La critica cinematografica. Un'introduzione

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LA CRITICA CINEMATOGRAFICA Un’introduzione CLAUDIO BISONI

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Claudio Bisoni insegna Ricezione e consumo deimedia e Storia e metodologia della critica cine-matografica presso l’Università di Bologna. Sioccupa dei rapporti tra critica, estetica e processiculturali. Tra le sue pubblicazioni: Brian De Palma(Recco, 2002); La critica cinematografica. Meto-do, storia e scrittura (Bologna, 2006); Gli anniaffollati. La cultura cinematografica italiana(1970-1979) (Roma, 2009), Elio Petri. Indaginesu un cittadino al di sopra di ogni sospetto (To-rino, 2011). Suoi saggi e articoli sono apparsi involumi collettivi e su varie riviste, tra le quali«La valle dell’Eden», «Fotogenia», «Close-up»,«Bianco e Nero», «Cinéma & Cie».

La critica cinematografica incontra oggi una rinascitagrazie al web. Sempre più siti e portali ospitano di-scussioni sul cinema e recensioni di film. Il cinemacontinua a stare al centro della discussione culturale.Il volume presenta un’agile introduzione alla storiadella critica, ai metodi per scrivere recensioni, ai truc-chi del mestiere di critico.Attraverso uno strumento scritto con linguaggio ri-goroso e al contempo accessibile il lettore ha a dispo-sizione una panoramica sulle principali correnti chehanno animato la storia della critica cinematograficae sulle voci di scrittori o critici che hanno attraversatoil Novecento, fino ai giorni nostri: da François Truffauta Jacques Rivette, da Eric Rohmer a Serge Daney, daGiuseppe De Santis a Enzo Ungari.

LA CRITICACINEMATOGRAFICAUn’introduzione

CLAUDIOBISONI

Claudio Biso

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€ 10,00

ISBN 978-88-6633-121-6

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CentopagineCollana diretta da Stefano Calabrese, Alberto De Bernardi,Elisabetta Menetti e Guglielmo Pescatore

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Claudio Bisoni

La critica cinematograficaUn’introduzione

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© 2013 by CLUEBCooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna

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Finito di stampare nel mese di marzo 2013da Editografica, Rastignano (Bo)

Copertina e progetto grafico: Avenida (Modena)

ISBN 978-88-6633-121-6

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INDICE

Introduzione ................................................................................... VII

Prima parte – La critica cinematografica dagli inizi del Nove-cento a oggi

Capitolo 1 – Dagli anni Dieci alla Seconda Guerra Mondiale .... 31.1 In Italia … ............................................................................. 31.2 … e in Francia ...................................................................... 8

Capitolo 2 – Primo approfondimento: il secondo dopoguerra e lanascita della critica moderna in Francia ...................................... 132.1 Tra anni Quaranta e Cinquanta ........................................... 132.2 La politique des auteurs ........................................................ 162.3 La critica moderna tra novità e tradizione ........................... 25

Capitolo 3 – Secondo approfondimento: dal sonoro al canone(neo)realista in Italia ................................................................... 333.1 La critica verso l’istituzionalizzazione ................................. 333.2 L’esperienza di «Cinema» .................................................... 353.3 Realismo e ambientazione .................................................... 383.4 «Cinema» e l’opzione realista: una questione ancora aperta 403.5 Il canone (neo)realista .......................................................... 43

Capitolo 4 – Dagli anni delle lotte politiche alla fine del secolo ... 494.1 Sessantotto e dintorni ........................................................... 494.2 Dagli anni Ottanta agli inizi del nuovo millennio ............... 56

Capitolo 5 – La critica di cinema nella cultura digitale .............. 615.1 Una storia inedita ................................................................. 615.2 La commistione delle tipologie di discorso ......................... 625.3 La ridefinizione della nozione di gusto ................................ 66

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5.4 La ridefinizione dell’expertise .............................................. 685.5 La de-istituzionalizzazione ................................................... 71

Seconda parte – Istituzione, metodo, pratica

Capitolo 6 – Definizioni ............................................................. 756.1 Un termine generico ............................................................. 756.2 La critica come istituzione ................................................... 766.3 Una prospettiva archeologica ............................................... 776.4 Grado di autonomia ............................................................. 80

Capitolo 7 – Il campo della critica cinematografica .................... 837.1 Regolarità .............................................................................. 837.2 La forma-recensione ............................................................. 847.3 La recensione nel contesto discorsivo degli altri discorsicritici ........................................................................................... 85

