alla prova dei fatti, difficilmente compatibile, in termini di effi-cienza ed efficacia, con un sistema territorialmente fortemente disomo-geneo: la scelta, o meglio la “non scelta”, in favore di un riordino territo-riale da più parti richiesto si scontrava con un sistema politico ed am-ministrativo, quale quello italiano, tradizionalmente restio a mettere in discussione “gli attori in campo”

4. A fronte di una realtà territorialmente parcellizzata, composta di

«Comuni polvere di poche centinaia di abitanti», «cose artificiose, ridi-

1 Su questa linea si inserisce, più recentemente, S. CASSESE (Tendenze dei poteri locali in Italia, cit., 283 ss.), per il quale l’eterogeneità dei poteri locali portava inevitabilmente a scegliere la via della differenziazione di disciplina.

2 Tra gli altri, Zanobini rilevava come «di una differenziazione di ordinamento, basata non più sulle vecchie differenze storiche e legislative, ma sulle differenze di fatto esistenti tra vari Comuni, si sia sempre trattato ripetutamente nel campo dottrinale ed in quello politico. Si è sempre sentita l’ingiustizia di un trattamento identico fatto ai piccoli comu-ni di montagna, aventi poche centinaia di anime, ed alle grandi città popolose di migliaia di abitanti» (G. ZANOBINI, L’amministrazione locale, cit., 153; su questa linea si veda an-che U. BORSI, Regime uniforme, cit., 7 ss.).

3 Vedi, in questo senso, l’intendimento del Comitato di redazione in relazione alla di-zione “leggi generali” di cui all’art. 128, nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, come emerge in V. FALZONE-F. PALERMO-F. COSENTINO, La Costituzione della Repubblica italiana, cit., 341. Su questa linea si attesterà anche la giurisprudenza costituzionale (v., in particolare, la sent. n. 9 del 1961).

4 Impostazione, questa, confermata nei tentativi di riforma costituzionale ed ora nelle più recenti riforme del nostro ordinamento. Questo è evidente, in particolare, a livello re-gionale oltre che locale, dove gli stimoli in favore di un ridisegno della geografia ammini-strativa regionale, pensata oltre un secolo fa per ragioni essenzialmente statistiche, trami-te processi di accorpamento, emersi in particolare dalla proposta della Fondazione Agnelli (La fondazione Agnelli: l’Italia in dodici regioni, in C. PETRACCONE (a cura di), Federalismo e autonomia in Italia dall’unità ad oggi, Roma-Bari, 1995, 302 ss.), miranti a garantire una dimensione adeguata delle maggiori autonomie nella prospettiva del loro potenziamento, non hanno avuto alcun seguito).

INCRINATURE NEL MODELLO DELL’UNIFORMITÀ LOCALE 151

colaggini giuridico sociali», al mantenimento dell’uniformità non corri-spose, in Italia, un significativo processo di accorpamento-fusione, in una parola riordino territoriale

5. Le ragioni di questa mancata riforma sono in ultima istanza numerose e complesse, ed in taluni casi si fonda-no su alti principi costituzionali, quali quello democratico

6. Quali che siano state queste ragioni, il tentativo di rispondere ai difetti generati da una legislazione uniforme calata su realtà amministrative e sociali for-temente eterogenee attraverso una omogeneizzazione, forzata o incenti-vata, delle loro condizioni strutturali non ha avuto, nel corso dell’espe-rienza repubblicana, buon esito

7. Nelle proposte di riforma della legge comunale e provinciale

8 queste

5 Sul punto, si veda innanzitutto, per una impostazione del problema nei suoi caratte-ri generali, M.S. GIANNINI, Il riassetto dei poteri locali, cit., 452; e, più di recente, il nume-ro monografico sul tema di Regione e governo locale (n. 5, 1995).

6 Sulla necessità di riformare la legge comunale e provinciale in seguito all’avvento della Costituzione repubblicana, si sollevò in particolare un certo dibattito, anche grazie all’opera di insigni giuristi. Così, se lo Stato e gli enti autonomi devono contribuire insie-me alla formazione dell’ordinamento complessivo, diviene per F. BENVENUTI, (Per una nuova legge comunale e provinciale, in Riv. amm., 1959, I, 29 ss.), necessario riformare il quadro normativo degli enti autonomi; vedi, in questo senso, anche P.M. LUCIFREDI, Per un nuovo testo unico della legge comunale e provinciale, in ID., Contributi al diritto e alla scienza dell’amministrazione, 1959, I, 1 ss. (secondo il quale l’innovativo slancio della Car-ta costituzionale si perde, fintanto che larga parte della materia resta «disciplinata da te-sti concepiti e formulati in tempi lontani, secondo uno spirito diverso e addirittura antite-tico all’attuale»).

7 La questione del “riordino territoriale”, a fronte dell’inadeguatezza delle dimensioni comunali, è stata affrontata in vari paesi europei, ed in particolare in realtà in cui è rin-tracciabile il modello “francese” dell’uniformità-parcellizzazione comunale. In un’ottica comparatista più generale non specificatamente centrata sul solo tema del riordino terri-toriale, cfr. S.GAMBINO (a cura di), Stati nazionali e poteri locali, cit. e L. VANDELLI, Poteri locali, cit., 95 ss.

8 Intorno ai primi anni ’70, in particolare, riprende corpo la discussione sulla riforma generale del potere locale (in questo senso, si veda nel dettaglio G. VESPERINI, I poteri lo-cali, cit., 155 ss.): i contributi più rilevanti provengono dalla dottrina e da centri di ricer-ca. Si veda, in particolare, il lavoro del c.d. “gruppo di Pavia”, pubblicato in AA.VV., Legge generale sull’amministrazione locale, Padova, 1977 (da notare, al riguardo, come la propo-sta muovesse, in materia di funzioni locali, da due constatazioni: l’inadeguatezza di molte realtà locali e l’ampia differenziazione esistente tra i diversi Comuni e, dunque «della rot-tura nei fatti del criterio dell’uniformità»; da ciò discendeva la proposta di «predisporre un tessuto normativo che renda possibile la differenziazione e la sperimentazione di mo-delli diversi»: ivi, 13); la proposta di legge elaborata dall’ISAP, presentata ai gruppi par-lamentari e pubblicata a cura di E. Rotelli, come Legge generale di autonomia dei Comuni e delle Province, in Amministrare, 1989, n. 1-2 (numero monografico); così, ancora, il testo redatto sotto la cura di M.S. Giannini (e presentato da questi in Foro amm., 1989, 2939 ss.). Sul tema, più approfonditamente, si veda, ancora, A. ROMANELLI, Centralismo e au-tonomie, in ID. (a cura di), Storia dello Stato italiano, Roma, 1995, 175 ss.; in relazione al dibattito politico in materia di riforma dell’ordinamento locale e sulle esigenze che, co-munque, spingevano tal senso, si vada, oltre allo stesso Romanelli (ivi, spec. 180), il Rap-

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 152

esigenze, non di meno, tendevano a riemergere: l’uniformità dell’orga-nizzazione e l’omogeneità delle funzioni esercitate a livello locale, impo-nevano la (o almeno determinavano la consapevolezza dell’esigenza del-la) riduzione delle diversità strutturali che però non venne praticata

9. L’ordinamento legale, uniforme, calato su realtà eterogenee tendeva

allora a differenziarsi di fatto: sia dal punto di vista organizzativo che funzionale. Un’autodifferenziazione (di fatto) che si sommava quindi al-la differenziazione eteronoma, ma a carattere eccezionale e straordina-rio, talvolta intrecciata e collegata con lo stesso intervento pubblico dif-ferenziato nel Mezzogiorno

10. A fronte di una uniformità formale, si è realizzato in concreto un as-

setto che presentava differenziazioni anche rilevanti, sia in relazione a profili organizzativi che, soprattutto, in relazione all’effettivo esercizio delle funzioni di competenza locale

11. Da un lato, la stessa “forma di governo comunale” mutava in ragione

della dimensione dell’ente locale, posto che l’influenza ed il peso del fondamentale organo assembleare locale variava sensibilmente tra pic-coli e grandi Comuni, in particolare, con una prevalenza del ruolo del Consiglio nei Comuni maggiori

12. Il modello organizzativo approntato

porto 1982 sullo stato delle autonomie, Roma, 1982, 45 ss. e M. CAMMELLI, La politica di riforma del governo locale, in B. DENTE (a cura di), Le politiche pubbliche in Italia, Bolo-gna, 1990, 155 ss.

9 Sul problema dell’inadeguatezza delle dimensioni comunali, si veda, di nuovo, M.S. GIANNINI, Enti territoriali locali e programmazione, cit., 203; G. BERTI, Crisi e trasforma-zione della amministrazione locale, cit., 77 et passim.

10 In questo ambito sono anzi rintracciabili significativi esempi, non suscettibili però di determinare il cambiamento di un modello generale, posta l’eccezionalità e, appunto, dichiarata straordinarietà di dette normative. Così, si veda la legislazione speciale per i Comuni di Napoli (art. 1, legge n. 717 del 1965 e legge n. 7 del 1962) e Palermo (legge n. 28 del 1962), le attribuzioni della Cassa per il Mezzogiorno (in particolare in materia di scuola materna ed istruzione tecnica); la possibilità di costituzione, da parte di Comuni, Province e CCIAA di consorzi di sviluppo industriale (art. 21, legge n. 634 del 1957). In generale, sul tema dell’intervento straordinario nel mezzogiorno, si veda in particolare B. DENTE, Governare la frammentazione. Stato, regioni ed enti locali in Italia, Bologna, 1985.

11 Come è stato ben evidenziato dalla già citata ricerca curata dall’ISR-CNR (Le fun-zioni del governo locale, II, Il dato normativo, a cura di F. MERLONI-L. TORCHIA-V. SAN-TANTONIO): secondo i dati di questa ricerca, in particolare, l’area di mancato adempimen-to delle funzioni da parte dei comuni è inversamente proporzionale alla popolazione, fino ad arrivare, per i piccoli comuni al di sotto dei 1000 abitanti, ad un’area di non esercizio dell’82% delle funzioni considerate essenziali.

12 È stato, in questo senso, segnalato come la forma di governo reale si muovesse, in maniera direttamente legata al crescere della dimensione demografica, prima ancora che territoriale, in un continuum ai cui estremi si ponevano da un lato il piccolo Comune in cui il ruolo prevalente veniva assunto dal Sindaco, da solo o insieme alla Giunta, e dall’altro il grande centro urbano in cui il ruolo di indirizzo politico era pienamente dete-nuto dal Consiglio. Così M.S. GIANNINI, in Il riassetto dei poteri locali, cit., 455 ss.

INCRINATURE NEL MODELLO DELL’UNIFORMITÀ LOCALE 153

dal legislatore attraverso la sua legislazione illuministicamente uniforme finiva, quindi, per adattarsi correttamente ed efficacemente alle sole en-tità di medie dimensioni, nelle quali realtà formale e realtà fattuale veni-vano a trovarsi in situazione di piena rispondenza

13. Non diverso il discorso, ed anzi più macroscopico nelle sue manife-

stazioni, con riferimento alla problematica dell’esercizio delle funzioni: come è stato dimostrato

14, nei Comuni minori la ridotta dimensione demografica ed organizzativa ha determinato, in modo evidente, il man-cato esercizio della gran parte delle funzioni attribuite o delegate al Co-mune

15. Una distanza così evidente tra dato reale e dato formale, da giustifi-

care una pluralità di tentativi di risposta, che però a lungo, a livello legi-slativo, si tradussero di nuovo in disposizioni derogatorie, speciali ed ec-cezionali

16. All’uniformità (come modello) si accompagnavano allora differenzia-

zioni attraverso previsioni speciali, se non eccezionali: soprattutto nel-l’ambito di legislazioni di settore si è proceduto anzi frequentemente a fis-sare parametri dimensionali o comunque differenziazioni basate su di un qualche dato oggettivo, tanto che l’analisi fatta da Borsi con riferimento alla situazione prerepubblicana appare attuale anche ove riferita alla si-tuazione precedente alla legge n. 142 del 1990

17. Questo è anzi un dato

13 Nel caso in esame, con conseguente valorizzazione dei tre organi fondamentali ed effettivo rispetto del disegno normativo.

14 V., di nuovo, la citata ricerca dell’ISR-CNR. 15 Cfr. anche l’interessante analisi condotta da G. POLA, La sottodotazione dei servizi

nei piccoli comuni: i costi e le risorse, in IISA, Le relazioni centro periferia, Milano, 1984, 1319 ss., ai sensi della quale emerge come il piccolo comune non risulti in grado di forni-re adeguati servizi non per un deficit di risorse finanziarie, «ma per l’intrinseca antieco-nomicità della sua stessa esistenza, in quanto organizzazione produttiva di troppo ridotte proporzioni» (ivi, 1357).

16 In tal senso si vedano gli spunti di L. VANDELLI, Dalle aree metropolitane ai comuni minori, cit., spec. 832, ma anche dalle indicazioni che emergono in F. MERLONI-L. TOR-CHIA-V. SANTANTONIO, Le funzioni del governo locale, cit., passim.

17 Basti pensare, al riguardo, al processo operato in base al d.p.r. n. 616 del 1977 ed al-le altre leggi di settore, nell’attribuire nuovi compiti agli enti locali o riformare quelli già di loro competenza: al fianco di un criterio generale di attribuzione indifferenziata a tutti gli enti locali di una medesima categoria, troviamo eccezioni (puntuali) significative: si veda, ad esempio, la legge n. 833 del 1978 prevede l’istituzione, da parte delle Regioni, di USL, strutture di comuni singoli o associati, con popolazione da 50.000 a 200.000 abitan-ti. Ciò che è qui rilevante è come l’attribuzione di funzioni non sia operata in favore dei Comuni in quanto tali «ma piuttosto genericamente del livello comunale di amministra-zione, con la possibilità, quindi, di dare vita a strutture nuove, derivate ma distinte dai Comuni, che rompono il quadro di uniformità del modello di amministrazione locale in vigore» (così per G. VESPERINI, I poteri locali, cit., 159). Altro esempio, in tal senso, è co-

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 154

costante nella storia dell’ordinamento locale, tale che al mantenimento dell’uniformità si collega una diffusa “differenziazione derogatoria”, non suscettibile di essere assunta, a sua volta, quale modello alternativo.

Vero è che a fronte di una così grande distanza tra dimensione for-male, uniforme, e dimensione reale, largamente differenziata, i tentativi di risposta non potevano essere affidati unicamente a soluzioni episodi-che, prive di una loro sistematicità: da qui i vari tentativi di riforma del-la legislazione comunale e provinciale, miranti a seconda dei casi e degli stimoli, anche dottrinali, ora nel senso della differenziazione ora nel senso dell’uniformità, nei quali si assiste al progressivo abbandono del-l’ipotesi di un significativo riordino territoriale

18.

2. La riforma dell’ordinamento locale: la legge n. 142 del 1990 e la prima rottura formale del principio di uniformità amministrativa locale

Intaccata da più parti, vuoi con deroghe in normative di settore (che pure non la ponevano in discussione), vuoi con tentativi di riforma basa-ti su classificazioni e tipologie comunali, ed ancor più messa in discus-sione di fatto, dall’incompatibilità tra realtà fortemente eterogenee ed un quadro normativo invariante, l’uniformità resiste, nell’ordinamento ita-liano, quale principio fondamentale della legislazione comunale e pro-vinciale, almeno fino alla riforma operata con la legge n. 142 del 1990

19.

stituito dallo stesso d.p.r. n. 616, allorché opera una devoluzione, in tema di servizi sani-tari e sociali, in linea di principio ai Comuni, disponendo però come la Regione possa promuovere forme di cooperazione tra gli stessi o imporre loro di associarsi. In realtà, a nostro avviso, il tema dell’associazionismo locale (spontaneo o forzato) non è sulla linea della differenziazione, quanto piuttosto dell’uniformità, nel senso che muta il modo di esercizio delle funzioni, peraltro uniformemente attribuite al medesimo livello: è una so-luzione che mira a consentire la compatibilità tra efficacia ed efficienza dell’azione am-ministrativa, effettività dell’esercizio delle funzioni ed uniformità funzionale locale.

18 Necessario nella prospettiva del mantenimento dell’uniformità: a questo si collega l’affermarsi di modelli differenziati, seppure in una prima fase entro limiti ben definiti. Nella legge n. 142 del 1990, in particolare emerge l’affermazione, a fianco di meccanismi di riordino territoriale (pure graduali e potenziali), di modelli di differenziazione. In so-stanza si è ritenuto «di non percorrere la strada di un modello unico e uniforme di ordi-namento dei Comuni e delle Province, ma di riconoscere, almeno entro certi limiti, le ef-fettive diversità sussistenti tra le istituzioni locali»: così per (G.C. DE MARTIN, Il ruolo del-la regione nel processo di riforma, cit., 339).

19 Le cui previsioni, modificate in particolare dalla legge n. 265 del 1999, sono ora contenute nel Testo unico degli enti locali, d.lgs. n. 267 del 2000.

INCRINATURE NEL MODELLO DELL’UNIFORMITÀ LOCALE 155

Che poi sia la legge n. 142 a sancire la “rottura del principio di uniformi-tà” è difficile a dirsi

20: vero è che, se da un lato l’uniformità ha dimostra-to di sopravvivere a molteplici cesure

21, dall’altro questa stessa uniformi-tà è scalfita significativamente dalla legge sulle autonomie, tanto sotto il versante funzionale che organizzativo.

Se non possiamo, quindi, individuare nella legge n. 142 la cesura che segna la discontinuità nel modello, è in questa legge che possiamo riscon-trare l’avvio della sua transizione e rintracciare il germe del futuro supe-ramento dell’uniformità: la differenziazione perde il proprio carattere de-rogatorio e sporadico, mentre si passa da forme di eterodifferenziazione ad aperture alla differenziazione autonoma che si sommano a modelli e-terodifferenziati. La differenziazione autonoma, in particolare, seppure ancora marginale rispetto ad un assetto ordinamentale largamente con-formato dalla legislazione statale, diviene in grado di dispiegare i suoi ef-fetti tanto sul versante organizzativo che su quello funzionale.

La legge n. 142 del 1990 22 ha infatti operato su più fronti: mentre ha

cercato di porre le premesse per il riordino territoriale dei Comuni, ha tentato di determinare un adeguamento delle strutture formali locali alla molteplicità delle condizioni di fatto esistenti, prevedendo “modelli dif-ferenziati alternativi” agli stessi enti locali di base (si pensi alle Città me-tropolitane, ma anche al ruolo assumibile dalle Comunità montane), ha consentito l’espressione di poteri di autodifferenziazione locale a livello di proprie norme fondamentali, ha previsto l’introduzione di meccani-smi per il flessibile adattamento delle stesse funzioni alle diverse realtà territoriali

23. Si aprono, in sostanza, spazi di differenziazione attraverso l’attribu-

20 Tale “rottura” è stata più volte affermata, a partire da U. BORSI (Regime uniforme, cit., che ne ravvisava addirittura il tracollo: ivi, 65), passando, tra gli altri, per il “gruppo di Pavia” (AA.VV., La legge generale sull’amministrazione locale, cit., 13) fino a L. ANTONINI (Il regionalismo differenziato, cit., 39 ss.). Affermazioni in realtà tutte corrette, come lo erano quelle degli autori che hanno ravvisato tale rottura nella legge n. 142 del 1990, sal-vo essere in buona parte smentiti dall’attuazione della legge stessa (che ha disatteso le promesse iniziali, come ravvisa ad esempio F. MERLONI, Il decentramento, cit., 71 ss.).

21 La stessa riforma del 1990, vista inizialmente come “rottura” dell’uniformità viene ridimensionata, ad anni di distanza, nella sua importanza sotto quest’ottica: per tutti, è netta l’affermazione di V. CERULLI IRELLI (La nuova Costituzione e l’ordinamento della Cit-tà di Roma, cit., 1). Questo, a ben vedere, non tanto per un’iniziale sopravvalutazione del tenore della norma, quanto per l’uniformità “di attuazione” che la ha caratterizzata.

22 Per riferimenti bibliografici alla legge n. 142, ci si consenta di rinviare, in via gene-rale, a L. VANDELLI, L’ordinamento delle autonomie locali, cit.

23 Per una lettura generale di questa riforma cfr., tra gli altri, G. PASTORI, Il riordino delle funzioni locali e le Regioni, cit., 340 ss.

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 156

zione dei poteri connessi a soggetti diversi: ora riconoscendo margini di differenziazione, organizzativa e funzionale, agli stessi enti locali in sede statutaria, ora consentendo alle Regioni di modulare e differenziare le funzioni

24. Il che, d’altra parte, se rende i percorsi differenziali disponibili agli

enti autonomi, subordina alla loro azione il realizzarsi di quella adae-quatio rei et iuris da più parti richiesta

25. In particolare, a livello funzionale, la Regione si configurava, nella ri-

forma del 1990, come il punto di sintesi tra l’uniformità dei principi e la diversità della loro applicazione in sede di riparto tra Province e Comu-ni, come riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale

26. I tentativi di riforma della legislazione comunale e provinciale, più

volte progettati, ma mai giunti a buon esito trovano, nella legge n. 142, finalmente una realizzazione; il modello, tradizionale, di una riforma che dividesse i Comuni in classi omogenee non conosce, peraltro, sboc-co normativo. Si apre, con la legge in esame, una stagione di “differen-ziazione potenziale”, in cui la mancata opzione in favore di una classifi-cazione delle realtà comunali trova, probabilmente, ragione di essere anche (di nuovo) nella difficoltà di definire un parametro assumibile u-nivocamente quale riferimento classificatorio

27. Con questa legge, il legislatore nazionale ha inteso, articolando su

24 La prospettiva della differenziazione locale è un profilo di rilievo, pure nella limitata attuazione che la caratterizzerà (in tal senso v., da ultimo, L. ANTONINI, Il regionalismo italiano nella prospettiva della differenziazione, cit., 310 et passim).

25 In tema di regime, uniforme o differenziato, degli enti locali come di ogni altro cor-po sociale, va peraltro ravvisato come sia diverso “consentire la differenziazione”, anziché “differenziare”: le disposizioni contenute nella legge n. 142 si collocano, al riguardo, es-senzialmente sul primo piano.

26 Così nella sent. n. 343 del 1991. 27 Si è già visto, in effetti, come apparisse, sin dalle prime analisi post unitarie, diffici-

le individuare legislativamente delle classificazioni che non risultassero astratte e porta-trici di problemi non minori rispetto alle soluzioni. Delle critiche mosse ai vari parametri classificatori via via ipotizzati si è già detto per quanto attiene alla fase post unitaria e dei primi del XX secolo. Questa impostazione risulta, però, presente anche in giuristi più re-centi, i quali ravvisavano da più parti i rischi connessi ad una opzione classificatoria ne-cessariamente astratta e quindi non sempre corrispondente alle esigenze di fatto. Così S. CASSESE (Tendenze dei poteri locali in Italia, cit., 303 ss.), evidenzia l’insufficienza di una classificazione dei comuni basata sul dato della popolazione: «i poteri locali, col crescere delle dimensioni, non crescono, ma cambiano. Non si può quindi tentare una tipizzazio-ne per dimensioni: i Comuni grandi, piccoli e medi sono tra loro entità non omogenee e non sono quindi comparabili». Non sono mancati, come rileva F. STADERINI (La potestà statutaria dei minori enti locali, cit., 289), studiosi di altre scienze sociali, in particolare economisti, sociologi, urbanisti, a sottolineare quanti siano i fattori, economici, sociali, culturali, storici, geografici, in grado di influenzare, al di là della popolazione, il modo di essere di una comunità territoriale.

INCRINATURE NEL MODELLO DELL’UNIFORMITÀ LOCALE 157

nuove ed aggiornate basi le condizioni e gli ambiti di autonomia ricono-sciute dalla Costituzione ai poteri locali, promuovere lo sviluppo di un sistema autonomistico complessivamente in grado di fornire una rispo-sta adeguata alle esigenze sociali ed economiche ed efficace anche in ra-gione di una maggiore flessibilità ed articolazione, funzionale ed orga-nizzativa

28.

3. Aperture alla differenziazione nella legge n. 142 del 1990

3.1. Rapporto tra la potestà statutaria e l’art. 128 Cost. nell’evoluzione del sistema

Sull’opportunità di consentire ai Comuni di avere discipline autodif-ferenziate, rispondenti alle proprie caratteristiche ed esigenze, mediante l’attribuzione della potestà statutaria, la dottrina italiana ha discusso a lungo nel corso del ’900

29. Non indifferente a questa attenzione è stata la forte carica evocativa dello stesso concetto di statuto, che richiamava esperienze risalenti all’epoca medievale dei liberi Comuni

30.

28 Per F. PIZZETTI, era evidente il dato uniformante insito nella previsione costituzio-nale di una legge sull’ordinamento locale, non tanto e non solo per il carattere richiesto di “generalità”, quanto per il suo stesso essere “statale”: la regolazione con legge statale im-plica «che comunque il sistema dell’amministrazione locale è concepito come “separato” rispetto all’ordinamento regionale: con la conseguenza che le funzioni amministrative di interesse locale eventualmente “sottratte” alle Regioni sono assegnate a un sistema di amministrazione locale sostanzialmente “uniformata” o “uniformabile” da parte del legi-slatore statale, almeno per quanto riguarda i modelli organizzativi fondamentali» (ID., Federalismo, regionalismo e riforma dello Stato, cit., 68).

29 A favore della differenziazione, fra gli altri, M.S. GIANNINI, I Comuni, cit., l5 ss.; ID., Il riassetto, cit., 451 ss. («i comuni sono enti differenziati profondamente» e ancora «non è possibile rendere omogenei […] enti che per loro natura sono eterogenei»); G. BERTI, Crisi e trasformazione dell’amministrazione locale, cit., 681 ss. (per il quale quell’ugua-glianza che in passato si è tradotta nell’uniformità, va oggi pensata nella diversità); in senso contrario, si veda invece S. ROMANO, Il Comune, cit., 506 ss.

30 In epoca medioevale con statutum si designava, tecnicamente, «la norma deliberata dagli organi costituzionali di ordinamenti particolari sottoposti ad un’autorità superiore, a differenza del termine lex, che rimase riferito per eccellenza alla norma emanata dall’ordinamento primario» (cfr. Lessico univ. ital. Treccani, col. XX, 706); in seguito l’espressione viene utilizzata ad indicare sia l’atto normativo tipico del Comune, avente efficacia generale, sia autonomi corpi legislativi, «generati da un lato dall’esigenza di an-corare la regolamentazione degli interessi ad un determinato ambito territoriale in modo uniforme e dall’altro da quella di mettere per iscritto le “norme” consuetudinarie»: sul punto, e per una ricostruzione complessiva della tematica della potestà statutaria locale, cfr. M.L. ZUPPETTA, Statuto ed autonomia, cit.; sul punto cfr., inoltre, F. CALASSO, voce

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 158

Il riconoscimento di autonomia statutaria è stato uno degli elementi qualificanti la riforma dell’ordinamento locale operata dalla legge n. 142 del 1990. Ne discende, naturalmente, il riconoscimento di autonomi po-teri ordinamentali e, con ciò, di autodifferenziazione organizzativa

31, ma anche, seppure in un primo momento non pacificamente, funziona-le. Da questo punto di vista, la potestà statutaria si configura come un vettore di differenziazione locale per tramite delle stesse autonomie, e quindi nel pieno rispetto del quadro costituzionale

32, sia allorché preve-de una legislazione nazionale “di soli principi”, sia allorché afferma il valore fondamentale delle autonomie

33. Ciò non di meno, questo dipende non solo dal riconoscimento dello

strumento, pure con tutta la valenza anche simbolica che questo ha, quanto dagli spazi di effettiva scelta lasciati dallo stesso legislatore nazio-nale; spazi che, nella legge, si contrassegnavano per una certa esiguità

34. Non è qui possibile entrare nel dettaglio di quali siano le materie de-

mandate, ed entro quali limiti, allo statuto locale: è però chiaro come la griglia uniforme cui ricorre il legislatore attraverso la stessa legge n. 142

Autonomia (storia), in Enc. dir., IV, 1959, 349 ss.; ID., voce Comune (premessa storica), cit., 169 ss.

31 Sull’autonomia statutaria locale dopo la legge n. 142 esiste un’amplissima dottrina; tra le opere monografiche, si veda, tra gli altri, L. PEGORARO, Gli statuti degli enti locali, Rimini, 1991; per il collegamento tra autonomia statutaria e principi costituzionali, cfr. E. ROTELLI, Le Regioni, le Province, i Comuni, cit., 9 ss.

32 Questa coerenza sembra reggere anche nel momento in cui si afferma, con la legge n. 265 del 1999 di riforma della legge n. 142, il criterio per il quale lo statuto ha una sfera di competenza propria, non tangibile da leggi dello Stato se non per i principi in essa contenuti (cui però fanno eccezione le previsioni della legge ordinamentale sulle autono-mie, ora contenute nel Testo unico degli enti locali, d.lgs. n. 267 del 2000). Su questo pro-filo, introdotto dalla c.d. legge Napolitano-Vigneri, si veda, tra gli altri, L. VANDELLI, Commento all’Art. 1, in A. VIGNERI-S. RICCIO (a cura di), Nuovo ordinamento delle autono-mie locali e status degli amministratori, Rimini, 1999.

33 La potestà statutaria, cui si affianca l’autonomia regolamentare, consente agli enti locali di stabilire, nell’ambito dei principi fissati dalla legge, le norme fondamentali per la propria organizzazione: nel suo complesso, questo delinea, per i profili che a noi mag-giormente interessano, un superamento dell’uniformità, che mira a far sì che ogni ente possa «provvedersi di un aspetto confacente alle esigenze della collettività di cui esso è espressione e quindi peculiare del suo modo di essere» (Corte cost., sent. 343 del 1991; su cui si veda L. VANDELLI, La Regione come centro propulsore e di coordinamento del siste-ma, nota a Corte cost. n. 343/1991, in Giur. cost., 1991, 2738).

34 Così, ad esempio, F. STADERINI (Diritto degli enti locali, cit., 186), rileva criticamente come «sarebbe stato forse più opportuno lasciare all’autonomia statutaria dei singoli enti la scelta tra modelli [di forma di governo] diversi, con un numero variabile di organi di governo a seconda delle dimensioni e delle esigenze di ciascun ente»; lo stesso autore, nel prosieguo, rileva peraltro il carattere “non trascurabile” delle opzioni statutarie.

INCRINATURE NEL MODELLO DELL’UNIFORMITÀ LOCALE 159

sia abbastanza stringente 35, risultando definiti gli organi, le principali

attribuzioni degli stessi, ed una serie di aspetti in cui si può dubitare del-lo stesso carattere “di principio” della normazione primaria

36. Le innovazioni legislative, avviate dalla legge n. 142 e poi riprese nella

riforma operatane attraverso la legge n. 265 del 1999 (per giungere fino al Testo unico del 2000)

37, consentono una rilettura delle disposizioni costituzionali degli artt. 128 e (alla luce del) 5. Se l’art. 128 suggeriva un modello di amministrazione locale eteroregolata uniformemente dallo Stato attraverso una legge generale, limitata a dei “principi”, risultava coerente immaginare un ampio spazio di autonormazione, “di detta-glio”, attraverso la quale potessero esprimersi, nell’esercizio di autono-mia, le istanze di differenziazione corrispondenti alle esigenze locali

38. Nel quadro delineato attraverso la legge n. 142 e poi con la sua rifor-

ma del 1999 (che innovava, in modo pure non pacifico, la collocazione dello Statuto locale nel sistema delle fonti), si determinava un assetto, fragile in assenza di interventi sul testo costituzionale, nel quale l’uni-formità si realizzava nella legge generale “di principi”, venendo deman-data alle fonti di autonomia statutarie la differenziazione, organizzativa (e funzionale), nei margini e negli spazi consentiti dalla legge sull’or-dinamento locale

39.

35 Va infatti considerato come siano numerose le disposizioni che contengono disci-plina dettagliata: così non appare ingiustificata la critica di chi ha visto nella legge n. 142 una modernizzazione del Testo unico del 1934, piuttosto che l’apertura ad una autonomia in grado di incidere «nei confronti di quell’uniformismo di quella piattezza normativa che sono stati stigmatizzati dagli studiosi che hanno dedicato la loro attenzione al precedente sistema delle autonomie locali» (così R. MARRAMA, Gli ordinamenti locali fra uniformismo ed autonomia, cit., 283).

36 Ne consegue come il periodo statutario, successivo alla 142 del 1990, si caratterizza, sia stato, per alcuni commentatori, una fase «fondamentalmente illusoria» (in questo senso, cfr. F. MERLONI, Il decentramento, cit., 72).

37 D.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, recante “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali”, adottato sulla base di una delega contenuta nell’art. 31 della legge n. 265 del 1999.

38 Sembra di potersi riscontrare, a livello costituzionale, delle forti affinità con il tra-dizionale modello che ha operato tra Stato e Regioni, nel quale la legislazione nazionale ha competenza nella definizione dei principi fondamentali, che le Regioni potranno poi attuare secondo modalità differenziate, «emanando, in relazione alle particolarità delle esigenze locali, le norme capaci di rendere concretamente operativi i primi» (in questo senso, C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, cit., 856).

39 Su come la potestà statutaria (e regolamentare) locale uscisse rinforzata ed innova-ta dalla legge n. 265, cfr., tra gli altri, R. SCARCIGLIA, L’autonomia normativa, organizzati-va e amministrativa degli enti locali dopo la legge 3 agosto 1999, n.265, in Ist. del Federali-smo, 2000, 291 ss.

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 160

3.2. L’art. 3 della legge n. 142 e l’eterodifferenziazione regionale delle fun-zioni locali

Un problema, affrontato dal legislatore del 1990, era dato da un lato dal vincolo che, come visto, emergeva da un lettura, pure innovativa, dell’art. 128 Cost., posto a garanzia dell’autonomia di Comuni e Provin-ce, e dall’altro dalla necessità di modulare concretamente le funzioni lo-cali in ragione delle caratteristiche e delle esigenze diversificate delle e-terogenee realtà comunali.

Uno degli elementi di maggior rilievo contenuti nella legge sull’or-dinamento locale è quindi dato dalle norme sulla determinazione delle funzioni locali, attraverso le quali viene demandato alle Regioni il com-pito di ridistribuire le funzioni locali in ragione delle caratteristiche proprie delle realtà territoriali minori

40. Si tratta, in effetti, di una possi-bilità che, pur avendo aperto scenari di potenziale rottura principio di uniformità, è stata poco utilizzata dai legislatori regionali

41. Se, quindi, la funzione di garanzia data dalla “legge generale della

Repubblica” risultava assolta nell’ambito della riforma dell’ordinamento locale operata dalla legge n. 142 del 1990, d’altro canto, nelle intenzioni del legislatore, di fronte alla eterogeneità e varietà delle dimensioni e si-tuazioni delle diverse collettività provinciali e, soprattutto, comunali, si è affidato al livello regionale il compito di modulare e distribuire le fun-zioni in attuazione di un, seppur limitato, principio di differenziazione che, quasi implicitamente, è entrato, così, nel nostro ordinamento loca-le

42. Il mancato riordino territoriale imponeva, d’altra parte, un con-

40 Occorre peraltro segnalare come anche nel sistema precedente alla legge n. 142 al-cuni legislatori regionali, nell’allocazione delle deleghe, avevano operato differenziando, su parametri dimensionali, le realtà comunali. Così la legge reg. Emilia Romagna n. 38 del 1982, in materia di trasporti, ha operato una delega in favore dei soli Comuni superio-ri ai 50.000 abitanti; così, ancora, si veda la legge reg. Piemonte n. 56 del 1977, in tema di espropriazione (con “soglia differenziale” fissata a 10.000 abitanti). Si tratta, peraltro, nell’uno e nell’altro caso, di esempi di quella “normale eccezionalità della differenziazio-ne”, già a suo tempo ravvisata da U. BORSI (Regime uniforme, cit., passim).

41 Cfr. G. PASTORI, Il riordino delle funzioni locali e le Regioni, cit., 340 ss. 42 Questo dato di “rottura” è più evidente ove si abbia a riferimento il fatto che è la

stessa Corte costituzionale a ravvisare come la legge sull’ordinamento locale “metta in discussione” il criterio di uniformità: così la sent. n. 343 del 1991, evidenzia che la legge n. 142, adeguandosi ai principi costituzionali, ha riconosciuto un’autonoma capacità di differenziazione (nella sede statutaria) agli enti locali, ma la differenziazione che ne deri-va «richiede un più incisivo ruolo di coordinamento delle Regioni» (sul punto, cfr. L. TORCHIA, La giurisprudenza costituzionale sull’art. 3 della l. 142/90, in Regioni, 1993, 425 ss.; L. VANDELLI, La Regione come centro propulsore, cit. e, più recentemente, ID., L’ordi-namento delle autonomie locali, cit., 98 ss.).

INCRINATURE NEL MODELLO DELL’UNIFORMITÀ LOCALE 161

trappeso ad una uniformità che, altrimenti, risultava dannosa all’effi-cacia dell’azione pubblica, quantomeno, come visto, nelle realtà “estre-me”, ed in particolare nei piccoli Comuni

43. Alla luce di una riforma che si caratterizzava, quindi, quale “rottura

formale” dell’uniformità amministrativa locale, ad intendersi, per il pun-to in esame, manifestazione di un principio generale, seppur limitato, di “differenziazione funzionale”, spettava alle Regioni ridistribuire, in rela-zione alle materie rientranti nell’art. 117 Cost. 44, le funzioni amministra-tive fra sé, i Comuni e le Province, in conformità ai principi fissati dalla stessa legge n. 142.

Dovendosi, ai sensi della legge in esame, limitare le Regioni a tratte-nere come proprie solo le funzioni attinenti ad “esigenze di carattere uni-tario per i rispettivi territori”, e dovendo le stesse identificare le funzioni da conferire ai livelli comunale e provinciale “in rapporto della superfi-cie della popolazione e del territorio”, hanno fatto il loro ingresso, nel nostro diritto positivo, due “percorsi differenziali”, l’uno “fra Regioni”, l’altro “fra enti della stessa Regione”.

Una potenziale differenziazione tra Regioni, innanzitutto, in quanto non tutte le Regioni hanno le stesse esigenze “di carattere unitario”, che anzi potranno variare in ragione delle dimensioni demografiche e terri-toriali, nonché di caratteristiche economiche, geografiche, culturali e sociali di vario genere.

Una differenziazione, inoltre, sempre potenziale, tra enti della stessa Regione, poiché queste sono state, in ultima istanza, investite del compi-to di realizzare un riassetto delle funzioni nel proprio ambito: con la conseguenza che ogni Regione è stata posta nelle condizioni di poter specificare in relazione alle caratteristiche effettive di Comuni e Provin-ce, le funzioni di spettanza degli uni o delle altre

45.

43 L’impostazione, più rispettosa del principio di autonomia, che progressivamente si è af-fermata è stata nel senso, a fronte di un mancato riordino territoriale, della apertura alla diffe-renziazione. Sul punto, e più in generale sul ruolo della Regione in tema di enti locali dopo la legge n. 142, si veda G.C. DE MARTIN, Il ruolo della Regione nel processo di riforma, cit., 339 ss.

44 Il riferimento alle materie contenute nell’(ex) art. 117 non appariva, peraltro, risolu-tivo nell’escludere che il compito attribuito alle Regioni di organizzare l’esercizio delle funzioni amministrative attraverso i Comuni e le Province e nell’identificazione degli in-teressi comunali o provinciali si estendesse, al di fuori delle materie ex 117, «ad ogni altra materia delegata dallo Stato, ove – in base all’art. 7 del d.p.r. n. 616 del 1977 – la Regione già dispone di poteri legislativi di organizzazione, spesa ed attuazione, ai sensi dell’ultimo comma dello stesso art. 117» (in questo senso, cfr. L. VANDELLI, L’ordinamento delle auto-nomie locali, cit., 89).

45 A questa “apertura” ha contribuito, come visto, anche una lettura più aperta, rispet-to ai precedenti orientamenti, della Carta repubblicana da parte della Corte costituziona-

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 162

Un quadro, questo, nel quale sembra possibile scorgere la scelta in fa-vore dell’abbandono di un modello rigidamente uniforme, in favore di as-setti (potenzialmente) differenziati, meglio corrispondenti alle caratteri-stiche ed esigenze delle collettività di riferimento. Per fare questo, la legge n. 142 ha dato, in sostanza, una interpretazione aperta dell’art. 128 della Costituzione, stabilendo come sia compito del legislatore non solo statale ma, nelle materie di propria competenza, anche regionale determinare le funzioni proprie di Comuni e Province

46. La riforma mirava, perciò, al superamento di un sistema complessivamente inefficiente, nel quale tutti i Comuni risultavano portatori delle medesime funzioni indipendente-mente dalle proprie caratteristiche reali: modello, questo, che aveva, di fatto, impedito il rilancio dell’intero sistema amministrativo locale, con-tribuendo a precludere, nella lettura dell’esperienza fatta da alcuni autori, alle stesse Regioni la possibilità di caratterizzarsi come enti di governo

47. Alla luce dei principi contenuti nella legge sull’ordinamento locale,

diviene allora possibile attribuire e delegare alcune funzioni non a tutti gli enti locali omogenei, risultando consentita una differenziazione fun-zionale che operi non arbitrariamente, ma seguendo i due parametri fis-sati dal legislatore: caratteristiche del territorio e caratteristiche della popolazione

48. Questo consente, in effetti, una tipizzazione abbastanza “aperta”: sarà cioè possibile operare per categorie di enti locali primari (comuni turistici, costieri, montani, industriali, urbani, ecc.).

Soprattutto, l’art. 3 della legge n. 142, ha posto le basi per la rottura del principio di uniformità in relazione agli enti locali di minore dimen-sione e vitalità: i cosiddetti “Comuni polvere” non in grado, di fatto, di assolvere alla generalità delle funzioni loro assegnate. Se questo è il quadro della “differenziazione (funzionale) consentita” dalla legge n. 142, il problema diviene quello del trasferimento della “rottura dell’uniformità” dal piano della potenzialità a quello dell’effettività: si pone, cioè, la que-stione di quale sia stata l’attuazione dei principi ora esaminati da parte della legislazione regionale successiva.

le: sul punto, in particolare, v. L. VANDELLI, La regione come “centro propulsore, cit., e L. TORCHIA, La giurisprudenza costituzionale sull’art. 3, cit., 425 ss.

46 In questo senso, cfr. G.C. DE MARTIN, Il nodo della determinazione delle funzioni lo-cali dopo la legge di riforma del 1990: elementi per un’interpretazione dell’art. 3 della legge 142, in G.C. DE MARTIN-G. MELONI-F. MERLONI (a cura di), Regioni e riforma delle auto-nomie, Milano, 1995, 27 ss.

47 Così per U. POTOTSCHNIG, Nuovo ordinamento delle autonomie e centralità del Co-mune, in Regioni, 1991, 332 ss.

48 Sul tema, specifico, del riordino delle funzioni comunali e locali consentito dalla legge sull’ordinamento locale, si veda, G. PASTORI, Il riordino delle funzioni locali e le Re-gioni, cit., 340 ss.

INCRINATURE NEL MODELLO DELL’UNIFORMITÀ LOCALE 163

Vuoi per resistenze locali, vuoi per incapacità innovativa delle Regio-ni, vuoi per una “tenace resistenza” del principio di uniformità, come noto, la legge n. 142 si è rivelata manchevole sul versante dell’attua-zione, probabilmente anche perché priva di efficaci meccanismi in gra-do di indurre le Regioni ad operare in tempi rapidi le previste distribu-zione e redistribuzione delle funzioni

49. Pure con queste precisazioni, appare significativo come l’art. 3,

comma 1°, imponesse, già nel 1990, una chiara distinzione tra “funzioni che attengano ad esigenze di carattere unitario”, suscettibili di essere mantenute a livello regionale (o delegate agli enti locali), e tutte le altre funzioni il cui esercizio “è organizzato attraverso i Comuni e le Province”: una prima affermazione, in nuce, dello stesso principio di sussidiarietà che più tardi verrà articolato e previsto in modo espresso nella legge n. 59 del 1997.

Differenziazione e sussidiarietà compaiono quindi, seppure in modo sfumato, nella legislazione che dà l’avvio ad una stagione particolarmen-te significativa di riforme dell’amministrazione e, in particolare, degli enti locali: compaiono però solo “in potenza”, posto che l’attuazione re-gionale risulterà decisamente non rispondente alle esigenze di differen-ziazione sin qui manifestate. La redistribuzione delle funzioni avrebbe, come detto, potuto determinare differenziazioni tra Regioni, ma anche differenziazioni nell’ambito dello stesso livello di governo: non emergo-no però, dall’analisi della legislazione di attuazione della legge n. 142, che sparuti casi di differenziazione funzionale tra enti omogenei

50.

49 Così F. MERLONI, Funzioni comunali e principio di sussidiarietà, nota a TAR Brescia 7 aprile 1999, n. 256, in Giornale dir. amm., 1999, 1161 ss.

50 Si caratterizza per un certo rilievo la legge regionale piemontese n. 24 del 1992, la quale, trasferendo le funzioni socio assistenziali già esercitate dalle Province alle USL e ai Comuni capoluogo di provincia, ha introdotto uno dei pochi significativi elementi di dif-ferenziazione scaturenti da quella che, nel bene e nel male, poteva essere la cesura del principio di uniformità (funzionale). Si veda, al riguardo, G. D’IGNAZIO, La legislazione regionale di attuazione della legge 142 del 1990: bilancio di un’esperienza e prospettive, in Regioni, 1997, 798 ss. e A. TASSI, La legislazione regionale di attuazione della L. n. 142/1990, in G.C. DE MARTIN-G. MELONI-F. MERLONI (a cura di), Regioni e riforma delle autonomie, cit., 229 ss.; in questo senso, inoltre, F. PIZZETTI (Federalismo, regionalismo e riforma dello Stato, cit., 90 ss.) che evidenzia come si sia assistito al riguardo ad una inattuazione che conferma la resistenza del modello tradizionale pure a fronte del dato formale modifica-to: «del resto la stessa esperienza della l. 142 del 1990 e delle difficoltà di attuazione dell’art. 3 di quella legge dimostra la solidità “strutturale” dei limiti che caratterizzano il modo col quale è “costruita” la competenza amministrativa regionale nel nostro ordina-mento».

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 164

3.3. Margini di autodifferenziazione funzionale nell’art. 9 della legge n. 142: l’assunzione di “funzioni ulteriori”

La legge di riforma delle autonomie, pur in un quadro di principi uni-formemente fissati nella stessa legge, ha approntato una serie di mecca-nismi di differenziazione funzionale, sia, come visto, eteronoma (ma af-fidata al sistema delle autonomie) che autonoma.

Si è trattato, in effetti, piuttosto della previsione di “ambiti differen-ziali”, limitati, che non del riconoscimento di un generale principio di differenziazione: una apertura, limitata ma generale, ad una differenzia-zione che però risulta ancora solo potenziale. La “scalfittura del princi-pio di uniformità”, se non ancora la sua rottura, è significativa: anche se, in questo caso, si resta ad un livello formale più che sostanziale, posto il difetto riscontrato nell’attuazione dei principi in esame.

La legge n. 142, con l’art. 9, ha quindi affidato all’ente locale un com-plesso di attribuzioni di tipo “aperto”, non previamente tipizzate: è posto, cioè, per i Comuni un campo di intervento autonomamente individuato a tutela degli interessi della collettività locale, che trova limite solo in quan-to le funzioni risultino espressamente attribuite ad altri soggetti 51.

Nel rispetto del dettato costituzionale e dei limiti dell’autonomia loca-le costituzionalmente garantiti, la legge n. 142, ha perciò demandato ai minori enti locali un complesso di attribuzioni delimitato soltanto con riferimento alla materia

52. Ne discende, pertanto, la possibilità di affermare, alla luce di una let-

tura complessiva della legge n. 142 53, che gli enti locali, proprio in virtù

del loro carattere di enti a fini generali, risultassero già portatori di “funzioni libere”, cioè liberamente svolte, nel rispetto delle funzioni at-

51 Cfr., di nuovo, TAR Brescia, sent. 7 aprile 1999, n. 256. Attraverso questa decisione il TAR lombardo ha ribadito che la possibilità per gli Enti locali di assumere funzioni amministrative per la cura degli interessi delle proprie comunità locali, trova un limite solo nella espressa attribuzione, con legge statale o regionale, di tali funzioni ad altri sog-getti.

52 Cfr. F. MERLONI, Funzioni comunali e principio di sussidiarietà, cit., 1161 ss.: in tali settori (popolazione e territorio comunale, settori organici dei servizi sociali, assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico) è pertanto consentita all’ente loca-le, nel rispetto in ogni caso delle competenze riservate ad enti di livello superiore, una possibilità di intervento non necessariamente individuata in tipologie predeterminate. Una lettura aperta delle competenze comunali appare tanto più corretta nel momento in cui entreranno nello scenario giuridico locale, chiaramente esplicitati, i “nuovi” principi di sussidiarietà e differenziazione.

53 In particolare, dalla lettura in combinato delle disposizioni di cui agli artt. 2, 3 e 9 della legge n. 142 del 1990.

INCRINATURE NEL MODELLO DELL’UNIFORMITÀ LOCALE 165

tribuite (o delegate) ad altri soggetti. Questo, quindi, in virtù di una “clau-sola generale di competenza” fissata dal legislatore ordinario a favore dei Comuni (e della Provincia) per svolgere appunto il loro ruolo di rap-presentanza delle comunità e di cura dei relativi interessi.

Il che ha determinato la possibilità di una autodifferenziazione fun-zionale attraverso l’assunzione di funzioni libere, anch’essa configurabi-le come risposta ai limiti del modello dell’uniformità.

4. I tentativi di risposta all’insufficienza della dimensione comunale: soluzioni nella linea dell’uniformità e in quella della differenziazione

Il mancato riordino territoriale, più volte sollecitato in sede dottrina-le

54, praticato con alterna fortuna in altri ordinamenti europei 55, ha con-

dotto, nel nostro ordinamento, ad una situazione di non congruenza tra dato normativo e dato reale, in relazione all’effettività dell’esercizio delle funzioni locali.

In effetti, un’uniformità normativa richiede, per avere significato reale, una certa omogeneità di fondo dei soggetti cui si rivolge, risolvendosi al-trimenti in una gabbia che, come già ravvisava Constant, vorrebbe conte-nere elementi troppo diversi per essere disciplinati alla stessa stregua.

Il mantenimento di un efficiente regime uniforme avrebbe richiesto, evidentemente, un riordino globale

56 delle realtà locali, tramite processi di disaggregazione e di accorpamento

57: la difficoltà di procedere in questo senso ha spinto il legislatore a spostare l’attenzione dalla dimen-sione ottimale dell’ente alla dimensione ottimale di esercizio delle fun-zioni, attraverso una articolato panorama di previsioni.

54 Cfr., tra gli altri, nuovamente M.S. GIANNINI, Enti territoriali locali e programmazio-ne, cit., 203 ss. e G. BERTI, Crisi e trasformazione dell’amministrazione locale, cit., 77 ss.

55 Con particolare riguardo ad esperienze straniere in un’ottica generale, seppure non centrato sul solo tema del riordino territoriale, S. GAMBINO (a cura di), Stati nazionali e poteri locali, cit.

56 Sul problema del riordino territoriale, il riferimento obbligato è innanzitutto M.S. GIANNINI, Il riassetto dei poteri locali, cit., 452 ss, e, più recentemente ma prima delle ultime riforme, i diversi contributi presenti nel numero monografico di Reg. e gov. loc., n. 5, 1995.

57 Come è stato affermato, «apparentemente distanti, i temi connessi al governo delle grandi città e delle realtà minori sono, in realtà, legati da connessioni importanti: a parti-re dal principio di differenziazione» (L. VANDELLI, Dalle aree metropolitane ai Comuni mi-nori, cit., 831; il quale prosegue affermando che il principio di differenziazione «ormai costituisce l’elemento cardine per l’esame di queste problematiche, concernendo l’alloca-zione delle funzioni così come l’assetto degli ordinamenti»).

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 166

Le ragioni di questo mancato riordino sono complesse, e legate alla stessa struttura politica e partitica italiana, oltre al forte radicamento delle realtà municipali, anche di minore dimensione, le quali si pongono anche come elemento positivo in un’ottica democratica e di partecipa-zione del cittadino, ma evidentemente non appaiono compatibili con un modello di autonomia che, per essere concreto e non astratto, deve par-tire dalla reale possibilità di esercizio delle funzioni, quantomeno di quelle proprie.

È in questa luce che vanno letti i tentativi, più volte falliti e con mag-gior vigore perseguiti nelle più recenti riforme, di percorrere strade di differenziazione dei modelli di amministrazione.

Il legislatore ha peraltro risposto in modi non sempre tra loro coeren-ti all’esigenza di ridurre la distanza tra strutture formali uniformi e real-tà fattuali disomogenee: nell’ambito di una precisa progettualità ha da un lato spinto verso forme di differenziazione istituzionalizzata (Comu-nità montana, Aree metropolitane) e verso forme di riordino territoriale più o meno strutturate e più o meno spontanee (le c.d. “forme associati-ve”), dall’altro, nell’ambito del solito approccio “eccezionale”, “in dero-ga”, “speciale”, ha operato d’altronde una serie di differenziazioni pun-tuali, senza però mai assumere univocamente i medesimi parametri. Questo è avvenuto seguendo una politica legislativa “a strappi”, non sempre accompagnata da una chiara visione organica: così che a linee di evoluzione del sistema frutto di un preciso impianto, si accompagnano una serie di norme differenziate frutto di scelte episodiche. Si tratta, come è stato evidenziato, di due piani di azione politica e legislativa «di-stinti, incomunicanti e contraddittori»

58. Sono queste, a ben vedere, due tendenze entrambe alla differenzia-

zione (come risultato), riconducibili ad opposti modelli: nel primo può leggersi il germe del nuovo modello, quello che predica il superamento dell’uniformità, nell’altro la differenziazione è, ancora, corollario del si-stema (indiscusso) dell’uniformità

59.

58 Così, di nuovo, L. VANDELLI, Dalle aree metropolitane ai Comuni minori, cit., 839. 59 Accanto agli specifici modelli di differenziazione, organizzativa e funzionale, emersi

nell’ordinamento a partire dalla legge n. 142 del 1990 come archetipi di un nuovo approc-cio alle problematiche sin qui ravvisate, troviamo quindi una legislazione “speciale”, espres-sione della consueta prassi di “differenziazione derogatoria”.

INCRINATURE NEL MODELLO DELL’UNIFORMITÀ LOCALE 167

4.1. Le “Aree metropolitane” come enti locali a natura differenziata

La volontà di ridurre l’inefficienza del sistema generata dal manteni-mento del modello dell’uniformità in assenza di un processo di riordino territoriale, ha condotto a sperimentare modelli differenziati di organiz-zazione dei poteri locali, che hanno toccato in particolare gli enti locali che, per i loro caratteri estremi, peggio si conciliavano con un dato nor-mativamente uniforme: piccoli Comuni

60 e grandi centri urbani 61.

Tentativo di soluzione ai problemi propri di questi ultimi è stato ri-cercato in approcci diversi, ed emerge quale dato non tipico della sola esperienza italiana, finendo anzi per caratterizzare la gran parte degli ordinamenti europei, seppure con modelli diversificati e con alterna for-tuna

62. Il “fatto differenziale” insito nell’esistenza stessa di grandi agglomera-

ti urbani, spesso composti da una pluralità di Comuni “satellite” e da un grande Comune urbano intorno a cui questi gravitano, emerge con evi-denza nel corso del secolo, in Italia come altrove: l’uniformità del model-lo di amministrazione locale diviene, allora, un limite stringente alla possibilità di perseguire efficientemente alcune delle funzioni assegnate alle amministrazioni locali. Le diverse politiche dei servizi pubblici loca-li (rifiuti, trasporti, ecc.) sono, evidentemente, caratterizzate, nelle gran-di realtà urbane, da strette connessioni che in genere ignorano i confini comunali e che devono essere unitariamente affrontate in un’area più vasta che non il solo Comune capoluogo. Ancora, altresì, altre politiche richiedono una presenza sul territorio capillare, per la quale il grande

60 In merito ai piccoli Comuni, risulta significativo ricordare la proposta avanzata dal-la c.d. “Commissione Maroni”, che delineava un modello di differenziazione per i Comuni minori, ferma restando una griglia uniforme di funzioni essenziali, da attribuire in ogni caso agli enti locali. Nella relazione della Commissione Maroni veniva avanzata l’idea di un passaggio di funzioni in forma ridotta, o parziale, o comunque differita nel tempo (come incentivo ad un autonomo processo di riordino), sia ai Comuni minori, come an-che a quelli “non in grado di svolgerle adeguatamente”: inizia ad emergere quel modello di differenziazione funzionale, “quantitativa e qualitativa”, che poi troverà espressione nella legge n. 59 del 1997. Per una ricostruzione complessiva di questa evoluzione, cfr. G. D’ALESSIO, Prospettive di riforma, cit., 42 ss., nonché F. PIZZETTI, Il federalismo e i recenti progetti di riforma del sistema regionale italiano, in Regioni, 1995, spec. 253 ss.

61 Su questo punto, si veda in particolare la problematica del “decentramento urbano”, vale a dire l’esigenza di modelli organizzativi differenziati per le maggiori realtà comuna-li. In relazione alla problematica nel suo complesso, cfr. L. VANDELLI, L’ordinamento delle autonomie locali, cit., 373 ss.

62 L’alterna fortuna di questi “statuti speciali per i grandi centri urbani” sembra indi-care, nella fase attuale, una riscoperta dell’esigenza di questi modelli differenziati: così è, ad esempio, in Gran Bretagna per l’area metropolitana di Londra.

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 168

centro urbano conosce una nuova dimensione, verso il basso, di inade-guatezza

63. In una parola, la rilevante differenziazione di fatto richiede risposte in termini amministrativi differenziate, ed enti differenziati in grado di perseguirle.

Tracciare la storia del progressivo affermarsi dell’esigenza della crea-zione di enti metropolitani non è qui possibile: si tratta, peraltro, di una storia che conosce sbocchi normativi solo di recente, a partire dalla leg-ge n. 142 del 1990, ma che non conosce ancora, anche dopo la riforma operata dalla legge n. 265 del 1999

64 e la stessa previsione costituzionale delle Città metropolitane, sviluppi concreti

65. Seguendo il modello suggerito dalla legislazione ordinaria, assistia-

mo, in questo campo 66, ad un duplice livello di differenziazione: intanto

le Città metropolitane, da istituire, sono un modello differenziato, nell’ambito del genus Province

67, di enti locali; d’altra parte le Città me-tropolitane promettono di delinearsi quali “modelli unici”, atteso che i poteri di auto ed eterodifferenziazione conferiti al sistema delle auto-nomie permettono la costruzione di modelli atipici di amministrazione locale

68.

63 Cfr., di nuovo, L. VANDELLI, Dalle aree metropolitane ai Comuni minori, cit., 833. 64 Ciò non di meno, merita di evidenziare i caratteri “a forte (ancorché potenziale) dif-

ferenziazione” che emergono dalla legge n. 265 del 1999, ai sensi della quale le future Cit-tà metropolitane si profilano come espressione dei poteri di auto-differenziazione locale, oltre che come momento di significativa rottura dell’uniformità dei modelli di ammini-strazione locale.

65 Sulla mancata attuazione delle previsioni della legge n. 142 in tema di Aree metro-politane, cfr. L. VANDELLI, Le aree metropolitane, in Ist. del federalismo, 2000, 327 ss., per il quale «la vicenda legislativa delle aree metropolitane si è sviluppata, in Italia, in manie-ra sofferta e, al tempo stesso, inconcludente» (ivi, 328).

66 In tal senso ancora L. VANDELLI, L’ordinamento delle Autonomie tra rilanci, conferme e svolte, in Giornale dir. amm., 1999, 1040 ss., cui si rinvia in particolare per l’evoluzione del disegno delle aree metropolitane attraverso la riforma dell’ordinamento locale del 1999, con la transizione da una disciplina uniforme (di questi enti differenziati) ad un’aper-tura all’autonomia nella loro conformazione (affidata ad un disegno “dal basso”).

67 Di cui condividono la natura costituzionale. Lo “scioglimento” delle Province nelle Città Metropolitane pone non irrilevanti problemi “di garanzia” per gli enti intermedi in questione, soprattutto con riferimento al ruolo (significativo, ma non centrale) che a que-sti è riconosciuto nel processo costitutivo del nuovo ente metropolitano.

68 In questo, sembrano ravvisarsi affinità con il modello spagnolo, laddove la Città me-tropolitana è un ente che non riveste il carattere della necessarietà e che può avere, caso per caso, caratteristiche significativamente variabili. L’analisi dell’esperienza iberica ci mostra, infatti, come l’istituto si presti, nella sua generalità, ad applicazioni differenziate ad opera della legislazione delle Comunità autonome: basti pensare al caso di Barcellona, nel cui spazio metropolitano insistono due diversi Enti metropolitani a carattere specia-lizzato. Essendone demandata la costituzione alla potestà legislativa delle Comunità au-tonome, queste hanno la possibilità non solo di caratterizzare in misura diversa le Aree

INCRINATURE NEL MODELLO DELL’UNIFORMITÀ LOCALE 169

Si tratta, ad ogni modo, di un nuovo assetto dei poteri locali che evi-denzia i caratteri tipici dell’approccio italiano alla differenziazione: la grande carenza che, frequentemente, si manifesta sul lato dell’attua-zione, determina un sistema nel quale rotture sempre più significative del principio di uniformità rimangono ad un livello virtuale (secondo previsioni formali dal tenore delle quali sembrerebbe potersi affermare la rottura del tradizionale modello) restando però di fatto forte l’unifor-mità amministrativa presente nel nostro ordinamento

69. Le norme che consentono la differenziazione sono ormai costante-

mente presenti nelle disposizioni legislative sugli enti locali: potestà sta-tutarie, riconoscimento di poteri di differenziazione funzionale in capo alle regioni, aree metropolitane, e questo già prima del processo del c.d. terzo decentramento della legge n. 59 del 1997: in tutti questi casi, si assi-ste ad un progressivo abbandono dell’uniformità amministrativa in favo-re della differenziazione dei modelli di amministrazione. A queste af-fermazioni teoriche non seguono però realizzazioni, fattuali e normati-ve: il sistema radica la differenziazione a livello di principi, ma mantiene strenuamente un’uniformità che sembra avere perso, progressivamente, gran parte della propria ragione di essere

70.

4.2. Ordinamenti differenziati per le Comunità montane

Con la legislazione sull’ordinamento locale del 1990, si consolida in via definitiva la scelta, già emersa a partire dalla legge n. 1102 del 1971, di ordinamenti parzialmente differenziati per i territori montani, in ossequio ad una impostazione diffusamente presente nella legge n. 142, di assetti funzionali ed organizzativi parzialmente (e potenzialmente) diversificati in ragione delle diversità de facto presenti nelle varie realtà locali.

metropolitane, ma anche di costituirle in una pluralità di enti specializzati, i quali insie-me compongono l’Area metropolitana.

69 Ed, in questo quadro, la previsione legislativa in materia di Aree e Città metropoli-tane ha carattere esemplare, a livello di “rottura formale”, atteso che delinea un soggetto “ad ordinamento differenziato” (la futura Città metropolitana): differenziata sia rispetto al genus provincia, sia entro la propria stessa categoria («in un meccanismo che tende a demandare ad ogni situazione il grado più elevato di scelte per adeguare la forma istitu-zionale alle esigenze sostanziali»: così L. VANDELLI, Le aree metropolitane, cit., 335).

70 Il nuovo approccio alle problematiche della dimensione metropolitana, contenuto nella legge n. 265, che fa degli stessi enti locali i primi artefici dell’istituzione del nuovo ente di area vasta, appare comunque meritevole di attenzione, nel momento in cui in questo possono evincersi nuovi criteri di flessibilità e gradualità, in favore delle autono-mie locali. Sul punto, cfr. L. VANDELLI, Le aree metropolitane, cit., 332 ss.

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 170

Si tratta, però, evidentemente, di un settore nel quale la “necessaria differenziazione”, a fronte di situazioni di fatto estremamente eteroge-nee, ha chiamato il legislatore a prevedere “altri enti locali”, non aventi il carattere della necessarietà

71, legati al soddisfacimento di esigenze di rilievo costituzionale

72, cosicché si afferma un modello di azione pubbli-ca rivolto non più indistintamente a tutti i cittadini e a tutte le aree del paese, ma solo a determinati territori ed individui, seppure in ossequio ad esigenze particolari di cui lo stesso costituente si era avveduto.

La disciplina differenziata dei territori montani viene dunque, attra-verso un processo di più lungo periodo che ha nella legge n. 142 il suo coronamento

73, assunta come ricollegabile a specifiche esigenze di que-ste aree, e riconnessa ad una precisa individuazione del fatto differen-ziale montano operata dalla stessa Carta costituzionale.

74 Ne discende la piena compatibilità costituzionale di un regime ordi-

71 Intendendo con questo il fatto che tutto il territorio nazionale è suddiviso tra di essi. Sulle origini del carattere necessario delle autonomie locali (comunali), v. L. VANDELLI, Poteri locali, cit., spec. 194 ss.

72 Non è, peraltro, questa la sede per affrontare la complessiva tematica del regime speciale per le zone montane e degli enti chiamati a governare questa “area vasta”, per rispondere ad esigenze cui la stessa Carta costituzionale riconosce un particolare rilievo. La necessità del sostegno alle zone montane si poteva originariamente riscontrare nel comma 2° dell’art. 44 e nell’art. 129 Cost. La tutela degli interessi del territorio montano era inizialmente affidata al Consiglio di valle, ente sovracomunale montano precursore della Comunità montana, previsto dall’art. 13 del d.p.r. n. 987 del 10 giugno 1955 che at-tribuiva allo stesso il compito di favorire il miglioramento tecnico ed economico dei terri-tori montani. I consigli di valle traevano origine da consorzi, a carattere permanente, tra i Comuni all’interno del territorio montano, nati allo scopo di superare la parcellizzazione comunale e nella prospettiva di favorire la nascita di un ente sovracomunale in una di-mensione territoriale ottimale per l’esercizio delle funzioni.

73 La storia della “specialità dei territori montani” è risalente, e sarebbe qui dispersivo trattarne: il punto di riferimento, giuridico e cronologico, che, pure opinabilmente, as-sumiamo al riguardo è dato dalla legge n. 1102 del 1971, che rappresentò, in materia, una profonda innovazione, sia per il diverso assetto istituzionale che intendeva dare al ruolo della nuova comunità montana rispetto alle strutture corporative e burocratiche locali, sia per la diversa metodologia degli interventi, che dovevano essere coordinati nell’ambito della programmazione regionale, sia per l’ampliamento dei campi di interesse e quindi dei relativi poteri d’intervento. Tra gli elementi di maggiore distinzione rispetto ai consi-gli di valle del d.p.r. n. 987 del 10 giugno 1955 innanzi tutto il carattere obbligatorio delle nuove Comunità montane la cui costituzione viene fatta dipendere dalla legge regionale e non più dalla volontà associativa dei Comuni interessati, l’assegnazione di un importante ruolo programmatorio che consente una razionalizzazione dei bisogni della vallata e delle necessità di intervento in un determinato territorio (in merito, v. G.C. DE MARTIN, Rifles-sioni sulla natura giuridica delle Comunità montane, in Studi in memoria di Vittorio Bache-let, I, Milano, 1987, 230).

74 È in questa ottica che vanno lette le finalità della legge n. 1102, espresse negli artt. 1 e 2 che a loro volta si richiamano agli artt. 44 e 129 Cost., le quali esprimevano la necessi-tà di eliminare gli squilibri sociali ed economici tra i territori montani e il resto del Paese.

INCRINATURE NEL MODELLO DELL’UNIFORMITÀ LOCALE 171

namentale differenziato, sia per “gli altri enti locali – Comunità monta-ne”, che per i Comuni che insistono sui territori montani, atteso che il disposto, a carattere generale, dell’art.128, deve necessariamente essere coordinato con l’esigenza, di pari rango, di una azione positiva e diffe-renziata in favore delle zone di montagna

75. La mancata chiara definizione, a partire dalla legge n. 1102, della na-

tura delle Comunità, unita alla competenza ordinamentale demandata in larga misura alle Regioni, ha determinato come inevitabile conse-guenza la proliferazione di una serie di soluzioni assai differenziate fra le diverse Regioni, riguardo l’assetto istituzionale e la valorizzazione de-gli enti montani

76. Ne è derivato, almeno nella prima fase, una pluralità di letture della na-

tura e del ruolo della Comunità, vista ora quale ente di area vasta, proietta-to a sostituirsi alla stessa Provincia

77, ora come ente preparatorio al nuovo Comune montano, da costituire attraverso il consolidamento di processi collaborativi tra i Comuni “polvere”, come alternativa all’ipotesi della fusio-ne coatta degli stessi 78. Accanto a queste letture, se ne affiancava una terza, orientata a considerare la Comunità montana come un’istituzione a sé stan-te, un ente autonomo con collocazione istituzionale propria, creato ad hoc per rispondere a esigenze particolari 79. Un’ultima lettura era orientata ad

75 Vi erano comunque una serie di aspetti problematici che complicavano il tentativo di classificazione delle Comunità montane. L’incertezza che ne scaturiva creava problemi soprattutto in rapporto alla questione della configurazione dell’ente intermedio. Infine la legge prevedeva un largo potere in capo alle Regioni nella configurazione dell’ordina-mento delle Comunità, questo ha certamente rappresentato un elemento di differenzia-zione, che si è però tradotta, in una eccessiva flessibilità, che ha permesso alle Regioni di acquisire una posizione di centralità nei confronti di questi enti, fenomeno definito come regionalizzazione.

76 Nelle legislazioni regionali di attuazione della legge n. 1102 e nell’ambito dei dibatti-ti della dottrina in tema di riforma degli enti locali si sono determinati almeno quattro diversi modi di intendere la Comunità montana, desumibili dai vari indirizzi seguiti dalle leggi regionali in materia.

77 Il primo modello fu inaugurato da una legge della Regione Veneto, n. 80 del 1975, che ope-rava una vera e propria simmetria tra il comprensorio, nuovo potenziale ente intermedio in so-stituzione della vecchia provincia, e la Comunità montana; secondo questo disegno, scomparsa la Provincia, il nuovo ente intermedio in montagna sarebbe dovuta essere la Comunità.

78 In questo senso vanno le numerose previsioni delle leggi regionali, che stabilivano la possibilità di deleghe dei Comuni alle Comunità montane e dalle Regioni ai Comuni, condi-zionate o incentivate ad operarne l’esercizio a livello dell’ente montano, con l’intento di ra-dicare nelle Comunità l’esercizio di talune o di gran parte delle funzioni comunali.

79 Questa appariva a molti la soluzione più in sintonia con la ratio ispiratrice della po-litica istituzionale per la montagna sancita dalla legge n. 1102, a prescindere dai limiti e dalle ambiguità che alcune sue norme presentavano. Quindi non una mera figura di ge-nerale collaborazione intercomunale, che avrebbe potuto addirittura arrivare a far perde-re di significato all’ordinamento differenziato e infine portare alla soppressione delle Co-

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 172

intendere la Comunità montana come forma associativa di Comuni, rivolta alla programmazione territoriale, al coordinamento delle competenze degli stessi Comuni e degli altri enti pubblici operanti sul territorio, soprattutto in ragione delle crescenti esigenze di gestire in ambiti sovracomunali i ser-vizi pubblici locali e la realizzazione delle infrastrutture, laddove la dimen-sione dei piccoli Comuni risultasse inadeguata

80. In conclusione la disomogeneità delle legislazioni regionali, le con-

troversie e i dibattiti in campo dottrinale 81, non hanno consentito di de-

lineare, con sufficiente certezza, un modello unitario di Comunità mon-tana, destinato ad essere attuato omogeneamente su tutto il territorio nazionale; poteva però dirsi confermata l’esigenza di puntare su un or-dinamento istituzionale differenziato per le zone montane

82. Con la legge n. 142

83, veniva fugato ogni dubbio sullo stato giuridico di questi soggetti, dando soluzione al dibattito di cui si è accennato e con-fermando, in linea con gli orientamenti principali della dottrina e della giurisprudenza, la natura di “altri enti locali” di queste realtà

84. Quindi la Comunità montana si presentava come un ente locale, costituito dalla Re-gione tramite legge

85, che ricomprendeva Comuni montani e parzialmen-te montani della stessa Provincia «allo scopo di promuovere la valorizza-

munità; cfr. G.C. DE MARTIN, Riflessioni sulla natura giuridica, cit., 235 ss. Questa ten-denza era legata all’idea di un ordinamento locale differenziato per le zone montane, ba-sato sulla Comunità montana come ente autonomo.

80 Quindi si sarebbe trattato di un ente pubblico locale non territoriale, a base associa-tiva, con carattere obbligatorio, dei Comuni rientranti nelle circoscrizioni zonali geogra-ficamente unitarie e strutturalmente omogenee sotto il profilo economico e sociale, tale da consentire l’elaborazione e l’attuazione di un programma di sviluppo: ente rappresen-tativo delle popolazioni montane, ma di secondo grado.

81 Dovuti soprattutto all’avvicinarsi della riforma generale dei poteri locali: cfr. G.C. DE MARTIN, ult. op. cit., 230.

82 La soggezione della Comunità montana alla Regione era sostenuta, in particolare, sulla base del combinato degli artt. 3, n. 1 della legge n. 154 del 1981 e 2, comma 1° del d.p.r. n. 11 del 1972. Questo problema s’inseriva nel più ampio dibattito sull’individua-zione degli enti locali che potevano godere delle garanzie costituzionali. Successiva con-ferma della progressiva tendenza alla assimilazione delle Comunità montane a Comuni e Province, verrà poi dalla legge delega n. 382 del 27 luglio 1975, art. 1, e dal successivo d.p.r. n. 616, art. 2.

83 Che le disciplinava agli articoli 28 e 29. 84 Dalle Comunità montane erano comunque esclusi i Comuni con popolazione supe-

riore ai 40.000 abitanti e i Comuni parzialmente montani nei quali la popolazione resi-dente nel territorio montano sia inferiore al 15% della popolazione complessiva.

85 Allo scopo di adeguare gli interventi di competenza delle Regioni e delle Comunità montane, graduandoli e differenziandoli in relazione alle differenti tipologie ambientali esistenti, le Regioni avevano la possibilità di individuare, con legge, fasce altimetriche nell’ambito di ogni territorio montano.

INCRINATURE NEL MODELLO DELL’UNIFORMITÀ LOCALE 173

zione delle zone montane, l’esercizio associato delle funzioni comunali, nonché la fusione di tutti o parte dei comuni associati»

86. In altri termini le Comunità montane

87, i cui obiettivi erano esplicita-ti dall’art. 2 della legge n. 1102, dovevano perseguire anche l’obiettivo di riaggregare i piccoli Comuni montani fino a giungere alla loro eventuale fusione, al fine di superare i limiti istituzionali di ogni singolo Comune membro. Non bisogna però dimenticare che le Comunità montane man-tenevano la propria natura di enti di secondo grado, proiezioni dei Co-muni che ne facevano parte, i quali comunque non vedevano lesa la loro fisionomia di soggetti autonomi e fondanti l’ordinamento locale.

Le Comunità montane emergono, alla luce delle riforme ordinarie degli anni ’90, da un lato quale “modello differenziato” suscettibile di una più vasta utilizzazione

88, ma, dall’altro, anche, e soprattutto, come momento associativo per i minori Comuni montani. Alla luce dell’ultima stagione di riforme ordinarie, la Comunità montana non appare più su-scettibile di essere letta univocamente quale «ulteriore categoria di ente locale collocata tra i Comuni e le Province»

89, istituzione specifica dei territori montani

90. La tendenza che sembra emergere è quella di una convergenza delle

Comunità montane nel genus delle Unioni: l’art. 7 della legge n. 265 del 1999 le definisce, infatti, quali “Unioni montane”: enti locali costituiti fra Comuni, cui restano però affidati gli specifici compiti di “valorizza-zione della montagna”

91.

86 L’appartenenza alla categoria degli enti locali era confortata dal fatto che solo un ta-le ente avrebbe potuto essere destinatario della delega delle funzioni amministrative re-gionali e dell’attribuzione delle funzioni proprie esclusivamente locali nelle materie di competenza regionale ex art. 118 della Costituzione, inoltre solo ad un tale ente poteva riferirsi la disciplina di controllo di legittimità sugli atti di cui all’art. 130.

87 Anche agli enti montani, la legge n. 142 ha attribuito la potestà statutaria, espres-sione tipica di autonomia e, per quello che qui particolarmente rileva, di autodifferenzia-zione organizzativa.

