Facilitare la partecipazione esercitando autorità - dieci note per una Empowerment Bildung

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in ter v ista | studi | prospett ive | inser to | metodo | strumenti | luoghi&professioni | bazar

Alcuni snodi per promuovere la partecipazionein organizzazioni di base

diSimone Lanza

Possibilità e fatiche della micro democrazia

Se, come affermava Alexis de Tocqueville,la democrazia è l’arte meno dolorosa di governo, essa richiede luoghi in cui apprenderla esercitandola in concreto, sapendo che di mezzo c’è il misurarsi con vissuti che ondeggiano fra presa d’atto della «mancanza» e apertura alla «possibilità». Dove apprendere quest’arte indispensabile per l’intera società? Luogo di apprendimento privilegiato rimangonole variegate organizzazioni intermedie tra vita privata e vita pubblica, a partire da principi irrinunciabili sempre da (ri)costruire in una logica in cui il principio di autorità si coniuga con il principio della fratellanza.

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Nonostante diversi studi nell’ambito delle scienze umane convergano nel descrivere l’essere umano come una

specie con peculiari capacità di coopera-zione, un semplice sguardo alla quotidia-nità ci restituisce individui che sembrano sempre più incapaci di cooperare, persi-no tra vicini di casa, di banco, di lavoro. D’altronde ormai sappiamo che la crisi della democrazia passa per molteplici processi di individualizzazione esasperata, tra cui la demotivazione alla partecipazione politica (sia rappresentativa che diretta), in stretta correlazione con la crisi dell’educazione (1). Se guardiamo questa crisi dal punto di vista delle organizzazioni di base (Odb) (2), possia-mo cogliere i segni di una sfida per costruire reali alternative alla società individualista: esperimenti sociali che possono superare le difficoltà della cooperazione, prefiguran-do un futuro migliore. Per questo motivo è sembrato utile affrontare i principali snodi attraverso i quali si riscontrano i fattori che ostacolano e che facilitano la partecipazione nelle Odb.

Poter influenzareed essere influenzatiLe due prospettive teoriche utilizzate per l’analisi di questi snodi sono l’antropologia culturale (3), applicata allo studio dei movi-menti sociali, e le teorie psico-pedagogiche sull’empowerment. Controllo, consapevolez-za critica e partecipazione sono considerati

insieme per la valutazione delle strutture, procedure e azioni organizzative (4) e ricor-rono nei punti di attenzione che vorrei proporre.In questo approccio il controllo è inteso come elemento non gerarchico, ma come fattore direttamente proporzionale alla qualità della partecipazione, all’opposto della globalizzazione, diventata meccani-smo fuori dal controllo democratico dei cittadini. La dimensione del controllo ci riporta anche all’esercizio del potere e all’autorità. Per Hannah Arendt l’autorità esclude la forza, la coercizione e anche la persuasione che si può esercitare solo tra pari. Per Arendt come per Paulo Freire coniugare autorità e uguaglianza (e non li-bertà e uguaglianza) è la vera sfida politica del presente.Gli studi etnografici e di psicologia sociale sull’empowerment dicono che possono esi-stere organizzazioni sociali egualitarie che funzionano attraverso il consenso senza meccanismi coercitivi. Purtroppo oggi è comune la frustrazione che si ha quando si cerca di partecipare in qualche Odb. La sen-sazione è di essere in organizzazioni dove decidono sempre i soliti pochi. La parte-cipazione al contrario presupporrebbe il sentimento soggettivo di sentirsi parte del processo decisionale, che è un processo di influenzamento reciproco. L’insegnamento maggiore che viene dalla psicologia sociale sull’empowerment è forse che, se non c’è possibilità di influenzare gli

* Questo contributo riprende e amplia un intervento ad Agape Centro ecumenico.1 | I riferimenti principali sono inizialmente a Han-nah Arendt e ultimamente a Martha Nussbaum.2 | In questo contributo faccio riferimento alle orga-nizzazioni di base (Odb), intendendo quelle organiz-zazioni non profit con orientamenti politici solidali e egualitari. Si tratta di organizzazioni che, per i loro orientamenti politici, costituiscono un insieme più ristretto delle Onp in senso tecnico, ma più largo

nella misura in cui vi includo anche quelle politiche(circoli Arci, centri sociali, ecc.). 3 | Clastres P., La società contro lo Stato. Ricerche di antropologia politica, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 20ss; Graeber D., Frammenti di antropologia anarchica, Elèuthera, Milano 2006.4 | Cfr. Zimmerman M., Empowerment e partecipa-zione della comunità. Un’analisi per il prossimo mil-lennio, in «Animazione Sociale», 2, 1999, pp. 10-24.

