La lunga marcia. Il diritto romano nella Repubblica Popolare Cinese

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1 Oliviero Diliberto La lunga marcia. Il diritto romano nella Repubblica Popolare Cinese in Disegnare il futuro con intelligenza antica. L’insegnamento del latino e del greco antico in Italia e nel mondo (L. Canfora e U. Cardinale cur.), Bologna 2012, pp. 53 - 67 Sommario. 1. Due necessarie premesse. Primo. Lo studio del diritto romano quale scienza storica del diritto. 2. Secondo. Il diritto romano come diritto, a suo modo, vigente. 3. La Rpc, il diritto romano e la codificazione del diritto civile. 4. Diritto romano e competizione globale? 5. Diritto romano e diritto cinese: un rapporto senza mediazioni. 6. Per (provvisoriamente) concludere. 1. Il Digesto di Giustiniano si apre solennemente con l’esaltazione di iustitia e ius, per proseguire, subito dopo, con la rivendicazione orgogliosa della storia giuridica di Roma quale fondamento della grande Compilazione, il Corpus Iuris Civilis. Il secondo titolo del primo libro del Digesto (D. 1.2.1) conserva, infatti, la praefatio del commento del giurista Gaio all’antichissima legge delle XII Tavole. Ora, si badi bene, Gaio scrive a metà del secondo secolo dopo Cristo, il Digesto è del sesto, sempre dopo Cristo, ma la legge commentata risale al quinto prima dell’era cristiana. La circostanza è tutt’altro che trascurabile: ci troviamo, infatti, di fronte a testi appartenenti ad epoche tra loro diversissime, ma che –

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Oliviero Diliberto

La lunga marcia.

Il diritto romano nella Repubblica Popolare Cinese

in Disegnare il futuro con intelligenza antica. L’insegnamento del latino e delgreco antico in Italia e nel mondo (L. Canfora e U. Cardinalecur.), Bologna 2012, pp. 53 - 67

Sommario. 1. Due necessarie premesse. Primo. Lo studio deldiritto romano quale scienza storica del diritto. 2. Secondo.Il diritto romano come diritto, a suo modo, vigente. 3. La Rpc,il diritto romano e la codificazione del diritto civile. 4.Diritto romano e competizione globale? 5. Diritto romano ediritto cinese: un rapporto senza mediazioni. 6. Per(provvisoriamente) concludere.

1. Il Digesto di Giustiniano si apre solennemente con

l’esaltazione di iustitia e ius, per proseguire, subito dopo, con

la rivendicazione orgogliosa della storia giuridica di Roma

quale fondamento della grande Compilazione, il Corpus Iuris Civilis.

Il secondo titolo del primo libro del Digesto (D. 1.2.1)

conserva, infatti, la praefatio del commento del giurista Gaio

all’antichissima legge delle XII Tavole. Ora, si badi bene,

Gaio scrive a metà del secondo secolo dopo Cristo, il Digesto

è del sesto, sempre dopo Cristo, ma la legge commentata risale

al quinto prima dell’era cristiana. La circostanza è

tutt’altro che trascurabile: ci troviamo, infatti, di fronte a

testi appartenenti ad epoche tra loro diversissime, ma che –

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nel loro intrinseco «riuso» attraverso i secoli – evidenziano

la convinzione profonda, da parte dei romani, di una continuità

giuridica, sulla base della quale emerge anche la certezza che

solo conoscendo la storia precedente si possa compiutamente (e

correttamente) intendere il presente.

Nella praefatio gaiana menzionata – che Giustiniano sceglie,

come detto, di porre all’inizio del Digesto – se ne rinviene

la motivazione esplicita: il principium – afferma Gaio –

rappresenta la potissima pars del tutto, cioè la parte prevalente

del diritto, rispetto al suo complessivo svolgimento storico.

Il principium è, dunque, intrinsecamente, più importante del

resto [Diliberto 2005b e ivi lett.].

Siamo di fronte, come è facile intendere, ad un punto

chiave.