88 Facciamo riferimento, in particolare, alla previsione dell’art. 5 della legge n. 265, che prevede la possibilità di istituzione di “Comunità isolane” (in ciascuna isola o arcipe-lago di isole, ad eccezione della Sicilia della Sardegna, ove esistono più Comuni), cui si estendono le norme sulle Comunità montane. Per una lettura di questa previsione, v. A. VIGNERI, Commento all’art. 5, in A. VIGNERI-S. RICCIO (a cura di), Nuovo ordinamento, cit., 61 ss.

89 Cfr., in particolare, A. VIGNERI, Commento all’art. 7, ivi, 82. 90 Per una più riflessione più articolata, cfr. L. VANDELLI, L’ordinamento delle autono-

mie locali, cit., 623 ss. 91 Dopo la riforma operata dall’art. 7 della legge n. 265 del 1999, dove le Comunità

montane sono infatti prefigurate, come «unioni montane, enti locali costituiti fra Comuni […] anche appartenenti a Province diverse, per la valorizzazione delle zone montane e

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 174

In realtà, a ben vedere, anche nella legge di riforma sembra confer-mata «la permanenza di alcune differenze determinanti»

92, tra l’Unione e la Comunità montana, cosicché quest’ultima pare irriducibile alla semplice natura associativa: il carattere comunque qualificante del per-seguimento delle esigenze costituzionalmente rilevanti proprie dei terri-tori montani, spinge ad una lettura aperta della previsione contenuta nella legge, che pare però chiaramente rivolta a fissare il carattere tipico, e non più eventuale ed ipotetico, della Comunità quale luogo per l’esercizio associato delle funzioni dei Comuni montani

93. Il timore di un appiattimento della Comunità montana su una «mera

figura generica di collaborazione» 94, sembra confermato, o quantomeno

certo non smentito, dalla mancata previsione delle Comunità montane tra gli enti chiamati a costituire la nuova Repubblica delle autonomie, prefigurata dalla riforma del Titolo V del Capo II della Costituzione.

4.3. Forme associative ed ambiti territoriali ottimali, tra differenziazione funzionale e riordino territoriale

Prevedendosi formule organizzative differenziate, di tipo associativo, chia-mate ad esercitare delle funzioni (che si chiameranno, via via con modelli sottesi differenti, Fusioni 95, Unioni, Convenzioni, Consorzi), si vuole, però spesso, consapevolmente o meno, mantenerne l’uniforme distribuzione

96. Così, le forme associative non sono il superamento dell’uniformità, o

almeno non lo sono tout court: da un lato si realizza un modello organiz-zativamente differenziato a fronte di una realtà differenziata, dall’altro si

per l’esercizio di funzioni proprie, di funzioni delegate, e per l’esercizio associato delle fun-zioni comunali» (v., ora, l’art. 27 del T.u.). Di “valorizzazione della montagna”, come sco-po precipuo delle Comunità montane – Unioni montane parla anche l’art. 28, comma 3, della stessa legge.

92 C. TUBERTINI, Le forme associative e di cooperazione tra enti locali, cit., 315. 93 Ivi, 314 ss. 94 Così, di nuovo, A. VIGNERI, Commento all’art. 7, cit., 82. 95 Modello non più previsto nella legislazione vigente, ma prefigurato, sia pure con

scarso successo, dalla legge n. 142. 96 A nostro avviso, uniformità ed associazionismo/riordino sono tendenzialmente con-

nessi, anziché in opposizione, soprattutto in quanto si abbia a riferimento il dato “fun-zionale”: ciò che cambia, nelle forme associative, sono le “modalità di esercizio” e le “forme organizzative per l’esercizio” di funzioni che restano uniformemente attribuite.

INCRINATURE NEL MODELLO DELL’UNIFORMITÀ LOCALE 175

consente, attraverso questo strumento, per quanto attiene alle funzioni attribuite, il mantenimento di un quadro normativo uniforme

97. Se si guarda al fenomeno della differenziazione amministrativa con

riferimento al diverso riparto competenziale in ragione di differenze as-sunte come rilevanti dall’ordinamento per enti territoriali omogenei, evi-dentemente l’esperienza delle forme associative

98, articolata e plurale, appare avere un rilievo di misura minore. L’ampia valorizzazione di questi istituti

99, attraverso i quali si realizza una differenziazione innan-zitutto organizzativa, nonché in tema di esercizio delle funzioni, o dei servizi

100, discende direttamente, specie nei più recenti interventi rifor-matori, dalla assunzione del “livello della funzione” come parametro per il riparto di numerose e significative competenze

101. Si tratta, di nuovo, di un fenomeno variegato, con una significativa

differenziazione e strutturazione dei modelli proposti dal legislatore (da ultimo con la legge n. 265 del 1999 e quindi con il d.lgs. n. 267 del 2000)

102, che pare rispondere, sotto il profilo funzionale, più alle esigen-ze proprie di un sistema amministrativo uniforme che non di un sistema differenziato.

La previsione di ambiti ottimali sembra, infatti, vincolare sì i Comuni minori al ricorso a forme associative variabili, ma denota un approccio che mira a costruire, secondo percorsi non sempre omogenei tra loro,

97 Diverso è il quadro che sembrano delineare alcune recentissime disposizioni, in te-ma di poteri sostitutivi, in caso di mancata individuazione di ambiti ottimali, su base provinciale, che sembrano rivolte alla creazione di una “provincia asimmetrica”.

98 Per un esame generale del fenomeno, dopo la legge n. 142 del 90, ma prima delle più recenti riforme, A. TRAVI, Le forme di cooperazione interlocale, in Dir. amm., 1996, 673, e L. VANDELLI (a cura di), Le forme associative tra enti territoriali, Milano, 1992 (con riferimento però soprattutto alla disciplina precedente alla riforma del 1990). Da ultimo, per una lettura successiva alla legge n. 265 del 1999, C. TUBERTINI, Le forme associative e di cooperazione fra enti locali, cit., 305 ss.

99 La legge n. 59 del 1997 (e successiva attuazione) e la legge n. 265 del 1999, sembra-no al riguardo muoversi nella medesima prospettiva, nella quale assume specifico rilievo la “dimensione della funzione” e conseguentemente la definizione di “ambiti ottimali”. La legge n. 265, in merito, modifica la legge n. 142, nell’obiettivo di una «eliminazione di al-cuni fattori di rigidità […], ma soprattutto alla cancellazione delle disposizioni più aper-tamente orientate al riordino territoriale “vincolato”» (C. TUBERTINI, ult. op. cit., 308, cui rinviamo anche per un esame puntale dei modelli frutto della legge di riforma della 142).

100 Sul punto, cfr. G. CAIA, Assunzione e gestione dei servizi pubblici locali di carattere industriale e commerciale, in Reg. e gov. loc., 1992, 60 ss.

101 Sul punto, tra gli altri, cfr. G. PASTORI, Il riordino delle funzioni locali e le Regioni, cit., 340 ss.

102 In merito alla disciplina delle forme associative dopo la riforma del 1999, si veda, più nel dettaglio, L. VANDELLI, L’ordinamento delle autonomie locali, cit., 535 ss. e C. TU-BERTINI, Le forme associative e di cooperazione fra enti locali, cit., 305 ss.

7.

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 176

un “taglio” di amministrazione locale di maggiore dimensione e meglio rispondente alle esigenze di una ripartizione competenziale indifferen-ziata.

Quello che vogliamo evidenziare è cioè come, allorché si ricorra al modello degli “ambiti ottimali” in relazione al conferimento di specifi-che funzioni, le stesse vengono “calate” in modo uniforme: sono allora le realtà territoriali a doversi adattare alla “dimensione della funzione”, e non il contrario, il che, a nostro avviso, va più nella traccia di un model-lo, peraltro auspicabile, di riordino territoriale che non di differenzia-zione delle funzioni, in corrispondenza delle specificità locali.

Diverso è, evidentemente, il discorso in quanto la mancata associa-zione intercomunale determini non già poteri sostitutivi che “forzeranno la mano” nel senso di un sostanziale, pure parziale ed improprio”, “rior-dino territoriale” di tipo funzionale, quanto l’attribuzione della compe-tenza ad un soggetto diverso, come pure è dato riscontrare nello stesso processo di attuazione della legge n. 59 del 1997

103. Il punto, ancora, presenta profili problematici che non riguardano

però la differenziazione tra enti locali minori in ragione di una loro i-nerzia (cosa che appare non lesiva dell’autonomia di questi enti, né della loro reciproca condizione di uguaglianza, né, di nuovo, configgente con un’unità del sistema comunque garantita). Il dato problematico che emer-ge con evidenza da una simile differenziazione funzionale, si ha con ri-ferimento alla posizione della Provincia: da un lato per il suo venire sna-turata da attribuzioni per definizione “di livello locale”, ma questo sa-rebbe, in fin dei conti, il problema minore, dall’altro per l’emergere di competenze su funzioni locali non organicamente poste in capo all’ente intermedio, che quindi è costretto ad operare con strutture “a stralcio”, da attivare per funzioni diverse in territori diversi, senza nessuna razio-nalità del sistema complessivo

104.

103 In riferimento ai contributi successivi alla legge n. 59 del 1997, cfr. M. PERRINO, L’individuazione dei livelli ottimali per l’esercizio delle funzioni conferite, in Ist. del federali-smo, 1998, 1047. Per un esame generale dell’attuazione della legge n. 59 del 1997, v. il numero monografico di Ist. del federalismo (n. 4 del 1998), e G. FALCON (a cura di), Lo Stato autonomista, Bologna, 1998.

104 Questo carattere di differenziazione che va, progressivamente, a stravolgere le stes-se caratteristiche dell’Ente provinciale, è esasperato ove si abbia a riferimento, da ultimo, la previsione che l’istituzione di nuove province non comporta necessariamente l’istitu-zione di uffici provinciali delle amministrazioni dello Stato e degli altri enti pubblici (art. 21 del Tuel): quindi, in prospettiva, si avranno tipologie differenziate di realtà provinciali anche con riferimento alla loro coincidenza, o meno, con circoscrizioni amministrative statali, con la rottura, anche sotto questo profilo, di una forma di “parallelismo” ormai con-solidata.

INCRINATURE NEL MODELLO DELL’UNIFORMITÀ LOCALE 177

Questo, a ben vedere, non è un sistema di differenziazione, non per-ché non vi sia differenziazione, ma perché mancano i caratteri che pos-sono consentire di definire questi fenomeni come caratterizzati dal dato della “sistematicità”.

5. La legge n. 59 del 1997 e la positivizzazione del principio di diffe-renziazione (funzionale)

5.1. Lo scenario di fondo della legge n. 59: la riforma costituzionale della Bicamerale ed il suo fallimento

L’evoluzione dell’ordinamento nella linea di una progressiva apertura alla differenziazione, come superamento di un modello ancora percepito come eccessivamente uniforme, in favore di «una allocazione differenzia-ta e asimmetrica» (con una assegnazione che corrisponda, almeno in par-te, alla «eterogeneità di fatto dei soggetti destinatari, anche all’interno del-la medesima categoria»)

105 trova un ulteriore punto di emersione nel pro-cesso innescato dalla legge n. 59 del 1997, alternativamente definito (e de-finibile) come federalismo amministrativo o terzo decentramento.

Una differenziazione della quale si facciano protagoniste anche le re-altà regionali, che era risultata non realizzata dal meccanismo previsto dall’art. 3 della legge n. 142 del 1990, e che trova, nel processo di riforma innescato dalla legge n. 59 del 1997

106, una ancor più chiara affermazio-ne: se situazioni reali differenti richiedono una allocazione di funzioni che garantisca l’effettività del loro esercizio, diviene passaggio obbligato transitare da una “uniformità astratta” ad una distribuzione di compe-tenze necessariamente differenziata, in parte conoscibile solo dai sogget-ti calati sul territorio.

105 Così L. VANDELLI, La distribuzione delle competenze, cit., 287 ss. 106 Tentare di inquadrare il processo del c.d. “Federalismo amministrativo” operato

dalla riforma è tanto più difficile quanto più si cerca di essere sintetici al riguardo.La leg-ge n. 59 del 1997 (c.d. Bassanini 1) ha previsto un ampio decentramento di funzioni e di compiti dello Stato alle Regioni ed agli enti locali. Si tratta, come è stato detto, “del mas-simo decentramento possibile a Costituzione invariata”, ed è in questo senso che risulta non scorretto parlare, pure atecnicamente, di federalismo amministrativo. La mappa dei trasferimenti è contenuta in alcuni decreti legislativi, emanati in attuazione della delega contenuta nella legge: d.lgs. n. 143 del 1997 (in materia di agricoltura e pesca e riorganiz-zazione dell’amministrazione centrale); d.lgs. n. 469 del 1997 (in materia di mercato del lavoro); d.lgs. 422 del 1997 (in materia di trasporto pubblico locale); d.lgs. n. 112 del 1998 (a carattere generale).

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 178

La legge n. 59 nasce in collegamento con il processo di riforma della seconda parte della Costituzione tentato attraverso la Commissione Bi-camerale: lo slancio riformatore che si concretizza nelle leggi Bassanini, voleva porsi come il “primo tempo” di una riforma, da realizzarsi quindi sì anche “a Costituzione invariata”, ma nell’attesa che si completasse il “secondo tempo” attraverso la via maestra costituzionale

107. Il che, peral-tro, si realizzerà, seppure con tempi e modi in parte diversi rispetto a quelli immaginati all’avvio della XIII legislatura.

Nel momento stesso in cui la legge n. 59 trovava attuazione, la propo-sta di riforma costituzionale elaborato dalla Commissione Bicamerale veniva, altresì, accantonato, per ragioni politiche complesse, comunque non legate al punto in esame

108 (tant’è che la riforma dell’organizzazione della Repubblica giungerà poi a coronamento proprio sul finire della le-gislatura).

Nello specifico, la differenziazione funzionale veniva ad essere prevista dall’art. 56 del progetto di riforma

109, per come risultante dalla pronuncia della Commissione sugli emendamenti: «nel rispetto delle attività che pos-sono più adeguatamente essere svolte dall’autonoma iniziativa dei cittadi-ni, anche attraverso le formazioni sociali, le funzioni pubbliche sono attri-buite a Comuni, Province, Regioni e Stato sulla base dei principi di sussi-diarietà e differenziazione. La titolarità delle funzioni compete rispettiva-mente a Comuni, Province, Regioni e Stato, secondo i criteri di omogenei-tà e adeguatezza. La legge garantisce le autonomie funzionali»

110.

107 Sui lavori della Commissione Bicamerale molto è stato scritto, cfr., tra gli altri, i numeri monografici de Ist. del federalismo (n. 3/4/5/6, 1997); Regioni (n. 6, 1997); G. AZZARI-TI-M. VOLPI (a cura di) La riforma interrotta: riflessioni sul progetto di riforma della Costi-tuzione della Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, Perugia, 1999; P. CA-RETTI (a cura di), La riforma della Costituzione nel progetto della Bicamerale, Padova, 1998 (ed in particolare, ivi, l’Introduzione di P. BARILE), e, anche per la ricchezza di documen-tazione, P. COSTANZO ET AL. (a cura di), La Commissione bicamerale per le riforme istitu-zionali. I progetti, i lavori, i testi approvati, Padova, 1998.

108 Il testo della Bicamerale rappresenta, comunque, un dato storico di assoluto inte-resse, anche ai fini che qui rilevano, posto che nel progetto di riforma condiviso sostan-zialmente dall’intero arco costituzionale, veniva già ad essere inserito nella modificata Carta fondamentale il principio di differenziazione funzionale (poi ripreso dalla legge cost. n. 3 del 2001).

109 Il principio di uniformità amministrativa subisce comunque un significativo punto di crisi, anche se solo simbolico, quale principio cardine di un modello di amministrazione. Crisi che emerge dal radicarsi del principio di differenziazione «in un crescendo che parte dalla legge n. 142 del 1990, per poi consolidarsi nella legge n. 59 del 1997 e, da ultimo, nel progetto di revisione della Costituzione elaborato dalla Commissione bicamerale» (così, all’epoca dei lavori, L. VANDELLI, Dalle aree metropolitane ai Comuni minori, cit., 831).

110 Gli articoli sulla “forma di Stato” del progetto della Bicamerale sono, nella loro ste-sura “definitiva” sostanzialmente ricalcati sulle disposizioni di principio della legge n. 59,

INCRINATURE NEL MODELLO DELL’UNIFORMITÀ LOCALE 179

Venuta inizialmente a mancare la “copertura costituzionale” 111, il

processo riformatore è rimasto per un certo periodo affidato alla sola via ordinaria. Il collegamento tra i due percorsi, pure innegabile, non era però tale da far ritenere costituzionalmente scoperta la riforma operata attraverso le leggi delega nn. 59 e 127 del 1997

112: i due progetti di legge che fondano l’ossatura della riforma risultavano anzi nati anche per co-stituire una “rete di salvaguardia” del sistema istituzionale pure a fronte di un eventuale fallimento delle riforme costituzionali

113.

5.2. Il principio di differenziazione funzionale nella legge n. 59 del 1997

Nell’ambito di una riforma, che mira ad affrontare contestualmente il tema della distribuzione delle competenze con quello della riforma del-l’amministrazione, lo stesso processo del conferimento

114 delle funzioni risulta retto da principi che, esorbitando da questo, attengono piuttosto al riordino stesso delle funzioni

115.

di cui riproducono i principi nel riparto delle competenze: come rileva, incisivamente e criticamente, R. BIN (Del federalismo asimmetrico all’italiana, cit., 232) al riguardo, in ca-so di approvazione, si sarebbe verificato questo singolare paradosso: «partiti da una “Bas-sanini” che ambiva a riformare il sistema dei poteri regionali “a costituzione vigente”, sa-remmo approdati a una riforma costituzionale che confermerà il sistema dei poteri re-gionali “a Bassanini vigente”!».

111 L’uniformità amministrativa, nella lettura politica contemporanea, non è più ga-ranzia dell’uguaglianza formale tra i cittadini né dell’unità nazionale, atteso che il suo su-peramento viene disposto a livello legislativo e stava per essere fissato a livello costituzio-nale senza sollevamenti di scudi neppure tra le forze politiche in cui la difesa dei valori dell’uguaglianza e dell’unità risulta centrale.

112 In tal senso, v. la sent. n. 408 del 1998 (con commento di G. PASTORI, Il conferimen-to delle funzioni amministrative fra Regioni ed enti locali, in Regioni, 1999, 411 ss.), dove la Corte costituzionale non si è limitata a sancire la non contrarietà della legge n. 59 (artt. 1-4) ai vincoli costituzionali, ma ha considerato il sistema così definito come un’ulteriore tappa di sviluppo positivo dei principi posti dalla Costituzione.

113 L’impostazione di fondo della legge n. 59 risultava coerente con quella della propo-sta della Commissione Bicamerale, «essendo espressamente diretta la seconda a dare co-pertura costituzionale alla prima» (v., in questo senso, A. BALDASSARRE, La riforma del governo locale in Italia, in Regioni, 1997, 1069 ss.)

114 L’utilizzo del termine “conferimento”, quale «indicatore complessivo delle funzioni e dei compiti da decentrate» (L. TORCHIA, La modernizzazione del sistema amministrativo, cit., 339), a prescindere dallo specifico regime giuridico, in merito alla loro titolarità o al loro esercizio, testimonia la volontà di operare un decentramento che prescinda dalla frammentarietà dell’attuale allocazione di funzioni, ma anzi si ponga a correttivo di que-sta (cfr. ivi, 338 ss.).

115 Al principio di sussidiarietà si ricollegano, poi, altri principi, tutti annoverati nel-l’art. 4 della legge n. 59, che possono essere riassunti in due fondamentali. In primo luo-go, la funzione deve essere allocata alla dimensione adeguata all’esercizio della funzione

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 180

La legge n. 59 del 1997 si configura, quindi, come il punto di parten-za di un processo rivolto a innovare significativamente la pubblica am-ministrazione in generale e quella locale in particolare, dando piena e compiuta attuazione al principio di autonomia sancito dall’art. 5 Cost.

Non è possibile in questa sede illustrare partitamente i principi e i criteri direttivi del conferimento

116: merita però evidenziare, anche per la rilevanza che questo ha ai fini della nostra analisi, come venga supe-rato il criterio tradizionale di riparto delle funzioni secondo la gradua-zione degli interessi, risultando affermato il criterio della “dimensione idonea all’esercizio delle varie funzioni”, secondo la “localizzabilità” del-le stesse; a questo si ricollega, quindi, la previsione che a diversità di dimensione degli enti, pur della stessa connotazione istituzionale, debba corrispondere diversità di funzioni

117. Viene così a sostituirsi al tradizionale principio dell’uniformità fun-

zionale, tra enti istituzionalmente omogenei, l’affermazione del princi-pio di differenziazione nel riparto delle funzioni

118. In particolare, nella legge in esame viene quindi sancito, in tema di conferimento, in forma espressa il principio di differenziazione (funzionale). La differenziazione

stessa in un contemperamento di prossimità, efficacia, efficienza (principio di sussidia-rietà/adeguatezza). Il tutto da rileggersi nella prospettiva del principio di differenziazione: a livelli istituzionali uguali possono essere allocate funzioni diverse se la dimensione degli enti è differente. Nella sussidiarietà può leggersi, inoltre, un ridisegno del «concetto stes-so di attribuzione, che da nozione statica utile all’individuazione definitiva della soggetti-vità del potere, si viene progressivamente trasformando in elemento dinamico, in base al quale la potestà appartiene ad un soggetto nei limiti in cui questi è in grado di esercitarla e soltanto fino a che la esercita effettivamente» (così A. PIOGGIA, Federalismo amministra-tivo e procedimento, in B. CAVALLO (a cura di), Il procedimento amministrativo tra parteci-pazione semplificata e pubblica trasparenza, Torino, 2000, 20).

116 Occorre rilevare, peraltro, come il conferimento delle funzioni amministrative pre-visto dalla legge n. 59 fosse il più ampio previsto finora dal legislatore, date le materie in-teressate e il criterio di riparto adottato. Risultavano escluse dal conferimento solo le ma-terie tassativamente enumerate dall’art. 1 della legge, per le quali restano riservate le fun-zioni allo Stato. Per tutte le restanti materie (fatti salvi i c.d. compiti di rilievo nazionale) le funzioni devono essere attribuite agli enti locali e alle Regioni partendo dalla istituzio-ne più prossima ai cittadini, il Comune, e risalendo poi, dal basso verso l’alto (secondo il principio, cardine della riforma, di sussidiarietà verticale), ai Comuni associati, alle Co-munità montane, alle Province, alle Regioni.

117 Così, per tutti, G. PASTORI, Il riordino delle funzioni locali e le Regioni, cit., 342 ss. 118 Nel medesimo tempo, sempre in vista dell’efficace raggiungimento dei risultati e-

conomico-sociali cui la pubblica amministrazione è ordinata, viene stabilito che il riparto delle funzioni debba comunque avvenire in modo che ciascun soggetto titolare di una funzione sia in grado di assicurare nella sua interezza il relativo servizio o attività ammi-nistrativa. Si afferma così un altro principio nuovo, quello dell’unicità dell’ammini-strazione, dell’identificabilità in capo ad unico soggetto, anche associativo, della respon-sabilità di ciascun servizio o attività amministrativa (principio, questo, non ripreso dal legislatore costituzionale del 2001).

INCRINATURE NEL MODELLO DELL’UNIFORMITÀ LOCALE 181

entra, dunque, quale “principio di diritto positivo” nella legislazione sul-le autonomie locali con l’art. 4, comma 3°, lett. h) della legge n. 59 del 1997, ai sensi del quale, nell’allocazione delle funzioni, il legislatore do-vrà differenziare le stesse, «in considerazione delle diverse caratteristi-che, anche associative, demografiche, territoriali e strutturali degli enti riceventi»

119. Si tratta, pertanto, di un principio della legge delega

120, il quale va let-to in collegamento con altri principi ivi contenuti, primo tra tutti quello di sussidiarietà, nonché con la struttura stessa della riforma, la quale ha previsto l’attribuzione alle Regioni di poteri legislativi di allocazione del-le funzioni locali.

La legge, come detto, abbandonando come criterio di allocazione quello della “rilevanza degli interessi” in favore di quello della “dimensione della funzione”

121, correla queste ultime, oggettivamente, alla dimensione delle collettività e degli enti che le ricevono. Allora, alla luce degli insistiti riferi-menti, nell’ambito del principio di sussidiarietà, al fatto che sia necessario porre attenzione, nel conferimento, alle dimensioni (organizzative, terri-toriali, demografiche), possiamo affermare come la sussidiarietà così intesa implichi necessariamente differenziazione, che ne costituirà quindi un pre-dicato, ancor prima che un autonomo ed espresso principio. È in questa ot-tica che vanno letti tanto il principio di adeguatezza

122 che, soprattutto,

119 In relazione al principio di differenziazione della legge n. 59, cfr., in particolare L. VANDELLI, Dalle aree metropolitane ai Comuni minori, cit., 831 ss.; V. CERULLI IRELLI, I quattro pilastri della riforma amministrativa, cit., 54 ss.

120 La legge n. 59 del 1997 è una legge complessa, che prevede una serie di deleghe legi-slative e regolamentari per il riordino generale del sistema amministrativo, con riguardo a tre principali oggetti: il conferimento di funzioni a Regioni ed Enti locali (Capo I), il riordi-no e la riorganizzazione delle strutture amministrative dello Stato e degli enti dipendenti (Capo II), la revisione e semplificazione dei procedimenti amministrativi (Capo III). La leg-ge mira a realizzare, in particolare, il massimo decentramento possibile a costituzione inva-riata, un decentramento riferito all’amministrazione e non alla legislazione; sul punto si ve-da, in particolare, G. PASTORI-M. RENNA, La riforma della pubblica amministrazione a Costi-tuzione invariata: la legge n. 59 del 1997, in Studium iuris, 1998, 459 ss.

121 La legge n. 59 sviluppa poi queste premesse, poste in essere col principio di sussi-diarietà, con l’affermazione del criterio della dimensione delle funzioni. La legge quindi non contrappone prossimità ed efficienza, ma cerca di calare l’esigenza dell’efficienza all’interno dell’attuazione della sussidiarietà, in funzione della migliore attuazione di que-sta. Da un lato la legge non si limita a far riferimento alle dimensioni territoriali esistenti, ma fa riferimento alle dimensioni organizzative che si possono realizzare attraverso l’eser-cizio in forma associata delle funzioni o attraverso il conferimento delle funzioni a sog-getti aventi carattere associativo.

122 Sul quale v. R. MARRAMA-M. SPASIANO, Spunti di riflessione intorno al criterio di a-deguatezza, in Nuove autonomie, 2000, 261 ss., per i quali il criterio dell’adeguatezza, deve essere inteso necessariamente con riferimento a più ambiti: quello organizzatorio in sen-so stretto, quello funzionale e quello finanziario.

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 182

quello in esame che, «travolgendo una tradizione antica, tende ormai a ra-dicarsi nel sistema istituzionale italiano»

123. Il rapporto tra il principio di differenziazione e quello di sussidiarietà

merita in effetti qualche ulteriore approfondimento: trattandosi di un rap-porto complesso e non necessariamente univoco. La sussidiarietà si com-pleta, da un lato, con la differenziazione, posto che “il livello più vicino al cittadino”, adeguatamente in grado di assolvere le funzioni conferite, an-drà individuato non per categorie generali, ma “ente per ente”, avendo co-me riferimento parametri dimensionali, ma anche strutturali 124.

D’altra parte, però, il principio di sussidiarietà si pone anche come limite e come guida al principio di differenziazione, nonché come ga-ranzia per gli stessi enti locali.

La perdita, nelle materie oggetto del conferimento, dell’uniformità funzionale, potrebbe infatti comportare il rischio di una “differenziazio-ne arbitraria”, peraltro costituzionalmente difficilmente accettabile. Que-sto rischio è limitato dal principio di sussidiarietà, alla luce del quale emerge la necessità che le differenziazioni risultino fondate su una obiet-tiva diversità delle caratteristiche degli enti locali, cui comunque do-vranno essere riconosciute attribuzioni tali da non pregiudicarne la po-sizione di autonomia e da valorizzarne il ruolo di “ente di base”, mag-giormente vicino ai cittadini.

Seppur limitato da altri principi fissati anch’essi nella legge delega, primo tra tutti quello di “omogeneità”, il principio di differenziazione (funzionale), posto nella legislazione locale anche se nell’ambito di una normativa non ordinamentale ma “a perdere”

125, irrompe su uno scena-rio storicamente caratterizzato da una tenace uniformità, intaccata ma mai infranta dalle normative, in deroga o di principio, precedenti

126.

123 Così per L. VANDELLI, Dalle aree metropolitane ai Comuni minori, cit., 831. 124 Ai sensi dell’art. 4, comma 3°, lett. a) della legge n. 59, si prevede «l’attribuzione

della generalità dei compiti e delle funzioni amministrative ai Comuni, alle Province […] secondo le rispettive dimensioni […], con l’esclusione delle sole funzioni incompatibili […]». In tale modo si riafferma il ruolo di enti a competenza generale di Comuni e Pro-vince; si tratta, inoltre, di un processo di redistribuzione delle funzioni assistito da termi-ni e sanzioni, seppure non per questo meno problematico. Si può quindi affermare come «il disegno complessivo, in questo senso, si viene precisando e completando rispetto alle aperte, ma insufficienti, disposizioni della legge n. 142» (cfr. F. MERLONI, Funzioni co-munali e principio di sussidiarietà, cit., 1163).

125 Si tratta, in effetti, di una differenza di un qualche rilievo: mentre le norme della legge n. 142 (e successive modificazioni, ora T.U. sulle autonomie locali) hanno valore permanente, quelle della legge n. 59 attengono ad una fase transitoria, come tale destina-ta ad esaurirsi con l’adozione dei diversi provvedimenti attuativi (statali e regionali) (cfr. F. MERLONI, ult. op. cit.).

126 L’affermazione del principio di differenziazione nell’ordinamento italiano è rilevato

INCRINATURE NEL MODELLO DELL’UNIFORMITÀ LOCALE 183

In base al “nuovo modello”, enti locali appartenenti alla medesima cate-goria potranno essere portatori di funzioni differenti: la differenziazione, da “eccezione” diviene quindi “regola”, o quantomeno entra quale principio generale. Si tratta, nello specifico, di una norma ancora “che consente la differenziazione”, di tipo funzionale, non di una norma che la realizza, co-me è naturale per una legge di delega. Quello che, successivamente, dovre-mo perciò valutare è se, ed in che misura, questo principio si radichi nel decreto legislativo (o meglio, nei decreti legislativi) delegato, e quindi fino a che punto venga meno, e con quali problemi, la tenace resistenza dell’uni-formità (qui di tipo funzionale) nell’ordinamento locale italiano

127. Come in parte già detto, la differenziazione locale è perseguibile at-

traverso una pluralità di tecniche e di strumenti: limitando l’analisi alla differenziazione di tipo funzionale, che è quella che qui rileva, essa è perseguita nel disegno delle recenti riforme attraverso tre percorsi.

Innanzitutto, ed è il punto per noi maggiormente dirompente del re-gime dell’uniformità, prevedendo principi sull’allocazione delle risorse che assumono la differenziazione medesima quale contenuto; preveden-do, poi, una distribuzione fra più soggetti del potere di allocazione; ri-conoscendo, infine, poteri di autonomia agli enti locali

128. Nel primo caso, la differenziazione si pone quale principio che ri-

sponde ad esigenze in primo luogo di efficienza: prevedendo criteri di eterodifferenziazione dal centro, si persegue la necessità, più volte se-gnalata, che le funzioni conferite siano effettivamente ed adeguatamente esercitabili. Si mira quindi, innanzitutto, al buon andamento della pub-blica amministrazione, ma anche, attraverso questo, a perseguire un prin-cipio di uguaglianza sostanziale tra i cittadini

129. Riconoscere poteri di eterodifferenziazione alle Regioni, che poi sono anche poteri di autodif-ferenziazione tra di loro, nei confronti degli enti locali, significa da un lato riconoscere l’autonomia di queste, e dall’altro riconoscere loro una

anche dai più attenti commentatori stranieri, e riflette una dinamica comune anche ad altri ordinamenti di impronta francese (in questo senso, cfr. T. FONT I LLOVET, La auto-nomìa local en espana a los veinte anos de la constitucion: prospectivas de cambio, in Anuario del Gobierno Local, 1998, 33 ss.).

127 Sulla “resistenza del principio di uniformità” negli ordinamenti di derivazione fran-cese, si veda già L. VANDELLI, Poteri locali, cit., 350 et passim.

128 Per questa schematizzazione, cfr. G. VESPERINI, I poteri locali, cit., 368. 129 Su come il ruolo dell’amministrazione sia rivolto, attraverso l’efficacia ed efficienza del-

la propria azione, a soddisfare valori costituzionali fondamentali, primo tra tutti quello dell’uguaglianza sostanziale (soprattutto in relazione alla tematica dei servizi pubblici), cfr. G. ARENA, Valori costituzionali e ruolo dell’amministrazione, cit., 11 ss. Merita attenzione, in parti-colare, l’acquisita rilevanza della “uniformità delle prestazioni” contro la mera uniformità formale, per la quale si rimanda al più volte citato L. VANDELLI, Poteri locali, cit., 376 ss.

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 184

funzione di governo del complessivo sistema delle autonomie territoria-li, seppure nei limiti della legge e delle garanzie costituzionalmente fis-sate per gli enti minori. Prevedere, infine, poteri di autodifferenziazione locale significa riconoscere l’autonomia di Comuni e Province, ma anche garantire una differenziazione non astratta, ma calata sul territorio, in risposta alle necessità del corpo sociale locale, della comunità di cui gli enti in questione sono esponenziali in via generale

130. Le tre finalità sono diversamente perseguite nel progetto della rifor-

ma, che si caratterizza quindi per un impianto sofisticato, decisamente articolato e complesso, mirante ad una differenziazione su più livelli ed attraverso più strumenti.

6. Il decreto n. 112 del 1998 e l’attuazione dei principi della legge n. 59 del 1997. Recenti (e disorganiche) tendenze alla differenziazione nella normativa sulle autonomie locali

L’affermazione espressa del principio di differenziazione (e di quello, in certa misura omologo di adeguatezza), costituisce un punto di parti-colare novità nell’ambito della legislazione italiana sulle autonomie loca-li. Tuttavia, all’affermazione di principio non corrisponde una scelta chia-ra e coerente sul piano della concreta traduzione operativa.

La legge n. 59 del 1997 segue, infatti, due strade: nelle materie ex art. 117 spetta alle Regioni la redistribuzione-differenziazione delle funzioni tra gli enti locali, mentre nelle altre materie si rinvia a successivi decreti delegati, attraverso i quali questo compito viene svolto direttamente dallo Stato

131: si configura così un “doppio binario” che ha suscitato qualche perplessità

132.

130 Si apre, con la legge n. 59 e con la sua attuazione, innanzitutto con il decreto 112, «uno spazio ampio alla (differente) capacità di conformare e strutturare i servizi e l’azione ammini-strativa nel modo più efficiente e più rispondente ai bisogni delle diverse collettività» (così L. TORCHIA, Commento all’articolo 1, in G. FALCON (a cura di), Lo stato autonomista, cit., 19).

131 Per quanto attiene alle funzioni conferite, il riferimento principale è il decreto 112, cuore di una riforma che, passa anche per interventi di settore spesso particolarmente rilevanti. I settori in cui il decreto 112 ha operato il conferimento delle funzioni sono, principalmente, quelli riferibili alle tre “macro aree” di “gestione del territorio” (pianifi-cazione territoriale e urbanistica, lavori pubblici, protezione civile, trasporti), “attività economiche e produttive” (commercio, artigianato, industria e turismo) e “servizi sociali” (tutela della salute, servizi socio-assistenziali, beni e attività culturali ed istruzione scola-stica). Spesso il decreto non individua, come detto, espressamente l’ente locale destinata-rio del conferimento, individuazione che quindi compete alle leggi regionali.

132 Si veda, per tutti, di nuovo, G. PASTORI-M. RENNA, La riforma della pubblica ammi-nistrazione, cit., 463.

INCRINATURE NEL MODELLO DELL’UNIFORMITÀ LOCALE 185

Questa legge è stata attuata con una serie di decreti legislativi: hanno seguito un proprio percorso le materie del mercato del lavoro

133, del-l’agricoltura, e dei trasporti, risultando altrimenti attuata attraverso il d.lgs. n. 112, avente carattere tendenzialmente generale.

Si è trattato di un processo di grande portata, di cui piuttosto ap-paiono suscettibili di critica i passaggi (o i “non passaggi”) successivi: quello che qui rileva è come, a fronte di una forte affermazione della dif-ferenziazione quale pilastro della riforma, nelle fasi attuative questo slancio si sia progressivamente perso, radicandosi piuttosto un modello di “uniformità del conferimento”, nel quale sono presenti, casomai, dif-ferenziazioni nelle forme di esercizio

134. Senza entrare nello specifico delle singole previsioni, preme rilevare

come non si sia assistito ad un significativo conferimento differenziato, nel senso che i conferimenti sono comunque attuati in favore dei Comu-ni, singoli od associati, risultando soddisfatto quindi il nuovo modello che fa riferimento alla “dimensione della funzione”, piuttosto che un modello di forte differenziazione tra enti di dimensione diversa.

A conti fatti, quello cui stiamo assistendo è innanzitutto un processo, più o meno forzato, di riordino territoriale, a diversa strutturazione, quale condizione per il conferimento delle funzioni di cui alla legge n. 59 ed ai decreti attuativi. O, perlomeno, questo è quello che appare possibile so-stenere in relazione alla differenziazione “interna” ad ogni singola Regio-ne. In parte diverso è il discorso “tra regioni”, atteso che la competenza regionale in ordine ad ampi spazi di “sub-conferimento” determina ex se la creazione di potenziali differenziazioni negli assetti funzionali.

Concludendo sul punto, dall’analisi sin qui condotta emerge, con una certa chiarezza, come pure a fronte di resistenze di ordine prevalente-mente attuativo, dalla riforma emerga un sistema di autonomie a pro-gressiva differenziazione, senza che sia però ancora possibile delineare un modello univoco: convivono, l’una accanto all’altra, letture disomo-

133 Le leggi regionali attuative del d.lgs. n. 469 del 1997, appaiono non significativamente dissimili, seppure tra qualche eccezione di rilievo. In particolare merita una segnalazione la scelta operata dalla Regione Lazio, la quale prevede un conferimento di funzioni in tema di collocamento e mercato del lavoro anche al livello comunale, oltre che come naturale al li-vello provinciale. Detta scelta nello specifico prevede la delega ai Comuni delle funzioni amministrative per l’orientamento al lavoro, nel rispetto degli atti di programmazione re-gionali e provinciali, nonché degli atti di indirizzo e coordinamento regionali.

134 Così, ad esempio, C. PINELLI rileva come, in materia di “mercato del lavoro”, «i conferimenti avranno accontentato tutti gli enti riceventi, ma hanno così replicato sul piano regionale e locale gli stessi vizi che la legge di delegazione aveva cercato di rimuo-vere, primo dei quali un’irragionevole combinazione fra uniformità organizzativa e frammentazione di funzioni e compiti» (ID., Conferimenti di funzioni a Regioni ed enti lo-cali e riforme del mercato del lavoro, in Regioni, 1998, 57).

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 186

genee di questo principio. Ad affermazioni formali, a sistemi di autono-mia normativa come spazi di autodifferenziazione, si accompagnano mo-delli eterodifferenziati (dallo Stato o dalle Regioni), e, soprattutto, diffe-renziazioni puntuali previste per casi specifici

135. Da questa angolazione, la normativa vigente si delinea quindi per un as-

setto a “forte differenziazione”, sia di ordine funzionale, che organizzativo, in cui non può evincersi più la permanenza di un assetto locale uniforme, ma neppure la presenza di un contrapposto modello coerente e razionale di differenziazione. Questo è tanto più evidente in quanto si abbiano presenti non solo, e non tanto, i passaggi attuativi della legge n. 59, ma in quanto si consideri nella sua globalità i recenti interventi legislativi sugli enti locali.

Lo stesso Testo unico degli enti locali prevede non meno di diciasset-te diversi criteri di differenziazione: sette a carattere qualitativo

136, non meno di dieci a carattere quantitativo

137.

135 In realtà l’approccio tradizionale (eterodifferenziazione a carattere eccezionale) è evidente, così come la tendenza ad assumere parametri diversi, senza tratti di sistematici-tà, già dalla lettura del Testo unico. Se si eccettua il sistema elettorale, dove la soglia scel-ta è quella dei 15.000 abitanti, la legge presenta una molteplicità di soglie quantitative e di differenziazioni in base a classi di popolazione nelle quali è difficile ravvisare tracce di sistematicità ed organicità. Anche eccettuando le dodici classi demografiche previste per l’applicazione della II parte del Testo unico (ordinamento finanziario e contabile) dall’art. 156, e prescindendo dalle (differenti) sei classe previste in relazione alla previsione dell’art. 255 (quota fissa prevista in relazione al risanamento finanziario), il Testo unico propone una moltitudine di soglie differenti cui ricollega la diversa applicabilità dei vari istituti.

136 A solo titolo esemplificativo, così nel Testo unico sono numerose le differenziazioni fondate su parametri non meramente quantitativi: comuni montani e non, art. 27 (peral-tro suscettibili di graduazione per fasce altimetriche, ai sensi del comma 7° dello stesso art. ); comuni isolani, art. 29; comuni insigni per ricordi, monumenti storici ed importan-za (per il titolo di città, art. 18); comuni specifici (definiti dalla legge) e quelli con questi in stretta integrazione (per le aree metropolitane, art. 22); comuni turistici e non, art. 92; oltre che tra comuni strutturalmente deficitari o meno, art. 91; tra comuni capoluogo di provincia e non (l’art. 27 li esclude dalle comunità montane, l’art. 254 prevede tempi più lunghi in caso di rilevazione della massa passiva).

137 Ancora più numerose le differenziazioni fondate su parametri quantitativi (legati alla popolazione). Seppure con il rischio di qualche omissione, la legge prevede, senza alcuna sistematicità, ben dieci diverse soglie in relazione all’applicazione di differenti istituti e di-scipline: 5.000 abitanti (art. 252, in relazione all’organo straordinario di liquidazione, art. 238, in materia di limiti all’affidamento di incarichi di revisore); 10.000 abitanti (regime del-le indennità parzialmente diverso, art. 82 ed 86); 15.000 abitanti (è, come noto, la soglia per la legge elettorale; inoltre, al di sotto il Consiglio è presieduto dal Sindaco, art. 39; oltre que-sta soglia è possibile dotarsi di un direttore generale, art. 108; il controllo eventuale deve essere richiesto da un quarto dei consiglieri, anziché un quinto; art. 127); 20.000 abitanti (se al di sotto, i Comuni non montani possono eccezionalmente far parte di una Comunità montana, art. 27; la stessa soglia è individuata come limite oltre il quale scatta la decadenza per il Sindaco nei casi di incompatibilità previsti dall’art. 62); 30.000 abitanti (diviene possi-bile prevedere forme di decentramento, ma vedi anche l’art. 17, in tema di status degli am-ministratori); 40.000 abitanti (per i Comuni al di sopra non è possibile fare parte di Comu-nità montane, art. 27); 50.000 abitanti (in materia di oneri previdenziali degli amministrato-

INCRINATURE NEL MODELLO DELL’UNIFORMITÀ LOCALE 187

Senza entrare in ulteriori problematiche, merita comunque un cenno per il suo carattere di differenziazione “in deroga” la previsione, da ultimo, della potenziale sottrazione dei comuni minori (al di sotto dei 3.000 abitanti) dal principio di distinzione politica amministrazione

138. Nel caso in esame, quindi, si afferma una differenziazione nell’amministrazione di particolare rilevanza, tale da porre in discussione, sussistendone le condizioni, anche principi emersi progressivamente come cardini di un nuovo modello di am-ministrazione pubblica

139.

ri, art. 86); 100.000 abitanti (oltre questa soglia le circoscrizioni di decentramento sono ob-bligatorie, art. 17; è previsto, inoltre, in relazione alla diversa possibilità di affidamenti di incarichi di revisione, art. 238); 250.000 abitanti (termine più lungo per la rilevazione della massa passiva in caso di dissesto, art. 254); 300.000 abitanti (lo Statuto può prevedere for-me ulteriori di decentramento, art. 17). Il tutto, come detto, senza tenere conto delle dodici soglie previste dall’art. 156 e delle sei soglie previste dall’art. 255.

138 L’art. 53, comma 23°, della legge n. 388 del 2000 consente ai Comuni con meno di 3.000 abitanti di assegnare le funzioni di gestione alla giunta ed ai suoi componenti: cfr., sul punto, L. OLIVERI, Il doppio regime dell’ordinamento locale, in Giustizia amministrativa (www.giust.it).

139 In questo senso, la norma pare rispondere all’esigenza (ma forse eccede in questa di-rezione) di ridurre l’impatto “indifferenziato” sull’amministrazione di riforme a carattere generale, pensate spesso per l’amministrazione statale e poi calate indistintamente sulle di-verse realtà amministrative. Così, L. TORCHIA (La modernizzazione del sistema amministrati-vo, cit., 332 ss.) ravvisava un tratto rigidamente uniformante nella legislazione sul pubblico impiego della riforma operata con il d.lgs. n. 29 del 1993, rilevando peraltro una perdita di parte di questa rigidità ed “indifferenza” nelle successive riforme, da ultimo il d.lgs. n. 80 del 1998: «l’accettazione della differenziazione come caratteristica propria dell’universo ammi-nistrativo, il corrispettivo abbandono di dettare regole uniformi per tutti i soggetti dell’uni-verso, emerge con evidenza dai decreti correttivi del d.lgs. n. 29 del 1993 […]. La disciplina che risulta dopo gli interventi correttivi risulta più articolata […]».

IL MODELLO COSTITUZIONALE DELL’UNIFORMITÀ E LA SUA EVOLUZIONE 188

PARTE TERZA

LO STATO DIFFERENZIATO

LO STATO DIFFERENZIATO 190

VERSO UN NUOVO MODELLO DI UNIFORMITÀ: PROFILI GENERALI 191

CAPITOLO SETTIMO

VERSO UN NUOVO MODELLO DI UNIFORMITÀ: PROFILI GENERALI DELLA RIFORMA COSTITUZIONALE

SOMMARIO: 1. Dal modello in mutamento al mutamento di modello. La riforma del Titolo V della parte II della Costituzione: prime suggestioni. – 2. Differenziazione amministrativa e differenziazione normativa. Ragioni e caratteri del loro collegamento nel momento della loro scomposizione. – 3. Caratteri fondamentali del nuovo modello di uniformità. – 3.1. La scissione di uniformità normativa ed uniformità amministrativa. – 3.2. Il nuovo modello e le definizioni: dall’uniformità forte all’uniformità spessa, sottile, di base. – 3.3. Lo Stato autonomico e le sue conseguenze: prime riflessioni intorno alle riper-cussioni della riforma sulla prima parte della Costituzione. – 4. Differenziazione, spe-cialità, asimmetria: differenziazione dei soggetti di autonomia e differenziazione auto-nomica. – 4.1. Le Regioni speciali: ragione della persistenza di un modello e sua giustificazione (alla ricerca dei fatti differenziali nell’ordinamento repubblicano). – 4.2. Asimmetria e principio dispositivo: a proposito della clausola di asimmetria dell’art. 116 Cost. – 5. Note ai margini dei progetti di “riforma della riforma”.

1. Dal modello in mutamento al mutamento di modello. La riforma del Titolo V della parte II della Costituzione: prime suggestioni

A coronamento di una legislatura caratterizzati da forti slanci rivolti ad innovare l’ordinamento

1 ed, in particolare, a valorizzare il mondo delle autonomie, ed a conclusione di processi, sia legislativi

2 che di revi-

1 Caratterizzati, in una prima fase, da progetti di “grande riforma”, e tradottisi nei lavo-ri, poi naufragati, della Commissione Bicamerale. In merito ai progetti emersi dalla Bica-merale, anche ai fini di un raffronto con la riforma, poi portata a termine, del Titolo V, cfr., per quanto qui di interesse, in particolare B. CAVALLO, Pubblica amministrazione e Costitu-zione, in G. AZZARITI (a cura di), Quale riforma della Costituzione?, Torino, 1999, 225 ss.

2 Per tutti, il processo di riforma operato a partire dalla legge n. 59 del 1997. Continui-tà dei processi, ma discontinuità del sistema, alla luce della cesura operata dalla legge cost. n. 3 del 2001 (il che rileva, per noi, innanzitutto in termini di approccio ai fenomeni e di metodo per la loro analisi, cosicché «le varie questioni vanno affrontate non già par-tendo dallo stato in cui si trovavano prima della legge costituzionale 3/2001, ma a partire dai principi ispiratori di quest’ultima per poi verificare quanto della disciplina e della ela-

LO STATO DIFFERENZIATO 192

sione costituzionale, di ampio respiro, l’approvazione della legge costi-tuzionale n. 3 del 2001 sancisce la riformulazione della forma ordina-mentale di Stato frutto dei lavori dell’Assemblea costituente

3. Si tratta di una riforma di portata minore, forse, rispetto al necessa-

rio, dal momento che restano esclusi pezzi essenziali per l’affermazione di un sistema pienamente

4 (ed efficientemente) autonomistico 5; ma, an-

che, di una riforma le cui conseguenze superano, e travalicano, le stesse intenzioni manifeste

6 delle forze politiche che la hanno varata oltre che, inevitabilmente, gli angusti confini del solo Titolo V, che pure è l’unica parte della Costituzione oggetto di revisione

7.

borazione precedente è ancora valido e può essere utilizzabile e quanto, invece, è irrime-diabilmente superato» (come ravvisa M. CAMMELLI, Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo Titolo V, cit., 1285).

3 Sulla riforma del Titolo V è stato scritto molto: sin d’ora v., per tutti, i numeri mo-nografici di Dir. pubbl. (n. 3 del 2002 ed in parte n. 1 del 2002), Regioni (n. 6 del 2001 e n. 2-3 del 2002), Lav. pubbl. amm. (n. 1, suppl., 2002), Quad. cost. (n. 2, 2001), Ist. del federa-lismo (n. 6, 2001; nn. 1, 2, 5, 2002), Foro it., n. 5, 2001; si vedano, ancora, tra le opere col-lettanee, A. FERRARA-L. SCIUMBATA (a cura di), La riforma dell’ordinamento regionale. Le modifiche al Titolo V della parte II della Costituzione, Milano, 2001; T. GROPPI-M. OLIVETTI (a cura di), La Repubblica delle autonomie. Regioni ed Enti locali nel nuovo Titolo V, Tori-no, 2002; C. BOTTARI (a cura di), La riforma del Titolo V, parte II della Costituzione, Rimi-ni, 2003; S. GAMBINO (a cura di), Il “nuovo” ordinamento regionale. Competenze e diritti, Milano, 2003; rinviando al prosieguo per ulteriori riferimenti, si veda, però, sin d’ora an-che l’Indagine conoscitiva sugli effetti nell’ordinamento delle revisioni del Titolo V della par-te II della Costituzione, promossa dalla I Commissione del Senato tra il 17 ottobre 2001 ed il 26 giugno 2002 (il principali documenti correlati, oltre che negli Atti del Senato, sono reperibili in www.federalismi.it), nonché (a margine del progetto di riforma) G. BERTI-G.C. DE MARTIN (a cura di), Le autonomie territoriali, cit.

4 Per una verifica del grado di transizione dal regionalismo al federalismo attuato dal-la riforma, cfr. i “dieci metri di misura” di I.D. DUCHACEK (Comparative federalism: the territoriali dimension of politics, New York, 1970), riproposti da R. PADDISON, Il federali-smo: diversità regionale nell’unione nazionale, cit., 26-27. Il sistema italiano emerge, dal confronto con questi indicatori, non privo di ambiguità: la sfera delle relazioni estere non è di esclusiva spettanza dell’autorità nazionale (il che è un indicatore che denota la ten-sione verso una forma addirittura confederale), ma d’altra parte mancano numerosi ele-menti che denotano un sistema federale (in particolare, le unità componenti non paiono immuni da dissoluzione, come alcune proposte di scomposizione del panorama regionale italiano, frutto di scelte politiche condotte dal centro, sembrano denotare: così il caso del-la Regione Emilia Romagna, e dei progetti in ordine alla sua divisione).

5 Per tutte, l’assenza di una Camera delle Regioni e, comunque, di sedi istituzionali di concertazione: in tal senso la dottrina è concorde. Sul punto, amplius, cfr. F. MERLONI, La leale collaborazione nella Repubblica delle autonomie, cit., passim, ma, tra gli altri, an-che V. CAIANIELLO, Audizione, in Indagine conoscitiva sugli effetti nell’ordinamento delle revisioni del Titolo V, cit.: «non vi è un luogo nel quale l’armonizzazione come confronto politico possa avvenire a livello di poteri garantiti costituzionalmente».

6 Qualche dubbio sulla consapevolezza politica della portata della riforma sorge leg-gendo il dibattito a margine della citata Indagine conoscitiva sugli effetti nell’ordinamento delle revisioni del Titolo V.

7 Come già rilevava G. AZZARITI a margine dei progetti di riforma della “seconda bica-merale”, nei testi costituzionali vi è però una necessaria unitarietà ed inscindibilità, cosic-

VERSO UN NUOVO MODELLO DI UNIFORMITÀ: PROFILI GENERALI 193

Le onde ordinamentali provocate dalla riforma non possono, eviden-temente, arrestarsi di fronte all’esile barriera di una distinzione per “Ti-toli”, ed il nuovo modello di Repubblica, a partire dal fondamentale art. 114 che ne è la chiave di lettura

8, sottopone a revisione e muta la tradu-zione di principi che risiedono altrove

9, ed in particolare nella prima parte (appunto, immutata) della Costituzione

10. Se la garanzia dell’uguaglianza nel “pluralismo amministrativo” è

passata, nel modello che tradizionalmente ha caratterizzato il nostro ordinamento, attraverso un’uniformità delle amministrazioni (dal pun-to di vista dell’organizzazione, delle funzioni assegnate) ed attraverso una riduzione-limitazione degli spazi di “autonomia come differenzia-zione”

11, le più recenti evoluzioni del nostro sistema costituzionale, se-gnano la fase terminale della parabola, decisamente risalente nel tem-

ché «non è certo difficile comprendere che la ridefinizione dei rapporti […] tra i diversi li-velli di governo […] coinvolge pienamente il ruolo della persona nei confronti dello Stato, nonché l’identità di quest’ultimo. Dunque, potrebbe dirsi, più di un principio fondamentale, il fondamento dei principi fondamentali» (ID., Forme e soggetti della democrazia, cit., 180).

8 L’assetto generale delineato dalla riforma è dato anzitutto dall’art. 114, che è la chia-ve di volta (e di interpretazione) del sistema. L’equiordinazione qui fissata segna una for-midabile transizione di modello sia nell’ottica dell’uniformità/differenziazione (che qui esa-miniamo), che in quella, diversa ma in larga misura corrispondente, dell’accentramento/ decentramento (su cui v. M. CAMMELLI, che legge in questo «il definitivo tramonto dello sto-rico binomio unità amministrativa=unità politica che, pur già enunciato più di mezzo se-colo fa dall’art. 5 Cost., ha retto, con diversità di accentuazione ma con innegabile conti-nuità, la storia istituzionale del nostro Paese dall’Unità ad oggi» (ID., Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo Titolo V, cit., 1276).

9 Se ampie ne sono le ripercussioni dalla riforma, ampio ne è in realtà lo stesso ogget-to, che non è il solo sistema regionale e locale: come è stato efficacemente ravvisato (così, di nuovo, M. CAMMELLI, ult. op. cit., 1274, per il quale «al di là della denominazione del titolo V non c’è dubbio che la portata è assai più ampia e l’oggetto è rappresentato dall’intero sistema amministrativo […]. Se è vero, dunque, che la disciplina costituzionale del sistema amministrativo non può prescindere dalle norme dettate in altri titoli della Carta, è altrettanto vero che anche gli artt.97-100 della Costituzione vanno riletti alla luce dei principi e della disciplina generale ormai dettata in materia dalla legge costituzionale n. 3 del 2001» [i corsivi sono dell’Autore]; in tal senso si veda anche G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V, cit., 1251 et passim, e, ante litteram, G. AZZARITI, Forme e soggetti della democrazia, cit., 178 ss.).

10 Solo a titolo esemplificativo, si pensi alla costituzionalizzazione (formale) del prin-cipio di concorrenza (su cui v. T. TESAURO, Audizione, in Indagine conoscitiva sugli effetti nell’ordinamento delle revisioni del Titolo V, cit. ed, amplius, G. CORSO, La tutela della con-correnza come limite della potestà legislativa, cit., 981 ss.).

11 Si vedano, in particolare, le riflessioni, riferite alle maggiori autonomie territoriali, di F. PIZZETTI (Federalismo, regionalismo e riforma dello Stato, cit., 56-57) ed alla loro concreta autonomia legislativa, legata non solo alla distribuzione costituzionale delle competenze, ma ad una serie di elementi (a diverso titolo “uniformanti”) che concorrono “in modo determinante” a delineare le conseguenze che, sull’ordinamento complessivo derivano dal riconoscimento di quest’autonomia.

LO STATO DIFFERENZIATO 194

po quanto ad inizio, di questo stesso modello di uniformità 12.

Una Repubblica che fonda sulla differenza dei percorsi il raggiungi-mento di obiettivi unitari, che persegue, attraverso la differenza, un’ugua-glianza che, nel suo modello generale e con riserva di approfondimento, non è più formale e “paritaria”, ma sostanziale e “di base”

13. Una Re-pubblica che si articola seguendo un mutato modello di uniformità (normativa) e giunge altresì ad affermare una generale indifferenza del dato organizzativo

14, così che lo spostamento nell’asse uniformità /diffe-renziazione è tale da giustificare l’affermazione dell’emersione di uno specifico principio di differenziazione amministrativa

15. Una forma di Stato nella quale i soggetti che compongono la Repub-

blica sono, per quanto evidentemente diversi (quanto a ruoli, funzio-ni)

16, in posizione di equiordinazione 17: rapporto che, in particolare,

12 Merita sin d’ora ricordare, però, come il principio di uniformità (ed il modello che ne è la storica traduzione) abbiano mostrato una grande forza inerziale, ed una grande capacità di contenimento materiale della differenziazione formalmente ammessa, il che sembra oggi trovare nuove forme di manifestazione nelle sentenze della Corte costituzio-nale della fine del 2003 (in particolare, nella sentenze nn. 303, 307 e 308, sulle quali ci sia consentito rinviare ad E. CARLONI, Le tre trasfigurazioni delle competenze concorrenti tra esigenze di uniformità ed interesse nazionale. Brevi note a margine delle sentenze nn. 303, 307 e 308 della Corte Costituzionale, in www.astrid-online.it, ottobre 2003).

13 Il termine “di base” è utilizzato in sostituzione di quello, a nostro avviso corretto, ma suscettibile di una connotazione valoriale (negativa), di minimale (termine che, inol-tre, richiama precise scelte di economia pubblica).

14 Cfr. F. MERLONI, L’informazione e la comunicazione pubblica: dalla legge 150 alle prospettive di differenziazione regionale, cit., 79, per il quale al di là dei condizionamenti che possono discendere dall’esercizio di particolari competenze legislative statali, alla ri-partizione delle competenze legislative corrisponde «un potere rispettivo e senza interfe-renze in materia di organizzazione» (dello Stato, nelle materie definite dall’art. 117, comma 2°, ed altrimenti delle Regioni).

15 Che subentra al tradizionale, ed opposto, principio di uniformità amministrativa. 16 Pariordinazione, pure in presenza di profonde differenze di ruolo, come è evidente

già riflettendo su quello che, pure, è uno dei tratti più innovativi della riforma, vale a dire l’inedita introduzione di due nuove generalità: quella legislativa delle Regioni e quella amministrativa dei Comuni (in questo senso v. S. CASSESE, L’amministrazione nel nuovo titolo quinto della Costituzione, in Giornale dir. amm., 2001, 1193).

17 Indizi di asimmetria tra Stato e Regioni sembrano però emergere, riaffiorare: così per quanto riguarda l’interesse a ricorrere (punto in relazione al quale sembrerebbe con-fermato il sistema tradizionale e quindi la disparità tra Stato e regioni, dal momento che allo Stato pare confermata la possibilità di impugnare le leggi regionali per qualsiasi vizio di costituzionalità e non solo per i vizi attinenti alla competenza”: cfr. Corte cost., sent. n. 94 del 2003) e, più diffusamente, si vedano le articolate riflessioni di Q. CAMERLENGO, che da una serie di passaggi della sentenza n. 282 del 2002 ricava dubbi sul fatto che sia venu-ta meno l’asimmetria tra le fonti (cfr. ID., Indizi di perdurante asimmetria tra legge statale e legge regionale. La primazia delle valutazioni scientifiche, in Ist. del federalismo, 2002, 685 ss.), pure da più parti evidenziata a livello dottrinale (per tutti, F. PIZZETTI, Le nuove esi-genze di governance in un sistema policentrico “esploso”, in Regioni, 2001, 1153, che parla di “assoluta parificazione”).

VERSO UN NUOVO MODELLO DI UNIFORMITÀ: PROFILI GENERALI 195

pervade le relazioni tra le fonti, improntate ad un principio di separa-zione

18 (salvo eccezioni e salvo le funzioni statali “trasversali”) che supe-ra, e trascende, il tradizionale rapporto di sostanziale “minorità” della legge regionale rispetto a quella statale

19. Un sistema che, nel suo complesso, rimodula l’equilibrio tra ragioni

dell’autonomia e ragioni dell’uguaglianza, giungendo ad ammettere più forti differenziazioni formali tra i cittadini sul territorio, in ragione del territorio: rimodulazione che si scarica sul principio di uniformità, vettore organizzativo del limite alla differenziazione ammessa da un ordinamen-to. Il principio di uniformità muta, quindi, nei suoi contenuti e nella sua concreta traduzione, trasfigurandosi il sistema nel quale si incarnava.

Il fatto, che si creino discipline normative sempre più differenziate, attra-verso la legge ed attraverso i poteri normativi riconosciuti alle amministra-zioni autonome, rischia di comportare una frammentazione del quadro normativo, tale che ne risulta difficile una ricomposizione: disarticolato l’universo giuridico dei soggetti, la possibilità di ricombinare i molteplici tas-selli in un mosaico “dotato di senso” dal quale riemerga l’individuo in quanto tale, valorizzato nella sua diversità (qui, territoriale), è legato alla presenza di meccanismi in grado di contenere il sacrificio dell’uguaglianza sull’altare del-la differenza

20. Se così non fosse, la tensione alla differenza potrebbe portare alla frantumazione dell’individuo “universale”, che, lungi dal realizzare gli «stadi di avvicinamento ad una condizione generale di libertà», conduce «all’opposto volto del particolarismo e della disuguaglianza»

21. A ben vedere, è questo il rischio maggiore insito nella differenziazione normativa di cui pu-re non può tacersi la progressiva affermazione.

La complessità della riforma, e della portata di questa, impone una scomposizione delle riflessioni, ma anche una premessa di metodo: quello di cui qui ci occupiamo è il nuovo modello “a regime”, ovvero come prefigurato dal legislatore costituzionale

22. Il rilievo della dimen-

18 Pure da ultimo oggetto di rilettura da parte della Corte costituzionale, a partire dal-la citata sentenza n. 303 del 2003, in ordine alla quale, più diffusamente, v. sin d’ora L. TORCHIA, In principio sono le funzioni (amministrative), cit.

19 Sul punto, per tutti, cfr. L. PALADIN, Diritto regionale, cit., 65 ss. 20 Si veda, al riguardo, G. ARENA, Valori costituzionali e ruolo dell’amministrazione, cit., 19 ss. 21 Così per A. ORSI BATTAGLINI, L’astratta e infeconda idea, cit., 69 ss., per il quale la fuga

dall’egualitarismo, cui si assiste, porta alla formazione di «singole figure particolari, identifi-cabili solo in relazione alla loro appartenenza a gruppi sociali». Riflessione, questa, che nasce-va dall’analisi di fenomeni differenti (particolarismo dei diritti, prima che loro territorializza-zione), ma che sembra, mutatis mutandis, riferibile anche alle dinamiche in esame.

22 Modello che, però, emergerà (sta emergendo) nella sua sostanza alla luce del diritto costituzionale vivente, così che da formale divenga sostanziale: già alcuni autori paventa-no il timore che compaiano «oggi timidamente e domani invece in modi assai più decisi, i germi di un ritorno all’antico» (così, sulla giurisprudenza della Corte, A. RUGGERI, Rifor-

LO STATO DIFFERENZIATO 196

sione dell’attuazione ed interpretazione di un modello astratto non può essere trascurata, tanto più vista la rilevanza dei meccanismi dell’uni-formità “di esecuzione”, già evidenziati nel corso dell’analisi del vecchio modello

23. L’analisi del nuovo ordine sottintende, però, la non centralità delle problematiche di “prima applicazione”

24: è il modello, non la tran-sizione, l’oggetto della nostre riflessioni

25. Ancora, il modello cui riferiremo la nostra analisi è quello fisiolo-

gico, non quello patologico: vale a dire che qui esamineremo essen-zialmente il sistema ed i meccanismi ordinari dell’uniformità, non quelli straordinari, in risposta ad inefficienze ed inerzie

26 degli attori della Repubblica delle autonomie

27.

ma del Titolo V e vizi delle leggi regionali: verso la conferma della vecchia giurisprudenza?, in Forum Quad. cost. (www.mulino.it).

23 Come visto, l’attuazione e l’interpretazione incidono in modo rilevantissimo: non è tanto dell’attuazione che non ci occuperemo, quanto della transizione. Il regionalismo “dell’unifor-mità” si è infatti fondato sulla costituzione materiale, prima che su quella formale, e già (ri)emer-gono i rischi di una uniformità di attuazione. L’attuale condotta degli attori in campo, infatti, non fa che prefigurare (seppure su basi diverse) una mutata tendenza alla riduzione dell’inno-vazione: «[l]’attuale stasi della riforma trova causa poi sia nell’eccessiva timidezza delle Regioni nel trarre profitto dal nuovo ordine delle competenze e, di contro, nell’eccessiva disinvoltura con cui lo Stato continua ad adottare atti normativi di impianto fortemente centralistico» (così A. ANZON, Il difficile avvio della giurisprudenza costituzionale sul nuovo Titolo V della Costituzione, in AIC (www.associazionedeicostituzionalisti.it), giugno 2003).

24 Peraltro, la soluzione accordata a taluni problemi di transizione già pone le basi del nuovo modello “a regime”: così per la valorizzazione accordata al principio di continuità dell’ordinamento per decidere la sorte della legislazione ordinaria preesistente. In base a questo principio solo il concreto esercizio (non la loro astratta attribuzione) delle potestà legislative da parte dei nuovi soggetti competenti “per materia” limita la competenza altrui (in questo senso v. Corte cost., sent. n. 282 del 2002, su cui v., di nuovo, A. ANZON, Il difficile avvio della giurisprudenza costituzionale, cit.). Si tratta di un principio già enunciato, in mo-do particolarmente lucido e attento a tutte le sue implicazioni, in due pronunce del 1974 (nn. 13 e 269) e che è possibile rinvenire ora a livello normativo nella legge n. 131 del 2003, e su cui v. l’Intesa tra Stato e Autonomie del 28 giugno 2002 (punto 1, lett. c).

25 Per la differenza tra i due termini della questione, v. G. FALCON, Modello e transizio-ne nel nuovo Titolo V, cit., 1247 ss.; il problema dell’attuazione della riforma è peraltro centrale, ed attentamente esaminato (nei molteplici problemi che presenta, e nelle molte-plici resistenze che l’accompagnano): sul tema v., tra gli altri, A. D’ATENA, La difficile tran-sizione. In tema di attuazione della riforma del Titolo V, in Regioni, 2002, 305 ss.

26 Da qui la limitata attenzione che dedicheremo ai meccanismi dell’art. 120. Meccanismi che, a nostro avviso, sono chiamati ad operare esclusivamente in caso di inerzia (e, quindi, di una situazione “patologica”). Non che non si possano ravvisare altrove meccanismi (fisiologici) in parte analoghi (per tutti, la sussidiarietà dell’art. 118 riporta in emersione un “variabile livello degli interessi” che richiama l’interesse nazionale altrimenti confinato nell’art. 120), ma tali mec-canismi non possono derivare da una estensione analogica di figure ormai speciali. Diversamen-te, come rileva (R. TOSI, A proposito dell’interesse nazionale, in Quad. cost., 2002, 86) enfatizzando previsioni quali l’interesse nazionale o la tutela dell’unità giuridica ed economica, «[…] è evidente che la norma in questione diverrebbe una clausola bonne a tout faire, capace di giustificare le più varie incursioni governative in ambito regionale».

27 Che peraltro sono meccanismi dell’unità prima ancora che dell’uniformità. Da qui la scarsa attenzione ai (non certo la scarsa rilevanza dei) poteri sostitutivi, così come previ-

VERSO UN NUOVO MODELLO DI UNIFORMITÀ: PROFILI GENERALI 197

Fatte queste premesse, le riflessioni devono essere articolate: in primo luogo cercando di evidenziare i tratti generali del nuovo modello, e di trat-tare una tematica, quella della differenziazione (specialità/asimmetria) delle Regioni 28, difficilmente collocabile in modo univoco nell’ambito del-la dimensione normativa od amministrativa dell’uniformità (e della diffe-renziazione). Dimensioni, queste, che cercheremo altresì di esaminare, partitamente, nel corso dei prossimi capitoli.

2. Differenziazione amministrativa e differenziazione normativa. Ra-gioni e caratteri del loro collegamento nel momento della loro scom-posizione

La distinzione tra differenziazione (uniformità) normativa ed ammi-nistrativa è stata, sin qui affermata prima che sviluppata. Si tratta di una distinzione che emerge come rilevante attraverso l’analisi dell’evoluzione del sistema italiano

29, e che appare significativa tanto più nel momento in cui è evidente la scelta del legislatore costituzionale di muovere su bi-nari diversi le due dimensioni dell’uniformità, determinandone la scis-sione.

Secondo processi nei quali un ruolo primario è stato assunto da pre-cise scelte ideologiche, buona parte dell’Europa continentale, sulla scor-ta dell’esperienza francese e spesso al procedere delle conquiste napo-

sti e disciplinati dall’art. 120 Cost. (per una riflessione sui quali v. C. MAINARDIS, I poteri sostitutivi statali: una riforma costituzionale con (poche) luci e (molte) ombre, cit., 1357 ss.: meccanismi dichiaratamente dell’unità (giuridica ed economica) prima che dell’unifor-mità, ma, soprattutto, meccanismi rivolti a superare situazioni patologiche, seppure la posizione riconosciuta allo Stato, come garante ultimo di taluni valori, non possa essere considerata irrilevante anche ai fini dell’analisi del sistema “fisiologico” (profilo per il quale v. G. ROSSI-A. BENEDETTI, La competenza legislativa statale esclusiva, cit., 22 ss.).

28 La differenziazione delle Regioni speciali, che è in primo luogo differenziazione nelle fun-zioni normative, produce più forti ricadute sul godimento dei diritti in ragione del territorio. Ai fini dell’economia di questo lavoro sembra quindi opportuno trattare ed esaurire la problematica della differenziazione/asimmetria /specialità regionale nel corso di questo capitolo.

29 Questo, peraltro, senza sopravvalutare il rigore delle distinzioni così operate (così come, con riferimento alle aggettivazioni della nozione di autonomia già puntualizzava F. MERLONI, Autonomia e libertà nel sistema della ricerca scientifica, cit., 113 ss.), dal mo-mento che si tratta di classificazioni operate alla luce di criteri non pienamente omoge-nei, il che, come è evidente, determina possibili sovrapposizioni e fa sì che siano necessa-rie precisazioni: l’uniformità amministrativa è, infatti, in parte anch’essa uniformità nor-mativa, nel senso che anch’essa, allorché si abbia a riferimento tanto il profilo funzionale che organizzativo, si manifesta essenzialmente attraverso norme giuridiche.

LO STATO DIFFERENZIATO 198

leoniche 30, ha finito per fare proprio un modello di uniformità, nel quale

i soggetti pubblici dotati di autonomia diversi dallo Stato divenivano og-getto di un “pariforme sistema”.

31 Agli enti pubblici omogenei, ed in par-ticolare quelli che si usava definire “enti autarchici”

32, si applicava, in virtù di questa scelta, in parte connessa alle esigenze stesse dello Stato moderno accentrato, in parte legata a precise opzioni di valore, una di-sciplina comune, che, in via generale e di principio, prescinde dalle dif-ferenze reali (di dimensione, di capacità) pure esistenti.

Il principale riferimento, da questo punto di vista, è dato dall’ordina-mento comunale

33: ed in effetti, uniformità e differenziazione vengono inizialmente trattate, nella dottrina giuspubblicistica, essenzialmente dagli autori più sensibili alle tematiche delle autonomie locali, ed allor-ché questi si confrontano con il modello “di ispirazione francese” del-l’uniformità giuridica degli enti territoriali minori

34. Vista in questi termini, l’analisi dell’uniformità amministrativa non

sarebbe che un’analisi delle strutture amministrative locali, cosicché ri-percorrerne le vicende coinciderebbe con il ripercorrere le dinamiche degli ordinamenti dei poteri locali. Ciò è vero in larga misura, ma non costituisce che una parte del problema: il principio di uniformità si ma-nifesta con maggiore forza in relazione alle realtà locali ed alla loro or-ganizzazione, ma pervade di sé l’ordinamento, conoscendo molteplici espressioni, pure spesso meno evidenti

35. Differenziazione dell’amministrazione o differenziazione amministrati-

30 Il modello francese ha esercitato, peraltro, un’influenza che, come noto, va al di là dei territori conquistati da Napoleone: questo modello si affermò, infatti, con forza, in virtù di un’influenza politica e culturale, oltre che militare (cfr. L. VANDELLI, Le collettivi-tà territoriali, cit., 301).

31 Seguendo la terminologia del programma tracciato da Vittorio Emanuele I nelle pa-tenti del 31 dicembre 1815. Sul punto v., tra gli altri, M.S. GIANNINI, I Comuni, cit., 16 ss.

32 Categoria ormai superata (in tal senso, tra gli altri, V. CERULLI IRELLI, Corso di dirit-to amministrativo, cit., 277), quanto a significatività ai fini dell’esame del fenomeno dei poteri locali.

33 Laddove per disomogeneità dei diversi enti, la compatibilità di un simile regime ha da tempo mostrato (con una certa nitidezza) i propri limiti (discorso che risulta solo in parte applicabile alle realtà provinciali, di fatto maggiormente omogenee).

34 Per tutti, e senza pretesa di esaustività, si veda innanzitutto lo studio classico di U. BORSI, Regime uniforme, cit., 65 ss.; sul punto, vedi ancora i più volte citati G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, cit., spec. 203 ss. e M.S. GIANNINI, I Comuni, cit., 9 ss.; L. VANDELLI, Poteri locali, cit., 194 ss.

35 La scelta di una uniformità nella disciplina giuridica degli enti autonomi si scontra, da un lato, con il carattere di naturale differenziazione connaturato all’autonomia stessa, dall’altro con i problemi generati da una disciplina “media insoddisfacente”, troppo per alcuni e troppo poco per altri.

VERSO UN NUOVO MODELLO DI UNIFORMITÀ: PROFILI GENERALI 199

va è, allora, una definizione con la quale vogliamo ricomprendere il fe-nomeno della “diversità delle amministrazioni autonome”, sia per i profili funzionali che per quelli legati all’organizzazione o all’esercizio delle fun-zioni assegnate, e questo, in ultima istanza, a prescindere dal (ovvero a ricomprendere il) fatto che la differenziazione sia frutto di una scelta au-tonoma o sia frutto di una decisione eteronoma (centrale, regionale)

36. Ma, come sin qui è emerso, la sola dimensione amministrativa non

esaurisce l’insieme dei fenomeni in relazione ai quali si è fatto ricorso alle nozioni di uniformità e differenziazione, e rispetto alle quali si sono manifestate forme di condizionamento uniformanti attraverso la legisla-zione ed i poteri dello Stato centrale. Il condizionamento dell’autono-mia, efficacemente sintetizzabile nella formula del regionalismo dell’uni-formità (che pure non esprime la globalità dei fenomeni che qui entrano in rilievo), ha avuto come fine ed effetto in modo non secondario il con-tenimento della differenziazione nella disciplina giuridica dei cittadini sul territorio, in ragione del territorio.

Pure i due fenomeni, della differenziazione organizzativa e funziona-le delle amministrazioni autonome (differenziazione amministrativa) e della differenziazione della disciplina giuridica dei cittadini attraverso l’esercizio effettivo dell’autonomia (differenziazione normativa) appaio-no, nell’evoluzione del nostro ordinamento, strettamente collegati, quasi confusi.

