Le tarsie del presbiterio di San Marco a Venezia

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In copertina Leone in “moleca”, pannello orizzontale già addossato all’iconostasi, particolare. MSA Realizzazione editoriale Marsilio Editori, Venezia © 2014 by Procuratoria di San Marco, Venezia Prima edizione: dicembre 2014 isbn 978-88-317-2120-2 www.marsilioeditori.it

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In copertinaLeone in “moleca”, pannello orizzontale già addossato all’iconostasi, particolare.msa

Realizzazione editorialeMarsilio Editori, Venezia

© 2014 by Procuratoria di San Marco, VeneziaPrima edizione: dicembre 2014isbn 978-88-317-2120-2

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ARTE, STORIARESTAURI DELLA BASILICA DI SAN MARCO A VENEZIA

le tarsiedel presbiterio

anno 2014

Marsilio

quaderni della procuratoria arte, storia, restauri della basilica di san marco a venezia

Direttore ResponsabileIrene Favaretto

Comitato ScientificoIrene FavarettoEttore VioMaria Da Villa UrbaniAntonella FumoDavide Beltrame

RedazioneMaria Da Villa UrbaniAntonella Fumo

Segreteria di RedazioneChiara Vian

San Marco 328, 30124 Veneziatel. 041.2708311 / fax [email protected]

procuratoria di san marco, venezia

Primo ProcuratoreGiorgio Orsoni

ProcuratoriGianni Bernardi Antonio BianchiniIrene FavarettoAntonio MeneguoloDino Sesani

Proto di San MarcoEttore Vio

Abbreviazioniaspsm: Archivio Storico Procuratoria di San Marco, Venezia mcve: Museo Correr, Venezia msa: Museo Diocesano di Arte Sacra Sant’Apollonia, Veneziamsm: Museo di San Marco, Venezia

FotografieArchivio Fotografico Procuratoria di San MarcoAntonella FumoNicola BenassiCameraphoto Arte, VeneziaArchivio Fotografico Fondazione Musei Civici di Venezia Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia Dean and Chapter of Westminster - LondonArchivio Carlo MontanaroFondazione mia di Bergamo.Si ringrazia la ditta Foto Blitz per aver messo a disposizione il materiale per la campagna fotografica.

Con la collaborazione di

Si ringrazia

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Le tarsie del doge Gritti. Arti congeneri, arredo totale e funzionalità nel presbiterio marcianoGiovanna Baldissin Molli*

Le arti congeneri sono più frequentemente definite “applicate”, o “minori”, o “decorative”: lemmi tutti che parcellizzano e limitano la comprensione dei manufatti artistici visuali diversi da pittura, scultura e architettura, che spesso sono, come in questo caso, portatori di valori formali, di contenuti simbolici, di perizie tecniche sofisticate, e inoltre frutto della collaborazione di più autori. La questione della nobilitazione delle arti nel primo Cinquecento, al tempo dunque dell’esecuzione delle tarsie marciane, registrava anche in ambito pa-dano voci a favore della pittura, come la celebre lettera di Jacopo de’ Barbari a Federico di Sassonia (1501)1. Ma sono, come è noto, soprattutto le valu-tazioni di Giorgio Vasari, relativamente all’intarsio ligneo, a rendere conto di come la posizione della pittura, in grado di rappresentare ogni aspetto del visibile, avesse in qualche modo attratto a sé (e sottomesso) quelle altre produzioni d’arte che, nate con una generatrice estetica autonoma, stavano imboccando una china in discesa nel momento in cui furono valutate, per-cepite e sentite come forme pittoriche, in materiali diversi. Nel Proemio alla terza parte delle Vite2 Vasari afferma, discettando sul prima-to che pittori e scultori, ciascuno, rivendicano alla propria arte:

Appresso, per riscontro delle arti congeneri e sottoposte alla scultura, dicono [i pit-tori] averne molte più di loro, cheché la pittura abbracci la invenzione della istoria, la difficilissima arte degli scorti, tutti i corpi della architettura per poter fare i casa-menti e la prospettiva, il colorire a tempera, l’arte del lavorare in fresco, differente e vario da tutti gli altri, similmente il lavorare a olio, in legno, in pietra, in tele, et il miniare, arte differente da tutte; le finestre di vetro, il musaico de’ vetri, il commet-ter le tarsie di colori faccendone istorie con i legni tinti – che è pittura – lo sgraffire le case con il ferro, il niello e le stampe di rame – membri della pittura –, gli smalti degli orefici, il commetter l’oro alla damaschina, il dipingner le figure invetriate e fare ne’ vasi di terra istorie et altre figure che reggono e fare ne’ vasi di terra istorie e altre figure che tengono all’acqua, il tessere i broccati con le figure e’ fiori, e la bellis-sima invenzione degl’arazzi tessuti, che fa commodità e grandezza, potendo portar la pittura in ogni luogo e salvatico e domestico; senzaché, in ogni genere che bisogna esercitarsi, il disegno, ch’è disegno nostro, l’adopra ognuno.