Il giurista, infatti, attraverso tale – inequivoca –

affermazione, rivendica più valori insieme. Innanzi tutto,

leggiamo in essa la piena e matura consapevolezza che si può

conoscere il diritto vigente solo se si indagano la sua genesi

e il suo sviluppo nel corso dei secoli precedenti. Inoltre,

dalle parole di Gaio traspare chiaramente anche la

rivendicazione di una continuità, di un percorso ininterrotto,

che inizia, appunto, con la legge delle XII Tavole (il più

antico «codice» legislativo dell’Occidente) e che – in questo

caso nelle intenzioni di Giustiniano, che non a caso recupera

proprio quel frammento gaiano per il suo Digesto – doveva

trovare il suo apice (nonché la conclusione) con il Corpus Iuris.

Infine, il riferimento alla supremazia del principium del

diritto rappresenta anche l’intrinseco ossequio rispetto ad un

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grande, straordinario passato (la reverentia antiquitatis) che

assurge, in sé, a valore.

La praefatio di Gaio al commento alla legge delle XII Tavole

rappresenta, quindi, una vera e propria dichiarazione

programmatica, che non esito a definire ideologica. Tutt’altro

che scontata o accidentale.

Nel brano in esame, peraltro, Gaio è esplicito. Non

intende redigere un commentario di natura meramente antiquaria

(non verbosos commentarios), destinato agli eruditi o ai

grammatici della lingua latina arcaica, ma rivolto

strettamente ai giuristi suoi contemporanei. La storia del

diritto più antico è individuata, dunque, come parte della

scienza giuridica tout court. E Gaio è conseguente a tale

dichiarazione programmatica. Nei brani a noi arrivati del suo

commento alla legge delle XII Tavole – proprio attraverso il

Digesto – il giurista parte dall’analisi (spesso lemmatica)

del testo decemvirale, per approdare rapidamente alla disamina

del diritto a lui coevo.

In altre parole, già i giuristi romani di età classica studiavano la storia

del diritto romano dei secoli ad essi precedenti.

La circostanza è di grande rilievo: si pensi infatti che

proprio Gaio è giurista a tutto tondo. Le sue Institutiones (che

noi conosciamo quasi nella loro interezza) sono un manuale

elementare di diritto privato, rivolto agli studenti del

secondo secolo d. C., teso ad insegnare, dunque, il diritto

vigente: ma la trattazione di ogni istituto giuridico si apre

con la storia di esso nelle epoche precedenti.

Un giurista, impegnato anche nell’insegnamento, sente

l’esigenza di redigere un commento ad una raccolta legislativa

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arcaica quale la legge delle XII Tavole (promulgata sette

secoli prima) e giustifica ciò con l’affermazione che il

principium è la parte più importante dell’intero:

rivendicazione, quest’ultima, ripresa con enfasi, secoli dopo,

da Giustiniano e, di lì, arrivata ai giorni nostri.

Così come, dunque, il diritto romano arcaico era

indagato dai giuristi romani di età classica, al fine di

meglio comprendere – attraverso la sua evoluzione storica –

anche il diritto vigente alle loro epoche, così, il diritto

romano tout court rappresenta per noi contemporanei terreno di

ricerca per capire, sempre attraverso l’evoluzione giuridica

nei secoli, anche il diritto oggi vigente.

In altre parole, studiamo la storia delle istituzioni

giuridiche del passato perché, attraverso la conoscenza

della genesi degli istituti giuridici, della loro evoluzione

nel tempo, delle modificazioni intervenute, si comprende

assai meglio anche il diritto dei nostri tempi.