È nella genesi del tema che si realizza la stretta (difficilmente scindi-bile) connessione tra concetti a ben vedere distinti, e distinguibili, uniti indissolubilmente entro un modello determinato di uniformità (quello, appunto, locale di derivazione francese e sabauda): l’uniformità delle re-altà territoriali diviene, in questo modello, tutt’uno con l’uniformità del trattamento dei cittadini sul territorio

37. Questo, a ben vedere, finendo per concentrare l’attenzione su uno specifico strumento (l’uniformità/ generalità della disciplina eteronoma delle realtà autonome), quasi che questo finisse per coincidere con (e soddisfare) le esigenze di uguaglian-

36 In questo senso possiamo ricomprendere nella differenziazione amministrativa la differenziazione tanto di primo che di secondo livello, seguendone la classificazione pro-spettata.

37 Nel nuovo modello, quindi il principio costituzionale di uguaglianza deve essere ri-letto alla luce del nuovo valore riconosciuto alla differenziazione: né si tratta (in assoluto) di termini/concetti di significato opposto (anche se così può apparire prima faciae). Il te-sto costituzionale nel momento in cui afferma la scissione della dimensione amministra-tiva e di quella normativa, predica l’indifferenza dei percorsi rispetto alla realizzazione dei risultati: si afferma, in altre parole, come sia necessario ed utile seguire vie (anche) differenti (per istituzioni coinvolte, risorse, metodi, mezzi) proprio per garantire una ef-fettiva uguaglianza nel godimento (essenziale) dei diritti.

LO STATO DIFFERENZIATO 200

za/unità del sistema. L’uniformità delle organizzazioni autonome fini-sce, in quest’ottica, per divenire valore in sé, a prescindere dal suo rap-porto strumentale rispetto ad altri valori e, quindi, a prescindere dalla sua capacità di rispondere alle esigenze di uguaglianza dei cittadini sul territorio.

Questo collegamento non è però inevitabile, come ci dimostra la ri-forma del Titolo V che ne opera la scomposizione: come l’unità non pas-sa più per l’unità amministrativa, così l’uguaglianza non passa più ne-cessariamente per l’uniformità delle amministrazioni, ma resta affidata per larghi tratti all’uniformità della legge. Il che determina la transizione da un modello di uniformità forte (normativa ed amministrativa) ad un modello che, ammettendo come criterio generale la differenziazione, ar-ticola varie tipologie di uniformità, graduate sulla base della loro diversa capacità di conformare i fenomeni e la stessa dimensione amministrati-va: uniformità (spessa) di regolazione, uniformità (sottile) dei principi, uniformità (di base) dei livelli essenziali.

3. Caratteri fondamentali del nuovo modello di uniformità

3.1. La scissione di uniformità normativa ed uniformità amministrativa

La riforma incide in profondità 38 sui caratteri dell’ordinamento

39. L’uniformità, nel modello tradizionalmente conosciuto dal nostro si-

stema (come uniformità forte: normativa ed insieme amministrativa), viene circoscritta, e limitata ad alcune materie e funzioni, entro le quali pure muta in modo significativo i suoi caratteri

40.

38 Cosi, per M. CAMMELLI (Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo Titolo V, cit., 1286) «a fronte della cesura creatasi nell’ordinamento tra il prima e il dopo legge costituziona-le 3/2001 un conto è la cautela, certo necessaria per l’entità della posta in gioco, un altro è la lettura continuista, ormai impraticabile per il venir meno del carattere incrementale».

39 Il che emerge già dalla creazione di due nuove “generalità”, quella legislativa regio-nale e quella amministrativa comunale (S. CASSESE, L’amministrazione nel nuovo titolo quinto, cit., 1193 ss.).

40 L’uniformità conoscibile dagli ambiti riservati alla legislazione dello Stato ha caratteri in parte diversi rispetto a quelli della tradizionale uniformità nella legislazione statale: la rottura del parallelismo (seppure con la riserva del meccanismo che ne consente un parziale recupero per tramite della sussidiarietà, di cui alla sentenza n. 303 del 2003 della Corte co-stituzionale), il venire meno della potestà legislativa regionale di attuazione, l’apertura (ge-nerale) alla differenziazione amministrativa, denotano l’emergere di un modello diverso non solamente perché circoscritto.

VERSO UN NUOVO MODELLO DI UNIFORMITÀ: PROFILI GENERALI 201

Si ampliano gli spazi della differenziazione normativa e ne risultano modificati i tratti costitutivi, tramite la riduzione dell’area soggetta al-l’azione diretta della funzione legislativa dello Stato e tramite la riduzio-ne delle modalità di condizionamento da questa esercitabile nei con-fronti delle fonti di autonomia.

Emerge un generale principio di differenziazione delle amministra-zioni

41, da intendersi come indifferenza costituzionale dei tratti organiz-zativi, frutto dello spostamento dell’attenzione sui risultati dell’azione pubblica, piuttosto che sulle forme degli apparati chiamati a concretiz-zarla, cosicché la riforma opera la scissione di egalité ed uniformité

42. Percorsi autonomi ed eteronomi consentono ai diversi soggetti pubblici (territoriali ed autonomi) di differenziarsi/essere differenziati, in parti-colare dandosi proprie strutture organizzative, nel perseguimento di fun-zioni che variano anch’esse, in ragione del territorio. La Repubblica non è più, in altre parole, fatta di pezzi uguali, di «mattoni della stessa misu-ra»

43, ma è frutto dell’assemblaggio di componenti diverse, ed i profili di uniformità che residuano perdono il carattere della generalità.

L’organizzazione/azione uniforme sul territorio non è più il veicolo attraverso il quale si realizza, in via generale, l’uguaglianza sul territorio in ordine al godimento di un diritto. Le esigenze di uguaglianza, persino in relazione al soddisfacimento di diritti di rilievo costituzionale, non passano più, in via generale, per l’uniformità dei modelli di amministra-zione, ma neppure attraverso la gestione diretta da parte dello Stato, ri-sultando, semmai, «interamente affidati alla legge»

44. Non c’è, quindi, se mai c’era stato, un parallelismo tra sfera dell’uni-

formità normativa ed uniformità amministrativa: pure negli spazi del-

41 Principio che afferma una adaequatio rei et iuris, seguendo le riflessioni di L. ANTO-NINI, Il regionalismo italiano nella prospettiva della differenziazione, cit., spec. 326.

42 Così come viene scissa l’unità amministrativa (che viene meno) dall’unità politica (che necessariamente residua), viene scissa l’uniformità amministrativa dall’uguaglianza. Sul collegamento (rivoluzionario) tra egalité ed uniformité, v., altresì (e nuovamente), L. VANDELLI, Poteri locali, cit., 20 ss. e 193 ss. (sulla base, peraltro di una “percezione forma-listica” del principio egalitario, come ravvisa G. BERTI, Amministrazione comunale e pro-vinciale, cit., 33)

43 Così L. TORCHIA, per la quale «un sistema non è unitario, infatti, in ragione della similitudine delle sue parti, quasi che queste fossero mattoni delle stesse dimensioni o della stessa natura, della stessa consistenza, dello stesso materiale» (ID., Il riordino del-l’amministrazione, cit., 698).

44 Qui la scelta del legislatore costituzionale è netta, né sarà priva di conseguenze: l’uguaglianza (nei diritti) non passa più, in via generale, per l’uniformità amministrativa. Si realizza la transizione da un modello che praticava (predicava) l’uguaglianza attraverso l’uniformità amministrativa, ad uno che afferma il valore della differenza, e persegue l’ugua-glianza essenzialmente attraverso la legge, ma anche questo entro spazi determinati.

LO STATO DIFFERENZIATO 202

l’uniformità di regolazione è di norma esclusa una generale uniformità nell’organizzazione dei soggetti chiamati ad esercitare (in modo an-ch’esso differenziato) le corrispondenti funzioni amministrative.

Lo stesso spazio entro il quale l’azione uniformante della legge dello Stato può realizzarsi è, inoltre, circoscritto, seppure questa risulti capa-ce di articolarsi con una certa latitudine in virtù di appositi, e nuovi, meccanismi dell’uniformità (in particolare i c.d. “livelli essenziali”)

45. Il carattere generale non è più dell’uniformità normativa, la quale è in

grado di svilupparsi con riferimento ad un insieme di materie, dai carat-teri eterogenei, assunte come sufficienti al fine di preservare non già, e non solo, l’unità ordinamentale, ma la stessa tenuta, nel nuovo sistema autonomico, del principio egalitario. Principio che, mutando nella sua tradizione organizzativa, muta le modalità in cui si esprime e si traduce nel territorio, al variare di questo.

L’apertura all’autonomia determina, da un lato, la differenziazione delle situazioni giuridiche nell’esercizio di questa autonomia, dall’altro il venire meno della possibilità di perseguire “una uguaglianza attraverso l’amministrazione”. L’amministrazione è, anzi, essa stessa la principale destinataria dei modelli e processi di differenziazione prefigurati dalla riforma

46. Dal punto di vista dell’amministrazione, il panorama che ci prospetta

la riforma è ampio, e copre tutti i modelli sin qui definiti di differenzia-zione, tanto che è necessario articolare l’analisi. Emergono, in particola-re, ipotesi di differenziazione come eccezione, di differenziazione come specialità, di differenziazione come regola. La presenza di modelli di dif-ferenziazione eccezionale/derogatoria non è, come si è visto, un dato nuovo, era, anzi, fenomeno tipico del “vecchio sistema”: ma la collocazio-

45 Competenza che, come detto, conferma la prospettiva di differenziazione nei diritti: «la potestà statale, essendo circoscritta alla determinazione dei soli “livelli essenziali” del-le prestazioni, si distingue da – e però convive, condizionandola, con – la competenza re-gionale – che non sia esclusa da altre espresse indicazioni costituzionali – su tutto quanto esorbiti dai livelli medesimi e tocchi da altri punti di vista tali prestazioni e in genere i diritti civili e sociali», così A. ANZON, Il difficile avvio della giurisprudenza costituzionale, cit.; è peraltro da evidenziare (come fa attentamente, da ultimo, F. PIZZETTI, La ricerca del giusto equilibrio tra uniformità e differenza, cit., 600 et passim) come questo meccanismo dell’uniformità sia forse il più rilevante, ma non certo l’unico cui è necessario (ed oppor-tuno) prestare attenzione.

46 Come rileva M. CAMMELLI, la differenziazione «non è un elemento “aggiuntivo” del sistema» delineato dal Titolo V, ma «ne rappresenta una implicazione ineliminabile per-ché discende direttamente dai principi di sussidiarietà (verticale e orizzontale) e di ade-guatezza, perché informa la potestà legislativa e le funzioni amministrative, e perché ri-guarda non solo l’allocazione delle funzioni ma il loro svolgimento» (ID., Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo Titolo V, cit., 1284).

VERSO UN NUOVO MODELLO DI UNIFORMITÀ: PROFILI GENERALI 203

ne di queste forme differenziate entro un sistema che perde i suoi tratti di uniformità, determina un radicale mutamento della prospettiva. Non più valvole di sfogo di un sistema uniforme e perciò spesso eccessiva-mente rigido, ma ulteriori espressioni del carattere eterogeneo di un’am-ministrazione nella quale rinvenire gli elementi residui di uniformità di-viene sempre più complesso

47. La differenziazione amministrativa trova la sua prima formalizzazio-

ne espressa come nozione costituzionale 48, mentre cambiano i caratteri

e le forme di manifestazione del principio di uniformità che ora riduce la propria sfera di azione e sembra accontentarsi di presidiare una serie di “fuochi” (dell’uniformità), individuati dal legislatore costituzionale.

3.2. Il nuovo modello e le definizioni: dall’uniformità forte all’uniformità spessa, sottile, di base

La traduzione organizzativa del principio di uguaglianza ne suggeri-sce una rilettura, così che l’attenzione dell’ordinamento viene ad essere spostata sul dato sostanziale, piuttosto che su quello formale, e la Re-pubblica delle autonomie affida a nuovi meccanismi dell’uniformità la sua tutela: strumenti che sono la riserva allo Stato di una serie di mate-rie, l’affidamento a questo di compiti, funzioni, competenze trasversali, in grado di condizionare, negli ambiti ritenuti rilevanti, la potestà diffe-renziante dei soggetti autonomi (ed in particolare la fissazione (e garan-zia) dei livelli essenziali).

L’uniformità mantiene un ruolo, ed una sfera di rilevanza, ma questa è speciale, non più generale, ed è delimitata e definita attraverso l’arti-colazione delle materie del secondo comma dell’art. 117, esse sì “ad uni-formità costituzionalmente garantita”, come spazi di tenuta dell’ordina-mento e dell’uguaglianza.

Né, però, può dirsi che in questi ambiti sia ora circoscritto il modello

47 Né appare possibile, quindi, esaminare il nuovo assetto alla luce di ordini concet-tuali frutto del vecchio sistema: è forte l’innovazione portata dal nuovo ordinamento della Repubblica, «[r]ispetto al quale risulterebbe in linea di principio contraddittoria l’appli-cazione di schemi ed argomenti derivati dal modello che si è inteso mutare» (così A. COR-PACI, Revisione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione e sistema amministrativo, in Regioni, 2001, 1306). Sulla necessità di interpretare il nuovo sistema superando le “vecchie categorie”, v. anche M. CAMMELLI, Amministrazione(e interpreti) davanti al nuovo Titolo V, cit., 1285 ss.

48 Sotto specie di “differenziazione funzionale” (quale criterio/principio da seguire nel-l’allocazione delle funzioni amministrative): nell’art. 118, comma 1°.

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dell’uniformità “forte” (normativa ed amministrativa): questa è l’area dell’uniformità di regolazione (legislativa e regolamentare) attraverso lo Stato, ma non è detto che sia anche uniformemente realizzata dal punto di vista amministrativo: la fine del parallelismo

49 impedisce di riprodur-re il modello del vecchio ordine, anche se in spazi più ridotti. È nuovo modello di uniformità, dunque, speciale e non più generale, spesso e non più forte, che si realizza essenzialmente attraverso la legge, quello con il quale ci confrontiamo.

Al fianco di questa “sfera di uniformità”, che è un’uniformità spessa di regolazione, l’ordinamento prevede una sfera di uniformità sottile, nella quale la dimensione formale dell’uguaglianza entra in rilievo me-diante una unità nei principi fondamentali. Attraverso un modello, in questo secondo caso, che rievoca quello della legislazione concorrente ante-riforma: si tratta, però, di un modello profondamente mutato ri-spetto a quello già conosciuto dal “regionalismo dell’uniformità”.

Mentre acquista deciso rilievo una competenza legislativa regionale generale, si modifica infatti, in modo significativo, la qualità della stes-sa legislazione concorrente, che segna una marcata discontinuità di questo modello rispetto alla tradizionale competenza legislativa delle Regioni ordinarie

50. La “superiorità” della legge statale viene meno, e resta, in questo secondo caso, limitata alla fissazione di “principi fon-damentali”: viene meno, in particolare, il limite dell’interesse nazionale

51

49 Vera o presunta che sia, a ben vedere, la fine di questo parallelismo: cfr. R. BIN, (La funzione amministrativa nel nuovo Titolo V, in Regioni, 2002, 365 ss.) cui si rinvia, in par-ticolare, per la riflessione sul rapporto (di non esclusione) tra sussidiarietà e parallelismo. Si tratta di un profilo che risulta ora di particolare rilievo per la rilettura del sistema ope-rata dalla Corte costituzionale a partire dalla sentenza n. 303 del 2003 (su cui vedi, tra gli altri, Q. CAMERLENGO, Dall’amministrazione alla legge, seguendo il principio di sussidiarie-tà. Riflessioni in merito alla sentenza n. 303 del 2003 della Corte costituzionale, e A. RUG-GERI, Il parallelismo “redivivo” e la sussidiarietà legislativa (ma non regolamentare) in una storica (e, però, solo in parte soddisfacente) pronunzia. Nota a Corte cost. n. 303 del 2003, entrambi in Forum Quad. cost. (www.mulino.it).

50 In tal senso la dottrina è concorde, ma con sfumature significativamente diverse: certo appare non più proponibile il tradizionale rapporto tra le fonti, ma a fianco di chi sostiene una piena (pur nella diversità delle funzioni) parificazione (cfr., tra gli altri, M. CAMMELLI, Amministrazione (e interpreti), cit., spec. 1275, e F. PIZZETTI, Le nuove esigenze di governan-ce, cit., 1153 ss.), c’è chi ravvisa in realtà una differenza che prefigura il mantenimento di modelli latamente gerarchici (così Q. CAMERLENGO, Indizi di perdurante asimmetria, cit.).

51 Sul punto, v. G. ROLLA, Relazioni tra ordinamenti e sistema delle fonti. Considerazioni alla luce della legge costituzionale n. 3 del 2001, in Regioni, 2002, 325, per il quale, pure di fronte alle carenze del dato testuale, un principio di leale collaborazione che si traduce nella necessità di sedi di concertazione (e non resta confinato nell’ipotesi dei poteri sostitutivi dell’art. 120), sia «immanente al combinato disposto degli artt. 5 e 114, in quanto funzionale a contemperare il valore dell’unità con quello dell’autonomia». In tal senso, come ci ricorda A. BARBERA, Scompare l’interesse nazionale?, in Forum Quad. cost. (www.mulino.it), la di-

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(che viene circoscritto e regolato e perde generalità e pervasività) 52.

Il principio di uniformità si traduce allora in un nuovo modello di uni-formità, che sposta l’attenzione al risultato dell’azione dei pubblici poteri sul territorio, circoscrive gli ambiti di uniformità normativa, ignora, di norma, la dimensione organizzativa dell’uniformità (nell’amministrazione).

La scelta del legislatore costituzionale di collocare certe “materie” in legislazione esclusiva statale od in legislazione concorrente definisce ed esaurisce quindi, in modo peraltro significativamente diverso, le esigen-ze di uniformità formale, cosicché la tenuta del sistema è di norma affi-data ad altri strumenti, attraverso i quali si mira a garantire, però, un’uguaglianza che è sostanziale, ma anche di base

53. La garanzia trasversale che passa attraverso i livelli essenziali determi-

na, per la natura degli strumenti cui è affidata, dati i caratteri del modello (che si rifà, sostanzialmente, ai connotati riconducibili alla modellistica del servizio universale), 54 infatti, una uguaglianza come “minimo comune denominatore” in ordine ai livelli essenziali delle prestazioni riferite a di-ritti civili e sociali che devono essere garantiti sul territorio nazionale

55. Il che equivale a dire che, di nuovo, il legislatore costituzionale non

zione dell’art. 5 «fu introdotta dal Costituente ripercorrendo la formula del primo articolo delle Costituzioni rivoluzionarie. La “Republique une et indivisible” era stata, come è noto, la formula che i giacobini avevano agitato sia contro i residui vandeani dell’ancien règime sia contro i tentativi federalisti dei girondini». Sul punto, amplius, v. ID., Gli interessi nazionali del nuovo Titolo V, in E. ROZO ACUÑA, Lo Stato e le autonomie. Le Regioni nel nuovo Titolo V della Costituzione. L’esperienza italiana a confronto con altri paesi, Torino, 2003.

52 Cfr., in tal senso, la sent. n. 106 del 2002 della Corte cost.: «l’art. 1, nello stabilire […] che la sovranità appartiene al popolo, impedisce di ritenere che vi siano luoghi o sedi nella quale essa si possa insediare esaurendosi»; in merito, cfr. B. CARAVITA, Gli elementi di unificazione del sistema costituzionale dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, in www.federalismi.it, settembre 2002.

53 I livelli sono essenziali, ma l’uguaglianza (come relazione tra soggetti) è minimale. Il che sta a significare, evidentemente, non già che siano tramontate le esigenze di ugua-glianza incardinate nell’art. 3 Cost., ma che la tutela di queste non passa più necessaria-mente per l’uniformità, e l’eventuale lesione dell’uguaglianza (tra soggetti per il loro risie-dere o meno in determinati territori), quale “irragionevole disparità di trattamento” dovrà tenere conto del carattere autonomico della Repubblica, potrà determinare l’illegittimità di una legge (regionale), ma non potrà giustificare la riassunzione (per via di legge ordi-naria, o giurisprudenziale) allo Stato di competenze ormai costituzionalmente definite.

54 Questo, peraltro, con riserva di articolare più attentamente la riflessione in ordine a questi livelli, ed alla loro aggettivazione (essenziali).

55 Si tratta di un meccanismo di uniformità di straordinaria importanza nel nuovo si-stema, i cui caratteri peraltro mutano secondo che si intendano dover essere garantiti “i livelli essenziali” od “i diritti civili e sociali” e quindi si legga la proposizione “devono esse-re garantiti su tutto il territorio nazionale” riferita ai primi od ai secondi: come rileva A. BRANCASI, Uguaglianze e disuguaglianze nell’assetto finanziario di una Repubblica federale, cit., 929, «l’alternativa è di grande rilievo» (v. ivi, 929-930 per l’analisi delle conseguenze delle due diverse impostazioni).

LO STATO DIFFERENZIATO 206

persegue, articolando l’organizzazione dello Stato, l’uniformità, sostan-ziale se non più formale, ma una uguaglianza che si fonda e trova di norma soddisfazione in tratti minimi (in senso relazionale), ma essen-ziali (quanto a contenuto), definiti ed appagati i quali può svilupparsi, anche nel campo dell’effettività oltre che in quello della disciplina giuri-dica, una differenziazione su base regionale.

Non si sostituisce, allora, ad una “uniformità normativa” una “uni-formità sostanziale”, ma la differenziazione autonomica diviene stru-mento per un modello di regionalismo (federalismo) latamente competi-tivo, che non accetta più di comprimere le potenzialità dei territori a più forte tasso di efficienza e sviluppo, in nome di una uniformità vista co-me media insoddisfacente

56. Ma se la traduzione dell’uguaglianza in principio di articolazione del-

lo Stato muta, è lo stesso principio di uguaglianza (nei diritti) a risentir-ne: le (potenziali) inconciliabilità del nuovo modello emergono, in parti-colare, allorché ci si confronta con diritti costituzionali rispetto ai quali siamo abituati (l’ordinamento è abituato) ad una uniformità forte, su-scettibile di coinvolgere non solo il dato normativo, ma anche lo stesso dato organizzativo.

Se è semplicistico contrapporre la tensione al federalismo che è evi-dente nella riforma con il valore egalitario, il modello prefigurato dalla riforma costituzionale deve essere attentamente esaminato, posto che è nelle concrete scelte istituzionali che va verificato se, ed in che misura, si verifichi in concreto una sofferenza nel rapporto tra federalismo

57 (au-tonomia) ed eguaglianza

58.

56 Così per M. CAMMELLI, «questo passo si è reso necessario per uscire da una “media” che è troppo per le Regioni arretrate e troppo poco per quelle avanzate» (ID., Amministra-zione (e interpreti) davanti al nuovo Titolo V, cit., 1284).

57 Tra Stato unitario e Stato federale vi è un continuum «che va dalla minore alla maggiore autonomizzazione delle entità territoriali», cosicché è federalismo il processo che segue questa direzione cosicché parlare di federalismo è evidentemente cosa diversa dal parlare di Stato federale: in tal senso, più articolatamente ed attentamente, v. M. LUCIA-NI, A mo’ di conclusione: le prospettive del federalismo in Italia, in PACE (a cura di), Quale, dei tanti federalismi?, Padova, 1997, 216 ss.).

58 Come efficacemente segnala M. LUCIANI (ult. op. cit., 255), «più che avventurarsi in improbabili affermazioni di principio, quel che si può dire è allora, semmai, che in pre-senza di determinate situazioni istituzionali, l’opzione in favore di un accentuato federa-lismo può determinare una sofferenza nel rapporto con l’eguaglianza».

VERSO UN NUOVO MODELLO DI UNIFORMITÀ: PROFILI GENERALI 207

3.3. Lo Stato autonomico e le sue conseguenze: prime riflessioni intorno alle ripercussioni della riforma sulla prima parte della Costituzione

Per procedere ulteriormente nell’analisi, diviene allora necessario fis-sare l’attenzione sui tratti generali della riforma, ed in particolare riflet-tere su come il nuovo riparto delle competenze legislative si ripercuota sulle stesse riserve di legge (“statale”) contenute nella prima parte della Costituzione, anche alla luce delle esigenze di uniformità che erano state fondamento della loro previsione

59. Nelle riserve di legge si incardina, infatti, seppure in modo non esclu-

sivo né univoco, una esigenza di uniformità, che tradizionalmente ha portato a leggerle come riserve “a legge dello Repubblica”

60. Ma la Re-pubblica non è, non più, lo Stato: la Repubblica è ora una realtà compo-sita, della quale lo Stato non è che una parte, al pari delle altre, in rap-porto di equiordinazione (art. 114)

61. Mutano i rapporti tra i soggetti che compongono l’ordinamento, e

viene meno la minorità della legge regionale: ciò non è (né può esserlo) privo di conseguenze

62. Nel nuovo Stato policentrico delle autonomie, le

59 Non tutte le riserve di legge sono, peraltro, espressione diretta di esigenze di uni-formità, essendo “al Parlamento” piuttosto che “alla generalità-astrattezza della legge”. Per le conseguenze di questa scomposizione (per la riserva dell’art. 97, da rileggersi alla luce della riserva alle fonti di autonomia locale), v. A. CORPACI, L’incidenza della riforma del Titolo V della Costituzione in materia di organizzazione amministrativa, in Lav. pubbl. amm., suppl., spec. 46-47.

60 Nel testo originario degli artt. 119, comma 1°, 122, comma 1° e 128 la dizione “leg-ge della Repubblica” andava intesa come “legge statale” (in questo senso, v., tra gli altri, C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, cit., 889 ss.; U. ALLEGRETTI, Commento all’art. 119 Cost., in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, Art. 114-120, Le Regioni, le Province, i Comuni, I, Bologna, 1985, spec. 357; A.M. SANDULLI, Manuale di diritto am-ministrativo, vol. I, Napoli, 1989, 440). Al di fuori del Titolo V tale identificazione sem-brava altresì meno netta.

61 Il che è confermato, in particolare, dalla configurazione delle Regioni stesse come autonome attrici dell’attuazione della riforma, perlomeno per quanto attiene all’esercizio della funzione legislativa (v., tra gli altri, T. GROPPI, La riforma del Titolo V della costitu-zione tra attuazione e autoapplicazione, in Forum Quad. cost. (www.mulino.it): «[c]i sono poi norme costituzionali la cui operatività dipende esclusivamente dall’iniziativa delle Regioni […] le norme che definiscono i nuovi poteri legislativi regionali»). In questo sen-so, la Corte ha già chiarito che le Regioni hanno il potere di legiferare nelle materie nelle quali ritengano di essere titolari di attribuzione, ferma restando la possibilità di impugna-tiva statale (ormai solo successiva, fatto salvo il particolare regime della Regione Sicilia, mantenuto in piedi dalla Corte nella sentenza n. 314 del 2003, e unicamente per vizi di competenza) ai sensi dell’art. 127 Cost. Ne discende che le Regioni, nelle materie di com-petenza concorrente, non devono attendere l’emanazione di una previa legge-cornice: su tale facoltà di “prima mossa”, cfr. E. MENICHETTI, L’organizzazione sanitaria, cit.

62 Ne discende, tra l’altro, come «la tutela degli interessi nazionali e delle esigenze uni-tarie della Repubblica non sia parte delle caratteristiche di supremazia dello Stato, ma

8.

LO STATO DIFFERENZIATO 208

riserve “innominate” o “a legge della Repubblica” sono, allora, di norma, da interpretare come riserve “alla legge, secondo le rispettive competen-ze”, dello Stato, delle Regioni o “concorrente”

63. Le esigenze di uniformi-tà sottese a modalità macroorganizzative proprie del vecchio modello devono essere rivisitate.

Il limite del rispetto della Costituzione (che vale per lo Stato non meno che per le Regioni)

64 è espressione, a ben vedere, del rapporto diretto, sen-za mediazioni, che intercorre tra la Legge fondamentale e la potestà legi-slativa (anche) regionale. In un mutato quadro di limiti, è poi la stessa riserva allo Stato dei “livelli essenziali” che impone di ritenere affidata, in via generale, alle Regioni la stessa disciplina dei diritti civili e sociali 65.

La riserva alla competenza statale, definita dall’art. 117 (secondo comma, e, seppure in misura decisamente minore, la riserva alla legisla-zione concorrente del terzo comma), articola, dunque, e circoscrive, lo spazio dell’uniformità (formale) “costituzionalmente garantita”, anche nella disciplina dei diritti fondamentali della prima parte della Costitu-zione: il valore dell’autonomia e della differenziazione autonomica si ri-flette su tutto l’impianto della Carta repubblicana, che deve quindi essere riletta alla luce delle nuove modalità organizzative dell’ordinamento

66.

debba essere frutto dell’unico modo in cui dei soggetti di pari grado possono decidere, attraverso l’accordo, la leale cooperazione»: così per R. BIN, L’interesse nazionale dopo la riforma: continuità dei problemi, discontinuità della giurisprudenza costituzionale, in Re-gioni, 2001, 1219.

63 Discorso diverso deve, forse, farsi rispetto alle riserve “a legge dello Stato”, le quali, peraltro, limitate quanto a numero nella Costituzione, valgono eventualmente ad estende-re, anche al fuori delle espresse previsioni dell’art. 117, l’area dell’uniformità normativa (si tratta, in realtà, di un argomento formale debole, che presenta profili contraddittori nella sua, eventuale, applicazione: con conseguenze opposte con riferimento all’Univer-sità, ed all’istruzione e parità scolastica (cfr. art. 33 Cost., rispettivamente commi 6° e 3°).

64 Ai sensi del primo comma dell’art. 117, attraverso il quale, per M. LUCIANI, Le nuove competenze legislative delle Regioni a statuto ordinario. Prime osservazioni sui principali nodi problematici della L. Cost, n. 3 del 2001, in Lav. pubbl. amm., 2002, suppl., 8) «si è voluto sottolineare che, al di là di qualunque discussione dogmatica sui rapporti tra legge statale e legge regionale, queste hanno la medesima “dignità” e costituiscono al medesimo titolo modalità di pieno esercizio della funzione legislativa».

65 Peraltro è evidente che la riserva allo Stato di numerose materie, a carattere anche trasversale, legate alla tutela di diritti, consente di «mantenere allo Stato un ruolo centrale nella disciplina dei diritti» (così T. GROPPI, La garanzia dei diritti tra Stato e Regioni, cit., 2). Affermazione questa che però, di nuovo, conferma il carattere certo non più esclusivo dell’intervento statale.

66 Cosicché la lesione del principio di uguaglianza potrà condurre alla la cassazione di singole disposizioni normative (regionali), ma non al riaccentramento (statale) delle competenze legislative. Se è vero che la riformulazione della struttura organizzativa della Repubblica non è priva di conseguenze sulla prima parte della Costituzione, il condizio-namento muove anche (come è ovvio) nella direzione opposta.

VERSO UN NUOVO MODELLO DI UNIFORMITÀ: PROFILI GENERALI 209

Basti riflettere sul fatto che la disciplina regionale può ora ritenersi legitti-mata a regolare ambiti, interessi e beni, tradizionalmente ricondotti al do-minio esclusivo dello Stato, «a partire proprio da quei diritti civili (e sociali) ai quali si fa riferimento nella lett. m) del secondo comma dell’art. 117»

67. Ne discende un nuovo modello di uniformità, nel quale il tradizionale

punto di equilibrio tra le esigenze dell’autonomia e dell’uguaglianza (rec-tius: il tradizionale modello di uniformità) è rinvenibile in spazi circo-scritti, delimitati dalle materie individuate dall’art. 117, comma 2° e, in modo diverso, comma 3°

68. Se le materie individuate dall’art. 117 siano sufficienti a tale fine, siano

adeguate, siano abbastanza, è tema controverso, quanto di difficile solu-zione. Certo è che, di nuovo, non dobbiamo neppure ignorare i processi in atto da tempo e riscontrare come progressivamente le sedi tradizionalmen-te a più forte esigenza di uniformità

69 non trovino nella legge nazionale, ma nella disciplina comunitaria, la loro sede primaria di garanzia.

La griglia di tenuta del sistema è quindi data, nel quadro previsto dal legislatore costituzionale, non solo dalla funzione uniformante ed unifi-catrice dello Stato, attraverso gli specifici strumenti e compiti

70, ma dal ruolo e dalle competenze della stessa Unione Europea (le cui fonti si in-seriscono, ai sensi dell’art. 117, capoverso, a livello sovraordinario, vin-colando tanto il legislatore statale che quello regionale).

Fuori da questi ambiti (e, quindi, dalla sfera dell’uniformità: nello Sta-to o nell’Unione, spessa o sottile)

71, si apre una sfera di differenziazione che, seppure generale e residuale, risulta ancora suscettibile di “resezio-ni”, data la particolare portata di talune materie di competenza statale

72;

67 «Se, infatti, in relazione ad essi la disciplina statale deve, conformemente alla pro-pria natura e funzione, arrestarsi alla soglia, pure largamente indeterminata, in cui si col-locano i “livelli essenziali”, di lì in avanti può (e, in alcuni casi, addirittura, deve) espan-dersi la disciplina regionale» (così A. RUGGERI, Riforma del Titolo V e vizi delle leggi regio-nali, cit.).

68 È agevole constatare in primo luogo che, se la clausola residuale opera a favore delle Regioni, «le materie portanti dell’ordinamento sono in larga misura assegnate allo Stato» (così G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V, cit., 1250-1251).

69 Cfr. in tal senso, per i processi in atto nel diritto civile, N. IRTI, L’età della decodifica-zione vent’anni dopo, cit., passim.

70 In particolare, i “livelli essenziali” dell’art. 117, comma 2°, lett. m), ed i poteri sosti-tutivi dell’art. 120, comma 2°.

71 Così si vedano le riflessioni di G. FALCON (Modello e transizione nel nuovo Titolo V, cit., 1251): «va a mio avviso escluso che potestà legislative statali possano essere diretta-mente dedotte da principi di ordine generalissimo, quali il carattere unitario dello Stato, o il concetto di sovranità, o l’interesse nazionale».

72 Per tutti, sin d’ora, “ordinamento civile”, “ordinamento penale”, “giurisdizione” che sembrano riportare nel nuovo sistema modelli propri del vecchio.

LO STATO DIFFERENZIATO 210

anche a negare (come non si dovrebbe) la “stretta interpretazione” cui ora sono soggetti i “titoli abilitanti l’intervento statale”, è evidente come muti per estensione e profondità la sfera della differenziazione.

Emergono, allora, tra i commentatori più attenti, riflessioni (proble-matiche) sul «tasso di disuguaglianza che l’ordinamento può tollerare per consentire la differenziazione delle entità autonome»

73: né è possibi-le dare una risposta generale a tale problema, posto che è solo nel con-creto svilupparsi di un ordinamento che l’uniformità come principio ge-nerale mirante a tale contemperamento si sostanzia in momenti, mec-canismi, strumenti che definiscono l’equilibrio tra tensione alla differen-za e tensione all’uguaglianza. Entrano in rilievo, allora, le dinamiche macroorganizzative di un sistema, intese come distribuzione delle fun-zioni tra enti territoriali, ma anche i meccanismi del loro esercizio, le concrete forme di condizionamento di risultati, modalità di azione, or-ganizzazione dei soggetti autonomi.

Né il contenuto dei diritti appare irrilevante nella definizione di que-sto equilibrio

74. Venendo meno le modalità organizzative che ne consentivano la rea-

lizzazione, viene meno, nel sistema prefigurato dal nuovo Titolo V, la possibilità di perseguire una universalità dei diritti attraverso una uni-formità dei percorsi e delle organizzazioni

75: questo è sostenibile in via generale, ma acquista un significato innegabile con riferimento ai diritti sociali. Questo, peraltro, può trovare un limite nel contenuto essenziale di taluni diritti sociali, laddove ne discenda un profilo organizzativo: laddove, cioè, si possa parlare di “diritti organizzativamente condiziona-ti” a tutela costituzionale.

La tensione tra unità/uguaglianza ed autonomia/differenza trova, nei diritti sociali, il punto di più forte attrito: sia per un dato oggettivo, con-naturato all’essenza dei diritti sociali (il rilievo ineliminabile di una di-mensione organizzativa per la garanzia della loro fruizione), sia per le

73 Così G. ROSSI-A. BENEDETTI, La competenza legislativa statale esclusiva, cit., 22, che segnalano altresì la scarsa attenzione a questa problematica.

74 Come ravvisava Nigro, quello tra interessi ed organizzazione è un rapporto biunivo-co (l’organizzazione è “modellata” sugli interessi e (re)agisce su di essi: cfr. M. NIGRO, Studi sulla funzione organizzatrice, cit., spec. 119).

75 Come è evidente nell’ambito del “diritto alla salute”, dove «[g]li strumenti giuridici utilizzati a tal fine consistevano nell’autoqualificazione delle disposizioni statali in termi-ni di “principi fondamentali e norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica” (art. 19, d.lgs. n. 502 del 1992 e s.m.); nello spostamento del confine del “li-mite dei principi” sino alla copertura della disciplina statale di dettaglio; nell’ampio uti-lizzo degli atti di indirizzo e coordinamento come vero e proprio strumento di governo della sanità» (così E. MENICHETTI, L’organizzazione sanitaria, cit.).

VERSO UN NUOVO MODELLO DI UNIFORMITÀ: PROFILI GENERALI 211

scelte ordinamentali fatte proprie dal nostro sistema all’atto della rifor-ma del Titolo V. Da ciò non deve ricavarsi, però, la semplicistica conclu-sione per la quale tra federalismo ed uguaglianza nei diritti sociali esi-sterebbe un’incompatibilità: affermazione della quale, da un lato, non è provata l’evidenza storica

76, ma cui, dall’altro, è sì possibile giungere, ma ragionando su “modelli puri” di federalismo, nell’ambito dei quali non operino adeguati meccanismi (dell’uniformità) correttivi

77. La ratio profonda che attraversa l’intera riforma del Titolo V può al-

lora essere sintetizzata nella transizione dall’equazione uguaglianza – uniformità amministrativa, all’equazione uguaglianza nel contenuto es-senziale dei diritti – differenziazione amministrativa

78. Se, dopo la riforma, lo Stato liberale resta, di norma, “luogo dell’uni-

formità” (nazionale, se non addirittura comunitaria), così non sembra essere, seppure in modo ricco di sfumature, per lo Stato sociale. Il quale ultimo diviene, altresì, seppure con eccezioni significative, il luogo della differenziazione (di regolazione, se non libera) su base regionale

79. Così, seguendo quanto fissato dall’art. 117, la competenza in ordine

alla disciplina dei “diritti costosi” viene, di norma, assegnata, seppure in misura variabile, alle Regioni, che sono dunque chiamate a farsene cari-co in virtù del riconoscimento, che pure appare frutto di logiche e ar-monie diverse, del “federalismo fiscale” fatto dall’art. 119 Cost. La previ-sione di forti spazi di autonomia, tanto più dove slegata dal limite dei principi, determina una potenziale compromissione del principio di ugua-glianza e da questo punto di vista il nuovo testo costituzionale richiama esigenze egalitarie in numerosi passaggi quali l’art. 117, comma 2°, lett. m) ed e); l’art. 119, commi 3° e 5°

80. L’importanza dei meccanismi di uni-

76 Tale affermazione può essere, anzi, smentita «dalla possibilità di creare forme di ri-sposta alle necessità sociali più efficaci di quelle ipotizzabili in base ad una politica uni-forme su tutto il territorio nazionale» (così L. ANTONINI, Il regionalismo italiano nella pro-spettiva della differenziazione, cit., 321 et passim; analogamente v. A. DI CIOLO, Welfare sta-te e federalismo: coesistenza pacifica o guerra fredda, in AA.VV., Regionalismo, federalismo, welfare state, cit., 383 ss.).

77 Così M. LUCIANI (A mo’ di conclusione: le prospettive del federalismo in Italia, cit., 254) ri-leva come «sul piano della storia delle idee [il federalismo] ha dimostrato di sapersi spo-sare tanto all’individualismo, quanto al solidarismo e all’egualitarismo».

78 In questo senso si veda E. MENICHETTI (L’organizzazione sanitaria, cit.) che propone un’equazione in larga parte analoga.

79 Sui diritti sociali nel sistema “in via di federalizzazione”, e quindi sulla tensione tra ragioni dell’uniformità e della differenziazione, dopo la riforma del Titolo V, cfr. G. ROS-SI-A. BENEDETTI, La competenza legislativa statale esclusiva, cit., 22 ss., ma anche L. AN-TONINI, Il regionalismo italiano nella prospettiva della differenziazione, cit., passim.

80 Sui quali v., più diffusamente, A. BRANCASI, Uguaglianze e disuguaglianze nell’assetto fi-

LO STATO DIFFERENZIATO 212

formità (come perequazione) che risiedono nell’art. 119 è evidente lad-dove si rifletta sul formidabile moltiplicatore della differenza (disugua-glianza) insito nella diversa disponibilità di risorse ed, in ultima istanza, nello stesso modello “federale”

81. Nel novellato Titolo V il portato differenziante connaturato al sempre

più marcato riconoscimento dell’autonomia è contenuto in primo luogo attraverso tre meccanismi, che diversamente operano in relazione ai di-versi diritti (e che più attentamente meriteranno di essere esaminati): la riserva di parte della disciplina formale a fonti statali; l’affidamento allo Stato della competenza sui “livelli essenziali”; l’approntamento di mec-canismi perequativi

82, in grado di disinnescare in parte il potenziale dif-ferenziante insito nella sempre più marcata territorializzazione delle imposte. A questi meccanismi fisiologici, se ne affiancano altri volti a ri-solvere situazioni di patologia, attraverso il riconoscimento allo Stato di specifici poteri “di garanzia dell’unità economica e giuridica”

83.

4. Differenziazione, specialità, asimmetria: differenziazione dei sogget-ti di autonomia e differenziazione autonomica

Un sistema, quindi, nel quale, in via generale, il superamento di una visione gerarchica tra fonti/soggetti nazionale e di autonomia determina l’apertura a prospettive di differenziazione nella disciplina positiva delle situazioni giuridiche dei soggetti sul territorio: il modello dell’autonomia prefigura, perciò, prospettive di disuguaglianza che, però, per quanto sin qui visto, non varieranno, per estensione ed ampiezza, sul territorio na-

nanziario di una Repubblica federale, cit., 929 ss.; e P. GIARDA, Le regole del federalismo fiscale nell’art. 119: un economista di fronte alla nuova Costituzione, in Regioni, 2001, 1425 ss.

81 In questo senso, G. CORSO, Welfare e Stato federale, cit., 403, che rileva come ciò ine-vitabilmente determini disuguaglianza, poiché «ad un unico dividendo e ad un unico diviso-re vengono ad essere sostituiti più dividenti e più divisori». Sotto una diversa prospettiva si vedano le riflessioni delle scienze economiche, riconducibili al c.d. teorema della decentraliz-zazione (v. W.E. OATES, Federalismo e finanza pubblica, in G. BROSIO (a cura di), Governo decentralizzato e federalismo. Problemi ed esperienze internazionali, Bologna, 1995, 75 ss.) per le quali il riconoscimento ad entità substatali (le c.d. giurisdizioni locali) della responsabilità del prelievo fiscale e della spesa è, in vasti settori, più efficiente, dal momento che consente una distribuzione ottimale (senza sprechi) dei beni (risorse) pubblici.

82 In ordine ai quali, peraltro, v. sin d’ora, oltre ai già citati A. BRANCASI, ult. op. cit. e P. GIARDA, ult. op. cit., G. DELLA CANANEA, Autonomie e responsabilità nell’art. 119 della Costituzione, in Lav. pubbl. amm., 2002, suppl., 76 ss.

83 Su cui v., di nuovo, C. MAINARDIS, I poteri sostitutivi statali: una riforma costituzio-nale con (poche) luci e (molte) ombre, cit., 1357 ss.

VERSO UN NUOVO MODELLO DI UNIFORMITÀ: PROFILI GENERALI 213

zionale. L’esercizio che, in concreto, verrà fatto di questi spazi di auto-nomia determinerà poi, in ragione delle scelte fatte proprie da ciascuna Regione, l’effettivo mutare delle discipline sul territorio.

Diverso è il caso in cui sia la stessa Costituzione a riconoscere, in modo diverso, discipline differenziate e spazi di autonomia essi stessi diversi ai vari enti territoriali: in questo caso la (auto od etero) differen-ziazione funzionale e strutturale delle organizzazioni pubbliche molti-plicherà la differenziazione nella disciplina sostanziale dei diversi feno-meni

84. Un medesimo fenomeno sarà differenziato, allora, non solo per-ché, essendo demandato all’autonomia regionale, diversamente regolato nell’esercizio di questa autonomia, ma perché, a monte, diversamente affidato all’autonomia regionale (od egualmente affidato a soggetti strut-turalmente e funzionalmente diversi).

Ad una generale apertura alla differenziazione autonomica, attraver-so la riduzione delle forme di condizionamento dell’autonomia stessa, se ne affianca dunque un’altra, speciale ed asimmetrica

85. Questa tematica, suscettibile di esame anche nell’ambito della suc-

cessiva articolazione/scomposizione della nostra riflessione, verrà tratta-ta preliminarmente, perché strettamente legata tanto alla dimensione della differenziazione normativa (dal momento che i profili di specialità asimmetria attengono in primo luogo al diverso riparto della funzione legislativa) quanto alla dimensione amministrativa (dell’organizzazione, delle funzioni amministrative, delle risorse).

Il riconoscimento di una disciplina differenziata a talune Regioni è fenomeno risalente, seppure inizialmente fondato su giustificazioni in parte superate dall’evoluzione del nostro Paese: il modello della diffe-renziazione “come eccezione”, peraltro inserito in un sistema che di fat-to finiva per riconoscere ridotti spazi di reale differenziazione autono-mica anche ai soggetti cui pure l’ordinamento attribuiva ambiti (qualita-tivamente e quantitativamente) più estesi di autonomia, è parte del tra-dizionale “regionalismo dell’uniformità”

86. Ne è stato, anzi, un corollario. Riconoscendo statuti speciali alle si-

tuazioni a più forte richiesta di autonomia, lo Stato ha ridotto la tensio-

84 J. GARCÌA MORILLO, Autonomia, asimmetria e principio di eguaglianza, cit., spec. 116 ss. 85 T.E. FROSINI (La differenziazione regionale, cit.) distingue, al riguardo, tra regioni

differenziate (le regioni “speciali”) e regionalismo differenziato (ex art. 116, comma 3°). Così «[l]a riforma del titolo V della Costituzione mette in moto un “regionalismo diffe-renziato”, volto ad esaltare e valorizzare le potenzialità intrinseche di ciascuna Regione; non si è voluto però tentare di risolvere il problema della differenziazione regionale».

86 In ordine al quale v., di nuovo, F. TRIMARCHI BANFI, Il regionalismo e i modelli, cit., 257 et passim.

LO STATO DIFFERENZIATO 214

ne sul sistema ed ha potuto mantenere un modello di sostanziale uni-formità: una modalità di risposta ad esigenze di flessibilità che il nostro ordinamento aveva già conosciuto a livello comunale.

Alla differenziazione come eccezione delle cinque Regioni speciali, confermata dalle riforme del 2001

87, si affianca però ora un nuovo mo-dello, quello della differenziazione convenzionale (ed eventuale), insita nella c.d. “clausola di asimmetria” dell’art. 116, terzo comma, della Co-stituzione.

4.1. Le Regioni speciali: ragione della persistenza di un modello e sua giustifi-cazione (alla ricerca dei fatti differenziali nell’ordinamento repubblicano)

Le “Regioni speciali” 88 restano, come accennato, tali anche nella

prospettiva delineata dalla riforma del Titolo V, e dovremmo supporre che questo sia frutto di un riconoscimento, ed anzi della conferma, di “fatti differenziali” di valore costituzionale. Residua dunque la posizione delle Regioni speciali, a statuto eterodifferenziato di specie: si conserva il modello della “differenziazione come deroga”, accanto ad un, seppur limitato, primo approccio di “federalismo” asimmetrico

89. Il mantenimento di un modello di specialità

90, ci spinge a ricercare nella nostra Costituzione, formale e materiale, il fondamento di una dif-ferenziazione che non trovando spiegazione in chiare evidenze di ordine

87 In tal senso cfr. le leggi cost. nn. 2 e 3 del 2001. 88 Ai sensi dell’art. 116, comma 1°, che ha peraltro costituzionalizzato la denomina-

zione bilingue di Alto Adige e Valle d’Aosta: “Il Friuli Venezia Giulia, la Sardegna, la Sici-lia, il Trentino-Alto Adige/Südtirol e la Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale”. Lo stesso art. 116 ribadisce poi (comma 2°) quanto già stabilito dalla leg-ge cost. n. 2, 2001, vale a dire che “La Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol è costituita dal-le Province autonome di Trento e di Bolzano”.

89 Regime ordinario di specialità, asimmetria, nuova specialità, regionalismo differen-ziato, ecc. sono tutte espressioni che denotano l’incertezza sul modello di fondo del no-stro regionalismo. Vero è che il regionalismo come il federalismo (cfr. L. VANDELLI, Inter-vento, in C. BOTTARI (a cura di), La riforma del Titolo V, Parte II, della Costituzione, cit., 427: «gli Stati federali censiti nel mondo mi pare siano circa centocinquanta: non ce ne sono due sostanzialmente identici, neanche quelli che sono considerati i prototipi; Stati Uniti da una parte, Germania dall’altra, non sono con ogni probabilità riproducibili in altri contesti»), difficilmente ammette di essere ricondotto entro facili schematizzazioni, data l’unicità ed atipicità di ogni esperienza.

90 In merito al ruolo che le regioni speciali sono chiamate a giocare nel nuovo sistema, v., da ultimo, C. MURGIA, Regioni ordinarie e regioni speciali, in E. ROZO ACUÑA (a cura di), Lo Stato e le autonomie, cit., 47 ss.

VERSO UN NUOVO MODELLO DI UNIFORMITÀ: PROFILI GENERALI 215

fattuale rischia di essere vista, e percepita, come privilegio 91. Questo per-

ché, nel momento in cui afferma la possibilità di una differenziazione ordinaria (ma atipica), la riforma sembra tracciare una distinzione tra specialità (dimensione non accessibile alle Regioni ordinarie) e differen-ziazione

92. Che poi possa parlarsi di una posizione differenziata in senso esclusi-

vamente favorevole è peraltro, come noto, dubbio: certo favorita dal le-gislatore costituzionale in termini competenziali (anche alla luce della clausola di estensione alle Regioni speciali delle condizioni di autono-mia, laddove più favorevoli, riconosciute alle Regioni ordinarie)

93 ed in termini finanziari, l’autonomia delle Regioni speciali continua ad essere limitata dal carattere, eteronomo, della fonte statutaria, confermato dal-la riforma. La legge costituzionale n. 2 del 2001 ha aperto, peraltro, spa-zi di differenziazione nella disciplina della propria forma di governo

94 alle Regioni speciali, attraverso una disposizione comunemente rivolta alle cinque Regioni, disciplinate in questo omogeneamente a prescinde-re dal carattere di specialità di ciascuna di esse

95.

91 Così per T.E. FROSINI (La differenziazione regionale, cit.), per il quale il modello del-l’art. 116, comma 3° spinge ad ipotizzare che «seppure nell’ambito di una fase politico-istituzionale ancora in evoluzione, […] l’autonomia speciale delle cinque Regioni stia per esaurire la sua ragion d’essere»; né sembra dissimile l’opinione di G. PITRUZZELLA (Regio-ni a statuto speciale e altre forme particolari di autonomia regionale, cit., 131) per il quale «le ragioni giustificative della specialità sembrano in larga misura superate, mentre i trat-ti giuridici in cui essa si sostanziava sono palesemente in crisi». Opposta la posizione di C. MURGIA, Regioni ordinarie e Regioni speciali, cit., spec. 48, ed ancora più nettamente di F. PALERMO, secondo il quale la riforma non incide sulla specialità regionale «né proba-bilmente avrebbe potuto farlo» (ID., Il regionalismo differenziato, in T. GROPPI-M. OLIVET-TI (a cura di), Lo Stato delle autonomie, cit., 54): questo, sulla scorta di un orientamento che ritiene (con V. ONIDA, Le costituzioni. Principi fondamentali della costituzione italiana, in G. AMATO-A. BARBERA (a cura di), Manuale di diritto pubblico, Bologna, 1997, spec. 112) la specialità tra i “principi a regime” e quindi “elemento intangibile dell’ordinamento costituzionale”. Intangibile (in quanto frutto di fatti differenziali costituzionali e di ac-cordi di rango costituzionale) sembra però piuttosto essere il contenuto dell’autonomia (speciale o meno), non la specialità in sé (il cui riconoscimento è retaggio, per A. RUGGE-RI, Le Regioni speciali, in Foro it., 2001, 207, di «una antica condizione di specialità dive-nuta, anche giuridicamente, solo simbolica, di facciata»).

92 Sulla distinzione «non è chiaro quanto cosciente» tra specialità e differenziazione cfr. F. PALERMO, Il regionalismo differenziato, cit., 55.

93 La c.d. “clausola di maggior favore” prevista dall’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001. 94 Sul punto, cfr. amplius, il commento di T. GROPPI, La modifica degli statuti delle Re-

gioni speciali, in Giornale dir. amm., 2001, 437 ss. 95 La legge cost. n. 2 del 2001, nel modificare uno actu gli statuti speciali, ha esteso a

tutte le Regioni e Province autonome l’elezione diretta del Presidente, ma ha demandato ad apposite leggi regionali rinforzate la capacità di derogare a questa disciplina, consen-tendo perciò la scelta di una diversa forma di governo: sul punto v. A. ANZON, Il difficile avvio della giurisprudenza costituzionale, cit.

LO STATO DIFFERENZIATO 216

Vero è, però, che tradizionalmente (auto)differenziazione ammini-strativa e differenziazione autonomica si sono articolate, per le Regioni speciali, in modo inversamente proporzionale: nel modello prefigurato dal Costituente, anzi, sembra di intravedere la scelta di riconoscere un maggiore potenziale differenziante alle Regioni speciali che avesse come contraltare il contenimento dell’autodeterminazione sull’organizzazione fondamentale delle Regioni stesse.

Una maggiore capacità di incidere sulla propria collettività di riferi-mento, una minore capacità di incidere su se stesse: questo è il dato ca-ratterizzante le Regioni speciali; il che, come è evidente, non significa certo che alla maggiore differenziazione autonomica determinata dagli spazi competenziali e dai caratteri della legislazione delle Regioni spe-ciali corrispondesse un’uniformità della loro organizzazione. Quello che veniva negato a questi soggetti non era uno statuto di specie, che anzi è il loro dato caratteristico, ma il potere (statutario) di determinare la propria struttura fondamentale: il superamento, seppure parziale, di questo limite sancito dalla legge costituzionale n. 2 è, più che un’evo-luzione del regionalismo speciale, un segnale della sua tendenziale omo-logazione

96 con un regionalismo “ordinario” in espansione. Quello che qui interessa è, allora, riflettere sulla ragione ed il fonda-

mento di una specialità regionale, la quale non può essere certo ravvisa-ta nel valore dell’autonomia, ma deve trovare in altre evidenze costitu-zionali la propria giustificazione

97. Quali sono, in sostanza, i fatti differenziali di rilievo costituzionale

che confortano la scelta di una disciplina di favore, pure nei limiti anzi-detti, ad alcune Regioni rispetto ad altre e, quindi, una più forte ridu-zione degli spazi di uniformità nel godimento dei propri diritti da parte di alcuni cittadini rispetto ad altri, in ragione di variabili di ordine terri-toriale? Questi fatti differenziali si incardinano nel processo di ricostru-zione del nostro ordinamento successivo alla liberazione, ed affondano le loro radici nella stessa Costituzione materiale del nostro paese, tro-

96 Cfr. P. PINNA, La revisione degli statuti delle Regioni differenziate e le prospettive della specialità, in V. ANGIOLINI-L. VIOLINI-N. ZANON (a cura di), Le trasformazioni dello Stato regionale italiano, cit., 166 ss., omologazione, peraltro, già manifestatasi attraverso l’azione congiunta di legislazione e giurisprudenza (cfr. C. MURGIA, Regioni ordinarie e Regioni speciali, cit., 48).

97 Nel momento in cui si torna alle giustificazioni del regionalismo speciale e tali giu-stificazioni vengono estese a tutte le Regioni, emergono, forti, i dubbi sull’opportunità del mantenimento della specialità dal momento che tutte le difformità alla tipologia tracciata dalla Costituzione (rectius differenziazioni) sono ora previste e ammesse dalla Costituzio-ne stessa e, quindi, non sarebbe più necessario rivestire le “forme e condizioni particolari di autonomia” con norme di rango costituzionale quali sono gli statuti speciali.

VERSO UN NUOVO MODELLO DI UNIFORMITÀ: PROFILI GENERALI 217

vando poi emersione nella Costituzione formale; così, in modo schema-tico, e quindi rudimentale, è, prima ancora che in fonti convenzionali ed internazionali, nella tutela delle minoranze linguistiche (art. 6 Cost.) che possiamo radicare l’autonomia differenziata Valdostana e Trentina (rec-tius: altoatesina), come risulta ora confermato dall’inclusione in Costi-tuzione del nomen francese e tedesco di queste autonomie

98. Se questo è sostenibile, allora un fatto differenziale di rilievo costitu-

zionale emerge dal combinato dell’art. 6 e dell’art. 116: ma da queste di-sposizioni può farsi discendere una diretta individuazione delle (sole)

99 specialità valdostana ed altoatesina (Vallée d’Aoste e Südtirol)

100 come traduzione organizzativa diretta del riconoscimento di questo valore non solo nella sua modalità di fruizione individuale, ma anche nel suo radicamento in una collettività. Seguendo questa linea di ragionamento, con il rischio peraltro di fare dire troppo a dati testuali deboli, verrebbe da dire che, mentre radica nella Costituzione formale alcuni fatti diffe-renziali, la riforma costituzionale ne fa venire meno altri

101. In quest’ottica potrebbe allora rileggersi il fondamento della speciali-

tà isolana, Sarda e Siciliana, che pure affonda la sua origine in significa-tive ragioni sociali e storiche

102. Senza che sia qui possibile operare una

98 Con l’aggiunta del quale «viene riconosciuta – una volta per tutte – quella condizio-ne di differenza linguistica che ne giustificò, a suo tempo, la specialità ordinamentale» (così G. DEMURO, Regioni ordinarie e regioni speciali, in T. GROPPI-M. OLIVETTI (a cura di), La Repubblica delle autonomie, cit., 45-46; sul punto, amplius, v. G. MOR, Le regioni a statuto speciale nel processo di riforma costituzionale, in Regioni, 1999, 210 ss).

99 Mentre ne discende che «per quanto riguarda le altre, ossia il Friuli Vebezia Giulia, la Sardegna e la Sicilia, le ragioni che ancora giustificano la specialità non sono così au-toevidenti» (così ancora G. DEMURO, Regioni ordinarie e regioni speciali, cit., 46).

100 Il significato da riconoscere all’aggiunta del nomen in tedesco per il Trentino-Alto Adige/Südtirol e in francese per la Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste va probabilmente ricercato nel riconoscimento, così operato, di «quella condizione di differenza linguistica che iden-tifica, in modo definitivo, l’identità regionale nella connotazione di minoranza linguisti-ca» (così, di nuovo, T.E. FROSINI, La differenziazione regionale, cit.).

101 Ancora T.E. FROSINI, Quale federalismo senza mezzogiorno?, in Forum Quad. cost. (www.mulino.it), in merito segnala (criticamente) l’eliminazione del riferimento all’obiet-tivo della “valorizzazione del Mezzogiorno e delle Isole”, di cui al (vecchio) art. 119 Cost. (che era quasi «una disposizione di “diritto sociale territoriale»): «perché lo si è elimina-to? Non si vorrà far credere che la questione meridionale si risolve eliminandola dalla Co-stituzione e quindi non considerandola più un problema?».

102 Piuttosto, l’esigenza di dotarsi di un’autonomia “speciale” «è oggi avvertita da tutte, o quasi, le Regioni italiane, a prescindere dalla storia, dalla configurazione geografica, dall’identità culturale; quindi, è un’esigenza che non ha nulla a che vedere con le vecchie istanze di specialità. […], in uno Stato autenticamente federale tutte le Regioni, ovvero gli enti territoriali, sono speciali, nel senso che tutte devono godere parimenti di una forte autonomia» (di nuovo, v. T.E. FROSINI, Quale federalismo, cit.). Per C. MURGIA (Regioni or-dinarie e Regioni speciali, cit., 49), l’autonomia speciale si collega, altresì, indissolubilmen-

LO STATO DIFFERENZIATO 218

simile, e delicata, operazione, una verifica e rifondazione delle ragioni della specialità sembra necessaria ad avallare una disciplina di privilegio (anzitutto finanziario) di taluni soggetti: occorre, in altri termini, ricer-care i fatti differenziali costituzionali e la loro persistenza, per distin-guere, nel nostro ordinamento, tra Regioni speciali “per natura” e Re-gioni speciali “per accidente”, ovvero, ragionando secondo le categorie del costituzionalismo iberico, tra “nazioni” e “comunità”

103.

4.2. Asimmetria e principio dispositivo: a proposito della clausola di asim-metria dell’art. 116 Cost.

La nozione di differenziazione è ampiamente utilizzata, a livello politi-co e dottrinale, con riferimento alle previsioni ora contenute nel comma 3° dell’art. 116, che subordinano ad un procedimento legislativo speciale (e rinforzato) il riconoscimento, a Regioni diverse da quelle speciali

104, di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia

105. La costituzionalizzazione di un modello di differenziazione concerta-

ta, indefinita e quindi potenzialmente libera nei modi e nelle forme, ma circoscritta quanto ad ambiti materiali, apparentemente riferibile alla dimensione amministrativa oltre che legislativa, è in effetti una novità di rilievo nel nostro panorama istituzionale, per la quale è naturale fare ri-ferimento al regionalismo asimmetrico spagnolo

106. Da qui l’attenzione,

te alle realtà insulari: «la verità è che proprio con riferimento alla condizione insulare na-sce il fenomeno dell’autonomia».

103 Cfr., in tal senso, J.F. LÒPEZ AGUILAR, Lo Stato autonomico spagnolo, cit., spec. 67 ss. 104 Una «speciale specialità di singole regioni ordinarie», con G. FALCON (Il nuovo Tito-

lo V della Parte II della Costituzione, in Regioni, 2001, 11). 105 L’attribuzione delle quali è affidata ad un procedimento che, logicamente, dovrà esse-

re poi seguito anche nel caso di una successiva modifica di queste “forme e condizioni par-ticolari”: conclusione, questa, che ne determina l’estrema rigidità, ma che pare inevitabile. In tal senso v. M. LUCIANI, Risposta dei soci dell’AIC (ai quesiti posti al Presidente dell’Asso-ciazione, S. PANUNZIO, nel corso dell’Audizione, in Indagine conoscitiva sugli effetti nell’ordi-namento delle revisioni del Titolo V, cit., in www.associazionedeicostituzionalisti.it): «si trat-ta, infatti, di un procedimento riservato, e la riserva non avrebbe senso, qualora potesse es-sere aggirata facendo seguire la legge ex art. 116 da una successiva legge “comune” che ne stravolgesse i contenuti. Inoltre, è principio generale che (se non è altrimenti previsto da una fonte superiore) il procedimento di formazione di una fonte debba essere seguito anche per le modificazioni delle norme da essa introdotte».

106 Un modello, questo, variamente definito dalla dottrina già a partire dal progetto della Bicamerale: regionalismo/federalismo graduale (così L. CHIEFFI, Premessa. Luci ed ombre nei recenti sviluppi dello Stato delle autonomie, in ID. (a cura di), I diritti sociali tra regionalismo e prospettive federali, Padova, 1999, 13), asimmetrico (tra gli altri, R. BIN, Del federalismo asimmetrico all’italiana, cit., 232), a geometria variabile (così M. LUCIANI, For-

VERSO UN NUOVO MODELLO DI UNIFORMITÀ: PROFILI GENERALI 219

diffusa a livello dottrinale 107, a questa previsione: attenzione che peraltro

sembra progressivamente ridursi alla luce del riconoscimento della normalità della differenziazione regionale, capace di realizzarsi secondo modalità plurali, muovendo da una serie di assi diversi: rispetto a questo nuovo ordine, la clausola di asimmetria dell’art. 116 finisce per apparire come una delle possibili manifestazioni di una differenziazione che ha un ben più vasta applicazione

108. L’individuazione degli oggetti (una sfe-ra della differenziazione convenzionale ed eventuale)

109 determina poi la percezione del carattere “tassativo” dell’asimmetria italiana, il che se ne stempera la portata, ne riduce anche la potenziale pericolosità.

Entra dunque, nel nostro ordinamento, un modello, ancora limitato, di “asimmetria”

110, ovvero di quella forma di differenziazione competen-ziale con la quale si istituzionalizza «una relazione particolare tra il go-verno nazionale e alcuni governi subnazionali»

111. In merito a questo modello gli orientamenti dottrinali sono differenti. Il modello prefigurato dalla riforma, che fa discendere da una “inizia-

ma di Stato: la Repubblica delle autonomie. Democrazia partecipazione e solidarietà, Atti del convegno di Roma, 12-13 ottobre 1996, Roma, 1996, 21).

107 Il tema della differenziazione è trattato, a livello dottrinale, con una attenzione del tutto particolare all’art. 116 della Costituzione: cosa evidentemente giustificata dal tenore della norma, per come disciplinata dal legislatore della riforma del Titolo V. Per tutti (an-te litteram), L. ANTONINI, Il regionalismo differenziato, cit.; in questo senso v., ora, C. BUZ-ZACCHI, Uniformità e differenziazione, cit.

108 In tal senso v. M. CAMMELLI, che ravvisa l’inadeguatezza di un’analisi che limiti il riconoscimento della differenziazione regionale alla sola ipotesi dell’art. 116, u.c.: «[i]n realtà il problema è molto più ampio, perché la possibilità di porre in essere sistemi am-ministrativi regionali e locali fortemente differenziati deriva da un complesso di norme che riguardano momenti precedenti e ambiti assai più estesi.» (ID., Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo Titolo V, cit., 1282).

109 Ai sensi dell’art. 116, il riconoscimento di ulteriori e particolari forme di autonomia è possibile tanto nelle materie dell’art. 117.3 (competenza concorrente) che su alcuni am-biti affidati in via ordinaria alla competenza esclusiva statale.

110 Come già segnalato, distingue asimmetria da differenziazione (riferendo la prima al fenomeno qui in esame, ed al modello di derivazione spagnola) ad esempio C. PINELLI, Mercati, amministrazioni e autonomie territoriali, cit., 267 ss.

111 Parlare di federalismo asimmetrico (su cui, criticamente, già R. BIN, Del federali-smo asimmetrico, cit., 323 ss.), rimanda naturalmente all’esperienza spagnola: la Costitu-zione iberica non parla mai di asimmetria, ma contiene alcune norme che consentono lo sviluppo di un assetto istituzionale differenziato: in particolare, la Carta fondamentale da un lato attribuisce alle Comunità autonome livelli competenziali diversi in relazione alle loro modalità di costituzione, dall’altro distingue tra “Regioni” e “nazionalità” (che non vengono elencate, ma tradizionalmente individuate nella Catalogna, nel Paese Basco e nella Galizia), prospettando quindi due diversi tipi di comunità territoriale; sul punto, cfr., tra gli altri, B. BALDI, La Spagna fra regionalismo e federalismo, in Ist. del federalismo, 1998, 918 ss., J.J. GONZÀLEZ ENCINAR, Lo Stato federale “asimmetrico”: il caso spagnolo, in A. PACE (a cura di), Quale, dei tanti federalismi?, cit., spec. 57 ss.; M. NEBRERA GONZÀLES, Il potere performativo delle parole: i vocaboli “Stato” e “Nazione”, ivi, 327 ss.

LO STATO DIFFERENZIATO 220

tiva della Regione interessata” il processo rivolto a determinare (attraver-so legge rinforzata) ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, che richiama i lineamenti del modello asimmetrico

112, da un lato prefi-gura un sistema nel quale «il tasso di concorrenzialità tra le Regioni tenderà ad aumentare, mentre si attenuerà la caratterizzazione del no-stro sistema nei termini del regionalismo cooperativo»

113, ma, dall’altro, è frequentemente accolto con favore

114. Vero è che «le occasioni e gli strumenti di differenziazione sono assai più numerosi, ampi e penetran-ti di quelli rientranti nella fattispecie dell’art. 116 u.c.»

115, senza peraltro essere assistiti dalle garanzie (in primo luogo procedurali) che qui sono altresì previste.

Si tratta di un modello di differenziazione in ordine al quale sono defi-niti i limiti materiali, ma non le modalità di possibile traduzione: (relati-vamente) circoscritta l’asimmetria per “quantità”, il terzo comma dell’art. 116 nulla dice quanto a “qualità” delle ulteriori forme e condizioni partico-lari di autonomia cui fa riferimento. Il raggiungimento delle quali, peral-tro, si configura come frutto della volontà della singola Regione, quanto-meno in ordine all’attivazione del processo. Si tratta, anche da questo pun-to di vista, di una scelta in linea con il modello assunto come inevitabile riferimento, quello spagnolo, cosicché entra anche nel nostro ordinamento

112 L’art. 116, comma 3, infatti, stabilendo che la legge dello Stato (approvata a mag-gioranza assoluta). “su iniziativa della Regione interessata”, possa prevedere “ulteriori for-me e condizioni particolari di autonomia”, «disegna una sorta di regionalismo asimmetri-co, palesemente tributario di suggestioni spagnole»così v. M. LUCIANI, Le nuove compe-tenze legislative delle Regioni, cit., 14.

113 V., di nuovo, M. LUCIANI, ult. op. cit., 14-15, per il quale, inoltre, «i conflitti di inte-resse tra le Regioni potranno essere più frequenti e più complessa sarà la definizione dell’interesse regionale». In effetti, seppure attenti commentatori esaltino le potenzialità (positive) insite nel modello, l’esperienza spagnola ne prefigura i rischi (dati dal vizio di chiedere che ne risulta esaltato e dal conseguente pericolo di arrestare la corsa quando è ormai troppo tardi: cfr. rispettivamente J.J. GONZÀLEZ ENCINAR, Lo Stato federale “asim-metrico”: il caso spagnolo, cit., 77, J.GARCÌA MORILLO, Autonomia, asimmetria e principio di eguaglianza, cit., 118.)

114 Così L. ANTONINI, Il regionalismo italiano nella prospettiva della differenziazione, cit., e ante litteram ID., Il regionalismo differenziato, cit., ma anche. N. ZANON, Per un regionali-smo differenziato: linee di sviluppo a Costituzione invariata e prospettive alla luce della revi-sione del Titolo V, in AA.VV., Problemi del federalismo, Milano, 2001, 54 et passim; F. PA-LERMO, Il regionalismo differenziato, cit., 51 ss.

115 Così, di nuovo, M. CAMMELLI, Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo Titolo V, cit., 1284, che rileva come gli altri casi di differenziazione siano «più di questi ultimi [quelli ex art. 116, comma 3°] esposti a considerazioni di natura strettamente politica e, in ogni caso, sprovvisti delle garanzie procedurali della qualità e del livello di cui è invece fornito il caso dell’intesa tra Stato e singola regione».

VERSO UN NUOVO MODELLO DI UNIFORMITÀ: PROFILI GENERALI 221

un principio dispositivo 116 (in base alla volontà dell’ente interessato)

117. Organizzazione della giustizia di pace

118, norme generali sull’istru-zione, tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali

119: sono questi gli ambiti materiali “dell’uniformità (spessa)” cui l’art. 116 con-sente (unitamente alle materie del terzo comma dell’art. 117) l’apertura a percorsi di differenziazione, riconducibili peraltro ad una precisa scel-ta del legislatore statale e delle Regioni interessate. Una riserva di legge rinforzata, con potere di iniziativa riservato alla Regione coinvolta, su-bordinata ad un’intesa tra Stato e Regione, da approvare con una legge, verrebbe da dire “organica”, a maggioranza assoluta dei componenti del-le Camere, presiede a questo percorso di autonomia differenziata che si affianca, non si sostituisce, al modello del regionalismo speciale, come detto confermato dal legislatore costituzionale della riforma

120. La prefigurabilità di un modello asimmetrico di regionalismo (quanto

a competenze dei maggiori enti territoriali), subordinato ad un processo nel quale risulta protagonista l’ente regionale, sottoposto però ad un’in-tesa con lo Stato, rieccheggia come già accennato il modello del regionali-smo spagnolo, nel quale l’assetto ordinamentale del sistema delle Comu-

116 Nel modello spagnolo il principio dispositivo è consistito nella scelta, da parte delle Comunità autonome, in ordine all’assunzione delle funzioni non riservate allo Stato dall’art. 149, comma 1°, della Costituzione Spagnola. Di fatto il sistema spagnolo si è ca-ratterizzato per una differenziazione transitoria (di percorso), e si va ora a connotare per una significativa uniformità competenziale (come risultato). Alla “tabla de quesos” che è stato il modello formale seguito (secondo il principio dispositivo), è seguita una progres-siva omogeneizzazione.

117 Così, in riferimento alla Spagna, v., di nuovo, J.F. LÒPEZ AGUILAR, Lo Stato auto-nomico spagnolo, cit.: per principio dispositivo si allude «al disegno giuridico di attuazio-ne del principio autonomico: con ciò si afferma che l’accesso all’autonomia non è obbli-gatorio né vincolante, dipenderà invece dall’attivazione, secondo volontà (dispositivamen-te), di tale possibilità da parte degli attori costituzionalmente legittimati a farlo» (ivi, 24).

118 Ad intendersi verosimilmente come funzione giudiziaria esercitata dai giudici di pace, per quanto l’espressione si presterebbe prima faciae a diversa (ed assurda) conclu-sione (la giustizia di pace come diversa dalla giustizia in tempo di guerra).

119 Ambito in ordine al quale già si segnala l’iniziativa della Regione Toscana. In meri-to v. Regione Toscana – Ipotesi di autonomia speciale per i beni culturali ex art. 116, com-ma 3, Cost. – Relazione e articolato, in Aedon, n. 1, 2003, con schede di C. Barbati, G. Sciullo, C. Zoli, C. Tubertini. Sulla distinzione tra tutela e valorizzazione, cfr. C. BARBATI, Tutela e valorizzazione dei beni culturali dopo la riforma del titolo V: la separazione delle funzioni, commento a Cons. Stato 26 agosto 2002, n. 1794, in Giornale dir. amm., 2003, 145 ss.

120 Quello che emerge dalle riforme (e dai progetti di ulteriore riforma) è un modello incrementale, in cui le forme di autonomia non sono messe in discussione, ma si aggiun-gono (si sommano, se del caso si sovrappongono) le une alle altre. Così è per la differen-ziazione regionale (art. 116, comma 3°) rispetto al modello della specialità, così è nel pro-getto sulla c.d. devolution.

LO STATO DIFFERENZIATO 222

nità è fondato su percorsi differenziati di accesso all’autonomia 121. Rispet-

to al modello, il sistema suggerito dal legislatore costituzionale italiano si differenzia innanzitutto per il suo carattere non centrale, quasi a “a con-torno” di un assetto competenziale fondato di norma su altri criteri. In particolare, il fatto di non avere sciolto il nodo del regionalismo specia-le

122, depotenzia il rilievo che possiamo riconoscere al meccanismo della clausola di asimmetria (o di differenziazione consensuale) dell’art. 116: i soggetti per i quali fatti differenziali di ordine costituzionale giustifichereb-bero l’accesso a forme “ulteriori e particolari” di autonomia non trovano risposta a queste esigenze nell’art. 116, comma 3°, ma negli statuti speciali adottati con legge costituzionale. Per le altre Regioni (vale a dire, quelle or-dinarie) si apre comunque un’ulteriore opzione di differenziazione, essen-zialmente in termini competenziali, attraverso l’estensione degli spazi su cui diviene possibile esercitare la propria potestà normativa primaria.

Il testo del terzo comma dell’art. 116 non chiarisce, peraltro, se la po-testà legislativa alla luce della quale le Regioni potranno intervenire sul-le materie così riconosciute, sia qualificabile alla stregua dei modelli (e, del caso, quali

123) prefigurati dall’art. 117 (potestà legislativa generale/re-siduale regionale o potestà legislativa concorrente) o se possa, altresì, qualificarsi come tertium genus

124. Ad accogliere quest’ultima tesi, che

121 Fondamentale a tal fine è stata l’azione delle forze politiche (in particolare con i c.d. “Accordi autonomici” del 1981 e del 1992), che hanno evitato i rischi insiti nel siste-ma (che avrebbe potuto generare 17 diversi livelli di autonomia), favorendo un’omo-geneità degli statuti di autonomia nella parte relativa alle competenze. Attualmente, in termini competenziali, possiamo distinguere tra due gruppi di Comunità: il primo, a più elevato livello di autonomia, comprende le tre Nationes storiche (Catalogna, Paesi Baschi e Galizia) più l’Andalusia, le Canarie, la Navarra e Valencia. Cfr. J.J. GONZÀLEZ ENCINAR, Lo Stato federale “asimmetrico”: il caso spagnolo, cit., 58-59.