E ancora, nel capitolo xxxi del primo volume, Del musaico di legname cioè delle tarsie, e dell’istorie che si fanno di legni tinti e commessi a guisa di pitture, Vasari conclude, dopo aver ricordato i lavori eccellenti del primo Quattro-cento fiorentino e la maestria di fra Giovanni da Verona3, che «tale professio-ne consiste solo ne’ disegni che siano atti a tale esercizio, pieni di casamenti e di cose che abbino i lineamenti quadrati e si possa per via di chiari e di scuri dare loro forza e rilievo», e per questo «hannolo fatto sempre persone che hanno avuto più paciencia che disegno». E non si potrebbe dar torto a Vasari se si prendono in considerazione opere come il coro – non conosciu-to dall’aretino – realizzato da Giovanni Francesco Capoferri su disegni di Lorenzo Lotto in Santa Maria Maggiore di Bergamo4, ove campeggia, sul fronte esterno dell’iconostasi, lo stemma del doge Gritti, eseguito in quei «decenni fatali per l’arte di commesso»5, quando la tecnica della tarsia an-

Stemma della famiglia Gritti

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dava perdendo la propria autonomia espressiva e l’intarsiatore diventava un “esecutore” del pittore, a maggior ragione nel caso di Bergamo, in cui Lotto seguì l’operare di Capoferri e lo consigliò: al coro si attaglia perfettamente l’osservazione di Massimo Ferretti, circa l’eccessivo pittoricismo «fatalmente autoannientante per l’identità rinascimentale della tarsia»6.Il perdersi della specificità dell’intarsio, sulla metà del Cinquecento, si ac-compagnò e fino a un certo punto generò negli studi il riconoscimento, più o meno implicito, della sua “minorità”, fino almeno alla prima metà del secolo scorso quando il contributo di Francesco Arcangeli citato poc’anzi in nota (1943), veramente precorritore, iniziò ad aprire una via critica di riva-lutazione, seguita da Chastel e definita nel fondamentale saggio di Massimo Ferretti7. Il quesito fondamentale (per la tarsia, ma valido anche per l’arazzo, per lo smalto su metallo prezioso o per la vetrata, ad esempio), è quello relativo alle reciproche responsabilità. Fino a che punto l’intarsiatore dipende dal car-tone? Lo traduce, lo asseconda, lo elude? Ferretti sottolinea come si tratti sempre di un rapporto di oscillazione, da valutare caso per caso e questo rapporto non si fissa in equilibri prestabiliti, ma vive sempre di relatività. Inoltre la specifica trama formale, che deriva dal modo di tagliare il legno e di montarlo, è un procedimento incontrollabile da parte di chi ha fornito il cartone. Se anche l’intarsiatore lavora in modo aderente ad esso, è la struttura stessa del legno ad avere una sua propria qualità formale, legata alla diversità delle essenze, all’andamento del taglio, alla tramatura degli anelli annuali, alle vicende organiche della singola pianta, al grado dell’eventuale trattamento diversificato del legno. Di questo l’intarsiatore è perfettamente consapevole, come dimostra il fatto che talvolta (lo si è visto negli stalli del duomo di Ferrara), per non compromettere con un’opera di rasiera un fraseggio su-perficiale significativo, egli scavava un incasso più profondo per la tavoletta8. Il “musaico di legname” aveva alle spalle, in quel primo terzo di Cinquecen-to, una storia illustre, di ambito fiorentino e centro-italiano da un lato, e dall’altro padano, tra Veneto ed Emilia, con propaggini in Lombardia, oltre a una geografia “olivetana”, legata ai diversi monasteri dell’ordine, e grazie all’eccellenza di fra Giovanni da Verona e dei suoi seguaci, che a Verona, in Santa Maria in Organo – solo per ricordare un centro veneto – aveva lasciato nella spalliera della sacrestia il suo capolavoro9. A Padova soprattutto, e poi a Vicenza, il Quattrocento intarsiato aveva avuto un picco qualitativo nel coro della basilica del Santo10, di Cristoforo e Lorenzo Canozi da Lendinara, i protagonisti della stagione padana dell’acutezza prospettica, declinata in chiave pierfrancescana, e conclusa da Pierantonio degli Abbati, genero di Lorenzo. Era il momento in cui al lavoro di tarsia gli artefici alternavano responsabilità costruttive, perizie, macchine, ingegni, progettualità archi-tettoniche, come fu nel caso del senese Antonio Barili, di Luchino Bianchi a Parma, di Lorenzo e Bernardino Canozi, per i quali le tarsie prospettiche furono anelli di una catena collocata ai più alti segmenti tecnologici. Lorenzo, vero uomo rinascimentale nel suo sperimentalismo tecnico, capa-ce di trascorrere dalle intavolature prospettiche lignee, alla tipografia, alla

Stemma del doge Andrea Gritti, coro della basilica di Santa Maria Maggiore in Bergamo, particolare della lesena sinistra della porta dell’iconostasi. Per gentile concessione della Fondazione mia di Bergamo

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Presbiterio lato nord, Prudenza, Temperanza e Speranza prima della rimozione. aspsm, bn.176.01, ottobre 1955

Presbiterio lato sud, Carità, Fede e Fortezza prima della rimozione. aspsm, bn.176.04, ottobre 1955

