Genre et sexualité: Homophobie entre philosophie et psychanalyse
L’Education sentimentale. Flaubert et l’histoire
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Rousseau e l’inganno totalitario Problemi e situazioni problema nelle scienze D’Annunzio e la musica L’Education sentimentale. Flaubert et l’histoire
E D I T R I C E
LA SCUOLA
E D I T R I C E
LA SCUOLA
3novembre 2013anno XXXI
Nuova Secondaria mensile di ricerca, cultura, orientamenti educativi, problemi didattico-istituzionaliper le scuole del secondo ciclo di istruzione e formazione
Galileo Galilei scienziato e fi losofo
9
EDITORIALE
Giovanni Gobber Crisi della lettura e crisi della ragione 5
NUOVA SECONDARIA RICERCAhttp://nuovasecondaria.lascuolaconvoi.it
NS RICERCA 2Mirca Benetton Il maschile e il femminile nella pedagogia del corso
di vita: spunti di riflessione dall’EmilioAndrea Porcarelli La funzione pedagogica del “Grand tour” come iniziazione
alla vita adulta nell’Emilio di RousseauRossana Adele Rossi Giustizia sociale e dignità umana: il problema
pedagogico della democrazia in Martha C. NussbaumJusticia social y dignidad humana: el problema pedagógicode la democracia en Martha C. Nussbaum
Eliana Versace Paolo VI di fronte alla legge sull’istituzione del divorzioed il referendum abrogativo
Antonio Argentino L’adattamento flessibile come orientamento scolasticoFrancesco Paolo Calvaruso Costituzione ed appartenenza. Un connubio pedagogico
Simonetta Costanzo Per una pedagogia della differenza. Alcune riflessioni
Teodora Pezzano La scuola laboratorio di John Dewey:la “sperimentazione” dell’individuo per la democrazia
NS RICERCA 3Emmanuele Massagli Alternanza e istruzione e formazione professionaleAdriana Lafranconi Per la modificabilità del disturbo della disgrafia
la riscoperta dell’educazione del gesto grafico, valida per tuttiMaria Rita Fedele Figurazioni del femminile nella tradizione culturale del mito
FATTI E OPINIONI
Il fattoGiovanni Cominelli Il riformismo bruciato di/da M.S. Gelmini 7
Il futuro alle spalleCarla Xodo L’obbedienza chiede autorità 8
Vangelo docentePaola Bignardi Far credito al dubbio 9
Asterischi di Kappa Non di sola scuola vive il giovane 10
La lanterna di DiogeneFabio Minazzi La scuola italiana: diamo un po’ di numeri 10
Occhio alla scienzaMatteo Negro Corporeità e metafora 11
Asterischi di Kappa Profezie 12
Didattica del classicoAugusta Celada Modelli grammaticali, tecniche
d’insegnamento e metodo 13
Tempo perduto, tempo ritrovatoFranco Carinci Gli scherzi della storia 15
Nuova Secondaria n. 3
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60
PROBLEMI PEDAGOGICIE DIDATTICI
Michele Tiraboschi Dottorati industriali e mercato del lavoro: appunti per una ricerca 17
Mario Martinelli Valore dell’integrazionee prevenzione della violenza 19
Piero Viotto Insegnare storia della filosofia secondo Maritain 22
Emanuela M. T. Torre Valutare gli interventi educativi nella scuola 26
STUDI
GALILEO GALILEI SCIENZIATO E FILOSOFO a cura di Fabio Minazzi 30Fabio Minazzi Per una nuova lettura epistemologica del
Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 32
Brigida Bonghi Sul processo a Galileo 37
Paolo Giannitrapani Le due nuove scienze di Galileo 40
Fabio Minazzi Galileo e il valore culturale della tecnica 45
Monica Iori Dialogo, narrazione e verità in Galilei 48
PERCORSI DIDATTICI
Raffaele Mellace D’Annunzio e la musica 51
Rossana Cavaliere Chi ben comincia… (1) 55
Paolo A. Tuci Storiografia ed etnografia 60
Andrea Potestio J.-J. Rousseau e l’inganno totalitario 64
Maria Rita Fedele Filosofia della differenza sessuale 68
Rosa Maria Parrinello Il cibo nelle religioni 71
Giovanni Villani L’ottica della complessità sistemicae il mondo molecolare 74
Giovanni V. Pallottino Introduzione alla sobrietà (1) 83
E. Patergnani - L. Pepe Insegnamenti matematici e istruzione tecnicanel processo di unificazione nazionale (2) 91
E. Roletto - A. Regis - Problemi e situazioni-problemaE. Ghibaudi nell’insegnamento delle scienze 96
LINGUE, CULTURE E LETTERATURE a cura di Giovanni Gobber
Marisa Verna L’Education sentimentale. Flaubert et l’histoire 105
Maria Paola Tanchini Che cosa facciamo quando diciamo crucco? 109
Giuliana Bendelli Buon compleanno a Ezra Pound 114
LIBRI
a cura di Luigi Tonoli e Lucia Degiovanni 119
Lezioni con slide disponibili sul sito di Nuova Secondaria (http://nuovasecondaria.lascuolaconvoi.it).
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Rousseau e l’inganno totalitario Problemi e situazioni problema nelle scienze D’Annunzio e la musica L’Education sentimentale. Flaubert et l’histoire
E D I T R I C E
LA SCUOLA
E D I T R I C E
LA SCUOLA
3novembre 2013anno XXXI
Nuova Secondaria
mensile di ricerca, cultura, orientamenti educativi, problemi didattico-istituzionaliper le scuole del secondo ciclo di istruzione e formazione
Galileo Galilei scienziato e fi losofo
3
DIRETTORE
Giuseppe Bertagna Università di Bergamo
COMITATO DIRETTIVO
Cinzia Susanna Bearzot - Università Cattolica, Milano
Edoardo Bressan - Università di Macerata
Alfredo Canavero - Università Statale, Milano
Giorgio Chiosso - Università di Torino
Luciano Corradini - Università Roma Tre
Lodovico Galleni - Università di Pisa
Pietro Gibellini - Università Ca’ Foscari, Venezia
Giovanni Gobber - Università Cattolica, Milano
Angelo Maffeis - Facoltà Teologicadell’Italia Settentrionale, Milano
Mario Marchi - Università Cattolica, Brescia
Luciano Pazzaglia - Università Cattolica, Milano
Giovanni Maria Prosperi - Università Statale, Milano
Pier Cesare Rivoltella - Università Cattolica, Milano
Stefano Zamagni - Università di Bologna
COMITATO DI REDAZIONE
Parte generale e settore umanisticoLuigi Tonoli, Lucia Degiovanni
con la collaborazione diAndrea Potestio, Don Fabio Togni
Settore scientificoMarina Dalè, Pietro Marchese
ImpaginazioneMarco Filippini
Segreteria di RedazioneAnnalisa Ballini ([email protected])
Supporto tecnico area [email protected]
Mensile di ricerca, cultura, orientamenti educativi,problemi didattico-istituzionali per le Scuole del secondo ciclo di istruzione e di formazioneFondatore e direttore emerito: Evandro AgazziAnno XXXI - ISSN 1828-4582
Direzione, Redazione e Amministrazione: EDITRICE LASCUOLA, Via Gramsci, 26, 25121 Brescia - fax 030.2993.299 - Tel.centr. 030.2993.1 - Sito Internet: www.lascuola.it - Direttore re-sponsabile: Giuseppe Bertagna - Autorizzazione del Tribunale diBrescia n. 7 del 25-2-83 - Poste Italiane S.p.A. - Sped. in A.P.-D.L.353/2003 (conv. in L. 27/02/04 n. 46) art. 1, comma 1 - DCB Bre-scia - Editrice La Scuola - 25121 Brescia - Stampa Vincenzo Bona1777 Spa, Torino - Ufficio marketing: Editrice La Scuola, Via Gram-sci 26, - 25121 Brescia - tel. 030 2993.290 - fax 030 2993.299 - e-mail: [email protected] – Ufficio Abbonamenti : tel. 0302993.286 (con operatore dal lunedì al venerdì negli orari 8,30-12,30 e 13,30-17,30; con segreteria telefonica in altri giorni e orari)- fax 030 2993.299 - e-mail: [email protected].
Abbonamento annuo 2013-2014: Italia: € 69,00 - Europa e Ba-cino mediterraneo: € 114,00 - Paesi extraeuropei: € 138,00 - Ilpresente fascicolo € 7,00. Conto corrente postale n.11353257(N.B. riportare nella causale il riferimento Cliente). L’editore si ri-serva di rendere disponibili i fascicoli arretrati della rivista in for-mato PDF. I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasimezzo (compresi i microfilm), sono riservati per tutti i Paesi. Fo-tocopie per uso personale del lettore possono essere effettuatenei limiti del 15% di ciascun fascicolo di periodico dietro paga-mento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per fi-nalità di carattere professionale, economico o commerciale o co-munque per uso diverso da quello personale possono essereeffettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata daAIDRO, corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org.
Per eventuali omissioni delle fonti iconografiche, l’editore si di-chiara a disposizione degli aventi diritto.Sito della rivista http://nuovasecondaria.lascuolaconvoi.it
Gli articoli della Rivista sono sottoposti a referee doppio cieco (double blind). La documentazione rimane agli atti.Per consulenze più specifiche i coordinatori potranno avvalersi anche di professori non inseriti in questo elenco.
Salvatore Silvano NigroIULM
Maria Pia PattoniUniversità Cattolica, Brescia
Massimo PauriFisica teorica, Modelli matematici,
Università di ParmaJerzy Pelc
Semiotica, Università di VarsaviaSilvia Pianta
Geometria, Università Cattolica, BresciaFabio Pierangeli
Letteratura italiana, Università di Roma Tor Vergata
Pierluigi PizzamiglioStoria della scienza, Università Cattolica, Brescia
Simonetta PolenghiStoria della pedagogia, Università Cattolica, Milano
Luisa PrandiStoria greca, Università di Verona
Erasmo RecamiFisica, Università di Bergamo
Enrico ReggianiLetteratura inglese, Università Cattolica, Milano
Filippo RossiPatologia generale, Università di Verona
Giuseppe SermontiGenetica, Università di Perugia
Ledo StefaniniFisica, Università di Mantova
Ferdinando TagliaviniStoria della musica, Università di Friburgo
Guido TartaraTeoria dei sistemi di comunicazione,
Università di MilanoFilippo Tempia
Neurofisiologia, Università di TorinoMarco Claudio Traini
Fisica nucleare e subnucleare, Università di Trento
Piero UgliengoChimica, Università di Torino
Lourdes VelazquezBioetica e Filosofia del Messico,
Universidad Anáhuac, Northe MexicoMarisa Verna
Lingua e letteratura francese,Università Cattolica, Milano
Claudia VillaLetteratura italiana, Università di Bergamo
Giovanni VillaniChimica, CNR, Pisa
Carla XodoPedagogia, Università di Padova
Pierantonio ZanghìFisica, Università di Genova
Floriana FalcinelliDidattica generale e Tecnologie dell'Istruzione,
Università degli Studi di PerugiaVincenzo Fano
Logica e filosofia della scienza, Università di UrbinoRuggero Ferro
Logica matematica, Università di VeronaSaverio Forestiero
Biologia, Università Tor Vergata, RomaArrigo Frisiani
Calcolatori elettronici, Università di GenovaAlessandro Ghisalberti
Filosofia teoretica, Università Cattolica, MilanoValeria Giannantonio
Letteratura italiana, Università di Chieti - PescaraMassimo Giuliani
Pensiero ebraico, Università di TrentoAdriana Gnudi
Matematica generale, Università di BergamoGiuseppe Langella
Letteratura italiana contemporanea,Università Cattolica, Milano
Giulio LanzavecchiaBiologia, Università dell’Insubria
Erwin LaszloTeoria dei sistemi, Università di New York
Giuseppe LeonelliLetteratura italiana, Università Roma Tre
Carlo LottieriFilosofia del diritto, Università di Siena
Gian Enrico ManzoniLatino, Università Cattolica, Brescia
Emilio ManzottiLinguistica italiana, Università di Ginevra
Alfredo MarzocchiMatematica, Università Cattolica, Brescia
Vittorio MathieuFilosofia morale, Università di Torino
Fabio MinazziFilosofia teoretica, Università dell’Insubria
Alessandro MinelliZoologia, Università di Padova
Enrico MinelliEconomia politica, Università di Brescia
Luisa MontecuccoFilosofia, Università di Genova
Moreno MoraniGlottologia, Università di Genova
Gianfranco MorraSociologia della conoscenza, Università di Bologna
Maria Teresa MoscatoPedagogia, Università di Bologna
Alessandro MusestiMatematica, Università Cattolica, Brescia
Seyyed Hossein NasrFilosofia della scienza, Università di Philadelphia
Francesco AbbonaMineralogia, Università di Torino
Giuseppe AconePedagogia, Università di SalernoEmanuela Andreoni Fontecedro
Lingua e letteratura latina, Università di Roma Tre
Dario AntiseriFilosofia della scienza, Collegio S. Carlo, Modena
Gabriele ArchettiStoria Medioevale, Università Cattolica, Milano
Andrea BalboLatino, Università degli studi di Torino
Giorgio Barberi SquarottiLetteratura italiana, Università di Torino
Raffaella BertazzoliLetterature comparate, Università di Verona
Fernando BertoliniIstituzioni di Analisi Superiore,
Università di ParmaGianfranco Bettetini
Teoria e tecniche delle comunicazioni, Università Cattolica, Milano
Maria BocciStoria contemporanea,
Università Cattolica, MilanoCristina Bosisio
Glottodidattica, Università Cattolica, MilanoMarco Buzzoni
Logica e filosofia della scienza, Università di Macerata
Luigi CaimiBiochimica e biologia molecolare,
Università di BresciaLuisa Camaiora
Linguistica inglese, Università Cattolica, MilanoRenato Camodeca
Economia aziendale, Università di BresciaFranco Cardini
Storia medievale, ISU, Università di FirenzeMaria Bianca Cita Sironi
Geologia, Università di MilanoMichele Corsi
Pedagogia, Università di MacerataVincenzo Costa
Filosofia teoretica, Università di CampobassoGiovannella Cresci
Storia romana, Università di VeneziaLuigi D’Alonzo
Pedagogia speciale, Università Cattolica, Milano
Cecilia De CarliStoria dell’arte contemporanea,
Università Cattolica, MilanoBernard D’Espagnat
Fisica, Università di Parigi
CONSIGLIO PER LA VALUTAZIONE SCIENTIFICA DEGLI ARTICOLI
Coordinatori del Consiglio:Luigi Caimi e Carla Xodo
Crisi della lettura e crisi della ragione Giovanni Gobber
EDITORIALE
5Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI
Indagini compiute da organismi internazionali mostrano che, negli anni a cavallo delDuemila, solo un quinto «della popolazione adulta italiana possedeva allora gli strumentiminimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società
contemporanea» (Tullio De Mauro, Analfabeti d’Italia, «Internazionale», n. 734, 6 marzo 2008). Ancora oggi, sembra che circa l’ottanta per cento degli adulti fatichi a comprendere testi scritti
come «il comunicato di uno sciopero, il programma di un partito, il regolamento del condominio,le modifiche contrattuali di una banca» (Fulvio Cammarano, I nuovi analfabeti, «Corriere diBologna», 4 aprile, p. 1). Si tratta peraltro di elaborati intrisi di formule burocratico-amministrative lievemente (!) oscure anche a coloro che rientrino in quel venti per cento di lettoriche abbia superato la prova.
I dati riferiti dal «Corriere» ribadiscono le osservazioni a suo tempo proposte da Tullio DeMauro: «sacche di popolazione a rischio di analfabetismo […] si trovano anche in societàprogredite. Ma non nelle dimensioni italiane […]» (Analfabeti d’Italia, cit.). Nel caso italiano viè un diffuso analfabetismo funzionale (l’incapacità di usare competenze pur sempre acquisite),tale che «parecchi laureati italiani uniscono la laurea a un sostanziale, letterale analfabetismo»(ibidem).
Il triste panorama, così delineato, potrebbe essere un risultato, ampiamente prevedibile, di anniimpiegati a svilire i contenuti delle materie scolastiche, a mortificare gli insegnanti, a giustificarela pigrizia mentale di famiglie e studenti. Secondo Fulvio Cammarano, «oggi l’analfabeta medio èil neo-diplomato tutto social network» (I nuovi analfabeti, cit.). Egli intravede in questo fatto laresa della scuola «sopraffatta dalla civiltà del web» e propone che la scuola esiga – pena labocciatura – che ogni studente impari a «leggere e riassumere per iscritto un testo diproporzionata difficoltà».
A ben vedere, la capacità di scrivere, sia pure semplici riassunti, è caduta ancor più in crisi dellacapacità di leggere e comprendere. Occorre poi intendersi sulla portata della lettura e delriassunto. Altro è comprendere il contenuto di un testo e riportarlo in sintesi. Altro è cogliere ilpunto di vista dell’autore senza assumerlo acriticamente. Se alla scuola (e all’università) si puòrimproverare qualcosa è proprio la rinuncia ad addestrare gli allievi a un atteggiamento critico.La redazione dei cosiddetti “saggi brevi” si risolve, per lo più, in accurate ricopiature di materialiscovati “su wikipedia”. Non si tratta però di identificazione nell’autore delle fonti: lo studente chericopia non è un novello Pierre Menard, «autor del Quijote»; è piuttosto un replicanteinconsapevole. Manca infatti il distacco critico dalle fonti. Eppure, questo atteggiamento, palestraper la ragione, è il procedimento fondamentale per la costruzione di un saggio, breve o lungo che
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI6
EDITORIALE
sia. Così disarmati, gli studenti non comprendono la storicità del mondo: sfugge loro la relativitàdei dati empirici e il bisogno di verificare costantemente i punti di vista sviluppati nell’esperienza.Sono cioè esposti alla manipolazione. Prima dell’educazione alla cittadinanza viene l’educazionealla capacità di giudicare. Prima di essere cittadini si è persone. E la scuola dovrebbe rispettare lapersona: la natura umana non è una costruzione ideologica, ma una realtà (anche se è di modaaffermare il contrario e si vede la persona come l’esito di una “narrazione”, di un “discorso”).
Nel declino della capacità di leggere vi è forse dell’altro. Oggi la lettura non è più la vianecessaria per apprendere i contenuti che oggi sono considerati utili. Tali informazioni passanoormai per l’immagine o per il filmato. La parola scritta è legata a una forma di comunicazioneche si ritiene datata. Siamo nel terzo millennio, dicono gli agit-prop del “nuovo che avanza”,bisogna adattarsi allo Zeitgeist. Anche la scrittura è vista in modo diverso dal passato: dai segnimateriali – fatti con la biro o altro – si passa ai segni digitali. È una bella comodità, che tuttaviaabolisce l’esperienza psico-fisica della scrittura e, forse, può contribuire a rendere più difficoltoso ilprocesso di lettura.
Si dice che l’uso dei messaggi brevi via telefono cellulare abbia riportato in auge la scritturapresso i giovani. A ben vedere, non è del tutto così: piuttosto, si è diffusa una tecnica basata sullaselezione e copiatura di immagini dei segni grafici. La scrittura diventa un sottosettore dellagrafica digitale.
La lettura esige uno sforzo astrattivo a più livelli – impresa oggi inconcepibile. Chi legge devesostare, concentrarsi, individuare le parole e collegare le parole in frasi, rileggere, riflettere perpassare dalle parole al significato, che non si vede, non si annusa, non si ode, ma si coglienell’esperienza della natura semiotica del testo, là dove una sequenza di segni grafici rimanda adaltro – a un “altro” che, inoltre, non è isomorfo al piano grafico, dato che le parole si manifestanonella successione spazio-temporale, mentre il significato è organizzato su più di una dimensione esi caratterizza per collegamenti imprevedibili tra le sue componenti.
L’impresa della lettura fuoriesce dai criteri di misura del mondo stabiliti dalla civiltà “pop”diffusa nel mondo occidentale. In un articolo uscito sul «Foglio» del 12 aprile, Alessandro Gnocchie Mario Palmaro citano alcune riflessioni di Lucio Spaziante, che meritano di essere qui riprese:«La cultura pop si contraddistingue come una cultura del fare piuttosto che del sapere, dove perlasciare spazio alla spontaneità si preferisce non sapere, dove la pratica conta più della teoria»(Sociosemiotica del pop. Identità, testi e pratiche musicali, Carocci, Roma 2007). La lettura èvissuta come un momento “teorico”, non “pratico” perché non esige attività fisica e in essa non vi èspontaneità, ma riflessione, controllo, ordine, razionalità. Spaziante continua: «Chi ascolta rocksa che in quel mondo è per la prima volta padrone di un territorio. Non ci sono professori, non cisono migliaia di libri da leggere, la cultura e la politica da capire». Del resto, «il pop riesce asfondare, in Italia come altrove, nonostante la barriera linguistica dell’inglese. Il motivo risiedeprobabilmente nel fatto che il senso della parola è l’ultima cosa che si coglie».
Cadute le differenze basate sul giudizio estetico, il pop ha conquistato ogni spazio dell’esperienzaquotidiana. Un documento scritto è “vissuto” come il testo di una canzone. Così, la mente non èpiù abituata a eseguire procedimenti che richiedono forza astrattiva. La civiltà dell’immagine hacambiato la percezione della realtà; le cose si sono ridotte all’immagine della loro manifestazionedi superficie. La crisi della lettura è un aspetto della crisi della ragione.
Giovanni Gobber
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 7
FATTI E OPINIONI
Il fattodi Giovanni Cominelli
Il riformismo bruciatodi/da M.S. Gelmini
Alla fine del primo decennio del secolo si è costretti a constatare
che la stagione delle riforme strutturali del sistema scolasti-
co è finita. Non sappiamo quando incomincerà la prossima.
L’ultimo tentativo è stato quello di Maria Stella Gelmini.
Dopo, e fino ai giorni nostri, si è imposto il quasi-nihil, figura
ontologica non prevista dalla “filosofia prima” di Aristotele. Par-
larne resta necessario, perché là è rimasto il secchio, di là bi-
sognerà risollevarlo, un giorno o l’altro, ben sapendo che il tem-
po perduto per le riforme significa “generazioni perdute” di ra-
gazzi e di insegnanti.
La duplice sfida del 2008, posta dalle condizioni drammatiche
del sistema di istruzione e dalle ristrettezze di bilancio impo-
neva al Ministro dell’Istruzione di incrociare il rigore finanzia-
rio con una strategia dei cambiamenti, delle riforme, dei riordi-
ni. La sfida era fare riforme radicali e perciò risparmiare. Alcu-
ne riforme erano già sul tavolo della politica italiana e/o euro-
pea: abbassare a 18 anni l’uscita dalla scuola media superiore;
essenzializzare il curriculum (il core curriculum), diminuendo il
numero delle materie e perciò riportare alla media europea il
rapporto docente/alunno; consentire alle scuole di trasformarsi
in Fondazioni e di raccogliere soldi dai privati, favorire lo sviluppo
delle scuole paritarie (che producono risparmi per lo Stato)…
Del resto, sul tavolo del governo stava già, fin dai primi gior-
ni della nuova legislatura, una proposta di legge, poi deno-
minata PdL n. 953, prima firmataria l’on. Valentina Aprea. Il te-
sto teneva insieme in modo coerente formazione, reclutamento,
carriera degli insegnanti, nuova governance delle scuole,
Fondazioni. Mancava il discorso sul curriculum e sugli ordi-
namenti, completato nell’ottobre del 2008 dal Piano pro-
grammatico, nel quale il riordino dei percorsi di istruzione, la
riorganizzazione della rete scolastica e il razionale utilizzo del-
le risorse umane completavano il disegno organico delle ri-
forme attese. Perché si è realizzato pochissimo? Ossessiona-
to dal consenso “facile”, pensando alle elezioni prossime e non
al futuro del Paese, il Ministro ha delegato all’Amministrazione
centrale e periferica il compito tutto politico di definire con-
cretamente i risparmi/tagli e “le riforme”. La “ratio” di tale scel-
ta politica è stata quella di non urtare l’Amministrazione e i
sindacati. Così il principio “risparmiare e riformare” ha sotto-
prodotto tagli orizzontali e stop! Il mix di tagli e di minaccia-
te riforme ha aggregato un fronte di resistenza nella scuola,
che andava dai conservatori agli innovatori, i primi offesi dai
tagli e dalle riforme, i secondi dalla timidezza delle medesime.
L’istanza di risparmio ha spinto al “maestro unico” (DL
n. 137/2008) e al “riordino” del ciclo secondario di secondo gra-
do, attraverso una corposa e necessaria riduzione degli indi-
rizzi da 720 e più a meno di 50. Quanto all’Istruzione tecnica,
si è tentato positivamente di ridefinire l’identità del settore tec-
nico e di quello professionale, distinto da quello dei Licei. Di
qui un aumento dell’autonomia al 30%, la costituzione di un
Comitato tecnico dentro il quale saldare i rapporti tra scuo-
la, territorio e produzione, l’aggancio al quadro europeo del-
le qualifiche (European Qualifications Framework).
Ma chi si aspettava una ripresa del programma Moratti in re-
lazione all’architettura del ciclo secondario superiore - già pe-
raltro ridimensionato rispetto a quello originario del 2001 - si
è trovato di fronte la continuità con lo statalismo di Fioroni,
che aveva riportato nello Stato l’istruzione professionale. Si è
ridotto sì, benché modestamente, il numero di ore-appren-
dimento settimanali, senza però modificare il core curriculum.
Il PdL 953 è stato neutralizzato: prima, scorporando il recluta-
mento dei nuovi docenti – affidato ai TFA, a forte caratura ac-
cademica – poi il nuovo stato giuridico. E la governance è fini-
ta sulle secche. Un ventennio di elaborazione riformista bruciato!
Il Ministro ha lanciato nel novembre del 2010, un “Progetto spe-
rimentale per la valutazione delle scuole” (per scuole medie
delle città di Pisa e Siracusa) e un “Progetto sperimentale per
premiare gli insegnanti che si distinguono per un generale ap-
prezzamento professionale all’interno di una scuola” (per in-
segnanti di scuole delle città di Torino e Napoli). Ai Ministri suc-
cessivi qualcosa è rimasto, opportunamente amputato della
cervellotica “premialità”. L’Invalsi è stato “protetto” da quanti
lo accusano di essere il Grande occulto fratello del sistema edu-
cativo italiano. Questo è ciò che resta.
Giovanni Cominelli Esperto di sistemi educativi
SPAZIO SCUOLAa cura di Francesco Magni
http://nuovasecondaria.lascuolaconvoi.it
Il sito di Nuova Secondaria (sezione Panorama) propone a dirigen-ti scolastici e docenti una rubrica con notizie e commenti dalla stam-pa, aggiornamenti sulla legislazione e rassegna giurisprudenziale. Illettore vi può trovare informazioni utili per il quotidiano lavoro nel-la scuola e ha la possibilità di collaborare inviando domande, noti-zie e segnalazioni all’indirizzo email: [email protected].
Il futuro alle spalledi Carla Xodo
L’obbedienza chiede autorità
Da quando l’emergenza educativa occupa stabilmente il di-
battito pubblico, molte questioni pedagogiche si sono, per così
dire, riposizionate o sono state sottoposte ad analisi pro-
spettiche inedite o problematiche. Tra queste, un posto di ri-
lievo merita la riflessione che si è avviata sull’idea di obbedienza:
un tema educativo controverso, attraversato da seri viluppi epi-
stemologici responsabili, forse, di una certa afasia da parte an-
che di studiosi attenti e sensibili alle implicazioni valoriali. Per
dire, l’obbedienza, per molti aspetti, sembra datata, superata
dal “nuovo” che avanza, rappresentato dalla giovanile con-
temporaneità che è così potente da aver prepotentemente con-
dizionato anche le generazioni adulte. Avviene, infatti, che gli
stessi genitori ne prescindano, cioè non pretendano più
l’obbedienza. La spiegazione di questa rinuncia è abbastan-
za ovvia: non sanno o non vogliono proporsi come esempio
di obbedienza dovuta rispetto all’impegno reciproco assun-
to. Ma i genitori hanno un loro alibi: la società tutta è incapace
di autoeducarsi, quindi non può educare. Molti genitori, ma
gli stessi educatori, maestri, insegnanti sono in ritirata, si al-
lontanano sempre più da mete strutturalmente educative,
come la ricerca del vero e del bene. Se questa è la non scelta
di molti adulti come pretendere un impegno alto, disinteressato
nei figli, presi come sono dal moloch del dio consumo, dal-
l’edonismo più sfrenato in una società in piena decadenza?
Possiamo parlare di inattualità dell’obbedienza che ha un pec-
cato d’origine: è priva di autosufficienza fondativa per la sem-
plice ragione che l’obbedienza non è un comportamento ori-
ginario, ma derivato, indotto da quello d’autorità. Il soggetto
diventa obbediente quando si dispone liberamente, volon-
tariamente ad accogliere e godere dell’autorità: sia essa rap-
presentata da direttive, da indicazioni o da prescrizioni. Ac-
cettandole riconosciamo la competenza esterna a noi ad eser-
citare tale ruolo. L’autorità, affidabile in quanto responsabile,
in grado cioè di giustificare le proprie scelte e decisioni, ren-
de l’obbedienza una delle manifestazioni dell’educabilità uma-
na. La natura del rapporto che si stabilisce tra i due termini è
dialettica: entrambi vivono e si giustificano solo in relazione
con l’altro; entrambi cessano non appena uno dei due deca-
de. Se non c’è obbedienza non c’è neppure autorità, se non
c’è autorità non ha senso pretendere obbedienza.
Come ripristinare il circolo virtuoso tra autorità ed obbedienza?
Bisogna partire dall’autorità, ma si possono già immaginare
le critiche: filosofia, psicologia, sociologia e financo la politi-
ca hanno tutte le risorse per portare acqua al mulino del re-
lativismo, del “faccio quel che mi pare”. Per rispondere pro-
pongo di riflettere a partire dalla prassi, da un’azione che nel-
la sua semplicità, più di ogni teoria, sa restituire forza all’esi-
genza umana di imitare il bello ed il buono. Si vede il papa sul-
la scaletta dell’areo che lo condurrà in America latina con in
mano una semplice borsa da viaggio. Quel gesto vale più di
un’enciclica e conferma il potere dell’autenticità nel ristabi-
lire le condizioni dell’autorità e dell’obbedienza.
Come negare che valga la pena di ubbidire all’adulto che ci
prende con la sua autenticità?
Carla XodoUniversità di Padova
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI8
FATTI E OPINIONI
Papa Francesco parte da Fiumicino per Rio de Janeiro (22 luglio 2013).
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 9
FATTI E OPINIONI
Vangelo docentedi Paola Bignardi
Far credito al dubbio
Nella galleria di personaggi che il
Vangelo ci presenta vi è Nicodemo.
L’evangelista Giovanni dice di lui che
era un fariseo, capo dei Giudei. Il
compromettersi con il Maestro.
In un lungo dialogo, Nicodemo
espone tutti i suoi interrogativi, e
Gesù lo ascolta, fa credito ai suoi
dubbi, e lo spinge ad andare oltre.
Nicodemo discute con Gesù con
rispetto e ostinazione, continuando a
opporre alle domande di Gesù
l’apparente sicurezza delle sue
ragioni, soprattutto il suo buon senso,
che contrasta con la singolarità delle
dichiarazioni del Rabbì.
Gesù si trova di fronte ad un
interlocutore difficile, che lo impegna
in una discussione in cui l’altro tira
fuori tutto il suo umano buon senso,
ma anche la sua cultura, la sua
presunzione. Gesù non si spazientisce,
ma lo coinvolge a poco a poco dentro
un giro di pensieri diverso rispetto a
quello su cui Nicodemo era abituato a
stare. Gesù non si tira indietro rispetto
ad una discussione da “maestri
d’Israele” e intreccia un dialogo
intenso nel quale sembra condividere
con il fariseo la stessa ricerca della
verità.
L’esempio del Signore indica il valore
delle domande e del dubbio. È
l’inquietudine di cui parla S. Agostino,
che come un tarlo lavora la coscienza.
E tuttavia l’inquietudine non porta da
nessuna parte se non vi è chi aiuti a
riflettere su di essa; a individuare le
domande che la generano.
Anche la scuola ha molto da imparare
da questo episodio; essa dovrebbe
essere il luogo delle domande,
suscitate con arte, accolte con
interesse, discusse con pazienza.
Non sappiamo come sia andata la
storia di Nicodemo, ma sappiamo che
alla morte del Signore sarà lui ad
offrire il sepolcro per la sua sepoltura.
Paola BignardiPubblicista, già presidente nazionale
dell’Azione Cattolica ItalianaPietro Perugino, Pietà con Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea (1495 circa), Williamstown (Massachusetts), Clark Art Institute.
Vangelo ce lo presenta come un
fariseo un po’ singolare, che non vuole
mettere in difficoltà Gesù e trarlo in
inganno. Nicodemo si sente
interpellato dalle parole, dagli
atteggiamenti e dai gesti di Gesù,
anche se riconoscerne il valore
significherebbe cambiare molte cose
nella sua vita.
Ma ha tante domande dentro di sé,
tanti dubbi, tanta inquietudine. E così
decide di andare a parlare con Gesù:
lo fa di notte, per evitare di
�
�
La lanterna di Diogenedi Fabio Minazzi
La scuola italiana: diamo un po’ di numeri
Per riflettere seriamente sulla situazione effettiva della scuola ita-
liana è cosa buona riflettere, con attenzione, per dirla con Ma-
chiavelli, sulla “realtà effettuale”. Se si considera la percentuale del-
la popolazione che ha portato a termine il livello di istruzione
secondario superiore (pari alla percentuale di diplomati), si sco-
pre che nella fascia di età compresa tra i 25 e i 64 anni in Italia
sono il 55%, mentre la media Ocse si attesa sul 75%, conse-
guentemente l’Italia occupa il trentesimo posto (su 40!). Se in-
vece si considera una fascia di età più ristretta, tra i 25 e i 34 anni,
la percentuale italiana sale al 71%, mentre quella Ocse si atte-
sta all’83% (in questo caso l’Italia è al trentesimo posto, su 36!).
Infine se si considera la fascia d’età compresa tra i 55 e i 64 anni
l’Italia registra una modesta percentuale del 38% a fronte del 65%
dell’Ocse (collocandosi, nuovamente, al trentesimo posto su 36!).
Se poi si considera la percentuale della popolazione con un
livello di istruzione terziaria (pari alla percentuale di laurea-
ti) si vede come nella fascia d’età compresa tra i 25 e i 64 anni
l’Italia registri una percentuale del 15%, mentre la percentuale
Ocse è del 31% (su quaranta paesi l’Italia occupa il posto n. 35!).
Nella fascia d’età compresa tra i 25 e i 34 anni l’Italia registra
una percentuale del 21%, mentre quella dell’Ocse si attesta
sul 38% (su 37 paesi l’Italia occupa la posizione n. 34!). Infine,
se si considera la fascia d’età compresa tra i 55 e i 64 anni, la
percentuale italiana scende all’11%, mentre quella Ocse si at-
testa al 23% (su 37 paesi l’Italia occupa la posizione n. 33!).
Last bust not least se si integrano questi dati, già di per sé em-
blematici e preoccupanti, con gli investimenti finanziari nel-
l’istruzione, considerando la spesa annua per studente, si sco-
pre che l’Italia per la scuola pre-primaria investe 6.058 euro,
mentre la media Ocse è di 5.084 (quindi siamo noni su 34 pae-
si), per la primaria l’investimento italiano è di 6.608, contro i
5.883 della media Ocse (quindi siamo al decimo posto, su 35
paesi). Quindi in queste due prime fasce non andiamo proprio
male, mentre un crollo si registra sui livelli successivi. Per la se-
condaria l’Italia investe 6.945, mentre la media Ocse è di 7.098
(siamo al 18 posto su 37 paesi) e per la terziaria investiamo solo
7.288, mentre la media Ocse è nettamente superiore, atte-
standosi a 10.464 (in questo livello siamo così il paese n. 24 su
37). Questi dati sono inequivocabili: investiamo poco e male.
Ma come è ben noto, chi semina male, raccoglierà ben
poco… Per questo chi insegna nella scuola ha nuovamente
il dovere di ricordare questi dati all’intera società civile.
Fabio MinazziUniversità dell’Insubria
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI10
FATTI E OPINIONI
Non di sola scuola vive il giovane
Francia. Un’inchiesta (“Le Monde”, 27 giugno 2013) rivela che agliesami del collège, quest’anno, ben il 51,8% degli studenti ha saputorispondere a meno della metà delle domande di storia e geografia.Claude Lelièvre, storico dell’educazione, spiega che anche nel 1920un allievo su due agli esami dell’école primaire (che si faceva atredici anni) non riusciva a rispondere puntualmente alle domandenelle stesse materie. Com’è possibile che i loro coetanei di oggi, nonostante tutti gliinvestimenti fatti in istruzione e la retorica sulla società dellaconoscenza e delle Ntc, non se la cavino meglio? La verità è una esemplice: forse abbiamo investito in maniera troppo monopolisticasulla scuola come fattore di istruzione, trascurando le mille altreoccasioni non formali e informali che consentirebbero ai refrattaridello studio scolastico di non rimanere indietro nel percorso chetrasforma le conoscenze in competenze.
Asterischi di Kappa Pietro Longhi, Lezione di geografia (1752), Venezia, Galleria Querini-Stampalia.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 11
FATTI E OPINIONI
Occhio alla scienzadi Matteo Negro
Corporeità e metafora
L’idea oggi molto diffusa che l’espansione della tecnologia ab-
bia allargato a dismisura le possibilità di conoscere e di ma-
nipolare i corpi umani è certamente vera: grazie alle nuove tec-
nologie, come ad esempio le tecniche di diagnostica per im-
magini, è possibile osservare fin nei più minuti dettagli ogni
nostro organo o apparato e verificarne la funzionalità. Inoltre,
grazie a nuove applicazioni, la manipolazione e la trasforma-
zione del corpo per fini estetici, terapeutici o funzionali sono
soggette a sempre minori limitazioni. Tutto ciò sembra dun-
que confermare il fatto che, attraverso le smisurate opportu-
nità offerte dagli strumenti più avanzati, la “mente”, intesa come
soggettività psichica, prende finalmente il sopravvento sul cor-
po, plasmandolo e modificandolo “a suo piacimento”, cioè as-
segnandovi di volta in volta finalità o funzionalità aggiunti-
ve o parzialmente sostitutive. Pensiamo alle protesi ortope-
diche, oppure all’impianto di quei dispositivi che migliorano
le funzioni cardiovascolari, o, come nel caso dei cyborg, ad un’in-
tegrazione vera propria fra ingegneria e biologia. Molti cercano
inoltre di migliorare il proprio aspetto, ispirandosi a canoni este-
tici spesso amplificati dai mezzi di comunicazione di massa.
Alcune volte ciò che si ricerca è il “potenziamento” di alcune
specifiche capacità fisiche, altre volte è il “mantenimento” di
un equilibrio o di uno stato. Accade poi sempre più di frequente
che ci si sottoponga a interventi finalizzati al cambiamento di
sesso. Molte trasformazioni sono generalmente ritenute ne-
cessarie da chi le pratica a vario titolo, non solo ai fini della sa-
lute fisica, cioè della propria conservazione, ma anche del-
l’equilibrio psichico o interiore, cioè della realizzazione iden-
titaria.
Tuttavia, già ben prima della rivoluzione tecnologica e della
sua spinta propulsiva, addirittura ancora all’interno di un con-
testo dominato da una visione metafisica di stampo sostan-
zialista, aveva fatto breccia in modo embrionale questa nuo-
va percezione del rapporto fra interiorità e corporeità. Con Car-
tesio si inaugurò infatti una prima germinale modellizzazio-
ne della mente come ambito esclusivo dell’identità personale
e del corpo come campo di forze e di spinte causali non iden-
titarie. Insieme al progetto baconiano questo modello si pre-
sentava come il primo vero antecedente filosofico del disegno
della trasformabilità del corpo umano. Il teatro cartesiano del-
la mente utilizza ruoli, grammatiche e ontologie di senso co-
mune per rappresentare sé stesso e, nel medesimo tempo, pro-
ietta sul corpo-materia, mediante l’uso irrinunciabile della me-
tafora, un ordine simbolico che al corpo non appartiene e che
va a sostituire l’ordo naturae. Più recentemente, David Le Bre-
ton ha fatto suggestivamente riferimento al “corpo-partner”,
strumento del soggetto manipolatore. L’idea di un corpo reso
estraneo al regno dei fini da un lato prelude al postulato del-
la libertà noumenica, svincolata da pretesi fini dati in natura,
e dall’altro suggella definitivamente l’assoggettamento del cor-
poreo al determinismo. Per Le Breton «il corpo cessa di iden-
tificarsi completamente nel significato della presenza uma-
na. Il corpo è posto in assenza di gravità, dissociato dall’uo-
mo, come realtà umana. Cessa di essere il segno irriducibile
dell’immanenza nell’uomo e dell’ubiquità del cosmo»1. Il
cerchio si chiude pertanto con Hume e, paradossalmente, con
la negazione dell’identità. Qualsiasi corpo può essere infatti
1. D. Le Breton, Antropologia del corpo e modernità, Giuffré, Milano 2007, p. 50.
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Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI12
FATTI E OPINIONI
gorizzarle, raggrupparle e quantificarle, e in questo modo pos-
siamo riflettere su di esse»2.
Le metafore non soltanto riproducono o trasferiscono delle
esperienze, ma creano anche delle immagini e degli aspetti
nuovi. Senza dimenticare che esse, però, non spiegano: servono
ad illustrare una cosa nei termini di un’altra. Espressioni ri-
correnti come “io ho un corpo”, “io sono un corpo”, “io vivo il
mio corpo” in qualche modo riflettono precise categorizzazioni
e classificazioni di tipo ontologico, certamente non sovrap-
ponibili, ma rimangono pur sempre delle figure che colgono
uno o più aspetti di un piano semantico, trasferendoli su un
altro piano.
Una delle metafore di maggior successo è appunto quella del-
la soggettività come coscienza incarnata. L’operazione car-
tesiana di dissociazione ontologica di pensiero ed estensio-
ne ha in sé una forte carica metaforica; per di più, l’allontanare,
per così dire, il pensare dalla corporeità degli uomini inevi-
tabilmente incoraggia a produrre sempre nuove immagini e
figure della loro ricomposizione. La mente “cerca” l’unione con
il corpo ma, non reperendola nella physis, la istituisce meta-
foricamente attraverso la figura dell’incarnazione o dell’in-
corporazione. Il corpo-macchina (metafora cartesiana della non-
identità) viene pertanto raggiunto e influenzato (e modificato)
dalla sfera rappresentazionale e simbolica del soggetto in-
tenzionale e, nello stesso tempo, il soggetto mentale e in-
tenzionale descrive sé stesso per il tramite del corporeo-mec-
canico (motricità, percezione) e delle sue metafore, dando vita
a quello che Marc Richir ha felicemente battezzato come il “cor-
po del pensiero”.
Di certo l’equilibrio fra i due aspetti è instabile: è quasi irresi-
stibile la forza d’attrazione dei due opposti poli, simboleggiati
dalle figure dell’avatar e dell’automa, ossia dell’identità che
s’incarna e del corpo senza identità. E se questa instabilità oggi
forse rende difficile non solo il riconoscere il valore e il signi-
ficato dell’essere uomini, ma la possibilità stessa di condivi-
dere con gli altri in modo univoco e comprensibile tale ap-
propriazione di senso, allora una buona strada da iniziare a per-
correre non è escluso che sia proprio quella che Aristotele stes-
so con la sua ontologia aveva imboccato e che tante sorpre-
se positive potrebbe riservare anche a noi.
Matteo NegroUniversità di Catania
ricostruito o potenziato a piacimento, ma tale ricostruzione
veicola l’identità di un soggetto “assente”, perché continua-
mente altrove; il soggetto (mentale) domina e trasforma il cor-
po, ma per abitarvi solo temporaneamente, se non addirittura
riducendolo all’oblio, intento com’è a ricercare nuove identi-
tà e forme espressive.
Ma qual è il ruolo della metafora in questa dinamica di as-
soggettamento del corpo? Nel momento in cui storicamen-
te viene abbandonato il modello aristotelico, si apre l’immenso
problema di come categorizzare il mentale e il corporeo. In
Aristotele né la materia né la forma sono due «oggetti» esi-
stenti: ciò che esiste è il plesso di materia e forma, di identi-
tà ed esistenza. Materia e forma sono relazioni causali, co-
stitutive dell’oggetto. Con Cartesio esse divengono due so-
stanze, e quindi assumono un ruolo ontologico nuovo: la ma-
teria diventa “qualcosa” in totale opposizione alla mente im-
materiale anch’essa autonoma e sussistente. Di conseguen-
za, alcune funzioni o attività che prima venivano attribuite
a oggetti o sostanze specifiche, diventano funzioni o attivi-
tà di altre. Facciamo un esempio. Per Aristotele il pensare è
un’attività (prassi) degli uomini, mentre per Cartesio è ascri-
vibile alla mente: se prima il pensiero era attribuito alla so-
stanza-uomo, adesso è attribuito alla sostanza-mente. In que-
sta prospettiva l’asserto “l’uomo pensa” è in fondo metafo-
rico, dal momento che in realtà è la mente a pensare. Non pos-
siamo tuttavia fare a meno di usare delle metafore per fissare
in modo comprensibile alcuni aspetti empiricamente rilevanti.
Come hanno giustamente osservato Lakoff e Johnson, com-
prendere «le nostre esperienze in termini di oggetti e sostanze
ci permette di selezionare parti della nostra esperienza e di
considerarle come entità discrete, o sostanze di tipo unifor-
me. Una volta che abbiamo identificato le nostre esperien-
ze come entità o sostanze, possiamo riferirci ad esse, cate-
2. G. Lakoff - M. Johnson, Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano 1998, p. 45.
Profezie
«La condizione della nostra patria è ormai questa: che ognilibertà si è spenta, eccetto quella del furto dei politicanti, e chetutto si pone in opera per spegnere nella coscienza popolareogni sentimento retto ed onesto». Indovinello: quando è stataformulata questa diagnosi? Oggi? Risposta: nel 1894, dalgrande sociologo Vilfredo Pareto.
Asterischi di Kappa
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 13
FATTI E OPINIONI
Didattica del classicodi Augusta Celada
Modelli grammaticali, tecniche d’insegnamento e metodo
Le Indicazioni Nazionali che costituiscono l’Allegato C del DPR
15 marzo 2010 n. 89, diversamente dai programmi ministeriali
precedentemente in vigore, non si limitano a suggerire con-
tenuti disciplinari, quali autori e opere sul versante letterario
ed argomenti fono-morfo-sintattici su quello linguistico, ma
si addentrano nel dibattuto campo metodologico suggerendo
un modello grammaticale e un approccio al metodo del “la-
tino naturale”, quest’ultimo quale «interessante alternativa» allo
studio tradizionale della grammatica normativa.
Se ne legga il passaggio: «L’acquisizione delle strutture mor-
fosintattiche avverrà partendo dal verbo (verbo-dipendenza),
in conformità con le tecniche didattiche più aggiornate (un’in-
teressante alternativa allo studio tradizionale della gramma-
tica normativa è offerta dal cosiddetto “latino naturale” - me-
todo natura, che consente un apprendimento sintetico della
lingua, a partire proprio dai testi). Ciò consentirà di evitare l’astrat-
tezza grammaticale, fatta di regole da apprendere mnemoni-
camente e di immancabili eccezioni, privilegiando gli elementi
linguistici chiave per la comprensione dei testi e offrendo nel
contempo agli studenti un metodo rigoroso e solido per l’ac-
quisizione delle competenze traduttive…».
Il fatto in sé costituisce una novità.
Si potrebbe discutere sull’opportunità di indicazioni tali da in-
vadere la sfera della responsabilità di scelta dei docenti, liberi
di muoversi tra diversi modelli grammaticali e differenti ap-
procci allo studio delle lingue classiche, i quali operando, come
è loro prerogativa, la propria scelta metodologica, si assumono,
al tempo stesso, la responsabilità dell’efficacia della strategia
didattica.
Accogliamo tuttavia la “suggestione” ministeriale, conside-
randone il miglior fine: preservare lo studio delle lingue clas-
siche dal marcato insuccesso scolastico, quale risulta dai
dati percentuali delle non promozioni e delle sospensioni del
giudizio per debito formativo, in latino e in greco nel liceo clas-
sico, e in latino negli altri licei, nonché dalla crescente “av-
versione” per queste discipline ampiamente riscontrabile nel-
la fuga verso le opzioni “senza latino”: scienze applicate ed eco-
nomico-sociale, rispettivamente del liceo scientifico e del li-
ceo delle scienze umane.
Il “buon fine” ravvisabile nel testo delle Indicazioni è esplici-
tamente rappresentato dall’intento di preservare l’insegna-
mento delle lingue classiche dall’insuccesso scolastico, cioè
dalla drastica diminuzione degli studenti ed ha come corol-
lario il tenerli al riparo dalla sfiducia nelle proprie capacità, dal-
l’ansia nell’incontro con le lingue antiche e dalla esposizione
alla massima e più alta sfida rappresentata dalla traduzione.
Ma implicitamente, con il riferimento alla necessità di evita-
re l’astrattezza grammaticale, il testo ministeriale sottende la
finalità di scuotere gli insegnanti da una sorta di passività e
di inerzia nella ricerca metodologica e dalla resistenza a ogni
forma di rinnovamento della didattica. L’intento appare quel-
lo di sottrarre i docenti al pericolo della stanchezza e della de-
motivazione metodologica, auspicando la messa in campo di
una riflessione critica sull’approccio e sull’uso di tecniche e me-
todi per l’insegnamento delle lingue classiche.
Recenti studi hanno messo in luce le aporie dell’insegnamento
delle lingue antiche, soprattutto messo a confronto con gli ap-
procci più strutturati e rigorosi di cui gode l’insegnamento del-
le lingue moderne che, tuttavia, hanno alla base la finalità co-
municativa che non può riproporsi, tout court, nelle lingue an-
tiche.
Non v’è dubbio che occorra una riflessione critica sistemati-
ca sulle teorie che presiedono all’insegnamento delle lingue
classiche e sul ruolo della traduzione all’interno di esse, eser-
cizio che molti docenti concordano di dover e voler rivedere,
ma che tutti affermano di salvaguardare nel primario interesse
degli studenti e del buon esito delle loro prestazioni agli esa-
mi di Stato, che i dati, invece, ci dicono essere generalmente
assai scadenti nonostante tale virtuosa preoccupazione.
Vorrei proporre tuttavia una distinzione concettuale tra mo-
dello grammaticale, tecnica di insegnamento e metodo, ter-
mini che nelle Indicazioni sembrano susseguirsi per variatio,
ma che non hanno e non possono avere valenza sinonimica.
Preliminare è il problema del modello grammaticale di cui mi
accingo a dire in questo contributo.
Esso presuppone la concezione formale della lingua che ha sop-
piantato la concezione sostanzialistica o ontologica fondata sul-
l’identità tra nomi e realia risalente alla filosofia greca e fatta
propria dalle scuole grammaticali antiche che si appropriaro-
no di categorie extralinguistiche per la descrizione di fenomeni
della lingua, adottando categorizzazioni razionalistiche che si
mantennero indiscusse da Aristotele a Port Royal.
Se questa è la tradizione dell’insegnamento delle lingue clas-
siche, e in particolare del latino, fino al XVII secolo, non biso-
gna tuttavia trascurarne la finalità che era soprattutto la pro-
duzione in latino, o comunque la produzione retorica, che ri-
conosceva nel latino una forma di pan-grammatica o gram-
matica generale, normativa proprio in quanto finalizzata a det-
tare regole utili da applicarsi nella produzione retorica.
La nascita di modelli teorici di riferimento per l’insegnamen-
to delle lingue, specificatamente di quelle classiche, è conse-
guente alla nascita della linguistica generale e alla diffusione
degli studi scientifici di glottodidattica in Europa negli anni
’30 del XX secolo, seguiti in Italia alla pubblicazione della tra-
duzione italiana del Cours de linguistique générale di Fernand
De Saussure a cura di Tullio De Mauro nel 1967.
Tra i modelli di derivazione strutturalista, le Indicazioni sug-
geriscono il modello della verbo-dipendenza che è il model-
lo valenziale teorizzato da Tesniére, antesignano della moderna
linguistica e studioso degli aspetti teorici che le problemati-
che didattiche implicano.
Il modello teorico della grammatica delle dipendenze di Lu-
cien Tesniére, pensato alla fine degli anni ’50 per il francese,
attraverso le applicazioni didattiche degli studiosi tedeschi –
tra i primi Happ – che l’hanno proposta per l’insegnamento
del latino, si basa sulla considerazione del verbo come “ato-
mo uncinato” che richiede un certo numero di attanti, o, con
metafora chimica, un certo numero di valenze cui si aggiun-
gono come complementi altri elementi che non partecipano
al processo designato dal verbo ma che, esprimendone le cir-
costanze, sono definiti circostanti.
Il modello è di una certa complessità e non si esaurisce cer-
to nel partire dal verbo come si limitano a suggerire le Indicazioni
ministeriali.
I pregi didattici del modello valenziale iniziano con la sua ca-
ratteristica di modello strutturale aperto alla semantica che
consente una memorizzazione del lessico in prospettiva
funzionale e non meramente elencativa.
Il modello grammaticale valenziale non esclude la possibili-
tà di utilizzare, per gli aspetti morfologici, sia il modello de-
scrittivo attento all’evoluzione storica della lingua, partico-
larmente usato per l’insegnamento della grammatica greca,
sia quello normativo, tradizionalmente usato per l’insegna-
mento del latino e volto all’apprendimento di sintagmi per la
traduzione in latino.
Si presta inoltre alla possibilità di comprimere le fasi di ap-
prendimento rispetto ai modelli descrittivo e normativo che
richiedono estesi tempi di ripetizione e memorizzazione, ed
è perciò utile nella pratica della didattica breve, per la riduzione
del monte ore disciplinare e per interventi di recupero.
È idoneo a correggere le forme di traduzione che precedono
e prescindono la comprensione, permettendo di ricostituire
il circolo ermeneutico, così come Gadamer lo definisce, favo-
rendo negli studenti l’acquisizione di consapevolezza del pro-
cesso interpretativo che muove da presupposizioni non ar-
bitrarie per approdare a un progetto che deve essere conti-
nuamente rivisto alla luce degli errori che emergono dall’ul-
teriore penetrazione del testo.
La novità fondamentale introdotta dal modello di Tesniére con-
siste nel fatto che esso prescinde dalla coppia oppositiva co-
stituita dal soggetto e dal predicato ed individua, come nu-
cleo fondamentale della relazione sintagmatica, il comples-
so del verbo e dei suoi attanti e circostanti che della frase co-
stituiscono il cuore anche sotto il profilo semantico.
Naturalmente, nel modello della verbo-dipendenza si me-
scolano elementi di novità e altri di persistenza delle categorie
grammaticali tradizionali.
Così come il termine “circostanti” ricorda i complementi cir-
costanziali del modello non funzionalistico, così il concetto di
“valenza” non è molto lontano dall’idea della “reggenza” nel-
la sintassi latina dei casi; ugualmente in inglese i phrasal verbs
rispondono a patterns verbali, che corrispondono, tenuto con-
to della diversa caratteristica, rispettivamente sintetica ed ana-
litica delle due lingue, a schemi attanziali del verbo.
Ma assolutamente nuova è la centralità semantico-sintattica
del verbo nella sequenza frasale.
L’idea centrale del modello grammaticale di Tesnière è che il
verbo costituisce lo snodo relazionale di tutti gli altri elementi
della frase, sia sotto il profilo della struttura sintattica, che rap-
presenta la componente strutturalista del modello, sia sotto
il profilo semantico che ne è la componente ermeneutica.
Proficuo dunque «partire dal verbo», ma non senza aver ope-
rato una scelta consapevole del modello teorico di riferimento
per l’insegnamento delle lingue classiche.
Augusta CeladaDirigente Scolastico
Educandato Statale “Agli Angeli”, Verona
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI14
FATTI E OPINIONI
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 15
FATTI E OPINIONI
Tempo perduto, tempo ritrovatodi Franco Carinci
Gli scherzi della storia
Chi da Subiaco imbocca la strada per Frosinone si troverà, dopo
breve tratto, di fronte ad un bivio, con a destra una strada che
si inanella verso una gola scavata dall’Aniene. Ad una curva gli
si aprirà sulla sinistra la vista di quel che resta della villa fatta co-
struire da Nerone, le solite rovine che, di per sé, sono ben lun-
gi dal far immaginare quella che doveva essere una splendida
dimora imperiale. Oltrepassata una corta galleria, ecco apparirgli
sulla destra il Monastero di Santa Scolastica, un ampio complesso
di edifici disteso su uno stretto pianoro, con la sua grande chie-
sa su cui svetta un bel campanile romanico; e, dopo una serie
di tornanti, tenendosi a lato della forra sempre più stretta e pro-
fonda sul cui fondo rumoreggia l’Aniene, arriverà ad un picco-
lo piazzale sovrastato da un portale da cui si dipana una via a
gradini, tra due file di lecci secolari considerati sacri.
Superato un alto muro, per una piccola scala si sbuca in uno slar-
go erboso prospiciente l’ingresso del Monastero di San Bene-
detto, situato a ridosso di una parete a picco sul punto più stret-
to della gola, sì da fargli quasi da bastione coi suoi nove archi,
parte a pieno centro e parte a sesto acuto, dominati da una tor-
retta. Dentro, scavato e saldato alla viva roccia, è un complesso
estremamente suggestivo costituito da due piccole chiese so-
vrapposte con, a far loro da corona, cappelle e grotte unite da
gradinate aperte, coi muri coperti da dipinti dai ricchi colori.
Che cosa di comune ci può mai essere fra Nerone e San Be-
nedetto da Norcia? Certo, Nerone, che tenne il potere dal 54
al 68 d.C. ebbe la sfortuna di avere come storico Tacito, ma ci
mise parecchio del suo, per venir ricordato come un impera-
tore dispotico e crudele, perso dietro il folle sogno di essere un
grande poeta e cantore, tanto che, quando, abbandonato da
tutti, si uccise con l’aiuto del suo liberto Epafrodito, esclamò più
volte «qualis artifex pereo!». Ma qui merita di essere citato per
la scena rimasta consegnata alla memoria popolare di lui che
dall’alto di una torre canta sulla cetra la distruzione di Troia coi
versi dell’Iliade, mentre tutta Roma arde per quell’incendio di
cui incolperà i cristiani, dando vita alla prima grande perse-
cuzione, consumata all’ombra di quella sua statua colossale,
destinata a dare il nome di Colosseo all’Anfiteatro Flavio.
E per sfuggire ai calori della città eterna, anticipò Adriano, uti-
lizzando anch’egli il generoso Aniene, ma assai più a monte
di Tivoli: ne fece sbarrare il corso, così da ottenere tre laghi da
cui il nome stesso di Subiaco (Sublaqueum), sulle cui rive co-
struire la sua sontuosa dimora estiva.
Dovevano passare più di quattro secoli, perché un giovane pa-
trizio di Norcia di soli diciassette anni, schivato dall’ambien-
te romano in cui era stato cresciuto, risalisse il corso dell’Aniene,
passando attraverso la villa di Nerone, certo assai meglio con-
servata di ora, per andarsi a rintanare in una grotta a mezza
costa della parete rocciosa, destinata ad essere conosciuta come
Sacro Speco. Lui ebbe la fortuna di avere come unico biografo
San Gregorio Magno, ma fu merito suo capire, dopo tre anni
di eremitaggio, che il suo compito era di scendere nel mon-
do, cominciando a fondare il suo primo cenobio, precursore
di quello di Montecassino, proprio là dove l’imperatore romano
aveva creduto di trovare la pace della frescura.
Di lì il cammino del fondatore del monachesimo occidenta-
le colla regola principe di Ora et labora, incisa sulla facciata del
Monastero di Santa Scolastica, sua sorella, non si sarebbe più
arrestato. Nella dissoluzione dell’impero romano, le Abbazie
benedettine svolsero una funzione fondamentale nella con-
servazione e nella fusione della cultura classica con la spiritualità
cristiana, contribuendo in maniera determinante a creare una
identità europea comune a prescindere dalla professione di
fede, tanto che S. Benedetto verrà proclamato nel 1958 Padre
dell’Europa e patrono dell’Occidente.
Quanti scherzi della storia simili sono disseminati nei cento e
mille luoghi di questa nostra terra coperta quasi appesanti-
ta e attardata dalla sua stessa storia plurimillenaria, che a vol-
te sembra essersi lasciata dietro più pietre morte che memorie
vivificanti.
Franco CarinciUniversità di Bologna
Monastero di San Benedetto o Sacro Speco, Subiaco.
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all’accelerazione che condiziona la nostra vita, nel
modo di mangiare, di spostarci da un luogo all’al-
tro, di interagire con gli altri. Questa affermazione
può essere applicata alla scuola e all’educazione,
con l’intenzione di dare un senso alla diversità
dei ritmi di apprendimento: educare alla lentez-
^E�WMKRMƙGE�EHEXXEVI�PE�ZIPSGMX£�EP�QSQIRXS�I�EPPE�
persona.
Il presidio più sicuro di una “società aperta” è co-
stituito da “menti aperte”. In quest’ottica si fanno
quindi sempre più urgenti pratiche didattiche
GSRƙKYVEXI� GSQI� WXVYQIRXM� IJƙGEGM� TIV� PE� JSV-
mazione di coscienze critiche.
Schierarsi dalla parte dell’impegno formativo e
del ruolo sociale degli insegnanti vuole essere un
segno tangibile di speranza nel futuro, soprattut-
to in anni in cui la scuola ha subito e continua a
subire profonde ferite.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 17
PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI
Dottorati industriali e mercato del lavoro: appunti per una ricercaMichele Tiraboschi
IL DOTTORATO COSIDDETTO INDUSTRIALE, INTRODOTTO DAL DECRETO MINISTERIALE 8 FEBBRAIO 2013, N. 45, HA UNA
NOTEVOLE PORTATA INNOVATIVA NEL MODO DI FARE UNIVERSITÀ E NEL MODO DI FARE IMPRESA E LAVORARE.
Èda almeno un paio di decenni che
si registra, in ambito internazionale
e comparato, una crescente at-
tenzione verso l’emersione di innovati-
vi percorsi di alta formazione universitaria
e, segnatamente, verso quelle nuove ti-
pologie di dottorato di ricerca che risul-
tano maggiormente orientate alla col-
laborazione con le imprese e alla soddi-
sfazione dei fabbisogni professionali
espressi dal mercato del lavoro1.
Tuttavia in Italia ha sin qui destato scar-
so interesse l’introduzione, con l’artico-
lo 11, comma 2, del decreto ministeria-
le 8 febbraio 2013, n. 45, della figura dei
dottorati industriali che pure sono diffusi,
da oltre quarant’anni, nei Paesi nordici. Né
più né meno, in realtà, di quanto già ac-
caduto con riferimento all’introduzione
di innovativi percorsi di dottorato di ri-
cerca in apprendistato ai sensi dell’arti-
colo 50, comma 1, del decreto legislati-
vo 10 settembre 2003, n. 276 e, più re-
centemente, dell’articolo 5, comma 1, del
decreto legislativo 14 settembre 2011, n.
167 meglio noto come “Testo Unico”
dell’apprendistato.
Anche nella più recente produzione
scientifica che si è proposta di indagare,
in termini programmatici e di sistema, le
connessioni tra formazione, apprendi-
menti e mercato del lavoro, nessun cen-
no è contenuto al segmento dell’alta for-
mazione universitaria e dei dottorati di
ricerca in particolare. Così come lettera
morta sono rimaste nella prassi operativa,
pur a fronte di una non trascurabile at-
tenzione da parte della dottrina, le aper-
ture, contenute nell’articolo 14 della
legge 24 giugno 1997, n. 196, alla occu-
pazione nel settore della ricerca e, se-
gnatamente, le misure a favore dell’in-
serimento di laureati e dottori di ricerca
in imprese e loro consorzi attraverso
assunzioni a termine di tipo soggettivo
finalizzate alla realizzazione di specifici
progetti di formazione e ricerca.
Con specifico riferimento ai dottorati di ri-
cerca, si registra una scarsa attenzione –
non solo a livello normativo, ma anche nel-
la progettazione dell’offerta formativa di
taluni Atenei o, meglio, di quei corsi di dot-
torato che denotano maggiore propen-
sione all’innovazione – al mercato del la-
voro, alle professioni e alla collaborazione
con le imprese, pur in presenza di impor-
tanti misure di incentivazione agli inve-
stimenti privati nella ricerca universitaria.
Questa scarsa propensione alla collabo-
razione è testimoniata dalla pressoché to-
tale assenza di letteratura di riferimento e
ancor di più, sul piano pratico ed applica-
tivo, dai modesti numeri dell’apprendistato
di alta formazione e ricerca, nonostante sia
oramai cospicua la quantità di protocolli,
convenzioni e accordi quadro che auspi-
cano, ma solo raramente realizzano, una
più intensa cooperazione con le imprese
e il sistema produttivo.
Rispetto al dibattito internazionale e
alla riflessione comparata si potrebbe in-
vero ritenere che il ritardo italiano sia
principalmente dovuto alla relativa-
mente recente introduzione nel nostro
ordinamento dei dottorati di ricerca. Ep-
pure così non è se solo si pensa a quan-
to avviene in Paesi come l’Australia, il Bra-
sile e la Malesia che pure hanno una tra-
dizione alquanto recente in materia di
dottorati di ricerca. Vero è, piuttosto,
che nella loro trentennale esperienza, i
dottorati di ricerca italiani si sono carat-
terizzati, spesso in negativo, come scuo-
le autoreferenziali di formazione e co-
optazione di accademici e futuri pro-
fessori, più che come centri di innova-
zione, trasferimento tecnologico e, più in
generale, di avanzamento delle cono-
scenze del sistema economico, sociale e
produttivo del Paese. Non sorprende, pro-
prio per questo motivo, la circostanza che
i dottorati di ricerca italiani siano stati, sal-
vo alcune limitate e lodevoli eccezioni,
non soltanto incapaci di attrarre e con-
vogliare significativi finanziamenti privati,
ma anche di progettare e realizzare ro-
busti percorsi di apprendimento, for-
mazione e ricerca in situazioni di compito
e all’interno di luoghi di lavoro.
È per questo insieme di ragioni che non
convincono i toni enfatici con cui la
stampa specializzata ha accolto la novità
dei dottorati industriali dimenticando di
evidenziare non solo l’estrema reticen-
1. L’articolo, completo di riferimenti bibliografici, è di-sponibile in Nuova Secondaria Ricerca di settembre al-l’indirizzo: http://nuova secondaria.lascuolaconvoi.it.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI18
PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI
za del regolamento, tanto in termini de-
finitori che prescrittivi, ma anche i non
fruttuosi precedenti delle Scuole di
dottorato, che pure presupponevano
per la loro istituzione stretti rapporti con
il sistema economico-sociale e produtti-
vo, e ancor di più dei citati percorsi di
dottorato in apprendistato di alta for-
mazione. Percorsi che, a più di dieci anni
dalla loro introduzione nel nostro ordi-
namento, ancora stentano a decollare
pur rappresentando uno dei tratti qua-
lificanti per l’avvio di corsi e scuole di
dottorato industriale che si incentrano
su una continuativa presenza del dot-
torando in ambienti produttivi auspi-
cabilmente non solo in esecuzione di un
progetto di ricerca (o una parte di esso)
finanziato da un soggetto privato, ma
anche con la qualifica di “lavoratore
dipendente” e non solo di “studente” in
un periodo di internship.
Del resto la figura dei dottorati industriali
e, più in generale, le forme di collabora-
zione con il sistema economico e pro-
duttivo indicate all’articolo 11 del de-
creto ministeriale 8 febbraio 2013, n. 45,
sono state presentate, in prevalenza,
non in funzione di un reale e convinto
raccordo tra il mondo accademico e il si-
stema delle imprese, quanto in funzio-
ne di una sempre più sentita esigenza di
occupazione o quanto meno occupa-
bilità dei dottorandi al termine del per-
corso di dottorato.
In Italia, infatti, accedono ogni anno ai
percorsi di dottorato di ricerca oltre 12
mila laureati. La speranza che li accom-
pagna è quella di accedere, attraverso il
dottorato, alla carriera accademica. Que-
sto è anche l’auspicio di massima dei loro
tutor e docenti che sono prevalente-
mente espressione del mondo accade-
mico, che ancora detiene il monopolio as-
soluto sul rilascio dei titoli di dottorato
e, proprio in funzione esclusiva di tale
obiettivo, li formano e li addestrano. Le
statistiche dicono tuttavia che solo po-
chi di loro (circa 2.000) riusciranno real-
mente, dopo una lunga transizione fat-
ta di borse post dottorato, assegni di ri-
cerca e contratti precari, a proseguire la
trafila ed entrare nei ruoli universitari. Da
qui, è stato sostenuto, l’idea di un dot-
torato di ricerca in collaborazione con le
imprese o di taglio industriale con l’obiet-
tivo di non disperdere, al termine del per-
corso accademico, quel patrimonio di
competenze che questi giovani ricerca-
tori hanno comunque accumulato.
Eppure, là dove presenti e concreta-
mente attivati, i dottorati industriali di suc-
cesso e anche i percorsi di dottorato c.d.
professionalizzante non nascono nella
prospettiva di sviluppare nuove “tecniche
di tutela del lavoro” e neppure sempli-
cemente nuove “tecniche per l’occupa-
bilità” ex post dei lavoratori della ricerca,
quanto dal convinto interesse di univer-
sità e sistema economico-produttivo a
sperimentare – in un contesto produtti-
vo dove sempre meno sono richiesti
compiti esecutivi e dove sempre meno ri-
levano meccanici processi imitativi o ri-
produttivi – innovativi percorsi di ricerca
incentrati su metodi formativi e di ap-
prendimento da realizzarsi prevalente-
mente in ambiente di lavoro e, in ogni
caso, per situazioni di compito. Non, dun-
que, un ripiego rispetto alla carriera ac-
cademica e alle attuali ristrettezze di fi-
nanziamenti destinati al mercato auto-
referenziale delle Università; piuttosto
un fronte particolarmente avanzato nel-
la innovazione del modo di fare ricerca e
di un rinnovato raccordo Università-Im-
presa incentrato su incubatori aperti di sa-
peri e conoscenze e su partenariati fina-
lizzati al trasferimento tecnologico e alla
costruzione di competenze di elevato
contenuto professionale, tanto trasversali
che specialistiche, il più delle volte non an-
cora presenti nel mercato del lavoro e tan-
to meno tipizzate dalla contrattazione col-
lettiva di lavoro nei sistemi di classifica-
zione e inquadramento del personale e
nelle relative declaratorie ed esemplifi-
cazioni professionali e di mestiere.