122 Per T.E. FROSINI, La differenziazione regionale, cit., «non si è voluto, cioè, provare a dare risposta al seguente interrogativo: nell’attuale fase di sviluppo del regionalismo han-no ancora oggi un ruolo ed un significato politico-istituzionale le (cinque) Regioni a sta-tuto speciale?».

123 Il problema si pone essenzialmente per le materie e submaterie che possono transi-tare dalla potestà legislativa esclusiva dello Stato (quindi la giustizia di pace, le norme generali sull’istruzione, la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali) alla competenza regionale, cosicché viene da chiedersi se il passaggio possa conoscere delle gradualità o debba necessariamente avvenire attraverso l’espansione della potestà legisla-tiva generale-residuale delle Regioni. Più convincente la tesi di una gradualità, che per-mette di meglio tutelare tanto la valorizzazione dell’autonomia quanto le esigenze di uni-tà ed uniformità, evidentemente presenti in ambiti assegnati ordinariamente alla potestà esclusiva dello Stato.

124 Certo l’autonomia così attribuita non potrebbe andare al di là di quella riconosciu-ta nel caso della potestà legislativa esclusiva. Non sembra peraltro esistano ragioni forma-li tali da escludere la possibilità di fare ricorso anche a modelli diversi di legislazione, quale, ad esempio, quello della concorrenza “alla tedesca”.

VERSO UN NUOVO MODELLO DI UNIFORMITÀ: PROFILI GENERALI 223

trova anzi avallo nella terminologia utilizzata dal legislatore costituzio-nale nel riferirsi a questa “ulteriore” forma di autonomia, soggetta a “condizioni particolari”, il dubbio sul modello di differenziazione prefi-gurabile nelle materie menzionate o richiamate dall’art. 116 resta aper-to. Si tratterà, allora, di una apertura a spazi di differenziazione che non ha i soli caratteri dell’eventualità e consensualità, ma anche dell’atipicità delle fonti che produce

125. Quindi, pur mantenendo la distinzione fondamentale tra Regioni or-

dinarie e Regioni speciali – che rimangono garantite dagli statuti di au-tonomia approvati con legge costituzionale – attraverso la previsione ora esaminata, si determina la possibilità, inizialmente per le Regioni ordi-narie più avanzate nel processo di realizzazione dell’autonomia o che presentano maggiori capacità di governo, successivamente per le altre, di “differenziarsi”. Il modello appare in effetti simile a quello iberico, in quanto in questa asimmetria possono rilevarsi sia caratteri non deroga-tori, sia un carattere di processo, verso una sorta di uniformità di livello superiore

126. Il rischio di una tendenziale uniformità, insita in ultima istanza nel

modello dell’asimmetria spagnola, giustifica probabilmente le resistenze da parte delle cinque Regioni ad autonomia differenziata ad abbandona-re la loro specialità: ciò non di meno, queste resistenze avrebbero pro-babilmente dovuto essere superate, nel riconoscimento della differen-ziazione non più come “eccezione”, ma come “regola”

127. Vero è che un sistema nel quale la differenziazione delle forme e degli

oggetti dell’autonomia regionale divengono variabili in misura crescente, il ruolo dello Stato diviene di complessa definizione: da qui la implicita am-

125 Il che pone problemi non irrilevanti in ordine al sistema delle fonti, laddove si ri-tenga possibile creare fonti di rango legislativo diverse ed ulteriori rispetto a quelle previ-ste dalla Costituzione, seppure attraverso un meccanismo espressamente previsto dalla stessa Carta fondamentale.

126 L’eterogeneità delle parti che compongono il sistema, pure attenuato rispetto alle potenzialità insite nel modello, frutto in primo luogo del principio dispositivo, favorisce inoltre un rapporto bilaterale con lo Stato che, in certe condizioni politiche, favorisce l’accrescimento dell’autonomia di singoli soggetti e la conseguente richiesta diffusa di au-tonomia (verso una omogeneità di livello superiore): «nel non aver stabilito una volta per tutte, un limite chiaro a queste rivendicazioni, risiede, a mio parere, la maggiore debolez-za del modello spagnolo […]. Se ci sono leggi politiche che […] “legano le mani alla virtù e sciolgono quelle del vizio”, ebbene, per ciò che si riferisce al vizio di chiedere, la Costi-tuzione spagnola è una di queste» (così J.J. GONZÀLES ENCINAR, Lo Stato federale “asim-metrico”: il caso spagnolo, cit., 76).

127 Se non anche nella constatazione della cessata ragion d’essere di gran parte dei mo-tivi che avevano giustificato la posizione di “privilegio” di questi enti e di questi territori (contra però v. F. PALERMO, Il regionalismo differenziato, cit., 54).

LO STATO DIFFERENZIATO 224

missione della differenziazione asimmetrica come processo incrementale dell’autonomia non di alcuni soggetti, ma di tutto il sistema autonomico. Un percorso, quindi, di differenziazione che può determinare una omoge-neizzazione verso l’alto: un “circolo virtuoso dell’autonomia”, secondo al-cuni 128, un processo non esente da rischi, secondo altri. Di nuovo, come è norma di fronte alle dinamiche della differenziazione, non già un sistema suscettibile di connotazioni valoriali in termini assoluti: è dall’esame degli oggetti cui si riferisce, dall’analisi delle garanzie anche procedurali che l’accompagnano, dalla presenza o meno di meccanismi dell’uniformità ne-gli spazi così demandati ad alcune autonomie, che può ricavarsi una valu-tazione in ordine alla compatibilità sistemica di un simile modello.

È sotto questa angolazione che alcuni nodi problematici sembrano sciogliersi.

La predeterminazine quantitativa delle funzioni in esame, ma soprat-tutto le garanzie procedurali previste, consentono di ridurre (se non scon-giurare) il rischio, paventato in Spagna, che la spinta autonomistica si tramuti, attraverso la differenziazione dei percorsi (e delle velocità), in una sorta di “gioco della gallina”

129.

5. Note ai margini dei progetti di “riforma della riforma”

Per completare l’analisi risulta opportuna una breve riflessione sui progetti di riforma della riforma. Riflessioni che, data l’evoluzione della posizione della maggioranza di governo in materia, non può che muove-re dall’ultimo progetto di riforma costituzionale, frutto della rielabora-zione della c.d. “Bozza di Lorenzago”

130.

128 Così L. ANTONINI, Il regionalismo italiano nella prospettiva della differenziazione, cit., 327; ID., Il regionalismo differenziato, cit., 188.

129 Nella teoria dei giochi, si indica così la situazione per la quale un giocatore tende sempre ad arrivare più in là dell’altro, perché in caso contrario verrebbe disprezzato: la rappresentazione più nota è la corsa di macchine nel film Gioventù bruciata (Rebel wi-thout a cause, USA, 1955) di Nicholas Ray. Come riscontrato nell’esperienza spagnola, «l’asimmetria ha una sgradevole conseguenza che consiste nella permanente tendenza all’eguagliamento», ciò determina una nuova domanda di autonomia, che a sua volta ne produce altre: «[t]utto ciò può dar luogo ad un fenomeno pericoloso […] che consiste nel non fermarsi fin quando non si arriva ai limiti della scarpata» (così J. GARCÌA MORILLO, Autonomia, asimmetria e principio di eguaglianza, cit., 118). Non dissimilmente il rischio insito nel modello è paventato da J.J. GONZÀLES ENCINAR, Lo Stato federale asimmetrico: il caso spagnolo, cit., 75 ss.

130 I progetti di riforma in senso (ulteriormente) federale vengono a confluire nel-l’ambito di un più ampio progetto riformatore a partire dalla c.d. “Bozza di Lorenzago”

VERSO UN NUOVO MODELLO DI UNIFORMITÀ: PROFILI GENERALI 225

Il disegno di legge costituzionale che ne è scaturito è però, per la par-te che qui interessa, strettamente legato alle precedenti ipotesi riforma-trici, dal momento che inserisce (modificandoli in parte) in un quadro più ampio i contenuti già emersi prima nel progetto di c.d. devolution (approvato in prima lettura al Senato ed alla Camera) e nel successivo disegno di legge costituzionale presentato dal Governo.

Meriterebbe forse una riflessione la “pulsazione” del progetto rifor-matore che attraversa la XIV legislatura: prima inserita nel quadro di un progetto riformatore più ampio

131, progressivamente ridotta alla sola modifica ed integrazione dell’art. 117, la devolution riprende progressi-vamente spessore ed ampiezza di prospettive di intervento (prima attra-verso il disegno di legge governativo del 11 aprile 2003

132, poi attraverso la Bozza di Lorenzago ed il successivo disegno di legge costituzionale, A.S. 2544

133, approvato in prima lettura dal Senato il 25 marzo 2004). Quale che sia l’esito di tali progetti, questi sono comunque espressio-

ne di un’ulteriore evoluzione politica e culturale del nostro sistema, co-sicché confrontarci con questi può fornirci elementi utili ad affrontare, se vi saranno, le ulteriori evoluzioni in senso federalista del nostro ordi-namento.

Per quello che qui interessa, il modello fondamentale su cui siamo chiamati a riflettere non appare, pure nelle sue diverse formulazioni, stravolto rispetto a quello già contenuto nel disegno di legge di revisione costituzionale sulla c.d. devolution

134 (Modifiche dell’art. 117 della Costi-

(recante “Schema di disegno di legge costituzionale concernente il Senato federale della Re-pubblica, la composizione della Corte costituzionale, la forma di governo e modificazione degli articoli 104, 117, 127 e 138 della Costituzione”), redatta da esponenti (i c.d. “saggi”) delle diverse forze politiche della maggioranza nell’agosto del 2003 (pubblicato dal Sole 24 ore del 30 agosto 2003, il documento è reperibile anche in www.federalismi.it).

131 In merito si vedano le riflessioni critiche di L. VANDELLI, Devolution e altre storie, cit., 31 ss. 132 In ordine al quale v. l’editoriale di R. TOSI in Regioni, 2003, 547, che parla di un di-

segno di legge «confezionato come una sorta di matrioska» poiché il progetto nasconde al suo interno la c.d. devolution. Analoga considerazione può farsi ora, alla luce del recente schema di disegno di legge che, a sua volta, nasconde ricomprendendolo il precedente.

133 Per un commento a questo progetto (e più in generale alla continua tensione verso “grandi riforme costituzionali”) si veda M. CAMMELLI, Quando il “mito” è necessario: a proposito di riforme costituzionali, di prossima pubblicazione in Il Mulino, 2004, sin d’ora in www.astrid-online.it.

134 Termine che viene usualmente utilizzato in alternativa ad altre nozioni italiane, sulla scorta dell’utilizzo fattone dalla Lega Nord (con evocazione, prima che richiamo, del sistema britannico, dove devolution, termine derivato da devolved matters (questioni devo-lute) «fu ed è usato con riferimento al processo autonomistico che ha coinvolto la Scozia ed il Galles nella seconda metà degli anni ‘90, approdando alle due leggi (lo Scotland Act e il Government of Wales Act) che hanno istituito Assemblee legislative sia per la Scozia che per il Galles»: così L. VANDELLI, Devolution e altre storie, cit., 11). Tale scelta terminologi-ca è tanto evocativa quanto impropria, e quindi sembra doversi ricondurre, come segnala

LO STATO DIFFERENZIATO 226

tuzione, A.S. 1187) 135. Approvato in prima lettura al Senato ed alla Ca-

mera 136, oggetto di un dibattito politico e culturale significativamente

intenso, il disegno di legge sulla c.d. devolution si inseriva come un cor-po estraneo nel quadro del già complesso disegno “federalista” del Titolo V. Senza affrontare le problematiche di metodo (giuridico, quasi tecni-co-legislativo, prima che politico), è dunque necessario misurarci con il “merito” di questo progetto di riforma.

Il progetto mirava ad introdurre un comma aggiuntivo, in calce al comma 4° dell’art. 117

137: tra la proposta iniziale (dell’8 luglio 2001) e quella, intermedia, del 21 novembre 2001, mutava la portata innovativa della riforma, senza che ne diminuisse il suo potenziale, sostanzialmente ininfluente per alcuni, dirompente ed a-sistemico per altri

138. Rispetto ad un sistema istituzionale già indebolito ed in sofferta transi-

zione, seppure pervicace nel minimizzare, ignorare, quasi rimuovere, la portata della riforma del Titolo V, il progetto sulla devolution, pur nelle

M. CAMMELLI (per il quale «perché questa proposta sia passata nel linguaggio dei prota-gonisti e dei media sotto il termine di devolution è del tutto incomprensibile essendo tale nozione, sul piano tecnico, autonoma dal federalismo (che nel caso nostro si persegue) e associata invece ad una naturale reversibilità dei poteri decentrati (qui del tutto esclusa)»: ID., Un grande caos chiamato Devolution, in Il Mulino, 2003, 87), ad una scelta di comuni-cazione piuttosto che ad una scelta di modelli e contenuti

135 La proposta iniziale toccava tre temi diversi (cosa criticata da parte della dottrina: cfr., S. Bartole, A. Pace e Sorrentino, in un commento uscito ne La Stampa del 18 luglio 2001): immunità dei parlamentari e dei consiglieri regionali, con modifica degli artt. 68 e 122 Cost.; potestà legislativa regionale, con modifica dell’art. 117 Cost.; composizione del-la Corte costituzionale, con modifica dell’art. 135 Cost. (oltre ad una disposizione transi-toria relativa sempre alla composizione del giudice costituzionale): successivamente si è ridotto alla sola modifica dell’art. 117 Cost.

136 Il progetto di legge sulla devolution (AS 1187) è stato approvato dal Senato, in pri-ma lettura, il 5 dicembre 2002 e, passato in discussione alla Camera con il numero 3461, è stato approvato anche dal consesso di Montecitorio.

137 Ciascuna Regione potrà, se lo riterrà politicamente opportuno e finanziariamente e amministrativamente sostenibile, esercitare una competenza legislativa esclusiva su assi-stenza e organizzazione sanitaria; organizzazione scolastica, gestione degli istituti scola-stici e di formazione; definizione dei programmi scolastici e formativi di interesse speci-fico della Regione; pubblica sicurezza di interesse locale: per un primo commento v. G. PITRUZZELLA, Il regionalismo differenziato del “progetto Bossi”, in AIC (www.associazione deicostituzionalisti.it).

138 Entrambe le opzioni sono ben rappresentate da L. VANDELLI, Devolution e altre sto-rie, cit., 121 ss.; in merito si vedano, inoltre, le riflessioni di G. FALCON, Nuova devolution, unità della Repubblica, riforma della riforma del Titolo V, realtà effettiva, in Dir. pubbl., 2002, 751 ss. e, con una accurata analisi delle conseguenze del progetto di riforma nei settori coinvolti, G. GARDINI, Verso la devolution: scenari e prospettive di una riforma non necessaria, Relazione svolta nel corso dell’Audizione alla I Commissione affari costituzionali della Camera, 11 febbraio 2003 (già in www.astrid-online.it, ora, parzialmente rivista, in Regioni, 2003, 473 ss.) e, sinteticamente l’editoriale di S. BARTOLE, Devolution o federali-smo? o soltanto regionalismo?, in Regioni, 2002, 1233 ss.

VERSO UN NUOVO MODELLO DI UNIFORMITÀ: PROFILI GENERALI 227

sue diverse riproposizioni ed anche a fronte di alcuni cambiamenti, intro-duce ulteriori prospettive di differenziazione, normativa ed amministrati-va, capaci di incidere non tanto sull’uniformità nel godimento di diritti fondamentali quali quelli alla salute, all’istruzione, alla sicurezza, quanto sul mantenimento di una maglia unitaria di tutela di questi diritti 139.

È l’unità, prima che l’uniformità, già ridimensionata in questi ambiti materiali

140, a poter risentire maggiormente della riforma. Il progetto (nascosto nei successivi disegni di legge costituzionale di

più ampia portata, parzialmente modificato ma sostanzialmente stabile nella sua impostazione fondamentale) sembra prefigurare nuovi percorsi di differenziazione, pure di difficile ricostruzione. Percorsi, peraltro, an-ch’essi inevitabilmente soggetti al contemperamento operato dai diversi meccanismi dell’uniformità che la riforma del Titolo V ha previsto

141. Il progetto affida all’iniziativa delle Regioni la scelta

142 in ordine al-l’espansione della propria autonomia

143, secondo un modello che ha però

139 Diversamente, riscontra S. MANGIAMELI (La riforma del tit. V, II parte della Costituzione. Federalismo e riforme costituzionali: lo stato dell’arte, in Forum Quad. cost. (www.mulino.it), «[è] chiaro che nella proposta di devolution è insita una nota polemica, rispetto al modo in cui storicamente il regionalismo si è realizzato, atteso che due delle tre materie rivendicate sono sicuramente regionali dal 1947, e cioè: la sanità e la polizia di sicurezza d’interesse locale, che secondo una accorta interpretazione storico-normativa deve ritenersi ricompresa nella voce polizia locale urbana e rurale».

140 Nessuno degli ambiti coinvolti dalla c.d. devolution è in realtà estraneo ai processi di apertura alla differenziazione che connotano il Titolo V: può costituirne eccezione la “materia” polizia locale ove la si intenda come cosa diversa dalla “polizia amministrativa locale” (peraltro, in ogni caso, comunque strettamente condizionata dalla competenza statale sulla sicurezza e l’ordine pubblico di cui all’art. 117, comma 2°, lett. h). Per un’ana-lisi dei riflessi del progetto di riforma sui “settori” coinvolti, cfr. G. GARDINI, Verso la de-volution: scenari e prospettive di una riforma non necessaria, cit., 483 ss.

141 È l’approccio di chi ritiene, non senza ragioni formali, che l’aggettivazione esclusiva riferita alla potestà legislativa regionale del progettato nuovo comma 4° dell’art. 117 ne comporti l’impermeabilità ai condizionamenti esercitabili dallo Stato attraverso l’eser-cizio delle proprie competenze esclusive trasversali (livelli essenziali, in primis).

142 Da un lato l’indicativo presente comporta, a livello normativo, la doverosità del comportamento, dall’altro il verbo attivare indica un’azione che, come emerge dalla lettu-ra del progetto, appare esclusivamente della Regione e non aver bisogno di disposizioni attuative statali (cfr. G. FALCON, Nuova devolution, unità della Repubblica, cit., 753-754).

143 Un problema ulteriore è dato dalla doverosità, o meno, di questa scelta: viene, in altri termini, da chiedersi se questa attivazione debba considerarsi una facoltà (che, come detto, sembra la conclusione più verosimile) o un potere-dovere per le Regioni. Certo il carattere facoltativo di questa scelta prefigura non pochi problemi di tenuta del sistema («si potrebbe configurare una situazione territorialmente disomogenea, a geometria variabile, in cui al-cune regioni attivano le proprie competenze esclusive su aspetti della sanità, istruzione e polizia locale, e altre invece si astengono dal farlo, continuando a rimanere sottoposte ai principi della legislazione statale in materia. Tutto ciò, con evidenti ricadute negative sulla certezza del diritto da applicare territorialmente»: così G. GARDINI (Audizione, nel corso dell’Indagine conoscitiva della I Commissione della Camera sul progetto di riforma c.d. de-

LO STATO DIFFERENZIATO 228

ben poche affinità con il meccanismo dispositivo. Il termine utilizzato (attivano), giuridicamente atecnico, non sembra casuale, ma vuole ri-chiamare il fenomeno, del tutto particolare, di una auto-attribuzione competenziale da parte delle stesse Regioni.

Il che pone un duplice ordine di problematiche, se letto in una chiave sistemica.

La prima: la previsione di percorsi differenziati (se attivarli, quando attivarli, come attivarli), dipendenti dalla sola volontà dei singoli enti re-gionali, travalica la stessa clausola di asimmetria (concertata) dell’art. 116

144. Si pone, anzi, in contrasto con tale previsione, posto che questo secondo modello sembra idoneo a pregiudicare l’avvio del regionalismo differenziato, dal momento che renderebbe ancora più difficile gestire la procedura prevista nell’art. 116

145. Tale inconciliabilità trova anzi con-ferma nelle ultime formulazioni del progetto che prevedono il venir me-no del meccanismo dell’art. 116, comma 3

146. La seconda: il progressivo smantellamento dei sistemi nazionali della

sanità, dell’istruzione e della sicurezza, attraverso operazioni di “stral-cio” su base regionale non suscettibili di valutazione da parte dello Sta-to, garante, ultimo ma disarmato, dell’unità dell’ordinamento.

Il carattere espressamente esclusivo delle competenze coinvolte nel-

volution, 11 febbraio 2003, in www.camera.it). Alcune dichiarazioni del ministro per le ri-forme istituzionali e la devoluzione fanno propendere per l’obbligatorietà del sistema, ma in assenza di agganci formali (e, come ci ricorda G. FALCON Nuova devolution, unità della Re-pubblica, cit., 752, al di là del dibattito politico il testo del nuovo quinto comma dell’art. 117 va «inteso per ciò che dice») sembra inevitabile ritenere che ci si trovi di fronte ad una scel-ta rimessa alle Regioni, scevra da vincoli riferiti all’an od al quando.

144 Cfr. B. CARAVITA, La riforma del tit. V, II parte della Costituzione Quale regime per l’introduzione delle autonomie differenziate?, in www.federalismi.it.: «la proposta in com-mento, pur ricalcando l’idea delle autonomie differenziate contenuta nel testo dell’ar-ticolo 116 u.c. […], permette l’attivazione immediata di tale autonomia senza necessità di dover far ricorso al macchinoso meccanismo [ivi] contemplato». Meccanismo che, peral-tro, permetteva l’emersione (in sede procedurale) delle esigenze di uniformità evidenti in materie affidate alla potestà legislativa concorrente se non addirittura a quella esclusiva dello Stato («la garanzia statale di uniformità minima, altrimenti curata dalla legge di principio, viene [nel caso della differenziazione dell’art. 116, comma 3°] infatti assorbita in questo caso dall’imprescindibilità del consenso statale alla “legge di differenziazione”»: così F. PALERMO, Il regionalismo differenziato, cit., 54).

145 Di nuovo, per B. CARAVITA (ult. op. cit.): «saremmo di fronte ad un avanzamento complessivo delle competenze del sistema regionale, che non risolve però il nodo delle (possibili) diverse velocità tra le Regioni».

146 Il disegno di legge costituzionale frutto della c.d. “Bozza di Lorenzago” prevede la soppressione del meccanismo di asimmetria convenzionale dell’art. 116, comma 3°, rite-nuto lesivo dell’autonomia regionale poiché in grado di generare una differenziazione so-lo in parte autonoma tra le diverse Regioni (dal momento che l’accesso alle particolari forme di autonomia qui previste è subordinata al consenso dello Stato).

VERSO UN NUOVO MODELLO DI UNIFORMITÀ: PROFILI GENERALI 229

la devolution, prefigurerebbe inoltre, secondo i più attenti critici, l’affer-mazione di un ulteriore modello di legislazione: un tertium genus della legislazione regionale, a fianco di quella concorrente

147 (comma 3°) e “generale-residuale” (comma 4°)

148. Un rischio grave, ma un timore forse eccessivo: ricavare dalla dizione del progettato comma 4 bis dell’art. 117 la conseguenza che, per tali materie, venga meno ogni meccanismo del-l’uniformità

149 appare inconciliabile con i principi fondamentali, irrive-dibili, della nostra Carta repubblicana

150. È possibile, per il legislatore costituzionale, rileggere, mutando l’orga-

nizzazione chiamata a tradurle, l’uguaglianza e la stessa unità. Non è però possibile, neppure per il legislatore costituzionale, pregiudicare l’unità e l’uguaglianza dei cittadini. Non lo sarebbe con dizioni più chiare

151 di quella contenuta nel progetto di devolution, non sembra poterlo essere at-traverso una disposizione che si presta anche ad altre, costituzionalmente compatibili, letture

152.

147 La potestà legislativa concorrente, impregiudicata nel progetto di devolution votato dal Senato e dalla Camera, sembrava destinata a venire meno alla luce del disegno di leg-ge governativo di “riforma della riforma” dell’11 aprile 2003 (che ripartiva le materie con-correnti tra Stato e Regioni): nel più recente schema di disegno di legge costituzionale di tale progetto di (ritenuta) semplificazione v’è traccia. Vero è che, come efficacemente evi-denziato in più occasioni da L. VANDELLI, quello della presunta conflittualità generata dalle materie concorrenti è un falso problema (da ultimo, v. ID., Miti e realtà dei conflitti fra Stato e Regioni, in www.astrid-online.it, settembre 2003).

148 Si tratta di una distinzione, tra potestà legislativa “generale e residuale” (impropria-mente, a questo punto, detta “esclusiva”) e competenze attivate ed esclusive (realmente tali), tanto sottile, quanto pericolosa, ma anche velleitaria, posto che l’aggettivo esclusiva, già uti-lizzato per la maggiore potestà legislativa delle Regioni speciali, non è stata affatto esclusiva.

149 In tal senso v. le riflessioni di G. GARDINI (nella citata Audizione): «tenere distinte la competenza generale e residuale da quella esclusiva porterebbe inesorabilmente a inter-pretare quest’ultima come competenza che non è tenuta a rispettare quella esclusiva sta-tale, ossia che non è soggetta al potere unificante riservato in via esclusiva dello Stato per rispondere a determinate esigenze di carattere generale. E ciò non è possibile, a meno di voler mettere in discussione la tenuta dell’unità dell’ordinamento e la sopravvivenza del-l’articolo 5 della Costituzione, che di tale unità rappresenta la sintesi più alta».

150 Detto questo, sembra inevitabile affermare che la dizione “esclusiva” abbia caratte-re, se non pleonastico, comunque limitata al fatto di dare carattere di nominatività ad oggetti ricadenti in una competenza (quella residuale) innominata. Una differenza limita-ta, ma non per questo irrilevante (come evidenzia G. FALCON, Nuova devolution, unità della Repubblica, cit., 759).

151 Il testo del progetto sulla c.d. devolution si segnala, pur nella sua brevità, per la confu-sione che, tantopiù inserendosi nell’ambito del non sempre chiaro riformato Titolo V, è in grado di generare nell’interprete: in tal senso v. le riflessioni di G.U. RESCIGNO, che evidenzia, sia con riferimento al novellato Titolo V che al progetto di devolution, le «enormi ambiguità presenti in questi testi» (ID., Audizione, nel corso dell’Indagine conoscitiva della I Commissione della Comera sul progetto di riforma c.d. devolution, 29 gennaio, in www.camera.it).

152 Nega, con una articolata ricostruzione, il carattere di “reale esclusività” di tale po-

LO STATO DIFFERENZIATO 230

La competenza sui livelli essenziali delle prestazioni resta, in questa chiave, in grado di sviluppare la propria azione anche entro queste “mate-rie”; ma, ancora, queste stesse competenze troveranno limite anche, nelle diverse circostanze, nella competenza statale sull’ordine pubblico e la si-curezza, nelle norme fondamentali sull’istruzione

153. Vero è che, pure così ridimensionata, è difficilmente affermabile la

sostenibilità “sistemica” di un progetto volutamente “a-sistemico”. Se in-seriamo, poi, questo progetto nel quadro già articolato del Titolo V, ne emerge uno scenario dove il caos, prima che la differenziazione, sembra prevalere: Regioni ordinarie, Regioni speciali, Regioni che attivano le proprie competenze, sono chiamate a coesistere al fianco di uno Stato “sezione stralcio”, che anziché praticare la differenziazione a livello di amministrazioni locali la subisce a livello di sistema centrale.

Né meno articolato appare il sistema delle competenze legislative, tutte chiamate ad insistere sulla medesima materia: dal momento che il progetto “ritaglia” alcuni sottoinsiemi materiali più estesi, ne deriva la convivenza, sullo stesso ambito, di competenze diverse. Ciò ricorre già (non senza problemi) nel vigente Titolo V, ma acquista con il progetto in esame tratti paradossali: così la materia istruzione viene in modi diversi affidata alla competenza esclusiva dello Stato, concorrente, residuale ed esclusiva regionale

154. Attraverso un espansione “a scatole cinesi”, la devolution si inserisce

in un progetto riformatore di più ampio respiro: la spinta alla differen-ziazione insita nel progetto di devolution unita alle esigenze di rimodu-lazione e completamento della riforma del Titolo V sollevate, a torto o ragione, a livello politico e dottrinale, hanno spinto il Governo prima al-

testà legislativa regionale, G. FALCON, Nuova devolution, unità della Repubblica, cit.: in particolare appare conclusiva la riflessione sul fatto che la stessa potestà legislativa “esclu-siva” dello Stato non è realmente tale, se con esclusività si vuole intendere la non assog-gettabilità ad alcun vincolo derivante da altre fonti di rango legislativo (cfr. ivi, spec. 755 e, in tal senso Corte cost., sent. n. 407 del 2002).

153 In ordine a questo meccanismo, le previsioni del progetto di devolution, sembrano in grado di sviluppare effetti del tutto particolari in materia sanitaria: sinora il legislatore statale ha previsto, come vero e proprio metodo, vincoli nell’organizzazione del servizio sanitario. Il prospettato comma 4-bis andrebbe allora ad impedire allo Stato, nell’eserci-zio della propria potestà legislativa esclusiva, ed in particolare nella determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, di intaccare il livello organizzativo: in tal senso l’inter-vento di G. CARPANI al convegno di Genova (24 febbraio 2003) La Sanità italiana tra livelli essenziali di assistenza, tutela della salute e progetto di devolution.

154 La complessità appariva ancora maggiore ai sensi del progetto approvato in prima lettura dalla Camera, dove il mantenimento della clausola di asimmetria dell’art. 116, comma 3° rendeva l’assetto competenziale in materia di istruzione ulteriormente (e po-tenzialmente) caotico. In tal senso v. G.U. RESCIGNO, nella citata Audizione).

VERSO UN NUOVO MODELLO DI UNIFORMITÀ: PROFILI GENERALI 231

la presentazione di un disegno di legge costituzionale mirante a rimo-dulare la riforma del sistema operata dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 155, poi a presentare un progetto di portata più ampia, nel quale tro-vano ora spazio il Senato (c.d.) federale 156, la riforma della Corte costi-tuzionale, il “premierato”.

Il progetto di riforma risulta di un certo interesse, ai fini della nostra riflessione, soprattutto per l’ambivalenza che lo caratterizza: la passion d’uniformité, retaggio di una società alla quale risulta difficile “prendere sul serio” il (c.d.) federalismo, sembra, infatti, a ben vedere, non assente nel progetto, che seppure tra forti ambiguità appare in grado di reintro-durre nel sistema “in devoluzione” una dimensione (latamente e poten-zialmente) gerarchica da ritenersi abbandonata dal riformato sistema autonomistico. Questo è espressione di una tensione che, peraltro, non trova in questo progetto la sua prima manifestazione, essendosi già tra-dotta in un processo di rimozione a livello ordinario della recente rifor-ma costituzionale

157. Il percorso neo-uniformante, o di rioccupazione statale degli spazi

costituzionalmente affidati al legislatore regionale, passa attraverso in-terventi legislativi, oltre che in una capillare attivazione del contenzioso presso la Corte costituzionale

158; l’ipotesi di ulteriore riforma, attraverso un nuovo intervento sul testo costituzionale, non è che la più recente ed

155 Il progetto di “riforma della riforma” mirava a disarticolare il modello contenuto nel vigente Titolo V: eliminando, in primo luogo, l’intera categoria delle materie concor-renti (ora attribuendole in via esclusiva allo Stato, ora alle Regioni), presunte responsabili di una conflittualità che ha invece altri colpevoli: in particolare la problematica defini-zione delle singole “materie” (v., in questo senso, di nuovo, L. VANDELLI, Miti e realtà dei conflitti fra Stato e Regioni, cit.). Un approccio, questo, successivamente superato, che non appariva in grado di rispondere all’esigenza di rendere più flessibile il sistema, prefi-gurandone anzi un ulteriore irrigidimento.

156 Quasi un luogo comune nelle riflessioni (e critiche) al modello emerso dalla rifor-ma del Titolo V. Vero è che non solo manca una Camera delle Regioni, ma, come gia ac-cennato, il testo costituzionale è assolutamente carente nella previsione di sedi di concer-tazione e cooperazione (e di flessibilità): cfr., tra gli altri, F. MERLONI, La leale collabo-razione nella Repubblica delle autonomie, cit., spec. 845 ss.

157 Rimozione che ha numerose manifestazioni. Ci sia consentito rinviare alla ricca casistica che emerge dalla documentazione della REGIONE EMILIA ROMAGNA (Quadro ri-cognitivo, cit.). Un caso di particolare evidenza è quello della disciplina dell’installazione di stazioni radio-base del d.lgs. n. 198 del 2002 (tema su cui, peraltro, si è ormai pronun-ciata la Corte con le note sentt. n. 303, 307 e 308 del 2003), ma gli esempi possono essere molteplici.

158 Come evidenziato da L. VANDELLI (in veste di rappresentante della Conferenza dei Presidenti delle Regioni, nell’Audizione nel corso dell’Indagine conoscitiva sui provvedi-menti in itinere di attuazione e di revisione del Titolo V della Parte II della costituzione, I Commissione del Senato, 26 settembre 2002).

LO STATO DIFFERENZIATO 232

incisiva risposta ad una differenziazione in realtà mai pienamente accet-tata da un ordinamento a forte, tradizionale, uniformità. Il principio di uniformità opera, nel progetto di riforma, attraverso la ridefinizione del-l’area della differenziazione: ne discende la previsione di una sfera (di-chiaratamente esclusiva) suscettibile di una diversificazione autonoma particolarmente forte, ma limitata quanto ad oggetti; ne discende però anche l’amplificazione dei meccanismi dell’uniformità negli spazi pure affidati al sistema delle autonomie, attraverso la reviviscenza del limite dell’interesse nazionale

159. In questa prospettiva, è lo stesso modello generale che appare destina-

to a mutare, seguendo direttrici peraltro disomogenee: mentre la potestà legislativa regionale sembra destinata a trasfigurarsi, ed esaltarsi quanto a prospettive di differenziazione, ereditando dal progetto di devolution tratti di esclusività pure di problematica definizione, ritrova spazio nel sistema il limite dell’interesse nazionale

160 (della Repubblica) 161.

159 Il progetto di riforma opera anche attraverso la previsione di una riscrittura del comma 3° dell’art. 114 (art. 32 A.S. 2544) del progetto: Capitale della Repubblica federale) e la conseguente previsione di “forme e condizioni particolari di autonomia, anche norma-tiva, nelle materie di competenza regionale” per Roma, “nei limiti e con le modalità stabi-liti dallo Statuto della Regione Lazio”. Francamente appare difficilmente comprensibile una previsione che, dopo aver individuato nell’essere Capitale della Repubblica il fatto differenziale di rilievo costituzionale ne affida la conseguente disciplina eteronoma e dif-ferenziata allo statuto di una Regione. Vero è che una diversa scelta avrebbe forse condot-to al distacco di Roma capitale dalla Regione Lazio, con conseguente necessità di un ridi-segno complessivo della geografia amministrativa del Lazio e, quindi, delle Regioni con-finanti.

160 Il limite dell’interesse nazionale compare già nel disegno di legge dell’11 aprile 2003, ma risulta procedimentalizzato a partire dalla “Bozza di Lorenzago.

161 Tale limite compare nell’art. 34 del disegno di legge costituzionale, ed è affidato al-l’iniziativa del Governo, che può sollevare questione di merito costituzionale presso il Se-nato federale della Repubblica laddove ritenga che una legge regionale “pregiudichi l’in-teresse nazionale della Repubblica”. A maggioranza assoluta il Senato decide sulla que-stione e può rinviare la legge alla Regione, che può rimuovere la causa del pregiudizio. Laddove non lo faccia, il Senato, sempre a maggioranza assoluta, può proporre al Presi-dente della Repubblica (che può farlo o meno, ed in ogni caso diviene giudice del merito costituzionale) di annullare (in tutto o in parte) la legge regionale.

CAPITOLO OTTAVO

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA

SOMMARIO: 1. Sfere di uniformità e di differenziazione normativa. – 2. La sfera dell’uni-formità “spessa” (o di regolazione). – 2.1. L’uniformità nella regolazione comunitaria. Il modello comunitario dell’uniformità come riferimento per il nuovo ordine. – 2.2. L’uniformità “spessa” del secondo comma dell’art. 117. – 3. La sfera dell’uniformità “sottile” (o di principio). – 3.1. La difficile compatibilità di un modello e le tensioni verso la sua rilettura. – 4. Gli ambiti ad uniformità costituzionalmente garantita. – 4.1. Le materie ed i diritti: brevi riflessioni sui diritti costituzionali tra universalità e diffe-renziazione territoriale. – 4.2. Diritti sociali e diritti civili nella differenziazione autonomica: profili applicativi. – 5. L’uniformità di base nel godimento dei diritti. Il ruolo dei “livelli essenziali” per la costruzione di un nuovo modello di uniformità. – 6. I meccanismi dell’uniformità nel federalismo fiscale: note introduttive. – 7. La sfera della differenziazione su base regionale. – 7.1. Potestà legislativa regionale “generale e residuale” ed ampiezza (e limiti) della differenziazione autonomica.

1. Sfere di uniformità e di differenziazione normativa

Il più rilevante cambiamento di prospettiva cui ci costringe la riforma è dato dalla necessità, che ora abbiamo, di individuare non più gli spazi (sfere) della differenziazione, ma quelli dell’uniformità: la differenzia-zione diviene criterio generale e residuale di interpretazione del nuovo ordine, ed all’uniformità residua una sfera che è definita dallo stesso le-gislatore costituzionale

1. È un cambiamento di prospettiva e di metodo

1 Senza, per questo, trascurare la rilevanza e la latitudine delle materie affidate alla competenza statale (per tutti, in tal senso, v. da ultimo, A. RUGGERI, Riforma del Titolo V e vizi delle leggi regionali cit.). È forte, anzi, la consapevolezza dell’ampiezza di questi ambiti, come è prevedibile l’uso (penetrante) che il legislatore statale ne farà (e già ne sta facendo: in tal senso è illuminante la lettura del Quadro ricognitivo del contenzioso costituzionale promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nei confronti di leggi regionali emanate in attuazione della riforma del Titolo V della Costituzione, Documento per la Conferenza, predi-sposto dalla Regione Emilia Romagna, del 26 settembre 2002, in www.federalismi.it) o po-trà farne (e qui tutto sta alla giurisprudenza della Corte: una ricognizione delle prime indi-cazioni emerse, è fatta da A. ANZON, Il difficile avvio della giurisprudenza costituzionale cit.).

LO STATO DIFFERENZIATO 234

nell’analisi dei fenomeni: non più la ricerca di ciò che è differente, ma la ricerca di ciò che è uniforme. Eppure, nel nuovo modello (differenziato) il principio di uniformità si manifesta in una molteplicità di forme: ma sono forme diverse da quelle con le quali siamo abituati a confrontarci.

Il primo dato con il quale ci misuriamo è l’evidente scomposizione delle dimensioni amministrativa e normativa dell’uniformità (o della dif-ferenziazione, che è lo stesso). Nel continuum uniformità/ differenzia-zione, l’amministrazione (come organizzazione) diviene luogo della dif-ferenziazione

2; a livello normativo, altresì, la scelta del legislatore costi-tuzionale è meno netta, ed individua un equilibrio (pure, di complessa definizione) che, non senza rischi, mira a coniugare le ragioni dell’ugua-glianza con quelle dell’autonomia.

Il nuovo ordine circoscrive, dunque, gli spazi materiali entro i quali si esprime l’azione uniformante della legislazione nazionale

3, la quale per-de, insieme al suo carattere di superiorità

4, anche quello di generalità. La legge nazionale esprime la sua portata egalitaria (o differenziante sulla base di un parametro oggettivo, comune alla generalità dei feno-meni), solo entro spazi definiti, individuati dal secondo comma dell’art. 117 e, in misura qualitativamente diversa, dal terzo comma

5. La valutazione in ordine alla necessità di affidare determinate com-

2 Non senza resistenze e titubanze, come ci mostra la riproposizione, nella legge n. 131 del 2003, di (costituzionalmente poco convincenti) “requisiti minimi di uniformità” (locale, in ogni caso, e non anche regionale).

3 Se questo è vero, occorre anche rimarcare che, come noto, il legislatore costituziona-le ha sì di norma operato una ripartizione della competenza legislativa “per materie”, ma ha riconosciuto allo Stato competenza in ordine a “funzioni e compiti” che (non di rado) possono attraversare trasversalmente le diverse materie, risultandone quindi un limite, questa volta a favore dello Stato, alla competenza legislativa (o alla discrezionalità nel suo esercizio) regionale: una riflessione più articolata è imposta ora, come visto, dalle senten-ze della Corte costituzionale, nn. 303, 307 e 308 del 2003.

4 Per tutti, L. PALADIN, Le fonti del diritto italiano, cit., 336 et passim, per il quale il quadro del diritto costituzionale vivente «rende patetica la stessa idea che le leggi locali vadano pariordinate e parificate alle leggi statali. Chi ancora lo afferma, nella letteratura giuridica, dimostra di ignorare o trascurare – deliberatamente – quarant’anni di legisla-zione e di giurisprudenza»; sul nuovo rapporto tra le fonti alla luce del nuovo Titolo V, cfr. diffusamente G.U. RESCIGNO, Note per la costruzione, cit., 767 ss., che mostra atten-tamente la complessità dei rapporti tra fonti statali e regionali. In senso critico rispetto alla nostra affermazione v. R. TOSI, La legge costituzionale n.3 del 2001: note sparse in te-ma di potestà legislativa ed amministrativa, in Regioni, 2001, 1233 ss. (che esclude il carat-tere realmente esclusivo della potestà legislativa generale regionale).

5 Il che riflette gli spazi costituzionalmente definiti come “non frazionabili” (nozione che definiva il presupposto per l’attivabilità del limite dell’interesse nazionale nel previ-gente assetto; cfr. G. CAIA, Il problema del limite dell’interesse nazionale nel nuovo ordina-mento, in ASSOCIAZIONE ITALIANA DEI PROFESSORI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO, Annuario 2002, Milano, 2003, 501 ss.).

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 235

petenze allo Stato al fine di garantire le esigenze di uniformità ed unita-rietà è operata, «una volta per tutte e definitivamente»

6 dallo stesso legi-slatore costituzionale, senza che possa ritenersi affidata al legislatore ordinario

7. L’autonomia diviene, dunque, principio generale, soggetta a limiti espressi, ma non più vulnerabile ad opera di «non controllabili in-ferenze e deduzioni da concetti generali assunti a priori»

8. La circoscrizione dell’uniformità è il riflesso immediato dell’apertura,

qualitativa e quantitativa, all’autonomia, la quale, per sua natura, crea differenziazione, disuguaglianza

9. Con il riconoscimento reale, non con-dizionato, limitato, dell’autonomia, con lo smarrirsi del ruolo tutorio dello Stato, tradizionalmente manifestatosi in un esercizio pervasivo del-la funzione legislativa (sia in estensione

10 che in profondità) 11, in una

persistenza, fattuale se non formale, di una relazione di strumentalità, tra enti astrattamente autonomi ma, spesso più propriamente autarchi-ci, in un sistema di controlli tanto capillare quanto inefficace, viene me-no la struttura portante di un sistema che possiamo definire di autono-mia nell’uniformità

12. Il modello nel quale si era tradotto il principio di uniformità aveva

condotto, di fatto, ad una rilevante compressione delle ragioni dell’auto-nomia/differenza rispetto a quelle dell’unità/uguaglianza.

È nell’equiordinazione tra fonti statali e regionali, entrambe sottopo-ste ai comuni limiti della Costituzione, dell’ordinamento comunitario

13 e

6 In tal senso v. A. ANZON, Il difficile avvio della giurisprudenza costituzionale cit. 7 Come invece era, notoriamente, possibile nel precedente sistema. Ma, di nuovo, tale ri-

flessione deve essere riletta alla luce degli indirizzi che, in merito, sembrano emergere dalla più recente giurisprudenza costituzionale, che, a partire dalla sentenza n. 303 del 2003, con «bagliori di potere costituente» ha operato una rilettura di parti fondamentali del riformato Titolo V (secondo l’efficace, seppure per taluni eccessiva, espressione di A. MORRONE, La Corte costituzionale riscrive il Titolo V? in Forum Quad. cost. (www.mulino.it), ottobre 2003).

8 In questi termini Corte cost., sent. n. 313 del 2003. 9 In questo senso, cfr. G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V, cit., 1257 et

passim. 10 Cfr., tra gli altri, V. CRISAFULLI, La legge regionale nel sistema delle fonti, cit., 262 ss.,

per il quale non esistevano nell’ordinamento settori sottratti alla legislazione statale. 11 Così L. PALADIN, Le fonti del diritto italiano, cit., 336. Sul punto, da ultimo, cfr. L.

TORCHIA, La potestà legislativa residuale delle Regioni, cit., 345 ss. 12 V. F. TRIMARCHI BANFI, Il regionalismo e i modelli, cit., 255. 13 Sulla portata di questa previsione, che conferma l’assetto ordinamentale già deline-

ato attraverso l’interpretazione dell’art. 11 per opera della Corte costituzionale, v., più dif-fusamente, L. TORCHIA, I vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario nel nuovo Titolo V, in Regioni, 2001, 1204 ss.; G.U. RESCIGNO, Note per la costruzione, cit., 769 et passim; V. CAIANIELLO Audizione, in Indagine conoscitiva sugli effetti nell’ordinamento delle revisioni del Titolo V, cit.

LO STATO DIFFERENZIATO 236

dei vincoli derivanti dagli accordi internazionali, che si esprime, in pri-mo luogo, la portata innovativa della riforma

14. Sempre che una simile affermazione di principio riesca a radicarsi in un sistema che fatica ad abbandonare i vecchi retaggi

15. Il nuovo assetto costituzionale prefigura il superamento di un assetto

nel quale la legge statale era “metro” della funzione normativa e, quindi, il venir meno di una lettura gerarchica (per quanto soggetta a critiche

16 dei rapporti tra fonti pure astrattamente su un piano di parità. Non solo dalla relazione tra le fonti, connotata in senso gerarchico, discendeva la riduzione del potenziale differenziante insito nell’autonomia: la funzio-ne unificante della legislazione (e non solo di questa) dello Stato si fon-dava anche sulla sua estrema latitudine, tale che non esistevano settori dell’ordinamento riservati per intero alla legislazione regionale

17 e per-ciò sottratti alla legislazione statale

18. Un sistema, questo, che trovava nella Costituzione vivente un profon-

do radicamento: nell’applicazione ed interpretazione dei limiti previsti per le leggi regionali, prima ancora che nel dato testuale pure evidente-mente presente, si radicava il modello del regionalismo dell’uniformità. Il venire meno dei numerosi, previgenti, limiti formali (espressi)

19 sot-

14 Sul nuovo rapporto intercorrente tra fonti statali e regionali, v., per tutti, P. CARET-TI, L’assetto dei rapporti tra competenza legislativa statale e regionale alla luce del nuovo Ti-tolo V della Costituzione: aspetti problematici, in Regioni, 2001, 1223 ss.

15 Ravvisa i segnali della resistenza di una impostazione latamente gerarchica, parten-do dalla sentenza n.282 della Corte costituzionale, Q. CAMERLENGO (Indizi di perdurante asimmetria, cit., 685 ss.). In tal senso cfr. il recente progetto di revisione (“riforma della riforma”) costituzionale del Governo; la centralità acquisita dal principio di sussidiarietà (alla luce della sentenza n. 303 della Corte) nel “nuovo parallelismo” delineato dalla Con-sulta sembra, peraltro, reintrodurre elementi “gerarchici” che risultano stemperati solo alla luce del meccanismo procedurale (consensuale e collaborativo) delineato dalla stessa Corte. Sul punto, v. già la ricostruzione del sistema prospettata da F. MERLONI (La leale collaborazione nella Repubblica delle autonomie, cit.) ed ora, tra gli altri, F. CINTIOLI, Le forme dell’intesa e il controllo sulla leale collaborazione dopo la sentenza 303 del 2003, in Forum Quad. cost. (www.mulino.it), ottobre 2003.

16 Per tutti: V. CRISAFULLI, Fonti del diritto (dir. Cost.), in Enc. dir., XVII, 1978, 956 ss. 17 Profilo, questo, che per M. LUCIANI non risulta venuto meno alla luce della riforma:

«[u]n intervento legislativo statale in tutte materie regionali, comunque, è tuttora possibi-le, sia perché l’interesse nazionale non è venuto meno, sia perché tale intervento può es-sere necessario per realizzare le finalità imposte allo Stato dall’art. 117, comma 2 (si pen-si alla menzionata riserva di cui all’art. 117, comma 2, lett. m), in ordine alla “determina-zione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono es-sere garantiti su tutto il territorio nazionale”)» (così ID., Le nuove competenze legislative delle Regioni, cit., 21).

18 Così già V. CRISAFULLI, La legge regionale nel sistema delle fonti, cit., 262 ss.; in tal senso, ora, L. TORCHIA, La potestà legislativa residuale delle Regioni, cit., 343 ss.

19 Contra, però, v., tra gli altri, G. ROLLA, Relazioni tra ordinamenti e sistema delle fonti,

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 237

tintende il superamento di questo sistema e la perdita di una funzione tutoria dello Stato, come confemato dal comune rapporto, diretto, con la Costituzione, della legislazione regionale e di quella statale

20. In particolare, trasfigurato, se non superato, il limite dell’interesse

nazionale (o, perlomeno, venendo meno le modalità attraverso le quali quest’interesse nazionale poteva tradursi)

21, operando ora il limite delle materie a favore del legislatore regionale

22, in un assetto di asserita e-quiparazione

23, si afferma, a livello di Costituzione formale, la transi-zione verso un sistema che si fonda sull’autonomia reale, e quindi sulla differenza.

La crisi del modello dell’uniformità è, allora, la riconduzione delle e-sigenze forti dell’uguaglianza entro uno spazio delimitato, laddove l’uni-formità resta a presidio di un determinato modello di relazioni tra i sog-getti e tra questi ed i pubblici poteri. Al di fuori di questo spazio, ed in via quindi generale e residuale, assistiamo all’apertura all’autonomia, come differenziazione. Così, non sembra che, nell’assetto repubblicano successivo alla riforma, le esigenze di eguaglianza nei diritti possano es-sere tradotte (di nuovo) in uniformità normativa: il riconoscimento del valore della differenziazione autonomica finisce per incidere su tutto l’impianto della Carta repubblicana

24.

cit., 325, per il quale risulterebbe «fuorviante sostenere che i precedenti limiti siano venu-ti meno e non operino più nei confronti della potestà legislativa esclusiva delle Regioni».

20 In merito alla necessità di leggere il sistema alla luce del mutato quadro costituzio-nale (e non viceversa, invertendo parametro di riferimento e oggetto dell’analisi), si veda M. CAMMELLI, Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo Titolo V, cit., 1286 ss.

21 Il dibattito sulla persistenza del limite dell’interesse nazionale è ricco (ed in parte è già stato accennato): si vedano comunque le posizioni di V. CAIANIELLO, S. PANUNZIO, A. BALDASSARRE ed E. CHELI, nelle rispettive Audizioni in Indagine conoscitiva sugli effetti nell’ordinamento delle revisioni del Titolo V, cit., A. BARBERA, Chi è il custode dell’interesse nazionale?, in Quad. cost., 2001, 345 ss.; R. BIN, L’interesse nazionale dopo la riforma, cit., 1213; F. MERLONI, Il destino dell’ordinamento degli enti (e del relativo Testo unico) nel nuovo Titolo V della Costituzione, in Regioni, 2002, 409 ss.; G. CAIA, Il problema del limite dell’interesse nazionale, cit., 501 ss.

22 Tra gli altri, v., di nuovo, L. TORCHIA, La potestà legislativa residuale delle Regioni, cit., 346 et passim.

23 Che si esprime anche attraverso il rapporto, diretto, tra Regioni e Costituzione: «[p]oiché in ipotesi c’è qui un rapporto istituzionale di diretta attuazione della Costitu-zione da parte della legge regionale, questa merita di essere detta in senso pieno fonte primaria: più di quanto non accada per la potestà primaria delle Regioni speciali, sogget-ta di per sé […] a limiti ordinamentali ulteriori rispetto al solo limite della Costituzione»: così G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V, cit., 1258.

24 V., di nuovo, G. FALCON, ult. op. cit., spec. 1258: la legge regionale (in quanto desti-nata a produrre i suoi effetti nell’ambito una regione e comunque a livello regionale) crea per natura disuguaglianza.

LO STATO DIFFERENZIATO 238

In questa chiave di lettura, la decisione del legislatore di ricondurre determinate “materie” (spesso “trasversali”)

25 alla legislazione esclusiva statale od a quella concorrente dà fondo alle esigenze di uniformità for-male, risultandone demandati i fenomeni che esulano da queste sfere ad altri meccanismi, attraverso i quali è perseguita una uguaglianza (di ba-se) sostanziale

26. Nuovi limiti intervengono ora a garantire, in modo di-verso, il fatto che la differenziazione non trascenda i confini che, co-munque, discendono dalla necessaria uguaglianza tra i cittadini: ma questa uguaglianza opera diversamente in questi spazi “della differen-za”, è uguaglianza “nei livelli essenziali”.

Il modello delineato dal legislatore costituzionale della riforma, fon-dato innanzitutto su una separazione

27 delle competenze tra Stato e Re-gioni

28 è peraltro complesso, e merita di essere articolato.

25 La cui capacità di attraversare le materie regionali ne riduce l’esclusività, e contri-buisce, conformandole, ad uniformarle. Così, la distinzione operata dall’art. 117 tra le di-verse “materie” («esclusivamente statali, materie concorrenti e materie (in apparenza) esclusivamente regionali»), sembra fatta apposta creare confusione, impedendo «nel suo mero affiancamento “seriale” delle une alle altre […] una comprensione reale del riparto dei poteri» (v. G. FALCON, ult. op. cit., 1251).

26 La griglia di tenuta del sistema è data, in particolare, oltre che dal ruolo uniforman-te delle fonti comunitarie, dai “livelli essenziali”, dai poteri sostitutivi e dalle altre funzio-ni e materie “trasversali” (in merito, v., tra gli altri G. ROSSI-A. BENEDETTI, La competenza legislativa statale esclusiva, cit., 22 ss.; L. VANDELLI, Audizione, in Indagine conoscitiva su-gli effetti nell’ordinamento delle revisioni del Titolo V cit.).

27 Questo è ovviamente valido essenzialmente per la funzione legislativa: la scelta del legislatore costituzionale, in merito al modello (separazione vs. integrazione) appare chiara: vero è che la separazione è operata attraverso tanti e tali criteri eterogenei che, già prima di confrontarci con le funzioni trasversali assegnate allo Stato, emerge la confusio-ne dei rispettivi ambiti di intervento tra Stato e Regioni. In tal senso si veda F. PIZZETTI, Le nuove esigenze di governance, cit., 1153 ss., ma analogamente, tra gli altri, v. M. CAM-MELLI, Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo Titolo V, cit., 1289 («la scelta sem-bra chiara in favore del criterio della separazione»). Da ultimo, però, questa scelta appare messa in discussione attraverso l’ultronea valorizzazione della sussidiarietà (chiamata ad operare, seppure indirettamente, anche a livello legislativo nella recente giurisprudenza della Corte, a partire dalla più volte citata sentenza n. 303 del 2003).

28 «Le occasioni di concorrenza o concorso tra i livelli di governo in realtà sono nume-rosissime, ma il Titolo V ha come impostazione fondamentale quello di cercare di separa-re più nettamente possibile i profili di competenza legislativa tra Stato e Regioni, salvo fare i conti con il fatto che certe materie sono difficilmente collocabili in una lista di ma-terie o nell’altra»: così F. MERLONI, L’informazione e la comunicazione pubblica: dalla legge 150 alle prospettive di differenziazione regionale, cit., 79; sul dato della separazione cfr., tra gli altri, G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V, cit., 1249 ss.

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 239

2. La sfera dell’uniformità “spessa” (o di regolazione)

2.1. L’uniformità nella regolazione comunitaria. Il modello comunitario dell’uniformità come riferimento per il nuovo ordine

Le sedi dell’uniformità non sono definibili solo esaminando il tessuto ordinamentale interno del nostro paese: in virtù di processi risalenti, il sistema italiano è divenuto (e si appresta ancor più a divenire) una parte di una realtà complessa quale è quella Comunitaria, nella quale ed attra-verso la quale si realizzano una parte non secondaria delle esigenze di uniformità

29. Il che è vero, ed evidente, in primo luogo per i fenomeni economici,

che trovano quindi nell’Unione Europea, prima ancora che nella legisla-zione dello Stato, l’uniformità (innanzitutto come certezza, prevedibili-tà) che richiedono

30. Il che, da un lato, sposta a livello europeo una di-mensione dell’uniformità, ma dall’altro determina il ridursi della spinta uniformante del mercato nella dimensione nazionale.

Se, semplicisticamente, volessimo ricondurre le categorie dei diritti alla schematizzazione (per Titoli) fattane dalla Costituzione, dovremmo concludere che, mentre i rapporti civili ed i rapporti etico-sociali trova-no la loro garanzia generale nella riserva allo Stato della competenza sui “livelli essenziali” (che definisce una sfera di uniformità di base), i “rap-porti economici” risultano affidati in primo luogo alla funzione unifor-mante delle regole comunitarie. Il che è però tanto suggestivo, quanto in parte scorretto, risultando evidentemente improponibile la riconduzione (rectius: riduzione) dei “diritti” ai “titoli”.

È altresì vero che le fonti comunitarie sono chiamate a giocare un ruolo non secondario ai fini della tenuta del sistema e della garanzia dell’uniformità normativa in numerosi settori, come a ben vedere è e-splicitato dall’espresso riconoscimento

31 della prevalenza dei “vincoli

29 Cfr., sul punto, F. PIZZETTI, I nuovi elementi "unificanti" del sistema italiano, il “posto” del-la Costituzione e delle leggi costituzionali ed il “ruolo”dei vincoli comunitari e degli obblighi inter-nazionali dopo la riforma del titolo V della Costituzione, in Ist. del federalismo, 2002, 221 ss.

30 Cfr., di nuovo, N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, cit., 82 et passim, che rileva la tensione del “mercato” verso la creazione di nuovi livelli di uniformità.

31 In tal senso v., ancora, L. TORCHIA, I vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, cit., 1207, per la quale «[i]l riconoscimento dei vincoli derivanti dall’ordinamento comu-nitario, sinora basato su di una interpretazione estensiva ed evolutiva dell’articolo 11 del-la Costituzione, acquista, con la riforma del Titolo V una base costituzionale sicura ed incontrovertibile nell’art. 117, comma 1». Non diversamente G.U. RESCIGNO, Note per la costruzione, cit., 780: se sul piano del diritto vivente non c’è cambiamento, dal momento

9.

LO STATO DIFFERENZIATO 240

derivanti dall’ordinamento comunitario” sulle fonti interne 32.

L’ordinamento comunitario, nell’ottica della riforma, si configura come vincolo (di uniformità e perciò come elemento di limitazione della differenziazione), che indirizza e conforma la potestà legislativa, dello Stato e delle Regioni.

Vincolo (espresso ora, ma già presente), che consente anzi di affer-mare come quella ascrivibile in capo all’Unione sia, a ben vedere, un’uni-formità non solo spessa (potendo coprire l’intera regolazione di un fe-nomeno), ma anche, potenzialmente, forte, dal momento che alle fonti comunitarie non potranno opporsi riserve di organizzazione tali da limi-tarne la portata uniformante anche sul versante dell’amministrazione.

Questo, peraltro, a livello potenziale, piuttosto che reale, dal momen-to che tradizionalmente il modello comunitario si fonda su una strin-gente uniformità dei diritti e dei risultati, rispetto alla quale la dimen-sione dell’uniformità amministrativa appare recessiva (seppure non pos-sano escludersi, come di fatto avviene, condizionamenti organizzativi anche molto penetranti).

La dimensione comunitaria rileva, nella prospettiva della riforma, in modo centrale al fine dell’interpretazione del sistema: l’individuazione di un disegno razionale nei nomina dell’art. 117 sarebbe, infatti, impossibi-le se non integrassimo quella griglia con quella delle competenze del-l’Unione

33. Dalla sovrapposizione delle diverse dimensioni competenziali (interna e comunitaria) emerge, allora, la ragione di una serie di “vuoti” che, se limitassimo l’ottica al solo testo costituzionale, apparirebbero in-conciliabili

34.

che questa previsione «formalizza quanto da tempo era stato acquisito come diritto vi-gente sulla base dell’art. 11», tale disposizione non è però inutile, dal momento che «dice espressamente quanto invece precedentemente si diceva ricavandolo implicitamente dall’art. 11, […] consolida in maniera ormai irrefutabile quanto per l’innanzi qualcuno poteva mettere in discussione».

32 Come rileva L. TORCHIA, ult. op. cit., che definisce una simile lettura “continuista”, nei primi commenti si è negato il carattere innovativo di questa disposizione (in tal senso v. C. PINELLI, I limiti generali alla potestà legislativa statale e regionale e i rapporti con l’ordinamento internazionale e con l’ordinamento comunitario, in Foro it., 2001, 194 ss.).

33 In realtà la sponda comunitaria risulta necessaria anche sul versante dell’ammi-nistrazione. Basti pensare a settori quali l’ordinamento della comunicazione (e ci sia con-sentito rinviare, in merito, ad E. CARLONI, L’ordinamento della comunicazione dopo la (ed alla luce della) riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, in Dir. pubbl., 2002, 1001 ss.); sul punto v. A. VALASTRO, I diritti fondamentali in materia di comunicazione do-po la riforma del Titolo V. Spunti di riflessione, in corso di pubblicazione in Scritti Barile, sin d’ora in www.astrid-online.it; e G. DE MINICO, Brevi note sul “segmento” delle teleco-municazioni, ivi, aprile 2003.

34 D’altra parte già da tempo è emerso come un’ottica (esclusivamente) interna risulti insufficiente per l’analisi del fenomeno della “frammentazione” delle realtà nazionali: in

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 241

Il che, se da un lato pone problemi significativi in termini di recepi-mento interno delle disposizioni comunitarie, riduce significativamente le prospettive di differenziazione regionale in numerosi ambiti materiali pu-re affidati ora alla legislazione, generale o concorrente, delle Regioni

35. L’Unione Europea, quindi, come sponda per l’interpretazione del

nuovo ordine, come dimensione che ne garantisce la tenuta, ma a ben vedere anche come modello di riferimento: un sistema che ammette la differenziazione amministrativa ed affida alla normazione il compito di garantire l’uniformità nei (soli) settori ed ambiti ritenuti necessari e strategici. Un modello che dimostra, ancora, la possibilità di scomporre la dimensione dei risultati e del godimento dei diritti (uniformi) da quel-la delle modalità e dei mezzi chiamati a realizzarli (differenziati): in una parola, che dimostra come, in via generale, il percorso dell’uniformità amministrativa non sia necessario per la realizzazione di una uniformità “nelle condizioni di vita”

36.

2.2. L’uniformità “spessa” del secondo comma dell’art. 117

Se nel nuovo sistema definito dalla riforma, il legislatore costituzio-nale mostra di spostare su nuovi equilibri il bilanciamento tra esigenze di uniformità ed esigenze di autonomia, questo si realizza secondo mo-dalità che, dal punto di vista legislativo ed amministrativo, variano però in misura rilevante ratione materiae.

Dall’accettazione della normalità della diversificazione normativa su base regionale, discende la circoscrizione, attraverso l’elencazione del secondo comma dell’art. 117, della sfera che, a presidio delle esigenze di uniformità del sistema, risulta sottratta ai processi di differenziazione autonomica

37.

questo senso, v. G. ROSSI, aveva già segnalato l’inadeguatezza di un approccio ai temi del regionalismo privo di attenzione alla dimensione comunitaria (ID., Stato, Regioni e Unio-ne europea, in Regioni, 1992, 903 ss.).

35 In tal senso v. sempre L. TORCHIA, I vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, cit., 1207: «il diritto comunitario copre con la propria disciplina molti fra gli ambiti ma-teriali rimessi alla potestà legislativa delle Regioni, sia quella concorrente – si pensi alle “professioni” o all’”alimentazione” – sia quella residuale generale: si pensi all’agricoltura o all’industria».

36 Espressione in ordine alla quale cfr. L. VANDELLI, Poteri locali, cit., 376. 37 E. LAMARQUE (Osservazioni preliminari sulla materia “ordinamento civile”, di esclusi-

va competenza statale, in Regioni, 2001, 1343 ss.) suggerisce come per «l’interpretazione delle “materie” di competenza statale “sia necessario abbandonare entrambi i criteri tra-dizionali, quello oggettivo e quello finalistico o teleologico, in favore di un criterio che

LO STATO DIFFERENZIATO 242

Il legislatore costituzionale definisce, in sostanza, uno spazio riserva-to allo Stato, nella legislazione (e nella articolazione sussidiaria delle funzioni amministrative)

38, attraverso il quale esaurisce, in via tenden-ziale, le esigenze di uniformità formale dell’ordinamento. Nell’elenca-zione del secondo comma dell’art. 117, nella sua riscrittura operata dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, troviamo, allora, o dovremmo trovare, gli ambiti materiali rispetto ai quali restano ferme le esigenze di ugua-glianza “in senso forte”, da tradursi quale uniformità (ed unità nella di-sciplina giuridica): i fuochi dell’uniformità.

Si tratta di materie 39 di indubbio rilievo, e di una elencazione che,

necessariamente, richiede un attento lavoro interpretativo 40, al fine di

definire cosa, concretamente, debba o possa ricondursi a ciascuna delle sintetiche enunciazioni fatte proprie dal legislatore costituzionale.

Ed è, a ben vedere, un’uniformità normativa circoscritta, ma (proprio per questo) persino più incisiva di quella tradizionalmente conosciuta dal nostro ordinamento, dal momento che non tollera (non sembra tollerare) neppure la competenza legislativa “attuativa” delle Regioni 41. Dal che de-

[…] eziologico, e cioè mirante a stabilire le esigenze che hanno causato la riserva allo Sta-to, in modo da delimitare, ritagliandola su quelle esigenze, l’estensione di tale riserva» (ivi, 1355). Non molto dissimile sembra la chiave di rotta da ultimo individuata dalla Cor-te nelle sentenze nn. 307 e 308 del 2003 (dove peraltro tale criterio sfuma verso coloriture di “interesse nazionale”, nel momento in cui si giunge a distinguere tra esigenze suscetti-bili, o meno, di tutela frazionata).

38 Ma, sul punto, v. di nuovo la sentenza n. 303 del 2003 della Corte costituzionale, ed il “nuovo parallelismo” che ne risulta prefigurato (ed in questo senso, tra gli altri, si veda-no i commenti di L. TORCHIA, In principio sono le funzioni (amministrative) cit. e A. RUG-GERI, Il parallelismo “redivivo” e la sussidiarietà cit.).

39 In proposito la dottrina e la stessa Corte hanno chiarito preliminarmente che non si tratta di materie in senso tecnico ma di “materie-non materie” (cfr. A. D’ATENA, Materie legislative e tipologia delle competenze, cit., 21 ss.), di competenze statali “trasversali”, in grado di condizionare sia la potestà concorrente che quella residuale, «accostandovisi, sovrapponendovisi o altrimenti limitandola» (così A. ANZON, Il difficile avvio della giuri-sprudenza costituzionale, cit., anche con riferimento alle materie finalistiche, quali la “tu-tela dell’ambiente”, la “tutela della salute”). Differente è altresì il discorso per la “determi-nazione dei livelli essenziali”, dove l’individuazione del settore ha carattere non finalistico ma oggettivo (le “prestazioni”, limitatamente ai loro “livelli essenziali”).

40 Problema che si lega anche all’uso di criteri eterogenei nella definizione delle “ma-terie”: in base all’oggetto, all’attività, all’ente, all’istituto giuridico.

41 Il venir meno della quale è diversamente valutata dalla dottrina: criticata da A. RUG-GERI (Fonti, norme, criteri ordinatori. Lezioni, Torino, 2001, 86 ss. che segnala che un’at-tuazione regionale di leggi statali diviene ora possibile solo attraverso il ricorso ad una potestà regolamentare delegata ai sensi dell’art. 117, comma 6°, il che finisce per tradursi in un “declassamento” della potestà normativa regionale), è invece ritenuta coerente da M. LUCIANI (Le nuove competenze legislative delle Regioni, cit., 10 (n. 9): «[p]oiché allo Stato sono rimaste materie ritenute (a torto o a ragione) di essenziale rilievo “nazionale”,

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 243

riva il riconoscimento del carattere esclusivo della competenza legislativa statale: conclusione che deve però essere calata su un sistema nel quale l’intreccio tra interessi e competenze diverse, si traduce inevitabilmente, a fronte di competenze statali a carattere trasversale, «in un proliferare delle già comunque inevitabili sovrapposizioni ed interferenze»

42. In merito ad alcune delle materie e funzioni affidate allo Stato il di-

scorso deve essere, dunque, precisato: la trasversalità delle materie di competenza statale ne esclude, a ben vedere, l’esclusività, laddove con questa si intenda la completa negazione di interventi normativi delle Regioni diretti a soddisfare, nell’ambito delle competenze a queste affi-date, esigenze diverse. Ne discende, in questi ultimi casi, un modello nel quale la sfera di uniformità affidata dal legislatore non può tradursi in una regolazione uniforme, ma deve essere letta come potere di definire standard di tutela uniformi sul territorio nazionale, al di là dei quali «ri-marrebbe intatta la preesistente pluralità di titoli di legittimazione per interventi regionali»

43. Pure in un quadro così articolato, l’uniformità diviene, da regola ec-

cezione, da modello generale e residuale, qual era, ipotesi speciale, as-soggettata al limite delle materie e, quindi, soggetta a “stretta interpreta-zione”, dal momento che la clausola di residualità opera a favore delle Regioni.

La tenuta dell’unità dello Stato, e la garanzia dell’uguaglianza forma-le attraverso l’uniformità della disciplina giuridica è affidata ad un noc-ciolo duro definito a livello costituzionale, nel quale, perciò stesso, si concentrano i tratti insuscettibili di articolazione differenziata sul terri-torio nazionale.

È però uniformità esclusivamente nella legge, non più nella legge e nell’amministrazione (od almeno, la perdita del parallelismo d’antan

mi sembra abbastanza ragionevole che, in tali materie, l’intervento regionale debba essere limitato alla disciplina regolamentare».

42 Così per A. ANZON, Il difficile avvio della giurisprudenza costituzionale, cit., per la quale, in un simile quadro, è impossibile «escludere ogni [.] interferenza di competenza con le Regioni ed accettare la prospettiva rassicurante quanto semplicistica della netta separazione […] sfere di incidenza. Infatti rimarrebbero comunque, più che quelli deri-vanti dalla combinazione flessibile di diversi livelli di tutela di un medesimo interesse, gli intrecci dovuti alla connessione e sovrapposizione di interessi, fini e oggetti diversi».

43 In questo senso, con riferimento alla “materia” tutela dell’ambiente, si veda la sen-tenza n. 407 del 2002 della Corte costituzionale: per un commento alla quale v., tra gli altri, R. FERRARA, La tutela dell’ambiente fra Stato e Regioni: una “storia infinita”. Nota a Corte cost. 20 dicembre 2002 n. 536 e 26 luglio 2002 n. 407, in Foro it., 2003, 688 ss. e G. GRASSO, La tutela dell’ambiente si “smaterializza” e le Regioni recuperano una competenza (apparentemente) perduta. Osservazioni a prima lettura a Corte costituzionale, 10-26 luglio 2002, n. 407, in Amministrazione in cammino (www.amministrazioneincammino.luiss.it).

LO STATO DIFFERENZIATO 244

impedisce di prefigurare il carattere generale della connessione legisla-zione/amministrazione in capo allo Stato)

44.

3. La sfera dell’uniformità “sottile” (o di principio)

In un simile quadro, l’elencazione delle materie di legislazione con-corrente, delimita un ambito nel quale l’istanza dell’autonomia non fa venire meno l’esigenza di un’uniformità “nei principi fondamentali”. Siamo di fronte, nella scelta operata dal legislatore costituzionale, a ma-terie per le quali non risulta sufficiente affidare la tenuta del sistema ai livelli essenziali ed alle altre funzioni trasversali e orizzontali, dovendo essere garantito un minimo di uniformità normativa, ma rispetto alle quali emergono con forza anche le ragioni dell’autonomia, da intendersi questa (di nuovo) come l’ambito di differenziazione che l’ordinamento lascia ad una collettività organizzata

45. Al pari della legislazione statale, anche la legislazione concorrente è

soggetta al limite delle materie, posto che la clausola di residualità ope-ra, come detto, a favore della sola legislazione “generale” regionale. Ope-ra, infine, per la legislazione concorrente il rapporto tra principi fonda-mentali

46, la cui definizione è riservata allo Stato, e competenza legisla-tiva “di regolazione” (più che non “di dettaglio”, e non più di attuazione) regionale

47. Ne deriva, con certa chiarezza, un quadro nel quale non solo acquista

deciso rilievo la competenza legislativa regionale generale, ma in cui si

44 In tal senso, tra gli altri, cfr. M. CAMMELLI, Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo Titolo V, cit., 1276 et passim; A. CORPACI, Revisione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, cit., 1305 ss.; da ultimo, sul percorso argomentativo “sussidiarietà-legalità” (su cui cfr., però, già R. BIN, La funzione amministrativa nel nuovo Titolo V della Costituzione, cit., spec. 366 ss.) e, quindi, sul nuovo parallelismo delineato dalla Corte a partire dalla sent. n. 303, cfr., tra gli altri, L. TORCHIA, In principio sono le funzioni (am-ministrative), cit., ma anche A. MOSCARINI, Titolo V e prove di sussidiarietà: la sentenza n.303/2003 della Corte costituzionale, in www.federalismi.it, novembre 2003, e, ci sia nuo-vamente consentito, E. CARLONI, Le tre trasfigurazioni delle competenze concorrenti, cit.

45 F. MERLONI, Autonomia e libertà nel sistema della ricerca scientifica, cit., 110 ss. 46 Sul punto, v., tra gli altri, M. LUCIANI, Le nuove competenze legislative delle Regioni,

cit., 19 ss. 47 Legislazione statale, regionale e concorrente, conoscono, altresì, in egual misura i

limiti “derivanti dall’ordinamento comunitario” e degli “obblighi internazionali”. Sulla rilettura da dare all’art. 10 dopo il nuovo 117, v., di nuovo, L. TORCHIA, I vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, cit., spec. 1208 ss.

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 245

modifica, in modo significativo, la qualità della stessa legislazione con-corrente, che segna una netta discontinuità di questo modello rispetto alla tradizionale competenza legislativa delle Regioni ordinarie. La “su-periorità” della legge statale viene meno, e resta limitata alla fissazione di “principi fondamentali”: questo, peraltro, con riserva di inventario dal momento che l’attuazione di questo modello è chiamata a confrontarsi con la resistenza di una uniformità, che appare quasi “impermeabile” all’evoluzione dell’ordinamento

48, come sembra mostrarci il dibattito in-torno all’interesse nazionale

49. Ciò detto, il modello formale prefigura, in quest’ambito, un sistema

nel quale è esclusa una “uniformità di regolazione” che non sia limitata alla sola unità dei principi

50, sempre con la riserva del “possibile incro-cio” (da valutare caso per caso) con le funzioni ed i compiti, oltre che con talune materie particolarmente pervasive (giurisdizione, ordinamen-to civile

51, coordinamento informativo, oltre che, come detto, ordine pub-blico e ordinamento penale).

48 Restano, e vengono anzi costituzionalizzati (ma non senza modifiche), alcuni limiti frutto, nel precedente regime, della giurisprudenza della Corte costituzionale, quali il li-mite del “diritto privato” e quello del “diritto penale”.

49 Vedasi (tacendo per il momento dei progetti di reintroduzione espressa del limite), per tutti, la posizione di A. BALDASSARRE (Parere Pro Veritate circa il riparto delle compe-tenze legislative tra Stato e Regioni in tema di spettacolo, in www.federalismi.it): per il qua-le l’interesse nazionale può operare superando la «ripartizione costituzionale delle mate-rie attraverso l’assegnazione al potere normativo statale di questioni che, qualunque sia la materia cui ineriscono, rivelino una valenza talmente elevata per la nazione intera da esi-gere un trattamento uniforme su tutto il territorio dello Stato». Nel vecchio sistema, «fa-cendo leva su esso, il legislatore ordinario dello Stato procedeva indisturbato all’indivi-duazione del contenuto delle materie regionali, escludendo […] da esse le porzioni (con-siderate) di interesse nazionale» (A. D’ATENA, Materie legislative e tipologia delle competen-ze, cit., 18).