Un esempio per tutti (molto sommariamente: e me ne

scuso). Solo attraverso lo studio della storia del diritto

nei diversi secoli si può comprendere la differenza

strutturale – profondissima – tra la nozione di proprietà

privata quale si legge nel nostro codice civile del 1942 e

quella prevista invece nella Costituzione del ’48. Nel

codice civile (art. 832) si afferma una concezione

assolutista della proprietà privata, che si richiama al

diritto romano [cfr. infra § 5, ma è in realtà figlia

diretta del codice Napoleone del 1804, del diritto borghese,

della coincidenza tra libertà, cittadinanza e proprietà

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privata. Nella Costituzione repubblicana (art. 42 c. 2),

viceversa, è esplicitamente prevista una «finalità sociale»

della proprietà privata, che dipende, insieme, dalla

dottrina sociale della Chiesa cattolica e dalle concezioni

marxiste [su tutto ciò Diliberto 2009, 69 ss.]. Tra i due

testi normativi richiamati (codice civile e Costituzione)

intercorrono pochissimi anni di distanza temporale, ma un

abisso concettuale.

Il conflitto tra essi – come è del tutto ovvio – si

spiega solo alla luce dei diversi contesti politici, sociali

ed ideologici che hanno determinato la genesi delle due

norme, nei differenti rapporti di forza tra le classi nella

società italiana, a cavallo tra il 1942 e il 1948. L’esempio

è volutamente macroscopico ed è qui proposto all’esclusivo

scopo di evidenziare – senza possibilità di equivoci – che

la comprensione del fenomeno giuridico può aversi appieno

solo attraverso l’analisi storico-giuridica degli istituti e

non grazie alla mera tecnica esegetica del testo (pur

anch’essa, come è altrettanto ovvio, indispensabile, ma non

sufficiente).

La storia del diritto romano è, dunque, innanzi tutto,

una disciplina eminentemente storica: indispensabile per la

formazione del giurista, checché ne pensi una dottrina oggi

(non innocentemente) di moda [Irti 2004; Diliberto 2005a].

Solo la piena consapevolezza storico-giuridica può infatti

evitare che il giurista della nostra epoca diventi mero

automa, esecutore tecnico o interprete pedissequo delle

norme: ognuna di esse, infatti, è figlia – circostanza che

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oggi non è più così ovvia, come dovrebbe – di una specifica

temperie storica, culturale, economica, politica. E quella

certa norma, promulgata in un certo momento storico, può

assumere, volta a volta, sulla base dei concreti rapporti di

forza tra le classi entro una determinata società,

significati ed esiti diversi, pur rimanendo immutato il suo

tenore letterale. Conoscere quella storia, dunque, è

imprescindibile per intendere – in modo pieno e consapevole

– anche la norma medesima.

2. Ma se lo studio del diritto romano ha come primo

obiettivo la ricostruzione di un diritto del passato, per

meglio intendere quello del presente, vi è un altro aspetto

dello studio del medesimo diritto romano che ci porta più

strettamente all’attualità.

Infatti, a ben vedere, il diritto romano (intrisecamente

estinto) ha tuttavia continuato a vivere (con le modificazioni

dei secoli e delle latitudini) nei diversi ordinamenti

europei ed extraeuropei che gli sono tributari: mi riferisco

ad un sistema, ad una somma di categorie (e di lessico

giuridico) comuni, a criteri ermeneutici ed esegetici che –

tutto ciò rinnovandosi nel tempo e nello spazio – ancora

sono, nella chiave di lettura che cercherò di proporre,

vigenti.

Impiego quest’ultimo termine con cautela e prudenza. Ma

non ne trovo altro che renda meglio il concetto. Dalla fine

dell’esperienza storica del diritto romano (formalmente, dal

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476 d.C. in Occidente e dal 565 d. C. in Oriente: morte di

Giustiniano I; o, se si vuole, dal 1453, presa di

Costantinopoli), quel diritto ha continuato a permeare di sé

– cosa notissima – tutti gli ordinamenti civilistici

dell’Europa continentale: dal Portogallo sino alla Russia

(Mosca quale «terza Roma», anche attraverso la mediazione

culturale ed ideologica del Patriarcato); e poi, partendo

dal vecchio Continente, ha segnato di sé l’intera esperienza

giuridica dell’America Latina [su tutto ciò, Schipani

2009b, per arrivare – tramite l’influenza determinante

della dottrina tedesca di fine ‘800 – sino all’ordinamento

civilistico giapponese. Ha continuato, dunque, a vivere in

Paesi con ordinamenti istituzionali e regimi politici tra

loro diversissimi (imperi, monarchie, repubbliche,

principati, liberi comuni, regno della Chiesa, dittature del

proletariato e ordinamenti borghesi, regimi reazionari e

liberali, comunisti e fascisti: si potrebbe continuare).

