Lettere da un inferno futuro. August Strindberg, dieci appunti nella vita del "Padre"

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LETTERE DA UN INFERNO FUTURO AUGUST STRINDBERG, DIECI APPUNTI NELLA VITA DEL PADRE Marco Dotti ... in questi uomini che sono assieme donne, in queste creature che sulla faccia visibile portano l’invisibile e ambigua maschera dell’Ermafrodito, è anche un misterioso istinto di madre; e tutte le cose essi le considerano con materna proprietà, come se le avessero generate. Bisogna capire la loro intolle- ranza, e perdonarla. Alberto Savinio, Ascolto il tuo cuore, città 1. «Povera la mia piccola Siri». Esordiva così August Strindberg in una lettera del 7 maggio 1876. Lettera scritta una «domenica po- meriggio» e indirizzata alla ventiseienne finlandese Siri von Essen, 1 baronessa Wrangel. Al tempo, Siri gli appariva «tanto triste», quanto fragile. Eppure la sua tristezza non si rivelava negativamente conta- giosa, al contrario svelava sintomi di una vitalità allo stato nascente. La fragilità affettiva, d’altra parte, non generava ancora noncuranza innestando quel corto circuito esistenziale, quel dispendioso accu- mulo energetico e umorale che, nel 1892, portò August Strindberg al divorzio proprio dalla von Essen, sposata in prime nozze (prime per lui, seconde per lei) il 30 dicembre di quattordici anni prima. Per Strindberg, Siri aveva accettato di accollarsi, con tutte le conseguenze legali e morali del caso, la responsabilità della rottura di un altro matrimonio, quello con il barone e ufficiale della Guardia Svedese Carl Gustaf Wrangel af Sauss. 1 Sigrid (Siri) von Essen (18501912) era nata da madre svedese e padre finlandese. Al tempo, la Finladia faceva parte dell’Impero Russo. 283 estratto da: Saveria Chemotti (ed.), Padri nostri. Archetipi e modelli delle relazioni tra padri e figlie, Il Poligrafo, Padova 2010, pp- 281-298.

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LETTERE DA UN INFERNO FUTUROAUGUST STRINDBERG, DIECI APPUNTI

NELLA VITA DEL PADRE

Marco Dotti

... in questi uomini che sono assieme donne, in queste creature che sulla faccia visibile portano l’invisibile e ambigua maschera dell’Ermafrodito, è anche un misterioso istinto di madre; e tutte le cose essi le considerano con materna proprietà, come se le avessero generate. Bisogna capire la loro intolle-ranza, e perdonarla.

Alberto Savinio, Ascolto il tuo cuore, città

1.

«Povera la mia piccola Siri». Esordiva così August Strindberg in una lettera del 7 maggio 1876. Lettera scritta una «domenica po-meriggio» e indirizzata alla ventiseienne finlandese Siri von Essen,1 baronessa Wrangel. Al tempo, Siri gli appariva «tanto triste», quanto fragile. Eppure la sua tristezza non si rivelava negativamente conta-giosa, al contrario svelava sintomi di una vitalità allo stato nascente. La fragilità affettiva, d’altra parte, non generava ancora noncuranza innestando quel corto circuito esistenziale, quel dispendioso accu-mulo energetico e umorale che, nel 1892, portò August Strindberg al divorzio proprio dalla von Essen, sposata in prime nozze (prime per lui, seconde per lei) il 30 dicembre di quattordici anni prima. Per Strindberg, Siri aveva accettato di accollarsi, con tutte le conseguenze legali e morali del caso, la responsabilità della rottura di un altro matrimonio, quello con il barone e ufficiale della Guardia Svedese Carl Gustaf Wrangel af Sauss.

1 Sigrid (Siri) von Essen (1850–1912) era nata da madre svedese e padre finlandese. Al tempo, la Finladia faceva parte dell’Impero Russo.

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estratto da: Saveria Chemotti (ed.), Padri nostri. Archetipi e modelli delle relazioni tra padri e figlie, Il Poligrafo, Padova 2010, pp- 281-298.

Il barone, che inizialmente partecipò e probabilmente favorì un ménage à trois con Siri e il giovane Strindberg,2 da parte sua già da tempo tradiva la moglie con una cugina3 e, fatto non privo di rilievo, versava in condizioni economiche prossime al disastro. Condizioni abilmente nascoste a superiori e familiari, fatto che, in base alla le-gislazione allora vigente, in caso di divorzio avrebbe comportato un addebito nei suoi confronti. Ma Siri preferì soprassedere, accollandosi colpa e conseguenze economiche della separazione.

Grazie a Strindberg, Siri aveva infatti riannodato i fili con quella che riteneva essere la sua vera vocazione – il teatro – e questo le bastava. L’oramai ex baronessa fece così il suo debutto sulla scena il 27 gennaio 1877, quattordici giorni dopo la morte di Sigfrid, figlia sua e di Carl Wrangel. Il 13 maggio dello stesso anno, però, Siri per-se anche la madre. Ma un’altra storia si apprestava a sconvolgere il ménage (oramai a due) Strindberg-von Essen. Il giorno delle nozze con August, il 30 dicembre 1877, Siri si scoprì incinta di sette mesi. La bambina nascerà il 21 gennaio 1878, ma padre e madre, temendo un nuovo e di certo più rumoroso scandalo, decisero di registrarla come figlia di anonimi e la affidano a una balia: dopo due giorni, la bambina morì gettando la von Essen nello sconforto finale, ma consegnando Strindberg (ormai lanciato verso altri scandali e altri insuccessi: La Sala rossa apparirà il 14 novembre 1879; i quadretti satirici del Nuovo regno, che lo costringeranno a un esilio volontario dopo feroci polemiche, sono del 1882) a un nuovo stadio di indifferenza affettiva.

2.

L’intesa si lacera, la convivenza diventa a poco a poco un infer-no e Strindberg, «misogino monogamico»4 matura una sempre più radicale avversione per il “matrimonio moderno”, la soggettività e i

2 Cfr. Maj Dahlbäck, Siri von Essen i verkligheten, Natur och kultur, Stoccolma 1989.3 Sofia In de Betou, che Carl Gustaf Wrangel sposerà l’8 ottobre 1881.4 La definizione è di Georg Brandes, in una lettera a Strindberg. Sul rapporto

Strindberg-Nietzsche, mediato da Brandes, si veda Cristina Berti, “Georg Brandes e l’in-contro tra Strindberg e Nietzsche”, Studi Nordici, X (2003).