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miniatura e probabilmente alla pittura, alla fine della vita stava lavorando all’armadio della sacrestia della basilica antoniana. Era dunque una tarsia, quella dell’entroterra veneto, che nello scorcio fra Quattro e Cinquecento era passata dalle ingegnose e audaci prospettive dei Canozi al lirismo più decantato di fra Giovanni: come dire, dalle silenti e “dechirichiane” geo-metrie architettoniche, lontane da ogni rapporto con il reale, dei primi, alle scenografiche vedute del maestro olivetano, che nella sacrestia veronese aveva lasciato larga parte anche all’intaglio del legno, nei settori strutturali di inquadratura dei dossali intarsiati. A Venezia il panorama è diverso e anche nella tarsia le scelte di Marco Cozzi si accordano su quei valori eminentemente ornamentali e umbratili del-la stagione rinascimentale quattrocentesca: ai Frari il coro firmato è datato 1468, mentre quello di Santo Stefano risale al 1488; essi sono allineati, nella loro articolata varietà di intagli e intarsio, su valori «para-rinascimentali»11, come fioriture visive dove la prospettiva si disperde nel tessuto cromatico, secondo una sensibilità maggiormente prossima al sentire di Jacopo Bellini. Sicché il passaggio dai lavori di Marco Cozzi a quello dei fratelli Paolo e Antonio Mola, cui spettano le tarsie del banco e del dossale nella sacrestia della basilica di San Marco, si situa in un tracciato di riferimento coerente con la situazione veneziana. Verso la fine del secolo i due sono detti «magi-stri artis pictorie que perspective dicitur»12: avevano prima collaborato, nel 1489, con il modenese Bartolomeo de’ Polli, a Pavia, nel coro della Certosa13. Dunque la loro radice di stile dovrebbe essere canoziana e gli spostamenti in area veneta li portarono a conoscere le realizzazioni di Pierantonio degli Abbati. Tra 1496 e 1500 i Mola lavorarono nel convento dei santi Giovanni e Paolo, e in quel caso vennero definiti come prima si è ricordato. È già stato osservato come il loro intervento nella parte inferiore del sistema di arredo non si distacchi dalla linea della tradizione postcanoziana padana. Nella parte superiore, invece, le grandi prospettive, con chiare citazioni del contesto urbico veneziano e dove, in nove casi su ventuno tarsie totali, sono inseriti episodi della passio di san Marco, presuppongono lo stesso orizzon-te artistico e le stesse luminose premesse dei teleri di Carpaccio, come se l’ordine originario (andato purtroppo perduto) simulasse la scansione dei veri teleri dipinti dai grandi affabulatori veneziani come Vittore, appunto, o come Gentile Bellini, e le storie di Marco trovavano sfondo opportuno nella riqualificata Venezia di fine Quattrocento14.Ma il caso della sacrestia è di notevole interesse per alcuni tratti che rendono l’operazione di ristrutturazione e arredo di quel vano una sorta di preceden-te per quello che accadrà pochi decenni dopo, nel presbiterio, con la messa a punto del nuovo sistema di arredo, di cui fecero parte le tarsie qui presenta-te. Grazie al recente intervento di Lydia Hamlett15 è possibile puntualizzare come l’assetto della sacrestia sia stato concepito in modo unitario, allo scopo di predisporre un ambiente di rango, destinato a contenere cose preziose ed essere, nel corso della Settimana Santa e a partire dalla messa in coena Domi-ni in particolare, l’ambiente privilegiato per lo svolgimento dei riti liturgici connessi alla Passione e alla celebrazione della Pasqua: per questo l’insieme

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dei mosaici della volta, della porta, delle tarsie e degli arazzi del ciclo della Passione va inteso come un nucleo unitario, di iconografie differenziate ma tutte concorrenti alla sottolineatura dei tempi della Passione nel contesto marciano e dogale16. La sacrestia attuale fu costruita da Giorgio Spavento tra 1486 e 1491, essendo doge Agostino Barbarigo, e fu il suo primo impegno dopo che divenne proto della basilica, posizione che ricoprì fino al 1509. Nel nuovo ambiente, gli arredi lignei (alla cui definizione parteciparono anche altri intarsiatori in modo marginale, con un poco comprensibile “licenzia-mento” di fra Vincenzo da Verona, giudicato non all’altezza, nonostante la vasta esperienza, per intervenire nella sacrestia marciana) erano funzionali agli scopi del sito: camera del Tesoro, depositorio di reliquie e vasi sacri, di un corredo formidabile di tessili di uso liturgico, luogo di studio, di medita-zione, di preparazione del sacerdote alla messa, di solenni cerimonie laicali17. È dunque significativo che il primo progetto rinascimentale a riaffermare l’importanza del patrono sia stato quello degli armadi della sacrestia, che si pone quale sorta di “capofila” di diversi progetti architettonici e artistici, culminati nel rifacimento ideologico e simbolico della piazza stessa, oltre che del presbiterio della basilica. Il ciclo degli armadi inferiori è di natura diversa. La sua funzione è di illu-strare il contenuto degli armadi stessi, e dunque le suppellettili liturgiche usate nel servizio quotidiano della chiesa. La presenza, oltre ai calici, alle patene, ai turiboli, di libri, di materiale scrittorio, di orologi da tavolo, è in linea con il gusto che apparenta queste immagini a quelle usuali negli stu-dioli. Del resto non è strano che questi oggetti potessero davvero essere con-servati nella sacrestia, che, come si è detto, nel suo uso di stanza del Tesoro, di studio, di lettura, di conservazione di documenti importanti, ha aspetti comuni con lo studiolo delle dimore principesche e nobiliari. Non è del tutto chiaro se il ciclo degli arazzi della Passione, che è anteceden-te al rifacimento della sacrestia, sia stato usato per questo ambiente dopo la ricostruzione, perché le testimonianze in tal senso sono tarde. I documen-ti sono pochi, ma che il ciclo della Passione fosse dedicato alla sacrestia è suggerito anche dal fatto che non vi sono indicazioni che fosse adoperato nel presbiterio e nel coro, che ebbe arazzi suoi propri a metà Cinquecento. Inoltre e soprattutto, durante la Settimana Santa l’Eucaristia era posta in sacrestia e il contesto era perfetto per la serie della Passione. Il contenuto iconografico dei mosaici con l’enorme croce con Cristo e gli evangelisti, proiet ta un’immagine di Cristianità trionfante, quotidianamente presente; gli arazzi inducevano la riflessione sull’ultima drammatica presenza di Cristo in terra, trasformando il luogo in un set richiamante i temi della Passione, mentre nel deposito soprastante erano conservate le reliquie della vera croce e della colonna della flagellazione, rappresentate visivamente negli arazzi18. Il nuovo assetto tardo-quattrocentesco della sacrestia costituisce, per tutto ciò, un precedente importante all’intervento di Sansovino nella rimodella-zione del presbiterio, nell’esecuzione dei banchi, dei sedili e delle spalliere, nei rilievi per le cantorie, nell’esecuzione degli Evangelisti sulla balaustra d’ingresso, della porta della sacrestia e della portella dietro all’altare. Gli stu-