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altri membri del gruppo, non ci può essere partecipazione. La possibilità di influenzare ed essere influenzati dalle altre persone co-stituisce anche un elemento essenziale della spiritualità umana, per come il Dalai Lama e Leonardo Boff l’hanno definita nel loro dialogare nel tempo.Analogamente troviamo il ritorno al pen-siero di Freire e al suo concetto di azione dialogica per contrastare il blocco della speranza in un nichilismo dell’inazione, come ci ricordano Piergiulio Branca e Floriana Colombo, evidenziando proprio come l’empowerment possa assumere un significato spirituale, in quanto generatore di speranza e cambiamento (5).La dimensione soggettiva del sentirsi parte del processo decisionale è essenziale quanto la consapevolezza di essere limitati: l’orga-nizzazione perfetta non esiste, la dialettica tra mantenimento e innovazione, tra orga-nizzazione e partecipazione va garantita senza esasperazione. Le organizzazioni sono fatti umani percorsi dalle contrad-dizioni e debolezze che ci caratterizzano e dalla presenza di vincoli esterni e interni. Questo può consolare o far desistere.Gli snodi proposti nelle pagine che seguo-no sottolineano l’importanza di cercare sempre la via della partecipazione. Questi punti non indicano quindi alcun metodo, ma segnalano alcuni indicatori della quali-tà della partecipazione, intendendoli come variabili continue tra due opposte direzioni: quella che facilita e quella che ostacola la partecipazione.I dieci snodi su cui vorrei richiamare l’atten-zione sono: coerenza tra fini e mezzi, corre-sponsabilità, tempi adeguati, informalità e formalità, separazione dei poteri e rotazio-

ne delle cariche, principi chiari e condivisi, identità di genere, ascolto-rispetto-conflit-to, gestione economica trasparente, metodo decisionale condiviso.

Riconoscere l’erroredella strumentalizzazioneUna Odb con una cultura politica che se-pari cuore e mente, fini e mezzi, ostacola la partecipazione. Il punto di inizio è pertanto la ferma con-vinzione che i mezzi contengono il fine. Se in una Odb anche solo alcuni pensano che il fine possa giustificare il mezzo, vi è il ri-schio che una cultura della violenza si possa diffondere nell’organizzazione. Una con-cezione della politica nonviolenta è quindi una condizione indispensabile. All’interno delle Odb a cui mi riferisco, pur essendoci spesso – ma non sempre – una cultura della nonviolenza, non sono rari i casi in cui le persone si sentono usate come mezzi. Quando una persona si sente usata come mezzo, non si sente in grado di influenzare le decisioni del gruppo. Il problema nasce dal fatto che è più facile sapere quando ci si sente usati/e che capire quando si stanno usando gli/le altri/e. Per non lasciare il principio troppo astratto potremmo verificare se, sul piano concreto, sia possibile nella Odb esprimere pubbli-camente – in apposite riunioni – il proprio disagio quando ci si sente usati. É possibile parlarne? Il primo punto di attenzione sta quindi nel dare spazio al riconoscimento dell’er-rore della strumentalizzazione: poterne parlare.

5 | I due autori tracciano una connessione tra em-powerment e pedagogia della speranza, parlando di «micro-pedagogia della partecipazione sociale

come pratica di libertà». Cfr. Branca P., Colombo F., La ricerca-azione come promozione delle comunità locali, in «Animazione Sociale», 1, 2003, pp. 29-61.

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La piramide rovesciata della corresponsabilitàUn’organizzazione con una cultura ideo-logica del potere e dell’autorità può osta-colare la partecipazione nella misura in cui alcuni sono convinti che, per dirla con De Andrè, «non ci sono poteri buoni». Se nella Odb c’è una cultura in cui si pensa che chi prende il potere (coordina, dirige, ecc.), anche se è bravo, passa dalla parte cattiva dell’autorità, diventa poi difficile costrui-re in positivo un potere condiviso e ci sarà sempre una frangia critica che delegittima l’autorità. Siamo di fronte a processi in cui manca la corresponsabilità.La partecipazione, invece, non può che essere orientata dalla corresponsabilità (6).Laddove permane una cultura che non intende interrogarsi su come sia possibi-le articolare dettagliatamente un modello democratico, si può diffondere una cultura anti-autoritaria che ritiene che tutto debba essere deciso sempre tutti insieme, con in-finite e indefinite riunioni. Una cultura che può persino arrivare a delegare al web la so-luzione di tutti i conflitti o e demandare tutto direttamente a un capo carismatico. Una cultura in cui non è chiaro cosa si è deciso. Nelle letture antropologiche di Pierre Clastres e David Graeber invece, così come nel pensiero della differenza, si mostra la possibilità di concepire il potere e l’autori-tà in termini positivi. Sono questi pensieri che ci aiutano anche a declinare meglio la partecipazione senza soppressione di pote-re e autorità. L’antiautoritarismo va rivisto come reazione ingenua (ancora maschile e occidentale) all’idea dominante di potere perché l’autorità si può esercitare in modo autorevole o autoritario. La diffusione del

senso di corresponsabilità nelle Odb è un tentativo di conciliare concretamente li-bertà e autorità. È l’idea di Arendt della piramide rovesciata:

In questo caso l’autorità non sarebbe stata generata né al vertice né alla base, ma a ognuno dei livelli della piramide: e questo ovviamente poteva costituire la soluzione a uno dei problemi più gravi di tutta la politica moderna, il quale con-siste non nel modo di conciliare libertà e ugua-glianza, ma nel modo di conciliare uguaglianza e autorità. (7)

La partecipazione chiede cura dei tempiLa dimensione temporale gioca un ruolo fondamentale nell’esercizio della demo-crazia. La scarsità di tempo per discutere serve alla logica dell’emergenza e alla presa di decisioni non condivise. Le sirene dell’e-mergenza sono strumenti esercitati, consa-pevolmente o inconsapevolmente, da chi ha già deciso. Per gli indigeni insurgentes del Chiapas democrazia e burocrazia hanno in comune i tempi lunghi. Purtroppo, però, i tempi non sono dilatabili all’infinito e le discussioni devono avere dei termini ragio-nevoli e sopportabili. Le assemblee fiume senza orari non aiutano la partecipazione. La puntualità dell’inizio e della fine è sin-tomatica di attenzione e rispetto per i/le partecipanti.Nelle organizzazioni in cui il tempo è retri-buito, un quarto d’ora di ritardo nell’inizio e uno alla fine costituiscono un costo rile-vante, se moltiplicato per tutti i momenti. In un’organizzazione di cento dipendenti che fa dieci riunioni con dieci persone a set-timana, questo tipo di ritardo in un anno co-stituisce un valore nettamente maggiore del costo di assunzione di una nuova persona.

6 | Cfr. Marmo M., Orientarsi insieme nella responsa-bilità, in «Animazione Sociale», 242, 2010, pp. 87-96.

7 | Arendt H., Sulla rivoluzione, Einaudi, Torino 2009.

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Per le Odb dove il tempo è dono non re-tribuito il danno è ancora maggiore: non è monetizzabile, ma toglie quanto di più prezioso, ovvero l’entusiasmo di chi dona il suo tempo e non si sente rispettato/a. La condivisione dei tempi di decisione, la puntualità nell’inizio e nella fine, la gestione corretta del tempo per la discussione sono ingredienti essenziali della democrazia. La funzione di timekeeper è sempre più eserci-tata. La partecipazione può essere ostacola-ta dalla frequenza delle convocazioni di as-semblee plenarie, sia troppo ravvicinate sia troppo diradate. Inoltre è consigliabile che per la gestione del tempo in riunioni e as-semblee chi conduce espliciti (e ne verifichi il consenso) non solo il tempo da dedicare a ciascun oggetto all’ordine del giorno, ma anche l’ordine dei punti da affrontare e, per ciascun punto, i tempi dedicati alla discus-sione, alla consultazione e alla decisione.Branca consiglia una struttura a fisarmonica dove alla discussione si alternino microde-cisioni per evitare i classici imbuti decisiona-li dove, dopo avere dedicato lungo tempo alla esposizione delle idee, si passa frettolo-samente alle decisioni. In un mondo dove il tempo è caratterizzato dalla fretta, per Ennio Ripamonti buon accorgimento è darsi picco-li traguardi raggiungibili, in cui ogni piccolo successo alimenti l’entusiasmo collettivo (8).La democrazia deve avere tempi lunghi ma non può avere tempi infiniti, qui sta la diffi-coltà, qui la necessaria parzialità.

Tra spazi informali e ambiti formalizzatiIn molte organizzazioni i soliti pochi riesco-no a governare perché esercitano il potere in modo informale fuori dagli ambiti decisio-

nali preposti. Il caso estremo e più diffuso è quello dove dietro l’ideologia dell’assem-blearismo (tutto deve essere deciso in assem-blea, anche a costo di riunioni fiume in cui tutti finiscono con il mal di testa) si pratica il potere di pochi. Nelle organizzazioni dove prevale il lavoro retribuito spesso, invece, viene additato il modello organizzativo come l’origine di tutti i mali: in tal modo tutte le energie vanno nella modifica perma-nente dell’organizzazione, ancora una volta funzionale al potere informale.