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diritti sociali estesi alle mogli.5 Siri, precedentemente idealizzata, viene messa alla berlina. Strindberg elabora una precisa strategia di stigma-tizzazione della compagna, servendosi del medium della scrittura. Lo farà nella seconda raccolta delle novelle sul matrimonio (Sposarsi II, 1885), ma soprattutto nel Padre, sovrapponendo la sagoma di Sini a quella della Laura che induce alla pazzia e al suicidio il capitano tor-mentato dai dubbi sulla paternità della figlia Berta.6 In Chi mantiene la famiglia [Familjeförsörjaren], ultimo quadretto familiare di Sposarsi, la sottotraccia autobiografica è fin troppo evidente e prevede uno scrittore malato e astenico, vampirizzato nel sonno, preda di incubi e pressato da scadenze contrattuali:

Si sveglia la mattina dopo funesti sogni di cambiali scadute e manoscritti non consegnati. Ha i capelli bagnati di sudore per l’angoscia, e le guance gli tremano mentre si veste. Ma sente i bambini che incominciano a cinguettare nella stanza accanto, e si sciacqua la testa in fiamme nell’acqua fredda, beve il suo caffè, che si prepara da solo per non costringere la bambinaia ad alzarsi così presto, alle sette e mezzo. Poi riordina il letto, si spazzola gli abiti, e si siede a scrivere.

La febbre lo introduce in una zona intermedia, permettendogli di cogliere da dentro i movimenti di quelle che in seguito, sulla scia di Swedenborg, chiamerà le “potenze invisibili”:

Arriva la febbre, la febbre, che genererà allucinazioni di stanze che non ha mai veduto, paesaggi che non sono mai esistiti, e uomini che non compaiono nell’annuario degli indirizzi. Seduto allo scrittoio si sente in preda a un’angoscia mortale. I pensieri dovrebbero essere lucidi, le parole corrette e vive, lo stile scorrevole, l’azione dovrebbe dipanarsi facile, l’interesse non dovrebbe allentarsi, le immagini dovrebbero essere chiare, le battute fulminanti. E vede il sogghigno degli automi del pubblico, i cui cervelli dovrà caricare, vede i recensori con gli occhiali a molla dell’invidia, che dovrà soggiogare, il volto arcigno dell’editore, che dovrà rischiarare. Vede forse anche i giurati seduti intorno al tavolo nero con sopra la Bibbia, sente il lieve cigolio delle porte della prigione, dove i liberi

5 Sulla «questione femminile» in Strindberg, si veda almeno Elena Balzamo, August Strindberg. Visages et destin, Viviane Hamy, Parigi 1999, pp. 138 ss.

6 Ma nell’opera di Strindberg ci sono anche figlie, non solo madri e padri, come ha mostrato Eszter Szalczer, Writing daughters. August Strindberg’s other voices, Norvik Press, Londra 2008.

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pensatori devono scontare il crimine di aver pensato anche per gl’ignavi, ascolta i passi furtivi del padrone dell’albergo, che arriverà dl soppiatto con il conto. E in mezzo a tutto questo la febbre perdura, e la penna scorre, scorre avanti, senza esitare un istante all’idea dell’editore o dei giurati, e lascia dietro di sé, rosse striature come di sangue rappreso, che man mano anneriscono. Quando dopo due ore si alza, gli rimane solo la forza di trascinarsi fino al letto e di buttarvisi. E lì rimane, come nell’abbraccio della morte. Non è un sonno ristoratore, non è un torpore; è un lungo svenimento, ma senza perdita dei sensi seguito dalla paura di sentire le forze perdute, i nervi fiacchi, il cervello vuoto.7

L’ossessione della testa vuota si lega a quella, per Strindberg ne-cessaria, di una “lotta fra cervelli” e, soprattutto, all’idea fissa del-l’internamento e dell’avvelenamento da parte della donna («si dice che la moglie lo voglia far rinchiudere in manicomio», così nel finale di Chi mantiene la famiglia). Uscite nell’ottobre del 1886, le novelle di Giftas II furono tirate in cinquemila esemplari, ma non riscosse-ro grande successo, né di critica, né di vendite, e sono citate quasi esclusivamente per la dura polemica contro quella che allora, sulla scia di un’ampia pubblicistica, veniva chiamata la «mezzafemmina», ossia la donna emancipata, sottratta letteralmente al mancipium8 ma al tempo stesso – sempre seguendo il filo di questa “visione” – snaturata. Dopo il processo per blasfemia intentatogli per la novella Dygens lön,9 Strindberg aveva preso a considerarsi e a dichiararsi vittima di un complotto, un avvelenamento sociale in cui Siri, in quando moglie e in quanto donna, avrebbe giocato una parte non indifferente.

Friedrich Nietzsche,10 che lesse la versione francese di Giftas (Les Mariés), se ne entusiasmò, dichiarando che sulla questione della «femmina» lui e lo svedese erano in totale accordo,11 giungendo ad

7 August Strindberg, Sposarsi. Diciotto storie coniugali, a cura di Franco Perrelli, traduzione di Carmen Giorgetti Cima, Mursia, Milano 1995, p. 158.

8 Maurizio Grande, Dodici donne. Figure del destino nella letteratura drammatica, Pratiche, Parma 1994, p. 177. Cfr. Francesca Borruso, Donne immaginarie e destini educativi: intrecci pedagogici nel teatro di Ibsen, Cechov e Strindberg, Unicopli, Milano 2008.

9 Nel Premio della virtù (Dygens lön), raccolta in Sposarsi I, Strindberg definiva l’eucarestia una «spudorata impostura» e Gesù un «impostore esagitato». Sposarsi I venne sequestrato una settimana dopo la sua pubblicazione, il 24 settembre 1884.

10 Sul rapporto Nietzsche-Strindberg, cfr. Franco Perrelli, Strindberg e Nietzsche. Un problema di storia del nichilismo, Adriatica, Bari 1984.