50 Dal che discende l’esigenza (ma anche la difficoltà) di individuare i principi fonda-mentali delle diverse materie, così come discendono dalla legislazione statale. A meno che tale individuazione non sia operata espressamente dallo stesso legislatore (come sembra prefigurare la recente legge n.131 del 2003, c.d. “legge La Loggia”), peraltro con il con-nesso problema dell’autoqualificazione legislativa dei principi, questa operazione presen-ta problemi interpretativi non secondari, variabili ratione materiae; in questo senso si ve-da, ad esempio (per quanto incidente, in primo luogo, sulla materia concorrente “governo del territorio”) P. STELLA RICHTER, I principi del diritto urbanistico, Milano, 2002, che si segnala per il tentativo di individuare i principi della legislazione (statale) in materia, che devono trovare attuazione, ora, attraverso la legislazione regionale.

51 Insuscettibili, però, di una lettura troppo estensiva: così ai sensi della sentenza n. 282 del 2002, nella quale la Corte ha definito come soggette a stretta interpretazione le materie “trasversali”. In questa sentenza, dalla quale pure possono ricavarsi spunti di se-gno opposto (cfr. Q. CAMERLENGO, Indizi di perdurante asimmetria cit.), la Corte svolge un ragionamento di “stretta interpretazione” volto a contenere, in primo luogo, le (enormi) potenzialità espansive insite nella locuzione “ordinamento civile”.

LO STATO DIFFERENZIATO 246

Le conseguenze, in relazione alla “cedevolezza” della legislazione sta-tale previgente, alla competenza a disciplinare una determinata materia, alla competenza regolamentare ed amministrativa, devono allora essere valutate tenendo conto tanto dell’ampiezza della potestà legislativa re-gionale concorrente, quanto del possibile intreccio tra materie e funzioni (statali): intreccio che, peraltro, può essere esaminato con una certa precisione solo in relazione a ciascuno degli specifici ambiti materiali prefigurati dal terzo comma dell’art. 117.

Le materie di competenza concorrente, salva un’unità nei principi, sono allora, materie di uniformità sottile, limitata alla definizione dei ca-ratteri essenziali, della griglia generale entro cui si svilupperanno legi-slazioni e regolamentazioni differenziate, poste in essere da ammini-strazioni «differenziate ed ulteriormente differenziabili»

52. La griglia di tenuta del sistema resta affidata, in questo caso, non solo ai generali strumenti preposti a garanzia dell’unità dell’ordinamento e dell’unifor-mità minima sostanziale (affidati allo Stato), ma anche al ruolo formal-mente uniformante dei principi fondamentali

53, attraverso i quali sem-bra riecheggiare il modello della “legislazione cornice” già conosciuta dal regionalismo italiano dell’uniformità.

Resta allora da chiarire, cosa debba intendersi per determinazione dei (soli) “principi fondamentali”: non si tratta, a ben vedere, della riedizione del modello ante riforma, tradizionalmente tradotta in una competenza re-gionale di mero dettaglio, frequentemente limitata anch’essa da una legisla-zione statale estremamente pervasiva. È lo stesso rapporto, equiordinato

54, tra i soggetti che compongono la Repubblica a non giustificare più, in via generale, una generale esondazione della potestà legislativa statale “nel det-taglio”

55 che vada al di là dei limiti definiti dalla Costituzione. 56

52 Secondo l’efficace definizione di M. CAMMELLI, Amministrazione (e interpreti) da-vanti al nuovo Titolo V, cit., 1283.

53 Per un’analisi più approfondita v., tra gli altri, M. OLIVETTI, Le funzioni legislative regionali, in T. GROPPI-M. OLIVETTI (a cura di), La Repubblica delle autonomie, cit., 85 ss.

54 Confermato, tra l’altro dall’evidenza che sono posti sullo stesso piano non solo i soggetti, ma anche la potestà legislativa statale e la potestà legislativa regionale, ambedue tenute al rispetto della Costituzione e dei vincoli che discendono dall’ordinamento comu-nitario e dagli obblighi internazionali (cfr. L. TORCHIA, I vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, cit., 1204 ss.).

55 La sentenza n.282 del 2002 sembra indicare una più netta distinzione tra le competenze di Stato e Regioni, «con una allusione implicita ad un vero e proprio divieto per il primo di adottare disposizioni di dettaglio, anche eventualmente ad efficacia suppletiva, secondo la contraria prassi – positivamente valutata dalla giurisprudenza costituzionale – invalsa nel re-gime anteriore» (così A. ANZON, Il difficile avvio della giurisprudenza costituzionale cit.).

56 Nelle materie di legislazione concorrente è operato un riparto tra regolazione regio-nale e principi fondamentali statali. Non solo dall’aggettivazione, e quindi limitazione, di

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 247

La definizione dei principi fondamentali sembrerebbe peraltro dover-si considerare, stante il tenore della norma, compito riservato allo Stato, in modo ben più stringente che non nel sistema previgente

57: sembra al-lora corretto ricavare conseguenze da questa riserva

58, tanto in relazione alla possibilità per le Regioni di ricavare dalla legislazione previgente i principi “in via interpretativa”

59, che, soprattutto, in relazione alla pos-sibilità, per queste, di intervenire a disciplinare la materia prevedendo anche i principi fondamentali

60, in attesa (ed in carenza) dell’esercizio da parte dello Stato della propria competenza

61. Vero è, peraltro, che in relazione all’ambito materiale nel quale sono

chiamati ad applicarsi, ed in relazione ai diritti con i quali si confronta-no, il concreto atteggiarsi di questi “principi fondamentali” sembra do-

questi ultimi, ma dallo stesso rapporto di equiordinazione dell’art. 114, deriva l’impos-sibilità di prefigurare una riedizione del modello della competenza regionale di mero det-taglio. Sulla desumibilità dei principi, v., di nuovo, Corte cost., sent. n. 282 del 2002: tanto più nella fase di transizione «la legislazione regionale concorrente dovrà svolgersi nel ri-spetto dei principi fondamentali comunque risultanti dalla legislazione statale già in vigo-re». In merito, v. le posizioni differenti di A. BALDASSARRE e L. VANDELLI (nelle rispettive Audizioni, in Indagine conoscitiva sugli effetti nell’ordinamento delle revisioni del Titolo V, cit). Da notare come, nei ricorsi alla Consulta, la Presidenza del Consiglio tenda ad utiliz-zare la dizione di potestà legislativa esclusiva dello Stato nella determinazione dei principi fondamentali (v., al riguardo, REGIONE EMILIA ROMAGNA, Quadro ricognitivo, cit.).

57 La Corte con la più volte citata sentenza n.282 del 2002, ha dato innanzi tutto una espressa risposta negativa al quesito circa la necessità, per l’esercizio della competenza di dettaglio regionale, della previa adozione di tali “principi” in leggi statali nuove ed appo-site. I “principi” secondo la Corte possono naturalmente trarsi da specifiche leggi poste-riori alla riforma, ma in loro mancanza, “specie nel periodo di transizione” possono, anzi debbono, trarsi, dalle leggi statali (anche non di cornice) già vigenti (e dunque anche da leggi precedenti alla riforma e rimaste in vita per il principio di continuità).

58 In altre parole, si potrebbe pensare, nel nuovo impianto, che proprio lo spostamento del peso preminente delle competenze normative in direzione regionale, tenda di contro a rafforzare il ruolo e l’importanza dei principi fondamentali riservati allo Stato.

59 Il punto viene ad assumere un rilievo particolare nella fase di avvio, nell’ipotesi in cui lo Stato dovesse tardare ad adottare le leggi quadro e le Regioni intendessero invece avviare immediatamente l’esercizio delle loro competenze. Tale possibilità, ammessa dal-la Corte (da ultimo v. la sentenza n.201 del 2003), era inizialmente esclusa, non senza ar-gomenti di ordine formale, da una parte della dottrina (così A. BALDASSARRE, secondo il quale, in assenza di princìpi fondamentali, le Regioni, non avrebbero potuto legiferare: cfr. ID., Audizione, in Indagine conoscitiva sugli effetti nell’ordinamento delle revisioni del Titolo V, cit.).

60 Cfr. le Audizioni, L. ELIA e da S. PANUNZIO, in Indagine conoscitiva sugli effetti nel-l’ordinamento delle revisioni del Titolo V, cit.

61 In tal senso M. LUCIANI, Le nuove competenze legislative delle Regioni, cit., 19 ss.; in merito alla perdurante utilizzabilità dei principi fondamentali già esistenti, desumibili dalla legislazione vigente (non importa se “di cornice” o meno, tanto più dato il cambia-mento delle materie), cfr. anche V. CAIANIELLO, Audizione, in Indagine conoscitiva sugli effetti nell’ordinamento delle revisioni del Titolo V, cit.

LO STATO DIFFERENZIATO 248

versi ritenere variabile: ora in grado di estendersi al di là del mero prin-cipio, laddove, ad esempio, siano da regolare “uniformità tecniche”

62, ora, ed in via più generale, in grado di determinare non solo i tratti fon-damentali della successiva disciplina regionale, ma già il “contenuto fondamentale” dei diritti dei cittadini, a tutela di una eguaglianza “di base” che non può sempre (ed unicamente) passare per lo strumenti dei livelli essenziali.

Se, come è stato affermato, i principi fondamentali non si lasciano definire una volta per tutte, è nel caso concreto che dovremo ricercare il variabile equilibrio tra sfere (e quindi ragioni) dell’uniformità e della dif-ferenziazione

63. Una conclusione che, pure sulla base di un percorso argomentativo

in parte diverso, trova conforto nella recente giurisprudenza costitu-zionale

64. Il rapporto principi fondamentali statali/regolazione regionale è stato

oggetto di rilettura da parte della Corte, per la quale l’equilibrato bilan-ciamento tra esigenze dell’autonomia ed esigenze dell’unità/uniformità va ricercato in concreto, e non in astratto, e questo non seguendo un ri-gido modello formale (quello della distinzione principio/dettaglio) ma verificando gli interessi (necessariamente unitari o differenziabili) che la

62 Contra però v. G. FALCON (Modello e transizione nel nuovo Titolo V, cit., 1257-1258), per il quale un dato della riforma è proprio lo “spessore” delle competenze, tale che «il carattere tecnico di una normativa non la sottrae per nulla alla competenza regionale, se non nei limiti in cui vi sia una clausola attributiva della competenza statale ai sensi del comma 2». Il difficile rapporto tra uniformità tecnica e differenziazione legislativa (con la tendenza ad accordare preferenza alla prima) emerge nella poc’anzi ricordata sentenza n. 282 del 2002, ed è accuratamente esaminato da Q. CAMERLENGO (Indizi di perdurante a-simmetria cit.). Come dal carattere tecnico di alcune previsioni discendesse la loro capaci-tà di penetrare più profondamente nell’autonomia regionale è evidente analizzando la recente giurisprudenza costituzionale in materia, precedente alla riforma del Titolo V: così Corte cost., sent. n. 31 del 2001, in Giur.it., 2001, 2221 ss. (con nota dello stesso Q. CAMERLENGO, Il monopolio statale sulle prescrizioni tecniche e la vulnerabilità dell’au-tonomia regionale) ai sensi della quale (qui in materia di governo del territorio, ma con una affermazione che pare suscettibile di estendersi in via generale) «la tutela della sicu-rezza esige uniformità di parametri minimi che devono valere per l’intero territorio na-zionale».

63 In tal senso v. M. CARLI, Luci ed ombre nella prima attuazione della legge costituzio-nale n.3/2001, in www.federalismi.it, giugno 2003, per il quale Governo, Regioni e Parla-mento «possono scegliere, nelle materie di potestà legislativa concorrente, i diversi punti di equilibrio tra uniformità e differenziazione» (ivi, 1).

64 La Corte sembra, però, integrare questo approccio con criteri in parte diversi per l’interpretazione della materie legislative concorrenti: nel momento in cui viene ad acqui-stare flessibilità “per la via amministrativa”, la competenza legislativa statale nelle mate-rie concorrenti sembra trasfigurarsi ulteriormente. Con le sentenze n. 307 e 308, in mate-ria di installazione di impianti elettromagnetici.

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 249

norma mira a soddisfare 65. Un criterio teleologico

66, in cui la legittima-zione dell’intervento legislativo statale “al di là del dettaglio” (ma sempre nel genus della competenza concorrente, quindi senza la possibilità di un intervento di tipo regolamentare)

67 è fondata in re ipsa: l’intervento che mira a soddisfare esigenze unitarie/uniformi ed è proporzionato ri-spetto questa finalità trova in sé la propria legittimazione

68. Certo, così facendo, la Consulta ha mirato a recuperare molta della

flessibilità sistemica perduta nel disposto formale dell’art. 117, riuscen-do però da un lato a far emergere forti “indizi di perdurante asimme-tria”

69 a favore della legge statale (capace in certa misura se non di defi-nire, di incidere direttamente sui confini del suo intervento)

70, dall’altro a caricare la Corte stessa (in assenza, però, di adeguati ed obiettivi pa-rametri), del compito di verificare la proporzionalità tra intervento sta-tale e soddisfazione di esigenze di uniformità

71.

65 Assumendo quindi come criterio quello della “ratio che ispira la norma”. Così la Corte afferma la legittimità di una norma che mira a soddisfare esigenze (unitarie, uni-formi) «sottese alla considerazione del “preminente interesse nazionale alla definizione di criteri unitari e di normative omogenee”» (di cui all’art. 4, comma 1, lettera a, della legge quadro in materia di inquinamento elettromagnetico, n.36 del 2001).

66 Criterio in ordine al quale v. E. LAMARQUE, Osservazioni preliminari sulla materia “ordinamento civile”, cit., 1343.

67 Sebbene sul punto la Corte non si pronunci: sul punto cfr. A. RUGGERI, Il paralleli-smo “redivivo” e la sussidiarietà cit e, ci sia nuovamente consentito, E. CARLONI, Le tre tra-sfigurazioni delle competenze concorrenti cit.

68 Vero è che altre potevano essere le strade per eliminare le maggiori inconciliabilità presenti nel riformato testo costituzionale: in primo luogo, viste le materie in ordine alle quali si sono avute le più significative prese di posizione della Corte, un ruolo uniforman-te, attraverso il quale garantire gli standard comuni necessari per qualsiasi servizio a rete, potevano da un lato farsi discendere dalla (in questo campo penetrante) disciplina comu-nitaria; altro percorso poteva, poi, passare (ed unitamente al precedente soddisfare le esi-genze del sistema) per uno “sconfinamento nel dettaglio” dei principi fondamentali quando si tratti di regolare uniformità tecniche.

69 Utilizzando l’efficace formula proposta (con riferimento a diverso contesto, ma egual-mente alla luce della giurisprudenza costituzionale successiva alla riforma) da Q. CAMER-LENGO (Indizi di perdurante asimmetria, cit., 685).

70 Dall’uniformità nei principi alla uniformità come principio, con conseguente riap-propriazione (anche nel dettaglio) della materia da parte dello Stato. Una soluzione non diversa sembra emergere dalle, già citate, sentenze nn. 307 e 308 del 2003 della Corte co-stituzionale.

71 Attraverso quest’ultimo passaggio, privo peraltro delle garanzie procedurali presenti nel rinato parallelismo, l’intervento statale di regolazione finisce per diventare, nelle ma-terie concorrenti, diretta conseguenza della previsione (da parte dello Stato) tra i principi fondamentali di esigenze unitarie, interessi nazionali che richiedano un trattamento uni-forme. Con il rischio, che ravvisava già R. TOSI (A proposito dell’interesse nazionale, in Fo-rum Quad. cost (www.mulino.it) di aprire il varco ad «una clausola bonne a tout faire, ca-pace di giustificare le più varie incursioni governative in ambito regionale».

LO STATO DIFFERENZIATO 250

3.1. La difficile compatibilità di un modello e le tensioni verso la sua rilettura

La rigidità del modello costruito dal legislatore costituzionale si scon-tra con la necessità (variabile e flessibile) di fare fronte, nella legislazione, ad esigenze unitarie (che non possono ritenersi assenti nelle materie affi-date alle Regioni ed in particolare in quelle del terzo comma dell’art. 117) che risultano altresì venire in rilievo a livello di amministrazione attraver-so il principio di sussidiarietà di cui all’art. 118, comma 1°. Da questa esi-genza disattesa, deriva una tensione interna al sistema, che trova emer-sione attraverso l’attuazione ed ancor più l’interpretazione della riforma, come è evidente dalla lettura delle recenti sentenze della Corte costituzio-nale (in particolare, la ormai nota sent. n. 303 del 2003)

72. La via amministrativa, per tramite della sussidiarietà (che riproduce

il “variabile assetto degli interessi” e quindi ripropone, sotto mutate ve-sti, lo stesso interesse nazionale)

73 come canale per il recupero di una funzione normativa (legislativa, ma forse anche regolamentare) statale, è questo il punto di approdo della recente giurisprudenza della Corte: se la dimensione statale ha competenza amministrativa, che gli deriva dall’allocazione delle funzioni operata in virtù del principio di sussidia-rietà/adeguatezza, allora «in ossequio ai canoni fondanti dello Stato di diritto, essa è anche abilitata a organizzarle e regolarle, al fine di ren-derne l’esercizio permanentemente raffrontabile a un parametro lega-le»

74. Seguendo un ragionamento lineare e ben articolato, ma non sem-pre del tutto convincente, data la competenza amministrativa dello Sta-to, in applicazione del principio di legalità la Corte fa discendere il recu-pero allo Stato della “parallela”

75 competenza legislativa 76.

72 In merito alla quale v., nuovamente, L. TORCHIA, In principio sono le funzioni (am-ministrative), cit.

73 Sul punto, peraltro, si è sviluppato un ricco dibattito; per tutti, cfr. A. BARBERA, Chi è il custode dell’interesse nazionale?, cit., 345 ss.; R. BIN, L’interesse nazionale dopo la ri-forma, cit., 1213 ss.; oltre al già citato G. CAIA, Il problema del limite dell’interesse naziona-le, cit., 501 ss.

74 In tal senso, la citata sentenza n. 303 del 2003. 75 Sulla presunta fine del parallelismo, e sulla altresì necessità di un suo mantenimen-

to, cfr. R. BIN, La funzione amministrativa nel nuovo Titolo V, cit., spec. 365-367. 76 Ma se questo è il punto di arrivo del ragionamento della Corte, restano in ombra al-

cuni aspetti: a che titolo lo Stato ha questa competenza (concorrente ma eccezionalmente di dettaglio, esclusiva e quindi anche regolamentare, solo in relazione all’esercizio della funzione o sulla materia tout court?). Profili di interesse non secondario, su cui la Corte non si sbilancia, così come omette (qui espressamente) di pronunciarsi in merito all’ap-plicabilità di un simile schema di ragionamento (e quindi di un simile modello) alle ma-terie di competenza generale-residuale delle Regioni. A nostro avviso pare più convincen-

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 251

Ma in un sistema nel quale la competenza legislativa è recuperabile per mezzo dell’allocazione delle funzioni amministrative, per tramite del (nuovo) parallelismo finisce per essere pregiudicata la stessa elencazio-ne costituzionale delle materie

77. Quindi, una parziale decostituzionaliz-zazione delle materie, operabile attraverso il grimaldello dato (implici-tamente) da un articolo (il 118) che espressamente si riferisce alle (sole) funzioni amministrative

78. Un percorso che rischia di far dire troppo all’art. 118, che diviene perciò sostenibile solo nell’ottica della leale col-laborazione

79: da qui la necessità, evidenziata dalla Corte, di una “previa intesa” per l’allocabilità in capo allo Stato di funzioni amministrative unitarie nelle materie concorrenti

80. Quella delineata dalla Corte è, dunque, una concezione “procedimen-

tale e consensuale della sussidiarietà e dell’adeguatezza”: l’esigenza di un esercizio unitario può giustificare il recupero di una funzione legislativa “parallela” a quella amministrativa, ma tale operazione è ritenuta legit-

te muovere verso un nuovo modello di parallelismo, che passando per il meccanismo del-la lett. g) dell’art. 117, comma 2°, consenta il recupero della disciplina “dell’ordinamento e dell’organizzazione” (rectius: dell’organizzazione e dell’esercizio della funzione) in capo allo Stato.

77 Sul punto cfr. A. CORPACI, Revisione del Titolo V e sistema amministrativo, cit., 1312, che escludeva la possibilità di recuperare competenze legislative sulla base dell’art. 118, seppure esigenze unitarie potessero rinvenirsi nel principio di sussidiarietà («[l]’art. 118, 1° comma, non è norma sulle fonti deputate al conferimento delle funzioni amministrati-ve, bensì solo sulle regole e principi per la loro allocazione. In ogni caso, non può essere utilizzato per introdurre deroghe o alterazioni rispetto a quanto esplicitamente previsto dall’art. 117 in punto alla spettanza della potestà legislativa».

78 Articolo che presenta evidentemente non pochi problemi interpretativi, se è vero, come sostiene G. FALCON, che i tentativi di interpretazione «hanno generato in pratica tante tesi quanti gli scritti stessi» (così ID., Nuova devolution, unità della Repubblica, cit., 763).

79 G. ROLLA, Relazioni tra ordinamenti e sistema delle fonti, cit., 325, per il quale, pure di fronte alle carenze del dato testuale, un principio di leale collaborazione che si traduce nella necessità di sedi di concertazione (e non resta confinato nell’ipotesi dei poteri sosti-tutivi dell’art. 120), sia «immanente al combinato disposto degli artt. 5 e 114, in quanto funzionale a contemperare il valore dell’unità con quello dell’autonomia».

80 Una risposta non completamente convincente, quella della Corte, ad un problema senz’altro presente. In particolare, dato il luogo (la conferenza Stato Regioni) resta tutto da chiarire il procedimento: la mancata previsione costituzionale di sedi di concertazione rende difficile prefigurare la possibilità che l’intesa sia raggiunta in assenza di un consen-so unanime delle Regioni interessate (né, come pure sembra intendere la Corte, appare di qualche utilità un percorso che passi attraverso l’accordo con “la Regione interessata”). Sono, infatti, configurabili “esigenze unitarie” territorialmente differenziate, vale a dire variabili Regione per Regione? Questo appare dubbio, cosicché sembra poco convincente detto meccanismo, della “previa intesa” con la Regione interessata: la soddisfazione di una esigenza unitaria che è alla base dell’allocabilità in capo allo Stato di una funzione amministrativa (e quindi, se del caso, anche legislativa) richiede che tale intesa avvenga non con una Regione, ma con l’intero sistema delle maggiori autonomie territoriali.

LO STATO DIFFERENZIATO 252

tima «solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui as-sumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento o-rizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà»

81. L’esigenza di una rilettura del sistema (e la tensione che lo attraversa)

sembra a ben vedere, però, discendere non tanto dal modello in sé (pure non privo di dati problematici), quanto dagli oggetti cui è chiamato a ri-ferirsi: la concorrenza-separazione delineata dal legislatore costituziona-le è parsa, infatti, da subito di difficile applicazione nel momento in cui la si andava a calare sulle “materie” del terzo comma dell’art. 117

82: ri-cerca scientifica e tecnologica, grandi reti di trasporto e navigazione, produzione trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, ordinamen-to della comunicazione …

83 Le materie concorrenti generano, a ben vedere, problemi e conflitti

non già per ciò che è carattere proprio di questa tipologia legislativa (il limite dei principi, e quindi l’uniformità nei principi)

84, ma per ciò che l’accomuna alla tipologia generale-residuale delle Regioni: la competen-za legislativa regionale (e, quindi, la differenziabilità), la difficile confi-gurabilità di funzioni amministrative unitarie in capo allo Stato

85. Il tutto, solo apparentemente stemperato dalla garanzia di uniformità

data dai principi fondamentali, risulta d’altra parte esaltato da un lato dal fatto che le materie concorrenti, essendo nominate, più difficilmente ammettono una rimozione interpretativa (che invece può coinvolgere

81 Così per la più volte citata sentenza n. 303: in merito cfr., di nuovo, il commento di L. TORCHIA (In principio sono le funzioni (amministrative), cit.).

82 In questo senso v., tra gli altri, A. D’ATENA (Materie legislative e tipologia delle compe-tenze, cit., 16), che proprio a partire dall’esame delle materie affidate alla competenza concorrente di Stato e Regioni ravvisa la scarsa consapevolezza delle forze politiche sulle conseguenze della riforma costituzionale.

83 La complessità derivante dall’applicazione del modello della concorrenza/ separazione a questi ambiti è evidente confrontandosi con le analisi di quanti si sono occupati di queste “materie”: in tal senso v., rispettivamente, tra gli altri, F. MERLONI, La ricerca scientifica tra autonomia e indirizzo politico, cit., 797; ASTRID, L’attuazione del titolo V: aspetti problemati-ci. La localizzazione delle grandi infrastrutture fra Stato e Regioni, in www.astrid-online.it, giugno 2002; cit.; S. CASSESE, L’energia elettrica nella legge costituzionale n.3/2001, in www.federalismi.it; A. VALASTRO, I diritti fondamentali in materia di comunicazione, cit. e, ci sia consentito, E. CARLONI, L’ordinamento della comunicazione cit.

84 Come rileva L. VANDELLI, la conflittualità tra Stato e Regioni non discende che in minima parte dal problema del mancato rispetto dei “principi fondamentali” statali (cfr. ID., VANDELLI L., Miti e realtà dei conflitti fra Stato e Regioni, cit).

85 In quest’ultimo senso v., in particolare, A. CORPACI, Revisione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, cit., 1305; F. MERLONI, La leale collaborazione nella Repubblica delle autonomie, cit., 848.

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 253

quelle residuali), dall’altro dal fatto che queste stesse materie coinvolgo-no ambiti di straordinaria importanza e centralità, da un punto di vista politico come economico e sociale.

Il problema nasce qui, e discende dall’impossibilità di escludere un ruolo uniformante della legislazione dello Stato che non si limiti ai soli principi: la distanza tra principio e regolazione è, nell’attuale sistema, lo spazio tra la regolazione astratta (che non dà soddisfazione a interessi puntuali) e la regolazione concreta (che tale soddisfazione garantisce).

Garante ultimo dell’unità/uniformità, ma non diretto e generale arte-fice di questa

86, lo Stato ha visto venire meno la possibilità di definire legislazioni uniformi e di articolare azioni amministrative e regolamen-tari unitarie entro campi dove pure inevitabilmente questi è (non può non essere) chiamato ad intervenire, sia in via normativa che ammini-strativa.

La problematica individuazione di un percorso per l’allocazione in capo allo Stato di competenze amministrative di tipo unitario ha reso più evidente questa inconciliabilità: portatore di istanze sussidiariamen-te unitarie, lo Stato non è, nelle materie concorrenti, primo protagonista della loro allocazione; ma possono le singole Regioni “apprezzare l’in-teresse nazionale”

87 (qui come interesse dello Stato, prima che come in-teresse della Repubblica)? E, ove lo facessero, potrebbero farlo diversa-mente, con conseguente attribuzione allo Stato di competenze sovrare-gionali differenziate “a stralcio”? E, ancora, quale è il ruolo che, in que-sto quadro, può (e deve) essere riconosciuto allo Stato?

È evidente la scarsa applicabilità di un modello, pure formalmente delineato dal legislatore costituzionale, di concorrenza-separazione: un modello nel quale lo Stato definisce i principi fondamentali sulla (o del-la) allocazione, le Regioni allocano le funzioni (anche sopra di sé) sulla base di tali principi e di quelli costituzionali di sussidiarietà, adeguatez-za e differenziazione non risponde all’esigenza di attribuire funzioni u-nitarie (ed in modo indifferenziato) allo Stato. Né, nelle materie concor-renti, tale evenienza è “costituzionalmente esclusa”, ché anzi la stessa definizione di tale sfera della concorrenza è espressione dell’esigenza di

86 Sebbene la posizione riconosciuta allo Stato, come garante ultimo di taluni valori, non possa essere considerata irrilevante anche ai fini dell’analisi del sistema “fisiologico” (profilo per il quale v. G. ROSSI-A. BENEDETTI, La competenza legislativa statale esclusiva, cit., 22.

87 Come efficacemente ha rilevato A. CORPACI, una tale possibilità sembra difficilmen-te configurabile, «dovendosi escludere che possa essere la singola Regione ad apprezzare l’esigenza di esercizio unitario a livello nazionale, conferendo determinate competenze allo Stato»: così ID., Revisione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, cit., 1310.

LO STATO DIFFERENZIATO 254

creare un luogo dove le istanze dell’unità e dell’autonomia possano con-vivere. Né, ancora, esistono ragioni formali tali da portarci a ritenere “limitata verso l’alto” l’efficacia della sussidiarietà nell’ambito di tale sfe-ra di materie

88. Problematiche, queste, con le quali inevitabilmente è stata chiamata

a confrontarsi la Corte costituzionale 89, in una fase nella quale la distan-

za tra forma costituzionale (a stampo marcatamente autonomista, se non federalista) e pratica politica statale (improntata ad un forte implu-so centralista

90, seppure tra non poche ambiguità) 91 ha reso meno effi-

cace il filtro operabile da meccanismi convenzionali (dei quali, peraltro, è ampiamente rimarcata la mancata disciplina costituzionale)

92.

4. Gli ambiti ad uniformità costituzionalmente garantita

Nell’art. 117, comma 2°, troviamo, altresì, elencate, in diciassette let-tere articolate spesso in più voci, le materie dell’uniformità normativa, e, potenzialmente, dell’unità amministrativa: materie che non sono quanti-tativamente ridotte, né in numero né in estensione, ma dalla lettura del-le quali emergono problemi interpretativi, dubbi e talune perplessità.

La prima riflessione è in ordine alla gradazione dei diritti sottesi alle diverse materie, in relazione alla diversa collocazione di queste e, quin-di, delle modalità che l’ordinamento riconosce per la loro regolazione e tutela: diritti in relazione ai quali le esigenze di eguaglianza si traducono

88 Sulle problematiche connesse all’attribuzione delle funzioni, cfr., da ultimo, P. UR-BANI, L’allocazione delle funzioni amministrative secondo il Titolo V della Cost., in Regioni, 2003, 459.

89 La Corte ha operato su più fronti, finendo per delineare (ancorché solo recentemen-te) un modello nel quale la rigidità dell’assetto costituzionale si stempera, in favore della transizione da un sistema di concorrenza-separazione ad un sistema di concorrenza-collaborazione. O meglio, delineando un sistema ad assetto variabile, nel quale i due mo-delli ora citati sono chiamati a convivere, diversamente trovando applicazione in relazio-ne ai diversi oggetti cui sono suscettibili di riferirsi.

90 «L’attuale stasi della riforma trova causa poi sia nell’eccessiva timidezza delle Re-gioni nel trarre profitto dal nuovo ordine delle competenze e, di contro, nell’eccessiva di-sinvoltura con cui lo Stato continua ad adottare atti normativi di impianto fortemente centralistico» (così A. ANZON, Il difficile avvio della giurisprudenza costituzionale cit.).

91 Ben evidenziate nell’analisi del progetto di devolution da L. VANDELLI (Devolution e altre storie, cit.).

92 Lo spazio comunque riconoscibile agli strumenti di concertazione è ampiamente esaminato, tra gli altri, da F. MERLONI, La leale collaborazione nella Repubblica delle auto-nomie, cit., 847 ss.

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 255

in uniformità; diritti ad analoga tutela, ma suscettibili di transizione verso forme di differenziazione autonomica

93; diritti a necessaria uni-formità nei principi (nel contenuto essenziale); diritti a necessaria uni-formità nel contenuto essenziale della prestazione; diritti pienamente differenziabili sul territorio

94. Il tutto, evidentemente, senza entrare nel-le problematiche de iure condendo

95. La seconda riflessione, certo non originale, verte sul carattere, non

omogeneo, delle “materie”, che non sempre sono tali in senso tecnico 96.

Tema, questo, che si ricollega alle difficoltà concettuali connesse alla nozione stessa di “materia”

97. Al fianco di materie (oggetto) vere e proprie troviamo materie-

finalistiche (la “tutela”, la “promozione” ecc.), materie-valore protetto 98,

materie “trasversali” (ordinamento civile e penale) 99, oltre che vere e

proprie funzioni e compiti (la tutela della concorrenza, la determinazio-ne dei livelli essenziali), o “competenze di sistema” di carattere trasver-

93 Quelli sottesi alle materie suscettibili di ricadere nella “clausola di asimmetria” del terzo comma dell’art. 116 Cost.

94 Quest’ultimo caso, in particolare, laddove un diritto non sia suscettibile di ricevere tutela attraverso “prestazioni”, ma non sia riconducibile ad alcuna delle materie dell’art. 117, commi 2° e 3°.

95 In particolare, nel progetto di riforma dell’articolo 117 (la c.d. Devolution: A.S. 1187) venendo meno i “principi fondamentali” in materia sanitaria, sarebbe restato affi-data unicamente alla funzione statale di “determinazione dei livelli essenziali” la «tutela dell’uniformità del diritto sociale alla salute»: cfr. E. MENICHETTI, Le pratiche terapeutiche nel nuovo assetto costituzionale cit.

96 Problema che si lega anche all’uso di criteri eterogenei nella definizione delle “ma-terie”: in base all’oggetto, all’attività, all’ente, all’istituto giuridico: v., in tal senso, già P. VIRGA, Problemi legislativi ed interpretativi cit. 113 ss.; e, da ultimo, A. D’ATENA, Materie legislative e tipologia delle competenze, cit., 15 ss.), e G. CORSO, La tutela della concorrenza come limite della potestà legislativa, cit., 981.

97 Sul concetto di “materia” v., tra gli altri, S. MANGIAMELI, Le materie di competenza regionale, cit.

98 Per R. FERRARA, La tutela dell’ambiente fra Stato e Regioni: una “storia infinita”, cit., uno stesso concetto, può «giocare un duplice ruolo», potendosi configurare la come “ma-teria in senso tecnico”, a prescindere dal fatto che essa costituisca “anche” un “valore” (con riferimento alla “materia” “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema”). Sempre sulla “materia” ambiente e sulla sent. 407 del 2002, cfr. G. GRASSO, La tutela dell’ambiente si “smaterializza”, cit.

99 E. LAMARQUE (Osservazioni preliminari sulla materia “ordinamento civile”, cit., 1354) evidenzia, in particolare, oltre a quelle individuate dalle lett. m) e p) dell’art. 117, il carat-tere “non di materia” in senso proprio vada riferito certamente anche a «la “tutela della concorrenza”, la “perequazione delle risorse finanziarie”, l’“ordine pubblico”, la “sicurez-za”, soprattutto se intesa come sicurezza degli oggetti in commercio, la “protezione dei confini nazionali” e la “profilassi internazionale”, il “coordinamento informativo statisti-co dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale”, la “tutela dell’ambiente, del-l’ecosistema e dei beni culturali».

LO STATO DIFFERENZIATO 256

sale 100. In merito alla classificazione delle diverse “voci”, la dottrina e,

seppure ancora episodicamente, la giurisprudenza hanno già contribuito ad evidenziare la complessità del quadro prefigurato dal legislatore co-stituzionale.

Non è nelle nostre finalità la ricognizione della modellistica che, in tal senso, l’interpretazione della riforma sta delineando: materie

101 che tagliano interi “fasci di rapporti”

102, materie non materie 103, materie

“trasversali” 104, materie valore protetto

105, ma anche materie “scudo” 106,

funzioni e compiti 107, principi “valvola”

108: i modelli proposti, e, sono va-ri, come le terminologie utilizzate

109.

100 In tal senso G. MELONI, Il nuovo assetto costituzionale delle competenze e la legisla-zione di settore in materia di assistenza sociale, Relazione al Convegno Le politiche sociali integrate nel nuovo quadro costituzionale, CNEL, Roma, 6 maggio 2002, in Amministra-zione in cammino (www.amministrazione incammino.luiss.it).

101 L’art. 117, comma 2°, Cost. afferma espressamente: “lo Stato ha legislazione esclu-siva nelle seguenti materie” e, come rileva R. FERRARA (La tutela dell’ambiente fra Stato e Regioni: una “storia infinita”, cit., 690) «[l]’approccio di tipo meramente esegetico può forse apparire insufficiente, ma un qualche peso dovrà pur averlo, se le parole hanno un senso».

102 «[È] chiaro che quando si riserva allo Stato la “giurisdizione e norme processuali”, o l’“ordinamento civile e penale” non si separa semplicemente e quasi orizzontalmente una materia dall’altra, ma si individuano specifici ed essenziali fasci di rapporti, soggetti alla sola potestà statale»: così G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V, cit., 1251.

103 Seguendo la fortunata definizione di A. D’ATENA, Materie legislative e tipologia delle competenze cit.

104 «Titolo di legittimazione sostanzialmente trasversale alle materie» è la definizione data da G. FALCON, Il nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, cit., in riferi-mento alle lettere m) e p) del secondo comma dell’art. 117 della Costituzione

105 Così la materia “tutela dell’ambiente”, ai sensi della sent. n. 407 del 2002 della Cor-te costituzionale: un valore costituzionalmente protetto, per il perseguimento del quale lo Stato «può dettare standards di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale incidenti anche sulle competenze legislative regionali».

106 V. A. CHIAPPETTI, La caccia tra Europa, Stato e Regioni dopo il nuovo Titolo V della Costituzione, in Atti del convegno Ecosistema e Caccia tra Stato e Regioni, Roma, 10 di-cembre 2002, 41, parlando delle materie ex art. 117, comma 2°, sottolinea «come molte di esse, più che vere e proprie materie sono settori dell’azione dello Stato centrale, diretti alla soddisfazione di interessi unitari o nazionali. In tali casi si dovrebbe parlare più che di materie, di funzioni-scudo o materie-scudo».

107 Così, alcune “materie” sono piuttosto compiti propri dello Stato (in particolare, così è per i “livelli essenziali delle prestazioni”: cfr. G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V, cit., 1252.

108 In tal senso v. T. GROPPI (La garanzia dei diritti tra Stato e Regioni, cit., 3), per la quale la competenza statale dell’art. 117, comma 2°, lett. m), «si presta ad essere utilizza-ta come “principio valvola”».

109 Frutto, evidentemente, dell’eterogeneità dei criteri utilizzati dal legislatore costitu-zionale (per tutti, v., di nuovo, G. CORSO, La tutela della concorrenza come limite della po-testà legislativa, cit., 981).

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 257

Né è possibile entrare, in questa sede, nella (quanto mai problemati-ca) definizione dei diversi “oggetti”, enumerati e non: piuttosto è da chiedersi se vi sia una razionalità sottesa alla scelta delle materie ed alla loro diversa collocazione. In alcuni casi sembra di sì: la Costituzione ri-formata riserva allo Stato anzitutto le materie tradizionalmente proprie dello Stato liberale (materie che tanto la riforma (fallita) della Bicamera-le che il processo di “federalismo amministrativo” delle leggi Bassanini avevano, sulla stessa linea, mantenuto in capo alle strutture nazionali) e nella riserva di queste materie allo Stato possiamo rinvenire un dato si-stemico

110. Lo Stato uniforme è, anzitutto, seppure non esclusivamente, lo Stato

liberale, della moneta, dell’ordine interno, della sicurezza esterna, del codice civile

111 e penale, della giustizia. Il mondo delle libertà negative e delle relazioni interprivate tra uguali è di norma soggetto ad una disci-plina statale (quindi, tendenzialmente uniforme), ed è il diritto pubblico (di più, il diritto amministrativo) il luogo “ordinario” della differenzia-zione

112. Ma se, come detto, l’organizzazione prefigura la cura concreta dei di-

ritti e dei valori, dobbiamo allora verificare, e valutare, se e in che misu-ra l’organizzazione dello Stato autonomico sia parametrata ai diritti e valori sanciti dalla Carta costituzionale o, in altre parole, in che misura e rispetto a quali ambiti l’ordinamento giunga ad ammettere margini di autonomia/differenziazione/disuguaglianza con riferimento a diritti co-stituzionali.

Questa verifica determina, peraltro, la necessità di confrontarci da un lato con la relazione tra Titolo V e prima parte della Costituzione, nel senso della “copertura organizzativa” data ai diversi diritti costituziona-li, dall’altro con la relazione inversa, laddove nelle stesse affermazioni dei diritti sia ravvisabile un vincolo anche organizzativo ed uno specifico limite alla differenziazione.

Si tratta, in altri termini, di una “doppia rilettura”: non tutti i diritti

110 Indicazioni ancora più significative emergono dal raffronto tra i diversi progetti di riforma del sistema: un quadro (al 1997) ne è fornito in F. PIZZETTI, Federalismo, regiona-lismo e riforma dello Stato, cit.

111 Profilo che merita a ben vedere di essere esaminato con particolare attenzione, in relazione alla delicatezza della delimitazione della “materia” “ordinamento civile” (su cui, comunque, v. sin d’ora, E. LAMARQUE, Osservazioni preliminari sulla materia “ordinamen-to civile”, cit.).

112 Come rilevato, tra gli altri, ancora da G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Ti-tolo V, cit., 1252 («oggetto di potestà legislativa regionale sono, fondamentalmente, i rap-porti amministrativi»).

LO STATO DIFFERENZIATO 258

costituzionali hanno un riflesso in un vincolo all’uniformità, non tutti gli spazi di uniformità sono definiti dal secondo (e terzo) comma dell’art. 117

113.

4.1. Le materie ed i diritti: brevi riflessioni sui diritti costituzionali tra uni-versalità e differenziazione territoriale

Il raffronto tra “i diritti costituzionali” della prima parte e l’artico-lazione dello Stato della seconda, mostra i limiti e le contraddizioni di una riforma costituzionale formidabile, ma non sistematica.

Sono vari i diritti costituzionali suscettibili di differenziazione (“di regolazione”, rientrando nelle materie di legislazione concorrente, se non addirittura “libera”), e questo senza pretesa di esaustività: il diritto al lavoro (art. 4 e art. 35)

114; il diritto di sciopero (art. 40); il diritto alla salute (art. 32)

115; il diritto all’istruzione (art. 34) 116 e la libertà di inse-

gnamento (art. 33); le libertà di comunicazione e di informazione (attra-verso mezzi di comunicazione di massa) degli articoli 15 e 21

117; la liber-

113 Se tra diritti fondamentali e materie “riservate allo Stato” vi è una corrispondenza, questa non è invero completa, non sembra essere cercata, e sono rinvenibili “dimentican-ze” che, però, non necessariamente determinano “vuoti di uniformità” insostenibili per il sistema, posto che se la riforma del titolo V ripercuote i suoi effetti anche sulla prima parte della Costituzione, vero è anche il contrario. Sotto quest’ultima angolazione, un si-mile confronto in taluni casi, mostra aree di uniformità costituzionalmente garantita con-tenute nella prima parte della Costituzione, con la conseguenza di una necessaria rilettu-ra (integrazione) dell’elencazione delle materie uniformi contenuta nell’art. 117.

114 La competenza legislativa in tema di “tutela e sicurezza del lavoro” passa alle Regio-ni, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali. Se è, quanto meno prima faciae, evidente cosa si intende per “sicurezza” del lavoro (nozione riconducibile agli am-biti oggi regolati dal decreto legislativo 626 del 1994), più complesso risulta individuare debba essere compreso nel termine “tutela” del lavoro (tenendo conto del fatto che l’ordinamento civile rientra nell’attribuzione esclusiva della legislazione statale). Sul pun-to cfr., in particolare, M.V. BALLESTRERO, Differenze e principio di uguaglianza, cit., 424 ss, T. TREU, Diritto del lavoro e federalismo, cit.

115 Si tratta di un ambito cui la dottrina ha prestato particolare attenzione: tra gli altri v. R. BALDUZZI-G. DI GASPARE (a cura di), Sanità e assistenza dopo la riforma del Titolo V, cit.; G. PASTORI, Sussidiarietà e diritto alla salute, cit., 85 ss.

116 Cfr., sul punto, A. POGGI (Istruzione, formazione professionale e Titolo V, cit., 803 ss.; A. SANDULLI, Il sistema nazionale di istruzione, Bologna, 2003; e, con un’attenta rifles-sione sulle prospettive del sistema nella prospettiva della previsione dell’art. 118, u.c., C. MARZUOLI, Istruzione e ‘Stato sussidiario’, in Dir. pubbl., 2002, 117 ss.

117 V., sul punto, A. VALASTRO, I diritti fondamentali in materia di comunicazione cit.; e, ci sia consentito nuovamente, E. CARLONI, L’ordinamento della comunicazione cit.; si ve-dano inoltre gli interventi di B.E. Tonoletti, P. Caretti, F. Merloni, A. Valastro ed E. Car-loni, in AA.VV., Regioni ed ordinamento della Comunicazione, cit.

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 259

tà di iniziativa privata (art. 41). Non pacifica appare, poi, la posizione da riconoscere alla “libertà della scienza” dell’art. 33

118, ma l’esemplifi-cazione potrebbe continuare

119. Non vi è, in sostanza, una chiara corrispondenza tra competenze sta-

tali fissate dall’art. 117, secondo comma, ed esigenze di uguaglianza nei diritti costituzionali che emergono dalla prima parte. Diritti interprivati e libertà (“negative”) sono però affidati di norma allo Stato, a garanzia di una applicazione uniforme sul territorio nazionale (e questo ad un li-vello formale, al di là dell’esercizio statale della propria competenza sui “livelli essenziali”): sono i diritti sociali e le “libertà positive” a prefigu-rarsi come maggiormente suscettibili di differenziazione, senza che, in questo, vi sia però un’univocità nella scelta del legislatore costituzionale, né una costruzione del riparto di competenze (organizzazione) come le-gata ai diritti fondamentali sanciti dalla prima parte della Costituzione.

Il che ci spinge, anzitutto, ad una riflessione: il legislatore costituzio-nale non ritiene (non più) che, in via generale, la tensione all’ugua-glianza che pure percorre per larghi tratti la prima parte della Carta re-pubblicana possa, di nuovo, essere letta necessariamente come unifor-mità (“forte”, normativa ed amministrativa, o comunque normativa “spes-sa”). Appare anzi, di norma, sufficiente a soddisfare le esigenze di uni-formità che, in particolare, si incardinano nelle numerose riserve di leg-ge, una uniformità “sottile”, limitata ai principi e (di norma) estranea all’amministrazione, se non addirittura la sola uniformità nel contenuto essenziale dei diritti, garantita dai c.d. livelli essenziali

120. Il principio di uniformità, come traduzione in moduli organizzativi e

relazionali di condizionamento dell’autonomia, come limite all’effettivo dispiegarsi di questa autonomia in ordine a diritti costituzionali non dif-ferenziabili, è sotteso allo stesso articolo 3, nel suo rapporto con gli altri diritti affermati nella prima parte della nostra Carta fondamentale: in quanto tale questo principio non viene meno. Vengono meno, però, in

118 Su cui v. F. MERLONI, La ricerca scientifica tra autonomia e indirizzo politico, cit., 797 ss.

119 Così, ad esempio, v., in relazione ai “servizi sociali” (ed al compito all’assistenza che grava sui soggetti pubblici ai sensi dell’art. 88, comma 1°, Cost.), dove pure è partico-larmente delicata, in primo luogo, la rilettura del confine pubblico/privato (ai sensi dell’art. 118, uc.), E. FERRARI, Lo Stato sussidiario: il caso dei servizi sociali, in Dir. pubbl., 2002, 99 ss.

120 Dizione che è da un lato più corretta in una connotazione relazionale, ma dall’altro portatrice (evocatrice) di un “senso” (politicamente) rilevante: in via generale, per tale ra-gione, tenderemo ad utilizzare la nozione di uniformità/uguaglianza “di base” (anziché minimale).

LO STATO DIFFERENZIATO 260

modo analogo a quanto ravvisato per l’interesse nazionale, le modalità storiche nelle quali si era tradotto; ne viene meno la portata generale ed il modello nel quale si incardina: l’uguaglianza passa, in via generale, per una uniformità del “contenuto essenziale” del diritto su tutto il terri-torio nazionale.

Rispetto al mutato obiettivo, che sposta l’accento dal dato formale (universale) a quello sostanziale (di base) dell’uguaglianza, pure ed anzi proprio con riferimento a diritti costituzionalmente rilevanti, sono nuovi i meccanismi e gli strumenti assunti dall’ordinamento. Questo, peraltro, premettendo sin d’ora l’esigenza di non confondere livelli essenziali e li-velli minimi, posto che l’essenzialità va riferita al nucleo incomprimibile dei (singoli) diritti ed alla loro consistenza costituzionale come limite all’arbitrio della politica

121. Il modello del “servizio universale”, applicato allo Stato sociale, è, fat-

te queste precisazioni, tendenzialmente soddisfacente per il legislatore costituzionale, andandosi ad incrociare (intrecciare, sovrapporre) con altre materie, funzioni e compiti riservati allo Stato, laddove necessario alla tenuta dell’unità ordinamentale, prima ancora che alla garanzia dell’uguaglianza.

Ma se la riforma dell’organizzazione della Repubblica si ripercuote sulla prima parte della Costituzione, obbligandoci a rileggere (reinter-pretare) la stessa disciplina dei diritti civili e sociali, oltre che lo stesso principio di uguaglianza, vero è, inevitabilmente, anche il contrario: la lettura della prima parte della Costituzione è, anzi, essa stessa griglia di tenuta e di interpretazione del sistema. È, in particolare, fonte di espan-sione dell’uniformità normativa (e di riduzione degli spazi della diffe-renziazione autonomica)

122.

121 In tal senso, tra gli altri, cfr. U. ALLEGRETTI, intervento al Convegno di Genova (23 febbraio 2003), La Sanità italiana tra livelli essenziali di assistenza, tutela della salute e pro-getto di devolution; il quale rimarca anche come il nucleo essenziale dei diritti sia variabi-le e che vada via via incorporato nei livelli essenziali. In un’ottica più ampia, cfr. ID., Di-ritti e Stato nella mondializzazione, cit., 249.

122 Ulteriori ipotesi di “uniformità qualificata” possono poi rintracciarsi in altre dispo-sizioni della Costituzione, evidentemente insistenti su materie non di competenza esclu-siva statale: il divieto di violare “i limiti imposti dal rispetto della persona umana” in campo sanitario (art. 32, secondo comma: pure di fronte al “nuovo ordine” differenziato, l’individuo mantiene caratteri di universalità insuscettibili di trattamento diversificato (ché altrimenti ciò che è incompatibile con il rispetto della persona umana in un territo-rio non lo sarebbe in un altro, con buona pace dell’inviolabilità dei diritti dell’uomo).

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 261

4.2. Diritti sociali e diritti civili nella differenziazione autonomica: profili applicativi

Dal punto di vista formale, sembra emergere, in particolare, un (nuo-vo ed ulteriore) “statuto costituzionale” dei diritti sociali che prevede il necessario coinvolgimento dei diversi soggetti tra i quali è ripartita la funzione legislativa: questo perché, a ben vedere, in ordine agli ambiti materiali su cui insistono i diritti sociali di rilievo costituzionale, la competenza non è di norma esclusivamente affidata allo Stato, né alle Regioni

123. Questo avviene, però, attraverso modalità diverse. Dei “quattro pilastri” dello Stato sociale (istruzione, lavoro, previden-

za, salute), che pure non avevano conosciuto tutti una piena attuazione nell’ordinamento repubblicano, nessuno risulta ricadere esclusivamente “nella sfera dell’uniformità”.

La previdenza sociale vi ricade in modo prevalente, ma non completo 124.

L’istruzione è “distribuita” tra i vari modelli di legislazione, con una “schizofrenia legislativa” di cui non sempre appare chiaro il senso: le “norme generali” sull’istruzione restano di competenza esclusiva statale (ma non sembra, peraltro, che ad una simile “materia” possa corrispon-dere un’amministrazione “di prestazione”), l’istruzione è in legislazione concorrente, l’istruzione (e la formazione) professionale è nella compe-tenza residuale delle Regioni. Le “norme fondamentali” citate sono, poi, suscettibili di essere affidate alle Regioni attraverso il percorso del terzo comma dell’art. 116

125. Questo, peraltro, senza che il legislatore della riforma faccia parola

dell’università, pure evidentemente inquadrabile attraverso le “norme generali sull’istruzione”. Il disegno appare, in effetti, di una certa com-plessità.

Ciò che si è detto per l’istruzione vale, in misura ancora maggiore, per il “lavoro”: la cui disciplina, come diritto civile, appare garantita quanto a profili di uniformità dalla riserva dell’art. 117, lett. l), ma, come diritto sociale, sembra altresì suscettibile di rilevanti margini di differen-

123 E questo a prescindere (e già prima) dalla competenza statale sui “livelli essenziali”. 124 Restandone esclusa l’area della previdenza complementare ed integrativa. Sul pun-

to, amplius, cfr. A. POGGI, La previdenza sociale dopo la riforma dell’art. 117, in Ist. del fe-deralismo, 2002, 759 ss.

125 Si ritiene, in particolare, che attraverso le “norme generali” possano definirsi gli ambiti affidati all’autonomia delle Università e definire le regole che ne disciplinano l’azione.

LO STATO DIFFERENZIATO 262

ziazione su base territoriale 126. Seppure la dizione lasci adito a dubbi in-

terpretativi, la previsione della sola “tutela e sicurezza” del lavoro in le-gislazione concorrente sembra demandare alla competenza (esclusiva) regionale tutto il campo delle c.d. “politiche attive del lavoro”, restando peraltro dubbia la competenza in ordine agli “ammortizzatori sociali”

127. La “salute” (sistema socio-sanitario) è forse il campo nel quale si a-

prono più incontrollate le prospettive di differenziazione, ritenendosi (costituzionalmente) sufficiente la previsione della “tutela della salute” (oltre che della “alimentazione”) in legislazione concorrente.

In queste materie salta dunque, ma in misura diversa, la garanzia da-ta da una uniformità normativa sul territorio nazionale, ma viene anche meno quella “uniformità amministrativa” che pure aveva caratterizzato con forza il sistema dei diritti “costosi” nel nostro ordinamento

128. La riforma costituzionale, nelle materie demandate alla competenza

esclusiva regionale ma anche in quelle riconducibili alla potestà concor-rente, determina dunque prospettive di differenziazione nella disciplina giuridica e di rottura dell’unità del regime giuridico di tutela di diritti so-ciali fondamentali.

Si tratta di una problematica che merita di essere più attentamente esaminata, ma che qui potremo sviluppare solo a livello esemplificativo.

Così, ad esempio, per il diritto del lavoro l’uniformità nazionale del diritto è oggetto di rivisitazione, come conseguenza dell’apertura all’au-tonomia: ma non lo è tanto nel cuore privatistico dei diritti stessi, quan-to nella regolazione/prestazione pubblicistica di tutela, nella previsione di politiche per il lavoro. L’area del rapporto più strettamente privatisti-co/contrattuale è “coperta”, quanto ad uniformità/unitarietà della disci-plina, dalla riserva allo Stato sull’ordinamento civile

129 e, quindi, della disciplina del rapporto tra eguali (struttura essenziale del rapporto di la-

126 A ben vedere, peraltro, la stessa dimensione del diritto civile sembra non univoca-mente riconducibile nella competenza esclusiva dello Stato, dal momento che la “tutela del lavoro” è affidata alla competenza concorrente di Stato e Regioni. Sul punto, cfr. M.V. BALLESTRERO, Differenze e principio di uguaglianza, cit., 424 ss.

127 Per un approfondimento del tema, v. T. TREU, Diritto del lavoro e federalismo, cit. 128 Così in tema di assistenza, dove peraltro il cambiamento è (relativamente) ridotto,

trattandosi di una materia già in potestà legislativa concorrente. Una sensibile differenza rispetto al passato è costituita dal fatto che prima allo Stato era consentito adottare una normazione di dettaglio cedevole in attesa di quella regionale, mentre oggi tale possibilità non sembra più permessa.

129 Su cui, diffusamente (ed attentamente), v. E. LAMARQUE, Osservazioni preliminari sulla materia “ordinamento civile”, cit., 1343 ss.

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 263

voro, momenti essenziali della disciplina del rapporto) 130. Tale conclu-

sione, peraltro, per quanto coerente con la ratio della riforma costitu-zionale, non tiene in adeguata considerazione l’evoluzione del diritto del lavoro (come diverso dal diritto privato)

131 e dello stesso “ordinamento” civile: non più diritto del codice civile, ma diritto decodificato, che si fonda sulle leggi speciali non meno che sulla disciplina codicistica

132. Certo appare d’altra parte insostenibile ritenere tout court

133 confer-mato dalla riforma costituzionale il limite del diritto privato, come ela-borato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale

134. Gli “oggetti” elencati dal terzo comma dell’art. 117, in particolare, evidenziano la rife-ribilità dell’intervento regionale anche ad ambiti (seppure non unica-mente) di diritto privato

135. Per “prendere sul serio” le conseguenze della riforma, basti pensare,

seguendo un’esemplificazione già prospettata 136, alla controversa tema-

130 Si tratta di una delle interpretazioni proposte, pure criticamente, da M.V. BALLE-STRERO, Differenze e principio di uguaglianza, cit., 424 ss. e, in particolare, dell’interpreta-zione più rispondente al dettato delle disposizioni del Titolo V.

131 In virtù dell’evoluzione della disciplina, che ha mirato ad una compressione dell’autonomia contrattuale individuale, ma che trova il suo fondamento sulla funzione protettiva delle norme lavoristiche (cfr. M.V. BALLESTRERO, Differenze e principio di ugua-glianza, cit., 424).

132 Per tutti: N. IRTI, L’età della decodificazione vent’anni dopo, cit., passim. 133 Seppure, con E. LAMARQUE (ult. op. cit.), al giuspubblicista possa sembrare prima

faciae da sostenere che «il nuovo testo abbia voluto rendere espliciti i limiti alla legisla-zione regionale che la giurisprudenza costituzionale aveva già individuato come impliciti nella Costituzione del 1948, e che sono conosciuti in tutti i manuali di diritto costituzio-nale e regionale con il nome di limiti del diritto processuale, del diritto privato e del dirit-to penale» (ivi, 1343). In merito a tale limite, alla sua affermazione ed alla sua evoluzione nella giurisprudenza della Corte, cfr. C. MORTATI, Sulla podestà delle Regioni di emanare norme di diritto privato, in Giur. cost., 1956, 993 ss.

134 Critica, nei confronti di un’ipotesi di continuità è A. RUGGERI (Riforma del Titolo V e vizi delle leggi regionali cit.), per il quale, anzi, «il limite dei rapporti privati […] richiede oggi di esser ripensato ab ovo, e senza alcun pregiudizio ideologico o di dottrina». Sulla distinzione, interna alla scienza giusprivatistica, del diritto civile come diverso dal diritto privato, ovvero come al diritto civile «soprattutto come summa dei principi e delle regole che debbono valere come comuni elementi di base, come tessuto connettivo, appunto, per tutti i settori del diritto privato», v. G. CIAN, Il diritto civile come diritto privato comune, in Riv. dir. civ., 1989, 4.

135 Quale, appunto, la “tutela del lavoro” qui in esame. In questo senso v. N. IRTI, Sul problema delle fonti in diritto privato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, 702, con la riforma del titolo V alla potestà legislativa delle Regioni non è precluso il diritto privato: «tra le materie di legislazione concorrente, figurano talune (tutela della salute, ordinamento sportivo, ordinamento delle comunicazioni ecc.) suscettibili di disciplina pubblicistica e privatistica». Non diversamente (perlomeno quanto a conclusioni), seppure con riferi-mento al progetto della Bicamerale, G. ALPA, Il diritto costituzionale sotto la lente del giu-sprivatista, in Riv. dir. cost., 1999, 34 et passim.

136 Da M.V. BALLESTRERO, Differenze e principio di uguaglianza, cit., 425 ss.

LO STATO DIFFERENZIATO 264

tica del diritto al reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa: a tenere ferma la (stretta) interpretazione di “ordinamento civile” prima data, la collocazione di questa “regolazione tra diseguali” apparirebbe riconducibile alla materia (concorrente) della “tutela del lavoro”. Qual è, allora, il principio fondamentale (desumibile dalla legislazione statale): verosimilmente, quello del reintegro o del risarcimento del lavoratore illegittimamente licenziato, sulla base di parametri definiti dal legislato-re (dal momento che la legislazione statale non riconosce il diritto al reintegro come universale, ma lo subordina alla dimensione aziendale).

La traduzione in concreto di questo principio, vale a dire la specifica disciplina del reintegro o del risarcimento rientrerebbe, perciò, nella competenza esclusiva regionale.

Il che, con tutta evidenza, apre la strada a differenziazioni nella “tute-la del lavoro” (se di questo si tratta) che rompono l’uguaglianza formale, e sostanziale, dei cittadini sul territorio, ed aprono in potenza la strada ad una corsa “al ribasso”, ad un dumping sociale tra territori

137. Una di-versa linea interpretativa passa, altresì, per l’estensione della nozione di “ordinamento civile”, operazione anch’essa non priva di fondamento, al-la luce del termine utilizzato dal legislatore della riforma (ordinamento) e del carattere progressivamente assunto dal sistema “decodificato” del diritto civile. Estendendo la portata di “ordinamento civile”, potremmo contenere questi spazi di differenziazione/disuguaglianza, a pena, però, di una perdita di razionalità al sistema (tramite una rimozione interpre-tativa del potenziale differenziante della riforma) e di una estensione ec-cessiva di questa (ma, in casi analoghi, anche di altre) competenza tra-sversale che pure la stessa Corte ci suggerisce soggette a “stretta inter-pretazione”

138. Il carattere orizzontale o trasversale di talune materie, determina in-

fatti la necessità di operarne un’interpretazione non estensiva, a pena di limitare oltre misura la portata innovativa della riforma

139: così per la

137 Né, evidentemente, la funzione riservata allo Stato in tema di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni appare in grado di contenere tutti questi rischi. Non lo consente in astratto il modello (che prevedendo una uniformità sostanziale di base si pre-sta a differenziazioni in ciò che di base non è), ma soprattutto può non consentirlo la fat-tispecie concreta: in casi come quello qui in esame, dove il diritto del singolo non si con-fronta con una prestazione del pubblico ma con una regolazione asimmetrica e di garan-zia, è attraverso altri meccanismi (e, nel caso in esame, eventualmente un attento utilizzo dei principi) che si possono contenere i rischi altrimenti insiti nel nuovo sistema.

138 V., in tal senso, la sentenza n. 282 del 2002. 139 In particolare, per A. FERRARA (La “materia ambiente” nel testo di riforma del titolo

V, in Problemi del federalismo, cit., 188), «un’azione di riforma sicuramente volta ad am-pliare i poteri delle Regioni e delle altre autonomie territoriali non può essere interpreta-

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 265

“materia” ordinamento civile 140, che parrebbe prefigurare la conferma

(ed esplicitazione) del tradizionale limite del diritto privato (limite che, come noto, si è configurato come traduzione diretta delle esigenze di u-niformità del sistema). Finalità di tale limite era, infatti, quella di assi-curare in tutto il territorio nazionale una uniformità di disciplina rispet-to ai rapporti intercorrenti tra soggetti privati, in conformità ad esigenze scaturenti essenzialmente dall’art. 3 della Costituzione

141. Intangibilità dell’uniformità privatistica (riflesso e retaggio del rap-

porto tra uguaglianza e codificazione) che, peraltro, già nel previgente sistema aveva conosciuto qualche attenuazione

142, dal momento che, confrontandosi con l’istanza autonomistica «anche la disciplina dei rap-porti privatistici può subire un qualche adattamento»

143. Più corretto, allora, muovere dai “principi”, fintanto che l’ambito ma-

teriale, ricadendo nella competenza concorrente di Stato e Regioni ce lo consente: un principio in grado di prefigurare non solo i “tratti fonda-

ta, in nessun caso, nel senso di ridurre il quadro delle competenze» ad esse già in prece-denza attribuite. Il che, valido come criterio generale di analisi della transizione, non ap-pare però necessariamente (ed inevitabilmente) vero. La circoscrizione della sfera dell’uniformità ad una serie limitata di oggetti, giustifica la loro più attenta delimitazione, che può passare anche attraverso la rimodulazione (riducendone l’estensione su uno spe-cifico ambito) del confine delle competenze regionali.

140 Su cui E. LAMARQUE, Osservazioni preliminari sulla materia “ordinamento civile” cit. per la quale, come in parte già visto, «la riserva allo Stato dell’ordinamento civile appare chiaramente come la verbalizzazione di quella esigenza di uniformità nella disciplina dei rapporti giuridici tra privati, già richiamata dalla Corte a fondamento del limite del dirit-to privato nella sua più recente giurisprudenza» (ivi, 1355). In merito all’evoluzione della giurisprudenza costituzionale su questo limite (nella vigenza del “vecchio” Titolo V), v. da ultimo la sentenza n. 352 del 2001, commentata dalla stessa E. LAMARQUE: ID., Aspettan-do il nuovo art. 117 della Costituzione: l’ultima pronuncia della Corte costituzionale sul li-mite del diritto privato della legislazione regionale, in Regioni, 2002, 579 ss.).

141 Il solo richiamo al principio di uguaglianza, quale fondamento dell’esigenza di ga-rantire l’uniformità nel territorio nazionale delle regole che disciplinano i rapporti fra privati, si ritrova nella sentenza n. 82 del 1998, nell’ordinanza n. 243 del 2000 e nella sen-tenza n. 352 del 2001. Sul collegamento con l’art. 2 (e quindi sulla riduzione dell’esten-sione di quel limite), cfr. la sentenza n. 462 del 1995 e la sentenza n. 35 del 1992 (sulla quale v. E. BALBONI, La Corte apre uno spiraglio per gli interventi regionali nel diritto priva-to?, in Regioni, 1992, 1751 ss.).

142 Per E. LAMARQUE, Osservazioni preliminari sulla materia “ordinamento civile”, cit., 1352: «[l]a più recente giurisprudenza costituzionale, quindi, “approfittando” della man-canza di una espressa indicazione nel vecchio testo costituzionale del limite del diritto privato, si era ormai avviata verso l’attenuazione del limite, in favore di una espansione dei poteri legislativi regionali.»

143 E l’“adattamento” da parte della fonte regionale viene ritenuto ammissibile ove: «a) risulti in stretta connessione con la materia di competenza regionale e […] b) risponda al criterio di ragionevolezza, che vale a soddisfare il rispetto del richiamato principio di e-guaglianza»: cfr. sent. 352 del 2001, su cui v., di nuovo, le riflessioni di E. LAMARQUE, A-spettando il nuovo art. 117 della Costituzione, cit., 579 ss.

LO STATO DIFFERENZIATO 266

mentali” uniformi di una disciplina differenziata regionale, ma già il “contenuto fondamentale” (rectius, contenuto minimo essenziale), insu-scettibile di differenziazione in malam partem, dei diritti. Una uniformi-tà “di base” dei diritti “non a contenuto pubblico prestazionale” che ac-compagna, ed integra, la competenza statale a definire il “livello essen-ziale” delle prestazioni, ai sensi della lettera m) del secondo comma del-l’art. 117: tema sul quale, evidentemente, è necessario più attentamente soffermarsi.

5. L’uniformità di base nel godimento dei diritti. Il ruolo dei “livelli essenziali” per la costruzione di un nuovo modello di uniformità

È dunque su nuove basi che si fonda, in via generale, l’uguaglianza dei cittadini sul territorio nazionale. E queste basi hanno carattere sostanzia-le, non più formale, ma non più (astrattamente) paritario: è un’ugua-glianza garantita, trasversalmente alle diverse materie, dalla competenza statale sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernen-ti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio na-zionale

144. Livelli essenziali delle prestazioni, che è cosa diversa da livelli mini-

mi 145, capaci di garantire (in astratto) un’adeguata soddisfazione del di-

ritto anche in quanto questo sia affidato (come regolazione formale) alle fonti di autonomia.

Ma mentre il livello definito dallo Stato 146 nell’esercizio della propria

competenza ex art. 117, comma 2°, lett. m) sarà non minimale, ma “essen-

144 Art. 117, comma 2, lett. m.). Per un approccio al tema, cfr., tra gli altri, G. ROSSI-A. BENEDETTI, La competenza legislativa statale esclusiva, cit., 25 ss.; E. MASSA PINTO, Conte-nuto minimo essenziale dei diritti costituzionali e concezione espansiva della Costituzione, in Dir. pubbl., 2001, 1050 ss.; C. PINELLI, Sui “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” (art. 117, co. 2, lett. m, Cost.), in Dir. pubbl., 2002, 881 ss.; per un inquadramento sistematico dei livelli essenziali nell’ambito di quelli che abbiamo sin qui definito le traduzioni del principio di uniformità (e, quindi, dei meccanismi dell’uni-formità), v. ora F. PIZZETTI, La ricerca del giusto equilibrio, cit., 615 ss.).

145 Cfr. A. POGGI, Istruzione, formazione professionale e Titolo V, cit., 803. 146 In merito a questo sorge, peraltro, il problema della fonte abilitata: su punto cfr. Corte

cost., 27 marzo 2003, n. 88, su cui v., E. MENICHETTI Livelli essenziali di assistenza sanitaria: un punto fermo sulla forma e sulla procedura per l’individuazione … ed un punto interrogativo sull’accezione in chiave organizzativa, in Amministrazione in Cammino (www.amministrazione incammino.luiss.it): sul punto per la Corte sembra sufficiente che le scelte «almeno nelle loro linee generali, siano operate dallo Stato con legge».

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 267

ziale”, con tutto ciò che ne discende in termini di irrivedibilità del contenu-to storicamente determinato del diritto

147, di spazio materiale del diritto non suscettibile di riduzione da parte degli organi politici 148, l’uguaglianza sul territorio, come relazione tra soggetti, sarà essa sì minimale

149. Un nuovo, e “più evoluto”, concetto di equivalenza, che passa attra-

verso l’amministrazione 150 oltre che attraverso la legislazione: ciò che ri-

leva è il raggiungimento di un obiettivo, concreto e reale, un livello es-senziale, e non più una disciplina uniforme, attuata attraverso soggetti pubblici uniformi anch’essi. Uniformità che, evidentemente, non è stata in grado di ridurre efficacemente le differenze sostanziali presenti sul territorio. Una uniformità “nelle condizioni di vita”, in sostituzione di una uniformità formale, che però ammetteva (di più, sottintendeva) forti differenziazioni sostanziali. Che si affermi un nuovo modello centrato sul risultato dell’azione dei pubblici poteri prima che sui caratteri e mo-delli di questa azione è, d’altra parte, frutto di un mutamento di sensibi-lità rispetto al ruolo e alla funzione stessa dei soggetti pubblici già evi-denziatasi ed affermatasi nel nostro sistema ordinamentale.

Un quadro nel quale la competenza statale sancita dalla lettera m) del secondo comma dell’art. 117

151 ha un rilievo centrale 152: si tratta, come

147 Il dibattito legato alla problematica dell’irrivedibilità (riduzione) del livello di tutela accordato ad un diritto sociale (in forza dell’art. 3, comma 2), restando stabile od aumen-tando il prodotto interno lordo, è complesso e, come già G.U. RESCIGNO, Principio di sus-sidiarietà orizzontale e diritti sociali, cit., 34, ci limitiamo ad evocarlo.

148 V. Costituzione Spagnola, art. 53, comma 1°, Legge fondamentale tedesca, art. 19, Co-stituzione portoghese, art. 18, comma 3°; ma anche l’art. 52 della Carta Europea di Nizza.

149 Cfr., in tal senso, I. MASSA PINTO, Contenuto minimo essenziale dei diritti costituzio-nali, cit., 1055 ss.

150 Questo modello è espressione di una più generale tendenza all’inversione del rap-porto tra azione ed organizzazione: la seconda non è più vista come la causa diretta della prima, ma sembra essere sempre più l’organizzazione a doversi adeguare alle necessità dell’azione. In questo senso cfr. A. PIOGGIA, La competenza amministrativa, cit., 12, che parla di «tendenza all’inversione dei termini del rapporto tra attività e organizzazione, verso una tendenziale “subordinazione” della seconda alle esigenze della prima».

151 V., in tal senso, Corte cost., sent. n. 88 del 2003, ai sensi della quale quello dei livelli essenziali è uno «strumento per garantire il mantenimento di una adeguata uniformità di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti» in un sistema improntato ad un grado «di autonomia regionale e locale decisamente accresciuto».

152 Questo strumento, che, senza realizzare una mobilità delle competenze (come attri-buzione), le condiziona nell’esercizio e permette così allo Stato di “intercettare” (così M. RENNA, Commento all’art. 11, in E. BALBONI ET AL. (a cura di), Il sistema integrato dei servizi sociali, cit.) materie attribuite alla potestà regionale, legittimandolo, inoltre, a far uso dei propri poteri sostitutivi (cfr. V. MOLASCHI, Livelli essenziali delle prestazioni, cit.) delinea in tal modo un «profilo dinamico che oscilla tra determinazione del livello essenziale e inter-vento sostitutivo». S. MANGIAMELI, La riforma del regionalismo italiano, cit., 135.

LO STATO DIFFERENZIATO 268

già evidenziato dalla dottrina e dalla stessa Corte costituzionale 153, di

una competenza che non si riferisce ad una materia in senso tecnico, ri-sultando altresì «idonea ad investire tutte le materie», al fine di assicu-rare a tutti i cittadini «il godimento di prestazioni garantite, come con-tenuto essenziale [dei] diritti, senza che il legislatore regionale possa li-mitarle o condizionarle»

154. Si tratta di un caso decisamente singolare nel novero delle “materie” dell’art. 117, senza che sia questa, però, l’uni-ca ipotesi di funzione trasversale

155. È da chiedersi se, ed in che misura, la presenza di titoli legittimanti

l’intervento statale al di fuori delle materie-oggetto di propria competen-za suffraghi, e supporti, una lettura ancora latamente gerarchica del no-stro sistema, nel quale lo Stato continui ad essere non solo garante di ul-tima istanza dell’unità dell’ordinamento (come è indubitabile alla luce dell’art. 120), ma di fatto in posizione di superiorità (in funzione tutoria) rispetto agli altri soggetti che compongono la Repubblica. Tale ipotesi non appare suffragata dalla “responsabilità ultima” dello Stato ai sensi dell’art. 120, dalla quale non sembra possa farsi discendere la legittima-zione di interventi preventivi di conformazione della potestà legislativa regionale (che quindi, eterodiretta nei fini si troverebbe nuovamente in una situazione di sostanziale subordinazione rispetto alla legislazione statale).

Certo, lo Stato ha, continua ad avere, un ruolo insopprimibile, di ga-ranzia di unità ed uniformità, che però ha nuove modalità di traduzione e nuovi strumenti di realizzazione. Se una sfumatura gerarchica residua, questa è ora, tipizzata nelle sue modalità di espressione e condiziona-mento: non ogni spazio di autonomia regionale è conoscibile dal legisla-tore statale

156. La transizione verso un modello pienamente autonomistico passa per

il riconoscimento della differenza, ma deve essere supportato da stru-

153 Corte che ha, inizialmente, evitato però di pronunciarsi su alcuni dei nodi proble-matici più significativi (ad esempio, la citata sentenza n. 88 del 2003 in tema di presta-zioni sanitarie, ha evitato il problema della sostenibilità di una dimensione organizzativa nei livelli essenziali).

154 Così la sentenza n. 282 della Corte costituzionale 155 Per tutte, si vedano anche la “tutela della concorrenza” e le “funzioni fondamentali

di Comuni, Province e Città metropolitane”. 156 Certo, i livelli essenziali sono un titolo di intervento di ampia latitudine, ma si trat-

ta di un titolo che legittima ad un intervento in ogni campo materiale? Il riferimento a “diritti civili e sociali”, né quello a “prestazioni” connotando lo strumento ne limitano, a ben vedere, il carattere omnipervasivo (ci sono situazioni giuridiche che non sono “diritti civili e sociali” e che non possono trovare soddisfazione “attraverso prestazioni”).

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 269

menti in grado di evitare la frammentazione del sistema (a tutela del-l’unità) e di strumenti in grado di limitare entro un grado accettabile dall’ordinamento la differenziazione tra i soggetti sul territorio (a tutela dell’uguaglianza). I c.d. livelli essenziali delle prestazioni si pongono, in particolare, a presidio delle condizioni comuni di uguaglianza nell’eser-cizio dei diritti

157: al legislatore regionale è sottratto ogni margine di scelta in ordine a quale sia il livello essenziale delle prestazioni in grado di soddisfare l’uniformità (sostanziale) di base richiesta dall’ordina-mento

158. Ne discende, con similitudini rispetto alle previsioni della Co-stituzione spagnola

159, l’accettazione di una uguaglianza che non è più as-soluta, ma è «uguaglianza nei “contenuti essenziali” dei diritti e degli obblighi»

160: il che, evidentemente, sottintende l’ammissibilità di situa-zioni giuridiche differenziate sul territorio, una volta soddisfatte queste condizioni fondamentali di uguaglianza.