Presbiterio lato nord, San Teodoro prima della rimozione. aspsm, bn.176.02, ottobre 1955

Presbiterio lato sud, San Marco prima della rimozione. aspsm, bn.176.03, ottobre 1955

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di di Bruce Boucher e di Andrew Hopkins19 hanno chiarito le intenzionalità, i tempi, le modalità di intervento dettati dalla forte volontà di Andrea Gritti di affermare l’autorità dogale in termini più diretti sulla basilica dogale e di conseguenza nell’uso degli spazi nel presbiterio. Di mezzo – ed eccel-lente spunto per procedere in questa direzione – ci fu anche la gotta, con le conseguenti difficoltà motorie di Gritti, che, impossibilitato a salire sul pergolo, occupò il posto del primicerio. Sicché, scalzati i sacerdoti dalla zona prospiciente l’altare maggiore e spostati a fianco e dietro esso, la corte do-gale dilagò in quel settore, come in un vero ambiente di Stato, narrato dalla descrizione di Stringa e da qualche documento iconografico. Il doge non era dunque più visibile dalla navata e la sua presenza risultava solo indicata dal trono in noce, con colonne dorate, un basamento e il pannello intarsiato con la raffigurazione della Giustizia, collocato subito a destra rispetto all’in-gresso dall’iconostasi. Questo riassetto, che impose anche la riallocazione degli spazi dedicati al canto, durò almeno una ventina d’anni, comprenden-do anche la predisposizione degli arazzi destinati a rivestire, in particolari occasioni, l’opera lignea. Le registrazioni di Marin Sanudo ci assicurano che l’uso del posto del primicerio da parte del doge, dapprima saltuario, verso la fine degli anni venti si consolidò, a partire almeno dall’autunno del 1530, tanto più che permetteva al doge di disporre di uno spazio maggiore per il corteo dei dignitari che lo accompagnavano, rispetto a quei 5 metri quadrati circa del pergolo. Il 7 giugno 1535 i “marangoni” Antonio de’ Grandi e Nicolò Zorzi ricevono 40 ducati come pagamento a buon conto per la predisposi-zione dell’arredo ligneo. Probabilmente il lavoro era appena iniziato, visto che di seguito, alla data del 10 giugno, si appuntano una serie di istruzioni per i marangoni. Questo documento, scritto malissimo per grafia e gram-matica20, afferma chiaramente due cose: l’esistenza di un “disegno” di Jacopo Sansovino; il divieto di fare opere di intaglio, ma solamente di provvedere alla struttura del trono del doge e dei 27 «sentari», che dovevano, come veri stalli di un coro, avere la seduta ribaltabile («tutti da alzare con l’altelle»)21.Dal contesto del documento risulta chiaro che il «disegno» non va inteso come “modello” delle parti figurate (cioè delle tarsie), ma come progetto ge-nerale dell’assetto dell’arredo del presbiterio. All’inizio dei lavori occorreva intanto predisporre la struttura generale, e a questo fu delegato il marango-ne Antonio de’ Grandi con Nicolò Zorzi, con la raccomandazione, anzi il divieto, di eseguire qualcosa in più: cioè parti ornamentali e decorative, per le quali occorrevano maestranze diverse, di cui nulla sappiamo. In diversi compartimenti sono intarsiate lettere, che potremmo pensare come iniziali degli intarsiatori, ma per il momento è difficile andare oltre22. L’analisi sti-listica però ci permette invece di definire il contesto formale di cui queste tarsie sono espressione. Oggi appaiono in condizioni consunte, ed è forte il sospetto che un malinteso senso del restauro, nei secoli passati, abbia aspor-tato il fraseggio superficiale del legno; vi sono diverse porzioni a evidenza di restauro, con frammenti di legno sostituiti in modo grossolano, al fine di ricostituire l’unità visiva del pannello; soprattutto le grandi figure sono acciaccate, con diverse parti sostituite. Tuttavia le tarsie costituiscono ancora