È esattamente in quest’ultima prospettiva
che è opportuno avviare un percorso di
studio e analisi del dottorato cosiddetto
industriale introdotto dal decreto mini-
steriale 8 febbraio 2013 al fine di valutarne,
sul versante delle istituzioni del mercato
del lavoro e degli assetti del sistema di re-
lazioni industriali, la potenziale portata in-
novativa tanto nel modo di fare Univer-
sità quanto nel modo di fare impresa e la-
vorare. E ciò fino al punto da prospetta-
re, in linea con la più recente evoluzione
della riflessione pedagogica e manage-
riale, l’evoluzione delle aziende da “or-
ganizzazioni economiche” finalizzate, per
espressa definizione codicistica, alla mera
produzione o allo scambio di beni e ser-
vizi, a vere e proprie “organizzazioni edu-
cative” – o anche “learning organization”
– in cui anche l’attività vera e propria la-
vorativa si compie con modalità prossi-
me a quelle di un processo formativo cir-
colare (quello che intercorre tra cogni-
zione ed esperienza) finalizzato ad ap-
prendere come fare e, conseguente-
mente, alla generazione di valore e com-
petenze attraverso la combinazione di ap-
prendimento, lavoro, ricerca, progetta-
zione e costante innovazione nei processi
produttivi o nei modi di erogare servizi (il
c.d. learnfare). Di questa evoluzione i
dottorati industriali rappresentano un
aspetto essenziale e comunque deter-
minante perché finalizzati a strutturare
quell’area grigia del mercato del lavoro
(il c.d. intermediate labour market), sin qui
estremamente frammentata ed episodi-
ca, attraverso cui si realizza il raccordo tra
sistema produttivo e università.
Michele TiraboschiScuola di dottorato in Formazione della
persona e mercato del lavoro (ADAPT-CQIA, Università di Bergamo)
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 19
PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI
Valore dell’integrazionee prevenzione della violenzaMario Martinelli
IL PROCESSO EDUCATIVO E DI INTEGRAZIONE DELLA PERSONA NELLA COMUNITÀ PUÒ FAVORIRE IL RICONOSCIMENTO
RECIPROCO E QUINDI CONTRIBUIRE AD EVITARE IL MANIFESTARSI IMPROVVISO DI EPISODI DI INCONTROLLATA VIOLENZA.
La vigilia di Natale è purtroppo
giunta dagli Stati Uniti d’America
l’ennesima atroce notizia di un
omicida seriale che, a Webster, nello Sta-
to di New York, dopo aver attirato i vigi-
li del fuoco in una trappola con un in-
cendio provocato ad arte, ne ha poi uc-
cisi due senza motivo o, meglio, soltan-
to perché «uccidere persone» era la cosa
che gli piaceva fare più di ogni altra, come
ha avuto modo di scrivere su un bigliet-
tino trovato nella sua abitazione. Le in-
dagini successive hanno permesso di ri-
trovare nella casa dell’omicida resti uma-
ni conservati da precedenti omicidi e di
risalire all’assassinio della nonna, avve-
nuto nel 1980, per il quale l’uomo aveva
scontato diciassette anni di carcere. Le
cronache hanno riportato, inoltre, che nel-
la medesima cittadina, il precedente 7 di-
cembre, un ragazzo di 15 anni aveva in-
cendiato la propria casa, provocando in
tal modo la morte di suo padre e dei suoi
due fratelli di sedici e dodici anni.
Nello stesso periodo di tempo, il 14 di-
cembre, è avvenuto anche il massacro
nella Sandy Hook Elementary School di
Newtown in Connecticut, dove un ra-
gazzo con disturbi gravi della relazione
ha ucciso, all’interno della scuola, venti
bambini fra i cinque e i dieci anni e sei
adulti. Questa, peraltro, è solo l’ultima di
una lunga serie di stragi, avvenute già ne-
gli anni scorsi in ambito scolastico, da Co-
lumbine a Virginia Tech. Ancora una vol-
ta il mondo anglosassone ci ferisce e ci
impressiona con la notizia di un individuo,
probabilmente con disturbi gravi della re-
lazione, che esplode nel modo più vio-
lento contro i propri simili, spesso i più in-
difesi come, nei casi citati, i bambini del-
la scuola elementare oppure una nonna
di novantadue anni.
I commenti, alla ricerca di una spiega-
zione per accadimenti tanto atroci e ra-
zionalmente oscuri, ci sollecitano ad al-
cune considerazioni, ad iniziare dal fat-
to che, nel nostro Paese, anche chi soffre
di disturbi analoghi ed ugualmente gra-
vi in realtà non reagisce in modo così inu-
mano ai problemi e alle difficoltà del-
l’esistenza o, quantomeno, situazioni si-
mili accadono molto più eccezional-
mente.
Si immagini, ad esempio, di uscire per
strada in un qualunque luogo d’Italia e
di fermare il primo passante, a caso. Si
pensi di chiedere a questa persona chi sia
stato il cosiddetto «mostro di Firenze»: è
molto probabile che questi ci risponda
esattamente nome e cognome, periodo
in cui è vissuto, luoghi dove ha commesso
i delitti, numero di omicidi e, forse, per-
sino i nomi di alcune vittime e così via. Si
provi ora a immaginare di mettere in atto
la medesima iniziativa negli USA, chie-
dendo chi sia stato uno dei serial killer tra
quelli realmente esistiti, scelto a caso. Ben
difficilmente l’interrogato sarà in grado
di rispondere: negli ultimi decenni, in Ita-
lia, è esistito un solo omicida seriale
che, non a caso, ancora tutti conoscono.
Nel medesimo periodo, negli USA, i serial
killer sono stati centinaia, con migliaia di
vittime, come si può ricostruire anche
solo seguendo le cronache per poche
settimane. Sarebbe impossibile per
chiunque ricordare particolari.
Il valore educativodell’integrazioneLa riflessione, dunque, ci sollecita alla va-
lutazione dell’esperienza italiana di in-
tegrazione nell’educazione degli allievi
con disabilità gravi, anche in quell’ambito
che un tempo veniva definito di bambi-
ni e ragazzi «ineducabili» i quali, invece,
ormai da decenni, frequentano le classi
comuni della scuola italiana. Si può pen-
sare, infatti, che la concezione del pro-
cesso educativo e di integrazione della
persona nella comunità abbia contribuito
ad esiti sociali ben differenti rispetto a
quelli appena descritti.
Da cinquant’anni nel nostro Paese è in
corso un’esperienza alquanto significa-
tiva ed importante di integrazione pie-
na e totale degli alunni con disabilità nel-
la scuola di tutti. Negli Anni Sessanta ini-
ziarono le prime esperienze spontanee
e sperimentali che condussero il Parla-
mento italiano all’approvazione della L.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI20
PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI
ma anche scoprire che il giorno dopo si
può «far pace», giocare di nuovo insieme
e provare di nuovo le stesse emozioni a
causa di una «minaccia» esterna e così via.
Sono tutte attività che permettono, pri-
ma di tutto, di riconoscere l’altro soggetto
come un altro essere umano, certamen-
te diverso ma uguale nel suo essere
bambino o ragazzo «come me». Signifi-
ca sperimentare in modo diretto nella
propria esistenza l’uguaglianza ontolo-
gica, il riconoscersi reciprocamente come
esseri umani che vivono e si relazionano
al di là delle differenze empiriche, che si
manifestano con diverse caratteristiche
di personalità, aspetti emotivo-affettivi e
qualità cognitive.
Quando ciò non avviene ovvero quando
la crescita e l’educazione di un sogget-
to si compiono nell’isolamento, ciò che,
innanzi tutto, viene a mancare è proprio
il riconoscimento reciproco, il sentirsi par-
te di una comunità di eguali, il percepir-
si essere umano tra esseri umani. E ciò
può favorire l’odio, il rancore, il risenti-
mento, la vendetta «annidati», per così
118/71, che permise di dare una cornice
giuridica a un’esperienza volontaria or-
mai diffusa sul territorio nazionale, per
giungere attraverso diverse tappe nor-
mative alla L. 517/77, che abolì definiti-
vamente tutti i percorsi scolastici se-
gregati, istituendo la frequenza alle
scuole comuni di ogni ordine e grado.
Tutto fu consolidato, com’è noto, dalla
sentenza n. 215/86 della Corte Costitu-
zionale che riconobbe il diritto alla fre-
quenza da parte degli allievi disabili an-
che agli asili nido e alle scuole seconda-
rie di secondo grado dove, fino a quel
momento, la presenza degli allievi era
solo facilitata e non garantita. La legge
104/92 riorganizzò giuridicamente l’in-
tegrazione scolastica e sociale.
Gli ultimi documenti internazionali sul-
l’argomento sono ormai orientati a esten-
dere i principi dell’esperienza italiana a
tutti i paesi del mondo: la Convenzione
ONU sul diritto delle Persone con disa-
bilità del 2006, il Rapporto Mondiale
sulla disabilità dell’OMS e della Banca
Mondiale del 2011, il Progetto Horizon
2020 dell’Unione Europea, solo per ci-
tarne alcuni tra i principali, indicano la
partecipazione alle attività scolastiche co-
muni come uno degli elementi irrinun-
ciabili per permettere alla persona con
disabilità la partecipazione sociale, l’ap-
partenenza alla comunità e alla cultura
di riferimento, la collocazione nel mon-
do del lavoro, la possibilità di non cade-
re in condizione di povertà economica a
causa della disabilità stessa e così via.
La frequenza scolastica e la vita trascor-
sa insieme tra bambini e ragazzi rap-
presenta, infatti, una delle più efficaci pre-
venzioni e difese dalla violenza tra esseri
umani. Svolgere attività comuni, colla-
borare, giocare con gli altri, ma anche
emozionarsi e aver paura insieme, ma poi
superare apprensione e inquietudine
grazie alla condivisione. Litigare, azzuffarsi
tra bambini, con tutto ciò che consegue,
dire, nell’interiorità per tempi impreve-
dibili e che, poi, possono scoppiare più
o meno improvvisamente. Cogliersi come
«altro» dagli esseri umani, alieno, può
esporre il soggetto al rischio di azioni in-
controllate. È la mancanza di rapporto col
genere umano che, in caso di disturbi gra-
vi della relazione, può condurre alle si-
tuazioni descritte. Al contrario, espe-
rienze di condivisione di tratti di vita in
comune, sperimentati a scuola in età gio-
vanile, contrastano la possibilità di agi-
re in modo crudele ed efferato nei con-
fronti di chi è vicino e ontologicamente
simile. È noto che l’allontanamento pro-
duce non solo estraneità ma anche il
mancato riconoscimento dell’umanità
dell’altro: l’altro si riduce ad un ruolo, una
funzione o, persino, un numero. Per que-
sta ragione anche l’essere umano privo
di qualunque disturbo può, se non ri-
manere impassibile, perlomeno conti-
nuare a svolgere le proprie attività ordi-
narie anche di fronte a notizie gravissi-
me di morti, stragi, disastri: gli individui
coinvolti non sono persone reali, familiari,
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 21
PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI
amici o, comunque, persone vere, ma solo
virtuali, analoghe a personaggi di film e
racconti. Possono anche coinvolgere e
commuovere per un momento, ma non
sono veri: molti continuano a cenare
con appetito davanti anche alle immagini
più impressionanti dei telegiornali. È ciò
che Primo Levi definiva la zona grigia del-
la complicità: non si percepiscono lega-
mi di causa ed effetto tra i propri com-
portamenti ed una realtà che appare così
lontana da non coinvolgere in alcun
modo. Del resto è noto che anche il de-
linquente più accanito, se può uccidere
uno sconosciuto senza batter ciglio, ha
invece notevoli difficoltà a perpetrare
omicidi nei confronti di persone con le
quali abbia familiarità o, comunque, ab-
bia trascorso insieme del tempo. L’estra-
neità e la mancanza di conoscenza sono
l’elemento nel quale la violenza pro-
spera.
L’integrazione in Italia e nel mondoÈ sufficiente un confronto di dati per in-
dividuare differenze significative: in Ita-
lia dal 1977, come s’è fatto cenno, non esi-
stono più percorsi segregati per allievi
con disabilità. Scuole speciali, classi dif-
ferenziali e di aggiornamento sono sta-
te abolite: da allora nessun bambino e
nessun ragazzo frequenta più la scuola
in condizioni di isolamento e segrega-
zione. Nel mondo anglosassone la si-
tuazione è ben differente: nel Regno
Unito non esiste una frequenza di tutti
gli alunni nelle classi comuni ma soltanto
una situazione nella quale le famiglie de-
cidono se il figlio debba frequentare la
scuola comune oppure classi o scuole
speciali e, dunque, svolga il suo percor-
so scolastico in isolamento: in Inghilter-
ra il 43% degli alunni con disabilità fre-
quenta percorsi scolastici segregati1. Co-
m’è noto, comparare la frequenza sco-
lastica negli USA a quella nelle scuole eu-
ropee presenta alcune difficoltà, a cau-
sa della diversa struttura del percorso sco-
lastico che non contempla classi di ap-
partenenza anno per anno, ma frequenza
alle singole discipline: dai dati ufficiali del
governo americano si può però evince-
re che solo il 59,4% degli studenti con di-
sabilità frequenta almeno l’80% delle ore
di lezione nelle attività comuni, mentre
il 20,7 frequenta soltanto tra il 40 e il 79%
delle ore ed il 14,6% persino meno del
40%. Il rimanente 5,3 frequenta esclusi-
vamente percorsi scolastici segregati in
strutture pubbliche o private2. Com’è
facilmente rilevabile, si tratta di una si-
tuazione ben diversa da quella che ca-
ratterizza il nostro Paese che ha piena-
mente realizzato da decenni ciò che
viene ora auspicato dalle organizzazio-
ni internazionali sopra citate. Con questo
confronto di dati e di situazioni, natu-
ralmente, non vogliamo sostenere che
tutto è determinato da questo unico ele-
mento né che la situazione del nostro
Paese rappresenti il migliore dei mondi
possibili, così che essa non possa e non
debba migliorare. Riteniamo però che an-
che questa sia una riflessione necessaria
per valorizzare l’esperienza di integra-
zione contro l’affermazione semplicisti-
ca che essa non abbia valore e, senza me-
diazioni culturali, ci si debba solo ade-
guare agli standard anglosassoni.
Mario MartinelliUniversità di Torino
1. Cfr. Rapporto mondiale sulla disabilità, pubblicato dal-l’Organizzazione Mondiale della Sanità e dalla BancaMondiale, 2011.2. Dati U.S. Department of Education, Office of SpecialEducation Programs, Individuals with Disabilities Edu-cation Act (IDEA) database aggiornato al 15 settembre2011, da https://www.ideadata.org/DACAnalyticTool/Intro_2.asp.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI22
PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI
Insegnare storia della filosofiasecondo MaritainPiero Viotto
PIÙ CHE INSEGNARE AI GIOVANI LA STORIA DELLA FILOSOFIA COME GALLERIA DI RITRATTI O SUCCESSIONE DI SISTEMI
FILOSOFICI, È NECESSARIO INSEGNARE A FILOSOFARE, PERCHÉ CIASCUN ALUNNO POSSA TROVARE IL PENSIERO DI
RIFERIMENTO, VERIFICANDONE IL VALORE.
Insegnare ai giovani la storia della fi-
losofia come una galleria di ritratti, o
come un succedersi caleidoscopico di
sistemi filosofici, che si contrappongono
fra di loro, finisce per essere un’educa-
zione allo scetticismo, per il continuo
cambiare della prospettiva di ricerca. La
riforma di Giovanni Gentile ha introdot-
to il metodo storico nei programmi, in
parte compensato dalla lettura di un’ope-
ra di un “classico” per ogni anno scolastico,
cosa che è caduta in disuso. Prima, nel-
l’età positivistica, al tempo dell’avvento
della sinistra al potere, nelle scuole si in-
segnava un sistema filosofico, presen-
tando i diversi problemi, teorici e prati-
ci, che esso affronta, dalla gnoseologia al-
l’etica. Ma, in realtà, anche l’idealismo di
Gentile intende insegnare una sola filo-
sofia, perché, nel suo storicismo, identi-
fica filosofia e storia, per cui l’ultimo si-
stema è quello vero che risolve dialetti-
camente in se stesso tutti i sistemi pre-
cedenti. Dunque si finisce per educare al
relativismo se si insegna solo la storia del-
la filosofia, ma se si insegnasse solo una
filosofia, quella che il docente ritiene
per vera, si rischierebbe di educare al fon-
damentalismo. Occorre, invece, inse-
gnare a filosofare, affinché ciascun alun-
no possa trovare il sistema di riferimen-
to, verificandone il valore.
La riflessione filosofica non nasce dalla
esperienza, sarebbe il risultato empirico
del divenire della storia, ma nasce nella
esperienza, perché non abbiamo idee in-
nate, come immaginava Cartesio, e nem-
meno l’idea di essere è in noi a priori
come pensava Rosmini, perché l’intelli-
genza diventa intelletto solo quando
ha intelletto gli intelligibili. Attraverso la
storia della filosofia, bisogna esercitare
l’intelligenza a scoprire la verità, ovunque
essa si trovi, e ai diversi livelli del sapere,
dalle scienze naturali e dalla fisica fino alla
metafisica e alla teologia, non trascu-
rando la mistica che è una conoscenza di
modo pratico, ma è autentica cono-
scenza. La contemplazione dei santi
completa la contemplazione dei filoso-
fi, come dice Bergson.
La filosofia non si lascia storicizzare in cor-
renti e movimenti, essa vive la sua og-
gettività nella soggettività del filosofo, ac-
cumulando nel tempo le briciole di ve-
rità che ciascuno trova, perché essa tra-
scende il tempo e il divenire della storia.
Non confondiamo la filosofia nella sua
oggettività, con la soggettività del filo-
sofare; essa è, se è filosofia, semplice-
mente vera, così come l’uomo la può co-
noscere. Per Jacques Maritain esiste una
filosofia perenne, quella della ragione ri-
spettosa delle regole del ragionamento,
che approda a conoscere la realtà. Essa
in se stessa non è greca o latina, araba o
cristiana, non è occidentale o orientale,
non è antica o moderna, è propria del-
l’uomo in quanto uomo, in qualunque età
storica e cultura si trovi. Quando si par-
la di razionalismo e di empirismo, di
idealismo e di positivismo, di realismo e
di fenomenismo non si parla solo di
una datata corrente filosofica, anche se
questa, o quest’altra, soluzione del pro-
blema filosofico si è definita meglio in un
dato momento storico, perché in ogni
tempo ci sono stati empiristi e raziona-
listi, positivisti e idealisti, realisti e feno-
menisti. Insegnare a filosofare è anche
una questione di democrazia, perché si
tratta di conciliare, proprio nella scuola,
la soggettività della libertà di coscienza
e l’oggettività delle verità, la libertà del
cittadino e i valori della legge morale1.
Su queste basi, e con queste convinzio-
ni, Maritain nel 1920, quando insegnava
al liceo, ha scritto per i suoi allievi una In-
troduzione alla filosofia2, che ha avuto nu-
merose edizioni ed è stata tradotta non
solo nelle lingue europee, ma anche in
giapponese e in coreano. Nel 1960, quan-
do insegna alla Princeton University,
scrive una monumentale storia della fi-
1. J. Maritain, Elogio della democrazia, La Scuola, Brescia2011, pp. 158.2. Id., Introduzione alla filosofia, Massimo, Milano 2004.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 23
PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI
losofia morale da Socrate a Sartre: La fi-
losofia morale, Esame storico e critico dei
grandi sistemi3. Se questi scritti appro-
dano alla filosofia di san Tommaso, non
è perché il realismo aristotelico-tomisti-
co sia considerato un a-priori, ma perché,
di fatto, rappresenta quella filosofia pe-
renne propria dell’uomo in quanto tale,
in tutti i tempi e in tutti i luoghi, che fa-
ticosamente progredisce attraverso la
storia4.
In questo modo Maritain si confronta con
la storia, cercando la verità ovunque si na-
sconda, amando e rispettando gli av-
versari, che pure demolisce con le sue ar-
gomentazioni5.
Dai 17 volumi dell’Opera omnia di Mari-
tain, e non solo dalle opere monografi-
che che ha dedicato a Machiavelli, Lute-
ro, Cartesio, Rousseau, Bergson, si pos-
sono trarre materiali e schemi didattici,
che lui stesso ha elaborati, per aiutare gli
studenti ad imparare a filosofare, attra-
verso la storia della filosofia, per appro-
dare alla filosofia6.
La dissoluzione dell’oggetto del sapereMaritain rileva che la svolta nella storia
della filosofia è avvenuta con Cartesio7,
che ha spostato l’asse della ricerca dal-
l’essere al conoscere, dalla ontologia
alla gnoseologia, giungendo a separare
l’anima dal corpo, per cui ha considera-
to le idee come idee innate, a cui Dio ga-
rantirebbe la corrispondenza con la re-
altà. Dopo di lui, sia i razionalisti che gli
empiristi non si sono più preoccupati di
studiare la relazione tra la materia e la for-
ma, tra la potenza e l’atto, tra l’essere e
il divenire, tra il finito e l’Infinito, ma, aven-
do ridotto il concetto a un puro ogget-
to di pensiero, hanno cercato di giustifi-
care in che modo questo essere di pen-
siero potesse avere un valore reale. Car-
tesio e Locke, sulla base del principio di
causa, hanno ancora riconosciuto l’og-
gettività di questa conoscenza sogget-
tiva. Ma Berkeley, affermando con la for-
mula esse est percipi che l’oggetto esiste
in quanto è percepito dal soggetto, di-
strugge la sostanza materiale, e nel suo
immaterialismo riconosce solo l’esi-
stenza di uno Spirito infinito e degli spi-
riti finiti. Hume, sviluppando Berkeley,
giunge ad affermare esse est percipere, e
dissolve anche il soggetto conoscente, in
quanto l’oggetto esiste, perché è perce-
pito, e il soggetto esiste, perché perce-
pisce, e cosi risolve tutta la realtà nell’atto
del conoscere, riducendola a pura ap-
parenza di un indefinito e mutevole
fluire. Si giunge così alla distruzione del-
l’oggetto del sapere. Il fenomenismo,
che dissolve non solo la realtà materia-
le, ma anche la realtà spirituale, nell’at-
to del conoscere, che risolve non solo
l’oggetto, ma anche il soggetto, nella re-
lazione cognitiva, invaderà anche il cam-
po della letteratura. Basti ricordare che
Luigi Pirandello in Cosi è se vi pare (1917)
fa concludere l’azione drammaturgica
dalla protagonista, affermando: «Per me,
io sono colei che mi si crede», traducen-
do esattamente la posizione di Hume, che
sbriciola e frantuma la personalità di
ciascuna persona nel succedersi dei di-
versi stati psichici dei soggetti in rela-
zione.
Per Maritain la dissoluzione dell’ogget-
to del sapere ha comportato una crisi del-
l’epistemologia, perché di fatto, a pre-
scindere dalle intenzioni personali, Car-
tesio nega la scientificità della teologia,
Kant nega la scientificità della filosofia, e
le correnti più recenti come il neoposi-
tivismo, l’empiriocriticismo, il pragmati-
smo, e lo stesso marxismo negano la
scientificità della scienza, ridotta a pras-
si, utile ma non vera, perché preferisco-
no la verifica alla verità, e fanno del suc-
cesso, dell’efficienza e della riuscita il cri-
terio di valore. Nella storia della filosofia
si è passati dalle Summae medievali al-
l’Enciclopedia dell’età dei lumi, fino a
giungere alla cultura in briciole dei lin-
guaggi tecnologici. Nel contempo si è
spostata l’attenzione dalla contempla-
zione dell’Assoluto al dominio del mon-
do, perché, come ha incominciato a pro-
clamare Francesco Bacone, «il sapere è
potere», vale perché serve.
Nell’insegnamento della filosofia bisogna
considerare anche gli aspetti politici del
sapere filosofico. A questo riguardo Ma-
ritain constata che quello di Machiavel-
li e di Richelieu era solo un machiavelli-
smo moderato, che cerca il bene comu-
ne con mezzi ingiusti, corrompendo così
la stessa idea di bene, ma poi è venuto un
machiavellismo assoluto, che identifica la
Jacques Maritain (1882-1973).
3. Id., La filosofia morale, Esame storico e critico dei grandisistemi, Morcelliana, Brescia 1990.4. Ibi, p. 175. J. Maritain, Il contadino della Garonna, Morcelliana,Brescia 1969, p. 153-154.6. P. Viotto, Il pensiero moderno secondo Maritain, CittàNuova, Roma 2011, p. 268. Id., Il pensiero contemporaneosecondo Maritain, Città Nuova, Roma 2012, p. 338.7. J. Maritain, Le songe de Descartes, Buchet Chastel, Paris1932, pp. XII-346.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI24
PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI
morale con la politica, il bene comune
con il bene dello Stato, e chiama bene ciò
che è male, con Hegel e con Marx, con il
nazionalsocialismo e il comunismo. D’al-
tra parte, osserva Maritain, è stato lo stes-
so dualismo antropologico tra res cogi-
tans e res extensa di Cartesio, e tra il re-
gno dei fini e il regno della natura di Kant
a portare a separare il diritto, la politica,
l’economia dalla morale e dalla religio-
ne, risolvendo queste ultime nella co-
scienza individuale soggettiva.
Kant al crocevia dellafilosofia modernaHume aveva portato la filosofia ad un
punto morto, che bisognava superare in
qualche modo, e questo avvenne con
Kant in cui confluiscono empirismo
(giudizio sintetico) e razionalismo (a
priori) e dal quale dipartono positivismo
(di materia) e idealismo (e di forma).
Maritain fa un’analisi accurata di questa
sintesi a priori che irrompe nella storia
della filosofia, ed osserva in una lezione
tenuta nel 1914 a Parigi all’Institut Ca-
tholique
cosa ammirevole, la ricerca di una evi-
denza quasi angelica, l’ambizione di ren-
dere lo spirito umano pienamente indi-
pendente, ma che finisce per asservire lo
spirito ad una necessità che lo opprime.
Perché se un termine non è contenuto in
un altro, che cosa dunque può forzare lo
spirito ad unire a priori questi due ter-
mini? non certamente l’evidenza. Forse
per Kant si tratta di una specie di neces-sità cieca, interiore al soggetto stesso; perCartesio, ingannato dall’immaginazionematematica, sembrava, piuttosto, chefosse l’interferenza di schemi matemati-ci nella vita dello spirito8.
In Kant la formazione del concetto è il
frutto di un giudizio sintetico a priori,
mentre per Maritain i concetti sono pro-
dotti dallo spirito prima di essere as-
semblati, nel senso che le parti della pro-
posizione (prese separatamente e in
loro stesse) sono conosciute prima di
questa; perché la semplice apprensione
precede il giudizio. Kant anticipa il giu-
dizio sulla intellezione. Sostanzialmente
è ancora questa la divisione che attra-
versa la filosofia contemporanea, da una
parte coloro che riconoscono l’intuizio-
ne dell’essere, nella sua oggettività, e dal-
l’altra parte coloro che imprigionano la
conoscenza nel giudizio, fermandosi alla
soggettività del conoscere, come la fe-
nomenologia9.
Maritain riconosce che non è nell’intel-
lezione ma nel giudizio che l’intelligen-
za possiede propriamente la verità, e che
Kant ha avuto ragione nel volere resti-
tuire, sia contro Hume che contro Leib-
niz, il movimento progressivo e sinteti-
co della ragione, ma ha cercato tutta la
regolamentazione della conoscenza dal
lato del soggetto e delle sue pretese for-
me a priori, mentre essa è tutta dalla par-
te dell’oggetto e delle necessità intelli-
gibili iscritte nei concetti stessi. Bisogna
raccordare e non separare intellezione e
ragionamento, altrimenti si finisce per ne-
gare la conoscibilità dell’essere e la me-
tafisica. Kant non ha avuto maestri e non
ha avuto discepoli, è un gigante isolato
8. Id., Œuvres completes, Editiond Universitaires, Fri-bourg-Suisse 1996, vol. III, p. 865.9. B. M. Simon , Esiste una “intuizione” dell’essere?, EdizioniStudio Domenicano, Bologna 1995.
Statua di Socrate, Atene, Accademia.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 25
PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI
nella storia della filosofia, dopo di lui nel-
l’età delle ideologie i positivisti hanno ri-
dotto la realtà a materia e gli idealisti han-
no risolto tutto il divenire nella dialetti-
ca dell’idea.
È interessante il giudizio sul comuni-
smo, che Maritain considera l’ultima ere-
sia cristiana in se stessa contraddittoria,
perché da una parte vuole realizzare la so-
lidarietà tra gli uomini e tra i popoli,
mentre dall’altra è legata a filosofie come
l’hegelismo e il marxismo, che sono del-
le teologie rovesciate. Nel Breve trattato
dell’esistenza e dell’esistente si domanda:
Il panlogismo di Hegel è stato il supremosforzo della filosofia moderna di assorbiretutti i cieli dello spirito nell’assolutismodella ragione. Dopo si è avuta la dispe-razione della ragione, ma di una ragionesempre posseduta, sempre ferita dall’os-sessione teologica, diventata ossessioneantiteologica. Quando Feuerbach ha di-chiarato che Dio era creazione e aliena-zione dell’uomo, quando Nietzsche haproclamato la morte di Dio, essi sono sta-ti i teologi delle nostre filosofie contem-poranee. Perché sono così carichi diamarezza, se non perché si sentono in-catenati, loro malgrado, ad una trascen-denza e ad un passato, che debbonosempre uccidere e nella cui negazione af-fondano le loro stesse radici?10
Si può affermare che l’ateismo è il termine
finale della dialettica interna dell’uma-
nesimo antropocentrico germinato nel
Rinascimento e nel Razionalismo.
Teismo, deismo, ateismo Nell’insegnare la filosofia è importante
evidenziare le correlazioni tra la logica e
la metafisica, tra l’etica e il diritto, tra la
teologia e la politica. Il fenomenismo, im-
plicito nell’empirismo anglosassone e nel
razionalismo francese, è stato il piano in-
clinato su cui la storia della filosofia è pas-
sata dal realismo ebraico, greco, latino, cri-
stiano, all’idealismo dell’età delle ideo-
logie. Si è passati da «conosco le cose
come sono» a «le cose sono come le co-
nosco», così l’esistenza di Dio è diventata
l’idea di Dio di Cartesio e di Spinoza. Di
conseguenza, attraverso il deismo illu-
ministico, si è giunti all’ateismo con-
temporaneo, teorico per alcuni e prati-
co per molti. In questo clima culturale e
politico che vuole fare a meno di Dio, che
mette Dio tra parentesi, perché l’uomo
crede di essere autosufficiente, la rivo-
luzione cartesiana ha dato origine alla ne-
gazione della saggezza e al predominio
della scienza e della tecnica. Sul piano del-
la filosofia pratica si è passati dal giu-
snaturalismo, che raccorda il diritto alla
legge eterna, come fanno Aristotele e
Tommaso, al giuspositivismo di Hegel e di
Marx, che costituiscono la politica in
legge morale, per cui «lo Stato ha sem-
pre ragione» come scriveva Mussolini. La
filosofia contemporanea recupera il di-
ritto naturale a confronto del diritto po-
sitivo, ma lo giustifica solo come inter-
soggettività in una sorta di giusraziona-
lismo, perché riconosce la persona uma-
na come valore morale e non come va-
lore ontologico, in quanto secondo la fe-
nomenologia, l’ermeneutica, la filosofia
analitica l’uomo non può conoscere l’es-
sere.
La storia della filosofia secondo Maritain
non è una storia “neutra”, perché nelle sue
analisi non si limita a esporre e descrivere
i diversi sistemi filosofici nella loro genesi
e nel loro maggiore o minore successo
storico, ma li giudica criticamente, talvolta
anche con linguaggio aspro. Maritain
«duro di testa e dolce di cuore», come scri-
veva Jean Cocteau, rispetta le persone nel-
la loro soggettività, ma cerca la verità nel-
la sua oggettività, ovunque si trovi. G. B.
Vico ritiene che la storia sia una sintesi di
filologia, cioè documentazione critica, e
filosofia, cioè interpretazione razionale.
Maritain realizza questa connessione,
perché è accurato nella documentazio-
ne delle fonti e preciso nella loro inter-
pretazione. Non confonde storia e filosofia
della storia, non tradisce le intenzioni dei
filosofi che presenta, ma trae dai testi tut-
te le conseguenze delle affermazioni as-
sunte. Se si vuole educare a filosofare, at-
traverso la storia della filosofia, bisogna
pure confrontarsi con la filosofia, che
emerge da questa storia. L’importante è
di non imporsi con la propria autorità allo
studente, ma lasciare che la verità s’im-
ponga per se stessa e da se stessa.
Infine e soprattutto, nell’insegnare filo-
sofia, occorre raccordare tra di loro i di-
versi campi del sapere, per evitare la fram-
mentazione delle conoscenze, che im-
pedisce ai filosofi e agli scienziati, ai
teologi e agli artisti, ai moralisti e ai po-
litici di comprendersi. Maritain conclude
Di proposito abbiamo percorso un cosìvasto insieme di problemi, e tracciato unasintesi che, cominciando dall’esperienzadel fisico, si conclude nell’esperienza delcontemplativo, e la cui solidità filosoficaè garantita dalle certezze razionali dellametafisica e della critica. Soltanto inquesto modo potevamo mostrare la di-versità organica e l’essenziale compati-bilità delle regioni di conoscenza traver-sate dallo spirito in quel grande movi-mento di ricerca dell’essere, al quale cia-scuno di noi può collaborare solamenteper un esiguo frammento, e rischiando dimisconoscere l’attività dei suoi compagnilegati ad altri lavori frammentari, ma lacui unità d’insieme riconcilia, quasi loromalgrado, nel pensiero del filosofo, fra-telli che non si conoscevano. Da questopunto di vista si può anche dire che il la-voro, cui la metafisica sembra oggi chia-mata, è di mettere fine a quella specie diincompatibilità di carattere che l’uma-nesimo dell’età classica aveva creato trala scienza e la sapienza11.
Piero Viotto
10. J. Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente,Morcelliana, Brescia 1990, p. 104.11. Id., La filosofia morale, cit., p.9.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI26
PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI
Valutare gli interventi educativi nella scuolaEmanuela Maria Teresa Torre
SEMPRE PIÙ SPESSO IL DOCENTE È CHIAMATO A PROGETTARE INTERVENTI EDUCATIVI. L’UTILIZZO DELLE STRATEGIE DI
RICERCA VALUTATIVA È UNA RISORSA PER LA VALORIZZAZIONE E IL RICONOSCIMENTO DELLE AZIONI CONDOTTE.
Le difficoltà, riscontrabili negli ado-
lescenti di oggi, a far fronte ai
compiti di sviluppo tipici dell’età
stimola la riflessione sulle opportunità e
possibilità di intervento e sulle compe-
tenze specifiche richieste ai docenti in
questo ambito.
Un’approfondita rassegna della letteratura
internazionale (Coggi, Ricchiardi, 2009)
evidenzia che, negli ultimi trent’anni, i pro-
getti finalizzati a rispondere a queste pro-
blematiche hanno cambiato fisionomia.
Essi si sono orientati progressivamente al
sostegno dello sviluppo positivo dei ra-
gazzi più che al contenimento del disa-
gio, con particolare riguardo alla pro-
mozione del benessere scolastico e alla
riduzione dell’insuccesso. Tali progetti
hanno investito inizialmente la scuola se-
condaria di I grado, ma iniziano a diffon-
dersi anche in quella di II grado1. Sempre
più spesso essi coinvolgono l’intera co-
munità educante (scuola, famiglia, ex-
trascuola) e prevedono la partecipazio-
ne attiva dei ragazzi. Sono, perciò, forte-
mente contestualizzati e promossi dal-
l’interno (dalla scuola, dalla comunità) in
continuità con il territorio, a vantaggio di
una maggiore incisività ed efficacia del-
le azioni proposte.
La richiesta di interventi adeguati si
scontra, però, con la contrazione pro-
gressiva delle risorse disponibili. È im-
portante quindi che l’azione progettua-
le non si riduca a sterile prassi burocra-
tica o finalizzata a reperire fondi, ma si
strutturi su problemi e bisogni reali del
contesto, ponendo attenzione a creare
consenso sia all’interno dell’istituzione
scolastica sia all’esterno, per favorire
l’incisività degli interventi e la diffusione
delle prassi efficaci. Ciò è tanto più pos-
sibile quanto più si pone attenzione alla
valutazione sistematica (ex ante, in itinere,
ex post) di processi ed esiti delle azioni
condotte.
I modelli di ricerca valutativa, nati per la
verifica di programmi sociali, si sono,
proprio per questo, indirizzati anche alla
valutazione di programmi e progetti
educativi. Tali modelli, sviluppatisi prin-
cipalmente in area statunitense e cana-
dese (Stufflebeam, Shinkfield, 2007), si
fondano su una cultura della valutazio-
ne che integra il lavoro valutativo, teso a
favorire i processi decisionali e di mi-
glioramento interno, con adeguate stra-
tegie di ricerca e di coinvolgimento de-
gli stakeholders. Essi non sono ancora en-
trati sistematicamente nelle pratiche
correnti in Europa, e in particolare in Ita-
lia, e rappresentano quindi un’area di stu-
dio ancora in parte inesplorata e sen-
z’altro da approfondire.
Nel nostro paese in particolare, la valu-
tazione è spesso ancora guidata da
istanze burocratiche (Stame, 2007), anche
se iniziano a svilupparsi riflessioni me-
todologiche e pratiche valutative mag-
giormente orientate al miglioramento
continuo delle azioni educative attuate.
Permangono, tuttavia, due ordini di dif-
ficoltà: da un lato i progetti dipendono
da finanziamenti discontinui nel tempo;
dall’altro la scarsa abitudine alla valuta-
zione non conferisce la giusta importanza
alla documentazione rigorosa delle azio-
ni svolte (Caliman, 2007).
Se iniziano, dunque, a emergere dati sul
numero di progetti attivati, sui loro con-
tenuti, sulle scuole coinvolte, sull’entità
dei finanziamenti erogati, rimangono
però frammentarie le conoscenze sui ri-
sultati e sulla ricaduta degli interventi sul
fare scuola quotidiano. Si ravvisa quindi
l’urgenza di entrare dentro i problemi del-
l’efficacia reale delle proposte educative
e di possibile condivisione e trasferi-
mento delle stesse a contesti simili.
Tale esigenza è peraltro richiamata dalla
normativa sull’Autonomia scolastica (DPR
275/99), che trasferisce alle singole isti-
tuzioni scolastiche responsabilità e fun-
zioni «nella progettazione e nella realiz-
zazione di interventi di educazione, for-
1. Tra gli altri ricordiamo alcuni progetti contro la di-spersione scolastica da anni attivi in Italia: il progettoChance – Maestri di Strada a Napoli, il Provaci ancora,Sam! a Torino, Icaro… ma non troppo a Verona e ReggioEmilia, i Progetti Ponte a Trento.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 27
PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI
mazione e istruzione mirati allo sviluppo
della persona umana, adeguati ai diversi
contesti, alla domanda delle famiglie e alle
caratteristiche specifiche dei soggetti
coinvolti, al fine di garantire loro il successo
formativo, coerentemente con le finalità
e gli obiettivi generali del sistema di
istruzione e con l’esigenza di migliorare
l’efficacia del processo di insegnamento
e di apprendimento». Essa invita altresì le
scuole ad esercitare la propria autonomia
di ricerca, formazione e sviluppo, tenen-
do conto della realtà locale e curando, tra
gli altri aspetti, proprio «la progettazione
formativa e la ricerca valutativa»; pro-
muove inoltre l’attuazione di iniziative fi-
nalizzate all’innovazione, purché chiara-
mente definite a livello progettuale e
sottoposte a valutazione dei risultati.
La questione chiama in causa anche le
competenze progettuali e valutative (e di
ricerca) dei docenti, coinvolti sempre più
spesso in attività di progettazione, pia-
nificazione, organizzazione e valutazione
di nuovi percorsi, che necessariamente do-
vrebbero essere risposta a bisogni reali,
monitorati nel loro svolgersi, ricalibrati in
rapporto agli esiti raggiunti, ripetibili e tra-
sferibili ad altre situazioni quando ne sia
evidenziata l’efficacia. Può dunque esse-
re utile approfondire gli aspetti di cui il do-
cente deve tenere conto quando si trova
a costruire, attuare e, soprattutto, valuta-
re un progetto educativo che esula dal-
la corrente attività didattica.
Scopi della valutazioneLa valutazione può perseguire scopi de-
cisionali o migliorativi (Van der Maren,
2003). Chi finanzia un progetto o ne de-
cide l’attivazione ha spesso uno scopo
decisionale: intende far emergere crite-
ri empirici che giustifichino la scelta di so-
stenere economicamente o politica-
mente un dato progetto. A questo fine la
valutazione può utilizzare dati statistici
(es. tassi di insuccesso di diverse scuole),
anche per confrontare più situazioni,
con il rischio di perdere di vista le diffe-
renze di contesto in cui sono calati gli in-
terventi.
Un secondo scopo, più vicino agli inte-
ressi reali delle scuole, è quello del mi-
glioramento dell’intervento. Il processo
di valutazione, in questo caso, prevede il
confronto tra attese iniziali e realizzazioni
concrete. L’intento è quello di indivi-
duare gli elementi da modificare o affi-
nare per migliorare gli esiti. Si mira dun-
que al perfezionamento e alla legitti-
mazione degli interventi attuati ed even-
tualmente al loro trasferimento in altri
contesti. Il rischio è quello dell’autore-
ferenzialità, che può portare a distorsioni
nelle conclusioni. Si può ovviare a tale ri-
schio predisponendo un piano di ricer-
ca rigoroso dal punto di vista metodo-
logico. Ciò consente, tra l’altro, di costruire
un impianto valutativo in grado di reg-
gere positivamente anche valutazioni
esterne, condotte con finalità decisionali.
La valutazione in praticaPrima di approfondire i passaggi meto-
dologici che guidano la valutazione di
progetti educativi, è bene innanzi tutto
ricordare il legame circolare che connette
progettazione e valutazione. La valuta-
zione di un intervento educativo è, infatti,
guidata dai traguardi che esso si prefig-
ge. Il progetto educativo, dunque, deve
già comprendere al suo interno un pia-
no di valutazione, che terrà conto di al-
cuni principali elementi di analisi: i bi-
sogni dei destinatari; la struttura for-
male del progetto; il processo di attua-
zione; i risultati (Figura 1).
In secondo luogo occorre precisare che
la valutazione utilizza metodi, strategie
e strumenti messi a sua disposizione dal-
la ricerca valutativa, che ne costituisce il
fondamento metodologico (Mathison,
2008; Arthur, Cox, 2013). Essi sono scelti
in funzione dei suoi scopi, delle specifi-
cità dell’intervento e del contesto di at-
tuazione, del livello di profondità auspi-
cato. Dipendono, inoltre, dal modello di
riferimento del valutatore (Stufflebeam,
Shinkfield, 2007): sempre più di fre-
quente, considerata la complessità del-
l’oggetto di indagine, la ricerca valutati-
va prevede l’utilizzo integrato di meto-
di quantitativi e qualitativi per la rileva-
zione dei dati e il coinvolgimento diret-
to dei partecipanti (operatori e destina-
tari) nelle attività di verifica (Mertens, Wil-
son, 2012).
Figura 1.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI28
PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI
Possiamo quindi descrivere gli elemen-
ti che l’insegnante dovrebbe considera-
re nella predisposizione di un piano di va-
lutazione, adattando la proposta di Grin-
nel e Unrau (2008), centrata sui pro-
grammi socio-educativi e facilmente
trasferibile alla realtà della scuola.
a) Valutazione dei bisogni. È fon-
damentale per l’avvio di qualunque
progetto. Consente di determinare l’en-
tità reale del problema, di identificare le
priorità di intervento e di proporre so-
luzioni fattibili, utili e rilevanti. In concreto,
nel definire le linee progettuali di un
nuovo intervento occorrerà verificare che
la proposta sia adeguatamente conte-
stualizzata, copra aree che ancora non
hanno trovato risposte efficaci, non si so-
vrapponga ad interventi simili già in atto,
risponda in maniera pertinente ai biso-
gni espressi o inespressi dei destinata-
ri (i ragazzi, i loro genitori, i colleghi) e ten-
ga conto delle loro risorse personali.
b) Valutazione formale del pro-
getto. È preliminare all’attuazione del-
l’intervento e va a sondarne la validità
e la coerenza interna. Essa analizza la ri-
levanza (capacità di rispondere a pro-
blemi prioritari e significativi nel con-
testo in cui si intende intervenire); l’ade-
guatezza della stesura del progetto
(formulazione di obiettivi realistici e
verificabili; descrizione dettagliata del-
le attività, della loro scansione tempo-
rale, dei ruoli e dei compiti degli ope-
ratori, delle risorse disponibili; esplici-
tazione del piano di valutazione e dei
suoi strumenti; identificazione di pos-
sibili alternative in caso di ostacoli pre-
vedibili); la congruenza tra le diverse
parti del progetto. Si tratta, peraltro, dei
principali elementi che l’ente finanzia-
tore considererà per decidere se soste-
nere il progetto.
c) Valutazione di processo. Si foca-
lizza sugli aspetti processuali di attua-
zione dell’intervento. Ha un ruolo im-
portante nel circuito di progettazione-
attuazione-valutazione poiché consen-
te di comprendere il meccanismo at-
traverso il quale determinati effetti si
sono prodotti e di attribuire quindi le
cause dei successi e degli insuccessi ai
fattori che effettivamente li hanno de-
terminati. La valutazione di processo
pone attenzione in particolare agli
aspetti organizzativi, alle risposte dei par-
tecipanti, alla professionalità degli ope-
ratori coinvolti, alla tipologia e motiva-
zioni delle eventuali modifiche rispetto
al progetto originale, alla corrispon-
denza del progetto con gli standard
definiti dagli enti finanziatori.
d) Valutazione dei risultati. Stima la
capacità dell’intervento di raggiungere
i traguardi previsti sulla base di un in-
sieme di fattori, quali: gli effetti (produ-
zione di cambiamenti nei destinatari e
sua stabilità nel tempo, entità dei cam-
biamenti in rapporto a quelli prodotti con
interventi simili); la presenza di effetti dif-
ferenziali (es. sottogruppi che ottengono
cambiamenti più o meno rilevanti); la sod-
disfazione degli stakeholders; l’efficienza
(il rapporto tra i benefici ottenuti e i co-
sti economici, di tempo e di risorse uma-
ne impiegate); la trasferibilità e la ripro-
ducibilità di attività, strumenti, metodi e
soluzioni organizzative attivate dal pro-
getto. Occorre, inoltre, considerare che
N. Bogdanov-Belsky, Calcolo mentale. Nella scuola pubblica di S.Rachinsky (1895), Mosca, Galleria Tretyakov.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 29
PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI
ogni azione educativa si sviluppa, nella
cornice progettuale costruita a monte, se-
condo direzioni anche inaspettate e che
dipendono da fattori non sempre pre-
vedibili (ad es. gli obiettivi personali dei
partecipanti). Una buona valutazione
cercherà, pertanto, di dar conto anche di
effetti inattesi, non rispondenti cioè
esclusivamente alla conformità tra quan-
to progettato e quanto attuato o tra bi-
sogni rilevati e risultati attesi.
I diversi momenti del ciclo di progetta-
zione e i relativi elementi di analisi sono
strettamente interconnessi: non è pos-
sibile, ad esempio, affermare se sono sta-
ti raggiunti dei risultati se non si cono-
scono i bisogni a cui si intendeva ri-
spondere e non si può sapere con pre-
cisione quali aspetti dell’intervento han-
no o non hanno funzionato se non si sa
come esso è stato gestito e sviluppato.
Risultati attesiLa valutazione e la ricerca valutativa
perseguono una doppia finalità: da un
lato mirano a conoscere l’oggetto di
studio, dall’altro tendono ad utilizzare la
conoscenza acquisita per fini pratici di mi-
glioramento e replicabilità delle prassi.
L’applicazione nel lavoro educativo dei
modelli di valutazione costituisce, per l’in-
segnante che li utilizza, una risorsa fon-
damentale per dare alle azioni educati-
ve e formative (spesso considerate come
aleatorie) e alla professionalità di chi le
attua, visibilità e riconoscimento.
Il processo di valutazione, inoltre, può (do-
vrebbe) favorire la riflessione non solo sul
singolo progetto attuato, ma anche sulle
proprie competenze progettuali più ge-
nerali, più ampie e trasferibili, divenendo
così strumento di crescita professionale e
apprendimento organizzativo.
Emanuela Maria Teresa TorreUniversità di Torino
BIBLIOGRAFIA
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N. Bogdanov-Belsky, Lettura domenicale in unascuola di campagna (1895), San Pietroburgo, Museo di Stato Russo.
30
«Galileo Galilei nacque in Pisa nel 1564 e fu fatto ivi lettore di matematica nel 1589, tre anni dopo
passò lettore di matematica a Padova, nel 1610 fu fatto matematico del gran duca Ferdinando
Secondo e restituissi in Toscana, dove morì l’anno 1642 nella villa d’Arcetri vicina a Firenze; e però
nacque l’anno che morì in Roma Michel Angelo Buonarroti e morì l’anno che nacque in
Inghilterra Isacco Newton». Così scriveva Paolo Frisi, su «Il Caffè» (tomo II, foglio III), nel 1765,
nel Saggio sul Galileo, per poi proseguire: «fatto lettore in Pisa, incominciò varie pubbliche
sperienze intorno alla caduta de’ corpi gravi e fece a tutti vedere che i legni e i metalli e gli altri
corpi, quantunque assai diversi di peso cadevano in egual tempo e però con eguale velocità da
tutta altezza del campanile; e quindi ne ricavò l’importante teorema che la gravità assoluta dei
corpi è proporzionale alla quantità della materia». Successivamente Frisi ricorda come Galileo,
«sentendo a dire nel 1609 che un olandese aveva fatto un occhiale che avvicinava gli oggetti
all’occhio, ne indovinò subito la fabbrica e ne fabbricò un altro il seguente giorno, e sei giorni
dopo ne portò uno a Venezia che ingrandiva 33 volte il diametro degli oggetti». Ricordate le
principali scoperte astronomiche galileiane, Frisi elenca anche i principali contributi scientifici
dello scienziato pisano, illustrando poi sia il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, sia
i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, per poi così concludere:
«Noi dobbiamo ammirare nel Galileo un filosofo, un geometra, un meccanico ed un astronomo
non meno teorico che pratico, quello che ha dissipato tutti gli errori dell’antica scuola, il più
Galileo Galileiscienziato e filosofoa cura di Fabio Minazzi
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elegante e solido scrittore che abbia avuto l’Italia, il maestro del Cavalieri, Torricelli, Castelli,
Aggiunti, Viviani, Borelli, Paolo e Candido del Buono».
Sempre nel corso del Settecento, il massimo filosofo dell’età dei Lumi, David Hume, scrivendo la
sua monumentale Storia dell’Inghilterra, sviluppando un’ampia Appendice al regno di Giacomo
I, ha invece modo di delineare un interessante confronto critico tra l’opera di Francis Bacon e quella
di Galileo, scrivendo (cito dalla gloriosa traduzione edita, a Capolago, dalla celebre Tipografia
Elvetica, nel 1836, vol. VI, p. 203): «Bacone addittò da lontano la strada alla vera filosofia; Galileo,
non solo indicolla agli altri, ma vi fece progressi importanti egli medesimo. Digiuno era l’Inglese
delle scienze geometriche, il Fiorentino le ravvivò, e vi giunse all’eccellenza, e fu il primo che le
applicasse per mezzo dell’esperienze alla filosofia naturale. Quegli rigetto col più positivo disdegno
il sistema di Coperinco; questi lo corroborò con nuove prove, derivate così dalla ragione come da’
sensi. Lo stile di Bacone è duro e stentato; il suo spirito, sebbene brillante, è sovente poco naturale,
e stiracchiato; e pare che al suo fonte abbiano gl’Inglesi attinto quelle epigrammatiche comparazioni
e lunghe filate allegorie che tanto distinguono i loro autori; Galileo è uno scrittore vivace ed
aggradevole, sebbene pecchi alquanto di prolissità. Ma l’Italia, non unita sotto un solo governo, e
sazia forse di quella gloria letteraria per cui rifulse negli antichi e nei moderni tempi, ha troppo
trascurato quella rinomanza che conquistossi con dar la culla a sì grand’uomo».
Questi due, pur brevi, considerazioni di Frisi ed Hume, risalenti entrambe al Settecento, aiutano,
ancor oggi, a meglio intendere il valore oggettivo universale della lezione galileiana. E noi italiani,
in particolare, non dovremmo mai dimenticare che proprio un uomo di tale valore storico
universale fu condannato e incarcerato per la sola colpa, per dirla ancora con le incisive parole di
John Milton (Areopagitica, 1644), «perché aveva pensato, in astronomia, diversamente da come
pensavano i suoi censori francescani e domenicani». Studiare e leggere oggi Galileo consente allora
di aprire una tale molteplicità di problemi e questioni – biografiche, storiche, teoriche ed
epistemologiche – che ci aiutano a meglio intendere anche il nostro stesso presente di italiani che
vogliono essere figli intelligenti del proprio passato, recente e remoto. In questa precisa chiave si
offrono allora, nei testi del presente dossier, differenti e vari spunti di riflessione e di indagine critica.
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IThe thought of Galileo can and should be studied from different points of view. First, we
need to consider its genesis. Galileo was not born copernichista. What are the arguments
that have led him to abandon the prospect Ptolemaic to the Copernican share? What is
the philosophical value of scientific knowledge? And what were the reasons for conflict
with the political power of the time? The dossier answers all these questions by addressing
the philosophical and scientific value of the Dialogue, emphasizing the defense of the
philosophical significance of the technique by analyzing the famous inquisitorial trial
Galileo was subjected to, as well as analyzing the major scientific contributions of Galileo
found in the Discourses and Mathematical Demonstrations two New Sciences. Finally,
the dossier documents a possible trail made by a high school using some of the major
works of Galileo.
Per una nuova lettura epistemologica del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondoFabio Minazzi
Galileo tolemaicoGalileo è nato copernichista? Evidentemente no, perché se si
tengono presenti anche i frammenti galileiani noti sotto il ti-
tolo di Juvenilia è agevole riscontrare in questi testi l’influenza
di un fisico aristotelico come Francesco Bonamico, fiorenti-
no, professore di filosofia all’Università di Pisa, ateneo pres-
so il quale il giovane Galileo si iscrisse, nel settembre 1581,
nella Facoltà «degli artisti», come allievo di medicina. Ma,
come è noto, Galileo non nutriva alcun serio interesse per gli
studi di medicina, mentre era fortemente attratto da quelli
di matematica che poté approfondire seguendo le lezioni di
Ostilio Ricci da Fermo, un discepolo di Nicolò Targaglia. Dal-
le lezioni di Ricci il giovane scienziato pisano ereditò sia un
interesse specifico per la matematica nelle sue applicazioni
pratico-sperimentali, sia un grande amore per Archimede che
considerò costantemente come un suo punto di riferimen-
to privilegiato. Ma se dunque in ambito matematico Galileo,
fin da giovane, mostrò di propendere per un uso della ma-
tematica non mai disgiunto dall’interesse per l’osservazione,
la misura e il disegno, invece in ambito fisico i suoi primi stu-
di, appunto documentati dai suoi Juvenilia, attestano inve-
ce la sua vicinanza all’opera aristotelica, il De motu, di Bo-
namico. In questa prospettiva la fisica cui si occupava il gio-
vane Galileo costituisce, more aristotelico, una cosmologia ge-
nerale in cui si cercano di individuare i principi in grado di
spiegare i fatti particolari, mettendo capo ad una metafisica
finalistica in cui, in sintonia con la classica lezione aristote-
lica, si generalizzano e si razionalizzano le esperienze del sen-
so comune.
Naturalmente la questione di poter individuare, con preci-
sione, il momento esatto in cui Galileo si distaccò definiti-
vamente dalla tradizione aristotelico-tolemaica è molto
controverso e assai dibattuto. Si sa infatti che Galileo, fin da
quando, a partire dal novembre 1589, poté iniziare, con un
incarico triennale, la sua carriera di professore all’universi-
tà di Pisa, quale docente incaricato di matematica (potendo
appunto insegnare in quello stesso ateneo nel quale non ave-
va tuttavia mai concluso i suoi studi di medicina), era obbligato
ad insegnare il tradizionale sistema aristotelico-tolemaico.
Come continuò a fare anche quando, nel 1592, ottenne la cat-
tedra di matematica a Padova, dove insegnò ininterrottamente
per diciotto anni. Ma pur insegnando la dottrina tolemaica
è noto che, ad un certo punto, Galileo non la condivideva più.
Per questo motivo è interessante chiedersi quale fu la perso-
nale convinzione di Galileo a questo proposito, per conoscere
quando iniziò a staccarsi, definitivamente, in ambito fisico ed
astronomico, dalla tradizionale dottrina tolemaica e anche da
quella aristotelica.
Una controversia storiografica aperta:quando Galileo divenne copernichista?A questo proposito gli interpreti di Galileo hanno natural-
mente formulato risposte assai diverse. Vi sono alcuni, come
l’astronomo vaticano Adolf Müller (Galileo Galilei, Studio sto-
rico scientifico, Max Breschneider, Roma 1911) che ritiene che
Galileo nei suoi primi anni (in particolare tra il 1586 e il 1592)
fosse un sincero seguace di Tolomeo, mentre altri, come, per
esempio Emil Wohlwill (Galilei und sein Kampf für die ko-
pernikanische Lehre, Leopold Voss, Hamburg und Leipzig,
1909-1926, 2 voll.) e Sebastiano Timpanaro senior (nella sua
Prefazione al secondo volume della sua raccolta delle Opere
di Galileo, Rizzoli, Milano 1936-38, 2 voll.), affermano esat-
tamente il contrario, ritenendo che in questi stessi anni del-
l’inizio del suo insegnamento universitario Galileo fosse già
diventato copernicano. Né è mancato chi, come per esempio
un grande storico della scienza come Alexandre Koyré (Etu-
des galiléenes, Hermann, Paris 1939, 3 voll.), ha certamente
riconosciuto come la conversione al copernicanesimo di Ga-
lileo sia avvenuta durante il periodo pisano, tuttavia l’ha spie-
gata mettendola in connessione diretta con i suoi studi sul
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI32
STUDI
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 33
STUDI
moto che furono per l’appunto iniziati nel periodo del suo
insegnamento a Pisa. E questo è infine anche il parere di Lu-
dovico Geymonat (nel suo fortunato Galileo Galilei, Einau-
di, Torino prima ed. 1957, riedito, in quinta edizione au-
mentata, nel 1969, e poi più volte ristampato) in cui si rico-
nosce che «se anche Galileo compì effettivamente – duran-
te il triennio pisano – alcuni notevoli passi verso il coperni-
canesimo, essi furono prevalentemente determinati dal ma-
turarsi delle sue concezioni meccaniche, e che pertanto oc-
corre fermarsi soprattutto su queste ultime per chiarire il pro-
gresso del suo pensiero». Effettivamente, occorre ricordare che
fin da studente, nel 1583, Galileo aveva riscoperto, autono-
mamente, l’isocronismo delle oscillazioni pendolari (scoperta
già effettuata dall’astronomo arabo Ibn Junis, di cui però in
occidente non si sapeva praticamente nulla), per poi sforzarsi
di applicarlo, more archimedeo, alla misurazione della fre-
quenza del polso e di altri brevi intervalli di tempo. Sono i
diversi studi meccanici di Galileo del periodo pisano, raccolti
in differenti manoscritti poi riuniti nel De motu antiquiora
che attestano i risultati più eminenti di queste sue ricerche
che saranno poi utilizzate nelle opere galileiane pubblicate
molti anni dopo. La discussione storiografica ha mostrato, in
modo convincente, come in questi suoi studi sul moto Ga-
lileo avesse ben presto abbandonato i tradizionali schemi ari-
stotelici, recependo diverse suggestioni, in particolare quel-
le provenienti dalla tradizione dei «fisici parigini» e della loro
teoria dell’impetus. Galileo dedicò infatti un’attenzione par-
ticolare allo studio di un’opera di Giovanni Battista Benedetti,
Diversarum speculationum mathematicarum et physicarum li-
ber (1585), in cui la celebre teoria dell’impeto – risalente ad
un commentatore della fisica aristotelica come Giovanni Fi-
lopono del VI secolo – aveva trovato numerosi estimatori nei
secoli XIV e XV tra gli scienziati parigini. Proprio meditan-
do su questi scritti di Benedetti, Galileo si convinse della ne-
cessità di porre in sempre più stretta connessione la com-
ponente matematica con la componente empirica, senza pe-
raltro trascurare la lezione archimedea e tutte le suggestio-
ni che provenivano dalla mentalità dei tecnici rinascimentali.
Ma se questo è certamente l’ambito problematico e di ri-
flessione entro il quale maturò progressivamente il distacco
critico di Galileo dalla tradizione aristotelico-tolemaica, va
tuttavia aggiunto come occorra anche saper leggere questo
suo straordinario percorso biografico – che gli consentirà di
dar vita alla scienza moderna – indipendentemente dalla que-
stione fattuale di poter individuare, con precisione, il momento
in cui Galileo ha abbandonato l’impostazione tradizionale.
Se infatti ci si sgancia da questa preoccupazione, prevalen-
temente storico-biografica, e si affronta, invece, il problema
del confronto teorico-critico tra la tradizione aristotelico-to-
lemaica e quella copernicano-gelileista, si può allora guada-
gnare un ben differente punto di vista prospettico ed erme-
neutico. Da questo punto di vista diventa infatti più impor-
tante mettere in tensione critica due differenti ed alternati-
vi modi di pensare i quali qualificano, al contempo, il con-
fronto, lo scontro e anche i debiti reciproci esistenti tra la tra-
dizione metafisica dell’antichità e quella inaugurata proprio
con la genesi della scienza moderna.
Il problema del cambiamento concettuale in GalileoAllora da questo punto di vista – eminentemente teorico –
l’opera di Galileo assume un significato storico molto più uni-
versale ed emblematico. Anzi, da questo punto di vista si può
leggere un suo capolavoro, come il Dialogo sopra i due mas-
simi sistemi del mondo tolemaico e copernicano (1632), come
un testo, invero straordinario, per comprendere e docu-
mentare, analiticamente, il cambiamento concettuale inter-
venuto nella riflessione galileiana. Da questo punto di vista
il classico e immortale dialogo tra l’“ospite” Sagredo e i suoi
due interlocutori, schierati su fronti opposti, quello aristo-
telico-teolemaico di Simplicio e quello galileista-copernichista
di Salviati, va riletto tenendo presente come le due differen-
ti e conflittuali tradizioni di pensiero poste in tensione cri-
tica, fossero, in realtà, due momenti del conflitto concettua-
le interiore che ha aiutato Galileo stesso a chiarirsi le idee e
A. Cellario, Atlas coelestis seu armonia macrocosmica,Amsterdam 1661. Tav. 1. Planisphaerium Ptolemaicum.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI34
STUDI
lo ha infine indotto a trasformarsi, da convinto aristotelico-
tolemaico, in un convinto copernichista-galileista. Le idee non
nascono mai nella testa (neppure in quella di Galileo) come
Minerva nella mente di Giove: occorre pertanto seguire tut-
te le movenze concettuali con le quali il paradigma della tra-
dizione aristotelico-tolemaica è stato progressivamente mes-
so in crisi dall’emergere di una nuova prospettiva, altrettan-
to paradigmatica, quella copernicano-galileista. Ma se si leg-
ge allora l’opera galileiana da questo innovativo punto di vi-
sta, i suoi dialoghi e le sue stesse movenze concettuali docu-
mentato, in primo luogo, la riflessione, i dubbi, le obiezioni
e le contro-obiezioni che lo stesso Galileo ha sviluppato en-
tro la sua riflessione che lo ha infine indotto a mutare la sua
concezione astronomica e fisica. Insomma, da questo pun-
to di vista il Dialogo si trasforma in un documento veramente
straordinario perché è in grado di prospettarci tutte le do-
mande e tutte le inquietudini concettuali attraverso le qua-
li lo stesso Galileo è passato, non senza difficoltà, maturan-
do, infine, la decisione di abbandonare la tradizione entro la
quale si era formato, per abbracciare un diverso e rivoluzio-
nario punto di vista. Per questa ragione si può allora legge-
re il Dialogo tenendo presente come le obiezioni di Simpli-
cio e le contro-repliche di Salviati siano state, in prima bat-
tuta, le obiezioni e le contro-repliche che lo stesso Galileo ha
maturato nella sua autonoma riflessione a proposito dei due
diversi sistemi astronomici che, pure, implicavano la condi-
visione di due differenti ed alternativi paradigmi fisici,
come poi ben emergerà dal capolavoro scientifico di Galileo
quei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuo-
ve scienze (1638), pubblicati anonimi, nei paesi bassi (terra
di filosofica libertà), da Elzevier, quando lo scienziato pisa-
no aveva alle spalle la clamorosa sconfitta del suo ambizio-
so programma culturale di rinnovamento e, oramai cieco, det-
tava il suo autentico capolavoro scientifico dal carcere inflittogli
dall’inquisizione. Infatti, per dirla con John Milton del-
l’Areopagitica, «il famoso Galileo, ormai vecchio [era] dive-
nuto prigioniero dell’Inquisizione, perché aveva pensato, in
astronomia, diversamente da come pensavano i suoi censo-
ri francescani e domenicani». In questa specifica chiave er-
meneutica il Dialogo può allora essere letto come la “storia
di un’anima”, appunto quella di Galileo che da aristotelico-
tolemaico si è trasformato in un copernichista-gaileista, pro-
prio perché le domande, i dubbi e le obiezioni di Simplicio
sono stati, in primo luogo, le domande, i dubbi e le obiezio-
ni che lo stesso Galileo ha motivatamente sollevato nei con-
fronti del sistema copernicano nel momento stesso in cui pure
percepiva le insufficienze del sistema tolemaico.
L’obiezione aristotelica all’uso della matematicaDa questo punto di vista assume allora un significato affat-
to particolare soprattutto una pagina del Dialogo che, per vari
motivi, è invece rimasta, assai curiosamente, poco conside-
rata all’interno del dibattito storiografico consacrato a Ga-
lileo e alla sua opera. Infatti, nel corso del “dialogo secondo”
ad un certo punto Simplicio solleva una domanda cruciale,
attinente la possibilità di conoscere il mondo fisico attraverso
l’utilizzo sistematico della matematica. Galileo, come si è ac-
cennato, non aveva dubbi sull’importanza strumentale del-
la matematica onde meglio conoscere il mondo nei suoi stes-
si dettagli tecnici, come aveva appreso sia dalla lezione di Ric-
ci, sia dalla meditazione delle opere di Archimede, come an-
che dalla pratica del sapere tecnico promossa e variamente
trasmessa, soprattutto per via orale, dagli artigiani nei loro
laboratori rinascimentali. Ma proprio su questo punto – in-
vero decisivo per la scienza moderna – Simplicio solleva un
problema di cruciale importanza. Rifacendosi infatti alla tra-
dizione aristotelica Simplicio contesta la possibilità stessa di
poter conoscere il mondo fisico utilizzando la matematica.
Infatti, osserva con acutezza Simplicio, le verità della geometria
(come anche quelle della matematica) sono profondamen-
te diverse dalle conoscenze che noi possiamo acquisire dal-
l’esperienza diretta del mondo. Così, rileva Simplicio, se si con-
sidera il problema specifico del rapporto che si può instau-
A. Cellario, Atlas coelestis seu armonia macrocosmica,Amsterdam 1661. Tav. 5. Scenographia Systematis
Copernicani.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 35
STUDI
rare – geometricamente parlando – tra una sfera perfetta ap-
poggiata su un piano perfetto, la risposta geometrica non pare
dubbia, perché la sfera e il piano si toccheranno in uno e in
un sol punto. Tuttavia, quando dalle astrazioni della geome-
tria si scende sul terreno del mondo effettivo, tutto cambia,
perché se prenderemo in considerazione una sfera di legno
appoggiata su un piano di legno, per quanto questi oggetti
siano stati costruiti entrambi da un abile artigiano, tuttavia
la sfera di legno toccherà il piano non in un punto, ma in più
punti. Pertanto, conclude, Simplicio, non si può applicare la
matematica per conoscere il modo fisico, giacché la matematica
ci fa solo conoscere un’astrazione del mondo, quella congruente
con le figure perfette di cui si occupa la geometria, ma, ne-
cessariamente, ci fa invece perdere di vista l’infinita ricchez-
za e l’infinita complicanza del mondo fisico effettivo e rea-
le. Insomma, il mondo costruito dalla fisica-matematica è un
mondo chimerico che coglie solo un aspetto, del tutto par-
ziale e astratto, del mondo reale e fisico, facendoci perdere di
vista l’infinita ricchezza dell’esperienza.