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affermare, dopo la lettura del Padre, che Strindberg fosse riuscito a esprimere «in maniera grandiosa la mia definizione dell’amore (– essa si trova, per esempio, nel Caso Wagner)».12

Il 27 novembre del 1888, da Torino, Nietzsche, rivolgendosi a Strindberg, scriveva: «Ho letto due volte con profonda commo-

zione la Sua tragedia, sono rimasto oltremodo sorpreso nel conoscere un’opera nella quale ha trovato grandiosa espressione la mia stessa concezione dell’amore – che come mezzo la guerra, e come fonda-mento l’odio mortale trai sessi».13

3.

La stessa situazione che abbiamo riscontrato in Chi mantiene la famiglia, viene abbozzata nell’ouverture del Plaidoyer d’un fou [L’autodifesa di un folle, 1887-1888], tra vampate di febbre e fobie di avvelenamento che preludono al discredito totale della donna. Come in Chi mantiene la famiglia, infatti, l’uomo è descritto nei panni di un ingenuo idealista che occorre risvegliare e richiamare alla natura concreta e conflittuale del rapporto. Strindberg si lancia quindi in un’opera di riscrittura, opera che si regge su un metodo genealo-gico. Solo che questo scavo e questa riscrittura14 hanno adesso per oggetto la carne stessa della sua vicenda con Siri e lo inducono ad aassumere come idealtipo il carattere esemplare della condizione del padre-marito nella società “moderna”, costretto a lottare contro le pretese faustiane della moglie-madre. È l’inizio della danse macabre che segnerà il passo della scrittura di Strindberg per il resto dei suoi giorni. Così si apre la confessione del padre ferito:

Mentre ero seduto al mio tavolo, con la penna in mano, caddi fulminato da

11 Cfr. Anacleto Verrecchia, La catastrofe di Nietzsche a Torino, Bompiani, Milano 2003, p. 220.

12 Friedrich Nietzsche, Lettera a Franz Overbeck del 29 novembre 1888, in Lettere da Torino, a cura di Giuliano Campioni, traduzione di Vivetta Vivarelli, Adelphi, Milano 2008, p. 100.

13 Friedrich Nietzsche, Lettere da Torino, cit., p. 97.14 Oggi la si direbbe uno stalking molto raffinato. Come considererebbe un qualsiasi

tribunale italiano un’opera come L’autodifese di un folle?

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un accesso di febbre. Mai colpito da una erra malattia da quindici anni, pre-si sul serio questo incidente così inopportunamente sopraggiunto; non che avessi paura della morte, ci mancherebbe, ma giunto alla fine di una carriera bruciante a trentotto anni, senza aver ancora detto l’ultima parola, senza aver realizzato i voti della mia giovinezza, ricco di progetti per l’avvenire, la cosa non mi piacque per niente. Vivendo con moglie e figli in esilio semivolontario da quattro anni, relegato in un casale bavarese, stremato, trascinato già una volta in tribunale, messo sotto sequestro, messo al bando, buttato tra i rifiuti, soltanto un sentimento di rivincita mi assali all’ultimo momento, mentre mi lasciavo cadere sul letto. In quel momento si ingaggiò una lotta. Non avendo la forza di gridare al soccorso, Rimasi solo nella mia soffitta, attaccato da una febbre che ml scuoteva come si scuote un letto di piume, mi prendeva alla gola per strangolarmi, mi schiacciava il petto col ginocchio, mi infiammava le orecchie al punto che gli occhi sembravano uscirmi dalla testa. Nessun dubbio che fosse la morte che s’era infilata nella stanza e si lanciava su di me. Ma io non volevo morire.Poiché opponevo resistenza, la lotta si fece accanita. I nervi si tendevano, il sangue correva per le vene, il cervello guizzava come un polipo nell’aceto. D’un tratto, persuaso che stavo per soccombere in questa danza macabra, mollai la presa e mi lasciai cadere supino, abbandonandomi all’abbraccio del Terribile.15

Il “folle” si mostra conciliante, come a dire che non è lui ad avere ingaggiato la lotta:

«Ascoltami, cara, prima che me ne vada. Confesso che sono un egoista fatto e compiuto. Per il mio successo letterario ho rovinato la tua carriera teatrale. Desidero confessare tutto. Perdonami». Si agitava per consolarmi, lei, ma io l’interruppi proseguendo: «Secondo il tuo desiderio, ci siamo sposati col regime dotale, e tuttavia io ho dissipato la dote per far fronte a delle obbligazioni incautamente assunte. Ecco quel che più mi opprime, dato che in caso di morte non potrai ereditare i diritti sulle mie opere edite. E dunque fa venire un notaio perché possa legarti i miei beni, presenti o meno. E poi ritorna alla tua arte, che hai abbandonato per me». Ella voleva passar oltre buttandola sullo scherzo, mi ordinava di fare un sonnellino, mi assicurava che tutto si sarebbe sistemato e che la morte non m’era vicina. Al limite delle forze, le presi la mano, l’invitai a sedere al mio fianco mentre sonnecchiavo: e con le mie ultime preghiere di perdono, per tutto il male che le avevo fatto, con la sua anima stretta nella mia, un dolce intorpidimento scese sulle mie palpebre e mi sentii fondere come ghiaccio, disciolto dai raggi dei suoi occhioni che esprimevano infinita tenerezza. Sotto il suo bacio, posato sulla mia fronte

15 August Strindberg, L’autodifesa di un folle, a cura di Franco Perrelli, traduzione di Mursia, Milano 1990, p. 5.

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ardente come un freddo sigillo, io mi sentii precipitare nella profondità di ineffabili beatitudini.16

Fin qui il “delirio”, ma poi, al risveglio e a febbre placata:

Ora volevo affrontarle, le due questioni, sinora accolte senza critica, nel vago presentimento che non tutto fosse in regola. Vediamo un po’ da vicino, mi dissi, in che io abbia tanto peccato da dovermi considerare come un vile egoista che, per i suoi fini ambiziosi, ha sacrificato la carriera artistica della moglie. Vediamo come le cose sono andate in realtà. All’epoca delle nostre pubblicazioni di matrimonio lei non aveva che parti di second’ordine, o di terzo, perché il suo secondo debutto s’era risolto in un fiasco per mancanza di talento, di stile, di colore, di tutto. La vigilia delle nozze le fu passato un copione che si riduceva a due battute: la parte di una dama di compagnia qualunque in una commedia qualunque. Quante lacrime, quanti disgusti, frutto, secondo lei, di un matrimo-nio che toglieva prestigio ad un’attrice un tempo cosí attraente col suo titolo di baronessa separata per causa dell’arte. Certo la colpa era mia per il tracollo che stava per arrivare e sarebbe poi culminato in un brusco licenziamento, dopo due anni di lacrime per via di parti sempre piú striminzite. Mentre la sua traiettoria teatrale sta per finire, io arrivo al successo come romanziere, ed è un successo solido, incontestabile. Poiché in precedenza avevo affrontato il teatro con lavoretti senza impegno, le mie prime cure si volsero alla redazione di un dramma accettabile, voglio dire una macchina ben costruita, messa in piedi al solo scopo di lanciare l’amata verso un sospirato nuovo ingaggio.17

C’è una doppia sfasatura, un décalage, tra descrizione e interpre-tazione da un lato, e descrizione e coimplicazione dall’altro. Se il piano della descrizione presenta la sfida di una malattia violenta (il corpo so-ciale e il suo ordine sono lacerati dalle pretese delle donne),18 la risposta artistica deve essere però adeguata. Questo, in parte, spiega le ragioni per le quali ogni qualvolta l’Autore si sia esposto a un contatto il più possibile diretto con un’esperienza di vita radicale (come nel Plai-doyer o in Inferno), la deformazione cognitiva19 (fondamento di quella artistica) si sia dilatata al punto da condurlo a esiti di involontario

16 August Strindberg, L’autodifesa di un folle,cit., p. 8.17 August Strindberg, L’autodifesa di un folle,cit., p. 9.18 Occorre ricordare che, nei paesi scandinavi, al tempo di Strindberg molti diritti

erano già un dato di fatto (divorzio, libere unioni, etc.).19 Nikola Milosevic, Nietzsche et Strindberg. Psychologie de la connaissance, traduit du

serbe par Zorica Hadji-Vidoikovitch avec l’aide de Svetlana Nikchitch, L’Age de l’homme, Lausanne 1997, p. 255.

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parossismo. Quella rivolta da Strindberg al lettore è comunque una vera e propria chiamata in correità: «uomo, chiunque tu sia, inganna, raggira, froda, per non essere ingannato, raggirato, frodato!».20

Per quel che mi riguarda, scrive Strindberg, «io non esito un istante a gridare Colpevole a questo mostro che mi spinge a morte prematura. Ai signori emancipatori, seguaci dell’ideale dell’uguaglian-za, dal punto di vista morale, dei sessi, faccio una raccomandazio-ne: giudicate l’adulterio dell’uomo e quello della donna secondo le conseguenze che ne derivano! E ai legislatori voglio ingiungere di meditare attentamente le conseguenze che avrebbe la concessione dei diritti civili a delle mezze scimmie, a degli esseri inferiori, a delle bambine malate, malate e pazze tredici volte l’anno per via delle mestruazioni, pazze del tutto durante la gravidanza, e irresponsabili per tutto il resto della loro vita, scellerate incoscienti, criminali per istinto, bestie feroci senza saperlo!».21

L’Autodifesa si trova su crinale che vede Strindberg passare da una contestabilissima, ma pur sempre condivisa (se si pensa alle sue fonti: John Stuart Mill su tutti), considerazione dell’emancipazione femmile alla luce della “teoria dell’evoluzione”22 a quella, venata di esoterismo fin de siècle, improntata alla “teoria della cospirazione”. In questa seconda teoria, è la componente demonica della donna (il succube o succubus) a prevalere, non la sua presunta “inferiorità”.

4.

Il divorzio tra Siri e August si concluderà nel marzo del 1892, non senza strascichi legali (lo scrittore fu condannato per le calunnie a sfondo sessuale diffuse sulla ex compagna). Ma soprattutto aprì un abisso nel cuore di Strindberg e l’immagine di Siri verrà completa-mente risucchiata, lacerata, imbrattata dalle invettive di un uomo

20 August Strindberg, L’autodifesa di un folle, a cura di Franco Perrelli, cit. p. 235.21 Ibidem.22 È quanto Strindberg va scrivendo, nel 1888, sul giornale danese Ny jord, in un

testo titolato “Kvinnosaken enligt Evolutionsteorin”.

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unicamente in cerca di vendetta. Una vendetta che lo spinse ad accu-sare la moglie di relazioni omosessuali con la danese Marie David,23 sperando forse in tal modo di vedersi affidati i quattro figli nati nel matrimonio: per lo scrittore, il matrimonio e il «focolare domestico» si stavano già trasformando in uno spazio chiuso insidiato da oscure potenze, ma queste potenze non hanno ancora la scombinata fisio-nomia che assumeranno in Inferno (1897). Ma con l’autore svedese bisogna fare attenzione, la sua capacità di svelarsi procede infatti di pari passo con la sua abilità mimetica,24 ciò che più conta è forse la tensione tra i due lati – poesia e verità – entro in quali Strindberg inscrive il proprio mondo. Le ultime righe del Plaidoyer d’un fou sono emblematiche in questo senso. Dopo aver letteralmente lanciato sterco25 sull’immagine di Marie (alter ego di Siri), mettendone a nudo vizi, fallimenti, ambizioni frustrate e tradimenti, Strindberg conclude la sua improbabile autodifesa – più simile in realtà all’arringa di un inquisitore che gioca sul binomio colpa/discolpa – con queste parole: «L’histoire est terminée maintenant, mon Adorée. Je me suis vengé; nous somme quittes» [«Adesso la storia è finita, mia Adorata. Mi sono vendicato, siamo pari»].26 Lo scontro fra cervelli e la lotta fra tra sessi – questi, per lui, i termini della questione – erano cominciati.

La versione di Oslo, ritrovata nel 1973 in un armadio del lascito di Edvard Munch, riporta una significativa variante del finale: «La mia storia è finita. Che il mio destino si compia, che la morte mi liberi da questo inferno senza fine».27

23 Jens Rydström, Sinners and citizens. Bestiality and homosexuality in Sweden, 1880-1950, University of Chicago Press, Chicago 2003, p. 294.