Fede, particolare lato sinistro. msa

Prudenza, particolare lato sinistro. msm

San Marco, particolare lato sinistro. Collocazione ignota

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oggi un colpo d’occhio straordinario per le loro grandi dimensioni e soprat-tutto per il loro modo specifico di far aggallare le allegorie monumentali tra il repertorio ornamentale più alla moda del tempo: le grottesche. Si è accennato prima come, da Marco Cozzi ai fratelli Mola, la tarsia vene-ziana sembri adattare il percorso di stile della terraferma alla specificità del contesto artistico veneziano. Qui, nel presbiterio marciano, l’accento cadeva sulle composizioni monumentali di san Marco, san Teodoro, Fede, Speran-za, Carità, Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza. Non più ambientate dentro un contesto di prospettiva o di paesaggio urbano, ma dominatrici, in una scala di grandiosità, rispetto all’ambiente, ridotto a mero sfondo. Boucher ha affermato che le tarsie non hanno relazione con il dato formale importato dal toscano tra le lagune, ed è vero. Osservo che la comprensione di queste tarsie va collocata su un crinale che differenzia la forma quattro-centesca dalla grande Maniera del Cinquecento. Esse sono frutto di un par-ticolare montaggio, su uno sfondo prospettico caratteristico di questa forma d’arte, qui tuttavia svalutato a favore della prevalente figura umana, e ciò è contornato dalla modernissima decorazione a grottesca, come se una “car-tella figurata”, sorta di modernissimo fregio compartimentato, avesse preso il posto della narrazione continua dei “teleri lignei” della sacrestia. Queste figure isolate, senza rapporto con lo sfondo retrostante, inducono però l’im-pressione di essere più tarde, per la loro larga definizione formale, quasi apparentate con le incisioni delle edizioni primo-seicentesche dell’Iconologia di Cesare Ripa, come se il tratto incisorio sulla carta trovasse rispondenza nei segmenti netti del legno, nel modo evidente, ad esempio, della Tempe-ranza, dal volto semicancellato e con diversi settori, a evidenza, di restauro. La Giustizia è completamente appiattita e impoverita nei valori superficiali; san Teodoro, che pure ha un’articolazione più complessa, ugualmente risulta poco convincente e con il viso sostituito. L’impressione generale è dunque che al centro dei pannelli la cartella figurata sia stata quella più acciaccata e sia il settore dove l’intervento (gli interventi), nel corso dei secoli, è stato più deciso e vasto, tanto da indurre l’interrogativo dell’effettiva rispondenza di quanto vediamo oggi con le figure originariamente intarsiate23.Le date della predisposizione dell’arredo ligneo del presbiterio sono pra-ticamente le stesse della messa in opera della prima cantoria (di destra) di Sansovino, e l’accentuazione della figura di san Marco, energica, fin brutale nella grandiosa caratterizzazione, marca potentemente i rilievi della cantoria di destra (1535-1537)24. In quegli anni il presbiterio era un cantiere dove si progettava, si facevano prove, modelli, calchi, disegni... La cultura circolante era quella centro-italiana, introdotta da Sansovino dopo il Sacco di Roma, sia per la parte figurata che per la parte ornamentale, che per il rapporto tra le due, in cui la seconda andava lavorando per togliere margini alla prima. Non si tratta dunque, a mio modo di vedere, di individuare prestiti, o de-sunzioni, quanto di cogliere il senso di un’operazione, di cui Sansovino fu il regista, che dalla scultura, dal rilievo, dall’architettura e i suoi complemen-ti ornamentali, è stata qui adattata alla tarsia nella sua tradizione postca-noziana e postolivetana e va collocata comunque entro la specificità della

Fede, particolare lato destro. msa

Prudenza, particolare lato destro. msm

San Marco, particolare lato destro. Collocazione ignota

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progettazione complessa dell’insieme del presbiterio. Esso dovette risultare potentemente trasformato agli occhi dei contemporanei, non meno della piazza San Marco, ridisegnata nei due fuochi della Libreria e della Loggetta. L’opera di Sansovino fu al centro di una vicenda di ricettività formale vol-ta in diverse direzioni, e mediata da manufatti d’arte diversi per tecnica e destinazione, insieme al sistema dei prestiti, delle desunzioni, del riuso dei diversi motivi, decontestualizzati e ricomposti. I rilievi delle cantorie furono di forte impatto per l’arte veneziana, per la loro interpretazione drammatica e appassionata di un classicismo pittorico che poteva fare presa immediata a Venezia, come una specie di ammodernamento dell’opera di Donatello al Santo di Padova25.Le “cartelle” figurate hanno attorno un’ampia porzione ornamentale a grot-tesca, nel genere dunque di ornato più alla moda e, per la data, precoce nel Veneto: questa scelta largamente decorativa contrassegnò in modo speciale i pannelli marciani. Nella sua spinta fervidamente ornamentale la grottesca captava e interpreta-va i fermenti più inquieti della Maniera. Bisogna credere che fin dall’inizio si sia diffusa mediante taccuini e repertori grafici in genere, di cui fecero tesoro boccalari, ricamatori e intarsiatori, lavoratori di cuoio e del tessile in genere ecc. A Raffaello e alla sua bottega si richiamano, ad esempio, gli ornati a grot-tesca fortemente naturalistici degli arazzi: che furono un vettore potente di diffusione in Europa di questo genere decorativo, tanto presso gli arazzieri di Bruxelles, di Firenze, di Fontainebleau e anche dell’Inghilterra elisabettiana, in modalità tali da aumentare sempre più lo spazio riservato all’ornamen-tazione, che invase altresì cortinaggi diversi ricamati, baldacchini, pannelli lignei di ogni genere, scorrendo dall’ambito ufficiale a quello privato. In questi manufatti l’impiego della grottesca è legato alla sensibilità, dispie-gatamente cinquecentesca, di investire del carico formale e decorativo ogni parte di un ambiente, realizzando un arredo totale armonico e coerente nelle sue parti26. Nel caso delle tarsie non trovo levità raffinate e capziose sulla li-nea di Giovanni da Udine, quanto un denso e solido assemblaggio, umorale, fatto di girali carnosi e mostriciattoli “transgenici”, impossibili a prendersi sul serio: un clima insomma più da Stregozzo alla Agostino Musi27, i cui pannelli decorativi dovevano costituire – insieme a tutta la produzione della bottega di Marcantonio Raimondi, in cui si formò Agostino – un repertorio alla moda e di facile reperibilità. Così doveva risultare il presbiterio marcia-no: ricco, ornato, coeso, ampiamente decorato nel suo dettagliato program-ma iconografico, volto a magnificare il suo patrono, sotto l’egida dell’autori-tà dogale. Difatti i bizzarri motivi dell’ornato all’antica si erano diffusi anche dentro le chiese (e ancora negli anni posteriori alla conclusione del Concilio di Trento), grazie all’intarsio e all’intaglio dei cori e dei mobili da sacrestia, che si affermarono in tutta Italia in modo molto vivace dall’inizio del Cin-quecento. Per tutto il secolo gli ibridi vegetali, i putti scherzosi, gli elementi mostruosi, i draghi, le sfingi, i mostri pagani potevano tranquillamente abi-tare, in una pacifica invasione, gli stalli e i postergali, in quanto spettava alla

San Teodoro, particolare con lo stemma del doge Andrea Gritti. msm

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sola pittura, “libro degl’idioti” secondo la sgradevole definizione di Paleotti, il decoro e la verosimiglianza per adempiere alla funzione didattica, mentre le arti congeneri, svincolate da questi obblighi morali, potevano accogliere tali svagate fantasticherie, in un programma di valorizzazione totale degli arredi, degli ambienti, dei sistemi vestimentari, e qui del presbiterio marcia-no, che nel Cinquecento fu dispiegato con volontà, lusso e mezzi inusitati28.