161 Ed i livelli “essenziali” sono, a ben vedere, in via almeno teorica, un

formidabile veicolo di uniformità o di differenziazione: variando (au-mentando, diminuendo) i tratti “essenziali” dei diversi diritti, lo Stato può ampliare gli spazi della differenziazione autonomica, o altresì re-stringerli, fino quasi ad annullarli. Se il “livello essenziale”, per come de-finito in concreto, è estremamente elevato, si creerà, di nuovo, una uni-formità formale, a fronte del persistere di differenziazioni sostanziali. Se il livello è estremamente basso (nei limiti della garanzia del contenuto essenziale del diritto), si creerà per certo una “uniformità minima so-stanziale”, ma si apriranno spazi di differenziazione autonomica rilevan-tissimi tra le diverse parti del paese

162.

157 Di nuovo, cfr. sent. 282 del 2002 della Corte cost.: tale competenza è «idonea ad investi-re tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle». In merito v. A. D’ATENA, La Consulta parla … e la riforma del Titolo V entra in vigore (Nota a Corte cost. n. 282/2002), in AIC (www.associazionedeicostituzionalisti.it), non-ché E. MENICHETTI, Le pratiche terapeutiche nel nuovo assetto costituzionale, cit. e V. MOLA-SCHI, Livelli essenziali delle prestazioni, cit.

158 Cfr. G. ROSSI-A. BENEDETTI, La competenza legislativa statale esclusiva, cit., 27. 159 Ma vedi anche l’art. 19 della Costituzione tedesca; l’art. 52 della Carta dei diritti

fondamentali dell’Unione. 160 V., di nuovo, G. ROSSI-A. BENEDETTI, ult. op. cit., cit., 28. 161 Sull’elaborazione costituzionale della nozione di “contenuto essenziale del diritto”

(che riecheggia nella sentenza n. 282 del 2002), cfr., tra gli altri, G. SCACCIA, Gli “strumen-ti” della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Milano, 2000, spec. 350 ss.; R. BIN, Di-ritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Mila-no, 1992, 107 ss.

162 In tal senso cfr. R. ROMBOLI, Premessa. Le modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione, in Foro it., 2001, 190: «la determinazione, più alta o più bassa, del livel-

LO STATO DIFFERENZIATO 270

La sfera dell’uniformità “minima sostanziale” è, quanto ad estensio-ne, estremamente pervasiva, ed attraversa e permea tutte le materie non di competenza esclusiva statale che insistano su “diritti civili e sociali” (e, quindi, verrebbe da dire, con esclusione dei soli diritti politici), tute-labili tramite “prestazioni”

163. Si sovrappone, quindi, all’uniformità “nei principi fondamentali” delle materie di competenza concorrente, ed è la principale fonte di riduzione della differenziazione nelle materie affidate in via esclusiva (residuale e generale) alla competenza legislativa regio-nale

164. Estesa quanto a latitudine, la nozione di “livello essenziale” non sem-

bra poter essere ampliata eccessivamente quanto a profondità del condi-zionamento esercitabile sugli spazi di differenziazione autonomica: il modello (con riserva di approfondirlo) che delinea sembra, infatti, ri-spondere ad un sistema nel quale il condizionamento dei risultati pre-scinde dal condizionamento delle modalità organizzative

165 e di azione attraverso il quale tale risultato è raggiunto

166. Pure, per come sin qui ricostruito, il cuore dell’uniformità sostanziale

di base è dato dal contenuto essenziale di un diritto: il quale può conte-

lo segnerà inevitabilmente anche i margini di una maggiore o minore ampiezza dell’am-bito di scelte che avranno le regioni per caratterizzarsi sul punto».

163 A tale scopo ci si può riferire ancora una volta all’obiter dictum della Corte costitu-zionale sopra menzionato (sentenza n. 282 del 2002), ove i “livelli essenziali delle presta-zioni concernenti i diritti civili e sociali” vengono ricollegati al «godimento di prestazioni garantite come contenuto essenziale di tali diritti». (così V. MOLASCHI, Livelli essenziali delle prestazioni cit.).

164 In tal senso, la riserva allo Stato dell’ordinamento civile può essere «intesa come complementare a quella della “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni con-cernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale»: la prima, infatti, è chiamata ad operare a tutela dell’uguaglianza nel godimento dei “dirit-ti civili e sociali” ogni qual volta la seconda non è abilitata a intervenire, e cioè al di fuori del campo delle “prestazioni” dei pubblici poteri (così E. LAMARQUE, Osservazioni preli-minari sulla materia “ordinamento civile”, cit., 1355).

165 V. A. ANZON, Il difficile avvio della giurisprudenza costituzionale, cit., che evidenzia come la Corte abbia ritardato di pronunciarsi in merito alla profondità del condiziona-mento operabile attraverso i livelli essenziali, in particolare per quanto attiene alla di-mensione dell’organizzazione.

166 Così, tra gli altri, G. PASTORI: «la distinzione delle competenze riflette non soltanto esigenze ovvie di parità di trattamento in ordine alla garanzia dei diritti civili e sociali, ma mette in rilievo il dato sostanziale che rappresenta la ragione unificante dei singoli servizi, liberalizzando nel contempo la disciplina dei modi e degli strumenti per darvi at-tuazione.» (ID., Pubblico e privato in campo sanitario e assistenziale: i modelli regionali nel-la prospettiva federalistica, relazione al convegno Il nuovo Welfare State dopo la riforma del Titolo V, Sanità e assistenza a confronto, Roma, 17 maggio 2002; opposta, in merito, la posizione di M. LUCIANI (Relazione allo stesso convegno), per il quale «[t]ale garanzia i-noltre non è soltanto garanzia di un quantum, ma anche garanzia di un minimo di stan-dard organizzativo».

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 271

nere e richiedere anche una dimensione organizzativa 167. Questo discen-

de, però, dal diritto, non dallo strumento: cosicché se per taluni diritti il contenuto essenziale (e quindi il “livello essenziale” definito dal legisla-tore nazionale) potrà contenere prescrizioni nell’azione e nell’organizza-zione, questo non è assumibile in via generale

168. Trattandosi, ancora, di un vincolo all’autonomia regionale costituzio-

nalmente garantita che va al di là delle potenzialità naturalmente proprie dello strumento, ogni compressione dell’autonomia dovrà essere ragione-vole e proporzionale (e come tale sindacabile). Questo, in particolare, per i condizionamenti organizzativi, i quali dovranno trovare una giustifica-zione nell’esigenza di tutelare diritti costituzionali il cui “contenuto es-senziale” passi attraverso una uniformità organizzativa (anch’essa, di base)

169. Il termine utilizzato dal legislatore costituzionale, “livelli essenzia-

167 Per l’affermazione secondo cui «il riferimento ai “livelli” essenziali non deve far pensare soltanto alla necessità di determinazione di livelli quantitativi, ma anche alla de-finizione della “struttura organizzativa” che assicura la garanzia dei diritti» v M. LUCIANI, I diritti costituzionali tra Stato e Regioni (a proposito dell’art. 117, comma 2, lett. m) della Costituzione), in Sanità pubblica, 2002, 1034, secondo cui ciò comporta che lo Stato stabi-lisca «almeno i principi fondamentali del “come”». Così, ancora, per A. ANZON (Il difficile avvio della giurisprudenza costituzionale, cit.) quello sulla configurabilità di una dimen-sione organizzativa dei livelli essenziali è un interrogativo «che non solo non è possibile eludere, ma che non [può] che trovare una risposta positiva, considerata la più generale inscindibile connessione tra il piano dei diritti e il piano dell’organizzazione dei poteri pubblici: quindi, non di soli livelli quantitativi si dovrebbe trattare, ma anche delle strut-ture organizzative necessarie a garantirli».

168 In particolare, non sembra possibile recuperare, in via generale, attraverso l’art. 117, comma 2, lett. m) la disciplina generale dell’azione amministrativa (problematica, questa, su cui v. D. SORACE, La disciplina generale dell’azione amministrativa dopo la ri-forma del titolo V della Costituzione. Prime considerazioni, in Regioni, 2002, 756 ss. e, per profili più specifici, M.A. SANDULLI, Partecipazione e autonomie locali, in Dir. amm., 2002, 555 ss.,e, da ultimo, L. ZANETTI, La disciplina dei procedimenti amministrativi dopo la leg-ge costituzionale 3/2001, in Ist. del federalismo, 2003, 27 ss.); Così, in particolare, La disci-plina della partecipazione si potrebbe ritenere «afferente alla “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio”», in quanto atta a garantire che l’amministrazione eroghi le presta-zioni sociali «ad un “livello essenziale”»: così I. PAOLA, La partecipazione come ambito re-lativo alla «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» di cui all’art. 117, comma 2, lett. m), Cost., in A. CROSETTI ET AL., Procedimento amministrativo e partecipazione. Problemi ed esperienze, II, Milano, 2002, 167.

169 Nel senso che la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni” ricompren-da «un minimo di contenuto organizzativo» v. G. MELONI Il nuovo assetto costituzionale delle competenze e la legislazione di settore in materia di assistenza sociale, cit., 8, per il quale esso è «sicuramente più ridotto di quello riconosciuto ai principi fondamentali e comunque ammissibile solo se strettamente connesso con le esigenze di tutela del livello essenziale di soddisfazione dei diritti».

10.

LO STATO DIFFERENZIATO 272

li” 170, merita, allora, di essere, pure brevemente, analizzato, sia in via

etimologica che con riferimento alle terminologie utilizzate dal legisla-tore (e dalle fonti comunitarie) in ipotesi “analoghe”. Questo perché se, da un lato, è evidente la connessione con la tematica del “contenuto es-senziale dei diritti”, ed in questo il riferimento, oltre che di diritto comparato è dato dai giudizi della Corte costituzionale, vero è anche che tale terminologia richiama anche precisi modelli affermatisi nella legislazione nazionale. È, infatti, quella dei livelli essenziali o mini-mi

171, una tipologia di regolazione che si è radicata progressivamente nel nostro ordinamento: 172 la legislazione, non solo recente, è ricca di esempi, anche in materie riferibili a diritti costituzionalmente “forti” (come il diritto alla salute).

E proprio dall’esame dell’ampia casistica del ricorso a nozioni simila-ri a quella di “livello essenziale” che emerge la vasta latitudine del con-cetto, con la conseguente ampiezza della discrezionalità del legislatore statale nell’esercizio di questa funzione

173. Così nella legislazione italiana troviamo livelli uniformi di assistenza;

livelli di assistenza uniformemente garantiti sul territorio 174; livelli es-

senziali delle prestazioni 175; livelli essenziali ed uniformi su tutto il terri-

170 Ciò che, quindi, pone interrogativi è il senso da attribuire all’aggettivazione utiliz-zata: essenziale. Quanto il termine essenziale possa ricondursi ad un modello minimale; quanto e in che misura siano rivedibili i diritti costituzionali nelle forme di traduzione normativa che storicamente li ha caratterizzati.

171 Su come sia necessario tenere distinti i due modelli, spesso trattati indistintamente dalla dottrina, v. R. BALDUZZI, Titolo V e tutela della salute, in R. BALDUZZI-G. DI GASPARE (a cura di), Sanità e assistenza dopo la riforma del Titolo V, cit., 19-20.

172 Cfr., in tal senso, la legge istitutiva del servizio sanitario nazionale, legge n. 833 del 1978 (su cui cfr. L. VANDELLI, Commento all’art. 3, in F. ROVERSI MONACO (a cura di), Il servizio sanitario nazionale, Milano, 1979, 28 ss.).

173 Sulla necessità di distinguere tra livelli essenziali e livelli minimi, cfr. A. POGGI (Istru-zione, formazione professionale e Titolo V, cit., 803), che sottolinea particolarmente il «nesso tra garanzia dei livelli essenziali e uguaglianza sostanziale […] ulteriormente con-fermato dall’art. 119 Cost.», nuova formulazione, ed afferma che «aver utilizzato l’espres-sione livelli essenziali”, mutuata dalla legislazione sanitaria, “anziché livelli minimi (che implicano l’idea di un possibile razionamento) significa aver operato una scelta precisa: indicare obiettivi attraverso cui realizzare l’eguaglianza sostanziale in ciò che è essenzia-le». Sul punto v. anche E. BALBONI, Il concetto di “livelli essenziali e uniformi” come garan-zia dei diritti sociali, in Ist. del federalismo, 2201, 1109 ss.

174 In materia sanitaria, ai sensi dell’art. 1, d.lgs. n. 502 del 1992 e dell’art. 1, d.lgs. n. 229 del 1999. Per un inquadramento specifico del tema, v. N. DIRINDIN, Diritto alla salute e livelli essenziali di assistenza, in Sanità pubblica, 2000, 1013 ss.

175 Il riferimento è alla legge n. 328 del 2000, istitutiva del sistema integrato di inter-venti e servizi sociali istituito. Per l’affermazione secondo cui l’espressione “livelli essen-ziali” in essa utilizzata delinea non già una “dose minima” o “quantum” di servizio esigi-bile bensì «una tipologia di servizi comunque da offrire» v. F. PIZZOLATO, Commento

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 273

torio nazionale 176. Su una linea non dissimile (anche se con finalità deci-

samente diverse) la legge n. 146 del 1990 ha introdotto il concetto di prestazioni indispensabili rivolte a dare garanzia ai diritti corrisponden-ti ai servizi essenziali

177. Da segnalare, ancora, le nozioni di servizi indi-spensabili

178; servizi sufficienti in relazione alle esigenze della popola-zione

179; quella di standard e livelli qualitativi minimali dei servizi 180.

Un punto di riferimento è, poi, la disciplina del c.d. “servizio univer-sale”: un “insieme minimo definito di servizi di determinata qualità” che deve essere garantito disponibile su tutto il territorio nazionale

181. Dal dato testuale della lettera m) del secondo comma dell’art. 117

possono poi ricavarsi ulteriori indicazioni: un livello essenziale (come “costitutivo dell’essenza, quindi sostanziale, indispensabile”), ma anche “determinato” dal legislatore statale in quanto il godimento scaturisca da prestazioni pubbliche.

Ne discende, da un lato, un’insindacabilità della scelta del legislatore, nei limiti in cui la determinazione del contenuto del diritto non giunga a comprimerne il nucleo essenziale

182. Ne discende, ancora, la necessaria configurabilità della scelta regionale in ordine al contenuto ulteriore da riconoscere al godimento di questo diritto come scelta libera, non tenuta alla «massima soddisfazione dello stesso per quanto sostenibile nel limi-te delle risorse disponibili»

183. Questo perché la ratio della riforma non

all’art. 2, in E. BALBONI ET AL. (a cura di), Il sistema integrato dei servizi sociali, cit., per il quale, ancora, la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni” ivi prevista è ri-volta, in primo luogo, ad individuare delle “tipologie (il corsivo è nostro) di interventi og-getto di garanzia» ed i loro beneficiari (ai sensi degli artt. 9, comma 1°, lett. b), 18, com-ma 3°, lett. a) e 22).

176 In tema di federalismo fiscale, ai sensi dell’art. 5, del D.lgs. n. 56 del 2000. 177 Quali misure in grado di garantire l’effettività dei diritti corrispondenti ai servizi es-

senziali. 178 Art. 149 del Testo unico degli enti Locali (d.lgs. n. 267 del 2000). 179 Così il d.lgs. n. 422 del 1997, in materia di trasporto pubblico locale. 180 La cui definizione è affidata alle Autorità dei servizi pubblici (ai sensi della legge n.

481 del 1995). 181 Cfr. art. 1, comma 1°, lett. z) del d.p.r. n. 318 del 1997, in materia di telecomunica-

zioni. Sul punto (e sul modello) v., amplius, G. CARTEI, Il servizio universale, Milano, 2002.

182 Quindi, per quanto il concetto di essenzialità si ricolleghi ad una nozione di “ade-guatezza”, la sua concreta definizione è rimessa, a partire da un nucleo incomprimibile, alla discrezionalità del legislatore.

183 Trattandosi, in ogni caso, di diritti a prestazioni, quindi “finanziariamente condi-zionati”. In merito, anche per un inquadramento del dibattito sul tema, v. C. FUSARO, Pre-sentazione, in S. HOLMES e C.R. SUNSTEIN, Il costo dei diritti. Perché la libertà dipende dalle tasse, tr. it., Bologna, 2000, 5 ss., che rileva come i diritti non solo esistono nella stretta misura in cui l’ordinamento considerato effettivamente li riconosce e li garantisce, ma

LO STATO DIFFERENZIATO 274

sembra consentire un’interpretazione diversa, proprio per il suo fondarsi «sull’introduzione del principio di differenziazione fra realtà regionali»

184. La garanzia di questa uniformità sostanziale e di base è data, nella ri-

forma, anche dall’attribuzione allo Stato del corrispondente potere sosti-tutivo

185 (da regolare con legge, ma costituzionalmente libero ed atipico nelle sue manifestazioni, fermi restando i principi di sussidiarietà e leale collaborazione) oltre che da un’organizzazione della finanza pubblica finalizzata alla garanzia dell’effettività di questa uguaglianza (minima ma) sostanziale. Le previsioni dell’art. 117 vanno dunque lette unita-mente a quelle dell’art. 120, in tema di poteri sostitutivi, ma anche di quelle dell’art. 119 Cost., commi 3° e 5°, che prevedono l’istituzione di un fondo perequativo nazionale per i territori con minore capacità fisca-le per abitante nonché la destinazione di risorse aggiuntive e l’effettua-zione di interventi speciali per promuovere la coesione e la solidarietà sociale, e “per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’eser-cizio dei diritti della persona”

186. Garante di questo assetto, e quindi garante ultimo dell’uguaglianza

sostanziale, come uniformità nel godimento dei contenuti essenziali dei diritti (di cittadinanza) sul territorio è lo Stato.

Dal combinato delle disposizioni contenute negli artt. 117, comma 2°, lett. m), lett. s) (che attribuisce alla potestà legislativa esclusiva statale la «perequazione delle risorse finanziarie»), 119, commi 3° e 5°, e 120 emer-ge, allora, un modello in cui l’uguaglianza prefigurata dall’ordinamento è “di base e sostanziale” (a partire però da una base uniforme che è defi-

dipendono dalle risorse che l’ordinamento destina alla loro tutela. Si tratta, a ben vedere, di una constatazione applicabile a «ogni diritto, nessuno escluso, sia fra quelli “ad esser lasciati in pace” (dagli altri e dallo Stato) sia fra quelli “ad essere aiutati” (dallo Stato, prima che dagli altri)», comportando entrambe le tipologie di diritti «una serie più o me-no ampia, di interventi pubblici, tutti, sia pure in misura diversa, onerosi» (ivi, 7).

184 G. ROSSI-A. BENEDETTI, La competenza legislativa statale esclusiva, cit., 26. 185 Ai sensi dell’art. 120, comma 2, Cost., “il Governo può sostituirsi a organi delle Re-

gioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni […] quando lo richiedano la tutela dell’unità giuridica ed economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali […]”.

186 Art. 119, comma 4°, Cost. Per G. DELLA CANANEA (Autonomie e responsabilità nel-l’art. 119 della Costituzione, cit., 76), «dal combinato disposto degli articoli 117 e 119 si evince che il riconoscimento dell’autonomia dei poteri (regionali e) locali non comporta l’accettazione piena del principio dell’autogoverno, che – se venisse applicato in modo rigido – produrrebbe conseguenze inaccettabili nella distribuzione dei servizi pubblici sul territorio nazionale». Non diversamente, sul punto, A. BRANCASI, per il quale nel nuovo sistema sono previsti correttivi che impediscono di prefigurare un federalismo puro (che, come tale, sarebbe altrimenti «fattore, al contempo, di possibile (sempre) e inevitabile (in certe condizioni) disuguaglianza»: v. ID., Uguaglianze e disuguaglianze nell’assetto finan-ziario di una Repubblica federale, cit., 909).

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 275

nita a livello centrale muovendo dal contenuto essenziale del diritto coin-volto), ma la garanzia della sua effettività è forte, radicandosi in mecca-nismi organizzatori, finanziari, sostitutivi.

Uniformità nel contenuto essenziale che sottintende, però, differen-ziazione nel godimento concreto del diritto, al di sopra di questo livello che, in un’ottica relazionale si configura come minimo comune denomi-natore di un’articolazione altrimenti asimmetrica delle situazioni giuri-diche sul territorio.

6. I meccanismi dell’uniformità nel federalismo fiscale: note intro-duttive

Rispetto a quanto sin qui visto, la problematica delle risorse fa da corol-lario, nella nostra analisi, senza che possa però sottovalutarne l’impor-tanza

187. Le differenze esistenti tra i territori sono amplificate dall’affer-mazione di modelli “puri” di federalismo

188 “nelle risorse”, mentre il perico-lo di una eccessiva disuguaglianza (per la via finanziaria) può essere disin-nescato da meccanismi dell’uniformità, in grado di controbilanciare i rischi di squilibri economici tra le parti più ricche e quelle più povere di un paese.

Nell’impostazione che abbiamo assunto, il versante finanziario è sta-to tenuto in ombra: l’approccio da cui muoviamo è, semplificando, da un lato, che l’autonomia è di per sé matrice di differenza (e, quindi, a prescindere dall’uniformità delle risorse), dall’altro che le risorse seguo-no le funzioni, in misura astrattamente sufficiente al loro esercizio effet-tivo

189. Quindi, di converso, analizzare le funzioni equivale ad analizzare gli spazi di potenziale (ma finanziariamente possibile) differenziazione.

187 Il tema, peraltro, richiederebbe di essere sviscerato con ben altra attenzione: ci sia consentito quindi rinviare, tra quanti hanno trattato questo tema, ad A. BRANCASI, Ugua-glianze e disuguaglianze nell’assetto finanziario di una Repubblica federale, cit. (ma anche ID., L’autonomia finanziaria degli enti territoriali: note esegetiche sul nuovo art 119 della Costituzione, in Regioni, 2001, 41 ss.; P. GIARDA, Le regole del federalismo fiscale nell’art. 119: un economista di fronte alla nuova Costituzione, in Regioni, 2001, 1425 ss.; G. DELLA CANANEA, Autonomie e responsabilità nell’art. 119 della Costituzione, cit., 76 ss.

188 V. A. BRANCASI, Uguaglianze e disuguaglianze nell’assetto finanziario di una Repub-blica federale, cit., passim.

189 Con riguardo agli enti le cui collettività presentano la maggiore capacità fiscale, le “risorse autonome” devono poter avere un ammontare tale da garantire a ciascuno di tali enti la corrispondenza con la spesa necessaria ad esercitare in maniera “normale” le loro funzioni: si tratta della c.d. “clausola di autosufficienza”, che per le Regioni a “minore capa-cità fiscale” opera anche attraverso il fondo perequativo del comma 3° dello stesso art. 119.

LO STATO DIFFERENZIATO 276

Il tema 190 merita, però, evidentemente un più attento approfondimento

e si lega, a ben vedere, strettamente ad un problema già parzialmente esa-minato: quello della tutela dei diritti costosi in un sistema policentrico.

È sotto questa angolazione che la problematica compatibilità tra ugua-glianza dei cittadini e differenza delle risorse che ne garantiscono la rea-lizzazione si mostra in tutta la sua complessità. La preoccupazione è, in particolare, «che il federalismo accentui e esasperi le disuguaglianze che il welfare state ha cercato di mitigare», esito che appare «scontato in un federalismo senza correttivi»

191. Lo Stato sociale ha, in sé, sottesa una visione tendenzialmente uni-

versalistica dei diritti sociali, quali fondamentali diritti di cittadinanza e quali strumenti per la garanzia dell’effettività degli stessi diritti di liber-tà: in quest’ottica, la differenziazione territoriale naturalmente scaturen-te da un sistema “federale”, si pone come potenzialmente lesiva del prin-cipio di uguaglianza nel suo collegamento con altri diritti sanciti dalla Carta costituzionale

192. Il welfare state richiede, per la garanzia dei diritti “costosi”, che sia sot-

tratta parte della (se non addirittura tutta la) scelta in merito ai diritti da privilegiare ai soggetti autonomi, o comunque che siano previsti meccani-smi in grado di neutralizzare le conseguenze più radicali discendenti po-tenzialmente da una “territorializzazione” di questi diritti 193. Territorializ-zazione che significa autonoma possibilità di scelta delle comunità (regio-nali), in ordine alla gradazione delle preferenze e degli interventi tra diritti (“finanziariamente condizionati” e quindi, nell’equilibrio di bilancio, in com-petizione reciproca), ma che comporta anche una diversa disponibilità fi-nanziaria, connessa alla localizzazione dei tributi o di parte di essi.

190 Che presenta non irrilevanti problemi di attuazione, tanto più che «la legge La Log-gia si limita (non a dettare direttamente, ma) a promuovere l’adozione di una duplice normazione, secondo un doppio livello di transitorietà, rinviando allo scopo ad una dop-pia serie di futuri atti normativi” (v. art. 2, comma 5°, per le funzioni fondamentali locali, e art. 7, comma 2°, per le funzioni conferite a tutti gli enti territoriali ai sensi dell’art. 118 Cost.): così per A. ANZON, Il difficile avvio della giurisprudenza costituzionale cit.

191 Così G. CORSO, Welfare e Stato federale, cit., 403. Sui rischi di un federalismo senza correttivi v anche, diffusamente, A. BRANCASI, Uguaglianze e disuguaglianze nell’assetto finanziario di una Repubblica federale, cit., spec. 910 et passim.

192 Tra gli altri U. DE SIERVO, Riforma del regionalismo e Stato sociale, sempre in AA.VV., Regionalismo, Federalismo, Welfare State, cit., 45 ss.; L. CARLASSARRE, Forma di Stato e diritti fondamentali, in Quad. cost., 1995, 33 ss.; A. CANTARO, Stato federale, eguaglianza e diritti sociali, in Democrazia e diritto, 1994, 310 ss.

193 La differenziazione è un dato inevitabile del “federalismo”: se il welfare state impli-ca quote tendenzialmente omogenee nella distribuzione tra i soggetti, è evidente che «fra-zionando questo prodotto in più territori e distribuendo ciascuna frazione nel solo terri-torio interessato, le disuguaglianze saranno inevitabili» (G. CORSO, ult. op. cit., 403).

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 277

Sotto questo secondo versante appare, altresì, necessario articolare qualche riflessione: la diversa disponibilità di risorse, sommata ad un’au-tonomia (in ordine alle priorità, alle modalità, all’organizzazione, alle funzioni esercitate, alla disciplina dei diritti) ne moltiplica la capacità di produrre differenza.

Tale rischio sembra percepito dal legislatore costituzionale, che ha approntato meccanismi di uniformità finanziaria in grado di contenere la disuguaglianza sistemica: meccanismi rivolti alla creazione, pure in-completa, di un regionalismo forte ma cooperativo.

La territorializzazione delle imposte determina, evidentemente, una diversa velocità dei sistemi sub-statali: negli ordinamenti federali posso-no, perciò, rinvenirsi vari correttivi al rischio di una conseguente diffe-renziazione nel godimento dei diritti in ragione di coordinate spaziali. Meccanismi (dell’uniformità) che in parte sono già stati esaminati: la sottrazione di intere aree (rectius sfere) alla competenza regionale (tanto mediante la definizione di oggetti affidati allo Stato che attraverso la re-sezione di parti delle materie pure affidate alle Regioni), la previsione di modalità di condizionamento delle autonomie centrate in particolare sui “risultati” (attraverso la definizione dei “livelli essenziali”). A questi si aggiunge, sul versante delle risorse, l’attribuzione alla dimensione na-zionale di una funzione di redistribuzione, «volta a risolvere gli squilibri territoriali o i loro effetti»

194. In un’ottica finanziaria, nel nostro ordinamento ricorrono, invero,

tanto elementi del “puro federalismo” 195 (che espande le differenze),

quanto elementi che denotano un diverso approccio: di nuovo, anche sotto questo versante, muta il modello dell’uniformità, e la differenzia-zione, fuori dagli spazi affidati alla competenza statale, non è più negata (semmai, contenuta).

L’apertura alla differenziazione “per la via finanziaria” emerge allor-ché si rifletta sulle caratteristiche della potestà impositiva regionale alla luce del novellato art. 119, che potrà essere svilupparsi anche in assenza di una legge dello Stato

196 ed avere «ampiezza tale da consentire l’auto-

194 Così A. BRANCASI, Uguaglianze e disuguaglianze nell’assetto finanziario di una Re-pubblica federale, cit., 911.

195 Termine utilizzato da A. BRANCASI (ivi, 909 et passim)ad intendere quel federalismo che amplifica le differenze. Già G. CORSO (Welfare e Stato federale, cit., spec. 403-404) aveva, come detto, evidenziato il rischio che un federalismo “senza correttivi” potesse accentua-re ed esasperare le disuguaglianze.

196 Il precedente testo dell’art. 119 attribuiva alle Regioni “autonomia finanziaria”, ma non precisava se tale autonomia si riferisse «alle entrate, alle spese o ai saldi di bilancio», salvo indicare che si esercitava nelle forme e limiti stabiliti dalle leggi nazionali: v., in tal senso, P. GIARDA, Le regole del federalismo fiscale, cit., 1430.

LO STATO DIFFERENZIATO 278

noma individuazione dei presupposti del prelievo e della base imponibi-le»

197. Una potestà negativamente condizionata (non più positivamente) dalla funzione statale, peraltro concorrente, di coordinamento del si-stema tributario

198. La riconducibilità della disciplina del sistema tribu-tario regionale entro la potestà residuale, l’espresso riconoscimento a questi enti di “tributi propri”, delineano un quadro nel quale la leva fi-nanziaria sembra suscettibile di amplificare la spinta alla differenzia-zione, frutto non più (non solo) di scelte politiche autonome, ma di dif-ferenti risorse spendibili in ordine a “diritti costosi”.

Mentre la differenziazione frutto dell’autonomia è condizionata, la differenziazione “frutto della differenza” (di risorse), deve essere conte-nuta attraverso meccanismi di compensazione/riequilibrio. Come è stato attentamente rilevato, «l’autonomia finanziaria segue l’autonomia poli-tica»

199 (dove manca la seconda non si presenta neppure la prima), le dinamiche che l’autonomia finanziaria è in grado di innescare (come moltiplicazione della differenza) richiedono però appositi strumenti di correzione.

Sono due i meccanismi (di uniformità) previsti dall’art. 119: il primo (un “fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”) mira a correggere, attraverso l’integrazione delle risorse autonome, il differenziale nelle risorse tra en-ti dello stesso livello. Questo strumento

200 guarda, quindi, al lato dell’entrata, non al fabbisogno di spesa: ne discende la problematica del finanziamento dei “livelli essenziali”, che nel quadro complessivo deli-neato dalla riforma sembrerebbero dover essere finanziati attraverso questo fondo, oltre che attraverso le entrate autonome.

Il secondo strumento consiste in risorse aggiuntive ed in interventi speciali che lo Stato destina in favore di determinati enti territoriali

201: si

197 A. BRANCASI, Uguaglianze e disuguaglianze nell’assetto finanziario di una Repubblica federale, cit., 917.

198 Un limite «che è anche un autolimite», come rileva A. BRANCASI (ibidem). Funzione in merito alla quale, più diffusamente, cfr. A. BENEDETTI, La legislazione concorrente in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, in S. GAMBINO (a cura di), Il “nuovo” ordinamento regionale, cit., 339 ss.

199 Così ancora A. BRANCASI, ivi, 933, per il quale «relativamente agli ambiti in cui manca la seconda, non ricorre neppure la prima».

200 Che, peraltro, presenta significative incongruenze: il riparto avviene a cura di un soggetto (lo Stato) che non controlla la variabile da cui dipende lo strumento (l’ammon-tare delle entrate e dei tributi propri delle Regioni con “maggiore capacità fiscale”): in tal senso, di nuovo, v. A. BRANCASI, ult. op. cit., cit., 937 ss.

201 Questi trasferimenti, suscettibili di “vincolo di bilancio”, servono a finanziare gli enti che, in riferimento alle finalità indicate dalla norma costituzionale (“promuovere lo

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 279

tratta di un intervento straordinario, affidato alla discrezionalità del le-gislatore nazionale, che non deve ritenersi rivolta al finanziamento “a regime” né delle funzioni regionali né dei “livelli essenziali”

202. Pure, in relazione a questi ultimi, attraverso questo meccanismo il legislatore statale può (con un intervento straordinario: termine che in quest’am-bito ha una sua forza evocativa), permettere la riduzione del differenzia-le infrastrutturale storico esistente tra le diverse aree del paese in ordine all’effettivo esercizio dei diritti della persona.

Sono, questi, strumenti che, se complessivamente considerati, riduco-no (anche considerevolmente, in modo peraltro legato alle scelte del legi-slatore statale), ma non eliminano, l’effetto di moltiplicazione discendente dal sommarsi dell’autonomia finanziaria all’autonomia politica

203.

7. La sfera della differenziazione su base regionale

7.1. Potestà legislativa regionale “generale e residuale” ed ampiezza (e limi-ti) della differenziazione autonomica

Riflettere sulle prospettive di una rottura dell’uniformità nella discipli-na giuridica che è conseguenza, inevitabile, dell’apertura ad una autono-mia legislativa reale, priva di una, espressa o implicita, visione gerarchica tra fonte nazionale e fonte territoriale, significa riflettere sui caratteri stessi della nuova potestà legislativa regionale, quella che, secondo diverse dizioni, e diverse angolazioni di un medesimo fenomeno, è stata definita potestà “esclusiva”, “generale”, “residuale”, “innominata”.

In merito, se da un lato è dubbio che quella regionale si configuri quale potestà davvero esclusiva

204, attraversata come è da competenze statali trasversali, dall’altro è altresì innegabile come l’introduzione della

sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale”, “rimuovere gli squilibri econo-mici e sociali” e “favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona”), si trovano nella necessità di esercitare in maniera diversa dalla generalità degli altri enti le medesime funzioni.

202 Come espressamente escluso dallo stesso art. 119, comma 5 (tali interventi sono ri-volti a “scopi diversi dal normale esercizio” delle funzioni regionali e locali).

203 Per una riflessione in ordine a questo tema, v. J. GARCÌA MORILLO, Autonomia, a-simmetria e principio di eguaglianza, cit., 114 ss.

204 «Solo una superficiale lettura del nuovo art. 117 Cost. può indurre a credere che la potestà legislativa regionale di cui al IV comma» sia davvero esclusiva: in tal senso R. TO-SI, La legge costituzionale n.3 del 2001: note sparse, cit., 1233.

LO STATO DIFFERENZIATO 280

clausola residuale a favore delle Regioni prevedendo il carattere tassati-vo degli elenchi contenuti nei commi 2° e 3° dell’art. 117, «impone un nuovo apprezzamento dei limiti posti alla capacità generale di interven-to dello Stato e rafforza l’ipotesi della parificazione fra legge statale e legge regionale»

205. Si tratta, a ben vedere, di una tipologia di normazione che pone signi-

ficative problematiche, da un lato per il carattere innominato degli am-biti su cui è chiamata ad articolarsi (e quindi per la quantità degli ambiti che è astrattamente chiamata a regolare), dall’altro per l’indetermi-natezza delle previsioni costituzionali in ordine al modello di riferimen-to (e quindi per la qualità che connota tale potestà).

Dal primo punto di vista, non appare agevole delimitare le materie del secondo e del terzo comma dell’art. 117, cosicché l’enucleazione de-gli ambiti di competenza regionale (che ne risulta a contrario) è opera-zione di particolare complessità

206. Pure in questo quadro, sembra ri-conducibile alla potestà legislativa regionale la disciplina dei principali settori economici, larga parte di quella dei servizi alla persona e dell’uso del territorio

207. Dal secondo punto di vista, i limiti costituzionalmente opponibili al po-

tenziale differenziante insito nella competenza regionale risultano signifi-cativamente mutati, quanto a caratteri, e ridotti, quanto a potenziale uni-formante, rispetto a quanto avveniva in vigenza del precedente Titolo V.

Risulta preliminarmente necessario chiarire un’assunzione metodo-logica delle nostre riflessioni: mutato il quadro fondamentale dell’assetto dei poteri territoriali non sembrano sostenibili soluzioni “continuiste”, rivolte a confermare limiti alla potestà legislativa regionale costruiti su un sistema che non è più. Diviene inevitabile fondare su nuove basi, o comunque riverificare nel mutato assetto, la sostenibilità dei limiti (nel loro fondamento, ma anche nei loro caratteri e nella loro estensione) previgenti.

Rispetto al bagaglio di limiti 208 che ricaviamo dal previgente sistema,

205 Così L. TORCHIA, La potestà legislativa residuale delle Regioni, cit., 352. 206 Come già accennato, una panoramica delle materie di competenza regionale è fatta

da L. TORCHIA, La potestà legislativa residuale delle Regioni, cit., 353 ss.; e si discosta in parte da quella proposta da B. CARAVITA, Prime osservazioni di contenuto e di metodo cit.

207 Così, nuovamente, cfr. L. TORCHIA, ult. op. cit., spec. 354. 208 Risulta, ancora, necessario enucleare i nuovi strumenti che, a garanzia dell’unità e

dell’uniformità nel sistema il legislatore costituzionale ha previsto all’atto della riforma. Per larga parte si tratta di un’operazione con la quale ci siamo confrontati, cosicché appare in questa sede inutile ritornare,in particolare, sui limiti discendenti dall’interesse nazionale, dai “livelli essenziali delle prestazioni”, dai vincoli dell’ordinamento comunitario ed inter-

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 281

ribaltato quello delle materie (dal momento che questo limite opera ora proprio a vantaggio della legislazione residuale regionale), oggetto di ri-lettura quello del diritto privato

209, risulta profondamente mutato (tipiz-zato/esemplificato) quello dell’interesse nazionale.

Non è allora nel mondo di ieri, ma in quello di oggi che dobbiamo rintracciare gli strumenti a garanzia dell’uniformità del sistema, ed i li-miti per la potestà legislativa regionale: limiti dati, come detto, dalle ma-terie affidate alla competenza esclusiva dello Stato, le quali costituisco-no però, frequentemente, un titolo di legittimazione per un intervento dello Stato anche in ambiti materiali astrattamente sottratti alla sua competenza quanto ad “oggetto”.

Livelli essenziali, in materia di diritti civili e sociali; tutela della con-correnza, laddove ci si riferisca a diritti economici; ordinamento civile, a fronte di rapporti interprivati e di diritti civili non suscettibili di un’attività di prestazione da parte dello Stato: appaiono questi, in parti-colare, i più formidabili canali di un’uniformità che, pure circoscritta e ridefinita, non è sparita dal nostro sistema (né poteva farlo), ma ha as-sunto nuovi e diversi caratteri

210. I limiti, anzidetti, non risultano però in grado di incidere in profondi-

tà sulla sfera della differenziazione regionale, seguendo in questo un nuovo modello di rapporto tra Stato ed enti territoriali, tra ragioni dell’unità/uguaglianza e ragioni dell’autonomia/differenza: in particola-re, per come sin qui ricostruito, il nuovo ordine sembra fissare l’atten-zione “uniformante” dell’ordinamento sul momento dei risultati, ridurre i condizionamenti sull’attività, spostando la relativa dimensione, di nor-ma, al livello regionale, superare in via generale la dimensione organiz-zativa dell’uniformità

211.

nazionale, dal “limite dei principi”. In larga parte, infatti, tali limiti sono emersi affrontando i profili di uniformità (spessa o sottile) che caratterizzano il nuovo ordine.

209 Un discorso a parte meriterebbe il limite delle “grandi riforme” (per le Regioni spe-ciali), la cui persistenza nel nuovo sistema appariva ai più di difficile conciliabilità, ma che viene mantenuto in vita dalla Corte costituzionale che ha ritenuto applicabile la clau-sola di “maggior favore” dell’art. 10 della legge cost. n.3 del 2001 ai soli casi in cui sia pos-sibile raffrontare i fenomeni (e non anche quando i fenomeni, pur potendo risultare produttivi di un significativo condizionamento dell’autonomia, sono tra loro qualitativa-mente diversi e, quindi, non paragonabili); in questo senso, v., da ultimo, Corte cost., sent. n. 314 del 2003.

210 Punti in ordine ai quali cfr., per tutti, rispettivamente G. ROSSI-A. BENEDETTI, La competenza legislativa statale esclusiva cit.; G. CORSO, La tutela della concorrenza come li-mite della potestà legislativa cit.; E. LAMARQUE, Osservazioni preliminari sulla materia “or-dinamento civile” cit.

211 Vero è però che i vari “momenti” non sono tra di loro indifferenti, e l’uniformità nei risultati potrà ripercuotersi anche in profili di azione ed organizzazione, così che l’orga-

LO STATO DIFFERENZIATO 282

Il superamento di una visione gerarchica dell’ordinamento trova però la sua manifestazione a livello costituzionale in particolare, seppure cer-to non esclusivamente, nella tipizzazione

212 (od esemplificazione) 213 del

limite dell’interesse nazionale. Viene meno, nella riforma, non già “l’interesse nazionale in sé”, fon-

dato anzitutto sull’art. 5 Cost., quanto le modalità della sua traduzio-ne

214: da qui l’esigenza di reinterpretare questa nozione, a pena di conti-nuare ad utilizzare nel mondo di oggi un armamentario inadeguato ed improprio, legato al “mondo di ieri”.

215 Trascendere l’interesse nazionale come limite alla competenza regio-

nale: un concetto “non più utile” 216, che trovava la sua giustificazione e

legittimazione in un sistema superato e che risulta ora sostituito da nuovi strumenti, rispondenti al mutato assetto ordinamentale.

nizzazione non sarà pienamente differenziabile se non nella misura in cui, esaurendosi le conseguenze della scelta organizzativa entro l’amministrazione, questa non rifletta i suoi effetti (predeterminandoli) sull’assetto degli interessi. Confine, in ambito diverso, ben in-dividuato da A. PIOGGIA, La competenza amministrativa, cit., spec. 207 ss.

212 In questo senso C. PINELLI, I limiti generali alla potestà legislativa statale e regionale, cit., 200 et passim.

213 Per M. LUCIANI, Le nuove competenze legislative delle Regioni, cit., la riforma non com-porta la tipizzazione dell’interesse nazionale, il che è impedito dall’affermazione del principio di sussidiarietà verticale, «ma soltanto che quell’interesse è stato esemplificato» (ivi, 17).

214 Riemerge, sin da queste considerazioni, il convitato di pietra della riforma: l’interesse nazionale. Non sembra, a nostro avviso, sostenibile che, spariti gli strumenti che ne garantivano il perseguimento, sia venuto meno l’interesse nazionale in sé. Sul pun-to il dibattito è peraltro aperto; per tutti, cfr., di nuovo, A. BARBERA, Chi è il custode dell’interesse nazionale?, cit. 345 ss.; ID., Gli interessi nazionali del nuovo Titolo V, cit.; R. BIN, L’interesse nazionale dopo la riforma, cit., 1213 ss.; L. TORCHIA, La potestà legislativa residuale delle Regioni, cit., 343 ss.; F. MERLONI, Il destino dell’ordinamento degli enti loca-li, cit., 413; le Audizioni di V. CAIANIELLO ed A. BALDASSARRE, nella più volte citata Inda-gine conoscitiva sugli effetti nell’ordinamento delle revisioni del Titolo V. Da ultimo i termi-ni della questione devono essere riletti alla luce della più recente giurisprudenza costitu-zionale (tra sussidiarietà ed esigenze infrazionabili: cfr. sentt. n. 303 e n. 307 del 2003).

215 In tal senso, in relazione al limite dell’interesse nazionale, è emblematica la stessa sentenza n. 303 del 2003, che nel mentre opera «tutta una serie di meccanismi di “riap-propriazione sussidiaria” di competenze da parte dello Stato che sembrano rispondere alle medesime finalità di disciplina unitaria sottese al vecchio interesse nazionale» (così T.F. GIUPPONI, Potestà regolamentare regionale, riserva di legge e principio di legalità dopo la riforma del Titolo V della Costituzione: Repetita … consolidant, nota a Corte cost. sent. n. 324 del 2003, in corso di pubblicazione in Regioni), arriva ad affermare nettamente che «nel nuovo Titolo V l’equazione elementare interesse nazionale=competenza statale, che nella prassi legislativa previdente sorreggeva l’erosione delle funzioni amministrative e delle parallele funzioni legislative delle Regioni, è divenuta priva di ogni valore deontico, giacché l’interesse nazionale non costituisce più un limite, né di legittimità né di merito, alla competenza legislativa statale».

216 Cfr. G. CAIA, Il problema del limite dell’interesse nazionale nel nuovo ordinamento, cit., 501 et passim.

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 283

Non vengono meno “esigenze unitarie insuscettibili di frazionamen-to”, ma queste mutano, e la loro individuazione non è più demandata, in via generale, al (solo)

217 legislatore statale: la risposta a tali esigenze è data dalla stessa Costituzione, in sede di riparto di materie, oltre che dai compiti e dalle funzioni affidate allo Stato.

L’assenza del riferimento all’interesse nazionale 218, unito alla ratio

complessiva della riforma, ai diversi strumenti riconosciuti a tenuta di un sistema, di norma unitario ma non uniforme, al venire meno di una gradazione gerarchica dei soggetti dell’ordinamento: tutto questo sup-porta la tesi del superamento dell’interesse nazionale come limite alla potestà legislativa regionale e come conosciuto dal nostro ordinamento prima della riforma del Titolo V

219. La vaghezza del limite, di merito e poi di legittimità, la sua estrema

latitudine, la sua genericità e generalità ne avevano fatto il “buco nero” dell’autonomismo nel nostro paese

220, lo strumento per la negazione so-stanziale dell’autonomia a fianco della sua affermazione formale

221. In particolare, avallato dalla giurisprudenza della Corte

222, l’interesse nazionale era divenuto il tramite della decostituzionalizzazione dell’elen-

217 Anche nella rilettura da ultimo prospettata dalla Corte costituzionale a partire dalla sentenza n. 303 del 2003, l’attivazione del recupero di una competenza statale, sull’am-ministrazione e perciò anche sulla legislazione, è, nell’ambito delle materie concorrenti possibile, per tramite della sussidiarietà, ma solo sulla base di una “intesa con le Regioni interessate” (secondo un meccanismo non privo di complessità: ci sia consentito, al ri-guardo, rinviare a E. CARLONI, Le tre trasfigurazioni delle competenze concorrenti, cit.)

218 Il limite dell’interesse nazionale risultava fissato dagli art. 117 e 127 Cost., oltre che (la qual cosa va ora combinata con il principio sancito dall’art. 10 della legge cost. n.3 del 2001) dagli statuti delle Regioni speciali (salvo il caso della Sicilia), ma discendeva, nel-l’interpretazione della Corte costituzionale, anzitutto dall’art. 5 Cost. (in tal senso, tra gli altri, cfr. G. ROLLA, Relazioni tra ordinamenti e sistema delle fonti, cit., 325 ss.).

219 Nel senso del venire meno del limite v., in particolare, P. CAVALERI, La nuova auto-nomia delle Regioni, in Foro it., 2001, 202 ss.; e C. PINELLI, I limiti generali alla potestà le-gislativa statale e regionale, cit., spec. 200; contra v. M. LUCIANI, Le nuove competenze legi-slative delle Regioni, cit., spec. 16 ss.; A. BARBERA, Chi è il custode dell’interesse nazionale?, cit., passim.

220 Cfr. G. CAIA, Il problema del limite dell’interesse nazionale nel nuovo ordinamento, cit., che nel ricordare le varie definizioni prospettate di questo limite (“buco nero”, “forca caudina” dell’autonomismo, “grimaldello” per intaccare l’autonomia), ne evidenzia la for-za inarrestabile che discendeva dall’estrema vaghezza ed ambiguità semantica che lo ca-ratterizzava (ivi, 505, n. 7).

221 In merito a tale limite, ed alla sua evoluzione e definizione (anche quanto a pre-supposti) nella giurisprudenza della Corte costituzionale, v., per tutti, L. PALADIN, Diritto regionale, cit., 108 ss.

222 In relazione al limite dell’interesse nazionale come criterio elastico di delimitazione delle competenze regionali, è esemplare la sent. n. 177 del 1988, costantemente richiama-ta dalla giurisprudenza successiva.

LO STATO DIFFERENZIATO 284

cazione delle materie del precedente art. 117 223 e, come tale, canone de-

limitativo della competenza regionale 224.

Non per questo, venendo meno lo strumento, viene meno l’interesse nazionale in sé, con le connesse esigenze di unità ed uniformità. È scomparso un richiamo letterale che aveva legittimato un uso improprio del mezzo

225, ma non il principio 226. Lo stesso principio di sussidiarietà

dell’art. 118, primo comma, ne sottintende l’esistenza 227.

Resta, evidentemente, un interesse nazionale, ma fuori dalle ipotesi tipizzate dall’art. 120 Cost

228, e dalle esigenze definite nel comma 1° del-l’art. 117, il “custode dell’interesse nazionale”, non è più Stato, ma la Repubblica (nel suo insieme)

229. È in altri strumenti che si incardina, ed

223 Così A. D’ATENA, Regione, in Enc. dir., XXXIX, 1988, 335, per il quale «la mancanza di una chiara scelta in merito al ruolo complessivo delle regioni ha.. favorito una sorta di decostituzionalizzazione di tali elenchi, le cui voci sono state interessate da un sistemati-co processo di ridefinizione ad opera di fonti subcostituzionali».

224 Il limite (di merito) dell’interesse nazionale è stato assunto a «canone delimitativo delle sfere di competenza regionale, nel senso che in base ad esso si ripartono fra la com-petenza delle Regioni e quella dello Stato gli oggetti ricadenti nelle materie degli elenchi, così sottraendo alla legislazione regionale tutti quegli oggetti che si ritengono afferire all’interesse nazionale» (S. BARTOLE, Le Regioni, cit., 216).

225 Per M. LUCIANI (Le nuove competenze legislative delle Regioni, cit., 17); «che l’in-teresse nazionale, sino ad oggi, abbia funzionato in questo modo, e che – nonostante il silenzio della riforma – l’interesse nazionale sia tuttora presente nella Costituzione, peral-tro, non vuol dire che quanto è accaduto in passato debba continuare ad accadere in fu-turo. È vero, anzi, il contrario».

226 Così per E. CHELI (Audizione, in Indagine conoscitiva sugli effetti nell’ordinamento delle revisioni del Titolo V cit.), «anche nelle forme più avanzate di federalismo esiste un principio di unità, di indivisibilità che, nella nostra Costituzione, è espresso all’articolo 5, il quale, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale, è un principio supremo sot-tratto alla revisione costituzionale», del quale, però, non possiamo più dare una lettura gerarchica. Analogamente, A. BALDASSARRE (Audizione, ivi), ravvisa come il limite del-l’interesse nazionale sia comunque presente in tutti gli Stati federali, quale esigenza logi-ca di sistema.

227 M. LUCIANI, ult. op. cit., 14: «[m]eno ancora, infine, si comprende cosa mai possa indirizzare l’applicazione del principio di sussidiarietà “verticale” di cui all’art. 118, comma 1, se non il raffronto tra l’interesse nazionale e quello delle Regioni, visto che la scelta del livello di governo più adeguato (imposta da quel principio) non può che risol-versi in una ponderazione di interessi»; non diversamente R. BIN, L’interesse nazionale dopo la riforma cit.

228 Previsione che non sembra giustificare una riespansione del limite, sul punto cfr. G. CAIA, Il problema del limite dell’interesse nazionale, cit., 513 ss.

229 Per C. MAINARDIS (Il nuovo regionalismo italiano ed i poteri sostitutivi statali: una ri-forma con (poche) luci e (molte) ombre, in Forum Quad. cost. (www.mulino.it), almeno in relazione ai poteri sostitutivi statali, si può dire che l’interesse nazionale, «cacciato dalla porta, finisca invece con il rientrare dalla finestra», dal momento che non è difficile leg-gere dietro ciascuno dei presupposti che legittimano l’intervento dello Stato «altrettante puntuali declinazioni del “vecchio” interesse nazionale, così come concretizzato dal legi-

SFERE DI UNIFORMITÀ NORMATIVA 285

è attraverso altri strumenti 230 che possono trovare riemersione quelle esi-

genze di unità ed uniformità prima tutelate dall’interesse nazionale nella sua concreta traduzione.

Venuto meno il limite negativo dell’interesse nazionale, viene meno, evidentemente, anche il suo risvolto positivo, la funzione di indirizzo e coordinamento

231 (come è confermato dall’art. 8, comma 6°, della legge n. 131 del 2003)

232. L’interesse nazionale, nel nuovo sistema, è menzionato nell’art. 120,

ma la tutela delle esigenze “non frazionabili” è demandata allo Stato, in via fisiologica, attraverso l’individuazione, costituzionale, delle materie a necessaria uniformità ed unitarietà di disciplina

233. Il carattere trasver-sale di una parte significativa di queste materie, consente di salvaguar-dare (questi) interessi nazionali unitari anche nei confronti di compe-tenze regionali esclusive

234 L’interesse nazionale passa, quindi, in primo

slatore statale con l’avvallo della Corte costituzionale», con la conseguenza che «non sem-bra davvero che la sostituzione di una clausola generale come quella dell’interesse nazio-nale con svariate, puntuali, esemplificazioni di situazioni in cui tale interesse è stato rite-nuto in passato ricorrente, muti in maniera significativa la posizione delle Regioni di fronte allo Stato».

230 L’art. 120, comma 2, sull’esercizio dei poteri sostitutivi, le esigenze unitarie non sa-rebbero più riassunte nella formula generica dell’“interesse nazionale”: sarebbero quindi, come già visto, tipizzate poiché «nominate individualmente e dunque circoscritte» per C. PINELLI, I limiti generali alla potestà legislativa statale e regionale, cit., 200, ma solamente esemplificate per M. LUCIANI, Le nuove competenze legislative delle Regioni, cit., spec. 17.

231 Così ancora G. CAIA (Il problema del limite dell’interesse nazionale, cit., 509). Ci tro-viamo ora di fronte, non più ad una funzione generale di indirizzo e coordinamento, ma a «possibili “prolungamenti” amministrativi in attuazione dei compiti che l’art. 117, com-ma 2, assegna allo Stato», come rileva G. FALCON (Modello e transizione nel nuovo Titolo V, cit., 1261), per il quale tale funzione «non è menzionata nel nuovo Titolo V più di quanto lo fosse nel vecchio, cioè per nulla. Naturalmente, è facile argomentare che questo nulla poteva essere spiegabile nel 1947 […], mentre la stessa spiegazione non può valere per la riforma del 2001 […] Da questo punto di vista, il silenzio potrebbe costituire un indizio nel senso della negazione costituzionale della funzione».

232 Ai sensi del quale “nelle materie di cui all’articolo 117, terzo e quarto comma, della Costituzione non possono essere adottati gli atti di indirizzo e di coordinamento di cui all’articolo 8 della legge 15 marzo 1997, n. 59, e all’articolo 4 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112”. Per un primo commento v. M. CARLI, Luci ed ombre nella prima at-tuazione della legge costituzionale n.3/2001, cit., nonché G. VESPERINI, La legge di attuazio-ne del Titolo V della Costituzione, in Giornale dir. amm., 2003, 1109 ss.

233 In tal senso G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V, cit., 1251 et pas-sim; G. CAIA, ult. op. cit., passim.

234 Attraverso tali competenze, lo “Stato può dettare standards di tutela uniformi sull’in-tero territorio nazionale incidenti anche sulle competenze legislative regionali” (così per la tutela dell’ambiente nei confronti della “materia”, innominata e quindi regionale, della “cac-cia”: cfr. sent n.536 del 2002 (su cui, diffusamente, M. GORLANI, La materia della caccia da-vanti alla Corte costituzionale dopo la riforma del titolo v cost.: ritorna l’interesse nazionale e il

LO STATO DIFFERENZIATO 286

luogo attraverso l’elencazione del secondo comma dell’art. 117 (e la loro efficacia spesso trasversale

235, ma anche, seppure con minore intensità attraverso l’elencazione del terzo comma dello stesso articolo.

“primato” della legislazione statale di principio?, in Forum Quad. cost. (www.mulino.it). Quello che può dirsi per la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, varrà analogamente per altre ma-terie, quali le norme generali sull’istruzione, la determinazione dei livelli essenziali delle pre-stazioni concernenti i diritti civili e sociali, l’ordine pubblico e la sicurezza, che divengono quindi strumenti capaci di giustificare uniformità trasversali.

235 L’interesse nazionale, seguendo l’approccio manifestato dalla Corte nella sentenza n. 536 del 2002, si traduce nella legittimazione di regole di tutela uniformi sul territorio nazionale, ma non nell’assorbimento di un’intera materia (a ben vedere, neppure di parti di essa) nella competenza statale, cosicché residuano alle Regioni ambiti non trascurabili di intervento: in tal senso v. M. GORLANI, La materia della caccia, cit.

CAPITOLO NONO

PRINCIPIO E MODELLI DELLA DIFFERENZIAZIONE AMMINISTRATIVA

SOMMARIO: 1. Il superamento dell’uniformità amministrativa. – 1.1. L’affermazione del principio di differenziazione (nell’amministrazione). – 1.2. La progressiva ascesa della differenziazione amministrativa. – 2. La “necessaria differenziazione” delle pubbliche amministrazioni: carat-tere avaloriale dell’uniformità e della differenziazione amministrativa. – 3. Modelli differen-ziati per le autonomie locali. – 3. 1. La previsione delle Città Metropolitane. – 3.2. La differen-ziazione come ius singulare: l’ordinamento (eterodifferenziato) della Capitale. – 4. Le funzio-ni amministrative. – 4.1. Uniformità e differenziazione nell’attribuzione di funzioni alle auto-nomie locali. Le funzioni fondamentali degli enti locali come dimensione dell’uniformità. Problemi aperti. – 4.2. La costituzionalizzazione del principio di differenziazione (nella sus-sidiarietà) come criterio di riparto competenziale. Il ruolo dello Stato ed il ruolo delle Regio-ni. – 5. L’organizzazione. – 5.1. Uniformità organizzative e funzioni statali “finali”e “trasversa-li”: in particolare, i c.d. “livelli essenziali”. – 5.2. L’autonomia organizzativa regionale ed i suoi limiti. La disciplina costituzionale dell’organizzazione regionale. – 5.3. L’autonomia organiz-zativa locale ed i suoi limiti. Previsioni costituzionali e limiti alla differenziazione locale. La resistenza dell’uniformità organizzativa: la legge 5 giugno 2003, n. 131. – 6. Il ruolo della legi-slazione (statale e regionale) di fronte ad una amministrazione differenziata. Dalla garanzia dell’uniformità nell’amministrazione alla garanzia nella legge: verso una differenziazione amministrativa “ad effetto equivalente”.

1. Il superamento dell’uniformità amministrativa

1.1. L’affermazione del principio di differenziazione (nell’amministrazione)

Per come sin qui ricostruita, la recente riforma costituzionale intro-duce una generale apertura alla differenziazione, attraverso la riduzione degli ambiti affidati alla legge statale, attraverso un indebolimento delle forme di condizionamento esercitabili nei confronti dell’azione dei sog-getti dotati di autonomia, attraverso l’assunzione (generale) dell’indif-ferenza del dato organizzativo rispetto ad una logica mutata, centrata sul risultato dell’azione dei soggetti pubblici

1.

1 Un’elencazione, sintetica ma ricca di spunti, degli ambiti su cui si concentrava il si-stema dell’uniformità ante riforma (e del loro cambiamento alla luce della riforme), è rin-

LO STATO DIFFERENZIATO 288

In questa prospettiva, sul versante degli enti autonomi (quindi, in senso soggettivo, in relazione all’amministrazione come organizzazione) assistiamo non già alla riduzione/rimodulazione del principio di uni-formità (amministrativa), ma all’emersione di un opposto principio di differenziazione amministrativa.

Principio costituzionale di differenziazione amministrativa che e-merge in forma espressa come “differenziazione funzionale” (nell’art. 118, quale criterio nell’allocazione delle funzioni), ma che nel nuovo te-sto costituzionale ha una pluralità di manifestazioni: in particolare, si segnalano sin d’ora l’apertura alla autonomia organizzativa regionale (in primo luogo ad opera della legge costituzionale n. 1 del 1999 e, per le Regioni speciali, n. 2 del 2001) e locale (art. 114, comma 2°; art. 117, comma 6°); l’affidamento alle Regioni del compito di allocare le funzioni (che, quindi si ripartiranno in modo differenziato tra Regioni

2 ma anche in modo differenziato entro la stessa Regione

3: art. 118, commi 1° e 2°); la nuova autonomia finanziaria e fiscale (art. 119)

4; il venir meno della “legge generale” come limite per il legislatore nazionale e regionale in materia di autonomie locali

5. Il tutto, peraltro, senza entrare nella modellistica eterodifferenziata che

il nuovo testo costituzionale prefigura. Enti territoriali privi del carattere della necessarietà

6 (se si sommano a quelli esistenti) o a natura differen-

venibile in F. MERLONI, La leale collaborazione nella Repubblica delle autonomie, cit., 829: un modello in cui lo Stato manteneva «importanti strumenti non solo di cura diretta degli interessi nazionali di dimensione unitaria, ma di garanzia della uniformità giuridica e sostanziale nell’esercizio delle funzioni decentrate ai soggetti dotati di autonomia e nella disciplina dell’organizzazione».

2 Come è naturale in virtù dell’affidamento dell’allocazione (ratione materiae) alle Re-gioni, pur con il limite dell’art. 117, comma 2°, lett. p); ma come può discendere anche da un riparto differenziato da parte dello Stato (in particolare, questo, a livello regionale: l’applicazione del principio di differenziazione consentirebbe, ad esempio, allo Stato di “far risalire sussidiariamente” al proprio livello determinate funzioni di dimensione “re-gionale ampia”, suscettibili altresì di trovare nelle maggiori Regioni cura diretta (e questo non solo sulla base di parametri quantitativi (differenziazione), ma anche qualitativi (a-deguatezza).

3 Come discende dalla possibilità (opportunità) di un diverso riconoscimento di fun-zioni agli enti di maggiori dimensioni rispetto a quelli di dimensioni minori

4 Che qui trattiamo colpevolmente di sfuggita: più diffusamente v., tra gli altri, A. BRANCASI, Uguaglianze e disuguaglianze nell’assetto finanziario di una Repubblica federale, cit., 929 ss.

5 Previsto dall’art. 128, nell’originario testo costituzionale. 6 Il carattere, questo, che richiama antichi riferimenti. Così nella realtà francese

d’ancien régime, non solo le discipline locali erano le più varie, ma mancava lo stesso ca-rattere di “necessarietà” degli enti territoriali: tanto che il pouvoir local era, in quel siste-ma, un “privilegio” concesso, di volta in volta, a determinate zone. A partire dal decreto

PRINCIPIO E MODELLI DELLA DIFFERENZIAZIONE AMMINISTRATIVA 289

ziata rispetto a quelli omogenei (se si sostituiscono a questi): le Città me-tropolitane; enti a statuto speciale o “dispositivamente” differenziabili: le Regioni nell’art. 116; enti a disciplina singolare: Roma capitale

7. L’uniformità dei modelli di amministrazione non è più vista come co-

essenziale, unitamente all’uniformità/unitarietà del comando normativo, rispetto al perseguimento di un uniforme godimento dei diritti sul territo-rio: il fallimento del regionalismo dell’uniformità, l’affermazione di mo-delli di azione dei pubblici poteri incentrati sul condizionamento dei ri-sultati e sul rilievo secondario dei percorsi per il loro raggiungimento, contribuiscono a giustificare la transizione verso un modello che assume il carattere avaloriale dell’uniformità amministrativa e ne predica altresì il superamento

8. Il che, se da un lato conferma la tesi dell’impropria sovrapposizione,

storicamente determinata, dell’uniformità normativa e dell’uniformità amministrativa, evidenzia anche, di nuovo, la sottovalutazione del rilie-vo della dimensione organizzativa nella prospettiva della soddisfazione degli interessi e dei diritti, anche di rango costituzionale

9. Certo, in que-sta prospettiva, se l’uguaglianza non passa più per l’uniformità ammini-strativa, ma è affidata esclusivamente alla legge, la stessa legge dovrà in parte mutare i propri tratti, alla luce di questa consapevolezza.

L’amministrazione, da uniforme, diviene «differenziata ed ulterior-mente differenziabile»

10, tanto alla luce di scelte condotte dal centro, quanto, ancor più, alla luce di opzioni regionali ed addirittura locali

11.

dell’Assemblea costituente del 1789, le realtà municipali perdono, da un lato, le loro di-scipline speciali, ed acquistano, dall’altro, il carattere della necessarietà. Questa estensione “a tutto il territorio del regno” verrà operata, in Italia, con la legislazione del 1865. Sul punto, cfr., tra gli altri, G. VESPERINI, I poteri locali, cit., 13 ss.

7 Art. 114, u.c., oltre al (tradizionale) regime “di doppia specialità” (speciale anche ri-spetto alle altre Regioni differenziate) del Trentino Alto Adige e delle Province di Trento e Bolzano (ora, art. 116, comma 2°).

8 Cfr., in questo senso, la ricostruzione del sistema amministrativo operata da M. CAMMELLI, Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo Titolo V, cit., spec. 1282 ss.

9 Sottovalutazione che emerge, in particolare, dal raffronto tra dottrina costituzionali-stica ed amministrativistica “generale” da un lato e dottrina (non solo amministrativisti-ca) “di settore”: il modello è in sé non privo di coerenza, ma nelle sue ricadute concrete ne emergono con forza i limiti e le contraddizioni.

10 Così M. CAMMELLI, ult. op. cit., 1282: «[…] tutta la pubblica amministrazione (cer-tamente quella regionale e locale ma anche, inevitabilmente, l’amministrazione statale) è per le ragioni fin qui viste differenziata e ulteriormente differenziabile» [corsivi dell’Autore].

11 V., in questo senso, gli spazi che la riforma riconosce (riserva) alle fonti di autono-mia locale, soprattutto allorché si legga la riserva dell’art. 97 Cost. come legata ad una ripartizione di poteri tra Parlamento e Governo, piuttosto che come espressione di esi-genze di uniformità nella legge: seguendo questo ragionamento, per A. CORPACI, (L’inci-denza della riforma del Titolo V, cit., 47) «non è del tutto fuori luogo l’idea che in materia

LO STATO DIFFERENZIATO 290

Differenziazione organizzativa libera o meno, operata con legge o re-golamento, differenziazione dei modelli, dei soggetti (persino a ius sin-gulare). Dalla fonte, al soggetto, all’oggetto, alla tipologia: la differenzia-zione amministrativa predicata nel Titolo V ruota su una molteplicità di assi, delineando una variabilità di assetti organizzativi che conoscono pochi punti di equilibrio e pochi limiti generali

12. Differenziazione amministrativa, quindi, come differenziazione dei

modelli 13, delle funzioni

14 e dell’organizzazione 15. Secondo processi ete-

ronomi guidati dal centro 16 od affidati ad altri soggetti dotati di auto-

nomia 17; secondo processi concertati

18, secondo processi autonomi 19.

Differenziazione eccezionale, speciale, “asimmetrica”; fissata da fonti costituzionali, primarie, subprimarie (delle quali ultime è peraltro ne-cessario rivedere i caratteri)

20. La riforma costituzionale prefigura nu-merosi schemi, modelli, percorsi di differenziazione

21: il dato che ne ri-caviamo è il superamento dell’uniformità amministrativa, in particolare come uniformità dell’organizzazione dei soggetti pubblici

22. Detto in linea generale, la riforma apre dunque la strada ad un prin-

cipio di differenziazione amministrativa che risponde alle esigenze di flessibilità ed efficienza, maggiore capacità di cura degli interessi del ter-ritorio, risposta a domande ed esigenze differenti, proprie di realtà ter-ritoriali autonome.

di organizzazione operi una riserva di statuto e regolamento locale», fatta eccezione per le “sub-materie” dell’art. 117, comma 2°, lett. p).

12 Questo, come è stato ampiamente ravvisato, in virtù dell’assenza di un titolo di legit-timazione statale sui principi generali di organizzazione (così, ad esempio, F. MERLONI, Il destino dell’ordinamento degli enti locali, cit., 414 et passim).

13 Art. 114, commi 1° e 2°, ma spec. commi 3°; Art. 116, commi 1° e 2°. 14 Art. 118, commi 1° e 2°. 15 Per tutti, a livello locale, ai sensi dell’art. 117, comma 6°. 16 Tra gli altri: art. 119, comma 5°; ma anche art. 118, nelle materie di competenza sta-

tale; art. 114, comma 3°. 17 Dal confronto tra artt. 117 e 118. 18 Art. 116, comma 3°, ma anche art. 117, comma 8°. 19 Qui la modellistica è quanto mai ampia, basti pensare alla potestà statutaria costi-

tuzionalmente riconosciuta agli enti territoriali autonomi (art. 114, comma 2°). 20 In tal senso G.U. RESCIGNO, Note per la costruzione, cit., 806 ss. 21 Il che discende, inoltre, «dalla profondità delle competenze legislative regionali nei

settori di propria competenza”. Così la disciplina del personale è un esempio della possi-bilità che la differenziazione determini non già “opzioni organizzative diverse ma ordi-namenti del tutto differenti» (così, di nuovo, M. CAMMELLI, ult. op. cit., 1283).

22 La non omogeneità dei criteri di classificazione proposti determina l’esplosione del-la complessità dei modelli possibili: cfr., tra gli altri, G. CORSO, La tutela della concorrenza come limite della potestà legislativa, cit., 981 et passim.

PRINCIPIO E MODELLI DELLA DIFFERENZIAZIONE AMMINISTRATIVA 291

Mutano i percorsi, né resta unitario lo stesso obiettivo, nelle materie ora di competenza regionale.

Possono mutare i percorsi, a fronte di un obiettivo unitario, nelle ma-terie che persistono nella competenza statale: in questo spazio, di unifor-mità normativa, possono però residuare rilevanti vincoli organizzativi all’uniformità, ovvero esigenze di amministrazioni con tratti uniformi, posto che nel momento stesso in cui si circoscrive, negli spazi in cui la si circoscrive, l’uniformità acquista, come detto, maggiore rilievo e valore

23. Il progressivo superamento dell’uniformità della amministrazione, è,

alla luce di quanto sin qui affermato, da un lato non (di per sé) lesiva dei valori dell’uguaglianza e dell’unità nazionale

24, e dall’altro vera afferma-zione del principio di autonomia sancito dalla stessa Carta costituziona-le

25. Nel momento in cui è la stessa uniformità normativa ad essere sog-getta a profonda ridefinizione (e riduzione/rimodulazione), appare d’al-tra parte incongruo continuare a portare la bandiera di un principio che di questa uniformità normativa era stato, a torto o ragione, corollario. Non viene, in quest’ottica, meno un “principio di uniformità” dell’ordi-namento, come detto insito nell’art. 3 Cost. nel suo rapporto con gli altri diritti costituzionali: viene meno, però un modello, nel quale era opera-to, seguendo un approccio risalente e particolarmente radicato nel no-stro sistema, un (presunto) “parallelismo necessario” tra uniformità nei diritti (normativa) ed uniformità delle amministrazioni.

Altri collanti dell’unità possono essere previsti nell’ordinamento 26; al-

tri strumenti possono garantire il perseguimento di un’eguaglianza non solo formale, ma anche sostanziale: strumenti che, nel dato contempo-

23 In quanto collegata ad una dimensione nella quale i profili normativi non tollerano differenziali regionali, ovvero in quanto riconducibile alle materie del comma 2° dell’art. 117, la funzione amministrativa risente di una tensione all’uguaglianza che può tradursi, seppure questo non sia necessariamente vero, in modelli di azione dai tratti più nitida-mente uniformi (con riflessi sul piano dell’organizzazione).

24 Tra gli autori che sposano questa posizione, cfr. G. BERTI, Crisi e trasformazione del-l’amministrazione locale, cit., per il quale, se il modello tradizionale presupponeva l’ugua-glianza di trattamento delle amministrazioni locali da parte dello Stato, «non ha più sen-so l’effetto protettivo che questa uguaglianza voleva raggiungere, sia nel rapporto degli enti locali con lo Stato, sia nel rapporto dei cittadini con gli enti locali» (ivi, 687).

25 Non è qui possibile riprendere i passaggi che hanno caratterizzato questa evoluzio-ne, che sono stati oggetto della nostra analisi. Tra gli altri, pare particolarmente significa-tiva, in materia, la giurisprudenza costituzionale successiva alla legge n. 142 del 1990, ed in particolare la sentenza n. 343 del 1991.

26 In una prospettiva a forte differenziazione diviene di particolare centrale il tema dei “raccordi” tra livelli di governo: su punto, cfr. nuovamente, per tutti, F. MERLONI, La leale collaborazione nella Repubblica delle autonomie, 827 ss.

LO STATO DIFFERENZIATO 292

raneo, si chiameranno, in particolare, standard minimi, livelli “essenzia-li”

27. Rispetto a questo modello, che predica un condizionamento non già delle forme, ma dei risultati, il dato organizzativo può essere assunto come irrilevante. L’uguaglianza diviene il prodotto di percorsi non omo-genei, frutto di autonomia o comunque differenziati: l’uniformità richie-sta all’amministrazione è uniformità nei risultati, non è più uniformità nell’organizzazione

28. Un condizionamento dell’autonomia come differenziazione può pas-

sare, come già evidenziato, per canali diversi dalla riduzione degli spazi di differenziazione nell’organizzazione e nelle stesse modalità di azione dei soggetti autonomi: un condizionamento dei “prodotti” degli enti au-tonomi può prescindere dall’attenzione in ordine alle modalità di questa produzione. In un simile assetto il principio di uniformità (nelle situa-zioni giuridiche sul territorio) muta, ma non viene meno; viene altresì meno il principio di uniformità amministrativa.

1.2. La progressiva ascesa della differenziazione amministrativa

Il passaggio da un sistema organizzativo dell’uniformità (amministra-tiva), all’opposto modello della differenziazione, è individuabile come tendenza di fondo dell’ordinamento e viene praticato secondo una plura-lità di forme e modelli nella riforma del Titolo V: differenziazione etero-noma od autonoma, eccezionale, asimmetrica o speciale, eventuale od espressa, in base alla Costituzione, alla legge, alle fonti di autonomia, ad accordi normativi.

Ma il superamento dell’uniformità dei modelli di organizzazione si inserisce, da questo punto di vista, su un sistema che già tendeva verso la differenziazione: a livello regionale come locale, il riconoscimento e l’ampliamento della potestà regolamentare e statutaria

29, l’apertura a più rilevanti spazi di autonomia organizzatoria, la riduzione dei controlli, ma anche la previsione di una differenziazione funzionale tra i diversi

27 Delle due terminologie presentate è, ovviamente, preferibile la seconda. La dizione “livello essenziale” ricorre nel riformato testo costituzionale: in una prima formulazione, la terminologia utilizzata, non equivalente, era di “livelli minimi”. Nel concetto di “livello essenziale” vi è un dato qualitativo, oltre che quantitativo, cosa che non è altrettanto evi-dente nel concetto di “livello minimo”.

28 Un’uniformità su cui, di nuovo, v. L. VANDELLI, Poteri locali, cit., 376 ss. 29 In particolare, per le Regioni, v. la legge cost. n. 1 del 1999 (e la sua complessa at-

tuazione), ma già a livello di autonomie locali le previsioni della legge n. 142 e poi della legge n. 265 del 1999.

PRINCIPIO E MODELLI DELLA DIFFERENZIAZIONE AMMINISTRATIVA 293

soggetti (omogenei) dotati di autonomia, o ad opera di questi soggetti 30,

la stessa affermazione di un principio di differenziazione (funzionale) 31.

Ancora, la previsione di soggetti autonomi differenziati (Città metropoli-tane, con statuto di specie) e di modalità differenziate per l’esercizio del-le funzioni attribuite

32. Si aggiungano, inoltre, le ampie, previsioni (ete-ro) differenziate per i diversi soggetti autonomi, al variare della dimen-sione, del territorio, o di un altro fattore assunto come parametro

33. Il tutto, evidentemente, senza pretesa di esaustività. Differenziazione che, inoltre, si confronta con l’espandersi di modali-

tà “difformi” di organizzazione ed articolazione dei poteri statali: am-ministrazioni differenziate per la cura di specifici interessi (amministra-zioni indipendenti e semi-indipendenti); pluralità di moduli organizzati-vi a livello governativo (agenzie, dipartimenti, ecc.). Né talune forme di questa difformità sono irrilevanti per le stesse realtà autonome che con lo Stato si rapportano: così è per la previsione di articolazioni periferi-che non più simmetriche ai poteri sul territorio (la perdita della corri-spondenza tra Provincia ed amministrazione periferica dello Stato)

34. Esaltare le linee di continuità non deve, però, farci trascurare le di-

scontinuità, dalle quali emerge la transizione da un modello generale ad un altro: dall’uniformità alla differenziazione amministrativa. La diffe-renziazione diviene, infatti, principio generale e residuale, cosicché gli spazi e le maglie di uniformità dovranno essere puntualmente individua-te e giustificate. Vero è, peraltro, che così come a lungo si era puntellata su dinamiche materiali, già emergono i primi segnali di “sacche di resi-stenza” dell’uniformità amministrativa: il nuovo modello predica la dif-ferenziazione, ma la sua attuazione ed interpretazione già prefigura l’irresistibile emersione di requisiti minimi di uniformità

35.