Il nodo è il tipo di relazioneD’altra parte occorre precisare che il pro-blema non è l’esistenza in sé di una lea-dership, ma il tipo di relazione tra leader e gruppo. Ponendo al centro della riflessio-ne il gruppo come soggetto di vita activa, potremmo anche vedere i/le leader come coloro che più si fanno influenzare e sanno captare umori e desideri del gruppo. I/le le-ader comunicano, ascoltano, condividono e esprimono i concetti in ideali e hanno un po’ le qualità descritte da Clastres a propo-sito dei capi delle società con potere non coercitivo: capacità di mediazione e paci-ficazione, generosità, capacità di parlare. È importante, però, che la leadership ef-fettiva sia anche formalmente investita dei ruoli di coordinamento e direzione, ricor-dando che la formalizzazione delle cariche e delle decisioni costituisce un fattore che facilita la partecipazione. Dove c’è assun-zione di responsabilità, conforme agli statu-ti o a quanto previsto dal piano formale, c’è partecipazione. Dove non c’è coincidenza tra piano formale e informale, dove le co-municazioni viaggiano prima nei corridoi che nei giusti canali formali, l’istituzione

8 | Cfr. Ripamonti E., Orientamenti per un’associazione partecipata. Declinare la partecipazione al tempo della

fretta, in «Animazione Sociale», 251, 2011, pp. 45-55.

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democratica sta soffrendo. Formalizzare e documentare decisioni e obiezioni è es-senziale, contrariamente a quanto accade in molte piccole organizzazioni, specialmente quelle più movimentiste, dove si pensa che redigere un verbale sia un atto burocratico, salvo poi ritrovarsi all’incontro successivo in cui ognuno pensa di avere deciso una cosa diversa dall’altro.

L’attenzioneallo spazio dell’informaleAvere cura del piano formale non vuole dire non dare la giusta importanza allo spazio del piano informale. Esso è sempre più considerato, specialmente in ambienti in cui le persone si stanno conoscendo, un elemento essenziale per permettere la libera contaminazione dei singoli. Nelle organiz-zazioni già strutturate il tempo e lo spazio dell’informalità è quello della creatività, delle idee nuove. Marianella Sclavi elogia la pausa caffè e i convegni concepiti intera-mente attorno a questo momento – il nome tecnico è Open Space Tecnology – così come Richard Sennett considera la pausa come lo spazio della creatività, della produttività e dello sviluppo della cooperazione. Solo in un’organizzazione che permette sistemati-camente due chiacchiere nella pausa caffè e quattro nella pausa pranzo ci può essere empowerment, a condizione però che i pas-saggi decisionali vengano poi assunti non solo formalmente ma sostanzialmente negli organi decisionali preposti. Una dimensione che invece crea uno spazio illusorio di formale partecipazione è internet, spesso usato non per fare circolare infor-mazioni, ma per coinvolgere in processi decisionali anomali. Si manda una e-mail, magari con alcune persone in copia, espri-

mendo un’opinione rispetto a una decisione e, se nessuno risponde, si assume che tutti siano d’accordo.Ancora peggio quando si demandano con-clusioni o lavori di gruppo allo strumento informatico, con la tacita idea che questo faciliti la partecipazione per il solo fatto che tutti/e vi hanno accesso. Le discussioni di gruppo via web sono spesso un dialogo tra sordi in cui domina l’attribuzione delle in-tenzioni perché il contesto abolisce la co-municazione empatica non verbale. È così facile la separazione tra formale e informale? E se aggiungiamo a ciò che nelle Odb ci sono spesso rapporti perso-nali di amicizia che confondono il quadro? L’importante è che non si creino poteri d’ombra, che tutti/e sappiano in anticipo le decisioni che saranno prese, perché que-sto svuoterebbe il peso della riunione. Può aiutare l’esistenza di gruppi temporanei e trasversali, importanti per creare ascolto e contaminazioni in zone intermedie.

Rotazione delle cariche e separazione dei poteriI piccoli gruppi, quelli in cui si può fare lavoro di gruppo e non solo in gruppo, sono i veri protagonisti della vita delle Odb. Ad alcune condizioni.

Far levasulla rotazione delle caricheIl punto nevralgico è proprio la rotazione delle cariche. Branca sostiene che «si potreb-be pensare che non esista la partecipazione laddove i percorsi non favoriscono nuove le-adership, oppure dove le persone portatrici di disagio sono sempre le stesse» (9).Anche nella democrazia rappresentativa

9 | Branca P., Organizzare la partecipazione o parte-cipare l’organizzazione?, in «Animazione Sociale», 3,

2000, p. 54.

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le cariche sono sempre sottoposte a rota-zione. Anche se si perde un po’ in efficien-za, si guadagna in partecipazione. Questo assunto è in contraddizione con il diritto del lavoro che richiede differenziazione salariale tra chi ha maggiori responsabilità dirigenziali e chi no, rendendo impossibi-le demansionare un/a dirigente una volta terminato l’incarico. Per questo alcune cooperative adottano stratagemmi interes-santi che risolvono, in parte, la questione: nessuno può avere un livello da dirigente e il corrispettivo viene dato pro tempore per la durata della carica direttiva. Più difficile diventa il ri-collocamento del leader cari-smatico dell’ex-direttore una volta finito l’incarico.