Certo, ognuno di questi Paesi ha modificato, soppresso,

aggiunto, «piegato» gli istituti romanistici alle diverse e

contingenti esigenze del tempo, della realtà geografica,

della politica e dell’economia. Ma la base, le istituzioni del

diritto privato romano, appunto, sono rimaste inalterate nella

loro sostanza di fondo [Diliberto 2005a].

Così come dalla lingua latina (in un ambito geografico

tuttavia assai più ristretto) sono sorte tante diverse

lingue neolatine, che, attraverso la comune matrice, possono

tra loro comprendersi senza soverchio sforzo; così il

diritto romano ha costituito la base per la nascita di

diversi diritti «neoromani», fondati – come detto – su un

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comune sistema (l’impianto complessivo), su categorie

pressoché identiche, su un linguaggio comprensibile

all’interno del medesimo sistema, su una scienza giuridica

elaborata da tecniche giurisprudenziali di interpretazione

del testo (l’esegesi delle fonti) similari in ogni

latitudine. Ma, rispetto alla lingua latina, con uno spettro

geo-politico amplissimo.

Tutto ciò ha vinto la prova dei secoli perché è ancora

parte viva di ciò che applicano, come diritto vigente,

milioni e milioni di donne e di uomini nel mondo. Ma è

diventato ed è ancora parte viva, proprio per la capacità di

quel diritto, storicamente «estinto», di essere adattato,

metastoricamente, grazie ad una sua straordinaria duttilità, a

situazioni e ordinamenti diversissimi da quelli che lo

avevano a suo tempo determinato: reggono, insomma, alla

prova del tempo, da un lato, il sistema, la cornice, il

quadro di riferimento all’interno del quale inserire o

ritrovare, ben ordinati, tutti gli istituti sulla base dello

schema genus-species, come in una sorta di classificazione del

regno animale o vegetale alla Linneo; ma, dall’altro, ancora

è indispensabile quella scienza esegetica dell’analisi del

testo normativo o giurisprudenziale, che dal diritto romano

– transitando ed aggiornandosi nel corso di un millennio e

mezzo – è giunta sino a noi.

In definitiva, ogni generazione di giuristi ha costruito e

ricostruito le proprie istituzioni di diritto romano, utili all’attualità

del pensiero giuridico, splendidamente (ed apparentemente)

atemporali, ma in realtà calate, volta a volta, nel divenire

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delle diverse società, perché idonee a rinnovarsi, ad essere

applicate ai contesti più multiformi. Immutabili e al

contempo cangianti.

3. In Europa, dunque, – tutta ad eccezione del Regno

Unito – nell’America Latina e in Giappone il sistema

romanistico ha rappresentato (e rappresenta) la base degli

ordinamenti dei diversi codici civili.

Nella Repubblica Popolare Cinese (Rpc), viceversa,

l’idea di avvalersi di un codice civile era stata per

lunghissimo tempo del tutto assente.

La storia è piuttosto semplice: la Cina, nella prima

metà del secolo scorso, aveva provato ad attuare alcune

esperienze codificatorie, nelle quali il diritto romano era,

per così dire, «penetrato» attraverso il Giappone: un

progetto di codice civile fu presentato nel 1911, ma non

venne approvato; fu ripreso infruttuosamente anche nel 1925,

per essere poi promulgato in altra forma nel 1931 [Fei 2007;

Schipani 2009b.

Ma quelle esperienze si andarono rapidamente frantumando

nel corso dei convulsi anni ’30, con la perdita da parte del

Guomindang del controllo sul Paese a favore del Partito

comunista: tanto è vero che il codice civile del ’31 è

rimasto in vigore, con modifiche, nella sola Taiwan.

