L’Education sentimentale. Flaubert et l’histoire

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POSTE ITALIANE S.p.A. Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/04 n. 46) art. 1, comma 1 - DCB BRESCIA Editirice La Scuola 25121 Brescia - Expédition en abonnement postal taxe perçue tassa riscossa - ISSN 1828-4582 Rousseau e l’inganno totalitario Problemi e situazioni problema nelle scienze D’Annunzio e la musica L’Education sentimentale. Flaubert et l’histoire E D I T R I C E LA SCUOLA 3 novembre 2013 anno XXXI Nuova Secondaria mensile di ricerca, cultura, orientamenti educativi, problemi didattico-istituzionali per le scuole del secondo ciclo di istruzione e formazione Galileo Galilei scienziato e filosofo

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Rousseau e l’inganno totalitario Problemi e situazioni problema nelle scienze D’Annunzio e la musica L’Education sentimentale. Flaubert et l’histoire

E D I T R I C E

LA SCUOLA

E D I T R I C E

LA SCUOLA

3novembre 2013anno XXXI

Nuova Secondaria mensile di ricerca, cultura, orientamenti educativi, problemi didattico-istituzionaliper le scuole del secondo ciclo di istruzione e formazione

Galileo Galilei scienziato e fi losofo

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EDITORIALE

Giovanni Gobber Crisi della lettura e crisi della ragione 5

NUOVA SECONDARIA RICERCAhttp://nuovasecondaria.lascuolaconvoi.it

NS RICERCA 2Mirca Benetton Il maschile e il femminile nella pedagogia del corso

di vita: spunti di riflessione dall’EmilioAndrea Porcarelli La funzione pedagogica del “Grand tour” come iniziazione

alla vita adulta nell’Emilio di RousseauRossana Adele Rossi Giustizia sociale e dignità umana: il problema

pedagogico della democrazia in Martha C. NussbaumJusticia social y dignidad humana: el problema pedagógicode la democracia en Martha C. Nussbaum

Eliana Versace Paolo VI di fronte alla legge sull’istituzione del divorzioed il referendum abrogativo

Antonio Argentino L’adattamento flessibile come orientamento scolasticoFrancesco Paolo Calvaruso Costituzione ed appartenenza. Un connubio pedagogico

Simonetta Costanzo Per una pedagogia della differenza. Alcune riflessioni

Teodora Pezzano La scuola laboratorio di John Dewey:la “sperimentazione” dell’individuo per la democrazia

NS RICERCA 3Emmanuele Massagli Alternanza e istruzione e formazione professionaleAdriana Lafranconi Per la modificabilità del disturbo della disgrafia

la riscoperta dell’educazione del gesto grafico, valida per tuttiMaria Rita Fedele Figurazioni del femminile nella tradizione culturale del mito

FATTI E OPINIONI

Il fattoGiovanni Cominelli Il riformismo bruciato di/da M.S. Gelmini 7

Il futuro alle spalleCarla Xodo L’obbedienza chiede autorità 8

Vangelo docentePaola Bignardi Far credito al dubbio 9

Asterischi di Kappa Non di sola scuola vive il giovane 10

La lanterna di DiogeneFabio Minazzi La scuola italiana: diamo un po’ di numeri 10

Occhio alla scienzaMatteo Negro Corporeità e metafora 11

Asterischi di Kappa Profezie 12

Didattica del classicoAugusta Celada Modelli grammaticali, tecniche

d’insegnamento e metodo 13

Tempo perduto, tempo ritrovatoFranco Carinci Gli scherzi della storia 15

Nuova Secondaria n. 3

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PROBLEMI PEDAGOGICIE DIDATTICI

Michele Tiraboschi Dottorati industriali e mercato del lavoro: appunti per una ricerca 17

Mario Martinelli Valore dell’integrazionee prevenzione della violenza 19

Piero Viotto Insegnare storia della filosofia secondo Maritain 22

Emanuela M. T. Torre Valutare gli interventi educativi nella scuola 26

STUDI

GALILEO GALILEI SCIENZIATO E FILOSOFO a cura di Fabio Minazzi 30Fabio Minazzi Per una nuova lettura epistemologica del

Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 32

Brigida Bonghi Sul processo a Galileo 37

Paolo Giannitrapani Le due nuove scienze di Galileo 40

Fabio Minazzi Galileo e il valore culturale della tecnica 45

Monica Iori Dialogo, narrazione e verità in Galilei 48

PERCORSI DIDATTICI

Raffaele Mellace D’Annunzio e la musica 51

Rossana Cavaliere Chi ben comincia… (1) 55

Paolo A. Tuci Storiografia ed etnografia 60

Andrea Potestio J.-J. Rousseau e l’inganno totalitario 64

Maria Rita Fedele Filosofia della differenza sessuale 68

Rosa Maria Parrinello Il cibo nelle religioni 71

Giovanni Villani L’ottica della complessità sistemicae il mondo molecolare 74

Giovanni V. Pallottino Introduzione alla sobrietà (1) 83

E. Patergnani - L. Pepe Insegnamenti matematici e istruzione tecnicanel processo di unificazione nazionale (2) 91

E. Roletto - A. Regis - Problemi e situazioni-problemaE. Ghibaudi nell’insegnamento delle scienze 96

LINGUE, CULTURE E LETTERATURE a cura di Giovanni Gobber

Marisa Verna L’Education sentimentale. Flaubert et l’histoire 105

Maria Paola Tanchini Che cosa facciamo quando diciamo crucco? 109

Giuliana Bendelli Buon compleanno a Ezra Pound 114

LIBRI

a cura di Luigi Tonoli e Lucia Degiovanni 119

Lezioni con slide disponibili sul sito di Nuova Secondaria (http://nuovasecondaria.lascuolaconvoi.it).

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Rousseau e l’inganno totalitario Problemi e situazioni problema nelle scienze D’Annunzio e la musica L’Education sentimentale. Flaubert et l’histoire

E D I T R I C E

LA SCUOLA

E D I T R I C E

LA SCUOLA

3novembre 2013anno XXXI

Nuova Secondaria

mensile di ricerca, cultura, orientamenti educativi, problemi didattico-istituzionaliper le scuole del secondo ciclo di istruzione e formazione

Galileo Galilei scienziato e fi losofo

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DIRETTORE

Giuseppe Bertagna Università di Bergamo

COMITATO DIRETTIVO

Cinzia Susanna Bearzot - Università Cattolica, Milano

Edoardo Bressan - Università di Macerata

Alfredo Canavero - Università Statale, Milano

Giorgio Chiosso - Università di Torino

Luciano Corradini - Università Roma Tre

Lodovico Galleni - Università di Pisa

Pietro Gibellini - Università Ca’ Foscari, Venezia

Giovanni Gobber - Università Cattolica, Milano

Angelo Maffeis - Facoltà Teologicadell’Italia Settentrionale, Milano

Mario Marchi - Università Cattolica, Brescia

Luciano Pazzaglia - Università Cattolica, Milano

Giovanni Maria Prosperi - Università Statale, Milano

Pier Cesare Rivoltella - Università Cattolica, Milano

Stefano Zamagni - Università di Bologna

COMITATO DI REDAZIONE

Parte generale e settore umanisticoLuigi Tonoli, Lucia Degiovanni

([email protected])

con la collaborazione diAndrea Potestio, Don Fabio Togni

Settore scientificoMarina Dalè, Pietro Marchese

([email protected])

ImpaginazioneMarco Filippini

Segreteria di RedazioneAnnalisa Ballini ([email protected])

Supporto tecnico area [email protected]

Mensile di ricerca, cultura, orientamenti educativi,problemi didattico-istituzionali per le Scuole del secondo ciclo di istruzione e di formazioneFondatore e direttore emerito: Evandro AgazziAnno XXXI - ISSN 1828-4582

Direzione, Redazione e Amministrazione: EDITRICE LASCUOLA, Via Gramsci, 26, 25121 Brescia - fax 030.2993.299 - Tel.centr. 030.2993.1 - Sito Internet: www.lascuola.it - Direttore re-sponsabile: Giuseppe Bertagna - Autorizzazione del Tribunale diBrescia n. 7 del 25-2-83 - Poste Italiane S.p.A. - Sped. in A.P.-D.L.353/2003 (conv. in L. 27/02/04 n. 46) art. 1, comma 1 - DCB Bre-scia - Editrice La Scuola - 25121 Brescia - Stampa Vincenzo Bona1777 Spa, Torino - Ufficio marketing: Editrice La Scuola, Via Gram-sci 26, - 25121 Brescia - tel. 030 2993.290 - fax 030 2993.299 - e-mail: [email protected] – Ufficio Abbonamenti : tel. 0302993.286 (con operatore dal lunedì al venerdì negli orari 8,30-12,30 e 13,30-17,30; con segreteria telefonica in altri giorni e orari)- fax 030 2993.299 - e-mail: [email protected].

Abbonamento annuo 2013-2014: Italia: € 69,00 - Europa e Ba-cino mediterraneo: € 114,00 - Paesi extraeuropei: € 138,00 - Ilpresente fascicolo € 7,00. Conto corrente postale n.11353257(N.B. riportare nella causale il riferimento Cliente). L’editore si ri-serva di rendere disponibili i fascicoli arretrati della rivista in for-mato PDF. I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasimezzo (compresi i microfilm), sono riservati per tutti i Paesi. Fo-tocopie per uso personale del lettore possono essere effettuatenei limiti del 15% di ciascun fascicolo di periodico dietro paga-mento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per fi-nalità di carattere professionale, economico o commerciale o co-munque per uso diverso da quello personale possono essereeffettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata daAIDRO, corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org.

Per eventuali omissioni delle fonti iconografiche, l’editore si di-chiara a disposizione degli aventi diritto.Sito della rivista http://nuovasecondaria.lascuolaconvoi.it

Gli articoli della Rivista sono sottoposti a referee doppio cieco (double blind). La documentazione rimane agli atti.Per consulenze più specifiche i coordinatori potranno avvalersi anche di professori non inseriti in questo elenco.

Salvatore Silvano NigroIULM

Maria Pia PattoniUniversità Cattolica, Brescia

Massimo PauriFisica teorica, Modelli matematici,

Università di ParmaJerzy Pelc

Semiotica, Università di VarsaviaSilvia Pianta

Geometria, Università Cattolica, BresciaFabio Pierangeli

Letteratura italiana, Università di Roma Tor Vergata

Pierluigi PizzamiglioStoria della scienza, Università Cattolica, Brescia

Simonetta PolenghiStoria della pedagogia, Università Cattolica, Milano

Luisa PrandiStoria greca, Università di Verona

Erasmo RecamiFisica, Università di Bergamo

Enrico ReggianiLetteratura inglese, Università Cattolica, Milano

Filippo RossiPatologia generale, Università di Verona

Giuseppe SermontiGenetica, Università di Perugia

Ledo StefaniniFisica, Università di Mantova

Ferdinando TagliaviniStoria della musica, Università di Friburgo

Guido TartaraTeoria dei sistemi di comunicazione,

Università di MilanoFilippo Tempia

Neurofisiologia, Università di TorinoMarco Claudio Traini

Fisica nucleare e subnucleare, Università di Trento

Piero UgliengoChimica, Università di Torino

Lourdes VelazquezBioetica e Filosofia del Messico,

Universidad Anáhuac, Northe MexicoMarisa Verna

Lingua e letteratura francese,Università Cattolica, Milano

Claudia VillaLetteratura italiana, Università di Bergamo

Giovanni VillaniChimica, CNR, Pisa

Carla XodoPedagogia, Università di Padova

Pierantonio ZanghìFisica, Università di Genova

Floriana FalcinelliDidattica generale e Tecnologie dell'Istruzione,

Università degli Studi di PerugiaVincenzo Fano

Logica e filosofia della scienza, Università di UrbinoRuggero Ferro

Logica matematica, Università di VeronaSaverio Forestiero

Biologia, Università Tor Vergata, RomaArrigo Frisiani

Calcolatori elettronici, Università di GenovaAlessandro Ghisalberti

Filosofia teoretica, Università Cattolica, MilanoValeria Giannantonio

Letteratura italiana, Università di Chieti - PescaraMassimo Giuliani

Pensiero ebraico, Università di TrentoAdriana Gnudi

Matematica generale, Università di BergamoGiuseppe Langella

Letteratura italiana contemporanea,Università Cattolica, Milano

Giulio LanzavecchiaBiologia, Università dell’Insubria

Erwin LaszloTeoria dei sistemi, Università di New York

Giuseppe LeonelliLetteratura italiana, Università Roma Tre

Carlo LottieriFilosofia del diritto, Università di Siena

Gian Enrico ManzoniLatino, Università Cattolica, Brescia

Emilio ManzottiLinguistica italiana, Università di Ginevra

Alfredo MarzocchiMatematica, Università Cattolica, Brescia

Vittorio MathieuFilosofia morale, Università di Torino

Fabio MinazziFilosofia teoretica, Università dell’Insubria

Alessandro MinelliZoologia, Università di Padova

Enrico MinelliEconomia politica, Università di Brescia

Luisa MontecuccoFilosofia, Università di Genova

Moreno MoraniGlottologia, Università di Genova

Gianfranco MorraSociologia della conoscenza, Università di Bologna

Maria Teresa MoscatoPedagogia, Università di Bologna

Alessandro MusestiMatematica, Università Cattolica, Brescia

Seyyed Hossein NasrFilosofia della scienza, Università di Philadelphia

Francesco AbbonaMineralogia, Università di Torino

Giuseppe AconePedagogia, Università di SalernoEmanuela Andreoni Fontecedro

Lingua e letteratura latina, Università di Roma Tre

Dario AntiseriFilosofia della scienza, Collegio S. Carlo, Modena

Gabriele ArchettiStoria Medioevale, Università Cattolica, Milano

Andrea BalboLatino, Università degli studi di Torino

Giorgio Barberi SquarottiLetteratura italiana, Università di Torino

Raffaella BertazzoliLetterature comparate, Università di Verona

Fernando BertoliniIstituzioni di Analisi Superiore,

Università di ParmaGianfranco Bettetini

Teoria e tecniche delle comunicazioni, Università Cattolica, Milano

Maria BocciStoria contemporanea,

Università Cattolica, MilanoCristina Bosisio

Glottodidattica, Università Cattolica, MilanoMarco Buzzoni

Logica e filosofia della scienza, Università di Macerata

Luigi CaimiBiochimica e biologia molecolare,

Università di BresciaLuisa Camaiora

Linguistica inglese, Università Cattolica, MilanoRenato Camodeca

Economia aziendale, Università di BresciaFranco Cardini

Storia medievale, ISU, Università di FirenzeMaria Bianca Cita Sironi

Geologia, Università di MilanoMichele Corsi

Pedagogia, Università di MacerataVincenzo Costa

Filosofia teoretica, Università di CampobassoGiovannella Cresci

Storia romana, Università di VeneziaLuigi D’Alonzo

Pedagogia speciale, Università Cattolica, Milano

Cecilia De CarliStoria dell’arte contemporanea,

Università Cattolica, MilanoBernard D’Espagnat

Fisica, Università di Parigi

CONSIGLIO PER LA VALUTAZIONE SCIENTIFICA DEGLI ARTICOLI

Coordinatori del Consiglio:Luigi Caimi e Carla Xodo

Crisi della lettura e crisi della ragione Giovanni Gobber

EDITORIALE

5Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI

Indagini compiute da organismi internazionali mostrano che, negli anni a cavallo delDuemila, solo un quinto «della popolazione adulta italiana possedeva allora gli strumentiminimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società

contemporanea» (Tullio De Mauro, Analfabeti d’Italia, «Internazionale», n. 734, 6 marzo 2008). Ancora oggi, sembra che circa l’ottanta per cento degli adulti fatichi a comprendere testi scritti

come «il comunicato di uno sciopero, il programma di un partito, il regolamento del condominio,le modifiche contrattuali di una banca» (Fulvio Cammarano, I nuovi analfabeti, «Corriere diBologna», 4 aprile, p. 1). Si tratta peraltro di elaborati intrisi di formule burocratico-amministrative lievemente (!) oscure anche a coloro che rientrino in quel venti per cento di lettoriche abbia superato la prova.

I dati riferiti dal «Corriere» ribadiscono le osservazioni a suo tempo proposte da Tullio DeMauro: «sacche di popolazione a rischio di analfabetismo […] si trovano anche in societàprogredite. Ma non nelle dimensioni italiane […]» (Analfabeti d’Italia, cit.). Nel caso italiano viè un diffuso analfabetismo funzionale (l’incapacità di usare competenze pur sempre acquisite),tale che «parecchi laureati italiani uniscono la laurea a un sostanziale, letterale analfabetismo»(ibidem).

Il triste panorama, così delineato, potrebbe essere un risultato, ampiamente prevedibile, di anniimpiegati a svilire i contenuti delle materie scolastiche, a mortificare gli insegnanti, a giustificarela pigrizia mentale di famiglie e studenti. Secondo Fulvio Cammarano, «oggi l’analfabeta medio èil neo-diplomato tutto social network» (I nuovi analfabeti, cit.). Egli intravede in questo fatto laresa della scuola «sopraffatta dalla civiltà del web» e propone che la scuola esiga – pena labocciatura – che ogni studente impari a «leggere e riassumere per iscritto un testo diproporzionata difficoltà».

A ben vedere, la capacità di scrivere, sia pure semplici riassunti, è caduta ancor più in crisi dellacapacità di leggere e comprendere. Occorre poi intendersi sulla portata della lettura e delriassunto. Altro è comprendere il contenuto di un testo e riportarlo in sintesi. Altro è cogliere ilpunto di vista dell’autore senza assumerlo acriticamente. Se alla scuola (e all’università) si puòrimproverare qualcosa è proprio la rinuncia ad addestrare gli allievi a un atteggiamento critico.La redazione dei cosiddetti “saggi brevi” si risolve, per lo più, in accurate ricopiature di materialiscovati “su wikipedia”. Non si tratta però di identificazione nell’autore delle fonti: lo studente chericopia non è un novello Pierre Menard, «autor del Quijote»; è piuttosto un replicanteinconsapevole. Manca infatti il distacco critico dalle fonti. Eppure, questo atteggiamento, palestraper la ragione, è il procedimento fondamentale per la costruzione di un saggio, breve o lungo che

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI6

EDITORIALE

sia. Così disarmati, gli studenti non comprendono la storicità del mondo: sfugge loro la relativitàdei dati empirici e il bisogno di verificare costantemente i punti di vista sviluppati nell’esperienza.Sono cioè esposti alla manipolazione. Prima dell’educazione alla cittadinanza viene l’educazionealla capacità di giudicare. Prima di essere cittadini si è persone. E la scuola dovrebbe rispettare lapersona: la natura umana non è una costruzione ideologica, ma una realtà (anche se è di modaaffermare il contrario e si vede la persona come l’esito di una “narrazione”, di un “discorso”).

Nel declino della capacità di leggere vi è forse dell’altro. Oggi la lettura non è più la vianecessaria per apprendere i contenuti che oggi sono considerati utili. Tali informazioni passanoormai per l’immagine o per il filmato. La parola scritta è legata a una forma di comunicazioneche si ritiene datata. Siamo nel terzo millennio, dicono gli agit-prop del “nuovo che avanza”,bisogna adattarsi allo Zeitgeist. Anche la scrittura è vista in modo diverso dal passato: dai segnimateriali – fatti con la biro o altro – si passa ai segni digitali. È una bella comodità, che tuttaviaabolisce l’esperienza psico-fisica della scrittura e, forse, può contribuire a rendere più difficoltoso ilprocesso di lettura.

Si dice che l’uso dei messaggi brevi via telefono cellulare abbia riportato in auge la scritturapresso i giovani. A ben vedere, non è del tutto così: piuttosto, si è diffusa una tecnica basata sullaselezione e copiatura di immagini dei segni grafici. La scrittura diventa un sottosettore dellagrafica digitale.

La lettura esige uno sforzo astrattivo a più livelli – impresa oggi inconcepibile. Chi legge devesostare, concentrarsi, individuare le parole e collegare le parole in frasi, rileggere, riflettere perpassare dalle parole al significato, che non si vede, non si annusa, non si ode, ma si coglienell’esperienza della natura semiotica del testo, là dove una sequenza di segni grafici rimanda adaltro – a un “altro” che, inoltre, non è isomorfo al piano grafico, dato che le parole si manifestanonella successione spazio-temporale, mentre il significato è organizzato su più di una dimensione esi caratterizza per collegamenti imprevedibili tra le sue componenti.

L’impresa della lettura fuoriesce dai criteri di misura del mondo stabiliti dalla civiltà “pop”diffusa nel mondo occidentale. In un articolo uscito sul «Foglio» del 12 aprile, Alessandro Gnocchie Mario Palmaro citano alcune riflessioni di Lucio Spaziante, che meritano di essere qui riprese:«La cultura pop si contraddistingue come una cultura del fare piuttosto che del sapere, dove perlasciare spazio alla spontaneità si preferisce non sapere, dove la pratica conta più della teoria»(Sociosemiotica del pop. Identità, testi e pratiche musicali, Carocci, Roma 2007). La lettura èvissuta come un momento “teorico”, non “pratico” perché non esige attività fisica e in essa non vi èspontaneità, ma riflessione, controllo, ordine, razionalità. Spaziante continua: «Chi ascolta rocksa che in quel mondo è per la prima volta padrone di un territorio. Non ci sono professori, non cisono migliaia di libri da leggere, la cultura e la politica da capire». Del resto, «il pop riesce asfondare, in Italia come altrove, nonostante la barriera linguistica dell’inglese. Il motivo risiedeprobabilmente nel fatto che il senso della parola è l’ultima cosa che si coglie».

Cadute le differenze basate sul giudizio estetico, il pop ha conquistato ogni spazio dell’esperienzaquotidiana. Un documento scritto è “vissuto” come il testo di una canzone. Così, la mente non èpiù abituata a eseguire procedimenti che richiedono forza astrattiva. La civiltà dell’immagine hacambiato la percezione della realtà; le cose si sono ridotte all’immagine della loro manifestazionedi superficie. La crisi della lettura è un aspetto della crisi della ragione.

Giovanni Gobber

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 7

FATTI E OPINIONI

Il fattodi Giovanni Cominelli

Il riformismo bruciatodi/da M.S. Gelmini

Alla fine del primo decennio del secolo si è costretti a constatare

che la stagione delle riforme strutturali del sistema scolasti-

co è finita. Non sappiamo quando incomincerà la prossima.

L’ultimo tentativo è stato quello di Maria Stella Gelmini.

Dopo, e fino ai giorni nostri, si è imposto il quasi-nihil, figura

ontologica non prevista dalla “filosofia prima” di Aristotele. Par-

larne resta necessario, perché là è rimasto il secchio, di là bi-

sognerà risollevarlo, un giorno o l’altro, ben sapendo che il tem-

po perduto per le riforme significa “generazioni perdute” di ra-

gazzi e di insegnanti.

La duplice sfida del 2008, posta dalle condizioni drammatiche

del sistema di istruzione e dalle ristrettezze di bilancio impo-

neva al Ministro dell’Istruzione di incrociare il rigore finanzia-

rio con una strategia dei cambiamenti, delle riforme, dei riordi-

ni. La sfida era fare riforme radicali e perciò risparmiare. Alcu-

ne riforme erano già sul tavolo della politica italiana e/o euro-

pea: abbassare a 18 anni l’uscita dalla scuola media superiore;

essenzializzare il curriculum (il core curriculum), diminuendo il

numero delle materie e perciò riportare alla media europea il

rapporto docente/alunno; consentire alle scuole di trasformarsi

in Fondazioni e di raccogliere soldi dai privati, favorire lo sviluppo

delle scuole paritarie (che producono risparmi per lo Stato)…

Del resto, sul tavolo del governo stava già, fin dai primi gior-

ni della nuova legislatura, una proposta di legge, poi deno-

minata PdL n. 953, prima firmataria l’on. Valentina Aprea. Il te-

sto teneva insieme in modo coerente formazione, reclutamento,

carriera degli insegnanti, nuova governance delle scuole,

Fondazioni. Mancava il discorso sul curriculum e sugli ordi-

namenti, completato nell’ottobre del 2008 dal Piano pro-

grammatico, nel quale il riordino dei percorsi di istruzione, la

riorganizzazione della rete scolastica e il razionale utilizzo del-

le risorse umane completavano il disegno organico delle ri-

forme attese. Perché si è realizzato pochissimo? Ossessiona-

to dal consenso “facile”, pensando alle elezioni prossime e non

al futuro del Paese, il Ministro ha delegato all’Amministrazione

centrale e periferica il compito tutto politico di definire con-

cretamente i risparmi/tagli e “le riforme”. La “ratio” di tale scel-

ta politica è stata quella di non urtare l’Amministrazione e i

sindacati. Così il principio “risparmiare e riformare” ha sotto-

prodotto tagli orizzontali e stop! Il mix di tagli e di minaccia-

te riforme ha aggregato un fronte di resistenza nella scuola,

che andava dai conservatori agli innovatori, i primi offesi dai

tagli e dalle riforme, i secondi dalla timidezza delle medesime.

L’istanza di risparmio ha spinto al “maestro unico” (DL

n. 137/2008) e al “riordino” del ciclo secondario di secondo gra-

do, attraverso una corposa e necessaria riduzione degli indi-

rizzi da 720 e più a meno di 50. Quanto all’Istruzione tecnica,

si è tentato positivamente di ridefinire l’identità del settore tec-

nico e di quello professionale, distinto da quello dei Licei. Di

qui un aumento dell’autonomia al 30%, la costituzione di un

Comitato tecnico dentro il quale saldare i rapporti tra scuo-

la, territorio e produzione, l’aggancio al quadro europeo del-

le qualifiche (European Qualifications Framework).

Ma chi si aspettava una ripresa del programma Moratti in re-

lazione all’architettura del ciclo secondario superiore - già pe-

raltro ridimensionato rispetto a quello originario del 2001 - si

è trovato di fronte la continuità con lo statalismo di Fioroni,

che aveva riportato nello Stato l’istruzione professionale. Si è

ridotto sì, benché modestamente, il numero di ore-appren-

dimento settimanali, senza però modificare il core curriculum.

Il PdL 953 è stato neutralizzato: prima, scorporando il recluta-

mento dei nuovi docenti – affidato ai TFA, a forte caratura ac-

cademica – poi il nuovo stato giuridico. E la governance è fini-

ta sulle secche. Un ventennio di elaborazione riformista bruciato!

Il Ministro ha lanciato nel novembre del 2010, un “Progetto spe-

rimentale per la valutazione delle scuole” (per scuole medie

delle città di Pisa e Siracusa) e un “Progetto sperimentale per

premiare gli insegnanti che si distinguono per un generale ap-

prezzamento professionale all’interno di una scuola” (per in-

segnanti di scuole delle città di Torino e Napoli). Ai Ministri suc-

cessivi qualcosa è rimasto, opportunamente amputato della

cervellotica “premialità”. L’Invalsi è stato “protetto” da quanti

lo accusano di essere il Grande occulto fratello del sistema edu-

cativo italiano. Questo è ciò che resta.

Giovanni Cominelli Esperto di sistemi educativi

SPAZIO SCUOLAa cura di Francesco Magni

http://nuovasecondaria.lascuolaconvoi.it

Il sito di Nuova Secondaria (sezione Panorama) propone a dirigen-ti scolastici e docenti una rubrica con notizie e commenti dalla stam-pa, aggiornamenti sulla legislazione e rassegna giurisprudenziale. Illettore vi può trovare informazioni utili per il quotidiano lavoro nel-la scuola e ha la possibilità di collaborare inviando domande, noti-zie e segnalazioni all’indirizzo email: [email protected].

Il futuro alle spalledi Carla Xodo

L’obbedienza chiede autorità

Da quando l’emergenza educativa occupa stabilmente il di-

battito pubblico, molte questioni pedagogiche si sono, per così

dire, riposizionate o sono state sottoposte ad analisi pro-

spettiche inedite o problematiche. Tra queste, un posto di ri-

lievo merita la riflessione che si è avviata sull’idea di obbedienza:

un tema educativo controverso, attraversato da seri viluppi epi-

stemologici responsabili, forse, di una certa afasia da parte an-

che di studiosi attenti e sensibili alle implicazioni valoriali. Per

dire, l’obbedienza, per molti aspetti, sembra datata, superata

dal “nuovo” che avanza, rappresentato dalla giovanile con-

temporaneità che è così potente da aver prepotentemente con-

dizionato anche le generazioni adulte. Avviene, infatti, che gli

stessi genitori ne prescindano, cioè non pretendano più

l’obbedienza. La spiegazione di questa rinuncia è abbastan-

za ovvia: non sanno o non vogliono proporsi come esempio

di obbedienza dovuta rispetto all’impegno reciproco assun-

to. Ma i genitori hanno un loro alibi: la società tutta è incapace

di autoeducarsi, quindi non può educare. Molti genitori, ma

gli stessi educatori, maestri, insegnanti sono in ritirata, si al-

lontanano sempre più da mete strutturalmente educative,

come la ricerca del vero e del bene. Se questa è la non scelta

di molti adulti come pretendere un impegno alto, disinteressato

nei figli, presi come sono dal moloch del dio consumo, dal-

l’edonismo più sfrenato in una società in piena decadenza?

Possiamo parlare di inattualità dell’obbedienza che ha un pec-

cato d’origine: è priva di autosufficienza fondativa per la sem-

plice ragione che l’obbedienza non è un comportamento ori-

ginario, ma derivato, indotto da quello d’autorità. Il soggetto

diventa obbediente quando si dispone liberamente, volon-

tariamente ad accogliere e godere dell’autorità: sia essa rap-

presentata da direttive, da indicazioni o da prescrizioni. Ac-

cettandole riconosciamo la competenza esterna a noi ad eser-

citare tale ruolo. L’autorità, affidabile in quanto responsabile,

in grado cioè di giustificare le proprie scelte e decisioni, ren-

de l’obbedienza una delle manifestazioni dell’educabilità uma-

na. La natura del rapporto che si stabilisce tra i due termini è

dialettica: entrambi vivono e si giustificano solo in relazione

con l’altro; entrambi cessano non appena uno dei due deca-

de. Se non c’è obbedienza non c’è neppure autorità, se non

c’è autorità non ha senso pretendere obbedienza.

Come ripristinare il circolo virtuoso tra autorità ed obbedienza?

Bisogna partire dall’autorità, ma si possono già immaginare

le critiche: filosofia, psicologia, sociologia e financo la politi-

ca hanno tutte le risorse per portare acqua al mulino del re-

lativismo, del “faccio quel che mi pare”. Per rispondere pro-

pongo di riflettere a partire dalla prassi, da un’azione che nel-

la sua semplicità, più di ogni teoria, sa restituire forza all’esi-

genza umana di imitare il bello ed il buono. Si vede il papa sul-

la scaletta dell’areo che lo condurrà in America latina con in

mano una semplice borsa da viaggio. Quel gesto vale più di

un’enciclica e conferma il potere dell’autenticità nel ristabi-

lire le condizioni dell’autorità e dell’obbedienza.

Come negare che valga la pena di ubbidire all’adulto che ci

prende con la sua autenticità?

Carla XodoUniversità di Padova

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI8

FATTI E OPINIONI

Papa Francesco parte da Fiumicino per Rio de Janeiro (22 luglio 2013).

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 9

FATTI E OPINIONI

Vangelo docentedi Paola Bignardi

Far credito al dubbio

Nella galleria di personaggi che il

Vangelo ci presenta vi è Nicodemo.

L’evangelista Giovanni dice di lui che

era un fariseo, capo dei Giudei. Il

compromettersi con il Maestro.

In un lungo dialogo, Nicodemo

espone tutti i suoi interrogativi, e

Gesù lo ascolta, fa credito ai suoi

dubbi, e lo spinge ad andare oltre.

Nicodemo discute con Gesù con

rispetto e ostinazione, continuando a

opporre alle domande di Gesù

l’apparente sicurezza delle sue

ragioni, soprattutto il suo buon senso,

che contrasta con la singolarità delle

dichiarazioni del Rabbì.

Gesù si trova di fronte ad un

interlocutore difficile, che lo impegna

in una discussione in cui l’altro tira

fuori tutto il suo umano buon senso,

ma anche la sua cultura, la sua

presunzione. Gesù non si spazientisce,

ma lo coinvolge a poco a poco dentro

un giro di pensieri diverso rispetto a

quello su cui Nicodemo era abituato a

stare. Gesù non si tira indietro rispetto

ad una discussione da “maestri

d’Israele” e intreccia un dialogo

intenso nel quale sembra condividere

con il fariseo la stessa ricerca della

verità.

L’esempio del Signore indica il valore

delle domande e del dubbio. È

l’inquietudine di cui parla S. Agostino,

che come un tarlo lavora la coscienza.

E tuttavia l’inquietudine non porta da

nessuna parte se non vi è chi aiuti a

riflettere su di essa; a individuare le

domande che la generano.

Anche la scuola ha molto da imparare

da questo episodio; essa dovrebbe

essere il luogo delle domande,

suscitate con arte, accolte con

interesse, discusse con pazienza.

Non sappiamo come sia andata la

storia di Nicodemo, ma sappiamo che

alla morte del Signore sarà lui ad

offrire il sepolcro per la sua sepoltura.

Paola BignardiPubblicista, già presidente nazionale

dell’Azione Cattolica ItalianaPietro Perugino, Pietà con Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea (1495 circa), Williamstown (Massachusetts), Clark Art Institute.

Vangelo ce lo presenta come un

fariseo un po’ singolare, che non vuole

mettere in difficoltà Gesù e trarlo in

inganno. Nicodemo si sente

interpellato dalle parole, dagli

atteggiamenti e dai gesti di Gesù,

anche se riconoscerne il valore

significherebbe cambiare molte cose

nella sua vita.

Ma ha tante domande dentro di sé,

tanti dubbi, tanta inquietudine. E così

decide di andare a parlare con Gesù:

lo fa di notte, per evitare di

La lanterna di Diogenedi Fabio Minazzi

La scuola italiana: diamo un po’ di numeri

Per riflettere seriamente sulla situazione effettiva della scuola ita-

liana è cosa buona riflettere, con attenzione, per dirla con Ma-

chiavelli, sulla “realtà effettuale”. Se si considera la percentuale del-

la popolazione che ha portato a termine il livello di istruzione

secondario superiore (pari alla percentuale di diplomati), si sco-

pre che nella fascia di età compresa tra i 25 e i 64 anni in Italia

sono il 55%, mentre la media Ocse si attesa sul 75%, conse-

guentemente l’Italia occupa il trentesimo posto (su 40!). Se in-

vece si considera una fascia di età più ristretta, tra i 25 e i 34 anni,

la percentuale italiana sale al 71%, mentre quella Ocse si atte-

sta all’83% (in questo caso l’Italia è al trentesimo posto, su 36!).

Infine se si considera la fascia d’età compresa tra i 55 e i 64 anni

l’Italia registra una modesta percentuale del 38% a fronte del 65%

dell’Ocse (collocandosi, nuovamente, al trentesimo posto su 36!).

Se poi si considera la percentuale della popolazione con un

livello di istruzione terziaria (pari alla percentuale di laurea-

ti) si vede come nella fascia d’età compresa tra i 25 e i 64 anni

l’Italia registri una percentuale del 15%, mentre la percentuale

Ocse è del 31% (su quaranta paesi l’Italia occupa il posto n. 35!).

Nella fascia d’età compresa tra i 25 e i 34 anni l’Italia registra

una percentuale del 21%, mentre quella dell’Ocse si attesta

sul 38% (su 37 paesi l’Italia occupa la posizione n. 34!). Infine,

se si considera la fascia d’età compresa tra i 55 e i 64 anni, la

percentuale italiana scende all’11%, mentre quella Ocse si at-

testa al 23% (su 37 paesi l’Italia occupa la posizione n. 33!).

Last bust not least se si integrano questi dati, già di per sé em-

blematici e preoccupanti, con gli investimenti finanziari nel-

l’istruzione, considerando la spesa annua per studente, si sco-

pre che l’Italia per la scuola pre-primaria investe 6.058 euro,

mentre la media Ocse è di 5.084 (quindi siamo noni su 34 pae-

si), per la primaria l’investimento italiano è di 6.608, contro i

5.883 della media Ocse (quindi siamo al decimo posto, su 35

paesi). Quindi in queste due prime fasce non andiamo proprio

male, mentre un crollo si registra sui livelli successivi. Per la se-

condaria l’Italia investe 6.945, mentre la media Ocse è di 7.098

(siamo al 18 posto su 37 paesi) e per la terziaria investiamo solo

7.288, mentre la media Ocse è nettamente superiore, atte-

standosi a 10.464 (in questo livello siamo così il paese n. 24 su

37). Questi dati sono inequivocabili: investiamo poco e male.

Ma come è ben noto, chi semina male, raccoglierà ben

poco… Per questo chi insegna nella scuola ha nuovamente

il dovere di ricordare questi dati all’intera società civile.

Fabio MinazziUniversità dell’Insubria

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI10

FATTI E OPINIONI

Non di sola scuola vive il giovane

Francia. Un’inchiesta (“Le Monde”, 27 giugno 2013) rivela che agliesami del collège, quest’anno, ben il 51,8% degli studenti ha saputorispondere a meno della metà delle domande di storia e geografia.Claude Lelièvre, storico dell’educazione, spiega che anche nel 1920un allievo su due agli esami dell’école primaire (che si faceva atredici anni) non riusciva a rispondere puntualmente alle domandenelle stesse materie. Com’è possibile che i loro coetanei di oggi, nonostante tutti gliinvestimenti fatti in istruzione e la retorica sulla società dellaconoscenza e delle Ntc, non se la cavino meglio? La verità è una esemplice: forse abbiamo investito in maniera troppo monopolisticasulla scuola come fattore di istruzione, trascurando le mille altreoccasioni non formali e informali che consentirebbero ai refrattaridello studio scolastico di non rimanere indietro nel percorso chetrasforma le conoscenze in competenze.

Asterischi di Kappa Pietro Longhi, Lezione di geografia (1752), Venezia, Galleria Querini-Stampalia.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 11

FATTI E OPINIONI

Occhio alla scienzadi Matteo Negro

Corporeità e metafora

L’idea oggi molto diffusa che l’espansione della tecnologia ab-

bia allargato a dismisura le possibilità di conoscere e di ma-

nipolare i corpi umani è certamente vera: grazie alle nuove tec-

nologie, come ad esempio le tecniche di diagnostica per im-

magini, è possibile osservare fin nei più minuti dettagli ogni

nostro organo o apparato e verificarne la funzionalità. Inoltre,

grazie a nuove applicazioni, la manipolazione e la trasforma-

zione del corpo per fini estetici, terapeutici o funzionali sono

soggette a sempre minori limitazioni. Tutto ciò sembra dun-

que confermare il fatto che, attraverso le smisurate opportu-

nità offerte dagli strumenti più avanzati, la “mente”, intesa come

soggettività psichica, prende finalmente il sopravvento sul cor-

po, plasmandolo e modificandolo “a suo piacimento”, cioè as-

segnandovi di volta in volta finalità o funzionalità aggiunti-

ve o parzialmente sostitutive. Pensiamo alle protesi ortope-

diche, oppure all’impianto di quei dispositivi che migliorano

le funzioni cardiovascolari, o, come nel caso dei cyborg, ad un’in-

tegrazione vera propria fra ingegneria e biologia. Molti cercano

inoltre di migliorare il proprio aspetto, ispirandosi a canoni este-

tici spesso amplificati dai mezzi di comunicazione di massa.

Alcune volte ciò che si ricerca è il “potenziamento” di alcune

specifiche capacità fisiche, altre volte è il “mantenimento” di

un equilibrio o di uno stato. Accade poi sempre più di frequente

che ci si sottoponga a interventi finalizzati al cambiamento di

sesso. Molte trasformazioni sono generalmente ritenute ne-

cessarie da chi le pratica a vario titolo, non solo ai fini della sa-

lute fisica, cioè della propria conservazione, ma anche del-

l’equilibrio psichico o interiore, cioè della realizzazione iden-

titaria.

Tuttavia, già ben prima della rivoluzione tecnologica e della

sua spinta propulsiva, addirittura ancora all’interno di un con-

testo dominato da una visione metafisica di stampo sostan-

zialista, aveva fatto breccia in modo embrionale questa nuo-

va percezione del rapporto fra interiorità e corporeità. Con Car-

tesio si inaugurò infatti una prima germinale modellizzazio-

ne della mente come ambito esclusivo dell’identità personale

e del corpo come campo di forze e di spinte causali non iden-

titarie. Insieme al progetto baconiano questo modello si pre-

sentava come il primo vero antecedente filosofico del disegno

della trasformabilità del corpo umano. Il teatro cartesiano del-

la mente utilizza ruoli, grammatiche e ontologie di senso co-

mune per rappresentare sé stesso e, nel medesimo tempo, pro-

ietta sul corpo-materia, mediante l’uso irrinunciabile della me-

tafora, un ordine simbolico che al corpo non appartiene e che

va a sostituire l’ordo naturae. Più recentemente, David Le Bre-

ton ha fatto suggestivamente riferimento al “corpo-partner”,

strumento del soggetto manipolatore. L’idea di un corpo reso

estraneo al regno dei fini da un lato prelude al postulato del-

la libertà noumenica, svincolata da pretesi fini dati in natura,

e dall’altro suggella definitivamente l’assoggettamento del cor-

poreo al determinismo. Per Le Breton «il corpo cessa di iden-

tificarsi completamente nel significato della presenza uma-

na. Il corpo è posto in assenza di gravità, dissociato dall’uo-

mo, come realtà umana. Cessa di essere il segno irriducibile

dell’immanenza nell’uomo e dell’ubiquità del cosmo»1. Il

cerchio si chiude pertanto con Hume e, paradossalmente, con

la negazione dell’identità. Qualsiasi corpo può essere infatti

1. D. Le Breton, Antropologia del corpo e modernità, Giuffré, Milano 2007, p. 50.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI12

FATTI E OPINIONI

gorizzarle, raggrupparle e quantificarle, e in questo modo pos-

siamo riflettere su di esse»2.

Le metafore non soltanto riproducono o trasferiscono delle

esperienze, ma creano anche delle immagini e degli aspetti

nuovi. Senza dimenticare che esse, però, non spiegano: servono

ad illustrare una cosa nei termini di un’altra. Espressioni ri-

correnti come “io ho un corpo”, “io sono un corpo”, “io vivo il

mio corpo” in qualche modo riflettono precise categorizzazioni

e classificazioni di tipo ontologico, certamente non sovrap-

ponibili, ma rimangono pur sempre delle figure che colgono

uno o più aspetti di un piano semantico, trasferendoli su un

altro piano.

Una delle metafore di maggior successo è appunto quella del-

la soggettività come coscienza incarnata. L’operazione car-

tesiana di dissociazione ontologica di pensiero ed estensio-

ne ha in sé una forte carica metaforica; per di più, l’allontanare,

per così dire, il pensare dalla corporeità degli uomini inevi-

tabilmente incoraggia a produrre sempre nuove immagini e

figure della loro ricomposizione. La mente “cerca” l’unione con

il corpo ma, non reperendola nella physis, la istituisce meta-

foricamente attraverso la figura dell’incarnazione o dell’in-

corporazione. Il corpo-macchina (metafora cartesiana della non-

identità) viene pertanto raggiunto e influenzato (e modificato)

dalla sfera rappresentazionale e simbolica del soggetto in-

tenzionale e, nello stesso tempo, il soggetto mentale e in-

tenzionale descrive sé stesso per il tramite del corporeo-mec-

canico (motricità, percezione) e delle sue metafore, dando vita

a quello che Marc Richir ha felicemente battezzato come il “cor-

po del pensiero”.

Di certo l’equilibrio fra i due aspetti è instabile: è quasi irresi-

stibile la forza d’attrazione dei due opposti poli, simboleggiati

dalle figure dell’avatar e dell’automa, ossia dell’identità che

s’incarna e del corpo senza identità. E se questa instabilità oggi

forse rende difficile non solo il riconoscere il valore e il signi-

ficato dell’essere uomini, ma la possibilità stessa di condivi-

dere con gli altri in modo univoco e comprensibile tale ap-

propriazione di senso, allora una buona strada da iniziare a per-

correre non è escluso che sia proprio quella che Aristotele stes-

so con la sua ontologia aveva imboccato e che tante sorpre-

se positive potrebbe riservare anche a noi.

Matteo NegroUniversità di Catania

ricostruito o potenziato a piacimento, ma tale ricostruzione

veicola l’identità di un soggetto “assente”, perché continua-

mente altrove; il soggetto (mentale) domina e trasforma il cor-

po, ma per abitarvi solo temporaneamente, se non addirittura

riducendolo all’oblio, intento com’è a ricercare nuove identi-

tà e forme espressive.

Ma qual è il ruolo della metafora in questa dinamica di as-

soggettamento del corpo? Nel momento in cui storicamen-

te viene abbandonato il modello aristotelico, si apre l’immenso

problema di come categorizzare il mentale e il corporeo. In

Aristotele né la materia né la forma sono due «oggetti» esi-

stenti: ciò che esiste è il plesso di materia e forma, di identi-

tà ed esistenza. Materia e forma sono relazioni causali, co-

stitutive dell’oggetto. Con Cartesio esse divengono due so-

stanze, e quindi assumono un ruolo ontologico nuovo: la ma-

teria diventa “qualcosa” in totale opposizione alla mente im-

materiale anch’essa autonoma e sussistente. Di conseguen-

za, alcune funzioni o attività che prima venivano attribuite

a oggetti o sostanze specifiche, diventano funzioni o attivi-

tà di altre. Facciamo un esempio. Per Aristotele il pensare è

un’attività (prassi) degli uomini, mentre per Cartesio è ascri-

vibile alla mente: se prima il pensiero era attribuito alla so-

stanza-uomo, adesso è attribuito alla sostanza-mente. In que-

sta prospettiva l’asserto “l’uomo pensa” è in fondo metafo-

rico, dal momento che in realtà è la mente a pensare. Non pos-

siamo tuttavia fare a meno di usare delle metafore per fissare

in modo comprensibile alcuni aspetti empiricamente rilevanti.

Come hanno giustamente osservato Lakoff e Johnson, com-

prendere «le nostre esperienze in termini di oggetti e sostanze

ci permette di selezionare parti della nostra esperienza e di

considerarle come entità discrete, o sostanze di tipo unifor-

me. Una volta che abbiamo identificato le nostre esperien-

ze come entità o sostanze, possiamo riferirci ad esse, cate-

2. G. Lakoff - M. Johnson, Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano 1998, p. 45.

Profezie

«La condizione della nostra patria è ormai questa: che ognilibertà si è spenta, eccetto quella del furto dei politicanti, e chetutto si pone in opera per spegnere nella coscienza popolareogni sentimento retto ed onesto». Indovinello: quando è stataformulata questa diagnosi? Oggi? Risposta: nel 1894, dalgrande sociologo Vilfredo Pareto.

Asterischi di Kappa

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 13

FATTI E OPINIONI

Didattica del classicodi Augusta Celada

Modelli grammaticali, tecniche d’insegnamento e metodo

Le Indicazioni Nazionali che costituiscono l’Allegato C del DPR

15 marzo 2010 n. 89, diversamente dai programmi ministeriali

precedentemente in vigore, non si limitano a suggerire con-

tenuti disciplinari, quali autori e opere sul versante letterario

ed argomenti fono-morfo-sintattici su quello linguistico, ma

si addentrano nel dibattuto campo metodologico suggerendo

un modello grammaticale e un approccio al metodo del “la-

tino naturale”, quest’ultimo quale «interessante alternativa» allo

studio tradizionale della grammatica normativa.

Se ne legga il passaggio: «L’acquisizione delle strutture mor-

fosintattiche avverrà partendo dal verbo (verbo-dipendenza),

in conformità con le tecniche didattiche più aggiornate (un’in-

teressante alternativa allo studio tradizionale della gramma-

tica normativa è offerta dal cosiddetto “latino naturale” - me-

todo natura, che consente un apprendimento sintetico della

lingua, a partire proprio dai testi). Ciò consentirà di evitare l’astrat-

tezza grammaticale, fatta di regole da apprendere mnemoni-

camente e di immancabili eccezioni, privilegiando gli elementi

linguistici chiave per la comprensione dei testi e offrendo nel

contempo agli studenti un metodo rigoroso e solido per l’ac-

quisizione delle competenze traduttive…».

Il fatto in sé costituisce una novità.

Si potrebbe discutere sull’opportunità di indicazioni tali da in-

vadere la sfera della responsabilità di scelta dei docenti, liberi

di muoversi tra diversi modelli grammaticali e differenti ap-

procci allo studio delle lingue classiche, i quali operando, come

è loro prerogativa, la propria scelta metodologica, si assumono,

al tempo stesso, la responsabilità dell’efficacia della strategia

didattica.

Accogliamo tuttavia la “suggestione” ministeriale, conside-

randone il miglior fine: preservare lo studio delle lingue clas-

siche dal marcato insuccesso scolastico, quale risulta dai

dati percentuali delle non promozioni e delle sospensioni del

giudizio per debito formativo, in latino e in greco nel liceo clas-

sico, e in latino negli altri licei, nonché dalla crescente “av-

versione” per queste discipline ampiamente riscontrabile nel-

la fuga verso le opzioni “senza latino”: scienze applicate ed eco-

nomico-sociale, rispettivamente del liceo scientifico e del li-

ceo delle scienze umane.

Il “buon fine” ravvisabile nel testo delle Indicazioni è esplici-

tamente rappresentato dall’intento di preservare l’insegna-

mento delle lingue classiche dall’insuccesso scolastico, cioè

dalla drastica diminuzione degli studenti ed ha come corol-

lario il tenerli al riparo dalla sfiducia nelle proprie capacità, dal-

l’ansia nell’incontro con le lingue antiche e dalla esposizione

alla massima e più alta sfida rappresentata dalla traduzione.

Ma implicitamente, con il riferimento alla necessità di evita-

re l’astrattezza grammaticale, il testo ministeriale sottende la

finalità di scuotere gli insegnanti da una sorta di passività e

di inerzia nella ricerca metodologica e dalla resistenza a ogni

forma di rinnovamento della didattica. L’intento appare quel-

lo di sottrarre i docenti al pericolo della stanchezza e della de-

motivazione metodologica, auspicando la messa in campo di

una riflessione critica sull’approccio e sull’uso di tecniche e me-

todi per l’insegnamento delle lingue classiche.

Recenti studi hanno messo in luce le aporie dell’insegnamento

delle lingue antiche, soprattutto messo a confronto con gli ap-

procci più strutturati e rigorosi di cui gode l’insegnamento del-

le lingue moderne che, tuttavia, hanno alla base la finalità co-

municativa che non può riproporsi, tout court, nelle lingue an-

tiche.

Non v’è dubbio che occorra una riflessione critica sistemati-

ca sulle teorie che presiedono all’insegnamento delle lingue

classiche e sul ruolo della traduzione all’interno di esse, eser-

cizio che molti docenti concordano di dover e voler rivedere,

ma che tutti affermano di salvaguardare nel primario interesse

degli studenti e del buon esito delle loro prestazioni agli esa-

mi di Stato, che i dati, invece, ci dicono essere generalmente

assai scadenti nonostante tale virtuosa preoccupazione.

Vorrei proporre tuttavia una distinzione concettuale tra mo-

dello grammaticale, tecnica di insegnamento e metodo, ter-

mini che nelle Indicazioni sembrano susseguirsi per variatio,

ma che non hanno e non possono avere valenza sinonimica.

Preliminare è il problema del modello grammaticale di cui mi

accingo a dire in questo contributo.

Esso presuppone la concezione formale della lingua che ha sop-

piantato la concezione sostanzialistica o ontologica fondata sul-

l’identità tra nomi e realia risalente alla filosofia greca e fatta

propria dalle scuole grammaticali antiche che si appropriaro-

no di categorie extralinguistiche per la descrizione di fenomeni

della lingua, adottando categorizzazioni razionalistiche che si

mantennero indiscusse da Aristotele a Port Royal.

Se questa è la tradizione dell’insegnamento delle lingue clas-

siche, e in particolare del latino, fino al XVII secolo, non biso-

gna tuttavia trascurarne la finalità che era soprattutto la pro-

duzione in latino, o comunque la produzione retorica, che ri-

conosceva nel latino una forma di pan-grammatica o gram-

matica generale, normativa proprio in quanto finalizzata a det-

tare regole utili da applicarsi nella produzione retorica.

La nascita di modelli teorici di riferimento per l’insegnamen-

to delle lingue, specificatamente di quelle classiche, è conse-

guente alla nascita della linguistica generale e alla diffusione

degli studi scientifici di glottodidattica in Europa negli anni

’30 del XX secolo, seguiti in Italia alla pubblicazione della tra-

duzione italiana del Cours de linguistique générale di Fernand

De Saussure a cura di Tullio De Mauro nel 1967.

Tra i modelli di derivazione strutturalista, le Indicazioni sug-

geriscono il modello della verbo-dipendenza che è il model-

lo valenziale teorizzato da Tesniére, antesignano della moderna

linguistica e studioso degli aspetti teorici che le problemati-

che didattiche implicano.

Il modello teorico della grammatica delle dipendenze di Lu-

cien Tesniére, pensato alla fine degli anni ’50 per il francese,

attraverso le applicazioni didattiche degli studiosi tedeschi –

tra i primi Happ – che l’hanno proposta per l’insegnamento

del latino, si basa sulla considerazione del verbo come “ato-

mo uncinato” che richiede un certo numero di attanti, o, con

metafora chimica, un certo numero di valenze cui si aggiun-

gono come complementi altri elementi che non partecipano

al processo designato dal verbo ma che, esprimendone le cir-

costanze, sono definiti circostanti.

Il modello è di una certa complessità e non si esaurisce cer-

to nel partire dal verbo come si limitano a suggerire le Indicazioni

ministeriali.

I pregi didattici del modello valenziale iniziano con la sua ca-

ratteristica di modello strutturale aperto alla semantica che

consente una memorizzazione del lessico in prospettiva

funzionale e non meramente elencativa.

Il modello grammaticale valenziale non esclude la possibili-

tà di utilizzare, per gli aspetti morfologici, sia il modello de-

scrittivo attento all’evoluzione storica della lingua, partico-

larmente usato per l’insegnamento della grammatica greca,

sia quello normativo, tradizionalmente usato per l’insegna-

mento del latino e volto all’apprendimento di sintagmi per la

traduzione in latino.

Si presta inoltre alla possibilità di comprimere le fasi di ap-

prendimento rispetto ai modelli descrittivo e normativo che

richiedono estesi tempi di ripetizione e memorizzazione, ed

è perciò utile nella pratica della didattica breve, per la riduzione

del monte ore disciplinare e per interventi di recupero.

È idoneo a correggere le forme di traduzione che precedono

e prescindono la comprensione, permettendo di ricostituire

il circolo ermeneutico, così come Gadamer lo definisce, favo-

rendo negli studenti l’acquisizione di consapevolezza del pro-

cesso interpretativo che muove da presupposizioni non ar-

bitrarie per approdare a un progetto che deve essere conti-

nuamente rivisto alla luce degli errori che emergono dall’ul-

teriore penetrazione del testo.

La novità fondamentale introdotta dal modello di Tesniére con-

siste nel fatto che esso prescinde dalla coppia oppositiva co-

stituita dal soggetto e dal predicato ed individua, come nu-

cleo fondamentale della relazione sintagmatica, il comples-

so del verbo e dei suoi attanti e circostanti che della frase co-

stituiscono il cuore anche sotto il profilo semantico.

Naturalmente, nel modello della verbo-dipendenza si me-

scolano elementi di novità e altri di persistenza delle categorie

grammaticali tradizionali.

Così come il termine “circostanti” ricorda i complementi cir-

costanziali del modello non funzionalistico, così il concetto di

“valenza” non è molto lontano dall’idea della “reggenza” nel-

la sintassi latina dei casi; ugualmente in inglese i phrasal verbs

rispondono a patterns verbali, che corrispondono, tenuto con-

to della diversa caratteristica, rispettivamente sintetica ed ana-

litica delle due lingue, a schemi attanziali del verbo.

Ma assolutamente nuova è la centralità semantico-sintattica

del verbo nella sequenza frasale.

L’idea centrale del modello grammaticale di Tesnière è che il

verbo costituisce lo snodo relazionale di tutti gli altri elementi

della frase, sia sotto il profilo della struttura sintattica, che rap-

presenta la componente strutturalista del modello, sia sotto

il profilo semantico che ne è la componente ermeneutica.

Proficuo dunque «partire dal verbo», ma non senza aver ope-

rato una scelta consapevole del modello teorico di riferimento

per l’insegnamento delle lingue classiche.

Augusta CeladaDirigente Scolastico

Educandato Statale “Agli Angeli”, Verona

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI14

FATTI E OPINIONI

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 15

FATTI E OPINIONI

Tempo perduto, tempo ritrovatodi Franco Carinci

Gli scherzi della storia

Chi da Subiaco imbocca la strada per Frosinone si troverà, dopo

breve tratto, di fronte ad un bivio, con a destra una strada che

si inanella verso una gola scavata dall’Aniene. Ad una curva gli

si aprirà sulla sinistra la vista di quel che resta della villa fatta co-

struire da Nerone, le solite rovine che, di per sé, sono ben lun-

gi dal far immaginare quella che doveva essere una splendida

dimora imperiale. Oltrepassata una corta galleria, ecco apparirgli

sulla destra il Monastero di Santa Scolastica, un ampio complesso

di edifici disteso su uno stretto pianoro, con la sua grande chie-

sa su cui svetta un bel campanile romanico; e, dopo una serie

di tornanti, tenendosi a lato della forra sempre più stretta e pro-

fonda sul cui fondo rumoreggia l’Aniene, arriverà ad un picco-

lo piazzale sovrastato da un portale da cui si dipana una via a

gradini, tra due file di lecci secolari considerati sacri.

Superato un alto muro, per una piccola scala si sbuca in uno slar-

go erboso prospiciente l’ingresso del Monastero di San Bene-

detto, situato a ridosso di una parete a picco sul punto più stret-

to della gola, sì da fargli quasi da bastione coi suoi nove archi,

parte a pieno centro e parte a sesto acuto, dominati da una tor-

retta. Dentro, scavato e saldato alla viva roccia, è un complesso

estremamente suggestivo costituito da due piccole chiese so-

vrapposte con, a far loro da corona, cappelle e grotte unite da

gradinate aperte, coi muri coperti da dipinti dai ricchi colori.

Che cosa di comune ci può mai essere fra Nerone e San Be-

nedetto da Norcia? Certo, Nerone, che tenne il potere dal 54

al 68 d.C. ebbe la sfortuna di avere come storico Tacito, ma ci

mise parecchio del suo, per venir ricordato come un impera-

tore dispotico e crudele, perso dietro il folle sogno di essere un

grande poeta e cantore, tanto che, quando, abbandonato da

tutti, si uccise con l’aiuto del suo liberto Epafrodito, esclamò più

volte «qualis artifex pereo!». Ma qui merita di essere citato per

la scena rimasta consegnata alla memoria popolare di lui che

dall’alto di una torre canta sulla cetra la distruzione di Troia coi

versi dell’Iliade, mentre tutta Roma arde per quell’incendio di

cui incolperà i cristiani, dando vita alla prima grande perse-

cuzione, consumata all’ombra di quella sua statua colossale,

destinata a dare il nome di Colosseo all’Anfiteatro Flavio.

E per sfuggire ai calori della città eterna, anticipò Adriano, uti-

lizzando anch’egli il generoso Aniene, ma assai più a monte

di Tivoli: ne fece sbarrare il corso, così da ottenere tre laghi da

cui il nome stesso di Subiaco (Sublaqueum), sulle cui rive co-

struire la sua sontuosa dimora estiva.

Dovevano passare più di quattro secoli, perché un giovane pa-

trizio di Norcia di soli diciassette anni, schivato dall’ambien-

te romano in cui era stato cresciuto, risalisse il corso dell’Aniene,

passando attraverso la villa di Nerone, certo assai meglio con-

servata di ora, per andarsi a rintanare in una grotta a mezza

costa della parete rocciosa, destinata ad essere conosciuta come

Sacro Speco. Lui ebbe la fortuna di avere come unico biografo

San Gregorio Magno, ma fu merito suo capire, dopo tre anni

di eremitaggio, che il suo compito era di scendere nel mon-

do, cominciando a fondare il suo primo cenobio, precursore

di quello di Montecassino, proprio là dove l’imperatore romano

aveva creduto di trovare la pace della frescura.

Di lì il cammino del fondatore del monachesimo occidenta-

le colla regola principe di Ora et labora, incisa sulla facciata del

Monastero di Santa Scolastica, sua sorella, non si sarebbe più

arrestato. Nella dissoluzione dell’impero romano, le Abbazie

benedettine svolsero una funzione fondamentale nella con-

servazione e nella fusione della cultura classica con la spiritualità

cristiana, contribuendo in maniera determinante a creare una

identità europea comune a prescindere dalla professione di

fede, tanto che S. Benedetto verrà proclamato nel 1958 Padre

dell’Europa e patrono dell’Occidente.

Quanti scherzi della storia simili sono disseminati nei cento e

mille luoghi di questa nostra terra coperta quasi appesanti-

ta e attardata dalla sua stessa storia plurimillenaria, che a vol-

te sembra essersi lasciata dietro più pietre morte che memorie

vivificanti.

Franco CarinciUniversità di Bologna

Monastero di San Benedetto o Sacro Speco, Subiaco.

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Più, prima e più rapidamente non sono sinonimi

di meglio��%JƙHEVWM�EPPE�PIRXI^^E�GSQI�EPXIVREXMZE�

all’accelerazione che condiziona la nostra vita, nel

modo di mangiare, di spostarci da un luogo all’al-

tro, di interagire con gli altri. Questa affermazione

può essere applicata alla scuola e all’educazione,

con l’intenzione di dare un senso alla diversità

dei ritmi di apprendimento: educare alla lentez-

^E�WMKRMƙGE�EHEXXEVI�PE�ZIPSGMX£�EP�QSQIRXS�I�EPPE�

persona.

Il presidio più sicuro di una “società aperta” è co-

stituito da “menti aperte”. In quest’ottica si fanno

quindi sempre più urgenti pratiche didattiche

GSRƙKYVEXI� GSQI� WXVYQIRXM� IJƙGEGM� TIV� PE� JSV-

mazione di coscienze critiche.

Schierarsi dalla parte dell’impegno formativo e

del ruolo sociale degli insegnanti vuole essere un

segno tangibile di speranza nel futuro, soprattut-

to in anni in cui la scuola ha subito e continua a

subire profonde ferite.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 17

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

Dottorati industriali e mercato del lavoro: appunti per una ricercaMichele Tiraboschi

IL DOTTORATO COSIDDETTO INDUSTRIALE, INTRODOTTO DAL DECRETO MINISTERIALE 8 FEBBRAIO 2013, N. 45, HA UNA

NOTEVOLE PORTATA INNOVATIVA NEL MODO DI FARE UNIVERSITÀ E NEL MODO DI FARE IMPRESA E LAVORARE.

Èda almeno un paio di decenni che

si registra, in ambito internazionale

e comparato, una crescente at-

tenzione verso l’emersione di innovati-

vi percorsi di alta formazione universitaria

e, segnatamente, verso quelle nuove ti-

pologie di dottorato di ricerca che risul-

tano maggiormente orientate alla col-

laborazione con le imprese e alla soddi-

sfazione dei fabbisogni professionali

espressi dal mercato del lavoro1.

Tuttavia in Italia ha sin qui destato scar-

so interesse l’introduzione, con l’artico-

lo 11, comma 2, del decreto ministeria-

le 8 febbraio 2013, n. 45, della figura dei

dottorati industriali che pure sono diffusi,

da oltre quarant’anni, nei Paesi nordici. Né

più né meno, in realtà, di quanto già ac-

caduto con riferimento all’introduzione

di innovativi percorsi di dottorato di ri-

cerca in apprendistato ai sensi dell’arti-

colo 50, comma 1, del decreto legislati-

vo 10 settembre 2003, n. 276 e, più re-

centemente, dell’articolo 5, comma 1, del

decreto legislativo 14 settembre 2011, n.

167 meglio noto come “Testo Unico”

dell’apprendistato.

Anche nella più recente produzione

scientifica che si è proposta di indagare,

in termini programmatici e di sistema, le

connessioni tra formazione, apprendi-

menti e mercato del lavoro, nessun cen-

no è contenuto al segmento dell’alta for-

mazione universitaria e dei dottorati di

ricerca in particolare. Così come lettera

morta sono rimaste nella prassi operativa,

pur a fronte di una non trascurabile at-

tenzione da parte della dottrina, le aper-

ture, contenute nell’articolo 14 della

legge 24 giugno 1997, n. 196, alla occu-

pazione nel settore della ricerca e, se-

gnatamente, le misure a favore dell’in-

serimento di laureati e dottori di ricerca

in imprese e loro consorzi attraverso

assunzioni a termine di tipo soggettivo

finalizzate alla realizzazione di specifici

progetti di formazione e ricerca.

Con specifico riferimento ai dottorati di ri-

cerca, si registra una scarsa attenzione –

non solo a livello normativo, ma anche nel-

la progettazione dell’offerta formativa di

taluni Atenei o, meglio, di quei corsi di dot-

torato che denotano maggiore propen-

sione all’innovazione – al mercato del la-

voro, alle professioni e alla collaborazione

con le imprese, pur in presenza di impor-

tanti misure di incentivazione agli inve-

stimenti privati nella ricerca universitaria.

Questa scarsa propensione alla collabo-

razione è testimoniata dalla pressoché to-

tale assenza di letteratura di riferimento e

ancor di più, sul piano pratico ed applica-

tivo, dai modesti numeri dell’apprendistato

di alta formazione e ricerca, nonostante sia

oramai cospicua la quantità di protocolli,

convenzioni e accordi quadro che auspi-

cano, ma solo raramente realizzano, una

più intensa cooperazione con le imprese

e il sistema produttivo.

Rispetto al dibattito internazionale e

alla riflessione comparata si potrebbe in-

vero ritenere che il ritardo italiano sia

principalmente dovuto alla relativa-

mente recente introduzione nel nostro

ordinamento dei dottorati di ricerca. Ep-

pure così non è se solo si pensa a quan-

to avviene in Paesi come l’Australia, il Bra-

sile e la Malesia che pure hanno una tra-

dizione alquanto recente in materia di

dottorati di ricerca. Vero è, piuttosto,

che nella loro trentennale esperienza, i

dottorati di ricerca italiani si sono carat-

terizzati, spesso in negativo, come scuo-

le autoreferenziali di formazione e co-

optazione di accademici e futuri pro-

fessori, più che come centri di innova-

zione, trasferimento tecnologico e, più in

generale, di avanzamento delle cono-

scenze del sistema economico, sociale e

produttivo del Paese. Non sorprende, pro-

prio per questo motivo, la circostanza che

i dottorati di ricerca italiani siano stati, sal-

vo alcune limitate e lodevoli eccezioni,

non soltanto incapaci di attrarre e con-

vogliare significativi finanziamenti privati,

ma anche di progettare e realizzare ro-

busti percorsi di apprendimento, for-

mazione e ricerca in situazioni di compito

e all’interno di luoghi di lavoro.

È per questo insieme di ragioni che non

convincono i toni enfatici con cui la

stampa specializzata ha accolto la novità

dei dottorati industriali dimenticando di

evidenziare non solo l’estrema reticen-

1. L’articolo, completo di riferimenti bibliografici, è di-sponibile in Nuova Secondaria Ricerca di settembre al-l’indirizzo: http://nuova secondaria.lascuolaconvoi.it.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI18

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

za del regolamento, tanto in termini de-

finitori che prescrittivi, ma anche i non

fruttuosi precedenti delle Scuole di

dottorato, che pure presupponevano

per la loro istituzione stretti rapporti con

il sistema economico-sociale e produtti-

vo, e ancor di più dei citati percorsi di

dottorato in apprendistato di alta for-

mazione. Percorsi che, a più di dieci anni

dalla loro introduzione nel nostro ordi-

namento, ancora stentano a decollare

pur rappresentando uno dei tratti qua-

lificanti per l’avvio di corsi e scuole di

dottorato industriale che si incentrano

su una continuativa presenza del dot-

torando in ambienti produttivi auspi-

cabilmente non solo in esecuzione di un

progetto di ricerca (o una parte di esso)

finanziato da un soggetto privato, ma

anche con la qualifica di “lavoratore

dipendente” e non solo di “studente” in

un periodo di internship.

Del resto la figura dei dottorati industriali

e, più in generale, le forme di collabora-

zione con il sistema economico e pro-

duttivo indicate all’articolo 11 del de-

creto ministeriale 8 febbraio 2013, n. 45,

sono state presentate, in prevalenza,

non in funzione di un reale e convinto

raccordo tra il mondo accademico e il si-

stema delle imprese, quanto in funzio-

ne di una sempre più sentita esigenza di

occupazione o quanto meno occupa-

bilità dei dottorandi al termine del per-

corso di dottorato.

In Italia, infatti, accedono ogni anno ai

percorsi di dottorato di ricerca oltre 12

mila laureati. La speranza che li accom-

pagna è quella di accedere, attraverso il

dottorato, alla carriera accademica. Que-

sto è anche l’auspicio di massima dei loro

tutor e docenti che sono prevalente-

mente espressione del mondo accade-

mico, che ancora detiene il monopolio as-

soluto sul rilascio dei titoli di dottorato

e, proprio in funzione esclusiva di tale

obiettivo, li formano e li addestrano. Le

statistiche dicono tuttavia che solo po-

chi di loro (circa 2.000) riusciranno real-

mente, dopo una lunga transizione fat-

ta di borse post dottorato, assegni di ri-

cerca e contratti precari, a proseguire la

trafila ed entrare nei ruoli universitari. Da

qui, è stato sostenuto, l’idea di un dot-

torato di ricerca in collaborazione con le

imprese o di taglio industriale con l’obiet-

tivo di non disperdere, al termine del per-

corso accademico, quel patrimonio di

competenze che questi giovani ricerca-

tori hanno comunque accumulato.