La separazione fra chi decidee chi promuove la partecipazioneC’è un secondo punto che attiene alla dif-ferenziazione dei ruoli e dei poteri: la sepa-razione tra chi decide e chi promuove la par-tecipazione. Per Branca la partecipazione è il motore dell’organizzazione se si tengono separate le funzioni di comando e di pro-mozione della partecipazione. Quando si partecipa l’organizzazione i membri sono costantemente chiamati a essere attivi, quando invece i/le leader sono preoccu-pati di dovere fare partecipare i membri significa che le energie vanno verso un coinvolgimento superficiale. Si organizza la partecipazione senza però permettere che le persone incidano nei processi decisiona-li, come accade spesso durante le assemblee dove scorrono slide e informazioni, ma non si partecipa alle scelte. La condizione è che venga predisposto un ruolo che promuo-va la partecipazione, diverso da chi dirige l’organizzazione.

Lo spazio tra le funzioni consultive e quelle decisionaliUn terzo elemento per un bilanciamento dei poteri è la separazione tra le funzioni consultive e quelle decisionali che permette di capire chi si sta assumendo la responsabi-lità. Spesso può essere positivo che alcuni gruppi si limitino a esprimere un parere e che la responsabilità venga spostata verso il vertice. Il rischio è invece che la dirigenza, quando deve prendere decisioni sgradevoli, scarichi verso la base le responsabilità con moda-lità decisionali poco chiare. È importante esplicitare quando si sta chiedendo un parere orientativo o consultivo e quando si sta prendendo una decisione. Una Odb può scegliere di fare consultazioni fredde (questionari on/off line) o calde (interazione diretta) (10). Se gestite con obiettivi chiari le prime possono essere efficaci: disponibilità di orari, domande chiuse chiare permettono di rilevare orientamenti e disponibilità con grandi numeri in tempi brevi. Se invece l’o-biettivo è il dialogo e l’influenzamento l’uso di strumenti informatici diventa rischioso.

La presenza di volontari negli organi decisionaliUn quarto elemento, per promuovere la separazione di poteri, è la presenza di vo-lontari in organi decisionali. È faticosa ma di grande valore. In particolare la presenza di una direzione esecutiva diversificata da un luogo collegiale politico volontario. Ci troveremmo di fronte a una piramide rove-sciata con al vertice basso un direttivo (uno, due o tre subdirigenti a rotazione) e con la base in alto formata dall’assemblea dei soci: in mezzo ci sarebbe un consiglio di ammini-strazione o un comitato generale (meglio se

10 | Cfr. Ripamonti E., art. cit.

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sempre aperto e/o con osservatori, sindaci, revisori, ecc.) che definisce gli orientamenti.

La valorizzazionedelle decisioni perifericheInfine bisogna guardare anche la piramide non rovesciata e alla relazione tra centro e periferia. Nella quotidianità una Odb par-tecipata lascia spazio alle équipe pratican-do una partecipazione operativa (11) distinta dalla tradizionale partecipazione democra-tica (assemblee dei soci). La democrazia operativa parte dal riconoscimento del lavoro e delle competenze, promuovendo la formazione, dando spazio a équipe de-centrate, autonomie di aree, insomma a de-cisioni periferiche, dove ogni gruppo ha la possibilità di decidere importanti questioni del suo operato senza dipendere dal centro.

Una costante rifondazione dei principiI principi non sono sempre mere dichia-razioni di intenti, ma punti fissi su cui ri-chiamare l’identità del gruppo e la coerenza tra teoria e pratica. Senza chiari principi fondativi (e poi rifondativi) non vi può es-sere gruppo e partecipazione. Solo pren-dendosi la responsabilità di chiarire quali sono i principi includenti (ed escludenti) del gruppo si può agire coerentemente. Qualsiasi Odb si basa su principi fondan-ti. Se i principi sono condivisi non esiste una proprietà dell’idea; l’idea è autonoma, modificabile da tutti/e, perché è interpre-tazione e applicazione dei principi dell’or-ganizzazione. Lottano e vincono le idee e non gli individui. Gli ideali sono essenziali perché creano una cultura in cui si possono contraddire le affermazioni dei capi. Se l’or-

ganizzazione non ha principi ispiratori, in nome di quale valore potrei avanzare delle obiezioni pubbliche all’autorità? Più facile che ogni critica si trasformi in dinamica per il potere. Per questo uno degli indicatori di mancanza di partecipazione è la paura di dire pubblicamente la verità e il non potere contraddire i propri superiori.I principi non devono essere fissati una volta per tutte, ma devono pur esserci. I numerosi obblighi etici e normativi di fornire carte di servizio, bilanci sociali e documenti di vision e mission sono serviti per (ri)definire e condividere i principi dell’organizzazio-ne. È importante che nelle organizzazioni ci si rifaccia ai principi, li si ri-condivida continuamente, per evitare che diventino un pretesto per legittimare meccanismi di tipo gerontocratico. Non si deve avere paura di essere escludenti, perché l’identità di un gruppo è inevitabilmente escludente, ma i tentativi di essere indefinitamente aper-ti non permettonola costruzione dei limiti dell’organizzazione. Viceversa, darsi una identità significa darsi limiti entro cui co-operare.