Nel 1949, poi, con la vittoria della Rivoluzione

comunista e la nascita della Rpc, l’ordinamento preesistente

fu interamente abrogato. Ma se negli anni ’50 il riferimento

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cinese al diritto era rappresentato dall’Unione Sovietica

(dove andavano a formarsi i giuristi cinesi, imparando anche

il diritto romano, come vedremo), a seguito della rottura

con Mosca iniziò in Cina la fase denominata del «nichilismo

giuridico»: si negava cioè, in via generale, ogni ruolo al

diritto [Schipani 2009b, 532.

Tutto era destinato a modificarsi con l’avvio delle

«quattro modernizzazioni» di Deng. Le riforme economiche

degli anni ’80 e l’apertura a forme di mercato suscitarono

infatti anche un nuovo, se pur ancora solo abbozzato,

interesse verso il diritto, le leggi, le regole.

Ma la svolta, che non esito a definire storica, stava

solo per avvenire. Era il 1988.

La Rpc andava procedendo tumultuosamente (ma era ancora

lontanissima dai risultati economici degli ultimi anni:

allora certo imprevedibili per un osservatore superficiale)

nella strada delle riforme economiche. Sandro Schipani,

allora docente di Diritto romano dell’Università di Roma Tor

Vergata, ebbe, dunque, una straordinaria intuizione.

Immaginò che, essendosi aperta al mercato, la Cina avrebbe

presto avuto necessità di dotarsi di regole del diritto

civile (contratti, obbligazioni, regolamentazione degli

assetti proprietari, etc.: cfr. Petrucci 1999, 319 ss.; Yin

2009, 91 ss.; Schipani 2009b, 532 ss.).

Così, Schipani incominciò – inizialmente da solo e (va

sottolineato) nell’incomprensione generale – ad avviare

contatti con le università cinesi ed in particolare con una

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delle principali tra esse, l’Università Cinese di Scienze

Politiche e Giurisprudenza (Cupl) di Pechino. Firmò, dunque,

nel medesimo 1988 un primo protocollo d’intesa per

intraprendere la collaborazione scientifica tra le

università (Roma Tor Vergata, allora, poi si unirà anche La

Sapienza, e Pechino, appunto).

La firma di quel protocollo era stata resa possibile

dalla sua lungimiranza, ma anche da una circostanza

intrinsecamente fortunata.

Il decano dell’università cinese, Jiang Ping, aveva

infatti a suo tempo studiato a Mosca, ove – come già

sottolineato – aveva appreso anche il diritto romano,

intuendone l’utilità per la costruzione del nuovo diritto

civile cinese [Jiang 2008. Il terreno, poi, era fertile:

nel 1983 e nel 1987 erano apparsi, infatti, in Cina, due

manuali di diritto romano [Schipani 2009b, 533, a

testimonianza di un interesse, una curiosità, la

consapevolezza dell’utilità.

L’iniziativa di Schipani e Jiang diede a quell’interesse

un impulso decisivo, foriero di conseguenze, appunto,

storiche.

Quell’intesa sortì, infatti, subito un primo risultato:

la traduzione e relativa pubblicazione in cinese delle

principali fonti giuridiche romane: solo l’anno dopo, nel

1989, appariva già la traduzione delle Istituzioni di

Giustiniano ad opera di Zhang Qitai (ormai le fonti

giuridiche romane in cinese costituiscono decine di volumi).

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Iniziava, altresì, la formazione a Roma di alcuni

giovani giuristi cinesi. Questi ultimi, peraltro, nel nostro

Paese, si cimentavano nello studio dei testi gius-

romanisitici con un approccio (né poteva essere

diversamente) diretto: essi imparavano, dunque, insieme alla

lingua italiana, anche il latino. Il primo di essi – vero

pioniere di questa storia –, Xu Guodong, studiò in Italia

tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ‘90.

Intanto, nel 1992, il XIV Congresso del Pcc promuoveva,

con relativa modifica costituzionale, l’«economia socialista

di mercato»: cresceva, in tal senso, anche l’esigenza dello

studio del diritto. Così, due anni dopo, si arrivò al primo

congresso internazionale sul diritto romano e la

codificazione del diritto civile in Cina: era il 1994.