Eppure, là dove presenti e concreta-

mente attivati, i dottorati industriali di suc-

cesso e anche i percorsi di dottorato c.d.

professionalizzante non nascono nella

prospettiva di sviluppare nuove “tecniche

di tutela del lavoro” e neppure sempli-

cemente nuove “tecniche per l’occupa-

bilità” ex post dei lavoratori della ricerca,

quanto dal convinto interesse di univer-

sità e sistema economico-produttivo a

sperimentare – in un contesto produtti-

vo dove sempre meno sono richiesti

compiti esecutivi e dove sempre meno ri-

levano meccanici processi imitativi o ri-

produttivi – innovativi percorsi di ricerca

incentrati su metodi formativi e di ap-

prendimento da realizzarsi prevalente-

mente in ambiente di lavoro e, in ogni

caso, per situazioni di compito. Non, dun-

que, un ripiego rispetto alla carriera ac-

cademica e alle attuali ristrettezze di fi-

nanziamenti destinati al mercato auto-

referenziale delle Università; piuttosto

un fronte particolarmente avanzato nel-

la innovazione del modo di fare ricerca e

di un rinnovato raccordo Università-Im-

presa incentrato su incubatori aperti di sa-

peri e conoscenze e su partenariati fina-

lizzati al trasferimento tecnologico e alla

costruzione di competenze di elevato

contenuto professionale, tanto trasversali

che specialistiche, il più delle volte non an-

cora presenti nel mercato del lavoro e tan-

to meno tipizzate dalla contrattazione col-

lettiva di lavoro nei sistemi di classifica-

zione e inquadramento del personale e

nelle relative declaratorie ed esemplifi-

cazioni professionali e di mestiere.

È esattamente in quest’ultima prospettiva

che è opportuno avviare un percorso di

studio e analisi del dottorato cosiddetto

industriale introdotto dal decreto mini-

steriale 8 febbraio 2013 al fine di valutarne,

sul versante delle istituzioni del mercato

del lavoro e degli assetti del sistema di re-

lazioni industriali, la potenziale portata in-

novativa tanto nel modo di fare Univer-

sità quanto nel modo di fare impresa e la-

vorare. E ciò fino al punto da prospetta-

re, in linea con la più recente evoluzione

della riflessione pedagogica e manage-

riale, l’evoluzione delle aziende da “or-

ganizzazioni economiche” finalizzate, per

espressa definizione codicistica, alla mera

produzione o allo scambio di beni e ser-

vizi, a vere e proprie “organizzazioni edu-

cative” – o anche “learning organization”

– in cui anche l’attività vera e propria la-

vorativa si compie con modalità prossi-

me a quelle di un processo formativo cir-

colare (quello che intercorre tra cogni-

zione ed esperienza) finalizzato ad ap-

prendere come fare e, conseguente-

mente, alla generazione di valore e com-

petenze attraverso la combinazione di ap-

prendimento, lavoro, ricerca, progetta-

zione e costante innovazione nei processi

produttivi o nei modi di erogare servizi (il

c.d. learnfare). Di questa evoluzione i

dottorati industriali rappresentano un

aspetto essenziale e comunque deter-

minante perché finalizzati a strutturare

quell’area grigia del mercato del lavoro

(il c.d. intermediate labour market), sin qui

estremamente frammentata ed episodi-

ca, attraverso cui si realizza il raccordo tra

sistema produttivo e università.

Michele TiraboschiScuola di dottorato in Formazione della

persona e mercato del lavoro (ADAPT-CQIA, Università di Bergamo)

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 19

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

Valore dell’integrazionee prevenzione della violenzaMario Martinelli

IL PROCESSO EDUCATIVO E DI INTEGRAZIONE DELLA PERSONA NELLA COMUNITÀ PUÒ FAVORIRE IL RICONOSCIMENTO

RECIPROCO E QUINDI CONTRIBUIRE AD EVITARE IL MANIFESTARSI IMPROVVISO DI EPISODI DI INCONTROLLATA VIOLENZA.

La vigilia di Natale è purtroppo

giunta dagli Stati Uniti d’America

l’ennesima atroce notizia di un

omicida seriale che, a Webster, nello Sta-

to di New York, dopo aver attirato i vigi-

li del fuoco in una trappola con un in-

cendio provocato ad arte, ne ha poi uc-

cisi due senza motivo o, meglio, soltan-

to perché «uccidere persone» era la cosa

che gli piaceva fare più di ogni altra, come

ha avuto modo di scrivere su un bigliet-

tino trovato nella sua abitazione. Le in-

dagini successive hanno permesso di ri-

trovare nella casa dell’omicida resti uma-

ni conservati da precedenti omicidi e di

risalire all’assassinio della nonna, avve-

nuto nel 1980, per il quale l’uomo aveva

scontato diciassette anni di carcere. Le

cronache hanno riportato, inoltre, che nel-

la medesima cittadina, il precedente 7 di-

cembre, un ragazzo di 15 anni aveva in-

cendiato la propria casa, provocando in

tal modo la morte di suo padre e dei suoi

due fratelli di sedici e dodici anni.

Nello stesso periodo di tempo, il 14 di-

cembre, è avvenuto anche il massacro

nella Sandy Hook Elementary School di

Newtown in Connecticut, dove un ra-

gazzo con disturbi gravi della relazione

ha ucciso, all’interno della scuola, venti

bambini fra i cinque e i dieci anni e sei

adulti. Questa, peraltro, è solo l’ultima di

una lunga serie di stragi, avvenute già ne-

gli anni scorsi in ambito scolastico, da Co-

lumbine a Virginia Tech. Ancora una vol-

ta il mondo anglosassone ci ferisce e ci

impressiona con la notizia di un individuo,

probabilmente con disturbi gravi della re-

lazione, che esplode nel modo più vio-

lento contro i propri simili, spesso i più in-

difesi come, nei casi citati, i bambini del-

la scuola elementare oppure una nonna

di novantadue anni.

I commenti, alla ricerca di una spiega-

zione per accadimenti tanto atroci e ra-

zionalmente oscuri, ci sollecitano ad al-

cune considerazioni, ad iniziare dal fat-

to che, nel nostro Paese, anche chi soffre

di disturbi analoghi ed ugualmente gra-

vi in realtà non reagisce in modo così inu-

mano ai problemi e alle difficoltà del-

l’esistenza o, quantomeno, situazioni si-

mili accadono molto più eccezional-

mente.

Si immagini, ad esempio, di uscire per

strada in un qualunque luogo d’Italia e

di fermare il primo passante, a caso. Si

pensi di chiedere a questa persona chi sia

stato il cosiddetto «mostro di Firenze»: è

molto probabile che questi ci risponda

esattamente nome e cognome, periodo

in cui è vissuto, luoghi dove ha commesso

i delitti, numero di omicidi e, forse, per-

sino i nomi di alcune vittime e così via. Si

provi ora a immaginare di mettere in atto

la medesima iniziativa negli USA, chie-

dendo chi sia stato uno dei serial killer tra

quelli realmente esistiti, scelto a caso. Ben

difficilmente l’interrogato sarà in grado

di rispondere: negli ultimi decenni, in Ita-

lia, è esistito un solo omicida seriale

che, non a caso, ancora tutti conoscono.

Nel medesimo periodo, negli USA, i serial

killer sono stati centinaia, con migliaia di

vittime, come si può ricostruire anche

solo seguendo le cronache per poche

settimane. Sarebbe impossibile per

chiunque ricordare particolari.

Il valore educativodell’integrazioneLa riflessione, dunque, ci sollecita alla va-

lutazione dell’esperienza italiana di in-

tegrazione nell’educazione degli allievi

con disabilità gravi, anche in quell’ambito

che un tempo veniva definito di bambi-

ni e ragazzi «ineducabili» i quali, invece,

ormai da decenni, frequentano le classi

comuni della scuola italiana. Si può pen-

sare, infatti, che la concezione del pro-

cesso educativo e di integrazione della

persona nella comunità abbia contribuito

ad esiti sociali ben differenti rispetto a

quelli appena descritti.

Da cinquant’anni nel nostro Paese è in

corso un’esperienza alquanto significa-

tiva ed importante di integrazione pie-

na e totale degli alunni con disabilità nel-

la scuola di tutti. Negli Anni Sessanta ini-

ziarono le prime esperienze spontanee

e sperimentali che condussero il Parla-

mento italiano all’approvazione della L.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI20

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

ma anche scoprire che il giorno dopo si

può «far pace», giocare di nuovo insieme

e provare di nuovo le stesse emozioni a

causa di una «minaccia» esterna e così via.

Sono tutte attività che permettono, pri-

ma di tutto, di riconoscere l’altro soggetto

come un altro essere umano, certamen-

te diverso ma uguale nel suo essere

bambino o ragazzo «come me». Signifi-

ca sperimentare in modo diretto nella

propria esistenza l’uguaglianza ontolo-

gica, il riconoscersi reciprocamente come

esseri umani che vivono e si relazionano

al di là delle differenze empiriche, che si

manifestano con diverse caratteristiche

di personalità, aspetti emotivo-affettivi e

qualità cognitive.

Quando ciò non avviene ovvero quando

la crescita e l’educazione di un sogget-

to si compiono nell’isolamento, ciò che,

innanzi tutto, viene a mancare è proprio

il riconoscimento reciproco, il sentirsi par-

te di una comunità di eguali, il percepir-

si essere umano tra esseri umani. E ciò

può favorire l’odio, il rancore, il risenti-

mento, la vendetta «annidati», per così

118/71, che permise di dare una cornice

giuridica a un’esperienza volontaria or-

mai diffusa sul territorio nazionale, per

giungere attraverso diverse tappe nor-

mative alla L. 517/77, che abolì definiti-

vamente tutti i percorsi scolastici se-

gregati, istituendo la frequenza alle

scuole comuni di ogni ordine e grado.

Tutto fu consolidato, com’è noto, dalla

sentenza n. 215/86 della Corte Costitu-

zionale che riconobbe il diritto alla fre-

quenza da parte degli allievi disabili an-

che agli asili nido e alle scuole seconda-

rie di secondo grado dove, fino a quel

momento, la presenza degli allievi era

solo facilitata e non garantita. La legge

104/92 riorganizzò giuridicamente l’in-

tegrazione scolastica e sociale.

Gli ultimi documenti internazionali sul-

l’argomento sono ormai orientati a esten-

dere i principi dell’esperienza italiana a

tutti i paesi del mondo: la Convenzione

ONU sul diritto delle Persone con disa-

bilità del 2006, il Rapporto Mondiale

sulla disabilità dell’OMS e della Banca

Mondiale del 2011, il Progetto Horizon

2020 dell’Unione Europea, solo per ci-

tarne alcuni tra i principali, indicano la

partecipazione alle attività scolastiche co-

muni come uno degli elementi irrinun-

ciabili per permettere alla persona con

disabilità la partecipazione sociale, l’ap-

partenenza alla comunità e alla cultura

di riferimento, la collocazione nel mon-

do del lavoro, la possibilità di non cade-

re in condizione di povertà economica a

causa della disabilità stessa e così via.

La frequenza scolastica e la vita trascor-

sa insieme tra bambini e ragazzi rap-

presenta, infatti, una delle più efficaci pre-

venzioni e difese dalla violenza tra esseri

umani. Svolgere attività comuni, colla-

borare, giocare con gli altri, ma anche

emozionarsi e aver paura insieme, ma poi

superare apprensione e inquietudine

grazie alla condivisione. Litigare, azzuffarsi

tra bambini, con tutto ciò che consegue,

dire, nell’interiorità per tempi impreve-

dibili e che, poi, possono scoppiare più

o meno improvvisamente. Cogliersi come

«altro» dagli esseri umani, alieno, può

esporre il soggetto al rischio di azioni in-

controllate. È la mancanza di rapporto col

genere umano che, in caso di disturbi gra-

vi della relazione, può condurre alle si-

tuazioni descritte. Al contrario, espe-

rienze di condivisione di tratti di vita in

comune, sperimentati a scuola in età gio-

vanile, contrastano la possibilità di agi-

re in modo crudele ed efferato nei con-

fronti di chi è vicino e ontologicamente

simile. È noto che l’allontanamento pro-

duce non solo estraneità ma anche il

mancato riconoscimento dell’umanità

dell’altro: l’altro si riduce ad un ruolo, una

funzione o, persino, un numero. Per que-

sta ragione anche l’essere umano privo

di qualunque disturbo può, se non ri-

manere impassibile, perlomeno conti-

nuare a svolgere le proprie attività ordi-

narie anche di fronte a notizie gravissi-

me di morti, stragi, disastri: gli individui

coinvolti non sono persone reali, familiari,

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 21

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

amici o, comunque, persone vere, ma solo

virtuali, analoghe a personaggi di film e

racconti. Possono anche coinvolgere e

commuovere per un momento, ma non

sono veri: molti continuano a cenare

con appetito davanti anche alle immagini

più impressionanti dei telegiornali. È ciò

che Primo Levi definiva la zona grigia del-

la complicità: non si percepiscono lega-

mi di causa ed effetto tra i propri com-

portamenti ed una realtà che appare così

lontana da non coinvolgere in alcun

modo. Del resto è noto che anche il de-

linquente più accanito, se può uccidere

uno sconosciuto senza batter ciglio, ha

invece notevoli difficoltà a perpetrare

omicidi nei confronti di persone con le

quali abbia familiarità o, comunque, ab-

bia trascorso insieme del tempo. L’estra-

neità e la mancanza di conoscenza sono

l’elemento nel quale la violenza pro-

spera.

L’integrazione in Italia e nel mondoÈ sufficiente un confronto di dati per in-

dividuare differenze significative: in Ita-

lia dal 1977, come s’è fatto cenno, non esi-

stono più percorsi segregati per allievi

con disabilità. Scuole speciali, classi dif-

ferenziali e di aggiornamento sono sta-

te abolite: da allora nessun bambino e

nessun ragazzo frequenta più la scuola

in condizioni di isolamento e segrega-

zione. Nel mondo anglosassone la si-

tuazione è ben differente: nel Regno

Unito non esiste una frequenza di tutti

gli alunni nelle classi comuni ma soltanto

una situazione nella quale le famiglie de-

cidono se il figlio debba frequentare la

scuola comune oppure classi o scuole

speciali e, dunque, svolga il suo percor-

so scolastico in isolamento: in Inghilter-

ra il 43% degli alunni con disabilità fre-

quenta percorsi scolastici segregati1. Co-

m’è noto, comparare la frequenza sco-

lastica negli USA a quella nelle scuole eu-

ropee presenta alcune difficoltà, a cau-

sa della diversa struttura del percorso sco-

lastico che non contempla classi di ap-

partenenza anno per anno, ma frequenza

alle singole discipline: dai dati ufficiali del

governo americano si può però evince-

re che solo il 59,4% degli studenti con di-

sabilità frequenta almeno l’80% delle ore

di lezione nelle attività comuni, mentre

il 20,7 frequenta soltanto tra il 40 e il 79%

delle ore ed il 14,6% persino meno del

40%. Il rimanente 5,3 frequenta esclusi-

vamente percorsi scolastici segregati in

strutture pubbliche o private2. Com’è

facilmente rilevabile, si tratta di una si-

tuazione ben diversa da quella che ca-

ratterizza il nostro Paese che ha piena-

mente realizzato da decenni ciò che

viene ora auspicato dalle organizzazio-

ni internazionali sopra citate. Con questo

confronto di dati e di situazioni, natu-

ralmente, non vogliamo sostenere che

tutto è determinato da questo unico ele-

mento né che la situazione del nostro

Paese rappresenti il migliore dei mondi

possibili, così che essa non possa e non

debba migliorare. Riteniamo però che an-

che questa sia una riflessione necessaria

per valorizzare l’esperienza di integra-

zione contro l’affermazione semplicisti-

ca che essa non abbia valore e, senza me-

diazioni culturali, ci si debba solo ade-

guare agli standard anglosassoni.

Mario MartinelliUniversità di Torino

1. Cfr. Rapporto mondiale sulla disabilità, pubblicato dal-l’Organizzazione Mondiale della Sanità e dalla BancaMondiale, 2011.2. Dati U.S. Department of Education, Office of SpecialEducation Programs, Individuals with Disabilities Edu-cation Act (IDEA) database aggiornato al 15 settembre2011, da https://www.ideadata.org/DACAnalyticTool/Intro_2.asp.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI22

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

Insegnare storia della filosofiasecondo MaritainPiero Viotto

PIÙ CHE INSEGNARE AI GIOVANI LA STORIA DELLA FILOSOFIA COME GALLERIA DI RITRATTI O SUCCESSIONE DI SISTEMI

FILOSOFICI, È NECESSARIO INSEGNARE A FILOSOFARE, PERCHÉ CIASCUN ALUNNO POSSA TROVARE IL PENSIERO DI

RIFERIMENTO, VERIFICANDONE IL VALORE.

Insegnare ai giovani la storia della fi-

losofia come una galleria di ritratti, o

come un succedersi caleidoscopico di

sistemi filosofici, che si contrappongono

fra di loro, finisce per essere un’educa-

zione allo scetticismo, per il continuo

cambiare della prospettiva di ricerca. La

riforma di Giovanni Gentile ha introdot-

to il metodo storico nei programmi, in

parte compensato dalla lettura di un’ope-

ra di un “classico” per ogni anno scolastico,

cosa che è caduta in disuso. Prima, nel-

l’età positivistica, al tempo dell’avvento

della sinistra al potere, nelle scuole si in-

segnava un sistema filosofico, presen-

tando i diversi problemi, teorici e prati-

ci, che esso affronta, dalla gnoseologia al-

l’etica. Ma, in realtà, anche l’idealismo di

Gentile intende insegnare una sola filo-

sofia, perché, nel suo storicismo, identi-

fica filosofia e storia, per cui l’ultimo si-

stema è quello vero che risolve dialetti-

camente in se stesso tutti i sistemi pre-

cedenti. Dunque si finisce per educare al

relativismo se si insegna solo la storia del-

la filosofia, ma se si insegnasse solo una

filosofia, quella che il docente ritiene

per vera, si rischierebbe di educare al fon-

damentalismo. Occorre, invece, inse-

gnare a filosofare, affinché ciascun alun-

no possa trovare il sistema di riferimen-

to, verificandone il valore.

La riflessione filosofica non nasce dalla

esperienza, sarebbe il risultato empirico

del divenire della storia, ma nasce nella

esperienza, perché non abbiamo idee in-

nate, come immaginava Cartesio, e nem-

meno l’idea di essere è in noi a priori

come pensava Rosmini, perché l’intelli-

genza diventa intelletto solo quando

ha intelletto gli intelligibili. Attraverso la

storia della filosofia, bisogna esercitare

l’intelligenza a scoprire la verità, ovunque

essa si trovi, e ai diversi livelli del sapere,

dalle scienze naturali e dalla fisica fino alla

metafisica e alla teologia, non trascu-

rando la mistica che è una conoscenza di

modo pratico, ma è autentica cono-

scenza. La contemplazione dei santi

completa la contemplazione dei filoso-

fi, come dice Bergson.

La filosofia non si lascia storicizzare in cor-

renti e movimenti, essa vive la sua og-

gettività nella soggettività del filosofo, ac-

cumulando nel tempo le briciole di ve-

rità che ciascuno trova, perché essa tra-

scende il tempo e il divenire della storia.

Non confondiamo la filosofia nella sua

oggettività, con la soggettività del filo-

sofare; essa è, se è filosofia, semplice-

mente vera, così come l’uomo la può co-

noscere. Per Jacques Maritain esiste una

filosofia perenne, quella della ragione ri-

spettosa delle regole del ragionamento,

che approda a conoscere la realtà. Essa

in se stessa non è greca o latina, araba o

cristiana, non è occidentale o orientale,

non è antica o moderna, è propria del-

l’uomo in quanto uomo, in qualunque età

storica e cultura si trovi. Quando si par-

la di razionalismo e di empirismo, di

idealismo e di positivismo, di realismo e

di fenomenismo non si parla solo di

una datata corrente filosofica, anche se

questa, o quest’altra, soluzione del pro-

blema filosofico si è definita meglio in un

dato momento storico, perché in ogni

tempo ci sono stati empiristi e raziona-

listi, positivisti e idealisti, realisti e feno-

menisti. Insegnare a filosofare è anche

una questione di democrazia, perché si

tratta di conciliare, proprio nella scuola,

la soggettività della libertà di coscienza

e l’oggettività delle verità, la libertà del

cittadino e i valori della legge morale1.

Su queste basi, e con queste convinzio-

ni, Maritain nel 1920, quando insegnava

al liceo, ha scritto per i suoi allievi una In-

troduzione alla filosofia2, che ha avuto nu-

merose edizioni ed è stata tradotta non

solo nelle lingue europee, ma anche in

giapponese e in coreano. Nel 1960, quan-

do insegna alla Princeton University,

scrive una monumentale storia della fi-

1. J. Maritain, Elogio della democrazia, La Scuola, Brescia2011, pp. 158.2. Id., Introduzione alla filosofia, Massimo, Milano 2004.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 23

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

losofia morale da Socrate a Sartre: La fi-

losofia morale, Esame storico e critico dei

grandi sistemi3. Se questi scritti appro-

dano alla filosofia di san Tommaso, non

è perché il realismo aristotelico-tomisti-

co sia considerato un a-priori, ma perché,

di fatto, rappresenta quella filosofia pe-

renne propria dell’uomo in quanto tale,

in tutti i tempi e in tutti i luoghi, che fa-

ticosamente progredisce attraverso la

storia4.

In questo modo Maritain si confronta con

la storia, cercando la verità ovunque si na-

sconda, amando e rispettando gli av-

versari, che pure demolisce con le sue ar-

gomentazioni5.

Dai 17 volumi dell’Opera omnia di Mari-

tain, e non solo dalle opere monografi-

che che ha dedicato a Machiavelli, Lute-

ro, Cartesio, Rousseau, Bergson, si pos-

sono trarre materiali e schemi didattici,

che lui stesso ha elaborati, per aiutare gli

studenti ad imparare a filosofare, attra-

verso la storia della filosofia, per appro-

dare alla filosofia6.

La dissoluzione dell’oggetto del sapereMaritain rileva che la svolta nella storia

della filosofia è avvenuta con Cartesio7,

che ha spostato l’asse della ricerca dal-

l’essere al conoscere, dalla ontologia

alla gnoseologia, giungendo a separare

l’anima dal corpo, per cui ha considera-

to le idee come idee innate, a cui Dio ga-

rantirebbe la corrispondenza con la re-

altà. Dopo di lui, sia i razionalisti che gli

empiristi non si sono più preoccupati di

studiare la relazione tra la materia e la for-

ma, tra la potenza e l’atto, tra l’essere e

il divenire, tra il finito e l’Infinito, ma, aven-

do ridotto il concetto a un puro ogget-

to di pensiero, hanno cercato di giustifi-

care in che modo questo essere di pen-

siero potesse avere un valore reale. Car-

tesio e Locke, sulla base del principio di

causa, hanno ancora riconosciuto l’og-

gettività di questa conoscenza sogget-

tiva. Ma Berkeley, affermando con la for-

mula esse est percipi che l’oggetto esiste

in quanto è percepito dal soggetto, di-

strugge la sostanza materiale, e nel suo

immaterialismo riconosce solo l’esi-

stenza di uno Spirito infinito e degli spi-

riti finiti. Hume, sviluppando Berkeley,

giunge ad affermare esse est percipere, e

dissolve anche il soggetto conoscente, in

quanto l’oggetto esiste, perché è perce-

pito, e il soggetto esiste, perché perce-

pisce, e cosi risolve tutta la realtà nell’atto

del conoscere, riducendola a pura ap-

parenza di un indefinito e mutevole

fluire. Si giunge così alla distruzione del-

l’oggetto del sapere. Il fenomenismo,

che dissolve non solo la realtà materia-

le, ma anche la realtà spirituale, nell’at-

to del conoscere, che risolve non solo

l’oggetto, ma anche il soggetto, nella re-

lazione cognitiva, invaderà anche il cam-

po della letteratura. Basti ricordare che

Luigi Pirandello in Cosi è se vi pare (1917)

fa concludere l’azione drammaturgica

dalla protagonista, affermando: «Per me,

io sono colei che mi si crede», traducen-

do esattamente la posizione di Hume, che

sbriciola e frantuma la personalità di

ciascuna persona nel succedersi dei di-

versi stati psichici dei soggetti in rela-

zione.

Per Maritain la dissoluzione dell’ogget-

to del sapere ha comportato una crisi del-

l’epistemologia, perché di fatto, a pre-

scindere dalle intenzioni personali, Car-

tesio nega la scientificità della teologia,

Kant nega la scientificità della filosofia, e

le correnti più recenti come il neoposi-

tivismo, l’empiriocriticismo, il pragmati-

smo, e lo stesso marxismo negano la

scientificità della scienza, ridotta a pras-

si, utile ma non vera, perché preferisco-

no la verifica alla verità, e fanno del suc-

cesso, dell’efficienza e della riuscita il cri-

terio di valore. Nella storia della filosofia

si è passati dalle Summae medievali al-

l’Enciclopedia dell’età dei lumi, fino a

giungere alla cultura in briciole dei lin-

guaggi tecnologici. Nel contempo si è

spostata l’attenzione dalla contempla-

zione dell’Assoluto al dominio del mon-

do, perché, come ha incominciato a pro-

clamare Francesco Bacone, «il sapere è

potere», vale perché serve.

Nell’insegnamento della filosofia bisogna

considerare anche gli aspetti politici del

sapere filosofico. A questo riguardo Ma-

ritain constata che quello di Machiavel-

li e di Richelieu era solo un machiavelli-

smo moderato, che cerca il bene comu-

ne con mezzi ingiusti, corrompendo così

la stessa idea di bene, ma poi è venuto un

machiavellismo assoluto, che identifica la

Jacques Maritain (1882-1973).

3. Id., La filosofia morale, Esame storico e critico dei grandisistemi, Morcelliana, Brescia 1990.4. Ibi, p. 175. J. Maritain, Il contadino della Garonna, Morcelliana,Brescia 1969, p. 153-154.6. P. Viotto, Il pensiero moderno secondo Maritain, CittàNuova, Roma 2011, p. 268. Id., Il pensiero contemporaneosecondo Maritain, Città Nuova, Roma 2012, p. 338.7. J. Maritain, Le songe de Descartes, Buchet Chastel, Paris1932, pp. XII-346.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI24

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

morale con la politica, il bene comune

con il bene dello Stato, e chiama bene ciò

che è male, con Hegel e con Marx, con il

nazionalsocialismo e il comunismo. D’al-

tra parte, osserva Maritain, è stato lo stes-

so dualismo antropologico tra res cogi-

tans e res extensa di Cartesio, e tra il re-

gno dei fini e il regno della natura di Kant

a portare a separare il diritto, la politica,

l’economia dalla morale e dalla religio-

ne, risolvendo queste ultime nella co-

scienza individuale soggettiva.

Kant al crocevia dellafilosofia modernaHume aveva portato la filosofia ad un

punto morto, che bisognava superare in

qualche modo, e questo avvenne con

Kant in cui confluiscono empirismo

(giudizio sintetico) e razionalismo (a

priori) e dal quale dipartono positivismo

(di materia) e idealismo (e di forma).

Maritain fa un’analisi accurata di questa

sintesi a priori che irrompe nella storia

della filosofia, ed osserva in una lezione

tenuta nel 1914 a Parigi all’Institut Ca-

tholique

cosa ammirevole, la ricerca di una evi-

denza quasi angelica, l’ambizione di ren-

dere lo spirito umano pienamente indi-

pendente, ma che finisce per asservire lo

spirito ad una necessità che lo opprime.

Perché se un termine non è contenuto in

un altro, che cosa dunque può forzare lo

spirito ad unire a priori questi due ter-

mini? non certamente l’evidenza. Forse

per Kant si tratta di una specie di neces-sità cieca, interiore al soggetto stesso; perCartesio, ingannato dall’immaginazionematematica, sembrava, piuttosto, chefosse l’interferenza di schemi matemati-ci nella vita dello spirito8.

In Kant la formazione del concetto è il

frutto di un giudizio sintetico a priori,

mentre per Maritain i concetti sono pro-

dotti dallo spirito prima di essere as-

semblati, nel senso che le parti della pro-

posizione (prese separatamente e in

loro stesse) sono conosciute prima di

questa; perché la semplice apprensione

precede il giudizio. Kant anticipa il giu-

dizio sulla intellezione. Sostanzialmente

è ancora questa la divisione che attra-

versa la filosofia contemporanea, da una

parte coloro che riconoscono l’intuizio-

ne dell’essere, nella sua oggettività, e dal-

l’altra parte coloro che imprigionano la

conoscenza nel giudizio, fermandosi alla

soggettività del conoscere, come la fe-

nomenologia9.

Maritain riconosce che non è nell’intel-

lezione ma nel giudizio che l’intelligen-

za possiede propriamente la verità, e che

Kant ha avuto ragione nel volere resti-

tuire, sia contro Hume che contro Leib-

niz, il movimento progressivo e sinteti-

co della ragione, ma ha cercato tutta la

regolamentazione della conoscenza dal

lato del soggetto e delle sue pretese for-

me a priori, mentre essa è tutta dalla par-

te dell’oggetto e delle necessità intelli-

gibili iscritte nei concetti stessi. Bisogna

raccordare e non separare intellezione e

ragionamento, altrimenti si finisce per ne-

gare la conoscibilità dell’essere e la me-

tafisica. Kant non ha avuto maestri e non

ha avuto discepoli, è un gigante isolato

8. Id., Œuvres completes, Editiond Universitaires, Fri-bourg-Suisse 1996, vol. III, p. 865.9. B. M. Simon , Esiste una “intuizione” dell’essere?, EdizioniStudio Domenicano, Bologna 1995.

Statua di Socrate, Atene, Accademia.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 25

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

nella storia della filosofia, dopo di lui nel-

l’età delle ideologie i positivisti hanno ri-

dotto la realtà a materia e gli idealisti han-

no risolto tutto il divenire nella dialetti-

ca dell’idea.

È interessante il giudizio sul comuni-

smo, che Maritain considera l’ultima ere-

sia cristiana in se stessa contraddittoria,

perché da una parte vuole realizzare la so-

lidarietà tra gli uomini e tra i popoli,

mentre dall’altra è legata a filosofie come

l’hegelismo e il marxismo, che sono del-

le teologie rovesciate. Nel Breve trattato

dell’esistenza e dell’esistente si domanda:

Il panlogismo di Hegel è stato il supremosforzo della filosofia moderna di assorbiretutti i cieli dello spirito nell’assolutismodella ragione. Dopo si è avuta la dispe-razione della ragione, ma di una ragionesempre posseduta, sempre ferita dall’os-sessione teologica, diventata ossessioneantiteologica. Quando Feuerbach ha di-chiarato che Dio era creazione e aliena-zione dell’uomo, quando Nietzsche haproclamato la morte di Dio, essi sono sta-ti i teologi delle nostre filosofie contem-poranee. Perché sono così carichi diamarezza, se non perché si sentono in-catenati, loro malgrado, ad una trascen-denza e ad un passato, che debbonosempre uccidere e nella cui negazione af-fondano le loro stesse radici?10

Si può affermare che l’ateismo è il termine

finale della dialettica interna dell’uma-

nesimo antropocentrico germinato nel

Rinascimento e nel Razionalismo.

Teismo, deismo, ateismo Nell’insegnare la filosofia è importante

evidenziare le correlazioni tra la logica e

la metafisica, tra l’etica e il diritto, tra la

teologia e la politica. Il fenomenismo, im-

plicito nell’empirismo anglosassone e nel

razionalismo francese, è stato il piano in-

clinato su cui la storia della filosofia è pas-

sata dal realismo ebraico, greco, latino, cri-

stiano, all’idealismo dell’età delle ideo-

logie. Si è passati da «conosco le cose

come sono» a «le cose sono come le co-

nosco», così l’esistenza di Dio è diventata

l’idea di Dio di Cartesio e di Spinoza. Di

conseguenza, attraverso il deismo illu-

ministico, si è giunti all’ateismo con-

temporaneo, teorico per alcuni e prati-

co per molti. In questo clima culturale e

politico che vuole fare a meno di Dio, che

mette Dio tra parentesi, perché l’uomo

crede di essere autosufficiente, la rivo-

luzione cartesiana ha dato origine alla ne-

gazione della saggezza e al predominio

della scienza e della tecnica. Sul piano del-

la filosofia pratica si è passati dal giu-

snaturalismo, che raccorda il diritto alla

legge eterna, come fanno Aristotele e

Tommaso, al giuspositivismo di Hegel e di

Marx, che costituiscono la politica in

legge morale, per cui «lo Stato ha sem-

pre ragione» come scriveva Mussolini. La

filosofia contemporanea recupera il di-

ritto naturale a confronto del diritto po-

sitivo, ma lo giustifica solo come inter-

soggettività in una sorta di giusraziona-

lismo, perché riconosce la persona uma-

na come valore morale e non come va-

lore ontologico, in quanto secondo la fe-

nomenologia, l’ermeneutica, la filosofia

analitica l’uomo non può conoscere l’es-

sere.

La storia della filosofia secondo Maritain

non è una storia “neutra”, perché nelle sue

analisi non si limita a esporre e descrivere

i diversi sistemi filosofici nella loro genesi

e nel loro maggiore o minore successo

storico, ma li giudica criticamente, talvolta

anche con linguaggio aspro. Maritain

«duro di testa e dolce di cuore», come scri-

veva Jean Cocteau, rispetta le persone nel-

la loro soggettività, ma cerca la verità nel-

la sua oggettività, ovunque si trovi. G. B.

Vico ritiene che la storia sia una sintesi di

filologia, cioè documentazione critica, e

filosofia, cioè interpretazione razionale.

Maritain realizza questa connessione,

perché è accurato nella documentazio-

ne delle fonti e preciso nella loro inter-

pretazione. Non confonde storia e filosofia

della storia, non tradisce le intenzioni dei

filosofi che presenta, ma trae dai testi tut-

te le conseguenze delle affermazioni as-

sunte. Se si vuole educare a filosofare, at-

traverso la storia della filosofia, bisogna

pure confrontarsi con la filosofia, che

emerge da questa storia. L’importante è

di non imporsi con la propria autorità allo

studente, ma lasciare che la verità s’im-

ponga per se stessa e da se stessa.

Infine e soprattutto, nell’insegnare filo-

sofia, occorre raccordare tra di loro i di-

versi campi del sapere, per evitare la fram-

mentazione delle conoscenze, che im-

pedisce ai filosofi e agli scienziati, ai

teologi e agli artisti, ai moralisti e ai po-

litici di comprendersi. Maritain conclude

Di proposito abbiamo percorso un cosìvasto insieme di problemi, e tracciato unasintesi che, cominciando dall’esperienzadel fisico, si conclude nell’esperienza delcontemplativo, e la cui solidità filosoficaè garantita dalle certezze razionali dellametafisica e della critica. Soltanto inquesto modo potevamo mostrare la di-versità organica e l’essenziale compati-bilità delle regioni di conoscenza traver-sate dallo spirito in quel grande movi-mento di ricerca dell’essere, al quale cia-scuno di noi può collaborare solamenteper un esiguo frammento, e rischiando dimisconoscere l’attività dei suoi compagnilegati ad altri lavori frammentari, ma lacui unità d’insieme riconcilia, quasi loromalgrado, nel pensiero del filosofo, fra-telli che non si conoscevano. Da questopunto di vista si può anche dire che il la-voro, cui la metafisica sembra oggi chia-mata, è di mettere fine a quella specie diincompatibilità di carattere che l’uma-nesimo dell’età classica aveva creato trala scienza e la sapienza11.

Piero Viotto

10. J. Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente,Morcelliana, Brescia 1990, p. 104.11. Id., La filosofia morale, cit., p.9.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI26

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

Valutare gli interventi educativi nella scuolaEmanuela Maria Teresa Torre

SEMPRE PIÙ SPESSO IL DOCENTE È CHIAMATO A PROGETTARE INTERVENTI EDUCATIVI. L’UTILIZZO DELLE STRATEGIE DI

RICERCA VALUTATIVA È UNA RISORSA PER LA VALORIZZAZIONE E IL RICONOSCIMENTO DELLE AZIONI CONDOTTE.

Le difficoltà, riscontrabili negli ado-

lescenti di oggi, a far fronte ai

compiti di sviluppo tipici dell’età

stimola la riflessione sulle opportunità e

possibilità di intervento e sulle compe-

tenze specifiche richieste ai docenti in

questo ambito.

Un’approfondita rassegna della letteratura

internazionale (Coggi, Ricchiardi, 2009)

evidenzia che, negli ultimi trent’anni, i pro-

getti finalizzati a rispondere a queste pro-

blematiche hanno cambiato fisionomia.

Essi si sono orientati progressivamente al

sostegno dello sviluppo positivo dei ra-

gazzi più che al contenimento del disa-

gio, con particolare riguardo alla pro-

mozione del benessere scolastico e alla

riduzione dell’insuccesso. Tali progetti

hanno investito inizialmente la scuola se-

condaria di I grado, ma iniziano a diffon-

dersi anche in quella di II grado1. Sempre

più spesso essi coinvolgono l’intera co-

munità educante (scuola, famiglia, ex-

trascuola) e prevedono la partecipazio-

ne attiva dei ragazzi. Sono, perciò, forte-

mente contestualizzati e promossi dal-

l’interno (dalla scuola, dalla comunità) in

continuità con il territorio, a vantaggio di

una maggiore incisività ed efficacia del-

le azioni proposte.

La richiesta di interventi adeguati si

scontra, però, con la contrazione pro-

gressiva delle risorse disponibili. È im-

portante quindi che l’azione progettua-

le non si riduca a sterile prassi burocra-

tica o finalizzata a reperire fondi, ma si

strutturi su problemi e bisogni reali del

contesto, ponendo attenzione a creare

consenso sia all’interno dell’istituzione

scolastica sia all’esterno, per favorire

l’incisività degli interventi e la diffusione

delle prassi efficaci. Ciò è tanto più pos-

sibile quanto più si pone attenzione alla

valutazione sistematica (ex ante, in itinere,

ex post) di processi ed esiti delle azioni

condotte.

I modelli di ricerca valutativa, nati per la

verifica di programmi sociali, si sono,

proprio per questo, indirizzati anche alla

valutazione di programmi e progetti

educativi. Tali modelli, sviluppatisi prin-

cipalmente in area statunitense e cana-

dese (Stufflebeam, Shinkfield, 2007), si

fondano su una cultura della valutazio-

ne che integra il lavoro valutativo, teso a

favorire i processi decisionali e di mi-

glioramento interno, con adeguate stra-

tegie di ricerca e di coinvolgimento de-

gli stakeholders. Essi non sono ancora en-

trati sistematicamente nelle pratiche

correnti in Europa, e in particolare in Ita-

lia, e rappresentano quindi un’area di stu-

dio ancora in parte inesplorata e sen-

z’altro da approfondire.

Nel nostro paese in particolare, la valu-

tazione è spesso ancora guidata da

istanze burocratiche (Stame, 2007), anche

se iniziano a svilupparsi riflessioni me-

todologiche e pratiche valutative mag-

giormente orientate al miglioramento

continuo delle azioni educative attuate.

Permangono, tuttavia, due ordini di dif-

ficoltà: da un lato i progetti dipendono

da finanziamenti discontinui nel tempo;

dall’altro la scarsa abitudine alla valuta-

zione non conferisce la giusta importanza

alla documentazione rigorosa delle azio-

ni svolte (Caliman, 2007).

Se iniziano, dunque, a emergere dati sul

numero di progetti attivati, sui loro con-

tenuti, sulle scuole coinvolte, sull’entità

dei finanziamenti erogati, rimangono

però frammentarie le conoscenze sui ri-

sultati e sulla ricaduta degli interventi sul

fare scuola quotidiano. Si ravvisa quindi

l’urgenza di entrare dentro i problemi del-

l’efficacia reale delle proposte educative

e di possibile condivisione e trasferi-

mento delle stesse a contesti simili.

Tale esigenza è peraltro richiamata dalla

normativa sull’Autonomia scolastica (DPR

275/99), che trasferisce alle singole isti-

tuzioni scolastiche responsabilità e fun-

zioni «nella progettazione e nella realiz-

zazione di interventi di educazione, for-

1. Tra gli altri ricordiamo alcuni progetti contro la di-spersione scolastica da anni attivi in Italia: il progettoChance – Maestri di Strada a Napoli, il Provaci ancora,Sam! a Torino, Icaro… ma non troppo a Verona e ReggioEmilia, i Progetti Ponte a Trento.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 27

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

mazione e istruzione mirati allo sviluppo

della persona umana, adeguati ai diversi

contesti, alla domanda delle famiglie e alle

caratteristiche specifiche dei soggetti

coinvolti, al fine di garantire loro il successo

formativo, coerentemente con le finalità

e gli obiettivi generali del sistema di

istruzione e con l’esigenza di migliorare

l’efficacia del processo di insegnamento

e di apprendimento». Essa invita altresì le

scuole ad esercitare la propria autonomia

di ricerca, formazione e sviluppo, tenen-

do conto della realtà locale e curando, tra

gli altri aspetti, proprio «la progettazione

formativa e la ricerca valutativa»; pro-

muove inoltre l’attuazione di iniziative fi-

nalizzate all’innovazione, purché chiara-

mente definite a livello progettuale e

sottoposte a valutazione dei risultati.

La questione chiama in causa anche le

competenze progettuali e valutative (e di

ricerca) dei docenti, coinvolti sempre più

spesso in attività di progettazione, pia-

nificazione, organizzazione e valutazione

di nuovi percorsi, che necessariamente do-

vrebbero essere risposta a bisogni reali,

monitorati nel loro svolgersi, ricalibrati in

rapporto agli esiti raggiunti, ripetibili e tra-

sferibili ad altre situazioni quando ne sia

evidenziata l’efficacia. Può dunque esse-

re utile approfondire gli aspetti di cui il do-

cente deve tenere conto quando si trova

a costruire, attuare e, soprattutto, valuta-

re un progetto educativo che esula dal-

la corrente attività didattica.

Scopi della valutazioneLa valutazione può perseguire scopi de-

cisionali o migliorativi (Van der Maren,

2003). Chi finanzia un progetto o ne de-

cide l’attivazione ha spesso uno scopo

decisionale: intende far emergere crite-

ri empirici che giustifichino la scelta di so-

stenere economicamente o politica-

mente un dato progetto. A questo fine la

valutazione può utilizzare dati statistici

(es. tassi di insuccesso di diverse scuole),

anche per confrontare più situazioni,

con il rischio di perdere di vista le diffe-

renze di contesto in cui sono calati gli in-

terventi.

Un secondo scopo, più vicino agli inte-

ressi reali delle scuole, è quello del mi-

glioramento dell’intervento. Il processo

di valutazione, in questo caso, prevede il

confronto tra attese iniziali e realizzazioni

concrete. L’intento è quello di indivi-

duare gli elementi da modificare o affi-

nare per migliorare gli esiti. Si mira dun-

que al perfezionamento e alla legitti-

mazione degli interventi attuati ed even-

tualmente al loro trasferimento in altri

contesti. Il rischio è quello dell’autore-

ferenzialità, che può portare a distorsioni

nelle conclusioni. Si può ovviare a tale ri-

schio predisponendo un piano di ricer-

ca rigoroso dal punto di vista metodo-

logico. Ciò consente, tra l’altro, di costruire

un impianto valutativo in grado di reg-

gere positivamente anche valutazioni

esterne, condotte con finalità decisionali.

La valutazione in praticaPrima di approfondire i passaggi meto-

dologici che guidano la valutazione di

progetti educativi, è bene innanzi tutto

ricordare il legame circolare che connette

progettazione e valutazione. La valuta-

zione di un intervento educativo è, infatti,

guidata dai traguardi che esso si prefig-

ge. Il progetto educativo, dunque, deve

già comprendere al suo interno un pia-

no di valutazione, che terrà conto di al-

cuni principali elementi di analisi: i bi-

sogni dei destinatari; la struttura for-

male del progetto; il processo di attua-

zione; i risultati (Figura 1).

In secondo luogo occorre precisare che

la valutazione utilizza metodi, strategie

e strumenti messi a sua disposizione dal-

la ricerca valutativa, che ne costituisce il

fondamento metodologico (Mathison,

2008; Arthur, Cox, 2013). Essi sono scelti

in funzione dei suoi scopi, delle specifi-

cità dell’intervento e del contesto di at-

tuazione, del livello di profondità auspi-

cato. Dipendono, inoltre, dal modello di

riferimento del valutatore (Stufflebeam,

Shinkfield, 2007): sempre più di fre-

quente, considerata la complessità del-

l’oggetto di indagine, la ricerca valutati-

va prevede l’utilizzo integrato di meto-

di quantitativi e qualitativi per la rileva-

zione dei dati e il coinvolgimento diret-

to dei partecipanti (operatori e destina-

tari) nelle attività di verifica (Mertens, Wil-

son, 2012).

Figura 1.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI28

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

Possiamo quindi descrivere gli elemen-

ti che l’insegnante dovrebbe considera-

re nella predisposizione di un piano di va-

lutazione, adattando la proposta di Grin-

nel e Unrau (2008), centrata sui pro-

grammi socio-educativi e facilmente

trasferibile alla realtà della scuola.

a) Valutazione dei bisogni. È fon-

damentale per l’avvio di qualunque

progetto. Consente di determinare l’en-

tità reale del problema, di identificare le

priorità di intervento e di proporre so-

luzioni fattibili, utili e rilevanti. In concreto,

nel definire le linee progettuali di un

nuovo intervento occorrerà verificare che

la proposta sia adeguatamente conte-

stualizzata, copra aree che ancora non

hanno trovato risposte efficaci, non si so-

vrapponga ad interventi simili già in atto,

risponda in maniera pertinente ai biso-

gni espressi o inespressi dei destinata-

ri (i ragazzi, i loro genitori, i colleghi) e ten-

ga conto delle loro risorse personali.

b) Valutazione formale del pro-

getto. È preliminare all’attuazione del-

l’intervento e va a sondarne la validità

e la coerenza interna. Essa analizza la ri-

levanza (capacità di rispondere a pro-

blemi prioritari e significativi nel con-

testo in cui si intende intervenire); l’ade-

guatezza della stesura del progetto

(formulazione di obiettivi realistici e

verificabili; descrizione dettagliata del-

le attività, della loro scansione tempo-

rale, dei ruoli e dei compiti degli ope-

ratori, delle risorse disponibili; esplici-

tazione del piano di valutazione e dei

suoi strumenti; identificazione di pos-

sibili alternative in caso di ostacoli pre-

vedibili); la congruenza tra le diverse

parti del progetto. Si tratta, peraltro, dei

principali elementi che l’ente finanzia-

tore considererà per decidere se soste-

nere il progetto.

c) Valutazione di processo. Si foca-

lizza sugli aspetti processuali di attua-

zione dell’intervento. Ha un ruolo im-

portante nel circuito di progettazione-

attuazione-valutazione poiché consen-

te di comprendere il meccanismo at-

traverso il quale determinati effetti si

sono prodotti e di attribuire quindi le

cause dei successi e degli insuccessi ai

fattori che effettivamente li hanno de-

terminati. La valutazione di processo

pone attenzione in particolare agli

aspetti organizzativi, alle risposte dei par-

tecipanti, alla professionalità degli ope-

ratori coinvolti, alla tipologia e motiva-

zioni delle eventuali modifiche rispetto

al progetto originale, alla corrispon-

denza del progetto con gli standard

definiti dagli enti finanziatori.

d) Valutazione dei risultati. Stima la

capacità dell’intervento di raggiungere

i traguardi previsti sulla base di un in-

sieme di fattori, quali: gli effetti (produ-

zione di cambiamenti nei destinatari e

sua stabilità nel tempo, entità dei cam-

biamenti in rapporto a quelli prodotti con

interventi simili); la presenza di effetti dif-

ferenziali (es. sottogruppi che ottengono

cambiamenti più o meno rilevanti); la sod-

disfazione degli stakeholders; l’efficienza

(il rapporto tra i benefici ottenuti e i co-

sti economici, di tempo e di risorse uma-

ne impiegate); la trasferibilità e la ripro-

ducibilità di attività, strumenti, metodi e

soluzioni organizzative attivate dal pro-

getto. Occorre, inoltre, considerare che

N. Bogdanov-Belsky, Calcolo mentale. Nella scuola pubblica di S.Rachinsky (1895), Mosca, Galleria Tretyakov.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 29

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

ogni azione educativa si sviluppa, nella

cornice progettuale costruita a monte, se-

condo direzioni anche inaspettate e che

dipendono da fattori non sempre pre-

vedibili (ad es. gli obiettivi personali dei

partecipanti). Una buona valutazione

cercherà, pertanto, di dar conto anche di

effetti inattesi, non rispondenti cioè

esclusivamente alla conformità tra quan-

to progettato e quanto attuato o tra bi-

sogni rilevati e risultati attesi.

I diversi momenti del ciclo di progetta-

zione e i relativi elementi di analisi sono

strettamente interconnessi: non è pos-

sibile, ad esempio, affermare se sono sta-

ti raggiunti dei risultati se non si cono-

scono i bisogni a cui si intendeva ri-

spondere e non si può sapere con pre-

cisione quali aspetti dell’intervento han-

no o non hanno funzionato se non si sa

come esso è stato gestito e sviluppato.

Risultati attesiLa valutazione e la ricerca valutativa

perseguono una doppia finalità: da un

lato mirano a conoscere l’oggetto di

studio, dall’altro tendono ad utilizzare la

conoscenza acquisita per fini pratici di mi-

glioramento e replicabilità delle prassi.

L’applicazione nel lavoro educativo dei

modelli di valutazione costituisce, per l’in-

segnante che li utilizza, una risorsa fon-

damentale per dare alle azioni educati-

ve e formative (spesso considerate come

aleatorie) e alla professionalità di chi le

attua, visibilità e riconoscimento.

Il processo di valutazione, inoltre, può (do-

vrebbe) favorire la riflessione non solo sul

singolo progetto attuato, ma anche sulle

proprie competenze progettuali più ge-

nerali, più ampie e trasferibili, divenendo

così strumento di crescita professionale e

apprendimento organizzativo.

Emanuela Maria Teresa TorreUniversità di Torino

BIBLIOGRAFIA

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N. Bogdanov-Belsky, Lettura domenicale in unascuola di campagna (1895), San Pietroburgo, Museo di Stato Russo.

30

«Galileo Galilei nacque in Pisa nel 1564 e fu fatto ivi lettore di matematica nel 1589, tre anni dopo

passò lettore di matematica a Padova, nel 1610 fu fatto matematico del gran duca Ferdinando

Secondo e restituissi in Toscana, dove morì l’anno 1642 nella villa d’Arcetri vicina a Firenze; e però

nacque l’anno che morì in Roma Michel Angelo Buonarroti e morì l’anno che nacque in

Inghilterra Isacco Newton». Così scriveva Paolo Frisi, su «Il Caffè» (tomo II, foglio III), nel 1765,

nel Saggio sul Galileo, per poi proseguire: «fatto lettore in Pisa, incominciò varie pubbliche

sperienze intorno alla caduta de’ corpi gravi e fece a tutti vedere che i legni e i metalli e gli altri

corpi, quantunque assai diversi di peso cadevano in egual tempo e però con eguale velocità da

tutta altezza del campanile; e quindi ne ricavò l’importante teorema che la gravità assoluta dei

corpi è proporzionale alla quantità della materia». Successivamente Frisi ricorda come Galileo,

«sentendo a dire nel 1609 che un olandese aveva fatto un occhiale che avvicinava gli oggetti

all’occhio, ne indovinò subito la fabbrica e ne fabbricò un altro il seguente giorno, e sei giorni

dopo ne portò uno a Venezia che ingrandiva 33 volte il diametro degli oggetti». Ricordate le

principali scoperte astronomiche galileiane, Frisi elenca anche i principali contributi scientifici

dello scienziato pisano, illustrando poi sia il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, sia

i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, per poi così concludere:

«Noi dobbiamo ammirare nel Galileo un filosofo, un geometra, un meccanico ed un astronomo

non meno teorico che pratico, quello che ha dissipato tutti gli errori dell’antica scuola, il più

Galileo Galileiscienziato e filosofoa cura di Fabio Minazzi

Stu

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I

31

elegante e solido scrittore che abbia avuto l’Italia, il maestro del Cavalieri, Torricelli, Castelli,

Aggiunti, Viviani, Borelli, Paolo e Candido del Buono».

Sempre nel corso del Settecento, il massimo filosofo dell’età dei Lumi, David Hume, scrivendo la

sua monumentale Storia dell’Inghilterra, sviluppando un’ampia Appendice al regno di Giacomo

I, ha invece modo di delineare un interessante confronto critico tra l’opera di Francis Bacon e quella

di Galileo, scrivendo (cito dalla gloriosa traduzione edita, a Capolago, dalla celebre Tipografia

Elvetica, nel 1836, vol. VI, p. 203): «Bacone addittò da lontano la strada alla vera filosofia; Galileo,

non solo indicolla agli altri, ma vi fece progressi importanti egli medesimo. Digiuno era l’Inglese

delle scienze geometriche, il Fiorentino le ravvivò, e vi giunse all’eccellenza, e fu il primo che le

applicasse per mezzo dell’esperienze alla filosofia naturale. Quegli rigetto col più positivo disdegno

il sistema di Coperinco; questi lo corroborò con nuove prove, derivate così dalla ragione come da’

sensi. Lo stile di Bacone è duro e stentato; il suo spirito, sebbene brillante, è sovente poco naturale,

e stiracchiato; e pare che al suo fonte abbiano gl’Inglesi attinto quelle epigrammatiche comparazioni

e lunghe filate allegorie che tanto distinguono i loro autori; Galileo è uno scrittore vivace ed

aggradevole, sebbene pecchi alquanto di prolissità. Ma l’Italia, non unita sotto un solo governo, e

sazia forse di quella gloria letteraria per cui rifulse negli antichi e nei moderni tempi, ha troppo

trascurato quella rinomanza che conquistossi con dar la culla a sì grand’uomo».

Questi due, pur brevi, considerazioni di Frisi ed Hume, risalenti entrambe al Settecento, aiutano,

ancor oggi, a meglio intendere il valore oggettivo universale della lezione galileiana. E noi italiani,

in particolare, non dovremmo mai dimenticare che proprio un uomo di tale valore storico

universale fu condannato e incarcerato per la sola colpa, per dirla ancora con le incisive parole di

John Milton (Areopagitica, 1644), «perché aveva pensato, in astronomia, diversamente da come

pensavano i suoi censori francescani e domenicani». Studiare e leggere oggi Galileo consente allora

di aprire una tale molteplicità di problemi e questioni – biografiche, storiche, teoriche ed

epistemologiche – che ci aiutano a meglio intendere anche il nostro stesso presente di italiani che

vogliono essere figli intelligenti del proprio passato, recente e remoto. In questa precisa chiave si

offrono allora, nei testi del presente dossier, differenti e vari spunti di riflessione e di indagine critica.

Stu

diST

UD

IThe thought of Galileo can and should be studied from different points of view. First, we

need to consider its genesis. Galileo was not born copernichista. What are the arguments

that have led him to abandon the prospect Ptolemaic to the Copernican share? What is

the philosophical value of scientific knowledge? And what were the reasons for conflict

with the political power of the time? The dossier answers all these questions by addressing

the philosophical and scientific value of the Dialogue, emphasizing the defense of the

philosophical significance of the technique by analyzing the famous inquisitorial trial

Galileo was subjected to, as well as analyzing the major scientific contributions of Galileo

found in the Discourses and Mathematical Demonstrations two New Sciences. Finally,

the dossier documents a possible trail made by a high school using some of the major

works of Galileo.

Per una nuova lettura epistemologica del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondoFabio Minazzi

Galileo tolemaicoGalileo è nato copernichista? Evidentemente no, perché se si

tengono presenti anche i frammenti galileiani noti sotto il ti-

tolo di Juvenilia è agevole riscontrare in questi testi l’influenza

di un fisico aristotelico come Francesco Bonamico, fiorenti-

no, professore di filosofia all’Università di Pisa, ateneo pres-

so il quale il giovane Galileo si iscrisse, nel settembre 1581,

nella Facoltà «degli artisti», come allievo di medicina. Ma,

come è noto, Galileo non nutriva alcun serio interesse per gli

studi di medicina, mentre era fortemente attratto da quelli

di matematica che poté approfondire seguendo le lezioni di

Ostilio Ricci da Fermo, un discepolo di Nicolò Targaglia. Dal-

le lezioni di Ricci il giovane scienziato pisano ereditò sia un

interesse specifico per la matematica nelle sue applicazioni

pratico-sperimentali, sia un grande amore per Archimede che

considerò costantemente come un suo punto di riferimen-

to privilegiato. Ma se dunque in ambito matematico Galileo,

fin da giovane, mostrò di propendere per un uso della ma-

tematica non mai disgiunto dall’interesse per l’osservazione,

la misura e il disegno, invece in ambito fisico i suoi primi stu-

di, appunto documentati dai suoi Juvenilia, attestano inve-

ce la sua vicinanza all’opera aristotelica, il De motu, di Bo-

namico. In questa prospettiva la fisica cui si occupava il gio-

vane Galileo costituisce, more aristotelico, una cosmologia ge-

nerale in cui si cercano di individuare i principi in grado di

spiegare i fatti particolari, mettendo capo ad una metafisica

finalistica in cui, in sintonia con la classica lezione aristote-

lica, si generalizzano e si razionalizzano le esperienze del sen-

so comune.

Naturalmente la questione di poter individuare, con preci-

sione, il momento esatto in cui Galileo si distaccò definiti-

vamente dalla tradizione aristotelico-tolemaica è molto

controverso e assai dibattuto. Si sa infatti che Galileo, fin da

quando, a partire dal novembre 1589, poté iniziare, con un

incarico triennale, la sua carriera di professore all’universi-

tà di Pisa, quale docente incaricato di matematica (potendo

appunto insegnare in quello stesso ateneo nel quale non ave-

va tuttavia mai concluso i suoi studi di medicina), era obbligato

ad insegnare il tradizionale sistema aristotelico-tolemaico.

Come continuò a fare anche quando, nel 1592, ottenne la cat-

tedra di matematica a Padova, dove insegnò ininterrottamente

per diciotto anni. Ma pur insegnando la dottrina tolemaica

è noto che, ad un certo punto, Galileo non la condivideva più.

Per questo motivo è interessante chiedersi quale fu la perso-

nale convinzione di Galileo a questo proposito, per conoscere

quando iniziò a staccarsi, definitivamente, in ambito fisico ed

astronomico, dalla tradizionale dottrina tolemaica e anche da

quella aristotelica.

Una controversia storiografica aperta:quando Galileo divenne copernichista?A questo proposito gli interpreti di Galileo hanno natural-

mente formulato risposte assai diverse. Vi sono alcuni, come

l’astronomo vaticano Adolf Müller (Galileo Galilei, Studio sto-

rico scientifico, Max Breschneider, Roma 1911) che ritiene che

Galileo nei suoi primi anni (in particolare tra il 1586 e il 1592)

fosse un sincero seguace di Tolomeo, mentre altri, come, per

esempio Emil Wohlwill (Galilei und sein Kampf für die ko-

pernikanische Lehre, Leopold Voss, Hamburg und Leipzig,

1909-1926, 2 voll.) e Sebastiano Timpanaro senior (nella sua

Prefazione al secondo volume della sua raccolta delle Opere

di Galileo, Rizzoli, Milano 1936-38, 2 voll.), affermano esat-

tamente il contrario, ritenendo che in questi stessi anni del-

l’inizio del suo insegnamento universitario Galileo fosse già

diventato copernicano. Né è mancato chi, come per esempio

un grande storico della scienza come Alexandre Koyré (Etu-

des galiléenes, Hermann, Paris 1939, 3 voll.), ha certamente

riconosciuto come la conversione al copernicanesimo di Ga-

lileo sia avvenuta durante il periodo pisano, tuttavia l’ha spie-

gata mettendola in connessione diretta con i suoi studi sul

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI32

STUDI

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 33

STUDI

moto che furono per l’appunto iniziati nel periodo del suo

insegnamento a Pisa. E questo è infine anche il parere di Lu-

dovico Geymonat (nel suo fortunato Galileo Galilei, Einau-

di, Torino prima ed. 1957, riedito, in quinta edizione au-

mentata, nel 1969, e poi più volte ristampato) in cui si rico-

nosce che «se anche Galileo compì effettivamente – duran-

te il triennio pisano – alcuni notevoli passi verso il coperni-

canesimo, essi furono prevalentemente determinati dal ma-

turarsi delle sue concezioni meccaniche, e che pertanto oc-

corre fermarsi soprattutto su queste ultime per chiarire il pro-

gresso del suo pensiero». Effettivamente, occorre ricordare che

fin da studente, nel 1583, Galileo aveva riscoperto, autono-

mamente, l’isocronismo delle oscillazioni pendolari (scoperta

già effettuata dall’astronomo arabo Ibn Junis, di cui però in

occidente non si sapeva praticamente nulla), per poi sforzarsi

di applicarlo, more archimedeo, alla misurazione della fre-

quenza del polso e di altri brevi intervalli di tempo. Sono i

diversi studi meccanici di Galileo del periodo pisano, raccolti

in differenti manoscritti poi riuniti nel De motu antiquiora

che attestano i risultati più eminenti di queste sue ricerche

che saranno poi utilizzate nelle opere galileiane pubblicate

molti anni dopo. La discussione storiografica ha mostrato, in

modo convincente, come in questi suoi studi sul moto Ga-

lileo avesse ben presto abbandonato i tradizionali schemi ari-

stotelici, recependo diverse suggestioni, in particolare quel-

le provenienti dalla tradizione dei «fisici parigini» e della loro

teoria dell’impetus. Galileo dedicò infatti un’attenzione par-

ticolare allo studio di un’opera di Giovanni Battista Benedetti,

Diversarum speculationum mathematicarum et physicarum li-

ber (1585), in cui la celebre teoria dell’impeto – risalente ad

un commentatore della fisica aristotelica come Giovanni Fi-

lopono del VI secolo – aveva trovato numerosi estimatori nei

secoli XIV e XV tra gli scienziati parigini. Proprio meditan-

do su questi scritti di Benedetti, Galileo si convinse della ne-

cessità di porre in sempre più stretta connessione la com-

ponente matematica con la componente empirica, senza pe-

raltro trascurare la lezione archimedea e tutte le suggestio-

ni che provenivano dalla mentalità dei tecnici rinascimentali.

Ma se questo è certamente l’ambito problematico e di ri-

flessione entro il quale maturò progressivamente il distacco

critico di Galileo dalla tradizione aristotelico-tolemaica, va

tuttavia aggiunto come occorra anche saper leggere questo

suo straordinario percorso biografico – che gli consentirà di

dar vita alla scienza moderna – indipendentemente dalla que-

stione fattuale di poter individuare, con precisione, il momento

in cui Galileo ha abbandonato l’impostazione tradizionale.

Se infatti ci si sgancia da questa preoccupazione, prevalen-

temente storico-biografica, e si affronta, invece, il problema

del confronto teorico-critico tra la tradizione aristotelico-to-

lemaica e quella copernicano-gelileista, si può allora guada-

gnare un ben differente punto di vista prospettico ed erme-

neutico. Da questo punto di vista diventa infatti più impor-

tante mettere in tensione critica due differenti ed alternati-

vi modi di pensare i quali qualificano, al contempo, il con-

fronto, lo scontro e anche i debiti reciproci esistenti tra la tra-

dizione metafisica dell’antichità e quella inaugurata proprio

con la genesi della scienza moderna.

Il problema del cambiamento concettuale in GalileoAllora da questo punto di vista – eminentemente teorico –

l’opera di Galileo assume un significato storico molto più uni-

versale ed emblematico. Anzi, da questo punto di vista si può

leggere un suo capolavoro, come il Dialogo sopra i due mas-

simi sistemi del mondo tolemaico e copernicano (1632), come

un testo, invero straordinario, per comprendere e docu-

mentare, analiticamente, il cambiamento concettuale inter-

venuto nella riflessione galileiana. Da questo punto di vista

il classico e immortale dialogo tra l’“ospite” Sagredo e i suoi

due interlocutori, schierati su fronti opposti, quello aristo-

telico-teolemaico di Simplicio e quello galileista-copernichista

di Salviati, va riletto tenendo presente come le due differen-

ti e conflittuali tradizioni di pensiero poste in tensione cri-

tica, fossero, in realtà, due momenti del conflitto concettua-

le interiore che ha aiutato Galileo stesso a chiarirsi le idee e

A. Cellario, Atlas coelestis seu armonia macrocosmica,Amsterdam 1661. Tav. 1. Planisphaerium Ptolemaicum.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI34

STUDI

lo ha infine indotto a trasformarsi, da convinto aristotelico-

tolemaico, in un convinto copernichista-galileista. Le idee non

nascono mai nella testa (neppure in quella di Galileo) come

Minerva nella mente di Giove: occorre pertanto seguire tut-

te le movenze concettuali con le quali il paradigma della tra-

dizione aristotelico-tolemaica è stato progressivamente mes-

so in crisi dall’emergere di una nuova prospettiva, altrettan-

to paradigmatica, quella copernicano-galileista. Ma se si leg-

ge allora l’opera galileiana da questo innovativo punto di vi-

sta, i suoi dialoghi e le sue stesse movenze concettuali docu-

mentato, in primo luogo, la riflessione, i dubbi, le obiezioni

e le contro-obiezioni che lo stesso Galileo ha sviluppato en-

tro la sua riflessione che lo ha infine indotto a mutare la sua

concezione astronomica e fisica. Insomma, da questo pun-

to di vista il Dialogo si trasforma in un documento veramente

straordinario perché è in grado di prospettarci tutte le do-

mande e tutte le inquietudini concettuali attraverso le qua-

li lo stesso Galileo è passato, non senza difficoltà, maturan-

do, infine, la decisione di abbandonare la tradizione entro la

quale si era formato, per abbracciare un diverso e rivoluzio-

nario punto di vista. Per questa ragione si può allora legge-

re il Dialogo tenendo presente come le obiezioni di Simpli-

cio e le contro-repliche di Salviati siano state, in prima bat-

tuta, le obiezioni e le contro-repliche che lo stesso Galileo ha

maturato nella sua autonoma riflessione a proposito dei due

diversi sistemi astronomici che, pure, implicavano la condi-

visione di due differenti ed alternativi paradigmi fisici,

come poi ben emergerà dal capolavoro scientifico di Galileo

quei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuo-

ve scienze (1638), pubblicati anonimi, nei paesi bassi (terra

di filosofica libertà), da Elzevier, quando lo scienziato pisa-

no aveva alle spalle la clamorosa sconfitta del suo ambizio-

so programma culturale di rinnovamento e, oramai cieco, det-

tava il suo autentico capolavoro scientifico dal carcere inflittogli

dall’inquisizione. Infatti, per dirla con John Milton del-

l’Areopagitica, «il famoso Galileo, ormai vecchio [era] dive-

nuto prigioniero dell’Inquisizione, perché aveva pensato, in

astronomia, diversamente da come pensavano i suoi censo-

ri francescani e domenicani». In questa specifica chiave er-

meneutica il Dialogo può allora essere letto come la “storia

di un’anima”, appunto quella di Galileo che da aristotelico-

tolemaico si è trasformato in un copernichista-gaileista, pro-

prio perché le domande, i dubbi e le obiezioni di Simplicio

sono stati, in primo luogo, le domande, i dubbi e le obiezio-

ni che lo stesso Galileo ha motivatamente sollevato nei con-

fronti del sistema copernicano nel momento stesso in cui pure

percepiva le insufficienze del sistema tolemaico.

L’obiezione aristotelica all’uso della matematicaDa questo punto di vista assume allora un significato affat-

to particolare soprattutto una pagina del Dialogo che, per vari

motivi, è invece rimasta, assai curiosamente, poco conside-

rata all’interno del dibattito storiografico consacrato a Ga-

lileo e alla sua opera. Infatti, nel corso del “dialogo secondo”

ad un certo punto Simplicio solleva una domanda cruciale,

attinente la possibilità di conoscere il mondo fisico attraverso

l’utilizzo sistematico della matematica. Galileo, come si è ac-

cennato, non aveva dubbi sull’importanza strumentale del-

la matematica onde meglio conoscere il mondo nei suoi stes-

si dettagli tecnici, come aveva appreso sia dalla lezione di Ric-

ci, sia dalla meditazione delle opere di Archimede, come an-

che dalla pratica del sapere tecnico promossa e variamente

trasmessa, soprattutto per via orale, dagli artigiani nei loro

laboratori rinascimentali. Ma proprio su questo punto – in-

vero decisivo per la scienza moderna – Simplicio solleva un

problema di cruciale importanza. Rifacendosi infatti alla tra-

dizione aristotelica Simplicio contesta la possibilità stessa di

poter conoscere il mondo fisico utilizzando la matematica.

Infatti, osserva con acutezza Simplicio, le verità della geometria

(come anche quelle della matematica) sono profondamen-

te diverse dalle conoscenze che noi possiamo acquisire dal-

l’esperienza diretta del mondo. Così, rileva Simplicio, se si con-

sidera il problema specifico del rapporto che si può instau-

A. Cellario, Atlas coelestis seu armonia macrocosmica,Amsterdam 1661. Tav. 5. Scenographia Systematis

Copernicani.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 35

STUDI

rare – geometricamente parlando – tra una sfera perfetta ap-

poggiata su un piano perfetto, la risposta geometrica non pare

dubbia, perché la sfera e il piano si toccheranno in uno e in

un sol punto. Tuttavia, quando dalle astrazioni della geome-

tria si scende sul terreno del mondo effettivo, tutto cambia,

perché se prenderemo in considerazione una sfera di legno

appoggiata su un piano di legno, per quanto questi oggetti

siano stati costruiti entrambi da un abile artigiano, tuttavia

la sfera di legno toccherà il piano non in un punto, ma in più

punti. Pertanto, conclude, Simplicio, non si può applicare la

matematica per conoscere il modo fisico, giacché la matematica

ci fa solo conoscere un’astrazione del mondo, quella congruente

con le figure perfette di cui si occupa la geometria, ma, ne-

cessariamente, ci fa invece perdere di vista l’infinita ricchez-

za e l’infinita complicanza del mondo fisico effettivo e rea-

le. Insomma, il mondo costruito dalla fisica-matematica è un

mondo chimerico che coglie solo un aspetto, del tutto par-

ziale e astratto, del mondo reale e fisico, facendoci perdere di

vista l’infinita ricchezza dell’esperienza.