30 Il ruolo delle Regioni a partire dall’art. 3 della legge n. 142; ma anche la possibilità di differenziazione tramite l’assunzione di funzioni (libere) ulteriori discendente dal ca-rattere generale del Comune (e della Provincia): art. 9, legge n. 142 del 1990.

31 Art. 4 della legge n. 59 del 1997. 32 In particolare, la Città metropolitana, soprattutto dopo la legge n. 265 del 1999. 33 Qui l’esperienza è molto ricca, oltre che risalente. Il campo dove tradizionalmente si

è fatto maggior ricorso ad una disciplina con caratteri di sistematicità nella differenzia-zione è quello elettorale locale (v., in particolare, la legge n. 81 del 1993).

34 Cfr. F. MERLONI, Introduzione, in F. MERLONI-A. BOURS (a cura di), Amministrazio-ne e territorio in Europa, cit., 13 ss.

35 Ricorrendo alla terminologia utilizzata dalla legge n. 131 del 2003, che peraltro si ri-ferisce ai soli enti locali e ne affida l’individuazione (ratione materiae) allo Stato od alle Regioni. Requisiti minimi di uniformità che, se così costruiti, varieranno, nelle materie regionali, Regione per Regione.

LO STATO DIFFERENZIATO 294

La differenziazione amministrativa è, però, un portato ineludibile del nuovo ordine.

Questo, già prima di scendere nel particolare delle applicazioni costi-tuzionalmente possibili o previste della differenziazione nell’ammini-strazione emerge a livello generale, dall’assenza di voci che giustifichino una legittimazione statale ad un intervento di regolazione nei “principi generali dell’organizzazione” 36. L’assenza, attentamente rimarcata 37, di un titolo abilitativo alla disciplina comune dei tratti essenziali delle or-ganizzazioni pubbliche, cui pure la legislazione ordinaria statale già cer-ca di porre rimedio (mancando però un aggancio costituzionale che giu-stifichi, a livello formale, questa operazione) 38 contribuisce a delineare un quadro nel quale lo Stato può disciplinare solo l’organizzazione pro-pria e degli enti pubblici nazionali (ai sensi della lettera g) del secondo comma dell’art. 117) 39. Talune ipotesi di ulteriore riforma del Titolo V, nel prevedere l’espressa menzione di una voce abilitante l’intervento sta-tale al di fuori dell’amministrazione nazionale, confermano ulteriormen-te questa assenza, dalla quale non possono che farsi discendere conse-guenze di un certo rilievo.

Spesso, nel nuovo Titolo V, sono le “assenze” più che le previsioni e-spresse a segnare il mutamento di un sistema: così è per l’interesse na-zionale, per la (espunta) disciplina dei controlli

40, per il venire meno del-la “legge generale” sull’ordinamento locale, per la mancata menzione

36 La legge n. 131 parla, altresì, in riferimento agli enti locali, di “principi generali sul-l’organizzazione” come vincolo per lo Statuto, agganciandola alla lett. p) dell’art. 117 (quindi: solo per gli enti locali, ma sembra in ogni caso comunque una forzatura).

37 Tra gli altri da F. MERLONI, Il destino dell’ordinamento degli enti locali, cit., 409 ss. 38 Così, di nuovo, la legge n. 131 del 2003 subordina gli Statuti locali al rispetto dei

principi generali sull’organizzazione amministrativa, il che o è ultroneo se tali principi si intendono come quelli discendenti dalla Costituzione, o prefigura una competenza statale in materia che, non sembra desumibile né dalla lett. p) né dalla lett. g) del comma 2° dell’art. 117.

39 Da segnalare, peraltro, come a nostro avviso tale disposizione consenta di prefigura-re un nuovo modello di parallelismo nel caso in cui esigenze sussidiarie determinino l’allocazione in capo allo Stato di funzioni amministrative che esulino dalle materie di sua competenza: ci sia consentito rinviare, sul punto, ad E. CARLONI, L’ordinamento della comunicazione, cit., 1010 ss.; in un senso in parte analogo cfr. Corte cost., sent. n. 303 del 2003, per la quale peraltro il recupero di una competenza legislativa “parallela” alla com-petenza amministrativa discende in via generale dal principio di legalità, piuttosto che dalla competenza statale dell’art. 117, comma 2, lett. g).

40 “Scomparsa” che è, per L. ELIA (Introduzione, in T. GROPPI-M. OLIVETTI, La repubblica delle autonomie, cit., 17) il “quarto pilastro” della riforma. Sul punto, cfr. S. CIVITARESE MATTEUCCI, L’autonomia istituzionale e normativa degli enti locali dopo la revisione del Titolo V, Parte II della Costituzione. Il caso dei controlli, in Regioni, 2002, 445 ss; e G. SCIULLO, Il sistema dei controlli, in C. BOTTARI (a cura di), La riforma del Titolo V, cit., 205 ss.

PRINCIPIO E MODELLI DELLA DIFFERENZIAZIONE AMMINISTRATIVA 295

della funzione di indirizzo e coordinamento 41. Così è per le voci non elen-

cate nell’art. 117, commi 2° e 3°, ed in particolare per le regole generali sulla azione

42 ed, appunto, per i principi generali sull’organizzazione pubblica

43. Cosa fare discendere da questo assunto: al di là del rilievo che diver-

samente possono assumere le funzioni trasversali statali, in via generale alla ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni «corrisponde un potere rispettivo e senza interferenze

44, in materia di organizzazione» 45.

Né appare trascurabile, ancorché evidentemente diversa, la riserva di organizzazione locale prefigurata dalla riforma

46. Come evidenziato, questo non esclude però che vi siano numerosi, ancorché determinati, casi in cui questa separazione deve trovare un contemperamento

47 ed in cui questa differenziazione organizzativa troverà dei limiti.

41 In merito vedi, nuovamente, le riflessioni di G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V, cit., 1261 ss.

42 Punto su cui v., però, la ricomposizione del sistema operata da D. SORACE, La disci-plina generale dell’azione amministrativa, cit., 756 ss.

43 In tal senso v., tra gli altri, F. MERLONI, Il destino dell’ordinamento degli enti locali, cit., 415 et passim.

44 Perlomeno, salvo le ulteriori precisazioni, senza interferenze “verso l’alto”, ma resta da verificare la portata della riserva di organizzazione locale contenuta nel comma 6 dell’art. 117. Punto sul quale cfr. A. CORPACI, L’incidenza della riforma del Titolo V, cit., 45 ss.; M. CAMMELLI, Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo Titolo V, cit., spec. 1286 ss.

45 Così F. MERLONI, L’informazione e la comunicazione pubblica: dalla legge 150 alle prospettive di differenziazione regionale, cit., 79. In questo senso, più diffusamente, cfr. ID., Il destino degli enti locali (e del relativo Testo unico), cit., passim, nonché A. CORPACI, ult. op. cit., 44., per il quale, il legislatore regionale, per quanto attiene alla propria organizza-zione ed al proprio ordinamento, «non incontra altri vincoli se non quelli predicati in via generale dal I c. dell’art. 117 per l’esercizio della potestà legislativa».

46 Molteplici ne sono però le fonti di condizionamento. Alcuni di questi limiti vivono al di fuori del Titolo V, nella parte immutata della nostra Carta Costituzionale: così è, ad esempio, per il principio di legalità, che riduce gli spazi di differenziazione riconoscibili alle fonti di autonomia (locale). Altri limiti discendono, almeno potenzialmente, dall’in-flusso sull’organizzazione esercitabile dalla legislazione, statale, ma anche regionale: se l’organizzazione è la sede, prioritaria, della differenziazione attraverso l’esercizio dell’au-tonomia, è però vero che, regolando una funzione è possibile predeterminare passaggi e vincoli, aventi riflessi anche sull’organizzazione: ciò nonostante, l’uniformità organizzati-va sembra superata, né appare recuperabile attraverso la disciplina normativa della fun-zione, se non per macro tratti e per grandi linee.

47 Così di nuovo F. MERLONI, L’informazione e la comunicazione pubblica: dalla legge 150 alle prospettive di differenziazione regionale, cit., 80.

LO STATO DIFFERENZIATO 296

2. La “necessaria differenziazione” delle pubbliche amministrazioni: carattere avaloriale dell’uniformità e della differenziazione ammi-nistrativa

Lo scenario con cui si confronta chi voglia analizzare lo sviluppo con-temporaneo delle istituzioni pubbliche deve tenere conto di un dato dif-ficilmente controvertibile: la natura plurale e composita delle pubbliche amministrazioni

48 viene progressivamente ad essere percepita, ed assun-ta come tale anche dallo stesso legislatore, come «un dato di fatto e una base di partenza, invece che come una patologia di un ideale, e mai rea-lizzato, ordine primigenio»

49. Assumere questo come dato fattuale e di partenza, sostanzialmente i-

neliminabile, significa riconoscere, progressivamente, il carattere non più “eccezionale” e “derogatorio” ad elementi che, altresì, procedono via via a delinearsi quali espressioni di un nuovo ordine di tipo diverso, quali mo-menti «di un sistema che ha sempre meno tratti uniformi e ricostruisce continuamente la propria unitarietà»

50. A ben vedere, il riconoscimento del carattere multiforme della amministrazione, appare progressivamente affermarsi nell’ordinamento italiano, e lungi dal delinearsi quale incom-patibile con l’assetto proposto dalla Costituzione, sembra desumersi da questa, in una lettura evolutiva, la «progressiva differenziazione di model-li»

51, nel quadro di principi unitari (già) posti dallo Stato 52.

48 Lo stesso diritto amministrativo ne è trasfigurato, andandosi perdendo il carattere monolitico della sua specialità, che diviene “aperta e multiforme”, espressione di un’amministrazione pluralistica e plurisoggettiva (in questo senso L. MANNORI-B. SORDI, Storia del diritto amministrativo, Roma-Bari, 2001, spec. 527-529). Un fenomeno, questo, che può leggersi anche nell’ottica della “crisi dello Stato”: «dove prima scorgevamo una realtà sola ora ne ritroviamo tante, quanti sono i pezzi dell’unico specchio andato in fran-tumi» (S. RODOTÀ, Repertorio di fine secolo, Bari, 1992, 59). Sul punto cfr., per il momen-to, tra gli altri, S. CASSESE, L’erosione dello Stato: una vicenda irreversibile?, in Rass. Parl., 2001, 11 ss.

49 Cfr., in questo senso, l’analisi di L. TORCHIA, Il riordino dell’amministrazione centrale, cit., 691. Sulla tematica dell’emersione di una serie complessa di figure soggettive, con la conseguente ridefinizione del ruolo dello Stato, cfr., tra gli altri, C. FRANCHINI, L’organiz-zazione, cit., 231 ss.; S. CASSESE, Il sistema amministrativo, Bologna, 1992, 85 ss.

50 L. TORCHIA, Il riordino dell’amministrazione centrale, cit., 691. 51 In questo senso, cfr. già M. NIGRO, in La riforma dell’amministrazione locale, a cura

della Fondazione Agnelli, Torino, 1978, 35 ss.; si tratta, peraltro, della percezione ormai diffusa di un processo nel quale «in definitiva, col passare degli anni, lo Stato perde gra-dualmente l’unità originaria» (così C. FRANCHINI, L’organizzazione, cit., 245.

52 Così potrebbe intendersi lo stesso ruolo dell’amministrazione, cui, nella lettura di M. NIGRO, sarebbe da riconoscersi una sfera di potere di organizzazione “riservato”, che precluderebbe ogni intervento del legislatore: in quest’ottica, secondo le nostre categorie,

PRINCIPIO E MODELLI DELLA DIFFERENZIAZIONE AMMINISTRATIVA 297

Lo stesso concetto di “ordine” è sottoposto a revisione, atteso che perde, man mano, il suo portato di “statica” per assumere una connota-zione vieppiù dinamica, nella quale esso non è più lo stabile equilibrio in ragione di un assetto di interessi legislativamente, o normativamente, definito, ma è espressione del combinarsi, spesso solo momentaneo, di elementi in tensione, a volte contrapposti

53: in questo quadro l’unità del sistema non va più ricercata nella «omogeneità di contenuto delle varie parti del sistema medesimo»

54, non è più nella uniformità delle parti che compongono il sistema che va rintracciata la ragione che fonda e man-tiene l’unità, ma nella coerenza tra le parti e nel loro legame.

In questa ottica, la differenziazione, ma prima ancora lo stesso fenome-no del decentramento, sono espressione della “crisi dello Stato”, crisi de-terminata dall’eccesso di domande e dalla impossibilità di risposta alla mol-teplicità delle richieste, al sistema politico ed amministrativo centrale

55. Si tratta di un sistema che risente, con palese evidenza, di quel feno-

meno che possiamo ricondurre alla “sfida della complessità”, ed al con-seguente problema del tentativo di risposta offerto a questa stessa com-plessità dalle strutture formali, le istituzioni e lo stesso ordinamento giuridico. In questo contesto, emerge l’esigenza di abbandonare un illu-ministico tentativo di regolare in modo uniforme, nei principi e nel det-taglio, amministrazioni tra loro fortemente eterogenee

56.

potremmo individuare una “sfera di (necessaria) differenziazione” nell’amministrazione, quale espressione dei principi fissati dall’art. 97, c.1, della Costituzione (cfr. ID., Studi sul-la funzione organizzatrice, cit., 75 ss.).

53 In tale quadro diviene fondamentale il ruolo dei c.d. strumenti di governance (rac-cordi, conferenze, ecc.): sul punto cfr., amplius, F. MERLONI, La leale collaborazione nella Repubblica delle autonomie, cit., spec. 864 ss., e F. PIZZETTI, Le nuove esigenze di gover-nance, cit., 1153 ss.

54 Cfr. L. TORCHIA, Il riordino dell’amministrazione centrale, cit., 698. 55 In questa lettura, una delle ragioni di questa crisi è legata, nel sistema italiano, in

particolare alla crisi del sistema dei partiti. La “fuga verso il centro” è d’altra parte un tratto risalente della nostra storia amministrativa, su cui, criticamente, già si erano e-spressi S. ROMANO (Decentramento amministrativo, cit., 35 ss.) e V.E. ORLANDO (Sulla questione economica ed amministrativa ni Italia, in Arch. dir. pubbl., 1895, 153), per il quale «tutto dirama da quel centro, tutto colà si crea e si distrugge; abbiamo fatto di Ro-ma una specie di Mecca maomettana, verso cui ogni buon italiano deve orientarsi nelle sue aspirazioni e nelle sue preghiere. A Roma la sede di tutti gli uffici direttivi e di tutti gli uffici resi a bella posta unici; a Roma la soluzione d’ogni minuscolo affare; tutto si porta a Roma ed è un granché non si sia tentato di trasportarvi anche il duomo di Monreale o il campanile di Giotto» (il corsivo è dell’Autore). Sulla “crisi dello Stato” nelle realtà con-temporanee, v., sin d’ora, tra gli altri U. ALLEGRETTI, Diritti e Stato nella mondializzazione, cit., spec. 16 et passim; S. CASSESE, La crisi dello Stato, Roma-Bari, 2002.

56 Così rileva S. CASSESE (Le basi del diritto amministrativo, cit., 169) come l’organiz-zazione amministrativa «non deve rispondere a principi astratti di simmetria, o uniformi-tà, o centralizzazione, o decentramento ecc., ma alle funzioni affidatele».

LO STATO DIFFERENZIATO 298

Né, come noto, tale modello, strutturato su un condizionamento forte dell’azione e dell’organizzazione dei soggetti autonomi aveva, in realtà, prodotto uniformità (nel godimento dei diritti sul territorio): la differen-za “ereditaria e strutturale” su cui si calavano modelli uniformi deter-minava la loro differente applicazione. Ne discendeva come norme for-malmente uniformi riferite ad amministrazioni (di nuovo, formalmente) uniformi producessero in realtà una rilevante differenziazione nei risul-tati (e, quindi, nella concreta soddisfazione e tutela dei diritti)

57. Ad una apparente omogeneità faceva riscontro una sostanziale differenziazione.

Da ciò il progressivo spostarsi dell’attenzione del legislatore (prima or-dinario, ora costituzionale) sui risultati (uniformi) cui giungere, a pre-scindere dalla necessaria uniformità dei soggetti e dei percorsi: da ciò il progressivo affermarsi di un nuovo modello organizzativo, ispirato ad un principio di differenziazione amministrativa in luogo del precedente mo-dello ancora legato al tradizionale “pariforme” sistema. Un cambiamento, questo, frutto di una tendenza in parte risalente, che si afferma ora nel mutato quadro costituzionale, rispetto al quale non appare indifferente il condizionamento esercitato dalle modalità di azione comunitarie.

Il condizionamento dell’autonomia in una realtà complessa non pas-sa più in via generale attraverso una compressione degli spazi di diffe-renziazione nell’organizzazione, oltre che nelle modalità di azione: spo-stando l’attenzione sui risultati di questo esercizio condizionato di auto-nomia emerge la distanza tra fine che si mirava a raggiungere (unifor-mità delle situazioni giuridiche sul territorio, come conseguenza del-l’uniforme traduzione di un uniforme comando normativo) e realtà ef-fettiva.

In tal senso, si va delineando uno scenario sempre più caratterizzato dall’abbandono del modello dell’uniformità e del suo corollario necessa-rio, la “differenziazione come deroga”, verso una “logica dell’equiva-lenza”, che permette di collegare all’affermazione del principio generale una «pluralità di strumenti»

58.

57 Questo sia a livello locale (tra gli altri: F. MERLONI-L. TORCHIA-V. SANTANTONIO, Le funzioni del governo locale, cit., passim; L. VANDELLI, Dalle aree metropolitane ai Comuni minori, cit., spec. 832-833) che regionale (per tutti, F. TRIMARCHI BANFI, Il regionalismo e i modelli, cit., spec. 256-257; G. D’IGNAZIO, Asimmetrie e differenziazioni regionali dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, in S. GAMBINO (a cura di), Il “nuovo” ordinamento regionale, cit., 266, per il quale «nonostante sia stata perseguita una politica dell’unifor-mità […] non è stato possibile riuscire a garantire una sostanziale omogeneità nelle per-formance delle diverse Regioni, che hanno manifestato nel tempo profonde differenze sociali ed economiche».

58 Cfr. L. TORCHIA, La modernizzazione del sistema amministrativo, cit., 333.

PRINCIPIO E MODELLI DELLA DIFFERENZIAZIONE AMMINISTRATIVA 299

L’uniformità amministrativa nasce e si sviluppa in relazione ad esi-genze di cui è, a secoli di distanza, chiaro il fondamento: il superamento dei privilegi è la forza positiva che spinge l’uniformità sia nell’ammi-nistrazione che nella legge, nell’età delle rivoluzioni

59, affiancandosi al-l’altra grande “forza storica” dell’accentramento, di cui sono ormai evi-denti le origini ancora più risalenti

60. In tal senso, nell’uniformità am-ministrativa si incardinano valori fondanti per lo Stato moderno e per l’ordinamento italiano: l’eguaglianza giuridica, l’unità nazionale raggiun-ta a fatica

61. Ma l’uniformità non è (non è stata), nel suo carattere “amministrati-

vo”, che lo strumento attraverso cui si perseguono (si sono perseguiti) altri valori costituzionali: non è (è stata) che il mezzo per il persegui-mento dell’unità dell’ordinamento e dell’uguaglianza

62 nell’esercizio dei diritti sostanziali ed anzi, ancora di più, non è che uno dei mezzi possi-bili.

Se così è, appare possibile riconoscere, nel progressivo allontanamen-to dall’uniformità dei modelli di amministrazione l’espressione di quel distacco tra i valori su cui l’uniformità si fonda e l’uniformità (delle amministrazioni) stessa, che di quei valori non è l’essenza, ma lo stru-mento: allora, superare l’uniformità amministrativa diviene un dato ava-loriale, e la sua ridefinizione non comporta la messa in discussione dei valori ad essa tradizionalmente sottesi. Ne comporta, però, la rilettura, dal momento che se sono altri e diversi gli strumenti cui l’ordinamento affida la tutela dell’uguaglianza e dell’unità, possono mutare i contenuti concreti di quest’uguaglianza e di questa unità. In particolare, come sin

59 Così, è stato evidenziato come, fino alla Rivoluzione, in tutta la Francia vi fosse la pre-senza di corpi o comunità intermediarie, tutti dotati di franchigie e di privilegi, che costitui-vano altrettanti schermi che impedivano al suddito di essere un semplice amministrato del-lo Stato (cfr., tra gli altri, H. MOREL, Accentramento e decentramento, cit., 497 ss.).

60 Per tutti, cfr. L. VANDELLI, Poteri locali, cit., 15 et passim; in effetti, come d’altra par-te già evidenziava Tocqueville, c’è una linea di continuità che lega Monarchia assoluta ed evoluzione della forma di Stato rivoluzionaria e napoleonica. Questo pure con la precisa-zione che, in realtà, nell’esperienza d’oltralpe, a ben vedere, i Re «riunirono la Francia molto più di quanto l’unificarono», così H. MOREL, (Accentramento e decentramento, cit., 500 ss.), con riferimento all’analisi dello storico M. Bloch.

61 Così, tra gli altri, S.SEPE, I modelli organizzativi, cit., 14. 62 Valore che impronta di sé tutto l’ordinamento: così G. ARENA, Valori costituzionali e

ruolo dell’amministrazione, cit., 18, evidenzia la il valore dell’uguaglianza e la necessità di una sua piena (nella sua declinazione formale e, anche in virtù del ruolo dell’ammi-nistrazione, sostanziale), poiché «solo così si potrà ottenere il riconoscimento dei diritti di tutti in quanto persone comunque meritevoli di tutela, indipendentemente dalle “ap-partenenze” ai vari settori della popolazione. Esattamente come prescrive la Costituzione, che mira al “pieno sviluppo della persona umana”, senza altri aggettivi».

LO STATO DIFFERENZIATO 300

qui si è cercato di evidenziare, l’uguaglianza nello Stato delle autonomie assume, necessariamente, connotati in parte diversi, legati ai meccani-smi che ne garantiscono il perseguimento.

Tali meccanismi non muovono più, in via generale, dall’uniformità amministrativa. Ciò detto, residuano, nel nuovo sistema, spazi di unifor-mità nell’amministrazione, che definiscono i limiti al principio che, diver-samente, è in grado di dispiegare appieno i suoi effetti, quello della diffe-renziazione amministrativa. Principio che, se inteso in via generale defini-sce, nel riformato quadro costituzionale, la generale indifferenza dell’ordi-namento nei confronti delle modalità organizzative attraverso le quali sono perseguiti determinati risultati: possono cambiare i soggetti deputati al lo-ro perseguimento, la struttura di questi, l’uso che questi fanno delle loro risorse, ma ciò non è più visto come lesivo dell’uguaglianza/unità dell’ordi-namento purché si sviluppi entro i limiti determinati 63.

Se diviene (e nella misura in cui diviene), in altri termini, possibile differenziare direttamente le posizioni giuridiche sostanziali dei cittadi-ni in ragione del territorio, attraverso l’uso degli spazi autonomici ora così ampiamente riconosciuti alle fonti regionali e locali, diventa eviden-temente naturale accettare che le amministrazioni portatrici di comandi diversificati siano (possano essere) esse stesse diversificate. Piuttosto, dobbiamo interrogarci sui limiti generali e speciali di questa stessa dif-ferenziazione, ed in particolare sul condizionamento organizzativo di-scendente dai diritti (da alcuni di essi), laddove la necessaria soddisfa-zione del loro contenuto essenziale impedisca di ignorare il rilievo della dimensione organizzativa

64.

63 In un contesto nel quale, più in generale, è la stessa dimensione organizzativa ad acquistare caratteri crescenti di flessibilità, in ragione della sua progressiva assunzione come fenomeno “subordinato” alle esigenze dell’attività amministrativa: cosicché la diffe-renziazione delle amministrazioni sembrerebbe espressione di una realtà nella quale è «l’organizzazione a doversi adeguare alle necessità di un’azione più celere ed efficace, co-struendo modelli ad hoc a seconda delle necessità» (così, riflettendo sull’evoluzione del rapporto tra attività ed organizzazione amministrativa, A. PIOGGIA, La competenza ammi-nistrativa, cit., 12).

64 Di nuovo emerge la domanda sui limiti della differenziazione: una risposta, al ri-guardo, sembra potersi desumere da una riflessione di L. PALADIN, riferita a problemati-che in parte simili proprie del diritto privato “nell’età ella decodificazione”, che è, per noi, soprattutto un indirizzo “di metodo”: «ma è proprio in una fase di decodificazione e di disgregazione del diritto, che l’appello alla Costituzione rappresenta il più valido metodo per ristabilire un minimo di compattezza, di coerenza e di giustizia nell’ordinamento dei rapporti civilistici» (ID., Costituzione, preleggi e codice civile, in Il Codice civile, Roma, 1994, 89). Sul punto, si veda anche il già citato N. IRTI, L’età della decodificazione venti anni dopo, cit., 194 ss. Vero è che laddove la Costituzione stessa cessa di svolgere il suo ruolo di pietra angolare (stabile) del sistema, tale riferimento perde parte della propria rilevanza.

PRINCIPIO E MODELLI DELLA DIFFERENZIAZIONE AMMINISTRATIVA 301

3. Modelli differenziati per le autonomie locali

3.1. La previsione delle Città Metropolitane

Nel riformato Titolo V la differenziazione amministrativa trova radi-camento in molteplici disposizioni, che in taluni casi operano la costitu-zionalizzazione di forme differenziate di amministrazione. Così è per la previsione di un nuovo ente, la Città metropolitana, del quale non viene però data una definizione (il che ne esalta il potenziale di differenzia-zione): una scelta, questa, che sembra potersi cogliere come frutto della percezione, sulla scorta delle esperienze di altri ordinamenti, del carat-tere tendenzialmente atipico di ogni realtà metropolitana, con la conse-guente necessità di risposte articolate in termini organizzativi

65. La riforma del Titolo V, nell’introdurre la Città metropolitana quale

ente territoriale di dimensione infraregionale, non esplicita, infatti, né i caratteri di questo ente, né il modello da assumere a riferimento. L’art. 114, che pure la prevede, non descrive la Città metropolitana, non ne de-finisce i caratteri né il procedimento per l’istituzione: quello che possia-mo ricavare delle disposizioni del nuovo Titolo V è però che la Città me-tropolitana, come ente territoriale di base, è titolare di funzioni ammini-strative proprie nonché di quelle conferite con legge statale o regionale, ha autonomia finanziaria e partecipa al principio di sussidiarietà.

Si tratta, peraltro, di un ente territoriale la cui relazione con gli altri soggetti infraregionali dell’art. 114 risulta incerta: ente che si aggiunge a Comuni e Province (come ulteriore livello di governo locale, quindi privo del carattere della necessarietà), ente che si sostituisce a Comuni o, più probabilmente, a Province (ed in questo caso da “trattare” alla stregua dell’ente cui si sostituisce?). Nulla è detto, inoltre, in ordine alla modali-tà di costituzione di questi enti autonomi.

Un possibile chiarimento, in un’ottica storico-normativa, è dato dal-l’esame della legislazione in materia ed in particolare, da ultimo, dal raf-fronto di questa previsione con la disciplina, priva per altro di una signi-ficativa attuazione

66, del Testo unico degli enti locali in materia di Aree

65 Non si comprende, peraltro, il motivo per cui sono state costituzionalizzate le Città metropolitane e non le Comunità montane, di ben più antica tradizione e maggiore radi-camento nel territorio: si tratta, ad ogni modo, di una tendenza al ridimensionamento del ruolo e della funzione degli enti montani che ad alcuni osservatori pareva già presente nella legge n. 265 del 1999 (cfr., in particolare, A. VIGNERI, Commento all’art. 7, in A. VI-GNERI-S. RICCIO (a cura di), Nuovo ordinamento, cit., 82).

66 Come noto, infatti, l’esperienza maturata delle Aree metropolitane dopo il varo della legge n. 142 del 1990 è essenzialmente di tipo teorico basandosi solo su elaborazioni poli-

LO STATO DIFFERENZIATO 302

e Città metropolitane 67. Il rischio è, in questo caso, di far dire troppo al-

la disposizione costituzionale, nel momento in cui si imposta un rappor-to di presupposizione tra norma costituzionale e legislazione ordinaria. Tenendo ferma, però, questa linea di ragionamento, le Città metropoli-tane potrebbero essere considerate come una modalità, per l’esercizio di funzioni di area vasta, alternativa alla Provincia

68. Questo troverebbe conferma in un dato testuale, peraltro molto debo-

le: quello della collocazione della Città metropolitana, nell’ambito del-l’elencazione “a crescere” dell’art. 114, tra Province e Regioni: mentre da questo può farsi discendere l’esclusione della Città metropolitana come coincidente con il Comune dell’area metropolitana, l’elencazione chiusa dell’art. 131 ci porta ad escludere una “ambizione regionale” di questo ente differenziato. Da questo, tre sono le possibili conclusioni: o la Città Metropolitana coincide con la Provincia (e, laddove istituita, si sostitui-sce a questa), o si somma a questa, oppure al legislatore si aprono le più ampie possibilità di scelta, anche differenziando caso per caso 69.

Non sembra che dai dati testuali possano ricavarsi elementi formali si-gnificativi che supportino in modo dirimente l’una o l’altra conclusione.

tiche e concettuali senza che si sia mai giunti ad una concreta attuazione. L’esperienza più significativa è, forse, quella bolognese (dove si era giunti alla delimitazione, con legge regionale, n. 33 del 1995, dell’area metropolitana di Bologna) L’esperienza bolognese si segnala come capofila anche nel tentativo di istituzione di una Città metropolitana sulla base delle previsioni della legge n. 265 (cfr. legge reg. Emilia Romagna n. 11 del 2001).

67 V. artt. 22-24 del Testo unico (Titolo II, Capo III). Per una analisi delle realtà locali indicate dalla legge n. 142 quali sedi di autorità metropolitane, v. i diversi interventi nel numero monografico de Le Regioni (n.1, 1994).

68 Cfr. art. 16, comma 5° della legge n. 265 del 1999 (poi art. 23, comma 5°, del Testo Unico del 2000): “La città metropolitana […] acquisisce le funzioni della provincia”. Que-sto, peraltro, non è lesivo dell’autonomia provinciale, posto che spetta, nel Testo unico, alle stesse Province attivare il processo (benché la cosa appaia persino troppo sfumata ai sensi della legge in esame).

69 Così, ad esempio, nella recente proposta del Coordinamento ANCI dei Sindaci delle Città metropolitane (presentata nel corso del Convegno Nuove prospettive per la costituzione della Città metropolitana di Bologna, Bologna, 6 febbraio 2004), è ipotizzata una Città me-tropolitana, a carattere necessario e di immediata istituzione, alternativa alla Provincia (ma non necessariamente coincidente con la preesistente Provincia, quanto ad estensione terri-toriale).

PRINCIPIO E MODELLI DELLA DIFFERENZIAZIONE AMMINISTRATIVA 303

3.2. La differenziazione come ius singulare: l’ordinamento (eterodifferen-ziato) della Capitale

Espressione di una tendenza che si lega al modello tradizionale (del-l’uniformità)

70 piuttosto che al nuovo (della differenziazione) appare al-tresì la previsione di una “normativa speciale”, vale a dire una disciplina eterodifferenziata di specie, per la Città di Roma

71: se l’innovazione può apparire significativa per il tradizionale assetto comunale italiano, certo non può essere vista come dirompente rispetto ad un modello di uni-formità, che risulta sì infranto dalla riforma, ma per previsioni di ordine differente

72. La Costituzione si limita a prevedere che Roma, capitale della Re-

pubblica, abbia un proprio ordinamento, e ne affida la disciplina a legge dello Stato

73. Quindi, nulla è detto riguardo ai caratteri da riconoscere a questo soggetto, che pure sembra corretto ricondurre nell’ambito delle

70 Già nel “modello puro dell’uniformità”, quello francese post rivoluzionario, era d’altra parte prevista una specialità della Capitale: sul punto v., tra gli altri, L. VANDELLI, Poteri locali, cit., 28 ss.

71 Benché sia più corretto usare il termine di Capitale, piuttosto che quello di Città, dal momento che quest’ultimo termine può far sottintendere (peraltro a nostro avviso non univocamente, dal momento che il termine città è anche utilizzato prima dal legislatore ordinario una ed ora da quello costituzionale con riferimento alla dimensione metropoli-tana) una precisa scelta (Roma capitale è una città, quindi è il Comune di Roma, cfr. V. CERULLI IRELLI, La nuova Costituzione e l’ordinamento della città di Roma, cit., 6), che il testo costituzionale non opera: «Roma è la capitale della Repubblica. La legge dello Stato disciplina il suo ordinamento». L’art. 114 comma 3 prevede quindi uno statuto di specie per Roma capitale, il cui ordinamento risulta eterodifferenziato, senza la limitazione ai soli principi fissati nella Costituzione che caratterizza gli altri enti locali.

72 Come ricorda P. BARRERA, Revisione della forma di stato e “statuto della capitale”, in Forum Quad. cost. (www.mulino.it), agosto 2001, «[i]n moltissimi ordinamenti contem-poranei la città Capitale gode di uno statuto speciale, sia per le funzioni (spesso intreccia-te con le competenze degli organi costituzionali dello Stato) che per le risorse finanzia-rie». In Italia, un tentativo di disciplina speciale per Roma fu fatto dalla “commissione Petrilli” nel corso della I Legislatura: «così gli unici strumenti normativi, in cinquant’anni di Repubblica, sono stati la […] legge n.103/1953, con il contributo di parte corrente “per gli oneri che la città sostiene come Capitale”, e la legge 15 dicembre 1990, n.396, con gli “interventi per Roma Capitale”» (ibidem).

73 Per una analisi della previsione del comma 3 dell’art. 114, v. V. CERULLI IRELLI, La nuova Costituzione e l’ordinamento della città di Roma, cit., ma anche N. VIZIOLI, Le città metropolitane e Roma capitale, in T. GROPPI-M. OLIVETTI, La Repubblica delle autonomie, cit., 171 ss. e C.L. KUSTERMANN, Le più recenti innovazioni all’assetto istituzionale delle metropoli italiane e di Roma Capitale alla luce della Legge costituzionale 3/2001, in Reg. com. loc., 2001, 37 ss. (che esamina, in particolare, gli interventi normativi del Comune di Roma in tema di decentramento metropolitano nel triennio precedente).

11*.

LO STATO DIFFERENZIATO 304

figure “costitutive della Repubblica” elencate dall’art. 114 74.

Tale affermazione discende dal tenore dell’art. 114 (che non consente di individuare ulteriori soggetti “costitutivi della Repubblica”)

75, né una diversa opzione appare configurabile, dal momento che altrimenti, privo di un qualunque status costituzionale, tale soggetto finirebbe per essere una scatola vuota, suscettibile di qualunque intervento statale e, quindi, totalmente soggetto alla discrezionalità del legislatore statale.

Diversamente, pure nell’indeterminatezza delle previsioni costituzio-nali a Roma capitale potrebbe riconoscersi la garanzia prevista per ogni ente locale: il carattere dell’autonomia, la potestà statutaria, l’avere pro-pri poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione.

L’individuazione di quale sia il genus entro il quale inquadrare Roma capitale sembra peraltro da un lato subordinata alla definizione statale del suo ordinamento (e quindi dei suoi caratteri), dall’altro suscettibile di riferirsi alle sole categorie “locali” (Comuni, Province, Città metropo-litane)

76. La possibilità di ricondurre Roma capitale alla categoria “Re-gioni” è, infatti, esclusa, dal carattere enumerato degli enti territoriali maggiori (ai sensi dell’art. 131 Cost.) e dalla riserva a fonte costituziona-le della previsione di ulteriori Regioni (art. 132): ne discende l’impos-sibilità di riconoscere a tale soggetto una potestà legislativa (che ai sensi dell’art. 117 Cost. è riservata a Stato e Regioni)

77. Pure così inquadrata, la disciplina di Roma capitale appare evidente

connotarsi per eccezionalità (ius singulare), tale da risultarne estrema-mente ridotti i tratti di omogeneità, rispetto agli altri enti del medesimo genus (quale che esso sia nella scelta del legislatore), cui vincolare la scelta del legislatore ordinario.

Diversa quanto a soggetti competenti ed a procedure atte a definirne l’ordinamento, a principi cui ispirare tale definizione, Roma capitale appare sin d’ora riconducibile al modello della disciplina singolare, pure conosciuta da realtà a forte uniformità.

74 In tal senso, A. CORPACI, Revisione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, cit. 1308-1309.

75 E non per il tenore dell’art. 118, che non consente certo di escludere “ulteriori sog-getti” dalla possibilità di vedersi attribuire funzioni amministrative (così, di nuovo, A. CORPACI, ult. op. cit., spec. 1310).

76 Contra v. V. CERULLI IRELLI, La nuova Costituzione e l’ordinamento della città di Ro-ma, cit., 6 et passim, che ritiene senza dubbio che il comma 3 dell’art. 114 vada riferito al Comune di Roma.

77 In questo senso, tra gli altri, cfr. A. CORPACI, ult. op. cit., 1309.

PRINCIPIO E MODELLI DELLA DIFFERENZIAZIONE AMMINISTRATIVA 305

4. Le funzioni amministrative

4.1. Uniformità e differenziazione nell’attribuzione di funzioni alle autono-mie locali. Le funzioni fondamentali degli enti locali come dimensione dell’uniformità. Problemi aperti

L’uniformità è spesso vista, in particolare dagli stessi rappresentanti delle minori autonomie, come garanzia per gli enti locali: in questo sen-so, i Comuni e le Province hanno tradizionalmente rifiutato una compe-tenza regionale in ordine alla loro disciplina, sul modello della Regione Sicilia, vedendo in questo una potenziale lesione della propria autono-mia e l’acquisizione da parte della Regione di un ruolo sostanzialmente “sovraordinato” nei loro confronti

78. La garanzia dell’autonomia locale è stata quindi tradizionalmente af-

fidata alla legislazione statale, né quest’impostazione appare in toto su-perata dalla riforma del Titolo V: resiste, dunque, una disciplina uni-forme nazionale delle funzioni (e degli organi) fondamentali degli enti locali, non suscettibili di essere intaccate da un evidentemente temuto intervento regionale. È facile leggere in questo il retaggio dell’impo-stazione, risalente, per la quale una disciplina generale (uniforme) del-l’ordinamento locale era da considerarsi conforme al riconoscimento del principio di autonomia dell’art. 5 ed allo stesso principio di uguaglianza in quanto riferito ad enti morali (pubblici). L’abbandono del modello prefigurato dal previgente art. 128 non determina, perciò, il venire meno di una dimensione di uniformità, funzionale, oltre che organizzativa, degli enti locali minori, ma determina, altresì, la riduzione di questa stessa uniformità, che risulterà limitata solo ad alcune funzioni (quelle “fondamentali”) e ad alcuni tratti organizzatori

79.

78 In questo senso, sembra potersi leggere anche la previsione, voluta con forza soprat-tutto dai rappresentanti di Province e Comuni, dei “poteri sostitutivi” come di specifica spettanza del solo Governo. Il potere sostitutivo dell’articolo 120 della Costituzione, ri-spetto agli organi delle Regioni, dei Comuni e delle Città metropolitane, va quindi visto nell’ottica di un’articolazione “non piramidale” dei rapporti tra lo Stato e gli altri enti co-stitutivi della Repubblica, proprio per evitare il pericolo di un di un neo centralismo re-gionale sotto forma di poteri sostitutivi. O, almeno, sembra essere questa la filosofia che ispira il testo (a conferma, si vedano i lavori preparatori, ed in particolare la relazione dell’On. A. Soda, Relatore per la maggioranza per i profili inerenti all’ordinamento regio-nale, alla seduta del 21 settembre 2000 della Camera).

79 Le funzioni fondamentali sono state qualificate dalla legge n. 131 (che ne ha delegato l’individuazione al Governo) come essenziali: il legislatore non ha, quindi, semplicemente ripreso l’espressione contenuta nella lett. p) del comma 2° dell’art. 117, ma la ha integrata prevedendo come le funzioni fondamentali per essere ricomprese nella delega debbano es-

LO STATO DIFFERENZIATO 306

La previsione in base alla quale ricade non nel campo della legislazione concorrente, ma in quello della legislazione esclusiva, la competenza al-l’emanazione delle norme sugli organi di governo e sulle funzioni fonda-mentali di Comuni, Province e Città metropolitane, sembra denotare chiaramente il mantenimento di un rapporto privilegiato e diretto tra le minori autonomie territoriali e lo Stato. Questo, per quello che qui parti-colarmente rileva, comporta, peraltro, il ricadere della disciplina degli or-gani di governo locali in quella che abbiamo definito “sfera dell’unifor-mità”

80, mentre discorso in parte diverso merita di essere fatto in relazio-ne alle funzioni (per le quali la previsione costituzionale limiterebbe la competenza statale alla sola definizione di quelle “fondamentali”).

Questa impostazione riflette, da un lato, la tradizionale applicazione “analogica”: l’uguaglianza degli enti esponenziali come riflesso dell’u-guaglianza dei cittadini (visione peraltro non ancora superata). Dal-l’altro è espressione del timore che le minori autonomie territoriali han-no spesso manifestato nei confronti di un intervento regionale sul loro ordinamento

81. Se la legge nazionale viene vista come garanzia di uguaglianza tra gli

enti locali, ma soprattutto come garanzia contro il rischio di politiche di centralismo regionale, tale impostazione non sembra superata dalla ri-forma del Titolo V della Costituzione: non diversamente sembra, infatti, possa leggersi la riserva (in legislazione esclusiva) al legislatore nazionale della definizione delle funzioni fondamentali delle autonomie locali. Vie-ne peraltro da chiedersi se la disposizione in esame, nel riferirsi alle fun-zioni fondamentali come rientranti nella competenza legislativa (ma, con-seguentemente, anche regolamentare) statale, voglia semplicemente ga-rantire una definizione statale od anche uniforme delle funzioni stesse

82.

sere (anche) essenziali per il funzionamento degli enti e per il soddisfacimento di bisogni pri-mari della comunità di riferimento. In tal senso si vedano i primi commenti alla legge “La Loggia”: G. V. MATTIOLI, Prime osservazioni sull’art. 2 della L. 131/2003, recante delega al go-verno per l’attuazione dell’art. 117, secondo comma, lettera p, della Costituzione, in Giustizia amministrativa (www.giust.it); e M. CARLI, Luci ed ombre nella prima attuazione della legge costituzionale n.3/2001, cit.; per un commento più articolato, v. ora G. FALCON (a cura di), Stato, Regioni ed enti locali nella legge 5 giugno 2003, n. 131, Bologna, 2003.

80 Oltre che, espressamente, della materia elettorale, che pure poteva essere già letta come ricompresa in questa.

81 Visto come (potenzialmente) lesivo della loro autonomia; cfr. T. GROPPI, La garanzia dell’autonomia costituzionale degli enti locali, cit., 1021 ss.

82 Cfr. L. OLIVERI, Sulla permanenza di un ordinamento omogeneo degli enti locali dopo la legge costituzionale 3/2001, in Giustizia amministrativa (www.giust.it): «nell’articolo 117, comma 2, lettera p), taluno intravede la riformulazione dell’abrogato articolo 128 della Costituzione, il quale stabiliva che “le Province e i Comuni sono enti autonomi nel-

PRINCIPIO E MODELLI DELLA DIFFERENZIAZIONE AMMINISTRATIVA 307

L’art. 117, laddove, nel riservarne allo Stato la definizione, parla di funzioni “fondamentali” sembra prefigurare uno spazio di uniformità

83. A conclusioni in parte diverse sembra però condurre la delega contenuta nella legge n. 131 del 2003

84. Seppure venuta meno la previsione dell’art. 128 e quindi la relativa

“legge generale” sull’ordinamento locale, dalla riserva statale fissata dal-l’art. 117, comma 2°, lett. p) sembrerebbe discendere non solo un limite all’intervento regionale, ma anche una garanzia di una sfera di uniformi-tà nelle funzioni (e nell’organizzazione) locale, sia nei confronti delle Regioni che dello stesso Stato, altrimenti abilitato a riconoscere un com-plesso di attribuzioni differenziato (sulla base dei principi del primo comma dell’art. 118) ai diversi enti dello stesso tipo

85. La specificazione fondamentali (quindi imprescindibili, quindi non

l’ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica, che ne determinano le funzio-ni”». In quest’ottica, il riferimento contenuto nella lett. p) del comma 2° dell’art. 117, le-gittimerebbe la legge dello Stato a fissare i principi generali riguardanti tutto l’ordina-mento locale. Ad ammettere questa impostazione, «l’ordinamento omogeneo locale conti-nua ad esistere, in funzione del permanere di una funzione della legge dello Stato di de-terminare organi e funzioni, e, dunque, l’assetto istituzionale e funzionale degli enti» (non dissimile, al riguardo, la posizione S. CIVITARESE MATTEUCCI (L’autonomia istituzionale e normativa degli enti locali, cit., spec. 462). più convincente sembra, però, la posizione di chi ricava dalla riforma la rottura della nozione unitaria (ed uniforme) di ordinamento locale (così, per tutti, F. MERLONI, Il destino dell’ordinamento degli enti locali, cit., passim ma non dissimilmente, seppure in un’ottica più ampia, A. CORPACI, L’incidenza della ri-forma del Titolo V, cit., 43 ss.).

83 Cfr. R. BIN, Il nuovo Titolo V: cinque interrogativi (e cinque risposte) su sussidiarietà e funzioni amministrative, in Forum Quad. cost. (www.mulino.it), gennaio 2002: «[p]ossono essere “differenziate” le funzioni fondamentali? Funzioni che siano “fondamentali” e al con-tempo “differenziate” mi parrebbero al centro di un ossimoro irrimediabile».

84 Recante Disposizioni per l’adeguamento dell’Ordinamento della Repubblica alla L. Costi-tuzionale 18.10.01 n. 3., che prevede tra i principi guida della delega al Governo (art. 2, comma 4°, lett. b) di: “individuare le funzioni fondamentali dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane in modo da prevedere, anche al fine della tenuta e della coesione dell’ordinamento della Repubblica, per ciascun livello di governo locale, la titolarità di fun-zioni connaturate alle caratteristiche proprie di ciascun tipo di ente, essenziali e imprescin-dibili per il funzionamento dell’ente e per il soddisfacimento di bisogni primari delle comu-nità di riferimento, tenuto conto, in via prioritaria, per Comuni e Province, delle funzioni storicamente svolte”, salvo poi ricondurre anche le funzioni fondamentali nel solco dei principi dell’art. 118 e, quindi, della differenziazione (art. 2, comma 4°, lett. c).

85 Diversamente G. FALCON, Funzioni amministrative ed enti locali nei nuovi artt. 118 e 117 della Costituzione, in Regioni, 2002, 383 ss., per il quale la riserva della lett. p) costi-tuisce essenzialmente titolo per l’intervento statale nelle materie (concorrenti ed esclusi-ve) regionali, posto che «nelle (altre) materie di potestà legislativa esclusiva statale il rife-rimento alle funzioni fondamentali non ha alcun senso: dato che in esse solo la legge sta-tale può, per definizione, attribuire funzioni agli enti locali, fondamentali o meno che siano» (ivi, 396).

LO STATO DIFFERENZIATO 308

suscettibili di differenziazione) presupporrebbe, infatti, che tali funzioni abbiano “un peculiare rapporto con le caratteristiche e la ragione di es-sere di un ente”: quindi, attraverso la riserva della lettera p) del secondo comma dell’art. 117 lo Stato si vedrebbe riconosciuta la competenza a definire, nell’esercizio di una scelta non meramente libera

86, un nucleo di funzioni uniformi.

Il modello, così prefigurato, acquista ulteriore complessità (e confu-sione, tale che la distinzione delle diverse problematiche diviene eccessi-vamente sottile) alla luce del riconoscimento, operato dall’art. 118, comma 2°, della titolarità di funzioni proprie agli enti locali, oltre che di quelle conferite da Stato e Regioni secondo le rispettive competenze (se-guendo i principi del primo comma).

Queste funzioni proprie sono qualcosa di diverso dalle funzioni fon-damentali? La dottrina sul punto è divisa, anche se sembra propendere per una risposta negativa: così fosse, gli enti locali sarebbero quindi tito-lari di funzioni fondamentali/proprie (uniformi) e di funzioni conferite (suscettibili di differenziazione). La complessità del quadro è peraltro esaltata dal fatto che il legislatore costituzionale riconosce poi le funzio-ni locali a titoli diversi: attribuzione (in via generale, art. 118, comma 1°), titolarità (delle funzioni proprie, art. 118, comma 2°), conferimento (delle funzioni non proprie, art. 118, comma 2°).

In particolare, pone qualche problema l’inciso del secondo comma dell’art. 118, che parla di “titolarità” delle “funzioni proprie”; da questo sembrerebbe potersi far discendere la possibilità di una lettura “storica” di tali funzioni: quelle delle quali ciascun ente locale risultava già titola-re all’atto della riforma. Tale previsione prefigurerebbe un limite alla di-screzionalità del legislatore (statale o regionale) che, nell’esercizio della propria competenza legislativa ratione materiae potrebbe far risalire le funzioni già proprie degli enti locali, in applicazione del principio di sussidiarietà/adeguatezza, solo dove ciò risultasse necessario in concreto per una adeguata soddisfazione degli interessi. In particolare, non po-trebbe farsi “risalire” una funzione locale propria, quando questa, an-corché sussidiariamente (astrattamente) di livello superiore, fosse, da un lato effettivamente esercitata dall’ente pure di piccole dimensioni o fos-se, dall’altro, già esercitata a livello associato (scrutinio di “differenzia-zione /adeguatezza” in concreto).

Il che, pure partendo da un dato formale abbastanza debole, consen-

86 Un riferimento (parametro per un eventuale sindacato di legittimità) può essere da-to anche dalla Carta Europea delle Autonomie Locali (art. 4, comma 1°).

PRINCIPIO E MODELLI DELLA DIFFERENZIAZIONE AMMINISTRATIVA 309

tirebbe da un lato di giustificare le tre diverse categorie nominate dal le-gislatore costituzionale (funzioni fondamentali uniformi, funzioni pro-prie come funzioni storicamente già esercitate

87, funzioni conferite), e dall’altro di collegare la riforma costituzionale con la riforma ammini-strativa che l’aveva preceduta: così che, se effettivamente esercitate, le funzioni oggetto dei conferimenti ad opera del decreto n. 112 e degli al-tri decreti settoriali attuativi della legge n. 59, sarebbero ormai da rite-nersi rientranti, insieme alle precedenti funzioni locali, nell’acquis stori-co locale. Tali funzioni godrebbero, allora, di una particolare, seppure non assoluta, resistenza alla riallocazione, giustificabile solo da esigenze sussidiarie “in concreto” e non “in astratto”

88. Sviluppando questo ragionamento, la definizione delle funzioni fon-

damentali andrebbe a “cadere” sulle funzioni proprie, connotando quelle così definite di una particolare resistenza passiva (alla differenziazione su base statale, alla riallocazione su base regionale), più forte ma ulte-riore rispetto a quella delle funzioni proprie. Nulla esclude, ancora, che lo Stato possa individuare come fondamentali delle funzioni storica-mente non rientranti nella sfera di attribuzione degli enti locali (quindi, non proprie).

Se riflettiamo, inoltre, sul raccordo tra art. 117, comma 2°, lett. p) ed art. 118, vediamo come la definizione delle funzioni fondamentali

89, dovrebbe essere logicamente e giuridicamente precedente rispetto all’allocazione delle funzioni in base ai principi di sussidiarietà, differen-ziazione ed adeguatezza dell’art. 118. Quindi le funzioni fondamentali sarebbero chiamate ad articolarsi in uno spazio nel quale la differenzia-zione funzionale tra enti omogenei (dello stesso tipo) non opera: l’area dell’uniformità “fondamentale” (minimale) locale, attraverso la quale si definisce l’essenza stessa dei soggetti autonomi, i loro caratteri di base

90.

87 E quindi potenzialmente differenziate, dal momento che come sin qui evidenziato il sistema ha progressivamente tollerato, ammesso, affermato la differenziazione funzionale locale (tramite discipline in deroga prima, e poi a partire dall’art. 3 della legge n. 142 del 1990, fino al processo innescato dalla legge n. 59 del 1997).

88 Non sulla base del variabile livello degli interessi (sotteso al principio di sussidiarie-tà: cfr. R. BIN, La funzione amministrativa nel nuovo Titolo V, cit., 365 ss.), ma sulla valu-tazione caso per caso dell’adeguata soddisfazione degli interessi connessi alla funzione.

89 Che seguono ontologicamente alle funzioni proprie. 90 Così R. BIN, Il nuovo Titolo V: cinque interrogativi cit. Allo Stato sarebbe riservato il

compito di definire le funzioni “fondamentali”, che spettano ad ogni ente di un determi-nato livello; rispetto a queste funzioni (si pensi, per esempio, ai servizi anagrafici) non potrebbe operare il principio di differenziazione, il quale invece potrebbe agire sulle fun-zioni “proprie” dei singoli enti, riservate ai soli enti “adeguati”.

LO STATO DIFFERENZIATO 310

Ricostruzione, questa, che sembra peraltro non convalidata dalla re-cente legge di attuazione statale della riforma costituzionale, che mentre afferma il carattere di essenzialità di tali funzioni (che, connaturate alle caratteristiche proprie di ciascun tipo di ente, sono definite come “im-prescindibili” per il suo funzionamento e per il soddisfacimento di “bi-sogni primari” delle comunità di riferimento)

91, affida al Governo il compito di allocarle valorizzando i principi di differenziazione ed ade-guatezza

92. Ma delle due l’una: o la funzione è fondamentale (di più, a dar retta

alla legge, essenziale, imprescindibile, legata a bisogni primari) o è diffe-renziabile. Sembra, a dire il vero, difficilmente difendibile la tesi che ri-tenesse (come fa la legge) differenziabile ciò che è imprescindibile … sempre che le parole abbiano ancora una loro importanza

93. Più semplice sciogliere un altro nodo: se attraverso la riserva statale

sulle funzioni fondamentali locali possa recuperarsi allo Stato una com-petenza sulla loro disciplina. La risposta sembra debba essere negativa: così non fosse, infatti, ben potrebbe il legislatore statale svuotare nume-rose competenze legislative regionali, facendole ricadere nell’ambito del-le “fondamentali funzioni locali”, risultando quindi legittimato a disci-plinarle (nel dettaglio, peraltro, dato che si tratterebbe di materie di competenza esclusiva)

94. Più corretto sembra ritenere che la competenza del legislatore nazio-

nale sia rivolta a garantire l’autonomia locale, che potrebbe risultare pregiudicata da uno svuotamento o snaturamento delle funzioni. L’eser-cizio della competenza statale sulle funzioni fondamentali avrebbe, anzi, proprio questo limite, di non poter andare a condizionare le modalità attraverso le quali queste funzioni saranno organizzate od esercitate

95.

91 Cfr. art. 2, comma 4, lett. b) della legge n. 131 del 2003. 92 Cfr. art. 2, comma 4, lett. c) della stessa legge, che affida al Governo il compito di

“valorizzare i princìpi di sussidiarietà, di adeguatezza e di differenziazione nella alloca-zione delle funzioni fondamentali”.

93 Viene, anzi, da chiedersi la ratio di una così conclusiva qualificazione delle funzioni fondamentali, che va anche al di là dell’aggettivazione costituzionale, nel momento in cui se ne sta (al comma successivo) per affermare la differenziabilità.

94 Questo, in particolare, potrebbe non inverosimilmente verificarsi nell’ambito di ma-terie che, non rientrando tra quelle di competenza statale né concorrente, verrebbero al-trimenti a ricadere appieno nella “sfera della differenziazione” regionale.

95 Cfr. G. FALCON, Funzioni amministrative ed enti locali, cit., 383. Analogamente A. CORPACI, L’incidenza della riforma del Titolo V, cit., 45 («[n]è, mi pare si possa sostenere che attraverso la via della determinazione delle funzioni fondamentali sia dato imporre vincoli organizzativi»).

PRINCIPIO E MODELLI DELLA DIFFERENZIAZIONE AMMINISTRATIVA 311

4.2. La costituzionalizzazione del principio di differenziazione (nella sussi-diarietà) come criterio di riparto competenziale. Il ruolo dello Stato ed il ruolo delle Regioni

A livello costituzionale, l’affermazione espressa della differenziazione come criterio di riparto della competenza, contenuta nella prima parte dell’art. 118, costituisce il punto di emersione espressa del nuovo model-lo, che segna la transizione dall’uniformità alla differenziazione dell’am-ministrazione.

Né, peraltro, deve essere sopravvalutata la rilevanza dell’afferma-zione qui contenuta: lo Stato differenziato si fonda, come visto, sul-l’intera riorganizzazione ordinamentale operata dal Titolo V, né la di-mensione funzionale appare quella dove più fortemente incide il nuovo modello, centrato soprattutto sulla dimensione organizzativa

96. L’espli-citazione costituzionale di un principio di differenziazione funzionale (che della differenziazione complessivamente intesa non è che un mo-mento) è, allora, un passaggio nel quale il valore simbolico prevale su quello effettuale.

Principio (rectius criterio) di differenziazione, ma anche principio di adeguatezza, che insieme definiscono la differenziazione funzionale come adaequatio rei et iuris, come rispondenza dell’assetto competenzia-le locale alle sue dimensioni ed alle sue capacità.

Il “principio” di differenziazione 97 è, dunque, rilevante tanto in sé,

quanto nel suo raccordarsi con gli altri principi dell’art. 118, primo comma: la differenziazione, infatti, è «strumento dell’adeguatezza, che per altro non è che il moto ascendente della sussidiarietà»

98. I criteri del-la differenziazione e dell’adeguatezza, si pongono, allora, come predica-to della sussidiarietà; la dizione “secondo i principi di sussidiarietà, dif-ferenziazione ed adeguatezza”, andrebbe correttamente letta come “se-condo il principio di sussidiarietà, come prossimità, differenziazione ed

96 In tal senso, cfr. G. ROLLA, per il quale il principio di differenziazione (pure) costi-tuzionalizzato dall’art. 118 «si sostanzia informando di sé diversi profili dell’organizza-zione e dell’azione pubblica», tale che risulta possibile operarne una scomposizione come differenziazione organizzativa politica, differenziazione organizzativa, differenziazione funzionale, differenziazione territoriale e differenziazione nella fruizione di alcuni diritti di partecipazione di informazione e di natura sociale (ID., L’autonomia dei comuni e delle province, in T. GROPPI-M. OLIVETTI, La repubblica delle autonomie, cit., 161-162).

97 Per una riflessione in ordine a questo principio nel quadro della riforma costituzio-nale, v., da ultimo, C. CALVIERI, Stato regionale in trasformazione: il modello autonomistico italiano, Torino, 2002, 135 ss.

98 In questo senso, di nuovo, v. R. BIN, Il nuovo Titolo V: cinque interrogativi, cit.

LO STATO DIFFERENZIATO 312

adeguatezza”: differenziazione ed adeguatezza non si sommano alla sus-sidiarietà, ma contribuiscono a definirla e ne esprimono il contenuto

99. Una sussidiarietà in grado di articolarsi non omogeneamente tra enti

dello stesso tipo (eventualmente differenziandosi in ragione delle scelte autonome delle diverse Regioni, nelle materie di loro competenza), ma in modo differenziato, sulla base di parametri quantitativi e qualitativi.

Detto questo, è evidente, e noto, il richiamo che la disposizione costi-tuzionale opera nei confronti della legislazione ordinaria, quasi che tra riforma “Bassanini” e riforma del Titolo V intercorra, in alcuni passaggi, un rapporto di presupposizione. La previsione costituzionale del princi-pio di differenziazione funzionale, ricalca infatti l’analoga dizione con-tenuta nel progetto della Bicamerale e nella legge n. 59 del 1997: se il contenuto del principio è sostanzialmente lo stesso di quello della legge n. 59, cambia, con il rango della fonte, l’impatto di questo principio sul sistema complessivo dei poteri locali.

Se per determinare il contenuto dei principi di adeguatezza e diffe-renziazione

100 il riferimento, a fini definitori, è dato dalla citata legge “Bassanini 1”, per quanto riguarda il principio di sussidiarietà il riferi-mento, prima ancora che in questa stessa fonte, può (e deve) essere in-dividuato nell’art. 5, comma 2, del Trattato CE

101. Il modello che si delinea pare, sostanzialmente, dare una copertura

99 Dei principi in esame, quello maggiormente approfondito è quello di sussidiarietà (qui nella sua declinazione verticale: per una riflessione in ordine al rapporto intercorren-te tra le due declinazioni del principio, e per un suo inquadramento in generale, v. G.U. RESCIGNO, Principio di sussidiarietà orizzontale e diritti sociali, cit., spec. 5-27, ma anche A. ALBANESE, Il principio di sussidiarietà orizzontale: autonomia sociale e compiti pubblici, in Dir. pubbl., 2002, 51 ss.). La bibliografia in materia e molto ampia, ed è espressione della grande (ancorché recente) attenzione della dottrina al tema: sul punto, per tutti, v. S. CASSESE, L’aquila e le mosche. Principi di sussidiarietà e diritti amministrativi nell’area europea, in Foro it., 1995, 373 ss.; A. D’ATENA, Il principio di sussidiarietà nella Costituzio-ne italiana, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 1997, 603 ss.; ID., Costituzione e principio di sus-sidiarietà, in Quad. cost., 2001, 13 ss.

100 La differenziazione funzionale, come visto, diviene principio di diritto positivo con l’art. 4, comma 3°, lett. h), della legge n. 59 del 1997, ai sensi del quale, nell’allocazione delle funzioni, il legislatore dovrà differenziare le stesse, «in considerazione delle diverse caratteristiche, anche associative, demografiche, territoriali e strutturali degli enti rice-venti». In merito, cfr. L. VANDELLI, Dalle aree metropolitane ai Comuni minori, cit., 831 ss.; e V. CERULLI IRELLI, I quattro pilastri della riforma amministrativa, cit., 54 ss.

101 «Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, se-condo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi del-l’azione prevista non possano essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e pos-sano dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere rea-lizzati meglio a livello comunitario». Sul legame tra il principio comunitario e quello co-stituzionale, anche alla luce dei rapporti tra gli ordinamenti, v., per tutti. G.U. RESCIGNO, Principio di sussidiarietà orizzontale e diritti sociali, cit., 7 et passim.

PRINCIPIO E MODELLI DELLA DIFFERENZIAZIONE AMMINISTRATIVA 313

costituzionale al progetto delle leggi Bassanini, da cui trae la struttura fondamentale in ordine ai principi di riferimento: cosicché è alla rifor-ma ordinaria che dovremo in primo luogo guardare per attribuire un si-gnificato ai temini utilizzati dal legislatore costituzionale allorché af-ferma che le funzioni amministrative risultano, dunque, attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, «sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza».

La possibilità di articolare diversamente la sussidiarietà orizzontale 102

completa allora un quadro che delinea una precisa scelta costituzionale, in favore di un modello di forte differenziazione tra gli enti omogenei in ordine alle funzioni esercitate.

La differenziazione funzionale discende, a ben vedere, da due dina-miche che si incrociano, determinando una certa complessità del qua-dro risultante: da un lato, infatti, l’allocazione statale può essere omoge-nea o differenziata (sulla base di una diversa articolazione delle funzioni in applicazione del principio di sussidiarietà come differenziazione/ade-guatezza), e questo sia nei confronti degli enti locali che delle Regioni; dall’altro le Regioni, nelle materie di propria competenza, potranno al-locare funzioni in modo omogeneo (ma differenziato rispetto alle scelte fatte da altre regioni: secondo una uniformità di livello regionale) o, di nuovo, differenziato.

Se ribaltiamo la prospettiva, un ente locale potrà trovarsi, fuori dal-le funzioni fondamentali uniformi (ammettendone l’uniformità)

103, in una situazione (potenzialmente) estremamente differenziata: sia ri-spetto ad enti locali di altre Regioni, sia rispetto ad enti locali della stessa Regione (perché di dimensioni diverse, o perché, se di dimen-sioni analoghe, diversamente adeguato rispetto alle funzioni da eserci-tare). Lo stesso accadrà per il cittadino: la variabilità funzionale crea incertezza, scarsa percezione delle responsabilità, riduce la possibilità di comunicazione.

Tale riflessione supporterebbe ulteriormente la tesi precedentemente esaminata del “limite delle funzioni proprie”, come limite (non assoluto) alla differenziazione locale o statale: a ben vedere, peraltro, le “funzioni (storicamente) proprie” non potrebbero, se così considerate, essere defi-nite “uniformi”. Questo perché nel bagaglio “storico” delle attribuzioni

102 Principio, questo, previsto dal comma 4 dello stesso art. 118. 103 Che, come evidenziato, non è pacifica, a vedere le previsioni della legge n. 131 del

2003.

LO STATO DIFFERENZIATO 314

rientrerebbero anche le funzioni diversamente allocate a livello regiona-le (in virtù dei processi della legge n. 59 del 1997, ma già prima, seppure poco incisivamente, in virtù dell’apertura introdotta dalla legge n. 142 del 1990), o diversamente allocate dallo Stato, secondo i processi ed i modelli che, pure in vigenza del vecchio art. 128 Cost., avevano caratte-rizzato il sistema italiano

104.

5. L’organizzazione

5.1. Uniformità organizzative e funzioni statali “finali”e “trasversali”: in particolare, i c.d. “livelli essenziali”

Se nel nuovo ordine si afferma la differenziabilità dell’amministra-zione, secondo una pluralità di forme e modi che segnano la transizione rispetto ad un modello nel quale la uniformazione ad opera delle fonti statali era particolarmente penetrante

105, non per questo viene meno, in assoluto, la possibilità che lo Stato, attraverso l’esercizio delle proprie competenze, possa condizionare, se non più conformare, la dimensione dell’organizzazione degli enti autonomi

106. La capacità di incidere sull’organizzazione può discendere, pure in

assenza di una espressa clausola che ne affidi il compito allo Stato, dall’esercizio della potestà legislativa “per materia”.

Il condizionamento organizzativo esercitabile attraverso la disciplina di una materia non può, però, tradursi in un preteso recupero di uni-formità organizzativa, alla luce delle considerazioni sin qui fatte. Tale condizionamento è, peraltro, diverso con riferimento alle c.d. materie

104 Le funzioni differenziate in applicazione del principio di differenziazione dell’art. 4 della legge n. 59, le funzioni amministrative riconosciute ad enti determinati attraverso normative speciali ed eccezionali: tutto questo rientrerebbe nel bagaglio di funzioni locale.

105 Così, rileva A. CORPACI, Revisione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, cit., 1317, a livello di organizzazione, «nella vigenza del vecchio testo, l’autonomia delle Regioni era circoscritta da una serie di limiti derivanti dalle norme fondamentali della legislazione statale di riforma economico-sociale, dai principi generali dell’ordinamento giuridico, nonché, quanto alla competenza legislativa concorrente, dai principi fonda-mentali posti in materia dalla legge dello Stato; per gli Enti locali valeva da quadro la normativa ordinamentale dettata dalla legislazione statale».

106 Il che è particolarmente evidente per le Regioni, dal momento che sembra agevole ritenere alla potestà legislativa esclusiva delle Regioni la disciplina dell’organizzazione propria e degli enti dipendenti dalla Regione. Più complessa, altresì, la posizione delle autonomie locali.

PRINCIPIO E MODELLI DELLA DIFFERENZIAZIONE AMMINISTRATIVA 315

oggetto (“oggettive o finali”) rispetto alle c.d. materie trasversali (nonché diverso in relazione alle specificità di ciascuna di queste ultime)

107. Questo vale, peraltro, in modo diverso con riferimento alle diverse

competenze trasversali, secondo modalità che meritano di essere, sep-pure brevemente esaminate.

Nelle materie “finali” l’influenza nei confronti delle amministrazioni autonome passa per il condizionamento della loro azione, oltre che, e-ventualmente, dei risultati di questa azione: non passa, di norma, per l’organizzazione. Pure, dal condizionamento dell’azione e dei risultati possono derivare vincoli organizzativi capaci di ridurre considerevol-mente gli spazi di autonomia (come differenziazione organizzativa) dei diversi soggetti territoriali.

Il limite di una simile influenza non è definibile in astratto, salvo che nelle sue manifestazioni estreme: l’uniformità organizzativa richiesta (più correttamente, imposta dalla disciplina della materia) non può giungere fino al punto di negare ogni spazio di autonomia. Ma, ancora, ogni compressione degli spazi di differenziazione organizzativa costitu-zionalmente riconosciuti deve ritenersi legata ad un principio di ragio-nevolezza e proporzionalità: il sacrificio imposto all’autonomia deve es-sere strettamente legato (di più, necessario) all’obiettivo da perseguire.

Per le materie trasversali il discorso deve essere articolato, né può es-sere esaminato che a titolo esemplificativo (con riferimento alle ipotesi ritenute, a torto o ragione, di maggior rilievo).

Del condizionamento organizzativo (come predeterminazione di una forma organizzativa) operabile attraverso la competenza sulla “de-terminazione dei livelli essenziali”

108 in parte si è già detto: il modello

107 Nelle materie di propria competenza legislativa esclusiva di tipo trasversale, invece, lo Stato, quando disciplina materie quali la “tutela della concorrenza” o la “determina-zione dei livelli fondamentali delle prestazioni” esercita sì una competenza esclusiva e quindi può andare anche nel dettaglio della disciplina (sempre con norme sia legislative che regolamentari), ma deve tener conto che si tratta di interventi che vanno a condizio-nare lo svolgimento di materie attribuite alla competenza legislativa delle Regioni, spesso a titolo residuale/esclusivo e alla competenza amministrativa di Regioni o di enti locali. Ne consegue che «[…] il grado di condizionamento dello Stato in queste materie trasver-sali non è lo stesso di quello delle materie di tipo oggettivo o finale». In tal senso v. F. MERLONI, L’informazione e la comunicazione pubblica: dalla legge 150 alle prospettive di differenziazione regionale, cit., 79.

Così, ad esempio, per V. MOLASCHI, Livelli essenziali delle prestazioni, cit., «la garanzia di un dato “livello” di servizi, sia quantitativo che qualitativo […] presuppone talora una certa dimensione organizzativa, richiedendosi pertanto la predisposizione di strutture di carattere sovraregionale»; non dissimile la posizione di R. BALDUZZI, Titolo V e tutela della salute, cit., per il quale «è arduo immaginare un sistema capace di assicurare tali livelli senza un’organizzazione ultraregionale» (ivi, 21).

LO STATO DIFFERENZIATO 316

in sé escluderebbe una simile conclusione, ma ciò che non discende dal modello (in generale) può discendere dal singolo diritto (costituziona-le)

109. I diritti organizzativamente condizionati possono pretendere che la loro tutela, seppure (ed in quanto) essenziale, passi attraverso vincoli organizzativi, non definibili in astratto, ma solo in concreto con riferi-mento a ciascun diritto. Anche a fronte di quest’ipotesi, peraltro, sembra inconciliabile con il sistema un recupero, per questa strada, di una uni-formità organizzativa di ordine generale in ambiti espressamente affida-ti dalla riforma costituzionale a soggetti dotati di autonomia.

In un’ottica che guardi al dato costituzionale, ed ai valori ivi incardi-nati, l’abbandono dell’uniformità amministrativa appare quindi astrat-tamente compatibile; il contenuto essenziale da riconoscere a taluni di-ritti determina, però, la necessità di assumere questa affermazione “con riserva”. Ciò che è sostenibile come modello generale può non esserlo nel particolare, allorché ci si riferisca a materie in cui la stringente rela-zione tra organizzazione e diritti costituzionali può continuare a deter-minare la necessaria affermazione di vincoli organizzativi quale garan-zia dell’uniforme trattamento di tutti i cittadini su tutto il territorio na-zionale.

La persistenza di vincoli anche organizzativi di uniformità è giustifi-cata, allora, oltre che nelle materie di “uniformità (normativa) spessa”, anche in ogni caso in cui il “contenuto essenziale del diritto costituzio-nale”, pure definibile attraverso il meccanismo previsto dalla lettera m) del secondo comma dell’art. 117 comprenda necessariamente al suo in-terno anche profili di condizionamento (uniformità) nelle modalità di azione e nell’organizzazione dei soggetti chiamati a svolgere la presta-zione

110. Se si muta l’angolazione, e si assume come riferimento una “unifor-

mità di condizioni di vita”, può divenire congruo, seppure con qualche riserva, un modello di uguaglianza garantita attraverso la previsione di standard essenziali.

109 Con un taglio problematico, cfr., sul punto A. ANZON (Il difficile avvio della giuri-sprudenza costituzionale cit.): «fino a dove può e deve spingersi la determinazione dei «li-velli essenziali» delle prestazioni? Il legislatore statale, cioè, può anche prefissare in toto gli aspetti organizzativi e funzionali dei servizi (intesi come apparati o strutture operati-ve) erogatori di tali prestazioni, che ritenga imprescindibili per il concreto perseguimento delle medesime? In altre parole, i «livelli essenziali» delle prestazioni sono comprensivi di certe modalità di conformazione e di resa dei servizi da considerare quindi totalmente rimessi alla normativa statale e perciò intoccabili da parte delle dalle Regioni?».

110 La qual cosa sembra in assoluto non potersi certo escludere (e cfr., in questo senso, M. LUCIANI, I diritti costituzionali tra Stato e Regioni (a proposito dell’art. 117, comma 2, lett. m) della Costituzione), cit., 1034).

PRINCIPIO E MODELLI DELLA DIFFERENZIAZIONE AMMINISTRATIVA 317

Il problema si pone, come già evidenziato, in relazione ai diritti sociali, per i quali si richiede non già una “astensione” dello Stato, ma un’azione positiva dei pubblici poteri: in questo campo i diritti, pure “finanziaria-mente condizionati”, devono essere uniformemente garantiti, ove ritenuti fondamentali dall’ordinamento

111. Secondo una lettura tradizionale dei valori inscritti nella nostra Carta

repubblicana, i diritti alla salute, allo studio, al lavoro, ecc., non possono essere oggetto di trattamento differenziato a livello locale o territoriale, a pena di determinare privilegi inaccettabili per parti del paese: se non è incompatibile con la garanzia dell’uguaglianza e dei diritti fondamentali la previsione, anche in questi campi, di interventi “positivi”, volti diret-tamente al superamento dei dislivelli materiali nelle possibilità di eserci-zio dei diritti sociali, lo è ogni differenziazione che, anziché “rimuovere gli ostacoli” di cui all’art. 3, comma 2°, contribuisca a crearne.

Ma modificare l’organizzazione della Repubblica, nella direzione di un’autonomia qualitativamente e quantitativamente più forte, significa ridiscutere anche alcuni di questi assunti.

Questo perché l’autonomia crea, di per sé, differenziazione, di più, di-suguaglianza

112. L’amministrazione differenziata può più correttamente tradurre un

medesimo comando normativo in ragione di situazioni di fatto differen-ziate, ma solo laddove la differenziazione (dell’amministrazione) sia “gui-data dal centro”. Allorché il comando normativo (da tradurre) è diversi-ficato, e la differenziazione amministrativa sfugge, risultando frutto di dinamiche decentrate ed autonomiche, ad ogni controllo unitario, allora la differenziazione esalta la differenza, e l’organizzazione diviene molti-plicatrice della diversità

113.

111 Problematiche si pongono, al riguardo, soprattutto in una prospettiva di “federalismo fiscale”, che necessariamente implica un certo livello di differenziazione nell’offerta di beni pubblici da parte delle varie amministrazioni. Questa differenziazione dipende sì dalle di-verse esigenze o preferenze dei cittadini, ma anche, evidentemente, dall’ammontare delle risorse a disposizione. In altre parole, con il federalismo fiscale si verifica il superamento della logica dell’uniformità, quale previsione unitaria (operata a livello centrale) delle moda-lità di erogazione di identici servizi in tutto il territorio nazionale: è, questo, un elemento riducibile, ma non eliminabile attraverso meccanismi di perequazione.

112 Cfr., in tal senso, di nuovo, G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V, cit., 1258: la legge regionale, soggetta al principio di uguaglianza solo entro il proprio ambito di efficacia «istituzionalmente crea disuguaglianza, dato che in ciò sta appunto la ragione d’essere dell’autonomia».