La risposta di Galileo: lo scienziato quale «filosofo geometra»Per rispondere a questa decisiva obiezione aristotelica Gali-
leo ricorre ad una duplice mossa. In primo luogo riassume
l’obiezione di Simplico e fornisce una risposta meramente in-
terlocutoria poiché lo scienziato pisano scrive: «adunque, tut-
tavolta che in concreto voi applicate una sfera materiale a un
piano materiale, voi applicate una sfera non perfetta a un pia-
no non perfetto; e questi dite che non si toccano in un pun-
to. Ma io vi dico che anco in astratto una sfera immateriale,
che non sia sfera perfetta, può toccare un piano immateria-
le, che non sia piano perfetto, non in un punto, ma con par-
te della superficie; talché sin qui quello che accade in concreto,
accade nell’istesso modo in astratto: e sarebbe ben nuova cosa
che i computi e le ragioni fatte in numeri astratti, non ri-
spondessero poi alle monete d’oro e d’argento e alle mercanzie
in concreto». Ma con questa prima risposta Galileo sa be-
nissimo che non ha affatto risposto all’obiezione di Simpli-
cio. Si è limitato, semmai, a “prendere tempo”, perché ha ri-
sposto dicendo che si può sempre costruire una teoria
astratta che rende ragione – in modo mimetico – di quanto
succede nel mondo reale: una sfera impefetta toccherà un pia-
no imperfetto in più punti, con la conseguenza che quello che
si afferma nel mondo dell’astrazione corrisponde, mimeti-
camente, a quanto accade nel mondo reale. Ma Galileo sa bene
che questa non è la vera risposta all’obiezione di Simplicio.
Ecco allora che subito dopo, con una “zampata da leone”, avan-
za la sua vera e rivoluzionaria risposta: «Ma sapete, Signor Sim-
plico, quel che accade? Sì come a voler che i calcoli tornino
sopra i zuccheri, le sete e le lane, bisogna che il computista
faccia le sue tare di casse, invoglie ed altre bagaglie, così, quan-
do il filosofo geometra vuol riconoscere in concreto gli effetti
dimostrati in astratto, bisogna che difalchi gli impedimenti
della materia; che se ciò saprà fare, io vi assicuro che le cose
si riscontreranno non meno aggiustatamene che i computi
aritmetici. Gli errori dunque non consistono né nell’astrat-
to né nel concreto, né nella geometria o nella fisica, ma nel
calcolatore, che non sa fare i conti giusti».
Ma come deve allora operare lo scienziato – ovvero il «filo-
sofo geometra» galileista? Deve operare, scrive ancora Gali-
leo, sapendo «riconoscere in concreto gli effetti dimostrati in
astratto». Ovvero per Galileo la scienza fisica non scaturisce
affatto da un’astrazione idealizzante del mondo sperimenta-
le, ma nasce, invece, da una supposizione, un’ipotesi teori-
ca, dalla quale occorre poi dedurre, in modo affatto rigoro-
so, tutte le conseguenze logiche e per farlo occorre avvaler-
si della matematica che offre gli strumenti più rigorosi (le «cer-
te dimostrazioni») per mettere capo a deduzioni affidabili.
Ma una volta operate queste «certe dimostrazioni», occorre
poi anche sapersi confrontare con la realtà sperimentale «di-
falcando gli impedimenti della materia», ovvero sapendo sem-
pre leggere i risultati sperimentali – sollecitati, opportuna-
mente, con apposite prove tecnico-sperimentali – alla luce del
proprio specifico paradigma teorico. Insomma, per Galileo,
A. Cellario, Atlas coelestis seu armonia macrocosmica,Amsterdam 1661. Tav. 13. Situs terrae circulis coelestibuscircumdatae.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI36
STUDI
a differenza di tutta la tradizione empirista (e anche a diffe-
renza dello stesso Francis Bacon) – la conoscenza non nasce
mai da una generalizzazione empirica dell’esperienza basa-
ta sui quinque sensibus: al contrario, per Galileo la conoscenza
scaturisce sempre da una idea, da una proposta teorica, da una
supposizione di cui portiamo tutta la responsabilità. Parten-
do da questa idea, da questa ipotesi, da questa supposizione,
occorre poi costruire una teoria che sia in grado di «difalca-
re gli impedimenti della materia», che sia cioè in grado di rein-
terpretare il reale sperimentale alla luce del suo paradigma
teorico e anche alla luce dei risultati degli esperimenti. Risultati
sperimentali per il cui tramite il mondo seleziona le nostre
teorie, dicendoci se queste ultime sono effettivamente in gra-
do di cogliere, o meno, con verità, alcuni aspetti del mondo
fisico. Per questo motivo per Galileo la strategia complessi-
va della scienza moderna è molto articolata e si muove nel-
la specifica tensione critica che sappiamo costruire entro le
due differenti ed opposte polarità delle «certe dimostrazio-
ni» e delle «sensate esperienze», sapendo utilizzare sia la me-
diazione della matematica (ad un triplice livello: nel saper sce-
gliere le ipotesi teoriche dalle quali partire per costruire una
teoria; nel saper svolgere deduzioni rigorose partendo da quel-
le premesse astratte; dal saper matematizzare adeguata-
mente in risultati e le stesse prove sperimentali), sia quella del-
la tecnica che ci consente di costruire apparati specifici per
il cui tramite possiamo potenziare i nostri sensi e costringe-
re la natura a rispondere alle nostre peculiari domande teo-
riche (per un approfondimento di queste tematiche sia co-
munque lecito rinviare alla mia monografia Galileo «filoso-
fo geometra», Rusconi, Milano 1994, consacrata alla disami-
na di questo aspetto decisivo dell’opera galileiana).
Il problema delle morfologieTuttavia, con questa sua articolata risposta Galileo sa anche
di non aver completamente risposto all’obiezione di Simplicio.
Simplicio, infatti, da bravo aristotelico, pone il problema del-
lo studio e della possibile conoscenza delle morfologie del mon-
do fisico. Ma di fronte a questa esigenza conoscitiva, Galileo
si rende ben conto di non poter disporre di una matemati-
ca sufficientemente potente per poter studiare la morfologia
del mondo fisico che risulta esser infinitamente ricca. Per que-
sta ragione, come già aveva sostenuto ne Il Saggiatore (1623)
ricorre alla tradizionale distinzione lockiana – sia pur rein-
terpretata in chiave eminentemente operativa – tra “qualità
primarie” (matematizzabili) e “qualità secondarie” (non
matematizzabili, connesse alla nostra soggettività empirica).
Tuttavia, introducendo, sia pur sul piano eminentemente ope-
rativo, questa tradizionale distinzione, Galileo paga un prez-
zo non banale, perché è costretto a ridurre la conoscenza del-
la fisica-matematica solo ed unicamente a quanto è mate-
matizzabile, e, in tal modo, deve allora rinunciare alla co-
noscenza delle morfologie del mondo. Il che costituisce ap-
punto – da Simplicio ad Heidegger incluso – il rimprovero tra-
dizionale che viene costantemente rivolto alla scienza moderna,
ovvero quello di impoverire eccessivamente il mondo tra-
scurando proprio tutta quella infinita gamma di aspetti che
ne costituiscono, in ultima analisi, la ricchezza e la meravi-
glia. Galileo, tuttavia, pur essendo ben consapevole di que-
sto limite della sua risposta, decide che questo è un prezzo che
può e deve comunque pagare, onde avviare un’avventura co-
noscitiva come quella della scienza moderna che, proprio in
virtù delle “ali matematiche” che dona alle nostre ipotesi teo-
riche, potrà far conoscere all’uomo nuovi mondi e nuove re-
altà, pur non essendo in grado di spiegare ancora le complesse
e affascinanti morfologie della realtà. Per questa ragione Ga-
lileo in tutto il Dialogo dichiara sempre – come si legge nel-
la terza giornata – di non poter mai «trovare termine al-
l’ammirazion mia, come abbia possuto in Aristarco e nel Co-
pernico far la ragione tanta violenza al senso, che contro quel-
la ella si sia fatta padrona delle loro credulità».
Fabio MinazziUniversità degli Studi dell’Insubria
A. Cellario, Atlas coelestis seu armonia macrocosmica,Amsterdam 1661. Tav. 19. Solis circa orbem terrarum spiralis
revolutio.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 37
STUDI
1. B. Brecht, Vita di Galileo, trad. it. di E. Castellani, Einaudi, Torino 1954, pp. 92-93.2. G. De Santillana asserisce che l’interdizione del 1616 sia stata, a inizio del processo,inventata ad arte per rendere la posizione di Galileo ancor più spiacevole. Cfr. G. DeSantillana, The crime of Galileo, UCP, Chicago 1955, pp. 261-275. 3. Cfr. A. Banfi, Galileo Galilei, Ambrosiana, Milano 1949; L. Geymonat, Galileo Galilei,Einaudi, Torino 1957. Si veda, ancora di Geymonat, anche Per Galileo. Attualità del ra-zionalismo, a cura di M. Quaranta, Bertani, Verona 1981, che contiene il capitolo Gali-leo: un precursore dell’Illuminismo, alle pp. 173-179.4. A. Banfi, La situazione attuale della scuola italiana, in Id., Scritti e discorsi politici – I.Scuola e società, a cura di A. Burgio, Istituto Antonio Banfi, Reggio nell’Emilia, Foto-composizione monograf, Bologna 1987, p. 57.5. G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, a cura diA. Carugo e L. Geymonat, Boringhieri, Torino 1958, p. 13; D. Diderot, Prospectus, in L’En-cyclopédie di Diderot e d’Alembert, scelta a cura di K.-H. Manegold, trad. it. di G. P. Pa-nini, EdiCart, Legnano 1983, p. 296. Sul valore schiettamente filosofico delle tecnichecfr. F. Minazzi, L’Enciclopedia e il valore filosofico delle arti meccaniche in Id., Teleologiadella conoscenza ed escatologia della speranza. Per un nuovo illuminismo critico, La Cittàdel Sole, Napoli 2004, pp. 187-214.
Sul processo a GalileoBrigida Bonghi
«Lo dice il primo libro della Genesi: / quando Domineddio
fece il creato / creò prima la terra e dopo il sole / e al sole
comandò: “Girale intorno!” / E da quel giorno tutto ciò
che vive / quaggiù deve girare in girotondo. / Intorno al Papa
i cardinali / e intorno ai cardinali i vescovi / e intorno ai ve-
scovi gli abati / e poi vengono i nobili. / E intorno a questi
gli artigiani / e intorno agli artigiani i servi / e intorno ai ser-
vi i cani, i polli e i mendicanti»1. È quanto, nella Vita di Ga-
lileo, il drammaturgo tedesco Bertolt Brecht fa recitare al can-
tastorie, il martedì grasso del 1632, in una città d’Italia. Sono
passati dieci anni dalla pubblicazione de Il Saggiatore. Gali-
leo ha, in esso, manifestato finezza di scienziato sperimentatore,
indomita temerarietà di riformatore culturale. Illuso e per-
sino invitato dall’ostentata apertura di Urbano VIII, lo
scienziato pisano ha appena pubblicato il suo Dialogo. Tra po-
chi mesi pronuncerà la sua abiura. Già nel 1616, tuttavia, Ga-
lileo è stato interdetto – così, almeno, si dice2 – dalla discus-
sione della dannata opinione copernicana.
Due straordinari protagonisti del razionalismo critico ita-
liano come Antonio Banfi e Ludovico Geymonat hanno os-
servato nella parabola dello scienziato pisano un’anticipa-
zione dell’illuminismo. Ambedue autori di una monogra-
fia su Galileo3 – per entrambi “provocata” da un’istanza per-
sonalissima – questi padri della nostra tradizione hanno re-
cepito nell’opera galileiana, con un senso, per ciascuno, di-
verso delle priorità e delle persuasioni, un autentico pro-
gramma politico-culturale, teso a costruire il proprio mon-
do attraverso la tecnica e a conoscerlo attraverso la scien-
za. L’epoca moderna nasce con Galileo, con Galileo si apre
un illuminismo anticipatore di un senso della ragione in-
tersoggettivo, sociale, significativo di una civiltà: «con Ga-
lileo, l’uomo si è sentito gettato nel mondo a costruire il pro-
prio mondo, a conoscerlo per mezzo della scienza – espe-
rienza e ragione – che penetra la realtà, a costruirlo per mez-
zo della tecnica che umanizza il reale. E si è riconosciuto il
valore etico del lavoro che affratellava gli uomini in questa
creazione di una civiltà nuova»4.
Il processo a Galileo si presenta come processo alla moder-
nità: processo ad una idea di ragione che si situi sull’orizzonte
completo dell’umanità; processo alla destinazione della
scienza, alla quale Galileo ha fornito, inesorabilmente, un ap-
porto di autonomia teoretica dalla credenze e dalle autori-
tà; processo al ruolo politico e culturale della conoscenza e
della scienza; processo, infine, al lavoro come strumento di
conoscenza ed emancipazione. Il processo a Galileo si presenta,
si è visto, come processo – del tutto riuscito o del tutto fal-
lito? – al futuro programma dell’Encyclopédie di Diderot e
d’Alembert. Basti confrontare la pagina preclara dei Discor-
si e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, che
si completa nel Prospectus diderotiano. Galileo lascia dire a
Salviati: «Largo campo di filosofare a gl’intelletti specolati-
vi parmi che porga la frequente pratica del famoso arsenale
di voi, Signori Veneziani, ed in particolare in quella parte che
mecanica si domanda; atteso che quivi ogni sorte di strumento
e di machina vien continuamente posta da numero grande
d’artefici, tra i quali, e per l’osservazioni fatte dai loro ante-
cessori, e per quelle che di propria avvertenza vanno conti-
nuamente per se stessi facendo, è forza che ve ne siano de i
peritissimi e di finissimo discorso». Ed ecco Diderot: «que-
st’opera […] illustrerà i principi delle cose, […] ne indiche-
rà i rapporti; […] contribuirà alla certezza e al progresso del-
le conoscenze umane; e […] moltiplicando il numero dei veri
dotti, degli artigiani sicuri e degli amatori illuminati, potrà
riversare nuovi benefici sulla società»5.
Non è un caso che tutto precipiti con la pubblicazione, pres-
so la Tipografia dei Tre Pesci, il 21 febbraio del 1632 – dopo
due anni dal completamento dell’opera – del Dialogo sopra i
due massimi sistemi. Se l’incriminazione dei teologi del San-
t’Uffizio (Agostino Oregio, Melchior Inchofer e Zaccaria Pa-
squaligo) ruotava intorno al copernicanesimo dell’opera, su
ben altro si concentrano le ragioni del rivolgimento dell’an-
tico amico, il papa Urbano VIII, contro Galileo. E di tutta la
schiera di delatori, esaminatori, gesuiti coinvolti nel proces-
so a Galileo. Non è solo lo stile retorico, la beffa dell’interlo-
cutore. Non è solo il copernicanesimo. Si tratta della «sovversion
di tutta la filosofia naturale, [del] disordinare e mettere in con-
quasso il cielo, la terra e tutto l’universo»6. Galileo rivoluzio-
na, programmaticamente, l’ordine filosofico, fisico, astrono-
mico, culturale. Ed è questo programma ad andare a proces-
so. Il processo a Galileo consente di pensare la storia attraverso
un episodio simbolico. Il processo a Galileo consiste in un pro-
cesso alla messa in discussione degli ipse dixit filosofico-scien-
tifici e, di conseguenza, politici e culturali.
Due grandi studiosi di Galileo, Giorgio De Santillana e, an-
cora, Ludovico Geymonat, intendono l’opera messa all’In-
dice come «un libro vivo, […] protagonista storico in pri-
ma persona»7, «un’opera di polemica e di battaglia»8. In esso
si incontrerebbero «l’umanesimo del passato e la scienza del
futuro»9. In esso sarebbe raccontata «la storia dello spirito
di Galileo»10. Quell’opera di fisica, di astronomia, di filoso-
fia – eppure non di fisica, non di astronomia, non di filosofia
– si arroga il ruolo di demolizione delle abitudini, dei pre-
giudizi, del senso comune, a favore della realizzazione di una
rinnovata tendenza al ragionamento. Galileo rivendica per
sé la possibilità di insegnare a pensare, instillando nel suo let-
tore il dubbio nei confronti dell’autorità. Nella prospettiva
di Geymonat, l’opera che subisce il processo è da interpre-
tare, più che come un’opera scientifica, come un trattato pe-
dagogico-filosofico. Il più grande filosofo della scienza ita-
liano si spinge a definire il Dialogo: «più come un manife-
sto diretto a rinnovare la cultura, che non come un tratta-
to scientifico operante entro la cultura già rinnovata».
Con il Dialogo e con Galileo va dunque a processo la scoperta
della mancata ineluttabilità di certe condizioni: Galileo co-
6. G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano, acura di Libero Sosio, Einaudi, Torino 1984, p. 47.7. G. De Santillana, Galileo e la sua sorte, in Aa. Vv., Fortuna di Galileo, Laterza, Bari 1964,p. 5.8. L. Geymonat, Galileo Galilei, op. cit., p. 165.9. G. De Santillana, Galileo e la sua sorte, op. cit., p. 5.10. L. Geymonat, Galileo Galilei, cit., p. 165. La cit. che segue nel testo è tratta da p. 166.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI38
STUDI
Galileo prigionieronel palazzo
dell’Arcivescovadodi Siena (stampa
del 1867).
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 39
STUDI
munica che non è inesorabile la prospettiva aristotelico-cat-
tolica della povertà come occasione per la carità; non è ine-
sorabile il disprezzo del lavoro non intellettuale; non lo è il
privilegio delle corporazioni. Galileo osa avvertire – e non lo
fa in latino! – che il mantenimento delle condizioni attuali
della scienza, della teologia, dello stato sociale non è un’ope-
razione irrimediabile: «Galileo pensava di aver trovato la for-
mula per salvaguardare la libertà di ricerca dello scienziato
dall’ingerenza teologica, convinto che tale formula avrebbe
giovato non solo alla società, ma anche al cattolicesimo e al-
l’Italia»11. Il 12 aprile del 1633 ha inizio il processo a Galileo.
Quattro interrogatori in tutto, sino alla sentenza e all’abiu-
ra formale del 22 giugno. Viene disposta, oltre all’incarcera-
zione dello scienziato – commutata in arresti domiciliari –
la consegna all’inquisizione locale di ogni copia del Dialogo.
Tuttavia, è proprio la disposizione a provocare l’effetto con-
trario. Mathias Bernegger traduce l’opera in latino. La lingua
dei dotti si è fatta arma di diffusione.
Il processo a Galileo resiste, in alcuni suoi elementi ancora
oggi. Non passa la condanna, «causa il prevaricare di forze che
ancora pesano sulla nostra società»12. Il programma galile-
iano di trasformare, a vantaggio dell’umanità, l’interrogazione
della natura; di preparare il futuro, senza subirlo; di conquistare
11. L. Bulferetti, Galileo e la società del suo tempo, in AA.VV., Fortuna di Galileo, op. cit.,p. 145. Per un’ampia disamina della questione del lavoro e della tecnica in Galileo cfr.F. Minazzi, Galileo “filosofo geometra”, Rusconi, Milano 1992, in particolare il capitolo Ilvalore e il significato della tecnica nella scienza galileiana, pp. 273-312, che si chiudecon la seguente osservazione: «Galileo si rivolge al lavoro umano e alla capacità chel’uomo possiede di rimuovere, sia pure in parte finita, la “profonda e densa caligine”che ci vela il mondo per creare le premesse storiche più salde e durature (di una sto-ria però che coincide tendenzialmente con la storia del lavoro) di un progressivo edinarrestabile sviluppo della scienza e della tecnica» (p. 312).12. L. Bulferetti, Galileo e la società del suo tempo, cit., p. 161.
il sapere e difenderlo da inevitabili involuzioni: nulla è rea-
lizzato, tutto è ancora da difendere attraverso un vibrante col-
legamento di scienza e società civile, per lo sviluppo della ci-
viltà e la vittoria, mai definitiva, della ragione. Il program-
ma di Galileo non è stato ucciso dalla condanna, ma occor-
re per esso vigilare. È ciò che intese lo scienziato pisano, scri-
vendo a frate Micanzio il 30 gennaio del 1638: «nelle mie te-
nebre vo’ fantasticando a sopra a questo a sopra quello effetto
di natura, né posso, come vorrei, dar quiete al mio inquieto
cervello, agitazione che molto mi nuoce, tenendomi poco
meno che in perpetua vigilia».
Brigida BonghiUniversità del Salento
F. Goya, Il tribunale dell’Inquisizione (1812-1819), Madrid, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando.
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STUDI
1. I Discorsi fanno parte del vol. VIII dell’Edizione Nazionale delle Opere di Galileo Ga-lilei, pubblicate presso l’editore Barbera di Firenze (1890-1907) e curate da A. Favaro,in diciannove volumi. A cura di S. Timpanaro le Opere, Rizzoli, Milano 1938, 2 voll. e diF. Brunetti, Opere, Utet 1980, 2 voll., ristampato per Mondadori 2008. I Discorsi sono com-mentati da A. Carugo e L. Geymonat, Boringhieri, Torino 1958; l’edizione Utet ne riportala traduzione dei passi latini. Da ricordare l’utile edizione elettronica on line dell’Ope-ra Omnia di Galileo.2. A. Banfi, Galileo Galilei, Ambrosiana, Milano 1949; L. Geymonat, Galileo Galilei, Einaudi,Torino 1957, V ed. 1969; P. Odifreddi, Hai vinto Galileo!, Mondadori, Milano 2009; G. Pre-ti, Storia del pensiero scientifico, Mondadori, Milano 1957; P. Rossi, La nascita della scien-za moderna in Europa, Laterza, Bari 1997; B. Russell, The Scientific Outlook, 1931, tr it. diE.A.G. Oliva riveduta da M. Mamiani, Laterza, 1988, La visione scientifica del mondo; E.Segré, Personaggi e scoperte della fisica classica, Mondadori, Milano 1983, F. Minazzi, Ga-lileo «filosofo geometra», Rusconi, Milano 1994, E. Bellone, Galileo, Le Scienze, Roma 2013.
Le due nuove scienze di GalileoPaolo Giannitrapani
Il titolo dell’opera, non scelto da Galileo ma editoriale, è,
esattamente, Discorsi e dimostrazioni matematiche intor-
no a due nuove scienze attinenti alla mecanica e i movimenti
locali. Non piacque a Galileo che lo giudicò “plebeo”. È la se-
conda grande opera di Galileo ma la più importante per la
scienza moderna. Illustra i principi scientifici della fisica, del-
la statica e dinamica del movimento, della scienza delle co-
struzioni. I Discorsi pur collegandosi a studi appartenenti a
fasi anteriori, è l’opera della vecchiaia di Galileo, il suo te-
stamento scientifico, un’opera che si inscrive in un periodo
preciso della vita di Galileo, quello posteriore alla data fon-
damentale della sentenza del Sant’Uffizio del 22 giugno 1633
con cui si cercava di far tacere, per sempre, la sua voce, è la
fase della carcerazione (poi trasformata in arresti domicilia-
ri) in Arcetri, della morte della diletta figlia Maria Celeste, del-
la cecità, della volontà di ritornare alla “scienza pura”, alla fi-
sica; sono gli anni dell’isolamento ma anche della presenza
assidua di allievi come Bonaventura Cavalieri, Tiberio Spi-
nola, e, giovanissimi, Vincenzo Viviani, ed Evangelista Tor-
ricelli, l’inventore del barometro. Galileo ha 74 anni quan-
do l’opera è pubblicata, anonima, nella libera Olanda, nel 1638,
permanendo per Galileo il divieto di pubblicare le sue ope-
re. Galileo torna così alla fisica del periodo pisano e padovano
dopo gli interessi per l’astronomia che tanto lo avevano te-
nuto occupato a partire dalle sue osservazioni con il suo «oc-
chiale» durante il fatidico autunno del 1609.
Letteratura su GalileoSconfinata la letteratura su Galileo, sui suoi progressi com-
piuti in astronomia e fisica, sulle implicazioni scientifiche, epi-
stemologiche e filosofiche delle osservazioni, deduzioni,
teorie, opinioni espresse in vario modo nelle sue opere. L’in-
teresse per Galileo non si è mai sopito nel nostro secolo. Pres-
soché impossibile fornire anche un rapido ragguaglio bi-
bliografico. Ricordiamo l’edizione italiana dell’opera omnia
e alcune edizioni notevoli dei Discorsi1. Vale però la pena di
segnalare alcuni autori che si sono occupati di lui in tempi
non remoti e che tuttora possono costituire interessanti vi-
sioni d’insieme, introduzioni, se non interpretazioni notevoli
o financo aggiornamenti, ad es. in ordine alla posizione del-
la Chiesa al tempo d’oggi sul caso Galileo. Si tratta di vari stu-
diosi come Antonio Banfi, Ludovico Geymonat, Piergiorgio
Odifreddi, Giulio Preti, Paolo Rossi, Bertrand Russell, Emi-
lio Segré, Fabio Minazzi ed Enrico Bellone2, autori che ri-
chiameremo anche in relazione ai Discorsi.
Va notato che, presso coloro che si occupano di Galileo, il
progresso attuato dal pisano come fondatore del metodo
sperimentale su base matematica e le innovazioni eccezionali
da lui compiute in fisica (come testimoniano appunto i Di-
scorsi), più che non in astronomia, non vengono general-
mente disgiunte dal resoconto delle vicissitudini relative al
processo del 1633. Inoltre va anche osservato che il desti-
no che toccò in sorte ai Discorsi fu quello di finir con l’es-
sere oscurato dai Dialoghi, nonostante sia la maggior
opera scientifica di Galileo, probabilmente non capita da-
gli inquisitori dell’epoca, come suggerice Timpanaro. Fu solo
nel Novecento che si tornò a parlare più dei Discorsi che dei
Dialoghi.
I Discorsi come opera letterariaIl volume ha la struttura narrativa di dialogo; il riferimento
alla letteratura può sembrare non pertinente, ma Galileo, il
padre della scienza moderna, era anche un fine conoscitore
della letteratura, di Dante, Ariosto, Tasso, aspetto che fa si-
curamente riflettere ancora oggi in merito al problema del-
la complementarità tra le cosiddettte due culture. Si occupò
della Divina Commedia con un curioso opuscolo sulle misure
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 41
STUDI
dell’Inferno3; può essere considerato anche uno scrittore. Se-
condo il giudizio di Calvino «il più grande scrittore della let-
terayura italiana di ogni secolo», ammirato da Leopardi4 e,
secondo un Premio Nobel per la fisica del 1959 (imparziale
per cose di letteratura) come Emilio Segrè5 «il più grande pro-
satore italiano tra Machiavelli e Manzoni, un periodo di quat-
trocento anni», che aggiunge: «le sue capacità letterarie fecero
di lui uno dei più grandi divulgatori della scienza». «In altre
parole, Galileo sarebbe il medio proporzionale fra l’Ariosto
e il Leopardi e i tre si situerebbero su un’ideale linea di for-
za della nostra letteratura»6.
I discorsi-dialogo hanno come interlocutori gli stessi perso-
naggi che compaiono nel Dialogo sopra i due massimi siste-
mi del mondo vale a dire Filippo Salviati, esistito realmente,
nobile fiorentino, amico di Galileo, morto a soli trentadue anni,
membro dell’Accademia dei Lincei e accademico della Cru-
sca, cui è affidato il compito di esporre le idee di Galileo stes-
so; anche reale amico di Galileo fu Giovan Francesco Sagre-
do, patrizio veneziano, il quale sotto la guida di Galileo, pur
senza trascurare i suoi obblighi verso la Serenissima, costruì
termometri e cannocchiali. Nel dialogo rappresenta l’elemento
di intelligente moderazione tra il copernicanesimo e il tole-
maicismo; figura immaginaria è, invece, Simplicio, il nome
chiaramente evoca il filosofo Simplicio, bizantino, vissuto al-
l’epoca di Giustiniano7, commentatore di Aristotele. In effetti,
anche nei Dialoghi, Simplicio rappresenta la mentalità ari-
stotelica e la concezione di Tolomeo.
I Discorsi, secondo l’uso del tempo, sono preceduti dalla de-
dica: «Allo illustrissimo Signore il signore di Conte di Noal-
les». Si tratta di Filippo di Noailles, ambasciatore del Re di
Francia presso il papa nel 1634, devoto amico di Galileo, da
quest’ultimo conosciuto durante il periodo padovano. Ave-
va tentato di intercedere presso la autorità di Roma a vantaggio
di Galileo. Nella dedica Galileo mostrandosi affettuosissimo
amico del conte, ricorda di avergli presentato copie dei Di-
scorsi sicuro che le avrebbe «partecipate a qualche amico suo
in Francia perito di scienza». Galileo allude alle peripezie del-
la pubblicazione, in realtà il manoscritto, penetrato clande-
stinamente a Venezia e poi affidato agli olandesi, sarà pub-
blicato a Leida, presso gli Elzeviri, nel 1638.
I contenuti Ma di che si occupano esattamente i Discorsi e quali sono que-
ste due nuove scienze già promesse dall’editore nel titolo? Sono
la statica e la dinamica; in quest’opera ci si occupa del moto,
siamo dunque nel campo della fisica e non più dell’astrono-
mia. Quest’opera scientifica ha una gestazione lunghissima
e si può far risalire alle opere giovanili De motu e Mecaniche
(1593). Tutti i problemi della fisica galileiana fanno capo al
periodo 1600-1610 (Paolo Rossi). Secondo Timpanaro an-
che trattando del moto Galileo ha sempre in mente l’oppo-
sizione ad Aristotele e Tolomeo tipica dei Dialoghi, pertan-
to questi Discorsi andrebbero pur sempre definiti copernica-
ni. L’opera si apre, dopo la dedica, con la prefazione de Lo stam-
patore a i lettori: in cui è esposta l’etica sottostante alle arti e
alle scienzie (che incontrano nel loro cammino la necessità
di respingere le false dottrine e che sono incessantemente per-
fettibili), vale a dire «il mutuo e vicendevole soccorso de gli
uomini gli uni verso gli altri».
Le prime due giornate sono articolate come un vero e pro-
prio dialogo e trattano di problemi di resistenza dei materiali,
ivi comprese le leggi di similitudine e i modelli. Si tratta del-
la prima nuova scienza (statica), scienza delle costruzioni, ric-
ca, inoltre, di digressioni su una serie di argomenti come: la
coesione nei solidi e nell’acqua, la natura del vuoto, le pom-
pe, le oscillazioni del pendolo, disquisizioni matematiche su
3. Due lezioni circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante, 1588. Lo scritto nonsi trova nell’edizione italiana Utet. Galileo mostra la sua propensione per le misure, igno-rando l’etica, nel suo trattatello sull’Inferno, così l’incipit: Se è stata cosa difficile e mirabilel’aver potuto … misurare … i moti e le loro posizioni, le grandezze delle stelle … i siti delleterre e dei mari … quanto più maravigliosa dobbiamo noi stimare la descrizione del sitoe figura dell’inferno il quale è da nessuno per niuna esperienza conosciuto dove se beneè facile il discendere è però tanto difficile uscirne.4. Vedere voce Galileo Galilei in G. Leopardi, Zibaldone, edizione integrale diretta daL. Felici, Newton & Compton editori, Roma 1997, II ed. 2001, p. 1111. 5. E. Segrè, op. cit., p. 49.6. P. Odifreddi, op. cit., p. 99., che menziona anche il giudizio di I. Calvino.7. Simplicio appartenente all’epoca “medievale” secondo il commento dell’edizioneUtet, ripubblicata da Mondadori.
Frontespizio del Dialogo di Galileo (Firenze 1632).
42
STUDI
ciò che noi oggi chiamiamo analisi infinitesimale e teoria de-
gli insiemi (Segrè). Le teorie sulla resistenza dei materiali qui
esposte (ad es. il cilindro offre una resistenza alle fratture cioè
ai pesi posti sulla sommità proporzionale al cubo del diametro
della base) troveranno applicazione nell’ingegneria civile e mi-
litare e nella scienza delle costruzioni.
La terza giornata tratta i problemi del moto uniforme, del
moto naturalmente accellerato e uniformemente accellera-
to (dinamica). Essa si apre con queste parole:
Diamo avvio a una nuovissima scienza intorno a un soggetto an-tico. Nulla v’è, forse, in natura, di più antico del moto e su di essoci son non pochi volumi, né di piccola mole, scritti dai filosofi, tut-tavia tra le sue proprietà ne trova molte che, pur degne di essereconosciute, non sono state mai finora osservate, nonché dimostrate.
Nel corso del dialogo Salviati legge un trattatello in latino sul
moto che si finge esser scritto da un Accademico, si trattta del
De motu locali diviso nelle due parti De motu aequbili e De
motu naturaliter accelerato e, in una terza, il De motu violen-
to seu de proiectis compreso nella quarta giornata. L’ipotesi
sostenuta da Geymonat spiegherebbe il bilinguismo: la par-
te in latino è rivolta ai dotti, mentre il dialogo ai costrutto-
ri, edili, idraulici e militari. I Discorsi si configurebbero come
un manuale per ingegneri. La terza giornata contiene la leg-
ge d’inerzia. «Benché la legge d’inerzia sia perfettamente chia-
ra, essa non viene formalmente asserita come principio. Ciò
ha dato origine a molte discussioni se essa debba essere at-
tribuita a Galileo. Gli esempi e le applicazioni mi sembrano
più importanti di una enunciazione formale ed è evidente che
Galileo la comprese realmente» (Segrè).
La quarta giornata, dedicata alla traiettoria dei proiettili, co-
stituisce uno studio condotto con metodo deduttivo nel sen-
so di partire da ipotesi generali con controllo soltanto suc-
cessivo mediante l’esperienza. Galileo conclude che la tra-
iettoria del proietto è parabolica, con possibilità di gittata mas-
sima se il cannone è inclinato di 45°. Galileo conferma ma-
tematicamente quanto gli era riferito dalle osservazioni e dal-
l’esperienza pratica dei meccanici, in questo caso i bombar-
dieri cui si era rivolto. Il dialogare della quarta giornata si al-
terna con l’esposizione del trattatello Del moto dei proietti. Con
il primo teorema della quarta giornata si afferma che:
Un proietto, mentre si muove di moto composto di un moto orizzontaleequabile e di moto deorsum [verso il basso] naturalmente accelle-rato, descrive nel suo movimento una linea semiparabolica.
La traiettoria di un proiettile è quindi una parabola risultante
dalla combinazione di due movimenti indipendenti e che non
interferiscono l’uno con l’altro: un moto uniforme, in avan-
ti, secondo l’orizzontale (principio d’inerzia) e un moto uni-
formemente accellerato (legge della caduta libera) vero il bas-
so secondo la verticale (Paolo Rossi).
Segue un’appendice Appendix in qua continetur theoremata
eorumque dimonstrationes, quae ab eodem auctore circa cen-
trum gravitatis solidorum olim conscripta fuerunt aggiunta al-
l’edizione del 1638, in realtà opera giovanile, scritta all’età di
ventun’anni. Nella traduzione di Geymonat la sezione si in-
titola Appendice contenente i teoremi e le relative dimostrazioni
intorno al centro di gravità dei solidi, quali furono scritti un tem-
po dal medesimo autore.
Due ulteriori “giornate” furono aggiunte in edizioni poste-
riori. La quinta, pubblicata nel 1774, riguarda la teoria eu-
clidea delle proporzioni, la sesta (1718) affronta il problema
fisico della percossa con la variante che al posto di Simplicio
compare Paolo Aproino, nobile trevisano.
In merito alle cosiddette digressioni che, come diceva Galileo,
possono arrecarci la cognizione di nuove verità, val la pena di
osservare che esse furono feconde di sviluppo. Riportiamo il
seguente schema indicando le problematiche in cui si imbatte
Galileo nei Discorsi e la loro posteriore soluzione:
peso dell’aria - evidenziato da Evangelista Torricelli nel 1644 con ilbarometro
metodo degli indivisibili - culminato nel 1647 con lavoro di Bo-naventura Cavalieri
la velocità della luce - misurata da Ole Rømer nel 1676 usando il sa-tellite Io di Giove
la forma della catenaria - determinata da Johann Bernoulli, Chri-stian Huygens e Gottfried Leibniz nel1691
la coesione dei liquidi - regolata dalla legge enunciata da ThomasYoung nel 1805 e provata da Pierre Si-mon de Laplace nel 1806
la proprietà isoperimetrica del cerchio - dimostrata da JacobSteiner nel 1838
la fisiologia del suono - sistematizzata da Hermann Helmotz nel1862
i paradossi dell’infinito - risolti da Georg Cantor nel 1878
la necessità di misure universali - recepita con il sistema metricodecimale MKS nel 1889
la forza della percossa - formalizzata da Oliver Heaviside nel 1893con la funzione e così via
(fonte: Piergiorgio Odifreddi, Hai vinto Galileo!, cit., pp. 88-89)
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 43
STUDI
La concezione di Aristotele sul motoNella terza e quarta giornata dei Discorsi si parla del moto.
Si inaugura la fisica moderna con le leggi sulla caduta dei gra-
vi e sui vari tipi di movimento, oggi facenti parte di qualsia-
si manuale di fisica. Ora, le concezioni espresse dalla Fisica
di Aristotele hanno costituito l’opinione corrente sul moto per
secoli, fino al sec. XVII e proprio la critica di Galileo ad Ari-
stotele costituisce l’atto di nascita della nuova scienza speri-
mentale. Richiamiamo brevemente le tesi dello Stagirita. Ari-
stotele distingue due tipi di corpi, quelli celesti e quelli su-
blunari o terrestri, i primi immutabili e incorruttibili, com-
posti da una sostanza immateriale detta quinta essenza, i se-
condi, soggetti a corruzione, rappresentano un miscuglio di
quattro elementi o essenze che sono, in accordo con Empe-
docle, Terra, Aria, Acqua e Fuoco. In ogni corpo uno di que-
sti elementi prevale sull’altro, ad es. nei solidi prevale la ter-
ra, ma nei liquidi l’acqua, ecc. Ogni corpo possiede un suo
luogo naturale, ad esempio il luogo naturale dell’aria è il cie-
lo, mentre il luogo naturale della terra si trova nel punto più
basso dell’Universo, a mano a mano che saliamo verso il cie-
lo troviamo il luogo naturale dell’Aria, del Fuoco, ecc. A que-
sto punto entra in gioco l’elemento moto o movimento: ogni
corpo tende a raggiungere il suo luogo naturale, i gravi che
contengono prevalentemente l’elemento Terra tendono ver-
so il centro della Terra. Con che tipo di moto? Con una ve-
locità che è tanto maggiore quanta più Terra essi contengo-
no, ossia quanto maggiore è il loro peso.
Già Stevino (Simone Stevin, 1548-1620) aveva osservato spe-
rimentalmente che i corpi non cadono con velocità propor-
zionale al loro peso e che se si prendono due palle di piom-
bo, una dieci volte più pesante dell’altra, e se si lasciano ca-
dere insieme da trenta piedi, il rumore della caduta a terra si
fonde in un tutt’uno, il corpo più leggero non ha impiegato
a cadere un tempo dieci volte maggiore dell’altro. Con Ste-
vino si sta affermando l’osservazione e l’esperimento so-
prattutto da parte di artigiani, meccanici e ingegneri, tutte espe-
rienze considerate volgari accidenti dal filosofo delle Università
e lontane dalla vera sostanza dei fenomeni. Tuttavia, la tra-
dizione aristotelica subiva allora le prime critiche.
La critica di GalileoCon un esperimento pensato e un ragionamento teorico, espe-
rimento simile a quello di Stevino, ma, forse, mai forse rea-
lizzato, Galileo arriva a concludere nei Discorsi che la velo-
cità di caduta di un grave non dipende dal peso, ma è pro-
porzionale al tempo trascorso. Galieo confuta Aristotele dopo
aver richiamato quanto lo Stagirita dice sulla caduta da cen-
to braccia di una palla di ferro di cento libbre e una di una
libra, osservando però al contrario che elle arrivano allo istes-
so tempo. Il moto di caduta naturale dei gravi è il moto na-
turalmente accellerato secondo la definizione posta da Ga-
lileo (Giornata terza, Del moto naturalmente accellerato, De-
finizione):
Possiamo quindi ammettere la seguente definizione del moto dicui tratteremo. Moto equabilmente, ossia uniformemente ac-cellerato, dico quello che, a partire dalla quiete, in tempi egua-li acquista eguali momenti di velocità.
Con il secondo dei 22 teoremi che, con metodo euclideo, se-
guono la definizione Galileo precisa il legame fra gli spazi per-
corsi e i tempi impiegati:
se un mobile scende, a partire dalla quiete, con moto unifor-memente accellerato, gli spazi percorsi da esso in tempi qualsiasistanno tra di loro in duplicata proporzione dei tempi, cioè stan-no tra di loro come i quadrati dei tempi.
Come è noto oggi la legge oraria del moto uniformemente
accelerato si esprime: s = 1/2 at2. La concezione antica è su-
perata, il moto non dipende dal peso, si introduce la con-
nessione tra velocità, spazio e tempo, lo strumento matematico
e soprattutto la verifica sperimentale; Galileo per ovviare alle
difficoltà presentate dalla caduta verticale studierà il moto ser-
Frontespizio dei Discorsi e dimostrazioni matematicheintorno a due nuove scienze (Leida 1638).
44
STUDI
vendosi di un piano inclinato (in questo caso il grave che scor-
re ha una velocità che è funzione non dell’inclinazione del pia-
no ma della differenza tra l’altezza del punto iniziale e quel-
la del punto finale).
Metodo: matematica, geometria e logicaCon Galileo si inaugura il metodo sperimentale e la fonda-
zione della scienza con l’esperienza sensata e le dimostrazioni.
L’osservazione della natura e lo strumento matematico so-
stituiscono ogni altra forma di dogmatismo o di autorità. Ga-
lileo spesso oscilla tra deduzione e induzione. Riguardo allo
strumento matematico in realtà va precisata la relazione in-
tercorrente in Galileo tra matematica, geometria e logica. Per
Galileo fondamentale è la geometria e non la nascente alge-
bra, come ha opportunamente sottolineato Minazzi nel suo
Galileo «filosofo geometra», mettendo in evidenza l’importanza
anche epistemologica dell’opera galileiana. Certo qui andrebbe
evocato lo status delle conoscenze matematicche nei primi de-
cenni del seicento in Italia con la tradizione euclideo-archi-
medea, gli Elementi tradotti in italiano da Tartaglia nel 1543,
l’algebra italiana etc.; ma per Galileo la geometria è il più po-
tente strumento d’ogni altro per acuir lo ingegno e disporlo al
perfettamente discorrere e specolare, dice nei Discorsi. La fisi-
ca sperimentale dei Discorsi è a base geometrica. Galileo non
considera la matematica teoreticamente ma come strumen-
to. La matematica legata alla tecnica, è la concezione di Ga-
lileo anche nella fase della vecchiaia, per quanto evochi Pla-
tone che voleva i suoi scolari prima ben fondati nelle mate-
matiche. Egli non ebbe interesse per la matematica come scien-
za a sé anche se intravide le problematiche sugli infinitesimi
e i paradossi degli insiemi infiniti. Per questa sua peculiare
attitudine Galileo non rispose mai a Cavalieri che lo solleci-
tava ad un’opera sugli indivisibili. Geymonat nel suo Gali-
leo Galilei ricostruisce attraverso il carteggio intercorso la, di-
rei, drammatica richiesta espressa dal discepolo Cavalieri per-
ché il maestro si decidesse a occuparsi di matematica pura.
Data la valenza della geometria che posto occuperebbe allo-
ra la logica nel metodo galileiano? La logica (ma quale logi-
ca nel 1638?) era verosimilmente quella aristotelica dell’Or-
ganon, Galileo la considera non flessibile per la scoperta, nel-
la seconda giornata dei Discorsi osserva che la logica benché
strumento potentissimo per regolare il nostro discorso non ar-
riva, quanto al destar la mente all’invenzione, all’acutezza del-
la geometria. Questa battuta è espressa da Simplicio che qui
opta per Euclide e non per il sillogismo.
Dopo i DiscorsiSulla natura dei rapporti tra verità e autorità filosofica o scien-
tifica, tra verità e credo religioso, sul caso Galileo e i rapporti
tra ragione e Chiesa cattolica, sul destino della scienza italiana
dopo Galileo si sono versati fiumi di inchiostro e non è que-
sta la sede per ripercorrere le discussioni, gli scontri e le po-
lemiche che ne hanno accompagnato il cammino, dal 1633
ad oggi. I Discorsi costituiscono il manifesto di quella fisica
moderna che in seguito non ebbe però modo di sviluppar-
si; l’attività scientifica in Italia, dopo Galileo, decade, nono-
stante gli ultimi suoi grandi discepoli come Viviani e Torri-
celli e iniziò nel corso del Seicento a venir considerata addi-
rittura sospetta. Mentre l’Accademia del Cimento a Firenze
si scioglieva (1667) nasceva in Inghilterra l’astro della Royal
Society cinque anni, prima della morte della prima.
Morto Galileo l’8 gennaio 1642 alle quattro del mattino, «per
non “scandalizzare i buoni” non si volle che fosse costruito
un augusto e sontuoso deposito per le spoglie mortali di Ga-
lileo. Non era bene scrisse il nipote de pontefice “fabricar mau-
solei al cadavero di colui che è stato penitentiato nel tribu-
nale della Santa Inquisitione ed è morto mentre durava la pe-
nitenza”» (P. Rossi).
Paolo GiannitrapaniCentro Internazionale Insubrico “C. Cattaneo” e “G. Preti”C. Flammarion, L’astronomia popolare (1885).
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 45
STUDI
Galileo e il valore culturale della tecnicaFabio Minazzi
Galileo contro tutta la tradizione occidentaleNell’ambito della tradizione occidentale Galileo è stato uno
dei pochissimi autori che ha sempre difeso e sottolineato il
pieno valore culturale della tecnica e del lavoro (anche di quel-
lo meccanico). Al contrario, come è ben noto, la posizione ege-
mone nella tradizione occidentale ha invece sempre consi-
derato l’ambito lavorativo (incluso quello “meccanico”)
come un ambito senz’altro “vile”, inferiore ed umile, proprio,
appunto, di uomini “meccanici” e “vili”. Non per nulla nel-
la Grecia classica il lavoro manuale era apertamente disprezzato
come lavoro banausico, appunto come un lavoro degno de-
gli schiavi, mentre all’uomo libero compete solo l’ozio, cioè
lo studio e la riflessione. Galileo scompagina questa tradizione
passatista, proprio perché nutriva, da buon archimedeo, una
ben diversa – e, invero, rivoluzionaria – concezione del va-
lore culturale del lavoro manuale, della tecnica e anche del-
lo stesso lavoro meccanico.
L’elogio galileiano della tecnicaNon per nulla Galileo decise di inaugurare il suo capolavo-
ro scientifico, i Discorsi e dimostazioni matematiche intorno
a due nuove scienze (1638) proprio con il più alto elogio del-
la tecnica che sia mai stato scritto e concepito in tutta la tra-
dizione occidentale. Ma a tal proposito è meglio lasciare su-
bito la parola a Galileo: «Largo campo di filosofare a gl’in-
telletti speculativi parmi che porga la frequente pratica del
famoso arsenale di voi, Signori Veneziani, ed in particolare
in quella parte che meccanica si domanda; atteso che quivi
ogni sorte di strumento e di machina vien continuamente po-
sta in opera da numero grande d’artefici, tra i quali, e per l’os-
servazioni fatte dai loro antecessori, e per quelle che di pro-
pria avvertenza vanno continuamente per se stessi facendo,
è forza che ve ne siano de i peritissimi e di finissimo discor-
so». A parte l’esplicito omaggio all’arsenale veneziano dove
allora si costruivano i famosi galeoni che hanno reso poten-
te non solo la repubblica di Venezia, non può sfuggire il ca-
rattere emblematico di questo elogio. Infatti Galileo ci avverte
che «largo campo di filosofare» viene offerto, perlomeno «a
gl’intelletti specolativi», dalla «pratica» dell’arsenale veneziano.
Non si può non cogliere il carattere fortemente polemico di
questo esordio. Per Galileo, infatti, un «largo campo di filo-
sofare» non si acquista andando a parlare con i colleghi uni-
versitari, bensì mescolandosi ai più umili lavoratori che “tra-
vagliano” in un cantiere navale. Ma la forza polemica di que-
sto esordio è connessa anche all’inciso col quale Galileo ci av-
verte che questo «largo campo di filosofare» può essere con-
seguito in questo ambito solo da coloro i quali sono dotati
di «intelletti specolativi». Come dire: chi ha gusto ed interesse
alla riflessione filosofica la può esercitare al meglio solo co-
noscendo una realtà lavorativa specifica come quella dei can-
tieri, dei luoghi dove si lavora e si produce. Non solo: Gali-
leo si premura di sottolineare anche come la parte più inte-
ressante e decisiva per porre in essere questa innovativa ed
originale riflessione filosofica derivi, in particolare, della co-
noscenza di «quella parte che meccanica si domanda». Non
si può non cogliere, nuovamente, tutta la forza polemica di
questa affermazione. Mentre la tradizione di pensiero occi-
dentale considerava la componente “meccanica” come una di-
mensione affatto priva di pensiero e di spiritualità, Galileo af-
ferma, invece, proprio l’opposto. A suo avviso per gli auten-
tici e veri «intelletti specolativi» proprio la conoscenza pre-
cisa di tutti i ritrovati “meccanici” elaborati e posti in essere
nei cantieri navali consente di sviluppare una riflessione in-
novativa, originale e profonda.
Il valore della meccanicaNé basta perché Galileo sottolinea come, proprio in questa
sezione «meccanica», venga posta in essere «ogni sorte di stru-
mento e di machina», ribadendo come sia proprio la cono-
scenza di questi strumenti e di queste macchine che consente
al pensiero di svilupparsi, perlomeno per coloro che hanno
spiccata sensibilità filosofica, onde dare «largo campo» al loro
filosofare. Mentre per la tradizione egemone il lavoro “mec-
canico” non avrebbe nulla da insegnare, invece per Galileo
46
STUDI
è proprio questa prassi «meccanica» che ci consente di pen-
sare nel modo più approfondito e originale possibile. Perché?
Proprio perché solo lavorando si incontrano degli ostacoli, del-
le sconfitte, delle barriere cui dobbiamo e possiamo reagire pen-
sando. Pensando ed elaborando inusitati ed originali ritro-
vati meccanici mediante i quali saremo in grado di supera-
re, positivamente, quegli stessi ostacoli. Secondo questa
prospettiva galileista il pensiero nasce allora dalla resistenza
che il mondo oppone ai nostri progetti. In questo orizzonte
la meccanica – come aveva insegnato anche tutta la tradizione
dei tecnici rinascimentali – costituisce allora un terreno pri-
vilegiato per cercare di trasformare i “no” della natura in ele-
menti positivi che contribuiscano alla realizzazione dei no-
stri autonomi progetti. Come insegnava Francis Bacon,
«natura nisi parendo, vincitur», ovvero, per quanto parados-
sale possa apparire, «alla natura si comanda ubbidendole». Ma
perché “si comanda ubbidendole”? Proprio perché l’intelligenza
umana di fronte ad un ostacolo, ad un contrasto che il mon-
do le oppone, deve ingegnarsi di trovare una strada – con-
cettuale e pratico-sperimentale – per trasformare quel divieto
in un punto archimedeo sul quale far forza, onde realizzare
il suo progetto. Ma è evidente che per trasformare una diffi-
coltà in un’opportunità, occorre sempre saper pensare quello
stesso ostacolo, occorre saperlo concettualizzare, onde ridurlo
in nostro dominio (concettuale e pratico). La meccanica elo-
giata da Galileo si radica proprio in questo sforzo concettuale
e tecnico, in cui la componente pratica e quella speculativa
si fondono nella costruzione armonica e sinergica della mac-
china. Ma allora la “macchina” come si configura per Gali-
leo? Esattamente come si configurerà, un secolo dopo, per un
filosofo illuminista come Denis Diderot: come la materia-
lizzazione dell’intelligenza umana in un prodotto che senza
il lavoro dell’uomo e la sua capacità di saper concettualizza-
re e trasformare il mondo non sarebbe mai esistito.
Il ruolo dell’abilità e della tradizione oraleentro la civiltà del lavoroMa la finezza della disamina galileiana non si ferma a questo
punto, invero decisivo e rivoluzionario, perché Galileo avverte
anche come in un ambito lavorativo manuale come quello dei
cantieri tutte le innovazioni “meccaniche” siano sempre in-
trodotte dai lavoratori sia sulla base delle loro stesse dirette espe-
rienze lavorative, sia anche sulla base di una tradizione orale,
in virtù della quale le differenti generazioni di lavoratori si co-
municano e tramandano molteplici osservazioni e rilievi che
aiutano a rettificare e migliorare, continuamente, le stesse pras-
si lavorative. Come del resto ben sa chiunque abbia affronta-
to un determinato e specifico lavoro pratico-manuale: que-
st’ultimo, per essere esercitato nel miglior modo possibile, sca-
turisce infatti non tanto da una conoscenza astratta, bensì da
una pratica di lavoro entro il quale le abilità tecniche si ac-
quisiscono lavorando e confrontandosi con i colleghi di lavo-
ro, giovandosi, insomma, di quel ricco patrimonio, comune
e condiviso, di osservazioni che, difficilmente, si trovano nei
libri, proprio perché vengono tramandate attraverso l’esem-
pio, le prassi e i dialoghi continui tra i lavoratori. Quei lavo-
ratori «peritissimi e di finissimo discorso» di cui parla Gali-
leo in chiusura del suo passo costituisce, nuovamente, una pro-
vocazione nei confronti dei suoi colleghi accademici aristo-
telici e metafisici. Infatti Galileo ribadisce come uomini «pe-
ritissimi e di finissimo discorso» si trovino non tanto nelle sem-
pre più ammuffite università del suo tempo (allora domina-
te dalla metafisica aristotelica o da altre correnti spiritualiste
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI
G. Bertini (1825-1898), Galileo Galilei presenta il cannocchialeal doge Leonardo Donati, Varese, Villa “Andrea Ponti”.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 47
STUDI
altrettanto metafisiche) bensì frequentando il mondo del la-
voro e dei differenti ritrovati “meccanici”, quelli posti in es-
sere dai cosiddetti “proti”, vale a dire gli operai specializzati as-
similabili agli ingegneri «peritissimi e di finissimo discorso».
La tecnica e la genesi della scienza modernaTuttavia, di fronte a queste considerazioni che rompono, in
modo invero clamoroso, con tutta una tradizione plurisecolare
(egemone sia ai tempi di Galileo, come anche ai nostri tem-
pi) è lecito chiedersi se questo elogio della tecnica non co-
stituisca, forse, un elemento estemporaneo, assai originale,
ma complessivamente marginale e subordinato, nell’opera
complessiva dello stesso Galileo. Ebbene, se ci si pone que-
sta domanda è allora agevole rispondere affatto negativamente,
scoprendo un aspetto che, troppo spesso, è stato dimentica-
to, trascurato o posto senz’altro in non cale nella stessa rico-
struzione dell’opera e del pensiero galileiano. Possiamo in-
fatti chiederci se, effettivamente, nella vita di Galileo l’at-
tenzione per la tecnica abbia avuto un suo ruolo importan-
te e specifico. A tal proposito si potrebbe rinviare il lettore alla
lettura dello straordinario Epistolario galileiano nel quale si
trovano molteplici tracce dell’attenzione sempre prestata da
Galileo alla tecnica, nonché numerosissime lettere nelle
quali lo scienziato pisano rispondeva a molteplici quesiti, spe-
cificatamente tecnici, che gli venivano posti da diverse mae-
stranze, operatori ed interlocutori tra i più eterogenei. Si po-
trebbe inoltre ricordare il laboratorio che Galileo aveva, in casa
sua, nel quale costruiva, con un assistente, molteplici strumenti
tecnici. Inoltre, si potrebbero ricordare anche le molte in-
venzioni galileiane (per es. il compasso geometrico-milita-
re, l’orologio ad acqua, l’uso del pia-
no inclinato per studiare la dinamica
dei corpi in moto, ecc.). Ma tra
tutti questi molteplici riferimenti
uno poi dovrebbe spiccare ed im-
porsi in tutta la sua rilevanza stori-
ca e concettuale: l’elaborazione ga-
lileiana del «cannone dalla lunga vi-
sta», ovvero la costruzione autono-
ma, in proprio, dei primissimi can-
nocchiali con cui Galileo ha esplo-
rato il mondo celeste, potendo pub-
blicare, nella primavera del 1610,
quello straordinario Sidereus Nun-
cius che gli ha dato, immediata-
mente, fama europea. Ma senza ora
voler ripercorrere tutte le vicende
connesse alle straordinarie scoperte celesti di Galileo, sarà sem-
mai più interessante sottolineare come spesso venga dimen-
ticato – anche da eminenti storici della scienza (per esempio
si pensi a Koyré, per fare un solo, emblematico, nome) come
la nascita della scienza moderna sia intimamente connessa
e legata – a doppio filo – proprio con la costruzione di nuo-
vi strumenti tecnici che hanno consentito di conseguire
“novità celesti” prima inimmaginabili. Da questo punto di vi-
sta, allora, la nascita della scienza moderna risulta essere pro-
fondamente connessa proprio con la costruzione e l’uso si-
stematico di nuovi strumenti tecnici, proprio perché, come Ga-
lileo ha emblematicamente affermato nell’apertura dei suoi
Discorsi, la tecnica possiede un preciso valore culturale che
è anche un valore autenticamente rivoluzionario. Perché è ri-
voluzionario? Perché, si potrebbe rispondere in modo assai
sintetico, incide e modifica profondamente le stesse prassi (an-
che quelle sociali) degli uomini, ovvero il loro stesso com-
portamento sociale. Per questo motivo i cambiamenti tecno-
logici sono spesso associati anche a profondi cambiamenti con-
cettuali, giacché nell’ambito delle società umane, prima
vengono le prassi e solo dopo compare il pensiero. Come del
resto amava ricordare Hegel, la nottola di Minerva spicca il
suo volo solo sul far della sera… In genere questo nesso sfug-
ge ai più, ma non è affatto sfuggito a Galileo che ha sempre
saputo che la nascita della stessa scienza moderna era dovu-
ta alla costruzione e all’uso di un modesto strumento come
il suo celeberrimo «cannone dala lunga vista».
Fabio MinazziUniversità degli Studi dell’Insubria
H.J. Detouche (1854-1913), Galileo presenta al Doge il cannocchiale.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI48
STUDI
Dialogo, narrazione e verità in Galilei«Vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra la carta»Monica Iori
PERCORSO DI APPROFONDIMENTO SVOLTO NEL CORSO DELL’ANNO SCOLASTICO 2012-13 CON LA CLASSE IV C(CORSO CON SPECIALIZZAZIONE BILINGUISMO) DEL LICEO SCIENTIFICO “GALILEO FERRARIS” DI VARESE NELL’AMBITO
DEL PROGETTO DEI GIOVANI PENSATORI DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DELL’INSUBRIA.
Narrazione come conoscenza? È possibileall’interno dell’indagine filosofica?Narrazione come conoscenza? Questo era il tema proposto
per l’anno scolastico in corso dal Progetto Giovani Pensato-
ri, progetto ideato dall’Università degli Studi dell’Insubria e
rivolto a tutte le agenzie culturali del territorio che vengono
così sollecitate a riflettere intorno ad un preciso nucleo di pen-
siero. Quindi con i ragazzi della IV C, sollecitati appunto dai
promotori del progetto – il prof. F. Minazzi, la prof. ssa M.
Lazzari e il prof. P. Giannitrapani – ci siamo posti questa do-
manda e mentre svolgevamo il nostro programma abbiamo
incontrato alcuni autori che dal passato ci hanno aiutato a
rispondere. Prima di tutto abbiamo ripreso Platone, maestro
nell’utilizzo della narrazione. Con i suoi miti ci ha, infatti, di-
mostrato come il racconto possa essere eccellente mezzo di
comunicazione anche delle più elevate verità, anzi soprattutto
di esse, che, proprio per la loro complessità, possono solo es-
sere evocate e non definite con un linguaggio tecnico. I ra-
gazzi successivamente si sono soffermati a riflettere su un au-
tore dell’età moderna, Galileo Galilei, e hanno attentamen-
te analizzato un brano tratto dal Saggiatore, noto a tutti, come
La favola dei suoni.
La favola dei suoni: Galilei narratore?Nel corso dello svolgimento del programma ci siamo ov-
viamente imbattuti nello studio della rivoluzione scientifi-
ca in età moderna e ci siamo stupiti nel trovare nel Saggia-
tore, un testo scientifico scritto per disputare intorno alla na-
tura delle comete, un racconto, una narrazione appunto. Si
tratta di un eccellente esempio di prosa di volgare seicente-
sco e Galilei dimostra, nello scriverlo, ottime doti di scrit-
tore e divulgatore. Non dimentichiamoci che il nostro
scienziato pisano, Matematico primario dello Studio di Pisa
e Filosofo del Ser.mo Gran Duca senz’obbligo di leggere e di ri-
siedere né nello Studio né nella città di Pisa, et con lo stipen-
dio di mille scudi l’anno, moneta fiorentina, era un eccellen-
te scrittore, tanto che Italo Calvino lo annovera tra i più gran-
di produttori di prosa della nostra tradizione letteraria. Ga-
lilei, nel brano citato, si sofferma a narrare la vicenda di “un
uomo dotato da natura d’un ingegno perspicacissimo e d’una
curiosità straordinaria” che alleva uccelli e studia il loro can-
to, nel senso che cerca di capire come possano tali piccoli ani-
mali produrre una gamma così vasta di suoni, cerca di ca-
pire quindi la meccanica e la fisica del suono e nello stesso
tempo ne studia l’armonia. Ad un certo punto della sua vita
quest’uomo si imbatte per puro caso in una serie di situa-
zioni nuove ed inaspettate che gli rivelano che sul suono ha
ancora tutto da scoprire. Viene a conoscenza di vari strumenti
musicali (zufolo, violino, organo, tromba, anche lo scaccia-
pensieri, ecc.) che prima non conosceva, di animali di va-
rio genere (vespe, zanzare, mosconi, grilli e cicale) che pro-
ducono suoni tutti da analizzare e via dicendo. Galilei ma-
gistralmente e per via indiretta ci racconta, insomma, di un
uomo esperto in un settore della conoscenza che umilmente
si mette in strada e ricomincia tutto da capo. Ci siamo chie-
sti, quindi, il motivo profondo per cui il nostro uomo di scien-
za abbia avuto l’esigenza di delineare le caratteristiche di una
tale figura.
L’elogio dell’intelligenza dell’uomo: Socrate e Galilei È in un’altra opera, cioè nel Dialogo sopra i due massimi siste-
mi del mondo che Galilei ci fornisce la spiegazione e la chiave
di lettura de La favola dei suoni. Nel corso della prima giornata,
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 49
STUDI
nella quale si disquisisce intorno ai due sistemi astronomici,
aristotelico-tolemaico e copernicano, infatti, tra i protagoni-
sti del dialogo, lo scienziato Salviati (Galilei stesso), il nobile
veneziano Sagredo (di idee copernicane) e il peripatetico Sim-
plicio (l’aristotelico arroccato all’ipse dixit, forse il papa Urbano
VIII?), si delinea, tra le molte altre cose, anche la figura del ri-
cercatore scientifico, come anche quella del filosofo e questi ven-
gono definiti come persone che quanto più sono sapienti tan-
to più conoscono e liberamente confessano di saper poco. In un
celebre brano che solitamente le antologie riportano come
“L’elogio dell’intelligenza dell’uomo”, essi si rifanno a Socra-
te il sapientissimo della Grecia che diceva apertamente conoscer
di non saper nulla. Sostiene, infatti, Sagredo: Estrema temeri-
tà mi è parsa sempre quella di coloro che vogliono far la capaci-
tà umana misura di quanto possa e sappia operar la natura, dove
che, all’incontro, non è effetto alcuno in natura, per minimo che
sia, all’intera cognizion del quale possano arrivare i più speco-
lativi ingegni. Questa così vana presunzione d’intendere il tut-
to non può aver principio da altro che dal non avere inteso mai
nulla, perché, quando altri avesse esperimentato una volta sola
a intender perfettamente una sola cosa ed avesse gustato vera-
mente come è fatto il sapere, conoscerebbe come dell’infinità del-
l’altre conclusioni niuna ne intende. Il vero sapiente è insom-
ma colui che ha coscienza dei propri limiti, proprio come Ga-
lilei anticipava ne La favola dei suoni, che è disposto ad ap-
prendere ancora, che con atteggiamento umile non rimane ar-
roccato nella difesa di se stesso e delle sue posizioni, che sa am-
mettere la relatività e parzialità del sapere, colui che prende le
distanze dal dogmatismo, colui che sa superare la barriera ideo-
logica dell’ipse dixit. La conoscenza in questo passo è conce-
pita, quindi, come un qualcosa che cresce su se stessa nel tem-
po, come se fosse un processo che tende all’infinito e la veri-
tà potrebbe esser vista, in questa prospettiva come un ideale
regolativo. La coscienza del limite viene quindi ampiamente
messa in risalto dal nostro matematico e filosofo pisano, ma
essa non annulla per niente la validità dell’intelligenza dell’uomo,
anzi la esalta e la spinge sempre verso nuovi approdi.
Vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra la cartaSempre nello stesso brano che funge anche da chiusura del-
la prima giornata del Dialogo è compito di Salviati, prima, e
del patrizio veneto Sagredo, poi, elencare alcuni degli alti ap-
prodi della grande acutezza dell’ingegno umano cha vanno dal-
le scienze matematiche alle espressioni creative delle arti fi-
gurative e plastiche, per finire con la poetica, la letteratura e
l’architettura. Salviati infatti sostiene a proposito degli esiti del-
la mente umana in ambito matematico: l’intendere si può pi-
gliare in due modi, cioè intensive o vero extensive: e che extensive,
cioè quanto alla moltitudine degli intelligibili, che sono infini-
ti, l’intender umano è come nullo, quando bene egli intendesse
mille proposizioni, perché mille rispetto all’infinità è come uno
zero; ma pigliando l’intendere intensive, in quanto cotal termine
importa intensivamente, cioè perfettamente, alcuna proposizione,
dico che l’intelletto umano ne intende alcune così perfettamen-
te, e ne ha così assoluta certezza, quanto se n’abbia l’istessa na-
tura; e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria
e l’aritmetica, delle quali l’intelletto divino ne sa bene infinite
proposizioni di più, perché le sa tutte, ma di quelle poche inte-
se dall’intelletto umano credo che la cognizione agguagli la di-
vina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la
necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza mag-
giore. Dal canto suo Sagredo elenca molti settori nei quali l’in-
gegno umano si distingue: Io son molte volte andato meco me-
desimo considerando, in proposito di questo che di presente dite,
quanto grande sia l’acutezza dell’ingegno umano; e mentre io
discorro per tante e tanto maravigliose invenzioni trovate da gli
uomini, sì nelle arti come nelle lettere, e poi fo reflessione sopra
il saper mio, tanto lontano dal potersi promettere non solo di ri-
trovarne alcuna di nuovo, ma anco di apprendere delle già ri-
trovate, confuso dallo stupore ed afflitto dalla disperazione, mi
reputo poco meno che infelice. S’io guardo alcuna statua delle
eccellenti, dico a me medesimo: «E quando sapresti levare il so-
verchio da un pezzo di marmo, e scoprire sì bella figura che vi
Galileo osserva la lampada nel Duomo di Pisa. Tribuna diGalileo, Museo di Storia Naturale di Firenze. Affreschi di LuigiSabatelli (1840).
STUDI
era nascosa? quando
mescolare e disten-
dere sopra una tela o
parete colori diversi,
e con essi rappresen-
tare tutti gli oggetti
visibili, come un Mi-
chelagnolo, un Raf-
faello, un Tiziano?».
S’io guardo quel che
hanno ritrovato gli
uomini nel compar-
tir gl’intervalli musi-
ci, nello stabilir pre-
cetti e regole per po-
terli maneggiar con
diletto mirabile del-
l’udito, quando potrò
io finir di stupire?
Che dirò de i tanti e
sì diversi strumenti?
La lettura de i poeti
eccellenti di qual me-
raviglia riempie chi attentamente considera l’invenzion d con-
cetti e la spiegatura loro? Che diremo dell’architettura? che del-
l’arte navigatoria? Il nobile veneziano amico di Galilei termina
però con quello che possiamo considerare il punto più alto del-
l’ingegno umano: l’invenzione della scrittura, sommo approdo
della genialità umana. Ma sopra tutte le invenzioni stupende,
qual eminenza fu quella di colui che s’immaginò di trovar modo
di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra
persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e
di tempo? parlare con quelli che son nell’Indie, parlare a quel-
li che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e
dieci mila anni? e con qual facilità? con i vari accozzamenti di
venti caratteruzzi sopra una carta. Solo lo studioso non pre-
suntuoso, ma umile può quindi realizzare pienamente le po-
tenzialità della mente nei vari campi e attraverso il dialogo può
confrontarsi con la comunità di persone che hanno deside-
rio di crescere in conoscenza, perché è proprio mediante il con-
fronto e lo scambio di informazioni che l’umanità può pro-
gredire. Quando si parla di dialogo, non sempre si pensa alla
scrittura, ma la genialità di Galileo sta anche nel fatto di aver-
ci fatto riflettere quanto la scrittura sia uno strumento fon-
damentale per il dialogo, in quanto ci permette di comunicare
e di aprirci al mondo, anche a quello lontano, nello spazio e
nel tempo, che altrimenti rimarrebbe precluso.
Aletheia: veritàe svelamento!Galilei tra l’altro ha
utilizzato proprio
queste strategie del-
la narrazione, del
dialogo e della scrit-
tura per attraversare
i secoli e darci gli
strumenti per op-
porci a certi pensie-
ri rigidi e dogmatici
contemporanei, alla
rigidità di certe po-
sizioni politiche e re-
ligiose e per richia-
marci alla coscienza
del limite e all’aper-
tura verso una con-
tinua ricerca della
verità che non può
essere imbrigliata in
stretti schemi, ma è
svelamento, disvelamento successivo, aletheia, appunto!