Capitolo 8 – La critica come mestiere ......................................... 878.1 Il modello di analisi di David Bordwell ............................... 878.2 Quello che i critici non dicono: l’interpretazione in pratica .. 878.3 Critica, retorica e risoluzione di problemi ........................... 88

Capitolo 9 – Significati, mappature e schemi .............................. 959.1 Tipologie di significato ......................................................... 959.2 Strutture di significato .......................................................... 989.3 Doppioni oppositivi e temi .................................................. 999.4 Un tema longevo: la riflessività ............................................ 1009.5 Logica, funzionamento, applicabilità di un tema ................ 1019.6 Mappatura, due modelli a confronto ................................... 1039.7 Schemi concettuali ............................................................... 104

Capitolo 10 – Conclusioni: vincoli e libertà ................................ 10710.1 I limiti dell’interpretazione ................................................ 10710.2 Storia della critica e storia della cultura: gli studi sulla ri-cezione ........................................................................................ 10810.3 Janet Staiger di fronte alla ricezione critica diArancia Mec-canica ........................................................................................... 10910.4 Coda: la critica nel circuito dei discorsi sociali ................. 111

Bibliografia ................................................................................. 113

VI Indice

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Introduzione

Tra crisi e rinascita

È stata a lungo opinione diffusa che la critica cinematografi-ca non stesse attraversando un periodo di buona salute. In par-te è così anche nel nostro presente digitale. Gli spazi che quoti-diani e settimanali dedicano alle recensioni dei film è in via di as-sottigliamento ormai da una trentina d’anni, se non di più. Le ri-viste di cinema specializzate festeggiano quando riescono a stam-pare copie in numeri a quattro cifre. E sono pochissime. I criti-ci cinematografici capaci di sopravvivere (cioè di guadagnareuno stipendio stabile) facendo i critici cinematografici compon-gono una casta ristrettissima di individui, in genere guardati coninvidia dall’enorme massa di operatori del settore che affidanol’esercizio compulsivo di visione e recensione ai secondi lavori,all’ottimismo della volontà, al volontariato culturale, in pocheparole, al consumo del tempo libero.

Nell’epoca di internet l’aspetto di volontariato culturale dasempre proprio della critica si è accentuato. Tuttavia è anche al-la base della grande espansione e de-istituzionalizzazione dei di-scorsi critici che chiunque frequenti siti di cinema e blog ha da-vanti agli occhi tutti giorni. Dunque proprio oggi che la criticaassomiglia sempre più a un hobby siamo circondati dal prolife-rare di discorsi che riguardano il cinema: il ritorno della cinefi-lia, il moltiplicarsi delle recensioni su riviste e siti di argomentocinematografico, il gioco delle opinioni e dei commenti sui film,i dibattiti sui social network: una vitalità inattesa il cui caratteredi novità non va trascurato [Tryon 2009; De Valck, Hagener2005; Menarini 2012].

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La critica allo specchio

Eppure sotto la vernice del nuovo, sotto il cambiamento del-le forme di scrittura e del linguaggio, le tecniche di analisi e itrucchi del mestiere rimangono pressappoco sempre gli stessi.La critica cinematografica è stata e in parte è ancora ancheun’istituzione organizzata intorno a sindacati o associazioni dicategoria, un insieme di pratiche discorsive che quasi tutti colo-ro che scrivono di cinema ripercorrono e rinnovano.

Inoltre la critica continua a fare un’altra cosa che ha semprefatto: riflettere su se stessa. Basta sfogliare un’antologia degliscritti dedicati al cinema nei primi due decenni del Novecento[Tra una film e l’altra …, 1980] per accorgersi che la critica ci-nematografica, fin dalle origini, si è incessantemente interroga-ta sul proprio statuto, sulla propria legittimità, sulle proprie fun-zioni. Possiamo dire che l’attitudine all’auto-osservazione è iltratto che meno si è modificato a contatto con i cambiamentistorici, sociali, culturali del secolo. Il compito dell’interpreta-zione ha coinciso almeno in parte con una pratica di monito-raggio continuo, di allarmata lamentazione verso periodi prece-denti (quasi sempre ricordati come più floridi) e futuri (quasisempre descritti in termini apocalittici).

Semplificando un po’ le questioni in gioco (e lasciando daparte la tradizione specifica della storiografia della critica cine-matografica), possiamo dire che l’auto-osservazione ha prodot-to e continua a produrre riflessioni intorno a quattro questionigenerali.