La risposta di Galileo: lo scienziato quale «filosofo geometra»Per rispondere a questa decisiva obiezione aristotelica Gali-

leo ricorre ad una duplice mossa. In primo luogo riassume

l’obiezione di Simplico e fornisce una risposta meramente in-

terlocutoria poiché lo scienziato pisano scrive: «adunque, tut-

tavolta che in concreto voi applicate una sfera materiale a un

piano materiale, voi applicate una sfera non perfetta a un pia-

no non perfetto; e questi dite che non si toccano in un pun-

to. Ma io vi dico che anco in astratto una sfera immateriale,

che non sia sfera perfetta, può toccare un piano immateria-

le, che non sia piano perfetto, non in un punto, ma con par-

te della superficie; talché sin qui quello che accade in concreto,

accade nell’istesso modo in astratto: e sarebbe ben nuova cosa

che i computi e le ragioni fatte in numeri astratti, non ri-

spondessero poi alle monete d’oro e d’argento e alle mercanzie

in concreto». Ma con questa prima risposta Galileo sa be-

nissimo che non ha affatto risposto all’obiezione di Simpli-

cio. Si è limitato, semmai, a “prendere tempo”, perché ha ri-

sposto dicendo che si può sempre costruire una teoria

astratta che rende ragione – in modo mimetico – di quanto

succede nel mondo reale: una sfera impefetta toccherà un pia-

no imperfetto in più punti, con la conseguenza che quello che

si afferma nel mondo dell’astrazione corrisponde, mimeti-

camente, a quanto accade nel mondo reale. Ma Galileo sa bene

che questa non è la vera risposta all’obiezione di Simplicio.

Ecco allora che subito dopo, con una “zampata da leone”, avan-

za la sua vera e rivoluzionaria risposta: «Ma sapete, Signor Sim-

plico, quel che accade? Sì come a voler che i calcoli tornino

sopra i zuccheri, le sete e le lane, bisogna che il computista

faccia le sue tare di casse, invoglie ed altre bagaglie, così, quan-

do il filosofo geometra vuol riconoscere in concreto gli effetti

dimostrati in astratto, bisogna che difalchi gli impedimenti

della materia; che se ciò saprà fare, io vi assicuro che le cose

si riscontreranno non meno aggiustatamene che i computi

aritmetici. Gli errori dunque non consistono né nell’astrat-

to né nel concreto, né nella geometria o nella fisica, ma nel

calcolatore, che non sa fare i conti giusti».

Ma come deve allora operare lo scienziato – ovvero il «filo-

sofo geometra» galileista? Deve operare, scrive ancora Gali-

leo, sapendo «riconoscere in concreto gli effetti dimostrati in

astratto». Ovvero per Galileo la scienza fisica non scaturisce

affatto da un’astrazione idealizzante del mondo sperimenta-

le, ma nasce, invece, da una supposizione, un’ipotesi teori-

ca, dalla quale occorre poi dedurre, in modo affatto rigoro-

so, tutte le conseguenze logiche e per farlo occorre avvaler-

si della matematica che offre gli strumenti più rigorosi (le «cer-

te dimostrazioni») per mettere capo a deduzioni affidabili.

Ma una volta operate queste «certe dimostrazioni», occorre

poi anche sapersi confrontare con la realtà sperimentale «di-

falcando gli impedimenti della materia», ovvero sapendo sem-

pre leggere i risultati sperimentali – sollecitati, opportuna-

mente, con apposite prove tecnico-sperimentali – alla luce del

proprio specifico paradigma teorico. Insomma, per Galileo,

A. Cellario, Atlas coelestis seu armonia macrocosmica,Amsterdam 1661. Tav. 13. Situs terrae circulis coelestibuscircumdatae.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI36

STUDI

a differenza di tutta la tradizione empirista (e anche a diffe-

renza dello stesso Francis Bacon) – la conoscenza non nasce

mai da una generalizzazione empirica dell’esperienza basa-

ta sui quinque sensibus: al contrario, per Galileo la conoscenza

scaturisce sempre da una idea, da una proposta teorica, da una

supposizione di cui portiamo tutta la responsabilità. Parten-

do da questa idea, da questa ipotesi, da questa supposizione,

occorre poi costruire una teoria che sia in grado di «difalca-

re gli impedimenti della materia», che sia cioè in grado di rein-

terpretare il reale sperimentale alla luce del suo paradigma

teorico e anche alla luce dei risultati degli esperimenti. Risultati

sperimentali per il cui tramite il mondo seleziona le nostre

teorie, dicendoci se queste ultime sono effettivamente in gra-

do di cogliere, o meno, con verità, alcuni aspetti del mondo

fisico. Per questo motivo per Galileo la strategia complessi-

va della scienza moderna è molto articolata e si muove nel-

la specifica tensione critica che sappiamo costruire entro le

due differenti ed opposte polarità delle «certe dimostrazio-

ni» e delle «sensate esperienze», sapendo utilizzare sia la me-

diazione della matematica (ad un triplice livello: nel saper sce-

gliere le ipotesi teoriche dalle quali partire per costruire una

teoria; nel saper svolgere deduzioni rigorose partendo da quel-

le premesse astratte; dal saper matematizzare adeguata-

mente in risultati e le stesse prove sperimentali), sia quella del-

la tecnica che ci consente di costruire apparati specifici per

il cui tramite possiamo potenziare i nostri sensi e costringe-

re la natura a rispondere alle nostre peculiari domande teo-

riche (per un approfondimento di queste tematiche sia co-

munque lecito rinviare alla mia monografia Galileo «filoso-

fo geometra», Rusconi, Milano 1994, consacrata alla disami-

na di questo aspetto decisivo dell’opera galileiana).

Il problema delle morfologieTuttavia, con questa sua articolata risposta Galileo sa anche

di non aver completamente risposto all’obiezione di Simplicio.

Simplicio, infatti, da bravo aristotelico, pone il problema del-

lo studio e della possibile conoscenza delle morfologie del mon-

do fisico. Ma di fronte a questa esigenza conoscitiva, Galileo

si rende ben conto di non poter disporre di una matemati-

ca sufficientemente potente per poter studiare la morfologia

del mondo fisico che risulta esser infinitamente ricca. Per que-

sta ragione, come già aveva sostenuto ne Il Saggiatore (1623)

ricorre alla tradizionale distinzione lockiana – sia pur rein-

terpretata in chiave eminentemente operativa – tra “qualità

primarie” (matematizzabili) e “qualità secondarie” (non

matematizzabili, connesse alla nostra soggettività empirica).

Tuttavia, introducendo, sia pur sul piano eminentemente ope-

rativo, questa tradizionale distinzione, Galileo paga un prez-

zo non banale, perché è costretto a ridurre la conoscenza del-

la fisica-matematica solo ed unicamente a quanto è mate-

matizzabile, e, in tal modo, deve allora rinunciare alla co-

noscenza delle morfologie del mondo. Il che costituisce ap-

punto – da Simplicio ad Heidegger incluso – il rimprovero tra-

dizionale che viene costantemente rivolto alla scienza moderna,

ovvero quello di impoverire eccessivamente il mondo tra-

scurando proprio tutta quella infinita gamma di aspetti che

ne costituiscono, in ultima analisi, la ricchezza e la meravi-

glia. Galileo, tuttavia, pur essendo ben consapevole di que-

sto limite della sua risposta, decide che questo è un prezzo che

può e deve comunque pagare, onde avviare un’avventura co-

noscitiva come quella della scienza moderna che, proprio in

virtù delle “ali matematiche” che dona alle nostre ipotesi teo-

riche, potrà far conoscere all’uomo nuovi mondi e nuove re-

altà, pur non essendo in grado di spiegare ancora le complesse

e affascinanti morfologie della realtà. Per questa ragione Ga-

lileo in tutto il Dialogo dichiara sempre – come si legge nel-

la terza giornata – di non poter mai «trovare termine al-

l’ammirazion mia, come abbia possuto in Aristarco e nel Co-

pernico far la ragione tanta violenza al senso, che contro quel-

la ella si sia fatta padrona delle loro credulità».

Fabio MinazziUniversità degli Studi dell’Insubria

A. Cellario, Atlas coelestis seu armonia macrocosmica,Amsterdam 1661. Tav. 19. Solis circa orbem terrarum spiralis

revolutio.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 37

STUDI

1. B. Brecht, Vita di Galileo, trad. it. di E. Castellani, Einaudi, Torino 1954, pp. 92-93.2. G. De Santillana asserisce che l’interdizione del 1616 sia stata, a inizio del processo,inventata ad arte per rendere la posizione di Galileo ancor più spiacevole. Cfr. G. DeSantillana, The crime of Galileo, UCP, Chicago 1955, pp. 261-275. 3. Cfr. A. Banfi, Galileo Galilei, Ambrosiana, Milano 1949; L. Geymonat, Galileo Galilei,Einaudi, Torino 1957. Si veda, ancora di Geymonat, anche Per Galileo. Attualità del ra-zionalismo, a cura di M. Quaranta, Bertani, Verona 1981, che contiene il capitolo Gali-leo: un precursore dell’Illuminismo, alle pp. 173-179.4. A. Banfi, La situazione attuale della scuola italiana, in Id., Scritti e discorsi politici – I.Scuola e società, a cura di A. Burgio, Istituto Antonio Banfi, Reggio nell’Emilia, Foto-composizione monograf, Bologna 1987, p. 57.5. G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, a cura diA. Carugo e L. Geymonat, Boringhieri, Torino 1958, p. 13; D. Diderot, Prospectus, in L’En-cyclopédie di Diderot e d’Alembert, scelta a cura di K.-H. Manegold, trad. it. di G. P. Pa-nini, EdiCart, Legnano 1983, p. 296. Sul valore schiettamente filosofico delle tecnichecfr. F. Minazzi, L’Enciclopedia e il valore filosofico delle arti meccaniche in Id., Teleologiadella conoscenza ed escatologia della speranza. Per un nuovo illuminismo critico, La Cittàdel Sole, Napoli 2004, pp. 187-214.

Sul processo a GalileoBrigida Bonghi

«Lo dice il primo libro della Genesi: / quando Domineddio

fece il creato / creò prima la terra e dopo il sole / e al sole

comandò: “Girale intorno!” / E da quel giorno tutto ciò

che vive / quaggiù deve girare in girotondo. / Intorno al Papa

i cardinali / e intorno ai cardinali i vescovi / e intorno ai ve-

scovi gli abati / e poi vengono i nobili. / E intorno a questi

gli artigiani / e intorno agli artigiani i servi / e intorno ai ser-

vi i cani, i polli e i mendicanti»1. È quanto, nella Vita di Ga-

lileo, il drammaturgo tedesco Bertolt Brecht fa recitare al can-

tastorie, il martedì grasso del 1632, in una città d’Italia. Sono

passati dieci anni dalla pubblicazione de Il Saggiatore. Gali-

leo ha, in esso, manifestato finezza di scienziato sperimentatore,

indomita temerarietà di riformatore culturale. Illuso e per-

sino invitato dall’ostentata apertura di Urbano VIII, lo

scienziato pisano ha appena pubblicato il suo Dialogo. Tra po-

chi mesi pronuncerà la sua abiura. Già nel 1616, tuttavia, Ga-

lileo è stato interdetto – così, almeno, si dice2 – dalla discus-

sione della dannata opinione copernicana.

Due straordinari protagonisti del razionalismo critico ita-

liano come Antonio Banfi e Ludovico Geymonat hanno os-

servato nella parabola dello scienziato pisano un’anticipa-

zione dell’illuminismo. Ambedue autori di una monogra-

fia su Galileo3 – per entrambi “provocata” da un’istanza per-

sonalissima – questi padri della nostra tradizione hanno re-

cepito nell’opera galileiana, con un senso, per ciascuno, di-

verso delle priorità e delle persuasioni, un autentico pro-

gramma politico-culturale, teso a costruire il proprio mon-

do attraverso la tecnica e a conoscerlo attraverso la scien-

za. L’epoca moderna nasce con Galileo, con Galileo si apre

un illuminismo anticipatore di un senso della ragione in-

tersoggettivo, sociale, significativo di una civiltà: «con Ga-

lileo, l’uomo si è sentito gettato nel mondo a costruire il pro-

prio mondo, a conoscerlo per mezzo della scienza – espe-

rienza e ragione – che penetra la realtà, a costruirlo per mez-

zo della tecnica che umanizza il reale. E si è riconosciuto il

valore etico del lavoro che affratellava gli uomini in questa

creazione di una civiltà nuova»4.

Il processo a Galileo si presenta come processo alla moder-

nità: processo ad una idea di ragione che si situi sull’orizzonte

completo dell’umanità; processo alla destinazione della

scienza, alla quale Galileo ha fornito, inesorabilmente, un ap-

porto di autonomia teoretica dalla credenze e dalle autori-

tà; processo al ruolo politico e culturale della conoscenza e

della scienza; processo, infine, al lavoro come strumento di

conoscenza ed emancipazione. Il processo a Galileo si presenta,

si è visto, come processo – del tutto riuscito o del tutto fal-

lito? – al futuro programma dell’Encyclopédie di Diderot e

d’Alembert. Basti confrontare la pagina preclara dei Discor-

si e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, che

si completa nel Prospectus diderotiano. Galileo lascia dire a

Salviati: «Largo campo di filosofare a gl’intelletti specolati-

vi parmi che porga la frequente pratica del famoso arsenale

di voi, Signori Veneziani, ed in particolare in quella parte che

mecanica si domanda; atteso che quivi ogni sorte di strumento

e di machina vien continuamente posta da numero grande

d’artefici, tra i quali, e per l’osservazioni fatte dai loro ante-

cessori, e per quelle che di propria avvertenza vanno conti-

nuamente per se stessi facendo, è forza che ve ne siano de i

peritissimi e di finissimo discorso». Ed ecco Diderot: «que-

st’opera […] illustrerà i principi delle cose, […] ne indiche-

rà i rapporti; […] contribuirà alla certezza e al progresso del-

le conoscenze umane; e […] moltiplicando il numero dei veri

dotti, degli artigiani sicuri e degli amatori illuminati, potrà

riversare nuovi benefici sulla società»5.

Non è un caso che tutto precipiti con la pubblicazione, pres-

so la Tipografia dei Tre Pesci, il 21 febbraio del 1632 – dopo

due anni dal completamento dell’opera – del Dialogo sopra i

due massimi sistemi. Se l’incriminazione dei teologi del San-

t’Uffizio (Agostino Oregio, Melchior Inchofer e Zaccaria Pa-

squaligo) ruotava intorno al copernicanesimo dell’opera, su

ben altro si concentrano le ragioni del rivolgimento dell’an-

tico amico, il papa Urbano VIII, contro Galileo. E di tutta la

schiera di delatori, esaminatori, gesuiti coinvolti nel proces-

so a Galileo. Non è solo lo stile retorico, la beffa dell’interlo-

cutore. Non è solo il copernicanesimo. Si tratta della «sovversion

di tutta la filosofia naturale, [del] disordinare e mettere in con-

quasso il cielo, la terra e tutto l’universo»6. Galileo rivoluzio-

na, programmaticamente, l’ordine filosofico, fisico, astrono-

mico, culturale. Ed è questo programma ad andare a proces-

so. Il processo a Galileo consente di pensare la storia attraverso

un episodio simbolico. Il processo a Galileo consiste in un pro-

cesso alla messa in discussione degli ipse dixit filosofico-scien-

tifici e, di conseguenza, politici e culturali.

Due grandi studiosi di Galileo, Giorgio De Santillana e, an-

cora, Ludovico Geymonat, intendono l’opera messa all’In-

dice come «un libro vivo, […] protagonista storico in pri-

ma persona»7, «un’opera di polemica e di battaglia»8. In esso

si incontrerebbero «l’umanesimo del passato e la scienza del

futuro»9. In esso sarebbe raccontata «la storia dello spirito

di Galileo»10. Quell’opera di fisica, di astronomia, di filoso-

fia – eppure non di fisica, non di astronomia, non di filosofia

– si arroga il ruolo di demolizione delle abitudini, dei pre-

giudizi, del senso comune, a favore della realizzazione di una

rinnovata tendenza al ragionamento. Galileo rivendica per

sé la possibilità di insegnare a pensare, instillando nel suo let-

tore il dubbio nei confronti dell’autorità. Nella prospettiva

di Geymonat, l’opera che subisce il processo è da interpre-

tare, più che come un’opera scientifica, come un trattato pe-

dagogico-filosofico. Il più grande filosofo della scienza ita-

liano si spinge a definire il Dialogo: «più come un manife-

sto diretto a rinnovare la cultura, che non come un tratta-

to scientifico operante entro la cultura già rinnovata».

Con il Dialogo e con Galileo va dunque a processo la scoperta

della mancata ineluttabilità di certe condizioni: Galileo co-

6. G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano, acura di Libero Sosio, Einaudi, Torino 1984, p. 47.7. G. De Santillana, Galileo e la sua sorte, in Aa. Vv., Fortuna di Galileo, Laterza, Bari 1964,p. 5.8. L. Geymonat, Galileo Galilei, op. cit., p. 165.9. G. De Santillana, Galileo e la sua sorte, op. cit., p. 5.10. L. Geymonat, Galileo Galilei, cit., p. 165. La cit. che segue nel testo è tratta da p. 166.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI38

STUDI

Galileo prigionieronel palazzo

dell’Arcivescovadodi Siena (stampa

del 1867).

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 39

STUDI

munica che non è inesorabile la prospettiva aristotelico-cat-

tolica della povertà come occasione per la carità; non è ine-

sorabile il disprezzo del lavoro non intellettuale; non lo è il

privilegio delle corporazioni. Galileo osa avvertire – e non lo

fa in latino! – che il mantenimento delle condizioni attuali

della scienza, della teologia, dello stato sociale non è un’ope-

razione irrimediabile: «Galileo pensava di aver trovato la for-

mula per salvaguardare la libertà di ricerca dello scienziato

dall’ingerenza teologica, convinto che tale formula avrebbe

giovato non solo alla società, ma anche al cattolicesimo e al-

l’Italia»11. Il 12 aprile del 1633 ha inizio il processo a Galileo.

Quattro interrogatori in tutto, sino alla sentenza e all’abiu-

ra formale del 22 giugno. Viene disposta, oltre all’incarcera-

zione dello scienziato – commutata in arresti domiciliari –

la consegna all’inquisizione locale di ogni copia del Dialogo.

Tuttavia, è proprio la disposizione a provocare l’effetto con-

trario. Mathias Bernegger traduce l’opera in latino. La lingua

dei dotti si è fatta arma di diffusione.

Il processo a Galileo resiste, in alcuni suoi elementi ancora

oggi. Non passa la condanna, «causa il prevaricare di forze che

ancora pesano sulla nostra società»12. Il programma galile-

iano di trasformare, a vantaggio dell’umanità, l’interrogazione

della natura; di preparare il futuro, senza subirlo; di conquistare

11. L. Bulferetti, Galileo e la società del suo tempo, in AA.VV., Fortuna di Galileo, op. cit.,p. 145. Per un’ampia disamina della questione del lavoro e della tecnica in Galileo cfr.F. Minazzi, Galileo “filosofo geometra”, Rusconi, Milano 1992, in particolare il capitolo Ilvalore e il significato della tecnica nella scienza galileiana, pp. 273-312, che si chiudecon la seguente osservazione: «Galileo si rivolge al lavoro umano e alla capacità chel’uomo possiede di rimuovere, sia pure in parte finita, la “profonda e densa caligine”che ci vela il mondo per creare le premesse storiche più salde e durature (di una sto-ria però che coincide tendenzialmente con la storia del lavoro) di un progressivo edinarrestabile sviluppo della scienza e della tecnica» (p. 312).12. L. Bulferetti, Galileo e la società del suo tempo, cit., p. 161.

il sapere e difenderlo da inevitabili involuzioni: nulla è rea-

lizzato, tutto è ancora da difendere attraverso un vibrante col-

legamento di scienza e società civile, per lo sviluppo della ci-

viltà e la vittoria, mai definitiva, della ragione. Il program-

ma di Galileo non è stato ucciso dalla condanna, ma occor-

re per esso vigilare. È ciò che intese lo scienziato pisano, scri-

vendo a frate Micanzio il 30 gennaio del 1638: «nelle mie te-

nebre vo’ fantasticando a sopra a questo a sopra quello effetto

di natura, né posso, come vorrei, dar quiete al mio inquieto

cervello, agitazione che molto mi nuoce, tenendomi poco

meno che in perpetua vigilia».

Brigida BonghiUniversità del Salento

F. Goya, Il tribunale dell’Inquisizione (1812-1819), Madrid, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI40

STUDI

1. I Discorsi fanno parte del vol. VIII dell’Edizione Nazionale delle Opere di Galileo Ga-lilei, pubblicate presso l’editore Barbera di Firenze (1890-1907) e curate da A. Favaro,in diciannove volumi. A cura di S. Timpanaro le Opere, Rizzoli, Milano 1938, 2 voll. e diF. Brunetti, Opere, Utet 1980, 2 voll., ristampato per Mondadori 2008. I Discorsi sono com-mentati da A. Carugo e L. Geymonat, Boringhieri, Torino 1958; l’edizione Utet ne riportala traduzione dei passi latini. Da ricordare l’utile edizione elettronica on line dell’Ope-ra Omnia di Galileo.2. A. Banfi, Galileo Galilei, Ambrosiana, Milano 1949; L. Geymonat, Galileo Galilei, Einaudi,Torino 1957, V ed. 1969; P. Odifreddi, Hai vinto Galileo!, Mondadori, Milano 2009; G. Pre-ti, Storia del pensiero scientifico, Mondadori, Milano 1957; P. Rossi, La nascita della scien-za moderna in Europa, Laterza, Bari 1997; B. Russell, The Scientific Outlook, 1931, tr it. diE.A.G. Oliva riveduta da M. Mamiani, Laterza, 1988, La visione scientifica del mondo; E.Segré, Personaggi e scoperte della fisica classica, Mondadori, Milano 1983, F. Minazzi, Ga-lileo «filosofo geometra», Rusconi, Milano 1994, E. Bellone, Galileo, Le Scienze, Roma 2013.

Le due nuove scienze di GalileoPaolo Giannitrapani

Il titolo dell’opera, non scelto da Galileo ma editoriale, è,

esattamente, Discorsi e dimostrazioni matematiche intor-

no a due nuove scienze attinenti alla mecanica e i movimenti

locali. Non piacque a Galileo che lo giudicò “plebeo”. È la se-

conda grande opera di Galileo ma la più importante per la

scienza moderna. Illustra i principi scientifici della fisica, del-

la statica e dinamica del movimento, della scienza delle co-

struzioni. I Discorsi pur collegandosi a studi appartenenti a

fasi anteriori, è l’opera della vecchiaia di Galileo, il suo te-

stamento scientifico, un’opera che si inscrive in un periodo

preciso della vita di Galileo, quello posteriore alla data fon-

damentale della sentenza del Sant’Uffizio del 22 giugno 1633

con cui si cercava di far tacere, per sempre, la sua voce, è la

fase della carcerazione (poi trasformata in arresti domicilia-

ri) in Arcetri, della morte della diletta figlia Maria Celeste, del-

la cecità, della volontà di ritornare alla “scienza pura”, alla fi-

sica; sono gli anni dell’isolamento ma anche della presenza

assidua di allievi come Bonaventura Cavalieri, Tiberio Spi-

nola, e, giovanissimi, Vincenzo Viviani, ed Evangelista Tor-

ricelli, l’inventore del barometro. Galileo ha 74 anni quan-

do l’opera è pubblicata, anonima, nella libera Olanda, nel 1638,

permanendo per Galileo il divieto di pubblicare le sue ope-

re. Galileo torna così alla fisica del periodo pisano e padovano

dopo gli interessi per l’astronomia che tanto lo avevano te-

nuto occupato a partire dalle sue osservazioni con il suo «oc-

chiale» durante il fatidico autunno del 1609.

Letteratura su GalileoSconfinata la letteratura su Galileo, sui suoi progressi com-

piuti in astronomia e fisica, sulle implicazioni scientifiche, epi-

stemologiche e filosofiche delle osservazioni, deduzioni,

teorie, opinioni espresse in vario modo nelle sue opere. L’in-

teresse per Galileo non si è mai sopito nel nostro secolo. Pres-

soché impossibile fornire anche un rapido ragguaglio bi-

bliografico. Ricordiamo l’edizione italiana dell’opera omnia

e alcune edizioni notevoli dei Discorsi1. Vale però la pena di

segnalare alcuni autori che si sono occupati di lui in tempi

non remoti e che tuttora possono costituire interessanti vi-

sioni d’insieme, introduzioni, se non interpretazioni notevoli

o financo aggiornamenti, ad es. in ordine alla posizione del-

la Chiesa al tempo d’oggi sul caso Galileo. Si tratta di vari stu-

diosi come Antonio Banfi, Ludovico Geymonat, Piergiorgio

Odifreddi, Giulio Preti, Paolo Rossi, Bertrand Russell, Emi-

lio Segré, Fabio Minazzi ed Enrico Bellone2, autori che ri-

chiameremo anche in relazione ai Discorsi.

Va notato che, presso coloro che si occupano di Galileo, il

progresso attuato dal pisano come fondatore del metodo

sperimentale su base matematica e le innovazioni eccezionali

da lui compiute in fisica (come testimoniano appunto i Di-

scorsi), più che non in astronomia, non vengono general-

mente disgiunte dal resoconto delle vicissitudini relative al

processo del 1633. Inoltre va anche osservato che il desti-

no che toccò in sorte ai Discorsi fu quello di finir con l’es-

sere oscurato dai Dialoghi, nonostante sia la maggior

opera scientifica di Galileo, probabilmente non capita da-

gli inquisitori dell’epoca, come suggerice Timpanaro. Fu solo

nel Novecento che si tornò a parlare più dei Discorsi che dei

Dialoghi.

I Discorsi come opera letterariaIl volume ha la struttura narrativa di dialogo; il riferimento

alla letteratura può sembrare non pertinente, ma Galileo, il

padre della scienza moderna, era anche un fine conoscitore

della letteratura, di Dante, Ariosto, Tasso, aspetto che fa si-

curamente riflettere ancora oggi in merito al problema del-

la complementarità tra le cosiddettte due culture. Si occupò

della Divina Commedia con un curioso opuscolo sulle misure

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 41

STUDI

dell’Inferno3; può essere considerato anche uno scrittore. Se-

condo il giudizio di Calvino «il più grande scrittore della let-

terayura italiana di ogni secolo», ammirato da Leopardi4 e,

secondo un Premio Nobel per la fisica del 1959 (imparziale

per cose di letteratura) come Emilio Segrè5 «il più grande pro-

satore italiano tra Machiavelli e Manzoni, un periodo di quat-

trocento anni», che aggiunge: «le sue capacità letterarie fecero

di lui uno dei più grandi divulgatori della scienza». «In altre

parole, Galileo sarebbe il medio proporzionale fra l’Ariosto

e il Leopardi e i tre si situerebbero su un’ideale linea di for-

za della nostra letteratura»6.

I discorsi-dialogo hanno come interlocutori gli stessi perso-

naggi che compaiono nel Dialogo sopra i due massimi siste-

mi del mondo vale a dire Filippo Salviati, esistito realmente,

nobile fiorentino, amico di Galileo, morto a soli trentadue anni,

membro dell’Accademia dei Lincei e accademico della Cru-

sca, cui è affidato il compito di esporre le idee di Galileo stes-

so; anche reale amico di Galileo fu Giovan Francesco Sagre-

do, patrizio veneziano, il quale sotto la guida di Galileo, pur

senza trascurare i suoi obblighi verso la Serenissima, costruì

termometri e cannocchiali. Nel dialogo rappresenta l’elemento

di intelligente moderazione tra il copernicanesimo e il tole-

maicismo; figura immaginaria è, invece, Simplicio, il nome

chiaramente evoca il filosofo Simplicio, bizantino, vissuto al-

l’epoca di Giustiniano7, commentatore di Aristotele. In effetti,

anche nei Dialoghi, Simplicio rappresenta la mentalità ari-

stotelica e la concezione di Tolomeo.

I Discorsi, secondo l’uso del tempo, sono preceduti dalla de-

dica: «Allo illustrissimo Signore il signore di Conte di Noal-

les». Si tratta di Filippo di Noailles, ambasciatore del Re di

Francia presso il papa nel 1634, devoto amico di Galileo, da

quest’ultimo conosciuto durante il periodo padovano. Ave-

va tentato di intercedere presso la autorità di Roma a vantaggio

di Galileo. Nella dedica Galileo mostrandosi affettuosissimo

amico del conte, ricorda di avergli presentato copie dei Di-

scorsi sicuro che le avrebbe «partecipate a qualche amico suo

in Francia perito di scienza». Galileo allude alle peripezie del-

la pubblicazione, in realtà il manoscritto, penetrato clande-

stinamente a Venezia e poi affidato agli olandesi, sarà pub-

blicato a Leida, presso gli Elzeviri, nel 1638.

I contenuti Ma di che si occupano esattamente i Discorsi e quali sono que-

ste due nuove scienze già promesse dall’editore nel titolo? Sono

la statica e la dinamica; in quest’opera ci si occupa del moto,

siamo dunque nel campo della fisica e non più dell’astrono-

mia. Quest’opera scientifica ha una gestazione lunghissima

e si può far risalire alle opere giovanili De motu e Mecaniche

(1593). Tutti i problemi della fisica galileiana fanno capo al

periodo 1600-1610 (Paolo Rossi). Secondo Timpanaro an-

che trattando del moto Galileo ha sempre in mente l’oppo-

sizione ad Aristotele e Tolomeo tipica dei Dialoghi, pertan-

to questi Discorsi andrebbero pur sempre definiti copernica-

ni. L’opera si apre, dopo la dedica, con la prefazione de Lo stam-

patore a i lettori: in cui è esposta l’etica sottostante alle arti e

alle scienzie (che incontrano nel loro cammino la necessità

di respingere le false dottrine e che sono incessantemente per-

fettibili), vale a dire «il mutuo e vicendevole soccorso de gli

uomini gli uni verso gli altri».

Le prime due giornate sono articolate come un vero e pro-

prio dialogo e trattano di problemi di resistenza dei materiali,

ivi comprese le leggi di similitudine e i modelli. Si tratta del-

la prima nuova scienza (statica), scienza delle costruzioni, ric-

ca, inoltre, di digressioni su una serie di argomenti come: la

coesione nei solidi e nell’acqua, la natura del vuoto, le pom-

pe, le oscillazioni del pendolo, disquisizioni matematiche su

3. Due lezioni circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante, 1588. Lo scritto nonsi trova nell’edizione italiana Utet. Galileo mostra la sua propensione per le misure, igno-rando l’etica, nel suo trattatello sull’Inferno, così l’incipit: Se è stata cosa difficile e mirabilel’aver potuto … misurare … i moti e le loro posizioni, le grandezze delle stelle … i siti delleterre e dei mari … quanto più maravigliosa dobbiamo noi stimare la descrizione del sitoe figura dell’inferno il quale è da nessuno per niuna esperienza conosciuto dove se beneè facile il discendere è però tanto difficile uscirne.4. Vedere voce Galileo Galilei in G. Leopardi, Zibaldone, edizione integrale diretta daL. Felici, Newton & Compton editori, Roma 1997, II ed. 2001, p. 1111. 5. E. Segrè, op. cit., p. 49.6. P. Odifreddi, op. cit., p. 99., che menziona anche il giudizio di I. Calvino.7. Simplicio appartenente all’epoca “medievale” secondo il commento dell’edizioneUtet, ripubblicata da Mondadori.

Frontespizio del Dialogo di Galileo (Firenze 1632).

42

STUDI

ciò che noi oggi chiamiamo analisi infinitesimale e teoria de-

gli insiemi (Segrè). Le teorie sulla resistenza dei materiali qui

esposte (ad es. il cilindro offre una resistenza alle fratture cioè

ai pesi posti sulla sommità proporzionale al cubo del diametro

della base) troveranno applicazione nell’ingegneria civile e mi-

litare e nella scienza delle costruzioni.

La terza giornata tratta i problemi del moto uniforme, del

moto naturalmente accellerato e uniformemente accellera-

to (dinamica). Essa si apre con queste parole:

Diamo avvio a una nuovissima scienza intorno a un soggetto an-tico. Nulla v’è, forse, in natura, di più antico del moto e su di essoci son non pochi volumi, né di piccola mole, scritti dai filosofi, tut-tavia tra le sue proprietà ne trova molte che, pur degne di essereconosciute, non sono state mai finora osservate, nonché dimostrate.

Nel corso del dialogo Salviati legge un trattatello in latino sul

moto che si finge esser scritto da un Accademico, si trattta del

De motu locali diviso nelle due parti De motu aequbili e De

motu naturaliter accelerato e, in una terza, il De motu violen-

to seu de proiectis compreso nella quarta giornata. L’ipotesi

sostenuta da Geymonat spiegherebbe il bilinguismo: la par-

te in latino è rivolta ai dotti, mentre il dialogo ai costrutto-

ri, edili, idraulici e militari. I Discorsi si configurebbero come

un manuale per ingegneri. La terza giornata contiene la leg-

ge d’inerzia. «Benché la legge d’inerzia sia perfettamente chia-

ra, essa non viene formalmente asserita come principio. Ciò

ha dato origine a molte discussioni se essa debba essere at-

tribuita a Galileo. Gli esempi e le applicazioni mi sembrano

più importanti di una enunciazione formale ed è evidente che

Galileo la comprese realmente» (Segrè).

La quarta giornata, dedicata alla traiettoria dei proiettili, co-

stituisce uno studio condotto con metodo deduttivo nel sen-

so di partire da ipotesi generali con controllo soltanto suc-

cessivo mediante l’esperienza. Galileo conclude che la tra-

iettoria del proietto è parabolica, con possibilità di gittata mas-

sima se il cannone è inclinato di 45°. Galileo conferma ma-

tematicamente quanto gli era riferito dalle osservazioni e dal-

l’esperienza pratica dei meccanici, in questo caso i bombar-

dieri cui si era rivolto. Il dialogare della quarta giornata si al-

terna con l’esposizione del trattatello Del moto dei proietti. Con

il primo teorema della quarta giornata si afferma che:

Un proietto, mentre si muove di moto composto di un moto orizzontaleequabile e di moto deorsum [verso il basso] naturalmente accelle-rato, descrive nel suo movimento una linea semiparabolica.

La traiettoria di un proiettile è quindi una parabola risultante

dalla combinazione di due movimenti indipendenti e che non

interferiscono l’uno con l’altro: un moto uniforme, in avan-

ti, secondo l’orizzontale (principio d’inerzia) e un moto uni-

formemente accellerato (legge della caduta libera) vero il bas-

so secondo la verticale (Paolo Rossi).

Segue un’appendice Appendix in qua continetur theoremata

eorumque dimonstrationes, quae ab eodem auctore circa cen-

trum gravitatis solidorum olim conscripta fuerunt aggiunta al-

l’edizione del 1638, in realtà opera giovanile, scritta all’età di

ventun’anni. Nella traduzione di Geymonat la sezione si in-

titola Appendice contenente i teoremi e le relative dimostrazioni

intorno al centro di gravità dei solidi, quali furono scritti un tem-

po dal medesimo autore.

Due ulteriori “giornate” furono aggiunte in edizioni poste-

riori. La quinta, pubblicata nel 1774, riguarda la teoria eu-

clidea delle proporzioni, la sesta (1718) affronta il problema

fisico della percossa con la variante che al posto di Simplicio

compare Paolo Aproino, nobile trevisano.

In merito alle cosiddette digressioni che, come diceva Galileo,

possono arrecarci la cognizione di nuove verità, val la pena di

osservare che esse furono feconde di sviluppo. Riportiamo il

seguente schema indicando le problematiche in cui si imbatte

Galileo nei Discorsi e la loro posteriore soluzione:

peso dell’aria - evidenziato da Evangelista Torricelli nel 1644 con ilbarometro

metodo degli indivisibili - culminato nel 1647 con lavoro di Bo-naventura Cavalieri

la velocità della luce - misurata da Ole Rømer nel 1676 usando il sa-tellite Io di Giove

la forma della catenaria - determinata da Johann Bernoulli, Chri-stian Huygens e Gottfried Leibniz nel1691

la coesione dei liquidi - regolata dalla legge enunciata da ThomasYoung nel 1805 e provata da Pierre Si-mon de Laplace nel 1806

la proprietà isoperimetrica del cerchio - dimostrata da JacobSteiner nel 1838

la fisiologia del suono - sistematizzata da Hermann Helmotz nel1862

i paradossi dell’infinito - risolti da Georg Cantor nel 1878

la necessità di misure universali - recepita con il sistema metricodecimale MKS nel 1889

la forza della percossa - formalizzata da Oliver Heaviside nel 1893con la funzione e così via

(fonte: Piergiorgio Odifreddi, Hai vinto Galileo!, cit., pp. 88-89)

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 43

STUDI

La concezione di Aristotele sul motoNella terza e quarta giornata dei Discorsi si parla del moto.

Si inaugura la fisica moderna con le leggi sulla caduta dei gra-

vi e sui vari tipi di movimento, oggi facenti parte di qualsia-

si manuale di fisica. Ora, le concezioni espresse dalla Fisica

di Aristotele hanno costituito l’opinione corrente sul moto per

secoli, fino al sec. XVII e proprio la critica di Galileo ad Ari-

stotele costituisce l’atto di nascita della nuova scienza speri-

mentale. Richiamiamo brevemente le tesi dello Stagirita. Ari-

stotele distingue due tipi di corpi, quelli celesti e quelli su-

blunari o terrestri, i primi immutabili e incorruttibili, com-

posti da una sostanza immateriale detta quinta essenza, i se-

condi, soggetti a corruzione, rappresentano un miscuglio di

quattro elementi o essenze che sono, in accordo con Empe-

docle, Terra, Aria, Acqua e Fuoco. In ogni corpo uno di que-

sti elementi prevale sull’altro, ad es. nei solidi prevale la ter-

ra, ma nei liquidi l’acqua, ecc. Ogni corpo possiede un suo

luogo naturale, ad esempio il luogo naturale dell’aria è il cie-

lo, mentre il luogo naturale della terra si trova nel punto più

basso dell’Universo, a mano a mano che saliamo verso il cie-

lo troviamo il luogo naturale dell’Aria, del Fuoco, ecc. A que-

sto punto entra in gioco l’elemento moto o movimento: ogni

corpo tende a raggiungere il suo luogo naturale, i gravi che

contengono prevalentemente l’elemento Terra tendono ver-

so il centro della Terra. Con che tipo di moto? Con una ve-

locità che è tanto maggiore quanta più Terra essi contengo-

no, ossia quanto maggiore è il loro peso.

Già Stevino (Simone Stevin, 1548-1620) aveva osservato spe-

rimentalmente che i corpi non cadono con velocità propor-

zionale al loro peso e che se si prendono due palle di piom-

bo, una dieci volte più pesante dell’altra, e se si lasciano ca-

dere insieme da trenta piedi, il rumore della caduta a terra si

fonde in un tutt’uno, il corpo più leggero non ha impiegato

a cadere un tempo dieci volte maggiore dell’altro. Con Ste-

vino si sta affermando l’osservazione e l’esperimento so-

prattutto da parte di artigiani, meccanici e ingegneri, tutte espe-

rienze considerate volgari accidenti dal filosofo delle Università

e lontane dalla vera sostanza dei fenomeni. Tuttavia, la tra-

dizione aristotelica subiva allora le prime critiche.

La critica di GalileoCon un esperimento pensato e un ragionamento teorico, espe-

rimento simile a quello di Stevino, ma, forse, mai forse rea-

lizzato, Galileo arriva a concludere nei Discorsi che la velo-

cità di caduta di un grave non dipende dal peso, ma è pro-

porzionale al tempo trascorso. Galieo confuta Aristotele dopo

aver richiamato quanto lo Stagirita dice sulla caduta da cen-

to braccia di una palla di ferro di cento libbre e una di una

libra, osservando però al contrario che elle arrivano allo istes-

so tempo. Il moto di caduta naturale dei gravi è il moto na-

turalmente accellerato secondo la definizione posta da Ga-

lileo (Giornata terza, Del moto naturalmente accellerato, De-

finizione):

Possiamo quindi ammettere la seguente definizione del moto dicui tratteremo. Moto equabilmente, ossia uniformemente ac-cellerato, dico quello che, a partire dalla quiete, in tempi egua-li acquista eguali momenti di velocità.

Con il secondo dei 22 teoremi che, con metodo euclideo, se-

guono la definizione Galileo precisa il legame fra gli spazi per-

corsi e i tempi impiegati:

se un mobile scende, a partire dalla quiete, con moto unifor-memente accellerato, gli spazi percorsi da esso in tempi qualsiasistanno tra di loro in duplicata proporzione dei tempi, cioè stan-no tra di loro come i quadrati dei tempi.

Come è noto oggi la legge oraria del moto uniformemente

accelerato si esprime: s = 1/2 at2. La concezione antica è su-

perata, il moto non dipende dal peso, si introduce la con-

nessione tra velocità, spazio e tempo, lo strumento matematico

e soprattutto la verifica sperimentale; Galileo per ovviare alle

difficoltà presentate dalla caduta verticale studierà il moto ser-

Frontespizio dei Discorsi e dimostrazioni matematicheintorno a due nuove scienze (Leida 1638).

44

STUDI

vendosi di un piano inclinato (in questo caso il grave che scor-

re ha una velocità che è funzione non dell’inclinazione del pia-

no ma della differenza tra l’altezza del punto iniziale e quel-

la del punto finale).

Metodo: matematica, geometria e logicaCon Galileo si inaugura il metodo sperimentale e la fonda-

zione della scienza con l’esperienza sensata e le dimostrazioni.

L’osservazione della natura e lo strumento matematico so-

stituiscono ogni altra forma di dogmatismo o di autorità. Ga-

lileo spesso oscilla tra deduzione e induzione. Riguardo allo

strumento matematico in realtà va precisata la relazione in-

tercorrente in Galileo tra matematica, geometria e logica. Per

Galileo fondamentale è la geometria e non la nascente alge-

bra, come ha opportunamente sottolineato Minazzi nel suo

Galileo «filosofo geometra», mettendo in evidenza l’importanza

anche epistemologica dell’opera galileiana. Certo qui andrebbe

evocato lo status delle conoscenze matematicche nei primi de-

cenni del seicento in Italia con la tradizione euclideo-archi-

medea, gli Elementi tradotti in italiano da Tartaglia nel 1543,

l’algebra italiana etc.; ma per Galileo la geometria è il più po-

tente strumento d’ogni altro per acuir lo ingegno e disporlo al

perfettamente discorrere e specolare, dice nei Discorsi. La fisi-

ca sperimentale dei Discorsi è a base geometrica. Galileo non

considera la matematica teoreticamente ma come strumen-

to. La matematica legata alla tecnica, è la concezione di Ga-

lileo anche nella fase della vecchiaia, per quanto evochi Pla-

tone che voleva i suoi scolari prima ben fondati nelle mate-

matiche. Egli non ebbe interesse per la matematica come scien-

za a sé anche se intravide le problematiche sugli infinitesimi

e i paradossi degli insiemi infiniti. Per questa sua peculiare

attitudine Galileo non rispose mai a Cavalieri che lo solleci-

tava ad un’opera sugli indivisibili. Geymonat nel suo Gali-

leo Galilei ricostruisce attraverso il carteggio intercorso la, di-

rei, drammatica richiesta espressa dal discepolo Cavalieri per-

ché il maestro si decidesse a occuparsi di matematica pura.

Data la valenza della geometria che posto occuperebbe allo-

ra la logica nel metodo galileiano? La logica (ma quale logi-

ca nel 1638?) era verosimilmente quella aristotelica dell’Or-

ganon, Galileo la considera non flessibile per la scoperta, nel-

la seconda giornata dei Discorsi osserva che la logica benché

strumento potentissimo per regolare il nostro discorso non ar-

riva, quanto al destar la mente all’invenzione, all’acutezza del-

la geometria. Questa battuta è espressa da Simplicio che qui

opta per Euclide e non per il sillogismo.

Dopo i DiscorsiSulla natura dei rapporti tra verità e autorità filosofica o scien-

tifica, tra verità e credo religioso, sul caso Galileo e i rapporti

tra ragione e Chiesa cattolica, sul destino della scienza italiana

dopo Galileo si sono versati fiumi di inchiostro e non è que-

sta la sede per ripercorrere le discussioni, gli scontri e le po-

lemiche che ne hanno accompagnato il cammino, dal 1633

ad oggi. I Discorsi costituiscono il manifesto di quella fisica

moderna che in seguito non ebbe però modo di sviluppar-

si; l’attività scientifica in Italia, dopo Galileo, decade, nono-

stante gli ultimi suoi grandi discepoli come Viviani e Torri-

celli e iniziò nel corso del Seicento a venir considerata addi-

rittura sospetta. Mentre l’Accademia del Cimento a Firenze

si scioglieva (1667) nasceva in Inghilterra l’astro della Royal

Society cinque anni, prima della morte della prima.

Morto Galileo l’8 gennaio 1642 alle quattro del mattino, «per

non “scandalizzare i buoni” non si volle che fosse costruito

un augusto e sontuoso deposito per le spoglie mortali di Ga-

lileo. Non era bene scrisse il nipote de pontefice “fabricar mau-

solei al cadavero di colui che è stato penitentiato nel tribu-

nale della Santa Inquisitione ed è morto mentre durava la pe-

nitenza”» (P. Rossi).

Paolo GiannitrapaniCentro Internazionale Insubrico “C. Cattaneo” e “G. Preti”C. Flammarion, L’astronomia popolare (1885).

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 45

STUDI

Galileo e il valore culturale della tecnicaFabio Minazzi

Galileo contro tutta la tradizione occidentaleNell’ambito della tradizione occidentale Galileo è stato uno

dei pochissimi autori che ha sempre difeso e sottolineato il

pieno valore culturale della tecnica e del lavoro (anche di quel-

lo meccanico). Al contrario, come è ben noto, la posizione ege-

mone nella tradizione occidentale ha invece sempre consi-

derato l’ambito lavorativo (incluso quello “meccanico”)

come un ambito senz’altro “vile”, inferiore ed umile, proprio,

appunto, di uomini “meccanici” e “vili”. Non per nulla nel-

la Grecia classica il lavoro manuale era apertamente disprezzato

come lavoro banausico, appunto come un lavoro degno de-

gli schiavi, mentre all’uomo libero compete solo l’ozio, cioè

lo studio e la riflessione. Galileo scompagina questa tradizione

passatista, proprio perché nutriva, da buon archimedeo, una

ben diversa – e, invero, rivoluzionaria – concezione del va-

lore culturale del lavoro manuale, della tecnica e anche del-

lo stesso lavoro meccanico.

L’elogio galileiano della tecnicaNon per nulla Galileo decise di inaugurare il suo capolavo-

ro scientifico, i Discorsi e dimostazioni matematiche intorno

a due nuove scienze (1638) proprio con il più alto elogio del-

la tecnica che sia mai stato scritto e concepito in tutta la tra-

dizione occidentale. Ma a tal proposito è meglio lasciare su-

bito la parola a Galileo: «Largo campo di filosofare a gl’in-

telletti speculativi parmi che porga la frequente pratica del

famoso arsenale di voi, Signori Veneziani, ed in particolare

in quella parte che meccanica si domanda; atteso che quivi

ogni sorte di strumento e di machina vien continuamente po-

sta in opera da numero grande d’artefici, tra i quali, e per l’os-

servazioni fatte dai loro antecessori, e per quelle che di pro-

pria avvertenza vanno continuamente per se stessi facendo,

è forza che ve ne siano de i peritissimi e di finissimo discor-

so». A parte l’esplicito omaggio all’arsenale veneziano dove

allora si costruivano i famosi galeoni che hanno reso poten-

te non solo la repubblica di Venezia, non può sfuggire il ca-

rattere emblematico di questo elogio. Infatti Galileo ci avverte

che «largo campo di filosofare» viene offerto, perlomeno «a

gl’intelletti specolativi», dalla «pratica» dell’arsenale veneziano.

Non si può non cogliere il carattere fortemente polemico di

questo esordio. Per Galileo, infatti, un «largo campo di filo-

sofare» non si acquista andando a parlare con i colleghi uni-

versitari, bensì mescolandosi ai più umili lavoratori che “tra-

vagliano” in un cantiere navale. Ma la forza polemica di que-

sto esordio è connessa anche all’inciso col quale Galileo ci av-

verte che questo «largo campo di filosofare» può essere con-

seguito in questo ambito solo da coloro i quali sono dotati

di «intelletti specolativi». Come dire: chi ha gusto ed interesse

alla riflessione filosofica la può esercitare al meglio solo co-

noscendo una realtà lavorativa specifica come quella dei can-

tieri, dei luoghi dove si lavora e si produce. Non solo: Gali-

leo si premura di sottolineare anche come la parte più inte-

ressante e decisiva per porre in essere questa innovativa ed

originale riflessione filosofica derivi, in particolare, della co-

noscenza di «quella parte che meccanica si domanda». Non

si può non cogliere, nuovamente, tutta la forza polemica di

questa affermazione. Mentre la tradizione di pensiero occi-

dentale considerava la componente “meccanica” come una di-

mensione affatto priva di pensiero e di spiritualità, Galileo af-

ferma, invece, proprio l’opposto. A suo avviso per gli auten-

tici e veri «intelletti specolativi» proprio la conoscenza pre-

cisa di tutti i ritrovati “meccanici” elaborati e posti in essere

nei cantieri navali consente di sviluppare una riflessione in-

novativa, originale e profonda.

Il valore della meccanicaNé basta perché Galileo sottolinea come, proprio in questa

sezione «meccanica», venga posta in essere «ogni sorte di stru-

mento e di machina», ribadendo come sia proprio la cono-

scenza di questi strumenti e di queste macchine che consente

al pensiero di svilupparsi, perlomeno per coloro che hanno

spiccata sensibilità filosofica, onde dare «largo campo» al loro

filosofare. Mentre per la tradizione egemone il lavoro “mec-

canico” non avrebbe nulla da insegnare, invece per Galileo

46

STUDI

è proprio questa prassi «meccanica» che ci consente di pen-

sare nel modo più approfondito e originale possibile. Perché?

Proprio perché solo lavorando si incontrano degli ostacoli, del-

le sconfitte, delle barriere cui dobbiamo e possiamo reagire pen-

sando. Pensando ed elaborando inusitati ed originali ritro-

vati meccanici mediante i quali saremo in grado di supera-

re, positivamente, quegli stessi ostacoli. Secondo questa

prospettiva galileista il pensiero nasce allora dalla resistenza

che il mondo oppone ai nostri progetti. In questo orizzonte

la meccanica – come aveva insegnato anche tutta la tradizione

dei tecnici rinascimentali – costituisce allora un terreno pri-

vilegiato per cercare di trasformare i “no” della natura in ele-

menti positivi che contribuiscano alla realizzazione dei no-

stri autonomi progetti. Come insegnava Francis Bacon,

«natura nisi parendo, vincitur», ovvero, per quanto parados-

sale possa apparire, «alla natura si comanda ubbidendole». Ma

perché “si comanda ubbidendole”? Proprio perché l’intelligenza

umana di fronte ad un ostacolo, ad un contrasto che il mon-

do le oppone, deve ingegnarsi di trovare una strada – con-

cettuale e pratico-sperimentale – per trasformare quel divieto

in un punto archimedeo sul quale far forza, onde realizzare

il suo progetto. Ma è evidente che per trasformare una diffi-

coltà in un’opportunità, occorre sempre saper pensare quello

stesso ostacolo, occorre saperlo concettualizzare, onde ridurlo

in nostro dominio (concettuale e pratico). La meccanica elo-

giata da Galileo si radica proprio in questo sforzo concettuale

e tecnico, in cui la componente pratica e quella speculativa

si fondono nella costruzione armonica e sinergica della mac-

china. Ma allora la “macchina” come si configura per Gali-

leo? Esattamente come si configurerà, un secolo dopo, per un

filosofo illuminista come Denis Diderot: come la materia-

lizzazione dell’intelligenza umana in un prodotto che senza

il lavoro dell’uomo e la sua capacità di saper concettualizza-

re e trasformare il mondo non sarebbe mai esistito.

Il ruolo dell’abilità e della tradizione oraleentro la civiltà del lavoroMa la finezza della disamina galileiana non si ferma a questo

punto, invero decisivo e rivoluzionario, perché Galileo avverte

anche come in un ambito lavorativo manuale come quello dei

cantieri tutte le innovazioni “meccaniche” siano sempre in-

trodotte dai lavoratori sia sulla base delle loro stesse dirette espe-

rienze lavorative, sia anche sulla base di una tradizione orale,

in virtù della quale le differenti generazioni di lavoratori si co-

municano e tramandano molteplici osservazioni e rilievi che

aiutano a rettificare e migliorare, continuamente, le stesse pras-

si lavorative. Come del resto ben sa chiunque abbia affronta-

to un determinato e specifico lavoro pratico-manuale: que-

st’ultimo, per essere esercitato nel miglior modo possibile, sca-

turisce infatti non tanto da una conoscenza astratta, bensì da

una pratica di lavoro entro il quale le abilità tecniche si ac-

quisiscono lavorando e confrontandosi con i colleghi di lavo-

ro, giovandosi, insomma, di quel ricco patrimonio, comune

e condiviso, di osservazioni che, difficilmente, si trovano nei

libri, proprio perché vengono tramandate attraverso l’esem-

pio, le prassi e i dialoghi continui tra i lavoratori. Quei lavo-

ratori «peritissimi e di finissimo discorso» di cui parla Gali-

leo in chiusura del suo passo costituisce, nuovamente, una pro-

vocazione nei confronti dei suoi colleghi accademici aristo-

telici e metafisici. Infatti Galileo ribadisce come uomini «pe-

ritissimi e di finissimo discorso» si trovino non tanto nelle sem-

pre più ammuffite università del suo tempo (allora domina-

te dalla metafisica aristotelica o da altre correnti spiritualiste

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI

G. Bertini (1825-1898), Galileo Galilei presenta il cannocchialeal doge Leonardo Donati, Varese, Villa “Andrea Ponti”.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 47

STUDI

altrettanto metafisiche) bensì frequentando il mondo del la-

voro e dei differenti ritrovati “meccanici”, quelli posti in es-

sere dai cosiddetti “proti”, vale a dire gli operai specializzati as-

similabili agli ingegneri «peritissimi e di finissimo discorso».

La tecnica e la genesi della scienza modernaTuttavia, di fronte a queste considerazioni che rompono, in

modo invero clamoroso, con tutta una tradizione plurisecolare

(egemone sia ai tempi di Galileo, come anche ai nostri tem-

pi) è lecito chiedersi se questo elogio della tecnica non co-

stituisca, forse, un elemento estemporaneo, assai originale,

ma complessivamente marginale e subordinato, nell’opera

complessiva dello stesso Galileo. Ebbene, se ci si pone que-

sta domanda è allora agevole rispondere affatto negativamente,

scoprendo un aspetto che, troppo spesso, è stato dimentica-

to, trascurato o posto senz’altro in non cale nella stessa rico-

struzione dell’opera e del pensiero galileiano. Possiamo in-

fatti chiederci se, effettivamente, nella vita di Galileo l’at-

tenzione per la tecnica abbia avuto un suo ruolo importan-

te e specifico. A tal proposito si potrebbe rinviare il lettore alla

lettura dello straordinario Epistolario galileiano nel quale si

trovano molteplici tracce dell’attenzione sempre prestata da

Galileo alla tecnica, nonché numerosissime lettere nelle

quali lo scienziato pisano rispondeva a molteplici quesiti, spe-

cificatamente tecnici, che gli venivano posti da diverse mae-

stranze, operatori ed interlocutori tra i più eterogenei. Si po-

trebbe inoltre ricordare il laboratorio che Galileo aveva, in casa

sua, nel quale costruiva, con un assistente, molteplici strumenti

tecnici. Inoltre, si potrebbero ricordare anche le molte in-

venzioni galileiane (per es. il compasso geometrico-milita-

re, l’orologio ad acqua, l’uso del pia-

no inclinato per studiare la dinamica

dei corpi in moto, ecc.). Ma tra

tutti questi molteplici riferimenti

uno poi dovrebbe spiccare ed im-

porsi in tutta la sua rilevanza stori-

ca e concettuale: l’elaborazione ga-

lileiana del «cannone dalla lunga vi-

sta», ovvero la costruzione autono-

ma, in proprio, dei primissimi can-

nocchiali con cui Galileo ha esplo-

rato il mondo celeste, potendo pub-

blicare, nella primavera del 1610,

quello straordinario Sidereus Nun-

cius che gli ha dato, immediata-

mente, fama europea. Ma senza ora

voler ripercorrere tutte le vicende

connesse alle straordinarie scoperte celesti di Galileo, sarà sem-

mai più interessante sottolineare come spesso venga dimen-

ticato – anche da eminenti storici della scienza (per esempio

si pensi a Koyré, per fare un solo, emblematico, nome) come

la nascita della scienza moderna sia intimamente connessa

e legata – a doppio filo – proprio con la costruzione di nuo-

vi strumenti tecnici che hanno consentito di conseguire

“novità celesti” prima inimmaginabili. Da questo punto di vi-

sta, allora, la nascita della scienza moderna risulta essere pro-

fondamente connessa proprio con la costruzione e l’uso si-

stematico di nuovi strumenti tecnici, proprio perché, come Ga-

lileo ha emblematicamente affermato nell’apertura dei suoi

Discorsi, la tecnica possiede un preciso valore culturale che

è anche un valore autenticamente rivoluzionario. Perché è ri-

voluzionario? Perché, si potrebbe rispondere in modo assai

sintetico, incide e modifica profondamente le stesse prassi (an-

che quelle sociali) degli uomini, ovvero il loro stesso com-

portamento sociale. Per questo motivo i cambiamenti tecno-

logici sono spesso associati anche a profondi cambiamenti con-

cettuali, giacché nell’ambito delle società umane, prima

vengono le prassi e solo dopo compare il pensiero. Come del

resto amava ricordare Hegel, la nottola di Minerva spicca il

suo volo solo sul far della sera… In genere questo nesso sfug-

ge ai più, ma non è affatto sfuggito a Galileo che ha sempre

saputo che la nascita della stessa scienza moderna era dovu-

ta alla costruzione e all’uso di un modesto strumento come

il suo celeberrimo «cannone dala lunga vista».

Fabio MinazziUniversità degli Studi dell’Insubria

H.J. Detouche (1854-1913), Galileo presenta al Doge il cannocchiale.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI48

STUDI

Dialogo, narrazione e verità in Galilei«Vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra la carta»Monica Iori

PERCORSO DI APPROFONDIMENTO SVOLTO NEL CORSO DELL’ANNO SCOLASTICO 2012-13 CON LA CLASSE IV C(CORSO CON SPECIALIZZAZIONE BILINGUISMO) DEL LICEO SCIENTIFICO “GALILEO FERRARIS” DI VARESE NELL’AMBITO

DEL PROGETTO DEI GIOVANI PENSATORI DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DELL’INSUBRIA.

Narrazione come conoscenza? È possibileall’interno dell’indagine filosofica?Narrazione come conoscenza? Questo era il tema proposto

per l’anno scolastico in corso dal Progetto Giovani Pensato-

ri, progetto ideato dall’Università degli Studi dell’Insubria e

rivolto a tutte le agenzie culturali del territorio che vengono

così sollecitate a riflettere intorno ad un preciso nucleo di pen-

siero. Quindi con i ragazzi della IV C, sollecitati appunto dai

promotori del progetto – il prof. F. Minazzi, la prof. ssa M.

Lazzari e il prof. P. Giannitrapani – ci siamo posti questa do-

manda e mentre svolgevamo il nostro programma abbiamo

incontrato alcuni autori che dal passato ci hanno aiutato a

rispondere. Prima di tutto abbiamo ripreso Platone, maestro

nell’utilizzo della narrazione. Con i suoi miti ci ha, infatti, di-

mostrato come il racconto possa essere eccellente mezzo di

comunicazione anche delle più elevate verità, anzi soprattutto

di esse, che, proprio per la loro complessità, possono solo es-

sere evocate e non definite con un linguaggio tecnico. I ra-

gazzi successivamente si sono soffermati a riflettere su un au-

tore dell’età moderna, Galileo Galilei, e hanno attentamen-

te analizzato un brano tratto dal Saggiatore, noto a tutti, come

La favola dei suoni.

La favola dei suoni: Galilei narratore?Nel corso dello svolgimento del programma ci siamo ov-

viamente imbattuti nello studio della rivoluzione scientifi-

ca in età moderna e ci siamo stupiti nel trovare nel Saggia-

tore, un testo scientifico scritto per disputare intorno alla na-

tura delle comete, un racconto, una narrazione appunto. Si

tratta di un eccellente esempio di prosa di volgare seicente-

sco e Galilei dimostra, nello scriverlo, ottime doti di scrit-

tore e divulgatore. Non dimentichiamoci che il nostro

scienziato pisano, Matematico primario dello Studio di Pisa

e Filosofo del Ser.mo Gran Duca senz’obbligo di leggere e di ri-

siedere né nello Studio né nella città di Pisa, et con lo stipen-

dio di mille scudi l’anno, moneta fiorentina, era un eccellen-

te scrittore, tanto che Italo Calvino lo annovera tra i più gran-

di produttori di prosa della nostra tradizione letteraria. Ga-

lilei, nel brano citato, si sofferma a narrare la vicenda di “un

uomo dotato da natura d’un ingegno perspicacissimo e d’una

curiosità straordinaria” che alleva uccelli e studia il loro can-

to, nel senso che cerca di capire come possano tali piccoli ani-

mali produrre una gamma così vasta di suoni, cerca di ca-

pire quindi la meccanica e la fisica del suono e nello stesso

tempo ne studia l’armonia. Ad un certo punto della sua vita

quest’uomo si imbatte per puro caso in una serie di situa-

zioni nuove ed inaspettate che gli rivelano che sul suono ha

ancora tutto da scoprire. Viene a conoscenza di vari strumenti

musicali (zufolo, violino, organo, tromba, anche lo scaccia-

pensieri, ecc.) che prima non conosceva, di animali di va-

rio genere (vespe, zanzare, mosconi, grilli e cicale) che pro-

ducono suoni tutti da analizzare e via dicendo. Galilei ma-

gistralmente e per via indiretta ci racconta, insomma, di un

uomo esperto in un settore della conoscenza che umilmente

si mette in strada e ricomincia tutto da capo. Ci siamo chie-

sti, quindi, il motivo profondo per cui il nostro uomo di scien-

za abbia avuto l’esigenza di delineare le caratteristiche di una

tale figura.

L’elogio dell’intelligenza dell’uomo: Socrate e Galilei È in un’altra opera, cioè nel Dialogo sopra i due massimi siste-

mi del mondo che Galilei ci fornisce la spiegazione e la chiave

di lettura de La favola dei suoni. Nel corso della prima giornata,

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 49

STUDI

nella quale si disquisisce intorno ai due sistemi astronomici,

aristotelico-tolemaico e copernicano, infatti, tra i protagoni-

sti del dialogo, lo scienziato Salviati (Galilei stesso), il nobile

veneziano Sagredo (di idee copernicane) e il peripatetico Sim-

plicio (l’aristotelico arroccato all’ipse dixit, forse il papa Urbano

VIII?), si delinea, tra le molte altre cose, anche la figura del ri-

cercatore scientifico, come anche quella del filosofo e questi ven-

gono definiti come persone che quanto più sono sapienti tan-

to più conoscono e liberamente confessano di saper poco. In un

celebre brano che solitamente le antologie riportano come

“L’elogio dell’intelligenza dell’uomo”, essi si rifanno a Socra-

te il sapientissimo della Grecia che diceva apertamente conoscer

di non saper nulla. Sostiene, infatti, Sagredo: Estrema temeri-

tà mi è parsa sempre quella di coloro che vogliono far la capaci-

tà umana misura di quanto possa e sappia operar la natura, dove

che, all’incontro, non è effetto alcuno in natura, per minimo che

sia, all’intera cognizion del quale possano arrivare i più speco-

lativi ingegni. Questa così vana presunzione d’intendere il tut-

to non può aver principio da altro che dal non avere inteso mai

nulla, perché, quando altri avesse esperimentato una volta sola

a intender perfettamente una sola cosa ed avesse gustato vera-

mente come è fatto il sapere, conoscerebbe come dell’infinità del-

l’altre conclusioni niuna ne intende. Il vero sapiente è insom-

ma colui che ha coscienza dei propri limiti, proprio come Ga-

lilei anticipava ne La favola dei suoni, che è disposto ad ap-

prendere ancora, che con atteggiamento umile non rimane ar-

roccato nella difesa di se stesso e delle sue posizioni, che sa am-

mettere la relatività e parzialità del sapere, colui che prende le

distanze dal dogmatismo, colui che sa superare la barriera ideo-

logica dell’ipse dixit. La conoscenza in questo passo è conce-

pita, quindi, come un qualcosa che cresce su se stessa nel tem-

po, come se fosse un processo che tende all’infinito e la veri-

tà potrebbe esser vista, in questa prospettiva come un ideale

regolativo. La coscienza del limite viene quindi ampiamente

messa in risalto dal nostro matematico e filosofo pisano, ma

essa non annulla per niente la validità dell’intelligenza dell’uomo,

anzi la esalta e la spinge sempre verso nuovi approdi.

Vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra la cartaSempre nello stesso brano che funge anche da chiusura del-

la prima giornata del Dialogo è compito di Salviati, prima, e

del patrizio veneto Sagredo, poi, elencare alcuni degli alti ap-

prodi della grande acutezza dell’ingegno umano cha vanno dal-

le scienze matematiche alle espressioni creative delle arti fi-

gurative e plastiche, per finire con la poetica, la letteratura e

l’architettura. Salviati infatti sostiene a proposito degli esiti del-

la mente umana in ambito matematico: l’intendere si può pi-

gliare in due modi, cioè intensive o vero extensive: e che extensive,

cioè quanto alla moltitudine degli intelligibili, che sono infini-

ti, l’intender umano è come nullo, quando bene egli intendesse

mille proposizioni, perché mille rispetto all’infinità è come uno

zero; ma pigliando l’intendere intensive, in quanto cotal termine

importa intensivamente, cioè perfettamente, alcuna proposizione,

dico che l’intelletto umano ne intende alcune così perfettamen-

te, e ne ha così assoluta certezza, quanto se n’abbia l’istessa na-

tura; e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria

e l’aritmetica, delle quali l’intelletto divino ne sa bene infinite

proposizioni di più, perché le sa tutte, ma di quelle poche inte-

se dall’intelletto umano credo che la cognizione agguagli la di-

vina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la

necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza mag-

giore. Dal canto suo Sagredo elenca molti settori nei quali l’in-

gegno umano si distingue: Io son molte volte andato meco me-

desimo considerando, in proposito di questo che di presente dite,

quanto grande sia l’acutezza dell’ingegno umano; e mentre io

discorro per tante e tanto maravigliose invenzioni trovate da gli

uomini, sì nelle arti come nelle lettere, e poi fo reflessione sopra

il saper mio, tanto lontano dal potersi promettere non solo di ri-

trovarne alcuna di nuovo, ma anco di apprendere delle già ri-

trovate, confuso dallo stupore ed afflitto dalla disperazione, mi

reputo poco meno che infelice. S’io guardo alcuna statua delle

eccellenti, dico a me medesimo: «E quando sapresti levare il so-

verchio da un pezzo di marmo, e scoprire sì bella figura che vi

Galileo osserva la lampada nel Duomo di Pisa. Tribuna diGalileo, Museo di Storia Naturale di Firenze. Affreschi di LuigiSabatelli (1840).

STUDI

era nascosa? quando

mescolare e disten-

dere sopra una tela o

parete colori diversi,

e con essi rappresen-

tare tutti gli oggetti

visibili, come un Mi-

chelagnolo, un Raf-

faello, un Tiziano?».

S’io guardo quel che

hanno ritrovato gli

uomini nel compar-

tir gl’intervalli musi-

ci, nello stabilir pre-

cetti e regole per po-

terli maneggiar con

diletto mirabile del-

l’udito, quando potrò

io finir di stupire?

Che dirò de i tanti e

sì diversi strumenti?

La lettura de i poeti

eccellenti di qual me-

raviglia riempie chi attentamente considera l’invenzion d con-

cetti e la spiegatura loro? Che diremo dell’architettura? che del-

l’arte navigatoria? Il nobile veneziano amico di Galilei termina

però con quello che possiamo considerare il punto più alto del-

l’ingegno umano: l’invenzione della scrittura, sommo approdo

della genialità umana. Ma sopra tutte le invenzioni stupende,

qual eminenza fu quella di colui che s’immaginò di trovar modo

di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra

persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e

di tempo? parlare con quelli che son nell’Indie, parlare a quel-

li che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e

dieci mila anni? e con qual facilità? con i vari accozzamenti di

venti caratteruzzi sopra una carta. Solo lo studioso non pre-

suntuoso, ma umile può quindi realizzare pienamente le po-

tenzialità della mente nei vari campi e attraverso il dialogo può

confrontarsi con la comunità di persone che hanno deside-

rio di crescere in conoscenza, perché è proprio mediante il con-

fronto e lo scambio di informazioni che l’umanità può pro-

gredire. Quando si parla di dialogo, non sempre si pensa alla

scrittura, ma la genialità di Galileo sta anche nel fatto di aver-

ci fatto riflettere quanto la scrittura sia uno strumento fon-

damentale per il dialogo, in quanto ci permette di comunicare

e di aprirci al mondo, anche a quello lontano, nello spazio e

nel tempo, che altrimenti rimarrebbe precluso.

Aletheia: veritàe svelamento!Galilei tra l’altro ha

utilizzato proprio

queste strategie del-

la narrazione, del

dialogo e della scrit-

tura per attraversare

i secoli e darci gli

strumenti per op-

porci a certi pensie-

ri rigidi e dogmatici

contemporanei, alla

rigidità di certe po-

sizioni politiche e re-

ligiose e per richia-

marci alla coscienza

del limite e all’aper-

tura verso una con-

tinua ricerca della

verità che non può

essere imbrigliata in

stretti schemi, ma è

svelamento, disvelamento successivo, aletheia, appunto!