La lezione di Galilei è quindi giunta viva e forte fino a noi e
le sue parole sono proprio un faro nella nebbia. Il suo apporto,
infatti, non ha solo un alto valore in ambito epistemologico
e di filosofia della scienza, ma anche, più estesamente, in am-
bito esistenziale, pedagogico e civico, nel senso che, se il com-
pito della scuola è anche quello di predisporre all’apertura
mentale, quello di insegnare a pensare in modo critico con
la propria testa, mettendo assolutamente in discussione
l’ipse dixit, le parole di Galileo assumono il ruolo di asse por-
tante della didattica. Il nostro matematico e filosofo pisano
diventa quindi, evidentemente al di là delle sue intenzioni, un
ottimo strumento per poter lavorare con gli studenti del 2013
che vivono in un mondo odierno che favorisce l’omologazione
di comportamenti e pensieri, ma anche, e soprattutto, con quei
ragazzi che vivono in un contesto territoriale con un tessu-
to politico e religioso in prevalenza ideologicamente preco-
stituito dove, anche recentemente, non si è riusciti a rompere
col passato, confermando addirittura la cittadinanza onora-
ria a Benito Mussolini, come è successo a Varese.
Monica IoriLiceo Scientifico Statale “G. Ferraris” di Varese –
Progetto “Giovani Pensatori” dell’Università degli Studi dell’Insubriadi Varese
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI
T. Lessi, Galileo Galilei visitato da Vincenzo Viviani (1892), Firenze, Istituto e Museo di Storia della Scienza.
50
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 51
PERCORSI DIDATTICI
Irapporti di Gabriele d’Annunzio con
la musica e i musicisti sono stati
probabilmente più fitti, articolati e
consapevoli di qualsiasi altro letterato ita-
liano del Novecento. Interesse, compe-
tenza, sensibilità del poeta per la musi-
ca si declinano in una varietà di generi
letterari, a coprire gli ambiti della pro-
sa, della poesia e del teatro.
Musica e prosa: esperienzeestetiche prezioseLa centralità dell’arte musicale nell’in-
venzione dannunziana si manifestò con
piena evidenza alla svolta del secolo nuo-
vo con la pubblicazione del romanzo Il
fuoco (1900). Il protagonista, Stelio Èf-
frena, è dominato dalla figura di Richard
Wagner: il compositore tedesco è visto
come l’alfiere d’una nuova forma d’ar-
te e al contempo come voce critica del-
la società borghese. Opera nelle situa-
zioni chiave del romanzo il filtro di ti-
toli a fine Ottocento ancora poco noti in
Italia: Tristano, Sigfrido, Parsifal. Nel ro-
manzo agisce anche una seconda dina-
mica musicale: a Wagner si contrappo-
ne l’esaltazione dell’antica civiltà musi-
cale italiana, col progetto di erigere sul
Gianicolo a Claudio Monteverdi «un tea-
tro di marmo», ossia l’omologo del leg-
gendario teatro wagneriano di Bay-
reuth. Il romanzo testimonia dunque
una duplice passione, apparentemente
antitetica, per gli esiti più avanzati del
Romanticismo tedesco e per l’antica
musica patria: tendenze destinate en-
trambe a sviluppi straordinari nella
cultura italiana dei primi decenni del
nuovo secolo. La musica innerva lo
stesso tessuto narrativo grazie a una scrit-
tura vibrante ma al tempo stesso pun-
tuale, che tradisce la competenza tecni-
ca del poeta (d’Annunzio aveva eserci-
tato la critica musicale).
Già le pagine del Piacere (1889) erano
spesso risuonate di musica. Ad esempio
quando i nomi del «divino Federico»
(Chopin) e di Schumann si erano in-
trecciati nel ricordo di un’attività mu-
sicale concepita come esperienza pro-
fondamente formativa, reagente for-
midabile per un’«anima che si schiude».
Oppure quando la «bella ospite» Maria
Ferres discute «con sottilità d’intendi-
trice» commentando in termini per
nulla ingenui un imprecisato quintetto
di Boccherini («Mi ricordo bene che in
alcune parti il quintetto, per l’uso del-
l’unisono, si riduceva a un duo; ma gli
effetti ottenuti con la differenza dei
timbri erano d’una finezza straordina-
ria»). È sempre la suggestione della
musica a indurre nel protagonista An-
drea Sperelli la fantasticheria sul timbro
della voce di Maria, segnata dalla com-
presenza del timbro «dell’altra». Una du-
plice esecuzione di musica “antica” pro-
pone un’aria dalla Nina di Paisiello e dei
pezzi per tastiera di Leonardo Leo, J.-Ph.
D’Annunzio e la musicaRaffaele Mellace
IL NESSO TRA D’ANNUNZIO E LA MUSICA È UN BANCO DI PROVA PERFETTO PER L’INDAGINE INTERDISCIPLINARE. L’ARTICOLO
PROPONE QUATTRO PERCORSI, DIVERSISSIMI MA TUTTI SIGNIFICATIVI: DUE DI MUSICA DA LEGGERE (EVOCATA NELLA PROSA E
IMITATA NELLA POESIA DANNUNZIANE), DUE DI MUSICA DA ASCOLTARE (NEL TEATRO D’OPERA E NELLE LIRICHE DA CAMERA).
G. d’Annunzio - A. Franchetti,La figlia di Jorio, libretto a
stampa, Ricordi, Milano 1906,collezione privata.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI52
PERCORSI DIDATTICI
Rameau e J.S. Bach, spettro d’un passa-
to che evoca sentimenti di morte:
Riviveva meravigliosamente sotto le suedita la musica del XVIII secolo, così ma-linconica nelle arie di danza; che paioncomposte per esser danzate in un pome-riggio languido d’una estate di San Mar-tino, entro un parco abbandonato, tra fon-tane ammutolite, tra piedestalli senzastatue, sopra un tappeto di rose morte, dacoppie di amanti prossimi a non amar più.
Sarà la corda della malinconia a risuonare
nel Notturno (1921), quando il pianista
Giorgio Levi eseguirà l’aria detta La Fre-
scobalda, mentre nella Leda senza cigno
(1913) era stata la volta delle sonate di Do-
menico Scarlatti, di cui si evoca «l’ele-
ganza, l’allegrezza, la franchezza, la vo-
lubilità, la voluttà»; una raffinata selezione
liederistica, lungo il vasto arco teso tra
Beethoven e Hugo Wolf, aveva soccorso
d’Annunzio nell’esprimere la tensione del
binomio eros-thanatos in Forse che sì, for-
se che no (1910). Nei frammenti delle Fa-
ville del maglio (1924) il mottetto Pec-
cantem me quotidie del Palestrina, già ci-
tato nel Fuoco, viene collegato diretta-
mente a una traumatica esperienza este-
tica compiuta a Bologna nell’adolescen-
za e interpretato come simbolo della
dialettica tra morte e purificazione.
La musica funge insomma da reagente
nel moltiplicare le esperienze estetiche,
sinestetiche e perfino autobiografiche
della narrativa dannunziana: un esito
conseguito tramite il ricorso ad autori,
composizioni e linguaggi musicali re-
stituiti in termini spesso sorprendente-
mente circostanziati, mentre la prosa
stessa ambisce a emulare le dinamiche
sinfoniche e il procedimento dei Leit-
motive, i “motivi ricorrenti” introdotti da
Wagner nei propri drammi musicali.
Musica e poesia: «De lamusique avant toute chose»È noto quanto sia centrale nel d’Annun-
zio poeta la musicalità, arma di punta nel-
la rivoluzione in chiave decadente del lin-
guaggio poetico italiano, nel solco trac-
ciato dall’Art poétique di Paul Verlaine
(«De la musique avant toute chose»). Si
tratta naturalmente in prima istanza di
agire sulla costruzione ritmico-metrica del
verso, ma non sono infrequenti i riferi-
menti diretti a esperienze musicali, a co-
minciare dai testi che qui, per motivi di
spazio, si menzionano soltanto. A tacere
delle non poche liriche di tema musica-
le (le due Laudi dedicate a Bellini e a Ver-
di, o titoli come Notturnino in “Fa mi-
nore”, La gavotta, Sopra un’aria antica, So-
pra un “Adagio” [di Johannes Brahms], So-
pra un “Erotik” [di Edvard Grieg], Anco-
ra sopra l’“Erotik”), saranno sufficienti due
esempi di primissimo piano: l’organiz-
zazione eminentemente musicale della
Pioggia nel pineto, che si anima di un’au-
tentica sinfonia silvestre perforata da
voci solistiche ed evocata nel dettaglio dei
successivi eventi sonori: le «parole più
nuove / che parlano gocciole e foglie / lon-
tane», le diverse piante che si trasformano
in «stromenti / diversi / sotto innume-
revoli dita», «l’accordo / delle aeree cica-
le» cui «un canto vi si mesce / più roco»,
ossia la voce della rana, che «canta nel-
l’ombra più fonda» una parte dotata
d’una propria autonomia («Solo una
nota / ancor trema, si spegne, / risorge,
trema, si spegne»); oppure si consideri la
rievocazione preziosa ed estenuata del
passato attraverso il suono antico del cla-
vicembalo in Consolazione, a riprendere
un tema già del Piacere.
Nella poesia, così come forse ancor più
nella prosa dannunziana, emerge il ruo-
lo che lo scrittore volentieri accordava al-
l’arte musicale come componente es-
senziale dell’esistenza dell’individuo
(nel Vittoriale volle una stanza della mu-
G. d’Annunzio - R. Zandonai,
Francesca da Rimini,libretto a stampa,
Ricordi, Milano 1914,collezione privata.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 53
PERCORSI DIDATTICI
sica) e dell’intera società (lo Statuto di
Fiume definisce la musica «istituzione re-
ligiosa e sociale»).
D’Annunzio e i musicisti: la via maestra della scenaFu tuttavia innanzitutto sul piano del
teatro – versante all’epoca fortunatissi-
mo della produzione dannunziana e per
scelta consapevole aperto alla compo-
nente musicale – che la parola del poe-
ta si trasformò effettivamente in musi-
ca, giovandosi del contributo di nume-
rosi e importanti compositori coevi.
Non con Giacomo Puccini, più d’una
volta tentato da una collaborazione il-
lustre, ma disinteressato a un teatro di
poesia percepito come estraneo alla
propria drammaturgia, teatro in cui
«manca sempre il vero e spoglio e sem-
plice senso umano. Tutto sempre è pa-
rossismo, corda tirata, espressione ultra
eccessiva»1. La “tragedia lirica” Parisina,
che Puccini e Alberto Franchetti aveva-
no rifiutato, approdò nel 1912 a Pietro
Mascagni. Soggetto che affastella passioni
esasperate e incestuose, violenza, esoti-
smo e fervore mistico, viene interpreta-
to dal compositore attraverso un sensi-
bilissimo declamato che nulla occulta del
torrenziale dettato verbale. Dalla colla-
borazione serrata tra i due artisti non
uscì il «Tristano italiano», come d’An-
nunzio si augurava, bensì una partitu-
ra spiccatamente antiverista, sotto una
patina arcaicizzante.
Grande successo arrise nel 1914 a Fran-
cesca da Rimini, che pervenne al com-
positore Riccardo Zandonai, nella ridu-
zione che l’editore Tito Ricordi aveva rea-
lizzato della tragedia dannunziana: un ti-
tolo arricchito già dall’origine da una fit-
ta serie di riferimenti musicali, realizza-
ti come musica in scena già nella trage-
dia in prosa. Zandonai rispose con una
formula personale di arcaismo sonoro, al-
ternando silenzi carichi di tensione, agì-
ti quasi totalmente dall’orchestra che ri-
vela ciò che le labbra dei personaggi tac-
ciono, scene collettive di mobile legge-
rezza e vocalità distesa e accorata.
Tra i compositori cui il teatro dannun-
ziano ispirò musiche di scena e più
ambiziose traduzioni operistiche oc-
correrà citare almeno Italo Montemez-
zi, che compose La Nave, sempre su ri-
duzione librettistica di Tito Ricordi,
coniugando genuino patriottismo (du-
rante la “prima” alla Scala, il 3 novem-
bre 1918, fu annunciata in sala la presa
di Trento e Trieste) e accesa sensibilità
decadente che raggiunge esiti memora-
bili nella raffinata orchestrazione; ma an-
che Alberto Franchetti, autore della Fi-
glia di Jorio (1906), su fedele riduzione
del libretto del compositore stesso; Na-
dia Boulanger e Stéphane-Raoul Pugno,
che insieme misero in musica La ville
morte (1912).
La figura del vate esercitò un fascino du-
raturo in modo particolare su due gio-
vani compositori. Innanzitutto Gian
Francesco Malipiero (1882-1973), la
cui collaborazione con d’Annunzio si
protrasse dal 1913 con l’assidua fre-
quentazione del Vittoriale, la corre-
sponsabilità della Raccolta Nazionale
dei Classici della Musica Italiana e la pub-
blicazione delle opere di Monteverdi, sot-
to gli auspici del «Poeta che nell’anno
1900 [nelle pagine del Fuoco] esaltava il
divino Claudio». Dell’Immaginifico,
Malipiero avrebbe musicato nel 1910 i
Sonetti delle fate (dalla Chimera), nel
1913 il Sogno d’un tramonto d’autunno
e nel ’23 il Ditirambo terzo che chiude le
Stagioni italiche.
1. Lettera dell’11 novembre 1918, cit. in Eugenio Gara (acura di), Carteggi pucciniani, Ricordi, Milano 1958, p. 470.
G. d’Annunzio - I. Montemezzi, Lanave, libretto astampa, Ricordi,Milano 1918,collezione privata.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI54
PERCORSI DIDATTICI
Ancora più rilevante la collaborazione
con Ildebrando Pizzetti (1880-1968),
inaugurata col coro per il Prologo della
Nave (1905), poi diventato l’intera serie
delle musiche di scena per la tragedia, cui
seguiranno quelle per La Pisanelle
(1913). La felice sintonia tra poeta e mu-
sicista – di lui d’Annunzio apprezzava so-
prattutto la sensibilità nel tradurre il co-
lore arcaico delle situazioni – portò alla
tragedia Fedra, nata appositamente per
Pizzetti (1912, rappresentata nel 1915).
Le ambizioni arcaicizzanti di «Ilde-
brandus Parmensis» (che di d’Annun-
zio avrebbe intonato anche la Sinfonia
del fuoco, 1913, per il film Cabiria e, an-
cora nel 1954, una libera riduzione del-
la Figlia di Jorio) trattengono la musica
al limite d’una ritrosia ascetica che esal-
ta il declamato verbale avvolgendolo di
un’aura d’intensa sacralità, in nome
d’una tersa classicità, ormai lontana
dalla scrittura wagneriana.
Un siffatto mutamento di clima esteti-
co in senso “mediterraneo” suscitava l’in-
teresse del poeta, che d’altra parte era sta-
to aperto anche alla collaborazione con
«Magister Claudius», alias il compositore
francese Claude Debussy, in occasione
del Martyre de Saint-Sébastien (1911),
«mistero» per soli, coro e orchestra, in-
terpretato dalla «grande sacerdotessa»
Ida Rubinstein, la celebre attrice e dan-
zatrice in cui Paul Valéry dichiarava
d’aver trovato l’artefice d’uno spettaco-
lo fondato sulla collaborazione di diverse
arti. Esperimento di teatro simbolista
anti-drammatico strutturato in cinque
«mansioni» (ossia “quadri”, quasi a ri-
produrre lo schema compositivo delle
vetrate gotiche), su un tema, l’androgi-
no, dal fascino morboso, giocato sul-
l’ulteriore ambiguità tra soggetto sacro
e culto pagano della bellezza, il Marty-
re offre alle musiche di scena di Debus-
sy l’occasione d’una serie di interventi di-
versi, dal melologo (recitazione parlata
accompagnata dall’orchestra) ai brani
strumentali, dalle danze alle arie soli-
stiche, ai cori.
D’Annunzio e i musicisti:poesia rivestita di musicaUn ultimo capitolo del rapporto tra
d’Annunzio e la musica riguarda l’into-
nazione di testi poetici come liriche da
camera. Spiccano in questo catalogo
ideale alcuni titoli (particolarmente for-
tunati O falce di luna calante da Canto
novo e le due Romanze dalla Chimera),
ma spicca soprattutto il nome d’un
compositore, il conterraneo Francesco
Paolo Tosti (1846/1916), «il biondo
Apollo musagete», maestro di canto
delle figlie della regina Vittoria d’In-
ghilterra, più anziano del poeta d’una ge-
nerazione, e autore, fin dal 1880, di ben
34 romanze su testi dannunziani, a co-
minciare dal ciclo dei sette Idilli selvag-
gi dedicatogli dal poeta. Per una dozzi-
na d’anni la collaborazione proseguì
stretta (il poeta scriveva testi di gusto sa-
lottiero come Vuol note o banconote o En
hamac), con le cinque romanze di Ma-
linconia (1883), la squisita “arietta di Po-
sillipo” ’A vucchella (1992) e le Canzoni
di Amarante (1907). Autonomamente
Tosti avrebbe composto i cicli Consola-
zione (1909) e La sera (1916), entrambi
dal Poema paradisiaco. Da segnalare an-
che l’interesse nutrito da Ottorino Re-
spighi (1879-1936), che intonò due Not-
turni e Mattinata (1909), La donna sul
sarcofago, La statua (1919) e Quattro li-
riche (1920) dal Poema paradisiaco. No-
tevoli anche I pastori (1908) ed Erotica
(1911) di Pizzetti, e La sera fiesolana
(1923) di Alfredo Casella (1883-1947).
L’assidua frequentazione del verbo dan-
nunziano da parte di più generazioni di
musicisti risultò in esperienze numero-
se e talora cospicue tanto sulle assi dei
teatri quanto nei salotti. Se esse non sor-
tirono una svolta radicale nel panorama
musicale italiano, espressero tuttavia in
termini emblematici il gusto d’una lun-
ga stagione della cultura del Paese e si of-
frono ancora oggi, nei testi dannunzia-
ni così come nelle registrazioni sempre
più facilmente disponibili delle intona-
zioni musicali, all’apprezzamento dei
loro valori estetici.
Raffaele MellaceUniversità degli Studi di Genova
BIBLIOGRAFIA
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Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 55
PERCORSI DIDATTICI
L’etimologia del vocabolo latino
incipit (“inizia”, da incipio: in + ca-
pio), passato alla lingua italiana per
indicare l’avvio di un’opera letteraria o
le prime battute di una composizione
musicale, suggerisce l’idea della con-
quista, della “cattura”: superata la soglia
paratestuale del titolo, al quale spetta la
priorità nella funzione calamitante nei
riguardi del potenziale fruitore, tocca, in-
fatti, all’incipit avvincerlo, schiudendo-
gli un nuovo mondo possibile nel qua-
le introdursi con curiosità e partecipa-
zione, distaccandolo dal molteplice e
promettendogli una storia che valga lo
sforzo della lettura, anche in un’epoca
dominata da forme diverse di narratività,
meno impegnative, ma non per questo
meno interessanti.
L’incipit, retaggio di un uso formulare di
apertura dei manoscritti (Incipit liber
primus…) a cui si faceva seguire il tito-
lo dell’opera e il nome dello scrittore, è
spesso rivelatore della volontà narratri-
ce dell’autore e sintomatico di un par-
ticolare indirizzo di scrittura, o del ge-
nere di appartenenza del racconto: è un
preciso invito al lettore a sintonizzarsi
sulla giusta frequenza e crea aspettative.
È il vero stargate che lo immette in un’al-
tra dimensione, tra sogno a occhi aper-
ti e “proiezione filmica”, dal momento
che si attivano processi di visualizzazione
delle parole, di rappresentazioni im-
maginative da queste sollecitate, sempre
più configurate sul modello cinemato-
grafico, com’è ormai pacifico1.
Negli incipit, insomma, il lettore trova
una promessa narrativa e una sollecita-
zione intellettuale, che dovrebbe prelu-
dere alla “stipula” del “patto narrativo”
con l’autore del libro, nel caso in cui il se-
guito del racconto non deluda le sue at-
tese e non lo convinca a desistere dalla let-
tura e ad avvalersi dei suoi diritti – per
così dire – di “rescissione del contratto”,
così ben codificati da Daniel Pennac.
Con gli incipit si possono effettuare gare
di memoria riservate agli addetti ai lavori
o aperte a irriducibili divoratori di libri,
per indovinare da dove sono tratti. Con
gli incipit si possono compilare raccolte,
applicando metodo e rigore scientifici, in-
casellandoli in precise tassonomie e im-
brigliandoli in rigide griglie classificatrici,
per provare a carpirne i segreti e trarne
insegnamento; oppure si può provare a
inanellarne alcuni, con propositi di spe-
rimentazione (e di puro divertimento in-
tellettuale), azzardando accostamenti2,
giocando con libere associazioni di idee,
cogliendone la coerenza con le conclu-
sioni del dopo-lettura (un bell’inizio
per un libro non memorabile, o un ini-
zio sotto tono per un bel libro), verifi-
candone l’effetto immediato sul pubbli-
co, a partire da sé stessi. In sintesi, “a cia-
scuno il suo” approccio.
Chi ben comincia…Incipit della narrativa italiana otto-novecentesca (1)Rossana Cavaliere
NELLA PRIMA PARTE DEL PERCORSO SI ANALIZZANO LE APERTURE DELLE SEGUENTI OPERE: I PROMESSI SPOSI DI A.MANZONI, LE CONFESSIONI DI UN ITALIANO DI I. NIEVO, LA LUPA DI G. VERGA, LE AVVENTURE DI PINOCCHIO DI C.COLLODI, IL PIACERE DI G. D’ANNUNZIO, I VICERÉ DI F. DE ROBERTO.
1. Tra gli studi recenti, si veda, per tutti, G.P. Brunetta, Ilviaggio dell’icononauta, Marsilio, Venezia 1997.2. Al riguardo, segnalo un testo ricchissimo, introdottoda Umberto Eco, i cui curatori hanno collezionato incipit,secondo criteri di “omogeneità”, scegliendo esilaranti co-muni denominatori (come «Apnea», per inizi lunghis-simi, che costringono a rimanere col fiato sospeso, ocome «All’attacco!», per avvii chiaramente bellicosi). G.Papi, F. Presutto, In principio… 2001 modi per iniziare unromanzo, Baldini & Castoldi, Milano 2000.3.Viene denominata “cinematografabilità” la speciale qua-lità, a volte insita nella scrittura, di facilitare la trasferibilitàdel testo nel medium cinema. La nozione, che peraltro nonpuò contare su solidi fondamenti critico-teorici, viene quiutilizzata nel senso aspecifico di elevato potenziale di vi-sività, grazie a immagini, struttura o lingua, che sembranorecare in sé interferenze tra letteratura e cinema.
Quanto a noi, tenteremo di offrire uno
spaccato della inesausta varietà degli
incipit della narrativa (grande o in qual-
che modo significativa) tra Ottocento
(per lo più tardo) e Novecento (non mol-
to oltre la prima metà), che dimostri la
proteiforme abilità del narratore di tur-
no nell’incuriosire il lettore e “farlo pri-
gioniero”, servendoci di una selezione che,
essendo stata guidata da personale gusto
estetico, fondata anche sull’interesse per
una “cinematografabilità”3 in nuce (e suf-
fragata dalla puntuale trasposizione ci-
nematografica di tutte le opere di segui-
to analizzate, filo rosso dell’indagine) e
regolata da necessità editoriali di spazio
e di concentrazione, non potrà che essere
solo esemplificativa, oltre che soggettiva
(anche in virtù di qualche intrusione
poco ortodossa). Una selezione, quindi,
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI56
PERCORSI DIDATTICI
che vuole essere un input per ogni lettore,
affinché si diverta ad aggiungere, prose-
guire, cancellare, sostituire, e che pren-
de avvio, con l’unico affondo nella pri-
ma metà dell’Ottocento, da quello che è,
a parere di chi scrive, l’incipit per anto-
nomasia della nostra narrativa ottocen-
tesca, il più famoso, il più dibattuto, l’im-
prescindibile «quel ramo del lago di
Como, che volge a mezzogiorno»4, così
popolare da renderne superflua la tra-
scrizione, così sorprendentemente cine-
matografico – Umberto Eco docet5 –,
benché concepito assai prima dell’av-
vento del medium e del consolidarsi
delle succitate teorie riguardo all’effetto
rebound dal cinema alla letteratura, da
giustificarne la collocazione in prima bat-
tuta e l’ennesima rilettura, eludendo il ri-
schio di prevedibilità, in virtù della di-
versa chiave interpretativa adottata.
Manzoni, infatti, regista ante litteram, ha
sapientemente effettuato una serie di
“movimenti di macchina” per descrive-
re il paesaggio ai suoi lettori con indub-
bia efficacia: dapprima un travelling ae-
reo, dall’alto verso il basso, vestendo i
panni di un cosiddetto “narratore olim-
pico” (alla Kubrick di Shining, per in-
tenderci, che non a caso, con lo sguardo
incombente, suggerisce “presenze” tra-
scendenti), poi la discesa graduale della
macchina da presa, che, inquadrate le
«due catene non interrotte di monti», ar-
riva a mostrare i «nuovi golfi e […] nuo-
vi seni» della celebre chiusura chiastica,
parallelamente alla restrizione del cam-
po visivo, fino a calare al dettaglio to-
pografico; poi, il successivo improvviso
ribaltamento del punto di vista e della di-
rezione della ripresa, dal basso verso l’al-
to, che dovrà rendere simbolicamente
l’inquietante presenza dei bravi in atte-
sa del pavido curato (e, subito dopo, il suo
shock emozionale). Una sequenza da
antologia, che, illustrata con questi rife-
rimenti, potrà persuadere a proseguire
nella lettura anche il più refrattario dei
giovanissimi studenti, avvezzo com’è a ri-
conoscersi nei linguaggi del cinema più
che in quelli della letteratura.
Figure femminili: non solo LuciaAndando un po’ più avanti sull’asse
cronologico, analizziamo ora incipit del
tutto diversi, che non partecipano di ana-
loghe suggestioni precorritrici, ma che
adottano altre strategie di scrittura, a co-
minciare da questa auto-presentazione
che riassume epigrammaticamente la
vita e la morte, senza trascurare il ruo-
lo di una Provvidenza carica di mistero:
Io nacqui veneziano ai 18 ottobre 1775,giorno dell’Evangelista San Luca; e mor-rò per la grazia di Dio italiano quando lovorrà quella Provvidenza che governa mi-steriosamente il mondo.
Siamo alle soglie dell’unità d’Italia (è il
1857, anche se l’opera sarà pubblicata po-
stuma, nel 1867) e dobbiamo all’ispira-
zione di un giovane patriota garibaldino,
che morirà appena trentenne in un oscu-
ro naufragio, il romanzo di non univo-
ca classificazione da cui è tratta la cita-
zione, un romanzo che racconta eventi
storici, ma incentra la narrazione sulla mi-
crostoria del protagonista, io narrante
(Carlo Altoviti, immaginato come “ot-
tuagenario” al fine di renderne autorevoli
gli ammaestramenti che scaturiscono
dalle sue molteplici esperienze), che fil-
tra gli avvenimenti, di cui è stato testi-
mone, attraverso la sua memoria indivi-
duale e ha perso l’onniscienza, dono
precipuo del narratore in focalizzazione
zero del romanzo storico manzoniano. Il
titolo, Le confessioni di un Italiano6, già an-
nuncia al lettore che sarà messo a parte
dello svelamento di una lunga vita, vis-
suta all’insegna dell’orgoglio d’apparte-
nenza all’Italia, e l’“io” in apertura sem-
bra esplodere con forza, col voler ribadire
di esserci, con la propria specificità, pri-
ma del riferimento alla morte vicina, che
chiuderà per sempre il cerchio. Nessuna
avvisaglia, per ora, di quello che si rive-
lerà, nel viaggio interiore che il protago-
nista compirà per richiamare alla me-
moria tutte le esperienze autobiografiche
che intende raccontare, il vero fulcro di
tutta la vicenda: l’amore per la Pisana, la
cugina dai «begli occhioni castani e dai
lunghissimi capelli, che a tre anni cono-
sceva già certe sue arti da donnetta per in-
vaghire di sé»; un amore sbocciato già nel-
l’infanzia, più forte, duraturo e travolgente
di ogni altra passione. Si dovrà aspetta-
re la fine della presentazione di quel
«giovane di cuore», malgrado l’età, pri-
ma di arrivare, in analessi, al castello di
Fratta, con la sua «bizzarra figura, [coi
suoi] spigoli, cantoni, rientrature e spor-
genze da far meglio contenti tutti i pun-
ti cardinali ed intermedi della rosa dei
venti», e soprattutto con la sua piccola pa-
drona, capricciosa fino all’eccesso, volu-
bile, appassionata, moderna, irritante e se-
ducente figura femminile, lontana anni
luce dalla coeva Lucia. L’incipit, insom-
ma, con le lapidarie informazioni e il tri-
4. Molte sono le pellicole ispirate al capolavoro manzo-niano, di cui è opportuno ricordare almeno il film del1941, per la regia di Mario Camerini, lo sceneggiato te-levisivo del 1967, con le prestigiose firme di RiccardoBacchelli e Sandro Bolchi, per la regia di quest’ultimo(pietra miliare della produzione colta della RAI, conPaola Pitagora nei panni di una convincente Lucia eNino Castelnuovo in quelli di Renzo) e infine la fiction apuntate del 1989, firmata da Salvatore Nocita, che affidaad attori stranieri i ruoli dei protagonisti, e ad AlbertoSordi e Franco Nero quelli, rispettivamente, di don Ab-bondio e di Fra’ Cristoforo.5. U. Eco, Il segno della poesia e il segno della prosa, in Id.,Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, Milano 1985. 6. Prima edizione: I. Nievo, Le confessioni di un ottuage-nario, Le Monnier, Firenze 1867. Si ricorda lo sceneggiatotelevisivo del 1960, La Pisana, firmato da Giacomo Vac-cari e preparato dalla RAI per festeggiare il centenariodell’unità d’Italia (coincidente con quello della mortedello stesso Nievo): già nel trailer, l’immagine di unabandiera sfilacciata e sventolante dichiarava l’intento divalorizzare i motivi patriottici e i sacrifici compiuti perconseguire l’agognata unità. L’operazione risultò co-stosa e impegnativa, ma riuscì anche grazie all’ottimocast di attori di teatro. La messa in onda della prima pun-tata fu anticipata da un documentario di Nelo Risi sullavita, breve e intensa, dello scrittore.
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PERCORSI DIDATTICI
plice cenno a elementi religiosi (san
Luca, Dio, la Provvidenza), sembra voler
solennizzare, come una sorta di piccolo
proclama, il racconto della vita intensa,
che l’io del narratore omodiegetico si ac-
cinge a ripercorrere. Lo scopo è quello di
destare l’attenzione del lettore e di coin-
volgerlo, quale destinatario della testi-
monianza che sta raccogliendo, avvi-
sandolo subito che si tratta di una storia
seria e importante, “vera” come può ap-
parire in letteratura, scritta per poter «re-
care qualche utilità»: non potranno non
esserci, perciò, esperienze interessanti
in una vita che si prospetta a suo modo
esemplare (o almeno degna di essere tra-
mandata), e difatti la parte più avvincente
verrà di lì a poco, nelle ampie sequenze
dedicate all’infanzia altalenante tra gio-
ia e tormento, nel «prelodato castello» di
Fratta, di cui il giovane Nievo ha antici-
pato, nel prologo, che presenterà ogni abi-
tante (padroni, servitori, ospiti e… gat-
ti), non senza un leggero velo d’ironia.
Vita da stregaSe il ritratto della Pisana è di certo uno
dei più intensi, quello che segue, posto
nell’incipit e rapidamente tratteggiato con
la forza icastica dell’ipotiposi, è tra i più
indimenticabili che siano stati scritti:
Era alta, magra, aveva soltanto un seno fer-mo e vigoroso da bruna – e pure non erapiù giovane –; era pallida come se avessesempre addosso la malaria, e su quel pal-lore due occhi grandi così, e delle labbrafresche e rosse, che vi mangiavano.
È la gnà Pina, o meglio è la Lupa7,
come la chiamavano al villaggio «perché
non era sazia giammai – di nulla», que-
sta donna conturbante che avanza im-
pettita e impudente sulla scena della nar-
rativa italiana, con una carica di sen-
sualità senza pari. Siamo nel 1880 e Ver-
ga dà alla luce Vita dei campi, subli-
mando la poetica verista con alcune no-
velle che, nel corto respiro che la tipo-
logia di composizione concedeva loro,
racchiudono capolavori. L’incipit è una
vorticosa descrizione di tratti fisici, che
preannunciano l’importanza rivestita
nella storia dall’attrazione dei sensi: la
Lupa si offre allo sguardo del lettore con
tutta la sua avvenenza mediterranea, di
bruna procace, che aggiunge allo ste-
reotipo degli occhi neri come il carbo-
ne e delle labbra accese (ma nel suo caso
colpisce l’allusione alla ferina cupidigia
del «che vi mangiavano») una statura in-
solita, che l’avvicina alle dee, per quan-
to degli inferi, come i successivi richia-
mi al demonio suggeriranno. La storia,
giocata sui significati simbolici dello spa-
zio e di un clima rovente come le pas-
sioni, e sostenuta dagli stilemi veristi e
da una lingua vivace, frutto di accorta ri-
cerca e grande creatività da parte del-
l’autore, forgiata sulla mentalità di una
società arcaica, superstiziosa e cinica, è
bellissima e arcinota, ma l’incipit gioca
un ruolo determinante. Più dell’attacco
de I Malavoglia (1881), sebbene magi-
stralmente evocativo di un passato fau-
sto che prelude all’interminabile se-
quela di sciagure e di toccanti e uma-
nissimi sentimenti («Un tempo i Mala-
voglia erano stati numerosi come i sas-
si della strada vecchia di Trezza […], tut-
ti buona e brava gente di mare, proprio
all’opposto di quel che sembrava dal no-
mignolo»), perfino più di quello del Ma-
stro don Gesualdo (1889), che pure col-
pisce con l’atmosfera sonnolenta e ovat-
tata di un’alba contadina, in cui l’ordi-
ne iniziale è infranto dalla turbativa (sug-
gestioni del romanzo “giallo”) costitui-
ta da uno scampanio «che chiamava aiu-
to», di manzoniana memoria, e dalla rea-
zione corale della gente che «scappava
fuori in camicia, gridando: – Terremo-
to! San Gregorio Magno!», l’incipit de La
Lupa seduce il lettore, stregato da que-
sta figura femminile che si presenta su-
bito anomala e trasgressiva, letteraria-
mente “perfetta”, nel ruolo della perversa
che troverà nel finale la meritata puni-
zione alla sua corruzione, andando in-
contro alla morte, altera e irredimibile,
coerentemente col suo personaggio.
C’era… ancora una volta– C’era una volta…– Un re! – diranno subito i miei piccolilettori. – No, ragazzi, avete sbagliato. C’era unavolta un pezzo di legno.
La formula incipitaria del “romanzo per
ragazzi” tra i più noti al mondo si in-
canala nella falsariga della fiaba, con le
fresche battute di un ipotetico dialogo
tra l’autore e i suoi “piccoli lettori”, ma
soprattutto con quella collocazione in
un tempo remoto e indeterminato che
dispone l’animo al rapimento e, forse,
al godimento di qualche raro momen-
to di sana regressione all’infanzia, quan-
do, per lo più nei panni di ascoltatori di
fantastiche narrazioni che qualche adul-
to illuminato leggeva, non si era anco-
ra chiamati dal narratore a reiterati
confronti, a sfide intellettuali, a reagire
prontamente alle “provocazioni” di
continui rimandi, ineludibili e certo pia-
cevolmente intriganti giochi citazioni-
stici e ci si poteva consentire di abbas-
sare la guardia e abbandonarsi a un
ascolto estatico e passivo, a quella “va-
canza dell’intelletto” che solo la sereni-
tà dell’infanzia e l’affabulazione posso-
no concedere. E d’altra parte Le avven-
ture di Pinocchio. Storia di un burattino
7. Pubblicata per la prima volta nella «Rivista nuova diScienze, Lettere e Arti», nel febbraio 1880, entrò nellaraccolta Vita dei campi: G. Verga, Vita dei campi, FratelliTreves, Milano 1880. Almeno due le versioni cinemato-grafiche da menzionare: quella attualizzante di AlbertoLattuada (1953), ambientata negli anni cinquanta e spo-stata in Basilicata, e quella di Gabriele Lavia (1996), piùfedele al verismo del testo verghiano, ma stroncata dallacritica, che stigmatizzava sia gli stereotipi triti adottatiper rendere la seduttività sia l’improponibilità del lin-guaggio dialettale prescelto.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI58
PERCORSI DIDATTICI
(1883)8 è molto più che una semplice
fiaba (l’ingresso a pieno titolo nella let-
teratura tout court si deve al favorevo-
le giudizio di Benedetto Croce, ma la cri-
tica anche recente ha consacrato l’ope-
ra di Collodi quale “paradigma esi-
stenziale”, riconoscendole valore uni-
versale) e pare non fosse neppure de-
stinata ai ragazzi, malgrado l’attacco de-
pistante: la sequenza dell’impiccagione
a una quercia della scapestrata mario-
netta avrebbe dovuto costituire, a quan-
to pare, il vero finale della storia, solo in
un secondo tempo prolungata con
quella della metamorfosi di Pinocchio
che diventa un ragazzino in carne ed
ossa, pronto per altre avventure, pro-
babilmente meno rocambolesche e av-
vincenti di quelle precedenti (l’essersi
umanizzato e, dunque, responsabilizzato
lo priveranno della licenza di affranca-
mento dalle regole del vivere civile),
come se il “principio di realtà” fosse su-
bentrato al “principio di piacere”. Una
fiaba, dunque, che vanta ipotesti illustri
(si pensi, ad esempio, alla trasforma-
zione in asino, di ascendenza apuleiana
o alle scene in cui si avvertono influen-
ze del romanzo gotico) e che, nella sua
struttura progressiva, si accosta ai mo-
duli del romanzo di formazione; una fia-
ba che viene anche studiata come un’al-
legoria della società moderna e del pe-
renne conflitto tra istinto e ragione, o
come un testo “educativo”, in virtù di
una morale fondata su una giustizia im-
manente che premia il bene e castiga il
male (ma c’è chi, viceversa, nota l’iro-
nia rivolta alla pedagogia imperante);
una fiaba, in ogni caso, aperta da un in-
cipit che continua a “tentare” lettori (e
scrittori) di tutte le età.
Languori fin de siècle L’anno moriva, assai dolcemente. Il soledi San Silvestro spandeva non so che te-por velato, mollissimo, aureo, quasi pri-maverile, nel cel di Roma.
È l’incipit inconfondibile de Il piacere9, che
Gabriele D’Annunzio dava alle stampe nel
1889, in contemporanea con il nuovo ro-
manzo della trilogia dei Vinti, il verghiano
Mastro don Gesualdo (anch’esso edito dai
Fratelli Treves), ma da questo distante
quanto meno per tipologia e progetto di
scrittura, di certo discordanti dagli statuti
del verismo e del positivismo diffusi. Un
attacco dolcissimo, grazie alla scelta di
un’aggettivazione avvolgente, sinestetica,
inebriante come la precoce primavera che
si affaccia sulla città eterna, voluttuosa-
mente dischiusa alla vita che rinasce coi
primi tepori. «L’anno moriva»: l’imper-
fetto durativo cristallizza una condizio-
ne, fissa un tempo in quello approssi-
mativo di una fine d’anno in cui il pro-
tagonista, Andrea Sperelli, «aspettava
nelle sue stanze un’amante», come si
leggerà poco dopo. Si avverte un senso
di indolente languidezza nell’attacco del
romanzo che costituisce, com’è noto,
una sorta di manifesto dell’estetismo e di
repertorio del decadentismo: Andrea
Sperelli, in qualche misura alter ego del-
l’autore, convinto, come questi, che la vita
debba essere un’opera d’arte e per que-
sto si adopera, è un dandy raffinato,
educato all’arte e amante del bello e del
piacere, contraddittorio (ora falso e cinico,
ora sensibile e premuroso) e ambiguo, con
molte analogie col suo creatore, il quale
si serve di ricercate strategie narrative per
circuire il lettore e tenerne desta l’atten-
zione, malgrado la trama poco dinami-
ca del romanzo, che ruota soprattutto in-
torno alle storie d’amore di Andrea e al
fallimento, dovuto alla sua doppiezza e a
un lapsus che lo tradirà, anche dell’uni-
ca che avrebbe potuto dargli tanto. D’An-
nunzio, infatti, punta sul lessico e sulla sua
musicalità, come già l’incipit dimostra,
con l’uso di superlativi, del troncamen-
to dei vocaboli, di un susseguirsi di
espressioni eleganti e auliche, di forme
inusuali (subito dopo dirà «romorio»,
«empiendo», «imagine»); ricorre a de-
scrizioni minuziose, specie di oggetti
preziosi, e si affida, inoltre, a un narratore
onnisciente che rivela al lettore la psico-
logia del protagonista, immergendosi
nella sua interiorità (con focalizzazione
sul personaggio), che è un po’ anche la
propria. Altro significativo espediente
dell’intreccio l’analessi, che riavvicina
memorie lontane, come si è visto, ap-
punto, nell’incipit analizzato, di accura-
ta elaborazione formale e sicura presa su
un pubblico disposto a lasciarsi traspor-
tare dalla soavità della lingua.
«La mala razza» degli UzedaGiuseppe, dinanzi al portone, trastullava ilsuo bambino, cullandolo sulle braccia,mostrandogli lo scudo marmoreo infissoal sommo dell’arco, la rastrelliera inchio-
8. Prima edizione: C. Collodi, Le avventure di Pinocchio,Libreria Paggi, Firenze 1883. Il romanzo di Pinocchiouscirà in Gran Bretagna nel 1891, accolto da recensionientusiastiche, quindi negli Stati Uniti nel 1898 (ma è del1901 la prima edizione tradotta e illustrata da ameri-cani). Il successo si propaga e Pinocchio diventa uno deilibri più amati dai bambini americani, ma arriverà anchein Islanda e in paesi asiatici. Nel 1902 viene pubblicatoin Francia e nel 1905 in Germania (è un rifacimento in-titolato Le avventure di Nocciolo di Pigna, Pinolo). Tra il1911 e la Seconda Guerra mondiale si hanno traduzioniin tutte le lingue europee, e numerose nelle lingue deglialtri continenti, Oceania compresa. Nel 1936 Aleksej Ni-kolaevi Tolstoj ne firmò una rielaborazione originale inrusso. Una ricerca di Luigi Santucci degli anni settantacontava 220 traduzioni in lingue diverse (dunque Pi-nocchio era il romanzo della letteratura italiana più lettoal mondo), mentre stime più aggiornate (anni Novanta),fornite dalla Fondazione Nazionale Carlo Collodi e suf-fragate da dati dell’Unesco, attestano a 240 il numerodelle traduzioni. Impossibile calcolare le vendite, anchea causa dei diritti d’autore scaduti da oltre settant’anni.Cfr. G. Gasparini. La corsa di Pinocchio,Vita e Pensiero, Mi-lano 1997. Per completezza di informazione, vanno ci-tate le diciassette versioni cinematografiche, tra cuiquella celeberrima della Disney del 1940, che propagòla fama del burattino toscano fin nei recessi del mondo.In Italia, degni di nota lo sceneggiato televisivo del 1972,di Luigi Comencini, e il costosissimo film del 2002 diRoberto Benigni, se non altro per i rumors suscitati inAmerica, dove fu accolto da vivaci contestazioni e rariapprezzamenti (almeno per le scenografie, i costumi e lacolonna sonora di Nicola Piovani). 9. Prima edizione: G. D’Annunzio, Il piacere, Fratelli Treveseditori, Milano 1889. Almeno due sono le versioni cine-matografiche tratte dal romanzo di D’Annunzio: nel1918, ad opera di Amleto Palermi, e nel 1985, il film “li-beramente tratto” da Joe D’Amato (pseudonimo di Ari-stide Massaccesi), prolifico regista che si connoterà poicome autore soprattutto di pellicole horror o hard.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 59
PERCORSI DIDATTICI
data sul muro del vestibolo dove, ai tem-pi antichi, i lanzi del principe appendeva-no le alabarde, quando s’udì e crebbe ra-pidamente il rumore d’una carrozza arri-vante a tutta carriera; e prima ancora cheegli avesse il tempo di voltarsi, un legnet-to sul quale pareva fosse nevicato, dalla tan-ta polvere, e il cui cavallo era tutto spumantedi sudore, entrò nella corte con assordan-te fracasso. Dall’arco del secondo cortile af-facciaronsi servi e famigli: Baldassarre, ilmaestro di casa, schiuse la vetrata della log-gia del secondo piano intanto che SalvatoreCerra precipitavasi dalla carrozzella con unalettera in mano. «Don Salvatore?… Chec’è?… Che novità!…» Ma quegli fece colbraccio un gesto disperato e salì le scale aquattro a quattro. Giuseppe, col bambinoancora in collo, era rimasto intontito, noncomprendendo; ma sua moglie, la mogliedi Baldassarre, la lavandaia, una quantitàd’altri servi già circondavano la carrozzel-la, si segnavano udendo il cocchiere nar-rare, interrottamente: «La principessa…Morta d’un colpo… Stamattina, mentre la-vavo la carrozza…».
È il 1894 quando viene pubblicato il
corposo romanzo I Viceré10 di Federico De
Roberto, napoletano di nascita ma cata-
nese d’adozione, una vita trascorsa sotto
un giogo materno monopolizzante, una
vocazione di scrittore così intensa da
portarlo a reinventarsi più volte la scrit-
tura11 per inseguire un successo mai in re-
altà arrivato, se non postumo e a lungo
contrastato, malgrado i meriti e il favore
di Verga e Capuana. Oggi finalmente la
critica, affrancata dal severo giudizio di Be-
nedetto Croce che reputava il romanzo
pesante e privo di poeticità, forse perfino
grata all’autore per non aver mistificato
la realtà e aver tramandato un quadro del
disfacimento di una famiglia-simbolo
della nobiltà siciliana senza edulcorazio-
ni, considera un autentico capolavoro
questo poderoso affresco di un’epoca, quei
circa trent’anni (1855-1882) cruciali per
la trasformazione dell’Italia in regno
unito, analizzati da un osservatorio uni-
co qual è la Sicilia. Nell’isola, infatti, si re-
gistrano con più concentrata vivacità sia
i trasformismi (e, insieme, il conformi-
smo) della classe aristocratica, abituata a
cadere in piedi e a riciclarsi (come fanno
appunto gli Uzeda, che, viceré all’epoca
spagnola e perciò soprannominati così,
riescono a rimanere al potere, malgrado
i cambiamenti, esprimendo per più legi-
slature, con il duca d’Oragua, un rap-
presentante della loro famiglia al nuovo
Parlamento italiano) sia la cocente delu-
sione degli esiti di un risorgimento che
non appare innovativo nei fatti, visto che
sembra solo sostituire alle vecchie diver-
se forme di predominio. Il libro offre uno
spaccato storico-sociale e un’ampia, me-
ticolosa, impietosa galleria di personag-
gi (una quindicina), che alternano ruoli
da comparse a ruoli da protagonisti, di
volta in volta che le loro storie vengono
messe a fuoco dal narratore onnisciente,
abile burattinaio intenzionato a non
omettere, capace di un cinismo tale ver-
so le sue “creature” da mostrare la gran-
de famiglia degli Uzeda, principi di Fran-
calanza, come un’accozzaglia di perso-
naggi avidi, stravaganti, tarati, vero cam-
pionario di manifestazioni di prepoten-
za, grettezza e di follia, più o meno latente,
frutto di consanguineità malate e di de-
generazioni: «una manata di pazzi tutti
quanti!», come sentenzia don Blasco12, fra-
tello minore del duca d’Oragua, frate per
forza, a causa del maggiorascato. E l’in-
cipit dà già un piccolo assaggio della vo-
lontà dell’autore di popolare il suo rac-
conto, formicolante di personaggi anche
minori che rimarranno ai margini, nel-
la storia come nella vita, con questo ac-
correre dei servi, delle donne e donnicciole
intorno alla carrozzella, della quale s’è udi-
to il rumore crescente mentre arriva «a
tutta carriera» (poco dopo, invece, la
percezione sarà visiva, con il dettaglio del-
la schiuma alla bocca del cavallo forzato
a una “folle” corsa). Il perché di tanta pre-
cipitazione è presto detto: è morta la vec-
chia principessa Teresa e l’annuncio va
dato tempestivamente al parentado. Un
lutto paventato e che turberà i congiun-
ti a causa della grande devozione filiale e
familiare alla matriarca? Tutt’altro: desi-
derio spasmodico, e a lungo represso (la
principessa muore novantenne) di sape-
re come sarà spartita la ricca eredità. Co-
mincia con una fine, dunque, il roman-
zo di De Roberto, da cui si dipanerà l’in-
tera vicenda, fitta di punti di vista. Il let-
tore dovrà armarsi di pazienza nell’avviarsi
a un percorso non breve e neppure sem-
plice, sebbene il narratore lo agevoli, sia
adottando la lingua italiana, senza con-
cessioni al dialetto, se non eccezional-
mente e con pudore, sia adoperando
tecniche, in qualche modo emule del-
l’epica omerica, che lo aiutano a memo-
rizzare i vari personaggi, a ognuno dei
quali è assegnata qualche riconoscibile pe-
culiarità. Alla fine, tuttavia, il lettore,
forse con un po’ d’amaro in bocca per l’as-
senza totale di remissione da parte del nar-
ratore per il mondo raccontato e di sen-
si di colpa dei personaggi, resterà affasci-
nato dalla storia di questa saga familiare.
Rossana CavaliereLiceo Scientifico “Gramsci-Keynes”, Prato
10. Prima edizione: F. De Roberto, I Viceré, Casa editriceGalli, Milano 1894. Dal romanzo è stata tratto il filmomonimo di Roberto Faenza, nel 2007: nel cast figuranoLando Buzzanca, nel ruolo del principe Giacomo e Ales-sandro Preziosi in quelli di Consalvo. Cameo di LuciaBosè, nei panni di Ferdinanda. Il film avrebbe voluto rin-novare i fasti del Gattopardo di Visconti, ma non ha ot-tenuto gli stessi consensi. 11. Mi riferisco, per esempio, al cambio di rotta tra il ro-manzo oggetto della nostra analisi e la raccolta di «no-velline», contenute nei Processi verbali (1889), che sono«la nuda e impersonale trascrizione di piccole comme-die e di piccoli drammi colti sul vivo», come lo stesso DeRoberto scrive nella prefazione, nella quale teorizza lasua adesione al verismo attraverso la predilezione as-soluta per la scena di tipo teatrale, cosicché la psicologiadei personaggi possa emergere dalle parole e dai com-portamenti e non da sequenze illustrative e statichedella narrazione. Prima edizione: F. De Roberto, Processiverbali, Galli, Milano 1890. 12. Il personaggio di don Blasco è tra i più vivaci e fuoridagli schemi del romanzo. L’offesa totalizzante è pro-nunciata da lui. F. De Roberto, Romanzi, novelle e saggi,Mondadori, Milano 1984, p. 487.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI60
PERCORSI DIDATTICI
Il filone etnografico costituisce un
aspetto importante nell’ambito del-
la storiografia del mondo antico,
greco e romano, e si manifesta soprat-
tutto in digressioni di entità variabile che
affiorano in opere propriamente stori-
che, ma parzialmente anche in singole
opere monografiche dedicate a questo
tema. Nella storia della storiografia an-
tica, un approccio più specificamente et-
nografico è spesso stato avvertito come
alternativo alla storiografia rigidamen-
te pragmatica o evenemenziale, quella
cioè che individua come opzione privi-
legiata la narrazione di “fatti” di carat-
tere politico e militare; tuttavia, le due
impostazioni, per quanto per certi aspet-
ti tra loro concorrenziali, in parte han-
no trovato in alcune opere sintesi effi-
caci o quantomeno originali.
Se, com’è noto, la storiografia greca non
nasce come creazione di un singolo in-
dividuo ex nihilo, essa trova il suo pro-
genitore nell’epica omerica, che pre-
senta numerosi excursus in cui si fon-
dono interessi geografici ed etnografici
(per citare un solo esempio tra i più noti,
la descrizione del paese e della stirpe dei
Ciclopi in Od. IX 105 ss.). Rimanendo
nell’ambito della poesia arcaica, il Cata-
logo delle donne (pseudo?)esiodeo regi-
stra figure appartenenti a diversi ceppi et-
nici, con riferimenti a genti che risiedo-
no anche agli estremi confini dell’orbe.
Passando alla prosa della prima metà del
V secolo, merita un accenno il Periplo del
cartaginese Annone che, descrivendo il
suo viaggio per mare lungo la costa oc-
cidentale dell’Africa, registra alcune
sintetiche notizie sulle popolazioni, pa-
cifiche o bellicose, che incontra, intrec-
ciandole con informazioni di carattere
geografico e naturalistico. Tra i cosiddetti
“logografi” elencati da Dionigi di Ali-
carnasso (De Thuc. V), un gruppo ete-
rogeneo per interessi e parzialmente
anche per collocazione cronologica (pre
o post erodotei), ci si limiterà a citare
Ecateo di Mileto ed Ellanico di Lesbo: il
primo, nella sua Periegesi, una sorta di
commento alla Carta geografica da lui
stesso compilata, fornisce notizie non
solo su confini, città, villaggi, fiumi,
monti e porti, ma anche sulle popola-
zioni di ciascun territorio e sui loro usi
e costumi; e alcuni dei titoli del poligrafo
Ellanico, come le Storie di fondazioni di
popoli e città o Sui popoli o ancora i Co-
stumi dei barbari, così come quelli del-
le sue opere dedicate alla presentazione
storico-etnografica di singole regioni del-
la Grecia o del mondo barbarico (ad
esempio, per la prima categoria Argoli-
ká, Boiotiká…, per la seconda Lydiaká,
Persiká…), testimoniano evidenti inte-
ressi di carattere etnografico.
Nonostante nel proemio Erodoto di-
chiari che oggetto della sua indagine sto-
rica saranno i fatti (érga), grandissimo
è lo spazio da lui dedicato a interessi
prettamente etnografici, che sono dis-
seminati lungo tutta l’opera: ad esempio,
Storiografia ed etnografiaPaolo A. Tuci
L’ARTICOLO, CHE VA A COMPLETARE IL DOSSIER DI “STUDI” TERRE LONTANE E POPOLI STRANIERI NELLA GEOPOLITICA
ANTICA, PUBBLICATO SU NS 2 (OTTOBRE 2013), SI SOFFERMA SUGLI INTERESSI ETNOGRAFICI DEGLI ANTICHI, CHE
EMERGONO NELLA STORIOGRAFIA FIN DAI SUOI ALBORI.
sui Babilonesi (I, 178-200), sugli Etiopi
(III, 20-24), sugli Sciti (IV, 142-151), sul-
la Libia (IV, 145-199). Ma il caso forse
più noto è quello dell’Egitto, cui Erodoto
dedica interamente il II libro, prima dif-
fondendosi su notizie relative alla geo-
grafia e alla geologia del paese (5-34), poi
sugli usi e costumi degli Egiziani (35-98)
e solo infine sulla storia vera e propria
della regione (99-182). Il taglio etno-
grafico di Erodoto risente molto del suo
interesse per le “meraviglie” (thomá-
sia/thomastá), come si nota fin dal pri-
mo paragrafo dedicato ai costumi degli
Egiziani (II, 35): qui egli scrive che su
questo tema si diffonderà in particola-
ri, perché esso presenta moltissime “me-
raviglie”; gli Egiziani, infatti, non solo vi-
vono in una regione dal clima assai di-
verso da quello del resto del mondo abi-
tato, ma anche si caratterizzano per usi
differenti e spesso opposti rispetto agli
altri uomini (ad esempio, in Egitto le
donne frequentano il mercato e si de-
dicano al commercio, mentre gli uomi-
ni stanno a casa e tessono, spingendo
però la trama non verso l’alto, come le
altre popolazioni, bensì verso il basso).
La descrizione etnografica dell’Egitto
prosegue con i capitoli dedicati alla re-
ligione, ai suoi riti, alle divinità e agli ani-
mali sacri (37-76), una sezione signifi-
cativa dei quali pone a confronto l’Era-
cle greco e quello egiziano (43-45); e poi
con un’asistematica rassegna di usi de-
gli Egiziani (distinti secondo due diverse
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 61
PERCORSI DIDATTICI
J.G. Moitte, Erodoto (1806), Parigi, Museo del Louvre.
aree geografiche: 77-91 e 92-98), ad
esempio sull’alimentazione, sulla me-
dicina, sull’abbigliamento, sul matri-
monio; Erodoto chiosa significativa-
mente che essi si servono dei costumi de-
gli avi, senza acquisire niente di nuovo
(79, 1). Da queste sommarie osserva-
zioni, è chiaro che l’impostazione et-
nografica erodotea fa perno sul concet-
to di alterità e contemporaneamente
mira a stupire il lettore con notizie che
lo catapultano in un mondo completa-
mente diverso da quello abituale.
Se Tucidide opta rigidamente per la
storiografia pragmatica, riservando spa-
zi pressoché irrilevanti a osservazioni di
altro genere (come il breve accenno
sull’arretratezza degli Etoli in III, 94, 4-
5), con Ctesia di Cnido, autore di Persi-
ká e Indiká, torna in primo piano l’in-
teresse etnografico, con un taglio espres-
samente polemico nei confronti di Ero-
doto, ma probabilmente con attendibi-
lità inferiore a quella del predecessore.
Passando alla storiografia greca di IV se-
colo, ci si potrebbe limitare a tre riferi-
menti, a titolo esemplificativo. Con il Se-
nofonte dell’Anabasi (ma anche di al-
cune pagine delle Elleniche, soprattut-
to nei libri III-IV), l’etnografia torna
come gusto dell’esotico, nei diffusi cen-
ni ai costumi dei popoli dell’impero per-
siano con cui lo storico viene a contat-
to. Anche le Filippiche di Teopompo
contenevano un excursus, che copriva
l’intero VIII libro, dedicato alle “mera-
viglie”, anche se non è facile stabilire
quanta parte potessero avere al suo in-
terno le notizie di carattere etnografico.
Un genere diverso di etnografia, rivol-
to non verso l’esterno ma verso l’inter-
no del mondo greco, è fortemente legato
alla nascita della storiografia locale,
che noi conosciamo soprattutto attra-
verso le opere degli autori di Attiká o At-
thides, cioè di “cose ateniesi”: tramite
un’indagine che verte ad esempio sui to- J.G. Moitte, Erodoto (1806), Parigi, Museo del Louvre.
ponimi, sugli usi locali e sui riti sacri, si
sceglie una singola regione del mondo
greco come oggetto di indagine non di-
versamente da quanto era stato fatto
fino a quel momento per le diverse aree
anelleniche.
È evidente che l’impresa di Alessandro
cambia completamente l’orizzonte de-
gli interessi geo-etnografici: excursus di
questo genere sono contenuti in quasi
tutti gli alessandrografi, come ad esem-
pio Callistene di Olinto (cfr. FGrHist 124
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI62
PERCORSI DIDATTICI
F 25, 28, 34, 41), Nearco di Creta (apud
Arr. Ind. 16; 17, 2; 38, 1), Clitarco di Ales-
sandria (FGrHist 137 F 2, 9-10, 14, 16,
19, 34), facendosi soprattutto in que-
st’ultimo, che del resto non partecipò alla
spedizione, sempre più fantasiosi e inat-
tendibili. In età ellenistica, poi, si assi-
ste a un fiorire di opere su singole regioni
oggetto delle conquiste di Alessandro, i
cui autori sono non solo greci, ma an-
che locali che si servono della lingua gre-
ca: ad esempio, il greco Ecateo di Abdera
inserisce nei suoi Aigyptiaká un excur-
sus sugli Ebrei (apud Diod. XL 3); tito-
lo uguale ha l’opera dell’egiziano Ma-
netone di Sebennito, finalizzata a di-
vulgare presso i Greci la conoscenza del-
la civiltà e della religione dell’Egitto; e
Megastene, di origine anatolica, nei
suoi Indiká si diffonde in una descrizione
dei costumi e della società indiana e
principalmente della popolazione dei
Prasi, presso la quale era stato inviato
come ambasciatore da re Seleuco I.
Scendendo al II secolo a.C. e accanto-
nando l’ingombrante figura di Polibio,
autore tucidideo anche nella sua opzio-
ne esclusiva per la storiografia pragma-
tica, incline se mai a interessi geografi-
ci piuttosto che etnografici (ad esempio,
sull’Italia in II 14-17), merita una men-
zione particolare Agatarchide di Cnido,
autore tra l’altro di un’opera etnografi-
ca intitolata Sul mar Rosso: in una sezione
conservata da Diodoro (III, 14-24), egli
descrive tribù tanto selvagge e primiti-
ve da non essersi mai nemmeno deno-
minate (vengono da lui identificate in
base a ciò di cui si nutrivano: mangia-
tori di pesce, di legno, di cicale…) e da
caratterizzarsi per l’assenza di qualsia-
si organizzazione sociale norma etica.
Non si può concludere la sezione greca
con un accenno a Posidonio di Rodi,
considerato oggi uno dei principali et-
nografi dell’antichità non solo per le sue
dettagliate descrizioni di luoghi e di po-
poli, ma anche per la lucida capacità di
cogliere di costoro i tratti caratteristici;
egli contrappone la semplicità dello sti-
le di vita primitivo alla raffinata e de-
cadente civiltà ellenistica, secondo un ta-
glio che sarà poi proprio di Cesare e di
Tacito. Famose ad esempio sono le sue
descrizioni dei Cimbri (FGrHist 87 F 13)
e soprattutto dei Celti (F 15).
Per quanto riguarda la storiografia ro-
mana di età repubblicana, interessi et-
nografici affiorano già nei frammenti del-
le Origines di Catone, ma sono testimo-
niati più ampiamente solo a partire dal
Bellum Iugurthinum di Sallustio: sebbe-
ne l’opera sia volta a rappresentare più
la corruzione di Roma che la realtà afri-
cana, un excursus (XVII-XIX), che l’au-
tore dice dipendente da fonti puniche che
gli sono state tradotte, è dedicato al ter-
ritorio e alle popolazioni africane. Sal-
lustio ne riporta gli usi che marcano l’al-
terità rispetto al mondo romano e in so-
stanza le dipinge come primitive, al fine
di giustificare l’intervento civilizzatore
delle legioni di Roma. Un caso per cer-
ti aspetti analogo a quello delle opere di
storiografia locale greca è costituito dal-
Dionigi di Alicarnasso in un’incisione ottocentesca.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 63
PERCORSI DIDATTICI
Passando alla storiografia di età imperiale
e tralasciando l’opera di Livio, che pre-
senta interesse limitato per gli aspetti et-
nografici, e quella in greco di Flavio Giu-
seppe, che pure con la Guerra giudaica e
le Antichità giudaiche mira a far conoscere
al pubblico internazionale la storia e la
cultura del popolo ebraico, bisogna con-
cludere con la figura di Tacito. L’Agrico-
la contiene una digressione sulla Bri-
tannia (X-XIII), che almeno parzial-
mente dipende da quella cesariana, e, co-
m’è uso, parte dalla descrizione geogra-
fica per approdare alla caratterizzazione
degli abitanti: prima nel loro aspetto fi-
sico e nella forza d’animo, spesso a con-
fronto coi Galli, e poi nella struttura so-
ciale e nello stile di vita. La Germania è
una monografia di carattere geo-etno-
grafico, ripartita in due sezioni: nella pri-
ma si dà conto in linea generale della re-
gione e dei suoi abitanti, nella seconda si
passano in rassegna le singole tribù. È evi-
dente l’ambivalenza dell’atteggiamento
di Tacito, che da un lato ammira i Ger-
mani, non senza tratti di idealizzazione,
per la loro semplicità e austerità di vita,
simili come sono ai Romani “di una vol-
ta”, non ancora corrotti dal lusso, ma dal-
l’altro nutre nei loro confronti un senso
di superiorità per gli aspetti più “primi-
tivi” del loro mondo. La curiosità di Ta-
cito per i Germani non è, tuttavia, pu-
ramente disinteressata: egli scrive da un
lato con implicita polemica nei confronti
della degenerazione della Roma dei suoi
giorni e dall’altro con la consapevolez-
za del potenziale pericolo per l’impero
rappresentato dalle popolazioni germa-
niche. Nella seconda parte dell’opera, Ta-
cito ha l’intelligenza politica di cogliere
il fatto che la salvezza di una Roma or-
mai imbelle dipende più che altro dalla
rivalità fra tribù tra loro divise e pertanto
deboli.
Paolo A. TuciUniversità Europea di Roma
la produzione antiquaria di Varrone
che, soprattutto nelle Antiquitates e nel
De vita populi Romani, fornisce abbon-
danti informazioni sulla civiltà romana.
I Commentarii di Cesare e soprattutto
quelli De bello Gallico mostrano l’im-
portanza che l’autore accordava alla di-
mensione etnografica: notissimi sono gli
excursus sulla Britannia e i suoi abitan-
ti (V, 12-14), sui costumi dei Galli (VI,
11-20: su fazioni interne, classi sociali,
druidi, cavalieri, religione, diritto fami-
liare) e dei Germani (21-23: su occupa-
zioni quotidiane, struttura sociale…, ta-
lora in modalità comparativa con i pre-
cedenti capitoli sui Galli; cfr. anche 24).
Qui l’etnografia non è né indugio nel gu-
sto dell’“esotico”, né albagia del Roma-
no, bensì reale interesse, frutto di espe-
rienza diretta, per la ricostruzione del-
la società con cui si viene a contatto, la
cui conoscenza è ritenuta premessa in-
dispensabile per l’opportuna condu-
zione della campagna militare.
BIBLIOGRAFIA
In generale:E. Dench, Ethnography and History, in J. Marincola, A Companion to Greek and Roman Historiography, II, Malden 2007, pp. 493-503.
Sull’etnografia greca:C. Jacob, Géographie et ethnographie en Grèce ancienne, Paris 1991. A. Dihle, Etnografia ellenistica, in F. Prontera, Geografia e geografi nel mondo antico. Guida storica e critica, Roma-Bari, 1983, pp. 173-199.
In particolare:M. Martin, Aspetti etnografici nel trattato «Sul Mar Rosso» di Agatarchide di Cnido, “Itineraria” VII (2008), pp. 1-13. A. Zambrini, Idealizzazione di una terra. Etnografia e propaganda negli Indiká di Megastene, in Modes de contacts et processus de tran-sformation dans les sociétés antiques. Actes du colloque de Cortone (24-30 mai 1981), Roma 1983, pp. 1105-1118.M. Albaladejo Vivero, La India en la literatura griega: un estudio etnográfico, Alcalá de Henares 2005.S. Giurovich, Considerazioni sul procedere etnografico posidoniano: «ethos» vs «historia»: l’esempio dei Galli Scordisci e dei Galli Tectosagi,RSA XXXV (2005), pp. 23-52.C. Vassallo, Etnografia e religione nelle «Storie» di Erodoto, «Hormos» VI-VII (2004-2005), pp. 103-192.
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In particolare:M.E. Consoli, I Germani nella visione militare e politica di Cesare e di Tacito, Napoli, 2008.B. Bell, The Value of Julius Caesar as Ethnographer, «Akroterion» XXXVIII (1993), pp. 104-112.R. Oniga, Sallustio e l’etnografia, Pisa, 1995.L.A. García Moreno, Etnografía y paradoxografía en la historiografía latina de la República y época augustea, «Polis» VI (1994), pp. 75-92.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI64
PERCORSI DIDATTICI
Un grande merito dei testi rous-
seauiani risiede nel non lasciare
indifferenti i lettori. Le cause di
questo fatto sono molteplici e riguarda-
no sia l’abilità provocatoria della penna del
Ginevrino sia la sua capacità di spiazza-
re le attese dei critici e degli ammiratori.
Non a caso, il Discours sur les sciences et les
artes, che gli permette di vincere il primo
premio all’Accademia di Digione e gli
dona una certa notorietà, presenta una tesi
che si allontana dallo spirito illuminista
dei tempi e considera il progresso re-
sponsabile della degenerazione dei co-
stumi umani. Lo stesso Émile crea scon-
certo e polemiche tra i contemporanei per
la difficoltà di definire uno scritto che, oc-
cupandosi di educazione, intreccia diversi
generi letterari dal romanzo, al trattato fi-
losofico, alla speculazione teologica nel-
le pagine della Profession de foi du vicai-
re savoyard. Anche negli anni della ma-
turità, Rousseau pubblicando le Confes-
sions disillude i lettori che si aspettavano
la narrazione, magari intrisa di dettagli in-
triganti, dei rapporti e dei litigi con gli in-
tellettuali del tempo e si trovano ad ascol-
tare, in gran parte, le vicende della fan-
ciullezza e della giovinezza dello scritto-
re, piene di dettagli quotidiani e privati1.
La capacità rousseauiana di generare rea-
zioni ha prodotto due ampie linee in-
terpretative che, se pur con notevoli di-
versità di analisi e di approfondimento,
hanno costituito le basi della ricezione
rousseauiana. Vi è stato chi ha celebra-
to la sua opera come anticipatrice di al-
cuni aspetti della modernità. Per esem-
pio, Kant e successivamente Cassirer in-
dividuano nelle sue riflessioni una so-
luzione moderna al problema dell’ori-
gine del male2. Una soluzione che, par-
tendo dall’idea che l’uomo è origina-
riamente buono, colloca il negativo nei
legami politici e sociali. Nel Novecento,
Levi-Strauss afferma che «Rousseau
non si è limitato a prevedere l’etnologia:
l’ha fondata»3, contribuendo a porre in
chiave moderna il rapporto tra natura e
cultura. Al contrario, molti intellettua-
li, a partire già dal Settecento, lo hanno
criticato come un conservatore che
vuole rifiutare la modernità e riportare
l’umanità a una situazione di primitiva
ignoranza. Infatti, Voltaire afferma, a
proposito dell’idea di stato di natura
rousseauiano, che: «mai si è spiegata tan-
ta intelligenza nel volerci ridurre a be-
stie. Leggendovi vien voglia di cammi-
nare a quattro zampe»4. In anni più re-
centi, l’ammirazione nostalgica di Rous-
seau per le civiltà classiche, per l’idea di
patria e gli stati chiusi e di dimensioni
ridotte come la polis greca o la repub-
blica di Ginevra ha spinto alcuni inter-
preti a intravedere nella sua proposta po-
litica le radici teoriche di regimi auto-
ritari e, addirittura, totalitari.