In primo luogo ci si interroga sui criteri di appropriatezza. Èin questione il set di strumenti, più o meno adeguati, per svol-gere il compito professionale. In che modo la critica rende ra-gione della complessità dei fenomeni che è chiamata a descrive-re e giudicare? Col mutare degli oggetti devono mutare anche glistrumenti per comprenderli? È un problema di pertinenza, va-lenza euristica, grado di aggiornamento delle competenze incampo nell’attività intellettuale. Facciamo due esempi. Il primoè I sette peccati capitali della critica, un articolo di François Truf-faut degli anni Cinquanta in cui sostanzialmente si dice che il ci-nema è una cosa troppo complicata per cervelli che hanno datoil meglio di sé nel 1925. Il futuro regista pone in modo brutaleil problema della competenza dei recensori, dei saperi necessa-

VIII Introduzione

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ri a un corretto esercizio della professione. La sua tesi suona co-sì: alla critica francese mancano troppe cose perché il prodottodel lavoro intellettuale non risulti scadente: conoscenze storiche(i critici ignorano la storia del cinema), conoscenze tecniche (icritici non sono in grado di descrivere in modo competente unatecnica di ripresa), immaginazione (se i critici ne fossero dotatifarebbero film invece di parlare di quelli degli altri), consape-volezza operativa (i critici fanno il processo alle intenzioni deiregisti, ma poiché non sono in grado di ricostruirle, è come segiudicassero oggetti immaginari, inesistenti) [ora in Truffaut1988].

Secondo esempio: un articolo di Marcello Walter Bruno in-titolato Critica atto impuro [Bruno 1990]. Siamo negli anni No-vanta. La questione non è più la presenza/assenza di competen-ze, ma la presenza/assenza di competenze adeguate. SecondoBruno, la critica è sempre stata gestita da persone che hanno for-zato il testo all’interno di griglie interpretative prestabilite. Difronte alla natura violenta dell’analisi bisogna reagire su duefronti: cercando di mantenere attraverso il gesto analitico la “go-dibilità” del film e superando certi pregiudizi. Il fatto su cui lacritica non sembra essersi soffermata abbastanza è la naturacomplessa del cinema così detto postmoderno. Questo cinemaviene dopo la morte del cinema, nell’epoca della televisione. Èquindi un cinema che ha imparato a riflettere su se stesso, a svi-luppare un lato concettuale reintroducendo anche il piacere del-lo spettacolo (che si era in parte perso nella fase più “purista”della modernità cinematografica). Insomma, Bruno si pone laquestione dell’aggiornamento della categorie critiche a partireda un problema di adeguatezza all’oggetto: l’oggetto è cambia-to e la critica deve tenerne conto [Bruno 1989].

In secondo luogo ci si interroga sul grado e il potere di iscri-zione sociale della critica cinematografica. Su questo piano è ingioco la performatività culturale della critica come istituzionenei confronti dell’opinione pubblica, vale a dire il ruolo dellacritica in termini di orientamento-condizionamento del consu-mo, del gusto, degli altri processi di ricezione. Quale è l’am-piezza dell’influenza del critico? Quale la capacità nel promuo-vere o marginalizzare un film? Più in generale, quanto la criticaconta nell’affermazione di scuole, nei meccanismi di canonizza-zione, nel consolidamento di determinate poetiche? Da questo

Introduzione IX

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punto di vista il tono di lamentazione si mantiene costante comeuna sorta di basso continuo attraverso i decenni. Quasi sempresi dà per scontato che il potere di influenza e l’autorità della cri-tica abbiano seguito una parabola di decadenza. Queste consi-derazioni in realtà nascondono un’idealizzazione del passato.L’idea di un mondo in cui la critica giace inascoltata presuppo-ne l’esistenza, in un’altra epoca neppure tanto lontano dalla no-stra, di un mondo in cui le cose non erano così. Quando la cri-tica cinematografica è stata realmente influente? Di solito, se sidevono fare i nomi dei critici più temuti si ricade sempre suglistessi esempi: Pauline Kael (il critico del «New Yorker» daglianni Sessanta ai primi Novanta) nei confronti di qualche registadella New Hollywood, Giuseppe Marotta degli anni Sessantanei confronti del cinema italiano, le firme di Bosley Crowther eVincent Canby per i lettori del «New York Times». Pochi nomiappunto, quasi tutti appartenenti a un periodo compreso tra glianni Cinquanta e gli anni Settanta, tra la nascita del cinema mo-derno e gli ultimi fuochi del radicalismo teorico-politico: un gi-ro d’anni a cui ci si è riferiti con l’espressione «The Golden Ageof Movie Criticism» [Lopate 2006, IX]. Più che altro eccezionirispetto a una norma ben diversa. La verità è che la critica haesercitato qualche influenza in settori limitati della storia del ci-nema moderno, senza mai incidere in modo determinante sulledinamiche di consumo e di popolarità dei film. Nessun critico hamai avuto il potere di compromettere o cancellare un successopopolare, né viceversa di canonizzare, da solo, opere, correnti,autori (ogni canonizzazione di un testo, per definizione, richie-de la presenza di più variabili, a meno che il testo non sia Il Li-bro e il critico non sia Dio …).