La lezione di Galilei è quindi giunta viva e forte fino a noi e

le sue parole sono proprio un faro nella nebbia. Il suo apporto,

infatti, non ha solo un alto valore in ambito epistemologico

e di filosofia della scienza, ma anche, più estesamente, in am-

bito esistenziale, pedagogico e civico, nel senso che, se il com-

pito della scuola è anche quello di predisporre all’apertura

mentale, quello di insegnare a pensare in modo critico con

la propria testa, mettendo assolutamente in discussione

l’ipse dixit, le parole di Galileo assumono il ruolo di asse por-

tante della didattica. Il nostro matematico e filosofo pisano

diventa quindi, evidentemente al di là delle sue intenzioni, un

ottimo strumento per poter lavorare con gli studenti del 2013

che vivono in un mondo odierno che favorisce l’omologazione

di comportamenti e pensieri, ma anche, e soprattutto, con quei

ragazzi che vivono in un contesto territoriale con un tessu-

to politico e religioso in prevalenza ideologicamente preco-

stituito dove, anche recentemente, non si è riusciti a rompere

col passato, confermando addirittura la cittadinanza onora-

ria a Benito Mussolini, come è successo a Varese.

Monica IoriLiceo Scientifico Statale “G. Ferraris” di Varese –

Progetto “Giovani Pensatori” dell’Università degli Studi dell’Insubriadi Varese

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI

T. Lessi, Galileo Galilei visitato da Vincenzo Viviani (1892), Firenze, Istituto e Museo di Storia della Scienza.

50

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 51

PERCORSI DIDATTICI

Irapporti di Gabriele d’Annunzio con

la musica e i musicisti sono stati

probabilmente più fitti, articolati e

consapevoli di qualsiasi altro letterato ita-

liano del Novecento. Interesse, compe-

tenza, sensibilità del poeta per la musi-

ca si declinano in una varietà di generi

letterari, a coprire gli ambiti della pro-

sa, della poesia e del teatro.

Musica e prosa: esperienzeestetiche prezioseLa centralità dell’arte musicale nell’in-

venzione dannunziana si manifestò con

piena evidenza alla svolta del secolo nuo-

vo con la pubblicazione del romanzo Il

fuoco (1900). Il protagonista, Stelio Èf-

frena, è dominato dalla figura di Richard

Wagner: il compositore tedesco è visto

come l’alfiere d’una nuova forma d’ar-

te e al contempo come voce critica del-

la società borghese. Opera nelle situa-

zioni chiave del romanzo il filtro di ti-

toli a fine Ottocento ancora poco noti in

Italia: Tristano, Sigfrido, Parsifal. Nel ro-

manzo agisce anche una seconda dina-

mica musicale: a Wagner si contrappo-

ne l’esaltazione dell’antica civiltà musi-

cale italiana, col progetto di erigere sul

Gianicolo a Claudio Monteverdi «un tea-

tro di marmo», ossia l’omologo del leg-

gendario teatro wagneriano di Bay-

reuth. Il romanzo testimonia dunque

una duplice passione, apparentemente

antitetica, per gli esiti più avanzati del

Romanticismo tedesco e per l’antica

musica patria: tendenze destinate en-

trambe a sviluppi straordinari nella

cultura italiana dei primi decenni del

nuovo secolo. La musica innerva lo

stesso tessuto narrativo grazie a una scrit-

tura vibrante ma al tempo stesso pun-

tuale, che tradisce la competenza tecni-

ca del poeta (d’Annunzio aveva eserci-

tato la critica musicale).

Già le pagine del Piacere (1889) erano

spesso risuonate di musica. Ad esempio

quando i nomi del «divino Federico»

(Chopin) e di Schumann si erano in-

trecciati nel ricordo di un’attività mu-

sicale concepita come esperienza pro-

fondamente formativa, reagente for-

midabile per un’«anima che si schiude».

Oppure quando la «bella ospite» Maria

Ferres discute «con sottilità d’intendi-

trice» commentando in termini per

nulla ingenui un imprecisato quintetto

di Boccherini («Mi ricordo bene che in

alcune parti il quintetto, per l’uso del-

l’unisono, si riduceva a un duo; ma gli

effetti ottenuti con la differenza dei

timbri erano d’una finezza straordina-

ria»). È sempre la suggestione della

musica a indurre nel protagonista An-

drea Sperelli la fantasticheria sul timbro

della voce di Maria, segnata dalla com-

presenza del timbro «dell’altra». Una du-

plice esecuzione di musica “antica” pro-

pone un’aria dalla Nina di Paisiello e dei

pezzi per tastiera di Leonardo Leo, J.-Ph.

D’Annunzio e la musicaRaffaele Mellace

IL NESSO TRA D’ANNUNZIO E LA MUSICA È UN BANCO DI PROVA PERFETTO PER L’INDAGINE INTERDISCIPLINARE. L’ARTICOLO

PROPONE QUATTRO PERCORSI, DIVERSISSIMI MA TUTTI SIGNIFICATIVI: DUE DI MUSICA DA LEGGERE (EVOCATA NELLA PROSA E

IMITATA NELLA POESIA DANNUNZIANE), DUE DI MUSICA DA ASCOLTARE (NEL TEATRO D’OPERA E NELLE LIRICHE DA CAMERA).

G. d’Annunzio - A. Franchetti,La figlia di Jorio, libretto a

stampa, Ricordi, Milano 1906,collezione privata.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI52

PERCORSI DIDATTICI

Rameau e J.S. Bach, spettro d’un passa-

to che evoca sentimenti di morte:

Riviveva meravigliosamente sotto le suedita la musica del XVIII secolo, così ma-linconica nelle arie di danza; che paioncomposte per esser danzate in un pome-riggio languido d’una estate di San Mar-tino, entro un parco abbandonato, tra fon-tane ammutolite, tra piedestalli senzastatue, sopra un tappeto di rose morte, dacoppie di amanti prossimi a non amar più.

Sarà la corda della malinconia a risuonare

nel Notturno (1921), quando il pianista

Giorgio Levi eseguirà l’aria detta La Fre-

scobalda, mentre nella Leda senza cigno

(1913) era stata la volta delle sonate di Do-

menico Scarlatti, di cui si evoca «l’ele-

ganza, l’allegrezza, la franchezza, la vo-

lubilità, la voluttà»; una raffinata selezione

liederistica, lungo il vasto arco teso tra

Beethoven e Hugo Wolf, aveva soccorso

d’Annunzio nell’esprimere la tensione del

binomio eros-thanatos in Forse che sì, for-

se che no (1910). Nei frammenti delle Fa-

ville del maglio (1924) il mottetto Pec-

cantem me quotidie del Palestrina, già ci-

tato nel Fuoco, viene collegato diretta-

mente a una traumatica esperienza este-

tica compiuta a Bologna nell’adolescen-

za e interpretato come simbolo della

dialettica tra morte e purificazione.

La musica funge insomma da reagente

nel moltiplicare le esperienze estetiche,

sinestetiche e perfino autobiografiche

della narrativa dannunziana: un esito

conseguito tramite il ricorso ad autori,

composizioni e linguaggi musicali re-

stituiti in termini spesso sorprendente-

mente circostanziati, mentre la prosa

stessa ambisce a emulare le dinamiche

sinfoniche e il procedimento dei Leit-

motive, i “motivi ricorrenti” introdotti da

Wagner nei propri drammi musicali.

Musica e poesia: «De lamusique avant toute chose»È noto quanto sia centrale nel d’Annun-

zio poeta la musicalità, arma di punta nel-

la rivoluzione in chiave decadente del lin-

guaggio poetico italiano, nel solco trac-

ciato dall’Art poétique di Paul Verlaine

(«De la musique avant toute chose»). Si

tratta naturalmente in prima istanza di

agire sulla costruzione ritmico-metrica del

verso, ma non sono infrequenti i riferi-

menti diretti a esperienze musicali, a co-

minciare dai testi che qui, per motivi di

spazio, si menzionano soltanto. A tacere

delle non poche liriche di tema musica-

le (le due Laudi dedicate a Bellini e a Ver-

di, o titoli come Notturnino in “Fa mi-

nore”, La gavotta, Sopra un’aria antica, So-

pra un “Adagio” [di Johannes Brahms], So-

pra un “Erotik” [di Edvard Grieg], Anco-

ra sopra l’“Erotik”), saranno sufficienti due

esempi di primissimo piano: l’organiz-

zazione eminentemente musicale della

Pioggia nel pineto, che si anima di un’au-

tentica sinfonia silvestre perforata da

voci solistiche ed evocata nel dettaglio dei

successivi eventi sonori: le «parole più

nuove / che parlano gocciole e foglie / lon-

tane», le diverse piante che si trasformano

in «stromenti / diversi / sotto innume-

revoli dita», «l’accordo / delle aeree cica-

le» cui «un canto vi si mesce / più roco»,

ossia la voce della rana, che «canta nel-

l’ombra più fonda» una parte dotata

d’una propria autonomia («Solo una

nota / ancor trema, si spegne, / risorge,

trema, si spegne»); oppure si consideri la

rievocazione preziosa ed estenuata del

passato attraverso il suono antico del cla-

vicembalo in Consolazione, a riprendere

un tema già del Piacere.

Nella poesia, così come forse ancor più

nella prosa dannunziana, emerge il ruo-

lo che lo scrittore volentieri accordava al-

l’arte musicale come componente es-

senziale dell’esistenza dell’individuo

(nel Vittoriale volle una stanza della mu-

G. d’Annunzio - R. Zandonai,

Francesca da Rimini,libretto a stampa,

Ricordi, Milano 1914,collezione privata.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 53

PERCORSI DIDATTICI

sica) e dell’intera società (lo Statuto di

Fiume definisce la musica «istituzione re-

ligiosa e sociale»).

D’Annunzio e i musicisti: la via maestra della scenaFu tuttavia innanzitutto sul piano del

teatro – versante all’epoca fortunatissi-

mo della produzione dannunziana e per

scelta consapevole aperto alla compo-

nente musicale – che la parola del poe-

ta si trasformò effettivamente in musi-

ca, giovandosi del contributo di nume-

rosi e importanti compositori coevi.

Non con Giacomo Puccini, più d’una

volta tentato da una collaborazione il-

lustre, ma disinteressato a un teatro di

poesia percepito come estraneo alla

propria drammaturgia, teatro in cui

«manca sempre il vero e spoglio e sem-

plice senso umano. Tutto sempre è pa-

rossismo, corda tirata, espressione ultra

eccessiva»1. La “tragedia lirica” Parisina,

che Puccini e Alberto Franchetti aveva-

no rifiutato, approdò nel 1912 a Pietro

Mascagni. Soggetto che affastella passioni

esasperate e incestuose, violenza, esoti-

smo e fervore mistico, viene interpreta-

to dal compositore attraverso un sensi-

bilissimo declamato che nulla occulta del

torrenziale dettato verbale. Dalla colla-

borazione serrata tra i due artisti non

uscì il «Tristano italiano», come d’An-

nunzio si augurava, bensì una partitu-

ra spiccatamente antiverista, sotto una

patina arcaicizzante.

Grande successo arrise nel 1914 a Fran-

cesca da Rimini, che pervenne al com-

positore Riccardo Zandonai, nella ridu-

zione che l’editore Tito Ricordi aveva rea-

lizzato della tragedia dannunziana: un ti-

tolo arricchito già dall’origine da una fit-

ta serie di riferimenti musicali, realizza-

ti come musica in scena già nella trage-

dia in prosa. Zandonai rispose con una

formula personale di arcaismo sonoro, al-

ternando silenzi carichi di tensione, agì-

ti quasi totalmente dall’orchestra che ri-

vela ciò che le labbra dei personaggi tac-

ciono, scene collettive di mobile legge-

rezza e vocalità distesa e accorata.

Tra i compositori cui il teatro dannun-

ziano ispirò musiche di scena e più

ambiziose traduzioni operistiche oc-

correrà citare almeno Italo Montemez-

zi, che compose La Nave, sempre su ri-

duzione librettistica di Tito Ricordi,

coniugando genuino patriottismo (du-

rante la “prima” alla Scala, il 3 novem-

bre 1918, fu annunciata in sala la presa

di Trento e Trieste) e accesa sensibilità

decadente che raggiunge esiti memora-

bili nella raffinata orchestrazione; ma an-

che Alberto Franchetti, autore della Fi-

glia di Jorio (1906), su fedele riduzione

del libretto del compositore stesso; Na-

dia Boulanger e Stéphane-Raoul Pugno,

che insieme misero in musica La ville

morte (1912).

La figura del vate esercitò un fascino du-

raturo in modo particolare su due gio-

vani compositori. Innanzitutto Gian

Francesco Malipiero (1882-1973), la

cui collaborazione con d’Annunzio si

protrasse dal 1913 con l’assidua fre-

quentazione del Vittoriale, la corre-

sponsabilità della Raccolta Nazionale

dei Classici della Musica Italiana e la pub-

blicazione delle opere di Monteverdi, sot-

to gli auspici del «Poeta che nell’anno

1900 [nelle pagine del Fuoco] esaltava il

divino Claudio». Dell’Immaginifico,

Malipiero avrebbe musicato nel 1910 i

Sonetti delle fate (dalla Chimera), nel

1913 il Sogno d’un tramonto d’autunno

e nel ’23 il Ditirambo terzo che chiude le

Stagioni italiche.

1. Lettera dell’11 novembre 1918, cit. in Eugenio Gara (acura di), Carteggi pucciniani, Ricordi, Milano 1958, p. 470.

G. d’Annunzio - I. Montemezzi, Lanave, libretto astampa, Ricordi,Milano 1918,collezione privata.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI54

PERCORSI DIDATTICI

Ancora più rilevante la collaborazione

con Ildebrando Pizzetti (1880-1968),

inaugurata col coro per il Prologo della

Nave (1905), poi diventato l’intera serie

delle musiche di scena per la tragedia, cui

seguiranno quelle per La Pisanelle

(1913). La felice sintonia tra poeta e mu-

sicista – di lui d’Annunzio apprezzava so-

prattutto la sensibilità nel tradurre il co-

lore arcaico delle situazioni – portò alla

tragedia Fedra, nata appositamente per

Pizzetti (1912, rappresentata nel 1915).

Le ambizioni arcaicizzanti di «Ilde-

brandus Parmensis» (che di d’Annun-

zio avrebbe intonato anche la Sinfonia

del fuoco, 1913, per il film Cabiria e, an-

cora nel 1954, una libera riduzione del-

la Figlia di Jorio) trattengono la musica

al limite d’una ritrosia ascetica che esal-

ta il declamato verbale avvolgendolo di

un’aura d’intensa sacralità, in nome

d’una tersa classicità, ormai lontana

dalla scrittura wagneriana.

Un siffatto mutamento di clima esteti-

co in senso “mediterraneo” suscitava l’in-

teresse del poeta, che d’altra parte era sta-

to aperto anche alla collaborazione con

«Magister Claudius», alias il compositore

francese Claude Debussy, in occasione

del Martyre de Saint-Sébastien (1911),

«mistero» per soli, coro e orchestra, in-

terpretato dalla «grande sacerdotessa»

Ida Rubinstein, la celebre attrice e dan-

zatrice in cui Paul Valéry dichiarava

d’aver trovato l’artefice d’uno spettaco-

lo fondato sulla collaborazione di diverse

arti. Esperimento di teatro simbolista

anti-drammatico strutturato in cinque

«mansioni» (ossia “quadri”, quasi a ri-

produrre lo schema compositivo delle

vetrate gotiche), su un tema, l’androgi-

no, dal fascino morboso, giocato sul-

l’ulteriore ambiguità tra soggetto sacro

e culto pagano della bellezza, il Marty-

re offre alle musiche di scena di Debus-

sy l’occasione d’una serie di interventi di-

versi, dal melologo (recitazione parlata

accompagnata dall’orchestra) ai brani

strumentali, dalle danze alle arie soli-

stiche, ai cori.

D’Annunzio e i musicisti:poesia rivestita di musicaUn ultimo capitolo del rapporto tra

d’Annunzio e la musica riguarda l’into-

nazione di testi poetici come liriche da

camera. Spiccano in questo catalogo

ideale alcuni titoli (particolarmente for-

tunati O falce di luna calante da Canto

novo e le due Romanze dalla Chimera),

ma spicca soprattutto il nome d’un

compositore, il conterraneo Francesco

Paolo Tosti (1846/1916), «il biondo

Apollo musagete», maestro di canto

delle figlie della regina Vittoria d’In-

ghilterra, più anziano del poeta d’una ge-

nerazione, e autore, fin dal 1880, di ben

34 romanze su testi dannunziani, a co-

minciare dal ciclo dei sette Idilli selvag-

gi dedicatogli dal poeta. Per una dozzi-

na d’anni la collaborazione proseguì

stretta (il poeta scriveva testi di gusto sa-

lottiero come Vuol note o banconote o En

hamac), con le cinque romanze di Ma-

linconia (1883), la squisita “arietta di Po-

sillipo” ’A vucchella (1992) e le Canzoni

di Amarante (1907). Autonomamente

Tosti avrebbe composto i cicli Consola-

zione (1909) e La sera (1916), entrambi

dal Poema paradisiaco. Da segnalare an-

che l’interesse nutrito da Ottorino Re-

spighi (1879-1936), che intonò due Not-

turni e Mattinata (1909), La donna sul

sarcofago, La statua (1919) e Quattro li-

riche (1920) dal Poema paradisiaco. No-

tevoli anche I pastori (1908) ed Erotica

(1911) di Pizzetti, e La sera fiesolana

(1923) di Alfredo Casella (1883-1947).

L’assidua frequentazione del verbo dan-

nunziano da parte di più generazioni di

musicisti risultò in esperienze numero-

se e talora cospicue tanto sulle assi dei

teatri quanto nei salotti. Se esse non sor-

tirono una svolta radicale nel panorama

musicale italiano, espressero tuttavia in

termini emblematici il gusto d’una lun-

ga stagione della cultura del Paese e si of-

frono ancora oggi, nei testi dannunzia-

ni così come nelle registrazioni sempre

più facilmente disponibili delle intona-

zioni musicali, all’apprezzamento dei

loro valori estetici.

Raffaele MellaceUniversità degli Studi di Genova

BIBLIOGRAFIA

A. Guarnieri - F. Nicolodi - C. Orselli (a cura di), D’Annunzio musico imaginifico, Atti del Convegno internazionale di studi, Siena, 14-16 luglio 2005, Olschki, Firenze 2008 («Chigiana» XLVII).R. Mellace, Letteratura e musica, in Storia della letteratura italiana, fondata da E. Cecchi e N. Sapegno, Il Novecento. Scenari di fine seco-lo 1, direzione e coordinamento di N. Borsellino e L. Felici, Garzanti Grandi Opere, Milano 2001, pp. 431-496.M. Della Sciucca, Indagando la musicalità della poesia. Il “Poema paradisiaco” di Gabriele d’Annunzio, «Nuova Rivista Musicale Italiana»XXXIV, n. 1 (2000), pp. 43-63.A. Guarnieri Corazzol, Musica e letteratura in Italia tra Ottocento e Novecento, Sansoni, Milano 2000.Eadem, Sensualità senza carne. La musica nella vita e nell’opera di D’Annunzio, il Mulino, Bologna 1990.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 55

PERCORSI DIDATTICI

L’etimologia del vocabolo latino

incipit (“inizia”, da incipio: in + ca-

pio), passato alla lingua italiana per

indicare l’avvio di un’opera letteraria o

le prime battute di una composizione

musicale, suggerisce l’idea della con-

quista, della “cattura”: superata la soglia

paratestuale del titolo, al quale spetta la

priorità nella funzione calamitante nei

riguardi del potenziale fruitore, tocca, in-

fatti, all’incipit avvincerlo, schiudendo-

gli un nuovo mondo possibile nel qua-

le introdursi con curiosità e partecipa-

zione, distaccandolo dal molteplice e

promettendogli una storia che valga lo

sforzo della lettura, anche in un’epoca

dominata da forme diverse di narratività,

meno impegnative, ma non per questo

meno interessanti.

L’incipit, retaggio di un uso formulare di

apertura dei manoscritti (Incipit liber

primus…) a cui si faceva seguire il tito-

lo dell’opera e il nome dello scrittore, è

spesso rivelatore della volontà narratri-

ce dell’autore e sintomatico di un par-

ticolare indirizzo di scrittura, o del ge-

nere di appartenenza del racconto: è un

preciso invito al lettore a sintonizzarsi

sulla giusta frequenza e crea aspettative.

È il vero stargate che lo immette in un’al-

tra dimensione, tra sogno a occhi aper-

ti e “proiezione filmica”, dal momento

che si attivano processi di visualizzazione

delle parole, di rappresentazioni im-

maginative da queste sollecitate, sempre

più configurate sul modello cinemato-

grafico, com’è ormai pacifico1.

Negli incipit, insomma, il lettore trova

una promessa narrativa e una sollecita-

zione intellettuale, che dovrebbe prelu-

dere alla “stipula” del “patto narrativo”

con l’autore del libro, nel caso in cui il se-

guito del racconto non deluda le sue at-

tese e non lo convinca a desistere dalla let-

tura e ad avvalersi dei suoi diritti – per

così dire – di “rescissione del contratto”,

così ben codificati da Daniel Pennac.

Con gli incipit si possono effettuare gare

di memoria riservate agli addetti ai lavori

o aperte a irriducibili divoratori di libri,

per indovinare da dove sono tratti. Con

gli incipit si possono compilare raccolte,

applicando metodo e rigore scientifici, in-

casellandoli in precise tassonomie e im-

brigliandoli in rigide griglie classificatrici,

per provare a carpirne i segreti e trarne

insegnamento; oppure si può provare a

inanellarne alcuni, con propositi di spe-

rimentazione (e di puro divertimento in-

tellettuale), azzardando accostamenti2,

giocando con libere associazioni di idee,

cogliendone la coerenza con le conclu-

sioni del dopo-lettura (un bell’inizio

per un libro non memorabile, o un ini-

zio sotto tono per un bel libro), verifi-

candone l’effetto immediato sul pubbli-

co, a partire da sé stessi. In sintesi, “a cia-

scuno il suo” approccio.

Chi ben comincia…Incipit della narrativa italiana otto-novecentesca (1)Rossana Cavaliere

NELLA PRIMA PARTE DEL PERCORSO SI ANALIZZANO LE APERTURE DELLE SEGUENTI OPERE: I PROMESSI SPOSI DI A.MANZONI, LE CONFESSIONI DI UN ITALIANO DI I. NIEVO, LA LUPA DI G. VERGA, LE AVVENTURE DI PINOCCHIO DI C.COLLODI, IL PIACERE DI G. D’ANNUNZIO, I VICERÉ DI F. DE ROBERTO.

1. Tra gli studi recenti, si veda, per tutti, G.P. Brunetta, Ilviaggio dell’icononauta, Marsilio, Venezia 1997.2. Al riguardo, segnalo un testo ricchissimo, introdottoda Umberto Eco, i cui curatori hanno collezionato incipit,secondo criteri di “omogeneità”, scegliendo esilaranti co-muni denominatori (come «Apnea», per inizi lunghis-simi, che costringono a rimanere col fiato sospeso, ocome «All’attacco!», per avvii chiaramente bellicosi). G.Papi, F. Presutto, In principio… 2001 modi per iniziare unromanzo, Baldini & Castoldi, Milano 2000.3.Viene denominata “cinematografabilità” la speciale qua-lità, a volte insita nella scrittura, di facilitare la trasferibilitàdel testo nel medium cinema. La nozione, che peraltro nonpuò contare su solidi fondamenti critico-teorici, viene quiutilizzata nel senso aspecifico di elevato potenziale di vi-sività, grazie a immagini, struttura o lingua, che sembranorecare in sé interferenze tra letteratura e cinema.

Quanto a noi, tenteremo di offrire uno

spaccato della inesausta varietà degli

incipit della narrativa (grande o in qual-

che modo significativa) tra Ottocento

(per lo più tardo) e Novecento (non mol-

to oltre la prima metà), che dimostri la

proteiforme abilità del narratore di tur-

no nell’incuriosire il lettore e “farlo pri-

gioniero”, servendoci di una selezione che,

essendo stata guidata da personale gusto

estetico, fondata anche sull’interesse per

una “cinematografabilità”3 in nuce (e suf-

fragata dalla puntuale trasposizione ci-

nematografica di tutte le opere di segui-

to analizzate, filo rosso dell’indagine) e

regolata da necessità editoriali di spazio

e di concentrazione, non potrà che essere

solo esemplificativa, oltre che soggettiva

(anche in virtù di qualche intrusione

poco ortodossa). Una selezione, quindi,

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI56

PERCORSI DIDATTICI

che vuole essere un input per ogni lettore,

affinché si diverta ad aggiungere, prose-

guire, cancellare, sostituire, e che pren-

de avvio, con l’unico affondo nella pri-

ma metà dell’Ottocento, da quello che è,

a parere di chi scrive, l’incipit per anto-

nomasia della nostra narrativa ottocen-

tesca, il più famoso, il più dibattuto, l’im-

prescindibile «quel ramo del lago di

Como, che volge a mezzogiorno»4, così

popolare da renderne superflua la tra-

scrizione, così sorprendentemente cine-

matografico – Umberto Eco docet5 –,

benché concepito assai prima dell’av-

vento del medium e del consolidarsi

delle succitate teorie riguardo all’effetto

rebound dal cinema alla letteratura, da

giustificarne la collocazione in prima bat-

tuta e l’ennesima rilettura, eludendo il ri-

schio di prevedibilità, in virtù della di-

versa chiave interpretativa adottata.

Manzoni, infatti, regista ante litteram, ha

sapientemente effettuato una serie di

“movimenti di macchina” per descrive-

re il paesaggio ai suoi lettori con indub-

bia efficacia: dapprima un travelling ae-

reo, dall’alto verso il basso, vestendo i

panni di un cosiddetto “narratore olim-

pico” (alla Kubrick di Shining, per in-

tenderci, che non a caso, con lo sguardo

incombente, suggerisce “presenze” tra-

scendenti), poi la discesa graduale della

macchina da presa, che, inquadrate le

«due catene non interrotte di monti», ar-

riva a mostrare i «nuovi golfi e […] nuo-

vi seni» della celebre chiusura chiastica,

parallelamente alla restrizione del cam-

po visivo, fino a calare al dettaglio to-

pografico; poi, il successivo improvviso

ribaltamento del punto di vista e della di-

rezione della ripresa, dal basso verso l’al-

to, che dovrà rendere simbolicamente

l’inquietante presenza dei bravi in atte-

sa del pavido curato (e, subito dopo, il suo

shock emozionale). Una sequenza da

antologia, che, illustrata con questi rife-

rimenti, potrà persuadere a proseguire

nella lettura anche il più refrattario dei

giovanissimi studenti, avvezzo com’è a ri-

conoscersi nei linguaggi del cinema più

che in quelli della letteratura.

Figure femminili: non solo LuciaAndando un po’ più avanti sull’asse

cronologico, analizziamo ora incipit del

tutto diversi, che non partecipano di ana-

loghe suggestioni precorritrici, ma che

adottano altre strategie di scrittura, a co-

minciare da questa auto-presentazione

che riassume epigrammaticamente la

vita e la morte, senza trascurare il ruo-

lo di una Provvidenza carica di mistero:

Io nacqui veneziano ai 18 ottobre 1775,giorno dell’Evangelista San Luca; e mor-rò per la grazia di Dio italiano quando lovorrà quella Provvidenza che governa mi-steriosamente il mondo.

Siamo alle soglie dell’unità d’Italia (è il

1857, anche se l’opera sarà pubblicata po-

stuma, nel 1867) e dobbiamo all’ispira-

zione di un giovane patriota garibaldino,

che morirà appena trentenne in un oscu-

ro naufragio, il romanzo di non univo-

ca classificazione da cui è tratta la cita-

zione, un romanzo che racconta eventi

storici, ma incentra la narrazione sulla mi-

crostoria del protagonista, io narrante

(Carlo Altoviti, immaginato come “ot-

tuagenario” al fine di renderne autorevoli

gli ammaestramenti che scaturiscono

dalle sue molteplici esperienze), che fil-

tra gli avvenimenti, di cui è stato testi-

mone, attraverso la sua memoria indivi-

duale e ha perso l’onniscienza, dono

precipuo del narratore in focalizzazione

zero del romanzo storico manzoniano. Il

titolo, Le confessioni di un Italiano6, già an-

nuncia al lettore che sarà messo a parte

dello svelamento di una lunga vita, vis-

suta all’insegna dell’orgoglio d’apparte-

nenza all’Italia, e l’“io” in apertura sem-

bra esplodere con forza, col voler ribadire

di esserci, con la propria specificità, pri-

ma del riferimento alla morte vicina, che

chiuderà per sempre il cerchio. Nessuna

avvisaglia, per ora, di quello che si rive-

lerà, nel viaggio interiore che il protago-

nista compirà per richiamare alla me-

moria tutte le esperienze autobiografiche

che intende raccontare, il vero fulcro di

tutta la vicenda: l’amore per la Pisana, la

cugina dai «begli occhioni castani e dai

lunghissimi capelli, che a tre anni cono-

sceva già certe sue arti da donnetta per in-

vaghire di sé»; un amore sbocciato già nel-

l’infanzia, più forte, duraturo e travolgente

di ogni altra passione. Si dovrà aspetta-

re la fine della presentazione di quel

«giovane di cuore», malgrado l’età, pri-

ma di arrivare, in analessi, al castello di

Fratta, con la sua «bizzarra figura, [coi

suoi] spigoli, cantoni, rientrature e spor-

genze da far meglio contenti tutti i pun-

ti cardinali ed intermedi della rosa dei

venti», e soprattutto con la sua piccola pa-

drona, capricciosa fino all’eccesso, volu-

bile, appassionata, moderna, irritante e se-

ducente figura femminile, lontana anni

luce dalla coeva Lucia. L’incipit, insom-

ma, con le lapidarie informazioni e il tri-

4. Molte sono le pellicole ispirate al capolavoro manzo-niano, di cui è opportuno ricordare almeno il film del1941, per la regia di Mario Camerini, lo sceneggiato te-levisivo del 1967, con le prestigiose firme di RiccardoBacchelli e Sandro Bolchi, per la regia di quest’ultimo(pietra miliare della produzione colta della RAI, conPaola Pitagora nei panni di una convincente Lucia eNino Castelnuovo in quelli di Renzo) e infine la fiction apuntate del 1989, firmata da Salvatore Nocita, che affidaad attori stranieri i ruoli dei protagonisti, e ad AlbertoSordi e Franco Nero quelli, rispettivamente, di don Ab-bondio e di Fra’ Cristoforo.5. U. Eco, Il segno della poesia e il segno della prosa, in Id.,Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, Milano 1985. 6. Prima edizione: I. Nievo, Le confessioni di un ottuage-nario, Le Monnier, Firenze 1867. Si ricorda lo sceneggiatotelevisivo del 1960, La Pisana, firmato da Giacomo Vac-cari e preparato dalla RAI per festeggiare il centenariodell’unità d’Italia (coincidente con quello della mortedello stesso Nievo): già nel trailer, l’immagine di unabandiera sfilacciata e sventolante dichiarava l’intento divalorizzare i motivi patriottici e i sacrifici compiuti perconseguire l’agognata unità. L’operazione risultò co-stosa e impegnativa, ma riuscì anche grazie all’ottimocast di attori di teatro. La messa in onda della prima pun-tata fu anticipata da un documentario di Nelo Risi sullavita, breve e intensa, dello scrittore.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 57

PERCORSI DIDATTICI

plice cenno a elementi religiosi (san

Luca, Dio, la Provvidenza), sembra voler

solennizzare, come una sorta di piccolo

proclama, il racconto della vita intensa,

che l’io del narratore omodiegetico si ac-

cinge a ripercorrere. Lo scopo è quello di

destare l’attenzione del lettore e di coin-

volgerlo, quale destinatario della testi-

monianza che sta raccogliendo, avvi-

sandolo subito che si tratta di una storia

seria e importante, “vera” come può ap-

parire in letteratura, scritta per poter «re-

care qualche utilità»: non potranno non

esserci, perciò, esperienze interessanti

in una vita che si prospetta a suo modo

esemplare (o almeno degna di essere tra-

mandata), e difatti la parte più avvincente

verrà di lì a poco, nelle ampie sequenze

dedicate all’infanzia altalenante tra gio-

ia e tormento, nel «prelodato castello» di

Fratta, di cui il giovane Nievo ha antici-

pato, nel prologo, che presenterà ogni abi-

tante (padroni, servitori, ospiti e… gat-

ti), non senza un leggero velo d’ironia.

Vita da stregaSe il ritratto della Pisana è di certo uno

dei più intensi, quello che segue, posto

nell’incipit e rapidamente tratteggiato con

la forza icastica dell’ipotiposi, è tra i più

indimenticabili che siano stati scritti:

Era alta, magra, aveva soltanto un seno fer-mo e vigoroso da bruna – e pure non erapiù giovane –; era pallida come se avessesempre addosso la malaria, e su quel pal-lore due occhi grandi così, e delle labbrafresche e rosse, che vi mangiavano.

È la gnà Pina, o meglio è la Lupa7,

come la chiamavano al villaggio «perché

non era sazia giammai – di nulla», que-

sta donna conturbante che avanza im-

pettita e impudente sulla scena della nar-

rativa italiana, con una carica di sen-

sualità senza pari. Siamo nel 1880 e Ver-

ga dà alla luce Vita dei campi, subli-

mando la poetica verista con alcune no-

velle che, nel corto respiro che la tipo-

logia di composizione concedeva loro,

racchiudono capolavori. L’incipit è una

vorticosa descrizione di tratti fisici, che

preannunciano l’importanza rivestita

nella storia dall’attrazione dei sensi: la

Lupa si offre allo sguardo del lettore con

tutta la sua avvenenza mediterranea, di

bruna procace, che aggiunge allo ste-

reotipo degli occhi neri come il carbo-

ne e delle labbra accese (ma nel suo caso

colpisce l’allusione alla ferina cupidigia

del «che vi mangiavano») una statura in-

solita, che l’avvicina alle dee, per quan-

to degli inferi, come i successivi richia-

mi al demonio suggeriranno. La storia,

giocata sui significati simbolici dello spa-

zio e di un clima rovente come le pas-

sioni, e sostenuta dagli stilemi veristi e

da una lingua vivace, frutto di accorta ri-

cerca e grande creatività da parte del-

l’autore, forgiata sulla mentalità di una

società arcaica, superstiziosa e cinica, è

bellissima e arcinota, ma l’incipit gioca

un ruolo determinante. Più dell’attacco

de I Malavoglia (1881), sebbene magi-

stralmente evocativo di un passato fau-

sto che prelude all’interminabile se-

quela di sciagure e di toccanti e uma-

nissimi sentimenti («Un tempo i Mala-

voglia erano stati numerosi come i sas-

si della strada vecchia di Trezza […], tut-

ti buona e brava gente di mare, proprio

all’opposto di quel che sembrava dal no-

mignolo»), perfino più di quello del Ma-

stro don Gesualdo (1889), che pure col-

pisce con l’atmosfera sonnolenta e ovat-

tata di un’alba contadina, in cui l’ordi-

ne iniziale è infranto dalla turbativa (sug-

gestioni del romanzo “giallo”) costitui-

ta da uno scampanio «che chiamava aiu-

to», di manzoniana memoria, e dalla rea-

zione corale della gente che «scappava

fuori in camicia, gridando: – Terremo-

to! San Gregorio Magno!», l’incipit de La

Lupa seduce il lettore, stregato da que-

sta figura femminile che si presenta su-

bito anomala e trasgressiva, letteraria-

mente “perfetta”, nel ruolo della perversa

che troverà nel finale la meritata puni-

zione alla sua corruzione, andando in-

contro alla morte, altera e irredimibile,

coerentemente col suo personaggio.

C’era… ancora una volta– C’era una volta…– Un re! – diranno subito i miei piccolilettori. – No, ragazzi, avete sbagliato. C’era unavolta un pezzo di legno.

La formula incipitaria del “romanzo per

ragazzi” tra i più noti al mondo si in-

canala nella falsariga della fiaba, con le

fresche battute di un ipotetico dialogo

tra l’autore e i suoi “piccoli lettori”, ma

soprattutto con quella collocazione in

un tempo remoto e indeterminato che

dispone l’animo al rapimento e, forse,

al godimento di qualche raro momen-

to di sana regressione all’infanzia, quan-

do, per lo più nei panni di ascoltatori di

fantastiche narrazioni che qualche adul-

to illuminato leggeva, non si era anco-

ra chiamati dal narratore a reiterati

confronti, a sfide intellettuali, a reagire

prontamente alle “provocazioni” di

continui rimandi, ineludibili e certo pia-

cevolmente intriganti giochi citazioni-

stici e ci si poteva consentire di abbas-

sare la guardia e abbandonarsi a un

ascolto estatico e passivo, a quella “va-

canza dell’intelletto” che solo la sereni-

tà dell’infanzia e l’affabulazione posso-

no concedere. E d’altra parte Le avven-

ture di Pinocchio. Storia di un burattino

7. Pubblicata per la prima volta nella «Rivista nuova diScienze, Lettere e Arti», nel febbraio 1880, entrò nellaraccolta Vita dei campi: G. Verga, Vita dei campi, FratelliTreves, Milano 1880. Almeno due le versioni cinemato-grafiche da menzionare: quella attualizzante di AlbertoLattuada (1953), ambientata negli anni cinquanta e spo-stata in Basilicata, e quella di Gabriele Lavia (1996), piùfedele al verismo del testo verghiano, ma stroncata dallacritica, che stigmatizzava sia gli stereotipi triti adottatiper rendere la seduttività sia l’improponibilità del lin-guaggio dialettale prescelto.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI58

PERCORSI DIDATTICI

(1883)8 è molto più che una semplice

fiaba (l’ingresso a pieno titolo nella let-

teratura tout court si deve al favorevo-

le giudizio di Benedetto Croce, ma la cri-

tica anche recente ha consacrato l’ope-

ra di Collodi quale “paradigma esi-

stenziale”, riconoscendole valore uni-

versale) e pare non fosse neppure de-

stinata ai ragazzi, malgrado l’attacco de-

pistante: la sequenza dell’impiccagione

a una quercia della scapestrata mario-

netta avrebbe dovuto costituire, a quan-

to pare, il vero finale della storia, solo in

un secondo tempo prolungata con

quella della metamorfosi di Pinocchio

che diventa un ragazzino in carne ed

ossa, pronto per altre avventure, pro-

babilmente meno rocambolesche e av-

vincenti di quelle precedenti (l’essersi

umanizzato e, dunque, responsabilizzato

lo priveranno della licenza di affranca-

mento dalle regole del vivere civile),

come se il “principio di realtà” fosse su-

bentrato al “principio di piacere”. Una

fiaba, dunque, che vanta ipotesti illustri

(si pensi, ad esempio, alla trasforma-

zione in asino, di ascendenza apuleiana

o alle scene in cui si avvertono influen-

ze del romanzo gotico) e che, nella sua

struttura progressiva, si accosta ai mo-

duli del romanzo di formazione; una fia-

ba che viene anche studiata come un’al-

legoria della società moderna e del pe-

renne conflitto tra istinto e ragione, o

come un testo “educativo”, in virtù di

una morale fondata su una giustizia im-

manente che premia il bene e castiga il

male (ma c’è chi, viceversa, nota l’iro-

nia rivolta alla pedagogia imperante);

una fiaba, in ogni caso, aperta da un in-

cipit che continua a “tentare” lettori (e

scrittori) di tutte le età.

Languori fin de siècle L’anno moriva, assai dolcemente. Il soledi San Silvestro spandeva non so che te-por velato, mollissimo, aureo, quasi pri-maverile, nel cel di Roma.

È l’incipit inconfondibile de Il piacere9, che

Gabriele D’Annunzio dava alle stampe nel

1889, in contemporanea con il nuovo ro-

manzo della trilogia dei Vinti, il verghiano

Mastro don Gesualdo (anch’esso edito dai

Fratelli Treves), ma da questo distante

quanto meno per tipologia e progetto di

scrittura, di certo discordanti dagli statuti

del verismo e del positivismo diffusi. Un

attacco dolcissimo, grazie alla scelta di

un’aggettivazione avvolgente, sinestetica,

inebriante come la precoce primavera che

si affaccia sulla città eterna, voluttuosa-

mente dischiusa alla vita che rinasce coi

primi tepori. «L’anno moriva»: l’imper-

fetto durativo cristallizza una condizio-

ne, fissa un tempo in quello approssi-

mativo di una fine d’anno in cui il pro-

tagonista, Andrea Sperelli, «aspettava

nelle sue stanze un’amante», come si

leggerà poco dopo. Si avverte un senso

di indolente languidezza nell’attacco del

romanzo che costituisce, com’è noto,

una sorta di manifesto dell’estetismo e di

repertorio del decadentismo: Andrea

Sperelli, in qualche misura alter ego del-

l’autore, convinto, come questi, che la vita

debba essere un’opera d’arte e per que-

sto si adopera, è un dandy raffinato,

educato all’arte e amante del bello e del

piacere, contraddittorio (ora falso e cinico,

ora sensibile e premuroso) e ambiguo, con

molte analogie col suo creatore, il quale

si serve di ricercate strategie narrative per

circuire il lettore e tenerne desta l’atten-

zione, malgrado la trama poco dinami-

ca del romanzo, che ruota soprattutto in-

torno alle storie d’amore di Andrea e al

fallimento, dovuto alla sua doppiezza e a

un lapsus che lo tradirà, anche dell’uni-

ca che avrebbe potuto dargli tanto. D’An-

nunzio, infatti, punta sul lessico e sulla sua

musicalità, come già l’incipit dimostra,

con l’uso di superlativi, del troncamen-

to dei vocaboli, di un susseguirsi di

espressioni eleganti e auliche, di forme

inusuali (subito dopo dirà «romorio»,

«empiendo», «imagine»); ricorre a de-

scrizioni minuziose, specie di oggetti

preziosi, e si affida, inoltre, a un narratore

onnisciente che rivela al lettore la psico-

logia del protagonista, immergendosi

nella sua interiorità (con focalizzazione

sul personaggio), che è un po’ anche la

propria. Altro significativo espediente

dell’intreccio l’analessi, che riavvicina

memorie lontane, come si è visto, ap-

punto, nell’incipit analizzato, di accura-

ta elaborazione formale e sicura presa su

un pubblico disposto a lasciarsi traspor-

tare dalla soavità della lingua.

«La mala razza» degli UzedaGiuseppe, dinanzi al portone, trastullava ilsuo bambino, cullandolo sulle braccia,mostrandogli lo scudo marmoreo infissoal sommo dell’arco, la rastrelliera inchio-

8. Prima edizione: C. Collodi, Le avventure di Pinocchio,Libreria Paggi, Firenze 1883. Il romanzo di Pinocchiouscirà in Gran Bretagna nel 1891, accolto da recensionientusiastiche, quindi negli Stati Uniti nel 1898 (ma è del1901 la prima edizione tradotta e illustrata da ameri-cani). Il successo si propaga e Pinocchio diventa uno deilibri più amati dai bambini americani, ma arriverà anchein Islanda e in paesi asiatici. Nel 1902 viene pubblicatoin Francia e nel 1905 in Germania (è un rifacimento in-titolato Le avventure di Nocciolo di Pigna, Pinolo). Tra il1911 e la Seconda Guerra mondiale si hanno traduzioniin tutte le lingue europee, e numerose nelle lingue deglialtri continenti, Oceania compresa. Nel 1936 Aleksej Ni-kolaevi Tolstoj ne firmò una rielaborazione originale inrusso. Una ricerca di Luigi Santucci degli anni settantacontava 220 traduzioni in lingue diverse (dunque Pi-nocchio era il romanzo della letteratura italiana più lettoal mondo), mentre stime più aggiornate (anni Novanta),fornite dalla Fondazione Nazionale Carlo Collodi e suf-fragate da dati dell’Unesco, attestano a 240 il numerodelle traduzioni. Impossibile calcolare le vendite, anchea causa dei diritti d’autore scaduti da oltre settant’anni.Cfr. G. Gasparini. La corsa di Pinocchio,Vita e Pensiero, Mi-lano 1997. Per completezza di informazione, vanno ci-tate le diciassette versioni cinematografiche, tra cuiquella celeberrima della Disney del 1940, che propagòla fama del burattino toscano fin nei recessi del mondo.In Italia, degni di nota lo sceneggiato televisivo del 1972,di Luigi Comencini, e il costosissimo film del 2002 diRoberto Benigni, se non altro per i rumors suscitati inAmerica, dove fu accolto da vivaci contestazioni e rariapprezzamenti (almeno per le scenografie, i costumi e lacolonna sonora di Nicola Piovani). 9. Prima edizione: G. D’Annunzio, Il piacere, Fratelli Treveseditori, Milano 1889. Almeno due sono le versioni cine-matografiche tratte dal romanzo di D’Annunzio: nel1918, ad opera di Amleto Palermi, e nel 1985, il film “li-beramente tratto” da Joe D’Amato (pseudonimo di Ari-stide Massaccesi), prolifico regista che si connoterà poicome autore soprattutto di pellicole horror o hard.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 59

PERCORSI DIDATTICI

data sul muro del vestibolo dove, ai tem-pi antichi, i lanzi del principe appendeva-no le alabarde, quando s’udì e crebbe ra-pidamente il rumore d’una carrozza arri-vante a tutta carriera; e prima ancora cheegli avesse il tempo di voltarsi, un legnet-to sul quale pareva fosse nevicato, dalla tan-ta polvere, e il cui cavallo era tutto spumantedi sudore, entrò nella corte con assordan-te fracasso. Dall’arco del secondo cortile af-facciaronsi servi e famigli: Baldassarre, ilmaestro di casa, schiuse la vetrata della log-gia del secondo piano intanto che SalvatoreCerra precipitavasi dalla carrozzella con unalettera in mano. «Don Salvatore?… Chec’è?… Che novità!…» Ma quegli fece colbraccio un gesto disperato e salì le scale aquattro a quattro. Giuseppe, col bambinoancora in collo, era rimasto intontito, noncomprendendo; ma sua moglie, la mogliedi Baldassarre, la lavandaia, una quantitàd’altri servi già circondavano la carrozzel-la, si segnavano udendo il cocchiere nar-rare, interrottamente: «La principessa…Morta d’un colpo… Stamattina, mentre la-vavo la carrozza…».

È il 1894 quando viene pubblicato il

corposo romanzo I Viceré10 di Federico De

Roberto, napoletano di nascita ma cata-

nese d’adozione, una vita trascorsa sotto

un giogo materno monopolizzante, una

vocazione di scrittore così intensa da

portarlo a reinventarsi più volte la scrit-

tura11 per inseguire un successo mai in re-

altà arrivato, se non postumo e a lungo

contrastato, malgrado i meriti e il favore

di Verga e Capuana. Oggi finalmente la

critica, affrancata dal severo giudizio di Be-

nedetto Croce che reputava il romanzo

pesante e privo di poeticità, forse perfino

grata all’autore per non aver mistificato

la realtà e aver tramandato un quadro del

disfacimento di una famiglia-simbolo

della nobiltà siciliana senza edulcorazio-

ni, considera un autentico capolavoro

questo poderoso affresco di un’epoca, quei

circa trent’anni (1855-1882) cruciali per

la trasformazione dell’Italia in regno

unito, analizzati da un osservatorio uni-

co qual è la Sicilia. Nell’isola, infatti, si re-

gistrano con più concentrata vivacità sia

i trasformismi (e, insieme, il conformi-

smo) della classe aristocratica, abituata a

cadere in piedi e a riciclarsi (come fanno

appunto gli Uzeda, che, viceré all’epoca

spagnola e perciò soprannominati così,

riescono a rimanere al potere, malgrado

i cambiamenti, esprimendo per più legi-

slature, con il duca d’Oragua, un rap-

presentante della loro famiglia al nuovo

Parlamento italiano) sia la cocente delu-

sione degli esiti di un risorgimento che

non appare innovativo nei fatti, visto che

sembra solo sostituire alle vecchie diver-

se forme di predominio. Il libro offre uno

spaccato storico-sociale e un’ampia, me-

ticolosa, impietosa galleria di personag-

gi (una quindicina), che alternano ruoli

da comparse a ruoli da protagonisti, di

volta in volta che le loro storie vengono

messe a fuoco dal narratore onnisciente,

abile burattinaio intenzionato a non

omettere, capace di un cinismo tale ver-

so le sue “creature” da mostrare la gran-

de famiglia degli Uzeda, principi di Fran-

calanza, come un’accozzaglia di perso-

naggi avidi, stravaganti, tarati, vero cam-

pionario di manifestazioni di prepoten-

za, grettezza e di follia, più o meno latente,

frutto di consanguineità malate e di de-

generazioni: «una manata di pazzi tutti

quanti!», come sentenzia don Blasco12, fra-

tello minore del duca d’Oragua, frate per

forza, a causa del maggiorascato. E l’in-

cipit dà già un piccolo assaggio della vo-

lontà dell’autore di popolare il suo rac-

conto, formicolante di personaggi anche

minori che rimarranno ai margini, nel-

la storia come nella vita, con questo ac-

correre dei servi, delle donne e donnicciole

intorno alla carrozzella, della quale s’è udi-

to il rumore crescente mentre arriva «a

tutta carriera» (poco dopo, invece, la

percezione sarà visiva, con il dettaglio del-

la schiuma alla bocca del cavallo forzato

a una “folle” corsa). Il perché di tanta pre-

cipitazione è presto detto: è morta la vec-

chia principessa Teresa e l’annuncio va

dato tempestivamente al parentado. Un

lutto paventato e che turberà i congiun-

ti a causa della grande devozione filiale e

familiare alla matriarca? Tutt’altro: desi-

derio spasmodico, e a lungo represso (la

principessa muore novantenne) di sape-

re come sarà spartita la ricca eredità. Co-

mincia con una fine, dunque, il roman-

zo di De Roberto, da cui si dipanerà l’in-

tera vicenda, fitta di punti di vista. Il let-

tore dovrà armarsi di pazienza nell’avviarsi

a un percorso non breve e neppure sem-

plice, sebbene il narratore lo agevoli, sia

adottando la lingua italiana, senza con-

cessioni al dialetto, se non eccezional-

mente e con pudore, sia adoperando

tecniche, in qualche modo emule del-

l’epica omerica, che lo aiutano a memo-

rizzare i vari personaggi, a ognuno dei

quali è assegnata qualche riconoscibile pe-

culiarità. Alla fine, tuttavia, il lettore,

forse con un po’ d’amaro in bocca per l’as-

senza totale di remissione da parte del nar-

ratore per il mondo raccontato e di sen-

si di colpa dei personaggi, resterà affasci-

nato dalla storia di questa saga familiare.

Rossana CavaliereLiceo Scientifico “Gramsci-Keynes”, Prato

10. Prima edizione: F. De Roberto, I Viceré, Casa editriceGalli, Milano 1894. Dal romanzo è stata tratto il filmomonimo di Roberto Faenza, nel 2007: nel cast figuranoLando Buzzanca, nel ruolo del principe Giacomo e Ales-sandro Preziosi in quelli di Consalvo. Cameo di LuciaBosè, nei panni di Ferdinanda. Il film avrebbe voluto rin-novare i fasti del Gattopardo di Visconti, ma non ha ot-tenuto gli stessi consensi. 11. Mi riferisco, per esempio, al cambio di rotta tra il ro-manzo oggetto della nostra analisi e la raccolta di «no-velline», contenute nei Processi verbali (1889), che sono«la nuda e impersonale trascrizione di piccole comme-die e di piccoli drammi colti sul vivo», come lo stesso DeRoberto scrive nella prefazione, nella quale teorizza lasua adesione al verismo attraverso la predilezione as-soluta per la scena di tipo teatrale, cosicché la psicologiadei personaggi possa emergere dalle parole e dai com-portamenti e non da sequenze illustrative e statichedella narrazione. Prima edizione: F. De Roberto, Processiverbali, Galli, Milano 1890. 12. Il personaggio di don Blasco è tra i più vivaci e fuoridagli schemi del romanzo. L’offesa totalizzante è pro-nunciata da lui. F. De Roberto, Romanzi, novelle e saggi,Mondadori, Milano 1984, p. 487.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI60

PERCORSI DIDATTICI

Il filone etnografico costituisce un

aspetto importante nell’ambito del-

la storiografia del mondo antico,

greco e romano, e si manifesta soprat-

tutto in digressioni di entità variabile che

affiorano in opere propriamente stori-

che, ma parzialmente anche in singole

opere monografiche dedicate a questo

tema. Nella storia della storiografia an-

tica, un approccio più specificamente et-

nografico è spesso stato avvertito come

alternativo alla storiografia rigidamen-

te pragmatica o evenemenziale, quella

cioè che individua come opzione privi-

legiata la narrazione di “fatti” di carat-

tere politico e militare; tuttavia, le due

impostazioni, per quanto per certi aspet-

ti tra loro concorrenziali, in parte han-

no trovato in alcune opere sintesi effi-

caci o quantomeno originali.

Se, com’è noto, la storiografia greca non

nasce come creazione di un singolo in-

dividuo ex nihilo, essa trova il suo pro-

genitore nell’epica omerica, che pre-

senta numerosi excursus in cui si fon-

dono interessi geografici ed etnografici

(per citare un solo esempio tra i più noti,

la descrizione del paese e della stirpe dei

Ciclopi in Od. IX 105 ss.). Rimanendo

nell’ambito della poesia arcaica, il Cata-

logo delle donne (pseudo?)esiodeo regi-

stra figure appartenenti a diversi ceppi et-

nici, con riferimenti a genti che risiedo-

no anche agli estremi confini dell’orbe.

Passando alla prosa della prima metà del

V secolo, merita un accenno il Periplo del

cartaginese Annone che, descrivendo il

suo viaggio per mare lungo la costa oc-

cidentale dell’Africa, registra alcune

sintetiche notizie sulle popolazioni, pa-

cifiche o bellicose, che incontra, intrec-

ciandole con informazioni di carattere

geografico e naturalistico. Tra i cosiddetti

“logografi” elencati da Dionigi di Ali-

carnasso (De Thuc. V), un gruppo ete-

rogeneo per interessi e parzialmente

anche per collocazione cronologica (pre

o post erodotei), ci si limiterà a citare

Ecateo di Mileto ed Ellanico di Lesbo: il

primo, nella sua Periegesi, una sorta di

commento alla Carta geografica da lui

stesso compilata, fornisce notizie non

solo su confini, città, villaggi, fiumi,

monti e porti, ma anche sulle popola-

zioni di ciascun territorio e sui loro usi

e costumi; e alcuni dei titoli del poligrafo

Ellanico, come le Storie di fondazioni di

popoli e città o Sui popoli o ancora i Co-

stumi dei barbari, così come quelli del-

le sue opere dedicate alla presentazione

storico-etnografica di singole regioni del-

la Grecia o del mondo barbarico (ad

esempio, per la prima categoria Argoli-

ká, Boiotiká…, per la seconda Lydiaká,

Persiká…), testimoniano evidenti inte-

ressi di carattere etnografico.

Nonostante nel proemio Erodoto di-

chiari che oggetto della sua indagine sto-

rica saranno i fatti (érga), grandissimo

è lo spazio da lui dedicato a interessi

prettamente etnografici, che sono dis-

seminati lungo tutta l’opera: ad esempio,

Storiografia ed etnografiaPaolo A. Tuci

L’ARTICOLO, CHE VA A COMPLETARE IL DOSSIER DI “STUDI” TERRE LONTANE E POPOLI STRANIERI NELLA GEOPOLITICA

ANTICA, PUBBLICATO SU NS 2 (OTTOBRE 2013), SI SOFFERMA SUGLI INTERESSI ETNOGRAFICI DEGLI ANTICHI, CHE

EMERGONO NELLA STORIOGRAFIA FIN DAI SUOI ALBORI.

sui Babilonesi (I, 178-200), sugli Etiopi

(III, 20-24), sugli Sciti (IV, 142-151), sul-

la Libia (IV, 145-199). Ma il caso forse

più noto è quello dell’Egitto, cui Erodoto

dedica interamente il II libro, prima dif-

fondendosi su notizie relative alla geo-

grafia e alla geologia del paese (5-34), poi

sugli usi e costumi degli Egiziani (35-98)

e solo infine sulla storia vera e propria

della regione (99-182). Il taglio etno-

grafico di Erodoto risente molto del suo

interesse per le “meraviglie” (thomá-

sia/thomastá), come si nota fin dal pri-

mo paragrafo dedicato ai costumi degli

Egiziani (II, 35): qui egli scrive che su

questo tema si diffonderà in particola-

ri, perché esso presenta moltissime “me-

raviglie”; gli Egiziani, infatti, non solo vi-

vono in una regione dal clima assai di-

verso da quello del resto del mondo abi-

tato, ma anche si caratterizzano per usi

differenti e spesso opposti rispetto agli

altri uomini (ad esempio, in Egitto le

donne frequentano il mercato e si de-

dicano al commercio, mentre gli uomi-

ni stanno a casa e tessono, spingendo

però la trama non verso l’alto, come le

altre popolazioni, bensì verso il basso).

La descrizione etnografica dell’Egitto

prosegue con i capitoli dedicati alla re-

ligione, ai suoi riti, alle divinità e agli ani-

mali sacri (37-76), una sezione signifi-

cativa dei quali pone a confronto l’Era-

cle greco e quello egiziano (43-45); e poi

con un’asistematica rassegna di usi de-

gli Egiziani (distinti secondo due diverse

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 61

PERCORSI DIDATTICI

J.G. Moitte, Erodoto (1806), Parigi, Museo del Louvre.

aree geografiche: 77-91 e 92-98), ad

esempio sull’alimentazione, sulla me-

dicina, sull’abbigliamento, sul matri-

monio; Erodoto chiosa significativa-

mente che essi si servono dei costumi de-

gli avi, senza acquisire niente di nuovo

(79, 1). Da queste sommarie osserva-

zioni, è chiaro che l’impostazione et-

nografica erodotea fa perno sul concet-

to di alterità e contemporaneamente

mira a stupire il lettore con notizie che

lo catapultano in un mondo completa-

mente diverso da quello abituale.

Se Tucidide opta rigidamente per la

storiografia pragmatica, riservando spa-

zi pressoché irrilevanti a osservazioni di

altro genere (come il breve accenno

sull’arretratezza degli Etoli in III, 94, 4-

5), con Ctesia di Cnido, autore di Persi-

ká e Indiká, torna in primo piano l’in-

teresse etnografico, con un taglio espres-

samente polemico nei confronti di Ero-

doto, ma probabilmente con attendibi-

lità inferiore a quella del predecessore.

Passando alla storiografia greca di IV se-

colo, ci si potrebbe limitare a tre riferi-

menti, a titolo esemplificativo. Con il Se-

nofonte dell’Anabasi (ma anche di al-

cune pagine delle Elleniche, soprattut-

to nei libri III-IV), l’etnografia torna

come gusto dell’esotico, nei diffusi cen-

ni ai costumi dei popoli dell’impero per-

siano con cui lo storico viene a contat-

to. Anche le Filippiche di Teopompo

contenevano un excursus, che copriva

l’intero VIII libro, dedicato alle “mera-

viglie”, anche se non è facile stabilire

quanta parte potessero avere al suo in-

terno le notizie di carattere etnografico.

Un genere diverso di etnografia, rivol-

to non verso l’esterno ma verso l’inter-

no del mondo greco, è fortemente legato

alla nascita della storiografia locale,

che noi conosciamo soprattutto attra-

verso le opere degli autori di Attiká o At-

thides, cioè di “cose ateniesi”: tramite

un’indagine che verte ad esempio sui to- J.G. Moitte, Erodoto (1806), Parigi, Museo del Louvre.

ponimi, sugli usi locali e sui riti sacri, si

sceglie una singola regione del mondo

greco come oggetto di indagine non di-

versamente da quanto era stato fatto

fino a quel momento per le diverse aree

anelleniche.

È evidente che l’impresa di Alessandro

cambia completamente l’orizzonte de-

gli interessi geo-etnografici: excursus di

questo genere sono contenuti in quasi

tutti gli alessandrografi, come ad esem-

pio Callistene di Olinto (cfr. FGrHist 124

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI62

PERCORSI DIDATTICI

F 25, 28, 34, 41), Nearco di Creta (apud

Arr. Ind. 16; 17, 2; 38, 1), Clitarco di Ales-

sandria (FGrHist 137 F 2, 9-10, 14, 16,

19, 34), facendosi soprattutto in que-

st’ultimo, che del resto non partecipò alla

spedizione, sempre più fantasiosi e inat-

tendibili. In età ellenistica, poi, si assi-

ste a un fiorire di opere su singole regioni

oggetto delle conquiste di Alessandro, i

cui autori sono non solo greci, ma an-

che locali che si servono della lingua gre-

ca: ad esempio, il greco Ecateo di Abdera

inserisce nei suoi Aigyptiaká un excur-

sus sugli Ebrei (apud Diod. XL 3); tito-

lo uguale ha l’opera dell’egiziano Ma-

netone di Sebennito, finalizzata a di-

vulgare presso i Greci la conoscenza del-

la civiltà e della religione dell’Egitto; e

Megastene, di origine anatolica, nei

suoi Indiká si diffonde in una descrizione

dei costumi e della società indiana e

principalmente della popolazione dei

Prasi, presso la quale era stato inviato

come ambasciatore da re Seleuco I.

Scendendo al II secolo a.C. e accanto-

nando l’ingombrante figura di Polibio,

autore tucidideo anche nella sua opzio-

ne esclusiva per la storiografia pragma-

tica, incline se mai a interessi geografi-

ci piuttosto che etnografici (ad esempio,

sull’Italia in II 14-17), merita una men-

zione particolare Agatarchide di Cnido,

autore tra l’altro di un’opera etnografi-

ca intitolata Sul mar Rosso: in una sezione

conservata da Diodoro (III, 14-24), egli

descrive tribù tanto selvagge e primiti-

ve da non essersi mai nemmeno deno-

minate (vengono da lui identificate in

base a ciò di cui si nutrivano: mangia-

tori di pesce, di legno, di cicale…) e da

caratterizzarsi per l’assenza di qualsia-

si organizzazione sociale norma etica.

Non si può concludere la sezione greca

con un accenno a Posidonio di Rodi,

considerato oggi uno dei principali et-

nografi dell’antichità non solo per le sue

dettagliate descrizioni di luoghi e di po-

poli, ma anche per la lucida capacità di

cogliere di costoro i tratti caratteristici;

egli contrappone la semplicità dello sti-

le di vita primitivo alla raffinata e de-

cadente civiltà ellenistica, secondo un ta-

glio che sarà poi proprio di Cesare e di

Tacito. Famose ad esempio sono le sue

descrizioni dei Cimbri (FGrHist 87 F 13)

e soprattutto dei Celti (F 15).

Per quanto riguarda la storiografia ro-

mana di età repubblicana, interessi et-

nografici affiorano già nei frammenti del-

le Origines di Catone, ma sono testimo-

niati più ampiamente solo a partire dal

Bellum Iugurthinum di Sallustio: sebbe-

ne l’opera sia volta a rappresentare più

la corruzione di Roma che la realtà afri-

cana, un excursus (XVII-XIX), che l’au-

tore dice dipendente da fonti puniche che

gli sono state tradotte, è dedicato al ter-

ritorio e alle popolazioni africane. Sal-

lustio ne riporta gli usi che marcano l’al-

terità rispetto al mondo romano e in so-

stanza le dipinge come primitive, al fine

di giustificare l’intervento civilizzatore

delle legioni di Roma. Un caso per cer-

ti aspetti analogo a quello delle opere di

storiografia locale greca è costituito dal-

Dionigi di Alicarnasso in un’incisione ottocentesca.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 63

PERCORSI DIDATTICI

Passando alla storiografia di età imperiale

e tralasciando l’opera di Livio, che pre-

senta interesse limitato per gli aspetti et-

nografici, e quella in greco di Flavio Giu-

seppe, che pure con la Guerra giudaica e

le Antichità giudaiche mira a far conoscere

al pubblico internazionale la storia e la

cultura del popolo ebraico, bisogna con-

cludere con la figura di Tacito. L’Agrico-

la contiene una digressione sulla Bri-

tannia (X-XIII), che almeno parzial-

mente dipende da quella cesariana, e, co-

m’è uso, parte dalla descrizione geogra-

fica per approdare alla caratterizzazione

degli abitanti: prima nel loro aspetto fi-

sico e nella forza d’animo, spesso a con-

fronto coi Galli, e poi nella struttura so-

ciale e nello stile di vita. La Germania è

una monografia di carattere geo-etno-

grafico, ripartita in due sezioni: nella pri-

ma si dà conto in linea generale della re-

gione e dei suoi abitanti, nella seconda si

passano in rassegna le singole tribù. È evi-

dente l’ambivalenza dell’atteggiamento

di Tacito, che da un lato ammira i Ger-

mani, non senza tratti di idealizzazione,

per la loro semplicità e austerità di vita,

simili come sono ai Romani “di una vol-

ta”, non ancora corrotti dal lusso, ma dal-

l’altro nutre nei loro confronti un senso

di superiorità per gli aspetti più “primi-

tivi” del loro mondo. La curiosità di Ta-

cito per i Germani non è, tuttavia, pu-

ramente disinteressata: egli scrive da un

lato con implicita polemica nei confronti

della degenerazione della Roma dei suoi

giorni e dall’altro con la consapevolez-

za del potenziale pericolo per l’impero

rappresentato dalle popolazioni germa-

niche. Nella seconda parte dell’opera, Ta-

cito ha l’intelligenza politica di cogliere

il fatto che la salvezza di una Roma or-

mai imbelle dipende più che altro dalla

rivalità fra tribù tra loro divise e pertanto

deboli.

Paolo A. TuciUniversità Europea di Roma

la produzione antiquaria di Varrone

che, soprattutto nelle Antiquitates e nel

De vita populi Romani, fornisce abbon-

danti informazioni sulla civiltà romana.

I Commentarii di Cesare e soprattutto

quelli De bello Gallico mostrano l’im-

portanza che l’autore accordava alla di-

mensione etnografica: notissimi sono gli

excursus sulla Britannia e i suoi abitan-

ti (V, 12-14), sui costumi dei Galli (VI,

11-20: su fazioni interne, classi sociali,

druidi, cavalieri, religione, diritto fami-

liare) e dei Germani (21-23: su occupa-

zioni quotidiane, struttura sociale…, ta-

lora in modalità comparativa con i pre-

cedenti capitoli sui Galli; cfr. anche 24).

Qui l’etnografia non è né indugio nel gu-

sto dell’“esotico”, né albagia del Roma-

no, bensì reale interesse, frutto di espe-

rienza diretta, per la ricostruzione del-

la società con cui si viene a contatto, la

cui conoscenza è ritenuta premessa in-

dispensabile per l’opportuna condu-

zione della campagna militare.

BIBLIOGRAFIA

In generale:E. Dench, Ethnography and History, in J. Marincola, A Companion to Greek and Roman Historiography, II, Malden 2007, pp. 493-503.

Sull’etnografia greca:C. Jacob, Géographie et ethnographie en Grèce ancienne, Paris 1991. A. Dihle, Etnografia ellenistica, in F. Prontera, Geografia e geografi nel mondo antico. Guida storica e critica, Roma-Bari, 1983, pp. 173-199.

In particolare:M. Martin, Aspetti etnografici nel trattato «Sul Mar Rosso» di Agatarchide di Cnido, “Itineraria” VII (2008), pp. 1-13. A. Zambrini, Idealizzazione di una terra. Etnografia e propaganda negli Indiká di Megastene, in Modes de contacts et processus de tran-sformation dans les sociétés antiques. Actes du colloque de Cortone (24-30 mai 1981), Roma 1983, pp. 1105-1118.M. Albaladejo Vivero, La India en la literatura griega: un estudio etnográfico, Alcalá de Henares 2005.S. Giurovich, Considerazioni sul procedere etnografico posidoniano: «ethos» vs «historia»: l’esempio dei Galli Scordisci e dei Galli Tectosagi,RSA XXXV (2005), pp. 23-52.C. Vassallo, Etnografia e religione nelle «Storie» di Erodoto, «Hormos» VI-VII (2004-2005), pp. 103-192.

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In particolare:M.E. Consoli, I Germani nella visione militare e politica di Cesare e di Tacito, Napoli, 2008.B. Bell, The Value of Julius Caesar as Ethnographer, «Akroterion» XXXVIII (1993), pp. 104-112.R. Oniga, Sallustio e l’etnografia, Pisa, 1995.L.A. García Moreno, Etnografía y paradoxografía en la historiografía latina de la República y época augustea, «Polis» VI (1994), pp. 75-92.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI64

PERCORSI DIDATTICI

Un grande merito dei testi rous-

seauiani risiede nel non lasciare

indifferenti i lettori. Le cause di

questo fatto sono molteplici e riguarda-

no sia l’abilità provocatoria della penna del

Ginevrino sia la sua capacità di spiazza-

re le attese dei critici e degli ammiratori.

Non a caso, il Discours sur les sciences et les

artes, che gli permette di vincere il primo

premio all’Accademia di Digione e gli

dona una certa notorietà, presenta una tesi

che si allontana dallo spirito illuminista

dei tempi e considera il progresso re-

sponsabile della degenerazione dei co-

stumi umani. Lo stesso Émile crea scon-

certo e polemiche tra i contemporanei per

la difficoltà di definire uno scritto che, oc-

cupandosi di educazione, intreccia diversi

generi letterari dal romanzo, al trattato fi-

losofico, alla speculazione teologica nel-

le pagine della Profession de foi du vicai-

re savoyard. Anche negli anni della ma-

turità, Rousseau pubblicando le Confes-

sions disillude i lettori che si aspettavano

la narrazione, magari intrisa di dettagli in-

triganti, dei rapporti e dei litigi con gli in-

tellettuali del tempo e si trovano ad ascol-

tare, in gran parte, le vicende della fan-

ciullezza e della giovinezza dello scritto-

re, piene di dettagli quotidiani e privati1.