24 Sulla questione, ampiamente dibattura, si veda quanto meno Per Stounbjerg, Between realism and modernism: the modernity of Strindberg’s autobiographical writings, in Michael Robinson, a cura di, The Cambridge Companion to August Strindberg, Cambridge University Press, Cambridge 2009.

25 Umberto Artioli, Lezione inedita, n. 10.26 August Strindberg, Autodifesa di un folle, traduzione di Nino Jafanti, Edizioni

Il Formichiere, Milano 1980, p. 270.27 August Strindberg, L’autodifesa di un folle, a cura di Franco Perrelli, cit. p. 235.

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5.

Ma nel ‘76, Strindberg scriveva altre cose. Scriveva, ad esempio: «Io non sono disperato per te, perché ho fiducia in te e nella tua forza e so che dopo queste due settimane di lotta che tu devi attraversare ti rialzerai per non cadere mai più! So che il dolore ti renderà forte e migliore delle altre! Piangi, carissima, piccola amica, libera nel pianto il tuo cuore... ma poi... fatti dura!».28

Fatti dura. Strindberg non usa mai a caso parole come: forza, lotta, caduta, liberazione (nel dolore, nel pianto, dal dolore, dal pianto), tempra, metallo, rialzarsi, passaggio, cuore. Dopotutto, di formazio-ne era un chimico attratto dalla consistenza della materia.29 La sua ambizione è la durezza, il suo intento proclamato è l’indifferenza. È proprio su queste parole che dovremmo concentrarci. Ed è sulla postura etica che esprimono – sulla quale si regge il Plaidoyer – che Strindberg edifica il proprio progetto di indifferenza affettiva.

Pochi giorni prima, nel «terzo giorno del giorno dei fiori» (maggio 1876), in un’altra lettera, Strindberg invitava Siri a esultare: «Esulta, splendido capolavoro del Creatore, perché devi soffrire: senza dolore l’anima non può essere scossa fin nell’intimo, non può aver luogo quel meraviglioso sommovimento della tua anima che è il presupposto dell’ar-te».30 Il cervello, consiglia ancora lo scrittore, «riempilo di pensieri», purché «siano nuovi, noiosi, faticosi, ma non voltarti indietro», il passato va lasciato perdere, «niente ricordi», «irridi i fantasmi della tua mente, rivesti di ferro i tuoi sentimenti, dissimula fino alla disuma-nità» e poi «torna a casa da me a piangere, così il dolore passerà».31 Cervello vuoto/pieno, scontro fra cervelli: le due solite ossessioni, le ritroviamo all’opera – giusto a titolo esemplificativo – sia nel Padre,

28 August Strindberg, Lui e lei, a cura di Fulvio Ferrari, Il Quadrante, Torino, p.177.29 Su questo punto, mi permetto di rinviare agli spunti contenuti in due miei lavori,

Luce nera. Strindberg, Paulhan, Artaud e l’esperienza della materia, Medusa, Milano 2006 e La finestra cieca. Strindberg e l’esperienza chimica, t ysm, Bergamo-Firenze 2009.

30 August Strindberg, Lui e lei, cit., p.168.31 August Strindberg, Lui e lei, cit., p.177. [Corsivo mio].

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sia in Inferno, sia in Giftas (la testa troppo vuota del protagonista di Chi mantiene la famiglia), sia nell’Autodifesa di un folle (la testa troppo piena di deliri di persecuzione e tradimento dello scrittore).

6.

Ai tempi dell’incontro con Siri, August Strindberg non era che un giovane aiuto bibliotecario impiegato come amanuense alla Bi-blioteca Reale di Stoccolma. Nutriva molte velleità che a loro volta alimentavano le relative frustrazioni, ma non aveva ancora pubblicato Röda Rummet [La sala rossa], il romanzo sulla bohème suédoise che pochi anni dopo – nel 1879, per la precisione – lo imporrà sulla scena letteraria svedese come un innovatore e un provocatore di primordi-ne, suscitando le prime rotture con Siri che lo accusava di sacrificare tutto à la lyre, alla letteratura, e di non valorizzare il suo talento da attrice.

Nel 1876, dunque, August Strindberg ha scritto solanto alcuni racconti che non l’hanno però segnalato all’attenzione generale,

ha composto il dramma storico Mäster Olof [Maestro Olof, 1872] e ha comunque debuttato al Teatro Reale con I Rom [A Roma, 1870], composto in versi e dedicato alle disavventure economiche dello scultore Bertel Thorvaldsen. Nonostante certe dichiarazioni di pro-gramma – l’evangelico «sono venuto a portare la spada, non la pace» – consacrazione e tempeste, per lui e per il suo tempo, dovevano an-cora arrivare. «Fallito» si autodefinisce Strindberg nelle prime lettere inviate a Siri von Essen. E fallimento, bancarotta,32 devastazione, catastrofe, alcune fra le materiali e valoriali ossessioni ricorrenti nella Svezia riformata o «corrotta» (dipende dai punti di vista) di Oscar II, diventeranno presto un tutt’uno con le ossessioni metafisiche dello scrittore e gli offriranno la materia prima per riflettere su disastri (non solo esistenziali) e lacerazioni (non solo di pensiero), snocciolando dati

32 Cfr. Franco Perrelli, Strindberg, la scrittura e la scena, Le Lettere, Firenze 2009, p. 13.

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di borsa, riflettendo sulla crisi dei quotidiani e della libertà di stampa, sui «nuovi diritti» di donne e animali e tracciando una splendida, e meno disperata rispetto ad altri suoi lavori, mappa della «dissoluzio-ne» di fine e inizio secolo.