Più di recente questi temi sono tornati al centro di un con-fronto che vede da una parte chi ha fiducia nei media elettroni-ci e nelle culture digitali come propulsori per lo sviluppo di for-me di influenza e di potere critico, dall’altra parte chi invece pro-fetizza la diffusione di un dilettantismo emergente dalle ceneridella “sprofessionalizzazione” della critica introdotta dal web (siveda il capitolo 5).

In terzo luogo ci si interroga sui criteri che organizzano lostatuto discorsivo. La critica è un insieme più o meno omogeneodi discorsi che si colloca all’interno di un più ampio contesto disaperi, prese di parola, generi letterari. Su questo piano è in que-

X Introduzione

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stione la natura della critica come parte del circuito dei discorsisociali. Che tipo di genere letterario è la critica cinematografica?Come si organizza al proprio interno? Come si relaziona al-l’esterno con altre forme di sapere? Rimandano a queste do-mande gli interventi che si sono interrogati sul problema dei pre-stiti intellettuali, sul rapporto tra la critica cinematografica e sa-peri “limitrofi”, come l’estetica, la filosofia, la sociologia del con-sumo, la semiotica, la psicanalisi ecc.

In quarto luogo, ci si interroga sui criteri di legittimità digiudizio, sul grado di oggettività/soggettività dell’enunciato va-lutativo. Quanto il momento di valutazione è intrinseco allacritica? Si può fare a meno della fase di giudizio e limitarsi alcommento-analisi del proprio oggetto? Ammesso pure che lapresenza del giudizio sia legittima in linea di principio, comerenderla in linea di fatto qualcosa di più di un capriccio dellasoggettività? A questo ambito di interrogazioni appartengonoi discorsi incentrati sul livello più o meno alto di impressioni-smo della critica cinematografica. In genere due sono le posi-zioni antitetiche più ricorrenti. Da una parte c’è chi affermache l’elemento del giudizio è l’aspetto più arbitrario dell’atti-vità critico-interpretativa e in certi casi è del tutto non perti-nente. Un esempio di questa posizione è l’articolo di Bruno giàcitato: nel momento in cui tutto il cinema contemporaneo fun-ziona come un oggetto concettuale, non ha senso esprimereenunciati del tipo «buona le recitazione» o «bella la fotogra-fia». Sul fronte opposto invece si colloca chi continua a riven-dicare un ruolo determinante per l’enunciato di gusto in ognitipo di discorso critico [Carroll 2009].

Il lavoro della critica

Da questi ambiti di riflessione soprattutto due idee sono pe-netrate nel senso comune: l’idea della critica come effetto di unapreparazione e di un gusto individuali (l’expertise del critico) el’idea della critica come forma di scrittura personale [Canova1990, id. 1992; De Marinis 1996]: un’idea che esprimeva ancheOscar Wilde quando diceva che la critica è l’unica forma de-cente di autobiografia. L’esercizio critico rimane per molti ap-passionati di cinema principalmente una sorta di meta naturale,

Introduzione XI

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di organizzazione spontanea dell’amore per il cinema. Come tut-te le attività che almeno potenzialmente consentono di concilia-re il soddisfacimento delle esigenze economiche con il piacerepersonale, è un mestiere meno elitario di un tempo ma ancoraambito e desiderato. Il critico (il critico cinematografico in mo-do non diverso dai suoi colleghi di altre arti o linguaggi) è con-siderato nello stereotipo comune un individuo che al rigore del-la preparazione, alla motivazione del giudizio giunge per via diuna capacità di esprimere il proprio gusto. È questo aspetto –che mescola un effetto di competenza con un effetto di espres-sione del sé – a rappresentare il dato più invitante dell’autoritàdella critica.