La capacità rousseauiana di generare rea-

zioni ha prodotto due ampie linee in-

terpretative che, se pur con notevoli di-

versità di analisi e di approfondimento,

hanno costituito le basi della ricezione

rousseauiana. Vi è stato chi ha celebra-

to la sua opera come anticipatrice di al-

cuni aspetti della modernità. Per esem-

pio, Kant e successivamente Cassirer in-

dividuano nelle sue riflessioni una so-

luzione moderna al problema dell’ori-

gine del male2. Una soluzione che, par-

tendo dall’idea che l’uomo è origina-

riamente buono, colloca il negativo nei

legami politici e sociali. Nel Novecento,

Levi-Strauss afferma che «Rousseau

non si è limitato a prevedere l’etnologia:

l’ha fondata»3, contribuendo a porre in

chiave moderna il rapporto tra natura e

cultura. Al contrario, molti intellettua-

li, a partire già dal Settecento, lo hanno

criticato come un conservatore che

vuole rifiutare la modernità e riportare

l’umanità a una situazione di primitiva

ignoranza. Infatti, Voltaire afferma, a

proposito dell’idea di stato di natura

rousseauiano, che: «mai si è spiegata tan-

ta intelligenza nel volerci ridurre a be-

stie. Leggendovi vien voglia di cammi-

nare a quattro zampe»4. In anni più re-

centi, l’ammirazione nostalgica di Rous-

seau per le civiltà classiche, per l’idea di

patria e gli stati chiusi e di dimensioni

ridotte come la polis greca o la repub-

blica di Ginevra ha spinto alcuni inter-

preti a intravedere nella sua proposta po-

litica le radici teoriche di regimi auto-

ritari e, addirittura, totalitari.

J.-J. Rousseau e l’inganno totalitarioAndrea Potestio

IL PENSIERO POLITICO DI ROUSSEAU SVILUPPA TEMI AUTORITARI E ANTICIPA LE TESI DEL TOTALITARISMO

NOVECENTESCO? QUESTA INTERPRETAZIONE, SE PUR CON MODALITÀ DI APPROFONDIMENTO DIVERSE, CONTINUA A

ESSERE SOSTENUTA DA MOLTI LETTORI DELL’OPERA ROUSSEAUIANA. IL SEGUENTE ARTICOLO CERCA DI SMASCHERARE

L’INGANNO PRESENTE IN QUESTA ARGOMENTAZIONE, CHE SI BASA SU UNA RIDUZIONE DEI TEMI ANTROPOLOGICI,METAFISICI E PEDAGOGICI CHE APPARTENGONO ALLA RIFLESSIONE DEL GINEVRINO.

Questo breve scritto, pur senza poter

prendere in considerazione le diverse fasi

ed evoluzioni della ricezione dell’opera

rousseauiana, si propone di mettere in

evidenza l’inganno presente nell’inter-

pretazione, tornata alla moda anche

negli ultimi anni5, che sostiene l’autori-

tarismo del pensiero rousseauiano. Un

inganno che si genera in quanto Rous-

seau viene considerato, esclusivamente,

come un filosofo politico riducendo, in

questo modo, la complessità e la pro-

fondità della sua riflessione. Ciò non si-

1. Sulle aspettative deluse dei contemporanei e sulleloro reazioni alla pubblicazione delle Confessions si vedaR. Trousson, Eziologia del ricordo d’infanzia e di giovinezzain J.-J. Rousseau, in G. Bertagna (ed.), Il “pedagogista”Rousseau tra metafisica, etica e politica, Editrice la Scuola,Brescia 2013, pp. 65-74.2. I. Kant, Fragmente [Bemerkungen in den “Beobachtun-gen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen”], VIII inKant’s gesammelte Schriften, Akademie der Wissen-schaften, Berlin 1900, XX, pp. 58-59, Annotazioni alle os-servazioni sul bello e sul sublime, Guida, Napoli 2002, p.80. La tesi kantiana viene ripresa e articolata da E. Cassi-rer, Il problema Gian Giacomo Rousseau, La Nuova Italia,Firenze 1938. Il saggio pubblicato nel 1932 è la rielabo-razione di una conferenza che Cassirer ha tenuto il 27febbraio 1932 a Parigi dal titolo L’unité dans l’oeuvre deJ.-J. Rousseau.3. C. Lévi-Strauss, Jean Jacques Rousseau, fondateur dessciences de l’homme, in AA.VV., Jean-Jacques Rousseau,Editions de La Baconnière, Neuchâtel 1962, tr. it. JeanJacques Rousseau, fondatore delle scienze dell’uomo, inRazza e storia e altri studi di antropologia, Einaudi, Torino1967, pp. 86-87.4. Voltaire, Lettera a J.-J. Rousseau, 1755, in R.A. Leigh(ed.), Correspondance complète, Voltaire Foundation, Ox-fordshire, vol. III, n. 317, pp. 156-157.5. Si veda il recente volume di G. Bedeschi, Il rifiuto dellamodernità. Saggio su Jean-Jacques Rousseau, Le Lettere,Firenze 2010.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 65

gnifica non riconoscere la presenza di ar-

gomenti conservatori nell’impostazione

rousseauiana, la problematicità del con-

cetto di volontà generale e l’ambiguità

della sua critica all’idea di rappresentanza

democratica, ma permette di sottolineare

anche l’impossibilità di interpretare gli

snodi teorici rousseauiani senza prendere

in considerazione, in modo completo, la

sua visione metafisica, etica, antropolo-

gica e pedagogica.

L’interpretazione totalitariaIl primo a parlare, in modo esplicito, di

“totalitarismo” nel pensiero politico di

Rousseau è Talmon che in The origins of

totalitarian democracy, pubblicato nel

1952, afferma che «il sovrano di Rous-

seau rappresenta la volontà generale

esternata e […] ha essenzialmente lo

stesso significato dell’ordine naturale ar-

monioso. Unendo questo concetto con

il principio della sovranità popolare, e

dell’autoespressione popolare, Rousse-

au diede origine alla democrazia totali-

taria»6. La tesi dello studioso polacco che

associa la proposta politica rousseauia-

na alla mentalità totalitaria genera mol-

te polemiche tra gli interpreti roussea-

uiani, anche per l’uso del termine “to-

talitario” che viene utilizzato per de-

scrivere i regimi nazifasciti e comunisti

del Novecento e sembra molto lontano

dallo spirito settecentesco. Ma l’accusa

di Talmon, al di là di alcune forzature e

semplificazioni, riprende in realtà un

tema già impiegato da diversi autori li-

berali. Per esempio, nei Principi di poli-

tica del 1815, Constant sostiene che il Gi-

nevrino ha concesso all’idea di volontà

generale un potere enorme che, di con-

seguenza, viola i limiti che ogni sovra-

nità popolare dovrebbe comunque man-

tenere in una democrazia liberale: i di-

ritti delle minoranze e la dimensione pri-

vata dei singoli che non infrangono le

leggi. Per questa ragione, afferma che il

Contrat social è «divenuto il più terribi-

le sussidio di ogni specie di dispotismo»7.

La volontà generale viene considerata,

secondo questa interpretazione, un

concetto astratto e ideologico che, non

avendo limiti e contrappesi istituzionali,

si trasforma in un potere assoluto che

non rispetta la libertà dei singoli e del-

le minoranze e, di conseguenza, nega la

stessa idea di libertà democratica che

Rousseau sostiene di voler difendere.

L’ammirazione rousseauiana per le co-

munità chiuse e agricole del passato lo

spinge ad avere come ideale politico non

la democrazia liberale moderna, ma uno

stato in cui il cittadino si identifica com-

pletamente con i valori etici della pro-

pria nazione. I sostenitori di questa

tesi possono, sicuramente, trovare nel

Contrat social diverse argomentazioni

per avvalorare la loro interpretazione, tra

cui la critica al principio di rappresen-

tanza e agli scambi commerciali. Ma a

guardare più in profondità, Constant e

Talmon, in modi e tempi differenti, non

stanno solo giudicando negativamente

la proposta politica rousseauiana, ma

stanno anche sostenendo, pur senza

dichiararlo apertamente, che la mo-

dernità della sua opera risiede nell’af-

fermare il primato e l’autosufficienza

della dimensione politica. E su questo

punto si costituisce l’inganno di questa

concezione.

6. J.L. Talmon, The origins of totalitarian democracy, Sec-ker & Warburg, London 1952; tr. it. Le origini della demo-crazia totalitaria, il Mulino, Bologna 1967, p. 63. La tesi diTalmon viene ripresa anche da Crocker, Rousseau’s so-cial contract: an interpretative essay, Cleveland 1968; tr.it. Il contratto sociale di Rousseau. Saggio interpretativo,SEI, Torino 1971.7. B. Constant, Principes de politique, Imprimerie de Hoc-quet, Paris 1815; tr. it. Principi di politica, Editori Riuniti,Roma 1970. Una tesi simile è espressa da E. Faguet, Dix-huitième siècle. Études littéraires, Boivin éditeurs, Paris1892, pp. 398-413.

Statua di Jean-Jacques Rousseau a Ginevra.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI66

PERCORSI DIDATTICI

Il recente lavoro di Bedeschi Il rifiuto del-

la modernità. Saggio su Jean-Jacques

Rousseau ricade nello stesso equivoco.

L’autore dichiara che la finalità del pen-

siero filosofico e politico rousseauiano

consiste nella «restaurazione della virtù

etico-politica della città antica, virtù che

è stata dissolta dallo spirito mercantile

della modernità»8. Per questa ragione, la

riflessione del Ginevrino propone l’idea-

le di una società chiusa che si oppone alla

modernità. Anche questa posizione teo-

rica, pur legittimata da molti passi del

Contrat social e dei due Discours, na-

sconde una marcata sopravvalutazione

del sapere politico in Rousseau. Un sa-

pere che riesce, se ben governato, a

portare l’uomo verso la costruzione di

legami sociali positivi che possono eli-

minare le contraddizioni e le ingiustizie.

Ciò che Bedeschi identifica come lo

spirito anti-moderno di Rousseau, in re-

altà, costituisce uno snodo teorico fon-

damentale nella sua concezione che,

attraverso le categorie metafisiche, eti-

che e pedagogiche – che non possono

mai essere espunte dalla sua riflessione

– mette in evidenza i limiti delle norme

e delle strategie politiche umane.

Per smascherare l’ingannoLa tesi che sostiene il totalitarismo del

pensiero politico rousseauiano si basa sul

seguente ragionamento. Se l’uomo è

buono nella sua essenza più profonda,

il male si genera nel momento in cui si

costruiscono i legami sociali e politici. Ne

consegue che il negativo ha una posi-

zione esterna e marginale e che, non es-

sendo strutturale, può essere eliminato

dalle comunità umane attraverso una ge-

stione ordinata ed equilibrata della so-

cietà. In altre parole, è la politica che può

risolvere positivamente, attraverso le

regole democratiche, il problema del

male e dell’ingiustizia. Pur senza argo-

mentare esplicitamente in questa dire-

zione, tutti i sostenitori della presenza di

autoritarismo nella proposta roussea-

uiana affermano che la sua modernità ri-

siede nell’aver colto l’importanza del-

l’autonomia della politica che, liberata

dai legami teologici ed etici, può elimi-

nare l’ineguaglianza della società, ma il

suo errore consiste, forse proprio perché

uomo settecentesco che non ha vissuto

l’epoca delle rivoluzioni, nel concepire

una democrazia chiusa, nostalgica e

profondamente illiberale. In questo

schema interpretativo, l’inganno si ma-

nifesta nel considerare Rousseau come

colui che ha concepito la politica, in un

senso illusoriamente moderno, come

l’unico strumento possibile per risolve-

re i mali della società umana.

È semplice dimostrare, come hanno fat-

to tra gli altri Derathè e Starobinski9, l’in-

fluenza delle categorie metafisiche, in par-

ticolare quelle dei sistemi seicenteschi di

Descartes, Leibniz, del giusnaturalismo

e dei classici come Aristotele e Platone,

nella formulazione delle teorie politiche

di Rousseau. L’importanza di principi

come la natura, la libertà, l’armonia e l’es-

senza positiva dell’uomo agiscono, co-

stantemente, nelle opere del Ginevrino

e testimoniano che non è possibile se-

parare la riflessione politica dalla con-

cezione teologica, metafisica e antropo-

logica. In questo senso, in Rousseau

non è possibile parlare di una scienza po-

litica che genera regole e finalità in

modo autonomo rispetto agli altri saperi

e che, quindi, è in grado di risolvere il

problema della disuguaglianza e del-

l’ingiustizia, formulando una teoria de-

mocratica equilibrata e razionale.

La soluzione politica del Contrat social

è solo una tra le possibili vie che il Gi-

nevrino indica per migliorare l’armonia

Il frontespizio del Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini.

8. G. Bedeschi, Il rifiuto della modernità. Saggio su Jean-Jacques Rousseau, cit., p. 25.9. Derathé scrive un testo molto approfondito sullefonti del pensiero politico rousseauiano. J. Derathé,Jean-Jacques Rousseau et la science politique de sontemps, PUF, Paris 1950; tr. it. Rousseau e la scienza politicadel suo tempo, il Mulino, Bologna 1993. Si veda anche J.Starobinski, La transparence et l’obstacle, Gallimard, Paris1971; tr. it. Jean-Jacques Rousseau. La trasparenza e l’osta-colo, il Mulino, Bologna 1982.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 67

PERCORSI DIDATTICI

tra i legami umani. Una via che deve, ne-

cessariamente, trovare il suo completa-

mento nella proposta educativa del-

l’Émile. Infatti, solo Emilio, alla fine del

suo progetto formativo, sarà l’uomo li-

bero in grado di firmare autonoma-

mente il contratto sociale e di rispettarne,

in modo responsabile, i vincoli. Ma

Emilio non rappresenta l’uomo sette-

centesco10, ormai degenerato dalle cat-

tive consuetudini della società e nem-

meno il cittadino della polis classica che

si identifica completamente con i valo-

ri della patria. Emilio, nella finzione del

romanzo, è l’uomo che è in grado di ri-

conoscere e manifestare pienamente la

propria libertà e bontà originaria, ar-

monizzando l’amour de soi, che fonda la

sua identità soggettiva, con la pietà, che

permette una relazione positiva con gli

altri. Solo al termine di un lungo per-

corso educativo interiore e relazionale

con il suo gouverneur, il giovane potrà di-

ventare «un benefattore, un modello»11

per i suoi contemporanei, senza accet-

tare passivamente i dispositivi sociali, ma

cercando di innovarli e trasformarli

positivamente.

La ripresa dei temi politici nell’Émile e

il tentativo di avviare un processo for-

mativo privato per superare i dispositi-

vi della società pubblica permettono di

comprendere l’intreccio tra la dimen-

sione educativa e quella politica e la pre-

senza, in entrambe, di una tensione eti-

ca e trascendente, volta al riconoscimento

e alla manifestazione dell’essenza posi-

tiva dell’uomo. Ciò che Rousseau coglie

non è l’autosufficienza e il carattere

messianico o autoritario della politica,

ma il suo irreversibile scacco e l’impos-

sibilità per ogni proposta politico-sociale

di risolvere pienamente la tensione tra la

libertà irriducibile del singolo e l’im-

perfezione della sua natura. Ossia, come

sostiene Gatti: «permane una tensione

essenziale tra pensare en philosophe le

condizioni della società ben ordinata e

realizzarla concretamente. O, in altri

termini, ci sarà sempre un vuoto non col-

mabile tra l’imperfezione della natura

umana e la ricercata, ma non ottenuta (e

non ottenibile?), perfezione dell’artificio

politico. […] Siamo al cuore del coté im-

politico di Rousseau»12. Ogni artificio po-

litico, anche lo stesso contratto, che si

pone la finalità di una società giusta e or-

dinata genera, inevitabilmente, i dispo-

sitivi e le consuetudini che producono le

ingiustizie e ineguaglianze.

Nel pensiero di Rousseau il male, il ne-

gativo e il supplemento agiscono già al-

l’interno dell’ideale naturale in diverse

forme: norme, legami sociali, debolez-

za umana13. Ne consegue che la propo-

sta politica rousseauiana può essere in-

terpretata, in modo adeguato, solo alla

luce delle categorie antropologiche e me-

tafisiche presenti nel suo pensiero. Ca-

tegorie teoriche che affermano l’essen-

za positiva dell’uomo, ma anche la sua

debolezza e l’imperfezione di ogni pro-

getto politico-sociale che può, per i limiti

della natura umana, trasformarsi in un

dispositivo autoritario e degenerativo. La

fecondità del pensiero rousseauiano ri-

siede proprio nell’aver colto questo

aspetto impolitico, che nega l’autosuf-

ficienza e il messianismo politico che

l’interpretazione totalitaria del Contrat

social sembra voler affermare.

Andrea PotestioUniversità di Bergamo

10. In questo modo Rousseau definisce l’uomo borghesesettecentesco: «sempre in contraddizione con se stesso,sempre oscillante tra inclinazioni e doveri, non sarà mainé uomo né cittadino, non sarà buono né per sé né per glialtri; sarà un uomo dei nostri tempi» (J.-J. Rousseau, Émileou de l’éducation, in Œuvres complètes, Bibliothèque de laPléiade, Editions Gallimard, Paris 1959-1995, vol. IV; tr. it.Emilio, Mondadori, Milano 1997, p. 12).11. Ibi, p. 670.12. R. Gatti, Rousseau. Il male e la politica, Studium, Roma2012, pp. 229-230.13. Su questi temi, mi permetto di rimandare a A. Pote-stio, Un altro Émile. Rilettura di Rousseau, Editrice LaScuola, Brescia 2013.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI68

PERCORSI DIDATTICI

La riflessione sulla differenza ses-

suale si è affacciata tardi alla co-

scienza contemporanea e alla ri-

flessione filosofica del nostro tempo. Nel-

la tradizione del pensiero filosofico gre-

co, in modo specifico nella filosofia

parmenidea, possiamo rintracciare,

come elemento distintivo, l’incapacità di

pensare il femminile nella sua origina-

rietà ossia di tematizzare il problema del

soggetto umano, che, nella prospettiva

di una buona parte della filosofia nove-

centesca della differenza sessuale, non è

uno ma due1. Alla filosofia parmenidea

ne va certamente addebitata un’incom-

prensione teoretica con conseguenze

negative in ordine all’assunzione di ciò

che identico non è e di ciò che, nel suo

essere diverso, rivela spazi di autonomia

e di specificità e chiede di essere rico-

nosciuto per ciò che è.

La riflessione su quella alterità, che è rap-

presentata dalla donna, è, infatti, uno dei

temi più recenti e complessi del pensie-

ro contemporaneo, probabilmente, come

reputa Luce Irigaray, riprendendo alcu-

ne affermazioni di Heidegger, si tratta di

«uno dei problemi o il problema che la

nostra epoca ha da pensare»2. Seguen-

do a grandi linee interpretative i luoghi

classici del pensiero filosofico occiden-

tale l’aporia che si presenta è quella di

concettualizzare la differenza in quan-

to tale, prima ancora di poter rendere ra-

gione proprio di quella forma specifica

della differenza che è rappresentata,

appunto, dalla differenza sessuale.

Ora, il tema della differenza in ambito

filosofico non rivela uno spazio auto-

nomo di teorizzazioni, ma si sviluppa in

stretta relazione con il percorso teoreti-

co dell’identità. Per queste ragioni, la

comprensione della differenza non è pos-

sibile se non in stretto rapporto con il

problema dell’Identico, dal momento

che essa viene inizialmente tematizza-

ta come non-identità. In questo senso,

è pertanto ragionevole sostenere che il

problema in questione richieda di esse-

re posto tenendo in considerazione in-

nanzitutto quanto la formulazione par-

menidea delle aporie sull’essere ha con-

sentito di rilevare.

L’aporia strutturale della filosofia par-

menidea è, infatti, pensare contestual-

mente l’essere e il non essere cioè am-

mettere come principio che l’essere si

può differenziare e perciò può dar luo-

go alla molteplicità. Il non essere è de-

finibile, per il filosofo di Elea, pura ne-

gatività, infatti Parmenide intende il

vero come principio di determinazione

dell’essere in quanto essere, cogliendo,

nell’esercizio del theorein, ciò che ari-

stotelicamente è l’essere in quanto esse-

re. Ciò che “non è” non è pensabile e non

è conoscibile; tale aspetto è codificato dal

principio parmenideo secondo cui iden-

tico è il pensare e l’essere o, in altri ter-

mini, il pensare e il pensare che è, per-

Filosofia della differenza sessualeDalla logica dell’uno alla logica dualeMaria Rita Fedele

LO STUDIO PROPONE SPUNTI DI RIFLESSIONE SULLA PERCEZIONE DELLA DIFFERENZA DI GENERE DAL PENSIERO

FILOSOFICO GRECO AL DIBATTITO NOVECENTESCO.

tanto sul piano logico la formulazione

del principio A=A ci dice che l’essere è

e il non essere non è3.

La teorizzazione parmenidea dell’esse-

re pone l’identità a fondamento del

vero e riduce la differenza a puro non es-

sere, dunque a non vero, dando così ori-

gine al complesso problema che ri-

guarda la determinazione dell’alterità.

L’Altro, infatti, inteso come diverso dal-

l’identico, viene posto sempre in rela-

zione a “ciò che non è”. Secondo la logica

di Parmenide pensare la differenza come

non essere ossia come ciò che è diverso

dall’essere significa pensare il puro nul-

la, la negatività assoluta. Per Parmenide,

infatti, pensare ed essere coincidono

ossia pensare è identico a pensare che “è”,

dal momento che “tutto ciò che è” è es-

sere, pertanto pensare vuol dire pensa-

re l’essere.

1. AA.VV., Diotima. Il pensiero della differenza sessuale, LaTartaruga, Milano 2003, p. 10 e anche L. Irigaray, Esseredue, Bollati Boringhieri, Torino 1994 e E. Musi, Tornare alleorigini come principio etico universale, in Id., Concepire lanascita, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 31-44.2. L. Irigaray, Etica della differenza sessuale, trad. it. di L.Muraro e A. Leoni, Feltrinelli, Milano 1985, p. 11; R. Mor-dacci, Il conflitto della differenza. Il femminile e l’irriduci-bilità della cura, in L. Palazzani (a cura di), La bioetica e ladifferenza di genere, Studium, Roma 2007, pp.165-179; E.Ruspini, Le identità di genere, Carocci 2006; F. Giustinelli,Letteratura e pregiudizio. Diversità e identità nella culturagreca, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2007.3. G. Calogero, Studi sull’Eleatismo, Parmenide, La NuovaItalia, Firenze 1977, pp. 1-67 e anche M. Untersteiner (acura di), Parmenide, Testimonianze e frammenti, La NuovaItalia, Firenze 1979; G. Reale, Storia della filosofia antica,Vita e Pensiero, Milano 1989, vol. I, pp.119-131.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 69

PERCORSI DIDATTICI

L’impianto filosofico parmenideo, come

rileva Adriana Cavarero, ha costituito per

lungo tempo la logica dominante del-

l’indifferenza verso la diversità e ha for-

nito la cornice concettuale entro cui è

stata pensata la coppia dei binomi

uomo/donna, mente/corpo, ego/alter-

ego; questo aspetto non deve sorpren-

derci se consideriamo che la logica par-

menidea suggerisce che pensare le cose

significa poterle dire come sono e non

come non sono4. L’Autrice, infatti, af-

ferma che pensare l’essere uomo e l’es-

sere donna come qualcosa di originario

richieda una concettualizzazione duale,

«un duale assoluto, una sorta di para-

dosso per la logica dell’uno-molti5.

Ora, pur essendo il concetto di alterità

più comprensivo ed esteso del concetto

di alterità sessuale, l’esperienza originaria

dell’alterità rimanda all’esperienza del-

l’alterità sessuale. Luce Irigaray, afferma,

infatti, che «il primo altro che incontro

è il corpo della madre» ed è questa l’al-

terità che compare nella primissima re-

lazione con il corpo dell’altro6. Secondo

l’impostazione che le categorie tradi-

zionalmente hanno dato alla logica clas-

sica risalente a Parmenide, la differenza

sessuale è stata pensata in termini di op-

posizione e di contraddizione, un’ope-

razione teoretica che ha ricondotto l’al-

terità all’Uno-Identico, senza lasciare

spazio alla distanza e all’asimmetria

dell’altro sesso7. Il tema dell’alterità po-

stula invece la comprensione della dif-

ferenza, perché l’altro per essere “Altro”,

è da ritenersi originariamente autono-

mo e indipendente dall’Uno. Il ricono-

scimento della differenza è una via ob-

bligata per rendere possibile l’afferma-

zione dell’Altro; essa è misura della vi-

cinanza e della lontananza tra l’Uno e

l’Altro e spazio intrascendibile della

non omologazione tra uomo e donna.

L’alterità pertanto è sempre portatrice di

una differenza quando pone una corre-

lazione tra due cose non semplicemen-

te diverse ma appunto differenti. Il ter-

mine greco diaforß che rendiamo in ita-

liano con la parola “differenza” indica la

determinazione dell’alterità, invece il ter-

mine “alterità” non implica automati-

camente alcuna determinazione, infat-

ti una cosa è dire che «a è altro da b» e

un’altra cosa è dire che «a è differente

da b nel colore, nella forma, o secondo

qualche altro aspetto»8. A ben precisa-

re, questo particolare è stato sottolineato

da Aristotele che ha introdotto una so-

stanziale differenza semantica tra i due

termini “diverso” e “differente”. La dif-

ferenza, per Aristotele, non implica

un’alterità assoluta, poiché nella diffe-

renza l’alterità è sempre in relazione con

l’identità e viceversa. Nel libro X della

Metafisica, Aristotele afferma che «ciò che

è differente è differente da qualcosa per

qualcosa di determinato, di guisa che deve

esserci qualcosa di identico per cui diffe-

riscono» in modo che sono differenti

«quelle cose che, pur essendo diverse,

sono per qualche aspetto identiche»9.

Ora, ritornando alla questione parme-

nidea dell’identico è possibile rilevare che

la conseguenza di un pensiero basato sul-

l’identità originaria è che l’Altro, non es-

sendo per sé, risulta ottenuto per nega-

zione dell’identico cui viene ricondotto;

si tratta, in altri termini, dell’on sferico di

Parmenide, che è immobile, identico in

ogni sua parte, e nega così che l’essere pos-

sa differenziarsi e divenire molteplice.

Se la differenza sessuale è pensata in que-

sto quadro concettuale, allora l’essere don-

na è codificato solo in termini di Altro ri-

spetto all’Uno, all’essere maschile e, in

questo senso, secondo quanto afferma Si-

mone De Beauvoir, la donna rappresen-

ta il secondo sesso10. La donna cioè è po-

sta come l’Altro dell’Uno che si afferma

Uno; rispetto al sesso maschile, che è pri-

mo e originario, il sesso femminile, ri-

mane circoscritto in quella secondarietà

che gli deriva dall’essere posta irrime-

diabilmente come Altro e si vede defini-

to come sesso secondario e inessenziale11.

Da una logica, come quella parmenidea,

deriva dunque l’eliminazione della ori-

ginaria differenza tra l’identico e il diverso.

La cancellazione del femminile ha avu-

to pesanti ripercussioni sotto il profilo

storico, da cui emerge, come dato carat-

teristico di molte epoche storiche, l’aspet-

to peculiare di una cultura patriarcale,

E. Burne Jones, Pan e Psiche (1872-74),collezione privata.

4. Cfr. A. Cavarero, Per una teoria della differenza sessuale,in AA.VV., Diotima. Il pensiero della differenza sessuale, cit.,pp. 44-45.5. Ibidem.6. L. Irigaray, Essere due, cit., p. 39.7. W. Tommasi, La tentazione del neutro, in AA.VV., Dio-tima. Il pensiero della differenza, cit., p. 92; A. Cavarero, F.Restaino, Le filosofie femministe, Mondadori, Milano2002, pp. 78-85; G. Salonia, Femminile e maschile: vicendee significati di un’irriducibile diversità, in R. G. Romano (acura di), Ciclo di vita e dinamiche educative nella societàpostmoderna, Franco Angeli, Milano 2004, pp. 54-65.8. N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Utet, Torino 1971,pp. 230-231.9. Cfr. Aristotele, La Metafisica, trad. it. di G. Reale, Lof-fredo, Napoli 1978, Libro X, 3, 1054 b 20-25 e Libro V, 9,1018, pp. 10-15.10. S. De Beauvoir, Il secondo sesso, trad. it. di R. Cantini eM. Andreose, Il Saggiatore, Milano 20002, pp. 13-28.11. Ibi, pp. 16-17.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI70

PERCORSI DIDATTICI

che ha privato la donna del riconosci-

mento della sua soggettività. La donna,

riprendendo il pensiero di De Beauvoir,

«si determina e si differenzia in relazio-

ne all’uomo, non l’uomo in relazione a

lei; è l’inessenziale di fronte all’essenzia-

le. Egli è il Soggetto, l’Assoluto: lei è l’Al-

tro»12. Anche la tematizzazione della

differenza sessuale puntualizzata da Ca-

varero si mostra in sintonia con quan-

to già espresso da De Beauvoir. La ne-

gazione della originaria differenza con-

duce a definire l’alterità della donna come

negatività, perciò, come afferma Cava-

rero, «la donna è l’altro dell’uomo e l’uo-

mo l’altro della donna, ma di un’alteri-

tà diversamente fondata: l’alterità del-

l’uomo nei confronti della donna si

fonda infatti nell’uomo stesso che, po-

nendosi preliminarmente come univer-

sale, ammette se stesso come uno dei due

sessi nei quali l’universale si specifica13.

L’alterità della donna viene invece a

fondarsi in negativo poiché «l’universa-

le-neutro uomo, particolarizzandosi

come “uomo” sessuato al maschile si tro-

va di fronte l’uomo sessuato al femmi-

nile, e lo dice appunto altro a partire da

sé»14. Sicché, l’universale neutro “Uomo”

mette tra parentesi le determinazioni in-

carnate del soggetto, tanto che il termi-

ne “uomo” finisce con il riferirsi sia al ma-

schio che alla femmina, in quanto facenti

parte entrambi del genere umano, ma in

una sorta di unità indistinta delle parti;

il soggetto umano “Uomo” tende ad uni-

versalizzarsi e a farsi essenza dell’umano,

comprendendo e inglobando anche l’al-

terità femminile, di per sé irriducibile e

originaria, in un tutto indifferenziato15.

Relativamente alla considerazione del-

la differenza e riprendendo le riflessio-

ni aristoteliche precedentemente ri-

chiamate, occorre rilevare che essa non

può non presupporre la determinazio-

ne che è la condizione necessaria e in-

dispensabile per intenderla sia sul pia-

no ontologico che logico. In questo sen-

so, nota bene Cavarero quando afferma

che la differenza impone di guardare ad

un soggetto che è incarnato in tutto lo

splendore della sua finitezza cioè a un

soggetto che non è neutro ma sessuato.

Non tutte le filosofie novecentesche del-

la differenza sessuale concordano su

questo punto, reputando che la teoria

duale della differenza sessuale abbia fi-

nito con l’annullare tutte le altre diffe-

renze. Per fare alcune esemplificazioni del

discorso ci si può richiamare al termine

Queer cui ricorre, per esempio, De Lau-

retis per indicare un soggetto eccentri-

co, fluido, mai chiaramente definito

sessualmente o al post-gender cui ricor-

re Butler per indicare un soggetto in cui

il sesso è fluido, continuamente nego-

ziabile sulla base di scelte revocabili e mai

definitive, o ancora al Cyborg, cui ricor-

re Haraway per indicare un soggetto ases-

suato che appartiene al mondo post-ge-

nere e non ha niente da spartire con la

bisessualità o la differenza sessuale16.

Queste nuove alternative del modo di

concepire la soggettività sono ovvia-

mente favorite dall’orizzonte post-strut-

turalista, che caratterizza molte espres-

sioni radicali del pensiero contempora-

neo, e si collocano nella cornice proble-

matica della postmodernità, in cui si

annulla la dualità/differenza dei sessi per

far posto ad una soggettività indifferen-

ziata o, in altri termini, post-umana.

Ora, omettendo il dato ontologico del-

la differenza sessuale, cioè quella deter-

minazione dell’essere che è inscritta nel

corpo, queste filosofie alternative del

soggetto dimenticano che il corpo uma-

no presenta proprietà strutturali inva-

rianti, costitutive e non accidentali del-

l’essere donna e dell’essere uomo, pro-

prietà che rappresentano la grammati-

ca universale del corpo e allo stesso

tempo la sua ambivalenza: da un lato il

corpo è sempre una “realtà per noi”, ma

dall’altro lato è sempre una “realtà in sé”

cioè ha un suo modo strutturale di essere

che è indipendente da chi lo vive e lo per-

cepisce. Riguardo al problema dell’alte-

rità, le teorie postmoderne della diffe-

renza sessuale sembrano, quindi, di-

menticare che un’alterità senza deter-

minazioni è impossibile come alterità

stessa sia sul piano ontologico che logi-

co e poiché l’alterità è pensabile sul fon-

damento dell’essere, senza quelle deter-

minazioni d’essere che la costituiscono,

avrebbe il nulla come contenuto e in al-

tri termini sarebbe quindi impossibile.

Maria Rita FedeleUniversità degli Studi di Palermo

12. Ibi, p. 16. Il corsivo è mio.13. A. Cavarero, Per una teoria della differenza sessuale,in AA.VV., Diotima. Il pensiero della differenza sessuale, cit.,p. 44.14. Ibidem.15. Ibi , p. 45.16. T. De Lauretis, Soggetti eccentrici, Feltrinelli, Milano1999, pp. 104-106; J. Butler, Corpi che contano. I limiti di-scorsivi del sesso, trad. it. di S. Capelli, Feltrinelli, Milano 1996;D. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopoli-tiche del corpo, trad. it. di L. Borghi, Feltrinelli, Milano 1995.

Sul sito della rivista http://nuovasecondaria.lascuolaconvoi.it/, in Nuova SecondariaRicerca e in Nuova Secondaria Discipline, ilpercorso teoretico sul tema della filosofiadella differenza sessuale iniziato sulla rivistacartacea prosegue e si completa con un ap-profondimento e una proposta di didatticacon le slide relativamente alla disciplina “fi-losofia”. Nell’approfondimento si traccianoi lineamenti di alcune figurazioni classichedel femminile che attraversano i sentieri delmito e della filosofia e lasciano trasparirela cornice greca entro la quale si forma l’im-maginario collettivo della differenza ma-schile-femminile. Nella didattica con le sli-de si procede con l’analisi delle dicotomietradizionali mente/corpo, ragione/senti-mento, pubblico/privato che hanno con-sentito di rilevare lo stereotipo del fem-minile e, più in generale, il peso della cul-tura e della tradizione nella percezione del-la differenza di genere.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 71

PERCORSI DIDATTICI

Da sempre la tavola è il luogo per

eccellenza di ritrovo, di socializ-

zazione, di integrazione. Da ciò

se ne inferisce che diete e tabù alimentari

sono variegati quanto l’umanità stessa.

Anche se non ci sono abitudini alimen-

tari o tabù universali, essi fanno parte del-

la vita quotidiana di tutte le società, che

hanno dunque normato ciò che i loro

membri possono mangiare, hanno spe-

cificato le circostanze nelle quali certi tipi

di cibo possono essere consumati e fat-

to uso di cibo nei rituali religiosi. Rego-

le e pratiche alimentari riguardanti il cibo

costituiscono un linguaggio che esprime

i valori che una cultura insegna a riguardo

della natura, di Dio, delle fonti dell’au-

torità sociale, degli scopi della vita. In dif-

ferenti religioni gli stessi cibi possono si-

gnificare morte o rinascita, dare nutri-

mento agli dèi o canalizzare il loro potere

sui fedeli. Insomma, dal momento che il

cibo è una necessità umana universale,

l’atto di porre dei tabù alimentari è par-

ticolarmente rivelatore dei valori che

distinguono una cultura dall’altra ed è

fondamentale per delineare una antro-

pologia della alimentazione.

Nell’antichità classica greca e romana la

mensa si imbandiva per coloro con i qua-

li si sentiva un vincolo sacro di amicizia,

con cui si condividevano comuni idea-

li politici: non era lecito mangiare con i

nemici e l’ospitalità era, al contempo, un

diritto e un dovere. Il pasto costituiva, in

origine, un atto religioso: conservavano

questo carattere i banchetti rituali delle

divinità, dei morti, delle cerimonie pub-

bliche, ma anche i banchetti privati cui

assistevano, onnipresenti, gli dèi. Come

è noto, una prima parte del banchetto era

dedicata al pranzo, la seconda parte, il

simposio, che avveniva dopo che i con-

vitati avevano versato libagioni e canta-

to un inno, era dedicato al piacere del

bere il vino. Non vi erano specifiche proi-

bizioni alimentari comuni, ma ne vige-

vano nei vari gruppi filosofici: forse il più

celebre divieto è quello che avevano i pi-

tagorici in relazione alle fave. Anche se re-

centemente un medico americano, stu-

dioso del mondo antico, ha ipotizzato che

i pitagorici potessero avere già scoperto

il favismo, probabilmente la motivazio-

ne più convincente è che i pitagorici, ma

anche i filosofi platonici, fossero convinti

che nelle fave albergassero le anime dei

propri avi defunti.

Anche oggi, per i ragazzi, momenti

come quello della merenda o di pasti

consumati insieme può essere un’occa-

sione di reciproca conoscenza per ciò che

riguarda le proprie abitudini, ma anche

il luogo dove esercitare il rispetto nei

confronti delle prescrizioni alimentari

cui gli osservanti sono tenuti e che ri-

guardano soprattutto i ragazzi di fede

ebraica, musulmana e induista (per

non parlare del caso dei sikh), nella re-

ligione cattolica, come si sa, non esisto-

no specifiche prescrizioni alimentari.

Vediamo ora in breve, religione per re-

ligione, le principali prescrizioni ali-

mentari.

Il cibo nelle religioniRosa Maria Parrinello

NELLE RELIGIONI DI TUTTO IL MONDO IL CIBO ASSUME UN VALORE SACRALE E SIMBOLICO: QUESTO STUDIO SVILUPPA

UN PERCORSO CHE SPAZIA DALL’ANTICHITÀ CLASSICA ALLE CIVILTÀ EXTRAEUROPEE CONTEMPORANEE.

Nell’Induismo le prescrizioni alimenta-

ri dipendono dalla casta di appartenen-

za dell’individuo: i brahmani sono tra-

dizionalmente vegetariani, perché non

possono nutrirsi di ciò che ha avuto vita

animale, essendo i cadaveri contaminanti.

Sono dunque esclusi dalla loro dieta la

carne, il pesce, le uova fecondate, aglio,

cipolla, nonché le bevande inebrianti.

Le caste più basse possono nutrirsi di car-

ne di pollo, di capra e di montone,

mentre i paria possono mangiare qua-

lunque tipo di carne purché l’animale sia

morto di vecchiaia o malattia, perché essi

sono impuri, devono nutrirsi di cose con-

taminate e rimanere in basso. I cibi si di-

stinguono in tamasici, cioè per le popo-

lazioni assoggettate dagli Ariani; rajasi-

ci, per le persone che conducono attivi-

tà produttive, commerciali e di difesa del-

lo stato; sattvici, per i puri, i sacerdoti.

Sono comunque vietate a tutti le carni

di vacca, incarnazione del dono divino,

e di bufalo, quest’ultimo sacro al dio

Yama, di elefante, di cavallo, di cammello

e di maiale.

Un tabù molto importante riguarda la

saliva: il cuoco non deve assaggiare il cibo

durante la preparazione, perché la sali-

va non entri in contatto con il cibo me-

desimo.

Sicuramente il sistema ebraico è quello

più complesso. Leggiamo Levitico 11, 3-

41: «Potrete mangiare di ogni quadru-

pede che ha l’unghia bipartita, divisa da

un fessura, e che rumina. Ma fra i ru-

minanti e gli animali che hanno l’unghia

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI72

PERCORSI DIDATTICI

divisa, non mangerete i seguenti: il cam-

mello, perché rumina ma non ha l’un-

ghia divisa, lo considererete immondo;

l’irace [erbivoro simile al coniglio ma ap-

partenente al genere Procavia], perché

rumina ma non ha l’unghia divisa, lo

considererete immondo; la lepre, perché

rumina ma non ha l’unghia divisa, la

considererete immonda; il porco, perché

ha l’unghia bipartita da una fessura, ma

non rumina, lo considererete immondo.

[…] Questi sono gli animali che potre-

te mangiare tra gli acquatici. Potrete

mangiare quanti hanno pinne e squame,

sia nei mari, sia nei fiumi. Ma di tutti gli

animali che si muovono o vivono nelle

acque dei mari e nei fiumi, quanti non

hanno né pinne né squame, li terrete in

abominio. […] Fra i volatili terrete in

abominio questi, che non dovrete man-

giare, perché ripugnanti: l’aquila, l’ossi-

fraga [uccello della famiglia delle Pro-

cellarie] e l’aquila di mare, il nibbio e ogni

specie di falco, ogni specie di corvo, lo

struzzo, la civetta, il gabbiano e ogni spe-

cie di sparviere, il gufo, l’alcione, l’ibis,

il cigno, il pellicano, la folaga, la cicogna

e ogni specie di airone, l’upupa e il pi-

pistrello. Sarà per voi in abominio anche

ogni insetto alato, che cammina su quat-

tro piedi. Però fra tutti gli insetti alati che

camminano su quattro piedi, potrete

mangiare quelli che hanno due zampe,

sopra i piedi, per saltare sulla terra. Per-

ciò potrete mangiare i seguenti: ogni spe-

cie di cavalletta, ogni specie di locusta,

ogni specie di acridi e ogni specie di gril-

lo. […] Per i seguenti animali divente-

rete immondi […]. Considererete im-

mondi tutti i quadrupedi che cammi-

nano sulla pinta dei piedi. […] Fra gli

animali che strisciano per terra riterre-

te immondi: la talpa, il topo e ogni spe-

cie di sauri, il toporagno, la lucertola, il

geco, il ramarro, il camaleonte».

Qualunque cosa venga toccata da que-

sti animali sarà immonda. Chiunque ne

toccherà i cadaveri sarà immondo fino

alla sera; nella stessa situazione verrà a

trovarsi chi si ciberà dei cadaveri degli

animali consentiti.

Molti sono i cibi considerati impuri: in

primo luogo possiamo citare gli anima-

li carnivori e gli uccelli da preda, che

mangiano la carne senza averne lascia-

to scolare il sangue. Sono permessi, per-

ché considerati animali puri, i quadru-

pedi, che sono ruminanti e hanno il pie-

de diviso in due e l’unghia fessa (ad esem-

pio bovini, ovini, cervi, caprioli), men-

tre sono proibiti, perché considerati im-

puri, quelli che hanno una sola di que-

ste condizioni (maiale, cammello) o

nessuna (cavallo, gatto). Anche quella dei

conigli è carne vietata. Sono puri tutti i

volatili, salvo 24 specie non identificabili

in modo sicuro; sono impuri tutti i cro-

stacei, dal momento che gli animali ac-

quatici di cui è permesso cibarsi devono

avere pinne e squame. Essendo vietato ci-

barsi del sangue dei quadrupedi e dei vo-

latili, dal momento che il sangue è la sede

della vita, e dunque è sacro, gli animali

devono essere macellati secondo deter-

minate regole che impongono il taglio

completo di esofago e trachea per mez-

zo di un coltello affilatissimo in modo che

sia versata, in breve tempo, la maggior

parte possibile del sangue. Inoltre, poi-

ché «un piccolo non deve cuocere nel lat-

te della madre» (Esodo 23,19), le carni

non possono cuocere con i latticini. Il

pane è azzimo, cioè non lievitato, in ri-

cordo della fuga dall’Egitto, quando non

ci fu appunto il tempo di farlo lievitare.

L’idoneità di un cibo ed essere consumato

secondo le regole alimentari della reli-

gione ebraica si chiama Kasherut o Ca-

sherut. Il dato interessante da un punto

di vista della mentalità è che, secondo la

Genesi, l’uomo edenico è vegetariano e

diventa carnivoro solo dopo il Diluvio.

Una tendenza tipica è quella di dare spie-

gazioni di carattere razionale alle pre-

scrizioni alimentari: ad esempio non si

mangia il maiale perché la sua carne è

grassa e nei paesi caldi è difficile da di-

gerire, oppure perché è un animale

sporco. Trovata questa spiegazione, bi-

sogna spiegare allora perché non si pos-

sono mangiare i crostacei, che certo

non sono sporchi! È bene abituarsi a ra-

gionare sul fatto che chi rispetta i pre-

cetti lo fa perché essi sono stati diretta-

mente ispirati da Dio e sono parola di

Dio, senza avventurarsi in spiegazioni

(magari condivise da alcuni degli ap-

partenenti alla religione in oggetto) ra-

zionalizzanti o pseudo-scientifiche, che

in genere banalizzano e sviliscono la por-

tata dei precetti religiosi; in altre paro-

le, il pio ebreo non mangia gli animali

impuri perché la sua è un’ortoprassi

(cioè una corretta pratica) che segue

quelli che egli considera come ordini di-

vini (come avviene anche per chi ap-

partiene altre religioni).

In ambito ebraico, al problema dell’ali-

mentazione se ne collegano altri: ad

esempio, è legittimo l’uso del forno a mi-

croonde? Inoltre, si pone anche il pro-

blema delle maglie più o meno strette

dell’osservanza: ci sono ebrei che si li-

mitano a non mangiare cibi impuri e al-

tri che rispettano anche tutto l’insieme

delle norme di preparazione dei cibi, che

devono cuocere ad esempio in pentole

non utilizzate per cucinare il cibo per i

non-ebrei, ecc.

Per quanto riguarda il buddhismo, sul-

l’esempio del Buddha, che in punto di

morte avrebbe detto «Cibarsi di carne

estingue il seme della grande compas-

sione», i buddisti sono in genere vege-

tariani, ma non sempre il buddista rifiuta

carne e pesce: egli però non deve ucci-

dere l’animale per cibarsene. Inoltre,

molte culture buddhiste hanno vietato

le bevande alcoliche.

Del cristianesimo si è accennato. Le

motivazioni potrebbero in parte ritro-

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 73

PERCORSI DIDATTICI

varsi nel noto versetto evangelico di

Matteo 15,10 in cui Gesù dice: «Non

quello che entra nella bocca rende im-

puro l’uomo, ma quello che esce dalla

bocca rende impuro l’uomo!» (paralle-

lo in Marco 7,15: «Non c’è nulla fuori del-

l’uomo che, entrando in lui, possa con-

taminarlo; sono invece le cose che esco-

no dall’uomo a contaminarlo»). Ecco

perché non vi sono particolari prescri-

zioni alimentari, né cibi vietati (a meno

che non si tratti del regime monastico,

che però è altra cosa), se non la prescri-

zione di evitare di mangiare carne al ve-

nerdì e durante la quaresima (anche se

la Conferenza episcopale italiana ha

ammesso la sostituzione dell’astinenza

con una diversa forma di mortificazio-

ne in tutti i venerdì dell’anno). Oggi mol-

ti protestanti evangelici hanno adottato

la proibizione, legittimata su base reli-

giosa, di non bere alcolici. Vi sono poi cibi

che hanno un valore simbolico: ad esem-

pio le uova pasquali al cioccolato si ri-

collegano alle radici primordiali della Pa-

squa nelle feste primaverili di rinascita.

Bisognerebbe interrogarsi poi sul ritor-

no ad alcune forme di differenziazione

o astinenza in chiave identitaria: il pri-

mo esempio è quello dei Greci ortodossi,

per i quali il gyros, esatto corrispettivo del

kebab, è rigorosamente fatto con carni

d’agnello per differenziarsi da quello tur-

co, abitualmente di montone. Il secon-

do esempio è italiano: a fine gennaio

2008, nell’imminenza della Quaresima,

alle scuole romane è arrivata una Nota,

firmata dalla dirigente dell’Unità orga-

nizzativa servizi educativi, culturali e so-

ciali del XVII Municipio, in cui si chie-

deva alle ditte di ristorazione di variare

il menù per l’intero periodo quaresimale,

servendo pesce e formaggio il venerdì e

alleggerendo la merenda (panino farci-

to sostituito con pane e cioccolata).

Tutti hanno obbedito salvo due dirigenti

di scuole per l’infanzia che, disponendo

di mense autogestite, hanno scelto di non

modificare i menù concordati, ferma re-

stando la possibilità, a richiesta delle fa-

miglie, di sostituire la carne con altre pie-

tanze, per motivi religiosi. Ne è nata una

polemica sulla legittimità di imporre o

meno un menù quaresimale.

Per ciò che concerne l’islam, il sistema

delle prescrizioni alimentari è semplifi-

cato rispetto a quello ebraico, ma analogo

per alcune tipologie di carni proibite (ad

esempio il maiale) e per l’esigenza della

macellazione rituale (anche se ad esem-

pio i convertiti italiani non comprano le

carni soltanto nelle macellerie islamiche).

Le prescrizioni alimentari hanno base co-

ranica: si veda Cor. 2, 173: «Dio vi ha proi-

bito gli animali morti, il sangue, la car-

ne di maiale e gli animali ad altro che a

Dio, però chi si troverà costretto, senza

desiderio e senza intenzione, costui non

farà peccato»; 5,3: «Vi sono proibiti gli

animali morti, il sangue, la carne di ma-

iale, gli animali che sono stati macellati

senza invocazione del nome di Dio e

quelli soffocati o uccisi a bastonate o sca-

picollati o ammazzati a cornate, e quel-

li divorati dalle fiere, e quelli sacrificati su-

gli altari idolatrici»; 5,90: «Voi che credete,

il vino, il gioco d’azzardo, le pietre ido-

latriche, le frecce divinatorie sono cose

immonde, opere di Satana, dunque evi-

tatele affinché possiate avere fortuna».

Sono proibite le carni del maiale, di

animali morti per cause naturali, delle ca-

valcature (asini, muli, cavalli, cammelli),

di carnivori muniti di canini, di rapaci,

di animali domestici. L’uccisione del-

l’animale deve essere compiuta in nome

di Dio: esso deve essere sgozzato con un

completo deflusso del sangue, evitando

la sofferenza dell’animale. La legge isla-

mica ammette come lecita la macella-

zione effettuata da ebrei e cristiani, ma

non può accettare i metodi della moderna

macellazione dei paesi occidentali, che

non prevedono lo sgozzamento e il dis-

sanguamento totale della bestia. I mu-

sulmani non possono bere alcolici di nes-

sun tipo. È interdetto il latte degli animali

dei quali non è lecito mangiare la carne.

Nei paesi occidentali l’islam fa i conti con

i simboli, gli status, i luoghi che attira-

no soprattutto i più giovani: uno di essi

è senza dubbio il MacDonald’s, il fast

food per eccellenza, dove i ragazzini di

fede islamica fino al 2005 dovevano

rassegnarsi a ordinare unicamente il

panino con il filetto di pesce. Nel 2005,

però, a Clichy-sous-Bois, Parigi, ha

aperto il primo “Beurger King Muslim”,

dove si servono hamburger in tutte le sal-

se, ma con animali halal (ossia “leciti”),

macellati secondo il rito islamico, sen-

za uso di alcool né di strutto. Il fast food

ha inoltre dato lavoro a 28 ragazzi mu-

sulmani disoccupati e senza prospetti-

ve di lavoro, diventando un luogo di in-

contro e di aggregazione giovanile.

Rosa Maria ParrinelloUniversità di Torino

Pittore di Ganimede, lato A di uncratere apulo a figure rosse: un giovane

offre libagioni a un defunto che siedein un naiskos (340-320 a.C.). Madrid,

Museo Archeologico Nazionale.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI74

PERCORSI DIDATTICI

Èsempre un buon metodo quello di

dichiarare all’inizio di un lavoro gli

scopi che ci si prefiggono. Questo

consente al lettore di seguire i percorsi

già sapendo dove si vuole arrivare e di

poter valutare poi se tali scopi sono sta-

ti raggiunti. In questo lavoro ci prefig-

giamo tre scopi. I primi due sono ben

evidenti dal titolo. In particolare, si in-

tende definire e illustrare l’ottica della

complessità sistemica, quale si è confi-

gurata in ambito scientifico nella se-

conda metà del XX secolo, e mostrare

che il mondo molecolare possiede quel-

le caratteristiche complesse e sistemiche

da tempo e che, quindi, la chimica può

essere vista come una scienza della

complessità sistemica ante litteram1. Il

terzo scopo è implicito nella scelta di una

rivista di didattica. Esso può essere rias-

sunto come segue: ammesso che si di-

mostri l’importanza dell’ottica della

complessità sistemica in scienza e il

ruolo che la chimica può svolgere in essa,

in ambito didattico che si può fare per

seguire questo nuovo approccio nella

presentazione delle materie scientifi-

che (e non solo)? I primi due punti ver-

ranno trattati più dettagliatamente del-

l’ultimo che, di fatto, verrà solo accen-

nato nella Conclusione, come punto di

riflessione per i docenti. Questo non per-

ché meno importante, ma solamente

perché rientra meno nelle mie compe-

tenze di chimico impegnato principal-

mente nella ricerca.

La prima metà del XX secolo è stata ca-

ratterizzata in ambito scientifico dalla ri-

voluzione della meccanica quantistica e

da quella della meccanica relativistica,

ambedue di ambito fisico, ambedue di

ambito meccanico. Nella seconda metà

del Novecento, invece, sono avvenute due

rivoluzioni scientifiche per molti aspet-

ti diverse e, soprattutto, in ambito di-

verso. Esse vanno sotto i nomi di Scien-

ze della Complessità e Teoria Generale dei

Sistemi (o Sistemica). La bibliografia su

questi ambiti è enorme. Per qualche aiu-

to specifico si veda2. In realtà, per le no-

tevoli connessioni che esistono tra que-

sti due grossi ambiti si può parlare al sin-

golare di una rivoluzione che ha tra-

sformato il mondo della scienza in un in-

sieme di sistemi strutturati/organizzati e

complessi3, riassumibile nella dizione

Complessità Sistemica.

Il concetto di sistema nell’accezione di

ente strutturato e/o organizzato è stato

a lungo sottovalutato nell’ambito delle

scienze naturali (principalmente fisica e

chimica), mentre è stato sempre ben pre-

sente in quelle che poi sarebbero state

chiamate scienze umane e sociali. In una

L’ottica della complessità sistemicae il mondo molecolareGiovanni Villani

L’AUTORE PROPONE UNA RIFLESSIONE SULL’OTTICA DELLA COMPLESSITÀ SISTEMICA E SUL MONDO MOLECOLARE,PONENDOSI L’INTERROGATIVO DI COME SI POSSA DIDATTICAMENTE AFFRONTARE QUESTO NUOVO APPROCCIO ALLO

STUDIO DELLE DISCIPLINE SCIENTIFICHE. NEL CONTRIBUTO EGLI GUIDA ALLA COMPRENSIONE DEL TEMA CON

RIFLESSIONI CHE VENGONO SOSTENUTE DA UN PERCORSO CHE PRESENTA COME ESSO SIA STATO AFFRONTATO

ATTRAVERSO I SECOLI PER GIUNGERE ALLA LETTURA PROPOSTA IN QUESTA SEDE.

posizione intermedia si è sempre posta

la biologia, dove il concetto di organismo

ha a lungo oscillato tra un’ottica siste-

mica e un’entità ontologicamente dif-

ferente da quelle inanimati. Si può dire

che il differente approccio al concetto

fondamentale di sistema sia stato, se non

la causa, sicuramente uno degli ele-

menti che hanno distanziato questi due

(o tre) ambiti di ricerca. Allo stesso

modo, quindi, riconoscendo adesso

l’importanza di un approccio sistemico

all’interno di tutte (non solo della bio-

logia) le scienze naturali, si opera per ri-

muovere le barriere tra queste e le scien-

ze umane e sociali. Le implicazioni del-

la rimozione delle dicotomie inanima-

to-animato-umano, e la sua articolazione

in differenze epistemologiche da studiare

ed evidenziare, ha, a nostro avviso, con-

seguenze fondamentali su tutta la cultura

e sulla didattica in particolare.

1. G. Villani, La chimica: una scienza della complessità si-stemica ante litteram, in Strutture di mondo. Il pensiero si-stemico come specchio di una realtà complessa, a cura diL. Urbani Ulivi, il Mulino, Bologna 2010. 2. E. Agazzi, Le rivoluzioni scientifiche e il mondo moderno,fondazione Achille e Giulia Boroli, Milano 2008.3. G. Villani, Complesso e organizzato. Sistemi strutturati infisica, chimica, biologia ed oltre, FrancoAngeli, Milano2008.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 75

PERCORSI DIDATTICI

Complessità sistemicaPer prima cosa andiamo a caratterizza-

re l’ente strutturato/organizzato su cui

vogliamo imperniare l’ottica sistemica.

Le asserzioni chiave intorno a cui si ar-

ticola questa caratterizzazione (che se-

gue per molti aspetti quella di Morin4)

possono sostanzialmente essere così

riassunte:

• il tutto (il sistema) è più della somma

delle sue parti. Il sistema possiede, infatti,

molto di più delle sue componenti

considerate isolatamente: la sua orga-

nizzazione, la sua unità globale e le nuo-

ve qualità e proprietà emergenti da

queste, sono i fattori che lo differenziano

dal mero aggregato di parti. Queste nuo-

ve caratteristiche del tutto non si ma-

nifestano, però, soltanto al livello della

globalità, al livello del sistema inteso

come tutto, ma anche al livello delle sin-

gole parti.

Il fatto veramente notevole che si rive-

la è, quindi, la presenza di una retroa-

zione delle macroemergenze sugli ele-

menti componenti il sistema, retroazione

che produce le microemergenze. Gli

esempi di macroemergenze sono innu-

merevoli: l’atomo è un sistema che gode

di proprietà originali, in particolar

modo della stabilità, proprietà di cui non

godono le particelle che lo compongo-

no, quando sono considerate isolata-

mente. La stessa materia, la vita, il si-

gnificato di un discorso, la coscienza,

possono essere caratterizzate da quali-

tà emergenti di sistemi altamente com-

plessi. Non soltanto il tutto è più della

somma delle parti; è la parte che è, nel

tutto e grazie al tutto, più della parte. Il

concetto di emergenza ci conduce, quin-

di, a rendere complessi i nostri tentati-

vi di spiegazione dei sistemi, a rivedere

le relazioni che legano le singole unità

alla totalità, abbandonando la gerarchia

semplice fra infrastruttura e sovra-

struttura a vantaggio di una retroattività

organizzazionale in cui il prodotto ulti-

mo trasforma ciò che lo produce.

• il tutto (il sistema) è meno della somma

delle parti. Se, da un lato, è stato spes-

sissimo notato che il tutto è più della

somma delle parti, raramente è stata ri-

conosciuta l’idea contraria. Eppure è de-

ducibile dall’idea di organizzazione, e si

lascia comprendere in maniera più facile

di quanto non sia l’emergenza. Come os-

servava Ashby, la presenza di un’orga-

nizzazione equivale all’esistenza di vin-

coli, di restrizioni sugli stati che posso-

no assumere gli elementi che compon-

gono il sistema. In realtà si ha sistema

proprio allorché le sue componenti non

possono adottare tutti i propri stati

possibili. Ciò significa che talune pro-

prietà relative alle parti considerate in

isolamento scompaiono nell’ambito del

sistema.

Ogni associazione sistemica comporta

vincoli: vincoli effettuati reciproca-

mente fra le parti interdipendenti, vin-

coli delle parti sul tutto, vincoli del tut-

to sulle parti. Questo è evidente nel caso

della molecola, dove è solo il vincolo che

impedisce agli atomi di allontanarsi

completamente a creare questo nuovo

ente. È altrettanto evidente nelle cellu-

le di un organismo che, come è noto,

portano con sé l’informazione genetica

di tutto l’organismo. La maggior parte

di questa informazione è, però, repres-

sa e soltanto quella minima parte cor-

rispondente all’attività specializzata del-

la cellula, è in grado di esprimersi. Il caso

poi di sistemi sociali è evidente e non ne-

cessita di precisazioni. Quindi, in ogni

sistema dobbiamo valutare non soltan-

to il guadagno in emergenza, ma anche

la perdita in seguito a vincoli, asservi-

menti, repressioni. Le acquisizioni e le

perdite qualitative ci indicano che gli ele-

menti che prendono parte a un sistema

sono trasformati anzitutto in parti di un

tutto. Ci troviamo dinanzi a un princi-

pio sistemico chiave: il legame fra for-

mazione e trasformazione. Tutto ciò che

forma trasforma;

• il tutto (il sistema) è uno e molteplice.

Una delle caratteristiche più rilevanti e

quasi paradossali dell’organizzazione è

la capacità di trasformare la diversità in

unità, senza annullare la diversità e ad-

dirittura di creare diversità nell’unità e

tramite essa. Esiste cioè una relazione

complessa tra unità e diversità, fra l’or-

dine ripetitivo e il dispiegarsi della va-

rietà. Atlan esprime molto bene il ca-

rattere organizzazionale di questo pa-

radosso: «già si vede dunque come, nei

sistemi complessi, il grado di organiz-

zazione non potrà essere ridotto né alla

sua varietà (o alla quantità di informa-

zione), né alla sua ridondanza, ma con-

sisterà in un compromesso ottimale tra

queste due opposte proprietà»5.

• il tutto (il sistema) è conflittuale. In ogni

sistema esiste un’unità manifesta, emer-

gente e nello stesso tempo un antago-

nismo latente, apportatore di una di-

sorganizzazione e di disintegrazioni po-

tenziali. Quanto questo aspetto sia im-

portante negli esseri viventi e nei siste-

mi umani (come le società), è inutile sot-

tolinearlo.

Molte sono le caratteristiche impor-

tanti dell’ottica sistemica. Per noi, le prin-

cipali proprietà da evidenziare, sono:

1. L’impossibilità d’isolare completa-

mente le unità elementari e definire,

quindi, delle unità semplici. Da ciò

consegue, la necessità di legare la co-

noscenza degli elementi o parti a

quello dei sistemi che essi costitui-

4. E. Morin, Il metodo 1. La natura della natura, RaffaelloCortina, Milano 2001.5. H. Atlan, Tra il cristallo ed il fumo, Hopefulmonster, Fi-renze 1986, pp. 55-56.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI76

PERCORSI DIDATTICI

scono in un gioco gerarchico di sistemi

che diventano parti di altri sistemi,

senza la pretesa di arrivare a qualco-

sa di finale che non sia più un sistema,

sia un’unità semplice.

2. Il superamento della causalità linea-

re e degli stessi concetti separati di cau-

sa ed effetto. Vi è, quindi, la necessi-

tà di elaborare un principio di causa-

lità complessa e sistemica, che com-

porta causalità reciproca, retroazioni,

ritardi, sinergie, deviazioni e un prin-

cipio di endo ed eso-causalità per i fe-

nomeni d’auto-organizzazione.

3. L’impossibilità di una distinzione as-

soluta tra l’oggetto (o ente) e il suo

ambiente. La conoscenza di ogni or-

ganizzazione fisica richiama la cono-

scenza delle sue interazioni con il

suo ambiente; la conoscenza di ogni

organizzazione biologica richiama la

conoscenza delle sue interazioni con

il suo eco-sistema; la conoscenza di

ogni sistema umano implica la co-

noscenza del suo substrato storico-cul-

turale. In questa problematica si può

far ricadere anche la necessità, oltre

che l’utilità, di relazionare l’osserva-

tore e l’oggetto osservato, tramite

l’introduzione del dispositivo d’os-

servazione o di sperimentazione (es.

Meccanica Quantistica) e, più in ge-

nerale, la necessità di introdurre il sog-

getto umano – situato e datato cul-

turalmente, sociologicamente, stori-

camente – in ogni studio naturale, an-

tropologico e sociologico.

La prima e la terza caratteristica ci pon-

gono dei limiti all’individuazione di

qualsiasi ente e, quindi, anche dei suoi

costituenti. La congiunzione della pri-

ma e della seconda caratteristica, inve-

ce, rappresenta la morte del riduzioni-

smo, inteso nel suo senso più generale

di ricerca degli elementi ultimi e delle

loro interazioni per ricostruire la cate-

na delle cause che da questi elementi ci

porta a spiegare qualsiasi evento.

Esaminiamo in dettaglio questi tre pun-

ti. L’impossibilità di isolare gli elemen-

ti ultimi e semplici della materia è una

scoperta della fisica degli ultimi anni.

Fino a non molto tempo addietro, in-

fatti, la fisica procedeva alla ricerca di

questi elementi ultimi, utilizzando ap-

parecchiature sempre più costose e che

mettessero in gioco un’energia sempre

crescente. L’idea che era alla base di tali

ricerche era chiara ed evidente. An-

dando sempre più nel piccolo, nell’in-

finitamente piccolo doveva esistere un

punto in cui ci si fermava e quello

avrebbe individuato i costituenti ultimi.

C’era dall’inizio del Novecento il pro-

blema della misura in Meccanica Quan-

tistica, dove l’impossibilità della di-

sgiunzione tra l’osservatore e l’osserva-

to era evidenziato, ma ciò nonostante si

continuava a procedere verso il sempli-

ce e l’elementare. L’idea di scavare nel pro-

fondo, in senso sia fisico sia figurato, era

stata la base dell’atomismo, da quello

greco a quello moderno. Poi, una volta

accertato che l’atomo aveva una strut-

tura, aveva dei costituenti organizzati

opportunamente (era, in pratica, un si-

stema), la ricerca si era spostata su que-

sti costituenti subatomici e poi sempre

più nel profondo. Ovviamente, più pic-

colo era lo spazio in cui era confinata

questa particella più alta era l’energia ne-

cessaria a catturarla e, quindi, le appa-

recchiature necessarie divenivano sem-

pre più costose e necessitavano di grup-

pi di lavoro sempre più numerosi. È

quella che oggi, con un termine sugge-

stivo e giornalistico, si chiama la big

science, quella dei megaprogetti e dei me-

gacosti. I risultati però di questi sforzi

non hanno portato all’individuazione di

particelle elementari. Si può dire che, an-

che nella confusione che ancora regna

in questo settore della fisica, tali ricer-

che hanno evidenziato proprio l’im-

possibilità di trovare tali particelle. I mo-

tivi, oltre che pratici, sono concettuali.

Fritjof Capra, nel suo libro Il Tao della

fisica, ce lo spiega perfettamente: «Un’at-

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 77

PERCORSI DIDATTICI

tenta analisi del processo di osservazione

in fisica atomica ha mostrato che le par-

ticelle subatomiche non hanno signifi-

cato come entità isolate, ma possono es-

sere comprese soltanto come intercon-

nessioni tra la fase di preparazione di un

esperimento e le successive misurazio-

ni. La meccanica quantistica rivela quin-

di una fondamentale unità dell’univer-

so: mostra che non possiamo scomporre

il mondo in unità minime dotate di esi-

stenza indipendente. Per quanto ci ad-

dentriamo nella materia, la natura non

ci rivela la presenza di nessun mattone

fondamentale isolato, ma ci appare piut-

tosto come una complessa rete di rela-

zioni tra le varie parti del tutto. Queste

relazioni includono sempre l’osservatore

come elemento essenziale. L’osservato-

re umano costituisce sempre l’anello fi-

nale nella catena dei processi di osser-

vazione e le proprietà di qualsiasi oggetto

atomico possono essere capite soltanto

nei termini dell’interazione dell’ogget-

to con l’osservatore. Ciò significa che

l’ideale classico di una descrizione og-

gettiva della natura non è più valido.

Quando ci si occupa della materia a li-

vello atomico, non si può più operare la

separazione cartesiana tra l’io e il mon-

do, tra l’osservatore e l’osservato. Nel-

la fisica atomica, non possiamo mai par-

lare della natura senza parlare, nello stes-

so tempo di noi stessi»6.

Come l’inseparabilità dell’osservato e

dell’osservante si estenda ai piani an-

tropologici e sociologici è nello stesso

tempo una problematica evidente e mal

evidenziata. Qui vogliamo solo citare,

quasi come spot, la separazione netta, la

dicotomia, che tale problematica crea

nell’ambito più generale (per una trat-

tazione più tecnica rivolta alla decani

quantistica si veda7): la separazione tra

natura e cultura, tra uomo (e i suoi pro-

dotti) e la natura.

Il secondo punto, quello dell’interazio-

ne tra gli enti sia all’interno del sistema

sia tra sistemi, è un punto fondamentale

su cui ragionare. Che cosa significava la

linearità dell’interazione nella fisica

classica? Perche è importante la sua ri-

mozione? Due sono gli aspetti della li-

nearità che ci interessano in questo

contesto. Il primo è connesso allo studio

del sistema globale per mezzo delle

parti ed il secondo alla sua evoluzione

temporale.

1. Riguardo alla possibilità che lo studio

delle parti ci dia informazioni com-

plete anche per l’insieme, la risposta

scientifica è nota: Se L è un operato-

re lineare e la sua applicazione a una

grandezza A produce il risultato a,

mentre l’applicazione a B produce il

risultato b, allora il risultato dell’ap-

plicazione di L ad A+B sarà a+b.

Quindi, se una situazione è lineare, o

dominata da eventi che sono lineari,

il comportamento globale di un si-

stema potrà essere dedotto analiz-

zando il sistema un frammento alla

volta. Il problema sembra risolto poi-

ché molte leggi scientifiche sono li-

neari, ma noi crediamo che esso, in re-

altà, sia ancora tutto da chiarire. In-

fatti, da un lato vi sono fenomeni si-

curamente non lineari, dall’altro mol-

ti fenomeni sono lineari a livello mo-

dellistico, ma poi la realtà com’è?

2. Per il secondo aspetto connesso alla li-

nearità, quello dell’evoluzione del si-

stema, va notato che vi sono sistemi

che evolvono in maniera lineare e la

caratteristica principale di questi si-

stemi è che l’errore nella determina-

zione delle condizioni iniziali non si

amplifica col tempo. Altri sistemi in-

vece evolvono in maniera non linea-

re amplificando gli errori nelle con-

dizioni iniziali. Di fatto per questi ul-

timi, poiché non è possibile avere le

condizioni iniziali con infinita preci-

sione e tale errore viene amplificato

nel corso dell’evoluzione, il sistema di-

venta dopo un certo tempo impreve-

dibile e porta, in particolari condi-

zioni, al caos.

Nella Scienza della Complessità e nella

Sistemica ogni ente è nello stesso tem-

po causa ed effetto in tutti i processi fon-

damentali che implicano il sistema.

Questo perché le interazioni tra i com-

ponenti di un sistema creano una strut-

tura globale che si modifica nelle azio-

ni del sistema. Per quali interazioni in-

terne e/o esterne la struttura sistemica

persista e in quali si modifica, in che rap-

porto è la struttura con l’organizzazio-

ne, altro concetto sistemico fondamen-

tale, sono punti importanti da analizzare,

anche se qui, per questioni di spazio,

dobbiamo evitarli. Infine, come questo

nuovo tipo di interazione possa spiega-

re la fondamentale proprietà sistemica

di auto-organizzazione non è ancora del

tutto chiarito. La sua importanza in

questioni quali la nascita della vita è, tut-

tavia, evidente.