J.-J. Rousseau e l’inganno totalitarioAndrea Potestio
IL PENSIERO POLITICO DI ROUSSEAU SVILUPPA TEMI AUTORITARI E ANTICIPA LE TESI DEL TOTALITARISMO
NOVECENTESCO? QUESTA INTERPRETAZIONE, SE PUR CON MODALITÀ DI APPROFONDIMENTO DIVERSE, CONTINUA A
ESSERE SOSTENUTA DA MOLTI LETTORI DELL’OPERA ROUSSEAUIANA. IL SEGUENTE ARTICOLO CERCA DI SMASCHERARE
L’INGANNO PRESENTE IN QUESTA ARGOMENTAZIONE, CHE SI BASA SU UNA RIDUZIONE DEI TEMI ANTROPOLOGICI,METAFISICI E PEDAGOGICI CHE APPARTENGONO ALLA RIFLESSIONE DEL GINEVRINO.
Questo breve scritto, pur senza poter
prendere in considerazione le diverse fasi
ed evoluzioni della ricezione dell’opera
rousseauiana, si propone di mettere in
evidenza l’inganno presente nell’inter-
pretazione, tornata alla moda anche
negli ultimi anni5, che sostiene l’autori-
tarismo del pensiero rousseauiano. Un
inganno che si genera in quanto Rous-
seau viene considerato, esclusivamente,
come un filosofo politico riducendo, in
questo modo, la complessità e la pro-
fondità della sua riflessione. Ciò non si-
1. Sulle aspettative deluse dei contemporanei e sulleloro reazioni alla pubblicazione delle Confessions si vedaR. Trousson, Eziologia del ricordo d’infanzia e di giovinezzain J.-J. Rousseau, in G. Bertagna (ed.), Il “pedagogista”Rousseau tra metafisica, etica e politica, Editrice la Scuola,Brescia 2013, pp. 65-74.2. I. Kant, Fragmente [Bemerkungen in den “Beobachtun-gen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen”], VIII inKant’s gesammelte Schriften, Akademie der Wissen-schaften, Berlin 1900, XX, pp. 58-59, Annotazioni alle os-servazioni sul bello e sul sublime, Guida, Napoli 2002, p.80. La tesi kantiana viene ripresa e articolata da E. Cassi-rer, Il problema Gian Giacomo Rousseau, La Nuova Italia,Firenze 1938. Il saggio pubblicato nel 1932 è la rielabo-razione di una conferenza che Cassirer ha tenuto il 27febbraio 1932 a Parigi dal titolo L’unité dans l’oeuvre deJ.-J. Rousseau.3. C. Lévi-Strauss, Jean Jacques Rousseau, fondateur dessciences de l’homme, in AA.VV., Jean-Jacques Rousseau,Editions de La Baconnière, Neuchâtel 1962, tr. it. JeanJacques Rousseau, fondatore delle scienze dell’uomo, inRazza e storia e altri studi di antropologia, Einaudi, Torino1967, pp. 86-87.4. Voltaire, Lettera a J.-J. Rousseau, 1755, in R.A. Leigh(ed.), Correspondance complète, Voltaire Foundation, Ox-fordshire, vol. III, n. 317, pp. 156-157.5. Si veda il recente volume di G. Bedeschi, Il rifiuto dellamodernità. Saggio su Jean-Jacques Rousseau, Le Lettere,Firenze 2010.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 65
gnifica non riconoscere la presenza di ar-
gomenti conservatori nell’impostazione
rousseauiana, la problematicità del con-
cetto di volontà generale e l’ambiguità
della sua critica all’idea di rappresentanza
democratica, ma permette di sottolineare
anche l’impossibilità di interpretare gli
snodi teorici rousseauiani senza prendere
in considerazione, in modo completo, la
sua visione metafisica, etica, antropolo-
gica e pedagogica.
L’interpretazione totalitariaIl primo a parlare, in modo esplicito, di
“totalitarismo” nel pensiero politico di
Rousseau è Talmon che in The origins of
totalitarian democracy, pubblicato nel
1952, afferma che «il sovrano di Rous-
seau rappresenta la volontà generale
esternata e […] ha essenzialmente lo
stesso significato dell’ordine naturale ar-
monioso. Unendo questo concetto con
il principio della sovranità popolare, e
dell’autoespressione popolare, Rousse-
au diede origine alla democrazia totali-
taria»6. La tesi dello studioso polacco che
associa la proposta politica rousseauia-
na alla mentalità totalitaria genera mol-
te polemiche tra gli interpreti roussea-
uiani, anche per l’uso del termine “to-
talitario” che viene utilizzato per de-
scrivere i regimi nazifasciti e comunisti
del Novecento e sembra molto lontano
dallo spirito settecentesco. Ma l’accusa
di Talmon, al di là di alcune forzature e
semplificazioni, riprende in realtà un
tema già impiegato da diversi autori li-
berali. Per esempio, nei Principi di poli-
tica del 1815, Constant sostiene che il Gi-
nevrino ha concesso all’idea di volontà
generale un potere enorme che, di con-
seguenza, viola i limiti che ogni sovra-
nità popolare dovrebbe comunque man-
tenere in una democrazia liberale: i di-
ritti delle minoranze e la dimensione pri-
vata dei singoli che non infrangono le
leggi. Per questa ragione, afferma che il
Contrat social è «divenuto il più terribi-
le sussidio di ogni specie di dispotismo»7.
La volontà generale viene considerata,
secondo questa interpretazione, un
concetto astratto e ideologico che, non
avendo limiti e contrappesi istituzionali,
si trasforma in un potere assoluto che
non rispetta la libertà dei singoli e del-
le minoranze e, di conseguenza, nega la
stessa idea di libertà democratica che
Rousseau sostiene di voler difendere.
L’ammirazione rousseauiana per le co-
munità chiuse e agricole del passato lo
spinge ad avere come ideale politico non
la democrazia liberale moderna, ma uno
stato in cui il cittadino si identifica com-
pletamente con i valori etici della pro-
pria nazione. I sostenitori di questa
tesi possono, sicuramente, trovare nel
Contrat social diverse argomentazioni
per avvalorare la loro interpretazione, tra
cui la critica al principio di rappresen-
tanza e agli scambi commerciali. Ma a
guardare più in profondità, Constant e
Talmon, in modi e tempi differenti, non
stanno solo giudicando negativamente
la proposta politica rousseauiana, ma
stanno anche sostenendo, pur senza
dichiararlo apertamente, che la mo-
dernità della sua opera risiede nell’af-
fermare il primato e l’autosufficienza
della dimensione politica. E su questo
punto si costituisce l’inganno di questa
concezione.
6. J.L. Talmon, The origins of totalitarian democracy, Sec-ker & Warburg, London 1952; tr. it. Le origini della demo-crazia totalitaria, il Mulino, Bologna 1967, p. 63. La tesi diTalmon viene ripresa anche da Crocker, Rousseau’s so-cial contract: an interpretative essay, Cleveland 1968; tr.it. Il contratto sociale di Rousseau. Saggio interpretativo,SEI, Torino 1971.7. B. Constant, Principes de politique, Imprimerie de Hoc-quet, Paris 1815; tr. it. Principi di politica, Editori Riuniti,Roma 1970. Una tesi simile è espressa da E. Faguet, Dix-huitième siècle. Études littéraires, Boivin éditeurs, Paris1892, pp. 398-413.
Statua di Jean-Jacques Rousseau a Ginevra.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI66
PERCORSI DIDATTICI
Il recente lavoro di Bedeschi Il rifiuto del-
la modernità. Saggio su Jean-Jacques
Rousseau ricade nello stesso equivoco.
L’autore dichiara che la finalità del pen-
siero filosofico e politico rousseauiano
consiste nella «restaurazione della virtù
etico-politica della città antica, virtù che
è stata dissolta dallo spirito mercantile
della modernità»8. Per questa ragione, la
riflessione del Ginevrino propone l’idea-
le di una società chiusa che si oppone alla
modernità. Anche questa posizione teo-
rica, pur legittimata da molti passi del
Contrat social e dei due Discours, na-
sconde una marcata sopravvalutazione
del sapere politico in Rousseau. Un sa-
pere che riesce, se ben governato, a
portare l’uomo verso la costruzione di
legami sociali positivi che possono eli-
minare le contraddizioni e le ingiustizie.
Ciò che Bedeschi identifica come lo
spirito anti-moderno di Rousseau, in re-
altà, costituisce uno snodo teorico fon-
damentale nella sua concezione che,
attraverso le categorie metafisiche, eti-
che e pedagogiche – che non possono
mai essere espunte dalla sua riflessione
– mette in evidenza i limiti delle norme
e delle strategie politiche umane.
Per smascherare l’ingannoLa tesi che sostiene il totalitarismo del
pensiero politico rousseauiano si basa sul
seguente ragionamento. Se l’uomo è
buono nella sua essenza più profonda,
il male si genera nel momento in cui si
costruiscono i legami sociali e politici. Ne
consegue che il negativo ha una posi-
zione esterna e marginale e che, non es-
sendo strutturale, può essere eliminato
dalle comunità umane attraverso una ge-
stione ordinata ed equilibrata della so-
cietà. In altre parole, è la politica che può
risolvere positivamente, attraverso le
regole democratiche, il problema del
male e dell’ingiustizia. Pur senza argo-
mentare esplicitamente in questa dire-
zione, tutti i sostenitori della presenza di
autoritarismo nella proposta roussea-
uiana affermano che la sua modernità ri-
siede nell’aver colto l’importanza del-
l’autonomia della politica che, liberata
dai legami teologici ed etici, può elimi-
nare l’ineguaglianza della società, ma il
suo errore consiste, forse proprio perché
uomo settecentesco che non ha vissuto
l’epoca delle rivoluzioni, nel concepire
una democrazia chiusa, nostalgica e
profondamente illiberale. In questo
schema interpretativo, l’inganno si ma-
nifesta nel considerare Rousseau come
colui che ha concepito la politica, in un
senso illusoriamente moderno, come
l’unico strumento possibile per risolve-
re i mali della società umana.
È semplice dimostrare, come hanno fat-
to tra gli altri Derathè e Starobinski9, l’in-
fluenza delle categorie metafisiche, in par-
ticolare quelle dei sistemi seicenteschi di
Descartes, Leibniz, del giusnaturalismo
e dei classici come Aristotele e Platone,
nella formulazione delle teorie politiche
di Rousseau. L’importanza di principi
come la natura, la libertà, l’armonia e l’es-
senza positiva dell’uomo agiscono, co-
stantemente, nelle opere del Ginevrino
e testimoniano che non è possibile se-
parare la riflessione politica dalla con-
cezione teologica, metafisica e antropo-
logica. In questo senso, in Rousseau
non è possibile parlare di una scienza po-
litica che genera regole e finalità in
modo autonomo rispetto agli altri saperi
e che, quindi, è in grado di risolvere il
problema della disuguaglianza e del-
l’ingiustizia, formulando una teoria de-
mocratica equilibrata e razionale.
La soluzione politica del Contrat social
è solo una tra le possibili vie che il Gi-
nevrino indica per migliorare l’armonia
Il frontespizio del Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini.
8. G. Bedeschi, Il rifiuto della modernità. Saggio su Jean-Jacques Rousseau, cit., p. 25.9. Derathé scrive un testo molto approfondito sullefonti del pensiero politico rousseauiano. J. Derathé,Jean-Jacques Rousseau et la science politique de sontemps, PUF, Paris 1950; tr. it. Rousseau e la scienza politicadel suo tempo, il Mulino, Bologna 1993. Si veda anche J.Starobinski, La transparence et l’obstacle, Gallimard, Paris1971; tr. it. Jean-Jacques Rousseau. La trasparenza e l’osta-colo, il Mulino, Bologna 1982.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 67
PERCORSI DIDATTICI
tra i legami umani. Una via che deve, ne-
cessariamente, trovare il suo completa-
mento nella proposta educativa del-
l’Émile. Infatti, solo Emilio, alla fine del
suo progetto formativo, sarà l’uomo li-
bero in grado di firmare autonoma-
mente il contratto sociale e di rispettarne,
in modo responsabile, i vincoli. Ma
Emilio non rappresenta l’uomo sette-
centesco10, ormai degenerato dalle cat-
tive consuetudini della società e nem-
meno il cittadino della polis classica che
si identifica completamente con i valo-
ri della patria. Emilio, nella finzione del
romanzo, è l’uomo che è in grado di ri-
conoscere e manifestare pienamente la
propria libertà e bontà originaria, ar-
monizzando l’amour de soi, che fonda la
sua identità soggettiva, con la pietà, che
permette una relazione positiva con gli
altri. Solo al termine di un lungo per-
corso educativo interiore e relazionale
con il suo gouverneur, il giovane potrà di-
ventare «un benefattore, un modello»11
per i suoi contemporanei, senza accet-
tare passivamente i dispositivi sociali, ma
cercando di innovarli e trasformarli
positivamente.
La ripresa dei temi politici nell’Émile e
il tentativo di avviare un processo for-
mativo privato per superare i dispositi-
vi della società pubblica permettono di
comprendere l’intreccio tra la dimen-
sione educativa e quella politica e la pre-
senza, in entrambe, di una tensione eti-
ca e trascendente, volta al riconoscimento
e alla manifestazione dell’essenza posi-
tiva dell’uomo. Ciò che Rousseau coglie
non è l’autosufficienza e il carattere
messianico o autoritario della politica,
ma il suo irreversibile scacco e l’impos-
sibilità per ogni proposta politico-sociale
di risolvere pienamente la tensione tra la
libertà irriducibile del singolo e l’im-
perfezione della sua natura. Ossia, come
sostiene Gatti: «permane una tensione
essenziale tra pensare en philosophe le
condizioni della società ben ordinata e
realizzarla concretamente. O, in altri
termini, ci sarà sempre un vuoto non col-
mabile tra l’imperfezione della natura
umana e la ricercata, ma non ottenuta (e
non ottenibile?), perfezione dell’artificio
politico. […] Siamo al cuore del coté im-
politico di Rousseau»12. Ogni artificio po-
litico, anche lo stesso contratto, che si
pone la finalità di una società giusta e or-
dinata genera, inevitabilmente, i dispo-
sitivi e le consuetudini che producono le
ingiustizie e ineguaglianze.
Nel pensiero di Rousseau il male, il ne-
gativo e il supplemento agiscono già al-
l’interno dell’ideale naturale in diverse
forme: norme, legami sociali, debolez-
za umana13. Ne consegue che la propo-
sta politica rousseauiana può essere in-
terpretata, in modo adeguato, solo alla
luce delle categorie antropologiche e me-
tafisiche presenti nel suo pensiero. Ca-
tegorie teoriche che affermano l’essen-
za positiva dell’uomo, ma anche la sua
debolezza e l’imperfezione di ogni pro-
getto politico-sociale che può, per i limiti
della natura umana, trasformarsi in un
dispositivo autoritario e degenerativo. La
fecondità del pensiero rousseauiano ri-
siede proprio nell’aver colto questo
aspetto impolitico, che nega l’autosuf-
ficienza e il messianismo politico che
l’interpretazione totalitaria del Contrat
social sembra voler affermare.
Andrea PotestioUniversità di Bergamo
10. In questo modo Rousseau definisce l’uomo borghesesettecentesco: «sempre in contraddizione con se stesso,sempre oscillante tra inclinazioni e doveri, non sarà mainé uomo né cittadino, non sarà buono né per sé né per glialtri; sarà un uomo dei nostri tempi» (J.-J. Rousseau, Émileou de l’éducation, in Œuvres complètes, Bibliothèque de laPléiade, Editions Gallimard, Paris 1959-1995, vol. IV; tr. it.Emilio, Mondadori, Milano 1997, p. 12).11. Ibi, p. 670.12. R. Gatti, Rousseau. Il male e la politica, Studium, Roma2012, pp. 229-230.13. Su questi temi, mi permetto di rimandare a A. Pote-stio, Un altro Émile. Rilettura di Rousseau, Editrice LaScuola, Brescia 2013.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI68
PERCORSI DIDATTICI
La riflessione sulla differenza ses-
suale si è affacciata tardi alla co-
scienza contemporanea e alla ri-
flessione filosofica del nostro tempo. Nel-
la tradizione del pensiero filosofico gre-
co, in modo specifico nella filosofia
parmenidea, possiamo rintracciare,
come elemento distintivo, l’incapacità di
pensare il femminile nella sua origina-
rietà ossia di tematizzare il problema del
soggetto umano, che, nella prospettiva
di una buona parte della filosofia nove-
centesca della differenza sessuale, non è
uno ma due1. Alla filosofia parmenidea
ne va certamente addebitata un’incom-
prensione teoretica con conseguenze
negative in ordine all’assunzione di ciò
che identico non è e di ciò che, nel suo
essere diverso, rivela spazi di autonomia
e di specificità e chiede di essere rico-
nosciuto per ciò che è.
La riflessione su quella alterità, che è rap-
presentata dalla donna, è, infatti, uno dei
temi più recenti e complessi del pensie-
ro contemporaneo, probabilmente, come
reputa Luce Irigaray, riprendendo alcu-
ne affermazioni di Heidegger, si tratta di
«uno dei problemi o il problema che la
nostra epoca ha da pensare»2. Seguen-
do a grandi linee interpretative i luoghi
classici del pensiero filosofico occiden-
tale l’aporia che si presenta è quella di
concettualizzare la differenza in quan-
to tale, prima ancora di poter rendere ra-
gione proprio di quella forma specifica
della differenza che è rappresentata,
appunto, dalla differenza sessuale.
Ora, il tema della differenza in ambito
filosofico non rivela uno spazio auto-
nomo di teorizzazioni, ma si sviluppa in
stretta relazione con il percorso teoreti-
co dell’identità. Per queste ragioni, la
comprensione della differenza non è pos-
sibile se non in stretto rapporto con il
problema dell’Identico, dal momento
che essa viene inizialmente tematizza-
ta come non-identità. In questo senso,
è pertanto ragionevole sostenere che il
problema in questione richieda di esse-
re posto tenendo in considerazione in-
nanzitutto quanto la formulazione par-
menidea delle aporie sull’essere ha con-
sentito di rilevare.
L’aporia strutturale della filosofia par-
menidea è, infatti, pensare contestual-
mente l’essere e il non essere cioè am-
mettere come principio che l’essere si
può differenziare e perciò può dar luo-
go alla molteplicità. Il non essere è de-
finibile, per il filosofo di Elea, pura ne-
gatività, infatti Parmenide intende il
vero come principio di determinazione
dell’essere in quanto essere, cogliendo,
nell’esercizio del theorein, ciò che ari-
stotelicamente è l’essere in quanto esse-
re. Ciò che “non è” non è pensabile e non
è conoscibile; tale aspetto è codificato dal
principio parmenideo secondo cui iden-
tico è il pensare e l’essere o, in altri ter-
mini, il pensare e il pensare che è, per-
Filosofia della differenza sessualeDalla logica dell’uno alla logica dualeMaria Rita Fedele
LO STUDIO PROPONE SPUNTI DI RIFLESSIONE SULLA PERCEZIONE DELLA DIFFERENZA DI GENERE DAL PENSIERO
FILOSOFICO GRECO AL DIBATTITO NOVECENTESCO.
tanto sul piano logico la formulazione
del principio A=A ci dice che l’essere è
e il non essere non è3.
La teorizzazione parmenidea dell’esse-
re pone l’identità a fondamento del
vero e riduce la differenza a puro non es-
sere, dunque a non vero, dando così ori-
gine al complesso problema che ri-
guarda la determinazione dell’alterità.
L’Altro, infatti, inteso come diverso dal-
l’identico, viene posto sempre in rela-
zione a “ciò che non è”. Secondo la logica
di Parmenide pensare la differenza come
non essere ossia come ciò che è diverso
dall’essere significa pensare il puro nul-
la, la negatività assoluta. Per Parmenide,
infatti, pensare ed essere coincidono
ossia pensare è identico a pensare che “è”,
dal momento che “tutto ciò che è” è es-
sere, pertanto pensare vuol dire pensa-
re l’essere.
1. AA.VV., Diotima. Il pensiero della differenza sessuale, LaTartaruga, Milano 2003, p. 10 e anche L. Irigaray, Esseredue, Bollati Boringhieri, Torino 1994 e E. Musi, Tornare alleorigini come principio etico universale, in Id., Concepire lanascita, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 31-44.2. L. Irigaray, Etica della differenza sessuale, trad. it. di L.Muraro e A. Leoni, Feltrinelli, Milano 1985, p. 11; R. Mor-dacci, Il conflitto della differenza. Il femminile e l’irriduci-bilità della cura, in L. Palazzani (a cura di), La bioetica e ladifferenza di genere, Studium, Roma 2007, pp.165-179; E.Ruspini, Le identità di genere, Carocci 2006; F. Giustinelli,Letteratura e pregiudizio. Diversità e identità nella culturagreca, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2007.3. G. Calogero, Studi sull’Eleatismo, Parmenide, La NuovaItalia, Firenze 1977, pp. 1-67 e anche M. Untersteiner (acura di), Parmenide, Testimonianze e frammenti, La NuovaItalia, Firenze 1979; G. Reale, Storia della filosofia antica,Vita e Pensiero, Milano 1989, vol. I, pp.119-131.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 69
PERCORSI DIDATTICI
L’impianto filosofico parmenideo, come
rileva Adriana Cavarero, ha costituito per
lungo tempo la logica dominante del-
l’indifferenza verso la diversità e ha for-
nito la cornice concettuale entro cui è
stata pensata la coppia dei binomi
uomo/donna, mente/corpo, ego/alter-
ego; questo aspetto non deve sorpren-
derci se consideriamo che la logica par-
menidea suggerisce che pensare le cose
significa poterle dire come sono e non
come non sono4. L’Autrice, infatti, af-
ferma che pensare l’essere uomo e l’es-
sere donna come qualcosa di originario
richieda una concettualizzazione duale,
«un duale assoluto, una sorta di para-
dosso per la logica dell’uno-molti5.
Ora, pur essendo il concetto di alterità
più comprensivo ed esteso del concetto
di alterità sessuale, l’esperienza originaria
dell’alterità rimanda all’esperienza del-
l’alterità sessuale. Luce Irigaray, afferma,
infatti, che «il primo altro che incontro
è il corpo della madre» ed è questa l’al-
terità che compare nella primissima re-
lazione con il corpo dell’altro6. Secondo
l’impostazione che le categorie tradi-
zionalmente hanno dato alla logica clas-
sica risalente a Parmenide, la differenza
sessuale è stata pensata in termini di op-
posizione e di contraddizione, un’ope-
razione teoretica che ha ricondotto l’al-
terità all’Uno-Identico, senza lasciare
spazio alla distanza e all’asimmetria
dell’altro sesso7. Il tema dell’alterità po-
stula invece la comprensione della dif-
ferenza, perché l’altro per essere “Altro”,
è da ritenersi originariamente autono-
mo e indipendente dall’Uno. Il ricono-
scimento della differenza è una via ob-
bligata per rendere possibile l’afferma-
zione dell’Altro; essa è misura della vi-
cinanza e della lontananza tra l’Uno e
l’Altro e spazio intrascendibile della
non omologazione tra uomo e donna.
L’alterità pertanto è sempre portatrice di
una differenza quando pone una corre-
lazione tra due cose non semplicemen-
te diverse ma appunto differenti. Il ter-
mine greco diaforß che rendiamo in ita-
liano con la parola “differenza” indica la
determinazione dell’alterità, invece il ter-
mine “alterità” non implica automati-
camente alcuna determinazione, infat-
ti una cosa è dire che «a è altro da b» e
un’altra cosa è dire che «a è differente
da b nel colore, nella forma, o secondo
qualche altro aspetto»8. A ben precisa-
re, questo particolare è stato sottolineato
da Aristotele che ha introdotto una so-
stanziale differenza semantica tra i due
termini “diverso” e “differente”. La dif-
ferenza, per Aristotele, non implica
un’alterità assoluta, poiché nella diffe-
renza l’alterità è sempre in relazione con
l’identità e viceversa. Nel libro X della
Metafisica, Aristotele afferma che «ciò che
è differente è differente da qualcosa per
qualcosa di determinato, di guisa che deve
esserci qualcosa di identico per cui diffe-
riscono» in modo che sono differenti
«quelle cose che, pur essendo diverse,
sono per qualche aspetto identiche»9.
Ora, ritornando alla questione parme-
nidea dell’identico è possibile rilevare che
la conseguenza di un pensiero basato sul-
l’identità originaria è che l’Altro, non es-
sendo per sé, risulta ottenuto per nega-
zione dell’identico cui viene ricondotto;
si tratta, in altri termini, dell’on sferico di
Parmenide, che è immobile, identico in
ogni sua parte, e nega così che l’essere pos-
sa differenziarsi e divenire molteplice.
Se la differenza sessuale è pensata in que-
sto quadro concettuale, allora l’essere don-
na è codificato solo in termini di Altro ri-
spetto all’Uno, all’essere maschile e, in
questo senso, secondo quanto afferma Si-
mone De Beauvoir, la donna rappresen-
ta il secondo sesso10. La donna cioè è po-
sta come l’Altro dell’Uno che si afferma
Uno; rispetto al sesso maschile, che è pri-
mo e originario, il sesso femminile, ri-
mane circoscritto in quella secondarietà
che gli deriva dall’essere posta irrime-
diabilmente come Altro e si vede defini-
to come sesso secondario e inessenziale11.
Da una logica, come quella parmenidea,
deriva dunque l’eliminazione della ori-
ginaria differenza tra l’identico e il diverso.
La cancellazione del femminile ha avu-
to pesanti ripercussioni sotto il profilo
storico, da cui emerge, come dato carat-
teristico di molte epoche storiche, l’aspet-
to peculiare di una cultura patriarcale,
E. Burne Jones, Pan e Psiche (1872-74),collezione privata.
4. Cfr. A. Cavarero, Per una teoria della differenza sessuale,in AA.VV., Diotima. Il pensiero della differenza sessuale, cit.,pp. 44-45.5. Ibidem.6. L. Irigaray, Essere due, cit., p. 39.7. W. Tommasi, La tentazione del neutro, in AA.VV., Dio-tima. Il pensiero della differenza, cit., p. 92; A. Cavarero, F.Restaino, Le filosofie femministe, Mondadori, Milano2002, pp. 78-85; G. Salonia, Femminile e maschile: vicendee significati di un’irriducibile diversità, in R. G. Romano (acura di), Ciclo di vita e dinamiche educative nella societàpostmoderna, Franco Angeli, Milano 2004, pp. 54-65.8. N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Utet, Torino 1971,pp. 230-231.9. Cfr. Aristotele, La Metafisica, trad. it. di G. Reale, Lof-fredo, Napoli 1978, Libro X, 3, 1054 b 20-25 e Libro V, 9,1018, pp. 10-15.10. S. De Beauvoir, Il secondo sesso, trad. it. di R. Cantini eM. Andreose, Il Saggiatore, Milano 20002, pp. 13-28.11. Ibi, pp. 16-17.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI70
PERCORSI DIDATTICI
che ha privato la donna del riconosci-
mento della sua soggettività. La donna,
riprendendo il pensiero di De Beauvoir,
«si determina e si differenzia in relazio-
ne all’uomo, non l’uomo in relazione a
lei; è l’inessenziale di fronte all’essenzia-
le. Egli è il Soggetto, l’Assoluto: lei è l’Al-
tro»12. Anche la tematizzazione della
differenza sessuale puntualizzata da Ca-
varero si mostra in sintonia con quan-
to già espresso da De Beauvoir. La ne-
gazione della originaria differenza con-
duce a definire l’alterità della donna come
negatività, perciò, come afferma Cava-
rero, «la donna è l’altro dell’uomo e l’uo-
mo l’altro della donna, ma di un’alteri-
tà diversamente fondata: l’alterità del-
l’uomo nei confronti della donna si
fonda infatti nell’uomo stesso che, po-
nendosi preliminarmente come univer-
sale, ammette se stesso come uno dei due
sessi nei quali l’universale si specifica13.
L’alterità della donna viene invece a
fondarsi in negativo poiché «l’universa-
le-neutro uomo, particolarizzandosi
come “uomo” sessuato al maschile si tro-
va di fronte l’uomo sessuato al femmi-
nile, e lo dice appunto altro a partire da
sé»14. Sicché, l’universale neutro “Uomo”
mette tra parentesi le determinazioni in-
carnate del soggetto, tanto che il termi-
ne “uomo” finisce con il riferirsi sia al ma-
schio che alla femmina, in quanto facenti
parte entrambi del genere umano, ma in
una sorta di unità indistinta delle parti;
il soggetto umano “Uomo” tende ad uni-
versalizzarsi e a farsi essenza dell’umano,
comprendendo e inglobando anche l’al-
terità femminile, di per sé irriducibile e
originaria, in un tutto indifferenziato15.
Relativamente alla considerazione del-
la differenza e riprendendo le riflessio-
ni aristoteliche precedentemente ri-
chiamate, occorre rilevare che essa non
può non presupporre la determinazio-
ne che è la condizione necessaria e in-
dispensabile per intenderla sia sul pia-
no ontologico che logico. In questo sen-
so, nota bene Cavarero quando afferma
che la differenza impone di guardare ad
un soggetto che è incarnato in tutto lo
splendore della sua finitezza cioè a un
soggetto che non è neutro ma sessuato.
Non tutte le filosofie novecentesche del-
la differenza sessuale concordano su
questo punto, reputando che la teoria
duale della differenza sessuale abbia fi-
nito con l’annullare tutte le altre diffe-
renze. Per fare alcune esemplificazioni del
discorso ci si può richiamare al termine
Queer cui ricorre, per esempio, De Lau-
retis per indicare un soggetto eccentri-
co, fluido, mai chiaramente definito
sessualmente o al post-gender cui ricor-
re Butler per indicare un soggetto in cui
il sesso è fluido, continuamente nego-
ziabile sulla base di scelte revocabili e mai
definitive, o ancora al Cyborg, cui ricor-
re Haraway per indicare un soggetto ases-
suato che appartiene al mondo post-ge-
nere e non ha niente da spartire con la
bisessualità o la differenza sessuale16.
Queste nuove alternative del modo di
concepire la soggettività sono ovvia-
mente favorite dall’orizzonte post-strut-
turalista, che caratterizza molte espres-
sioni radicali del pensiero contempora-
neo, e si collocano nella cornice proble-
matica della postmodernità, in cui si
annulla la dualità/differenza dei sessi per
far posto ad una soggettività indifferen-
ziata o, in altri termini, post-umana.
Ora, omettendo il dato ontologico del-
la differenza sessuale, cioè quella deter-
minazione dell’essere che è inscritta nel
corpo, queste filosofie alternative del
soggetto dimenticano che il corpo uma-
no presenta proprietà strutturali inva-
rianti, costitutive e non accidentali del-
l’essere donna e dell’essere uomo, pro-
prietà che rappresentano la grammati-
ca universale del corpo e allo stesso
tempo la sua ambivalenza: da un lato il
corpo è sempre una “realtà per noi”, ma
dall’altro lato è sempre una “realtà in sé”
cioè ha un suo modo strutturale di essere
che è indipendente da chi lo vive e lo per-
cepisce. Riguardo al problema dell’alte-
rità, le teorie postmoderne della diffe-
renza sessuale sembrano, quindi, di-
menticare che un’alterità senza deter-
minazioni è impossibile come alterità
stessa sia sul piano ontologico che logi-
co e poiché l’alterità è pensabile sul fon-
damento dell’essere, senza quelle deter-
minazioni d’essere che la costituiscono,
avrebbe il nulla come contenuto e in al-
tri termini sarebbe quindi impossibile.
Maria Rita FedeleUniversità degli Studi di Palermo
12. Ibi, p. 16. Il corsivo è mio.13. A. Cavarero, Per una teoria della differenza sessuale,in AA.VV., Diotima. Il pensiero della differenza sessuale, cit.,p. 44.14. Ibidem.15. Ibi , p. 45.16. T. De Lauretis, Soggetti eccentrici, Feltrinelli, Milano1999, pp. 104-106; J. Butler, Corpi che contano. I limiti di-scorsivi del sesso, trad. it. di S. Capelli, Feltrinelli, Milano 1996;D. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopoli-tiche del corpo, trad. it. di L. Borghi, Feltrinelli, Milano 1995.
Sul sito della rivista http://nuovasecondaria.lascuolaconvoi.it/, in Nuova SecondariaRicerca e in Nuova Secondaria Discipline, ilpercorso teoretico sul tema della filosofiadella differenza sessuale iniziato sulla rivistacartacea prosegue e si completa con un ap-profondimento e una proposta di didatticacon le slide relativamente alla disciplina “fi-losofia”. Nell’approfondimento si traccianoi lineamenti di alcune figurazioni classichedel femminile che attraversano i sentieri delmito e della filosofia e lasciano trasparirela cornice greca entro la quale si forma l’im-maginario collettivo della differenza ma-schile-femminile. Nella didattica con le sli-de si procede con l’analisi delle dicotomietradizionali mente/corpo, ragione/senti-mento, pubblico/privato che hanno con-sentito di rilevare lo stereotipo del fem-minile e, più in generale, il peso della cul-tura e della tradizione nella percezione del-la differenza di genere.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 71
PERCORSI DIDATTICI
Da sempre la tavola è il luogo per
eccellenza di ritrovo, di socializ-
zazione, di integrazione. Da ciò
se ne inferisce che diete e tabù alimentari
sono variegati quanto l’umanità stessa.
Anche se non ci sono abitudini alimen-
tari o tabù universali, essi fanno parte del-
la vita quotidiana di tutte le società, che
hanno dunque normato ciò che i loro
membri possono mangiare, hanno spe-
cificato le circostanze nelle quali certi tipi
di cibo possono essere consumati e fat-
to uso di cibo nei rituali religiosi. Rego-
le e pratiche alimentari riguardanti il cibo
costituiscono un linguaggio che esprime
i valori che una cultura insegna a riguardo
della natura, di Dio, delle fonti dell’au-
torità sociale, degli scopi della vita. In dif-
ferenti religioni gli stessi cibi possono si-
gnificare morte o rinascita, dare nutri-
mento agli dèi o canalizzare il loro potere
sui fedeli. Insomma, dal momento che il
cibo è una necessità umana universale,
l’atto di porre dei tabù alimentari è par-
ticolarmente rivelatore dei valori che
distinguono una cultura dall’altra ed è
fondamentale per delineare una antro-
pologia della alimentazione.
Nell’antichità classica greca e romana la
mensa si imbandiva per coloro con i qua-
li si sentiva un vincolo sacro di amicizia,
con cui si condividevano comuni idea-
li politici: non era lecito mangiare con i
nemici e l’ospitalità era, al contempo, un
diritto e un dovere. Il pasto costituiva, in
origine, un atto religioso: conservavano
questo carattere i banchetti rituali delle
divinità, dei morti, delle cerimonie pub-
bliche, ma anche i banchetti privati cui
assistevano, onnipresenti, gli dèi. Come
è noto, una prima parte del banchetto era
dedicata al pranzo, la seconda parte, il
simposio, che avveniva dopo che i con-
vitati avevano versato libagioni e canta-
to un inno, era dedicato al piacere del
bere il vino. Non vi erano specifiche proi-
bizioni alimentari comuni, ma ne vige-
vano nei vari gruppi filosofici: forse il più
celebre divieto è quello che avevano i pi-
tagorici in relazione alle fave. Anche se re-
centemente un medico americano, stu-
dioso del mondo antico, ha ipotizzato che
i pitagorici potessero avere già scoperto
il favismo, probabilmente la motivazio-
ne più convincente è che i pitagorici, ma
anche i filosofi platonici, fossero convinti
che nelle fave albergassero le anime dei
propri avi defunti.
Anche oggi, per i ragazzi, momenti
come quello della merenda o di pasti
consumati insieme può essere un’occa-
sione di reciproca conoscenza per ciò che
riguarda le proprie abitudini, ma anche
il luogo dove esercitare il rispetto nei
confronti delle prescrizioni alimentari
cui gli osservanti sono tenuti e che ri-
guardano soprattutto i ragazzi di fede
ebraica, musulmana e induista (per
non parlare del caso dei sikh), nella re-
ligione cattolica, come si sa, non esisto-
no specifiche prescrizioni alimentari.
Vediamo ora in breve, religione per re-
ligione, le principali prescrizioni ali-
mentari.
Il cibo nelle religioniRosa Maria Parrinello
NELLE RELIGIONI DI TUTTO IL MONDO IL CIBO ASSUME UN VALORE SACRALE E SIMBOLICO: QUESTO STUDIO SVILUPPA
UN PERCORSO CHE SPAZIA DALL’ANTICHITÀ CLASSICA ALLE CIVILTÀ EXTRAEUROPEE CONTEMPORANEE.
Nell’Induismo le prescrizioni alimenta-
ri dipendono dalla casta di appartenen-
za dell’individuo: i brahmani sono tra-
dizionalmente vegetariani, perché non
possono nutrirsi di ciò che ha avuto vita
animale, essendo i cadaveri contaminanti.
Sono dunque esclusi dalla loro dieta la
carne, il pesce, le uova fecondate, aglio,
cipolla, nonché le bevande inebrianti.
Le caste più basse possono nutrirsi di car-
ne di pollo, di capra e di montone,
mentre i paria possono mangiare qua-
lunque tipo di carne purché l’animale sia
morto di vecchiaia o malattia, perché essi
sono impuri, devono nutrirsi di cose con-
taminate e rimanere in basso. I cibi si di-
stinguono in tamasici, cioè per le popo-
lazioni assoggettate dagli Ariani; rajasi-
ci, per le persone che conducono attivi-
tà produttive, commerciali e di difesa del-
lo stato; sattvici, per i puri, i sacerdoti.
Sono comunque vietate a tutti le carni
di vacca, incarnazione del dono divino,
e di bufalo, quest’ultimo sacro al dio
Yama, di elefante, di cavallo, di cammello
e di maiale.
Un tabù molto importante riguarda la
saliva: il cuoco non deve assaggiare il cibo
durante la preparazione, perché la sali-
va non entri in contatto con il cibo me-
desimo.
Sicuramente il sistema ebraico è quello
più complesso. Leggiamo Levitico 11, 3-
41: «Potrete mangiare di ogni quadru-
pede che ha l’unghia bipartita, divisa da
un fessura, e che rumina. Ma fra i ru-
minanti e gli animali che hanno l’unghia
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI72
PERCORSI DIDATTICI
divisa, non mangerete i seguenti: il cam-
mello, perché rumina ma non ha l’un-
ghia divisa, lo considererete immondo;
l’irace [erbivoro simile al coniglio ma ap-
partenente al genere Procavia], perché
rumina ma non ha l’unghia divisa, lo
considererete immondo; la lepre, perché
rumina ma non ha l’unghia divisa, la
considererete immonda; il porco, perché
ha l’unghia bipartita da una fessura, ma
non rumina, lo considererete immondo.
[…] Questi sono gli animali che potre-
te mangiare tra gli acquatici. Potrete
mangiare quanti hanno pinne e squame,
sia nei mari, sia nei fiumi. Ma di tutti gli
animali che si muovono o vivono nelle
acque dei mari e nei fiumi, quanti non
hanno né pinne né squame, li terrete in
abominio. […] Fra i volatili terrete in
abominio questi, che non dovrete man-
giare, perché ripugnanti: l’aquila, l’ossi-
fraga [uccello della famiglia delle Pro-
cellarie] e l’aquila di mare, il nibbio e ogni
specie di falco, ogni specie di corvo, lo
struzzo, la civetta, il gabbiano e ogni spe-
cie di sparviere, il gufo, l’alcione, l’ibis,
il cigno, il pellicano, la folaga, la cicogna
e ogni specie di airone, l’upupa e il pi-
pistrello. Sarà per voi in abominio anche
ogni insetto alato, che cammina su quat-
tro piedi. Però fra tutti gli insetti alati che
camminano su quattro piedi, potrete
mangiare quelli che hanno due zampe,
sopra i piedi, per saltare sulla terra. Per-
ciò potrete mangiare i seguenti: ogni spe-
cie di cavalletta, ogni specie di locusta,
ogni specie di acridi e ogni specie di gril-
lo. […] Per i seguenti animali divente-
rete immondi […]. Considererete im-
mondi tutti i quadrupedi che cammi-
nano sulla pinta dei piedi. […] Fra gli
animali che strisciano per terra riterre-
te immondi: la talpa, il topo e ogni spe-
cie di sauri, il toporagno, la lucertola, il
geco, il ramarro, il camaleonte».
Qualunque cosa venga toccata da que-
sti animali sarà immonda. Chiunque ne
toccherà i cadaveri sarà immondo fino
alla sera; nella stessa situazione verrà a
trovarsi chi si ciberà dei cadaveri degli
animali consentiti.
Molti sono i cibi considerati impuri: in
primo luogo possiamo citare gli anima-
li carnivori e gli uccelli da preda, che
mangiano la carne senza averne lascia-
to scolare il sangue. Sono permessi, per-
ché considerati animali puri, i quadru-
pedi, che sono ruminanti e hanno il pie-
de diviso in due e l’unghia fessa (ad esem-
pio bovini, ovini, cervi, caprioli), men-
tre sono proibiti, perché considerati im-
puri, quelli che hanno una sola di que-
ste condizioni (maiale, cammello) o
nessuna (cavallo, gatto). Anche quella dei
conigli è carne vietata. Sono puri tutti i
volatili, salvo 24 specie non identificabili
in modo sicuro; sono impuri tutti i cro-
stacei, dal momento che gli animali ac-
quatici di cui è permesso cibarsi devono
avere pinne e squame. Essendo vietato ci-
barsi del sangue dei quadrupedi e dei vo-
latili, dal momento che il sangue è la sede
della vita, e dunque è sacro, gli animali
devono essere macellati secondo deter-
minate regole che impongono il taglio
completo di esofago e trachea per mez-
zo di un coltello affilatissimo in modo che
sia versata, in breve tempo, la maggior
parte possibile del sangue. Inoltre, poi-
ché «un piccolo non deve cuocere nel lat-
te della madre» (Esodo 23,19), le carni
non possono cuocere con i latticini. Il
pane è azzimo, cioè non lievitato, in ri-
cordo della fuga dall’Egitto, quando non
ci fu appunto il tempo di farlo lievitare.
L’idoneità di un cibo ed essere consumato
secondo le regole alimentari della reli-
gione ebraica si chiama Kasherut o Ca-
sherut. Il dato interessante da un punto
di vista della mentalità è che, secondo la
Genesi, l’uomo edenico è vegetariano e
diventa carnivoro solo dopo il Diluvio.
Una tendenza tipica è quella di dare spie-
gazioni di carattere razionale alle pre-
scrizioni alimentari: ad esempio non si
mangia il maiale perché la sua carne è
grassa e nei paesi caldi è difficile da di-
gerire, oppure perché è un animale
sporco. Trovata questa spiegazione, bi-
sogna spiegare allora perché non si pos-
sono mangiare i crostacei, che certo
non sono sporchi! È bene abituarsi a ra-
gionare sul fatto che chi rispetta i pre-
cetti lo fa perché essi sono stati diretta-
mente ispirati da Dio e sono parola di
Dio, senza avventurarsi in spiegazioni
(magari condivise da alcuni degli ap-
partenenti alla religione in oggetto) ra-
zionalizzanti o pseudo-scientifiche, che
in genere banalizzano e sviliscono la por-
tata dei precetti religiosi; in altre paro-
le, il pio ebreo non mangia gli animali
impuri perché la sua è un’ortoprassi
(cioè una corretta pratica) che segue
quelli che egli considera come ordini di-
vini (come avviene anche per chi ap-
partiene altre religioni).
In ambito ebraico, al problema dell’ali-
mentazione se ne collegano altri: ad
esempio, è legittimo l’uso del forno a mi-
croonde? Inoltre, si pone anche il pro-
blema delle maglie più o meno strette
dell’osservanza: ci sono ebrei che si li-
mitano a non mangiare cibi impuri e al-
tri che rispettano anche tutto l’insieme
delle norme di preparazione dei cibi, che
devono cuocere ad esempio in pentole
non utilizzate per cucinare il cibo per i
non-ebrei, ecc.
Per quanto riguarda il buddhismo, sul-
l’esempio del Buddha, che in punto di
morte avrebbe detto «Cibarsi di carne
estingue il seme della grande compas-
sione», i buddisti sono in genere vege-
tariani, ma non sempre il buddista rifiuta
carne e pesce: egli però non deve ucci-
dere l’animale per cibarsene. Inoltre,
molte culture buddhiste hanno vietato
le bevande alcoliche.
Del cristianesimo si è accennato. Le
motivazioni potrebbero in parte ritro-
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 73
PERCORSI DIDATTICI
varsi nel noto versetto evangelico di
Matteo 15,10 in cui Gesù dice: «Non
quello che entra nella bocca rende im-
puro l’uomo, ma quello che esce dalla
bocca rende impuro l’uomo!» (paralle-
lo in Marco 7,15: «Non c’è nulla fuori del-
l’uomo che, entrando in lui, possa con-
taminarlo; sono invece le cose che esco-
no dall’uomo a contaminarlo»). Ecco
perché non vi sono particolari prescri-
zioni alimentari, né cibi vietati (a meno
che non si tratti del regime monastico,
che però è altra cosa), se non la prescri-
zione di evitare di mangiare carne al ve-
nerdì e durante la quaresima (anche se
la Conferenza episcopale italiana ha
ammesso la sostituzione dell’astinenza
con una diversa forma di mortificazio-
ne in tutti i venerdì dell’anno). Oggi mol-
ti protestanti evangelici hanno adottato
la proibizione, legittimata su base reli-
giosa, di non bere alcolici. Vi sono poi cibi
che hanno un valore simbolico: ad esem-
pio le uova pasquali al cioccolato si ri-
collegano alle radici primordiali della Pa-
squa nelle feste primaverili di rinascita.
Bisognerebbe interrogarsi poi sul ritor-
no ad alcune forme di differenziazione
o astinenza in chiave identitaria: il pri-
mo esempio è quello dei Greci ortodossi,
per i quali il gyros, esatto corrispettivo del
kebab, è rigorosamente fatto con carni
d’agnello per differenziarsi da quello tur-
co, abitualmente di montone. Il secon-
do esempio è italiano: a fine gennaio
2008, nell’imminenza della Quaresima,
alle scuole romane è arrivata una Nota,
firmata dalla dirigente dell’Unità orga-
nizzativa servizi educativi, culturali e so-
ciali del XVII Municipio, in cui si chie-
deva alle ditte di ristorazione di variare
il menù per l’intero periodo quaresimale,
servendo pesce e formaggio il venerdì e
alleggerendo la merenda (panino farci-
to sostituito con pane e cioccolata).
Tutti hanno obbedito salvo due dirigenti
di scuole per l’infanzia che, disponendo
di mense autogestite, hanno scelto di non
modificare i menù concordati, ferma re-
stando la possibilità, a richiesta delle fa-
miglie, di sostituire la carne con altre pie-
tanze, per motivi religiosi. Ne è nata una
polemica sulla legittimità di imporre o
meno un menù quaresimale.
Per ciò che concerne l’islam, il sistema
delle prescrizioni alimentari è semplifi-
cato rispetto a quello ebraico, ma analogo
per alcune tipologie di carni proibite (ad
esempio il maiale) e per l’esigenza della
macellazione rituale (anche se ad esem-
pio i convertiti italiani non comprano le
carni soltanto nelle macellerie islamiche).
Le prescrizioni alimentari hanno base co-
ranica: si veda Cor. 2, 173: «Dio vi ha proi-
bito gli animali morti, il sangue, la car-
ne di maiale e gli animali ad altro che a
Dio, però chi si troverà costretto, senza
desiderio e senza intenzione, costui non
farà peccato»; 5,3: «Vi sono proibiti gli
animali morti, il sangue, la carne di ma-
iale, gli animali che sono stati macellati
senza invocazione del nome di Dio e
quelli soffocati o uccisi a bastonate o sca-
picollati o ammazzati a cornate, e quel-
li divorati dalle fiere, e quelli sacrificati su-
gli altari idolatrici»; 5,90: «Voi che credete,
il vino, il gioco d’azzardo, le pietre ido-
latriche, le frecce divinatorie sono cose
immonde, opere di Satana, dunque evi-
tatele affinché possiate avere fortuna».
Sono proibite le carni del maiale, di
animali morti per cause naturali, delle ca-
valcature (asini, muli, cavalli, cammelli),
di carnivori muniti di canini, di rapaci,
di animali domestici. L’uccisione del-
l’animale deve essere compiuta in nome
di Dio: esso deve essere sgozzato con un
completo deflusso del sangue, evitando
la sofferenza dell’animale. La legge isla-
mica ammette come lecita la macella-
zione effettuata da ebrei e cristiani, ma
non può accettare i metodi della moderna
macellazione dei paesi occidentali, che
non prevedono lo sgozzamento e il dis-
sanguamento totale della bestia. I mu-
sulmani non possono bere alcolici di nes-
sun tipo. È interdetto il latte degli animali
dei quali non è lecito mangiare la carne.
Nei paesi occidentali l’islam fa i conti con
i simboli, gli status, i luoghi che attira-
no soprattutto i più giovani: uno di essi
è senza dubbio il MacDonald’s, il fast
food per eccellenza, dove i ragazzini di
fede islamica fino al 2005 dovevano
rassegnarsi a ordinare unicamente il
panino con il filetto di pesce. Nel 2005,
però, a Clichy-sous-Bois, Parigi, ha
aperto il primo “Beurger King Muslim”,
dove si servono hamburger in tutte le sal-
se, ma con animali halal (ossia “leciti”),
macellati secondo il rito islamico, sen-
za uso di alcool né di strutto. Il fast food
ha inoltre dato lavoro a 28 ragazzi mu-
sulmani disoccupati e senza prospetti-
ve di lavoro, diventando un luogo di in-
contro e di aggregazione giovanile.
Rosa Maria ParrinelloUniversità di Torino
Pittore di Ganimede, lato A di uncratere apulo a figure rosse: un giovane
offre libagioni a un defunto che siedein un naiskos (340-320 a.C.). Madrid,
Museo Archeologico Nazionale.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI74
PERCORSI DIDATTICI
Èsempre un buon metodo quello di
dichiarare all’inizio di un lavoro gli
scopi che ci si prefiggono. Questo
consente al lettore di seguire i percorsi
già sapendo dove si vuole arrivare e di
poter valutare poi se tali scopi sono sta-
ti raggiunti. In questo lavoro ci prefig-
giamo tre scopi. I primi due sono ben
evidenti dal titolo. In particolare, si in-
tende definire e illustrare l’ottica della
complessità sistemica, quale si è confi-
gurata in ambito scientifico nella se-
conda metà del XX secolo, e mostrare
che il mondo molecolare possiede quel-
le caratteristiche complesse e sistemiche
da tempo e che, quindi, la chimica può
essere vista come una scienza della
complessità sistemica ante litteram1. Il
terzo scopo è implicito nella scelta di una
rivista di didattica. Esso può essere rias-
sunto come segue: ammesso che si di-
mostri l’importanza dell’ottica della
complessità sistemica in scienza e il
ruolo che la chimica può svolgere in essa,
in ambito didattico che si può fare per
seguire questo nuovo approccio nella
presentazione delle materie scientifi-
che (e non solo)? I primi due punti ver-
ranno trattati più dettagliatamente del-
l’ultimo che, di fatto, verrà solo accen-
nato nella Conclusione, come punto di
riflessione per i docenti. Questo non per-
ché meno importante, ma solamente
perché rientra meno nelle mie compe-
tenze di chimico impegnato principal-
mente nella ricerca.
La prima metà del XX secolo è stata ca-
ratterizzata in ambito scientifico dalla ri-
voluzione della meccanica quantistica e
da quella della meccanica relativistica,
ambedue di ambito fisico, ambedue di
ambito meccanico. Nella seconda metà
del Novecento, invece, sono avvenute due
rivoluzioni scientifiche per molti aspet-
ti diverse e, soprattutto, in ambito di-
verso. Esse vanno sotto i nomi di Scien-
ze della Complessità e Teoria Generale dei
Sistemi (o Sistemica). La bibliografia su
questi ambiti è enorme. Per qualche aiu-
to specifico si veda2. In realtà, per le no-
tevoli connessioni che esistono tra que-
sti due grossi ambiti si può parlare al sin-
golare di una rivoluzione che ha tra-
sformato il mondo della scienza in un in-
sieme di sistemi strutturati/organizzati e
complessi3, riassumibile nella dizione
Complessità Sistemica.
Il concetto di sistema nell’accezione di
ente strutturato e/o organizzato è stato
a lungo sottovalutato nell’ambito delle
scienze naturali (principalmente fisica e
chimica), mentre è stato sempre ben pre-
sente in quelle che poi sarebbero state
chiamate scienze umane e sociali. In una
L’ottica della complessità sistemicae il mondo molecolareGiovanni Villani
L’AUTORE PROPONE UNA RIFLESSIONE SULL’OTTICA DELLA COMPLESSITÀ SISTEMICA E SUL MONDO MOLECOLARE,PONENDOSI L’INTERROGATIVO DI COME SI POSSA DIDATTICAMENTE AFFRONTARE QUESTO NUOVO APPROCCIO ALLO
STUDIO DELLE DISCIPLINE SCIENTIFICHE. NEL CONTRIBUTO EGLI GUIDA ALLA COMPRENSIONE DEL TEMA CON
RIFLESSIONI CHE VENGONO SOSTENUTE DA UN PERCORSO CHE PRESENTA COME ESSO SIA STATO AFFRONTATO
ATTRAVERSO I SECOLI PER GIUNGERE ALLA LETTURA PROPOSTA IN QUESTA SEDE.
posizione intermedia si è sempre posta
la biologia, dove il concetto di organismo
ha a lungo oscillato tra un’ottica siste-
mica e un’entità ontologicamente dif-
ferente da quelle inanimati. Si può dire
che il differente approccio al concetto
fondamentale di sistema sia stato, se non
la causa, sicuramente uno degli ele-
menti che hanno distanziato questi due
(o tre) ambiti di ricerca. Allo stesso
modo, quindi, riconoscendo adesso
l’importanza di un approccio sistemico
all’interno di tutte (non solo della bio-
logia) le scienze naturali, si opera per ri-
muovere le barriere tra queste e le scien-
ze umane e sociali. Le implicazioni del-
la rimozione delle dicotomie inanima-
to-animato-umano, e la sua articolazione
in differenze epistemologiche da studiare
ed evidenziare, ha, a nostro avviso, con-
seguenze fondamentali su tutta la cultura
e sulla didattica in particolare.
1. G. Villani, La chimica: una scienza della complessità si-stemica ante litteram, in Strutture di mondo. Il pensiero si-stemico come specchio di una realtà complessa, a cura diL. Urbani Ulivi, il Mulino, Bologna 2010. 2. E. Agazzi, Le rivoluzioni scientifiche e il mondo moderno,fondazione Achille e Giulia Boroli, Milano 2008.3. G. Villani, Complesso e organizzato. Sistemi strutturati infisica, chimica, biologia ed oltre, FrancoAngeli, Milano2008.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 75
PERCORSI DIDATTICI
Complessità sistemicaPer prima cosa andiamo a caratterizza-
re l’ente strutturato/organizzato su cui
vogliamo imperniare l’ottica sistemica.
Le asserzioni chiave intorno a cui si ar-
ticola questa caratterizzazione (che se-
gue per molti aspetti quella di Morin4)
possono sostanzialmente essere così
riassunte:
• il tutto (il sistema) è più della somma
delle sue parti. Il sistema possiede, infatti,
molto di più delle sue componenti
considerate isolatamente: la sua orga-
nizzazione, la sua unità globale e le nuo-
ve qualità e proprietà emergenti da
queste, sono i fattori che lo differenziano
dal mero aggregato di parti. Queste nuo-
ve caratteristiche del tutto non si ma-
nifestano, però, soltanto al livello della
globalità, al livello del sistema inteso
come tutto, ma anche al livello delle sin-
gole parti.
Il fatto veramente notevole che si rive-
la è, quindi, la presenza di una retroa-
zione delle macroemergenze sugli ele-
menti componenti il sistema, retroazione
che produce le microemergenze. Gli
esempi di macroemergenze sono innu-
merevoli: l’atomo è un sistema che gode
di proprietà originali, in particolar
modo della stabilità, proprietà di cui non
godono le particelle che lo compongo-
no, quando sono considerate isolata-
mente. La stessa materia, la vita, il si-
gnificato di un discorso, la coscienza,
possono essere caratterizzate da quali-
tà emergenti di sistemi altamente com-
plessi. Non soltanto il tutto è più della
somma delle parti; è la parte che è, nel
tutto e grazie al tutto, più della parte. Il
concetto di emergenza ci conduce, quin-
di, a rendere complessi i nostri tentati-
vi di spiegazione dei sistemi, a rivedere
le relazioni che legano le singole unità
alla totalità, abbandonando la gerarchia
semplice fra infrastruttura e sovra-
struttura a vantaggio di una retroattività
organizzazionale in cui il prodotto ulti-
mo trasforma ciò che lo produce.
• il tutto (il sistema) è meno della somma
delle parti. Se, da un lato, è stato spes-
sissimo notato che il tutto è più della
somma delle parti, raramente è stata ri-
conosciuta l’idea contraria. Eppure è de-
ducibile dall’idea di organizzazione, e si
lascia comprendere in maniera più facile
di quanto non sia l’emergenza. Come os-
servava Ashby, la presenza di un’orga-
nizzazione equivale all’esistenza di vin-
coli, di restrizioni sugli stati che posso-
no assumere gli elementi che compon-
gono il sistema. In realtà si ha sistema
proprio allorché le sue componenti non
possono adottare tutti i propri stati
possibili. Ciò significa che talune pro-
prietà relative alle parti considerate in
isolamento scompaiono nell’ambito del
sistema.
Ogni associazione sistemica comporta
vincoli: vincoli effettuati reciproca-
mente fra le parti interdipendenti, vin-
coli delle parti sul tutto, vincoli del tut-
to sulle parti. Questo è evidente nel caso
della molecola, dove è solo il vincolo che
impedisce agli atomi di allontanarsi
completamente a creare questo nuovo
ente. È altrettanto evidente nelle cellu-
le di un organismo che, come è noto,
portano con sé l’informazione genetica
di tutto l’organismo. La maggior parte
di questa informazione è, però, repres-
sa e soltanto quella minima parte cor-
rispondente all’attività specializzata del-
la cellula, è in grado di esprimersi. Il caso
poi di sistemi sociali è evidente e non ne-
cessita di precisazioni. Quindi, in ogni
sistema dobbiamo valutare non soltan-
to il guadagno in emergenza, ma anche
la perdita in seguito a vincoli, asservi-
menti, repressioni. Le acquisizioni e le
perdite qualitative ci indicano che gli ele-
menti che prendono parte a un sistema
sono trasformati anzitutto in parti di un
tutto. Ci troviamo dinanzi a un princi-
pio sistemico chiave: il legame fra for-
mazione e trasformazione. Tutto ciò che
forma trasforma;
• il tutto (il sistema) è uno e molteplice.
Una delle caratteristiche più rilevanti e
quasi paradossali dell’organizzazione è
la capacità di trasformare la diversità in
unità, senza annullare la diversità e ad-
dirittura di creare diversità nell’unità e
tramite essa. Esiste cioè una relazione
complessa tra unità e diversità, fra l’or-
dine ripetitivo e il dispiegarsi della va-
rietà. Atlan esprime molto bene il ca-
rattere organizzazionale di questo pa-
radosso: «già si vede dunque come, nei
sistemi complessi, il grado di organiz-
zazione non potrà essere ridotto né alla
sua varietà (o alla quantità di informa-
zione), né alla sua ridondanza, ma con-
sisterà in un compromesso ottimale tra
queste due opposte proprietà»5.
• il tutto (il sistema) è conflittuale. In ogni
sistema esiste un’unità manifesta, emer-
gente e nello stesso tempo un antago-
nismo latente, apportatore di una di-
sorganizzazione e di disintegrazioni po-
tenziali. Quanto questo aspetto sia im-
portante negli esseri viventi e nei siste-
mi umani (come le società), è inutile sot-
tolinearlo.
Molte sono le caratteristiche impor-
tanti dell’ottica sistemica. Per noi, le prin-
cipali proprietà da evidenziare, sono:
1. L’impossibilità d’isolare completa-
mente le unità elementari e definire,
quindi, delle unità semplici. Da ciò
consegue, la necessità di legare la co-
noscenza degli elementi o parti a
quello dei sistemi che essi costitui-
4. E. Morin, Il metodo 1. La natura della natura, RaffaelloCortina, Milano 2001.5. H. Atlan, Tra il cristallo ed il fumo, Hopefulmonster, Fi-renze 1986, pp. 55-56.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI76
PERCORSI DIDATTICI
scono in un gioco gerarchico di sistemi
che diventano parti di altri sistemi,
senza la pretesa di arrivare a qualco-
sa di finale che non sia più un sistema,
sia un’unità semplice.
2. Il superamento della causalità linea-
re e degli stessi concetti separati di cau-
sa ed effetto. Vi è, quindi, la necessi-
tà di elaborare un principio di causa-
lità complessa e sistemica, che com-
porta causalità reciproca, retroazioni,
ritardi, sinergie, deviazioni e un prin-
cipio di endo ed eso-causalità per i fe-
nomeni d’auto-organizzazione.
3. L’impossibilità di una distinzione as-
soluta tra l’oggetto (o ente) e il suo
ambiente. La conoscenza di ogni or-
ganizzazione fisica richiama la cono-
scenza delle sue interazioni con il
suo ambiente; la conoscenza di ogni
organizzazione biologica richiama la
conoscenza delle sue interazioni con
il suo eco-sistema; la conoscenza di
ogni sistema umano implica la co-
noscenza del suo substrato storico-cul-
turale. In questa problematica si può
far ricadere anche la necessità, oltre
che l’utilità, di relazionare l’osserva-
tore e l’oggetto osservato, tramite
l’introduzione del dispositivo d’os-
servazione o di sperimentazione (es.
Meccanica Quantistica) e, più in ge-
nerale, la necessità di introdurre il sog-
getto umano – situato e datato cul-
turalmente, sociologicamente, stori-
camente – in ogni studio naturale, an-
tropologico e sociologico.
La prima e la terza caratteristica ci pon-
gono dei limiti all’individuazione di
qualsiasi ente e, quindi, anche dei suoi
costituenti. La congiunzione della pri-
ma e della seconda caratteristica, inve-
ce, rappresenta la morte del riduzioni-
smo, inteso nel suo senso più generale
di ricerca degli elementi ultimi e delle
loro interazioni per ricostruire la cate-
na delle cause che da questi elementi ci
porta a spiegare qualsiasi evento.
Esaminiamo in dettaglio questi tre pun-
ti. L’impossibilità di isolare gli elemen-
ti ultimi e semplici della materia è una
scoperta della fisica degli ultimi anni.
Fino a non molto tempo addietro, in-
fatti, la fisica procedeva alla ricerca di
questi elementi ultimi, utilizzando ap-
parecchiature sempre più costose e che
mettessero in gioco un’energia sempre
crescente. L’idea che era alla base di tali
ricerche era chiara ed evidente. An-
dando sempre più nel piccolo, nell’in-
finitamente piccolo doveva esistere un
punto in cui ci si fermava e quello
avrebbe individuato i costituenti ultimi.
C’era dall’inizio del Novecento il pro-
blema della misura in Meccanica Quan-
tistica, dove l’impossibilità della di-
sgiunzione tra l’osservatore e l’osserva-
to era evidenziato, ma ciò nonostante si
continuava a procedere verso il sempli-
ce e l’elementare. L’idea di scavare nel pro-
fondo, in senso sia fisico sia figurato, era
stata la base dell’atomismo, da quello
greco a quello moderno. Poi, una volta
accertato che l’atomo aveva una strut-
tura, aveva dei costituenti organizzati
opportunamente (era, in pratica, un si-
stema), la ricerca si era spostata su que-
sti costituenti subatomici e poi sempre
più nel profondo. Ovviamente, più pic-
colo era lo spazio in cui era confinata
questa particella più alta era l’energia ne-
cessaria a catturarla e, quindi, le appa-
recchiature necessarie divenivano sem-
pre più costose e necessitavano di grup-
pi di lavoro sempre più numerosi. È
quella che oggi, con un termine sugge-
stivo e giornalistico, si chiama la big
science, quella dei megaprogetti e dei me-
gacosti. I risultati però di questi sforzi
non hanno portato all’individuazione di
particelle elementari. Si può dire che, an-
che nella confusione che ancora regna
in questo settore della fisica, tali ricer-
che hanno evidenziato proprio l’im-
possibilità di trovare tali particelle. I mo-
tivi, oltre che pratici, sono concettuali.
Fritjof Capra, nel suo libro Il Tao della
fisica, ce lo spiega perfettamente: «Un’at-
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 77
PERCORSI DIDATTICI
tenta analisi del processo di osservazione
in fisica atomica ha mostrato che le par-
ticelle subatomiche non hanno signifi-
cato come entità isolate, ma possono es-
sere comprese soltanto come intercon-
nessioni tra la fase di preparazione di un
esperimento e le successive misurazio-
ni. La meccanica quantistica rivela quin-
di una fondamentale unità dell’univer-
so: mostra che non possiamo scomporre
il mondo in unità minime dotate di esi-
stenza indipendente. Per quanto ci ad-
dentriamo nella materia, la natura non
ci rivela la presenza di nessun mattone
fondamentale isolato, ma ci appare piut-
tosto come una complessa rete di rela-
zioni tra le varie parti del tutto. Queste
relazioni includono sempre l’osservatore
come elemento essenziale. L’osservato-
re umano costituisce sempre l’anello fi-
nale nella catena dei processi di osser-
vazione e le proprietà di qualsiasi oggetto
atomico possono essere capite soltanto
nei termini dell’interazione dell’ogget-
to con l’osservatore. Ciò significa che
l’ideale classico di una descrizione og-
gettiva della natura non è più valido.
Quando ci si occupa della materia a li-
vello atomico, non si può più operare la
separazione cartesiana tra l’io e il mon-
do, tra l’osservatore e l’osservato. Nel-
la fisica atomica, non possiamo mai par-
lare della natura senza parlare, nello stes-
so tempo di noi stessi»6.
Come l’inseparabilità dell’osservato e
dell’osservante si estenda ai piani an-
tropologici e sociologici è nello stesso
tempo una problematica evidente e mal
evidenziata. Qui vogliamo solo citare,
quasi come spot, la separazione netta, la
dicotomia, che tale problematica crea
nell’ambito più generale (per una trat-
tazione più tecnica rivolta alla decani
quantistica si veda7): la separazione tra
natura e cultura, tra uomo (e i suoi pro-
dotti) e la natura.
Il secondo punto, quello dell’interazio-
ne tra gli enti sia all’interno del sistema
sia tra sistemi, è un punto fondamentale
su cui ragionare. Che cosa significava la
linearità dell’interazione nella fisica
classica? Perche è importante la sua ri-
mozione? Due sono gli aspetti della li-
nearità che ci interessano in questo
contesto. Il primo è connesso allo studio
del sistema globale per mezzo delle
parti ed il secondo alla sua evoluzione
temporale.
1. Riguardo alla possibilità che lo studio
delle parti ci dia informazioni com-
plete anche per l’insieme, la risposta
scientifica è nota: Se L è un operato-
re lineare e la sua applicazione a una
grandezza A produce il risultato a,
mentre l’applicazione a B produce il
risultato b, allora il risultato dell’ap-
plicazione di L ad A+B sarà a+b.
Quindi, se una situazione è lineare, o
dominata da eventi che sono lineari,
il comportamento globale di un si-
stema potrà essere dedotto analiz-
zando il sistema un frammento alla
volta. Il problema sembra risolto poi-
ché molte leggi scientifiche sono li-
neari, ma noi crediamo che esso, in re-
altà, sia ancora tutto da chiarire. In-
fatti, da un lato vi sono fenomeni si-
curamente non lineari, dall’altro mol-
ti fenomeni sono lineari a livello mo-
dellistico, ma poi la realtà com’è?
2. Per il secondo aspetto connesso alla li-
nearità, quello dell’evoluzione del si-
stema, va notato che vi sono sistemi
che evolvono in maniera lineare e la
caratteristica principale di questi si-
stemi è che l’errore nella determina-
zione delle condizioni iniziali non si
amplifica col tempo. Altri sistemi in-
vece evolvono in maniera non linea-
re amplificando gli errori nelle con-
dizioni iniziali. Di fatto per questi ul-
timi, poiché non è possibile avere le
condizioni iniziali con infinita preci-
sione e tale errore viene amplificato
nel corso dell’evoluzione, il sistema di-
venta dopo un certo tempo impreve-
dibile e porta, in particolari condi-
zioni, al caos.
Nella Scienza della Complessità e nella
Sistemica ogni ente è nello stesso tem-
po causa ed effetto in tutti i processi fon-
damentali che implicano il sistema.
Questo perché le interazioni tra i com-
ponenti di un sistema creano una strut-
tura globale che si modifica nelle azio-
ni del sistema. Per quali interazioni in-
terne e/o esterne la struttura sistemica
persista e in quali si modifica, in che rap-
porto è la struttura con l’organizzazio-
ne, altro concetto sistemico fondamen-
tale, sono punti importanti da analizzare,
anche se qui, per questioni di spazio,
dobbiamo evitarli. Infine, come questo
nuovo tipo di interazione possa spiega-
re la fondamentale proprietà sistemica
di auto-organizzazione non è ancora del
tutto chiarito. La sua importanza in
questioni quali la nascita della vita è, tut-
tavia, evidente.