Per alcuni inoltre la critica non è altro che una forma di scrit-tura, un luogo in cui i saperi trovano un’organizzazione coeren-te data dallo stile di un singolo (il recensore di talento). Se riper-corriamo la produzione scritta dei maggiori critici in vari campi,dallo studio della cultura popolare alla letteratura e ancora al ci-nema e alle altre arti, attraverso nomi come quelli di Serge Daney,Jonathan Rosenbaum, Pauline Kael, Robert Warshow, RolandBarthes, Harold Bloom, Octavio Paz, George Stainer, ci trovia-mo di fronte a un paradosso: in alcuni casi si tratta di voci dota-te di saperi immensi, di erudizione pressoché sconfinata, ma ciòche fa lo stile pare essere l’uomo. Ciò che rende uniche, distinte,autorevoli, usurpatrici queste voci è l’abilità del bricoleur intel-lettuale, la capacità di conferire al sapere un aspetto nuovo, dicreare cortocircuiti tra differenti settori della conoscenza.

Ebbene, questa abilità è sotto gli occhi di tutti, è il dato piùsensibile del critico di talento. Si può ricostruire, forse imitare.Non insegnare. Dunque nel presente libro se ne parlerà pochis-simo, con la consapevolezza che si tratta di uno scacco di par-tenza: l’ingrediente essenziale nella scrittura critica è anche l’ele-mento più difficile da tramandare. Ciò peraltro non significa chenon si possa concentrare l’attenzione su aspetti altrettanto im-portanti. Significa soltanto che l’attenzione posta alle capacitàdel critico di talento, allo stile dei singoli recensori, rischia di fartrascurare quanto di sistematico, feriale, “routiniero” c’è nellacritica stessa. E si tratta di una parte essenziale dell’attività di in-terpretazione/giudizio.

Si tratta inoltre di qualcosa di cui la critica parla malvolen-tieri. I discorsi che i critici producono su se stessi, secondo le

XII Introduzione

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modalità appena elencate, hanno un valore storico e culturale: cidicono quali sono stati i problemi in agenda per le generazionidi interpreti che si sono avvicendate nella storia e ci illuminanosu quanto i singoli operatori, le correnti, le scuole critiche han-no espresso in termini di desideri, insoddisfazioni, spinte al cam-biamento. Tuttavia se vogliamo capire qualcosa di quel che fan-no i critici nel loro lavoro quotidiano non ci sono di grande aiu-to. Per questo motivo d’ora in poi non presteremo molta atten-zione a ciò che i critici dicono di se stessi: i processi di auto-rap-presentazione sono sempre parziali se non svianti. La critica ci-nematografica dice di fare cose che poi in concreto non fa. Dun-que cosa fa concretamente?

In questo libro

Nelle pagine seguenti non è offerto il metodo infallibile perdiventare critici autorevoli, né è tracciato l’identikit possibile delrecensore virtuoso. Piuttosto sono descritte le condizioni essen-ziali dalle quali può emergere il talento individuale, quell’insie-me di procedure che bene o male sono attive (magari accurata-mente dissimulate) anche presso le voci più anticonvenzionali edistinte. Nella tensione eterna tra establishment e sovversionepersino il critico più rivoluzionario conserva un granello di ciòche supera, è qualcuno con a disposizione un capitale (cioè unapadronanza di risorse collettive accumulate) che gli permette diaccedere al campo critico. Fare critica significa svolgere un me-stiere e quindi (anche ma non solo) rispettare protocolli e pro-cedure che persino gli atti più eversivi accettano o danno perscontati.

La prima parte del libro è composta da un profilo storico incinque capitoli. Un buon critico conosce la storia di cui fa par-te. La storia della critica è relativamente breve ma assai artico-lata. Si è offerta una breve panoramica dalla nascita dei discor-si critici nei primi vent’anni del Novecento fino al presente. Il fo-cus sulla storia della critica è limitato per forza di cose a un’ot-tica, diciamo così, continentale. In particolare a due paesi sonodedicati degli approfondimenti: il primo sulla nascita della cri-tica cinematografica moderna in Italia, tra la fine degli anni Tren-ta e gli anni Cinquanta; il secondo sulla nascita della critica ci-

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nematografica moderna a Parigi, tra anni Quaranta e Sessanta.Il capitolo 5 fa i conti con le trasformazioni che la cultura digi-tale ha prodotto sulla critica cinematografica negli ultimi die-ci/quindici anni.