I tempi erano maturi, insomma, per procedere verso una

codificazione organica del diritto privato. Nel 1999 (50°

anniversario della fondazione della Rpc), il gruppo

dirigente del Pcc decise, dunque, ufficialmente, di redigere

– come intuito dieci anni prima da Schipani – un corpo di

leggi civili per le principali materie riguardanti

l’economia di mercato (diritti reali e diritti di

obbligazione). Evento epocale, come si può immaginare: ma la

circostanza più interessante – ai fini di questo nostro

ragionamento – fu che le commissioni incaricate di lavorare

a tale progetto erano largamente costituite dai partecipanti

al primo congresso gius-romanistico (quello menzionato del

1994): una di esse era presieduta da Xu Guodong.

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Restava il nodo del modello, dei riferimenti, della

cornice sistemica cui attingere, tra le esperienze

esistenti.

L’alternativa era tra l’adozione del modello europeo, a

base romanistica, o di quello anglosassone (common law), il

diritto fondato sul precedente giurisprudenziale che dalla

Gran Bretagna era divenuto il diritto anche degli Usa. La

discussione – evidentemente di fondo – coinvolse i gruppi

dirigenti dello Stato e i giuristi. Fu molto partecipata,

libera, appassionata, senza reticenze, anche aspra: alla

fine, prevalse la scelta del sistema romanistico.

Risultato straordinario, questo: ma possibile anche

perché, appunto, nel frattempo, si erano prodotti quei primi

risultati (fondamentale è stato evidentemente l’accesso

linguistico ai testi, grazie alle traduzioni in cinese che

nel frattempo Schipani aveva avviato).

Poi, ancora una volta, il caso.

Quando, infatti, nel 1999, la Rpc decideva di

intraprendere la strada della codificazione, io ero

diventato da pochi mesi Ministro della Giustizia in Italia:

ministro, peraltro, ma anche docente di diritto romano e

parlamentare comunista.

Le tre singolari e coincidenti caratteristiche sortirono

un’ulteriore accelerazione nella ricezione del diritto

romano in Cina.

Dopo pochi mesi dal mio insediamento al Ministero,

proprio nel 1999, tenemmo infatti a Pechino il secondo

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congresso sul diritto romano e la codificazione cinese, con

i crismi dell’ufficialità, aperto proprio dai due ministri

della giustizia (italiano e cinese): iniziò così anche un

rapporto istituzionale fra i due Paesi. Sono seguiti

successivamente altri incontri internazionali di lavoro (nel

2005 e nel 2009) e la collaborazione è proseguita con

straordinaria intensità.

Molti studiosi di diritto romano (italiani e non solo:

oltre a docenti di altri Paesi europei, vi sono anche non

pochi latino-americani, a testimonianza del comune sistema

giuridico) svolgono con regolarità lezioni, seminari,

conferenze nella Rpc.

Centinaia di giovani studiosi cinesi studiano oggi il

diritto romano nelle nostre università (il primo di essi, il

già ricordato Xu Guodong, protagonista anche della

codificazione cinese, è oggi preside della facoltà di

giurisprudenza di Xiamen): sono stati costituiti numerosi

dottorati di ricerca congiunti (italiano e cinese).

Apprendono il diritto romano per poi riapplicarlo (e, a

loro volta, insegnarlo) in Cina, con le specificità del loro

ordinamento politico, economico ed istituzionale, nonché

coniugandolo con le loro millenarie tradizioni. Esistono

oggi circa 120 università cinesi nelle quali è insegnato il

diritto romano e presso l’università capostipite, a Pechino,

è stato fondato un centro di studio permanente del medesimo

diritto romano e di quello italiano, con relativa biblioteca

specializzata. Sono sorte numerose riviste cinesi gius-

romanistiche specializzate.

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Tutto ciò, in poco più di vent’anni.