Il terzo punto ci dice che il sistema iso-

lato è un’astrazione, un qualcosa di

non reale, astrazione utile e possibile in

certi contesti purché si tenga sempre pre-

sente che è un’approssimazione, una mo-

dellizzazione. Il campo di studio aper-

to da questa riflessione è enorme in tut-

te le scienze naturali. Nelle scienze uma-

ne, poi, tale problematica è sempre sta-

ta percepita più che analizzata; la stes-

sa affermazione aristotelica l’uomo è

per natura un animale politico si capisce

bene in questo contesto, ma apre non

6. F. Capra, Il Tao della fisica, Adelphi, Milano 1982, pp. 82-83.7. G. Villani, Teoria quantistica della misura in una visionenon oggettivista della realtà, Epistemologia, XV (1992),pp. 21-40.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI78

PERCORSI DIDATTICI

poche questioni (rapporto uomo/società,

rapporto natura/cultura, ecc.) che non

analizzeremo in questo contesto, ma che

saranno sempre in sottofondo.

Mondo molecolareIl concetto di molecola è relativamente

moderno, anche se può fare sfoggio

d’antenati importanti, e questo non è

strano dato la prevalenza in ambito

scientifico dell’ottica riduzionista. Che

la materia fosse formata da aggregati

(formati in maniera più o meno casua-

le) d’atomi era un’idea presente già in

Democrito, padre dell’atomismo greco.

Tuttavia, a lungo nessuno si era occupato

di evidenziare e studiare questi aggregati,

che restavano, quindi, gruppi d’atomi le

cui proprietà erano quelle medie degli

atomi costituenti, né di attribuire loro un

nome. È, infatti, con l’attribuzione di un

nome che si evidenzia un nuovo status

ontologico di questi enti che passano da

aggregati (insieme d’atomi) a moleco-

le (sistema d’atomi). Quando una por-

zione di materia ha un suo nome spe-

cifico significa che si vuole mettere in

evidenza la sua individualità (proprie-

tà specifiche) e tale molecola si può usa-

re come un soggetto d’azione.

Nell’atomismo classico, esisteva sia un

ostacolo epistemologico sia un ostaco-

lo scientifico alla definizione di un con-

cetto analogo all’attuale concetto di

molecola. Da un punto di vista episte-

mologico, l’atomismo classico è stato

probabilmente la prima coerente filosofia

riduzionista. In quest’ottica, la moleco-

la come ente strutturato (sistema) di-

stinto dall’insieme degli atomi era in-

comprensibile. Dal punto di vista scien-

tifico, per Democrito, gli atomi non per-

devano la loro identità nel processo di

aggregazione e restavano in contatto,

giustapposti. Aristotele criticò l’atomi-

smo perché questi atomi non potevano

nelle loro aggregazioni formare nuove

entità. Da questo punto di vista, gli

atomisti negavano l’individualità delle

sostanze composte. Aristotele era su

questo punto più consono con la visio-

ne chimica moderna: i costituenti nel

formare i composti danno vita a sostanze

nuove e non a semplici giustapposizio-

ni di elementi preesistenti. L’impene-

trabilità e l’eternità degli atomi demo-

critei rendevano la visione odierna del-

le molecole impossibile. Nello stesso qua-

dro filosofico-scientifico si muove la fi-

sica odierna con la meccanica quanti-

stica: l’insieme di enti atomici è per essa

un aggregato non un sistema e niente di

nuovo si genera mettendo insieme un

gruppetto di atomi. «Datemi il calcola-

tore più potente del mondo, e vi de-

scriverò completamente qualunque mo-

lecola (e macromolecola), qualunque in-

sieme di molecole (cellula), qualunque

insieme di cellule, qualunque individuo,

qualunque insieme di individui, ecc.» è

la trasposizione moderna della celebre

frase di Laplace sulla sicura conoscenza

del passato e del futuro di tutto, note le

particelle e elementari e loro interazio-

ni.

Nel XIX secolo il concetto di molecola

a lungo è stato confuso con il concetto

d’atomo. Parte della confusione veniva

dal fatto che i chimici non riuscivano ad

immaginare che le molecole d’alcuni ele-

menti (idrogeno, ossigeno, ecc.) fosse-

ro formate da più atomi (H2, O2, ecc.).

Dalton aveva escluso che potesse esiste-

re un legame tra due atomi uguali. In

conseguenza del fatto che con l’espres-

sione particella una volta s’intendeva

l’atomo e un’altra volta la molecola si

manifestò un’evidente contraddizione

tra le ipotesi di Dalton e quelle di Gay-

Lussac. Avogadro, nel 1811, cercò di ri-

muovere queste contraddizioni ed ini-

ziò a distinguere questi due concetti di

particella elementare, ma il suo lavoro fu

a lungo disconosciuto. Fu il lavoro di

Cannizzaro a risolvere definitivamente

la questione della differenza tra atomo

e molecola. Basandosi sulla misura del-

la densità di vapore delle sostanze ele-

mentari e dei composti, utilizzando i ca-

lori specifici per il controllo dei pesi ato-

mici, come pure il criterio dell’isomor-

fismo per rivelare le anomalie nella co-

stituzione molecolare, Cannizzaro diede

un nuovo sistema di pesi atomici per 21

elementi, risultati poi tutti sostanzial-

mente corretti. A seguito della relazio-

ne di Cannizzaro a Karlsruhe del 1860

fu accettata la seguente proposta: «si pro-

pone di adottare concetti diversi per mo-

lecola e atomo, considerando molecola

la quantità più piccola di sostanza che

entra in reazione e che ne conserva le ca-

ratteristiche fisiche e intendendo per ato-

mo la più piccola quantità di un corpo

che entra nella molecola dei suoi com-

posti».

Il concetto di molecola svolge un ruolo

fondamentale nella scienza attuale e

non solo. Il sottotitolo del mio libro La

chiave del mondo8 recita dalla filosofia alla

scienza: l’onnipotenza delle molecole.

Tale concetto può essere utilizzato per

tutti gli enti materiali, costituendo un

particolare approccio scientifico allo

studio della materia (approccio chimi-

co per composizione). È tale concetto, in-

fatti, che ci consente di padroneggiare la

complessità qualitativa e quantitativa del

mondo macroscopico trasportandola

in parte nel mondo microscopico. È in

questo modo che si evita l’alternativa tra

la semplicità (uno o pochi elementi

microscopici) o la completa complessi-

tà (infinite sostanze microscopiche, tan-

te quante sono le sostanze macroscopi-

che uniformi come il vino, il legno,

8. G. Villani, La chiave del mondo. Dalla filosofia allascienza: l’onnipotenza delle molecole, CUEN, Napoli 2001.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 79

PERCORSI DIDATTICI

ecc.). L’universo molecolare con milio-

ni d’individui differenti, ognuno con un

nome proprio, può rappresentare inol-

tre il collegamento tra il semplice mon-

do della fisica e il complesso mondo bio-

logico e fare anche da prototipo di spie-

gazione per branche scientifiche (come

le scienze umane) difficilmente strut-

turabili intorno al concetto di legge, ti-

pico dell’approccio fisico9. Su questo tor-

neremo velocemente nella Conclusione.

In questo paragrafo intendiamo mette-

re in evidenza un solo concetto ma fon-

damentale, del mondo molecolare, quel-

lo che caratterizza immediatamente la

molecola come un sistema: la struttura

molecolare. Essa permette di capire e ra-

zionalizzare la novità della molecola (e a

livello macroscopico del composto chi-

mico) rispetto ai costituenti. Questo

concetto ha cambiato anche il rapporto

tra la chimica di analisi e quella di sin-

tesi, tra il disfare e il fare del tutto a par-

tire dai componenti creando un’imma-

gine del mondo materiale prorompen-

te fatta di milioni di enti diversi che, con

le loro caratteristiche, possono spiegare

il complesso mondo che ci circonda.

Tutto il mondo materiale che è intorno

a noi, nell’ottica chimica, è fatto di mi-

lioni di sostanze diverse, ma quello che

va subito evidenziato è che molto rara-

mente esse sono allo stato puro, allo sta-

to isolato. Il caso predominante, di mol-

to predominante, è quello di miscugli più

o meno complessi di sostanze. Prendia-

mo un oggetto del mondo vivente, per

esempio una mela. La complessità chi-

mica di tale oggetto è spaventosa, come

per ogni oggetto che viene dal mondo

vegetale o animale. Un po’ più sempli-

ce è la situazione nel mondo inanima-

to. Una roccia è sicuramente meno

complessa, ma anche in questo caso è

raro il composto chimico singolo. In pra-

tica, sebbene il mondo che ci circonda

sia pieno di sostanze chimiche, rara-

mente noi le incontriamo in questa for-

ma. L’unica apparente eccezione è quel-

la dell’acqua, sostanza chimica pura e

composto principale del nostro mondo.

L’eccezione, comunque, è solo apparente.

Basta guardare l’etichetta di un’acqua

minerale per rendersene conto. Da que-

sta situazione ne viene fuori che la chi-

mica si è sviluppata inizialmente come

scienza dell’analisi, cioè come separa-

zione delle sostanze pure da queste cose

complesse che sono gli oggetti del nostro

mondo. In questo senso la chimica è ri-

duttiva, cioè riduce il complesso al sem-

plice. Il punto da capire è che tale ridu-

zione potrebbe essere portata avanti ed

eliminare i composti in favore degli

elementi e anche oltre, ma la chimica ra-

ramente fa ciò in quanto i composti sono

la sua arma fondamentale per capire ed

incidere sul mondo.

La chimica come creazione di un com-

posto, la chimica sintetica, salvo pochi

casi occasionali, nasce nella seconda

metà del XIX secolo e, non a caso, nasce

solo dopo che ha elaborato il concetto

di struttura molecolare, cioè dopo ave-

re riconosciuto la natura sistemica del-

la molecola, dopo essere andata al di là

dell’aggregato di atomi. L’introduzione

della teoria della struttura molecolare, in-

fatti, modificò radicalmente la situazione

della chimica organica. L’empirismo e

l’ignoranza del meccanismo delle rea-

zioni (soprattutto di quelle complesse

della chimica organica) fu soppiantato

da un atteggiamento attivo e cosciente

nella sintesi di nuovi composti, secon-

do un piano studiato a tavolino. Invece

dei tentativi alla cieca, si seguì uno

schema basato sulla conoscenza della

struttura dei prodotti di partenza e di

quelli cui si voleva arrivare. La sintesi di

nuove sostanze ottenute in questo modo,

9. G. Villani, A lezione dalle molecole, «KOS», nuova serie,n. 203-204, p. 34.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI80

PERCORSI DIDATTICI

più di ogni altro fatto, testimoniò la fer-

tilità della teoria della struttura mole-

colare, la cui validità nessuna delle suc-

cessive scoperte ha messo in dubbio, por-

tando anzi ad una sua conferma e ad un

suo completamento.

Grande importanza ha avuto sul concetto

di struttura molecolare la cosiddetta

scuola russa. Butlerov nel 1861 scriveva

che «Conclusioni sulla struttura chimi-

ca delle sostanze possono assai verosi-

milmente essere basate sullo studio del-

la loro formazione per sintesi e, princi-

palmente, su quelle sintesi che hanno luo-

go a temperature poco elevate e, in genere,

in condizioni alle quali sia possibile se-

guire l’andamento del graduale compli-

carsi delle particelle chimiche. Per ogni

corpo sarà possibile una sola formula ra-

zionale e, quando saranno note le leggi ge-

nerali della dipendenza delle proprietà

chimiche dei corpi dalla loro struttura chi-

mica, tale formula sarà l’espressione di

tutte queste proprietà»10. Inoltre Bazarov,

nel 1873 sosteneva che «Una reazione chi-

mica dà la più fedele rappresentazione

della struttura dei composti e quanto più

svariate saranno queste reazioni, tanto più

chiara risulterà tale struttura, allo stesso

modo che la conoscenza della costituzione

anatomica di un organismo sarà tanto più

completa e definita, quanto più piccole sa-

ranno le parti in cui l’avremo sezionato,

e quanto più varia la direzione delle dis-

sezioni»11.

Il termine struttura chimica era già sta-

to utilizzato prima di Butlerov, ma egli

gli diede un nuovo significato appli-

candolo alla definizione del concetto di

disposizione dei legami interatomici

nelle molecole. Nel 1861 egli definì la

struttura chimica: «La natura chimica

delle particelle composte è determina-

ta da quella dei componenti elementa-

ri, dal loro numero e dalla struttura chi-

mica. Ogni atomo chimico che entra nel-

la composizione del corpo prende par-

te alla formazione di quest’ultima e

agisce con la quantità determinata di for-

za chimica (affinità) che gli è propria. Io

chiamo struttura chimica la distribuzione

dell’azione di questa forza, in conse-

guenza della quale gli atomi agendo di-

rettamente l’uno sull’altro si uniscono in

una particella chimica»12. Nello stesso

anno Butlerov evidenziò due aspetti

importanti della struttura chimica: l’uni-

cità della struttura per ogni sostanza e

il collegamento tra la struttura moleco-

lare e il piano macroscopico delle pro-

prietà delle sostanze: «Per ogni corpo

sarà possibile una sola formula razionale

e, quando saranno note le leggi genera-

li della dipendenza delle proprietà chi-

miche dei corpi dalla loro struttura

chimica, tale formula sarà l’espressione

di tutte queste proprietà»13.

La situazione però era più complicata.

Due altri problemi concettuali richie-

devano di essere analizzati. Li esempli-

fichiamo in due punti, sempre con Bu-

tlerov. Nel primo manca un aspetto es-

senziale del concetto di struttura mole-

colare attuale, nel secondo si coglie un

aspetto fondamentale di tale concetto.

Il numero di legami in una molecola.

Egli pensava che in ogni molecola esi-

stessero tanti legami e così disposti in

modo che ogni atomo fosse legato di-

rettamente o indirettamente a tutti i ri-

manenti atomi della molecola.

La natura degli atomi nelle molecole. Nel

1864 egli sviluppò il suo pensiero sul-

l’azione reciproca degli atomi che en-

travano nella composizione di una data

molecola: «Due atomi identici nella

loro natura, entrando nella composi-

zione di una stessa molecola assumono

differente carattere chimico quando

l’influenza che ciascuno di essi esercita

sulle altre parti componenti di questa

molecola è differente»14.

Con la tesi di Markovnikov Materiali sul-

la questione della reciproca influenza de-

gli atomi nei composti chimici la teoria del-

la struttura ebbe un ulteriore sviluppo.

Egli aveva chiaro che le forze di affinità

(in linguaggio moderno i legami chimi-

ci) che un atomo poteva formare allo sta-

to libero erano diverse da quelle che si

trovavano per lo stesso atomo in un com-

posto. All’interno della molecola, le

azioni reciproche indebolivano o rin-

forzavano i legami tra gli atomi. Tali azio-

ni andavano a diminuire con la distan-

za nella catena tra i due atomi. Infatti, egli

diceva, che più lunga era la catena che

formava il composto e tanto più debo-

le diventava l’influenza reciproca dei

suoi membri, in dipendenza della di-

stanza che li separava. Che la situazione

non fosse così semplice ed univoca lo si

può vedere in Mendeleev che, nella sua

memoria sulla legge di periodicità del

1871, ricollegandosi alla visione newto-

niana della forza chimica, diceva che: «È

necessario supporre che gli atomi nella

particella si trovino in un qualche equi-

librio dinamico e agiscano l’uno sull’al-

tro. L’intero sistema è legato da forze, ap-

partenenti alle diverse parti, e non è le-

cito pensare che due parti qualunque del-

l’insieme si trovino in dipendenza da una

terza e non influiscano l’una sull’altra,

tanto più se tutto ciò che sappiamo su

queste sue parti ci orienta verso il rico-

noscimento di una loro chiara e costan-

te interazione chimica»15.

10. A. M. Butlerov, in J. I. Solov’ev, L’evoluzione del pen-siero chimico dal ’600 ai giorni nostri, Biblioteca della EST,Edizioni scientifiche e tecniche Mondadori, Milano 1976,p. 224.11. A. Barazov, in J. I. Solov’ev, L’evoluzione del pensierochimico , cit., p. 224 (nella nota).12. A. M. Butlerov, Socinenija [Opere], Mosca 1953, I.13. A. M. Butlerov, Sulle differenti spiegazioni di alcuni casidi isomeria (1864), in Socinenija [Opere], Mosca 1953, I.14. Ibidem.15. D. Mendellev, memoria su La legge della periodicitàdegli elementi chimici, 1871, in A. Di Meo, Atomi e mole-cole fra due secoli (XIX e XX), Atti della IIIa Scuola EstivaFodamenti Metodologici ed Epistemologici, Storia e Di-dattica della Chimica, Pisa 2000, a cura di E. Niccoli, P.Riani e G. Villani, pp. 87-88.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 81

L’attuale concetto di struttura, nel caso

di enti materiali, implica senz’altro una

disposizione spaziale delle parti costi-

tuenti, ma non si esaurisce in essa. Cre-

diamo che più rispondente all’uso che la

scienza fa del concetto di struttura sia

l’evidenziare le seguenti proprietà. Si dice

che un sistema è dotato di struttura

quando l’insieme delle parti costituenti

presenta due caratteristiche: tali parti

sono in certe relazioni stabilite, e per un

tempo sufficientemente lungo rispetto ai

fenomeni che si stanno considerando, e

tali relazioni modificano i componenti

rendendo specifica ed unica questa ag-

gregazione, trasformano cioè un aggre-

gato in un sistema. Una volta che il

concetto di struttura è definito in que-

sti termini possiamo senz’altro affermare

che un insieme di atomi (una molecola)

ha una struttura e, quindi, costituisce un

sistema. Tutto ciò si riconnette alla dif-

ficoltà, già evidenziata, per l’atomismo

classico di concepire il concetto di strut-

tura e di spiegare, quindi, l’insorgere del-

le proprietà nuove in un composto. La

mancanza del concetto di struttura ha

sempre resa l’aggregazione atomica qual-

cosa di puramente meccanica e non in

grado di spiegare il nuovo che emergeva

nel momento in cui si andava a forma-

re una vera e propria molecola.

Dal punto di vista scientifico odierno è

evidente che gli atomi all’interno di una

molecola sono particolari: essi non

sono uguali a quelli isolati e si parla di

atomi in situ. Consideriamo, per esem-

pio, quattro molecole che contengono

atomi d’idrogeno: acqua (H2O), meta-

no (CH4), alcol etilico (C2H5OH) e

benzene (C6H6). Ogni chimico sa bene

che l’idrogeno dell’acqua è diverso (per

esempio è più acido) di quello del me-

tano, che nell’alcol etilico vi sono due

tipi differenti di idrogeni (e sono evi-

denziati nella formula, i 5 H legati a C

e H legato ad O) e ambedue differenti

da quelli dell’acqua e del metano e lo

stesso dicasi per il benzene. Nella Si-

stemica odierna, tale differenzazione è

attribuita alla retroazione del sistema sui

componenti ed è un punto essenziale

della caratterizzazione di un sistema.

Ovviamente se indichiamo con lo stes-

so simbolo (H) questi atomi qualcosa

devono pure avere di simile e, tuttavia,

non sono identici. Potremmo dire con

Morin, che le proprietà di eguaglianza

e di diversità sono ambedue presenti,

come è, e deve essere, per i costituenti

di un sistema.

Le definizioni classiche della struttura

molecolare, quindi, in termini di costi-

tuzione, configurazione e conforma-

zione possono andare bene se, definita

la costituzione come la sequenza dei le-

gami, si metta poi in evidenza la modi-

fica che tali legami generano sugli ato-

mi costituenti. È questa modifica, dovuta

all’interazione specifica ed unica tra gli

atomi, che costituisce il sistema mole-

colare, che crea un ente unico e nuovo.

È in questo senso che si afferma che il

concetto di struttura molecolare è un

concetto recente e che quindi, tanto gli

atomisti classici quanto i primi atomi-

sti moderni non possedevano un tale

concetto. Invece, in senso generale, l’im-

portanza del problema delle parti e del-

le loro qualità all’interno del tutto era

stato intuito da Aristotele ed era fonda-

mentale per i filosofi medievali.

Spunti didatticiPrima di spendere qualche parola sulle

implicazioni didattiche dell’ottica della

complessità sistemica, vogliamo sottoli-

neare la possibilità che le conquiste con-

cettuali del mondo molecolare, visto in

quest’ottica, si possano applicare al mon-

do umano. Non è intenzione dell’auto-

re fare improprie estensioni da un ambito

ad un altro, ma le analogie svolgono un

ruolo importante in scienza e, a nostro av-

viso, possono aiutare ad analizzare un

ambito con l’aiuto di concetti sviluppa-

ti in altri. Luhman sosteneva che com-

plesso significasse relazionarsi in manie-

ra selettiva. Io credo che questo sia un

punto fondamentale, scarsamente con-

siderato nella letteratura sulla comples-

sità, ma ben presente nel mondo mole-

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI82

PERCORSI DIDATTICI

colare. Quando si vede un modellino di

una molecola, la prima cosa che si nota

è che le palline sono collegate tra di loro,

ma non ognuna con tutte le altre. Per

esempio, anche una molecola semplice

come quella dell’acqua (H2O), formata

da 3 atomi, presenta la caratteristica che

l’ossigeno è legato ai due idrogeni, ma

questi ultimi sono legati solo all’ossige-

no e non tra di loro (in pratica H-O-H).

Ben diversa è la situazione in fisica dove,

per esempio, posizionate tre cariche ad

una certa distanza tutte le coppie di in-

terazioni sono valide. Questa selettività ha

dato vita a concetti chimici come affini-

tà e il loro uso in ambito letterario (si pen-

si alle affinità elettive di Goethe) stanno

lì a dimostrare le potenzialità dei concetti

di questo mondo molecolare.

Nel mondo umano, in molte circostan-

za si presenta la compresenza di sistemi

quasi scomponibili e questa differenzia

il comportamento a tempi brevi e lun-

ghi. Anche questo aspetto è ben presente

nel mondo molecolare dove molte sca-

le di tempi, dovute ad interazioni intra

e inter-molecolari differenti, coesistono.

È proprio l’intersecarsi delle dinamiche

di tali processi che rende il mondo mo-

lecolare vivo, simile a quello animato e

il suo largo utilizzo nella biochimica sta

ad evidenziarne le potenzialità.

Infine, la descrizione con enti e processi è

tipica del mondo umano, ma anche

del mondo molecolare. Mentre in fisica

i processi prevalgono sugli enti, e quin-

di la descrizione in termine di enti (si ri-

fletta sulla non esistenza di sostanze fi-

siche, pezzi di realtà con nomi propri) è

poco utile; mentre in tanta parte della

biologia la descrizione dell’ente preva-

le su quella di processo (si pensi alle spe-

cie fisse fino alla metà dell’Ottocento),

la chimica è la disciplina nella quale enti

e processi sono sullo stesso piano: mo-

lecole e composti che hanno sempre la

proprietà di trasformarsi nelle reazioni

chimiche. Mai, neppure nell’Alchimia,

si è, infatti, pensato a sostanze chimiche

intrasformabili; mai, in nessuna epoca,

si è pensato che la pluralità del mondo

molecolare e del mondo macroscopico

dei composti potesse essere eliminata da

un’unica sostanza.

Come utilizzare queste nozioni della

complessità sistemica nell’ambito della

didattica scientifica e chimica in parti-

colare? È fuori dallo scopo di questo la-

voro e dalle competenze dell’autore,

dare ricette specifiche per portare nella

maniera più opportuna in ambito di-

dattico il concetto di sistema in genera-

le e chimico in particolare.

Due aspetti vanno comunque fatti no-

tare. Il primo, più generale, è la costata-

zione che la caratteristica più importante

dell’ottica sistemica è quella delle inter-

relazioni tra gli enti. In ambito scolasti-

co le entità in gioco sono le materie in-

segnate. Notare che non esiste formal-

mente e stabilmente un momento di in-

terrelazione, non esiste codificato un mo-

mento in cui più discipline diverse (per

esempio fisica e biologia) lavorino in-

sieme, è banale ma vero. In un’ottica ri-

duzionista questo modo di procedere era

ragionevole. L’idea generale sottosa, in-

fatti, era che le singole discipline fosse-

ro o autonome o gerarchizzate. L’idea si-

stemica, invece, prevede sempre auto-

nomia (che ci permette di caratterizza-

re i singoli enti), ma anche relazioni, fon-

damentali nella stessa caratterizzazione

degli enti. Una corretta riproposizione in

ambito didattico di quest’ottica sistemica

dovrebbe affiancare ai tempi specifici del-

le discipline dei tempi previsti e forma-

li di sovrapposizione. Ovviamente, le so-

vrapposizioni dovrebbero essere mag-

giori per materie affini (fisica-chimica,

chimica-biologia, italiano-storia, fisica-

filosofia, ecc.), ma lasciare anche la pos-

sibilità di costruire dei progetti didatti-

ci in cui materie ritenute lontane possa-

no mostrare vicinanze insospettate (per

esempio chimica e religione). La secon-

da considerazione riguarda la prepara-

zione dei docenti. L’università prepara i

docenti impartendo loro una lunga lista

di conoscenze specifiche. In nessun mo-

mento, tranne sensibilità particolari, è

previsto un confronto tra discipline di-

verse, l’evidenziare le sovrapposizioni e

analizzare i punti discordanti. Ognuno

procede per la sua strada. Le vecchie e bi-

strattate SSIS, e ora – forse – i TFA, al-

meno in qualche caso (per esperienza

personale) cercano di accostare le disci-

pline, di confrontarle.

Qualche parola, infine, va spesa per gli

aspetti culturali e formativi delle disci-

pline scientifiche, aspetti non sempre evi-

denziati nelle scuole, a volte anche per

mancanza di sensibilità degli stessi do-

centi di area scientifica. Guardiamo

l’esempio della chimica. Abbiamo visto

che la chimica rappresenta una fonda-

mentale scienza sistemica per l’impor-

tanza che in essa assume il concetto di

molecola (sistema di atomi) e di com-

posto chimico (sistema di elementi) e

questa verità scientifica va sottolineata sul

piano filosofico, rivendicata su quello

culturale ed integrata in quello didatti-

co. Ancora una volta appare fonda-

mentale il ruolo culturale della chimi-

ca, snodo essenziale tra la fisica e la bio-

logia, tra il semplice (ma anche in fisica

esistono sistemi complessi) del fisico e

il complesso traboccante della biologia.

Non più ponte tra fisica e biologia,

perché per sua tipologia il ponte è qual-

cosa di piccolo tra due territori grandi,

ma qualcosa di concettualmente simile

alle altre due discipline. Inoltre, in que-

sta differenziazione alla pari tra fisica,

chimica e biologia ne resta stritolato tan-

to il riduzionismo quanto la dicotomia

inanimato-animato.

Giovanni VillaniCNR Pisa

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 83

PERCORSI DIDATTICI

Auna prima parte dell’intervento,

costituita da una introduzione

alla sobrietà, seguiranno rifles-

sioni che cercheranno di porre in luce

come la fisica e la tecnologia possano

aiutare efficacemente sulla strada della

sobrietà, anche attraverso la discussio-

ne concreta di casi pratici riguardanti la

vita quotidiana. Arrivando così a mo-

strare che in realtà, e senza problemi, di

tante cose ne basta la metà, e magari an-

che meno. Così procedendo, la sobrie-

tà, riferita ai suoi fondamenti scientifi-

ci, viene ad acquistare connotazioni

decisamente positive e può trovare più

facilmente spazi concreti di attuazione1.

La sobrietà e il mito delle risorse infinitePer molte e molte migliaia di anni

l’umanità ha utilizzato soltanto il ne-

cessario, per il semplice motivo che

non disponeva del superfluo. E in real-

tà, spesso, non disponeva neppure del

necessario, come del resto avviene anche

oggi in tante parti del mondo (c’è oltre

un miliardo di persone il cui reddito non

arriva a 1 dollaro al giorno).

In quei tempi lontani si utilizzava il cibo

fino all’ultima briciola e quel poco che

risultasse immangiabile era destinato a

nutrire gli animali. Perché la scarsità di

cibo era una realtà quotidiana, tanto che

ci si poteva veramente saziare soltanto

una volta l’anno, in occasioni quali il ter-

mine del raccolto o l’uccisione del ma-

iale. Si era attenti a non sprecare l’acqua,

usandone lo stretto necessario, perché

proveniente da una fontana distante o ti-

rata su a fatica da un pozzo. Si badava a

non consumare troppa legna per ri-

scaldarsi, e soltanto quando faceva fred-

do davvero. Si andava a letto piuttosto

presto, al calar del sole, per non consu-

mare l’olio delle lanterne. Gli oggetti che

si utilizzavano erano, di necessità, po-

chissimi: solo eccezionalmente nuovi, di

solito riparati alla men peggio. E il

guardaroba consisteva spesso di un uni-

co vestito, rattoppato di tanto in tanto.

Ancora un paio di generazioni fa, per

rinnovarli, si usava rivoltare i vestiti e i

cappotti, le suole delle scarpe si proteg-

gevano con appositi ferretti e quando poi

erano troppo consunte si sostituivano ri-

suolando le scarpe. Quello che si rom-

peva si riparava per farlo durare il più

lungo possibile. E in casa c’era l’abitu-

dine di non buttare mai via nulla.

Più di recente le cose, almeno dalle no-

stre parti, sono cambiate totalmente. E

allora siamo stati travolti dalla disponi-

bilità di cibo, di oggetti e manufatti di

ogni sorta, e di energia per riscaldarci,

illuminarci, viaggiare a dritta e a man-

ca, e per i tanti altri impieghi che sap-

piamo. Tanto che oggi ci sembra nor-

male considerare tutto quello che usia-

Introduzione alla sobrietà (1)Giovanni Vittorio Pallottino

È POSSIBILE CONTINUARE SULLA STRADA DEI CONSUMI CRESCENTI DA PARTE DI UN NUMERO DI PERSONE A SUA VOLTA

CRESCENTE? EVIDENTEMENTE NO. EPPURE QUESTA CONSAPEVOLEZZA NON È PARTICOLARMENTE DIFFUSA, E COMUNQUE

NON SEMBRA SIA SUFFICIENTE A INDURRE QUALCHE CAMBIAMENTO NEGLI STILI DI VITA. È BEN POSSIBILE, D’ALTRA PARTE,CONTENERE O ADDIRITTURA RIDURRE I NOSTRI CONSUMI SENZA PEGGIORARE LA QUALITÀ DELLA VITA, MAGARI

ADDIRITTURA MIGLIORANDOLA. DI QUI IL RICHIAMO ALLA VIRTÙ DESUETA, UN PO’ IMPOLVERATA, DELLA SOBRIETÀ.

mo e consumiamo come se provenisse

da risorse infinite. Da cui cioè si può at-

tingere senza limiti. Come l’acqua del ru-

binetto, che basta aprirlo e ne viene

quanta se ne vuole, calda o fredda a pia-

cere. Come l’elettricità, che preleviamo

senza particolare attenzione dalle prese

di corrente. O come i prodotti alimen-

tari, che arrivano da ogni dove, affol-

lando gli scaffali dei supermercati e

non aspettando altro che andare a riem-

pire il nostro carrello. Ma anche come lo

stesso denaro, che ci dispensano, in

modo solo apparentemente indolore, i

bancomat e le carte di credito (al mas-

siccio e incauto impiego delle quali in

Usa risale una delle cause della crisi fi-

nanziaria del 2008).

Il mito delle risorse infinite è partico-

larmente diffuso fra le generazioni più

giovani che sono state educate a non

porre attenzione ai consumi, come se

fossero destinate a vivere nel paese di

bengodi, e che del resto, per motivi

anagrafici, non hanno alcun ricordo

diretto di epoche passate più risparmiose.

Che non sono abituate, in particolare, a

rispettare il cibo: quello che avanza va a

ingombrare la pattumiera, anche perché

1. I contributi riprendono, rielaborato, il saggio La fisicadella sobrietà – Ne basta la metà o ancora meno, pubbli-cato dallo stesso autore nel 2012 (Edizioni Dedalo, Bari).

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI84

PERCORSI DIDATTICI

al nutrimento di eventuali animali do-

mestici provvedono le apposite scansie

dei supermercati o i numerosi negozi a

ciò dedicati.

Il mito delle risorse infinite, oggi domi-

nante, ben si collega a un altro mito, cioè

quello secondo cui ogni generazione è de-

stinata a disporre di beni in misura sem-

pre maggiore della precedente. Entram-

bi i miti sono basati su dati reali. Che tut-

tavia rappresentano l’esperienza soltan-

to delle ultimissime generazioni, mentre

i dati più recenti appaiono addirittura in

controtendenza, mostrando che il co-

siddetto ascensore sociale si è alquanto in-

debolito, se non proprio inceppato.

Ma tutto questo cibo, tutti questi oggetti,

tutta questa energia che consumiamo,

non ci arriva gratis. E per di più, in va-

ria misura a seconda dei casi, tutto ciò

è inevitabilmente accompagnato da

qualche forma di degrado dell’ambien-

te o quantomeno dal ricorso a risorse na-

turali destinate all’esaurimento. Come

nel caso del petrolio2, che abbiamo tro-

vato in abbondanza nel sottosuolo, a dif-

ferenza di quanto avverrà invece per i no-

stri discendenti. Senza dimenticare che

il petrolio contiene sostanze preziose per

la fabbricazione delle materie plastiche,

e quindi è piuttosto insensato bruciar-

lo. Più in generale, dovrebbe essere

chiaro, come si ripete ormai da qualche

decennio, che il nostro pianeta è finito

e dunque le risorse sono inevitabil-

mente limitate. E quindi il mito delle ri-

sorse infinite è privo di qualsiasi fonda-

mento.

I semplici argomenti di fisica pratica pro-

posti nel seguito e in successivi interventi,

mostrano in realtà che nella maggior

parte dei casi per vivere più che con-

fortevolmente ne basta la metà o anco-

ra meno. La metà di che? Di tutto, o qua-

si tutto, quello che consumiamo. E se

davvero consumassimo tutti la metà di

tutto, sarebbe un bel rifiato per l’am-

biente, per le risorse del pianeta a noi af-

fidato, per la bolletta energetica nazio-

nale (63 miliardi di euro nel 2011) e per

la bilancia commerciale dell’Italia. Oltre

che per il nostro portafoglio, cosa che

non guasta davvero.

Inevitabile sobbalzo, a questo punto, del

Lettore cultore di scienze economiche,

con l’immediata obiezione: «Ma così fa-

cendo si avrebbe un crollo del PIL!». Eb-

bene, così procedendo, il prodotto in-

terno lordo subirebbe certamente un

calo3. Ma è noto ormai da tempo che

questo indicatore non è più considera-

to particolarmente espressivo del grado

di ben-essere di una nazione, in quan-

to ne rappresenta piuttosto il ben-ave-

re, che appunto è cosa alquanto diver-

sa dal benessere. In effetti il PIL ignora

totalmente tutti gli aspetti dell’esisten-

za umana che non danno luogo a spo-

stamenti di denaro, come il lavoro ca-

salingo o il volontariato, trascurando così

elementi essenziali per la coesione sociale

e la qualità della vita (che se fossero con-

tabilizzati in termini di lavoro remune-

rato equivalente sposterebbero di diecine

di punti percentuali il valore di questo

indicatore). E ignora anche il capitale na-

turale che viene perso nei processi di cre-

scita economica (l’abbattimento di una

foresta, per fare un esempio). Mentre ad

esso contribuiscono positivamente fat-

ti decisamente indesiderati come gli

incidenti stradali oppure l’inquina-

mento dell’aria, in quanto conducono ad

un aumento della spesa sanitaria . E con-

tribuisce anche il gioco d’azzardo, la cui

spesa si aggira in Italia attorno a 70 mi-

liardi l’anno. Si ricorda poi il paradosso

della cuoca, per cui il PIL diminuisce

quando la cuoca sposa il suo padrone e

conseguentemente non riceve più una

retribuzione contabilizzata ufficialmente

da parte dello stato (il curioso fenome-

no, d’altra parte, non si verifica se la cuo-

ca lavorava in nero).

Ogni epoca, del resto, ha visto indicatori

diversi: prima, in un passato fortunata-

mente lontano, la potenza delle armate,

cioè la numerosità dei militari e l’enti-

tà degli armamenti; poi la produzione di

carbone, di acciaio o di cemento; da

qualche tempo il PIL, che è considera-

to essenziale per rappresentare lo stato

di salute delle economie dei paesi (e che

trova largo impiego nelle dispute poli-

tiche per valutare l’efficacia delle azio-

ni di governo). Ma oggi si tende a dare

maggior peso ad altri indicatori, come

il cosiddetto Indice di sviluppo umano

(ISU) o Human develpment index

(HDI)4, che esprimono assai più effica-

cemente del PIL la qualità della vita. A

questo indice, accanto al reddito medio

della popolazione, concorrono la sua

aspettativa di vita, e perciò la qualità del

sistema sanitario, e il suo grado di alfa-

betizzazione, che rappresenta a sua vol-

ta la qualità del sistema di istruzione.

E quindi si tratta di un indice assai ap-

propriato per la società postindustriale in

cui viviamo, la società dell’informazione

e della conoscenza, nella quale le idee, an-

che in termini economici, hanno più peso

delle cose. Come ha scritto George Ber-

nard Shaw, «se tu hai una mela, e io ho

una mela, e ce le scambiamo, allora tu ed

io abbiamo sempre una mela per uno. Ma

se tu hai un’idea, ed io ho un’idea, e ce le

scambiamo, allora abbiamo entrambi due

idee», e così cresce il patrimonio comu-

ne di idee. Sono numerosi, del resto, i casi

nei quali esistono forti discrepanze tra

come si posizionano le diverse nazioni in

ordine di PIL pro capite ed in ordine di

2. Considerando i tempi geologici che sono stati ne-cessari per accumulare le riserve di petrolio a cui stiamoattingendo, si valuta che le stiamo consumando a unritmo all’incirca centomila volte superiore.3. A prescindere dagli eventuali effetti delle ricorrenticrisi economiche.4. http://it.wikipedia.org/wiki/Indice_di_sviluppo_umano; http://hdr.undp.org/en/.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 85

PERCORSI DIDATTICI

ISU. Il che vuol dire che paesi meno ric-

chi di altri possono avere maggior qua-

lità nello sviluppo umano, e quindi mag-

gior benessere.

Ma perché mai, tornando al nostro di-

scorso, si dovrebbe mirare a consuma-

re solo la metà? Fondamentalmente,

come già accennato, per motivi etici: det-

to in breve per fare un po’ di spazio an-

che agli altri. A quelli che già ci sono, so-

prattutto nei paesi lontani da noi, i

quali hanno certamente diritto a una vita

meno grama dell’attuale, e si tratta di

svariati miliardi di persone. E pure a

quelli che verranno, molti altri miliardi,

nel prossimo futuro, ai quali andrebbe

lasciato un pianeta non troppo depre-

dato nelle sue risorse. Ma anche per mo-

tivi estetici: qualunque cosa si faccia, è

certamente più elegante farla al meglio;

come appunto è pienamente possibile,

seguendo assieme il buon senso e i sug-

gerimenti della scienza. Argomento,

quest’ultimo, largamente inesplorato ai

più, ma che si cercherà nel seguito di trat-

tare dosandolo con doverosa cautela.

Alla base della sobrietà c’è la temperanza,

che rientra fra le quattro virtù indivi-

duate dal filosofo greco Platone (La

Repubblica), che sono state assunte poi

come virtù cardinali dalla religione cri-

stiana. La temperanza, come si legge nel

Catechismo della Chiesa cattolica (Art.

7, 1809), «rende capaci di equilibrio nel-

l’uso dei beni creati. Essa … mantiene

i desideri entro i limiti dell’onestà». Li-

miti evidentemente non ben definiti in

termini generali; a livello individuale det-

tati dalla coscienza di ciascuno, la qua-

le presenta, come ben sappiamo, larghi

margini di elasticità.

E del resto ci sarebbero poche speranze

per il futuro dell’uomo e del pianeta se

fosse vero quello che scrisse Thomas

Hobbes5 quattro secoli fa e che sembra

ispirare certi comportamenti d’oggi:

«La felicità della vita non consiste nel ri-

poso di una mente soddisfatta, Perché

non c’è un fine ultimo o un bene som-

mo, come sostenevano i filosofi morali

dell’antichità. … La felicità è un progresso

continuo del desiderio da un oggetto a

un altro, il raggiungimento dell’uno

non essendo altro che la via verso il suc-

cessivo». Progresso continuo che in re-

altà consiste nel mantenere le persone in

uno stato di perenne insoddisfazione,

sempre in attesa di qualcosaltro di più.

di più dipende largamente da fattori sog-

gettivi, cioè anche dal chi. Presso i po-

poli che vivevano di caccia e di raccol-

ta, e ve ne sono tuttora, il necessario –

disporre di un qualche riparo per la not-

te, avere accesso a un corso d’acqua, cat-

turare un animale, trovare dei vegetali

commestibili – era certamente assai di-

verso da quanto si richiede oggi da noi,

che elencare sarebbe davvero troppo lun-

go. E comunque una tendenza natura-

le è quella di considerare necessario

ciò di cui dispongono gli altri, soprat-

tutto quelli in qualche modo più pros-

simi o comunque più visibili. Che è un

fatto reale, con conseguenze importan-

ti, come mostrano gli studi che hanno

individuato un evidente nesso inverso,

nei diversi paesi del mondo, fra l’entità

delle disuguaglianze sociali e gli elementi

di benessere complessivo che concorrono

agli indici di sviluppo umano6.

Quanto al superfluo, beh, è qualcosa di

ancor più soggettivo, anche perché un’al-

tra tendenza naturale è quella di consi-

derare necessario anche ciò che è sicura-

mente superfluo. A questo, come sap-

piamo, contribuisce pesantemente l’espo-

sizione alla pubblicità, in particolare a

quella televisiva, che è particolarmente pe-

netrante e convincente, soprattutto nei

confronti dei più sprovveduti. Quale uti-

lità reale per la generalità del pubblico, per

esempio, può presentare un oggetto qua-

le il distruggidocumenti automatico re-

clamizzato fortemente in Tv qualche

tempo addietro? La sua caratteristica

principale, oltre a quella di adattarsi age-

La felicità fra le montagne dell’Himalaya

40 anni fa il re del Bhutan, piccolo statobuddista racchiuso fra le montagne del-l’Himalaya, si propose di indirizzare la po-litica del paese al raggiungimento dellafelicità per i suoi sudditi invece che allacrescita del PIL. Con risultati eccellenti,tanto che su proposta del suo nipote, l’at-tuale re Jigme Khesar Namgyel Wan-gchuck, una sessione ufficiale delle Na-zioni Unite è stata dedicata ad esaminarli.Alla presenza di capi di stato e di eco-nomisti impegnati ad esaminare i crite-ri di calcolo dell’indice del benessere uti-lizzato in Bhutan, denominato GNH(Gross National Happiness - Felicità Na-zionale Lorda).

Attenzione però

«La maggior parte dei nostri consumisono così convenienti perché molti la-voratori che producono ciò che consu-miamo sono sottopagati».Andrea Segrè, Basta il giusto (quanto equando), altraeconomia, 2011.

5. Leviathan, cap. 11, http://www.bartleby.com/34/5/11.html.6. Gli epidemiologi inglesi R. Wilkinson, K.Pickett (La mi-sura dell’anima. Perché le disuguaglianze rendono le so-cietà più infelici, Feltrinelli, Milano 2009) hanno studiatoin particolare le relazioni fra l’indice di disuguaglianzarappresentato dal rapporto fra i redditi del 20% piùricco e del 20% più povero della popolazione, e indicisociali quali la mortalità alla nascita, la durata mediadella vita, il tasso di omicidi, la coesione sociale…

Il necessario e il superfluo Il breve cenno, fatto all’inizio, a neces-

sario e superfluo richiede qualche chia-

rimento. Cosa sia effettivamente neces-

sario e cosa invece sia superfluo dipen-

de infatti dal dove e dal quando. E per

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI86

PERCORSI DIDATTICI

volmente a cestini di varia misura, era il

costo molto basso. Ma quanti telespetta-

tori si saranno resi conto che un buon

paio di forbici permette sicuramente di

fare a meno del grazioso gadget?

Ma non basta. Perché, come ci informa

l’etologo Danilo Mainardi sul Corriere

della sera, 2 ottobre 2011, si conta di

estendere la pubblicità televisiva anche

agli animali domestici. Reclamizzando

«… un alimento per cani usando uno

spot televisivo che trascura i padroni ed

è indirizzato direttamente ai cani con

tanto di guaiti e di ultrasuoni che solo

essi, appunto, dovrebbero poter capire.

Ammesso che funzioni, naturalmen-

te». E qui, mentre non ci sono dubbi sui

guaiti, qualche dubbio c’è sulla possibi-

lità di ricevere ultrasuoni tramite il ca-

nale audio della Tv e poi di riprodurli

con gli altoparlanti del televisore. Che

sono progettati per funzionare alle fre-

quenze udibili ma non a quelle più

alte, dove si situano appunto gli ultra-

suoni a cui è sensibile l’orecchio dei cani.

Rientrano poi nel palesemente superfluo,

oltre che nel diseducativo, le recenti

iniziative rivolte a fornire cure estetiche,

oltre che alle madri, anche alle bambi-

ne fra 2 e 12 anni.

L’estetica scientificadella sobrietà: il risparmio energeticoLe azioni che contribuiscono a uno sti-

le di vita ispirato alla sobrietà trovano in

larga parte il loro fondamento tecnico-

scientifico nel risparmio energetico.

Alla base di questo concetto vi è il rico-

noscimento che l’energia non è fine a se

stessa, ma soltanto un mezzo per otte-

nere determinati beni, come costruire

una casa, un’automobile o un telefoni-

no, oppure per disporre di servizi, come

riscaldare un’abitazione, compiere un

viaggio o cuocere il minestrone. E che

questi beni e servizi richiedono quanti-

tà di energia diverse, anche di parecchio,

a seconda dei procedimenti che si im-

piegano per ottenerli. Seguire il criterio

del risparmio energetico significa allo-

ra scegliere le soluzioni tecnologiche che

conducono a ridurre i consumi di ener-

gia a parità di risultato finale, cioè sen-

za dover rinunciare a nulla.

E allora il risparmio energetico può es-

sere considerato come una sorta di invi-

sibile, ma reale ed efficacissima, fonte

energetica alternativa addizionale. Sap-

piamo inoltre che sfruttare al meglio

l’energia disponibile, contenendone quin-

di i consumi, contribuisce assai efficace-

mente non soltanto a preservare l’am-

biente del nostro pianeta, ma anche a ri-

durre i rischi di incidenti e quindi a ri-

sparmiare vite umane. Perché la produ-

zione dell’energia, come del resto la pro-

duzione di qualsiasi altra cosa, com-

porta inevitabilmente dei rischi (nessu-

na attività umana può presentare rischio

zero), che dovrebbero essere all’attenzione

del consumatore, motivandolo al ri-

sparmio anche dal punto di vista etico.

I rischi maggiori provengono dal car-

bone e dal petrolio soprattutto, ma non

solo, a causa dell’inquinamento atmo-

sferico (polveri sottili, gas nocivi, ecce-

tera) prodotto dal loro impiego; che se-

condo l’Organizzazione mondiale del-

la sanità ogni anno causa nel mondo ol-

tre un milione di morti. Ma tutte le fon-

ti di energia – nelle loro diverse fasi di

produzione, trasporto, impiego e via di-

cendo – comportano dei rischi, che

sono stati valutati in termini quantita-

tivi. Mostrando in particolare che se il

carbone e il petrolio sono le fonti che

provocano il maggior numero di vitti-

me, anche lo sfruttamento dell’energia

idraulica ha condotto a incidenti mor-

tali assai gravi. In Italia ricordiamo le

1917 vittime del disastro del Vajont

(1963), ma disastri anche più gravi

sono avvenuti altrove, per esempio nel

1975, quando i cedimenti a catena di una

serie di dighe a Banqiao (Cina) provo-

carono 171 mila morti.

Ma anche altre fonti di energia consi-

derate come verdi presentano gravi in-

convenienti. Questo è il caso dei bio-

combustibili, cioè dei combustibili di

origine vegetale, e in particolare del

biodiesel. Perché per ottenere carburanti

biodiesel in quantità apprezzabili si

deve spostare la destinazione di vaste

zone dalla produzione di prodotti ali-

mentari a quella appunto di biocom-

bustibili. Sicché negli ultimi anni, come

Quando il superfluo è anche insensato

Può capitare che oggetti al tempo stesso superflui e insensati divengano oggetto delnostro desiderio. Come nel caso del braccialetto Power Balance, reclamizzato sul Webtempo fa. Secondo i suoi promotori: «Il Power Balance è un sistema energetico, un am-plificatore naturale di energia che, entrando in risonanza con i sistemi elettronici, chi-mici e biologici del nostro corpo ne aumenta l’efficienza istantaneamente. In altre pa-role è uno strumento che aumenta la forza del nostro campo biologico proteggendo-lo così da elettromagnetismi distruttivi esterni … [per] ottenere più equilibrio, flessibilitàoppure rinvigorire forza e resistenza». Ma in questa prosa pseudoscientifica infarcita ditermini altisonanti nulla è chiaro: né come si possa amplificare l’energia (quale?) né cosasia il nostro campo biologico e neppure il resto. Rimane misterioso anche il principio difunzionamento del braccialetto. Peraltro qualificato come naturale, evidentemente persolleticare coloro che aborrono l’artificiale e al contempo disponessero dei 39 euro ne-cessari per l’acquisto. La vicenda si è conclusa con un intervento dell’Antitrust, una in-dagine svolta dall’Istituto Superiore di Sanità che ha escluso ogni evidenza scientificadelle qualità promesse, e infine con una multa di 350 mila euro inflitta alle società cheavevano commercializzato in Italia il braccialetto.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 87

PERCORSI DIDATTICI

risulta dai rapporti dell’Organizzazio-

ne mondiale per il commercio (WTO),

si sono verificate impennate dei prezzi

delle derrate agricole per l’alimentazio-

ne, in particolare grano e mais, creando

conseguentemente pesanti problemi nei

paesi più poveri. E qui ricordiamo la ri-

volta delle tortillas verificatasi in Messi-

co nel 2007. Su scala globale oggi circa

l’8% del mais viene impiegato per pro-

durre biocombustibili, con una per-

centuale ancora più elevata negli Stati

Uniti dove questa destinazione nel 2010

ha raggiunto il 35% della produzione, ed

è in ulteriore crescita.

getico si considera il rendimento di cia-

scun diverso processo che conduce a un

dato risultato. Che è definito come rap-

porto fra l’energia minima necessaria per

arrivare allo scopo e l’energia effettiva-

mente spesa nel processo in esame.

Consideriamo, per fissare le idee, un im-

pianto di riscaldamento, usato per man-

tenere l’interno di una abitazione a una

temperatura gradevole durante il fred-

do invernale. Qual è il rendimento del-

l’impianto? Possiamo valutarlo consi-

derando il rapporto fra l’energia termi-

ca (cioè il calore) fornita all’abitazione

e l’energia chimica del combustibile

(cioè la sua capacità, bruciando, di pro-

durre calore). In tal caso il rendimento

risulta tipicamente attorno all’80%,

dato che per varie ragioni resta inuti-

lizzato il 20% circa dell’energia del

combustibile: combustione imperfet-

ta, perdite di calore del bruciatore, ri-

scaldamento dei fumi che vengono di-

spersi nell’aria. Il rendimento risulta poi

assai più basso considerando l’impiego

di stufe elettriche. In tal caso, infatti, è

vero che nelle resistenze l’energia elettrica

che utilizziamo viene convertita total-

mente in energia termica, la quale vie-

ne poi tutta ceduta all’ambiente circo-

stante; però solo una frazione, media-

mente il 40%, dell’energia del combu-

stibile utilizzato in una centrale ter-

moelettrica viene convertito in elettri-

cità. E allora è chiaro che le stufe elet-

triche vanno usate con grande parsi-

monia (almeno da noi, non necessaria-

mente così nei paesi come la Francia,

dove la maggior parte dell’elettricità è

prodotta da centrali nucleari e quindi, ol-

tre a costare meno al consumatore, cir-

ca la metà che noi, non richiede di

bruciare combustibili fossili nelle centrali

elettriche).

È un fatto, comunque, che l’energia uti-

lizzata nelle abitazioni rappresenta cir-

ca un quarto di tutto il fabbisogno ener-

getico nazionale. Secondo gli esperti, l’im-

piego dei criteri del risparmio energeti-

co potrebbe condurre a ridurre di circa

il 30% la quantità di questa energia. E in

effetti si può fare parecchio in tal senso:

sia da subito e senza spesa apprezzabile

sia in seguito, con qualche spesa, in oc-

casione del rinnovo di elettrodomestici

o prendendo altre iniziative, più impe-

gnative, come migliorare l’isolamento ter-

mico della casa (Figura 1).

Energia geotermica e terremoti

Anche lo sfruttamento intensivo del-l’energia geotermica, cioè del caloreterrestre, quando attuato attraverso lafratturazione di rocce a grandissimeprofondità, si è rivelato pericoloso. Ad-dirittura provocando terremoti, come èavvenuto in vari luoghi, dalla Svizzera agliStati Uniti. I terremoti verificatisi a Basi-lea dopo l’avvio del programma geo-termico, sebbene di modesta entità(poco più di 3 gradi Richter), hannocondotto a chiudere il programma nel ti-more che si ripetesse il catastrofico sismache nel 1356 provocò danni gravissimialla città.

Impieghi dell’energia nel 2009

Facciamo qualche esempioUn esempio immediato di risparmio

energetico? Sostituire le tradizionali

lampadine a incandescenza con altre più

efficienti, cioè che consumano meno

energia a parità di illuminazione. Oggi

quelle fluorescenti compatte, fra breve

quelle a stato solido, cioè i LED, i diodi

emettitori di luce che trasformano di-

rettamente l’energia elettrica in energia

luminosa.

In generale, per discutere quantitativa-

mente il problema del risparmio ener- Figura 1.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI88

PERCORSI DIDATTICI

Una buona scelta, per esempio, consiste

nel sostituire la caldaia dell’impianto di

riscaldamento con una del tipo a con-

densazione, che ha un rendimento mag-

giore del 10% rispetto a quelle tradizio-

nali. Questo perché nelle caldaie a con-

densazione si recupera il calore dei fumi

prodotti dalla combustione, in partico-

lare facendo condensare il vapor d’acqua

in essi contenuto, per preriscaldare l’ac-

qua prima di immetterla nella caldaia.

Una soluzione decisamente più impe-

gnativa, ma certamente molto efficace,

riguarda l’impiego di un sistema di mi-

crocogenerazione. Dal quale si ottiene sia

elettricità, da utilizzare direttamente o

da immettere nella rete elettrica rice-

vendone un compenso, sia calore, e

quindi acqua calda per il riscaldamen-

to e gli usi sanitari. In questi impianti il

calore prodotto bruciando un combu-

stibile (gas o carburante liquido) ali-

menta un motore termico, tipicamente

un motore d’automobile, che produce

elettricità tramite un alternatore. Qui

però, a differenza di quanto avviene

usualmente, l’inevitabile calore residuo

del motore non viene disperso. Questo

calore viene infatti recuperato e utiliz-

zato per produrre acqua calda, sfrut-

tando dunque al meglio tutta l’energia

del combustibile, sicché il rendimento

complessivo non è lontano dal 100%. Un

impianto siffatto, tipicamente, è in gra-

do di fornire elettricità e riscaldamen-

to a un condominio. E qui vale la pena

di ricordare che una delle prime realiz-

zazioni di questo tipo risale agli anni ’70,

al tempo della grande crisi energetica

mondiale, quando la Fiat realizzò un ap-

parato di microcogenerazione, chiama-

to TOTEM (Total Energy Module), usan-

do il motore della 127.

Ma è davvero necessario, per riscaldare

un ambiente, creare calore bruciando un

combustibile o utilizzando l’elettricità?

In realtà ci si può procurare il calore che

ci occorre prelevandolo dall’esterno,

più freddo, per pomparlo all’interno. È

chiaro che questo processo non può av-

venire spontaneamente, perché il calo-

re, come è ben noto, suole spostarsi dai

corpi caldi verso quelli più freddi e non

viceversa. E quindi per attuarlo occor-

re spendere dell’energia, ma in quanti-

tà decisamente minore di quanta ne oc-

corre per creare calore da zero con i mez-

zi usuali: tanto minore quanto maggio-

re è la temperatura della sorgente da cui

si preleva il calore (più precisamente,

quanto minore è il salto di temperatu-

ra in salita che il calore deve compiere).

Del resto è proprio grazie a un proces-

so di questo tipo che funzionano i fri-

goriferi. Per il riscaldamento delle abi-

tazioni questo processo trova applica-

zione nelle macchine chiamate pompe di

calore. Che sono impiegate da tempo nei

paesi più freddi, ma che ora si stanno dif-

fondendo anche in Italia.

Dove si prende il calore freddo per pom-

parlo all’interno dopo averlo riscaldato?

Lo si può prelevare dall’aria, dall’acqua

o dal terreno. In vari luoghi, per esem-

pio, vi sono stagni o falde acquifere che

vengono utilizzate a questo scopo. Le co-

siddette pompe geotermiche, invece,

prelevano il calore dal sottosuolo, sfrut-

tando il fatto che la temperatura del ter-

reno, man mano che si va in profondi-

tà, risente sempre meno delle variazio-

ni giornaliere e stagionali. E in effetti già

a pochi metri di profondità la tempe-

ratura del terreno o delle eventuali ac-

que sotterranee è praticamente costan-

te tutto l’anno, sicché, rispetto a quella

in superficie, risulta calda d’inverno e fre-

sca d’estate.

Il pregio di questi impianti è che fun-

zionano come moltiplicatori di energia nel

senso che l’energia del calore prodotto è

alquanto maggiore di quella spesa per il

loro funzionamento. Una buona misu-

ra della loro efficienza è data dal rapporto

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 89

PERCORSI DIDATTICI

fra il calore fornito all’interno di una abi-

tazione e l’energia elettrica consumata

per ottenerlo: il cosiddetto COP, o coef-

ficiente di prestazione, con valori tipici

fra 3 e 5. Che indicano come l’entità del

risparmio di energia, rispetto all’impie-

go di una stufa elettrica, sia veramente

notevole. Si tratta di impianti che sono

certamente più costosi di una caldaia

convenzionale, tipicamente due o tre vol-

te, ma che a lungo termine assicurano un

notevole vantaggio economico.

Anidride carbonica, effettoserra e protocollo di KyotoNon bruciare un chilogrammo di car-

bone evita di immettere nell’atmosfera

3,8 kg di anidride carbonica (CO2); non

bruciarne uno di petrolio ne risparmia

3,1 e uno di gas naturale 2,3. Quanto al-

l’elettricità, risparmiare un chilowatto-

ra significa evitare circa 0,5 kg di anidride

carbonica. Chi poi volesse farsi un’idea

delle proprie emissioni più in dettaglio

può accedere all’apposito sito del WWF:

http://www.improntawwf.it/main.php.

Ma perché si parla tanto di questo gas? Il

fatto è che, secondo l’opinione prevalen-

te oggi fra gli scienziati, esso contribuisce

all’aumento della temperatura della Ter-

ra registrato negli ultimi decenni (corri-

spondente a circa 0,7 °C nel secolo pas-

sato), a causa del cosiddetto effetto serra.

Avviene infatti che determinati gas pre-

senti nell’atmosfera – in primis il vapor

d’acqua, poi l’anidride carbonica, il me-

tano ed altri ancora – hanno la proprie-

tà di assorbire le radiazioni infrarosse la-

sciandosi invece attraversare dalla luce vi-

sibile, comportandosi dunque in modo si-

mile ai vetri di una serra. Così la radiazione

solare può raggiungere (meno male!) la

superficie terrestre mentre una frazione

della radiazione (infrarossa), che la Ter-

ra emette in ragione della temperatura a

cui si essa si trova, viene bloccata dall’at-

mosfera e perciò non esce da questo in-

volucro verso lo spazio esterno. Con un

effetto complessivo di riscaldamento che

ammonta a una trentina di gradi, e non

è poco. Così la temperatura media della

Terra, circa 15 °C, è alquanto maggiore di

quella che avremmo in assenza dell’effetto

serra, che sarebbe attorno a -18 °C. Con

il nostro pianeta ridotto a un mondo di

ghiacci perenni, assolutamente inadatto

alla vita, vegetale, animale e nostra.

Alla deforestazione in atto nelle regionitropicali contribuisce anche la domandadi legni pregiati da parte dei paesi in-dustrializzati. In Europa, invece, contra-riamente a quanto si ritiene comune-mente, i boschi sono in crescita. In Italianegli ultimi vent’anni la superficie fore-stale è aumentata di oltre il 20% arri-vando a coprire, con 12 miliardi di albe-ri, oltre un terzo del territorio.

Se questo è un fatto decisamente fortu-

nato per noi tutti, assai meno gradevole

è l’aumento della concentrazione di ani-

dride carbonica nell’atmosfera che si è

avuto nel corso dell’ultimo secolo, da cir-

ca 300 a 390 parti per milione in volume:

quantità piccolissime ma assai significa-

tive. Questo aumento viene attribuito al-

meno in parte alle emissioni prodotte dal-

l’uomo bruciando grandi quantità di

combustibili fossili, come pure alla de-

forestazione in atto in molti paesi (non

da noi), e ad esso si attribuisce l’intensi-

ficazione dell’effetto serra e quindi l’au-

mento della temperatura terrestre. Per evi-

tare le conseguenze di ulteriori riscalda-

menti, che secondo gli scenari più pessi-

mistici potrebbero ammontare a 5 °C alla

fine di questo secolo, i governi si sono ac-

cordati per ridurre le emissioni di anidride

carbonica attraverso il cosiddetto Proto-

collo di Kyoto.

Stabilito nel 1997 nell’ambito dell’ONU,

questo protocollo sancisce che ciascuna

nazione deve ridurre entro il 2012 le pro-

prie emissioni al 95% di quelle prodot-

te nel 1990: una riduzione assai cospi-

cua a fronte degli aumenti di emissioni

verificatisi nel frattempo. Questo com-

pito, in effetti, è stato assegnato alle na-

zioni industrializzate, esentandone quel-

le emergenti per un principio di equità

e anche a fronte della minor rilevanza

(all’epoca) delle loro emissioni.

Ma i risultati del protocollo di Kyoto

sono stati al tempo stesso deludenti e de-

vastanti7. Deludenti perché le emissio-

ni mondiali di anidride carbonica, no-

nostante la diminuzione di quelle pro-

dotte dai paesi industrializzati, anziché

diminuire sono aumentate, a causa del-

la forte crescita del contributo dei pae-

si emergenti: alla sola Cina si deve oggi

oltre un quarto del totale delle emissio-

ni. Devastanti perché i paesi industria-

lizzati, per restare nel mercato, sono sta-

ti costretti a spostare buona parte della

loro produzione industriale nei paesi

non soggetti alle regole di Kyoto, con ef-

fetti deleteri di disoccupazione (da noi).

Ma non solo questo. Perché nei paesi

emergenti, ormai parecchio emersi, nel

contempo venivano prodotte grandi

quantità di energia elettrica utilizzando

centrali alimentate a carbone consen-

tendo così la fabbricazione a basso co-

sto di una gran varietà e quantità di pro-

dotti che venivano poi esportati nei

paesi industrializzati. Fra questi, anche

i pannelli fotovoltaici a cui i paesi in-

dustrializzati, in particolare l’Italia, han-

no fatto largo ricorso allo scopo di ot-

temperare al protocollo di Kyoto pro-

ducendo elettricità senza emissioni di

anidride carbonica. Più precisamente,

senza emissioni nell’impiego dei pannelli

(da noi), ma con forti emissioni durante

la loro fabbricazione (in Cina). E oggi

proprio la Cina, che fra l’altro produce

il 50% dei pannelli fotovoltaici su scala

globale, detiene attualmente parti con-

sistenti del debito pubblico dei paesi in-

dustrializzati. Dove invece la riduzione

dell’occupazione e la crescita delle im-

portazioni contribuiscono certamente

alla crisi finanziaria in atto in questi anni.

Quanto all’anidride carbonica (con for-

mula chimica CO2), la troviamo spes-

so menzionata nei media come inqui-

nante e nociva. Eppure questo gas ino-

dore e incolore non è in alcun modo ve-

lenoso. Non si deve forse alle sue bolli-

cine il fascino spumeggiante dello spu-

mante che rallegra le occasioni più feli-

ci? O la sensazione rinfrescante che ci

procurano aranciate e altre bevande

piacevolmente arricchite di questo gas?

E una birra senza schiuma sarebbe an-

cora una birra?

Venendo ad argomentazioni più serie,

non possiamo certamente dimenticare

lo straordinario miracolo della fotosin-

tesi. Grazie al quale l’anidride carboni-

ca presente nell’aria viene trasformata in

sostanze nutrienti nelle piante verdi. Non

possiamo dimenticarlo per la semplice

ragione che proprio questo processo, e

non altri, è alla base delle catene ali-

mentari che sostengono la vita, vegeta-

le e animale. Se s’interrompesse, gli

scaffali dei supermercati resterebbero

vuoti, più esattamente non avremmo

nulla di cui nutrirci. Perché una dieta

puramente minerale è altamente scon-

sigliata.

Chi poi volesse contribuire personal-

mente a ridurre le emissioni di anidri-

de carbonica potrebbe decidere di smet-

tere di respirare, evitando così di im-

mettere nell’atmosfera circa 0,9 kg al

giorno di questo gas (16 respirazioni al

minuto, ciascuna con emissione di cir-

ca 0,04 grammi di CO2, e quindi (0,04

grammi)×16×60×24 = 0,93 kg). Ma

questa perigliosa impresa in realtà non

gioverebbe a nulla, dato che il carbonio

che emettiamo è quello contenuto nel

cibo, il quale proviene, in ultima anali-

si, dalle piante che qualche tempo pri-

ma lo hanno catturato dall’atmosfera at-

traverso la fotosintesi che abbiamo ap-

pena ricordato.

Più efficace, per contrastare il riscalda-

mento globale, è l’idea di verniciare di

bianco, o con colori chiari, i tetti delle

abitazioni e le strade delle città, sostenuta

da Steven Chu, premio Nobel per la Fi-

sica nel 1997 e attualmente ministro del-

l’Energia nell’amministrazione Oba-

ma. Idea apparentemente bizzarra, che

però da qualche anno è stata tradotta in

una norma di legge dello stato della Ca-

lifornia. Perché mai funziona? Perché un

tipico tetto scuro assorbe l’80% della ra-

diazione solare che lo colpisce, mentre

ne assorbe solo il 20-40%, diffondendo

indietro il restante, se verniciato di

bianco o di un colore chiaro. Così fa-

cendo si riduce il riscaldamento estivo

dell’edificio e quindi l’energia necessa-

ria per il condizionamento, ma al tem-

po stesso si contribuisce a ridurre il ri-

scaldamento complessivo del pianeta

(nel rapporto fra la superficie del tetto

e la superficie terrestre). Che l’idea del

premio Nobel Chu funzioni, del resto, è

testimoniato dal suo impiego, pratica-

mente da sempre, negli edifici dei pae-

si mediterranei più assolati8.

Giovanni Vittorio Pallottino Università di Roma “Sapienza”

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI90

PERCORSI DIDATTICI

7. S. Casertano, La guerra del clima, Francesco Brioschi,Milano 2011.8. Continua nella 2a parte.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 91

PERCORSI DIDATTICI

1. Il Regno di SardegnaCarlo Ignazio Giulio, diventato negli

anni quaranta consulente di Carlo Al-

berto e rettore dell’Università di Torino,

colse l’occasione dell’Esposizione di in-

dustria e belle arti (1844) per promuo-

vere l’istruzione tecnica nel Piemonte.

Nel 1845 fu fondata a Torino la prima

scuola di meccanica e di chimica appli-

ca alle arti frequentata da quattrocento

tra ebanisti, fabbri, tipografi, tornitori ed

orologiai. Un passo in avanti per l’isti-

tuzionalizzazione delle scuole tecniche

nel Regno di Sardegna si ebbe con la leg-

ge Boncompagni del 1848, che, di fatto,

assieme alla legge Lanza del 1856, fu una

premessa della legge Casati. Le Disposi-

zioni speciali della legge Boncompagni che

riguardavano l’istruzione tecnica pre-

vedevano1:

Art. 25. Nei Collegii di Torino, di Geno-va e Nizza si aprirà in via di esperimen-to un corso speciale pei giovani che nonintendono attendere agli studii classici.Art. 26. Questo corso durerà cinqueanni, e vi potranno entrare i giovani chehanno compiuto il corso Elementare, e nehanno sostenuto con successo l’esame fi-nale.Art. 27. Il corso speciale avrà Professoriproprii, e Professori comuni al corsod’istruzione secondaria.I Professori comuni saranno:1. Il Professore di Religione.

2. Il Professore di Storia e Geografia, ilquale sarà incaricato delle lezioni diGeografia statistica e commerciale.3. Il Professore di Matematica elementa-re.4. Il Professore di Storia naturale.5. Il Professore di Lingua francese.I Professori proprii sono:1. Un Professore di Lettere italiane.2. Un Professore di Matematica.3. Un Professore di Fisico-Chimica, e diMeccanica applicata alle arti.4. Un Professore di Disegno.5. Un Professore di Lingua inglese.6. Un Professore di Lingua tedesca.La distribuzione delle lezioni sarà deter-minata dal regolamento.

Nonostante questa apertura all’istru-

zione tecnica, la legge Boncompagni era

ancora molto restrittiva, poiché preve-

deva che soltanto nei tre collegi-convitti

di Torino, Genova e Nizza fossero aper-

ti dei corsi speciali per quei giovani che

non erano interessati agli studi classici.