11 | Cfr. Civati S., Quale democrazia per la cooperazione sociale?, in «Animazione Sociale», 5, 2004, pp. 73-81.

La democrazia parte

dal riconoscere il lavoro e le competenze, dando spazio a équipe decentrate,

autonomie di aree,

decisioni periferiche

senza dipendere

dal centro.

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Per la costruzione di principi condivisi occorre il continuo nutrimento di sinceri-tà e precisione, virtù pratica e sapere. La partecipazione si esprime nel concorso alla costruzione di una visione comune. Essere un gruppo che pensa insieme, riconoscendo genealogie, alterità e sentendo un debito verso le generazioni future, sempre in dia-logo e mai in processi di idealizzazione, il che concretamente significa rinunciare alle proprie idee per attestarsi su quelle poche su cui si è tutti/e d’accordo (12).

La presenza femminileamplia la partecipazioneIl fatto che i progetti di sviluppo comunita-rio, anche della Banca mondiale e degli or-ganismi internazionali, puntino sulle donne per lo sviluppo (il celebre caso del micro-credito) è solo un indice della asimmetria giocata da uomini e donne nell’empower-ment. L’equilibrio di genere o, meglio, uno sbilanciamento verso una maggioranza di donne è oggi auspicabile nelle Odb che in-tendano orientarsi alla partecipazione, per-ché il linguaggio e le modalità relazionali non sono neutre.Nella mia esperienza, laddove c’erano più donne che uomini nella gestione del potere, c’era anche maggiore coerenza tra principi e pratiche, maggiore aderenza alle relazioni e orientamento del gruppo alla soluzione dei problemi, minori divisioni teoriche, più col-laborazione, meno competitività, maggiore riconoscimento dell’autorità e assunzione di responsabilità, più ascolto e mediazione tra le persone. Quindi una maggioranza (non una parità!) di donne comporta spes-so una maggiore partecipazione. Non siamo certo di fronte a una legge biologica e ci

sono non pochi casi di organizzazioni dove le donne al potere, se prive di un percorso di riflessione sulla propria identità, finiscono per riprodurre esercizi del potere maschili. Certo scarse sono in Italia le possibilità di formazione per l’identità di genere maschile e femminilie, ma un maggiore potere alle donne, in un contesto che consapevolmente voglia promuovere l’empowerment, risulta una condizione indispensabile.

L’arte di ascoltare e di praticare il conflitto Viviamo in una società che teme il conflitto, come ci ricordano M. Benasayag e A. Del Rey e dove manca un’educazione alla gestio-ne evolutiva e nonviolenta del conflitto. La rimozione la troviamo anche nelle nostre or-ganizzazioni dove rispetto e riconoscimento delle individualità costituiscono elementi essenziali per la partecipazione. In gioco c’è la dinamica tra il singolo e il gruppo, dove il singolo non viene schiacciato dal gruppo se il gruppo non viene bloccato dal singolo, richiedendo lo sviluppo di una autoconsape-volezza emozionale, la capacità di convivere con le emozioni negative (paure, frustrazio-ni, irritazioni) che nascono quando le pro-prie idee non vengono accettate dal gruppo. In realtà, dove c’è semplicemente il rispet-to, il conflitto diventa utile. Il rispetto degli individui passa per il diritto di avere ed esprimere opinioni e sentimenti, di essere ascoltato e preso seriamente, il diritto di dire di no senza sentirsi in colpa, di chie-dere ciò di cui si ha bisogno e di cambiare opinione e non essere giudicato. Il rispetto e il riconoscimento possono concorrere a for-mare una cultura di gruppo, a condizione che ogni singolo sviluppi l’arte di ascoltare

12 | Pollo M., Alla scoperta del proprio compito nel mondo. Sette principi per una relazione educativa parte-

cipata, in «Animazione Sociale», 244, 2010, pp. 56-66.

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tecipazione. Molti processi decisionali ver-tono infatti sull’utilizzo delle risorse. L’aspetto economico deve essere sia dele-gato sia controllato. Più l’organizzazione è complessa più aumenta la distanza tra chi ha la delega dell’amministrazione dei soldi e dei beni e l’assemblea dei membri. Eppure è proprio nella partecipazione sulle scelte con implicazioni economiche che si gioca la grande partita partecipativa.