Ma la «scoperta» del diritto romano ha sortito un

complessivo interesse verso la nostra cultura classica. I

testi degli autori latini (non solo i giuristi: penso alle

opere di Cicerone) vengono tradotti e commentati: ma – come

sempre accade – agli studiosi non basta il testo tradotto,

occorre leggere in originale. Si incomincia a porre il

problema dello studio della lingua latina in Cina.

Ancora. Il diritto privato romano è stato recepito nella

Rpc per la redazione delle leggi civili. Uno scopo, dunque,

perfettamente in linea con quanto – sin dall’alba

dell’Ottocento – fecero i giuristi europei che si

cimentavano nella redazione dei codici civili continentali.

Ma incontrare il diritto romano a fini di attualizzazione

postula il suo studio: il che induce anche – superata la

fase iniziale dell’utilizzazione immediata ai fini della

legislazione corrente – a percepirne la portata

squisitamente storica. Si torna, insomma, a Gaio, al

principium potissima pars, alla dimensione degli studi gius-

romanistici come disciplina storico giuridica: anche nella

Rpc, infatti, sono iniziati gli studi di diritto romano in

una chiave non solo strettamente legata al presente, ma

finalizzata a capire la genesi di quegli istituti che – nel

frattempo – venivano scelti quale base per il nuovo codice

civile: anche in Cina si è tornati, dunque, non casualmente,

proprio alla legge delle XII Tavole e al suo studio [Zhang

2000; Diliberto 2002; Xu 2005], dalla quale abbiamo preso le

mosse nel raccontare questa avventura.

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Il cerchio sembra chiudersi.

4. Sono, tuttavia, necessarie alcune ulteriori

annotazioni.

Non escludo, infatti, che nella scelta cinese di

potenziare enormemente lo studio del diritto romano (e la

sua stessa adozione quale base della codificazione

civilistica) vi sia stata anche una motivazione

squisitamente politica. Il sistema di common law

anglosassone è, infatti, quello vigente negli Stati Uniti

d’America. Avere scelto, dunque, il sistema ad esso

contrapposto può spiegarsi anche sulla base della

(implicita) volontà da parte cinese di evitare una

subalternità culturale rispetto al principale competitor

della Rpc su scala globale.

Non mi pare, infatti, semplicemente un caso, la

circostanza (per noi, di enorme valore) che presso la più

antica università del mondo (di circa un secolo precedente

rispetto alla più antica dell’Occidente: Bologna), quella di

Changsha, della regione dello Hunan, il centro studi di

diritto romano sia finanziato direttamente dal Partito comunista cinese

della medesima regione. Ciò produce un’intensa attività di

relazione con gli atenei romani, convegnistica

internazionale, corsi di formazione specialistici, il

finanziamento di borse di studio per molti dottorandi cinesi

che studiano in Italia.

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Una nuova sfida per il diritto romano, attraverso il suo

impiego anche a fini ideologici? Non è dato sapere. Ma, nel

caso, sarebbe l’apoteosi dell’eterogenesi dei fini, il

ribaltamento paradossale della storia: perché, in questo

caso, il diritto dell’impero antico per eccellenza sarebbe

usato come strumento di battaglia ideologica contro l’impero

odierno per eccellenza.

5. Un ultimo punto. La promulgazione del codice civile

cinese (al momento non ancora terminata, ma in stato molto

avanzato) offre un ulteriore spunto di riflessione: la

legislazione già approvata segue, infatti, in misura

sicuramente maggiore rispetto all’Italia (e agli altri

codici moderni) il sistema «originale» del diritto romano.

Il punto è di enorme rilevanza sul piano giuridico, ma

anche squisitamente teorico.

Tutte le codificazioni a base romanistica hanno infatti

recepito il diritto romano attraverso la sua tradizione

secolare lungo il Medioevo e l’età moderna: in tali

codificazioni, per dirla in modo sommario, il diritto romano

è stato «filtrato» soprattutto dalla mediazione politica e

culturale del codice napoleonico, cui si è già accennato. I

codici civili contemporanei, in buona sostanza, hanno tutti

una base romanistica, ma essa è il prodotto di una

mediazione borghese, illuministica, che non discende

direttamente dal diritto romano in quanto tale, bensì dalla

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lettura (e dall’utilizzo) che di quest’ultimo avevano fatto

i compilatori del codice civile francese del 1804.