Nel marzo del 1875, Johan August Strindberg ha dunque ven-tisei anni, ben più che un’età di mezzo per l’epoca. È allora che Ida Charlotta Olson, una serva con la quale Strindberg aveva stretto una «libera relazione» almeno dall’inverno del ‘73, rimane incinta. Davanti alla propria evidente paternità, Strindberg precipita in un violento conflitto interiore, nega di essere lui, il padre, denuncia l’as-soluta indimostrabilità del legame di sangue, attacca Ida Charlotta qualificandola come prostituta ma, al tempo stesso, cade preda di una rêverie di «amore angelico, puro, asessuato»33 di cui Siri von Essen, per un certo periodo, è oggetto e vittima al tempo stesso. Una doppia paternità negata, dunque, segna l’ingresso di Strindberg nel mondo dell’arte: da una parte la figlia disconosciuta di Ida Charlotta Olson e, dall’altra, la (prima) figlia disconosciuta avuta da Siri, morta dopo pochi giorni averla messa a balia. È comunque in questa doppia torsione, fra paternità critica e tentativo di ricomporre la crisi nel crogiuolo di un amore puro e per ciò stesso impossibile (votato strin-dberghianamente al fallimento), che prenderanno forma alcuni fra i temi ossessivi di tutta la sua opera, dalle novelle di Giftas I [Sposarsi I, 1884] che gli costarono il processo per «vilipendio» nell’ottobre del 1884, a Fadren [Il padre, 1887], all’immenso scavo autobiografico degli anni 1886-88.34

Nell’epistolario con Siri von Essen, un epistolario che, nelle in-tenzioni dell’autore, pubblicato con il titolo Lui e lei [Han och hon] doveva rappresentare la quarta tappa di questo lavoro “da dentro” iniziato con le prime tre parti dell’autobiografia (Il figlio della serva, Tempo di fermenti, Nella Sala rossa) contiene in nuce alcuni dei temi

33 Vedi Fulvio Ferrari, Introduzione a August Strindberg, Lui e lei, cit, p. VI.34 Cfr. Ross Shideler, Questioning the father. From Darwin to Zola, Ibsen, Strindberg

and Hardy, Stanford University press, Stanford 1999.

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e delle figure chiave del caleidoscopico e devastato immaginario. Immagini che arriveranno e si svilupperanno, in sequenza, soprattutto nel delirio dell’infernokris e tra le pagine del Diario occulto. Strindberg vede il mondo capovolto, dominato da figure ibride, e da diavoli danti da incroci fra donna e demomio. Figure destinare a desiderare il bene, ma a operare irrimediabilmente per il male.

Le matrici neognostiche strindberghiane, in parte mutuate da Otto Weininger, sono qui trasposte in una specie di theologia diaboli, che prevede un Dio (tenace, ma indifferente appunto), e un mondo concepito come inframondo, dove gli uomini scontano colpe lontane e passate (anche di vite passate), illudendosi di essere in paradiso, ma trovandosi in realtà all’inferno. La natura è indifferente, ma anche il Padre è indifferente al destino dei figli.

Questa visione che negli anni della crisi e in particolare tra il maggio e il giugno 1897 (quando stese Inferno) diventerà uno fra i temi portanti della sua ricerca di un sistema delle corrispondenze univer-sali. Sistema cercato tanto nella pratica della chimica e nell’alchimi, quanto nella riflessione su Emmanuel Swedenborg. È con questa differenza di secondo grado che bisogna comunque confrontarsi, per comprendere meglio la questione del padre in Strindberg.

7.

La stesura del Padre [Fadren] occupò August Strindberg per non più di un mese, da gennaio a febbraio del 1887,35 nella sua casa in Baviera vicino a Lindau. Questo il dato materiale, per i tre atti di una tragedia che, come da “programma”, doveva essere scritta «non con la penna, ma con l’ascia». Tre atti, anche se il modello sembra quello dell’atto unico, strutturato secondo unità di spazio (la casa del capitano)36 e di tempo (le ventiquattro ore). L’unità di tempo,

35 Prima rappresentazione: Kasino Teater di Copenaghen (14 novembre 1887).36 Cfr. Freddie Rokem, Theatrical space in Ibsen, Chekhov, and Strindberg. Public

forms of privacy, UMI Research Press, Ann Arbor 1986.

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quindi, è circoscritta nell’arco di una giornata, con un crescendo (o un degradando, se si vuole), dal giorno del Primo atto, alla notte fonda del Secondo e del Terzo. Il Capitano, alla fine del Primo atto (scena nona), lascia la casa e dà un’indicazione precisa alla balia: «Non aspettarmi, fino a mezzanotte!». È l’unica volta che il capitano lascia la casa, solo in seguito Strindberg ci farà capire che quell’uscita era dovuta alla ricerca della corrispondenza che, da tempo, il capitano non riceveva più. Egli si reca quindi all’ufficio postale. Esce, lascia il luogo in cui tutto si svolge: la casa. La scena è la stessa per tutti gli atti, cambia solo la luce (nel Primo è quella del giorno, nel Secondo e nel Terzo è un lume, anche se diverso in ogni atto).

Una casa, dunque, ma con con delle porte. Una queste, indica una didascalia, è una «porta a muro» ricoperta da tapezzeria: solo il capitano entra ed esce da quella porta, ed è la porta che verrà sbarrata con una sedia, nel Terzo atto, quando la congiura se così vogliamo chiamarla, il piano si potrebbe dire di Laura per provare la follia del marito sembra giungere – come infatti giungerà – a buon fine. Il capitano esce, quindi, alla fine del Primo atto e provoca una cesura rispetto alla scena seguente, ma tutto rientra nelle ventiquattro ore canoniche. Nel II e nel III atto, il Capitano non lascerà più la casa, ma salirà al piano superiore. Importante questo accesso al piano su-periore (attraverso una porta tapezzata, e in seguito anche sbarrata), perché dall’alto giungeranno voci, rumori (il rumore di una sega, i suoi passi), canzoni.

Alcuni esempi:

a) Atto I, scena 8. In gioco è l’educazione della figlia Laura, il rispetto (o laforzatura) del vincolo matrimoniale e della potestà, che nella Svezia del tempo ha una forma e una sostanza quasi contrattuale. Chi deve decidere dell’edu-cazione dei figli? Il padre, il Capitano, vorrebbe mandare in un pensionato la figlia Berta, lontano (il fuori si presenta come salvezza, ma spesso si ripresenta come inquietudine) da casa, la madre Laura è contraria, appoggiata dalla nonna (materna). La nonna materna – è Berta a rivelarlo al padre – vorrebbe invece per la ragazza «un’educazione da spiritista». Anzi, già la costringe a sedersi accanto a un tavolino, «abbassa il lume» e mette la ragazzina «con una penna in mano. E poi dice che gli spiriti si metteranno a scrivere». La penna, continua la ragazza, si mette effettivamente a scrivere, ma «se sono io non lo so». «Bisogna che te ne vada, per il tuo bene», le dice il Capitano, ma il dubbio è già arrivato anche a lei: il Capitano le dice che quelle della nonna sono tutte

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bugie, ma la figlia replica che non possono essere tali, altrimenti sarebbero bugie anche quelle della madre, «e se tu dici che quelle della mamma sono bugie non ti credo più».

b) Atto II, scena II. Berta non vuole dormire, non vuole salire al «piano disopra», perché ci sono gli spiriti. Sente delle voci, o meglio una «canzoncina». Una «canzone così triste, così triste che non ne ho mai sentito». La canzone, prosegue la ragazza, sembra provenire «dalla culla che sta sulla sinistra». La canzone, dunque, proviene da un culla vuota (sulla sinistra, come la porta da cui Laura «ascolta» le voci del dottore e del capitano).