Il terzo punto ci dice che il sistema iso-
lato è un’astrazione, un qualcosa di
non reale, astrazione utile e possibile in
certi contesti purché si tenga sempre pre-
sente che è un’approssimazione, una mo-
dellizzazione. Il campo di studio aper-
to da questa riflessione è enorme in tut-
te le scienze naturali. Nelle scienze uma-
ne, poi, tale problematica è sempre sta-
ta percepita più che analizzata; la stes-
sa affermazione aristotelica l’uomo è
per natura un animale politico si capisce
bene in questo contesto, ma apre non
6. F. Capra, Il Tao della fisica, Adelphi, Milano 1982, pp. 82-83.7. G. Villani, Teoria quantistica della misura in una visionenon oggettivista della realtà, Epistemologia, XV (1992),pp. 21-40.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI78
PERCORSI DIDATTICI
poche questioni (rapporto uomo/società,
rapporto natura/cultura, ecc.) che non
analizzeremo in questo contesto, ma che
saranno sempre in sottofondo.
Mondo molecolareIl concetto di molecola è relativamente
moderno, anche se può fare sfoggio
d’antenati importanti, e questo non è
strano dato la prevalenza in ambito
scientifico dell’ottica riduzionista. Che
la materia fosse formata da aggregati
(formati in maniera più o meno casua-
le) d’atomi era un’idea presente già in
Democrito, padre dell’atomismo greco.
Tuttavia, a lungo nessuno si era occupato
di evidenziare e studiare questi aggregati,
che restavano, quindi, gruppi d’atomi le
cui proprietà erano quelle medie degli
atomi costituenti, né di attribuire loro un
nome. È, infatti, con l’attribuzione di un
nome che si evidenzia un nuovo status
ontologico di questi enti che passano da
aggregati (insieme d’atomi) a moleco-
le (sistema d’atomi). Quando una por-
zione di materia ha un suo nome spe-
cifico significa che si vuole mettere in
evidenza la sua individualità (proprie-
tà specifiche) e tale molecola si può usa-
re come un soggetto d’azione.
Nell’atomismo classico, esisteva sia un
ostacolo epistemologico sia un ostaco-
lo scientifico alla definizione di un con-
cetto analogo all’attuale concetto di
molecola. Da un punto di vista episte-
mologico, l’atomismo classico è stato
probabilmente la prima coerente filosofia
riduzionista. In quest’ottica, la moleco-
la come ente strutturato (sistema) di-
stinto dall’insieme degli atomi era in-
comprensibile. Dal punto di vista scien-
tifico, per Democrito, gli atomi non per-
devano la loro identità nel processo di
aggregazione e restavano in contatto,
giustapposti. Aristotele criticò l’atomi-
smo perché questi atomi non potevano
nelle loro aggregazioni formare nuove
entità. Da questo punto di vista, gli
atomisti negavano l’individualità delle
sostanze composte. Aristotele era su
questo punto più consono con la visio-
ne chimica moderna: i costituenti nel
formare i composti danno vita a sostanze
nuove e non a semplici giustapposizio-
ni di elementi preesistenti. L’impene-
trabilità e l’eternità degli atomi demo-
critei rendevano la visione odierna del-
le molecole impossibile. Nello stesso qua-
dro filosofico-scientifico si muove la fi-
sica odierna con la meccanica quanti-
stica: l’insieme di enti atomici è per essa
un aggregato non un sistema e niente di
nuovo si genera mettendo insieme un
gruppetto di atomi. «Datemi il calcola-
tore più potente del mondo, e vi de-
scriverò completamente qualunque mo-
lecola (e macromolecola), qualunque in-
sieme di molecole (cellula), qualunque
insieme di cellule, qualunque individuo,
qualunque insieme di individui, ecc.» è
la trasposizione moderna della celebre
frase di Laplace sulla sicura conoscenza
del passato e del futuro di tutto, note le
particelle e elementari e loro interazio-
ni.
Nel XIX secolo il concetto di molecola
a lungo è stato confuso con il concetto
d’atomo. Parte della confusione veniva
dal fatto che i chimici non riuscivano ad
immaginare che le molecole d’alcuni ele-
menti (idrogeno, ossigeno, ecc.) fosse-
ro formate da più atomi (H2, O2, ecc.).
Dalton aveva escluso che potesse esiste-
re un legame tra due atomi uguali. In
conseguenza del fatto che con l’espres-
sione particella una volta s’intendeva
l’atomo e un’altra volta la molecola si
manifestò un’evidente contraddizione
tra le ipotesi di Dalton e quelle di Gay-
Lussac. Avogadro, nel 1811, cercò di ri-
muovere queste contraddizioni ed ini-
ziò a distinguere questi due concetti di
particella elementare, ma il suo lavoro fu
a lungo disconosciuto. Fu il lavoro di
Cannizzaro a risolvere definitivamente
la questione della differenza tra atomo
e molecola. Basandosi sulla misura del-
la densità di vapore delle sostanze ele-
mentari e dei composti, utilizzando i ca-
lori specifici per il controllo dei pesi ato-
mici, come pure il criterio dell’isomor-
fismo per rivelare le anomalie nella co-
stituzione molecolare, Cannizzaro diede
un nuovo sistema di pesi atomici per 21
elementi, risultati poi tutti sostanzial-
mente corretti. A seguito della relazio-
ne di Cannizzaro a Karlsruhe del 1860
fu accettata la seguente proposta: «si pro-
pone di adottare concetti diversi per mo-
lecola e atomo, considerando molecola
la quantità più piccola di sostanza che
entra in reazione e che ne conserva le ca-
ratteristiche fisiche e intendendo per ato-
mo la più piccola quantità di un corpo
che entra nella molecola dei suoi com-
posti».
Il concetto di molecola svolge un ruolo
fondamentale nella scienza attuale e
non solo. Il sottotitolo del mio libro La
chiave del mondo8 recita dalla filosofia alla
scienza: l’onnipotenza delle molecole.
Tale concetto può essere utilizzato per
tutti gli enti materiali, costituendo un
particolare approccio scientifico allo
studio della materia (approccio chimi-
co per composizione). È tale concetto, in-
fatti, che ci consente di padroneggiare la
complessità qualitativa e quantitativa del
mondo macroscopico trasportandola
in parte nel mondo microscopico. È in
questo modo che si evita l’alternativa tra
la semplicità (uno o pochi elementi
microscopici) o la completa complessi-
tà (infinite sostanze microscopiche, tan-
te quante sono le sostanze macroscopi-
che uniformi come il vino, il legno,
8. G. Villani, La chiave del mondo. Dalla filosofia allascienza: l’onnipotenza delle molecole, CUEN, Napoli 2001.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 79
PERCORSI DIDATTICI
ecc.). L’universo molecolare con milio-
ni d’individui differenti, ognuno con un
nome proprio, può rappresentare inol-
tre il collegamento tra il semplice mon-
do della fisica e il complesso mondo bio-
logico e fare anche da prototipo di spie-
gazione per branche scientifiche (come
le scienze umane) difficilmente strut-
turabili intorno al concetto di legge, ti-
pico dell’approccio fisico9. Su questo tor-
neremo velocemente nella Conclusione.
In questo paragrafo intendiamo mette-
re in evidenza un solo concetto ma fon-
damentale, del mondo molecolare, quel-
lo che caratterizza immediatamente la
molecola come un sistema: la struttura
molecolare. Essa permette di capire e ra-
zionalizzare la novità della molecola (e a
livello macroscopico del composto chi-
mico) rispetto ai costituenti. Questo
concetto ha cambiato anche il rapporto
tra la chimica di analisi e quella di sin-
tesi, tra il disfare e il fare del tutto a par-
tire dai componenti creando un’imma-
gine del mondo materiale prorompen-
te fatta di milioni di enti diversi che, con
le loro caratteristiche, possono spiegare
il complesso mondo che ci circonda.
Tutto il mondo materiale che è intorno
a noi, nell’ottica chimica, è fatto di mi-
lioni di sostanze diverse, ma quello che
va subito evidenziato è che molto rara-
mente esse sono allo stato puro, allo sta-
to isolato. Il caso predominante, di mol-
to predominante, è quello di miscugli più
o meno complessi di sostanze. Prendia-
mo un oggetto del mondo vivente, per
esempio una mela. La complessità chi-
mica di tale oggetto è spaventosa, come
per ogni oggetto che viene dal mondo
vegetale o animale. Un po’ più sempli-
ce è la situazione nel mondo inanima-
to. Una roccia è sicuramente meno
complessa, ma anche in questo caso è
raro il composto chimico singolo. In pra-
tica, sebbene il mondo che ci circonda
sia pieno di sostanze chimiche, rara-
mente noi le incontriamo in questa for-
ma. L’unica apparente eccezione è quel-
la dell’acqua, sostanza chimica pura e
composto principale del nostro mondo.
L’eccezione, comunque, è solo apparente.
Basta guardare l’etichetta di un’acqua
minerale per rendersene conto. Da que-
sta situazione ne viene fuori che la chi-
mica si è sviluppata inizialmente come
scienza dell’analisi, cioè come separa-
zione delle sostanze pure da queste cose
complesse che sono gli oggetti del nostro
mondo. In questo senso la chimica è ri-
duttiva, cioè riduce il complesso al sem-
plice. Il punto da capire è che tale ridu-
zione potrebbe essere portata avanti ed
eliminare i composti in favore degli
elementi e anche oltre, ma la chimica ra-
ramente fa ciò in quanto i composti sono
la sua arma fondamentale per capire ed
incidere sul mondo.
La chimica come creazione di un com-
posto, la chimica sintetica, salvo pochi
casi occasionali, nasce nella seconda
metà del XIX secolo e, non a caso, nasce
solo dopo che ha elaborato il concetto
di struttura molecolare, cioè dopo ave-
re riconosciuto la natura sistemica del-
la molecola, dopo essere andata al di là
dell’aggregato di atomi. L’introduzione
della teoria della struttura molecolare, in-
fatti, modificò radicalmente la situazione
della chimica organica. L’empirismo e
l’ignoranza del meccanismo delle rea-
zioni (soprattutto di quelle complesse
della chimica organica) fu soppiantato
da un atteggiamento attivo e cosciente
nella sintesi di nuovi composti, secon-
do un piano studiato a tavolino. Invece
dei tentativi alla cieca, si seguì uno
schema basato sulla conoscenza della
struttura dei prodotti di partenza e di
quelli cui si voleva arrivare. La sintesi di
nuove sostanze ottenute in questo modo,
9. G. Villani, A lezione dalle molecole, «KOS», nuova serie,n. 203-204, p. 34.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI80
PERCORSI DIDATTICI
più di ogni altro fatto, testimoniò la fer-
tilità della teoria della struttura mole-
colare, la cui validità nessuna delle suc-
cessive scoperte ha messo in dubbio, por-
tando anzi ad una sua conferma e ad un
suo completamento.
Grande importanza ha avuto sul concetto
di struttura molecolare la cosiddetta
scuola russa. Butlerov nel 1861 scriveva
che «Conclusioni sulla struttura chimi-
ca delle sostanze possono assai verosi-
milmente essere basate sullo studio del-
la loro formazione per sintesi e, princi-
palmente, su quelle sintesi che hanno luo-
go a temperature poco elevate e, in genere,
in condizioni alle quali sia possibile se-
guire l’andamento del graduale compli-
carsi delle particelle chimiche. Per ogni
corpo sarà possibile una sola formula ra-
zionale e, quando saranno note le leggi ge-
nerali della dipendenza delle proprietà
chimiche dei corpi dalla loro struttura chi-
mica, tale formula sarà l’espressione di
tutte queste proprietà»10. Inoltre Bazarov,
nel 1873 sosteneva che «Una reazione chi-
mica dà la più fedele rappresentazione
della struttura dei composti e quanto più
svariate saranno queste reazioni, tanto più
chiara risulterà tale struttura, allo stesso
modo che la conoscenza della costituzione
anatomica di un organismo sarà tanto più
completa e definita, quanto più piccole sa-
ranno le parti in cui l’avremo sezionato,
e quanto più varia la direzione delle dis-
sezioni»11.
Il termine struttura chimica era già sta-
to utilizzato prima di Butlerov, ma egli
gli diede un nuovo significato appli-
candolo alla definizione del concetto di
disposizione dei legami interatomici
nelle molecole. Nel 1861 egli definì la
struttura chimica: «La natura chimica
delle particelle composte è determina-
ta da quella dei componenti elementa-
ri, dal loro numero e dalla struttura chi-
mica. Ogni atomo chimico che entra nel-
la composizione del corpo prende par-
te alla formazione di quest’ultima e
agisce con la quantità determinata di for-
za chimica (affinità) che gli è propria. Io
chiamo struttura chimica la distribuzione
dell’azione di questa forza, in conse-
guenza della quale gli atomi agendo di-
rettamente l’uno sull’altro si uniscono in
una particella chimica»12. Nello stesso
anno Butlerov evidenziò due aspetti
importanti della struttura chimica: l’uni-
cità della struttura per ogni sostanza e
il collegamento tra la struttura moleco-
lare e il piano macroscopico delle pro-
prietà delle sostanze: «Per ogni corpo
sarà possibile una sola formula razionale
e, quando saranno note le leggi genera-
li della dipendenza delle proprietà chi-
miche dei corpi dalla loro struttura
chimica, tale formula sarà l’espressione
di tutte queste proprietà»13.
La situazione però era più complicata.
Due altri problemi concettuali richie-
devano di essere analizzati. Li esempli-
fichiamo in due punti, sempre con Bu-
tlerov. Nel primo manca un aspetto es-
senziale del concetto di struttura mole-
colare attuale, nel secondo si coglie un
aspetto fondamentale di tale concetto.
Il numero di legami in una molecola.
Egli pensava che in ogni molecola esi-
stessero tanti legami e così disposti in
modo che ogni atomo fosse legato di-
rettamente o indirettamente a tutti i ri-
manenti atomi della molecola.
La natura degli atomi nelle molecole. Nel
1864 egli sviluppò il suo pensiero sul-
l’azione reciproca degli atomi che en-
travano nella composizione di una data
molecola: «Due atomi identici nella
loro natura, entrando nella composi-
zione di una stessa molecola assumono
differente carattere chimico quando
l’influenza che ciascuno di essi esercita
sulle altre parti componenti di questa
molecola è differente»14.
Con la tesi di Markovnikov Materiali sul-
la questione della reciproca influenza de-
gli atomi nei composti chimici la teoria del-
la struttura ebbe un ulteriore sviluppo.
Egli aveva chiaro che le forze di affinità
(in linguaggio moderno i legami chimi-
ci) che un atomo poteva formare allo sta-
to libero erano diverse da quelle che si
trovavano per lo stesso atomo in un com-
posto. All’interno della molecola, le
azioni reciproche indebolivano o rin-
forzavano i legami tra gli atomi. Tali azio-
ni andavano a diminuire con la distan-
za nella catena tra i due atomi. Infatti, egli
diceva, che più lunga era la catena che
formava il composto e tanto più debo-
le diventava l’influenza reciproca dei
suoi membri, in dipendenza della di-
stanza che li separava. Che la situazione
non fosse così semplice ed univoca lo si
può vedere in Mendeleev che, nella sua
memoria sulla legge di periodicità del
1871, ricollegandosi alla visione newto-
niana della forza chimica, diceva che: «È
necessario supporre che gli atomi nella
particella si trovino in un qualche equi-
librio dinamico e agiscano l’uno sull’al-
tro. L’intero sistema è legato da forze, ap-
partenenti alle diverse parti, e non è le-
cito pensare che due parti qualunque del-
l’insieme si trovino in dipendenza da una
terza e non influiscano l’una sull’altra,
tanto più se tutto ciò che sappiamo su
queste sue parti ci orienta verso il rico-
noscimento di una loro chiara e costan-
te interazione chimica»15.
10. A. M. Butlerov, in J. I. Solov’ev, L’evoluzione del pen-siero chimico dal ’600 ai giorni nostri, Biblioteca della EST,Edizioni scientifiche e tecniche Mondadori, Milano 1976,p. 224.11. A. Barazov, in J. I. Solov’ev, L’evoluzione del pensierochimico , cit., p. 224 (nella nota).12. A. M. Butlerov, Socinenija [Opere], Mosca 1953, I.13. A. M. Butlerov, Sulle differenti spiegazioni di alcuni casidi isomeria (1864), in Socinenija [Opere], Mosca 1953, I.14. Ibidem.15. D. Mendellev, memoria su La legge della periodicitàdegli elementi chimici, 1871, in A. Di Meo, Atomi e mole-cole fra due secoli (XIX e XX), Atti della IIIa Scuola EstivaFodamenti Metodologici ed Epistemologici, Storia e Di-dattica della Chimica, Pisa 2000, a cura di E. Niccoli, P.Riani e G. Villani, pp. 87-88.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 81
L’attuale concetto di struttura, nel caso
di enti materiali, implica senz’altro una
disposizione spaziale delle parti costi-
tuenti, ma non si esaurisce in essa. Cre-
diamo che più rispondente all’uso che la
scienza fa del concetto di struttura sia
l’evidenziare le seguenti proprietà. Si dice
che un sistema è dotato di struttura
quando l’insieme delle parti costituenti
presenta due caratteristiche: tali parti
sono in certe relazioni stabilite, e per un
tempo sufficientemente lungo rispetto ai
fenomeni che si stanno considerando, e
tali relazioni modificano i componenti
rendendo specifica ed unica questa ag-
gregazione, trasformano cioè un aggre-
gato in un sistema. Una volta che il
concetto di struttura è definito in que-
sti termini possiamo senz’altro affermare
che un insieme di atomi (una molecola)
ha una struttura e, quindi, costituisce un
sistema. Tutto ciò si riconnette alla dif-
ficoltà, già evidenziata, per l’atomismo
classico di concepire il concetto di strut-
tura e di spiegare, quindi, l’insorgere del-
le proprietà nuove in un composto. La
mancanza del concetto di struttura ha
sempre resa l’aggregazione atomica qual-
cosa di puramente meccanica e non in
grado di spiegare il nuovo che emergeva
nel momento in cui si andava a forma-
re una vera e propria molecola.
Dal punto di vista scientifico odierno è
evidente che gli atomi all’interno di una
molecola sono particolari: essi non
sono uguali a quelli isolati e si parla di
atomi in situ. Consideriamo, per esem-
pio, quattro molecole che contengono
atomi d’idrogeno: acqua (H2O), meta-
no (CH4), alcol etilico (C2H5OH) e
benzene (C6H6). Ogni chimico sa bene
che l’idrogeno dell’acqua è diverso (per
esempio è più acido) di quello del me-
tano, che nell’alcol etilico vi sono due
tipi differenti di idrogeni (e sono evi-
denziati nella formula, i 5 H legati a C
e H legato ad O) e ambedue differenti
da quelli dell’acqua e del metano e lo
stesso dicasi per il benzene. Nella Si-
stemica odierna, tale differenzazione è
attribuita alla retroazione del sistema sui
componenti ed è un punto essenziale
della caratterizzazione di un sistema.
Ovviamente se indichiamo con lo stes-
so simbolo (H) questi atomi qualcosa
devono pure avere di simile e, tuttavia,
non sono identici. Potremmo dire con
Morin, che le proprietà di eguaglianza
e di diversità sono ambedue presenti,
come è, e deve essere, per i costituenti
di un sistema.
Le definizioni classiche della struttura
molecolare, quindi, in termini di costi-
tuzione, configurazione e conforma-
zione possono andare bene se, definita
la costituzione come la sequenza dei le-
gami, si metta poi in evidenza la modi-
fica che tali legami generano sugli ato-
mi costituenti. È questa modifica, dovuta
all’interazione specifica ed unica tra gli
atomi, che costituisce il sistema mole-
colare, che crea un ente unico e nuovo.
È in questo senso che si afferma che il
concetto di struttura molecolare è un
concetto recente e che quindi, tanto gli
atomisti classici quanto i primi atomi-
sti moderni non possedevano un tale
concetto. Invece, in senso generale, l’im-
portanza del problema delle parti e del-
le loro qualità all’interno del tutto era
stato intuito da Aristotele ed era fonda-
mentale per i filosofi medievali.
Spunti didatticiPrima di spendere qualche parola sulle
implicazioni didattiche dell’ottica della
complessità sistemica, vogliamo sottoli-
neare la possibilità che le conquiste con-
cettuali del mondo molecolare, visto in
quest’ottica, si possano applicare al mon-
do umano. Non è intenzione dell’auto-
re fare improprie estensioni da un ambito
ad un altro, ma le analogie svolgono un
ruolo importante in scienza e, a nostro av-
viso, possono aiutare ad analizzare un
ambito con l’aiuto di concetti sviluppa-
ti in altri. Luhman sosteneva che com-
plesso significasse relazionarsi in manie-
ra selettiva. Io credo che questo sia un
punto fondamentale, scarsamente con-
siderato nella letteratura sulla comples-
sità, ma ben presente nel mondo mole-
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI82
PERCORSI DIDATTICI
colare. Quando si vede un modellino di
una molecola, la prima cosa che si nota
è che le palline sono collegate tra di loro,
ma non ognuna con tutte le altre. Per
esempio, anche una molecola semplice
come quella dell’acqua (H2O), formata
da 3 atomi, presenta la caratteristica che
l’ossigeno è legato ai due idrogeni, ma
questi ultimi sono legati solo all’ossige-
no e non tra di loro (in pratica H-O-H).
Ben diversa è la situazione in fisica dove,
per esempio, posizionate tre cariche ad
una certa distanza tutte le coppie di in-
terazioni sono valide. Questa selettività ha
dato vita a concetti chimici come affini-
tà e il loro uso in ambito letterario (si pen-
si alle affinità elettive di Goethe) stanno
lì a dimostrare le potenzialità dei concetti
di questo mondo molecolare.
Nel mondo umano, in molte circostan-
za si presenta la compresenza di sistemi
quasi scomponibili e questa differenzia
il comportamento a tempi brevi e lun-
ghi. Anche questo aspetto è ben presente
nel mondo molecolare dove molte sca-
le di tempi, dovute ad interazioni intra
e inter-molecolari differenti, coesistono.
È proprio l’intersecarsi delle dinamiche
di tali processi che rende il mondo mo-
lecolare vivo, simile a quello animato e
il suo largo utilizzo nella biochimica sta
ad evidenziarne le potenzialità.
Infine, la descrizione con enti e processi è
tipica del mondo umano, ma anche
del mondo molecolare. Mentre in fisica
i processi prevalgono sugli enti, e quin-
di la descrizione in termine di enti (si ri-
fletta sulla non esistenza di sostanze fi-
siche, pezzi di realtà con nomi propri) è
poco utile; mentre in tanta parte della
biologia la descrizione dell’ente preva-
le su quella di processo (si pensi alle spe-
cie fisse fino alla metà dell’Ottocento),
la chimica è la disciplina nella quale enti
e processi sono sullo stesso piano: mo-
lecole e composti che hanno sempre la
proprietà di trasformarsi nelle reazioni
chimiche. Mai, neppure nell’Alchimia,
si è, infatti, pensato a sostanze chimiche
intrasformabili; mai, in nessuna epoca,
si è pensato che la pluralità del mondo
molecolare e del mondo macroscopico
dei composti potesse essere eliminata da
un’unica sostanza.
Come utilizzare queste nozioni della
complessità sistemica nell’ambito della
didattica scientifica e chimica in parti-
colare? È fuori dallo scopo di questo la-
voro e dalle competenze dell’autore,
dare ricette specifiche per portare nella
maniera più opportuna in ambito di-
dattico il concetto di sistema in genera-
le e chimico in particolare.
Due aspetti vanno comunque fatti no-
tare. Il primo, più generale, è la costata-
zione che la caratteristica più importante
dell’ottica sistemica è quella delle inter-
relazioni tra gli enti. In ambito scolasti-
co le entità in gioco sono le materie in-
segnate. Notare che non esiste formal-
mente e stabilmente un momento di in-
terrelazione, non esiste codificato un mo-
mento in cui più discipline diverse (per
esempio fisica e biologia) lavorino in-
sieme, è banale ma vero. In un’ottica ri-
duzionista questo modo di procedere era
ragionevole. L’idea generale sottosa, in-
fatti, era che le singole discipline fosse-
ro o autonome o gerarchizzate. L’idea si-
stemica, invece, prevede sempre auto-
nomia (che ci permette di caratterizza-
re i singoli enti), ma anche relazioni, fon-
damentali nella stessa caratterizzazione
degli enti. Una corretta riproposizione in
ambito didattico di quest’ottica sistemica
dovrebbe affiancare ai tempi specifici del-
le discipline dei tempi previsti e forma-
li di sovrapposizione. Ovviamente, le so-
vrapposizioni dovrebbero essere mag-
giori per materie affini (fisica-chimica,
chimica-biologia, italiano-storia, fisica-
filosofia, ecc.), ma lasciare anche la pos-
sibilità di costruire dei progetti didatti-
ci in cui materie ritenute lontane possa-
no mostrare vicinanze insospettate (per
esempio chimica e religione). La secon-
da considerazione riguarda la prepara-
zione dei docenti. L’università prepara i
docenti impartendo loro una lunga lista
di conoscenze specifiche. In nessun mo-
mento, tranne sensibilità particolari, è
previsto un confronto tra discipline di-
verse, l’evidenziare le sovrapposizioni e
analizzare i punti discordanti. Ognuno
procede per la sua strada. Le vecchie e bi-
strattate SSIS, e ora – forse – i TFA, al-
meno in qualche caso (per esperienza
personale) cercano di accostare le disci-
pline, di confrontarle.
Qualche parola, infine, va spesa per gli
aspetti culturali e formativi delle disci-
pline scientifiche, aspetti non sempre evi-
denziati nelle scuole, a volte anche per
mancanza di sensibilità degli stessi do-
centi di area scientifica. Guardiamo
l’esempio della chimica. Abbiamo visto
che la chimica rappresenta una fonda-
mentale scienza sistemica per l’impor-
tanza che in essa assume il concetto di
molecola (sistema di atomi) e di com-
posto chimico (sistema di elementi) e
questa verità scientifica va sottolineata sul
piano filosofico, rivendicata su quello
culturale ed integrata in quello didatti-
co. Ancora una volta appare fonda-
mentale il ruolo culturale della chimi-
ca, snodo essenziale tra la fisica e la bio-
logia, tra il semplice (ma anche in fisica
esistono sistemi complessi) del fisico e
il complesso traboccante della biologia.
Non più ponte tra fisica e biologia,
perché per sua tipologia il ponte è qual-
cosa di piccolo tra due territori grandi,
ma qualcosa di concettualmente simile
alle altre due discipline. Inoltre, in que-
sta differenziazione alla pari tra fisica,
chimica e biologia ne resta stritolato tan-
to il riduzionismo quanto la dicotomia
inanimato-animato.
Giovanni VillaniCNR Pisa
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 83
PERCORSI DIDATTICI
Auna prima parte dell’intervento,
costituita da una introduzione
alla sobrietà, seguiranno rifles-
sioni che cercheranno di porre in luce
come la fisica e la tecnologia possano
aiutare efficacemente sulla strada della
sobrietà, anche attraverso la discussio-
ne concreta di casi pratici riguardanti la
vita quotidiana. Arrivando così a mo-
strare che in realtà, e senza problemi, di
tante cose ne basta la metà, e magari an-
che meno. Così procedendo, la sobrie-
tà, riferita ai suoi fondamenti scientifi-
ci, viene ad acquistare connotazioni
decisamente positive e può trovare più
facilmente spazi concreti di attuazione1.
La sobrietà e il mito delle risorse infinitePer molte e molte migliaia di anni
l’umanità ha utilizzato soltanto il ne-
cessario, per il semplice motivo che
non disponeva del superfluo. E in real-
tà, spesso, non disponeva neppure del
necessario, come del resto avviene anche
oggi in tante parti del mondo (c’è oltre
un miliardo di persone il cui reddito non
arriva a 1 dollaro al giorno).
In quei tempi lontani si utilizzava il cibo
fino all’ultima briciola e quel poco che
risultasse immangiabile era destinato a
nutrire gli animali. Perché la scarsità di
cibo era una realtà quotidiana, tanto che
ci si poteva veramente saziare soltanto
una volta l’anno, in occasioni quali il ter-
mine del raccolto o l’uccisione del ma-
iale. Si era attenti a non sprecare l’acqua,
usandone lo stretto necessario, perché
proveniente da una fontana distante o ti-
rata su a fatica da un pozzo. Si badava a
non consumare troppa legna per ri-
scaldarsi, e soltanto quando faceva fred-
do davvero. Si andava a letto piuttosto
presto, al calar del sole, per non consu-
mare l’olio delle lanterne. Gli oggetti che
si utilizzavano erano, di necessità, po-
chissimi: solo eccezionalmente nuovi, di
solito riparati alla men peggio. E il
guardaroba consisteva spesso di un uni-
co vestito, rattoppato di tanto in tanto.
Ancora un paio di generazioni fa, per
rinnovarli, si usava rivoltare i vestiti e i
cappotti, le suole delle scarpe si proteg-
gevano con appositi ferretti e quando poi
erano troppo consunte si sostituivano ri-
suolando le scarpe. Quello che si rom-
peva si riparava per farlo durare il più
lungo possibile. E in casa c’era l’abitu-
dine di non buttare mai via nulla.
Più di recente le cose, almeno dalle no-
stre parti, sono cambiate totalmente. E
allora siamo stati travolti dalla disponi-
bilità di cibo, di oggetti e manufatti di
ogni sorta, e di energia per riscaldarci,
illuminarci, viaggiare a dritta e a man-
ca, e per i tanti altri impieghi che sap-
piamo. Tanto che oggi ci sembra nor-
male considerare tutto quello che usia-
Introduzione alla sobrietà (1)Giovanni Vittorio Pallottino
È POSSIBILE CONTINUARE SULLA STRADA DEI CONSUMI CRESCENTI DA PARTE DI UN NUMERO DI PERSONE A SUA VOLTA
CRESCENTE? EVIDENTEMENTE NO. EPPURE QUESTA CONSAPEVOLEZZA NON È PARTICOLARMENTE DIFFUSA, E COMUNQUE
NON SEMBRA SIA SUFFICIENTE A INDURRE QUALCHE CAMBIAMENTO NEGLI STILI DI VITA. È BEN POSSIBILE, D’ALTRA PARTE,CONTENERE O ADDIRITTURA RIDURRE I NOSTRI CONSUMI SENZA PEGGIORARE LA QUALITÀ DELLA VITA, MAGARI
ADDIRITTURA MIGLIORANDOLA. DI QUI IL RICHIAMO ALLA VIRTÙ DESUETA, UN PO’ IMPOLVERATA, DELLA SOBRIETÀ.
mo e consumiamo come se provenisse
da risorse infinite. Da cui cioè si può at-
tingere senza limiti. Come l’acqua del ru-
binetto, che basta aprirlo e ne viene
quanta se ne vuole, calda o fredda a pia-
cere. Come l’elettricità, che preleviamo
senza particolare attenzione dalle prese
di corrente. O come i prodotti alimen-
tari, che arrivano da ogni dove, affol-
lando gli scaffali dei supermercati e
non aspettando altro che andare a riem-
pire il nostro carrello. Ma anche come lo
stesso denaro, che ci dispensano, in
modo solo apparentemente indolore, i
bancomat e le carte di credito (al mas-
siccio e incauto impiego delle quali in
Usa risale una delle cause della crisi fi-
nanziaria del 2008).
Il mito delle risorse infinite è partico-
larmente diffuso fra le generazioni più
giovani che sono state educate a non
porre attenzione ai consumi, come se
fossero destinate a vivere nel paese di
bengodi, e che del resto, per motivi
anagrafici, non hanno alcun ricordo
diretto di epoche passate più risparmiose.
Che non sono abituate, in particolare, a
rispettare il cibo: quello che avanza va a
ingombrare la pattumiera, anche perché
1. I contributi riprendono, rielaborato, il saggio La fisicadella sobrietà – Ne basta la metà o ancora meno, pubbli-cato dallo stesso autore nel 2012 (Edizioni Dedalo, Bari).
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI84
PERCORSI DIDATTICI
al nutrimento di eventuali animali do-
mestici provvedono le apposite scansie
dei supermercati o i numerosi negozi a
ciò dedicati.
Il mito delle risorse infinite, oggi domi-
nante, ben si collega a un altro mito, cioè
quello secondo cui ogni generazione è de-
stinata a disporre di beni in misura sem-
pre maggiore della precedente. Entram-
bi i miti sono basati su dati reali. Che tut-
tavia rappresentano l’esperienza soltan-
to delle ultimissime generazioni, mentre
i dati più recenti appaiono addirittura in
controtendenza, mostrando che il co-
siddetto ascensore sociale si è alquanto in-
debolito, se non proprio inceppato.
Ma tutto questo cibo, tutti questi oggetti,
tutta questa energia che consumiamo,
non ci arriva gratis. E per di più, in va-
ria misura a seconda dei casi, tutto ciò
è inevitabilmente accompagnato da
qualche forma di degrado dell’ambien-
te o quantomeno dal ricorso a risorse na-
turali destinate all’esaurimento. Come
nel caso del petrolio2, che abbiamo tro-
vato in abbondanza nel sottosuolo, a dif-
ferenza di quanto avverrà invece per i no-
stri discendenti. Senza dimenticare che
il petrolio contiene sostanze preziose per
la fabbricazione delle materie plastiche,
e quindi è piuttosto insensato bruciar-
lo. Più in generale, dovrebbe essere
chiaro, come si ripete ormai da qualche
decennio, che il nostro pianeta è finito
e dunque le risorse sono inevitabil-
mente limitate. E quindi il mito delle ri-
sorse infinite è privo di qualsiasi fonda-
mento.
I semplici argomenti di fisica pratica pro-
posti nel seguito e in successivi interventi,
mostrano in realtà che nella maggior
parte dei casi per vivere più che con-
fortevolmente ne basta la metà o anco-
ra meno. La metà di che? Di tutto, o qua-
si tutto, quello che consumiamo. E se
davvero consumassimo tutti la metà di
tutto, sarebbe un bel rifiato per l’am-
biente, per le risorse del pianeta a noi af-
fidato, per la bolletta energetica nazio-
nale (63 miliardi di euro nel 2011) e per
la bilancia commerciale dell’Italia. Oltre
che per il nostro portafoglio, cosa che
non guasta davvero.
Inevitabile sobbalzo, a questo punto, del
Lettore cultore di scienze economiche,
con l’immediata obiezione: «Ma così fa-
cendo si avrebbe un crollo del PIL!». Eb-
bene, così procedendo, il prodotto in-
terno lordo subirebbe certamente un
calo3. Ma è noto ormai da tempo che
questo indicatore non è più considera-
to particolarmente espressivo del grado
di ben-essere di una nazione, in quan-
to ne rappresenta piuttosto il ben-ave-
re, che appunto è cosa alquanto diver-
sa dal benessere. In effetti il PIL ignora
totalmente tutti gli aspetti dell’esisten-
za umana che non danno luogo a spo-
stamenti di denaro, come il lavoro ca-
salingo o il volontariato, trascurando così
elementi essenziali per la coesione sociale
e la qualità della vita (che se fossero con-
tabilizzati in termini di lavoro remune-
rato equivalente sposterebbero di diecine
di punti percentuali il valore di questo
indicatore). E ignora anche il capitale na-
turale che viene perso nei processi di cre-
scita economica (l’abbattimento di una
foresta, per fare un esempio). Mentre ad
esso contribuiscono positivamente fat-
ti decisamente indesiderati come gli
incidenti stradali oppure l’inquina-
mento dell’aria, in quanto conducono ad
un aumento della spesa sanitaria . E con-
tribuisce anche il gioco d’azzardo, la cui
spesa si aggira in Italia attorno a 70 mi-
liardi l’anno. Si ricorda poi il paradosso
della cuoca, per cui il PIL diminuisce
quando la cuoca sposa il suo padrone e
conseguentemente non riceve più una
retribuzione contabilizzata ufficialmente
da parte dello stato (il curioso fenome-
no, d’altra parte, non si verifica se la cuo-
ca lavorava in nero).
Ogni epoca, del resto, ha visto indicatori
diversi: prima, in un passato fortunata-
mente lontano, la potenza delle armate,
cioè la numerosità dei militari e l’enti-
tà degli armamenti; poi la produzione di
carbone, di acciaio o di cemento; da
qualche tempo il PIL, che è considera-
to essenziale per rappresentare lo stato
di salute delle economie dei paesi (e che
trova largo impiego nelle dispute poli-
tiche per valutare l’efficacia delle azio-
ni di governo). Ma oggi si tende a dare
maggior peso ad altri indicatori, come
il cosiddetto Indice di sviluppo umano
(ISU) o Human develpment index
(HDI)4, che esprimono assai più effica-
cemente del PIL la qualità della vita. A
questo indice, accanto al reddito medio
della popolazione, concorrono la sua
aspettativa di vita, e perciò la qualità del
sistema sanitario, e il suo grado di alfa-
betizzazione, che rappresenta a sua vol-
ta la qualità del sistema di istruzione.
E quindi si tratta di un indice assai ap-
propriato per la società postindustriale in
cui viviamo, la società dell’informazione
e della conoscenza, nella quale le idee, an-
che in termini economici, hanno più peso
delle cose. Come ha scritto George Ber-
nard Shaw, «se tu hai una mela, e io ho
una mela, e ce le scambiamo, allora tu ed
io abbiamo sempre una mela per uno. Ma
se tu hai un’idea, ed io ho un’idea, e ce le
scambiamo, allora abbiamo entrambi due
idee», e così cresce il patrimonio comu-
ne di idee. Sono numerosi, del resto, i casi
nei quali esistono forti discrepanze tra
come si posizionano le diverse nazioni in
ordine di PIL pro capite ed in ordine di
2. Considerando i tempi geologici che sono stati ne-cessari per accumulare le riserve di petrolio a cui stiamoattingendo, si valuta che le stiamo consumando a unritmo all’incirca centomila volte superiore.3. A prescindere dagli eventuali effetti delle ricorrenticrisi economiche.4. http://it.wikipedia.org/wiki/Indice_di_sviluppo_umano; http://hdr.undp.org/en/.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 85
PERCORSI DIDATTICI
ISU. Il che vuol dire che paesi meno ric-
chi di altri possono avere maggior qua-
lità nello sviluppo umano, e quindi mag-
gior benessere.
Ma perché mai, tornando al nostro di-
scorso, si dovrebbe mirare a consuma-
re solo la metà? Fondamentalmente,
come già accennato, per motivi etici: det-
to in breve per fare un po’ di spazio an-
che agli altri. A quelli che già ci sono, so-
prattutto nei paesi lontani da noi, i
quali hanno certamente diritto a una vita
meno grama dell’attuale, e si tratta di
svariati miliardi di persone. E pure a
quelli che verranno, molti altri miliardi,
nel prossimo futuro, ai quali andrebbe
lasciato un pianeta non troppo depre-
dato nelle sue risorse. Ma anche per mo-
tivi estetici: qualunque cosa si faccia, è
certamente più elegante farla al meglio;
come appunto è pienamente possibile,
seguendo assieme il buon senso e i sug-
gerimenti della scienza. Argomento,
quest’ultimo, largamente inesplorato ai
più, ma che si cercherà nel seguito di trat-
tare dosandolo con doverosa cautela.
Alla base della sobrietà c’è la temperanza,
che rientra fra le quattro virtù indivi-
duate dal filosofo greco Platone (La
Repubblica), che sono state assunte poi
come virtù cardinali dalla religione cri-
stiana. La temperanza, come si legge nel
Catechismo della Chiesa cattolica (Art.
7, 1809), «rende capaci di equilibrio nel-
l’uso dei beni creati. Essa … mantiene
i desideri entro i limiti dell’onestà». Li-
miti evidentemente non ben definiti in
termini generali; a livello individuale det-
tati dalla coscienza di ciascuno, la qua-
le presenta, come ben sappiamo, larghi
margini di elasticità.
E del resto ci sarebbero poche speranze
per il futuro dell’uomo e del pianeta se
fosse vero quello che scrisse Thomas
Hobbes5 quattro secoli fa e che sembra
ispirare certi comportamenti d’oggi:
«La felicità della vita non consiste nel ri-
poso di una mente soddisfatta, Perché
non c’è un fine ultimo o un bene som-
mo, come sostenevano i filosofi morali
dell’antichità. … La felicità è un progresso
continuo del desiderio da un oggetto a
un altro, il raggiungimento dell’uno
non essendo altro che la via verso il suc-
cessivo». Progresso continuo che in re-
altà consiste nel mantenere le persone in
uno stato di perenne insoddisfazione,
sempre in attesa di qualcosaltro di più.
di più dipende largamente da fattori sog-
gettivi, cioè anche dal chi. Presso i po-
poli che vivevano di caccia e di raccol-
ta, e ve ne sono tuttora, il necessario –
disporre di un qualche riparo per la not-
te, avere accesso a un corso d’acqua, cat-
turare un animale, trovare dei vegetali
commestibili – era certamente assai di-
verso da quanto si richiede oggi da noi,
che elencare sarebbe davvero troppo lun-
go. E comunque una tendenza natura-
le è quella di considerare necessario
ciò di cui dispongono gli altri, soprat-
tutto quelli in qualche modo più pros-
simi o comunque più visibili. Che è un
fatto reale, con conseguenze importan-
ti, come mostrano gli studi che hanno
individuato un evidente nesso inverso,
nei diversi paesi del mondo, fra l’entità
delle disuguaglianze sociali e gli elementi
di benessere complessivo che concorrono
agli indici di sviluppo umano6.
Quanto al superfluo, beh, è qualcosa di
ancor più soggettivo, anche perché un’al-
tra tendenza naturale è quella di consi-
derare necessario anche ciò che è sicura-
mente superfluo. A questo, come sap-
piamo, contribuisce pesantemente l’espo-
sizione alla pubblicità, in particolare a
quella televisiva, che è particolarmente pe-
netrante e convincente, soprattutto nei
confronti dei più sprovveduti. Quale uti-
lità reale per la generalità del pubblico, per
esempio, può presentare un oggetto qua-
le il distruggidocumenti automatico re-
clamizzato fortemente in Tv qualche
tempo addietro? La sua caratteristica
principale, oltre a quella di adattarsi age-
La felicità fra le montagne dell’Himalaya
40 anni fa il re del Bhutan, piccolo statobuddista racchiuso fra le montagne del-l’Himalaya, si propose di indirizzare la po-litica del paese al raggiungimento dellafelicità per i suoi sudditi invece che allacrescita del PIL. Con risultati eccellenti,tanto che su proposta del suo nipote, l’at-tuale re Jigme Khesar Namgyel Wan-gchuck, una sessione ufficiale delle Na-zioni Unite è stata dedicata ad esaminarli.Alla presenza di capi di stato e di eco-nomisti impegnati ad esaminare i crite-ri di calcolo dell’indice del benessere uti-lizzato in Bhutan, denominato GNH(Gross National Happiness - Felicità Na-zionale Lorda).
Attenzione però
«La maggior parte dei nostri consumisono così convenienti perché molti la-voratori che producono ciò che consu-miamo sono sottopagati».Andrea Segrè, Basta il giusto (quanto equando), altraeconomia, 2011.
5. Leviathan, cap. 11, http://www.bartleby.com/34/5/11.html.6. Gli epidemiologi inglesi R. Wilkinson, K.Pickett (La mi-sura dell’anima. Perché le disuguaglianze rendono le so-cietà più infelici, Feltrinelli, Milano 2009) hanno studiatoin particolare le relazioni fra l’indice di disuguaglianzarappresentato dal rapporto fra i redditi del 20% piùricco e del 20% più povero della popolazione, e indicisociali quali la mortalità alla nascita, la durata mediadella vita, il tasso di omicidi, la coesione sociale…
Il necessario e il superfluo Il breve cenno, fatto all’inizio, a neces-
sario e superfluo richiede qualche chia-
rimento. Cosa sia effettivamente neces-
sario e cosa invece sia superfluo dipen-
de infatti dal dove e dal quando. E per
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI86
PERCORSI DIDATTICI
volmente a cestini di varia misura, era il
costo molto basso. Ma quanti telespetta-
tori si saranno resi conto che un buon
paio di forbici permette sicuramente di
fare a meno del grazioso gadget?
Ma non basta. Perché, come ci informa
l’etologo Danilo Mainardi sul Corriere
della sera, 2 ottobre 2011, si conta di
estendere la pubblicità televisiva anche
agli animali domestici. Reclamizzando
«… un alimento per cani usando uno
spot televisivo che trascura i padroni ed
è indirizzato direttamente ai cani con
tanto di guaiti e di ultrasuoni che solo
essi, appunto, dovrebbero poter capire.
Ammesso che funzioni, naturalmen-
te». E qui, mentre non ci sono dubbi sui
guaiti, qualche dubbio c’è sulla possibi-
lità di ricevere ultrasuoni tramite il ca-
nale audio della Tv e poi di riprodurli
con gli altoparlanti del televisore. Che
sono progettati per funzionare alle fre-
quenze udibili ma non a quelle più
alte, dove si situano appunto gli ultra-
suoni a cui è sensibile l’orecchio dei cani.
Rientrano poi nel palesemente superfluo,
oltre che nel diseducativo, le recenti
iniziative rivolte a fornire cure estetiche,
oltre che alle madri, anche alle bambi-
ne fra 2 e 12 anni.
L’estetica scientificadella sobrietà: il risparmio energeticoLe azioni che contribuiscono a uno sti-
le di vita ispirato alla sobrietà trovano in
larga parte il loro fondamento tecnico-
scientifico nel risparmio energetico.
Alla base di questo concetto vi è il rico-
noscimento che l’energia non è fine a se
stessa, ma soltanto un mezzo per otte-
nere determinati beni, come costruire
una casa, un’automobile o un telefoni-
no, oppure per disporre di servizi, come
riscaldare un’abitazione, compiere un
viaggio o cuocere il minestrone. E che
questi beni e servizi richiedono quanti-
tà di energia diverse, anche di parecchio,
a seconda dei procedimenti che si im-
piegano per ottenerli. Seguire il criterio
del risparmio energetico significa allo-
ra scegliere le soluzioni tecnologiche che
conducono a ridurre i consumi di ener-
gia a parità di risultato finale, cioè sen-
za dover rinunciare a nulla.
E allora il risparmio energetico può es-
sere considerato come una sorta di invi-
sibile, ma reale ed efficacissima, fonte
energetica alternativa addizionale. Sap-
piamo inoltre che sfruttare al meglio
l’energia disponibile, contenendone quin-
di i consumi, contribuisce assai efficace-
mente non soltanto a preservare l’am-
biente del nostro pianeta, ma anche a ri-
durre i rischi di incidenti e quindi a ri-
sparmiare vite umane. Perché la produ-
zione dell’energia, come del resto la pro-
duzione di qualsiasi altra cosa, com-
porta inevitabilmente dei rischi (nessu-
na attività umana può presentare rischio
zero), che dovrebbero essere all’attenzione
del consumatore, motivandolo al ri-
sparmio anche dal punto di vista etico.
I rischi maggiori provengono dal car-
bone e dal petrolio soprattutto, ma non
solo, a causa dell’inquinamento atmo-
sferico (polveri sottili, gas nocivi, ecce-
tera) prodotto dal loro impiego; che se-
condo l’Organizzazione mondiale del-
la sanità ogni anno causa nel mondo ol-
tre un milione di morti. Ma tutte le fon-
ti di energia – nelle loro diverse fasi di
produzione, trasporto, impiego e via di-
cendo – comportano dei rischi, che
sono stati valutati in termini quantita-
tivi. Mostrando in particolare che se il
carbone e il petrolio sono le fonti che
provocano il maggior numero di vitti-
me, anche lo sfruttamento dell’energia
idraulica ha condotto a incidenti mor-
tali assai gravi. In Italia ricordiamo le
1917 vittime del disastro del Vajont
(1963), ma disastri anche più gravi
sono avvenuti altrove, per esempio nel
1975, quando i cedimenti a catena di una
serie di dighe a Banqiao (Cina) provo-
carono 171 mila morti.
Ma anche altre fonti di energia consi-
derate come verdi presentano gravi in-
convenienti. Questo è il caso dei bio-
combustibili, cioè dei combustibili di
origine vegetale, e in particolare del
biodiesel. Perché per ottenere carburanti
biodiesel in quantità apprezzabili si
deve spostare la destinazione di vaste
zone dalla produzione di prodotti ali-
mentari a quella appunto di biocom-
bustibili. Sicché negli ultimi anni, come
Quando il superfluo è anche insensato
Può capitare che oggetti al tempo stesso superflui e insensati divengano oggetto delnostro desiderio. Come nel caso del braccialetto Power Balance, reclamizzato sul Webtempo fa. Secondo i suoi promotori: «Il Power Balance è un sistema energetico, un am-plificatore naturale di energia che, entrando in risonanza con i sistemi elettronici, chi-mici e biologici del nostro corpo ne aumenta l’efficienza istantaneamente. In altre pa-role è uno strumento che aumenta la forza del nostro campo biologico proteggendo-lo così da elettromagnetismi distruttivi esterni … [per] ottenere più equilibrio, flessibilitàoppure rinvigorire forza e resistenza». Ma in questa prosa pseudoscientifica infarcita ditermini altisonanti nulla è chiaro: né come si possa amplificare l’energia (quale?) né cosasia il nostro campo biologico e neppure il resto. Rimane misterioso anche il principio difunzionamento del braccialetto. Peraltro qualificato come naturale, evidentemente persolleticare coloro che aborrono l’artificiale e al contempo disponessero dei 39 euro ne-cessari per l’acquisto. La vicenda si è conclusa con un intervento dell’Antitrust, una in-dagine svolta dall’Istituto Superiore di Sanità che ha escluso ogni evidenza scientificadelle qualità promesse, e infine con una multa di 350 mila euro inflitta alle società cheavevano commercializzato in Italia il braccialetto.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 87
PERCORSI DIDATTICI
risulta dai rapporti dell’Organizzazio-
ne mondiale per il commercio (WTO),
si sono verificate impennate dei prezzi
delle derrate agricole per l’alimentazio-
ne, in particolare grano e mais, creando
conseguentemente pesanti problemi nei
paesi più poveri. E qui ricordiamo la ri-
volta delle tortillas verificatasi in Messi-
co nel 2007. Su scala globale oggi circa
l’8% del mais viene impiegato per pro-
durre biocombustibili, con una per-
centuale ancora più elevata negli Stati
Uniti dove questa destinazione nel 2010
ha raggiunto il 35% della produzione, ed
è in ulteriore crescita.
getico si considera il rendimento di cia-
scun diverso processo che conduce a un
dato risultato. Che è definito come rap-
porto fra l’energia minima necessaria per
arrivare allo scopo e l’energia effettiva-
mente spesa nel processo in esame.
Consideriamo, per fissare le idee, un im-
pianto di riscaldamento, usato per man-
tenere l’interno di una abitazione a una
temperatura gradevole durante il fred-
do invernale. Qual è il rendimento del-
l’impianto? Possiamo valutarlo consi-
derando il rapporto fra l’energia termi-
ca (cioè il calore) fornita all’abitazione
e l’energia chimica del combustibile
(cioè la sua capacità, bruciando, di pro-
durre calore). In tal caso il rendimento
risulta tipicamente attorno all’80%,
dato che per varie ragioni resta inuti-
lizzato il 20% circa dell’energia del
combustibile: combustione imperfet-
ta, perdite di calore del bruciatore, ri-
scaldamento dei fumi che vengono di-
spersi nell’aria. Il rendimento risulta poi
assai più basso considerando l’impiego
di stufe elettriche. In tal caso, infatti, è
vero che nelle resistenze l’energia elettrica
che utilizziamo viene convertita total-
mente in energia termica, la quale vie-
ne poi tutta ceduta all’ambiente circo-
stante; però solo una frazione, media-
mente il 40%, dell’energia del combu-
stibile utilizzato in una centrale ter-
moelettrica viene convertito in elettri-
cità. E allora è chiaro che le stufe elet-
triche vanno usate con grande parsi-
monia (almeno da noi, non necessaria-
mente così nei paesi come la Francia,
dove la maggior parte dell’elettricità è
prodotta da centrali nucleari e quindi, ol-
tre a costare meno al consumatore, cir-
ca la metà che noi, non richiede di
bruciare combustibili fossili nelle centrali
elettriche).
È un fatto, comunque, che l’energia uti-
lizzata nelle abitazioni rappresenta cir-
ca un quarto di tutto il fabbisogno ener-
getico nazionale. Secondo gli esperti, l’im-
piego dei criteri del risparmio energeti-
co potrebbe condurre a ridurre di circa
il 30% la quantità di questa energia. E in
effetti si può fare parecchio in tal senso:
sia da subito e senza spesa apprezzabile
sia in seguito, con qualche spesa, in oc-
casione del rinnovo di elettrodomestici
o prendendo altre iniziative, più impe-
gnative, come migliorare l’isolamento ter-
mico della casa (Figura 1).
Energia geotermica e terremoti
Anche lo sfruttamento intensivo del-l’energia geotermica, cioè del caloreterrestre, quando attuato attraverso lafratturazione di rocce a grandissimeprofondità, si è rivelato pericoloso. Ad-dirittura provocando terremoti, come èavvenuto in vari luoghi, dalla Svizzera agliStati Uniti. I terremoti verificatisi a Basi-lea dopo l’avvio del programma geo-termico, sebbene di modesta entità(poco più di 3 gradi Richter), hannocondotto a chiudere il programma nel ti-more che si ripetesse il catastrofico sismache nel 1356 provocò danni gravissimialla città.
Impieghi dell’energia nel 2009
Facciamo qualche esempioUn esempio immediato di risparmio
energetico? Sostituire le tradizionali
lampadine a incandescenza con altre più
efficienti, cioè che consumano meno
energia a parità di illuminazione. Oggi
quelle fluorescenti compatte, fra breve
quelle a stato solido, cioè i LED, i diodi
emettitori di luce che trasformano di-
rettamente l’energia elettrica in energia
luminosa.
In generale, per discutere quantitativa-
mente il problema del risparmio ener- Figura 1.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI88
PERCORSI DIDATTICI
Una buona scelta, per esempio, consiste
nel sostituire la caldaia dell’impianto di
riscaldamento con una del tipo a con-
densazione, che ha un rendimento mag-
giore del 10% rispetto a quelle tradizio-
nali. Questo perché nelle caldaie a con-
densazione si recupera il calore dei fumi
prodotti dalla combustione, in partico-
lare facendo condensare il vapor d’acqua
in essi contenuto, per preriscaldare l’ac-
qua prima di immetterla nella caldaia.
Una soluzione decisamente più impe-
gnativa, ma certamente molto efficace,
riguarda l’impiego di un sistema di mi-
crocogenerazione. Dal quale si ottiene sia
elettricità, da utilizzare direttamente o
da immettere nella rete elettrica rice-
vendone un compenso, sia calore, e
quindi acqua calda per il riscaldamen-
to e gli usi sanitari. In questi impianti il
calore prodotto bruciando un combu-
stibile (gas o carburante liquido) ali-
menta un motore termico, tipicamente
un motore d’automobile, che produce
elettricità tramite un alternatore. Qui
però, a differenza di quanto avviene
usualmente, l’inevitabile calore residuo
del motore non viene disperso. Questo
calore viene infatti recuperato e utiliz-
zato per produrre acqua calda, sfrut-
tando dunque al meglio tutta l’energia
del combustibile, sicché il rendimento
complessivo non è lontano dal 100%. Un
impianto siffatto, tipicamente, è in gra-
do di fornire elettricità e riscaldamen-
to a un condominio. E qui vale la pena
di ricordare che una delle prime realiz-
zazioni di questo tipo risale agli anni ’70,
al tempo della grande crisi energetica
mondiale, quando la Fiat realizzò un ap-
parato di microcogenerazione, chiama-
to TOTEM (Total Energy Module), usan-
do il motore della 127.
Ma è davvero necessario, per riscaldare
un ambiente, creare calore bruciando un
combustibile o utilizzando l’elettricità?
In realtà ci si può procurare il calore che
ci occorre prelevandolo dall’esterno,
più freddo, per pomparlo all’interno. È
chiaro che questo processo non può av-
venire spontaneamente, perché il calo-
re, come è ben noto, suole spostarsi dai
corpi caldi verso quelli più freddi e non
viceversa. E quindi per attuarlo occor-
re spendere dell’energia, ma in quanti-
tà decisamente minore di quanta ne oc-
corre per creare calore da zero con i mez-
zi usuali: tanto minore quanto maggio-
re è la temperatura della sorgente da cui
si preleva il calore (più precisamente,
quanto minore è il salto di temperatu-
ra in salita che il calore deve compiere).
Del resto è proprio grazie a un proces-
so di questo tipo che funzionano i fri-
goriferi. Per il riscaldamento delle abi-
tazioni questo processo trova applica-
zione nelle macchine chiamate pompe di
calore. Che sono impiegate da tempo nei
paesi più freddi, ma che ora si stanno dif-
fondendo anche in Italia.
Dove si prende il calore freddo per pom-
parlo all’interno dopo averlo riscaldato?
Lo si può prelevare dall’aria, dall’acqua
o dal terreno. In vari luoghi, per esem-
pio, vi sono stagni o falde acquifere che
vengono utilizzate a questo scopo. Le co-
siddette pompe geotermiche, invece,
prelevano il calore dal sottosuolo, sfrut-
tando il fatto che la temperatura del ter-
reno, man mano che si va in profondi-
tà, risente sempre meno delle variazio-
ni giornaliere e stagionali. E in effetti già
a pochi metri di profondità la tempe-
ratura del terreno o delle eventuali ac-
que sotterranee è praticamente costan-
te tutto l’anno, sicché, rispetto a quella
in superficie, risulta calda d’inverno e fre-
sca d’estate.
Il pregio di questi impianti è che fun-
zionano come moltiplicatori di energia nel
senso che l’energia del calore prodotto è
alquanto maggiore di quella spesa per il
loro funzionamento. Una buona misu-
ra della loro efficienza è data dal rapporto
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 89
PERCORSI DIDATTICI
fra il calore fornito all’interno di una abi-
tazione e l’energia elettrica consumata
per ottenerlo: il cosiddetto COP, o coef-
ficiente di prestazione, con valori tipici
fra 3 e 5. Che indicano come l’entità del
risparmio di energia, rispetto all’impie-
go di una stufa elettrica, sia veramente
notevole. Si tratta di impianti che sono
certamente più costosi di una caldaia
convenzionale, tipicamente due o tre vol-
te, ma che a lungo termine assicurano un
notevole vantaggio economico.
Anidride carbonica, effettoserra e protocollo di KyotoNon bruciare un chilogrammo di car-
bone evita di immettere nell’atmosfera
3,8 kg di anidride carbonica (CO2); non
bruciarne uno di petrolio ne risparmia
3,1 e uno di gas naturale 2,3. Quanto al-
l’elettricità, risparmiare un chilowatto-
ra significa evitare circa 0,5 kg di anidride
carbonica. Chi poi volesse farsi un’idea
delle proprie emissioni più in dettaglio
può accedere all’apposito sito del WWF:
http://www.improntawwf.it/main.php.
Ma perché si parla tanto di questo gas? Il
fatto è che, secondo l’opinione prevalen-
te oggi fra gli scienziati, esso contribuisce
all’aumento della temperatura della Ter-
ra registrato negli ultimi decenni (corri-
spondente a circa 0,7 °C nel secolo pas-
sato), a causa del cosiddetto effetto serra.
Avviene infatti che determinati gas pre-
senti nell’atmosfera – in primis il vapor
d’acqua, poi l’anidride carbonica, il me-
tano ed altri ancora – hanno la proprie-
tà di assorbire le radiazioni infrarosse la-
sciandosi invece attraversare dalla luce vi-
sibile, comportandosi dunque in modo si-
mile ai vetri di una serra. Così la radiazione
solare può raggiungere (meno male!) la
superficie terrestre mentre una frazione
della radiazione (infrarossa), che la Ter-
ra emette in ragione della temperatura a
cui si essa si trova, viene bloccata dall’at-
mosfera e perciò non esce da questo in-
volucro verso lo spazio esterno. Con un
effetto complessivo di riscaldamento che
ammonta a una trentina di gradi, e non
è poco. Così la temperatura media della
Terra, circa 15 °C, è alquanto maggiore di
quella che avremmo in assenza dell’effetto
serra, che sarebbe attorno a -18 °C. Con
il nostro pianeta ridotto a un mondo di
ghiacci perenni, assolutamente inadatto
alla vita, vegetale, animale e nostra.
Alla deforestazione in atto nelle regionitropicali contribuisce anche la domandadi legni pregiati da parte dei paesi in-dustrializzati. In Europa, invece, contra-riamente a quanto si ritiene comune-mente, i boschi sono in crescita. In Italianegli ultimi vent’anni la superficie fore-stale è aumentata di oltre il 20% arri-vando a coprire, con 12 miliardi di albe-ri, oltre un terzo del territorio.
Se questo è un fatto decisamente fortu-
nato per noi tutti, assai meno gradevole
è l’aumento della concentrazione di ani-
dride carbonica nell’atmosfera che si è
avuto nel corso dell’ultimo secolo, da cir-
ca 300 a 390 parti per milione in volume:
quantità piccolissime ma assai significa-
tive. Questo aumento viene attribuito al-
meno in parte alle emissioni prodotte dal-
l’uomo bruciando grandi quantità di
combustibili fossili, come pure alla de-
forestazione in atto in molti paesi (non
da noi), e ad esso si attribuisce l’intensi-
ficazione dell’effetto serra e quindi l’au-
mento della temperatura terrestre. Per evi-
tare le conseguenze di ulteriori riscalda-
menti, che secondo gli scenari più pessi-
mistici potrebbero ammontare a 5 °C alla
fine di questo secolo, i governi si sono ac-
cordati per ridurre le emissioni di anidride
carbonica attraverso il cosiddetto Proto-
collo di Kyoto.
Stabilito nel 1997 nell’ambito dell’ONU,
questo protocollo sancisce che ciascuna
nazione deve ridurre entro il 2012 le pro-
prie emissioni al 95% di quelle prodot-
te nel 1990: una riduzione assai cospi-
cua a fronte degli aumenti di emissioni
verificatisi nel frattempo. Questo com-
pito, in effetti, è stato assegnato alle na-
zioni industrializzate, esentandone quel-
le emergenti per un principio di equità
e anche a fronte della minor rilevanza
(all’epoca) delle loro emissioni.
Ma i risultati del protocollo di Kyoto
sono stati al tempo stesso deludenti e de-
vastanti7. Deludenti perché le emissio-
ni mondiali di anidride carbonica, no-
nostante la diminuzione di quelle pro-
dotte dai paesi industrializzati, anziché
diminuire sono aumentate, a causa del-
la forte crescita del contributo dei pae-
si emergenti: alla sola Cina si deve oggi
oltre un quarto del totale delle emissio-
ni. Devastanti perché i paesi industria-
lizzati, per restare nel mercato, sono sta-
ti costretti a spostare buona parte della
loro produzione industriale nei paesi
non soggetti alle regole di Kyoto, con ef-
fetti deleteri di disoccupazione (da noi).
Ma non solo questo. Perché nei paesi
emergenti, ormai parecchio emersi, nel
contempo venivano prodotte grandi
quantità di energia elettrica utilizzando
centrali alimentate a carbone consen-
tendo così la fabbricazione a basso co-
sto di una gran varietà e quantità di pro-
dotti che venivano poi esportati nei
paesi industrializzati. Fra questi, anche
i pannelli fotovoltaici a cui i paesi in-
dustrializzati, in particolare l’Italia, han-
no fatto largo ricorso allo scopo di ot-
temperare al protocollo di Kyoto pro-
ducendo elettricità senza emissioni di
anidride carbonica. Più precisamente,
senza emissioni nell’impiego dei pannelli
(da noi), ma con forti emissioni durante
la loro fabbricazione (in Cina). E oggi
proprio la Cina, che fra l’altro produce
il 50% dei pannelli fotovoltaici su scala
globale, detiene attualmente parti con-
sistenti del debito pubblico dei paesi in-
dustrializzati. Dove invece la riduzione
dell’occupazione e la crescita delle im-
portazioni contribuiscono certamente
alla crisi finanziaria in atto in questi anni.
Quanto all’anidride carbonica (con for-
mula chimica CO2), la troviamo spes-
so menzionata nei media come inqui-
nante e nociva. Eppure questo gas ino-
dore e incolore non è in alcun modo ve-
lenoso. Non si deve forse alle sue bolli-
cine il fascino spumeggiante dello spu-
mante che rallegra le occasioni più feli-
ci? O la sensazione rinfrescante che ci
procurano aranciate e altre bevande
piacevolmente arricchite di questo gas?
E una birra senza schiuma sarebbe an-
cora una birra?
Venendo ad argomentazioni più serie,
non possiamo certamente dimenticare
lo straordinario miracolo della fotosin-
tesi. Grazie al quale l’anidride carboni-
ca presente nell’aria viene trasformata in
sostanze nutrienti nelle piante verdi. Non
possiamo dimenticarlo per la semplice
ragione che proprio questo processo, e
non altri, è alla base delle catene ali-
mentari che sostengono la vita, vegeta-
le e animale. Se s’interrompesse, gli
scaffali dei supermercati resterebbero
vuoti, più esattamente non avremmo
nulla di cui nutrirci. Perché una dieta
puramente minerale è altamente scon-
sigliata.
Chi poi volesse contribuire personal-
mente a ridurre le emissioni di anidri-
de carbonica potrebbe decidere di smet-
tere di respirare, evitando così di im-
mettere nell’atmosfera circa 0,9 kg al
giorno di questo gas (16 respirazioni al
minuto, ciascuna con emissione di cir-
ca 0,04 grammi di CO2, e quindi (0,04
grammi)×16×60×24 = 0,93 kg). Ma
questa perigliosa impresa in realtà non
gioverebbe a nulla, dato che il carbonio
che emettiamo è quello contenuto nel
cibo, il quale proviene, in ultima anali-
si, dalle piante che qualche tempo pri-
ma lo hanno catturato dall’atmosfera at-
traverso la fotosintesi che abbiamo ap-
pena ricordato.
Più efficace, per contrastare il riscalda-
mento globale, è l’idea di verniciare di
bianco, o con colori chiari, i tetti delle
abitazioni e le strade delle città, sostenuta
da Steven Chu, premio Nobel per la Fi-
sica nel 1997 e attualmente ministro del-
l’Energia nell’amministrazione Oba-
ma. Idea apparentemente bizzarra, che
però da qualche anno è stata tradotta in
una norma di legge dello stato della Ca-
lifornia. Perché mai funziona? Perché un
tipico tetto scuro assorbe l’80% della ra-
diazione solare che lo colpisce, mentre
ne assorbe solo il 20-40%, diffondendo
indietro il restante, se verniciato di
bianco o di un colore chiaro. Così fa-
cendo si riduce il riscaldamento estivo
dell’edificio e quindi l’energia necessa-
ria per il condizionamento, ma al tem-
po stesso si contribuisce a ridurre il ri-
scaldamento complessivo del pianeta
(nel rapporto fra la superficie del tetto
e la superficie terrestre). Che l’idea del
premio Nobel Chu funzioni, del resto, è
testimoniato dal suo impiego, pratica-
mente da sempre, negli edifici dei pae-
si mediterranei più assolati8.
Giovanni Vittorio Pallottino Università di Roma “Sapienza”
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI90
PERCORSI DIDATTICI
7. S. Casertano, La guerra del clima, Francesco Brioschi,Milano 2011.8. Continua nella 2a parte.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 91
PERCORSI DIDATTICI
1. Il Regno di SardegnaCarlo Ignazio Giulio, diventato negli
anni quaranta consulente di Carlo Al-
berto e rettore dell’Università di Torino,
colse l’occasione dell’Esposizione di in-
dustria e belle arti (1844) per promuo-
vere l’istruzione tecnica nel Piemonte.
Nel 1845 fu fondata a Torino la prima
scuola di meccanica e di chimica appli-
ca alle arti frequentata da quattrocento
tra ebanisti, fabbri, tipografi, tornitori ed
orologiai. Un passo in avanti per l’isti-
tuzionalizzazione delle scuole tecniche
nel Regno di Sardegna si ebbe con la leg-
ge Boncompagni del 1848, che, di fatto,
assieme alla legge Lanza del 1856, fu una
premessa della legge Casati. Le Disposi-
zioni speciali della legge Boncompagni che
riguardavano l’istruzione tecnica pre-
vedevano1:
Art. 25. Nei Collegii di Torino, di Geno-va e Nizza si aprirà in via di esperimen-to un corso speciale pei giovani che nonintendono attendere agli studii classici.Art. 26. Questo corso durerà cinqueanni, e vi potranno entrare i giovani chehanno compiuto il corso Elementare, e nehanno sostenuto con successo l’esame fi-nale.Art. 27. Il corso speciale avrà Professoriproprii, e Professori comuni al corsod’istruzione secondaria.I Professori comuni saranno:1. Il Professore di Religione.
2. Il Professore di Storia e Geografia, ilquale sarà incaricato delle lezioni diGeografia statistica e commerciale.3. Il Professore di Matematica elementa-re.4. Il Professore di Storia naturale.5. Il Professore di Lingua francese.I Professori proprii sono:1. Un Professore di Lettere italiane.2. Un Professore di Matematica.3. Un Professore di Fisico-Chimica, e diMeccanica applicata alle arti.4. Un Professore di Disegno.5. Un Professore di Lingua inglese.6. Un Professore di Lingua tedesca.La distribuzione delle lezioni sarà deter-minata dal regolamento.
Nonostante questa apertura all’istru-
zione tecnica, la legge Boncompagni era
ancora molto restrittiva, poiché preve-
deva che soltanto nei tre collegi-convitti
di Torino, Genova e Nizza fossero aper-
ti dei corsi speciali per quei giovani che
non erano interessati agli studi classici.