Il rifugio nelle motivazioni tecnicheSpesso motivi tecnici o mancanza di cono-scenze circa i margini di decisioni econo-miche arrivano sul più bello a bloccare dei processi partecipati.È fondamentale che ci siano livelli diversi di controllo, che gli strumenti di controllo di gestione abbiano una struttura a fisar-monica chiara in grado di consentire mag-giori dettagli ai diversi livelli, senza fornire aggregati incomprensibili come le voci del bilancio fiscale. I maggiori dettagli devono essere sotto il controllo della punta della piramide, ma spostandoci verso la base ci deve essere un controllo sulle macrovoci e sulle motiva-zioni di alcune scelte generali. Il bilancio sociale, che dovrebbe essere lo strumento di controllo di gestione dei soci sull’operato della dirigenza, viene spesso ridotto a stru-mento di marketing. Il bilancio sociale può evidenziare (o na-scondere) la relazione dei dati non econo-mici (ore lavoro, persone assunte, collabo-ratori esterni) con i relativi costi; evidenzia-re le aree stabilite di intervento, con punti strategici individuati dalla base dei soci. Se esiste una distinzione tra un bilancio

e di fare domande.La società non educa individui capaci di re-lazionarsi e collaborare, ma esaspera l’anta-gonismo.La capacità di ascolto è in crisi, ma non mancano suggerimenti nella direzione dell’antropologia e pedagogia dell’ascolto, così come tecniche di mediazione attraverso l’ascolto attivo che aiutano a costruire le domande. Il gruppo deve fare attenzione ai sentimenti espressi dai singoli (prima che ai contenuti), promuovere la distinzione tra le persone e le questioni sollevate, evi-tare che vengano attribuite intenzioni agli altri/e, concentrarsi non sulle teorie ma sulle soluzioni.Se esistono i presupposti di rispetto, ascolto e domande, il conflitto tra le individualità assume un ruolo positivo. Come insegna la pedagogia nonviolenta, il miglior modo per non essere violenti è sviluppare una pedagogia del conflitto, che orienti a ge-stirlo in modo creativo, imparando a viverlo come fattore essenziale della collaborazio-ne. Un’Odb può crescere sul conflitto se le persone sono consapevoli di non essere individui monolitici ma soggetti attraversati da conflitti interiori in un regime di auten-tica molteplicità dell’io (13).

Una gestione economica realmente partecipataLe competenze economiche diffuse e la trasparenza della gestione dei fondi sono un aspetto delicato della democrazia. La conoscenza degli aspetti microeconomici è spesso competenza delegata a pochi «tec-nici». Se c’è unione di politica ed economia e se c’è trasparenza nella gestione dei fondi siamo in una Odb dove si promuove la par-

13 | Del Rey A., Benasayag M., Elogio del conflitto, Feltrinelli, Milano 2008; sulla consapevolezza emo-zionale e la pedagogia dell’ascolto, cfr. Sclavi M., Arte di ascoltare e mondi possibili, Mondadori, Mi-

lano 2003; sull’ascolto attivo e l’importanza di porre correttamente le domande nei processi di mediazione, cfr. Besemer Ch., Gestione dei conflitti e mediazione, Ega, Torino 1999, pp. 118ss.

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per poche persone fare lavoro di gruppo, questo è fisiologicamente più difficile nelle Odb dove non ci si può ascoltare veramen-te tutti e tutte. Qui, se parliamo di metodo decisionale, dobbiamo scegliere tra il me-todo a maggioranza e quello del consenso. Generalmente si ritiene che i parlamenti decidano per maggioranza mentre solo nei piccoli gruppi sia possibile il metodo del consenso. D’altra parte il metodo del con-senso era ed è diffuso in molte culture come prassi che integra nella decisione anche le considerazioni della minoranza.

La scelta preliminare di decidere insiemeCon questo metodo l’obiettivo è esplicitare gli elementi che accomunano i membri del gruppo anche a rischio di ridurre le poste decisionali. Si decide meno ma insieme. Graeber ne vede l’origine politica nei grupos de afinidad della rivoluzione spagnola e ne rintraccia l’applicazione nei recenti movi-menti sociali altermondialisti. Qui si possono evidenziare alcuni elementi che contraddi-stinguono questo metodo: la distinzione di ruoli (facilitatore, timekeeper, coordinatore, osservatore esterno o empatico, segretario); la presenza del linguaggio non verbale (per segnalare l’orientamento del gruppo, le ri-chieste di singoli di chiarimento, per espri-mere accordo o disaccordo mentre uno parla senza interrompere); la possibilità di bloc-care una decisione se non si è convinti (14).

Le fasi e gli strumenti di lavoroIl processo decisionale è, poi, da vedere nelle sue diverse fasi: la discussione della questione dove si mettono in campo tutte le possibili soluzioni, si discutono le pro-

sociale interno e uno esterno è probabile che il primo venga usato per promuovere la partecipazione e il controllo.