* Università degli Studi di Padova

note1 c. gilbert, Barbari, de, Jacopo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 6, Roma 1964, pp. 44-46.2 g. vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, Firenze 1568, cons. ed. online www.vasari.sns.it, a cura del Centro Ricer-che Informatiche per i Beni Culturali, Pisa.3 Di cui peraltro elogerà la perizia, nel generale alto profilo che Vasari traccia degli artisti veronesi, vol. iv, Fra Iocondo, Liberale e altri veronesi. In generale sulla costruzione delle biografie degli artisti veronesi: p. plebani, Verona e gli artisti veronesi nelle “Vite” di Gior-gio Vasari, Milano 2012.4 Ampia monografia di riferimento è f. cortesi bosco, Il coro intarsiato di Lotto e Capo-ferri per Santa Maria Maggiore in Bergamo, Milano 1987.5 f. arcangeli, Tarsie, Roma 1943, pp. 23-24. Sulla storia critica del coro si veda cortesi bosco, Il coro intarsiato cit., pp. 96-103. Sulla complessità iconologica dell’opera di Lot-to, decifrata nel contesto della conoscenza della particolare cultura trevigiana e inclinata verso le correnti riformiste e testimoniate anche da alcuni “coperti” delle tarsie di Berga-mo: c. albani liberali, Una tarsia del coro di S. Maria Maggiore a Bergamo: il tema della fortuna e Lorenzo Lotto, in «Artibus et Historiae», 2, 3, 1981, pp. 77-83; a. gentili, Per Lorenzo Lotto e i suoi contesti storici: due episodi ri-documentati, tra polemica e progetto, in «Artibus et Historiae», 4, 8, 1983, pp. 77-93.6 m. ferretti, I Maestri della prospettiva, in Storia dell’arte italiana, parte iii, Situazioni, momenti, indagini, vol. iv, Forme e modelli, Torino 1982, p. 542.7 a. chastel, Marqueterie et perspective au xve siècle, in «Revue de l’Art», 1953, pp. 141-154, riedito in id., Fables, formes, figures, Paris 1978; id., ad vocem Intarsio, in Enciclopedia Universale dell’arte, vol. vii, Venezia-Roma, pp. 574-578; ferretti, I Maestri della pro-spettiva cit., pp. 457-585.8 ferretti, I Maestri della prospettiva cit., pp. 470-471.9 p.l. bagatin, Preghiere di legno. Tarsie e intagli di fra Giovanni da Verona, Firenze 2000; l. rognini, La sagrestia di Santa Maria in Organo. Le vicende storiche e artistiche della “più bella sagrestia che fusse in tutta Italia”, Caselle di Sommacampagna 2007, entrambi con bibliografia precedente; ricordo anche il mio Fra Giovanni da Verona e l’arredo della sacrestia “più bella... che fusse in tutta Italia”, in «Arte Cristiana», 86, 788, 1987, pp. 353-366, dove ho prospettato l’originaria collocazione del dossale di fra Giovanni sulla parete opposta rispetto all’attuale collocazione.10 p.l. bagatin, L’arte dei Canozi lendinaresi, Trieste 1987, cap. iv, Il coro del Santo di Padova, pp. 67-78. Il contratto per l’esecuzione fu firmato il 27 aprile 1462 e gli ultimi pagamenti risalgono all’agosto 1469. Le spese maggiori si concentrano nel biennio 1466-1467. La prevalente assenza del nome di Cristoforo dai documenti induce a credere che