Questo fatto non passò inosservato nel

Parlamento Subalpino nel quale fu sol-

levata la questione dell’inadeguatezza di

così poche scuole tecniche di fronte

alle esigenze di un Paese moderno. In

particolare, per la prima volta, ad ope-

ra di Luigi Carlo Farini (1812-1866)

emerse la profonda esigenza di avere un

settore parallelo d’istruzione: non si

negava che ci dovesse essere un forte si-

Insegnamenti matematici e istruzione tecnica nel processo di unificazione nazionaleIl Lombardo-Veneto e il Regno di Sardegna (2)Elisa Patergnani - Luigi Pepe

stema di scolarizzazione incentrato sul-

l’asse umanistico e sullo studio italiano

e delle lingue classiche, ma si voleva che,

a fianco di esso, emergesse un percorso

tecnico-scientifico:

Tanti istituti di latinità né sono sufficientia dare quella istruzione che si chiama clas-sica, né sono acconci a dare quella istru-zione la quale è voluta dai bisogni del-l’attuale società. L’apprendere poco lati-no, e non sempre come si dovrebbe,non può giovare al popolo, all’istruzionedel quale noi intendiamo provvedere; enelle condizioni presenti della società nonpuò bastare a coloro che vanno in cercadi una cultura utile a sé medesimi ed allasocietà. In altri tempi altre erano le vo-cazioni generali dei popoli; oggi si ricer-cano cognizioni utili all’esercizio di quel-le arti a cui si propongono i più, utili agliincrementi dei commerci e delle industrie,acconcie a nobilitare e fare produttivo illavoro. Perciò ai tempi nostri egli è indi-spensabile il favoreggiare gli studii tecnicie speciali, provvedendo che vadano pa-ralleli agli studii classici; ed è necessarioordinarli per modo che al pari di questiprocedano dall’una classe all’altra sino aquelle classi superiori, in cui s’acquistal’abilità ai tecnici esercizii onde la socie-tà si vantaggia, onde gli esercenti traggono

1. Regio Decreto 4/10/1848 n. 819. Raccolta degli attidel Governo di S.M. il Re di Sardegna, vol. 16, parte II, pp.969-978.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI92

PERCORSI DIDATTICI

profitto. Né creda taluno che io con que-ste parole intenda fare censura degli stu-dii classici. Io so benissimo quanto essi sia-no importanti. Dico anzi che, quanto piùil secolo si fa meno poetico, meno arti-stico, meno classico, e più mercante,tanto più bisogna rialzare gli studii clas-sici. Ma rialzare gli studii classici non vuoldire estenderli; vuol dire dar loro accon-cio ordinamento affinchè non restino in-completi, insufficienti, e inutili o dannosiper la società e per coloro che li lascianoa mezzo2.

Questa esigenza non fu portata avanti

in modo immediatamente concluden-

te. Nel 1856, un nuovo ordinamento

(Regio Decreto 7/9/1856 n. 1841) del

ministro Giovanni Lanza (1810-1882),

prevedeva che il corso quinquennale in-

trodotto da Boncompagni fosse sud-

diviso in due corsi: scuole speciali pri-

marie (triennale) e scuole speciali se-

condarie (biennale), quest’ultimo sud-

diviso nelle due sezioni commerciale e

industriale. A dare concretamente im-

pulso all’istruzione tecnica fu Quinti-

no Sella (1827-1884), il quale dedicò ad

essa un’opera specifica stampata nel

1861: Sui principi geometrici del disegno

e specialmente dell’axonometrico. Ri-

portiamo la presentazione di que-

st’opera Al Lettore3.

Il disegno isometrico venne proposto nel1820 da William Farish, professore aCambridge, in due discorsi, che egli fece ai21 febbrajo ed ai 6 marzo alla Società fi-losofica di Cambridge. Egli lo applicòspecialmente al disegno delle macchine.Dopo Farish parecchi si occuparono del di-segno isometrico, e Möllinger propose an-che la proiezione, che egli chiamava iso-metrica a due assi, e che equivale alla mo-nodimetrica. Ma ei si fu solo nel 1844, cheil problema del disegno axonometricovenne sciolto in tutta la sua generalità daGiulio Weisbach, attualmente professoredi Meccanica all’Accademia delle Minie-re a Freiberg in Sassonia. I vantaggi del disegno axonometricomessi in luce da varj autori ricevettero tal

conferma dall’esperienza, che oggidì s’in-segna in molte scuole in Germania ed inInghilterra. Non credo sia penetrato an-cora nelle scuole francesi, e perciò non èancora pervenuto a noi, i quali abbiamospesso la mala abitudine di stare solo alcorrente delle novità che s’introduconoin Francia.Il Weisbach, e quelli che dopo lui esposerola soluzione generale dei problemi fon-damentali, su cui posa il disegno axono-metrico, il fecero colla trigonometriasferica, e finora esso poteva quindi soloinsegnarsi agli iniziati nella trigonome-tria. Avendo visto che tutti i principii suoiponno ampiamente svolgersi coll’aiutodell’ordinaria Geometria, e dei primirudimenti dell’Algebra, credei prezzodell’opera il consacrare alcune lezioni delcorso di Geometria applicata alle arti allosvolgimento dei principii di questo dise-gno, dopo rammentati quelli su cui si fon-dano i metodi più comuni di rappresen-tare i corpi, onde servissero ad illustrarele fondamenta dell’Axonometria. Desti-nai alcune delle esercitazioni pratiche chesi tennero all’Istituto tecnico di Torino, aldisegno di parecchi corpi anche compli-catissimi, e debbo confessare che i distintiper buona volontà riescirono tant’oltre lamia aspettazione, che venni a convincermiessere il disegno axonometrico capace del-la più grande popolarità.

La legge Casati fu promulgata il 13 no-

vembre 1859 quando ormai la Lombar-

dia era stata ceduta dall’Austria in base

all’armistizio di Villafranca (11 luglio

1859). Essa riordinava il sistema scolastico

nel Regno di Sardegna e fu poi estesa, non

senza difficoltà, al Regno d’Italia. La

Casati ebbe il merito di aver dato una

struttura generale all’istruzione tecnica

che mancava nelle due leggi precedenti

del ’48 e del ’56, ma non recepì tutto quel-

lo che era previsto nei regolamenti

asburgici sull’istruzione tecnica. Essa

stabilì che il ramo tecnico fosse diviso in

due gradi, ciascuno della durata di tre

anni; il primo grado d’istruzione avve-

niva nelle scuole tecniche e il secondo ne-

gli istituti tecnici, divisi a loro volta in se-

zioni che variavano in base alle necessi-

tà economiche della provincia in cui essi

nascevano. La legge Casati per l’istruzione

tecnica prevedeva in generale4:

Art. 272. L’istruzione tecnica ha per finedi dare ai giovani che intendono dedicarsia determinate carriere del pubblico ser-vizio, alle industrie, ai commerci ed allacondotta delle cose agrarie, la convenientecultura generale e speciale. Art. 273. Essa è di due gradi, e vien datatanto pel primo, quanto pel secondonello stadio di tre anni. Art. 274. Gli insegnamenti del primo gra-do sono: 1. La lingua italiana (la francese nelle pro-vince in cui è in uso questa lingua); 2. La lingua francese; 3. L’aritmetica e contabilità; 4. Gli elementi di algebra e di geometria; 5. Il disegno e la calligrafia; 6. La geografia e la storia; 7. Elementi di storia naturale e di fisico-chimica; 8. Nozioni intorno ai doveri ed ai dirittidei cittadini. Art. 275. Gli insegnamenti del secondogrado sono: 1. La letteratura italiana (la francese nel-le province in cui è in uso questa lingua); 2. Storia e geografia; 3. Le lingue inglese e tedesca; 4. Istruzioni di diritto amministrativo edi diritto commerciale; 5. Economia pubblica; 6. La materia commerciale;

2. Dibattito nel Parlamento Subalpino del 17 giugno1852 in Storia del Parlamento Subalpino, iniziatore del-l’Unità italiana dettata da Angelo Brofferio per mandatodi Sua Maestà il Re d’Italia, volume 6, Battezzati, Milano1869, p. 54.3. Quintino Sella, Sui principi geometrici del disegno especialmente dell’axonometrico, Salvi, Milano 1861. Sullasua promozione della cultura scientifica si veda: G.Quazza, L’utopia di Quintino Sella. La politica dellascienza, Torino, Istituto per la Storia del Risorgimentoitaliano, 1992.4. Legge del 13/11/1859 n. 3725. Nuovo Codice dellaistruzione pubblica. Raccolta delle Leggi, Decreti Regola-menti, Circolari, Istruzioni e decisioni ministeriali vigentinel Regno d’Italia sull’ordinamento della istruzione pub-blica e sull’istruzione normale, secondaria classica e tec-nica ed elementare con annotazioni e raffronti approvatadal Ministero della istruzione pubblica, Fratelli Lobetti-Bodoni, Saluzzo 1870, pp. 78-79.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 93

PERCORSI DIDATTICI

7. Aritmetica sociale; 8. La chimica; 9. La fisica e la meccanica elementare; 10. Algebra, geometria piana e solida e tri-gonometria rettilinea; 11. Disegno ed elementi di geometria de-scrittiva; 12. Agronomia, e storia naturale.

Due dei protagonisti del rinnovamento

degli studi nel Regno di Sardegna veni-

vano dal Lombardo-Veneto: il pedago-

gista Ferrante Aporti, chiamato a Tori-

no da Carlo Alberto per riformare

l’istruzione primaria, e il conte Gabrio

Casati, profugo in Piemonte dopo il ri-

torno degli Austriaci a Milano (aveva

partecipato alle Cinque Giornate). Non

si tratta di casi isolati: complessiva-

mente l’istruzione nel Regno di Sarde-

gna, e questo vale anche per l’istruzio-

ne tecnica, era meno avanzata che in

Lombardia5.

L’atteggiamento federalista di Carlo

Cattaneo aveva le sue buone ragioni!

L’avvio dell’istruzione tecnica in Pie-

monte dovette molto a Giulio che era Ac-

cademico e professore universitario.

Benché la sua opera mirasse in partico-

lare a formare tecnici di livello inter-

medio, distinti dagli ingegneri, destina-

ti a mansioni superiori, la confusione tra

formazione intermedia e superiore ri-

mase a lungo, anche dopo la legge Bon-

compagni che aveva operato per di-

stinguere l’insegnamento universitario

da quello secondario6.

2. Nell’Italia unitaGli estensori della legge Casati dettero

solo le linee fondamentali dell’orga-

nizzazione dell’insegnamento tecnico, ri-

mettendosi, quanto ai particolari, al

Regolamento che fu promulgato con

Regio Decreto 19 settembre del 1860 n.

4315, a firma dal ministro Terenzio

Mamiani (1799-1885)7.

Con questo decreto furono fissate a

quattro le sezioni dell’istituto tecnico:

amministrativo-commerciale, agrono-

mica, chimica e fisico-matematica. Inol-

tre, in contrasto con quanto stabilito ini-

zialmente dalla Casati nella quale gli in-

segnamenti dati dagli istituti avevano lo

scopo solo di indirizzare a un determi-

nato ordine di professioni (art. 283), fu di-

sposto che i licenziati della sezione fisi-

co-matematica potessero accedere alla fa-

coltà di scienze matematiche, fisiche e

naturali.

A distanza di circa due mesi da questo

regolamento fu emanato anche il de-

creto contenente i dettagliati program-

mi previsti per la scuola tecnica e gli isti-

tuti tecnici8.

L’anno successivo, però, gli istituti tec-

nici (ma non le scuole tecniche) passa-

rono alle dipendenze del Ministero del-

l’Agricoltura Industria e Commercio

(Regio Decreto 28/11/1861 n. 347). Pa-

rafrasando la famosa frase di Massimo

D’Azeglio sulla necessità di fare gli ita-

liani, l’idea dominate era che ci doves-

se essere un’unica scuola con il compi-

to di preparare la futura classe dirigen-

te; e questa scuola non poteva che esse-

re quella umanistico-retorica, centrata

sul liceo classico. L’altra esigenza, che si

era già manifestata, di una formazione

parallela tecnico-scientifica, continuava

ad essere presente. Gli scritti di France-

sco Brioschi (1824-1897) e Luigi Cre-

5. Un ampio quadro dell’istruzione a Torino prima del-l’unità è presentato da E. De Fort, L’istruzione primaria esecondaria e le scuole tecnico professionali, in Storia diTorino, vol. 6 a cura di Umberto Levra, Einaudi, Torino2000, pp. 585-618.6. Le vicende della formazione degli ingegneri in Pie-monte sono estesamente documentate in AlessandraFerraresi, Per una storia dell’ingegneria sabauda: scienza,tecnica e amministrazione al servizio dello Stato, in Am-ministrazione, formazione e professione: gli ingegneri inItalia tra Sette e Ottocento, a cura di L. Blanco, il Mulino,Bologna 2000, pp. 91-299.7. Nuovo Codice della istruzione pubblica cit., pp. 564-591.8. Decreto Luogotenenziale del 24/11/1860 n. 4464.Raccolta degli atti del Governo si Sua Maestà il Re di Sar-degna, Stamperia Reale, Torino 1860, vol. 29, pp. 3243-3304.

Gabrio Casati(1798-1873).

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI94

PERCORSI DIDATTICI

mona (1830-1903) insistevano, infatti,

sul doppio canale di formazione, ma

questa linea non era maggioritaria. La

tesi prevalente era appunto quella di una

formazione unica e allora la preferenza

da dare all’istruzione classica era nella

convinzione anche dei matematici. L’idea

di uniformità che si stava diffondendo,

vista come un bene da difendere, era ri-

vendicata soprattutto dagli studiosi me-

ridionali, tra cui Francesco De Sanctis

(1817-1883) e Michele Amari (1806-

1889). Si può notare che i primi mini-

stri dell’istruzione pubblica non pro-

vennero dal Piemonte. Questa regione

aveva dato Boncompagni e Sella, che

però erano impegnati nell’organizza-

zione generale dello Stato unitario. I pri-

mi ministri della Pubblica Istruzione del

Regno d’Italia furono Terenzio Mamia-

ni (1799-1885) marchigiano, De Sanctis

campano, Amari siciliano e Carlo Mat-

teucci (1811-1868) romagnolo. Tutti

erano accomunati dal fatto che erano sta-

ti in esilio e avevano avuto contatti con

le maggiori università europee (De San-

ctis aveva insegnato al Politecnico di Zu-

rigo). Essi convergevano sulla necessità

di una scuola uniforme e ben organiz-

zata. Per rendersi conto di che cosa vo-

lesse dire la parola “unità” per i prota-

gonisti del nostro Risorgimento bisogna

sottolineare che essa significava princi-

palmente: rinnovare le vecchie classi

dirigenti locali che si erano impadroni-

te del potere ed erano state complici del

clericalismo e dei tirannelli e che aveva-

no costretto a lasciare l’Italia i migliori

intellettuali. Essi crearono all’estero con

il loro lavoro le situazioni per cui il Ri-

sorgimento Italiano fu in qualche modo

il punto di riferimento di tutta la poli-

tica europea e dell’intellettualità europea

a metà del secolo XIX.

Nel 1871 si ebbe una ristrutturazione

dell’istituto tecnico, in cui vennero ri-

dotte a quattro le varie sezioni (fisico-

matematica, agronomica, industriale,

commerciale-ragioneria). Si tornava in-

dietro rispetto a quando nel 1861 gli isti-

tuti tecnici erano passati sotto il controllo

del Ministero di Agricoltura Industria e

Commercio, e vi era stata una prolife-

razione di scelte localistiche: gli istituti

tecnici erano diventati 34 e erano chia-

mati scuole speciali o riunite. Alla base di

questa scelta c’erano varie esigenze, a vol-

te di importanti settori industriali di

punta, quelli che si possono chiamare di-

stretti industriali, di adattare questo

insegnamento alle loro necessità. Ma ci

furono pure scelte inadeguate che non

portarono a nulla. Infatti, già il ministro

Luigi Torelli (1810-1887) con Regio

Decreto 15/6/1865 n. 2372 ridusse i

corsi a nove indirizzi, alcuni di durata

triennale e altri di durata quadriennale

e gli istituti tecnici furono chiamati

Istituti industriali e professionali. Nono-

stante questa suddivisione articolata

delle sezione non ci fu più la sezione fi-

sico-matematica la quale era stata as-

sorbita dalla nuova sezione quadriennale

di costruzioni e meccanica.

Nel 1871 la sezione fisico-matematica fu

reintrodotta diventando la Sezione car-

dinale dell’Istituto, quella da cui [trasse-

ro] alimento e vigore tutte le altre9.

Il testo su cui si orientò nella sezione fi-

sico-matematica lo studio della geome-

tria fu gli Elementi di Matematica di Ric-

cardo Baltzer che Cremona aveva tra-

dotto dal tedesco. Era un testo di note-

vole difficoltà e di grande completezza10.

La sezione fisico-matematica dell’Istituto

tecnico è stata la scuola italiana nella

quale la matematica è stata meglio rap-

presentata, rivelandosi un canale di for-

mazione formidabile fino a quando fu

soppressa da Gentile nel 1923. Da que-

sta sezione sono usciti due dei più im-

portanti matematici dell’Italia unita:

Vito Volterra (1860-1940) e Francesco

Severi (1879-1861).

Il difficile avvio dell’istruzione tecnica in

Piemonte nei primi decenni dello Sta-

to unitario è documentato da studi re-

centi. Mancavano nelle stesse scuole

tecniche della capitale i più semplici stru-

menti di fisica e i materiali più comuni

per l’insegnamento della chimica. Non

era raro che il professore di matemati-

ca non avesse una buona conoscenza de-

gli Elementi di Euclide. La promozione

dell’istruzione tecnica esercitata da

Quintino Sella, allievo di Carlo Ignazio

Giulio, ottenne qualche risultato solo

nell’istruzione tecnica superiore (Museo

industriale). Ma già nel 1877 a Torino,

negli istituti governativi gli studenti

delle tecniche (485) superavano quelli

dei ginnasi (473). Si deve però osserva-

re che scuole e istituti tecnici avevano al-

9. Ministero d’Agricoltura, Industria e Commercio, Or-dinamento degli studi tecnici, Claudiana, Firenze 1871,pag. X.10. R. Baltzer, Elementi di Matematica, Sordo-Muti, Ge-nova 1867.

Quintino Sella(1827-1884).

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 95

PERCORSI DIDATTICI

lora pochi riferimenti diretti ai bisogni

della nascente industrializzazione e

spesso si configuravano come un inse-

gnamento secondario con più mate-

matica e senza latino. Questo rendeva

necessaria, in certe realtà industriali, la

creazione di scuole professionali stret-

tamente finalizzate. Accadeva ancora a

Torino nei primi anni del Novecento11.

L’istruzione tecnica anche dopo l’Uni-

tà si radicò meglio in Lombardia che in

Piemonte, trovando riferimento nelle

scuole austriache. Nel 1863 le scuole tec-

niche lombarde erano già trentaquattro,

delle quali dieci statali, sette di enti

pubblici locali e diciassette di privati. Gli

istituti tecnici si diffusero nei capoluo-

ghi di provincia e nei centri principali:

nel 1867 erano dodici, dei quali sette sta-

tali, quattro degli enti locali e uno pri-

vato. Inoltre, ebbero diffusione scuole

popolari di arti e mestieri soprattutto per

iniziativa privata: se ne contavano ven-

tidue alla fine degli anni sessanta. La leg-

ge Casati prevedeva anche la fondazio-

ne a Milano del Regio Istituto tecnico su-

periore che iniziò i suoi corsi nel 1863

con la direzione di Francesco Brioschi

(Politecnico di Milano)12.

In tutta questa discussione abbiamo

parlato di Francia e di Germania, ma

non dell’Inghilterra, se non per quello

che riguardava qualche libro tecnico. Al-

lora il modello inglese era completa-

mente diverso da quello dell’Europa

continentale poiché presentava una ce-

sura tra l’industrializzazione e le scuo-

le tecniche. L’Inghilterra all’inizio del se-

colo XIX era il principale paese mani-

fatturiero del mondo e lo è ancora nel

1850. Le esposizioni internazionali era-

no allora un punto di riferimento per un

confronto delle innovazioni tecniche

delle varie nazioni. Nell’esposizione di

Londra del 1851, l’Inghilterra era anco-

ra il principale paese manifatturiero; ma

già nel 1867, nell’esposizione Universa-

le di Parigi, il primato inglese veniva in-

sidiato dalla Francia, dal Belgio e dalla

Germania.

Bernhard Samuelson dirigeva a lord Ro-

bert Mantagu una lettera sull’Indu-

strial Progress and the Education of the

Industrial Classes in France, Switzerland

Germany etc. nella quale si esaminava in

modo approfondito l’istruzione tecni-

ca nell’Europa continentale e in In-

ghilterra13.

Nel 1860 ancora la metà dei bambini in-

glesi non riceveva l’istruzione elemen-

tare e gran parte del lavoro nelle indu-

strie era svolto da analfabeti. Solo nel

1870 con l’Elementary Education Act, le

amministrazioni locali potevano rendere

obbligatoria l’istruzione elementare (in

Inghilterra, l’istruzione elementare di-

ventò obbligatoria in tutto il Regno

solo quattro anni dopo che lo era di-

ventata in Italia con la Legge Coppino,

1876); nel 1876 una legge vietò il lavo-

ro ai minori di dieci anni. Gli unici isti-

tuti politecnici in Inghilterra a metà se-

colo erano il Royal College of Chemistry

(1845) (che si avvaleva del Prof. A. W.

Hofmann, proveniente dalla Germa-

nia) e la Royal School of Mines (1851).

Pur con questi limiti il sistema inglese

trovava difensori tra i politici italiani più

impegnati nel campo dell’istruzione

pubblica14.

In Germania invece, nella seconda metà

dell’Ottocento, c’erano ben ventisei uni-

versità, nove politecnici, tre accademie

minerarie e nelle università tedesche vi-

geva il sistema dei seminari di studi che

furono inaugurati, per la matematica, nel

1835 da Karl Jacobi (1804-1851) a Ko-

nigsberg, nel 1850 da Gustav Kirchhoff

(1824-1887) a Heidelberg, nel 1860 da

Alfred Clebsch (1833-1872) a Giessen.

I seminari erano importanti perché

permettevano di comunicare i risultati

della ricerca nel momento in cui essi ve-

nivano ottenuti, dando un’importante

accelerazione al progresso scientifico.

Nelle università tedesche dell’Ottocen-

to la ricerca pura non era subordinata

alla ricerca applicata. Il risultato fu che

i Tedeschi sconfissero i Francesi a Sedan

(1870), che invece si erano orientati es-

senzialmente verso le ricerche applica-

te, e che la Germania divenne, alla fine

del secolo, la principale potenza scien-

tifica tecnica ed economica del mondo,

superando l’Inghilterra che per molto

tempo non aveva voluto destinare risorse

cospicue all’istruzione pubblica.

Un’ampia indagine nell’istruzione tec-

nica nell’Europa continentale venne or-

dinata dalla Camera dei Comuni negli

anni Ottanta. Essa riguardava anche

l’Italia. La commissione visitò, in con-

comitanza con l’Esposizione nel 1881 a

Milano, la Scuola, il Museo della Socie-

tà industriale e la scuola professionale

femminile, a Como l’Istituto tecnico, a

Biella la Scuola professionale. Estese

anche la sua indagine a Torino, Udine e

Venezia15.

Elisa Patergnani - Luigi PepeUniversità degli studi, Ferrara

11. E. De Fort, Le scuole elementari professionali e se-condarie, in Storia di Torino, vol. 7, a cura di U. Levra, Ei-naudi, Torino 2001, pp. 643-684.12. A. Bianchi, Note sull’istruzione tecnica e professionalenell’Italia preunitaria, in I.T.I. ‘Montani’ Fermo. 150° Scuolatecnica e società moderna, a cura di G. Rogante, Nardini,Firenze 2004, pp. 47-60.13. Copy of Letter from B. Samuelson; Esq., M.P., to theVice-President of the Committee of Council on Educationconcerning Technical Education in various CountriesAbroad, Ordered, by The House of Commons, to be Printed,26 November 1867 (British Library: 8308. dd. 32).14. L’educazione inglese paragonata alla tedesca, in Rac-colta di scritti vari intorno all’istruzione pubblica del se-natore Carlo Matteucci, volume 2, Alberghetti, Prato1867, pp. 321-374.15. House of Commons, Second Report of the RoyalCommissioners on technical instruction presented to bothhouses of Parliament by Command of her Majesty, Eyreand Spottiswoode, London 1884. (British Library: Inte-grate Catalogue, Electr. Resources, House of Commons,Parliamentary Papers, XXIX (1884)).

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI96

PERCORSI DIDATTICI

Nelle discipline scientifiche, l’abilità a ri-

solvere problemi è un obiettivo d’ap-

prendimento perché ritenuta una di-

mensione importante della formazione

disciplinare. L’attuale tendenza a privi-

legiare la costruzione di competenze

contribuisce a rinforzare la necessità di

sviluppare la capacità di risolvere pro-

blemi. Una competenza integra un in-

sieme complesso di apprendimenti, si

esprime in modi differenziati, è legata a

una famiglia di situazioni ed è associa-

ta alla risoluzione di problemi. Una

persona competente è in grado di rico-

noscere i tipi di problemi che affronta,

di elaborare strategie di risoluzione, di

eseguire in modo efficace i compiti pre-

visti dalla strategia prescelta e di valutare

in modo adeguato i risultati ottenuti. La

capacità di risolvere problemi è stretta-

mente legata alla modellizzazione: saper

costruire e utilizzare modelli è essenziale

per risolvere problemi scientifici; è una

delle azioni più efficaci dal punto di vi-

sta intellettuale, poiché i modelli sono

strumenti di intelligibilità. Di conse-

guenza, la padronanza dei problemi

scientifici e la modellizzazione delle si-

tuazioni empiriche sono due aspetti

strettamente legati del sapere scientifi-

co (Orange, 1997).

Nel contesto scolastico, la risoluzione di

problemi può essere concepita come

obiettivo educativo o come strategia di ap-

prendimento. Nel primo caso, si tratta di

un atto intellettuale complesso, che non

si produce come spontanea conseguen-

za dell’acquisizione di conoscenze, ma

che gli allievi devono sviluppare met-

tendo in atto i procedimenti intellettuali

che tale attività richiede. Nel secondo

caso, si tratta di un dispositivo pedagogico

in grado di favorire apprendimenti si-

gnificativi e permanenti nella misura in

cui ogni esperienza di risoluzione di un

problema è suscettibile di arricchire la

base di conoscenze dello studente. Nel

corso degli ultimi decenni, molti pro-

grammi di formazione, sia nel settore

tecnico e professionale sia in quello

della formazione generale, sono stati fon-

dati su metodi che prevedono l’acqui-

sizione di contenuti e procedimenti

specifici di una disciplina a partire da

problemi trattati in classe. L’uso corrente

del termine problema, tuttavia, non è pri-

vo di ambiguità e merita una discussione

accurata.

Problemi o esercizi?Nell’insegnamento tradizionale delle

scienze, la lezione frontale e la risoluzione

di problemi sono i dispositivi didattici

più usati. La risoluzione di problemi vie-

ne utilizzata con due finalità diverse: l’ap-

prendimento e la valutazione. A volte agli

Problemi e situazioni-problema nell’insegnamento delle scienzeEzio Roletto - Albero Regis - Elena Ghibaudi

È ORMAI LARGAMENTE CONDIVISA L’OPINIONE CHE IL SAPERE SCIENTIFICO CHE SI DOVREBBE ACQUISIRE A SCUOLA NON

PUÒ RIDURSI A UNA «ACCUMULAZIONE NON PROBLEMATICA DI FATTI RELATIVI AL MONDO» (DRIVER, 2000).POSSEDERE UN SAPERE SIGNIFICA, «IN PRIMO LUOGO, ESSERE CAPACI DI UTILIZZARE CIÒ CHE SI È APPRESO, DI FARVI

RICORSO PER RISOLVERE UN PROBLEMA O CHIARIRE UNA SITUAZIONE» (GIORDAN, 1987).

allievi vengono proposti problemi per

addestrarli all’applicazione di modelli o

procedimenti di risoluzione (operazio-

ni, schemi, regole) e/o per dare loro

modo di autovalutarsi, controllando

personalmente il proprio apprendi-

mento. Altre volte, l’insegnante ricorre

alla risoluzione di problemi in classe per

verificare il livello di apprendimento, in

modo da poter esprimere un giudizio,

sovente condensato in un voto, sulla pre-

parazione dell’allievo su un determina-

to contenuto. Nei due casi, i problemi

utilizzati sono dello stesso tipo e mira-

no invariabilmente alla formulazione

della risposta giusta, generalmente me-

diante l’applicazione di un procedi-

mento stereotipato. Si tratta effettiva-

mente di autentici problemi?

L’interrogativo nasce dall’utilizzo della

stessa parola per designare sia i proble-

mi scolastici tradizionali (i cosiddetti

«problemi chiusi») sia quelli legati a si-

tuazioni della vita quotidiana o profes-

sionale (qualificabili come «problemi

aperti»): due tipologie con caratteristi-

che molto diverse, riassunte nella tabella

1 (Dumas-Carré, 1997).

È interessante il fatto che, nel caso dei

problemi scolastici, il risultato non ha

nessuna applicazione pratica; esso inte-

ressa solo in quanto giusto o sbagliato, es-

sendo questo esito un indicatore della pa-

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 97

PERCORSI DIDATTICI

dronanza o meno del campo di cono-

scenze interessato da parte dell’allievo. Al

contrario, nel caso di problemi della vita

quotidiana o professionale, conta so-

prattutto il risultato; i problemi servono

non tanto per acquisire abilità ripetitive

nel risolverli, quanto piuttosto per svi-

luppare la capacità di trovare e produr-

re nuove informazioni, di costruire e

comprendere nuove conoscenze.

Da un punto di vista scientifico, i trat-

ti caratteristici di un problema sono rias-

sunti nel Riquadro 1 (de Vecchi, 2002).

Riassumendo, è facile riconoscere che la

maggior parte dei problemi utilizzati nel-

l’insegnamento tradizionale sono in re-

altà esercizi mediante i quali gli studen-

ti vengono addestrati ad applicare una

procedura di risoluzione predefinita,

al fine di padroneggiarla. Si tratta di

un’attività del tutto giustificata e neces-

saria per determinati apprendimenti,

nella quale l’allievo non deve inventare

nuove procedure di risoluzione ma ap-

plicare correttamente quella che gli è sta-

ta insegnata al fine di pervenire alla ri-

sposta giusta.

Per contro, risolvere un autentico pro-

blema significa inventare una procedu-

ra di risoluzione, ossia mettere a punto

una strategia di risposta che richiede di

entrare in una dinamica di ricerca, ca-

ratterizzata da un procedimento cogni-

tivo attivo di elaborazione e di verifica di

ipotesi. A questo proposito, è opportu-

no sottolineare la differenza tra le locu-

zioni «soluzione di problemi» e «risolu-

zione di problemi», nelle quali il termi-

ne «risoluzione» andrebbe riferito al

processo e il termine «soluzione» al ri-

sultato (Poirier Proulx, 1999).

Problemi e saperi scientificiSul piano didattico, le due diverse acce-

zioni del termine problema non sono

neutre, in quanto corrispondono alla

scelta dell’insegnante di promuovere

una cultura della giusta risposta piuttosto

che della giusta domanda (Albergaria-

Almeda, 2010). Quest’ultima opzione

vede nella capacità dell’allievo di porre

domande significative il segno che il pro-

cesso di apprendimento è avvenuto con

successo, in quanto implica una riela-

borazione dei contenuti da parte del sog-

getto. Essa assegna dunque all’allievo un

ruolo attivo e creativo all’interno del pro-

cesso di apprendimento.

Nell’insegnamento tradizionale, la ri-

soluzione di problemi è essenzialmen-

te un’attività di addestramento per imi-

tazione, ove l’applicazione di procedu-

re e schemi di risoluzione predefiniti

porta al raggiungimento della giusta ri-

sposta. In un insegnamento che miri al-

l’acquisizione di competenze, la risolu-

zione di problemi deve essere intesa

come un’attività scientifica vera e pro-

pria, mutuando dall’attività di ricerca

l’idea che la costruzione di conoscenza

muove sempre da un problema1, la cui

individuazione e delimitazione costi-

tuisce il primo stadio dell’indagine

scientifica, la quale consiste essenzial-

mente in:

- individuare un problema;

- scegliere il modello che permette di tra-

durlo in termini scientifici;

- verificare la validità del modello.

Una volta delimitato il problema, si ri-

chiede di passare dalla descrizione di un

dispositivo o di una situazione in termini

di fatti o di eventi percettivi a una de-

scrizione in base a concetti scientifici. Si

tratta cioè di rappresentare il problema,

ovvero di attuare una modellizzazione. È

solo a partire dal livello di modellizza-

zione scelto che diventa possibile for-

mulare ipotesi, verificabili mediante un

piano sperimentale, al fine di controlla-

re la plausibilità del modello adottato

(Riquadro 2).

1. Citiamo, a questo proposito, le illuminanti parole diBachelard: «Per ogni mente scientifica, ogni conoscenzaè la risposta a un interrogativo. Senza interrogativi, nonesistono conoscenze scientifiche» (Bachelard, 1938).

Tabella 1

Problemi scolastici tradizionali

- Vi è un solo risultato giusto

- La situazione è totalmente definita

- La soluzione è giudicata in termini di giu-sto oppure sbagliato

- La risoluzione è guidata dai dati forniti conil problema

- Conta soprattutto il modo in cui il risulta-to è stato ottenuto

Problemi della vita quotidiana o professionali

- Sovente sono possibili diverse soluzioni

- La situazione è fluida, mal definita; si devedefinire il problema prima di trovare la so-luzione

- Una soluzione è giudicata in termini di per-tinenza o di coerenza o di vantaggi

- La risoluzione è completamente da co-struire

- Conta soprattutto il risultato ottenuto

Riquadro 1I principali aspetti di un problema

Un problema è:una situazione iniziale

• che include certi dati,• che impone uno scopo da raggiun-

gere,• che obbliga a elaborare una serie di

azioni,• che richiede un’attività intellettuale,• che immette in un procedimento di ri-

cerca, in vista di sfociare in un risultatofinale. Questo risultato è inizialmentesconosciuto e la risoluzione non è im-mediatamente disponibile.

L’epistemologia riconosce dunque che vi

sono interazioni forti fra problemi e sa-

peri e Laudan afferma che «la scienza è

essenzialmente un’attività volta a risol-

vere problemi» (Laudan, 1979). In am-

bito scolastico, la funzione epistemolo-

gica del problema nella costruzione del

sapere scientifico può essere tradotta in

una strategia pedagogica in grado di fa-

vorire apprendimenti significativi. Ap-

prendere è un processo di costruzione e

ricostruzione della propria struttura

mentale (Giordan, 1994; Laudan, 1979),

nel corso del quale si mettono alla pro-

va nuovi modi di pensare2, e si assume

il rischio di cadere nell’errore; quindi l’er-

rore è un elemento costitutivo dell’ap-

prendimento. In effetti, l’errore può

essere corretto soltanto se è stato rico-

nosciuto come tale, in quanto si è ma-

nifestato, è stato esplicitato e discusso.

Tutto questo non è possibile nell’inse-

gnamento tradizionale, nel quale gli al-

lievi devono memorizzare una grande

quantità di informazioni, la maggior par-

te delle quali è spesso dimenticata mol-

to in fretta. Nell’ambiente scolastico

domina la logica della restituzione, che

portando gli studenti a memorizzare e

rigurgitare informazioni riduce al mi-

nimo l’opportunità di praticare e svi-

luppare il pensiero critico.

Il passaggio da una logica della restitu-

zione ad una logica della comprensione è

promosso da dispositivi didattici quali

l’apprendimento per problemi e l’ap-

prendimento per situazioni-problema,

che sono analizzati e commentati nei pa-

ragrafi seguenti.

Apprendimento per problemiL’apprendimento per problemi (in in-

glese, problem-based learning PBL) è

una strategia pedagogica che consiste nel

proporre agli studenti problemi reali la

cui risoluzione permetta sia di acquisi-

re nuove conoscenze, sia di sviluppare le

loro abilità di ragionamento all’interno

di un’area disciplinare. Il principio-

chiave di questo approccio è che il pro-

blema viene affrontato in primo luogo

dagli studenti e quindi funziona da sti-

molo non solo per l’applicazione di un

processo di risoluzione, ma anche per la

ricerca di informazioni e per lo studio

delle conoscenze necessarie alla com-

prensione dei meccanismi implicati nel

problema; l’apprendimento che risulta

dalla risoluzione del problema è spesso

più importante della soluzione.

Caratteristiche dei problemiPer far sì che la strategia di apprendi-

mento per problemi sia efficace è ne-

cessario rispettare alcuni criteri di ela-

borazione o di scelta dei problemi stes-

si (Poirier Proulx, 1999 ; Glazer, 2012).

I problemi devono:

1) Essere di natura generale, in modo da

impegnare gli studenti in un processo di

analisi della situazione e di elaborazio-

ne di ipotesi, con la conseguente indivi-

duazione di sottoproblemi più limitati,

la cui risoluzione permette di dare ri-

sposta al problema generale di partenza.

2) Tenere conto delle conoscenze pre-

gresse degli studenti, in quanto queste in-

fluenzano la comprensione del proble-

ma, l’interpretazione delle informazio-

ni raccolte dagli allievi e le conseguen-

ti inferenze.

3) Essere concepiti in funzione di obiet-

tivi d’apprendimento chiaramente iden-

tificati dall’insegnante.

4) Essere quanto più possibile reali o au-

tentici, al fine di suscitare la motivazio-

ne e promuovere la comprensione.

5) Essere sufficientemente complessi

da permettere la costruzione di nuovi sa-

peri, per evitare che la risoluzione com-

porti semplicemente il richiamo o l’ap-

plicazione di conoscenze anteriori.

Ruolo dello studenteContrariamente all’insegnamento di

tipo trasmissivo, imperniato sull’inse-

gnante e i suoi saperi, l’apprendimento

per problemi è imperniato sullo studente,

il quale esercita un ampio controllo su-

gli apprendimenti che devono essere

portati a compimento. L’insegnante non

rinuncia alla responsabilità di fissare gli

obiettivi d’apprendimento, ma gli stu-

denti vengono resi esplicitamente re-

sponsabili di ciò che apprendono.

Di fronte al problema, essi si impegna-

no a sviluppare ipotesi per risolverlo, di-

scutendole all’interno di un gruppo di

lavoro. Successivamente, essi conduco-

no un’attività di studio personale al

fine di raccogliere e valutare dati pro-

venienti da varie fonti, utilizzabili al-

l’interno del gruppo per corroborare o

confutare le ipotesi formulate in prece-

denza, che possono essere modificate,

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI98

PERCORSI DIDATTICI

Riquadro 2Tratti caratteristici

dell’indagine scientifica

L’indagine scientifica si esplica in una se-rie di attività intellettuali grazie alle qua-li uno scienziato:

• elabora una problematica, ossia indi-vidua una serie di interrogativi aiquali dare risposta,

• sceglie un quadro teorico e quindi unlivello di modellizzazione,

• formula ipotesi,• definisce i dati che si devono racco-

gliere per sottoporre a verifica le ipo-tesi,

• stabilisce un piano sperimentale edesegue gli esperimenti,

• interpreta i risultati e trae conclusio-ni a proposito delle ipotesi e quindi delmodello in base al quale sono stateformulate,

• determina nuovi interrogativi su-scettibili di avviare nuove indagini.

2. È ancora Bachelard ad affermare che «si apprendesempre contro le proprie conoscenze» (Bachelard, 1938).

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 99

PERCORSI DIDATTICI

ampliate o ristrette alla luce delle nuo-

ve informazioni. Infine gli studenti svi-

luppano soluzioni appropriate del pro-

blema, basate sulle informazioni raccolte

e sull’elaborazione di adeguati ragiona-

menti che le giustifichino. Di conse-

guenza, per ogni particolare problema

è possibile individuare più soluzioni in

funzione del sapere che gli studenti già

possiedono, delle loro precedenti espe-

rienze e delle conoscenze acquisite nel-

l’affrontare il problema stesso.

Ruolo dell’insegnanteAll’interno dei gruppi di lavoro, l’inse-

gnante svolge il ruolo di tutore o di al-

lenatore cognitivo che mira a facilitare

l’apprendimento e a sviluppare il pen-

siero critico. Una persona è capace di

pensare criticamente se è in grado sia di

analizzare, sintetizzare e valutare l’in-

formazione, sia di applicare l’informa-

zione appropriata a un determinato

contesto. Di conseguenza, il pensiero cri-

tico è anche creativo, nella misura in cui

conduce lo studente ad assemblare l’in-

formazione che già possiede con quel-

la che sta acquisendo, per ricavarne un

nuovo corpo di conoscenza. Va chiari-

to che questo approccio non richiede allo

studente di produrre sapere originale

(come uno scienziato), ma sapere che sia

nuovo per lo studente stesso.

Ricadute pedagogicheL’apprendimento per problemi non è

soltanto un metodo d’insegnamento

diffuso in tutto il mondo, ma anche un

approccio curricolare per impostare il

programma di alcuni corsi di studi uni-

versitari (medicina, economia, archi-

tettura, ecc.) che offrirebbe i seguenti

vantaggi:

• Aumenta la motivazione ad appren-

dere.

• Favorisce l’ampliamento delle cono-

scenze.

• Favorisce lo sviluppo dell’autonomia

nell’apprendimento.

• Sviluppa la capacità di integrazione, tra-

sferimento e applicazione delle cono-

scenze.

• Sviluppa il pensiero critico, ossia la ca-

pacità di ricerca, analisi, selezione e va-

lutazione dell’informazione.

• Sviluppa lo spirito di cooperazione e la

capacità di lavorare in gruppo.

• Sviluppa la consapevolezza della com-

plessità dei problemi reali.

Apprendimento per problemie sistema scolasticoDi fatto, la strutturazione e l’organiz-

zazione dell’insegnamento scolastico

ostacolano fortemente l’attivazione di

modelli di formazione basati sulla riso-

luzione di problemi. Cosa si impara a

scuola e come lo si impara dipende da

svariati fattori: alcuni pratici, quali

l’orario delle lezioni, l’accesso all’infor-

mazione, le attività scolastiche giorna-

liere; altri culturali, quali la natura del-

la relazione studente-insegnante, il libro

di testo e l’insegnante stesso in quanto

fonti di informazione, il ruolo dello

studente nel processo d’apprendimen-

to.

L’attuale organizzazione oraria e disci-

plinare del lavoro scolastico favorisce

l’apprendimento dei contenuti per bloc-

chi di informazioni; in ogni lezione si in-

segnano idee nuove che sono lo svilup-

po lineare di quelle introdotte in prece-

denza. Al contrario, l’apprendimento per

problemi non è un processo lineare, né

in senso temporale né in senso logico; in

genere, i problemi reali incorporano con-

cetti collegati in rete fra di loro. Inoltre,

per poter esplorare situazioni reali e

quindi sempre più o meno complesse,

sono richiesti tempi lunghi, poco com-

patibili con un orario scolastico rigida-

mente scandito in ore di lezione. Intro-

durre questa strategia nell’attuale siste-

ma di lezioni di breve durata signifi-

cherebbe aumentare notevolmente i

tempi morti del processo di apprendi-

mento che dovrebbe essere continua-

mente avviato e arrestato.

Infine, questa strategia comporta un ri-

pensamento del ruolo dell’insegnante, da

istruttore a tutore e collaboratore degli

studenti. In genere, gli insegnanti deci-

dono cosa e come i loro studenti devo-

no imparare basandosi sulle proprie

conoscenze e sui libri di testo. Questo

permette di impegnare gli allievi nelle

stesse esperienze di apprendimento e di

fissare obiettivi formativi in base ai

quali procedere a verifiche collettive

dell’apprendimento. Nel caso dell’ap-

prendimento per problemi, la situazio-

ne è ben diversa, in quanto gli studenti

ricorrono a svariate fonti di informa-

zione che possono portarli a individuare

nuove prospettive che non sono neces-

sariamente in sintonia con i punti di vi-

sta dell’insegnante. Vi è quindi una

parziale perdita di controllo dell’inse-

gnante sui contenuti e sul processo

d’apprendimento; acquista minor rilie-

vo l’informazione fornita dall’inse-

gnante, il quale deve favorire l’appren-

dimento valorizzando l’analisi, la sinte-

si e l’arricchimento dell’informazione da

parte degli studenti.

Il passaggio dall’insegnamento tradi-

zionale a quello per problemi non ri-

chiede solo agli insegnanti di riconsi-

derare il proprio ruolo. Gli studenti

abituati all’insegnamento tradizionale

trovano inizialmente sconvolgente la

nuova strategia che richiede loro di as-

sumersi la responsabilità del proprio ap-

prendimento, di affrontare problemi

non strutturati come i problemi tradi-

zionali e quindi privi di una risposta giu-

sta prestabilita, e dove si prevede che sia

l’allievo a organizzare il proprio lavoro

al fine di acquisire informazioni da

usare per risolvere il problema. Ne segue

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI100

PERCORSI DIDATTICI

che per gestire l’apprendimento per

problemi è essenziale stabilire in classe

un’atmosfera error free ed error friendly

nella quale l’errore è considerato un pas-

so ineludibile sulla strada della cono-

scenza. Però spesso gli studenti esitano

a manifestare liberamente le proprie idee,

in quanto sono stati abituati a concepi-

re l’errore come manifestazione di igno-

ranza: esiste dunque un timore di esse-

re criticato o valutato negativamente che

deve essere superato.

Infine, nell’apprendimento per proble-

mi anche la valutazione assume uno sta-

tuto e un ruolo differenti da quelli che

le sono riconosciuti nell’insegnamento

tradizionale; essa non costituisce più un

momento a se stante, separato dall’ap-

prendimento, ma ne diventa una com-

ponente integrante, tanto è vero che si

parla di valutazione formatrice (Nunziati,

1990). La valutazione è un processo

continuo che non serve tanto a verificare

se gli studenti possiedono le conoscenze,

quanto piuttosto se sono in grado di

usarle e di applicarle. Questa concezio-

ne della valutazione come componente

integrante dell’apprendimento porta a

focalizzare l’attenzione su ciò che gli stu-

denti realizzano e non su ciò che l’inse-

gnante fornisce, ovvero tende a mettere

in luce le competenze acquisite.

Dal problema alla situazione-problemaL’attivazione di una strategia di ap-

prendimento per problemi richiede

condizioni di lavoro difficilmente rea-

lizzabili nell’ambito dell’attuale orga-

nizzazione del lavoro scolastico. Un’al-

ternativa più concreta e maggiormente

compatibile con la realtà scolastica è rap-

presentata dall’insegnamento fondato

sulla proposizione di situazioni-pro-

blema3, un concetto che costituisce

un’evoluzione dell’idea di problema.

La psicologia cognitiva distingue due tipi

di situazioni: la situazione di esecuzione

e la situazione-problema. Una situazio-

ne di esecuzione implica che le proce-

dure da utilizzare per dare risposta a un

interrogativo siano conosciute e diret-

tamente applicabili, mentre una situa-

zione-problema propone all’allievo un

compito da eseguire senza che egli di-

sponga delle procedure necessarie. Lo

studente viene posto di fronte ad un in-

terrogativo che richiede una risposta non

ovvia e che quindi si configura come

problema. Per rispondervi, lo studente

deve costruire una rappresentazione

della situazione e quindi ragionare con

idee nuove, formulare ipotesi, costrui-

re modelli, fare delle prove: egli si trova

di fronte a una sfida cognitiva.

Tuttavia, la situazione-problema non è

un problema reale da risolvere e se ne dif-

ferenzia per due aspetti: il suo carattere

fittizio e la destabilizzazione cognitiva che

essa induce. Per il suo carattere fittizio,

la situazione-problema può essere pa-

ragonata a un simulatore di guida usa-

to nelle autoscuole, concepito per im-

parare a guidare e non per guidare re-

almente. Come il simulatore di guida, la

situazione-problema pone gli allievi di

fronte a un compito, concepito al fine di

portarli a impadronirsi di determinate

conoscenze. Le risorse disponibili e i vin-

coli che l’ambiente impone costitui-

scono le condizioni di esecuzione del

compito, le quali determinano gli ap-

prendimenti potenziali degli allievi, le

operazioni mentali che devono attivare.

Spetta all’insegnante assicurarsi che le

condizioni di esecuzione del compito

permettano effettivamente agli allievi di

imparare qualcosa di nuovo.

Un altro aspetto distintivo della situa-

zione-problema è la destabilizzazione più

o meno profonda indotta nell’allievo, il

quale si trova confrontato a un ostaco-

lo epistemologico, ossia una concezione

insufficiente o sbagliata, un modello

esplicativo strutturato che l’allievo ha co-

struito in uno stadio precedente del

proprio percorso d’apprendimento dan-

dogli uno statuto di verità e che, per la

sua pregnanza, blocca nuovi apprendi-

menti. La situazione-problema si pre-

senta dunque come una situazione di rot-

tura, ed è con una rottura che si passa da

un livello di formulazione di un concetto

a un altro. Nel pensiero di un allievo si

induce una rottura quando si inocula un

dubbio, si genera un conflitto cognitivo,

si fa emergere una contraddizione fra ciò

che egli pensa di sapere e la situazione

di fronte alla quale viene collocato.

La reazione emotiva associata alla rot-

tura ha anche ricadute motivazionali, in

quanto risveglia interesse e stimola lo

studente a rivisitare criticamente il pro-

prio sapere, per costruirne uno più

consono alla situazione. La motivazio-

ne appare così parte integrante del pro-

cesso di apprendimento: un allievo pro-

vocato da una situazione-problema rea-

gisce, si pone interrogativi che stimola-

no pensieri più profondi e danno senso

all’attività d’apprendimento che gli vie-

ne proposta. Una situazione-problema

è tanto più pertinente e adeguata quan-

to più l’attività cognitiva che ne discende

ha senso per gli allievi. In definitiva, la

rottura prodotta da uno squilibrio co-

gnitivo che destabilizza l’allievo e ne pro-

voca la reazione è il nocciolo duro della

situazione-problema, ciò che la rende ef-

ficace.

Caratteristiche della situazione-problemaNel Riquadro 3 sono riassunte le carat-

teristiche essenziali di una situazione

problema (de Vecchi, 2002; Poirier

Proulx, 1999).

3. Il concetto di situazione-problema è stato propostoda ricercatori francesi.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 101

PERCORSI DIDATTICI

L’obiettivo prioritario di un insegna-

mento basato sulla situazione-problema

è il superamento di una concezione

sbagliata o inadeguata, ossia di un osta-

colo epistemologico; per questo motivo

è stata introdotta l’idea di obiettivo-

ostacolo (Martinand, 1986). Quindi per

scegliere la situazione di rottura si deve

avere ben presente l’ostacolo che si vuo-

le superare: infatti, la situazione deve es-

sere tale da permettere all’ostacolo di

manifestarsi. In questo modo, il sapere

che gli allievi devono acquisire si pre-

senta in concorrenza diretta con le loro

concezioni, originando la rottura che lo

rende significativo.

Il lavoro in classe sulla situazione-pro-

blema prevede attività individuali, in pic-

coli gruppi e attività collettive dell’inte-

ra classe. Nel lavoro individuale, ogni al-

lievo utilizza le proprie concezioni ini-

ziali per formulare ipotesi e individua-

re possibili soluzioni; a questo si asso-

ciano momenti di scambio e di discus-

sione, animati e guidati dall’insegnan-

te. Una volta risolto il problema, spetta

all’insegnante generalizzare il sapere

costruito (dandogli la forma di concet-

to, modello, legge, ecc.), decontestua-

lizzandolo dalla specifica situazione

studiata. L’insegnante assume dunque il

ruolo di garante della conformità del ri-

sultato al sapere scientifico.

L’insegnamento per situazione-problema

richiede l’adozione di un punto di vista

costruttivista, che assegna agli studenti

ampi spazi per argomentare le proprie

idee, formulare interrogativi o lavorare su

quelli proposti dall’insegnante. Que-

st’ultimo deve guidarli su un percorso

esplicito, razionale e significativo di do-

mande e risposte che infine li porti ai con-

cetti che devono essere appresi. Indagi-

ni svolte in classe (Albergaria-Almeda,

2010) evidenziano il nesso esistente tra la

tipologia di domande poste dall’inse-

gnante e l’efficacia dell’azione didattica:

è del tutto evidente l’incompatibilità di

questo approccio didattico con doman-

de a risposta chiusa (giusta/sbagliata) e la

necessità da parte dell’insegnante di por-

re domande che stimolino la riflessione

dello studente. Un altro motivo di diffi-

coltà per gli insegnanti sta nel fatto che

questo approccio richiede spesso rifles-

sioni cooperative organizzate in discus-

sioni che coinvolgono l’intera classe.

Questo è un punto critico di portata più

generale: le discussioni plenarie in clas-

se sono inizialmente difficili da gestire non

solo per la maggior parte degli insegnanti

ma anche per gli studenti.

Esempi di situazione-problemaNel campo delle scienze della natura, i

modi più comuni di inventare le si-

tuazioni-problema sono riassunti nel

Riquadro 4.

Una ricca casistica di situazioni-pro-

blema di facile comprensione, che si ap-

poggiano su ostacoli molti diffusi e

che si prestano a un’utilizzazione pe-

dagogica relativamente facile è stata

raccolta da Gérard de Vecchi (de Vecchi,

2004). A titolo esemplificativo, vengo-

no presentati due esempi, applicabili ri-

spettivamente nella scuola primaria

(nell’ambito dello studio delle caratte-

ristiche della materia) e nella scuola se-

condaria di secondo grado (primo cor-

so di chimica).

Esempio 1 - Scuola primaria• Situazione problema - Si pesa un pal-

loncino vuoto; ammettiamo che il suo

peso sia di 15 grammi. Con una pom-

pa da bicicletta si riempie il pallonci-

no di aria. A questo punto l’insegnan-

te pone un interrogativo: Il palloncino

pieno di aria pesa come il palloncino

vuoto, più del palloncino vuoto o

meno del palloncino vuoto? Ogni al-

lievo deve rispondere individualmen-

te per iscritto alla domanda e deve giu-

stificare la propria risposta. Dopo ave-

re raccolto le ipotesi degli allievi, l’in-

segnante crea la rottura pesando il

palloncino pieno d’aria.

Riquadro 3Caratteristiche essenziali

di una situazione probema

• È un compito concreto da svolgere incerte condizioni che presuppongonoil superamento di un ostacolo benidentificato e ritenuto superabile.

• Deve funzionare per gli allievi come unvero enigma da risolvere nel quale sonoin grado di impegnarsi; è la condizioneper dare senso al compito proposto.

• Deve presentare un livello di difficol-tà né troppo basso né troppo elevato,ma tale da permettere all’allievo di in-vestire le conoscenze anteriori dispo-nibili e le proprie concezioni, in mododa rimetterle in discussione al fine di ela-borare nuove idee.

• Deve generare rotture che portinol’allievo a rifiutare i modelli esplicativiprecedenti se risultano inadatti o sba-gliati.

• Viene affrontata all’interno della classecon il metodo del dibattito scientificoin modo da stimolare i conflitti socio-cognitivi potenziali.

• Deve avere come esito un sapere di na-tura generale (concetto, modello, leg-ge, competenza, ecc.).

Riquadro 4Alcuni modi di inventare

situazioni-problema (de Vecchi, 2002)

• Mettere a confronto concezioni con-traddittorie manifestate dagli allievi.

• Mettere a confronto fatti in apparenzacontraddittori.

• Considerare dati sperimentali inattesi oche sembrano impossibili.

• Evidenziare contraddizione con ciòche gli allievi hanno appreso in prece-denza.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI102

PERCORSI DIDATTICI

• Rottura - Nella loro grande maggio-

ranza gli allievi pensano che il pallon-

cino pieno d’aria pesi meno del pal-

loncino vuoto, molto probabilmente a

seguito delle esperienze personali con

i palloncini che vengono loro offerti in

svariate occasioni. Il dato sperimenta-

le inatteso colpisce quindi gli allievi e

li provoca, offrendo all’insegnante

l’opportunità di avviare una discus-

sione sulla natura materiale dell’aria (e

di tutti gli altri corpi gassosi): l’aria è

un corpo materiale allo stato gassoso

e in quanto materia ha un peso.

Una situazione-problema può anche

nascere da contraddizioni con il sapere

pregresso degli allievi: infatti il sapere

scientifico si costruisce per livelli di for-

mulazione successivi che si riferiscono a

campi empirici di validità sempre più

ampi. Per esempio, nello studio della

struttura della materia e delle sue tra-

sformazioni, in un primo tempo gli

studenti costruiscono un modello par-

ticellare della materia che prevede che le

particelle siano indivisibili. Con tale

modello, che storicamente corrisponde

a quello di Dalton, è possibile spiegare

tutte le trasformazioni fisiche: in queste

trasformazioni, le sostanze conservano

la propria identità (livello macroscopi-

co) e quindi le particelle che le costitui-

scono restano inalterate (livello micro-

scopico). Quando si introducono le tra-

sformazioni chimiche, questo modello

non è più accettabile: nelle trasformazioni

chimiche le sostanze iniziali generano

nuove sostanze (livello macroscopico) e

quindi le particelle che le costituiscono

non restano inalterate (livello micro-

scopico). Il fenomeno può essere spiegato

ammettendo che le particelle delle so-

stanze possano dividersi in parti che si ri-

combinano dando origine a nuove par-

ticelle e quindi a nuove sostanze.

Esempio 2 - Scuola secondariadi secondo grado• Situazione problema - Gli studenti pa-

droneggiano un modello particellare

che postula l’indivisibilità delle parti-

celle. Viene loro proposta la seguente

attività (Figura 1).

• Rottura - Gli studenti hanno già co-

struito la legge che volumi eguali di gas

contengono le stesso numero di parti-

celle. Per formare cloruro d’idrogeno

una particella di gas idrogeno si com-

bina con una particella di gas cloro;

quindi dalla combinazione di un volu-

me di gas idrogeno con un volume di

gas cloro dovrebbe originarsi un volu-

me di gas cloruro d’idrogeno. Il dato

sperimentale (due volumi di cloruro

d’idrogeno) sembra impossibile poiché

in contraddizione con quanto appreso

in precedenza. Questo genera sorpresa

negli allievi che si trovano di fronte a

una rottura come risulta chiaramente

dalla risposta di uno di loro, il quale scri-

ve «Qui c’è un problema, in quanto il

volume non si raddoppia» (Figura 2).

Figura 2.

Figura 1.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 103

Il lavoro in piccoli gruppi e il successi-

vo dibattito scientifico in classe permette

di loro di avanzare l’ipotesi (storica-

mente risalente ad Avogadro) che ogni

particella di gas idrogeno e di gas clo-

ro sia costituita da due particelle più pic-

cole, le quali si separano l’una dall’altra

e si ricombinano nel rapporto 1:1 dan-

do origine a due volumi di gas cloruro

d’idrogeno. Questa situazione-proble-

ma porta a rivedere il modello parti-

cellare iniziale (particelle indivisibili), in-

troducendo l’idea che le particelle sono

divisibili; inoltre mette in rilievo l’in-

sufficienza del termine particella e la ne-

cessità di ricorrere ai termini più spe-

cifici di atomo e molecola, ad indicare

particelle indivisibili e divisibili, ri-

spettivamente. In questo modo, la di-

stinzione fra molecola e atomo non è re-

cepita dogmaticamente dall’allievo, ma

si impone come la logica spiegazione di

un fatto sperimentale.

Quadro teorico di riferimentoL’apprendimento per problemi reali e per

situazioni-problema sono due disposi-

tivi didattici che funzionano come al-

ternative all’insegnamento tradizionale.

In entrambi i casi, le attività degli allie-

vi presentano analogie con la prassi

della ricerca scientifica, che implica:

• un problema da risolvere;

• un lavoro individuale e cooperativo;

• la comunicazione agli altri dei risul-

tati.

Affrontando un problema reale o una si-

tuazione-problema, gli studenti sono

chiamati a sviluppare attività cognitive

come la rappresentazione della situa-

zione, l’emissione di ipotesi e la mo-

dellizzazione. Tali attività sono giustifi-

cate da un punto di vista costruttivista

dell’apprendimento (dimensione psi-

cologica) e in esse giocano un ruolo im-

portante le concezioni iniziali degli al-

lievi e le conoscenze che essi già possie-

dono (dimensione didattica). Il lavoro

cooperativo a piccoli gruppi e a livello

dell’intera classe è riconducibile a una vi-

sione socio-costruttivista dell’appren-

dimento e trova sostegno nella natura

della scienza come processo sociale di co-

struzione di conoscenza (il sapere scien-

tifico), caratterizzato dalla comunica-

zione dei risultati delle ricerche e dalla

loro validazione e accettazione da par-

te della comunità dei ricercatori (di-

mensione epistemologica).

Sul piano epistemologico, i due dispo-

sitivi didattici corrispondono all’ab-

bandono della concezione induttivista

della prassi scientifica (dall’osservazio-

ne alla teoria), a favore dell’approccio

ipotetico-deduttivo. Questo è un aspet-

to fondante della situazione-problema,

insieme alla distinzione fra realtà feno-

menica, da una parte, e teorie e model-

li scientifici, dall’altra. Teorie e model-

li sono ritenuti strumenti interpretati-

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI104

PERCORSI DIDATTICI

vi ed esplicativi dei fenomeni, costruiti

e validati dalla comunità scientifica e

hanno un carattere contingente, stori-

camente determinato e pertanto rive-

dibile. La storia delle scienze mostra che

tali revisioni non sono gratuite, ma

sono stimolate dal sorgere di nuovi in-

terrogativi dovuti all’esigenza di spiegare

nuovi fenomeni o a punti di vista in-

novativi riguardo a fenomeni già noti.

Questo ultimo aspetto è particolar-

mente presente nella situazione-pro-

blema.

L’apprendimento per risoluzione di

problemi reali e di situazioni-problema

sono due esempi di dispositivi didatti-

ci che condividono lo stesso punto di vi-

sta sull’apprendimento delle scienze

(ipotesi sociocostruttivista) e sul fun-

zionamento della scienza (epistemolo-

gia contemporanea). Pur nella diversi-

tà dei due approcci, in entrambi i casi il

concetto-chiave è quello di problema,

considerato il motore della progressio-

ne della conoscenza (Popper, 1996).

problema, giocano un ruolo di primo

piano le concezioni iniziali di cui gli stu-

denti dispongono all’inizio delle attivi-

tà. Le interazioni didattiche dovrebbe-

ro portarli a rendersi conto del campo

di validità di queste concezioni e a rein-

terpretarle e riformularle in modo da ac-

quisire nuovi saperi. Infine, queste stra-

tegie, assegnando allo studente un ruo-

lo attivo e creativo, possono avere forti

ricadute motivazionali e contribuire a

rendere l’allievo consapevole delle pro-

prie competenze.

Ezio Roletto - Alberto Regis - Elena GhibaudiUniversità di Torino

Ogni disciplina scientifica è definita da

un insieme di enunciati (concetti, mo-

delli, teorie, ecc.) e di attività intellettuali,

fra le quali hanno particolare importanza

le attività di modellizzazione. Impa-

dronirsi di queste discipline significa an-

che impadronirsi dei loro modi di pen-

sare e dei loro linguaggi, con le loro spe-

cificità.

L’insegnamento tradizionale si focaliz-

za essenzialmente sull’insieme degli

enunciati. Al fine di familiarizzare gli stu-

denti anche con le attività intellettuali

proprie delle scienze della natura, è ne-

cessario prevedere lavori di classe spe-

cifici. Particolarmente significative ri-

sultano, a questo scopo, le attività di mo-

dellizzazione che educano gli allievi a di-

stinguere tra fenomeni e loro rappre-

sentazioni concettuali, familiarizzan-

doli con la strategia dell’indagine scien-

tifica.

I due dispositivi didattici comportano

dunque importanti modifiche nel ruo-

lo di insegnanti e allievi nelle attività di

classe. In particolare, nelle situazioni-

BIBLIOGRAFIA

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Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 105

L’Education sentimentale fut

publié en 1869, un an avant la

proclamation de la guerre

franco-prussienne, dans une France en

plein désarroi, où tous les points de

repère semblaient perdus. L’Histoire,

telle qu’elle est enseignée dans les

écoles, n’était pas l’objectif de

Flaubert: ce qu’il voulait raconter était

plutôt «l’histoire morale de sa

génération», comme d’ailleurs le récite

le sous-titre du roman. L’Histoire est

pourtant présente dans ce roman, tel

un filet dans lequel les personnages

seraient pris, mais qu’ils auraient

l’illusion d’avoir tissé eux-mêmes.

La lecture du roman flaubertien peut

donc être proposée dans une classe de

lycée avec un double objectif: a)

introduire l’élève à l’analyse littéraire

et stylistique d’un des textes

fondateurs de la littérature française ;

b) introduire l’élève à la critique de

l’histoire. Les évènements racontés

dans le roman couvrent en effet toute

la deuxième partie du XIXe siècle: deux

Révolutions (février et juin 1848), un

coup d’Etat (1851), le second Empire.

Il ne s’agit pas d’apprendre l’histoire

dans un roman, mais de réfléchir de

manière critique sur un chapitre

d’histoire que l’on aura appris

auparavant en classe d’histoire. La

collaboration entre les professeurs de

français et d’histoire est donc

indispensable. Nous allons proposer

de suite une lecture du roman, qui

s’attache au style flaubertien tout en

visant l’élaboration critique

d’évènements qui risquent de paraître

“abstraits” à des adolescents du XXIème

siècle, mais qui furent tragiques et

lourds de conséquences sur l’Europe

entière. La littérature peut les rendre

vivants, aider les jeunes générations à

traverser le miroir du réel.

Flaubert et Du Camp, ou littérature et chroniqueEn 1876, Flaubert encore vivant,

Maxime Du Camp publia un volume

de souvenirs sur la révolution de 1848:

ils étaient le fruit des notes prises au

jour le jour, comme c’était l’habitude

de Du Camp. Il raconte avoir assisté en

1847 à un Banquet réformiste à Rouen,

pour voir «comment on remuait les

foules». Il était en compagnie de

Flaubert, comme d’ailleurs dans la

plupart des épisodes qu’il raconte. Une

confrontation entre la correspondance

de Flaubert et les souvenirs de Du

Camp est intéressante pour évaluer à

L’Education sentimentaleFlaubert et l’histoireMarisa Verna

leur juste mesure les différences dans la

perception des événements de la part

des deux amis, et surtout la différence

par rapport au résultat artistique

représenté par le roman1.

En 1847 Flaubert, Du Camp et Bouilhet

partagent la même position de

scepticisme relativement à la politique:

tous les trois n’aiment que l’Art Pur, et

méprisent l’éloquence politique.

Du Camp: Jamais pareille avalanche de lieuxcommuns enlaidis de phrases toutesfaites et de cacophonies d’imagesn’avaient roulé sur nous. Nous étionsdes lettrés vivant dans Homère, dansGoethe, dans Shakespeare, dans Hugo,dans Musset, dans Ronsard, préparantnos voyages projetés et n’ouvrant jamaisun journal politique2.

1. Cfr. L. Maranini, Il ’48 nella struttura dell’Education sen-timentale, in Il ’48 nella struttura dell’Education senti-mentale e altri studi francesi, Nitri-Lischi, Pisa 1963, pp.11-117.2. M. Du Camp, Souvenirs, cit. in Maranini, Il ’48 nella strut-tura dell’Education sentimentale p. 18.

Boulevard duTemple prima dei

lavori diHaussemann.

ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI106

LINGUE, CULTURE E LETTERATURE

Flaubert:J’ai pourtant vu dernièrement quelquechose de beau et je suis encore dominépar l’impression grotesque et lamentableà la fois que ce spectacle m’a laissée. J’aiassisté à un Banquet Réformiste3!

Les deux amis choisissent des exemples

de lieux communs prononcés par

Odilon Barrot (candidat légitimiste

modéré):

Du Camp:«le char de l’Etat», «la coupe décevantede la popularité», «l’Hydre del’anarchie», «le fatal aveuglement dupouvoir», «la stérile ambition qui sèmeles torches de la discorde» «lamoralisation des classes pauvres».

Flaubert:«le timon de l’Etat», «l’abîme où nouscourons», «l’honneur de notre pavillon»,«l’ombre de nos étendards», «lafraternité des peuples».

La première différence qui saute aux

yeux est la concision de Flaubert, qui

rapporte moins d’exemples et moins

d’épisodes, se bornant à ceux qui lui

paraissent expressifs, correspondant au

sentiment des choses, et au sien propre,

de dégoût, de nausée, d’amertume.

Encore Flaubert:impression grotesque et lamentable …nausées de dégoût … triste opinion deshommes … gelé jusque dans lesentrailles … l’amertume vous vient aucœur quand s’étalent devant vous desbêtises aussi délirantes, des stupiditésaussi échevelées.

C’est surtout dans une image, qui

reviendra dans Madame Bovary, que

Flaubert démontre avoir perçu dans ce

qu’il observait une vacuité qui est

existentielle, métaphysique plutôt que

simplement politique ou intellectuelle:

Flaubert:On a fait l’éloge de Béranger danspresque tous les discours. Quel abus onen fait, de ce bon Béranger! Je lui garderancune du culte que les espritsbourgeois lui portent. Il y a des gens degrand talent qui ont la calamité d’êtreadmirés par de petites natures: le bouilliest désagréable surtout parce que c’est labase des petits ménages. Béranger est lebouilli de la poésie moderne: tout lemonde peut en manger et trouve ça bon4.

L’image du bouilli deviendra le

symbole du tædium vitae dans une

célèbre page de Madame Bovary, prise

de nausée devant son petit ménage,

devant la vie elle-même5. Flaubert ne

se borne pas à faire collection de lieux

communs (il faudra attendre voir pour

cela le Dictionnaire des idées reçues): il

tente de se voir, lui-même, dans le

courant de la bêtise, de se définir et de

définir son propre sentiment face à la

réalité.