Questo fatto non passò inosservato nel
Parlamento Subalpino nel quale fu sol-
levata la questione dell’inadeguatezza di
così poche scuole tecniche di fronte
alle esigenze di un Paese moderno. In
particolare, per la prima volta, ad ope-
ra di Luigi Carlo Farini (1812-1866)
emerse la profonda esigenza di avere un
settore parallelo d’istruzione: non si
negava che ci dovesse essere un forte si-
Insegnamenti matematici e istruzione tecnica nel processo di unificazione nazionaleIl Lombardo-Veneto e il Regno di Sardegna (2)Elisa Patergnani - Luigi Pepe
stema di scolarizzazione incentrato sul-
l’asse umanistico e sullo studio italiano
e delle lingue classiche, ma si voleva che,
a fianco di esso, emergesse un percorso
tecnico-scientifico:
Tanti istituti di latinità né sono sufficientia dare quella istruzione che si chiama clas-sica, né sono acconci a dare quella istru-zione la quale è voluta dai bisogni del-l’attuale società. L’apprendere poco lati-no, e non sempre come si dovrebbe,non può giovare al popolo, all’istruzionedel quale noi intendiamo provvedere; enelle condizioni presenti della società nonpuò bastare a coloro che vanno in cercadi una cultura utile a sé medesimi ed allasocietà. In altri tempi altre erano le vo-cazioni generali dei popoli; oggi si ricer-cano cognizioni utili all’esercizio di quel-le arti a cui si propongono i più, utili agliincrementi dei commerci e delle industrie,acconcie a nobilitare e fare produttivo illavoro. Perciò ai tempi nostri egli è indi-spensabile il favoreggiare gli studii tecnicie speciali, provvedendo che vadano pa-ralleli agli studii classici; ed è necessarioordinarli per modo che al pari di questiprocedano dall’una classe all’altra sino aquelle classi superiori, in cui s’acquistal’abilità ai tecnici esercizii onde la socie-tà si vantaggia, onde gli esercenti traggono
1. Regio Decreto 4/10/1848 n. 819. Raccolta degli attidel Governo di S.M. il Re di Sardegna, vol. 16, parte II, pp.969-978.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI92
PERCORSI DIDATTICI
profitto. Né creda taluno che io con que-ste parole intenda fare censura degli stu-dii classici. Io so benissimo quanto essi sia-no importanti. Dico anzi che, quanto piùil secolo si fa meno poetico, meno arti-stico, meno classico, e più mercante,tanto più bisogna rialzare gli studii clas-sici. Ma rialzare gli studii classici non vuoldire estenderli; vuol dire dar loro accon-cio ordinamento affinchè non restino in-completi, insufficienti, e inutili o dannosiper la società e per coloro che li lascianoa mezzo2.
Questa esigenza non fu portata avanti
in modo immediatamente concluden-
te. Nel 1856, un nuovo ordinamento
(Regio Decreto 7/9/1856 n. 1841) del
ministro Giovanni Lanza (1810-1882),
prevedeva che il corso quinquennale in-
trodotto da Boncompagni fosse sud-
diviso in due corsi: scuole speciali pri-
marie (triennale) e scuole speciali se-
condarie (biennale), quest’ultimo sud-
diviso nelle due sezioni commerciale e
industriale. A dare concretamente im-
pulso all’istruzione tecnica fu Quinti-
no Sella (1827-1884), il quale dedicò ad
essa un’opera specifica stampata nel
1861: Sui principi geometrici del disegno
e specialmente dell’axonometrico. Ri-
portiamo la presentazione di que-
st’opera Al Lettore3.
Il disegno isometrico venne proposto nel1820 da William Farish, professore aCambridge, in due discorsi, che egli fece ai21 febbrajo ed ai 6 marzo alla Società fi-losofica di Cambridge. Egli lo applicòspecialmente al disegno delle macchine.Dopo Farish parecchi si occuparono del di-segno isometrico, e Möllinger propose an-che la proiezione, che egli chiamava iso-metrica a due assi, e che equivale alla mo-nodimetrica. Ma ei si fu solo nel 1844, cheil problema del disegno axonometricovenne sciolto in tutta la sua generalità daGiulio Weisbach, attualmente professoredi Meccanica all’Accademia delle Minie-re a Freiberg in Sassonia. I vantaggi del disegno axonometricomessi in luce da varj autori ricevettero tal
conferma dall’esperienza, che oggidì s’in-segna in molte scuole in Germania ed inInghilterra. Non credo sia penetrato an-cora nelle scuole francesi, e perciò non èancora pervenuto a noi, i quali abbiamospesso la mala abitudine di stare solo alcorrente delle novità che s’introduconoin Francia.Il Weisbach, e quelli che dopo lui esposerola soluzione generale dei problemi fon-damentali, su cui posa il disegno axono-metrico, il fecero colla trigonometriasferica, e finora esso poteva quindi soloinsegnarsi agli iniziati nella trigonome-tria. Avendo visto che tutti i principii suoiponno ampiamente svolgersi coll’aiutodell’ordinaria Geometria, e dei primirudimenti dell’Algebra, credei prezzodell’opera il consacrare alcune lezioni delcorso di Geometria applicata alle arti allosvolgimento dei principii di questo dise-gno, dopo rammentati quelli su cui si fon-dano i metodi più comuni di rappresen-tare i corpi, onde servissero ad illustrarele fondamenta dell’Axonometria. Desti-nai alcune delle esercitazioni pratiche chesi tennero all’Istituto tecnico di Torino, aldisegno di parecchi corpi anche compli-catissimi, e debbo confessare che i distintiper buona volontà riescirono tant’oltre lamia aspettazione, che venni a convincermiessere il disegno axonometrico capace del-la più grande popolarità.
La legge Casati fu promulgata il 13 no-
vembre 1859 quando ormai la Lombar-
dia era stata ceduta dall’Austria in base
all’armistizio di Villafranca (11 luglio
1859). Essa riordinava il sistema scolastico
nel Regno di Sardegna e fu poi estesa, non
senza difficoltà, al Regno d’Italia. La
Casati ebbe il merito di aver dato una
struttura generale all’istruzione tecnica
che mancava nelle due leggi precedenti
del ’48 e del ’56, ma non recepì tutto quel-
lo che era previsto nei regolamenti
asburgici sull’istruzione tecnica. Essa
stabilì che il ramo tecnico fosse diviso in
due gradi, ciascuno della durata di tre
anni; il primo grado d’istruzione avve-
niva nelle scuole tecniche e il secondo ne-
gli istituti tecnici, divisi a loro volta in se-
zioni che variavano in base alle necessi-
tà economiche della provincia in cui essi
nascevano. La legge Casati per l’istruzione
tecnica prevedeva in generale4:
Art. 272. L’istruzione tecnica ha per finedi dare ai giovani che intendono dedicarsia determinate carriere del pubblico ser-vizio, alle industrie, ai commerci ed allacondotta delle cose agrarie, la convenientecultura generale e speciale. Art. 273. Essa è di due gradi, e vien datatanto pel primo, quanto pel secondonello stadio di tre anni. Art. 274. Gli insegnamenti del primo gra-do sono: 1. La lingua italiana (la francese nelle pro-vince in cui è in uso questa lingua); 2. La lingua francese; 3. L’aritmetica e contabilità; 4. Gli elementi di algebra e di geometria; 5. Il disegno e la calligrafia; 6. La geografia e la storia; 7. Elementi di storia naturale e di fisico-chimica; 8. Nozioni intorno ai doveri ed ai dirittidei cittadini. Art. 275. Gli insegnamenti del secondogrado sono: 1. La letteratura italiana (la francese nel-le province in cui è in uso questa lingua); 2. Storia e geografia; 3. Le lingue inglese e tedesca; 4. Istruzioni di diritto amministrativo edi diritto commerciale; 5. Economia pubblica; 6. La materia commerciale;
2. Dibattito nel Parlamento Subalpino del 17 giugno1852 in Storia del Parlamento Subalpino, iniziatore del-l’Unità italiana dettata da Angelo Brofferio per mandatodi Sua Maestà il Re d’Italia, volume 6, Battezzati, Milano1869, p. 54.3. Quintino Sella, Sui principi geometrici del disegno especialmente dell’axonometrico, Salvi, Milano 1861. Sullasua promozione della cultura scientifica si veda: G.Quazza, L’utopia di Quintino Sella. La politica dellascienza, Torino, Istituto per la Storia del Risorgimentoitaliano, 1992.4. Legge del 13/11/1859 n. 3725. Nuovo Codice dellaistruzione pubblica. Raccolta delle Leggi, Decreti Regola-menti, Circolari, Istruzioni e decisioni ministeriali vigentinel Regno d’Italia sull’ordinamento della istruzione pub-blica e sull’istruzione normale, secondaria classica e tec-nica ed elementare con annotazioni e raffronti approvatadal Ministero della istruzione pubblica, Fratelli Lobetti-Bodoni, Saluzzo 1870, pp. 78-79.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 93
PERCORSI DIDATTICI
7. Aritmetica sociale; 8. La chimica; 9. La fisica e la meccanica elementare; 10. Algebra, geometria piana e solida e tri-gonometria rettilinea; 11. Disegno ed elementi di geometria de-scrittiva; 12. Agronomia, e storia naturale.
Due dei protagonisti del rinnovamento
degli studi nel Regno di Sardegna veni-
vano dal Lombardo-Veneto: il pedago-
gista Ferrante Aporti, chiamato a Tori-
no da Carlo Alberto per riformare
l’istruzione primaria, e il conte Gabrio
Casati, profugo in Piemonte dopo il ri-
torno degli Austriaci a Milano (aveva
partecipato alle Cinque Giornate). Non
si tratta di casi isolati: complessiva-
mente l’istruzione nel Regno di Sarde-
gna, e questo vale anche per l’istruzio-
ne tecnica, era meno avanzata che in
Lombardia5.
L’atteggiamento federalista di Carlo
Cattaneo aveva le sue buone ragioni!
L’avvio dell’istruzione tecnica in Pie-
monte dovette molto a Giulio che era Ac-
cademico e professore universitario.
Benché la sua opera mirasse in partico-
lare a formare tecnici di livello inter-
medio, distinti dagli ingegneri, destina-
ti a mansioni superiori, la confusione tra
formazione intermedia e superiore ri-
mase a lungo, anche dopo la legge Bon-
compagni che aveva operato per di-
stinguere l’insegnamento universitario
da quello secondario6.
2. Nell’Italia unitaGli estensori della legge Casati dettero
solo le linee fondamentali dell’orga-
nizzazione dell’insegnamento tecnico, ri-
mettendosi, quanto ai particolari, al
Regolamento che fu promulgato con
Regio Decreto 19 settembre del 1860 n.
4315, a firma dal ministro Terenzio
Mamiani (1799-1885)7.
Con questo decreto furono fissate a
quattro le sezioni dell’istituto tecnico:
amministrativo-commerciale, agrono-
mica, chimica e fisico-matematica. Inol-
tre, in contrasto con quanto stabilito ini-
zialmente dalla Casati nella quale gli in-
segnamenti dati dagli istituti avevano lo
scopo solo di indirizzare a un determi-
nato ordine di professioni (art. 283), fu di-
sposto che i licenziati della sezione fisi-
co-matematica potessero accedere alla fa-
coltà di scienze matematiche, fisiche e
naturali.
A distanza di circa due mesi da questo
regolamento fu emanato anche il de-
creto contenente i dettagliati program-
mi previsti per la scuola tecnica e gli isti-
tuti tecnici8.
L’anno successivo, però, gli istituti tec-
nici (ma non le scuole tecniche) passa-
rono alle dipendenze del Ministero del-
l’Agricoltura Industria e Commercio
(Regio Decreto 28/11/1861 n. 347). Pa-
rafrasando la famosa frase di Massimo
D’Azeglio sulla necessità di fare gli ita-
liani, l’idea dominate era che ci doves-
se essere un’unica scuola con il compi-
to di preparare la futura classe dirigen-
te; e questa scuola non poteva che esse-
re quella umanistico-retorica, centrata
sul liceo classico. L’altra esigenza, che si
era già manifestata, di una formazione
parallela tecnico-scientifica, continuava
ad essere presente. Gli scritti di France-
sco Brioschi (1824-1897) e Luigi Cre-
5. Un ampio quadro dell’istruzione a Torino prima del-l’unità è presentato da E. De Fort, L’istruzione primaria esecondaria e le scuole tecnico professionali, in Storia diTorino, vol. 6 a cura di Umberto Levra, Einaudi, Torino2000, pp. 585-618.6. Le vicende della formazione degli ingegneri in Pie-monte sono estesamente documentate in AlessandraFerraresi, Per una storia dell’ingegneria sabauda: scienza,tecnica e amministrazione al servizio dello Stato, in Am-ministrazione, formazione e professione: gli ingegneri inItalia tra Sette e Ottocento, a cura di L. Blanco, il Mulino,Bologna 2000, pp. 91-299.7. Nuovo Codice della istruzione pubblica cit., pp. 564-591.8. Decreto Luogotenenziale del 24/11/1860 n. 4464.Raccolta degli atti del Governo si Sua Maestà il Re di Sar-degna, Stamperia Reale, Torino 1860, vol. 29, pp. 3243-3304.
Gabrio Casati(1798-1873).
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI94
PERCORSI DIDATTICI
mona (1830-1903) insistevano, infatti,
sul doppio canale di formazione, ma
questa linea non era maggioritaria. La
tesi prevalente era appunto quella di una
formazione unica e allora la preferenza
da dare all’istruzione classica era nella
convinzione anche dei matematici. L’idea
di uniformità che si stava diffondendo,
vista come un bene da difendere, era ri-
vendicata soprattutto dagli studiosi me-
ridionali, tra cui Francesco De Sanctis
(1817-1883) e Michele Amari (1806-
1889). Si può notare che i primi mini-
stri dell’istruzione pubblica non pro-
vennero dal Piemonte. Questa regione
aveva dato Boncompagni e Sella, che
però erano impegnati nell’organizza-
zione generale dello Stato unitario. I pri-
mi ministri della Pubblica Istruzione del
Regno d’Italia furono Terenzio Mamia-
ni (1799-1885) marchigiano, De Sanctis
campano, Amari siciliano e Carlo Mat-
teucci (1811-1868) romagnolo. Tutti
erano accomunati dal fatto che erano sta-
ti in esilio e avevano avuto contatti con
le maggiori università europee (De San-
ctis aveva insegnato al Politecnico di Zu-
rigo). Essi convergevano sulla necessità
di una scuola uniforme e ben organiz-
zata. Per rendersi conto di che cosa vo-
lesse dire la parola “unità” per i prota-
gonisti del nostro Risorgimento bisogna
sottolineare che essa significava princi-
palmente: rinnovare le vecchie classi
dirigenti locali che si erano impadroni-
te del potere ed erano state complici del
clericalismo e dei tirannelli e che aveva-
no costretto a lasciare l’Italia i migliori
intellettuali. Essi crearono all’estero con
il loro lavoro le situazioni per cui il Ri-
sorgimento Italiano fu in qualche modo
il punto di riferimento di tutta la poli-
tica europea e dell’intellettualità europea
a metà del secolo XIX.
Nel 1871 si ebbe una ristrutturazione
dell’istituto tecnico, in cui vennero ri-
dotte a quattro le varie sezioni (fisico-
matematica, agronomica, industriale,
commerciale-ragioneria). Si tornava in-
dietro rispetto a quando nel 1861 gli isti-
tuti tecnici erano passati sotto il controllo
del Ministero di Agricoltura Industria e
Commercio, e vi era stata una prolife-
razione di scelte localistiche: gli istituti
tecnici erano diventati 34 e erano chia-
mati scuole speciali o riunite. Alla base di
questa scelta c’erano varie esigenze, a vol-
te di importanti settori industriali di
punta, quelli che si possono chiamare di-
stretti industriali, di adattare questo
insegnamento alle loro necessità. Ma ci
furono pure scelte inadeguate che non
portarono a nulla. Infatti, già il ministro
Luigi Torelli (1810-1887) con Regio
Decreto 15/6/1865 n. 2372 ridusse i
corsi a nove indirizzi, alcuni di durata
triennale e altri di durata quadriennale
e gli istituti tecnici furono chiamati
Istituti industriali e professionali. Nono-
stante questa suddivisione articolata
delle sezione non ci fu più la sezione fi-
sico-matematica la quale era stata as-
sorbita dalla nuova sezione quadriennale
di costruzioni e meccanica.
Nel 1871 la sezione fisico-matematica fu
reintrodotta diventando la Sezione car-
dinale dell’Istituto, quella da cui [trasse-
ro] alimento e vigore tutte le altre9.
Il testo su cui si orientò nella sezione fi-
sico-matematica lo studio della geome-
tria fu gli Elementi di Matematica di Ric-
cardo Baltzer che Cremona aveva tra-
dotto dal tedesco. Era un testo di note-
vole difficoltà e di grande completezza10.
La sezione fisico-matematica dell’Istituto
tecnico è stata la scuola italiana nella
quale la matematica è stata meglio rap-
presentata, rivelandosi un canale di for-
mazione formidabile fino a quando fu
soppressa da Gentile nel 1923. Da que-
sta sezione sono usciti due dei più im-
portanti matematici dell’Italia unita:
Vito Volterra (1860-1940) e Francesco
Severi (1879-1861).
Il difficile avvio dell’istruzione tecnica in
Piemonte nei primi decenni dello Sta-
to unitario è documentato da studi re-
centi. Mancavano nelle stesse scuole
tecniche della capitale i più semplici stru-
menti di fisica e i materiali più comuni
per l’insegnamento della chimica. Non
era raro che il professore di matemati-
ca non avesse una buona conoscenza de-
gli Elementi di Euclide. La promozione
dell’istruzione tecnica esercitata da
Quintino Sella, allievo di Carlo Ignazio
Giulio, ottenne qualche risultato solo
nell’istruzione tecnica superiore (Museo
industriale). Ma già nel 1877 a Torino,
negli istituti governativi gli studenti
delle tecniche (485) superavano quelli
dei ginnasi (473). Si deve però osserva-
re che scuole e istituti tecnici avevano al-
9. Ministero d’Agricoltura, Industria e Commercio, Or-dinamento degli studi tecnici, Claudiana, Firenze 1871,pag. X.10. R. Baltzer, Elementi di Matematica, Sordo-Muti, Ge-nova 1867.
Quintino Sella(1827-1884).
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 95
PERCORSI DIDATTICI
lora pochi riferimenti diretti ai bisogni
della nascente industrializzazione e
spesso si configuravano come un inse-
gnamento secondario con più mate-
matica e senza latino. Questo rendeva
necessaria, in certe realtà industriali, la
creazione di scuole professionali stret-
tamente finalizzate. Accadeva ancora a
Torino nei primi anni del Novecento11.
L’istruzione tecnica anche dopo l’Uni-
tà si radicò meglio in Lombardia che in
Piemonte, trovando riferimento nelle
scuole austriache. Nel 1863 le scuole tec-
niche lombarde erano già trentaquattro,
delle quali dieci statali, sette di enti
pubblici locali e diciassette di privati. Gli
istituti tecnici si diffusero nei capoluo-
ghi di provincia e nei centri principali:
nel 1867 erano dodici, dei quali sette sta-
tali, quattro degli enti locali e uno pri-
vato. Inoltre, ebbero diffusione scuole
popolari di arti e mestieri soprattutto per
iniziativa privata: se ne contavano ven-
tidue alla fine degli anni sessanta. La leg-
ge Casati prevedeva anche la fondazio-
ne a Milano del Regio Istituto tecnico su-
periore che iniziò i suoi corsi nel 1863
con la direzione di Francesco Brioschi
(Politecnico di Milano)12.
In tutta questa discussione abbiamo
parlato di Francia e di Germania, ma
non dell’Inghilterra, se non per quello
che riguardava qualche libro tecnico. Al-
lora il modello inglese era completa-
mente diverso da quello dell’Europa
continentale poiché presentava una ce-
sura tra l’industrializzazione e le scuo-
le tecniche. L’Inghilterra all’inizio del se-
colo XIX era il principale paese mani-
fatturiero del mondo e lo è ancora nel
1850. Le esposizioni internazionali era-
no allora un punto di riferimento per un
confronto delle innovazioni tecniche
delle varie nazioni. Nell’esposizione di
Londra del 1851, l’Inghilterra era anco-
ra il principale paese manifatturiero; ma
già nel 1867, nell’esposizione Universa-
le di Parigi, il primato inglese veniva in-
sidiato dalla Francia, dal Belgio e dalla
Germania.
Bernhard Samuelson dirigeva a lord Ro-
bert Mantagu una lettera sull’Indu-
strial Progress and the Education of the
Industrial Classes in France, Switzerland
Germany etc. nella quale si esaminava in
modo approfondito l’istruzione tecni-
ca nell’Europa continentale e in In-
ghilterra13.
Nel 1860 ancora la metà dei bambini in-
glesi non riceveva l’istruzione elemen-
tare e gran parte del lavoro nelle indu-
strie era svolto da analfabeti. Solo nel
1870 con l’Elementary Education Act, le
amministrazioni locali potevano rendere
obbligatoria l’istruzione elementare (in
Inghilterra, l’istruzione elementare di-
ventò obbligatoria in tutto il Regno
solo quattro anni dopo che lo era di-
ventata in Italia con la Legge Coppino,
1876); nel 1876 una legge vietò il lavo-
ro ai minori di dieci anni. Gli unici isti-
tuti politecnici in Inghilterra a metà se-
colo erano il Royal College of Chemistry
(1845) (che si avvaleva del Prof. A. W.
Hofmann, proveniente dalla Germa-
nia) e la Royal School of Mines (1851).
Pur con questi limiti il sistema inglese
trovava difensori tra i politici italiani più
impegnati nel campo dell’istruzione
pubblica14.
In Germania invece, nella seconda metà
dell’Ottocento, c’erano ben ventisei uni-
versità, nove politecnici, tre accademie
minerarie e nelle università tedesche vi-
geva il sistema dei seminari di studi che
furono inaugurati, per la matematica, nel
1835 da Karl Jacobi (1804-1851) a Ko-
nigsberg, nel 1850 da Gustav Kirchhoff
(1824-1887) a Heidelberg, nel 1860 da
Alfred Clebsch (1833-1872) a Giessen.
I seminari erano importanti perché
permettevano di comunicare i risultati
della ricerca nel momento in cui essi ve-
nivano ottenuti, dando un’importante
accelerazione al progresso scientifico.
Nelle università tedesche dell’Ottocen-
to la ricerca pura non era subordinata
alla ricerca applicata. Il risultato fu che
i Tedeschi sconfissero i Francesi a Sedan
(1870), che invece si erano orientati es-
senzialmente verso le ricerche applica-
te, e che la Germania divenne, alla fine
del secolo, la principale potenza scien-
tifica tecnica ed economica del mondo,
superando l’Inghilterra che per molto
tempo non aveva voluto destinare risorse
cospicue all’istruzione pubblica.
Un’ampia indagine nell’istruzione tec-
nica nell’Europa continentale venne or-
dinata dalla Camera dei Comuni negli
anni Ottanta. Essa riguardava anche
l’Italia. La commissione visitò, in con-
comitanza con l’Esposizione nel 1881 a
Milano, la Scuola, il Museo della Socie-
tà industriale e la scuola professionale
femminile, a Como l’Istituto tecnico, a
Biella la Scuola professionale. Estese
anche la sua indagine a Torino, Udine e
Venezia15.
Elisa Patergnani - Luigi PepeUniversità degli studi, Ferrara
11. E. De Fort, Le scuole elementari professionali e se-condarie, in Storia di Torino, vol. 7, a cura di U. Levra, Ei-naudi, Torino 2001, pp. 643-684.12. A. Bianchi, Note sull’istruzione tecnica e professionalenell’Italia preunitaria, in I.T.I. ‘Montani’ Fermo. 150° Scuolatecnica e società moderna, a cura di G. Rogante, Nardini,Firenze 2004, pp. 47-60.13. Copy of Letter from B. Samuelson; Esq., M.P., to theVice-President of the Committee of Council on Educationconcerning Technical Education in various CountriesAbroad, Ordered, by The House of Commons, to be Printed,26 November 1867 (British Library: 8308. dd. 32).14. L’educazione inglese paragonata alla tedesca, in Rac-colta di scritti vari intorno all’istruzione pubblica del se-natore Carlo Matteucci, volume 2, Alberghetti, Prato1867, pp. 321-374.15. House of Commons, Second Report of the RoyalCommissioners on technical instruction presented to bothhouses of Parliament by Command of her Majesty, Eyreand Spottiswoode, London 1884. (British Library: Inte-grate Catalogue, Electr. Resources, House of Commons,Parliamentary Papers, XXIX (1884)).
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI96
PERCORSI DIDATTICI
Nelle discipline scientifiche, l’abilità a ri-
solvere problemi è un obiettivo d’ap-
prendimento perché ritenuta una di-
mensione importante della formazione
disciplinare. L’attuale tendenza a privi-
legiare la costruzione di competenze
contribuisce a rinforzare la necessità di
sviluppare la capacità di risolvere pro-
blemi. Una competenza integra un in-
sieme complesso di apprendimenti, si
esprime in modi differenziati, è legata a
una famiglia di situazioni ed è associa-
ta alla risoluzione di problemi. Una
persona competente è in grado di rico-
noscere i tipi di problemi che affronta,
di elaborare strategie di risoluzione, di
eseguire in modo efficace i compiti pre-
visti dalla strategia prescelta e di valutare
in modo adeguato i risultati ottenuti. La
capacità di risolvere problemi è stretta-
mente legata alla modellizzazione: saper
costruire e utilizzare modelli è essenziale
per risolvere problemi scientifici; è una
delle azioni più efficaci dal punto di vi-
sta intellettuale, poiché i modelli sono
strumenti di intelligibilità. Di conse-
guenza, la padronanza dei problemi
scientifici e la modellizzazione delle si-
tuazioni empiriche sono due aspetti
strettamente legati del sapere scientifi-
co (Orange, 1997).
Nel contesto scolastico, la risoluzione di
problemi può essere concepita come
obiettivo educativo o come strategia di ap-
prendimento. Nel primo caso, si tratta di
un atto intellettuale complesso, che non
si produce come spontanea conseguen-
za dell’acquisizione di conoscenze, ma
che gli allievi devono sviluppare met-
tendo in atto i procedimenti intellettuali
che tale attività richiede. Nel secondo
caso, si tratta di un dispositivo pedagogico
in grado di favorire apprendimenti si-
gnificativi e permanenti nella misura in
cui ogni esperienza di risoluzione di un
problema è suscettibile di arricchire la
base di conoscenze dello studente. Nel
corso degli ultimi decenni, molti pro-
grammi di formazione, sia nel settore
tecnico e professionale sia in quello
della formazione generale, sono stati fon-
dati su metodi che prevedono l’acqui-
sizione di contenuti e procedimenti
specifici di una disciplina a partire da
problemi trattati in classe. L’uso corrente
del termine problema, tuttavia, non è pri-
vo di ambiguità e merita una discussione
accurata.
Problemi o esercizi?Nell’insegnamento tradizionale delle
scienze, la lezione frontale e la risoluzione
di problemi sono i dispositivi didattici
più usati. La risoluzione di problemi vie-
ne utilizzata con due finalità diverse: l’ap-
prendimento e la valutazione. A volte agli
Problemi e situazioni-problema nell’insegnamento delle scienzeEzio Roletto - Albero Regis - Elena Ghibaudi
È ORMAI LARGAMENTE CONDIVISA L’OPINIONE CHE IL SAPERE SCIENTIFICO CHE SI DOVREBBE ACQUISIRE A SCUOLA NON
PUÒ RIDURSI A UNA «ACCUMULAZIONE NON PROBLEMATICA DI FATTI RELATIVI AL MONDO» (DRIVER, 2000).POSSEDERE UN SAPERE SIGNIFICA, «IN PRIMO LUOGO, ESSERE CAPACI DI UTILIZZARE CIÒ CHE SI È APPRESO, DI FARVI
RICORSO PER RISOLVERE UN PROBLEMA O CHIARIRE UNA SITUAZIONE» (GIORDAN, 1987).
allievi vengono proposti problemi per
addestrarli all’applicazione di modelli o
procedimenti di risoluzione (operazio-
ni, schemi, regole) e/o per dare loro
modo di autovalutarsi, controllando
personalmente il proprio apprendi-
mento. Altre volte, l’insegnante ricorre
alla risoluzione di problemi in classe per
verificare il livello di apprendimento, in
modo da poter esprimere un giudizio,
sovente condensato in un voto, sulla pre-
parazione dell’allievo su un determina-
to contenuto. Nei due casi, i problemi
utilizzati sono dello stesso tipo e mira-
no invariabilmente alla formulazione
della risposta giusta, generalmente me-
diante l’applicazione di un procedi-
mento stereotipato. Si tratta effettiva-
mente di autentici problemi?
L’interrogativo nasce dall’utilizzo della
stessa parola per designare sia i proble-
mi scolastici tradizionali (i cosiddetti
«problemi chiusi») sia quelli legati a si-
tuazioni della vita quotidiana o profes-
sionale (qualificabili come «problemi
aperti»): due tipologie con caratteristi-
che molto diverse, riassunte nella tabella
1 (Dumas-Carré, 1997).
È interessante il fatto che, nel caso dei
problemi scolastici, il risultato non ha
nessuna applicazione pratica; esso inte-
ressa solo in quanto giusto o sbagliato, es-
sendo questo esito un indicatore della pa-
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 97
PERCORSI DIDATTICI
dronanza o meno del campo di cono-
scenze interessato da parte dell’allievo. Al
contrario, nel caso di problemi della vita
quotidiana o professionale, conta so-
prattutto il risultato; i problemi servono
non tanto per acquisire abilità ripetitive
nel risolverli, quanto piuttosto per svi-
luppare la capacità di trovare e produr-
re nuove informazioni, di costruire e
comprendere nuove conoscenze.
Da un punto di vista scientifico, i trat-
ti caratteristici di un problema sono rias-
sunti nel Riquadro 1 (de Vecchi, 2002).
Riassumendo, è facile riconoscere che la
maggior parte dei problemi utilizzati nel-
l’insegnamento tradizionale sono in re-
altà esercizi mediante i quali gli studen-
ti vengono addestrati ad applicare una
procedura di risoluzione predefinita,
al fine di padroneggiarla. Si tratta di
un’attività del tutto giustificata e neces-
saria per determinati apprendimenti,
nella quale l’allievo non deve inventare
nuove procedure di risoluzione ma ap-
plicare correttamente quella che gli è sta-
ta insegnata al fine di pervenire alla ri-
sposta giusta.
Per contro, risolvere un autentico pro-
blema significa inventare una procedu-
ra di risoluzione, ossia mettere a punto
una strategia di risposta che richiede di
entrare in una dinamica di ricerca, ca-
ratterizzata da un procedimento cogni-
tivo attivo di elaborazione e di verifica di
ipotesi. A questo proposito, è opportu-
no sottolineare la differenza tra le locu-
zioni «soluzione di problemi» e «risolu-
zione di problemi», nelle quali il termi-
ne «risoluzione» andrebbe riferito al
processo e il termine «soluzione» al ri-
sultato (Poirier Proulx, 1999).
Problemi e saperi scientificiSul piano didattico, le due diverse acce-
zioni del termine problema non sono
neutre, in quanto corrispondono alla
scelta dell’insegnante di promuovere
una cultura della giusta risposta piuttosto
che della giusta domanda (Albergaria-
Almeda, 2010). Quest’ultima opzione
vede nella capacità dell’allievo di porre
domande significative il segno che il pro-
cesso di apprendimento è avvenuto con
successo, in quanto implica una riela-
borazione dei contenuti da parte del sog-
getto. Essa assegna dunque all’allievo un
ruolo attivo e creativo all’interno del pro-
cesso di apprendimento.
Nell’insegnamento tradizionale, la ri-
soluzione di problemi è essenzialmen-
te un’attività di addestramento per imi-
tazione, ove l’applicazione di procedu-
re e schemi di risoluzione predefiniti
porta al raggiungimento della giusta ri-
sposta. In un insegnamento che miri al-
l’acquisizione di competenze, la risolu-
zione di problemi deve essere intesa
come un’attività scientifica vera e pro-
pria, mutuando dall’attività di ricerca
l’idea che la costruzione di conoscenza
muove sempre da un problema1, la cui
individuazione e delimitazione costi-
tuisce il primo stadio dell’indagine
scientifica, la quale consiste essenzial-
mente in:
- individuare un problema;
- scegliere il modello che permette di tra-
durlo in termini scientifici;
- verificare la validità del modello.
Una volta delimitato il problema, si ri-
chiede di passare dalla descrizione di un
dispositivo o di una situazione in termini
di fatti o di eventi percettivi a una de-
scrizione in base a concetti scientifici. Si
tratta cioè di rappresentare il problema,
ovvero di attuare una modellizzazione. È
solo a partire dal livello di modellizza-
zione scelto che diventa possibile for-
mulare ipotesi, verificabili mediante un
piano sperimentale, al fine di controlla-
re la plausibilità del modello adottato
(Riquadro 2).
1. Citiamo, a questo proposito, le illuminanti parole diBachelard: «Per ogni mente scientifica, ogni conoscenzaè la risposta a un interrogativo. Senza interrogativi, nonesistono conoscenze scientifiche» (Bachelard, 1938).
Tabella 1
Problemi scolastici tradizionali
- Vi è un solo risultato giusto
- La situazione è totalmente definita
- La soluzione è giudicata in termini di giu-sto oppure sbagliato
- La risoluzione è guidata dai dati forniti conil problema
- Conta soprattutto il modo in cui il risulta-to è stato ottenuto
Problemi della vita quotidiana o professionali
- Sovente sono possibili diverse soluzioni
- La situazione è fluida, mal definita; si devedefinire il problema prima di trovare la so-luzione
- Una soluzione è giudicata in termini di per-tinenza o di coerenza o di vantaggi
- La risoluzione è completamente da co-struire
- Conta soprattutto il risultato ottenuto
Riquadro 1I principali aspetti di un problema
Un problema è:una situazione iniziale
• che include certi dati,• che impone uno scopo da raggiun-
gere,• che obbliga a elaborare una serie di
azioni,• che richiede un’attività intellettuale,• che immette in un procedimento di ri-
cerca, in vista di sfociare in un risultatofinale. Questo risultato è inizialmentesconosciuto e la risoluzione non è im-mediatamente disponibile.
L’epistemologia riconosce dunque che vi
sono interazioni forti fra problemi e sa-
peri e Laudan afferma che «la scienza è
essenzialmente un’attività volta a risol-
vere problemi» (Laudan, 1979). In am-
bito scolastico, la funzione epistemolo-
gica del problema nella costruzione del
sapere scientifico può essere tradotta in
una strategia pedagogica in grado di fa-
vorire apprendimenti significativi. Ap-
prendere è un processo di costruzione e
ricostruzione della propria struttura
mentale (Giordan, 1994; Laudan, 1979),
nel corso del quale si mettono alla pro-
va nuovi modi di pensare2, e si assume
il rischio di cadere nell’errore; quindi l’er-
rore è un elemento costitutivo dell’ap-
prendimento. In effetti, l’errore può
essere corretto soltanto se è stato rico-
nosciuto come tale, in quanto si è ma-
nifestato, è stato esplicitato e discusso.
Tutto questo non è possibile nell’inse-
gnamento tradizionale, nel quale gli al-
lievi devono memorizzare una grande
quantità di informazioni, la maggior par-
te delle quali è spesso dimenticata mol-
to in fretta. Nell’ambiente scolastico
domina la logica della restituzione, che
portando gli studenti a memorizzare e
rigurgitare informazioni riduce al mi-
nimo l’opportunità di praticare e svi-
luppare il pensiero critico.
Il passaggio da una logica della restitu-
zione ad una logica della comprensione è
promosso da dispositivi didattici quali
l’apprendimento per problemi e l’ap-
prendimento per situazioni-problema,
che sono analizzati e commentati nei pa-
ragrafi seguenti.
Apprendimento per problemiL’apprendimento per problemi (in in-
glese, problem-based learning PBL) è
una strategia pedagogica che consiste nel
proporre agli studenti problemi reali la
cui risoluzione permetta sia di acquisi-
re nuove conoscenze, sia di sviluppare le
loro abilità di ragionamento all’interno
di un’area disciplinare. Il principio-
chiave di questo approccio è che il pro-
blema viene affrontato in primo luogo
dagli studenti e quindi funziona da sti-
molo non solo per l’applicazione di un
processo di risoluzione, ma anche per la
ricerca di informazioni e per lo studio
delle conoscenze necessarie alla com-
prensione dei meccanismi implicati nel
problema; l’apprendimento che risulta
dalla risoluzione del problema è spesso
più importante della soluzione.
Caratteristiche dei problemiPer far sì che la strategia di apprendi-
mento per problemi sia efficace è ne-
cessario rispettare alcuni criteri di ela-
borazione o di scelta dei problemi stes-
si (Poirier Proulx, 1999 ; Glazer, 2012).
I problemi devono:
1) Essere di natura generale, in modo da
impegnare gli studenti in un processo di
analisi della situazione e di elaborazio-
ne di ipotesi, con la conseguente indivi-
duazione di sottoproblemi più limitati,
la cui risoluzione permette di dare ri-
sposta al problema generale di partenza.
2) Tenere conto delle conoscenze pre-
gresse degli studenti, in quanto queste in-
fluenzano la comprensione del proble-
ma, l’interpretazione delle informazio-
ni raccolte dagli allievi e le conseguen-
ti inferenze.
3) Essere concepiti in funzione di obiet-
tivi d’apprendimento chiaramente iden-
tificati dall’insegnante.
4) Essere quanto più possibile reali o au-
tentici, al fine di suscitare la motivazio-
ne e promuovere la comprensione.
5) Essere sufficientemente complessi
da permettere la costruzione di nuovi sa-
peri, per evitare che la risoluzione com-
porti semplicemente il richiamo o l’ap-
plicazione di conoscenze anteriori.
Ruolo dello studenteContrariamente all’insegnamento di
tipo trasmissivo, imperniato sull’inse-
gnante e i suoi saperi, l’apprendimento
per problemi è imperniato sullo studente,
il quale esercita un ampio controllo su-
gli apprendimenti che devono essere
portati a compimento. L’insegnante non
rinuncia alla responsabilità di fissare gli
obiettivi d’apprendimento, ma gli stu-
denti vengono resi esplicitamente re-
sponsabili di ciò che apprendono.
Di fronte al problema, essi si impegna-
no a sviluppare ipotesi per risolverlo, di-
scutendole all’interno di un gruppo di
lavoro. Successivamente, essi conduco-
no un’attività di studio personale al
fine di raccogliere e valutare dati pro-
venienti da varie fonti, utilizzabili al-
l’interno del gruppo per corroborare o
confutare le ipotesi formulate in prece-
denza, che possono essere modificate,
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI98
PERCORSI DIDATTICI
Riquadro 2Tratti caratteristici
dell’indagine scientifica
L’indagine scientifica si esplica in una se-rie di attività intellettuali grazie alle qua-li uno scienziato:
• elabora una problematica, ossia indi-vidua una serie di interrogativi aiquali dare risposta,
• sceglie un quadro teorico e quindi unlivello di modellizzazione,
• formula ipotesi,• definisce i dati che si devono racco-
gliere per sottoporre a verifica le ipo-tesi,
• stabilisce un piano sperimentale edesegue gli esperimenti,
• interpreta i risultati e trae conclusio-ni a proposito delle ipotesi e quindi delmodello in base al quale sono stateformulate,
• determina nuovi interrogativi su-scettibili di avviare nuove indagini.
2. È ancora Bachelard ad affermare che «si apprendesempre contro le proprie conoscenze» (Bachelard, 1938).
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 99
PERCORSI DIDATTICI
ampliate o ristrette alla luce delle nuo-
ve informazioni. Infine gli studenti svi-
luppano soluzioni appropriate del pro-
blema, basate sulle informazioni raccolte
e sull’elaborazione di adeguati ragiona-
menti che le giustifichino. Di conse-
guenza, per ogni particolare problema
è possibile individuare più soluzioni in
funzione del sapere che gli studenti già
possiedono, delle loro precedenti espe-
rienze e delle conoscenze acquisite nel-
l’affrontare il problema stesso.
Ruolo dell’insegnanteAll’interno dei gruppi di lavoro, l’inse-
gnante svolge il ruolo di tutore o di al-
lenatore cognitivo che mira a facilitare
l’apprendimento e a sviluppare il pen-
siero critico. Una persona è capace di
pensare criticamente se è in grado sia di
analizzare, sintetizzare e valutare l’in-
formazione, sia di applicare l’informa-
zione appropriata a un determinato
contesto. Di conseguenza, il pensiero cri-
tico è anche creativo, nella misura in cui
conduce lo studente ad assemblare l’in-
formazione che già possiede con quel-
la che sta acquisendo, per ricavarne un
nuovo corpo di conoscenza. Va chiari-
to che questo approccio non richiede allo
studente di produrre sapere originale
(come uno scienziato), ma sapere che sia
nuovo per lo studente stesso.
Ricadute pedagogicheL’apprendimento per problemi non è
soltanto un metodo d’insegnamento
diffuso in tutto il mondo, ma anche un
approccio curricolare per impostare il
programma di alcuni corsi di studi uni-
versitari (medicina, economia, archi-
tettura, ecc.) che offrirebbe i seguenti
vantaggi:
• Aumenta la motivazione ad appren-
dere.
• Favorisce l’ampliamento delle cono-
scenze.
• Favorisce lo sviluppo dell’autonomia
nell’apprendimento.
• Sviluppa la capacità di integrazione, tra-
sferimento e applicazione delle cono-
scenze.
• Sviluppa il pensiero critico, ossia la ca-
pacità di ricerca, analisi, selezione e va-
lutazione dell’informazione.
• Sviluppa lo spirito di cooperazione e la
capacità di lavorare in gruppo.
• Sviluppa la consapevolezza della com-
plessità dei problemi reali.
Apprendimento per problemie sistema scolasticoDi fatto, la strutturazione e l’organiz-
zazione dell’insegnamento scolastico
ostacolano fortemente l’attivazione di
modelli di formazione basati sulla riso-
luzione di problemi. Cosa si impara a
scuola e come lo si impara dipende da
svariati fattori: alcuni pratici, quali
l’orario delle lezioni, l’accesso all’infor-
mazione, le attività scolastiche giorna-
liere; altri culturali, quali la natura del-
la relazione studente-insegnante, il libro
di testo e l’insegnante stesso in quanto
fonti di informazione, il ruolo dello
studente nel processo d’apprendimen-
to.
L’attuale organizzazione oraria e disci-
plinare del lavoro scolastico favorisce
l’apprendimento dei contenuti per bloc-
chi di informazioni; in ogni lezione si in-
segnano idee nuove che sono lo svilup-
po lineare di quelle introdotte in prece-
denza. Al contrario, l’apprendimento per
problemi non è un processo lineare, né
in senso temporale né in senso logico; in
genere, i problemi reali incorporano con-
cetti collegati in rete fra di loro. Inoltre,
per poter esplorare situazioni reali e
quindi sempre più o meno complesse,
sono richiesti tempi lunghi, poco com-
patibili con un orario scolastico rigida-
mente scandito in ore di lezione. Intro-
durre questa strategia nell’attuale siste-
ma di lezioni di breve durata signifi-
cherebbe aumentare notevolmente i
tempi morti del processo di apprendi-
mento che dovrebbe essere continua-
mente avviato e arrestato.
Infine, questa strategia comporta un ri-
pensamento del ruolo dell’insegnante, da
istruttore a tutore e collaboratore degli
studenti. In genere, gli insegnanti deci-
dono cosa e come i loro studenti devo-
no imparare basandosi sulle proprie
conoscenze e sui libri di testo. Questo
permette di impegnare gli allievi nelle
stesse esperienze di apprendimento e di
fissare obiettivi formativi in base ai
quali procedere a verifiche collettive
dell’apprendimento. Nel caso dell’ap-
prendimento per problemi, la situazio-
ne è ben diversa, in quanto gli studenti
ricorrono a svariate fonti di informa-
zione che possono portarli a individuare
nuove prospettive che non sono neces-
sariamente in sintonia con i punti di vi-
sta dell’insegnante. Vi è quindi una
parziale perdita di controllo dell’inse-
gnante sui contenuti e sul processo
d’apprendimento; acquista minor rilie-
vo l’informazione fornita dall’inse-
gnante, il quale deve favorire l’appren-
dimento valorizzando l’analisi, la sinte-
si e l’arricchimento dell’informazione da
parte degli studenti.
Il passaggio dall’insegnamento tradi-
zionale a quello per problemi non ri-
chiede solo agli insegnanti di riconsi-
derare il proprio ruolo. Gli studenti
abituati all’insegnamento tradizionale
trovano inizialmente sconvolgente la
nuova strategia che richiede loro di as-
sumersi la responsabilità del proprio ap-
prendimento, di affrontare problemi
non strutturati come i problemi tradi-
zionali e quindi privi di una risposta giu-
sta prestabilita, e dove si prevede che sia
l’allievo a organizzare il proprio lavoro
al fine di acquisire informazioni da
usare per risolvere il problema. Ne segue
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI100
PERCORSI DIDATTICI
che per gestire l’apprendimento per
problemi è essenziale stabilire in classe
un’atmosfera error free ed error friendly
nella quale l’errore è considerato un pas-
so ineludibile sulla strada della cono-
scenza. Però spesso gli studenti esitano
a manifestare liberamente le proprie idee,
in quanto sono stati abituati a concepi-
re l’errore come manifestazione di igno-
ranza: esiste dunque un timore di esse-
re criticato o valutato negativamente che
deve essere superato.
Infine, nell’apprendimento per proble-
mi anche la valutazione assume uno sta-
tuto e un ruolo differenti da quelli che
le sono riconosciuti nell’insegnamento
tradizionale; essa non costituisce più un
momento a se stante, separato dall’ap-
prendimento, ma ne diventa una com-
ponente integrante, tanto è vero che si
parla di valutazione formatrice (Nunziati,
1990). La valutazione è un processo
continuo che non serve tanto a verificare
se gli studenti possiedono le conoscenze,
quanto piuttosto se sono in grado di
usarle e di applicarle. Questa concezio-
ne della valutazione come componente
integrante dell’apprendimento porta a
focalizzare l’attenzione su ciò che gli stu-
denti realizzano e non su ciò che l’inse-
gnante fornisce, ovvero tende a mettere
in luce le competenze acquisite.
Dal problema alla situazione-problemaL’attivazione di una strategia di ap-
prendimento per problemi richiede
condizioni di lavoro difficilmente rea-
lizzabili nell’ambito dell’attuale orga-
nizzazione del lavoro scolastico. Un’al-
ternativa più concreta e maggiormente
compatibile con la realtà scolastica è rap-
presentata dall’insegnamento fondato
sulla proposizione di situazioni-pro-
blema3, un concetto che costituisce
un’evoluzione dell’idea di problema.
La psicologia cognitiva distingue due tipi
di situazioni: la situazione di esecuzione
e la situazione-problema. Una situazio-
ne di esecuzione implica che le proce-
dure da utilizzare per dare risposta a un
interrogativo siano conosciute e diret-
tamente applicabili, mentre una situa-
zione-problema propone all’allievo un
compito da eseguire senza che egli di-
sponga delle procedure necessarie. Lo
studente viene posto di fronte ad un in-
terrogativo che richiede una risposta non
ovvia e che quindi si configura come
problema. Per rispondervi, lo studente
deve costruire una rappresentazione
della situazione e quindi ragionare con
idee nuove, formulare ipotesi, costrui-
re modelli, fare delle prove: egli si trova
di fronte a una sfida cognitiva.
Tuttavia, la situazione-problema non è
un problema reale da risolvere e se ne dif-
ferenzia per due aspetti: il suo carattere
fittizio e la destabilizzazione cognitiva che
essa induce. Per il suo carattere fittizio,
la situazione-problema può essere pa-
ragonata a un simulatore di guida usa-
to nelle autoscuole, concepito per im-
parare a guidare e non per guidare re-
almente. Come il simulatore di guida, la
situazione-problema pone gli allievi di
fronte a un compito, concepito al fine di
portarli a impadronirsi di determinate
conoscenze. Le risorse disponibili e i vin-
coli che l’ambiente impone costitui-
scono le condizioni di esecuzione del
compito, le quali determinano gli ap-
prendimenti potenziali degli allievi, le
operazioni mentali che devono attivare.
Spetta all’insegnante assicurarsi che le
condizioni di esecuzione del compito
permettano effettivamente agli allievi di
imparare qualcosa di nuovo.
Un altro aspetto distintivo della situa-
zione-problema è la destabilizzazione più
o meno profonda indotta nell’allievo, il
quale si trova confrontato a un ostaco-
lo epistemologico, ossia una concezione
insufficiente o sbagliata, un modello
esplicativo strutturato che l’allievo ha co-
struito in uno stadio precedente del
proprio percorso d’apprendimento dan-
dogli uno statuto di verità e che, per la
sua pregnanza, blocca nuovi apprendi-
menti. La situazione-problema si pre-
senta dunque come una situazione di rot-
tura, ed è con una rottura che si passa da
un livello di formulazione di un concetto
a un altro. Nel pensiero di un allievo si
induce una rottura quando si inocula un
dubbio, si genera un conflitto cognitivo,
si fa emergere una contraddizione fra ciò
che egli pensa di sapere e la situazione
di fronte alla quale viene collocato.
La reazione emotiva associata alla rot-
tura ha anche ricadute motivazionali, in
quanto risveglia interesse e stimola lo
studente a rivisitare criticamente il pro-
prio sapere, per costruirne uno più
consono alla situazione. La motivazio-
ne appare così parte integrante del pro-
cesso di apprendimento: un allievo pro-
vocato da una situazione-problema rea-
gisce, si pone interrogativi che stimola-
no pensieri più profondi e danno senso
all’attività d’apprendimento che gli vie-
ne proposta. Una situazione-problema
è tanto più pertinente e adeguata quan-
to più l’attività cognitiva che ne discende
ha senso per gli allievi. In definitiva, la
rottura prodotta da uno squilibrio co-
gnitivo che destabilizza l’allievo e ne pro-
voca la reazione è il nocciolo duro della
situazione-problema, ciò che la rende ef-
ficace.
Caratteristiche della situazione-problemaNel Riquadro 3 sono riassunte le carat-
teristiche essenziali di una situazione
problema (de Vecchi, 2002; Poirier
Proulx, 1999).
3. Il concetto di situazione-problema è stato propostoda ricercatori francesi.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 101
PERCORSI DIDATTICI
L’obiettivo prioritario di un insegna-
mento basato sulla situazione-problema
è il superamento di una concezione
sbagliata o inadeguata, ossia di un osta-
colo epistemologico; per questo motivo
è stata introdotta l’idea di obiettivo-
ostacolo (Martinand, 1986). Quindi per
scegliere la situazione di rottura si deve
avere ben presente l’ostacolo che si vuo-
le superare: infatti, la situazione deve es-
sere tale da permettere all’ostacolo di
manifestarsi. In questo modo, il sapere
che gli allievi devono acquisire si pre-
senta in concorrenza diretta con le loro
concezioni, originando la rottura che lo
rende significativo.
Il lavoro in classe sulla situazione-pro-
blema prevede attività individuali, in pic-
coli gruppi e attività collettive dell’inte-
ra classe. Nel lavoro individuale, ogni al-
lievo utilizza le proprie concezioni ini-
ziali per formulare ipotesi e individua-
re possibili soluzioni; a questo si asso-
ciano momenti di scambio e di discus-
sione, animati e guidati dall’insegnan-
te. Una volta risolto il problema, spetta
all’insegnante generalizzare il sapere
costruito (dandogli la forma di concet-
to, modello, legge, ecc.), decontestua-
lizzandolo dalla specifica situazione
studiata. L’insegnante assume dunque il
ruolo di garante della conformità del ri-
sultato al sapere scientifico.
L’insegnamento per situazione-problema
richiede l’adozione di un punto di vista
costruttivista, che assegna agli studenti
ampi spazi per argomentare le proprie
idee, formulare interrogativi o lavorare su
quelli proposti dall’insegnante. Que-
st’ultimo deve guidarli su un percorso
esplicito, razionale e significativo di do-
mande e risposte che infine li porti ai con-
cetti che devono essere appresi. Indagi-
ni svolte in classe (Albergaria-Almeda,
2010) evidenziano il nesso esistente tra la
tipologia di domande poste dall’inse-
gnante e l’efficacia dell’azione didattica:
è del tutto evidente l’incompatibilità di
questo approccio didattico con doman-
de a risposta chiusa (giusta/sbagliata) e la
necessità da parte dell’insegnante di por-
re domande che stimolino la riflessione
dello studente. Un altro motivo di diffi-
coltà per gli insegnanti sta nel fatto che
questo approccio richiede spesso rifles-
sioni cooperative organizzate in discus-
sioni che coinvolgono l’intera classe.
Questo è un punto critico di portata più
generale: le discussioni plenarie in clas-
se sono inizialmente difficili da gestire non
solo per la maggior parte degli insegnanti
ma anche per gli studenti.
Esempi di situazione-problemaNel campo delle scienze della natura, i
modi più comuni di inventare le si-
tuazioni-problema sono riassunti nel
Riquadro 4.
Una ricca casistica di situazioni-pro-
blema di facile comprensione, che si ap-
poggiano su ostacoli molti diffusi e
che si prestano a un’utilizzazione pe-
dagogica relativamente facile è stata
raccolta da Gérard de Vecchi (de Vecchi,
2004). A titolo esemplificativo, vengo-
no presentati due esempi, applicabili ri-
spettivamente nella scuola primaria
(nell’ambito dello studio delle caratte-
ristiche della materia) e nella scuola se-
condaria di secondo grado (primo cor-
so di chimica).
Esempio 1 - Scuola primaria• Situazione problema - Si pesa un pal-
loncino vuoto; ammettiamo che il suo
peso sia di 15 grammi. Con una pom-
pa da bicicletta si riempie il pallonci-
no di aria. A questo punto l’insegnan-
te pone un interrogativo: Il palloncino
pieno di aria pesa come il palloncino
vuoto, più del palloncino vuoto o
meno del palloncino vuoto? Ogni al-
lievo deve rispondere individualmen-
te per iscritto alla domanda e deve giu-
stificare la propria risposta. Dopo ave-
re raccolto le ipotesi degli allievi, l’in-
segnante crea la rottura pesando il
palloncino pieno d’aria.
Riquadro 3Caratteristiche essenziali
di una situazione probema
• È un compito concreto da svolgere incerte condizioni che presuppongonoil superamento di un ostacolo benidentificato e ritenuto superabile.
• Deve funzionare per gli allievi come unvero enigma da risolvere nel quale sonoin grado di impegnarsi; è la condizioneper dare senso al compito proposto.
• Deve presentare un livello di difficol-tà né troppo basso né troppo elevato,ma tale da permettere all’allievo di in-vestire le conoscenze anteriori dispo-nibili e le proprie concezioni, in mododa rimetterle in discussione al fine di ela-borare nuove idee.
• Deve generare rotture che portinol’allievo a rifiutare i modelli esplicativiprecedenti se risultano inadatti o sba-gliati.
• Viene affrontata all’interno della classecon il metodo del dibattito scientificoin modo da stimolare i conflitti socio-cognitivi potenziali.
• Deve avere come esito un sapere di na-tura generale (concetto, modello, leg-ge, competenza, ecc.).
Riquadro 4Alcuni modi di inventare
situazioni-problema (de Vecchi, 2002)
• Mettere a confronto concezioni con-traddittorie manifestate dagli allievi.
• Mettere a confronto fatti in apparenzacontraddittori.
• Considerare dati sperimentali inattesi oche sembrano impossibili.
• Evidenziare contraddizione con ciòche gli allievi hanno appreso in prece-denza.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI102
PERCORSI DIDATTICI
• Rottura - Nella loro grande maggio-
ranza gli allievi pensano che il pallon-
cino pieno d’aria pesi meno del pal-
loncino vuoto, molto probabilmente a
seguito delle esperienze personali con
i palloncini che vengono loro offerti in
svariate occasioni. Il dato sperimenta-
le inatteso colpisce quindi gli allievi e
li provoca, offrendo all’insegnante
l’opportunità di avviare una discus-
sione sulla natura materiale dell’aria (e
di tutti gli altri corpi gassosi): l’aria è
un corpo materiale allo stato gassoso
e in quanto materia ha un peso.
Una situazione-problema può anche
nascere da contraddizioni con il sapere
pregresso degli allievi: infatti il sapere
scientifico si costruisce per livelli di for-
mulazione successivi che si riferiscono a
campi empirici di validità sempre più
ampi. Per esempio, nello studio della
struttura della materia e delle sue tra-
sformazioni, in un primo tempo gli
studenti costruiscono un modello par-
ticellare della materia che prevede che le
particelle siano indivisibili. Con tale
modello, che storicamente corrisponde
a quello di Dalton, è possibile spiegare
tutte le trasformazioni fisiche: in queste
trasformazioni, le sostanze conservano
la propria identità (livello macroscopi-
co) e quindi le particelle che le costitui-
scono restano inalterate (livello micro-
scopico). Quando si introducono le tra-
sformazioni chimiche, questo modello
non è più accettabile: nelle trasformazioni
chimiche le sostanze iniziali generano
nuove sostanze (livello macroscopico) e
quindi le particelle che le costituiscono
non restano inalterate (livello micro-
scopico). Il fenomeno può essere spiegato
ammettendo che le particelle delle so-
stanze possano dividersi in parti che si ri-
combinano dando origine a nuove par-
ticelle e quindi a nuove sostanze.
Esempio 2 - Scuola secondariadi secondo grado• Situazione problema - Gli studenti pa-
droneggiano un modello particellare
che postula l’indivisibilità delle parti-
celle. Viene loro proposta la seguente
attività (Figura 1).
• Rottura - Gli studenti hanno già co-
struito la legge che volumi eguali di gas
contengono le stesso numero di parti-
celle. Per formare cloruro d’idrogeno
una particella di gas idrogeno si com-
bina con una particella di gas cloro;
quindi dalla combinazione di un volu-
me di gas idrogeno con un volume di
gas cloro dovrebbe originarsi un volu-
me di gas cloruro d’idrogeno. Il dato
sperimentale (due volumi di cloruro
d’idrogeno) sembra impossibile poiché
in contraddizione con quanto appreso
in precedenza. Questo genera sorpresa
negli allievi che si trovano di fronte a
una rottura come risulta chiaramente
dalla risposta di uno di loro, il quale scri-
ve «Qui c’è un problema, in quanto il
volume non si raddoppia» (Figura 2).
Figura 2.
Figura 1.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 103
Il lavoro in piccoli gruppi e il successi-
vo dibattito scientifico in classe permette
di loro di avanzare l’ipotesi (storica-
mente risalente ad Avogadro) che ogni
particella di gas idrogeno e di gas clo-
ro sia costituita da due particelle più pic-
cole, le quali si separano l’una dall’altra
e si ricombinano nel rapporto 1:1 dan-
do origine a due volumi di gas cloruro
d’idrogeno. Questa situazione-proble-
ma porta a rivedere il modello parti-
cellare iniziale (particelle indivisibili), in-
troducendo l’idea che le particelle sono
divisibili; inoltre mette in rilievo l’in-
sufficienza del termine particella e la ne-
cessità di ricorrere ai termini più spe-
cifici di atomo e molecola, ad indicare
particelle indivisibili e divisibili, ri-
spettivamente. In questo modo, la di-
stinzione fra molecola e atomo non è re-
cepita dogmaticamente dall’allievo, ma
si impone come la logica spiegazione di
un fatto sperimentale.
Quadro teorico di riferimentoL’apprendimento per problemi reali e per
situazioni-problema sono due disposi-
tivi didattici che funzionano come al-
ternative all’insegnamento tradizionale.
In entrambi i casi, le attività degli allie-
vi presentano analogie con la prassi
della ricerca scientifica, che implica:
• un problema da risolvere;
• un lavoro individuale e cooperativo;
• la comunicazione agli altri dei risul-
tati.
Affrontando un problema reale o una si-
tuazione-problema, gli studenti sono
chiamati a sviluppare attività cognitive
come la rappresentazione della situa-
zione, l’emissione di ipotesi e la mo-
dellizzazione. Tali attività sono giustifi-
cate da un punto di vista costruttivista
dell’apprendimento (dimensione psi-
cologica) e in esse giocano un ruolo im-
portante le concezioni iniziali degli al-
lievi e le conoscenze che essi già possie-
dono (dimensione didattica). Il lavoro
cooperativo a piccoli gruppi e a livello
dell’intera classe è riconducibile a una vi-
sione socio-costruttivista dell’appren-
dimento e trova sostegno nella natura
della scienza come processo sociale di co-
struzione di conoscenza (il sapere scien-
tifico), caratterizzato dalla comunica-
zione dei risultati delle ricerche e dalla
loro validazione e accettazione da par-
te della comunità dei ricercatori (di-
mensione epistemologica).
Sul piano epistemologico, i due dispo-
sitivi didattici corrispondono all’ab-
bandono della concezione induttivista
della prassi scientifica (dall’osservazio-
ne alla teoria), a favore dell’approccio
ipotetico-deduttivo. Questo è un aspet-
to fondante della situazione-problema,
insieme alla distinzione fra realtà feno-
menica, da una parte, e teorie e model-
li scientifici, dall’altra. Teorie e model-
li sono ritenuti strumenti interpretati-
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI104
PERCORSI DIDATTICI
vi ed esplicativi dei fenomeni, costruiti
e validati dalla comunità scientifica e
hanno un carattere contingente, stori-
camente determinato e pertanto rive-
dibile. La storia delle scienze mostra che
tali revisioni non sono gratuite, ma
sono stimolate dal sorgere di nuovi in-
terrogativi dovuti all’esigenza di spiegare
nuovi fenomeni o a punti di vista in-
novativi riguardo a fenomeni già noti.
Questo ultimo aspetto è particolar-
mente presente nella situazione-pro-
blema.
L’apprendimento per risoluzione di
problemi reali e di situazioni-problema
sono due esempi di dispositivi didatti-
ci che condividono lo stesso punto di vi-
sta sull’apprendimento delle scienze
(ipotesi sociocostruttivista) e sul fun-
zionamento della scienza (epistemolo-
gia contemporanea). Pur nella diversi-
tà dei due approcci, in entrambi i casi il
concetto-chiave è quello di problema,
considerato il motore della progressio-
ne della conoscenza (Popper, 1996).
problema, giocano un ruolo di primo
piano le concezioni iniziali di cui gli stu-
denti dispongono all’inizio delle attivi-
tà. Le interazioni didattiche dovrebbe-
ro portarli a rendersi conto del campo
di validità di queste concezioni e a rein-
terpretarle e riformularle in modo da ac-
quisire nuovi saperi. Infine, queste stra-
tegie, assegnando allo studente un ruo-
lo attivo e creativo, possono avere forti
ricadute motivazionali e contribuire a
rendere l’allievo consapevole delle pro-
prie competenze.
Ezio Roletto - Alberto Regis - Elena GhibaudiUniversità di Torino
Ogni disciplina scientifica è definita da
un insieme di enunciati (concetti, mo-
delli, teorie, ecc.) e di attività intellettuali,
fra le quali hanno particolare importanza
le attività di modellizzazione. Impa-
dronirsi di queste discipline significa an-
che impadronirsi dei loro modi di pen-
sare e dei loro linguaggi, con le loro spe-
cificità.
L’insegnamento tradizionale si focaliz-
za essenzialmente sull’insieme degli
enunciati. Al fine di familiarizzare gli stu-
denti anche con le attività intellettuali
proprie delle scienze della natura, è ne-
cessario prevedere lavori di classe spe-
cifici. Particolarmente significative ri-
sultano, a questo scopo, le attività di mo-
dellizzazione che educano gli allievi a di-
stinguere tra fenomeni e loro rappre-
sentazioni concettuali, familiarizzan-
doli con la strategia dell’indagine scien-
tifica.
I due dispositivi didattici comportano
dunque importanti modifiche nel ruo-
lo di insegnanti e allievi nelle attività di
classe. In particolare, nelle situazioni-
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Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 105
L’Education sentimentale fut
publié en 1869, un an avant la
proclamation de la guerre
franco-prussienne, dans une France en
plein désarroi, où tous les points de
repère semblaient perdus. L’Histoire,
telle qu’elle est enseignée dans les
écoles, n’était pas l’objectif de
Flaubert: ce qu’il voulait raconter était
plutôt «l’histoire morale de sa
génération», comme d’ailleurs le récite
le sous-titre du roman. L’Histoire est
pourtant présente dans ce roman, tel
un filet dans lequel les personnages
seraient pris, mais qu’ils auraient
l’illusion d’avoir tissé eux-mêmes.
La lecture du roman flaubertien peut
donc être proposée dans une classe de
lycée avec un double objectif: a)
introduire l’élève à l’analyse littéraire
et stylistique d’un des textes
fondateurs de la littérature française ;
b) introduire l’élève à la critique de
l’histoire. Les évènements racontés
dans le roman couvrent en effet toute
la deuxième partie du XIXe siècle: deux
Révolutions (février et juin 1848), un
coup d’Etat (1851), le second Empire.
Il ne s’agit pas d’apprendre l’histoire
dans un roman, mais de réfléchir de
manière critique sur un chapitre
d’histoire que l’on aura appris
auparavant en classe d’histoire. La
collaboration entre les professeurs de
français et d’histoire est donc
indispensable. Nous allons proposer
de suite une lecture du roman, qui
s’attache au style flaubertien tout en
visant l’élaboration critique
d’évènements qui risquent de paraître
“abstraits” à des adolescents du XXIème
siècle, mais qui furent tragiques et
lourds de conséquences sur l’Europe
entière. La littérature peut les rendre
vivants, aider les jeunes générations à
traverser le miroir du réel.
Flaubert et Du Camp, ou littérature et chroniqueEn 1876, Flaubert encore vivant,
Maxime Du Camp publia un volume
de souvenirs sur la révolution de 1848:
ils étaient le fruit des notes prises au
jour le jour, comme c’était l’habitude
de Du Camp. Il raconte avoir assisté en
1847 à un Banquet réformiste à Rouen,
pour voir «comment on remuait les
foules». Il était en compagnie de
Flaubert, comme d’ailleurs dans la
plupart des épisodes qu’il raconte. Une
confrontation entre la correspondance
de Flaubert et les souvenirs de Du
Camp est intéressante pour évaluer à
L’Education sentimentaleFlaubert et l’histoireMarisa Verna
leur juste mesure les différences dans la
perception des événements de la part
des deux amis, et surtout la différence
par rapport au résultat artistique
représenté par le roman1.
En 1847 Flaubert, Du Camp et Bouilhet
partagent la même position de
scepticisme relativement à la politique:
tous les trois n’aiment que l’Art Pur, et
méprisent l’éloquence politique.
Du Camp: Jamais pareille avalanche de lieuxcommuns enlaidis de phrases toutesfaites et de cacophonies d’imagesn’avaient roulé sur nous. Nous étionsdes lettrés vivant dans Homère, dansGoethe, dans Shakespeare, dans Hugo,dans Musset, dans Ronsard, préparantnos voyages projetés et n’ouvrant jamaisun journal politique2.
1. Cfr. L. Maranini, Il ’48 nella struttura dell’Education sen-timentale, in Il ’48 nella struttura dell’Education senti-mentale e altri studi francesi, Nitri-Lischi, Pisa 1963, pp.11-117.2. M. Du Camp, Souvenirs, cit. in Maranini, Il ’48 nella strut-tura dell’Education sentimentale p. 18.
Boulevard duTemple prima dei
lavori diHaussemann.
ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI106
LINGUE, CULTURE E LETTERATURE
Flaubert:J’ai pourtant vu dernièrement quelquechose de beau et je suis encore dominépar l’impression grotesque et lamentableà la fois que ce spectacle m’a laissée. J’aiassisté à un Banquet Réformiste3!
Les deux amis choisissent des exemples
de lieux communs prononcés par
Odilon Barrot (candidat légitimiste
modéré):
Du Camp:«le char de l’Etat», «la coupe décevantede la popularité», «l’Hydre del’anarchie», «le fatal aveuglement dupouvoir», «la stérile ambition qui sèmeles torches de la discorde» «lamoralisation des classes pauvres».
Flaubert:«le timon de l’Etat», «l’abîme où nouscourons», «l’honneur de notre pavillon»,«l’ombre de nos étendards», «lafraternité des peuples».
La première différence qui saute aux
yeux est la concision de Flaubert, qui
rapporte moins d’exemples et moins
d’épisodes, se bornant à ceux qui lui
paraissent expressifs, correspondant au
sentiment des choses, et au sien propre,
de dégoût, de nausée, d’amertume.
Encore Flaubert:impression grotesque et lamentable …nausées de dégoût … triste opinion deshommes … gelé jusque dans lesentrailles … l’amertume vous vient aucœur quand s’étalent devant vous desbêtises aussi délirantes, des stupiditésaussi échevelées.
C’est surtout dans une image, qui
reviendra dans Madame Bovary, que
Flaubert démontre avoir perçu dans ce
qu’il observait une vacuité qui est
existentielle, métaphysique plutôt que
simplement politique ou intellectuelle:
Flaubert:On a fait l’éloge de Béranger danspresque tous les discours. Quel abus onen fait, de ce bon Béranger! Je lui garderancune du culte que les espritsbourgeois lui portent. Il y a des gens degrand talent qui ont la calamité d’êtreadmirés par de petites natures: le bouilliest désagréable surtout parce que c’est labase des petits ménages. Béranger est lebouilli de la poésie moderne: tout lemonde peut en manger et trouve ça bon4.
L’image du bouilli deviendra le
symbole du tædium vitae dans une
célèbre page de Madame Bovary, prise
de nausée devant son petit ménage,
devant la vie elle-même5. Flaubert ne
se borne pas à faire collection de lieux
communs (il faudra attendre voir pour
cela le Dictionnaire des idées reçues): il
tente de se voir, lui-même, dans le
courant de la bêtise, de se définir et de
définir son propre sentiment face à la
réalité.