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fu soprattutto il “ramo” veneto della bottega canoziana, sotto la direzione di Lorenzo, a eseguire il monumentale complesso di cinquanta stalli (già voltato dietro l’altare tra 1651 e 1654) e, bruciato nell’incendio del 29 marzo 1749. Due tarsie, non rimontate nelle volte del 1651, e inserite in due confessionali nella cappella di Santa Rosa da Lima, sono l’unico lacerto superstite.11 m. ferretti, Il coro di Marco Cozzi, in Il duomo di Spilimbergo, a cura di c. furlan, i. zannier, Spilimbergo 1985, pp. 255-274: p. 260; inoltre Il coro ligneo del Duomo di Spi-limbergo 1475-1477. Storia, restauro, documentazione iconografica, a cura di c. furlan, p. casadio, e. ciol, Spilimbergo 1997. Con l’avvertenza che Marco Cozzi morì nel 1485 e che il Marco da Vicenza che firma il coro di Santo Stefano potrebbe essere un suo nipote, ugualmente intarsiatore. Il coro del duomo di Spilimbergo dal 1959 si trova nella chiesa dei Santi Giuseppe e Pantaleone di Spilimbergo. Si veda sui Cozzi: s. guarino, Cozzi, famiglia, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 30, Roma 1984, pp. 559-561.12 e. menegazzo, Per la biografia di Francesco Colonna, in «Italia Medievale e Umanisti-ca», 5, 1962, p. 246, nota 1, cit. in ferretti, I Maestri della prospettiva cit., p. 479.13 Sui Mola, sulle notizie documentarie e sugli ultimi contributi critici si veda: s. l’occa-so, Documenti sull’arte della tarsia e dell’intaglio a Mantova tra Quattro e Cinquecento, in Forme del legno. Intagli e tarsie fra Gotico e Rinascimento, atti del convegno (Pisa, Scuola Normale Superiore, 30-31 ottobre 2009), a cura di g. donati, v.e. genovese, premessa di m. ferretti, Pisa 2013, pp. 187-194.14 Sulle tarsie si veda Tarsie lignee della basilica di San Marco, Milano 1998, e, in particola-re, u. daniele, Urbs asserulis compacta. Rappresentazione architettonica e simbolismo nelle tarsie marciane, pp. 11-49; c. schmidt arcangeli, L’iconografia marciana nelle tarsie della basilica di San Marco, pp. 51-91.15 l. hamlett, The Sacristy of San Marco, Venice: Form and Function illuminated, in «Art History», 32, 3, 2009, pp. 458-484.16 Non è qui possibile dar conto dell’articolato studio di Hamlett, ma solo ricordarne alcuni passaggi. I mosaici della volta, finiti nel 1530 con l’intervento di maestranze diver-se, tra cui Francesco Zuccato, dominati dalla grande croce centrale, si stendono quale splendido tappeto “da soffitto”, ad accompagnare la direzione dal presbiterio verso il fondo della sacrestia, che si affaccia sul rio di Palazzo, dove l’arredo aveva ricevuto la massima qualificazione formale. L’ intensità dell’effetto del disegno rende unica questa volta, soprattutto per l’uso dispiegato dei comparti decorativi a motivi vegetali, con la popolazione di delfini e animali, che la rende simile a un giardino antico ma anche a un giardino del Paradiso. Il soffitto assomiglia a un sontuoso tappeto persiano come quelli che arrivavano in dono a San Marco. Il simbolismo tipologico della sacrestia come Pa-radiso era stato esplorato dai liturgisti medievali, come Guglielmo Durando nel suo Ra-tionale divinorum officiorum del 1237, che venne pubblicato in diverse edizioni a Venezia tra fine Quattro e inizio Cinquecento. Nei libri i e iv Durando raccomanda l’adozione di frutti e fiori del Paradiso, in connessione al fiorire delle virtù e in connessione con la sacrestia. Per quanto riguarda la porta – cui si accennerà anche più oltre –, essa fa parte del grande schema sansovinesco di ridefinizione del presbiterio marciano e le prime spese risalgono al 1546. Se anche Sansovino guardò ai grandi bronzi quattrocenteschi fiorentini e padovani, non dovevano mancare, per questa porta concava, esempi locali, come il mosaico della fine del xiii secolo nella volta ovest del braccio longitudinale di San Mar-co dove, nell’Incredulità di san Tommaso, Cristo è posto davanti a una porta incurvata. Anche in questo caso il significato simbolico della porta e di Cristo che passa attraverso essa dallo spazio della sacrestia a quello della chiesa può essere letto in chiave simbolica. 17 In questo senso la sacrestia di San Marco emerge dai documenti con le stesse dinamiche caratterizzanti le sacrestie annesse a chiese importanti. Dalla documentazione d’archivio affiorano (e non poteva essere altrimenti), tratti analoghi (la sicurezza e la custodia accu-rata, l’illuminazione, la generale confortevolezza dell’ambiente, l’arredo imponente e di