Il ruolo di gruppiintermedi competentiAnche aspetti più specifici come l’anda-mento dei crediti e i debiti (oltre che im-mobilizzazioni e patrimonio netto, per fare solo alcuni esempi) in confronto al trend degli anni precedenti, richiedono strumenti di specifico controllo. In questo senso lo strumento di controllo di gestione è il bilan-cio sociale interno che avrà livelli maggiori di aggregazione se ci spostiamo verso la base della piramide rovesciata.Sul terreno economico, spesso si rinuncia alla formazione di organi intermedi di de-cisione con capacità di decifrazione degli elementi essenziali di contabilità e mana-gement richiesti oggi. Non è pensabile una Odb democratica in cui non ci sia partecipa-zione all’organizzazione economica.Qui gioca un ruolo strategico quel Cda, di-stinto dalla direzione esecutiva, concepito come organo intermedio tra la base e la dire-zione, nel tracciare le politiche economiche ma al tempo stesso nel facilitare la diffu-sione di competenze. Ruolo analogo può essere svolto da gruppi intermedi appositi.

Decidere per consensoo per maggioranza?La condivisione del metodo nel processo decisionale è un ultimo snodo. Nei piccoli gruppi con meno di 15 persone, ciascuno può capire bene il punto di vista altrui ed entrare in relazione di ascolto e sano con-flitto, ma questo non è possibile sopra questa soglia critica. Se è quindi più facile

14 | Cfr. Graeber D., Critica della democrazia occiden-tale, Elèuthera, Milano 2012; Tecchio R., Metodo del

consenso, cultura della pace e processi partecipativi, in «Quaderni del Centro studi difesa civile», Roma 2014.

Animazione Sociale novembre | 2014 luoghi&professioni | 95

propone di usare al posto di quello di mili-tante mette a fuoco un passaggio epocale: se nel Novecento la politica si è giocata nei partiti e al loro fianco, in quella che Sennett definisce la cooperazione dall’alto, in questo millennio la politica si gioca nella parteci-pazione diretta tramite le Odb, in quella che Sennett definisce la cooperazione dal basso e Revelli la sinistra sociale. Ciò che le caratterizza è che chi vi lavora, coopera per scelta ed esige partecipazione. Le Odb diventano virtuose quando promuovono empowerment dentro e fuori, prefigurando una società basata su principi solidaristici e di mutuo aiuto. La partecipazione deve es-sere costruita, monitorata, facilitata e curata costantemente. È una capacità da formare e tenere allenata.Entrando nel merito di quelli che, all’atto pratico, possono essere i fattori che ostaco-lano e quelli che facilitano la partecipazio-ne, si è voluto dare un piccolo contributo affinché queste Odb possano continuare a prefigurare un futuro migliore. Senza pas-sare per queste difficoltà concrete siamo condannati a vivere senza cittadini capaci di vita activa, ovvero siamo condannati a vivere in società dispotiche. Non è un caso che da diverse prospettive Freire e Arendt convergano nel ritenere la coniugazione di libertà e autorità la più grande sfida politica contemporanea. Ed è proprio questa dif-ficile conciliazione concreta tra autorità e libertà che ho cercato di evidenziare nelle dieci criticità concrete. È necessaria una continua educazione alla libertà, libertà che non finisce ma inizia proprio dove inizia la libertà altrui.

poste (meglio se scritte), le si modifica, le si raggruppa, per costruire una proposta su cui verificare l’orientamento. Il sistema per consenso si contraddistingue per il meccani-smo del blocco che può essere o migliorativo o per disaccordo. Il blocco per disaccordo può essere presentato se si ritiene che si stia andando contro i principi dell’organizza-zione. Il/la dissenziente definisce e presenta bene l’obiezione anche in termini di nuova proposta positiva. Si ridiscutono i pro e i contro di ogni proposta.Per fare in modo che tutti possano espri-mersi al meglio, si adottano diversi metodi di discussione (tavola rotonda, piccoli grup-pi, gruppi omogenei o eterogenei, gruppi di affinità). L’eventuale mancanza di consenso fa partire un altro ciclo di discussione per affrontare altre obiezioni. Diversamente si cerca di modificare la proposta, riformu-landola in modo da includere le obiezioni sollevate. Il metodo del consenso può tro-vare una buona applicazione nel consiglio dei portavoce che discutono cercando una soluzione, mentre i gruppi di cui portano la voce rimangono alle spalle, ascoltano, discu-tono e forniscono indicazioni al portavoce.Il consenso non è l’unica modalità parteci-pativa e non è forse applicabile per ogni tipo di decisione. Un saggio uso del metodo per maggioranza, dove la minoranza sia rispetta-ta, può essere tutelante, riconoscendo le di-versità senza bloccare i meccanismi decisio-nali. Un indice di democrazia si ha quando maggioranza e minoranza si ricompongono in modo continuamente diverso.

La partecipazione è frutto di allenamentoIl termine volontario che Marco Revelli (15)

Simone Lanza, maestro elementare, ha lavo-rato nel terzo settore ed è stato vicedirettore di Agape centro ecumenico; il suo blog è glo-bildung.wordpress.com/

15 | Cfr. Revelli M., Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi, Torino 2001.