8.

I segni, però, sono ancora «calmi», prefigurano un evento, ma non sono l’evento (lo diventeranno in Inferno, deflagrando).

L’angoscia e il presagio cupo funzionano come indicatori staticoi, sono più i segnavia per lo spettatore che traccie di una dinamica e di un sommovimento interiori dei personaggi. Segni, non coincidenze: questa differenza è comunque di rilievo, perché in Inferno, ad esem-pio, saranno proprio le coincidenze (non significative) a significare l’effetto nefasto in sé: non indicando altro, ma nel momento stesso in cui si presentano, come un sasso nell’acqua, provocano tormenti concentrici nella mente del protagonista (in tal caso moltiplicando all’infinito l’eco delirante dei tormenti dello Strindberg).

Partirei dall’ultima scena (la quinta) del Secondo atto. Umberto Artioli la definiva «centrale»; è così, non solo strutturalmente. Alla fine della IV scena, Laura, la moglie del Capitano che sta cercando di instillare in lui il dubbio sull paternità della loro unica figlia Berte, ascolta nascosta dietro una porta «di sinistra». Il Capitano sta par-lando con il Dottore, che è parte non si sa quanto consapevole del piano di Laura. Terminata la conversazione, accompagna il Dottore alla «porta in fondo», ma poi si rivolge alla porta di sinistra (non quella tappezzata, dunque), la apre e Laura era lì, «entra pure così possiamo parlare», le dice, «l’avevo sentito che stavi origliando». La didascalia della scena V ci dice che Laura è imbarazzata. Su questo imbarazzo potremmo discutere. In ogni caso, la sua congiura da tinello (nell’Ottocento le congiure si fanno nelle case, non nei palazzi, nelle

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sale da cucina, non nelle sale del Re) non è in pericolo: il dubbio, instillato «nell’orecchio» come il veleno di Amleto, sta a poco a poco facendo il suo effetto. Già nel Primo atto (scena nona), il padre accusa la madre, il Capitano accusa Laura (accusa Laura in quanto madre, la accusa come padre: la coppia marito-moglie è diventanta in questo frangente secondaria, definisce solo una sfera spazio-affettiva del di-scorso, una sfera ricompresa in un’altra, di ordine superiore, inscitta fra le due polarità madre-padre) di possedere «un potere satanico di influenzare la volontà altrui», un potere mesmerico «che ha sempre chi non bada ai mezzi».

L’accusa è esplicita, ma i contorni non sono chiari, e il Capitano capisce solo frammenti del contesto che gli è stato creato attorno (atmosfera). Laura avrebbe fatto allontanare il vecchio dottore, per sostituirlo con uno nuovo, probabilmente più propenso ad ascoltare le sue rimostranze e ad intuire nella progressiva crisi di autorevolezza (e di sicurezza di sé) del padre i segni di una patologia o – cosa che nel finale si verificherà – di un’idea fissa. Che cosa ha ascoltato Laura?

Anche qui, è necessario un passo indietro, all’inizio del Primo atto, quando si verifica un episodio all’apparenza insignificante. Nöjd, un sottoposto militare, è «andato con la serva», ma non vuole ricono-scere la paternità. Il Capitano guarda con distacco, quasi dall’alto la situazione, Una situazione che rappresenta un doppio non si sa quanto perturbante dell’intera tragedia (e, azzardando un po’, un doppio della vicenda del giovane Strindberg con la serva Ida Charlotta Ol-son). Il Capitano guarda tutto dall’alto in basso, chiedendo al Pastore (suo cognato), una parternale. Presto, però, guarderà una situazione simile da dentro. Infine, la guarderà dal basso. C’è un crescendo (o un degradare) nell’intera vicenda: crescendo di coinvolgimento del Capitano in quanto padre. Crisi del sentimento di paternità e del senso stesso di paternità. Idea fissa, follia.

La paternità rischia di diventare – e alla fine lo diventerà – una relazione con un estraneo. Commentando una situazione esperienziale simile, Emmanuel Lévinas osservava che la relazione padre-figli è quella «dell’io con un me stesso che tuttavia è estraneo a me. Il figlio infatti non è semplicemente la mia opera, come una poesia o un og-getto fabbricato, e non è neppure una mia proprietà. Né le categorie

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del potere né quelle dell’avere possono designare la relazione con il figlio». 37

9.

L’unità temporale è scandita dalla «luce». Si va (scena del sottopo-sto e della serva) da quella del giorno, a quella di due lumi differenti (mezzanotte, notte inoltrata), man mano che il Capitano precipita nel buio interiore. Il suo buio, però, sta in alto, ai piani alti. Per Strindberg, il mondo è una follia rovesciata. Il Paradiso è l’Inferno e viceversa: theologia diaboli – si è detto – la cui matrice di questa è improntata alla caduta. Anche il capitano «cade», ma è un Lucifero minore, il suo inferno è tra quelle mura e, soprattutto, in quella porta sprangata, che non si può più aprire. «La vita non è che un inferno e la morte il paradiso, e i bambini sono del cielo».38

Gli elementi diurni e notturni non si compenetrano, sono anco-ra ben distinti nel Padre. Vanno, appunto, in crescendo. Lo stesso Strindberg, in un’indicazione che potremmo definire di «quasi re-gia», suggeriva ai suoi attori di lavorare in crescendo, preparandosi (e preparando) al collasso finale, che nel Padre ha però la dinamica di una potenza trattenuta (simbolica, qui, la camicia di forza). Ma che cosa ha sentito Laura nel fuori scena della IV del Secondo atto? Ha capito che il suo veleno mentale sta facendo effetto, che il Ca-pitano comincia a «sentirsi ridicolo in quanto padre» e che gli pare «di vivere in una farsa». La paternità è dunque strutturata come una farsa e al padre tocca il ruolo di bersaglio di spalla, neppure quello di capocomico...