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valore formale, la suddivisione in più ambienti, spesso posti su diversi livelli, lo sposta-mento – da un dato momento in avanti – dei libri di studio in biblioteche dedicate) ad altre sacrestie monumentali, come quella del Santo di Padova, o della stessa cattedrale (g. baldissin molli, La sacrestia del Santo e il suo Tesoro nell’inventario del 1396. Artigianati d’arte al tempo dei Carraresi, Padova 2002; ead., Gli inventari della sacrestia della cattedra-le di Padova. Un tracciato per la storia della sede episcopale. Introduzione, c.d.s.). Quest’ul-timo testo è stato scritto quale introduzione all’edizione degli inventari della cattedrale di Padova, dal xiv al xviii secolo, che si spera di poter pubblicare al più presto. Come nel caso del Tesoro della sacrestia del Santo (1396), i beni e le suppellettili suntuarie di uso liturgico costituivano un complesso incalcolabile per preziosità, numero, competenze tecniche e perizia formale. La gran parte dei beni, in entrambi i casi e soprattutto per i tessili, è andata perduta. 18 Sul ciclo della Passione si veda: l. dolcini, Gli arazzi della serie della Passione. La storia in San Marco, in Arazzi della basilica di San Marco, a cura di l. dolcini, d. davanzo poli, e. vio, Milano 1999, pp. 23-45, con un’ipotesi di collocazione dei panni nel coro. Generalmente condivisa è l’attribuzione dei cartoni a Nicolò di Pietro e l’esecuzione entro il primo quarto del Quattrocento; si rinvia al testo di Dolcini per la storia critica dei quattro panni.19 Ricordo, almeno: b. boucher, Jacopo Sansovino and the Choir of St Mark’s, in «The Burlington Magazine», 118, 881, 1976, pp. 552-566; id., Jacopo Sansovino and the Choir of St Mark’s: The Evangelists, the Sacristy Door and the Altar of the Sacrament, in «The Bur-lington Magazine», 121, 912, 1979, pp. 155-169; c. davis, b. boucher, v. sgarbi, Jacopo Sansovino?, in «The Burlington Magazine», 122, 929, 1980, pp. 560, 582-586; a. hopkins, Architecture and Infirmitas: doge Andrea Gritti and the Chancel of San Marco, in «Journal of the Society of Architectural Historians», 57, 2, 1998, pp. 182-197; id., Spazi sacri a San Marco, Venezia: architettura, arredo, cerimonia e apparati effimeri, in Italian History and Culture. Yearbook of Georgetown University at Ville Le Balze, Fiesole, Firenze 2008, pp. 83-89, e Id. in questo volume. 20 Sono molto grata a Giuseppe Gullino che lo ha ricontrollato per me, segnalandomi che la segnatura corretta è: Archivio di Stato di Venezia, Procuratori di San Marco. Procuratia de Supra. Chiesa. Atti, b. 77, processo 180, fasc. i, f. 11r; il documento è noto e pubblicato già da Ongania in Documenti, Venezia 1886, doc. 198, p. 34, e più di recente da Boucher (Jacopo Sansovino and the Choir cit., p. 565)21 Il trono dogale doveva essere pronto per l’agosto 1536, visto che i suoi capitelli corinzi sono citati quale esempio per un altare in Santa Maria Mater Domini del 25 agosto 1536 (p. paoletti, L’architettura e la scultura del Rinascimento in Venezia, parte ii, Venezia 1893, p. 116, n. 108). Il riferimento è citato da boucher, Jacopo Sansovino and the Choir cit.22 Le lettere presenti in alcune delle tarsie sono: nfo, msr, San Marco; np, Fede; ssc, pss, Prudenza. L’anno successivo, 10 giugno, si registrano spese per pagamenti a «marangoni», «intaiadori» e «doradori», per la fattura dei banchi (boucher, Jacopo Sansovino and the Choir cit., p. 565). 23 Sono grata all’amica Elisabetta Saccomani che ha discusso con me queste problemati-che. In p. saccardo, I restauri della basilica di San Marco nell’ultimo decennio, Venezia 1890, p. 32, si dice chiaramente che le tarsie «già guaste generalmente e mancanti di molti pezzi» sono ora «perfettamente restaurate senza che abbiano perduto dell’artistico loro aspetto vetusto». I documenti, rintracciati da Maria Da Villa Urbani, aiutano a collocare almeno una campagna di rifacimenti nel terzo quarto dell’Ottocento: nel 1850, soprattutto in riferimento alla spalliera con san Marco, e nel 1876, quando chiaramente si elencano i lavori da eseguire: nuova fattura dei pezzi mancanti, incollatura dei legni solle-vati, stuccatura, raschiamento delle superfici: Archivio Storico della Procuratoria di San Marco, b. 48, fasc. 2/6; b. 58, fasc. Restauri generali della basilica a carico del fondo speciale.24 d. stott, Fatte à Sembianza di Pittura: Jacopo Sansovino’s Bronze Reliefs in S. Marco,

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in «The Art Bulletin», 64, 3, 1982, pp. 370-388; da valutare insieme a e. weddingen, Il secondo Pergolo di San Marco e la Loggetta del Sansovino: preliminari al Miracolo dello schiavo di Jacopo Tintoretto, in «Venezia Cinquecento», 1, 1, 1991, pp. 101-109.25 g.m. pilo, Il Tintoretto e alcune fonti visive della sua giovinezza: Jacopo Sansovino (e altri), in «Arte/Documento», 8, 1994, pp. 115-124.26 c. acidini luchinat, La grottesca, in Storia dell’arte italiana, parte iii, Situazioni, mo-menti, indagini, vol. iv, Forme e modelli cit., pp. 159-200.27 d. minonzio, De Musi (Di Musi, De Musis, Musi), Agostino, detto Agostino Veneziano, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 38, Roma 1990, pp. 685-688; g. albricci, Lo Stregozzo di Agostino Veneziano, in «Arte Veneta», 36, 1982, pp. 55-61; cito, solo a esempio, il Draghetto anomalo (Bartsh xiv.392.2558, attribuzione non certa), il Pannello ornamentale (Bartsh xiv.396.595) o quello, della serie edita da Antonio Salamanca (Bartsh xiv.398.572). Un buon confronto è possibile sfruttando l’ottimo sito del British Museum (chiave di ricerca: Agostino Veneziano). Sono grata a Debora Tosato, con cui ho discusso questi temi e che mi ha segnalato, come utile confronto, anche il precedente e precoce intervento, ora attribuito a Nicoletto da Modena, nel salone del palazzo vescovile di Padova, dei primi anni del Cinquecento, su cui si veda: a. denicolò salmazo, Elementi di eccentricità nella regia rigorosa di Pietro Barozzi, in Pietro Barozzi. Un vescovo del Ri-nascimento, atti del convegno di studi (Padova, Museo Diocesano, 18-20 ottobre 2007), a cura di a. nante, c. cavalli, p. gios, Padova 2012, pp. 274-288. Per la conoscenza che Sansovino e i suoi avevano delle cose padovane, legata alla sua presenza nella cappella dell’Arca (vale a dire vicino a Falconetto), segnalo il mio recente Danese Cattaneo. Le opere nel territorio della Dominante, in Danese Cattaneo da Colonnata 1512-1572. Scultore Poeta Architetto, Carrara 2013, vol. i, pp. 38-40.28 Ho provato a incrociare i dati sulla diffusione del lusso, in ambito profano, testimo-niata dai documenti e dalle fonti con le raffigurazioni negli affreschi delle ville venete, con un esito coerente; cfr. L’aspetto utopico dei beni di lusso negli affreschi delle ville venete del Cinquecento, in L’utopia di cuccagna tra Cinquecento e Settecento. Il caso della Fratta nel Polesine, atti del convegno internazionale di studi (Rovigo e Fratta Polesine, 27-29 maggio 2010), a cura di a. olivieri, m. rinaldi, Rovigo 2011, pp. 383-422.