Si Du Camp se borne à juger un

monde dont la bêtise le fait “rire”,

Flaubert se juge face à ce même monde,

dont il est à la fois l’observateur et le

protagoniste. En ce sens peut être

acceptée l’analogie Flaubert/Frédéric;

dans une lettre à Du Camp de 1851,

Flaubert se décrivait de la sorte:

Lettre 1851Tu sais bien que je suis l’homme desardeurs et des défaillances. Si tu savaistous les invisibles filets d’inaction quientourent mon corps et tous lesbrouillards qui me flottent dans lacervelle! J’éprouve souvent une fatigue àpérir d’ennui lorsqu’il faut fairen’importe quoi, et c’est à travers degrands efforts que je finis par saisir l’idéela plus nette. Ma jeunesse m’a trempédans je ne sais quel opiumd’embêtement pour le reste de mesjours. J’ai la vie en haine. Le mot estparti, qu’il reste! Oui, la vie, e tout ce quime rappelle qu’il faut la subir. C’est un

3. Lettre à Louise Colet, décembre 1847, cit in Ibi, p. 19.4. Lettre à Louise Colet, décembre 1847, cit. in Ibi, p. 21.Pierre-Jean de Béranger est un poète populaire etpopuliste, auteur de poèmes, chansons, pièces dethéâtre, patriote protégé par Napoléon Ier.5. «Mais c’était surtout aux heures des repas qu’ellen’en pouvait plus, dans cette petite salle au rez-de-chaussée, avec le poêle qui fumait, la porte qui criait,les murs qui suintaient, les pavés humides; toutel’amertume de l’existence, lui semblait servie sur sonassiette, et, à la fumée du bouilli, il montait du fond deson âme comme d’autres bouffées d’affadissement.Charles était long à manger; elle grignotait quelquesnoisettes, ou bien, appuyée du coude, s’amusait, avecla pointe de son couteau, à faire des raies sur la toilecirée» (Madame Bovary, Chapitre IX, I Partie).

Lavori in Place du Châtelet.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 107

ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE

supplice de manger, de m’habiller, d’êtredebout. J’ai traîné cela partout, aucollège, à Paris, sur le Nil, dans notrevoyage6.

Le ‘dégoût du monde’, la fatigue, le

risque d’inaction: Frédéric est

évidemment en partie Flaubert, qui se

décrit dans sa génération: mais en

même temps il n’est évidemment pas

Flaubert, lequel est capable de la juger,

cette inaction, même face à la bêtise de

la politique (alors que Du Camp se

borne à s’en retrancher, à se voir hors

de la stupidité ambiante, supérieur au

réel): les «lettrés vivant dans Homère»

dont parle Du Camp deviennent dans

le roman Frédéric et Rosanette, un

amoureux déçu et une femme avide et

vulgaire qui se renferment dans une

chambre pendant que les morts

jalonnent les rues de Paris.

Les Souvenirs de Du Camp relatent un

épisode où des gardes municipales à

cheval, sans armes, saluent le peuple

en se découvrant la tête, pour se sauver

de cette manière la vie. Une

comparaison entre le texte de Du

Camp et celui du roman est très utile

pour comprendre la différence

d’attitude entre les deux amis, et

surtout la valeur de “critique

historique” que peut prendre

l’Education Sentimentale.

Le terme «déguenillés» (qui est vêtu de

guenilles), entre «vainqueur»

(substantif très fort, presque définitif),

et «se rengorgèrent» (verbe très

ironique) affaiblit la valeur du

substantif et le charge de signifiés

ironiques, presque grotesques: tout est

remis en discussion: le sens de la

victoire et la sincérité de la salutation

des gardes. Mais, surtout, est remis en

discussion le courage des deux amis:

qui ne sont pas, eux non plus, sans

éprouver une certaine satisfaction.

L’âme de Frédéric, qui ne sait jamais

où se situer, est ici parmi les

«vainqueurs déguenillés». Pour lui les

morts ne sont jamais de vrais morts:

sauf Dussardier, qui, tué par Sénécal, le

laisse «béant» («Et, béant, il reconnut

Sénécal», après quoi il y a ce «blanc»

tant apprécié par Proust: c’est après

ces mots que l’histoire se ‘suspend’ et

efface en un seul prédicat des années

entières: «Il voyagea.»). Flaubert, lui,

sait que les morts qui s’entassent dans

les rues sont de vrais morts, et dans la

description de la foule des journées

révolutionnaires les décrit comme tels:

Quand les étudiants eurent fait deux foisle tour la Madeleine, ils descendirentvers la Place de la Concorde. Elle étaitremplie de monde: et la foule tasséesemblait, de loin, un champ d’épis noirsqui oscillait.

Education

Ils avaient fait trois pasdehors, quand un pelotonde gardes municipaux encapotes s’avança vers eux, etqui, retirant leurs bonnets depolice, et découvrant à la foisleurs crânes un peu chauves,saluèrent le peuple très bas.A ce témoignage de respect,les vainqueurs déguenillésse rengorgèrent. Hussonnetet Frédéric ne furent pas,non plus, sans éprouver uncertain plaisir.

Souvenirs de l’année 1848

Debout sur le stylobate d’une des colonnes du portique,Ils avaient fait trois pas dehors, quand un peloton de jeregardais attentivement un groupe d’hommes marchantavec une régularité militaire qui se dirigeait de notrecôté. Il approcha, et je reconnus des soldats de la gardemunicipale à cheval, sans arme aucune et en petitetenue. Arrivés à dix pas de nous, ces hommes ôtèrent leurbonnet de police, et, le visage souriant avec contrainte,ils saluèrent. Un d’eux prononça une courte phrase et jedistinguai les mots «Peuple et cause sacrée». Derrièremoi, j’entendis armer des fusils ; Flaubert et moi nouséchangeâmes un coup d’œil et nous nous comprîmes.D’un élan, nous étions près des gardes, les embrassant,leur serrant la main et les appelant: «Nos frères égarés!» 6. Cit. in L. Maranini, Il ’48 nella struttura dell’Education sen-

timentale, cit. p. 23.

Communards immortalano la rivoluzione del 1870.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI108

LINGUE, CULTURE E LETTERATURE

L’image des épis n’est pas nouvelle, ni

en soi originale, si ce n’était pour cet

adjectif de couleur, «noirs», qui modifie

le sens de la métaphore. Non seulement

la foule oscille au vent (image souvent

choisie par les journaux eux-mêmes à

l’époque des faits), mais sur elle pèse le

menace de la faux de la mort, qui est

suspendue sur l’humanité entière, prise

dans l’incertitude et la douleur,

toujours. Maranini commente très

opportunément:

Flaubert è passato, senza possibile di-

scussione, dalla cognizione particolare dei

fatti, alla “visione” di essi in un collega-

mento di “necessità”, e, quindi, alla “co-

noscenza” di essi. Al loro senso metasto-

rico, vale a dire, poetico (…) dalla cronaca

dispersiva si passa allo stile espressivo (…)

dalla cronaca alla quale il giudizio si so-

vrappone come qualche cosa di estraneo

o di aggiunto, si arriva a una narrazione

che è già in se stessa, oltre che “stile” (o,

in altri termini, espressione che si realiz-

za attraverso un ritmo nuovo imposto alle

parole), anche lucido esame delle se-

quenze dei fatti, e, quindi, critica storica7.

L’œil de l’artiste n’est plus, comme

chez Balzac, un faisceau de lumière qui

éclaire une certaine zone du réel, il est

devenu un phare qui tourne autour de

soi-même, qui voit tout ce qui se

manifeste et les réseaux qui s’opposent

et se rattachent l’un à l’autre, dans une

immortelle insignifiance. L’Histoire est

donc présente, dans l’Education,

présente comme critique d’elle-même

et de ses protagonistes, dont les raisons

se composent et s’annulent l’une

l’autre. Plus que Frédéric, Paris est le

véritable protagoniste du roman:

centre nouveau d’une nouvelle

dialectique de l’Histoire, vortex de

l’insignifiance elle-même. Seul

rempart à cette insignifiance, le style

nous permet d’entrer dans le flux

continu des événements. Proust l’avait

bien compris, qui dans son article sur

Flaubert anticipe bien des

observations de la critique

contemporaine:

[…] ce qui jusqu’à Flaubert était actiondevient impression. Les choses ontautant de vie que les hommes, car c’est leraisonnement qui après coup assigne àtout phénomène visuel des causesextérieures, mais dans l’impressionpremière que nous recevons cette causen’est pas impliquée8.

L’observation est capitale, car elle

constitue une définition du réalisme

flaubertien sans que jamais le mot

réalisme ne paraisse dans le

commentaire: au centre du style de

Flaubert se trouvent «le rendu de la

vision», le «rythme régulier», la

monotonie et la continuité qui

permettent que l’action soit abandonnée

au profit de l’impression, d’une qualité

de la vision où rien n’est mis en relief et

aucune action n’intervient pour

interrompre l’existence brute et solide

des choses, auxquelles l’auteur ne

cherche plus un sens.

Un sens existe, dans la beauté de

l’écriture qui nous rend perceptible le

réel de l’Histoire.

Les élèves pourraient donc être invités

à travailler sur la comparaison entre

les textes de Du Camp, qui ‘prend des

notes’, et les textes de Flaubert, qui

s’implique dans le récit. Le travail

d’analyse devrait être en premier lieu

linguistique (choix des adjectifs et des

prédicats, implication du sujet de

l’énonciation). Le lecture de quelques

pages de journaux de l’époque, la

vision de photographies (il en existe de

la Révolution de juin, qui fut le

premier événement historique à être

photographié), pourrait conclure le

travail de classe. En dernier, on

pourrait proposer aux élèves un travail

personnel de recherche sur un des faits

historiques représentés dans le roman,

pour que l’objectif de l’apprentissage

critique puisse être rejoint.

Marisa VernaUniversità Cattolica, sede di Milano

7. Maranini, Il ’48 nella struttura dell’Education sentimen-tale, p. 53 et 60.8. M. Proust, Essais et articles, Pierre Thierry Laget ed., Paris, Folio Essais, p. 284-285.

Communards prima di abbattere la Colonne Vendôme.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 109

ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE

Esiste in Italia una cospicua

casistica di sentenze della

giurisprudenza penale in

materia di reati a sfondo razziale e di

discriminazione etnico-razziale1. In

tali sentenze, da una parte è

riconosciuto il fatto che l’aggressione

immotivata o atti di teppismo ai danni

di un cittadino straniero non sono gli

unici indici significativi per qualificare

il reato di violenza; ad essi vanno

aggiunti «le parole e i gesti provocatori

che rimandano in maniera chiara alla

diversità di razza, di nazionalità e di

“colore”, gli atteggiamenti di odio o,

quanto meno, di insofferenza o di

intolleranza […]» (cfr. Suprema Corte

di Cassazione, Sez. III – penale,

sentenza 15 gennaio 1999 (udienza il

24-11-1998), n. 434)2. Dall’altra parte

si possono riscontrare, nelle sentenze,

delle attenuanti alle aggressioni di

natura verbale: «Non sussiste il reato

di cui all’art. 3 comma 1 lett. a) l.

654/75 (propaganda di idee fondate

sull’odio razziale) se frasi offensive e

denigratorie verso gli stranieri sono

proferite dinanzi ad un unico

interlocutore ed in maniera informale.

La condotta, seppur perpetrata in

occasione di una conferenza stampa e

alla presenza di diverse persone, è

inconciliabile con l’attività di

diffusione di idee fondate sull’odio

razziale o con l’istigazione ed il

proselitismo se mancano riferimenti a

fatti o persone determinate e se trattasi

di frasi estemporanee ed occasionali,

non potendosi ravvisare in essa il dolo

specifico dato dalla volontà di

diffondere tali idee» (cfr. Tribunale di

Treviso, sentenza n. 492 del 6.6.2000 –

est. Toppan)3. Che cosa si intenda per

“maniera informale” è molto vago

(volutamente vago?) e può costituire

un precedente per la giustificazione

degli insulti etnici; del resto, basta una

veloce scorsa del materiale pubblicato

online per constatare che il reato di

ingiuria razziale sembra essere un

tema dai contorni ancora labili,

giudicabile soggettivamente dai diversi

tribunali.

Come viene sottolineato da più parti, nel

nostro ordinamento giuridico manca una

nozione corrispondente a quella codifi-

cata nel diritto anglosassone come hate

speech per indicare il linguaggio che

produce discriminazione, pertanto, in as-

senza di una giurisprudenza univoca in

proposito, in Italia le sentenze dal giudizio

dissonante dipenderebbero dal conflit-

to tra il (legittimo) diritto alla libertà di

opinione e il principio di eguaglianza e

non discriminazione4. Parimenti, negli

Stati Uniti, nazione estremamente sen-

sibile alla questione degli epiteti razzia-

li denigratori tanto da produrre gli stu-

di più significativi sugli slur, la giuri-

sprudenza “ondeggia” tra la condanna

dell’uso di certe parole come atti espli-

citi di discriminazione e l’affermazione

del diritto della libertà di opinione san-

cito dal Primo Emendamento.

Che cosa facciamo quando diciamo crucco?Maria Paola Tanchini

Crucco è un esempio di etnonimo: l’uti-

lizzo di questa denominazione individua,

per il parlante italiano, una classe spe-

cifica di individui, ovvero i tedeschi o, più

genericamente, i parlanti l’idioma te-

desco; per dilatazione può indicare tut-

to ciò che può riguardarli. Chi dice

crucco, tuttavia, non dice solo tedesco.

Crucco, infatti, non può essere conside-

rato un termine “neutro”, denotante un

popolo: nei dizionari viene solitamen-

te qualificato come “spregiativo”. La sua

controparte neutra nell’italiano standard

è tedesco; anche tedesco, tuttavia, può as-

sumere particolare coloritura nelle va-

rianti locali o regionali5 o in particola-

1. Si veda, ad esempio, la Raccolta della giurisprudenzapenale in materia di reati a sfondo razziale e di discrimi-nazione etnico-razziale del settembre 2011 a cura del-l’Associazione Studi giuridici sull’Immigrazione di Torino:cfr.: http://www.asgi.it/public/parser_download/save/giurispr_penale_reati_razziali_sett_2011.pdf.2. Ibi, p. 4. Testo integrale della sentenza al link:http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=documenti&id=2045&l=it.3. Ibi, pp. 4-5. Testo integrale della sentenza al link:http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=documenti&id=2047&l=it.4. «In Italia, infatti, si è fatta strada l’opinione (suppor-tata da alcuni esponenti politici e alcuni intellettuali)che la codificazione di un linguaggio d’odio, e conse-guentemente di quelli che sono definiti come hate cri-mes, costituisca violazione della libertà d’opinione»: cfr.P. Fiore, Il Diritto come garanzia per un linguaggio eguali-tario, «Multiverso», 10, 2010, online al link:http://www.multiversoweb.it/rivista/n-10-link/il-diritto-come-garanzia-per-un-linguaggio-egualitario-3362/.5. Le varianti regionali o locali del termine tedesco risul-tano, spesso, essere marcate: basti considerare, peresempio, la scarsa benevolenza insita nelle varianti set-tentrionali tüter e todesk, tipiche del dialetto bresciano,o nelle varianti ladine todeski, tedésk, todésk o tóderli,quest’ultima riferita solitamente ai tirolesi (la trascri-zione grafica è stata semplificata).

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI110

LINGUE, CULTURE E LETTERATURE

ri contesti d’uso. Il fatto che nell’Atlan-

te linguistico del ladino dolomitico cu-

rato da Goebl6 le varianti locali del te-

mine crucco, per esempio kruk, krúke o

krúki, siano indicizzate a volte come “di-

spregiativo”, a volte come “non tanto di-

spregiativo” o a volte siano prive di tale

specificazione, non cambia la sostanza

delle cose: crucco ha una precisa con-

notazione che riflette un atteggiamen-

to più o meno negativo nei confronti del-

la classe dei denotati. Gli etnonimi è

come «se contenessero sempre un ine-

rente tratto dispregiativo», scrive Gior-

gio Cardona, «dato dal fatto che si trat-

ta di altri da noi, e dunque, in genere, di-

versi in peggio»7.

In questo intervento intendiamo pro-

porre un’ipotesi di interpretazione se-

mantica che spieghi “che cosa facciamo

quando diciamo crucco”, senza tuttavia

addentrarci nella classificazione degli et-

nonimi razziali, né nella loro decodifi-

cazione sociologica8.

Il semantismo di cruccoVerifichiamo anzitutto la definizione del

termine in alcuni dizionari della lingua

italiana. Prima, però, una precisazione:

utilizziamo qui il termine ‘connotazio-

ne’ per indicare quella parte del signifi-

cato che si aggiunge ai tratti semantici

necessari per individuare i referenti,

apportando semantismo riconducibile

all’atteggiamento del parlante nei con-

fronti degli oggetti denotati. Parafra-

sando Kerbrat-Orecchioni9, potremmo

dire che la connotazione si riferisce a un

insieme di tratti semantici aggiuntivi, se-

condari e periferici, che non fanno par-

te né dell’intensione né dell’estensione

del termine10.

Nel dizionario Treccani11 si trovano

spiegazioni dettagliate sull’etimologia-

di crucco, sulla sua evoluzione semanti-

ca (ampliamento dell’estensione in rap-

porto al significato originario) e sul si-

gnificato d’uso attuale. Interessante è il

riferimento all’intonazione come mar-

ca di connotazione:

crucco (o cruco) s. m. (f. -a) [adattamentodel serbocr. kruh «pane»]12 (pl. m. -chi).– Nome con cui nella seconda guerramondiale i soldati italiani chiamavano gliabitanti della Iugoslavia merid. con iquali erano a contatto. In un secondo tem-po fu riferito (anche nella forma cruco),dai soldati che combattevano in Russia epoi dai partigiani, ai soldati tedeschi;come agg., con intonazione spreg., è rife-rito in genere a tutto ciò che è tedesco.

Nel Devoto-Oli13 la spiegazione è più

concisa e manca qualsiasi riferimento al-

l’intonazione che concorrerebbe a se-

gnalare la connotazione dispregiativa:

crucco ‹crùc·co› s.m. (f. -a; pl.m. -chi)Nome dato dai soldati italiani, durante laseconda guerra mondiale, agli abitantidella Iugoslavia meridionale, poi ai sol-dati tedeschi ~ spreg. Tedesco.ETIMO Dal serbocroato kruh “pane”DATA 1947

Nel dizionario di De Mauro14 mancano

riferimenti espliciti al valore spregiati-

vo di questa espressione:

crùc·cos.m., agg. CO [comune]s.m., ster. [stereotipo], tedesco | agg.,proprio, tipico dei tedeschi

La marca d’uso “stereotipo”, tuttavia,

lascia inferire la presenza di un possibi-

le significato connotativo, in quanto la-

scia intendere una visione semplificata e

largamente condivisa veicolata dal ter-

mine e la connotazione, quando è codi-

ficata e non esito di una suggestione sog-

gettiva momentanea, nasce spesso sulla

base di stereotipi, come sottolinea, tra al-

tri, Keith Allan: «The connotations of a

language expression are pragmatic effects

that arise from encyclopaedic knowledge

about its dentotation (or reference) and

6. H. Goebl (ed.), Atlant linguistich dl ladin dolomitich y didialec vejins, 2a pert / Atlante linguistico del ladino dolo-mitico e dei dialetti limitrofi, 2a parte / Sprachatlas des Do-lomitenladinischen und angrenzender Dialekte, 2. Teil,Éditions de linguistique et de philologie, Strasbourg2012, 7 voll., cfr. vol. 2, tavola 242. Ringraziamo BrigitteRührlinger per la segnalazione.7. Cfr. G.R. Cardona, Nomi propri e nomi di popoli: una pro-spettiva etnolinguistica, Centro Internazionale di Semio-tica e Linguistica, Università di Urbino, Documenti dilavoro 119, serie C, 1982, pp. 16, cfr. p. 12. Intuitivamentesembrerebbe che il carico spregiativo veicolato da cruccosia minore rispetto a quello veicolato, per esempio, danegro anche in virtù del fatto che la sua estensione è ri-dotta rispetto a quella e che la sua diffusione è minore. Siresterebbe quanto meno stupiti di fronte a una citazionein giudizio per l’aver appellato qualcuno crucco, financhecon intenti ostili o volutamente offensivi.8. Si possono vedere, in proposito, A. Winkler, EthnischeSchimpfwörter und übertragener Gebrauch von Ethnika,«Muttersprache», 4, 1994, pp. 320-337 e M. Markefka,Ethnische Schimpfnamen – kollektive Symbole alltäglicherDiskriminierung, «Muttersprache», 2, 1999, pp. 97-123(prima parte), 3, 1999, pp. 193-206 (seconda parte), 4,1999, pp. 289-302 (terza parte).9. Cfr. C. Kerbrat-Orecchioni, La Connotation, P.U.L., Lyon1977, cfr. p. 12. Ovviamente questa non è l’unica posi-zione: una panoramica esaustiva del concetto di con-notazione, nella sua evoluzione storica, si trova in EddoRigotti, A. Rocci, Denotation vs Connotation, in K. Brown(ed.),The Encyclopedia of Language and Linguistics, Else-vier, Amsterdam 20062.10. Indichiamo con ‘estensione’ l’insieme degli individuia cui un determinato termine si riferisce, con ‘intensione’l’insieme degli attributi che un individuo deve posse-dere per far parte dell’estensione.11. Cfr. http://www.treccani.it/vocabolario/crucco/.12. Segnaliamo che Vittore Pisani fornisce un’altra spie-gazione etimologica: «Ausdruck des militärischen Jar-gons; vielleicht aus dt. Krug “Schenke” (also“trinksüchtiger Mensch”)». Cfr. V. Pisani, Die italienischenBezeichnungen für Deutschland und die Deutschen, «Mut-tersprache», 72, 1962, pp. 194-201, cfr. p. 200.13. Cfr. G. Devoto, G.C. Oli, Il Devoto-Oli. Vocabolario dellalingua italiana, Le Monnier, Torino 2010.14. T. De Mauro, Il dizionario della lingua italiana, Para-via, Torino 2000.15. K. Allan, The pragmatics of connotation, «Journal ofPragmatics» 39, 2007, pp. 1047-1057, cfr. p. 1047.16. M. Cortellazzo, P. Zolli, Dizionario etimologico dellalingua italiana, Zanichelli, Torino 1979, 5 voll.

also from experiences, beliefs, and prej-

udices about the contexts in which the ex-

pression is typically used»15.

Nel dizionario etimologico della Zani-

chelli16 si trova, nella citazione di Bru-

no Migliorini dall’Appendice al “Dizio-

nario moderno” di Alfredo Panzini, un

interessante abbinamento tra la conno-

tazione spregiativa e quella scherzosa:

crùcco, s.m. e agg. spreg. “tedesco” (1947,P. Monelli: LN XXIV (1963) 32).

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 111

ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE

Soprannome scherzoso-spregiativo che

(applicato dapprima agli slavi del sud, che

chiamano il pane kruch) fu poi dato, du-

rante la seconda guerra mondiale, ai Te-

deschi (1963, Migl. App.).

Il sintagma composto “scherzoso-spre-

giativo” sembra sintetizzare, al di là del-

l’origine etimologica in ambito militare17,

piuttosto il fatto che nell’uso attuale la

componente denigratoria non sia così ac-

centuata (cfr. nota 7). D’altra parte, è al-

tresì riconosciuto che un epiteto dispre-

giativo o slur può volgere la sua conno-

tazione negativa in positivo se viene uti-

lizzato da un rappresentante della cate-

goria target per riferirsi a un suo simile

/ ai suoi simili in un contesto considera-

to confidenziale o amicale (si pensi al-

l’utilizzo di nigger o nigga nelle canzoni

rap americane) o se, per motivi socio-cul-

turali, viene utilizzato addirittura da

persone appartenenti ai possibili utiliz-

zatori del termine in senso dispregiativo18.

Ciononostante, crucco resta un termine

connotato in partenza come dispregiati-

vo, mentre tale connotazione non è pre-

sente nella controparte neutra tedesco.

Ora, come si può interpretare il rapporto

tra il significato denotativo e quello

connotativo all’interno dei termini de-

rogatori? Esistono diverse scuole di pen-

siero in proposito e prima di presenta-

re la nostra ipotesi passiamo veloce-

mente in rassegna le posizioni più diffuse.

Alcuni considerano il significato con-

notativo come parte del significato let-

terale del termine19. Secondo questa

posizione dire crucco significa sempre

dire persona di nazionalità tedesca e di-

sprezzabile per questo. La conseguenza

estrema di questa lettura è che, poiché

non esistono persone disprezzabili per

appartenenza a una nazione o a un

gruppo etnico, l’estensione di espressioni

derogatorie di questo tipo sarebbe vuo-

ta, ma ciò sembrerebbe contraddire il fat-

to che per gli interlocutori che utilizza-

no tali termini è sempre possibile indi-

viduare il referente del discorso.

Altri20 sostengono che il significato peg-

giorativo dipende dal fatto che l’uso di

queste espressioni è proibito (si tratta di

taboo-word) e chiunque violi questa

proibizione, offende coloro che la ri-

spettano. Intuitivamente, però, sem-

brerebbe vero il contrario, ovvero che sia

il significato di queste espressioni che le

rende parole-tabù e non viceversa.

Tra coloro che sostengono che il conte-

nuto derogatorio non è parte del signi-

ficato letterale, si distinguono due ap-

procci. Da una parte ci sono coloro che

affermano che il contenuto derogatorio

è espresso pragmaticamente. Schlen-

ker21, ad esempio, sostiene che faccia par-

te delle presupposizioni dell’enunciato

in cui occorre, ma di per sé il contenu-

Caricatura diGuglielmo I diHohenzollern(1797-1880) diThomas Nast.

17. Ricordiamo la controparte austriaca (prima guerramondiale) e tedesca (seconda guerra mondiale) del-l’eteronimo Itak/Itaker o Itaka (contrazione di Italieni-sche Kameraden) riservato agli italiani.18. Per esempio il fondatore della Def Jam Records, eti-chetta musicale del settore hip-hop, Russell Simmonsracconta a questo proposito: «When we say ‘nigger’ now,it’s very positive. Now all white kids who buy into hip-hop culture call each other ‘nigger’ because they haveno history with the word other than something positive[…] When black kids call each other ‘a real nigger’ or ‘mynigger’, it means you walk a certain way […] have yourown culture that you invent so you don’t have to buyinto the US culture that you’re not really a part of. Itmeans we are special. We have our own language»; ci-tato in A.M. Crom, Slurs, «Language Sciences», 33, 2011,pp. 343-358, cfr. p. 350.19. Si vedano ad esempio Ch. Hom, The Semantics ofRacial Epithets, «Journal of Philosophy», 105, 2008, pp.416-440 e Id., A Puzzle about Pejoratives, in «Philosophi-cal Studies», 159, 2011, pp. 383–405.20. Cfr. per esempio L. Anderson, E. Lepore, SlurringWords, «Nous», 47, 2013, pp. 25-48.21. Cfr. Ph. Schlenker, Expressive Presuppositions, «Theo-retical Linguistics», 33, 2007, pp. 237-245.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI112

LINGUE, CULTURE E LETTERATURE

to derogatorio non è cancellabile con-

testualmente come le presupposizioni:

non si può dire Hans è un crucco, ma non

ho pregiudizi nei confronti dei tedeschi.

Predelli22 asserisce invece che il conte-

nuto connotativo fa parte delle condi-

zioni di felicità: secondo questa impo-

stazione, l’affermazione Hans è un cruc-

co non è felice se è pronunciata da

qualcuno che non ha un atteggiamen-

to denigratorio/negativo nei confronti

dei tedeschi. Ciò è molto probabilmen-

te vero in rifermento all’uso, ma non

chiarisce la relazione tra il significato

connotativo e quello denotativo.

Dall’altra parte ci sono coloro che so-

stengono che il significato dispregiativo

sia espresso semanticamente, pur non fa-

cendo parte del significato letterale.

Williamson23, ad esempio, sostiene che

il significato derogatorio sia una impli-

catura convenzionale, ovvero faccia par-

te del semantismo lessicale e non sia can-

cellabile; per Hornsby si tratta invece di

un contenuto espressivo: «It is as if

someone who used, say, the word ‘nig-

ger’ had made a particular gesture while

uttering the word’s neutral counter-

part. An aspect of the word’s meaning is

to be thought of as if it were commu-

nicated by means of this […] gesture.

The gesture is made, ineludibly, in the

course of speaking, and is thus to be ex-

plicated […] in illocutionary terms»24.

La nostra ipotesi interpretativa25 si ag-

gancia idealmente alla tesi della Hornsby,

anche se non consideriamo il termine

crucco come un gesto o come una mar-

ca intonativa, per riprendere la defini-

zione del dizionario Treccani. Anche per

noi il significato connotativo è espressivo,

ma per spiegarne l’espressività ricor-

riamo alla teoria degli atti linguistici.

Dire è fareSecondo la teoria degli atti linguistici, la

maggior parte degli enunciati serve a

compiere delle vere e proprie azioni in

ambito comunicativo, in base alle quali

si influenza lo stato di cose del mondo.

Secondo la nota tassonomia di Searle26,

gli atti linguistici sono di cinque tipi: a)

rappresentativi/assertivi; b) direttivi; c)

commissivi; d) dichiarativi; e) espressi-

vi. In estrema sintesi: gli assertivi mira-

no a informare su come stanno le cose;

i direttivi mirano a dirigere il compor-

tamento altrui; i commissivi impegnano

il parlante circa il suo comportamento fu-

turo; i dichiarativi sono mosse interne a

una istituzione che modificano il nostro

mondo sociale; gli espressivi servono per

esprimere l’atteggiamento psicologico del

parlante nei confronti di un certo fatto.

Su questa base, noi sosteniamo che

quando un parlante dice Hans è crucco,

compie due atti linguistici:

22. Cfr. S. Predelli, From the Expressive to the Derogatory:On the Semantic Role for Non-Truth-Conditional Meaning,in S. Sawyer (ed.), New Waves in Philosophy of Language,Palgrave Macmillan, Houndmills and New York 2010, pp.164-185.23. Cfr. T. Williamson, Reference, Inference, and the Se-mantics of Pejoratives, in J. Almog, P. Leonardi (ed.),ThePhilosophy of David Kaplan, Oxford University Press, Ox-ford 2009, pp. 137-158.24. Cfr. J. Hornsby, Meaning and Uselessness: How toThink about Derogatory Words, «Midwest Studies in Phi-losophy», 25, 2001, pp. 128-141, cfr. p. 140.25. La tesi è stata recentemente presentata insieme adAldo Frigerio alla Third International Conference on Phi-losophy of Language and Linguistics “PhiLang2013” (Uni-versità di Lódz, 9-11 maggio 2013).26. J.R. Searle, A taxonomy of illocutionary acts, in K. Gun-derson (ed.), Language, Mind and Knowledge, Universityof Minnesota Press, Minneapolis 1975, pp. 344-369 e Id.,Atti linguistici. Saggio di filosofia del linguaggio, BollatiBoringhieri, Torino 1992.

a) un atto assertivo che corrisponde al-

l’informazione Hans è tedesco;

b) un atto espressivo tramite il quale il

parlante esprime il proprio atteggia-

Caricatura francesedel cancelliere Otto

von Bismarck (1815-1898).

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 113

ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE

mento nei confronti della classe dei de-

notati, qualcosa come “i tedeschi non

mi stanno (tanto) simpatici”. Adottia-

mo questa interpretazione perché l’at-

teggiamento spregiativo veicolato da

crucco è di default, ma, come abbiamo

visto, può assumere tratti più o meno

marcati a seconda del contesto d’uso

(da cui lo “scherzoso-spregiativo” del di-

zionario Zanichelli). Convenzional-

mente, emettere un enunciato espres-

sivo equivale a compiere una certa

mossa nel gioco sociale, come quando

diciamo ciao o grazie.

Riteniamo che entrambi gli atti, e dun-

que anche il secondo, siano parte del

contenuto semantico di crucco. Tra i due

tipi di atti, tuttavia, esiste una sostanziale

differenza: mentre del primo atto può

dire che è vero (è vero che Hans è tede-

sco) o falso (è falso che Hans è tedesco),

del secondo non ha senso chiedersi se lo

sia27. Questo perché il primo atto de-

scrive uno stato di cose del mondo,

mentre il secondo esprime un atteg-

giamento del parlante. Questa compo-

nente del semantismo potrebbe essere

paragonata a un grido di dolore: un gri-

do siffatto esprime il dolore, non lo de-

scrive e non avrebbe quindi senso chie-

dersi se un tale grido possa essere vero

o falso. Il secondo atto è dunque parte

del contenuto semantico, ma è indi-

pendente dal primo e non può essere né

vero né falso.

Si potrebbe obiettare avanzando la le-

gittimità di un’espressione come Hans

non è crucco, è tedesco (è falso che Hans

è crucco, Hans è tedesco). In realtà, la ne-

gazione non colpisce in questo caso la

componente descrittiva del termine,

ma nega o corregge metalinguistica-

mente quella espressiva. In questo caso

il parlante non compie l’atto espressivo.

Il contenuto espressivo, tramite il qua-

le il parlante esprime la sua attitudine o

le sue emozioni nei confronti di un in-

dividuo o di una classe di individui, è

parte del significato, indipendente dal

contesto, anche se il contesto ne preci-

sa i contorni, e dalla componente de-

notativa del termine.

Implicazioni glottodidattichePuò succedere che in classe gli studen-

ti usino etnonimi razziali con intenti vo-

lutamente dispregiativi o offensivi, op-

pure che ne chiedano il significato al-

l’insegnante. L’intervento educativo po-

trebbe consistere, a nostro avviso, nello

spiegare che pronunciando un enunciato

espressivo di questo tipo si compie una

precisa mossa nel gioco sociale di cui

ognuno si deve assumere la responsa-

bilità in relazione alle conseguenze e spie-

gando in che cosa consiste questa mos-

sa. Insultare qualcuno per motivi etni-

ci non limita l’azione agli interlocutori

dell’atto in praesentia, ma coinvolge

l’intero gruppo a cui il target appartie-

ne, emarginandolo.

Si potrebbe pensare di anticipare la

mossa promuovendo «nell’apprenden-

te una sensibilità nei confronti di aspet-

ti connotativi e pragmatici legati evi-

dentemente al significato di un ele-

mento lessicale “in contesto”. Proprio

perché si tratta di “casi estremi” all’in-

terno del lessico di una lingua, questi po-

trebbero essere introdotti per suscitare

maggiore curiosità rispetto a elementi di

uso più comune e dalle minori conno-

tazioni, e dunque innalzare la soglia di

attenzione»28.

Insegnare il significato di un etnonimo

o di un insulto etnico significa far ac-

quisire all’apprendente consapevolezza

delle sue componenti connotative:

«What we see is that the use or nonuse

of offensive language is not a simple mat-

ter of propriety or impropriety but ra-

ther involves effects, intentions, rights

and identity»29.

Concludiamo ampliando i confini del di-

scorso, riportando un’osservazione di

Giovanni Gobber30 sulla connotazione

che ci sembra di particolare interesse per

la glottodidattica. Gobber sostiene che

la concezione pragmatica della comu-

nicazione verbale può indagare “das

soziale spannende Leben” (“avvincente

vita sociale”) della lingua solo a partire

dalla connotazione, che diventa un ele-

mento decisivo della referenza testuale:

«Konnotation wird somit zu einem ent-

scheidenden Moment der Textreferenz,

sie gehört zu dem kontextrekonstruie-

renden Gedächtnis, das entscheidend ist

für die Speicherung der kommunikati-

ven Erfahrung, die eine gegebene Kon-

stellation von verbalen und nicht-ver-

balen Gebärden zu einem semiotischen

Ereignis ausmacht»31.

Maria Paola TenchiniUniversità Cattolica, sede di Brescia

27. Così come non posso dire è vero che è ciao o è falsoche è grazie.28. Cfr. M. Cordisco, B. Di Sabato, L’utilizzo di parole tabùnell’inglese di oggi: il caso di “fuck” nella comunicazioneordinaria e nella classe di inglese, «Testi e Linguaggi», 2,2008, pp. 87-104, cfr. p. 96.29. Cfr. E.L. Battistella, Bad Language: Are some WordsBetter than Others?, Oxford University Press, New York2005, p. 77, citato in M. Cordisco, B. Di Sabato, L’utilizzo diparole tabù nell’inglese di oggi, cit., p. 94.30. Cfr. G. Gobber, Zur Pragmatik von Denotation undKonnotation, in C. Di Meola, A. Hornung, L. Rega (ed.), Per-spektiven Vier. Akten der 4. Tagung «Deutsche Spra-chwissenschaft in Italien», Peter Lang, Frankfurt 2012,pp. 113-129.31. Ibi, p. 127 («Così la connotazione diventa un fattoredecisivo della referenza testuale; essa fa parte della me-moria che ricostruisce il contesto – una memoria deci-siva per immagazzinare l’esperienza comunicativa, laquale prende una costellazione di gesti verbali e nonverbali e ne fa un evento semiotico»).

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI114

LINGUE, CULTURE E LETTERATURE

1. G. Papini, Domandiamo la grazia per un poeta, inSchegge, «Corriere della Sera», 30 ottobre 1955, p. 3.

L’articolo Sul Corriere della Sera del 30 ottobre 1955,

il noto giornalista, scrittore, saggista e cri-

tico italiano Giovanni Papini, un anno

prima di morire, all’interno della sua ru-

brica quindicinale Schegge, così iniziava

un trafiletto di due sole colonne intito-

lato Domandiamo la grazia per un poeta:

Proprio oggi, 30 ottobre, Ezra Pound, poe-

ta americano di massima grandezza, fi-

nisce settanta anni. Non trascorre, però,

questa giornata in una sua casa in mez-zo ai boschi o sulle rive del mare, festeg-giato dagli amici e dagli ammiratori,bensì in un manicomio criminale dove èrinchiuso da dieci anni benché non sia unpazzo nel senso ordinario della parola, nétanto meno un delinquente.Non intendo attenuare né assolvere le col-pe di Ezra Pound verso il suo paese mapenso e reclamo che queste colpe, in qua-lunque maniera si vogliano misurare e pe-sare, hanno avuto, con il martirio crudeledi dieci anni, la loro piena espiazione. Conquesti dieci anni di prigionia umiliante,

Buon compleanno a Ezra PoundGiuliana Bendelli

La pagina delCorriere della

Sera del 30ottobre 1955 che

contienel’articolo di

Giovanni PapiniDomandiamo la

grazia per unpoeta, sotto la

rubrica“Schegge”.

di promiscuità stagnanti, di schiavitùmortificanti, l’autore dei Cantos, ha pa-gato, ha scontato, ha riscattato ogni suoerrore. Un artista, un uomo di cultura e di pen-siero, un poeta sono creature oltremodoipersensibili, che soffrono a mille doppial paragone degli esseri comuni: i diecianni di Pound corrispondono a una spe-cie di eternità.Nel momento stesso che i capi del Crem-lino rimandano graziati i criminali diguerra non possiamo credere che i di-scendenti di Penn e di Lincoln, di Emer-son e di Walt Whitman vogliano esseremeno generosi e clementi dei successoridi Lenin e di Stalin.A nome dei poeti e di tutti gli uomini dicuore d’Italia io mi rivolgo alla “donnagentile” che rappresenta a Roma la gran-de unione americana. La signora ClaraLuce è, per grazia di Dio, una cristiana,un’artista e una scrittrice e perciò sapràtrovare le parole più appropriate e calzantiper far comprendere a Washington ilnostro sentimento e la nostra preghiera.Prima che avrà principio il nuovo annoavrà fine la tetra e tormentosa reclusio-ne del vecchio e infelice Ezra Pound: que-sta vorrebbe essere la nostra certezzapiù che la nostra speranza1.

Papini interpretava lo spirito della mag-

gior parte degli intellettuali italiani con-

temporanei che avevano capito quanto

ingiusta e pretestuosa fosse l’accusa di fa-

scismo rivolta a Ezra Pound, il cui mes-

saggio più autentico era di ordine poe-

tico così come poetica era la sua pur for-

te visione economico-politica. Giam-

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 115

ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE

battista Vicari, tra i principali interlo-

cutori italiani di Ezra Pound2 e diretto-

re della rivista letteraria Il Caffè , fonda-

ta nel 1953 e importante laboratorio cul-

turale su cui scrissero, tra gli altri, autori

quali Italo Calvino e Leonardo Sciascia,

lancia un appello sul numero del 12 feb-

braio 1955: “Chiediamo agli americani

di perdonare il poeta Ezra Pound”.

Mentre Papini rivolgeva il suo accorato

appello al tribunale di Washington per-

ché si decidesse finalmente a liberare il

poeta, Nuova Corrente, una rivista let-

teraria italiana fondata a Genova l’anno

prima, stava preparando un volume

monografico su Pound che sarebbe sta-

to pubblicato come numero 5-6 con la

data gennaio-giugno 1956 e noto come

Pound Symposium. Il volume contiene

interventi di studiosi italiani famosi

(oltre che dei noti stranieri T.S. Eliot, E.

Bishop, R. Fitzgerald, H. Kenner) tutti

mossi dall’intento di valorizzare l’im-

portante influenza stilistica del poeta sul-

la letteratura italiana del tempo e dal pro-

grammatico intento di astenersi dal

proferire giudizi politici:

Dedichiamo interamente questo nume-ro all’opera di EZRA POUND senza pe-raltro desiderare di venire confusi conquanti in questi ultimi tempi hanno vol-to omaggi di troppa chiara intonazionepolemica al Poeta, invocando per lui dalpotere politico del suo paese una graziache riteniamo tanto ingiusto chiederequanto non dignitoso accettare in nomedella poesia che è pur fatta delle ineso-rabili contraddizioni della vita.Si tratta di una indagine critica che am-birebbe essere rigorosa, allo scopo di ve-rificare l’apporto del linguaggio poun-diano nell’attuale momento letterario.In una posizione come la nostra non po-tevamo non essere tentati dal desiderio diproporre con una serie di studi e di sag-gi, per la maggior parte redatti da spe-cialisti, qualche sicuro e fondato giudizio.Ringraziamo tutti coloro che hanno ac-cettato il nostro invito e ci auguriamo chequesto fascicolo non offra al lettore trop-

po gravi contraddizioni in sé e che appaialegato al nostro passato e futuro lavoro3.

Il primo contributo del Pound Sympo-

sium, “Saeva indignatio” di Ezra Pound,

porta la firma di Alfredo Rizzardi, autore

della traduzione italiana dei Pisan Can-

tos pubblicata nel 1951 dall’editore

Guanda con il titolo letterale di Canti Pi-

sani. Pound li aveva scritti nel 1945 nel

campo di prigionia americano di Col-

tano, presso Pisa, dove fu detenuto con

l’imputazione di tradimento per le sue

trasmissioni in inglese da Radio Roma

durante la guerra4.

Pound aveva iniziato a comporre i suoi

Cantos a partire dal 1919 per continua-

re fino alla morte e li aveva pubblicati a

più riprese, a partire dalla prima canti-

ca, A Draft of XXX Cantos, pubblicato in

volume nel 1930, a cui si sarebbero ag-

giunte tre sezioni nel decennio successi-

vo e, nel 1945, i Pisan Cantos appunto. Le

pubblicazioni dei Cantos successivi pro-

seguiranno fino al 1968 quando, a quat-

tro anni dalla morte, pubblicherà Drafts

& Fragments of Cantos CX-CXVII.

È con i Pisan Cantos e con la loro tra-

duzione italiana che Pound diventa un

personaggio mitico e un polo di attra-

zione per la critica, come ben osserva

Montale il quale, dopo aver espresso am-

mirazione per la serietà intellettuale

con cui Rizzardi assolve al difficile com-

pito di tradurre e presentare al pubbli-

co italiano l’opera poundiana, così la de-

scrive:

I Canti Pisani sono una sinfonia non diparole, ma di frasi in libertà. Non siamotuttavia nel caos perché queste frasi sonolegate da un “montaggio” che supera digran lunga, per apparente incoerenza,quello di qualche parte dell’Ulysses edell’eliotiana Waste Land. Si tratta però diun montaggio di cui sfugge totalmente ilconnettivo, il nesso conduttore. Imma-ginate che si possa radiografare il pensierodi un condannato a morte dieci minutiprima dell’esecuzione capitale, e suppo-

nete che il condannato sia un uomo del-la statura di Pound: e avrete i Canti Pisani:un poema ch’è una fulminea ricapitola-zione della storia del mondo (di un mon-do), senz’alcun legame o rapporto ditempo e di spazio5.

La prima recensione al volume di Riz-

zardi era stata pubblicata dalla rivista

Aut-Aut nel 1954 e portava la firma di

Edoardo Sanguineti, il quale porta l’at-

tenzione sull’aspetto prettamente stili-

stico dell’opera:

Passaggio obbligato, ormai, della critica in-torno a Pound (e meritatamente, e si vedaancora nella prefazione del Rizzardi a que-sti Canti Pisani, p. XVIII) è quella defini-zione interna dei Cantos che qui conver-rà ancora una volta trascrivere:

And they want to know what we talkedabout?

“de litteris et de armis, praestantibusqueingeniis”Both of ancient times and ourown; books, arms,And of men of unusual genius,Both of ancient times and our own, inshort the usual subjectsOf conversation between intelligent men.(Canto XI)

Poiché in questa è consegnato, alla stes-sa operazione poetica, il modulo piùimmediato e teso della scrittura poun-diana e della sua materia (the usual sub-jects of conversation), e il tono e le coltepresenze e, dentro il tempo, il libero mo-vimento del discorso e la necessità di una

2. Il carteggio tra Vicari e Pound è stato pubblicato re-centemente nel volume: G. Vicari, Il fare aperto. Lettere1939-1971, a cura di A. Vicari e L. Cesari, Archinto, Milano2000.3. Con queste parole non firmate si apre il numero 5-6della rivista Nuova Corrente, gennaio-giugno 1956. Il di-rettore della Rivista era Mario Boselli e i redattori MarioCartasegna, Alfredo Rizzardi, Leonardo Sciascia, Gio-vanni Sechi. 4. «… alla fine della guerra, egli fu arrestato per l’operadi propaganda antialleata da lui svolta, in veste di ZioEz (Uncle Ez) attraverso la radio italiana», in E. Montale,Lo zio Ez, «Nuova Corrente», 5-6 gennaio-giugno 1955,p. 24.5. Ibi, p. 25.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI116

LINGUE, CULTURE E LETTERATURE

autorizzazione e dichiarazione dottri-nale e i libri dunque e una poetica di ri-gorosa intelligenza (ma between intelligentmen, di intellettuale socievolezza). Ma orain questi Canti Pisani, LXXX, integrazioneinsieme e correzione, la poetica dellacritica conversazione di Pound, in misu-ra coerente con il modificarsi dell’orga-nismo narrativo dell’opera, diviene ilsintomo scoperto di una caduta, d unacondanna, di una negazione:

così discesi per l’aere malignoon doit le temps ainsi prendre qu’il vient

or to write dialog because there isno one to converse with

(Canto LXXX)

parole al gentle reader, se desidera sape-re di che si parla adesso. E il libro si com-pone di fatto in questa atmosfera di dic-tafono, di trascrizione franta, registrazionedi dialoghi che sono stati, mero accadi-mento sono stati, e riproposti nel loropeso apparentemente più esterno propriosecondo un gesto meccanico, di inventa-rio e ripetizione e controllo nel necessa-rio silenzio, nell’aere maligno, nella im-possibilità, dico, di un autentico discor-so: because there is no one to converse with.In questo rapporto tra l’antica e la nuo-va dichiarazione è dato tutto lo svolgi-mento, in essenza, della poetica e dellapoesia del maggior Pound6.

Sanguineti coglie la grandezza della no-

vità del linguaggio poundiano soprat-

tutto rapportandola al tono “lagnoso”

dell’ultimo Eliot:

e come non pensare a questo punto a queltratto iniziale del primo dei Canti Pisa-ni, LXXIV, come non ritagliare dal con-testo le parole indirizzate all’autore del-l’Old Possum’s Book of Practical Cats:

yet say this to the Possum a bang, not awhimper,

with a bang not with a whimper,(Canto LXXIV)

per misurare agevolmente tuta la di-stanza che separa lo “schianto” di questepagine poundiane, dalla “lagna” (e sia quidetto con ogni discrezione) dei Quartets?7.

La Casa di Pound è a RapalloIl 30 ottobre di quest’anno sarebbe sta-

to il centoventottesimo compleanno

del poeta Ezra Loomis Pound (nato a

Hailey, Idaho, nel 1885) e ci piace pen-

sare che avrebbe scelto di festeggiarlo in

Italia, magari a Rapallo, dove aveva de-

ciso di vivere da quando vi si era tra-

sferito nel 1924 rimanendovi fino al

1945, anno in cui fu imprigionato a Pisa

e da lì trasferito, per essere processato, a

Washington. Dichiarato infermo di

mente, venne rinchiuso nell’ospedale cri-

minale St. Elizabeth da cui fu rilasciato

solo nel 1958 quando rientrò nella sua

amata Italia che ne festeggiò il settanta-

treesimo compleanno con una mostra

delle sue opere tenutasi a Merano. A Ti-

rolo di Merano di fatti era la residenza

della figlia Mary de Rachewiltz, presso

la quale sarebbe rimasto a vivere fino alla

morte, avvenuta a Venezia il 1 novem-

bre 1972.

Ma fu a Rapallo che il poeta visse i suoi

anni italiani più intensi e partecipati:

Quello di Ezra Pound a Rapallo è un casoabbastanza estremo nella letteraturaesule del Novecento: un poeta e uomo dicultura che lega la propria vita indisso-lubilmente a una cittadina stranierapassandovi un blocco d’oltre vent’annie poi tornandovi frequentemente, sem-pre traendone linfe per la sua opera e fa-cendone un modello pionieristico di pro-getto culturale. Tanto che nella co-scienza letteraria moderna Pound e la suacittadina d’adozione non sono più se-parabili e chi pensa all’uno pensa all’al-tra e viceversa8.

6. E. Sanguineti, I Canti Pisani, «Aut-Aut», luglio 1954.Consultato in Il Verri, n° 34, maggio 2007, pp. 329-330.7. Ibi, p. 330. N.B. Le citazioni dai Cantos sono state qui ri-prodotte in originale mentre Sanguineti le propone intraduzione italiana.8. M. Bacigalupo, Ezra Pound. Un poeta a Rapallo, EdizioniSan Marco dei Giustiniani, Genova 1985, p. 3.

Ezra Pound sul lungomare di Rapallo intorno al 1929, quando stava terminando XXXCantos. Fotografia riprodotta per gentile concessione di Mary de Rachewiltz.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 117

ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE

Questa testimonianza è depositata al-

l’inizio dell’introduzione di un bellissi-

mo libro che ripercorre, attraverso do-

cumenti fotografici, epistolari, testi poe-

tici e articoli di giornale, l’intenso sog-

giorno di Ezra Pound a Rapallo. Il vo-

lume è a cura del rapallese Massimo Ba-

cigalupo, insigne docente di letteratura

inglese presso l’Università di Genova che,

per ragioni al contempo biografiche e ac-

cademiche, ha legato il suo nome a

questo autore tanto che ci sentiamo

autorizzati a parafrasarlo per affermare

che nella coscienza letteraria moderna

Pound e la sua cittadina d’adozione

non sono più separabili dal nome di

Massimo Bacigalupo.

Bacigalupo, infatti, pur essendosi occu-

pato ampiamente e approfonditamen-

te di tantissimi altri autori, non ha mai

cessato di dedicare un’attenzione privi-

legiata a Pound, scrittore che conobbe

personalmente nei suoi anni di stu-

dente liceale e la cui opera ha continuato

ad approfondire nel corso del tempo.

La sua ultima impresa consiste nella re-

cente traduzione di A Draft of XXX

Cantos (Ezra Pound XXX Cantos, Guan-

da Editore, 2012), riproposta mezzo se-

colo dopo quella effettuata da Mary de

Rachewiltz, figlia dell’autore e sua fedele

studiosa9.

Il merito di questa ri-proposta sta, oltre

che nell’impresa titanica, nell’invitare a

rileggere quest’opera nella giusta pro-

spettiva, per poterne apprezzare, insie-

me all’innegabile complessità dei con-

tenuti, la musicalità della lingua:

Ciò non significa che XXX Cantos sia unlibro impenetrabile e che solo chi rintracciechi e allusioni lo possa intendere. I temidi fondo – il viaggio di scoperta, i mo-menti di passione, la lotta contro la de-cadenza per una rinascita ancorché con-fusa, il rapporto tra artista e società, la de-nuncia degli oppressori e monopolisti,l’incanto del paesaggio mediterraneo, lapresenza di una condizione visionaria –sono fin troppo chiari, le note e citazio-ni sono la documentazione fornita dalpoeta in veste di storico, i suoi appuntiscritti e trascritti. Sicuramente egli stes-so non ricordava gran parte dei nessi evo-cati, e noi a volte possiamo trovare la chia-ve prendendo i libri che aveva sotto gli oc-chi. Conta il senso complessivo dell’im-presa, il mondo in cui il poeta ci immerge.I Cantos sono uno spettacolo, da con-templare e da maneggiare come le tantecarte di un mazzo prodigioso ma anchea volte sconsolante10.

Interessanti sono anche le riflessioni di

Bacigalupo espresse in un articolo scrit-

to nel 2011 sulla rivista Nuova Corren-

te ancora esistente, benché abbia cam-

biato editore e sede: Pound e Izzo si scri-

vono a proposito di Nuova Corrente.

Izzo era stato tra coloro che avevano con-

tribuito al numero di Nuova Corrente del

1955 su Pound con l’articolo 24 lettere

e 9 cartoline inedite di Ezra Pound:

ricco di informazioni preziose e spasso-se per la storia della poesia e cultura delNovecento. Molte vertevano sulle tradu-zioni approntate da Izzo negli anni ‘30 econtenevano significative chiose d’auto-re. In seguito Izzo incluse il suo scritto nelsecondo volume di Civiltà americana. Ag-

9. La traduzione fu pubblicata nel 1961 da Lerici-Schei-willer e ripresa nei Meridiani Mondadori. 10. M. Bacigalupo, Ezra Pound XXX Cantos, Guanda, Mi-lano 2012, Introduzione, p. 12.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI118

LINGUE, CULTURE E LETTERATURE

giunse una nota conclusiva in cui citavale prime righe di una missiva giuntagli daPound a proposito dell’articolo e del-l’intero numero 1. Il quale, sia detto perinciso, ebbe fortuna: ricordo che nelle bi-blioteche universitarie statunitensi lotrovavo rilegato sullo scaffale della criti-ca poundiana (che nel 1956 era abba-stanza embrionale). Qualche anno dopo, nel 1973, ItalianQuarterly della University of Californiaa Riverside dedicò un numero al tema“Ezra Pound and Italy”. Izzo vi pubblicòin facsimile tre lettere dattiloscritte di Pound (due del 1956, unadel 1958), fra cui quella riguardanteNuova Corrente, con una nota in cui for-niva alcune glosse. Ma nell’archivio del-la Beinecke Rare Book and Manuscript Li-brary della Yale University sono ancheconservate le risposte di Izzo, che com-

pletano e danno maggiore spessore alla

corrispondenza di cui si conosce solo il

lato poundiano, fornendo fra l’altro un ri-

tratto di quello studioso e intellettuale

acuto e originale che fu Izzo.

In questa occasione mi sembra opportuno

riportare lo scambio relativo a Nuova

Corrente, in cui i due corrispondenti han-

no modo di rivelare la loro spiccata per-

sonalità, alla quale, se non altro per

Pound, la letteratura dello scorso secolo

deve molto. Trascrivo le lettere in ingle-

se, come aveva fatto Izzo su Nuova Cor-

rente 5-6, dando in nota la traduzione.

Anche perché notoriamente lo stile epi-

stolare di Pound ha tutta la verve lingui-

stica dei suoi scritti creativi11.

Siamo poi grati a Massimo Bacigalupo

per averci concesso di riprodurre in

anteprima la copertina del volume da lui

curato e appena ultimato su H.D. (Hil-

da Doolittle): H.D. Fine al tormento. Ri-

cordando Ezra Pound (Archinto editore,

Milano, ottobre 2013).

Si tratta di un memoriale in forma di

diario tenuto dall’importantissima scrit-

trice americana che con Pound, suo

amico del cuore e mentore letterario,

tenne a battesimo a Londra il movi-

mento cosiddetto imagista.

Siamo sicuri che Pound lo avrebbe mol-

to apprezzato come dono per il suo cen-

toventottesimo compleanno e ancora di

più se lo avesse potuto festeggiare a Ra-

pallo.

Il caso ha voluto che quest’anno il com-

pleanno della figlia Mary de Rache-

wiltz, il 9 luglio, sia stato festeggiato a

Dublino, durante il 25° convegno poun-

diano EPIC. Si auspica che il prossimo

appuntamento previsto tra due anni nel-

la sua residenza tirolese la veda per

l’occasione festeggiata per i suoi no-

vant’anni.

Giuliana BendelliUniversità Cattolica, sede di Milano

11. M. Bacigalupo, Pound e Izzo si scrivono a proposito diNuova Corrente, «NC» 148, 2011, pp. 179-80.

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI 119

LIBRI a cura di Luigi Tonoli e Lucia Degiovanni

anni fa, è “contemporaneo” di

ciascun uomo e donna di oggi?

A un primo sguardo potrebbe

sembrare una provocazione, si

tratta invece di comprendere in

profondità che cosa sia il cristia-

nesimo e il significato di un Dio

che si è fatto uomo. Dal momen-

to, infatti, in cui il Figlio di Dio è

entrato nella storia, accogliendo

in sé le fragilità, i desideri, il do-

lore di ogni uomo, la sua presen-

za e la sua contemporaneità

sono un fatto che si realizza

nuovamente in ogni espressio-

ne dell’umanità piena. Non si

tratta quindi di un evento isola-

to nel tempo e confinato in

un’epoca storica lontana, ma di

una realtà che si rivela a chiun-

que voglia cercare Dio. È per tale

ragione che in Gesù si conden-

sano il volto di Dio e l’identità

dell’umano, e, scoprendoli, gli

uomini di ogni tempo ritrovano

la loro pienezza.

(Alessandra Mazzini)

F. Piotti

Qohelet. La ricerca del senso

della vita

Morcelliana, Brescia 2012,

pp. 192, € 18.

Franco Piotti, cultore di Filologia

Biblica presso l’Università Catto-

lica di Milano, studioso noto per

i numerosi contributi dedicati al

Qohelet, orienta il suo ultimo

saggio proprio all’approfondi-

mento del noto testo biblico. Il

sottotitolo, La ricerca del senso

della vita, chiarisce il doppio in-

tento dell’autore, esplicitato an-

che nell’Introduzione: trattare il

Qohelet come oggetto di studio,

con metodo rigoroso, attento,

ma anche come fonte di ispira-

L’identità dell’umano

AA.VV.

Gesù nostro contemporaneo

a cura del Comitato per il Pro-

getto Culturale della Conferenza

Episcopale Italiana,

Edizioni Cantagalli, Siena, 2012,

pp. 399, € 18,50.

Il volume raccoglie gli Atti del-

l’omonimo convegno interna-

zionale promosso dal Comitato

per il Progetto Culturale della

CEI nel febbraio 2012. Aperto

dal messaggio di Benedetto XVI,

il libro contiene i contribuiti di

una cinquantina di studiosi, che

assommano competenze nei di-

versi campi del sapere: dalla sto-

ria alla teologia, dall’arte alla fi-

losofia. Agli uomini di oggi vie-

ne riproposto Gesù attraverso

un dibattito appassionato, intel-

lettualmente onesto e aperto a

una pluralità di voci anche mol-

to diverse tra loro: dai cardinali

Bagnasco, Scola, Ravasi e Ruini ai

giornalisti Mieli e Capuozzo; dai

teologi Fisichella, Sequeri e

Coda agli accademici Marion e

Berger. E poi, Alessandro D’Ave-

nia, Roberto Vecchioni, David

Rosen e molti altri. Si tratta di un

confronto condotto con estre-

mo rigore critico, che parte

dall’assunto che il Cristo è sem-

pre “nostro contemporaneo”.

Dopo un primo esame della sto-

ricità di Gesù, gli studiosi hanno

messo in luce la vicinanza del Fi-

glio di Dio alle donne, ai poveri,

ai sofferenti, ai giovani, per capi-

re in che modo Gesù continua a

parlare agli uomini di ogni tem-

po. Ma che cosa significa affer-

mare che Gesù, vissuto duemila

zione continua, personale, esi-

stenziale che giustifica e invita

alla fatica stessa della ricerca.

L’impostazione filologica è pre-

sente nel senso alto del termine,

attenzione alla parola, riflessio-

ne linguistica, ma anche apertu-

ra al campo esegetico-interpre-

tativo con numerosi riferimenti

ampiamente documentati.

Ciascun capitolo prende in esa-

me espressioni dell’Ecclesiaste,

all’interno delle quali lo studioso

si addentra con precisione fa-

cendone emergere, in un quadro

complessivo coerente e in un

contesto culturale ampio, le rela-

zioni con i testi biblici e della tra-

dizione del Vicino Oriente. Sicu-

ramente empirico il metodo di

Qohelet e ciò lo avvicina all’uo-

mo di ogni tempo, immerso nel-

la materia, provvisto di un lin-

guaggio affascinante, ma di pri-

mo acchito ambiguo, non in gra-

do di rappresentare pienamente

la complessità della realtà speri-

mentata. Eppure Qohelet tenta

di comprendere, in base ai dati

esperienziali diretti, osserva

l’opera di Dio e ne coglie le con-

traddizioni e le anomalie; vi è un

ordine in base al quale il Creato-

re ha strutturato la propria opera

e un disordine percepito da Qo-

helet, che non è un saggio tradi-

zionale, in grado di inscrivere le

proprie osservazioni in un dise-

gno più ampio, in un piano su-

periore, in una tradizione che ha

resa propria. «Vanità delle vani-

tà», così gli pare la vita e le fati-

che di ogni giorno, e soprattutto

la morte che tutto annulla e an-

nienta. Ogni regola è sovvertita,

ogni ingiustizia si manifesta, tut-

to appare arbitrario. Il «perverti-

mento della giustizia» è il dato

più sconcertante. Come può rea-

gire l’uomo? Gli è stato fatto da

Dio un grande dono, l’’olam, du-

raturo nel tempo, positivo nella

qualità, posto direttamente nel

suo cuore, ma l’essere umano, li-

mitato, non sa recare frutto da

questa qualità, continuamente

fuorviato dal carattere premi-

nente dell’esperienza diretta cui

risulta più sensibile. L’uomo è

destinato a patire per il disordi-

ne che avverte «sotto il sole». Si

intravede però una soluzione

praticabile suggerita da Qohelet

che ha preso atto della propria

natura. Egli non può compren-

dere totalmente e il dono

dell’’olam finisce per palesare ul-

teriormente la propria anomalia;

possibile è solo «temere Dio», ac-

coglierne la grandezza e accetta-

re di contro la propria fragilità.

Dio stesso vuole questo timore,

come parte dell’ordine dell’uni-

verso e ciò è confermato da altri

libri sapienziali, anche se con

una sottolineatura maggiore del

numinoso. Il rapporto fra Qohe-

let e Dio è «rispettoso, freddo e

guardingo», troppo grande è la

disparità. In questa unica forma

di relazione trovano spazio però

concessioni di rapide, estempo-

ranee, ma autentiche forme di

gioia concesse da Dio alla crea-

tura; l’ultima parte del testo è un

invito a godere le gioie semplici

della vita, il frutto del proprio la-

voro, i piccoli piaceri concessi

dalla volontà, comunque inson-

dabile, di Dio. Riflessione origi-

nale quella di Qohelet, moderna,

di un saggio d’Israele che ricerca

il senso della vita.

(Elisabetta Lazzari)

F. Orilia

Filosofia del tempo.

Il dibattito contemporaneo

Carocci ed., Roma 2012,

pp. 150, € 16.

Si domandava Agostino: «Che

cos’è dunque il tempo? Se nes-

Nuova Secondaria - n. 3 2013 - Anno XXXI120

LIBRI a cura di Luigi Tonoli e Lucia Degiovanni

questo caso è evidente come i

meriti (essere vicino al senso co-

mune) e i difetti del primo (esse-

re lontano dalla scienza) siano i

meriti e i difetti del secondo

cambiati di segno. Orilia mostra

preferenza per una forma speci-

fica della teoria A, il presentismo,

esponendone i vantaggi, chia-

rendo le difficoltà che devono

essere superate per riuscire a

fornirne una elaborazione con-

vincente tale da aggirare le ac-

cuse classiche (di essere o ovvia-

mente falsa o banalmente vera).

Al servizio della persona

Ufficio Scolastico Regionale

della Basilicata

«Il nodo dei nodi 1997-2013»

Osanna, Venosa (Potenza) 2013,

pp. 255.

Leggere la raccolta di articoli

pedagogici raccolti in sedici

anni di attività dalla rivista Il

Nodo. Scuole in rete, nato dalla

collaborazione del prof. Mario

Ferracuti, ordinario della discipli-

na presso la sede piacentina

della Cattolica, e della dott. An-

gela Granata, psicoterapeuta im-

pegnata presso il Nucleo Auto-

nomia dell’Ufficio scolastico re-

gionale lucano, lascia una piace-

vole sensazione di concretezza

maturata sul campo. È certa-

mente vero che viviamo in

un’epoca di pensiero debole, in

cui sembrano vanificate le cer-

tezze che avevano orientato i

paradigmi educativi della mo-

dernità, ma rimane certo e ine-

ludibile, in queste pagine che

ospitano i più accreditati nomi

suno me lo chiede, lo so; se vo-

glio spiegarlo a chi me lo chiede,

non lo so più». Proprio per riusci-

re a spiegarlo a chi lo chiede, i fi-

losofi di matrice analitica (ma

prima di loro molti altri, basti

pensare a Husserl, Heidegger e

Sartre) si sono di recente impe-

gnati in un appassionante dibat-

tito. Che cos’è il tempo? Dipen-

de dalla nostra mente? Lo pos-

siamo dividere in passato/pre-

sente/futuro? Condiziona il valo-

re di verità delle proposizioni

che contengono enunciati tem-

porali? Francesco Orilia espone il

dibattito degli ultimi anni sul

tema, presentando i due princi-

pali schieramenti al centro del-

l’arena filosofica. Da un lato ci

sono i sostenitori della teoria A

(nelle sue tre varianti: presenti-

smo, per il quale esiste solo ciò

che è presente; passatismo, per il

quale esiste solo ciò che è pre-

sente o passato; eternalismo, se-

condo il quale tutti gli eventi,

passati, presenti o futuri in qual-

che modo esistono) che ripren-

dono il punto di vista del senso

comune secondo il quale il tem-

po è qualcosa di oggettivo e in-

dipendente da noi. Dall’altro lato

ci sono i difensori della teoria B

(che implica l’eternalismo), per i

quali non c’è un momento pre-

sente privilegiato e occorre inve-

ce prestare attenzione (senza

preoccuparsi troppo delle intui-

zioni del senso comune) a quan-

to ci dicono le teorie scientifiche,

in particolare la teoria della rela-

tività. Se per i paladini della teo-

ria A la realtà contiene come

suoi ingredienti proprietà quali

essere presente o essere passa-

to, per i partigiani della teoria B

non c’è alcun fatto temporale

fondamentale, perché tutti si ri-

ducono a mere relazioni di pre-

cedenza e successione tra even-

ti. Come spesso accade nelle di-

spute più accese, non è semplice

scegliere tra l’uno o l’altro schie-

ramento, soprattutto perché in

del settore, l’orizzonte dei giova-

ni che non smettono d’interro-

gare e interrogarsi, cercando

nella scuola e nelle diverse rela-

zioni che essa riesce a stabilire,

qualcosa che li riguardi da vici-

no. Un’istanza che si fonda sul

diritto di non abituarsi alla me-

diocrità, quando non alla violen-

za e allo sfruttamento. Ecco per-

ché diventa un dovere che rivi-

ste di questo valore possano so-

pravvivere e non essere, inopi-

natamente, costrette alla chiu-

sura: deve rimanere alta la voce

che denuncia la sempre troppo

scarsa volontà d’investire sul fu-

turo, che non relega in secondo

piano il dibattito sulla formazio-

ne delle nuove generazioni, ma

chiede di spendersi – e spende-

re il giusto! – per garantire a tut-

ti quei professionisti che sono

quotidianamente al servizio del-

la persona nel suo senso più

alto di veder riconosciuto il loro

impegno a condurre bambini e

ragazzi, dalla scuola dell’infanzia

alla secondaria superiore, sulla

strada dell’autonomia e della re-

sponsabilità. Molto spesso si di-

mentica il legame, posto bene in

evidenza dagli antichi Greci, tra

educazione e nutrimento: en-

trambi essenziali per una vita at-

tenta anche alla mente e al cuo-

re. Non è personalismo a buon

mercato: bastano le pagine de

Il Nodo a rammentarcelo.

(Domenico Rizzoli)

S. Trovato

Corso di italiano per chi non

sente (e per i suoi compagni

udenti)

R. Cortina Editore, Milano 2013,

pp. XXXI-458, € 33.

Questo libro colma un vuoto.

Nulla di specifico infatti vi è in

circolazione per coadiuvare il

percorso scolastico di studenti

sordi stranieri, tale da condurli

all’ottenimento del diploma di

scuola secondaria di primo gra-

do. Proprio questi ultimi ne

sono dunque i primi destinatari,

un’utenza che negli ultimi anni

sta aumentando nel nostro Pae-

se e che pone in essere una se-

rie di problematiche specifiche

che si legano anche al cammino

di integrazione. Sostenere que-

ste persone nella formazione

scolastica significa dunque dare

loro la possibilità di costruirsi un

futuro e ottenere una migliore

partecipazione sociale. Non solo

dunque un volume che si pone

obiettivi scolastici, ma che si

propone come strumento so-

cialmente utile, affinché chi si

trova in una situazione di disa-

gio non rischi di essere relegato

ai margini della comunità. Ma

c’è di più. Le ricerche contenute

in questo libro sono state a tal

punto ampliate da risultare

adatte anche ai ragazzi non

udenti delle scuole secondarie

di primo e secondo grado, agli

adulti non udenti che desidera-

no migliorare le loro competen-

ze, agli studenti che non cono-

scono la lingua dei segni e ai

sordo ciechi. La proposta didat-

tica del testo è progettuale: al

centro vi è lo studente, conside-

rato secondo le proprie esigen-

ze e i propri tempi. Tutto tramite

varie attività ludiche che per-

mettono di arrivare a padroneg-

giare la lettura e la scrittura. I

giochi proposti, infatti, non van-

no necessariamente eseguiti in

ordine, ma possono essere scelti

dallo studente, il quale troverà

all’inizio di ogni attività un sug-

gerimento su un progetto da

realizzare. Sarà poi l’insegnante

a decidere se approfondire sen-

za mai annoiare.

(Alessandra Mazzini)