Si Du Camp se borne à juger un
monde dont la bêtise le fait “rire”,
Flaubert se juge face à ce même monde,
dont il est à la fois l’observateur et le
protagoniste. En ce sens peut être
acceptée l’analogie Flaubert/Frédéric;
dans une lettre à Du Camp de 1851,
Flaubert se décrivait de la sorte:
Lettre 1851Tu sais bien que je suis l’homme desardeurs et des défaillances. Si tu savaistous les invisibles filets d’inaction quientourent mon corps et tous lesbrouillards qui me flottent dans lacervelle! J’éprouve souvent une fatigue àpérir d’ennui lorsqu’il faut fairen’importe quoi, et c’est à travers degrands efforts que je finis par saisir l’idéela plus nette. Ma jeunesse m’a trempédans je ne sais quel opiumd’embêtement pour le reste de mesjours. J’ai la vie en haine. Le mot estparti, qu’il reste! Oui, la vie, e tout ce quime rappelle qu’il faut la subir. C’est un
3. Lettre à Louise Colet, décembre 1847, cit in Ibi, p. 19.4. Lettre à Louise Colet, décembre 1847, cit. in Ibi, p. 21.Pierre-Jean de Béranger est un poète populaire etpopuliste, auteur de poèmes, chansons, pièces dethéâtre, patriote protégé par Napoléon Ier.5. «Mais c’était surtout aux heures des repas qu’ellen’en pouvait plus, dans cette petite salle au rez-de-chaussée, avec le poêle qui fumait, la porte qui criait,les murs qui suintaient, les pavés humides; toutel’amertume de l’existence, lui semblait servie sur sonassiette, et, à la fumée du bouilli, il montait du fond deson âme comme d’autres bouffées d’affadissement.Charles était long à manger; elle grignotait quelquesnoisettes, ou bien, appuyée du coude, s’amusait, avecla pointe de son couteau, à faire des raies sur la toilecirée» (Madame Bovary, Chapitre IX, I Partie).
Lavori in Place du Châtelet.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 107
ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE
supplice de manger, de m’habiller, d’êtredebout. J’ai traîné cela partout, aucollège, à Paris, sur le Nil, dans notrevoyage6.
Le ‘dégoût du monde’, la fatigue, le
risque d’inaction: Frédéric est
évidemment en partie Flaubert, qui se
décrit dans sa génération: mais en
même temps il n’est évidemment pas
Flaubert, lequel est capable de la juger,
cette inaction, même face à la bêtise de
la politique (alors que Du Camp se
borne à s’en retrancher, à se voir hors
de la stupidité ambiante, supérieur au
réel): les «lettrés vivant dans Homère»
dont parle Du Camp deviennent dans
le roman Frédéric et Rosanette, un
amoureux déçu et une femme avide et
vulgaire qui se renferment dans une
chambre pendant que les morts
jalonnent les rues de Paris.
Les Souvenirs de Du Camp relatent un
épisode où des gardes municipales à
cheval, sans armes, saluent le peuple
en se découvrant la tête, pour se sauver
de cette manière la vie. Une
comparaison entre le texte de Du
Camp et celui du roman est très utile
pour comprendre la différence
d’attitude entre les deux amis, et
surtout la valeur de “critique
historique” que peut prendre
l’Education Sentimentale.
Le terme «déguenillés» (qui est vêtu de
guenilles), entre «vainqueur»
(substantif très fort, presque définitif),
et «se rengorgèrent» (verbe très
ironique) affaiblit la valeur du
substantif et le charge de signifiés
ironiques, presque grotesques: tout est
remis en discussion: le sens de la
victoire et la sincérité de la salutation
des gardes. Mais, surtout, est remis en
discussion le courage des deux amis:
qui ne sont pas, eux non plus, sans
éprouver une certaine satisfaction.
L’âme de Frédéric, qui ne sait jamais
où se situer, est ici parmi les
«vainqueurs déguenillés». Pour lui les
morts ne sont jamais de vrais morts:
sauf Dussardier, qui, tué par Sénécal, le
laisse «béant» («Et, béant, il reconnut
Sénécal», après quoi il y a ce «blanc»
tant apprécié par Proust: c’est après
ces mots que l’histoire se ‘suspend’ et
efface en un seul prédicat des années
entières: «Il voyagea.»). Flaubert, lui,
sait que les morts qui s’entassent dans
les rues sont de vrais morts, et dans la
description de la foule des journées
révolutionnaires les décrit comme tels:
Quand les étudiants eurent fait deux foisle tour la Madeleine, ils descendirentvers la Place de la Concorde. Elle étaitremplie de monde: et la foule tasséesemblait, de loin, un champ d’épis noirsqui oscillait.
Education
Ils avaient fait trois pasdehors, quand un pelotonde gardes municipaux encapotes s’avança vers eux, etqui, retirant leurs bonnets depolice, et découvrant à la foisleurs crânes un peu chauves,saluèrent le peuple très bas.A ce témoignage de respect,les vainqueurs déguenillésse rengorgèrent. Hussonnetet Frédéric ne furent pas,non plus, sans éprouver uncertain plaisir.
Souvenirs de l’année 1848
Debout sur le stylobate d’une des colonnes du portique,Ils avaient fait trois pas dehors, quand un peloton de jeregardais attentivement un groupe d’hommes marchantavec une régularité militaire qui se dirigeait de notrecôté. Il approcha, et je reconnus des soldats de la gardemunicipale à cheval, sans arme aucune et en petitetenue. Arrivés à dix pas de nous, ces hommes ôtèrent leurbonnet de police, et, le visage souriant avec contrainte,ils saluèrent. Un d’eux prononça une courte phrase et jedistinguai les mots «Peuple et cause sacrée». Derrièremoi, j’entendis armer des fusils ; Flaubert et moi nouséchangeâmes un coup d’œil et nous nous comprîmes.D’un élan, nous étions près des gardes, les embrassant,leur serrant la main et les appelant: «Nos frères égarés!» 6. Cit. in L. Maranini, Il ’48 nella struttura dell’Education sen-
timentale, cit. p. 23.
Communards immortalano la rivoluzione del 1870.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI108
LINGUE, CULTURE E LETTERATURE
L’image des épis n’est pas nouvelle, ni
en soi originale, si ce n’était pour cet
adjectif de couleur, «noirs», qui modifie
le sens de la métaphore. Non seulement
la foule oscille au vent (image souvent
choisie par les journaux eux-mêmes à
l’époque des faits), mais sur elle pèse le
menace de la faux de la mort, qui est
suspendue sur l’humanité entière, prise
dans l’incertitude et la douleur,
toujours. Maranini commente très
opportunément:
Flaubert è passato, senza possibile di-
scussione, dalla cognizione particolare dei
fatti, alla “visione” di essi in un collega-
mento di “necessità”, e, quindi, alla “co-
noscenza” di essi. Al loro senso metasto-
rico, vale a dire, poetico (…) dalla cronaca
dispersiva si passa allo stile espressivo (…)
dalla cronaca alla quale il giudizio si so-
vrappone come qualche cosa di estraneo
o di aggiunto, si arriva a una narrazione
che è già in se stessa, oltre che “stile” (o,
in altri termini, espressione che si realiz-
za attraverso un ritmo nuovo imposto alle
parole), anche lucido esame delle se-
quenze dei fatti, e, quindi, critica storica7.
L’œil de l’artiste n’est plus, comme
chez Balzac, un faisceau de lumière qui
éclaire une certaine zone du réel, il est
devenu un phare qui tourne autour de
soi-même, qui voit tout ce qui se
manifeste et les réseaux qui s’opposent
et se rattachent l’un à l’autre, dans une
immortelle insignifiance. L’Histoire est
donc présente, dans l’Education,
présente comme critique d’elle-même
et de ses protagonistes, dont les raisons
se composent et s’annulent l’une
l’autre. Plus que Frédéric, Paris est le
véritable protagoniste du roman:
centre nouveau d’une nouvelle
dialectique de l’Histoire, vortex de
l’insignifiance elle-même. Seul
rempart à cette insignifiance, le style
nous permet d’entrer dans le flux
continu des événements. Proust l’avait
bien compris, qui dans son article sur
Flaubert anticipe bien des
observations de la critique
contemporaine:
[…] ce qui jusqu’à Flaubert était actiondevient impression. Les choses ontautant de vie que les hommes, car c’est leraisonnement qui après coup assigne àtout phénomène visuel des causesextérieures, mais dans l’impressionpremière que nous recevons cette causen’est pas impliquée8.
L’observation est capitale, car elle
constitue une définition du réalisme
flaubertien sans que jamais le mot
réalisme ne paraisse dans le
commentaire: au centre du style de
Flaubert se trouvent «le rendu de la
vision», le «rythme régulier», la
monotonie et la continuité qui
permettent que l’action soit abandonnée
au profit de l’impression, d’une qualité
de la vision où rien n’est mis en relief et
aucune action n’intervient pour
interrompre l’existence brute et solide
des choses, auxquelles l’auteur ne
cherche plus un sens.
Un sens existe, dans la beauté de
l’écriture qui nous rend perceptible le
réel de l’Histoire.
Les élèves pourraient donc être invités
à travailler sur la comparaison entre
les textes de Du Camp, qui ‘prend des
notes’, et les textes de Flaubert, qui
s’implique dans le récit. Le travail
d’analyse devrait être en premier lieu
linguistique (choix des adjectifs et des
prédicats, implication du sujet de
l’énonciation). Le lecture de quelques
pages de journaux de l’époque, la
vision de photographies (il en existe de
la Révolution de juin, qui fut le
premier événement historique à être
photographié), pourrait conclure le
travail de classe. En dernier, on
pourrait proposer aux élèves un travail
personnel de recherche sur un des faits
historiques représentés dans le roman,
pour que l’objectif de l’apprentissage
critique puisse être rejoint.
Marisa VernaUniversità Cattolica, sede di Milano
7. Maranini, Il ’48 nella struttura dell’Education sentimen-tale, p. 53 et 60.8. M. Proust, Essais et articles, Pierre Thierry Laget ed., Paris, Folio Essais, p. 284-285.
Communards prima di abbattere la Colonne Vendôme.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 109
ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE
Esiste in Italia una cospicua
casistica di sentenze della
giurisprudenza penale in
materia di reati a sfondo razziale e di
discriminazione etnico-razziale1. In
tali sentenze, da una parte è
riconosciuto il fatto che l’aggressione
immotivata o atti di teppismo ai danni
di un cittadino straniero non sono gli
unici indici significativi per qualificare
il reato di violenza; ad essi vanno
aggiunti «le parole e i gesti provocatori
che rimandano in maniera chiara alla
diversità di razza, di nazionalità e di
“colore”, gli atteggiamenti di odio o,
quanto meno, di insofferenza o di
intolleranza […]» (cfr. Suprema Corte
di Cassazione, Sez. III – penale,
sentenza 15 gennaio 1999 (udienza il
24-11-1998), n. 434)2. Dall’altra parte
si possono riscontrare, nelle sentenze,
delle attenuanti alle aggressioni di
natura verbale: «Non sussiste il reato
di cui all’art. 3 comma 1 lett. a) l.
654/75 (propaganda di idee fondate
sull’odio razziale) se frasi offensive e
denigratorie verso gli stranieri sono
proferite dinanzi ad un unico
interlocutore ed in maniera informale.
La condotta, seppur perpetrata in
occasione di una conferenza stampa e
alla presenza di diverse persone, è
inconciliabile con l’attività di
diffusione di idee fondate sull’odio
razziale o con l’istigazione ed il
proselitismo se mancano riferimenti a
fatti o persone determinate e se trattasi
di frasi estemporanee ed occasionali,
non potendosi ravvisare in essa il dolo
specifico dato dalla volontà di
diffondere tali idee» (cfr. Tribunale di
Treviso, sentenza n. 492 del 6.6.2000 –
est. Toppan)3. Che cosa si intenda per
“maniera informale” è molto vago
(volutamente vago?) e può costituire
un precedente per la giustificazione
degli insulti etnici; del resto, basta una
veloce scorsa del materiale pubblicato
online per constatare che il reato di
ingiuria razziale sembra essere un
tema dai contorni ancora labili,
giudicabile soggettivamente dai diversi
tribunali.
Come viene sottolineato da più parti, nel
nostro ordinamento giuridico manca una
nozione corrispondente a quella codifi-
cata nel diritto anglosassone come hate
speech per indicare il linguaggio che
produce discriminazione, pertanto, in as-
senza di una giurisprudenza univoca in
proposito, in Italia le sentenze dal giudizio
dissonante dipenderebbero dal conflit-
to tra il (legittimo) diritto alla libertà di
opinione e il principio di eguaglianza e
non discriminazione4. Parimenti, negli
Stati Uniti, nazione estremamente sen-
sibile alla questione degli epiteti razzia-
li denigratori tanto da produrre gli stu-
di più significativi sugli slur, la giuri-
sprudenza “ondeggia” tra la condanna
dell’uso di certe parole come atti espli-
citi di discriminazione e l’affermazione
del diritto della libertà di opinione san-
cito dal Primo Emendamento.
Che cosa facciamo quando diciamo crucco?Maria Paola Tanchini
Crucco è un esempio di etnonimo: l’uti-
lizzo di questa denominazione individua,
per il parlante italiano, una classe spe-
cifica di individui, ovvero i tedeschi o, più
genericamente, i parlanti l’idioma te-
desco; per dilatazione può indicare tut-
to ciò che può riguardarli. Chi dice
crucco, tuttavia, non dice solo tedesco.
Crucco, infatti, non può essere conside-
rato un termine “neutro”, denotante un
popolo: nei dizionari viene solitamen-
te qualificato come “spregiativo”. La sua
controparte neutra nell’italiano standard
è tedesco; anche tedesco, tuttavia, può as-
sumere particolare coloritura nelle va-
rianti locali o regionali5 o in particola-
1. Si veda, ad esempio, la Raccolta della giurisprudenzapenale in materia di reati a sfondo razziale e di discrimi-nazione etnico-razziale del settembre 2011 a cura del-l’Associazione Studi giuridici sull’Immigrazione di Torino:cfr.: http://www.asgi.it/public/parser_download/save/giurispr_penale_reati_razziali_sett_2011.pdf.2. Ibi, p. 4. Testo integrale della sentenza al link:http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=documenti&id=2045&l=it.3. Ibi, pp. 4-5. Testo integrale della sentenza al link:http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=documenti&id=2047&l=it.4. «In Italia, infatti, si è fatta strada l’opinione (suppor-tata da alcuni esponenti politici e alcuni intellettuali)che la codificazione di un linguaggio d’odio, e conse-guentemente di quelli che sono definiti come hate cri-mes, costituisca violazione della libertà d’opinione»: cfr.P. Fiore, Il Diritto come garanzia per un linguaggio eguali-tario, «Multiverso», 10, 2010, online al link:http://www.multiversoweb.it/rivista/n-10-link/il-diritto-come-garanzia-per-un-linguaggio-egualitario-3362/.5. Le varianti regionali o locali del termine tedesco risul-tano, spesso, essere marcate: basti considerare, peresempio, la scarsa benevolenza insita nelle varianti set-tentrionali tüter e todesk, tipiche del dialetto bresciano,o nelle varianti ladine todeski, tedésk, todésk o tóderli,quest’ultima riferita solitamente ai tirolesi (la trascri-zione grafica è stata semplificata).
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI110
LINGUE, CULTURE E LETTERATURE
ri contesti d’uso. Il fatto che nell’Atlan-
te linguistico del ladino dolomitico cu-
rato da Goebl6 le varianti locali del te-
mine crucco, per esempio kruk, krúke o
krúki, siano indicizzate a volte come “di-
spregiativo”, a volte come “non tanto di-
spregiativo” o a volte siano prive di tale
specificazione, non cambia la sostanza
delle cose: crucco ha una precisa con-
notazione che riflette un atteggiamen-
to più o meno negativo nei confronti del-
la classe dei denotati. Gli etnonimi è
come «se contenessero sempre un ine-
rente tratto dispregiativo», scrive Gior-
gio Cardona, «dato dal fatto che si trat-
ta di altri da noi, e dunque, in genere, di-
versi in peggio»7.
In questo intervento intendiamo pro-
porre un’ipotesi di interpretazione se-
mantica che spieghi “che cosa facciamo
quando diciamo crucco”, senza tuttavia
addentrarci nella classificazione degli et-
nonimi razziali, né nella loro decodifi-
cazione sociologica8.
Il semantismo di cruccoVerifichiamo anzitutto la definizione del
termine in alcuni dizionari della lingua
italiana. Prima, però, una precisazione:
utilizziamo qui il termine ‘connotazio-
ne’ per indicare quella parte del signifi-
cato che si aggiunge ai tratti semantici
necessari per individuare i referenti,
apportando semantismo riconducibile
all’atteggiamento del parlante nei con-
fronti degli oggetti denotati. Parafra-
sando Kerbrat-Orecchioni9, potremmo
dire che la connotazione si riferisce a un
insieme di tratti semantici aggiuntivi, se-
condari e periferici, che non fanno par-
te né dell’intensione né dell’estensione
del termine10.
Nel dizionario Treccani11 si trovano
spiegazioni dettagliate sull’etimologia-
di crucco, sulla sua evoluzione semanti-
ca (ampliamento dell’estensione in rap-
porto al significato originario) e sul si-
gnificato d’uso attuale. Interessante è il
riferimento all’intonazione come mar-
ca di connotazione:
crucco (o cruco) s. m. (f. -a) [adattamentodel serbocr. kruh «pane»]12 (pl. m. -chi).– Nome con cui nella seconda guerramondiale i soldati italiani chiamavano gliabitanti della Iugoslavia merid. con iquali erano a contatto. In un secondo tem-po fu riferito (anche nella forma cruco),dai soldati che combattevano in Russia epoi dai partigiani, ai soldati tedeschi;come agg., con intonazione spreg., è rife-rito in genere a tutto ciò che è tedesco.
Nel Devoto-Oli13 la spiegazione è più
concisa e manca qualsiasi riferimento al-
l’intonazione che concorrerebbe a se-
gnalare la connotazione dispregiativa:
crucco ‹crùc·co› s.m. (f. -a; pl.m. -chi)Nome dato dai soldati italiani, durante laseconda guerra mondiale, agli abitantidella Iugoslavia meridionale, poi ai sol-dati tedeschi ~ spreg. Tedesco.ETIMO Dal serbocroato kruh “pane”DATA 1947
Nel dizionario di De Mauro14 mancano
riferimenti espliciti al valore spregiati-
vo di questa espressione:
crùc·cos.m., agg. CO [comune]s.m., ster. [stereotipo], tedesco | agg.,proprio, tipico dei tedeschi
La marca d’uso “stereotipo”, tuttavia,
lascia inferire la presenza di un possibi-
le significato connotativo, in quanto la-
scia intendere una visione semplificata e
largamente condivisa veicolata dal ter-
mine e la connotazione, quando è codi-
ficata e non esito di una suggestione sog-
gettiva momentanea, nasce spesso sulla
base di stereotipi, come sottolinea, tra al-
tri, Keith Allan: «The connotations of a
language expression are pragmatic effects
that arise from encyclopaedic knowledge
about its dentotation (or reference) and
6. H. Goebl (ed.), Atlant linguistich dl ladin dolomitich y didialec vejins, 2a pert / Atlante linguistico del ladino dolo-mitico e dei dialetti limitrofi, 2a parte / Sprachatlas des Do-lomitenladinischen und angrenzender Dialekte, 2. Teil,Éditions de linguistique et de philologie, Strasbourg2012, 7 voll., cfr. vol. 2, tavola 242. Ringraziamo BrigitteRührlinger per la segnalazione.7. Cfr. G.R. Cardona, Nomi propri e nomi di popoli: una pro-spettiva etnolinguistica, Centro Internazionale di Semio-tica e Linguistica, Università di Urbino, Documenti dilavoro 119, serie C, 1982, pp. 16, cfr. p. 12. Intuitivamentesembrerebbe che il carico spregiativo veicolato da cruccosia minore rispetto a quello veicolato, per esempio, danegro anche in virtù del fatto che la sua estensione è ri-dotta rispetto a quella e che la sua diffusione è minore. Siresterebbe quanto meno stupiti di fronte a una citazionein giudizio per l’aver appellato qualcuno crucco, financhecon intenti ostili o volutamente offensivi.8. Si possono vedere, in proposito, A. Winkler, EthnischeSchimpfwörter und übertragener Gebrauch von Ethnika,«Muttersprache», 4, 1994, pp. 320-337 e M. Markefka,Ethnische Schimpfnamen – kollektive Symbole alltäglicherDiskriminierung, «Muttersprache», 2, 1999, pp. 97-123(prima parte), 3, 1999, pp. 193-206 (seconda parte), 4,1999, pp. 289-302 (terza parte).9. Cfr. C. Kerbrat-Orecchioni, La Connotation, P.U.L., Lyon1977, cfr. p. 12. Ovviamente questa non è l’unica posi-zione: una panoramica esaustiva del concetto di con-notazione, nella sua evoluzione storica, si trova in EddoRigotti, A. Rocci, Denotation vs Connotation, in K. Brown(ed.),The Encyclopedia of Language and Linguistics, Else-vier, Amsterdam 20062.10. Indichiamo con ‘estensione’ l’insieme degli individuia cui un determinato termine si riferisce, con ‘intensione’l’insieme degli attributi che un individuo deve posse-dere per far parte dell’estensione.11. Cfr. http://www.treccani.it/vocabolario/crucco/.12. Segnaliamo che Vittore Pisani fornisce un’altra spie-gazione etimologica: «Ausdruck des militärischen Jar-gons; vielleicht aus dt. Krug “Schenke” (also“trinksüchtiger Mensch”)». Cfr. V. Pisani, Die italienischenBezeichnungen für Deutschland und die Deutschen, «Mut-tersprache», 72, 1962, pp. 194-201, cfr. p. 200.13. Cfr. G. Devoto, G.C. Oli, Il Devoto-Oli. Vocabolario dellalingua italiana, Le Monnier, Torino 2010.14. T. De Mauro, Il dizionario della lingua italiana, Para-via, Torino 2000.15. K. Allan, The pragmatics of connotation, «Journal ofPragmatics» 39, 2007, pp. 1047-1057, cfr. p. 1047.16. M. Cortellazzo, P. Zolli, Dizionario etimologico dellalingua italiana, Zanichelli, Torino 1979, 5 voll.
also from experiences, beliefs, and prej-
udices about the contexts in which the ex-
pression is typically used»15.
Nel dizionario etimologico della Zani-
chelli16 si trova, nella citazione di Bru-
no Migliorini dall’Appendice al “Dizio-
nario moderno” di Alfredo Panzini, un
interessante abbinamento tra la conno-
tazione spregiativa e quella scherzosa:
crùcco, s.m. e agg. spreg. “tedesco” (1947,P. Monelli: LN XXIV (1963) 32).
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 111
ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE
Soprannome scherzoso-spregiativo che
(applicato dapprima agli slavi del sud, che
chiamano il pane kruch) fu poi dato, du-
rante la seconda guerra mondiale, ai Te-
deschi (1963, Migl. App.).
Il sintagma composto “scherzoso-spre-
giativo” sembra sintetizzare, al di là del-
l’origine etimologica in ambito militare17,
piuttosto il fatto che nell’uso attuale la
componente denigratoria non sia così ac-
centuata (cfr. nota 7). D’altra parte, è al-
tresì riconosciuto che un epiteto dispre-
giativo o slur può volgere la sua conno-
tazione negativa in positivo se viene uti-
lizzato da un rappresentante della cate-
goria target per riferirsi a un suo simile
/ ai suoi simili in un contesto considera-
to confidenziale o amicale (si pensi al-
l’utilizzo di nigger o nigga nelle canzoni
rap americane) o se, per motivi socio-cul-
turali, viene utilizzato addirittura da
persone appartenenti ai possibili utiliz-
zatori del termine in senso dispregiativo18.
Ciononostante, crucco resta un termine
connotato in partenza come dispregiati-
vo, mentre tale connotazione non è pre-
sente nella controparte neutra tedesco.
Ora, come si può interpretare il rapporto
tra il significato denotativo e quello
connotativo all’interno dei termini de-
rogatori? Esistono diverse scuole di pen-
siero in proposito e prima di presenta-
re la nostra ipotesi passiamo veloce-
mente in rassegna le posizioni più diffuse.
Alcuni considerano il significato con-
notativo come parte del significato let-
terale del termine19. Secondo questa
posizione dire crucco significa sempre
dire persona di nazionalità tedesca e di-
sprezzabile per questo. La conseguenza
estrema di questa lettura è che, poiché
non esistono persone disprezzabili per
appartenenza a una nazione o a un
gruppo etnico, l’estensione di espressioni
derogatorie di questo tipo sarebbe vuo-
ta, ma ciò sembrerebbe contraddire il fat-
to che per gli interlocutori che utilizza-
no tali termini è sempre possibile indi-
viduare il referente del discorso.
Altri20 sostengono che il significato peg-
giorativo dipende dal fatto che l’uso di
queste espressioni è proibito (si tratta di
taboo-word) e chiunque violi questa
proibizione, offende coloro che la ri-
spettano. Intuitivamente, però, sem-
brerebbe vero il contrario, ovvero che sia
il significato di queste espressioni che le
rende parole-tabù e non viceversa.
Tra coloro che sostengono che il conte-
nuto derogatorio non è parte del signi-
ficato letterale, si distinguono due ap-
procci. Da una parte ci sono coloro che
affermano che il contenuto derogatorio
è espresso pragmaticamente. Schlen-
ker21, ad esempio, sostiene che faccia par-
te delle presupposizioni dell’enunciato
in cui occorre, ma di per sé il contenu-
Caricatura diGuglielmo I diHohenzollern(1797-1880) diThomas Nast.
17. Ricordiamo la controparte austriaca (prima guerramondiale) e tedesca (seconda guerra mondiale) del-l’eteronimo Itak/Itaker o Itaka (contrazione di Italieni-sche Kameraden) riservato agli italiani.18. Per esempio il fondatore della Def Jam Records, eti-chetta musicale del settore hip-hop, Russell Simmonsracconta a questo proposito: «When we say ‘nigger’ now,it’s very positive. Now all white kids who buy into hip-hop culture call each other ‘nigger’ because they haveno history with the word other than something positive[…] When black kids call each other ‘a real nigger’ or ‘mynigger’, it means you walk a certain way […] have yourown culture that you invent so you don’t have to buyinto the US culture that you’re not really a part of. Itmeans we are special. We have our own language»; ci-tato in A.M. Crom, Slurs, «Language Sciences», 33, 2011,pp. 343-358, cfr. p. 350.19. Si vedano ad esempio Ch. Hom, The Semantics ofRacial Epithets, «Journal of Philosophy», 105, 2008, pp.416-440 e Id., A Puzzle about Pejoratives, in «Philosophi-cal Studies», 159, 2011, pp. 383–405.20. Cfr. per esempio L. Anderson, E. Lepore, SlurringWords, «Nous», 47, 2013, pp. 25-48.21. Cfr. Ph. Schlenker, Expressive Presuppositions, «Theo-retical Linguistics», 33, 2007, pp. 237-245.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI112
LINGUE, CULTURE E LETTERATURE
to derogatorio non è cancellabile con-
testualmente come le presupposizioni:
non si può dire Hans è un crucco, ma non
ho pregiudizi nei confronti dei tedeschi.
Predelli22 asserisce invece che il conte-
nuto connotativo fa parte delle condi-
zioni di felicità: secondo questa impo-
stazione, l’affermazione Hans è un cruc-
co non è felice se è pronunciata da
qualcuno che non ha un atteggiamen-
to denigratorio/negativo nei confronti
dei tedeschi. Ciò è molto probabilmen-
te vero in rifermento all’uso, ma non
chiarisce la relazione tra il significato
connotativo e quello denotativo.
Dall’altra parte ci sono coloro che so-
stengono che il significato dispregiativo
sia espresso semanticamente, pur non fa-
cendo parte del significato letterale.
Williamson23, ad esempio, sostiene che
il significato derogatorio sia una impli-
catura convenzionale, ovvero faccia par-
te del semantismo lessicale e non sia can-
cellabile; per Hornsby si tratta invece di
un contenuto espressivo: «It is as if
someone who used, say, the word ‘nig-
ger’ had made a particular gesture while
uttering the word’s neutral counter-
part. An aspect of the word’s meaning is
to be thought of as if it were commu-
nicated by means of this […] gesture.
The gesture is made, ineludibly, in the
course of speaking, and is thus to be ex-
plicated […] in illocutionary terms»24.
La nostra ipotesi interpretativa25 si ag-
gancia idealmente alla tesi della Hornsby,
anche se non consideriamo il termine
crucco come un gesto o come una mar-
ca intonativa, per riprendere la defini-
zione del dizionario Treccani. Anche per
noi il significato connotativo è espressivo,
ma per spiegarne l’espressività ricor-
riamo alla teoria degli atti linguistici.
Dire è fareSecondo la teoria degli atti linguistici, la
maggior parte degli enunciati serve a
compiere delle vere e proprie azioni in
ambito comunicativo, in base alle quali
si influenza lo stato di cose del mondo.
Secondo la nota tassonomia di Searle26,
gli atti linguistici sono di cinque tipi: a)
rappresentativi/assertivi; b) direttivi; c)
commissivi; d) dichiarativi; e) espressi-
vi. In estrema sintesi: gli assertivi mira-
no a informare su come stanno le cose;
i direttivi mirano a dirigere il compor-
tamento altrui; i commissivi impegnano
il parlante circa il suo comportamento fu-
turo; i dichiarativi sono mosse interne a
una istituzione che modificano il nostro
mondo sociale; gli espressivi servono per
esprimere l’atteggiamento psicologico del
parlante nei confronti di un certo fatto.
Su questa base, noi sosteniamo che
quando un parlante dice Hans è crucco,
compie due atti linguistici:
22. Cfr. S. Predelli, From the Expressive to the Derogatory:On the Semantic Role for Non-Truth-Conditional Meaning,in S. Sawyer (ed.), New Waves in Philosophy of Language,Palgrave Macmillan, Houndmills and New York 2010, pp.164-185.23. Cfr. T. Williamson, Reference, Inference, and the Se-mantics of Pejoratives, in J. Almog, P. Leonardi (ed.),ThePhilosophy of David Kaplan, Oxford University Press, Ox-ford 2009, pp. 137-158.24. Cfr. J. Hornsby, Meaning and Uselessness: How toThink about Derogatory Words, «Midwest Studies in Phi-losophy», 25, 2001, pp. 128-141, cfr. p. 140.25. La tesi è stata recentemente presentata insieme adAldo Frigerio alla Third International Conference on Phi-losophy of Language and Linguistics “PhiLang2013” (Uni-versità di Lódz, 9-11 maggio 2013).26. J.R. Searle, A taxonomy of illocutionary acts, in K. Gun-derson (ed.), Language, Mind and Knowledge, Universityof Minnesota Press, Minneapolis 1975, pp. 344-369 e Id.,Atti linguistici. Saggio di filosofia del linguaggio, BollatiBoringhieri, Torino 1992.
a) un atto assertivo che corrisponde al-
l’informazione Hans è tedesco;
b) un atto espressivo tramite il quale il
parlante esprime il proprio atteggia-
Caricatura francesedel cancelliere Otto
von Bismarck (1815-1898).
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 113
ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE
mento nei confronti della classe dei de-
notati, qualcosa come “i tedeschi non
mi stanno (tanto) simpatici”. Adottia-
mo questa interpretazione perché l’at-
teggiamento spregiativo veicolato da
crucco è di default, ma, come abbiamo
visto, può assumere tratti più o meno
marcati a seconda del contesto d’uso
(da cui lo “scherzoso-spregiativo” del di-
zionario Zanichelli). Convenzional-
mente, emettere un enunciato espres-
sivo equivale a compiere una certa
mossa nel gioco sociale, come quando
diciamo ciao o grazie.
Riteniamo che entrambi gli atti, e dun-
que anche il secondo, siano parte del
contenuto semantico di crucco. Tra i due
tipi di atti, tuttavia, esiste una sostanziale
differenza: mentre del primo atto può
dire che è vero (è vero che Hans è tede-
sco) o falso (è falso che Hans è tedesco),
del secondo non ha senso chiedersi se lo
sia27. Questo perché il primo atto de-
scrive uno stato di cose del mondo,
mentre il secondo esprime un atteg-
giamento del parlante. Questa compo-
nente del semantismo potrebbe essere
paragonata a un grido di dolore: un gri-
do siffatto esprime il dolore, non lo de-
scrive e non avrebbe quindi senso chie-
dersi se un tale grido possa essere vero
o falso. Il secondo atto è dunque parte
del contenuto semantico, ma è indi-
pendente dal primo e non può essere né
vero né falso.
Si potrebbe obiettare avanzando la le-
gittimità di un’espressione come Hans
non è crucco, è tedesco (è falso che Hans
è crucco, Hans è tedesco). In realtà, la ne-
gazione non colpisce in questo caso la
componente descrittiva del termine,
ma nega o corregge metalinguistica-
mente quella espressiva. In questo caso
il parlante non compie l’atto espressivo.
Il contenuto espressivo, tramite il qua-
le il parlante esprime la sua attitudine o
le sue emozioni nei confronti di un in-
dividuo o di una classe di individui, è
parte del significato, indipendente dal
contesto, anche se il contesto ne preci-
sa i contorni, e dalla componente de-
notativa del termine.
Implicazioni glottodidattichePuò succedere che in classe gli studen-
ti usino etnonimi razziali con intenti vo-
lutamente dispregiativi o offensivi, op-
pure che ne chiedano il significato al-
l’insegnante. L’intervento educativo po-
trebbe consistere, a nostro avviso, nello
spiegare che pronunciando un enunciato
espressivo di questo tipo si compie una
precisa mossa nel gioco sociale di cui
ognuno si deve assumere la responsa-
bilità in relazione alle conseguenze e spie-
gando in che cosa consiste questa mos-
sa. Insultare qualcuno per motivi etni-
ci non limita l’azione agli interlocutori
dell’atto in praesentia, ma coinvolge
l’intero gruppo a cui il target appartie-
ne, emarginandolo.
Si potrebbe pensare di anticipare la
mossa promuovendo «nell’apprenden-
te una sensibilità nei confronti di aspet-
ti connotativi e pragmatici legati evi-
dentemente al significato di un ele-
mento lessicale “in contesto”. Proprio
perché si tratta di “casi estremi” all’in-
terno del lessico di una lingua, questi po-
trebbero essere introdotti per suscitare
maggiore curiosità rispetto a elementi di
uso più comune e dalle minori conno-
tazioni, e dunque innalzare la soglia di
attenzione»28.
Insegnare il significato di un etnonimo
o di un insulto etnico significa far ac-
quisire all’apprendente consapevolezza
delle sue componenti connotative:
«What we see is that the use or nonuse
of offensive language is not a simple mat-
ter of propriety or impropriety but ra-
ther involves effects, intentions, rights
and identity»29.
Concludiamo ampliando i confini del di-
scorso, riportando un’osservazione di
Giovanni Gobber30 sulla connotazione
che ci sembra di particolare interesse per
la glottodidattica. Gobber sostiene che
la concezione pragmatica della comu-
nicazione verbale può indagare “das
soziale spannende Leben” (“avvincente
vita sociale”) della lingua solo a partire
dalla connotazione, che diventa un ele-
mento decisivo della referenza testuale:
«Konnotation wird somit zu einem ent-
scheidenden Moment der Textreferenz,
sie gehört zu dem kontextrekonstruie-
renden Gedächtnis, das entscheidend ist
für die Speicherung der kommunikati-
ven Erfahrung, die eine gegebene Kon-
stellation von verbalen und nicht-ver-
balen Gebärden zu einem semiotischen
Ereignis ausmacht»31.
Maria Paola TenchiniUniversità Cattolica, sede di Brescia
27. Così come non posso dire è vero che è ciao o è falsoche è grazie.28. Cfr. M. Cordisco, B. Di Sabato, L’utilizzo di parole tabùnell’inglese di oggi: il caso di “fuck” nella comunicazioneordinaria e nella classe di inglese, «Testi e Linguaggi», 2,2008, pp. 87-104, cfr. p. 96.29. Cfr. E.L. Battistella, Bad Language: Are some WordsBetter than Others?, Oxford University Press, New York2005, p. 77, citato in M. Cordisco, B. Di Sabato, L’utilizzo diparole tabù nell’inglese di oggi, cit., p. 94.30. Cfr. G. Gobber, Zur Pragmatik von Denotation undKonnotation, in C. Di Meola, A. Hornung, L. Rega (ed.), Per-spektiven Vier. Akten der 4. Tagung «Deutsche Spra-chwissenschaft in Italien», Peter Lang, Frankfurt 2012,pp. 113-129.31. Ibi, p. 127 («Così la connotazione diventa un fattoredecisivo della referenza testuale; essa fa parte della me-moria che ricostruisce il contesto – una memoria deci-siva per immagazzinare l’esperienza comunicativa, laquale prende una costellazione di gesti verbali e nonverbali e ne fa un evento semiotico»).
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI114
LINGUE, CULTURE E LETTERATURE
1. G. Papini, Domandiamo la grazia per un poeta, inSchegge, «Corriere della Sera», 30 ottobre 1955, p. 3.
L’articolo Sul Corriere della Sera del 30 ottobre 1955,
il noto giornalista, scrittore, saggista e cri-
tico italiano Giovanni Papini, un anno
prima di morire, all’interno della sua ru-
brica quindicinale Schegge, così iniziava
un trafiletto di due sole colonne intito-
lato Domandiamo la grazia per un poeta:
Proprio oggi, 30 ottobre, Ezra Pound, poe-
ta americano di massima grandezza, fi-
nisce settanta anni. Non trascorre, però,
questa giornata in una sua casa in mez-zo ai boschi o sulle rive del mare, festeg-giato dagli amici e dagli ammiratori,bensì in un manicomio criminale dove èrinchiuso da dieci anni benché non sia unpazzo nel senso ordinario della parola, nétanto meno un delinquente.Non intendo attenuare né assolvere le col-pe di Ezra Pound verso il suo paese mapenso e reclamo che queste colpe, in qua-lunque maniera si vogliano misurare e pe-sare, hanno avuto, con il martirio crudeledi dieci anni, la loro piena espiazione. Conquesti dieci anni di prigionia umiliante,
Buon compleanno a Ezra PoundGiuliana Bendelli
La pagina delCorriere della
Sera del 30ottobre 1955 che
contienel’articolo di
Giovanni PapiniDomandiamo la
grazia per unpoeta, sotto la
rubrica“Schegge”.
di promiscuità stagnanti, di schiavitùmortificanti, l’autore dei Cantos, ha pa-gato, ha scontato, ha riscattato ogni suoerrore. Un artista, un uomo di cultura e di pen-siero, un poeta sono creature oltremodoipersensibili, che soffrono a mille doppial paragone degli esseri comuni: i diecianni di Pound corrispondono a una spe-cie di eternità.Nel momento stesso che i capi del Crem-lino rimandano graziati i criminali diguerra non possiamo credere che i di-scendenti di Penn e di Lincoln, di Emer-son e di Walt Whitman vogliano esseremeno generosi e clementi dei successoridi Lenin e di Stalin.A nome dei poeti e di tutti gli uomini dicuore d’Italia io mi rivolgo alla “donnagentile” che rappresenta a Roma la gran-de unione americana. La signora ClaraLuce è, per grazia di Dio, una cristiana,un’artista e una scrittrice e perciò sapràtrovare le parole più appropriate e calzantiper far comprendere a Washington ilnostro sentimento e la nostra preghiera.Prima che avrà principio il nuovo annoavrà fine la tetra e tormentosa reclusio-ne del vecchio e infelice Ezra Pound: que-sta vorrebbe essere la nostra certezzapiù che la nostra speranza1.
Papini interpretava lo spirito della mag-
gior parte degli intellettuali italiani con-
temporanei che avevano capito quanto
ingiusta e pretestuosa fosse l’accusa di fa-
scismo rivolta a Ezra Pound, il cui mes-
saggio più autentico era di ordine poe-
tico così come poetica era la sua pur for-
te visione economico-politica. Giam-
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 115
ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE
battista Vicari, tra i principali interlo-
cutori italiani di Ezra Pound2 e diretto-
re della rivista letteraria Il Caffè , fonda-
ta nel 1953 e importante laboratorio cul-
turale su cui scrissero, tra gli altri, autori
quali Italo Calvino e Leonardo Sciascia,
lancia un appello sul numero del 12 feb-
braio 1955: “Chiediamo agli americani
di perdonare il poeta Ezra Pound”.
Mentre Papini rivolgeva il suo accorato
appello al tribunale di Washington per-
ché si decidesse finalmente a liberare il
poeta, Nuova Corrente, una rivista let-
teraria italiana fondata a Genova l’anno
prima, stava preparando un volume
monografico su Pound che sarebbe sta-
to pubblicato come numero 5-6 con la
data gennaio-giugno 1956 e noto come
Pound Symposium. Il volume contiene
interventi di studiosi italiani famosi
(oltre che dei noti stranieri T.S. Eliot, E.
Bishop, R. Fitzgerald, H. Kenner) tutti
mossi dall’intento di valorizzare l’im-
portante influenza stilistica del poeta sul-
la letteratura italiana del tempo e dal pro-
grammatico intento di astenersi dal
proferire giudizi politici:
Dedichiamo interamente questo nume-ro all’opera di EZRA POUND senza pe-raltro desiderare di venire confusi conquanti in questi ultimi tempi hanno vol-to omaggi di troppa chiara intonazionepolemica al Poeta, invocando per lui dalpotere politico del suo paese una graziache riteniamo tanto ingiusto chiederequanto non dignitoso accettare in nomedella poesia che è pur fatta delle ineso-rabili contraddizioni della vita.Si tratta di una indagine critica che am-birebbe essere rigorosa, allo scopo di ve-rificare l’apporto del linguaggio poun-diano nell’attuale momento letterario.In una posizione come la nostra non po-tevamo non essere tentati dal desiderio diproporre con una serie di studi e di sag-gi, per la maggior parte redatti da spe-cialisti, qualche sicuro e fondato giudizio.Ringraziamo tutti coloro che hanno ac-cettato il nostro invito e ci auguriamo chequesto fascicolo non offra al lettore trop-
po gravi contraddizioni in sé e che appaialegato al nostro passato e futuro lavoro3.
Il primo contributo del Pound Sympo-
sium, “Saeva indignatio” di Ezra Pound,
porta la firma di Alfredo Rizzardi, autore
della traduzione italiana dei Pisan Can-
tos pubblicata nel 1951 dall’editore
Guanda con il titolo letterale di Canti Pi-
sani. Pound li aveva scritti nel 1945 nel
campo di prigionia americano di Col-
tano, presso Pisa, dove fu detenuto con
l’imputazione di tradimento per le sue
trasmissioni in inglese da Radio Roma
durante la guerra4.
Pound aveva iniziato a comporre i suoi
Cantos a partire dal 1919 per continua-
re fino alla morte e li aveva pubblicati a
più riprese, a partire dalla prima canti-
ca, A Draft of XXX Cantos, pubblicato in
volume nel 1930, a cui si sarebbero ag-
giunte tre sezioni nel decennio successi-
vo e, nel 1945, i Pisan Cantos appunto. Le
pubblicazioni dei Cantos successivi pro-
seguiranno fino al 1968 quando, a quat-
tro anni dalla morte, pubblicherà Drafts
& Fragments of Cantos CX-CXVII.
È con i Pisan Cantos e con la loro tra-
duzione italiana che Pound diventa un
personaggio mitico e un polo di attra-
zione per la critica, come ben osserva
Montale il quale, dopo aver espresso am-
mirazione per la serietà intellettuale
con cui Rizzardi assolve al difficile com-
pito di tradurre e presentare al pubbli-
co italiano l’opera poundiana, così la de-
scrive:
I Canti Pisani sono una sinfonia non diparole, ma di frasi in libertà. Non siamotuttavia nel caos perché queste frasi sonolegate da un “montaggio” che supera digran lunga, per apparente incoerenza,quello di qualche parte dell’Ulysses edell’eliotiana Waste Land. Si tratta però diun montaggio di cui sfugge totalmente ilconnettivo, il nesso conduttore. Imma-ginate che si possa radiografare il pensierodi un condannato a morte dieci minutiprima dell’esecuzione capitale, e suppo-
nete che il condannato sia un uomo del-la statura di Pound: e avrete i Canti Pisani:un poema ch’è una fulminea ricapitola-zione della storia del mondo (di un mon-do), senz’alcun legame o rapporto ditempo e di spazio5.
La prima recensione al volume di Riz-
zardi era stata pubblicata dalla rivista
Aut-Aut nel 1954 e portava la firma di
Edoardo Sanguineti, il quale porta l’at-
tenzione sull’aspetto prettamente stili-
stico dell’opera:
Passaggio obbligato, ormai, della critica in-torno a Pound (e meritatamente, e si vedaancora nella prefazione del Rizzardi a que-sti Canti Pisani, p. XVIII) è quella defini-zione interna dei Cantos che qui conver-rà ancora una volta trascrivere:
And they want to know what we talkedabout?
“de litteris et de armis, praestantibusqueingeniis”Both of ancient times and ourown; books, arms,And of men of unusual genius,Both of ancient times and our own, inshort the usual subjectsOf conversation between intelligent men.(Canto XI)
Poiché in questa è consegnato, alla stes-sa operazione poetica, il modulo piùimmediato e teso della scrittura poun-diana e della sua materia (the usual sub-jects of conversation), e il tono e le coltepresenze e, dentro il tempo, il libero mo-vimento del discorso e la necessità di una
2. Il carteggio tra Vicari e Pound è stato pubblicato re-centemente nel volume: G. Vicari, Il fare aperto. Lettere1939-1971, a cura di A. Vicari e L. Cesari, Archinto, Milano2000.3. Con queste parole non firmate si apre il numero 5-6della rivista Nuova Corrente, gennaio-giugno 1956. Il di-rettore della Rivista era Mario Boselli e i redattori MarioCartasegna, Alfredo Rizzardi, Leonardo Sciascia, Gio-vanni Sechi. 4. «… alla fine della guerra, egli fu arrestato per l’operadi propaganda antialleata da lui svolta, in veste di ZioEz (Uncle Ez) attraverso la radio italiana», in E. Montale,Lo zio Ez, «Nuova Corrente», 5-6 gennaio-giugno 1955,p. 24.5. Ibi, p. 25.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI116
LINGUE, CULTURE E LETTERATURE
autorizzazione e dichiarazione dottri-nale e i libri dunque e una poetica di ri-gorosa intelligenza (ma between intelligentmen, di intellettuale socievolezza). Ma orain questi Canti Pisani, LXXX, integrazioneinsieme e correzione, la poetica dellacritica conversazione di Pound, in misu-ra coerente con il modificarsi dell’orga-nismo narrativo dell’opera, diviene ilsintomo scoperto di una caduta, d unacondanna, di una negazione:
così discesi per l’aere malignoon doit le temps ainsi prendre qu’il vient
or to write dialog because there isno one to converse with
(Canto LXXX)
parole al gentle reader, se desidera sape-re di che si parla adesso. E il libro si com-pone di fatto in questa atmosfera di dic-tafono, di trascrizione franta, registrazionedi dialoghi che sono stati, mero accadi-mento sono stati, e riproposti nel loropeso apparentemente più esterno propriosecondo un gesto meccanico, di inventa-rio e ripetizione e controllo nel necessa-rio silenzio, nell’aere maligno, nella im-possibilità, dico, di un autentico discor-so: because there is no one to converse with.In questo rapporto tra l’antica e la nuo-va dichiarazione è dato tutto lo svolgi-mento, in essenza, della poetica e dellapoesia del maggior Pound6.
Sanguineti coglie la grandezza della no-
vità del linguaggio poundiano soprat-
tutto rapportandola al tono “lagnoso”
dell’ultimo Eliot:
e come non pensare a questo punto a queltratto iniziale del primo dei Canti Pisa-ni, LXXIV, come non ritagliare dal con-testo le parole indirizzate all’autore del-l’Old Possum’s Book of Practical Cats:
yet say this to the Possum a bang, not awhimper,
with a bang not with a whimper,(Canto LXXIV)
per misurare agevolmente tuta la di-stanza che separa lo “schianto” di questepagine poundiane, dalla “lagna” (e sia quidetto con ogni discrezione) dei Quartets?7.
La Casa di Pound è a RapalloIl 30 ottobre di quest’anno sarebbe sta-
to il centoventottesimo compleanno
del poeta Ezra Loomis Pound (nato a
Hailey, Idaho, nel 1885) e ci piace pen-
sare che avrebbe scelto di festeggiarlo in
Italia, magari a Rapallo, dove aveva de-
ciso di vivere da quando vi si era tra-
sferito nel 1924 rimanendovi fino al
1945, anno in cui fu imprigionato a Pisa
e da lì trasferito, per essere processato, a
Washington. Dichiarato infermo di
mente, venne rinchiuso nell’ospedale cri-
minale St. Elizabeth da cui fu rilasciato
solo nel 1958 quando rientrò nella sua
amata Italia che ne festeggiò il settanta-
treesimo compleanno con una mostra
delle sue opere tenutasi a Merano. A Ti-
rolo di Merano di fatti era la residenza
della figlia Mary de Rachewiltz, presso
la quale sarebbe rimasto a vivere fino alla
morte, avvenuta a Venezia il 1 novem-
bre 1972.
Ma fu a Rapallo che il poeta visse i suoi
anni italiani più intensi e partecipati:
Quello di Ezra Pound a Rapallo è un casoabbastanza estremo nella letteraturaesule del Novecento: un poeta e uomo dicultura che lega la propria vita indisso-lubilmente a una cittadina stranierapassandovi un blocco d’oltre vent’annie poi tornandovi frequentemente, sem-pre traendone linfe per la sua opera e fa-cendone un modello pionieristico di pro-getto culturale. Tanto che nella co-scienza letteraria moderna Pound e la suacittadina d’adozione non sono più se-parabili e chi pensa all’uno pensa all’al-tra e viceversa8.
6. E. Sanguineti, I Canti Pisani, «Aut-Aut», luglio 1954.Consultato in Il Verri, n° 34, maggio 2007, pp. 329-330.7. Ibi, p. 330. N.B. Le citazioni dai Cantos sono state qui ri-prodotte in originale mentre Sanguineti le propone intraduzione italiana.8. M. Bacigalupo, Ezra Pound. Un poeta a Rapallo, EdizioniSan Marco dei Giustiniani, Genova 1985, p. 3.
Ezra Pound sul lungomare di Rapallo intorno al 1929, quando stava terminando XXXCantos. Fotografia riprodotta per gentile concessione di Mary de Rachewiltz.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 117
ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE
Questa testimonianza è depositata al-
l’inizio dell’introduzione di un bellissi-
mo libro che ripercorre, attraverso do-
cumenti fotografici, epistolari, testi poe-
tici e articoli di giornale, l’intenso sog-
giorno di Ezra Pound a Rapallo. Il vo-
lume è a cura del rapallese Massimo Ba-
cigalupo, insigne docente di letteratura
inglese presso l’Università di Genova che,
per ragioni al contempo biografiche e ac-
cademiche, ha legato il suo nome a
questo autore tanto che ci sentiamo
autorizzati a parafrasarlo per affermare
che nella coscienza letteraria moderna
Pound e la sua cittadina d’adozione
non sono più separabili dal nome di
Massimo Bacigalupo.
Bacigalupo, infatti, pur essendosi occu-
pato ampiamente e approfonditamen-
te di tantissimi altri autori, non ha mai
cessato di dedicare un’attenzione privi-
legiata a Pound, scrittore che conobbe
personalmente nei suoi anni di stu-
dente liceale e la cui opera ha continuato
ad approfondire nel corso del tempo.
La sua ultima impresa consiste nella re-
cente traduzione di A Draft of XXX
Cantos (Ezra Pound XXX Cantos, Guan-
da Editore, 2012), riproposta mezzo se-
colo dopo quella effettuata da Mary de
Rachewiltz, figlia dell’autore e sua fedele
studiosa9.
Il merito di questa ri-proposta sta, oltre
che nell’impresa titanica, nell’invitare a
rileggere quest’opera nella giusta pro-
spettiva, per poterne apprezzare, insie-
me all’innegabile complessità dei con-
tenuti, la musicalità della lingua:
Ciò non significa che XXX Cantos sia unlibro impenetrabile e che solo chi rintracciechi e allusioni lo possa intendere. I temidi fondo – il viaggio di scoperta, i mo-menti di passione, la lotta contro la de-cadenza per una rinascita ancorché con-fusa, il rapporto tra artista e società, la de-nuncia degli oppressori e monopolisti,l’incanto del paesaggio mediterraneo, lapresenza di una condizione visionaria –sono fin troppo chiari, le note e citazio-ni sono la documentazione fornita dalpoeta in veste di storico, i suoi appuntiscritti e trascritti. Sicuramente egli stes-so non ricordava gran parte dei nessi evo-cati, e noi a volte possiamo trovare la chia-ve prendendo i libri che aveva sotto gli oc-chi. Conta il senso complessivo dell’im-presa, il mondo in cui il poeta ci immerge.I Cantos sono uno spettacolo, da con-templare e da maneggiare come le tantecarte di un mazzo prodigioso ma anchea volte sconsolante10.
Interessanti sono anche le riflessioni di
Bacigalupo espresse in un articolo scrit-
to nel 2011 sulla rivista Nuova Corren-
te ancora esistente, benché abbia cam-
biato editore e sede: Pound e Izzo si scri-
vono a proposito di Nuova Corrente.
Izzo era stato tra coloro che avevano con-
tribuito al numero di Nuova Corrente del
1955 su Pound con l’articolo 24 lettere
e 9 cartoline inedite di Ezra Pound:
ricco di informazioni preziose e spasso-se per la storia della poesia e cultura delNovecento. Molte vertevano sulle tradu-zioni approntate da Izzo negli anni ‘30 econtenevano significative chiose d’auto-re. In seguito Izzo incluse il suo scritto nelsecondo volume di Civiltà americana. Ag-
9. La traduzione fu pubblicata nel 1961 da Lerici-Schei-willer e ripresa nei Meridiani Mondadori. 10. M. Bacigalupo, Ezra Pound XXX Cantos, Guanda, Mi-lano 2012, Introduzione, p. 12.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI118
LINGUE, CULTURE E LETTERATURE
giunse una nota conclusiva in cui citavale prime righe di una missiva giuntagli daPound a proposito dell’articolo e del-l’intero numero 1. Il quale, sia detto perinciso, ebbe fortuna: ricordo che nelle bi-blioteche universitarie statunitensi lotrovavo rilegato sullo scaffale della criti-ca poundiana (che nel 1956 era abba-stanza embrionale). Qualche anno dopo, nel 1973, ItalianQuarterly della University of Californiaa Riverside dedicò un numero al tema“Ezra Pound and Italy”. Izzo vi pubblicòin facsimile tre lettere dattiloscritte di Pound (due del 1956, unadel 1958), fra cui quella riguardanteNuova Corrente, con una nota in cui for-niva alcune glosse. Ma nell’archivio del-la Beinecke Rare Book and Manuscript Li-brary della Yale University sono ancheconservate le risposte di Izzo, che com-
pletano e danno maggiore spessore alla
corrispondenza di cui si conosce solo il
lato poundiano, fornendo fra l’altro un ri-
tratto di quello studioso e intellettuale
acuto e originale che fu Izzo.
In questa occasione mi sembra opportuno
riportare lo scambio relativo a Nuova
Corrente, in cui i due corrispondenti han-
no modo di rivelare la loro spiccata per-
sonalità, alla quale, se non altro per
Pound, la letteratura dello scorso secolo
deve molto. Trascrivo le lettere in ingle-
se, come aveva fatto Izzo su Nuova Cor-
rente 5-6, dando in nota la traduzione.
Anche perché notoriamente lo stile epi-
stolare di Pound ha tutta la verve lingui-
stica dei suoi scritti creativi11.
Siamo poi grati a Massimo Bacigalupo
per averci concesso di riprodurre in
anteprima la copertina del volume da lui
curato e appena ultimato su H.D. (Hil-
da Doolittle): H.D. Fine al tormento. Ri-
cordando Ezra Pound (Archinto editore,
Milano, ottobre 2013).
Si tratta di un memoriale in forma di
diario tenuto dall’importantissima scrit-
trice americana che con Pound, suo
amico del cuore e mentore letterario,
tenne a battesimo a Londra il movi-
mento cosiddetto imagista.
Siamo sicuri che Pound lo avrebbe mol-
to apprezzato come dono per il suo cen-
toventottesimo compleanno e ancora di
più se lo avesse potuto festeggiare a Ra-
pallo.
Il caso ha voluto che quest’anno il com-
pleanno della figlia Mary de Rache-
wiltz, il 9 luglio, sia stato festeggiato a
Dublino, durante il 25° convegno poun-
diano EPIC. Si auspica che il prossimo
appuntamento previsto tra due anni nel-
la sua residenza tirolese la veda per
l’occasione festeggiata per i suoi no-
vant’anni.
Giuliana BendelliUniversità Cattolica, sede di Milano
11. M. Bacigalupo, Pound e Izzo si scrivono a proposito diNuova Corrente, «NC» 148, 2011, pp. 179-80.
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 119
LIBRI a cura di Luigi Tonoli e Lucia Degiovanni
anni fa, è “contemporaneo” di
ciascun uomo e donna di oggi?
A un primo sguardo potrebbe
sembrare una provocazione, si
tratta invece di comprendere in
profondità che cosa sia il cristia-
nesimo e il significato di un Dio
che si è fatto uomo. Dal momen-
to, infatti, in cui il Figlio di Dio è
entrato nella storia, accogliendo
in sé le fragilità, i desideri, il do-
lore di ogni uomo, la sua presen-
za e la sua contemporaneità
sono un fatto che si realizza
nuovamente in ogni espressio-
ne dell’umanità piena. Non si
tratta quindi di un evento isola-
to nel tempo e confinato in
un’epoca storica lontana, ma di
una realtà che si rivela a chiun-
que voglia cercare Dio. È per tale
ragione che in Gesù si conden-
sano il volto di Dio e l’identità
dell’umano, e, scoprendoli, gli
uomini di ogni tempo ritrovano
la loro pienezza.
(Alessandra Mazzini)
F. Piotti
Qohelet. La ricerca del senso
della vita
Morcelliana, Brescia 2012,
pp. 192, € 18.
Franco Piotti, cultore di Filologia
Biblica presso l’Università Catto-
lica di Milano, studioso noto per
i numerosi contributi dedicati al
Qohelet, orienta il suo ultimo
saggio proprio all’approfondi-
mento del noto testo biblico. Il
sottotitolo, La ricerca del senso
della vita, chiarisce il doppio in-
tento dell’autore, esplicitato an-
che nell’Introduzione: trattare il
Qohelet come oggetto di studio,
con metodo rigoroso, attento,
ma anche come fonte di ispira-
L’identità dell’umano
AA.VV.
Gesù nostro contemporaneo
a cura del Comitato per il Pro-
getto Culturale della Conferenza
Episcopale Italiana,
Edizioni Cantagalli, Siena, 2012,
pp. 399, € 18,50.
Il volume raccoglie gli Atti del-
l’omonimo convegno interna-
zionale promosso dal Comitato
per il Progetto Culturale della
CEI nel febbraio 2012. Aperto
dal messaggio di Benedetto XVI,
il libro contiene i contribuiti di
una cinquantina di studiosi, che
assommano competenze nei di-
versi campi del sapere: dalla sto-
ria alla teologia, dall’arte alla fi-
losofia. Agli uomini di oggi vie-
ne riproposto Gesù attraverso
un dibattito appassionato, intel-
lettualmente onesto e aperto a
una pluralità di voci anche mol-
to diverse tra loro: dai cardinali
Bagnasco, Scola, Ravasi e Ruini ai
giornalisti Mieli e Capuozzo; dai
teologi Fisichella, Sequeri e
Coda agli accademici Marion e
Berger. E poi, Alessandro D’Ave-
nia, Roberto Vecchioni, David
Rosen e molti altri. Si tratta di un
confronto condotto con estre-
mo rigore critico, che parte
dall’assunto che il Cristo è sem-
pre “nostro contemporaneo”.
Dopo un primo esame della sto-
ricità di Gesù, gli studiosi hanno
messo in luce la vicinanza del Fi-
glio di Dio alle donne, ai poveri,
ai sofferenti, ai giovani, per capi-
re in che modo Gesù continua a
parlare agli uomini di ogni tem-
po. Ma che cosa significa affer-
mare che Gesù, vissuto duemila
zione continua, personale, esi-
stenziale che giustifica e invita
alla fatica stessa della ricerca.
L’impostazione filologica è pre-
sente nel senso alto del termine,
attenzione alla parola, riflessio-
ne linguistica, ma anche apertu-
ra al campo esegetico-interpre-
tativo con numerosi riferimenti
ampiamente documentati.
Ciascun capitolo prende in esa-
me espressioni dell’Ecclesiaste,
all’interno delle quali lo studioso
si addentra con precisione fa-
cendone emergere, in un quadro
complessivo coerente e in un
contesto culturale ampio, le rela-
zioni con i testi biblici e della tra-
dizione del Vicino Oriente. Sicu-
ramente empirico il metodo di
Qohelet e ciò lo avvicina all’uo-
mo di ogni tempo, immerso nel-
la materia, provvisto di un lin-
guaggio affascinante, ma di pri-
mo acchito ambiguo, non in gra-
do di rappresentare pienamente
la complessità della realtà speri-
mentata. Eppure Qohelet tenta
di comprendere, in base ai dati
esperienziali diretti, osserva
l’opera di Dio e ne coglie le con-
traddizioni e le anomalie; vi è un
ordine in base al quale il Creato-
re ha strutturato la propria opera
e un disordine percepito da Qo-
helet, che non è un saggio tradi-
zionale, in grado di inscrivere le
proprie osservazioni in un dise-
gno più ampio, in un piano su-
periore, in una tradizione che ha
resa propria. «Vanità delle vani-
tà», così gli pare la vita e le fati-
che di ogni giorno, e soprattutto
la morte che tutto annulla e an-
nienta. Ogni regola è sovvertita,
ogni ingiustizia si manifesta, tut-
to appare arbitrario. Il «perverti-
mento della giustizia» è il dato
più sconcertante. Come può rea-
gire l’uomo? Gli è stato fatto da
Dio un grande dono, l’’olam, du-
raturo nel tempo, positivo nella
qualità, posto direttamente nel
suo cuore, ma l’essere umano, li-
mitato, non sa recare frutto da
questa qualità, continuamente
fuorviato dal carattere premi-
nente dell’esperienza diretta cui
risulta più sensibile. L’uomo è
destinato a patire per il disordi-
ne che avverte «sotto il sole». Si
intravede però una soluzione
praticabile suggerita da Qohelet
che ha preso atto della propria
natura. Egli non può compren-
dere totalmente e il dono
dell’’olam finisce per palesare ul-
teriormente la propria anomalia;
possibile è solo «temere Dio», ac-
coglierne la grandezza e accetta-
re di contro la propria fragilità.
Dio stesso vuole questo timore,
come parte dell’ordine dell’uni-
verso e ciò è confermato da altri
libri sapienziali, anche se con
una sottolineatura maggiore del
numinoso. Il rapporto fra Qohe-
let e Dio è «rispettoso, freddo e
guardingo», troppo grande è la
disparità. In questa unica forma
di relazione trovano spazio però
concessioni di rapide, estempo-
ranee, ma autentiche forme di
gioia concesse da Dio alla crea-
tura; l’ultima parte del testo è un
invito a godere le gioie semplici
della vita, il frutto del proprio la-
voro, i piccoli piaceri concessi
dalla volontà, comunque inson-
dabile, di Dio. Riflessione origi-
nale quella di Qohelet, moderna,
di un saggio d’Israele che ricerca
il senso della vita.
(Elisabetta Lazzari)
F. Orilia
Filosofia del tempo.
Il dibattito contemporaneo
Carocci ed., Roma 2012,
pp. 150, € 16.
Si domandava Agostino: «Che
cos’è dunque il tempo? Se nes-
Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI120
LIBRI a cura di Luigi Tonoli e Lucia Degiovanni
questo caso è evidente come i
meriti (essere vicino al senso co-
mune) e i difetti del primo (esse-
re lontano dalla scienza) siano i
meriti e i difetti del secondo
cambiati di segno. Orilia mostra
preferenza per una forma speci-
fica della teoria A, il presentismo,
esponendone i vantaggi, chia-
rendo le difficoltà che devono
essere superate per riuscire a
fornirne una elaborazione con-
vincente tale da aggirare le ac-
cuse classiche (di essere o ovvia-
mente falsa o banalmente vera).
Al servizio della persona
Ufficio Scolastico Regionale
della Basilicata
«Il nodo dei nodi 1997-2013»
Osanna, Venosa (Potenza) 2013,
pp. 255.
Leggere la raccolta di articoli
pedagogici raccolti in sedici
anni di attività dalla rivista Il
Nodo. Scuole in rete, nato dalla
collaborazione del prof. Mario
Ferracuti, ordinario della discipli-
na presso la sede piacentina
della Cattolica, e della dott. An-
gela Granata, psicoterapeuta im-
pegnata presso il Nucleo Auto-
nomia dell’Ufficio scolastico re-
gionale lucano, lascia una piace-
vole sensazione di concretezza
maturata sul campo. È certa-
mente vero che viviamo in
un’epoca di pensiero debole, in
cui sembrano vanificate le cer-
tezze che avevano orientato i
paradigmi educativi della mo-
dernità, ma rimane certo e ine-
ludibile, in queste pagine che
ospitano i più accreditati nomi
suno me lo chiede, lo so; se vo-
glio spiegarlo a chi me lo chiede,
non lo so più». Proprio per riusci-
re a spiegarlo a chi lo chiede, i fi-
losofi di matrice analitica (ma
prima di loro molti altri, basti
pensare a Husserl, Heidegger e
Sartre) si sono di recente impe-
gnati in un appassionante dibat-
tito. Che cos’è il tempo? Dipen-
de dalla nostra mente? Lo pos-
siamo dividere in passato/pre-
sente/futuro? Condiziona il valo-
re di verità delle proposizioni
che contengono enunciati tem-
porali? Francesco Orilia espone il
dibattito degli ultimi anni sul
tema, presentando i due princi-
pali schieramenti al centro del-
l’arena filosofica. Da un lato ci
sono i sostenitori della teoria A
(nelle sue tre varianti: presenti-
smo, per il quale esiste solo ciò
che è presente; passatismo, per il
quale esiste solo ciò che è pre-
sente o passato; eternalismo, se-
condo il quale tutti gli eventi,
passati, presenti o futuri in qual-
che modo esistono) che ripren-
dono il punto di vista del senso
comune secondo il quale il tem-
po è qualcosa di oggettivo e in-
dipendente da noi. Dall’altro lato
ci sono i difensori della teoria B
(che implica l’eternalismo), per i
quali non c’è un momento pre-
sente privilegiato e occorre inve-
ce prestare attenzione (senza
preoccuparsi troppo delle intui-
zioni del senso comune) a quan-
to ci dicono le teorie scientifiche,
in particolare la teoria della rela-
tività. Se per i paladini della teo-
ria A la realtà contiene come
suoi ingredienti proprietà quali
essere presente o essere passa-
to, per i partigiani della teoria B
non c’è alcun fatto temporale
fondamentale, perché tutti si ri-
ducono a mere relazioni di pre-
cedenza e successione tra even-
ti. Come spesso accade nelle di-
spute più accese, non è semplice
scegliere tra l’uno o l’altro schie-
ramento, soprattutto perché in
del settore, l’orizzonte dei giova-
ni che non smettono d’interro-
gare e interrogarsi, cercando
nella scuola e nelle diverse rela-
zioni che essa riesce a stabilire,
qualcosa che li riguardi da vici-
no. Un’istanza che si fonda sul
diritto di non abituarsi alla me-
diocrità, quando non alla violen-
za e allo sfruttamento. Ecco per-
ché diventa un dovere che rivi-
ste di questo valore possano so-
pravvivere e non essere, inopi-
natamente, costrette alla chiu-
sura: deve rimanere alta la voce
che denuncia la sempre troppo
scarsa volontà d’investire sul fu-
turo, che non relega in secondo
piano il dibattito sulla formazio-
ne delle nuove generazioni, ma
chiede di spendersi – e spende-
re il giusto! – per garantire a tut-
ti quei professionisti che sono
quotidianamente al servizio del-
la persona nel suo senso più
alto di veder riconosciuto il loro
impegno a condurre bambini e
ragazzi, dalla scuola dell’infanzia
alla secondaria superiore, sulla
strada dell’autonomia e della re-
sponsabilità. Molto spesso si di-
mentica il legame, posto bene in
evidenza dagli antichi Greci, tra
educazione e nutrimento: en-
trambi essenziali per una vita at-
tenta anche alla mente e al cuo-
re. Non è personalismo a buon
mercato: bastano le pagine de
Il Nodo a rammentarcelo.
(Domenico Rizzoli)
S. Trovato
Corso di italiano per chi non
sente (e per i suoi compagni
udenti)
R. Cortina Editore, Milano 2013,
pp. XXXI-458, € 33.
Questo libro colma un vuoto.
Nulla di specifico infatti vi è in
circolazione per coadiuvare il
percorso scolastico di studenti
sordi stranieri, tale da condurli
all’ottenimento del diploma di
scuola secondaria di primo gra-
do. Proprio questi ultimi ne
sono dunque i primi destinatari,
un’utenza che negli ultimi anni
sta aumentando nel nostro Pae-
se e che pone in essere una se-
rie di problematiche specifiche
che si legano anche al cammino
di integrazione. Sostenere que-
ste persone nella formazione
scolastica significa dunque dare
loro la possibilità di costruirsi un
futuro e ottenere una migliore
partecipazione sociale. Non solo
dunque un volume che si pone
obiettivi scolastici, ma che si
propone come strumento so-
cialmente utile, affinché chi si
trova in una situazione di disa-
gio non rischi di essere relegato
ai margini della comunità. Ma
c’è di più. Le ricerche contenute
in questo libro sono state a tal
punto ampliate da risultare
adatte anche ai ragazzi non
udenti delle scuole secondarie
di primo e secondo grado, agli
adulti non udenti che desidera-
no migliorare le loro competen-
ze, agli studenti che non cono-
scono la lingua dei segni e ai
sordo ciechi. La proposta didat-
tica del testo è progettuale: al
centro vi è lo studente, conside-
rato secondo le proprie esigen-
ze e i propri tempi. Tutto tramite
varie attività ludiche che per-
mettono di arrivare a padroneg-
giare la lettura e la scrittura. I
giochi proposti, infatti, non van-
no necessariamente eseguiti in
ordine, ma possono essere scelti
dallo studente, il quale troverà
all’inizio di ogni attività un sug-
gerimento su un progetto da
realizzare. Sarà poi l’insegnante
a decidere se approfondire sen-
za mai annoiare.
(Alessandra Mazzini)