37 Emmanuel Lévinas, Etica e infinito, Dialoghi con Philippe Nemo, a cura di

Franco Riva, Città Aperta, Troina (En) 2007, p. 8.38 August Strindberg, Il padre, in Teatro Naturalistico I, a cura di Luciano Codignola,

traduzione di Luciano Codignola e Brigitta Ottosson, Adelphi, Milano 1996, pp. 92-93.

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10.

Atto secondo, scena quinta dunque. Laura era presente/assente anche nella scena quarta. Ora è fisicamente visibile, ma il suo è

un gioco sull’invisibilità, sull’impercettibilità, sul veleno di parole inoculato nell’orecchio del marito «come gocce di giusquiamo». La scena: è notte fonda. Il Capitano ha necessità, dice, di chiudere un di-scorso. Ha scoperto (ecco la ragione della cesura temporale fra primo e secondo atto) che la posta gli veniva sottratta dalla moglie, che in questo modo ha pregiudicato alcune sue ricerche scientifiche (atten-deva libri e articoli importanti dall’estero: i libri, anche nella loro mise ne abyme, sono sempre «messaggeri» in Strindberg.). Propone quindi alla moglie un patto che lo liberi dal sospetto e impedisca l’arrivo di una pazzia oramai montante, altrimenti sceglierà il suicidio (che in termini pratici significava: niente premio dell’assicurazione sulla vita alla moglie e alla figlia). A più riprese, il Capitano accuserà Laura di possedere un «potere satanico capace di influenzare la volontà altrui» e si essere in grado di esercitare l’«ipnosi su soggetti svegli». Forse Laura, come la Siri a cui lo predicava, si è semplicemente fatta forte. «Come, piangi, uomo?» Gli chiederà Laura. Sì, risponde il Capita-no, «piango anche se sono un uomo. Non ha gli occhi, un uomo? Non ha mani, membra, sensi, gusti, passioni, un uomo? Non vive dello stesso cibo, non è ferito dalle stesse armi, non ha caldo l’estate e freddo l’inverno, come una donna? Se ci pungete, non buttiamo sangue? Se ci solleticate, non ci mettiamo a ridere? Se ci avvelenate, non moriamo? Perché un uomo non potrebbe lamentarsi, un soldato piangere? Perché è poco virile? E perché è poco virile?».39

Ma la dinamica del conflitto Capitano-Laura, al di là delle appa-renze, sempre non lasciare che morti sul suo cammino. Non si danno, se non a una prima lettura, vincitori o vinti. Come già osservava Luciano Codignola, nello spazio chiuso della casa, le vittime sono carnefici, e i carnefici vittime. Ognuno partecipa alla dissoluzione di sé, smontando pezzo per pezzo la famiglia, trasformata in una «cage remplie de fauves»

39 Ivi, p. 74.

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La figlia, per il capitano, era «garanzia di eternità», un far pro-seguire – da padre – la vita oltre la propria vita. Ma questa figlia gli verrà tolta. «Un uomo non ha figli», urla disperato il Capitano, figli ne «hanno solo le donne, perciò l’avvenire sarà loro, se moriamo senza figli!»40 Prospettiva evidentemente delirante, ma non per questo priva di lacerante tragicità.

Bibliografi a

Ciaravolo, MassimoParigi “capitale del XIX secolo” nella visione strindberghiana, in Gianna Chiesa Isnar-

di – Paolo Marelli (a cura di), Nord ed Europa. Identità scandinava e rapporti culturali con il continente nel corso dei secoli, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Genova, 25-27 settembre 2003), Tilgher, Genova 2003.

Viggo Nielsen, Jens“I Balzacs hule: Balzac som prisme for Georg Brandes og Strindberg i deres syn

på forfatterollen og kunsten”, Studi Nordici, XIII (2006).

40 August Strindberg, Il padre, cit., p. 97.

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Comitato Scientifico: Marzia Banci, Saveria Chemotti, Paola Degli Esposti, Raffaella Failla, Bruna Giacomini, Donatella Lombello, Paola Mura, Carla Nardacchione, Farah Polato, Rosamaria Salvatore, Flavia Ursini, Silvia Vincis

Questo Convegno, che coinvolge un tema fondante per le sue implicazioni oggettive e soggettive, storiche e ideologiche, si inserisce in un intenso percorso di riflessione dedicato a:

Corpi d’identità: Codici e immagini del corpo femminile nella cultura contemporanea (22-25 ottobre 2003);Donne in filosofia. Percorsi della riflessione femminile contemporanea (2-3 aprile 2004);Donne in-fedeli. Testi, modelli, interpretazioni della religiosità femminile (19-20 novembre 2004);L’orgia estetica. Il corpo femminile tra armonia ed esasperazione (25 ottobre 2005);Donne oggetto e soggetto di studio. La situazione degli women’s studies nelle università italiane (20 gennaio 2006);Donne mitiche-mitiche donne (21 marzo 2006);Donne al lavoro. Ieri, oggi, domani (17-19 maggio 2007);Il ritratto dell’amante. L’artista, la musa e il simulacro (7-8 novembre 2007);Madre de-genere. La maternità tra scelta, desiderio e destino (14-16 maggio 2008).

Gli atti dei convegni sono pubblicati dall’editore Il Poligrafo di Padova

Il Convegno è aperto a tutti.

Le iscrizioni, gratuite, vanno effettuate presso il banco della segreteria nel corso della prima giornata; al termine del convegno, verrà rilasciata la relativa certificazione.

Informazioni: Segreteria Prorettori e Delegati 049.8273025 – [email protected]

Forum d’Ateneo per le politiche e gli studi di genere

Padri nostriPadri nostri.Archetipi e modelli delle relazioni tra “padri” e “figlie”

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dagli scritti di mistiche italiane (sec. XVII- XVIII)Dibattito

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Saveria Chemotti, Lo specchio infranto. La relazione con il padre nelle opere di Anna Banti, Gianna Manzini, Dacia Maraini

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