Ancora una volta, mi limito ad un solo esempio. Come già

accennato, il diritto di proprietà (e la sua assolutezza: il

cosiddetto «diritto egoista»), così come previsto nel codice

civile italiano (e in gran parte degli altri), dipende dal

lavoro sulle fonti giuridiche romane svolto dai compilatori

del primo codice dell’età moderna, quello – appunto – di

Napoleone: addirittura, nel primo codice dell’Italia unita,

quello del 1865, la definizione della proprietà privata era

letteralmente e pedissequamente tradotta in italiano dalla

formulazione presente nel codice francese.

Ma nel diritto romano in quanto tale, l’assolutezza del

diritto di proprietà privata è categoria sconosciuta

[Diliberto 2009; Schipani 2009a]: solo la rielaborazione

delle fonti giuridiche romane operata in piena rivoluzione

borghese riusciva ad estrapolare da esse concetti

finalizzati all’affermazione dell’assolutezza e

dell’inviolabilità della proprietà privata. Il diritto

romano, nella sua duttilità ed adattabilità, rappresentava

la cornice, il sistema della codificazione napoleonica, ma i

contenuti – come già sottolineato in precedenza – li

determinava il legislatore del tempo: da lì, poi,

confluivano negli altri codici moderni.

La codificazione cinese, viceversa, ha – per così dire –

«saltato» la mediazione napoleonica, per cimentarsi

direttamente nell’appropriazione e nella rielaborazione del

sistema romanistico. Proprio le norme sulla proprietà,

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promulgate in Cina nel 2007 insieme alla disciplina generale

dei diritti reali [Sun 2006, ne sono lampante

dimostrazione: non è contemplata la proprietà privata come

perno (una sorta di motore immobile) del sistema degli altri

diritti; manca del tutto il riferimento alla sua assolutezza

(tanto meno all’inviolabilità); non si pone il tema

dell’unitarietà del medesimo diritto: convivono, infatti, nelle

leggi cinesi, sullo stesso piano, diverse forme di

proprietà, quella statale (la terra, ad esempio, ancor oggi

principale mezzo di produzione in Cina, non può che essere

esclusivamente dello Stato), quella collettiva (delle

comunità) e infine, buona ultima, quella privata [Leggi

tradotte 21 ss.; Yin 2009].

6. In conclusione, il diritto privato dei romani (quello

«sistemico» conservato dalla Compilazione giustinianea)

ritrova, in una latitudine impensabile sino a qualche

decennio fa, nuova ragione d’essere, al fine di una

codificazione contemporanea. Ma quello stesso diritto antico

incomincia anche ad esser studiato in una prospettiva e con

metodo squisitamente storico, nella consapevolezza che si

tratta, certo, di un diritto impiegato per il presente, ma

appartenente intrinsecamente al passato.

E’ in questa dialettica che va rintracciata la vitalità

della disciplina oggetto di queste mie brevi riflessioni,

nel rimando costante tra presente e passato, tra diritto

romano in senso stretto e tradizione romanistica: quella che

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si dipana dal Medioevo per arrivare sino ai giorni nostri,

sino alla Rpc.

In fondo, in questa appropriazione del passato, faticosa

ma densissima di implicazioni, ritroviamo echi di quanto un

grande poeta, forse il più grande del secolo breve che

abbiamo alle spalle, Thomas Stearns Eliot, scriveva a

proposito del rapporto dei moderni interpreti con il

classico, con i classici. Si tratta di parole celebri, che

val la pena riproporre quale epilogo (provvisorio) della

straordinaria storia che ho appena raccontato: «La

tradizione non può essere ereditata, e se uno la vuole deve

ottenerla con grande fatica. Essa implica, in primo luogo,

il senso storico … e il senso storico implica una

percezione, non solo della condizione di passato del

passato, ma della sua presenza» [Eliot 1919, ma 1959, 21

ss.].

21

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