113 È, allora, lo stesso principio di eguaglianza a dover essere riletto alla luce dell’orga-nizzazione della Repubblica, scelta dal legislatore costituzionale. Come una riforma di rego-le organizzative finisca per incidere fortemente su valori è denunciato da S. RODOTÀ (Audi-zione, in Indagine conoscitiva sugli effetti nell’ordinamento delle revisioni del Titolo V, cit.). Le

LO STATO DIFFERENZIATO 318

Sono allora altri, e diversi i percorsi dell’uguaglianza, e questi passa-no per la previsione di obiettivi comuni, e l’uguaglianza stessa muta, da parità di disciplina a garanzia di una dimensione essenziale del diritto.

Se queste sono le linee generali del nuovo modello, da ciò non di-scende, non può discendere, l’affermazione di una irrilevanza tout court del dato organizzativo. Spesso nell’organizzazione si incardinano valori ed interessi, e l’organizzazione esprime, già di per sé, la ponderazione di questi valori e di questi interessi che quindi ne derivano in via diretta, senza che possa perciò assumersene il dato meramente strumentale.

La rappresentanza di determinate categorie, l’obbligo di sentire de-terminate amministrazioni preposte alla tutela di specifici interessi, tut-ta una serie di vincoli, organizzativi e procedimentali, l’attribuzione di una funzione ad un ente esponenziale di una collettività piuttosto che di un’altra: in questi, ed in innumerevoli altri casi che qui è anche inutile evidenziare, l’elemento “strumentale” è in realtà già espressione della tu-tela “sostanziale” del diritto

114. Allorché la connessione tra diritti ed organizzazione è diretta, cosic-

ché l’esercizio di un diritto fondamentale richiede l’approntamento di una struttura che lo consenta, anche i caratteri di queste strutture sono elemento attraverso il quale si garantisce l’esercizio uniforme del diritto: quando questo avviene possiamo però affermare che sussista un obbligo all’uniformità amministrativa che, se così fosse, assumerebbe anche va-lenza costituzionale? Come sin qui si è cercato di evidenziare, questo obbligo alla uniformità, intesa come “uniformità dei modelli di ammini-strazione”, non sembra possa ritenersi sussistere

115: secondo categorie che si è cercato di abbozzare, non possiamo cioè affermare (non più) l’esistenza di un vincolo ad una uniformità forte, che riproduca quel “pa-riforme sistema” di cui si è più volte detto nel corso di questo lavoro.

Ma, coerentemente con quanto sin qui affermato, l’uniformità del trat-tamento sostanziale dei cittadini in tema di diritti, ed in primis di diritti fondamentali, può comportare, ed anzi a nostro avviso comporta, una for-ma debole di uniformità amministrativa, che si esprimerà attraverso la pre-visione di vincoli, organizzativi e di azione, “uniformi” per i pubblici poteri.

scelte d’organizzazione, determinano però, inevitabilmente, le future modalità di garanzia e tutela degli interessi (cfr., tra gli altri, A. PIOGGIA, La competenza amministrativa, cit., 207 et passim; G. ROSSI, Introduzione al diritto amministrativo, cit., 89-90 et passim).

114 Cfr. M. NIGRO, Studi sulla funzione organizzatrice, cit., spec. pp. 118 ss. 115 «Oltretutto, una società pluralistica, piena di forze centrifughe, ricaccia spontane-

amente una simile garanzia. Emergono i presupposti sostanziali dell’uguaglianza, che vo-gliono dire esaltazione delle differenze» (cfr. G. BERTI, Crisi e trasformazione dell’ammi-nistrazione locale, cit., 687)

PRINCIPIO E MODELLI DELLA DIFFERENZIAZIONE AMMINISTRATIVA 319

In maniera decisamente diversa opera un’altra funzione trasversale, quella sulla “tutela della concorrenza”: funzione, questa, che evidente-mente non può giungere a definire l’organizzazione pubblica negli spazi sottratti al mercato. Può però consentire la definizione in via generale (per Stato, Regioni, Enti locali) ed eventualmente settoriale (a fini pro-concorrenziali in specifici mercati) degli ambiti nei quali è escluso l’intervento pubblico: può, quindi, consentire una individuazione unifor-me dei confini (massimi) del settore pubblico nel campo economico

116. Lo Stato può, allora, prevedere in negativo gli spazi potenzialmente

sottratti alla concorrenza (disciplinando quest’ultima); fatto questo, la competenza a “regolare” i servizi pubblici (disciplinarne le forme e i modi) sarà però dello Stato o delle Regioni o concorrente, in relazione alla competenza legislativa sulla materia in cui i servizi stessi insistono. Dunque, definito un limite (uniforme) all’area dell’intervento pubblico, si dispiega l’intervento (di regolazione e quindi differenziazione) regio-nale in ordine alle modalità di organizzazione

117.

5.2. L’autonomia organizzativa regionale ed i suoi limiti. La disciplina co-stituzionale dell’organizzazione regionale

L’apertura alla differenziazione organizzativa regionale è uno dei tratti caratterizzanti il nuovo sistema delineato dalle riforme costituzio-nali che hanno interessato il Titolo V ed anche uno degli aspetti più dif-ficilmente controvertibili: mentre le conclusioni in ordine alla differen-ziabilità organizzativa locale richiedono puntuali distinzioni e precisa-zioni, data l’influenza esercitabile (come vincolo all’uniformità) dalle funzioni mantenute in capo allo Stato

118 e dalla stessa presenza di una generale riserva di legge sull’organizzazione pubblica, in ambito regio-nale lo scenario si presenta relativamente nitido. Uno spazio, quello del-l’organizzazione interna delle Regioni, sottratto alla possibilità di condi-

116 Non però, nel campo dei servizi non economici, dove il principio non è più quello della concorrenza, ma quello della sussidiarietà orizzontale dell’ultimo comma dell’art. 118 (conoscibile dai diversi soggetti che compongono la Repubblica).

117 Può, ancora, condizionare l’organizzazione (statale, regionale, locale) definendo i comuni limiti proconcorrenziali con riferimento all’azione ed alla organizzazione dei sog-getti pubblici.

118 In particolar modo, attraverso le sub-materie definite dall’art. 117, comma 2°, lett. p) “legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali”. La legge n. 131 del 2003 prefigura, inoltre, l’espansione dell’intervento uniformante statale a ben più rilevanti spazi di disciplina dell’organizzazione locale.

LO STATO DIFFERENZIATO 320

zionamenti eteronomi, capace di svilupparsi però entro confini definiti dallo stesso legislatore costituzionale, seppure con disposizioni meno stringenti di quanto non fosse ravvisabile nel precedente assetto.

Sotto questa angolazione, è forte il dato (innegabile) di continuità tra le due leggi costituzionali che hanno rivoluzionato l’ordinamento regio-nale ordinario

119: la legge costituzionale n. 1 del 1999 ha infatti, per mol-ti aspetti, anticipato la successiva riforma del Titolo V, che l’ha sostan-zialmente incorporata nel complessivo disegno di revisione.

La capacità di differenziazione regionale in ordine alla propria strut-tura fondamentale risulta significativamente rafforzata dalle riforme del 1999 e del 2001

120, tanto da giustificare la diffusa affermazione dell’at-tuale esistenza di un vero e proprio diritto costituzionale

121 di ciascuna Regione, sia pure nei limiti di un ordinamento che non assume ancora compiuti caratteri federali

122 e che resta “uno ed indivisibile” 123.

La legge costituzionale n. 1 del 1999 124, in particolare, ha modificato

119 Per le Regioni speciali, la (relativa) autonomia statutaria è fondata sull’art. 116, comma 1, cost. (sostanzialmente non modificato dall’art. 2 della legge cost. n.3 del 2001) e sulla legge cost. n.2 del 2001. Sul punto, v., tra gli altri, T. GROPPI, La modifica degli sta-tuti delle Regioni speciali, cit., 437 ss.

120 Sulla riforma della potestà statutaria regionale è stato scritto molto, per un’analisi dei numerosi aspetti di rilievo che qui certo non troveranno sviluppo, v., per tutti, i vari contri-buti in V. ANGIOLINI-L. VIOLINI-N. ZANON (a cura di), Le trasformazioni dello Stato regionale italiano, cit., spec. 21 ss.; i numeri monografici de Le Regioni (n. 3-4, 2000 e n. 6, 2000); A-A.VV., I nuovi statuti delle Regioni, Milano, 2000; ma anche, tra gli altri, M. VOLPI, Conside-razioni di metodo e di merito sulla legge costituzionale n. 1 del 1999, in Pol. dir., 2000, 203 ss.; M. OLIVETTI, Prime osservazioni sulla forma di governo delle Regioni a statuto ordinario dopo la legge costituzionale n. 1 del 1999, in Dir. pubbl., 2000, 943 ss.; M. CLARICH, Statuti per diffe-renziare cit.; più recentemente, cfr. A.M. POGGI, L’autonomia statutaria delle regioni, in T. GROPPI-M. OLIVETTI, La Repubblica delle autonomie, cit., 59 ss.; per una visione completa ed organica, v., infine, M. OLIVETTI, Nuovi statuti e forma di governo cit.

121 In tal senso, tra gli altri, v. A. BARBERA-C. FUSARO, Corso di diritto pubblico, Bolo-gna, 2001, 305.

122 Cfr. i già citati “dieci metri di misura” di Duchacek (su cui v. R. PADDISON, Il federa-lismo: diversità regionale nell’unione nazionale, cit., 26 et passim); una conferma (formale, ma debole) può derivare inoltre dalla considerazione che nel corso dei lavori si scelse vo-lutamente (e polemicamente) di non inserire l’espressione “Ordinamento federale della Repubblica” per ridenominare il Titolo V della Costituzione. Con ciò, come rileva M. AI-NIS, «è stata espulsa la parola magica (il federalismo appunto), per sostituirvi forme più neutre e asettiche» (ID., La riforma del titolo V della Costituzione: profili di merito e di me-todo, in V. ANGIOLINI-L. VIOLINI-N. ZANON (a cura di), Le trasformazioni dello Stato regio-nale italiano, cit., 35).

123 Ai sensi dell’art. 5 Cost. 124 Per una riflessione sulla quale, v. M. VOLPI, Considerazioni di metodo e di merito,

cit., 203 ss., che evidenzia come la legge si riferisca alla forma di governo regionale nel suo insieme, all’autonomia statutaria e legislativa delle Regioni (e al rapporto tra fonti statali e fonti regionali).

PRINCIPIO E MODELLI DELLA DIFFERENZIAZIONE AMMINISTRATIVA 321

sia l’art. 122 della Costituzione, prevedendo l’elezione diretta del Presi-dente della Giunta regionale (“salvo che lo Statuto disponga diversamen-te”)

125, che l’art. 123, attribuendo allo Statuto la competenza a determi-nare “in armonia con la Costituzione

126 […] la forma di governo 127 ed i

principi fondamentali di organizzazione e funzionamento” delle Regioni, oltre all’art. 126

128. Così facendo, il legislatore costituzionale ha operato una specifica at-

tribuzione di competenza alla fonte di autonomia, che perde i suoi ca-ratteri di eteronomia e atipicità

129, in ordine alla definizione della forma

125 Si tratta, in effetti, di un modello (quello dell’elezione diretta del Presidente) che, pur potendo essere disatteso dalle Regioni «il legislatore costituzionale tende surrettizia-mente ad imporre» (così A.M. POGGI, L’autonomia statutaria delle regioni, cit., 61). Da tale ambigua formulazione emerge, come confermato dal recente dibattito a margine dello Statuto della Regione Calabria (del quale è stata poi dichiarata l’illegittimità dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 2 del 2004), la distanza tra autonomia formalmente ri-conosciuta e differenziazione in concreto ammessa: nel momento in cui si ammette l’autonomia non se ne accetta la naturale conseguenza (in tal senso v. M. VOLPI, Sulla le-gittimità della Statuto calabrese in tema di forma di governo, ovvero in difesa del “formali-smo” dei giuristi, in Forum Quad. cost. (www.mulino.it), settembre 2003: «mi pare di rile-vare, soprattutto in articoli apparsi nella stampa quotidiana, qualche fastidio per l’auto-nomia riconosciuta alle Regioni sulla scelta della forma di governo, come si desume dalla frequente invocazione della omologazione fra gli Statuti regionali sul punto, la quale non potrebbe che attestarsi sull’ipotesi dell’elezione popolare e diretta»).

126

Non è qui possibile entrare nel dibattito sorto intorno alla forma di governo che emerge dal recente Statuto della Regione Calabria: le diverse posizioni hanno avuto largo risalto negli organi di informazione ed anche vasta eco a livello scientifico (per tutti, si vedano i contributi nel sito dell’AIC, www.associazione deicostituzionalisti.it, nel Forum di Quaderni Costitzionali, www.mulino.it, ed in www.federalismi.it). La Corte ha, da ul-timo, fatto proprie le critiche di chi riteneva che quella prevista nell’art. 33 dello statuto calabrese fosse di fatto, al di là della “mascheratura” datane, una forma di elezione “a suf-fragio universale e diretto”, e come tale soggetta al vincolo costituzionale del simul sta-bunt simul cadent (ed in tal senso, si veda già la sentenza n. 304 del 2002).

127 La riforma del 1999 ha introdotto per la prima volta nel testo della Costituzione una categoria tradizionale tanto del costituzionalismo che della scienza e filosofia politi-ca: quella della “forma di governo”. Con tale termine, nell’accezione ristretta (che la di-stingue rispetto alla “forma di Stato”), si fa riferimento alla distribuzione della funzione di indirizzo politico fra gli organi della Regione.

128 Quanto ai contenuti, dopo le recenti riforme, lo Statuto regionale è chiamato a di-sciplinare, inoltre, l’esercizio del diritto di iniziativa popolare, i referendum, le modalità di pubblicazione di leggi e regolamenti e (u.c. dell’art. 123 come aggiunto dalla legge cost. n. 3 del 2001, nell’unica innovazione apportata da questa legge costituzionale all’autono-mia statutaria regionale) e l’istituzione del Consiglio delle autonomie locali.

129 La riforma ha fatto venire meno l’approvazione parlamentare, cosicché la fonte statu-taria è ora da alcuni ritenuta una legge speciale regionale dotata, per effetto della norma costituzionale interposta, di un primato giuridico nell’ambito su cui è chiamata a sviluppar-si (in questo senso, tra gli altri, cfr. U. DE SIERVO, La nuova configurazione degli statuti re-gionali dopo la legge costituzionale n.1/1999, in V. ANGIOLINI-L. VIOLINI-N. ZANON (a cura di), Le trasformazioni dello Stato regionale italiano, cit., 26 et passim). In ordine alla posizio-ne dello statuto delle Regioni ordinarie nel sistema delle fonti, la dottrina si divide tra chi

LO STATO DIFFERENZIATO 322

di governo regionale e, di conseguenza, ha determinato una “apertura” a possibilità di differenziazioni organizzative di grande rilievo

130. Si tratta, con ciò, del riconoscimento costituzionale della differenziazione ammi-nistrativa (organizzativa, in questo caso) quale espressione di autono-mia, non più vista come potenzialmente lesiva dei valori dell’unità e del-l’uguaglianza, in quanto ammessa, senza particolari riserve, per i mag-giori enti territoriali

131. Diviene, allora, illogico reputare la persistenza del “valore dell’unifor-

mità amministrativa” per gli enti locali minori, nel suo ricollegarsi a principi fondamentali come quelli di unità e uguaglianza, allorché si ammette la differenziazione amministrativa per enti territoriali dotati di tale rilevanza, portatori anche di una autonoma potestà legislativa: se il valore dell’uniformità amministrativa, come dato “strumentale” a garan-zia dell’uniformità “nei diritti”, non sussiste più per le Regioni, è eviden-te che, come valore, non può essere riferito ai minori enti locali. Ancora, se il pregiudizio all’unità dell’ordinamento, da alcuni visto nella possibi-lità di modelli differenziati di amministrazione

132, non rileva più per profili quali quelli in esame, appare incongruo invocare il carattere “le-sivo” di differenziazioni amministrative di minor impatto

133.

ritiene che si tratti di legge regionale, anche se approvata con procedimento rafforzato (in questo senso, E. DE MARCO, Gli statuti regionali dopo il nuovo articolo 123 della Costituzione e la loro collocazione nel sistema delle fonti, in AA.VV., I nuovi statuti delle Regioni, cit., 44) e chi ritiene si tratti di una fonte nuova e diversa (così, tra gli altri, A.M. POGGI, L’autonomia statutaria delle regioni, cit., 67; A. D’ATENA, La nuova autonomia statutaria delle regioni, in Rass. Parl., 2000., 609).

130 Il nuovo testo dell’art. 123 Cost. (nel quale lo statuto, definito “legge regionale”, non deve più essere approvato, dopo la delibera del Consiglio, con legge del Parlamento) sem-bra non lasciare più dubbi in ordine alla natura giuridica degli statuti regionali, mentre in precedenza era questione controversa se si trattasse di fonte statale o regionale. Cfr., al riguardo, P. CAVALERI, Diritto regionale, cit., 42 ss. (il quale dà conto delle diverse posi-zioni dottrinali e della prevalenza, pure non pacifica, della lettura “regionale” dello Statu-to anche prima delle ultime riforme).

131 Non è, al momento, ancora possibile dare una valutazione dell’attuazione di queste previsioni, atteso che la “stagione statutaria” delle Regioni ordinarie è di fatto in lentissi-ma evoluzione, sostanzialmente inceppata dal problema della forma di governo regionale (modalità di elezione del Presidente e suo rapporto con il Consiglio).

132 Si veda, al riguardo, la lettura di questo fenomeno data da U. ALLEGRETTI, Auto-nomia regionale e unità nazionale, cit., 10 ss.

133 Vero è però anche che dal testo costituzionale emergono chiari indicatori che por-tano a ritenere “critici” taluni oggetti della differenziazione amministrativa, in particolare per quanto riguarda la forma di governo e la legge elettorale dei soggetti autonomi. Ciò è avvalorato, a livello di minori autonomie, dal mantenimento di quest’ambito nella compe-tenza esclusiva statale, ma trova conferme significative anche a livello regionale. Non solo i limiti posti, in questo campo, all’autonomia statutaria, ma anche l’impossibilità che le materie concorrenti dell’art. 122 Cost. costituiscano oggetto della clausola di asimmetria

PRINCIPIO E MODELLI DELLA DIFFERENZIAZIONE AMMINISTRATIVA 323

Nel momento in cui si accetta, pacificamente, la possibilità che gli statuti regionali articolino forme diverse di organizzazione del governo regionale, fino al punto di poter prevedere modelli assembleari o co-munque non “presidenziali” di governo, diviene quindi non più giustifi-cato ritenere che una griglia rigidamente uniforme si ponga quale valore costituzionale, posto a tutela dell’unità dell’ordinamento e del principio di uguaglianza, ove riferita a Comuni e Province. Diverso sarebbe, inve-ce, ove si ritenesse l’ampia libertà lasciata alle scelte statutarie eccessiva, potenzialmente lesiva di principi costituzionali

134 in ragione dell’utilizzo che ne verrà fatto

135. In realtà, in merito alla possibilità che le Regioni scelgano in auto-

nomia la propria forma di governo, il dibattito dottrinale è acceso, ora nel senso di ritenere “essenziale”

136 questa previsione, ora nel senso di ritenerla addirittura “demenziale”

137. Non è qui possibile entrare nel me-rito della previsione del novellato art. 122, allorché introduce un model-lo, oggetto di critiche, di “Costituzione indiziaria”, posto che in più punti lascia intendere il favor nei confronti della forma di governo “presiden-ziale”, salvo poi riconoscere agli statuti la facoltà di disporre diversa-mente. Seppure la Costituzione risulti, dopo la riforma, presentare una serie di indici di una scelta in favore del modello dell’elezione diretta del Presidente della Regione, è controverso il valore giuridico da riconosce-re a questo “invito” costituzionale, che alcuni autori hanno qualificato

dell’art. 116 (uniche “materie concorrenti” sottratte a questo meccanismo, pure potenzia-le), sembrano indicare nella forma di governo e nella legge elettorale un “fuoco” (dell’unità, più che dell’uniformità) di interesse nazionale. Sul punto, cfr. le conclusioni di M. COSU-LICH, La disciplina legislativa elettorale nelle Regioni ad autonomia ordinaria: ex uno, plura, in corso di pubblicazione in Regioni.

134 Così il Sen, A. Manzella, intervenendo nella seduta del Senato del 17 giugno 1999, criticava la riforma sul punto in questione, ritenendola anzi, quale lesione del principio di uniformità, in relazione alla forma di governo regionale, e quale pericoloso attraversa-mento dei limiti di revisione costituzionale: «[i]l vero federalismo garantisce la diversifi-cazione organizzativa ed amministrativa delle Regioni, salvaguardando la peculiarità di ciascuna […]. Tuttavia, vigendo una Costituzione rigida, non si può prevedere una clauso-la derogatoria di carattere generale per gli statuti regionali».

135 Tra le critiche dottrinali in materia, si evidenzia G. PITRUZZELLA (Sull’elezione diret-ta del Presidente regionale, in Regioni, 1999, 422 ss.).

136 Così, per A. D’ATENA (Intervento in L’elezione diretta dei Presidenti di Regione e le sue conseguenze politico-istituzionali. Tavola rotonda, in Ist. del federalismo, 1999, 1168 ss.) «è essenziale che la disciplina della forma di governo, posta in stato di necessità, sia deroga-bile da parte delle Regioni, mediante gli Statuti».

137 Così A. BALDASSARRE (Intervento in Il laboratorio per le modernizzazioni. 1999, Ro-ma, 2000, 91 ss.), che critica fortemente la scelta parlamentare di attribuire allo Statuto regionale la possibilità di scegliere la forma di governo regionale.

LO STATO DIFFERENZIATO 324

come espressa possibilità di deroga 138 riconosciuta alle Regioni in sede

statutaria, ma che più correttamente sembra riconducibile al modello della “norma cedevole”

139. Carattere di forte complessità riveste poi la tematica della “attuazione

della differenziazione”: frequentemente il nostro ordinamento ha cono-sciuto un’uniformità di attuazione, nel senso che gli spazi differenziali lasciati dal legislatore, ordinario o, come nel caso in esame, costituzio-nale, non sono stati colti o, se colti, sono stati ridimensionati dalla giuri-sprudenza

140. Al di là di quelli in ordine al suo contenuto

141, i limiti per la differen-ziazione regionale discendono, in via generale, dall’art. 123, che pone il vincolo della “armonia con la Costituzione”, quale necessaria consonan-za di fondo tra statuto e Carta fondamentale

142. Dal che sembra potersi

138 Sempre che non si ritenga più corretto, nel caso in questione, parlare di “norma suppletiva”, essendo caratterizzata la deroga dell’essere “eccezione ad una regola” (cfr. G.U. RESCIGNO, Deroga (in materia legislativa), cit., 303).

139 “Cedevolezza” su cui, da ultimo, v. Corte cost., sent. n. 2 del 2004. 140 Di casi che confermano questa lettura è piena la storia del sistema amministrativo

italiano, come ci conferma (già prima dei rimarcati “indizi” che emergono nella recente giurisprudenza costituzionale sul Titolo V, non ultima la citata sent. n. 2 del 2004) dalla stessa attuazione della legge n. 59 del 1997. La resistenza nei confronti dell’autonomia statutaria regionale, pure costituzionalmente riconosciuta, era inoltre emersa più volte e sotto numerosi profili nel previgente sistema: ad esempio, allorché la Corte cost., dando una lettura stringente dell’art. 123, precedente dizione, aveva affermato la necessità che gli Statuti regionali rispettassero «anche le leggi non espressamente richiamate dalla Co-stituzione, quando queste ultime esplicitino principi costituzionali o principi fondamen-tali della legislazione nazionale inerenti la materia statutaria» (Corte cost., sent. n. 40 del 1972). L’eliminazione del vincolo, in precedenza gravante sugli statuti, nel senso del ri-spetto “delle leggi della Repubblica”, consente peraltro di superare questo ostacolo all’autonomia regionale, ed i dubbi emersi nell’interpretazione della precedente disposi-zione, per quanto profili problematici già paiono prefigurarsi in relazione al limite dell’armonia con la Costituzione, ai sensi del quale gli statuti «devono essere in armonia con i precetti ed i principi tutti ricavabili dalla Costituzione» (Corte cost., sent. n. 196 del 2003).

141 Non solo quanto ad “oggetti della differenziazione”, ma anche quale predetermina-zione dei confini della differenziazione con riferimento a ciascuno di essi: in particolare, la disponibilità della forma di governo regionale non è piena, dal momento che, in primo luogo, sono già predefiniti gli organi regionali necessari (Consiglio, Giunta, Presidente della Giunta, Consiglio delle autonomie) e ne sono prefissate le funzioni essenziali. È, in sostanza, la stessa Costituzione che, diversamente da quanto avviene per gli enti locali laddove tale funzione è affidata alla legislazione dello Stato (art. 117, comma 2°, lett. p), fissa “organi di governo e funzioni fondamentali” delle Regioni.

142 Il che, rispetto al limite della conformità alla Costituzione, che è ovviamente pre-sente e discende dallo stesso rapporto tra le fonti, sembra una nozione suscettibile di una più forte capacità di condizionamento dell’autonomia regionale: «quasi un concetto val-vola che permetta alla Corte costituzionale spazi più ampi nel sindacare il contenuto degli statuti» (così A. BARBERA-C. FUSARO, Corso di diritto pubblico, cit., 306).

PRINCIPIO E MODELLI DELLA DIFFERENZIAZIONE AMMINISTRATIVA 325

far discendere la necessità che le norme statutarie non solo non si pon-gano in contrasto con puntuali previsioni costituzionali, ma siano altresì (anche) in sintonia

143con quei valori che trascendono singole disposizio-ni costituzionali (in particolare: l’unità della Repubblica)

144. Vero è che la distanza tra la differenziazione possibile e la differen-

ziazione praticata è spesso molto rilevante. Così, il lento e faticoso procedere dell’approvazione degli statuti re-

gionali segnala, nel momento attuale, una sorta di “uniformità da iner-zia”

145 che rischia di compromettere l’apertura all’autonomia prefigurata dalle riforme, essendo dimostrazione della distanza che spesso corre tra richiesta di spazi di differenziazione e capacità di farne uso

146. A fianco di una spinta alla differenziazione amministrativa, spesso

acritica e disorganica, sempre più forte, quasi inerziale, che emerge, pu-re tra qualche ambiguità, soprattutto a livello normativo, troviamo in ef-fetti una controspinta, o meglio una resistenza, a livello di attuazione ed esecuzione: nell’amministrazione e nella giurisdizione, amministrativa e costituzionale

147. Resta, in relazione all’autonomia statutaria regionale, quindi il dub-

bio sull’utilizzo che verrà fatto di questa differenziazione potenziale, se cioè questa si trasformerà in reale differenziazione di modelli organizza-tivi, se non proprio di “forme di governo”, o se prevarrà l’uniformità di attuazione, con statuti che svilupperanno il dato costituzionale per poi

143 Armonia con la Costituzione come «vincolo di congruenza tra le strutture interne della Regione e i grandi principi organizzativi cui si informa lo Stato-ordinamento» (v. Statuto regionale, ad vocem, in M. AINIS (a cura di), Dizionario costituzionale, cit., 452).

144 Viene altresì meno il vincolo della armonia con le leggi della Repubblica, che compa-riva nell’originario testo dell’art. 113 Cost.: questa innovazione è vista come fortemente significativa da alcuni (tra gli altri A. D’ATENA, La nuova autonomia statutaria delle Regio-ni, cit., 617), ma ridimensionata da altri (tra i quali R. TOSI, Incertezze e ambiguità della nuova autonomia statutaria, in Regioni, 1999, 848).

145 Solo la Regione Calabria aveva terminato il suo percorso, con l’approvazione defi-nitiva del testo del suo Statuto (di parti del quale è però stata dichiarata l’illegittimità co-stituzionale: cfr. Corte cost., sent. n. 2 del 2004); Abruzzo e Puglia lo hanno approvato in prima lettura (sul punto cfr. R. BIN, Calabria docet. A che punto sono gli Statuti regionali?, in corso di pubblicazione in Regioni, 1, 2004).

146 Questa affermazione della possibilità di differenziare, seguita dal timore che questa possibilità venga esercitata, è un tratto che ancora caratterizza il dato italiano. Così, per il Sen. Manzella (Ulivo DS), nell’intervento, già richiamato, del 17 giugno 1999: «questo provvedimento, non deve quindi determinare un assetto locale a macchia di leopardo: occorre garantire l’omogeneità dei diversi statuti regionali» (il corsivo è nostro).

147 In questo senso, cfr. nuovamente F. TRIMARCHI BANFI, Il regionalismo e i modelli, cit.: l’autrice pone efficacemente l’accento sulla azione uniformante svolta congiuntamen-te dal potere politico e dal giudice costituzionale (ivi, 256).

LO STATO DIFFERENZIATO 326

uniformarsi l’uno all’altro, in un processo di “mimetismo statutario” o di “clonazione” che altre volte ha caratterizzato l’esperienza italiana

148. L’ambiguità di fondo nell’approccio a questi temi, frutto forse di un

mancato chiarimento in ordine alle conseguenze che le nuove scelte “differenziali” comportano, è emersa, ad esempio, proprio nel momento in cui veniva approvata la nuova potestà statutaria regionale. Così le for-ze della maggioranza che più di altre avevano contribuito alla approva-zione di questa riforma, nell’atto di approvarla, hanno evidenziato il ca-rattere “necessariamente uniforme” dei successivi statuti regionali, di-mostrando, probabilmente, il dato che più di altri caratterizza l’attuale approccio alle riforme ordinamentali

149: un mancato chiarimento in me-rito ai valori che si vogliono tutelare in sistemi uniformi o differenziati, e la conseguente accettazione acritica di un modello di (semi)federa-lismo e di differenziazione di cui, però, non si è forse disposti ad am-mettere le naturali conseguenze

150. Conseguenze che, evidenti sul piano dell’organizzazione fondamenta-

le delle Regioni, lo sono ancor di più su quello dell’organizzazione inter-na dei loro apparati: qui, la scelta del legislatore costituzionale è eviden-te nel momento in cui non affida allo Stato alcuna funzione in grado di condizionare, in via generale, l’organizzazione delle Regioni e degli enti da questa dipendenti

151. Una piena disponibilità (e quindi differenziabi-

148 Da un’uniformità inerziale ad un’uniformità di risulta il passo è breve, dal momen-to che è agevole prefigurare a coronamento di un percorso sofferto, essenzialmente in-centrato sulla forma di governo regionale e sulle modalità di elezione consiliare e presi-denziale, e spesso privo di reale progettualità territoriale un mimetismo statutario sulla scorta delle (solite) esperienze capofila.

149 Ma anche ove alcune Regioni decidessero di approfittare dei poteri di differenzia-zione ora riconosciuti dalla Costituzione, fino al punto di affermare forme di governo di-verse da quella “suggerita” nella Carta fondamentale, sarà da vedere se queste statuizioni supereranno il vaglio della Corte costituzionale allorché, come pure prevedibile, giunge-ranno alla sua attenzione. Dubbio che sembra ora confermato dalla sent. n. 2 del 2004 della Corte, avente ad oggetto il “tentativo di aggiramento” della clausola simul stabunt simul cadent da parte dello statuto della Regione Calabria).

150 Così, nella stessa seduta del 17 giugno, il Senatore Passigli (DS), evidenziava che, con questa riforma, «si realizza in realtà un federalismo dall’alto, che pertanto non può che dar vita a sistemi omogenei in tutte le Regioni, secondo principi di uniformità, anche per evitare possibili continui contrasti sulle regole» (i corsivi sono nostri). Un tentativo, in sostanza, di “federalismo uniforme”, in sostituzione del “regionalismo uniforme” d’antan.

151 Il che emerge con chiarezza riflettendo su ciò che l’art. 117, commi 2° e 3°, non prevede (una competenza legislativa statale sui principi fondamentali di organizzazione pubblica) ma anche su ciò che è riservato allo Stato: l’ordinamento e l’organizzazione amministrativa propria e degli enti pubblici nazionali (art. 117, comma 2, lett. g) e taluni profili dell’organizzazione locale (quelli desumibili dalle submaterie della lett. p) dello stesso comma 2° dell’art. 117). Sul punto, cfr. F. MERLONI, Il destino dell’ordinamento de-gli enti locali, cit., spec. 412 ss.

PRINCIPIO E MODELLI DELLA DIFFERENZIAZIONE AMMINISTRATIVA 327

lità) della propria organizzazione amministrativa, senza intersezioni e condizionamenti, se non quelli che, in via generale, possono discendere dalla disciplina delle diverse materie “finali”, laddove questa sia affidata allo Stato ma amministrata (in virtù del cessato parallelismo, per le fun-zioni che sussidiariamente lo richiedano) dalle Regioni, e dalle stesse competenze statali trasversali (prima tra tutte, quella sui livelli essenzia-li). Condizionamenti, questi, che sembrano in grado di determinare vin-coli (di uniformità), ma non paiono consentire la riproducibilità di mo-delli organizzativi e strutture uniformi a livello regionale.

5.3. L’autonomia organizzativa locale ed i suoi limiti. Previsioni costitu-zionali e limiti alla differenziazione locale. La resistenza dell’uniformità organizzativa: la legge 5 giugno 2003, n. 131

In un sistema che predica la differenziazione amministrativa come criterio di fondo del nuovo ordine, pure riemerge, in forme sottintese, attraverso forzature in sede di attuazione, interpretazioni estensive ed implicite rimozioni, la forza inerziale dell’uniformità locale. Una unifor-mità evidentemente diversa da quella (forte) tradizionalmente conosciu-ta dal nostro ordinamento, fatta ora di soli vincoli e condizionamenti (uniformanti), che però già suggeriscono che la differenziazione come risultato sarà ben lontana dalla differenziazione potenziale così ampia-mente valorizzata dalla riforma.

Tratti di uniformità organizzativa, per le amministrazioni locali, resi-duano alla luce del modello costituzionale e ritrovano inatteso vigore nella sua attuazione legislativa: di nuovo, la differenziazione material-mente ammessa è inferiore a quella formalmente predicata.

Vero è che dalla Costituzione formale emergono significativi limiti al-la differenziazione locale, pure affermata dal riformato art. 117 nel mo-mento in cui riconosce (riserva?) alle fonti di autonomia la disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni

152. A livello costituzionale, il più forte limite alla differenziazione, od al-

meno a quella “su base locale”, discende dalla riserva di legge sull’organiz-zazione

153, la quale, pure ridotta nella sua portata in ossequio allo svilup-

152 Art. 117, comma 6°: “I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà re-golamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”.

153 Si tratta di un modello che, se conosce punti di criticità, li ha “verso il basso”, nel sen-so che casomai si può arrivare a riconoscere agli enti territoriali minore competenza anche

LO STATO DIFFERENZIATO 328

po normativo della fine degli anni ’90 ed alla mutata giurisprudenza costi-tuzionale

154, resta a presidiare quella dimensione macro-organizzativa nella quale la definizione dell’organizzazione dell’amministrazione è, an-che, predeterminazione della cura concreta di interessi 155.

Dalla presenza di una riserva di legge in materia, sembra discendere un significativo ruolo (pure, tutto da ricostruire) delle Regioni in ordine all’organizzazione locale: da qui la possibilità di una disciplina regionale di aspetti dell’ordinamento degli enti locali (non più riservato alla legge statale

156, come era sin qui stato, in applicazione del vecchio art. 128 Cost.) ma nel rispetto di due ordini di limiti. Da un lato i caratteri uni-formi dell’ordinamento che la Costituzione riserva alla legge statale

157; dall’altro la stessa autonomia degli enti locali che è oggi più direttamente garantita dalla stessa Costituzione, che è autonomia politica, normativa, finanziaria, organizzativa.

Da qui, l’esigenza, evidenziata, di tracciare un confine per la potestà regolamentare (sull’organizzazione e sull’esercizio delle funzioni locali): limite che è dato dalla riserva di legge dell’art. 97 nel momento in cui la scelta organizzativa giunge a definire una scelta sulla cura degli interes-se

158. L’apertura alla differenziazione organizzativa locale non deve si-gnificare, in altri termini, l’apertura ad una differenziazione nel regime giuridico dei cittadini su base comunale e provinciale: il principio di le-galità si pone a garanzia del fatto che il sistema della differenziazione non divenga il sistema del particolarismo/municipalismo nella cura dei diritti sul territorio (e, quindi, nei diritti stessi).

in relazione alla disciplina delle modalità di esercizio del servizio, in virtù della riserva dell’art. 117, comma 6°, laddove si ritenga di dover rileggere anche la riserva di legge del-l’art. 97 alla luce del nuovo ordinamento repubblicano. Accettare questa lettura implica, pe-rò, oltre che interpretare in modo a nostro avviso troppo estensivo la disposizione dell’art. 97, capoverso, introdurre nel nostro ordinamento prospettive di differenziazione su base comunale in grado, esse si, di pregiudicare “l’unità giuridica ed economica” della Repubbli-ca. Contra v., però, A. CORPACI, L’incidenza della riforma del Titolo V, cit., 46-47.

154 Tema per il quale si veda A. PIOGGIA, La competenza amministrativa, cit., 256 ss. Si trat-ta di un tema che, anzitutto in relazione alla problematica dell’ammissibilità di fonti privatisti-che di organizzazione, è strettamente connesso a quello della c.d. privatizzazione del pubblico impiego. In merito, fondamentale è A. ORSI BATTAGLINI, Fonti normative e regime giuridico del rapporto di impiego con enti pubblici, in Dir. lav. e rel. ind., 1993, 461 et passim.

155 Cfr., tra gli altri, G. ROSSI (Introduzione al diritto amministrativo, cit., 219 ss.) che distingue di “macro organizzazione” e “organizzazione degli uffici”.

156 Pur con le aperture presenti nel nostro sistema a partire dalla legge n. 142 del 1990 (spec. art. 3, cfr. supra, cap. 6, § 3.2).

157 Le tre sub-materie dell’art. 117, comma 2°, lett. p): legislazione elettorale, organi di governo, funzioni fondamentali.

158 Cfr. A. PIOGGIA, La competenza amministrativa, cit., spec. 220 ss.

PRINCIPIO E MODELLI DELLA DIFFERENZIAZIONE AMMINISTRATIVA 329

È la dimensione strettamente interna dell’organizzazione ad essere dunque differenziabile nello svolgimento della autonomia regolamenta-re locale. La “sostanza” della norma di organizzazione demandata all’au-tonomia locale è quella, “tipica”, di cura degli interessi, non quella, “e-ventuale”, di diretta regolazione dei rapporti giuridici

159. Ma se questi sono i termini della questione, viene da chiedersi se, ed

in che misura, la riserva dell’art. 97 Cost. possa trovare soddisfazione in fonti di autonomia a “competenza costituzionalmente riservata” diffe-renti dalla legge formale. Il tema, nel nuovo Titolo V, acquista una parti-colare complessità, la quale discende non solo dalla riserva espressa alle fonti di autonomia contenuta nell’art. 117, comma 6, in materia di “or-ganizzazione ed esercizio delle funzioni” (amministrative), ma anche dal riconoscimento costituzionale della potestà statutaria locale, contenuto nell’art. 114, comma 2

160. Potestà statutaria, questa, prevista in modo uguale per tutti gli enti

territoriali, salvo poi trovare, per le Regioni, articolazione nell’art. 123. Lo statuto locale è fatto, dunque, della stessa sostanza dello statuto re-gionale, chiamato a disciplinare “la forma di governo e i principi fon-damentali di organizzazione e funzionamento”. Vero è però che se lo statuto regionale trova i suoi limiti direttamente nella Costituzione, quello locale può altresì risultare limitato e condizionato dalla legisla-zione statale, espressamente chiamata a definire “legislazione elettorale, organi e funzioni fondamentali” di questi enti territoriali.

La previsione di una potestà statutaria e regolamentare a livello costi-tuzionale determina l’esigenza di dare a queste fonti non solo una collo-cazione (nel sistema)

161, ma anche un ruolo: il quale, trattandosi di fonti di autonomia, altro non è se non la possibilità di poter dispiegare il pro-

159 Sul punto, e per questa distinzione, v. M. NIGRO, Studi sulla funzione organizzatrice, cit., 145-146.

160 Disposizione che, prevedendo come “[i] Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”, sembra impostare una relazione diretta tra Costituzione e statuti di autonomia, che quindi acquisterebbero carattere di fonte primaria. Né pare priva di con-seguenze, anche sotto questo versante, la posizione di equiordinazione degli enti auto-nomi sancita dall’art. 114, capoverso (oltre che dal fatto che, coerentemente con il siste-ma, i contenuti della potestà statutaria locale «vanno ricostruiti in analogia a quanto di-sposto per gli statuti regionali»: così A. CORPACI, L’incidenza della riforma del Titolo V, cit., 47).

161 Punto per il quale v. la ricomposizione del sistema delle fonti operata da G.U. RE-SCIGNO, Note per la costruzione, cit., 767 ss. (per quanto l’Autore lo definisca un tentativo fallito, dal momento che, attualmente, «lo scheletro che si può ricostruire è comunque pieno di lacune ed incertezze»: ivi, 822).

LO STATO DIFFERENZIATO 330

prio potenziale di differenziazione entro uno spazio lasciato libero dal-l’ordinamento.

Ciò detto, seguendo il modello costituzionale, l’organizzazione fon-damentale dell’ente sembra esaurirsi tra disciplina statale degli organi (fondamentali), altri principi (generali) di organizzazione derivanti dalla legislazione (regionale), statuto locale, principi e vincoli (speciali) di or-ganizzazione e funzionamento operanti nell’ambito delle diverse materie (statali o regionali), regolamenti locali di organizzazione ed esercizio delle funzioni. Il tutto, peraltro, attraversato da condizionamenti orga-nizzativi trasversali, le cui caratteristiche varieranno da funzione a fun-zione, ma anche da diritto a diritto (tutelato attraverso l’esercizio di queste funzioni).

Ancora, nessuna delle fonti eteronome dovrebbe poter determinare un condizionamento tale dell’autonomia locale da pregiudicare il possi-bile dispiegarsi (pure limitato) di ciascuna delle fonti autonome.

Questo modello (costituzionale) trova una traduzione parzialmente innovativa nella legge di attuazione del Titolo V “La Loggia” (n. 131 del 2003). Legge che tenta di reintrodurre (a livello ordinario) ciò che era scomparso (a livello costituzionale): una uniformità organizzativa delle amministrazioni locali dai caratteri peraltro mutati rispetto al modello tradizionale.

Sono due i versanti sui quali la legge opera per la ricostruzione di una uniformità nell’organizzazione: da un lato, vincolando lo statuto al rispetto di (non meglio precisati e difficilmente ascrivibili alla compe-tenza statale) “principi generali in materia di organizzazione” (art. 4), dall’altro affidando alla legislazione dello Stato o della Regione, secondo le rispettive competenze, il compito di assicurarne i requisiti minimi di uniformità

162. Tanto questi requisiti minimi di uniformità che questi principi gene-

rali di organizzazione non sembrano, peraltro, ascrivibili alla competen-za statale fissata dall’art. 117, comma 2°, lett. p): da un lato non lo sono nelle intenzioni manifeste della stessa legge

163, dall’altro sono cosa evi-dentemente diversa dalle funzioni e dagli organi fondamentali

164. Vero è,

162 Conformemente a quanto previsto dagli artt. 114, 117, comma 6°, e 118 Cost. 163 Che fa altresì riferimento a questa competenza statale all’art. 2, allorché prevede

una delega al Governo per il suo esercizio. 164 Una uniformità organizzativa a carattere generale, ancorché minimale, di difficile

compatibilità con il nuovo sistema costituzionale (in merito al quale cfr., per tutti, A. CORPACI, L’incidenza della riforma del Titolo V, cit., 45 ss.; F. MERLONI, Il destino del-l’ordinamento degli enti locali, cit., passim).

PRINCIPIO E MODELLI DELLA DIFFERENZIAZIONE AMMINISTRATIVA 331

infine, che affidare alla legge regionale la definizione di requisiti minimi di uniformità ne sottintende, inevitabilmente, la differenziabilità (fra en-ti di Regioni diverse).

6. Il ruolo della legislazione (statale e regionale) di fronte ad una amministrazione differenziata. Dalla garanzia dell’uniformità nel-l’amministrazione alla garanzia nella legge: verso una differenzia-zione amministrativa “ad effetto equivalente”

Giunti a questo punto della nostra ricostruzione, è possibile afferma-re come la fuga verso la differenza sia ora un dato di fatto, come prima era stata una tendenza, nell’attuale quadro di diritto positivo italiano: il che si traduce nell’affermazione della differenziazione nelle sue diverse declinazioni, amministrativa e normativa.

L’attribuzione della potestà legislativa allo Stato od alle Regioni deli-nea il livello territoriale su cui si articola l’uniformità, come applicabilità del modello relazionale dell’uguaglianza, come possibilità di individuare un tertium comparationis.

L’apertura alla differenziazione amministrativa (organizzativa, in pri-mo luogo) non può comportare una differenziazione nel godimento ter-ritoriale di un diritto: è strumento per realizzare un’uguaglianza plurale, affidata alla legge, non strumento per creare (di per sé) disuguaglianza.

Da qui, però anche, l’esigenza di una nuova modalità di intervento pub-blico, che non affidi più ad una (superata) uniformità/microregolazione or-ganizzativa la cura di situazioni giuridiche sfumate, ma che fondi su una diversa qualità della legislazione, centrata sulla attenta disciplina dei diritti, la tutela di situazioni giuridiche poi suscettibili di essere curate attraverso percorsi diversi da amministrazioni differenziate

165. L’abbandono della garanzia posta, con l’uniformità amministrativa, a

presidio dell’uguaglianza tra i cittadini, impone allora una ridefinizione del ruolo della legge ed una più consapevole attenzione in merito alla

165 Un sistema che, nel suo rinnovarsi richiama la eco dell’antico: un’amministrazione che, vieppiù perduta la sua monoliticità «torna a rivestire i panni, pluralistici e plurisog-gettivi, dell’amministrazione dell’ordine antico» (L. MANNORI-B. SORDI, Storia del diritto amministrativo, cit., 528). Un sistema, quindi, nel quale l’amministrazione è, sempre più, «un grande bacino nel quale una quantità di soggetti adempiono insieme e secondo l’ordine delle cose al dovere di rendere servizi al pubblico» (come già ravvisava G. BERTI, Amministrazione e Costituzione, in Dir. amm., 1993, 457).

LO STATO DIFFERENZIATO 332

definizione del contenuto dei diritti e degli interessi, attivabili in sede giurisdizionale

166, così da portarli a garantire, autonomamente, una pa-rità “delle condizioni di vita” che non passi più attraverso un “pariforme sistema” delle amministrazioni.

Il modello cui fare riferimento è allora forse quello tradizionalmente proprio del sistema comunitario, il quale non fissa modelli organizzativi, ma definisce i diritti in maniera talmente dettagliata, anche tecnicamen-te, da far sì che le modalità organizzative divengono sostanzialmente ir-rilevanti, atteso che si raggiunga l’effetto voluto dalle norme dell’Unione. In quest’ottica, i diritti devono poter essere attivabili per via giudiziale, cosicché si crei un meccanismo virtuoso di responsabilità che garantisca il risultato, quali che siano i percorsi attraverso i quali a questo risultato si giunge. Si tratta, cioè, di assumere, nell’ordinamento interno, una tecnica di regolazione che miri a tutelare i diritti sostanziali, prescin-dendo dall’unicità dei percorsi, strumentalmente rivolti a questa garan-zia. La transizione da un sistema fondato sull’uniformità, ad un sistema fondato sulla differenziazione, ovvero su una logica di “modalità diffe-renziate ed equivalenti”, non appare, però, semplice

167. Il passaggio ad una «più evoluta logica della equivalenza»

168, non de-ve però condurre a trascurare quei valori che trovavano, nel passato si-stema, una, pure incompleta, forma di tutela. Sembra, in conclusione, potersi affermare l’esigenza di costruire un modello coerente di diffe-renziazione, nel quale, all’abbandono ormai ineludibile delle rigidità e delle incongruenze proprie di un sistema di uniformità

169, si accompagni una attenzione ancora maggiore per una garanzia uniforme di un livello essenziale di cittadinanza.

166 Pare, ad esempio, interessante il modello spagnolo che, guardando appunto al dato sostanziale, sancisce il diritto dei cittadini «ad esigere la prestazione e, se del caso, l’istituzione del corrispondente servizio pubblico, quando esso costituisca una funzione comunale propria di carattere obbligatorio»: cfr., in merito, L. VANDELLI, Poteri locali, cit., 386.

167 Si tratta, in effetti, di un dato caratteristico dei sistemi di derivazione francese e non del solo sistema italiano: se la “rigida astrattezza” dell’uniformità ha ormai evidenzia-to i propri limiti, pare evidente «che le differenziazioni organizzative […] hanno riguar-dato situazioni ed aspetti marginali»: la riflessione di L. VANDELLI (Poteri locali, cit., 350) era precedente alla recente stagione di riforme che ha caratterizzato l’ordinamento italia-no, ma, seppure in parte superata dai successivi sviluppi normativi, non sembra total-mente insuscettibile di essere riferita all’attuale sistema italiano.

168 Così L. TORCHIA, La modernizzazione del sistema amministrativo, cit., 332. 169 Il che, di nuovo, lascia intendere la resistenza di un modello fondato sull’unifor-

mità, sulla scorta delle riflessioni, già evidenziate, di L. TORCHIA, per la quale la logica regola/deroga caratterizza, inevitabilmente, i sistemi che restano fondati su un disegno uniforme (ID., ult. op. cit., 333).

PRINCIPIO E MODELLI DELLA DIFFERENZIAZIONE AMMINISTRATIVA 333

È un compito, questo, affidato alla legge dello Stato, ai livelli essen-ziali delle prestazioni, ma anche, ad un livello diverso, alla stessa legge regionale. La disciplina formale dei diritti, la garanzia di un contenuto essenziale uniforme fruibile su tutto il territorio, è il limite ed il confine di una differenziazione amministrativa che è (deve essere) strumentale al loro perseguimento, non già ostacolo alla loro realizzazione. In questo senso appaiono come incongruenze quelle discipline locali che, astrat-tamente organizzative, finiscono per definire il concreto contenuto di una situazione giuridica come differenziato a livello infraregionale: asili nido, servizi sociali, gli esempi sono (già) molteplici

170. La differenziazione dei percorsi deve produrre equivalenza nei risul-

tati, non deve essere strumento che moltiplica la differenza: una ammi-nistrazione “ad effetto equivalente” (di nuovo, l’attenzione è sul risulta-to), non già una amministrazione “differenziante” per la via dell’orga-nizzazione.

Occorre, allora, probabilmente ripartire dai diritti, definendoli in modo articolato, oltre che uniforme, attraverso la legge (nell’ambito di efficacia della legge stessa) ed attraverso la fondamentale funzione stata-le di determinazione dei livelli essenziali. Tale ultimo strumento può consentire, come visto, almeno nel “cuore vivo” delle posizioni soggetti-ve di rango costituzionale “organizzativamente condizionate”, anche un recupero di taluni vincoli organizzativi, a garanzia di un diritto che però deve trovare in sé (nella sua attenta definizione) la propria primaria tu-tela, non più in una presunta azione omogenea di amministrazioni uni-formi, ponendosi quindi esso stesso quale garanzia di una uguaglianza che non deve essere più demandata al ruolo dell’amministrazione

171. In quest’ottica, allora l’amministrazione potrebbe meglio definirsi qua-

170 Una distinzione che riecheggia quella di M. NIGRO tra “sostanza tipica” e “sostanza eventuale” della regola di organizzazione: in presenza di quest’ultima, la funzione orga-nizzatrice arriva direttamente a disciplinare i rapporti giuridici (cfr. ID., Studi sulla fun-zione organizzatrice, cit., 145-147).

171 Tornando, brevemente, alle “radici” del modello di amministrazione che sin qui abbiamo esaminato, merita attenzione, al fine delle nostre conclusioni, la nota valutazio-ne di A. DE TOCQUEVILLE (La democrazia in America, cit., 142), per il quale si dovrebbe “decentrare in amministrazione ed accentrare in politica”: come spesso accade, le rifles-sioni di questo autore, estrapolate dal contesto da cui sono scaturite, acquistano una for-za esplicativa propria e divengono un’utile guida all’approfondimento. Seguendo que-st’impostazione, ma riparametrandola in ragione delle nostre riflessioni e delle nostre e-sigenze, potremmo immaginare un modello in cui si dovrebbe “differenziare attraverso l’amministrazione” e “uniformare attraverso la legge”.

LO STATO DIFFERENZIATO 334

le organizzazione preposta alla garanzia di una uniformità “nelle con-dizioni di vita”

172, fissata dal legislatore anche attraverso vincoli organiz-zativi, ma non più attraverso l’imposizione di modelli uniformi di am-ministrazione.

172 Si tratta, come rileva L. VANDELLI (Poteri locali, cit., 384), di «spostare la prospetti-va dalla pretesa di mantenere una astratta omogeneità organizzativa a realtà diverse, al perseguimento di un – ben distinto – obiettivo di garantire un minimo uniforme di servizi e prestazioni che tutti i cittadini hanno diritto di ricevere dalle istituzioni pubbliche».

POST SCRIPTUM

Resistibile o irresistibile ascesa della differenziazione? Spunti per proseguire alla ricerca delle ragioni (metagiuridiche) dei processi in atto

Qui l’analisi giuridica si arresta, ad altri il compito di articolare una riflessione sulle cause che hanno portato a questa transizione di model-lo, alla definizione di un assetto costituzionale basato su nuovi equilibri, dei quali abbiamo esaminato le manifestazioni giuridiche. Pure, in con-clusione, qualche breve considerazione sulle ragioni di fondo di processi che, peraltro, attraversano od hanno attraversato numerose realtà na-zionali.

Quali, in altre parole, i motivi (infrastrutturali) di un processo dalle emersioni normative così evidenti, quali i fondamenti (storici, politici, culturali, sociali, tecnologici) che spingono, giustificano e supportano il movimento da un sistema dai tratti fortemente (formalmente) uniformi ad un sistema fortemente (di nuovo, formalmente) differenziato?

Le ragioni sono molteplici, ed in parte sono emerse nell’arco della ri-costruzione sin qui operata: d’altra parte i fenomeni che possiamo ri-condurre entro le nozioni di uniformità/differenziazione non sono tra loro uguali, cosicché le ragioni fondanti i diversi processi in realtà non sempre coincidono.

Ancora, la tendenza alla differenziazione è frutto di un processo risa-lente, di recente concretizzazione, che vede incrociarsi una serie di forze storiche, alcune delle quali già in via di superamento, nei veloci tempi della società post-moderna

1.

1 In numerosi autori delle scienze sociali, in realtà si avverte l’esigenza di distinguere le diverse fasi della “modernità” e della “post-modernità”: il tema della “complessità” si colloca allora (con i suoi corollari di “necessaria incertezza” ed “irriducibilità”) più pro-priamente nella dimensione del post-moderno. Sul tema modernità-post modernità, v., per un approccio generale, D. HARVEY, La crisi della modernità cit. (spec. 40 ss.), e, con

LO STATO DIFFERENZIATO 336

Da questo punto di vista, merita di analizzare solo i fenomeni della autodifferenziazione: l’eterodifferenziazione, in realtà, è frutto e retaggio del vecchio, prima che del nuovo ordine (seppure nel nuovo ordine non manchi di manifestarsi). Le ragioni di una eteroregolazione differenzia-ta non appaiono poi diverse da quelle che già i primi commentatori (e critici) dell’uniformità evidenziavano: l’inefficienza di un sistema che vuole riferire regole uguali a soggetti diversi.

Una riflessione, quindi, sulle ragioni metagiuridiche della spinta al-l’autodifferenziazione.

La tecnologia, come spesso accade, è la ragione prima: quella che con-sente che avvengano fenomeni che prima non potevano avvenire (senza che, però, da sola appaia sufficiente a spiegare perché certi fenomeni av-vengono). Questo è evidente, in particolare, in relazione al versante or-ganizzativo: diviene ora fattibile verificare l’uguaglianza partendo dai ri-sultati, non è più necessario predeterminarla attraverso meccanismi in grado di trasferire uniformemente il comando normativo (“come fluido elettrico”). Non è un caso, allora, che lo Stato, nelle recenti riforme che hanno caratterizzato il nostro ordinamento, si sia riservato la compe-tenza in ordine ai flussi delle informazioni

2: è ora possibile fondare su meccanismi diversi ciò che prima era affidato all’uniformità delle am-ministrazioni.

Questo è in parte vero anche sul versante “normativo”: è di nuovo possibile muovere dai risultati, senza che l’uguaglianza debba realizzarsi in astratto (attraverso la legislazione) a monte, dal momento che può re-alizzarsi in concreto (attraverso i “livelli essenziali”) a valle. Che questa uguaglianza (di base, ma reale) sia peggiore, per chi è chiamato a go-derne, della precedente (paritaria, ma virtuale) è opinabile, per quanto non possa tacersi il lato problematico che questo nuovo modello prefi-gura

3. Il mercato è l’altra forza che, storicamente, sembra aver supportato

(se non determinato) l’apertura alla differenziazione 4. Cosa strana a dir-

una serie di spunti molto originali, E. LASZLO, L’evoluzione della complessità e l’ordine mondiale contemporaneo, in G. BOCCHI-M. CERUTI, La sfida della complessità, cit., 362 ss.

2 Art. 117, comma 2°, lett. r). 3 «Si tratta di spostare la prospettiva dalla pretesa di mantenere una astratta omoge-

neità organizzativa realtà diverse, al perseguimento di un – ben distinto – obiettivo di ga-rantire un minimo uniforme di servizi e prestazioni che tutti i cittadini hanno diritto di ricevere»: una uniformità delle “condizioni di vita” (così, in relazione peraltro alla dimen-sione amministrativa dell’uniformità, L. VANDELLI, Poteri locali, cit., 384).

4 «La globalizzazione, si pensa, richiede e nonostante tutto tende a produrre […] un potenziamento delle sedi locali del potere […]. Si tratta di elementi convenienti per bilan-

POST SCRIPTUM 337

si, se si riflette sul fatto che i fenomeni di uniformazione ed unificazione hanno storicamente e tradizionalmente trovato proprio nelle forze commerciali i loro primi alleati: vero è che probabilmente occorre scom-porre le diverse tensioni interne a questa dimensione

5. Le recenti cate-gorie del pensiero politico ed economico ci aiutano nell’analisi: globaliz-zazione e localismo sono forze che si convalidano l’una con l’altro, sia in termini meccanici, che in termini valoriali

6. Quindi, seguendo questa impostazione, mentre determinate esigenze trovano nella dimensione nazionale (di più, sopranazionale)

7 uniforme la loro soddisfazione 8, al-

tre la cercano nella dimensione locale differenziata 9.

Seguendo i fuochi dell’uniformità, i processi di trasferimento di so-vranità e competenze verso l’Unione e le organizzazioni sovranazionali, possiamo rintracciare le forze che mirano ad una uniformità per la qua-

ciare l’uniformità e l’accentramento che la globalizzazione determina, tendendo a privare la politica, la società, la cultura, ma anche la stessa economia di quella misura di auto-nomia indispensabile alla loro creatività» (così U. ALLEGRETTI, Diritti e Stato nella mon-dializzazione, cit., 247).

5 Come sembra suggerirci Natalino Irti, il quale da ultimo evidenzia le tensioni diffe-renti entro il mondo dei rapporti privatistici, con contrastanti spinte all’uniformità ed alla differenziazione. Una sintetica ricostruzione di queste diverse tendenze è fornita dallo stesso N. IRTI (L’età della decodificazione vent’anni dopo, cit., 193 ss.).

6 Così, di nuovo, U. ALLEGRETTI (Diritti e Stato nella mondializzazione, cit., 19) rileva come la creazione di “estese uniformità”, frutto della mondializzazione sia “doppiato” da «ripiegamenti e di volta in volta arricchimenti localistici, assieme a frammentazioni, se-parazioni e complicate relazioni tra gruppi, comunità trasversali, regioni e territori».

7 Da rilevare, peraltro, come si tratti spesso di un’uniformità a-statuale prima che so-vra-statuale, nel senso che viene generata prima ancora che da leggi uniformi (UNI-DROIT), o da processi di armonizzazione dalla circolazione di modelli contrattuali uni-formi: «a crearli non sono i legislatori nazionali, ma sono gli uffici legali delle grandi multinazionali […] il loro nome […] testimonia l’origine americana di quei modelli; ma dal paese di origine leasing, franchising, performance bond così via si sono propagati […]» (così F. GALGANO, Lex mercatoria, Bologna, 2001, 235). Si tratta di modelli che non hanno nazionalità, ma hanno un valore che gli deriva dall’uniformità internazionale che deter-minano.

8 In particolare, la deterritorializzazione è una tendenza che caratterizza una serie di fenomeni economici: cfr. N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, cit., spec. 24 e 82 ss.: così la “rappresentazione politica del mondo” si scontra ora con una volontà di «déterritoriali-ser l’économie et construire un espace fluide et homogène» (P. ROSANVALLON, Le libérali-sme économique: histoire de l’idée de marche, Paris, 1989, 107)

9 Da questo punto di vista, il riferimento principale per l’analisi dei processi è dato dalle scienze economiche: in particolare gli studi riconducibili al c.d. teorema della decen-tralizzazione rintracciano nel finanziamento locale dei servizi fruiti a livello locale una fonte di ampliamento del benessere collettivo. La distribuzione uniforme di servizi pub-blici ne causa, secondo questa prospettiva, la loro fruizione non completa (dal momento che non tiene conto delle preferenze e delle differenze locali), il che provoca una perdita di benessere. Questo teorema è stato sviluppato da W.E. OATES (v. ID., Federalismo e fi-nanza pubblica, cit., 75 ss.).

LO STATO DIFFERENZIATO 338

le, sempre più, non è più sufficiente la stessa dimensione nazionale. Se-guendo le materie della differenziazione, possiamo, altresì, individuare le dimensioni del locale, come luogo dove si realizzano politiche diffe-renziate e quindi competitive, come luogo dove risulta ancora possibile difendere posizioni economiche dalla concorrenza sovranazionale prima ancora che nazionale

10. Tematiche, queste, che possono essere affrontate secondo gli stru-

menti concettuali della c.d. globalizzazione, fenomeno che, nel momen-to in cui mette in crisi “lo Stato nazione” realizza «un forte impulso e una forte logica a favore di una devoluzione del potere verso il basso»

11. La prospettiva globale-locale diviene allora, centrale per spiegare pro-cessi che, nel decennio passato, hanno condotto, in numerose democra-zie di diversa tradizione, ad un forte decentramento autonomico

12. La complessità, crescente nelle società contemporanee, avvalora, an-

cora, questo processo, in modo però non univoco. Da un lato una realtà accentrata ed uniforme non è in grado di far fronte ad un numero cre-scente di domande. La crisi dello Stato

13 diviene, allora crisi della legge e dell’uniformità (nell’organizzazione, ma in modo ancora più evidente nella legislazione), ma la differenziazione è realmente la risposta corret-

10 Come rileva L. ANTONINI (Il regionalismo italiano nella prospettiva della differenzia-zione, cit., 305), a livello di teoria economica «[...] è perlomeno chiaro che la globalizza-zione ha ridotto i benefici delle comunità sub-nazionali di appartenere ad un singolo Sta-to. La dimensione efficiente del mercato è ormai quella mondiale».

11 Né la dimensione locale né quella sovranazionale appaiono sufficienti per analizza-re i processi in atto: così, a livello istituzionale, come già a livello economico, lo Stato na-zionale è da tempo attraversato da tensioni che ne riducono il ruolo, sia verso il basso che verso l’alto. Cfr. G. ROSSI e A. BENEDETTI, La competenza legislativa statale esclusiva, cit., spec. 23. In questo senso, ricerca di uniformità sovranazionali ed aspirazioni alla diffe-renziazione infrastatuale sono l’una legata all’altra, secondo una dinamica peraltro non nuova nello scenario europeo: sul punto cfr. P.P. PORTINARO, Stato, cit., p. 157.

12 Una crescente federalizzazione di sistemi unitari ed al contempo «l’arresto della precedente rincorsa alla centralizzazione» negli Stati già federali: sul punto v. G. BO-GNETTI, voce Federalismo, in Dig. disc. pubbl., Agg., 2000, 280 ss.; tali processi, nello sce-nario continentale, si legano a quello della costruzione europea: «la “regionalizzazione” come criterio di organizzazione degli interessi e delle volontà politiche si è andata affer-mando in Europa: è oggi la regola, non l’eccezione» (così, da ultimo, M. CACIAGLI, Regioni d’Europa. Devoluzioni, regionalismi, integrazione europea, Bologna, 2003, 9). Per una ri-flessione ruolo delle autonomie territoriali anche nella prospettiva della c.d. globalizza-zione, v. anche, sinteticamente, A. BARBERA, Il governo locale nell’economia globale, in Ist. del federalismo, 1999, 1095 ss.

13 Fenomeno, questo, come già ricordato oggetto di una lettura non univoca. Così, da ultimo, G. DELLA CANANEA, ritiene che il fenomeno, per la sua complessità, non possa es-sere sintetizzato e semplificato né in termini di crisi dello Stato, né in termini di fonda-mento economico (infrastrutturale) di questa crisi: cfr. ID., I poteri pubblici nello spazio globale, in Riv. trim. dir. pubbl., 2003, spec. 2-4.

POST SCRIPTUM 339

ta a questa crisi? Da un lato sembra di sì, ed in effetti la crescita della complessità delle organizzazioni e delle regole è un dato acquisito come tendenziale ed inerziale nei sistemi pluralistici contemporanei. D’altro canto, però, proprio per questo, le strutture formali sono chiamate a go-vernare questo processo, non unicamente ad assecondarlo, ma anzi ad operarne, finché possibile ed efficiente, la riduzione

14. Non a caso una delle parole d’ordine delle recenti regolazioni pubbliche è stata la “sem-plificazione”

15. Il meccanismo della “trappola della pari complessità” è d’altra parte

noto: le strutture formali rischiano, in risposta alle domande diversifica-te, di aumentare la propria complessità, finendo così per favorire la cre-scita di domande ulteriormente diversificate, in un circolo vizioso

16. La differenziazione del reale spinge ad una differenziazione delle strutture formali che, se realizzata, si traduce sì in una adaequatio rei et iuris, ma può contribuire a produrre ulteriore differenziazione.

La crisi dell’uniformità può essere letta, allora, in primo luogo come incapacità del “centro” di governare la generalità dei processi e di ri-spondere ad un numero crescente di domande

17. Si tratta però di una

14 Ed «è proprio in una fase di decodificazione e di disgregazione del diritto, che l’appello alla Costituzione rappresenta il più valido metodo per ristabilire un minimo di compattezza, di coerenza e di giustizia nell’ordinamento” (dei rapporti civilistici, L. PA-LADIN., Costituzioni, preleggi e codice civile, cit., 89).

15 L’ampiezza dei fenomeni (e delle politiche pubbliche) ricondotti e riconducibili alla semplificazione (delle regole, delle fonti, del linguaggio, dei procedimenti, del procedi-mento, delle organizzazioni, ecc.) è ben rappresentato, da ultimo, dall’agile volume di A. NATALINI (Le semplificazioni amministrative, Bologna, 2002).

16 Così per L. GALLINO, voce Norma sociale, in Dizionario, cit., 460. Ogni mutamento che accresce la complessità della struttura sociale, comporta lo sviluppo di sistemi sociali che, entro certi limiti, richiedono dosi più elevate di attività regolatrici per poter funzio-nare a livelli tollerabili di efficienza, e tale funzione è fornita principalmente dal diritto: cfr. ID., voce Diritto, ivi, 236. L’analisi delle scienze sociali ci mostra, da un lato, le conse-guenze, in termini di anomia, devianza, violazione (anche funzionale) delle norme, legate ad un eccessivo riduttivismo delle istituzioni formali ed, in particolare, delle cornici nor-mative. Ci mostrano però anche, d’altro lato, il rischio della “trappola della pari comples-sità”: le istituzioni, cercando di regolare realtà complesse con norme altrettanto comples-se, diversificate, differenziate e settoriali, finiscono per determinare una crisi del sistema, causata da una “esplosione della complessità del sistema stesso”. La incessante estensione e differenziazione del sistema giuridico, a fronte della crescita della complessità sociale, non è un fenomeno che si possa considerare inarrestabile e progressivo, posto che i costi sociali di una esasperata normazione giuridica sono ormai del tutto evidenti: cfr., in que-sto senso, N. LUHMANN, La differenziazione del diritto, cit., spec. 62 ss.

17 Così L. MARIUCCI (Il federalismo cooperativo, cit.), rileva come «[t]utti corrono di-speratamente verso il centro per sapere qual è il loro destino. E non si prende atto che è un centro che non funziona più, che non è più in grado di metabolizzare i processi deci-sionali». La “crisi dello Stato” (declino del ruolo dello Stato e delle fonti statuali, in parti-

12.

LO STATO DIFFERENZIATO 340

tendenza cui le strutture formali devono almeno in parte resistere 18, af-

fidando eventualmente a strumenti diversi la tenuta del tessuto unitario. Ragioni, tutte queste, che convalidano il processo, lo supportano e lo

rendono possibile, ma ne sono la causa? Forse, a ben vedere, le cause sono altre, e più contingenti.

La riduzione del pubblico 19 non sembra estranea a questa tendenza:

l’incapacità (del bilancio) dello Stato di far fronte alle domande di un si-stema democratico pluralistico spinge a ripartire tra una molteplicità di soggetti la responsabilità politica delle scelte. Il prefigurarsi di talune opzioni impopolari suggerisce di ripartirle tra i doversi soggetti che compongono l’ordinamento.

L’impossibilità per la politica, a fronte di un vincolo di bilancio, di soddisfare domande crescenti, e, più ancora, di garantire servizi costan-ti, favorisce la ripartizione tra i diversi livelli di governo della responsa-bilità del mantenimento di un elevato prelievo fiscale e/o della riduzione dei servizi alla collettività

20. Il che non deve però essere letto solo ed unicamente come processo

che avvalora la riduzione della spesa pubblica: la tendenziale colloca-zione dei diritti costosi tra ciò che è differenziabile, è espressione, an-che, del tentativo di ricercare una dimensione dove il costo dell’inter-vento pubblico più facilmente può continuare ad essere accettato dalla

colare della legge: «[l]o Stato nazionale domina ancora la geografia […] ma la sua forza storica, i suoi fuochi culturali sono già dietro le spalle. […] Altre sovranità si costituisco-no, altre identità esigono riconoscimenti. Lo Stato nazionale è stato svuotato dall’alto e dal basso, dall’esterno e dall’interno»: così per S. RODOTÀ, Repertorio di fine secolo, cit., 59) è diffusamente riconosciuta, seppure diversamente valutata soprattutto in relazione alle conseguenze che possono scaturirne: tra gli altri, cfr. S. CASSESE, La crisi dello Stato, cit., e, più brevemente, ID., L’erosione dello Stato: una vicenda irreversibile?, in Rass. Parl., 2001, 11 ss.; U. ALLEGRETTI, Diritti e Stato nella mondializzazione, cit., spec. 16-17.

18 Di nuovo N. LUHMANN (La differenziazione del diritto, cit., 73 et passim) ci ricorda la funzione del diritto come creatore di certezza e prevedibilità, ed in quanto tale necessaria fonte di riduzione dell’aleatorietà di un sistema estremamente complesso e differenziato. L’evoluzione di un sistema ne comporta la crescita di complessità, cosicché lo sviluppo stesso di un sistema (in quanto tale) richiede la contestuale azione di altri “meccanismi dell’evoluzione”: la selezione e la stabilizzazione delle molteplici variabili (ivi, p. 43).

19 Sulla riduzione del pubblico e le connesse privatizzazioni (vere o presunte) cfr. M. DUGATO, La riduzione della sfera pubblica?, in Dir. amm., 2002, 169 ss.; sul punto v. da ul-timo, l’ampia ricostruzione di G. NAPOLITANO, Pubblico e privato nel diritto amministrati-vo, Milano, 2003.

20 Un federalismo per abbandono, secondo la definizione data da F. PIZZETTI dei pro-cessi che hanno caratterizzato il sistema “con significativa costanza” a partire dal 1992 e poi in modo organico attraverso il processo delle c.d. leggi Bassanini (cfr. ID., Federali-smo, regionalismo e riforma dello Stato, cit., 67 ss.; ma anche ID., Intervento, in A. PACE (a cura di), Quale, dei tanti federalismi?, cit., 346-347).

POST SCRIPTUM 341

popolazione, che, sussidiariamente vicina, è in grado di percepire le ri-cadute sociali delle scelte e quindi di sopportarle.

Certo, nel nuovo modello, i rischi sono forti: il principale pericolo è quello di una competizione territoriale che spetta alla dimensione cen-trale contenere, ma che può essere agevolmente esaltata e promossa da precise scelte politiche del governo e del parlamento nazionale.

Ammettendo come generale criterio la differenziazione dell’ammi-nistrazione, si riduce, inoltre, progressivamente la dimensione inerziale, sottratta alla scelta politica di breve periodo, dell’organizzazione

21. Di-viene, in altri termini, agevole immaginare che nell’universo del possibi-le politico entri, attraverso i nuovi modelli prefigurati dalla riforma, un’ampia disponibilità in ordine al godimento dei diritti costosi sul terri-torio tramite scelte politiche puntuali e prive di resistenze inerziali

22. Né questa tendenza appare irrilevante nell’evoluzione del sistema istituzio-nale italiano: la riduzione degli spazi sottratti alla disponibilità della po-litica, pure costituzionalmente previsti, passa attraverso una complessa opera di destrutturazione dell’amministrazione (della burocrazia) come potere altro rispetto alla politica stessa.

In conclusione, quello sinora esaminato, è un fenomeno qui affronta-to sotto il versante della territorializzazione dei diritti in ragione del-l’organizzazione che l’ordinamento si dà, che può essere anche colto at-traverso l’analisi della crescente rottura dell’individuo universale attra-verso categorizzazioni diverse, fondate su coordinate differenti rispetto alla residenza geografica.

Uniformità/differenziazione come espressione, quindi, nella dimen-sione dell’appartenenza territoriale, di un processo più generale, nel quale si stempera una visione universalistica dell’individuo rispetto ad un approccio settoriale, particolare, parziale. In questo contesto, com-

21 Tema, questo, che solo indirettamente si lega a quello, oggetto di attente riflessioni, degli ambiti suscettibili di essere oggetto di decisione democratica (rectius maggioritaria): tema sinteticamente ed efficacemente trattato, da ultimo, da P. PASQUINO, Il giudice e il voto, in Il Mulino, 2003, 803 ss., in ordine al quale è attualmente forte il dibattito, in pri-mo luogo a livello politologico (sul punto, v., tra gli altri, già ID., Le autorità non elettive nelle democrazie, in Il Mulino, 2001, 596 ss.). Non tanto, quindi, il problema delle “deci-sioni sottratte alla maggioranza” (perché insuscettibili di essere imposte alla minoranza: fede, convinzioni sessuali, ecc.), quanto dei limiti inerziali alla scelta politica, capace quindi di incidere in profondità su determinati ambiti solo nel medio-lungo periodo. Tali spazi sembrano, in realtà, quelli più profondamente messi in discussione dalle recenti politiche pubbliche: ruolo della burocrazia, regime dei beni pubblici, ecc.

22 Esemplificando: una riduzione delle prestazioni assistenziali attraverso una rimo-dulazione del “livello essenziale”, non già attraverso una diretta riduzione delle strutture organizzative preposte a garantire la soddisfazione del corrispondente diritto sociale.

LO STATO DIFFERENZIATO 342

plessivamente inteso, l’uniformità degli individui si perde, in favore della differenziazione operata tra categorie, classi, gruppi, sempre più parti-colari e parziali

23. In un tale quadro, la crisi della legge è crisi anche della società, nella

quale le forze centrifughe determinano una perdita della capacità di “ri-composizione del mosaico” nell’individuo “universale”

24. È una tenden-za, anzi più di una tendenza, attraverso la quale entra in risonanza lo stesso principio di uguaglianza, che determina sì il riconoscimento del pluralismo e della differenza, ma anche la riduzione degli spazi in cui si possono sviluppare quei tratti unitari ed egalitari che avevano fondato la stessa affermazione dello Stato moderno.

23 Si è verificata, in effetti, anche a fronte dell’inefficienza dell’azione statale, una “fu-ga dall’egualitarismo”, per cui «molte categorie hanno cercato di sfuggire alla qualità sca-dente dei servizi pubblici offerti indiscriminatamente alla generalità, avanzando pretese differenziate in ragione delle esigenze particolari degli appartenenti alle varie categorie» (G. ARENA, Valori costituzionali e ruolo dell’amministrazione, cit., 17).

24 Cfr. A. ORSI BATTAGLINI, L’astratta e infeconda idea, cit., 69 ss.

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Finito di stampare nel mese di maggio 2004

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