Nella seconda parte del testo si trova una descrizione delleroutine interpretative, vale a dire delle operazioni che i criticicompiono in concreto quando interpretano e giudicano un film.Il capitolo 6 contiene la definizione dei problemi istituzionali le-gati all’esercizio critico. Nei capitoli successivi si dà una defini-zione della critica in termini di istituzione culturale e se ne indi-viduano le differenze rispetto ad altre aree del sapere (le scien-ze, le discipline). Seguendo le proposte di David Bordwell ven-gono scomposte e analizzate le tecniche di analisi, le routine in-terpretative dominanti nella pratica critica oggi. L’interpretazio-ne è sia descritta come un terreno sottoposto al dominio della re-torica e delle sue leggi sia analizzata come un’attività di problemsolving che coinvolge la costruzione di significati a vari livelli, lamobilitazione di tematiche e schemi cognitivi. Infine la storia e lostudio della critica sono inseriti nel più ampio campo discipli-nare degli studi di ricezione.

XIV Introduzione

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Prima parteLa critica cinematograficadagli inizi del Novecento a oggi

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Capitolo 1

Dagli anni Dieci alla Seconda Guerra Mondiale

1.1 In Italia …

La critica cinematografica delle origini è un continente ingran parte inesplorato. La stampa specializzata di tipo corpo-rativo-professionale vede la luce relativamente tardi rispettoalla data ufficiale di nascita del cinematografo. Per i primi die-ci anni circa del Novecento la produzione discorsiva che haper argomento il cinema (un mezzo di intrattenimento anco-ra senza una legittimità estetica) è legata alla promozione del-le trame dei film, alla pubblicità di novità tecniche per gli ad-detti ai lavori, quindi a una diffusione di giornali, gazzette,bollettini tecnici portatori di saperi specializzati tutto som-mato irrilevanti in prospettiva della diffusione di valori criticicondivisi.

Nei primi vent’anni d’esistenza il cinema è sulla bocca di mol-ti. I discorsi che lo riguardano, prima ancora di porre una que-stione di definizione, pongono una questione di collocamento:dove posizionare il cinema? Sul versante del fenomeno di co-stume? Sul versante della scoperta scientifica o su quello delmondo artistico-letterario? Oltre a funzionari ministeriali, me-dici e criminologi troviamo, in un clima influenzato dal positivi-smo di fine Ottocento, psico-fisiologi, neuropsichiatri e psico-logi, per i quali è di qualche interesse il legame tra il nuovo me-dium, il suo luogo principale di visione (la sala) e lo studio del-la materia e dell’energia psichica. L’esperienza cinematograficaappare come un’occasione che produce distrazione ed effettiquasi allucinogeni, che stimola i sensi, colpisce la coscienza, in-nesca processi già attivi nella mente dei nevrotici (come la con-fusione tra apparenza e realtà): una sorta di macchina temibile,con un carattere contagioso.

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La sala viene considerata un ambiente capace di produrre ef-fetti significativi sui modi di aggregazione degli spettatori e sul-le dinamiche sociali alimentate dagli individui. La «folla di po-tenti sconosciuti» [Papini 1907, citato in Grignaffini 1989, 23]al cinema diventa visibile. Il cinema crea nuovi comportamentie modalità relazionali, plasma soggetti collettivi indebolendo lebarriere di classe e ceto, o su scala più ampia, di nazionalità orazza. La sala diventa il luogo in cui si osserva il pubblico nellasua accidentalità di comportamento (al pubblico è consentitauna certa libertà di movimento), ma anche nella sua dinamicadi varietà/coesione. In alcuni casi la presa sulle masse è ricon-dotta al potenziale illusionistico/rappresentativo di un nuovolinguaggio e, di conseguenza, al fattore estetico del medium (in-tensificazione dell’esperienza sensoriale). Per altri contano le pe-culiarità economiche. Il cinema garantisce in sostanza un’espe-rienza di visione il cui linguaggio presenta potenzialità espressi-ve notevoli e richiede alla fruizione un minimo sforzo sia eco-nomico sia di tempo ed energie psichiche (il cinema impegna inconcreto solo la vista: quindi produce in modo automatico un ri-sparmio e una gerarchizzazione delle energie impiegate) [Papi-ni 1907].

Si segnala nel biennio 1907-1908 una «soglia iniziale di unapratica discorsiva» [Boschi 1998, 27] con la fondazione di alcu-ne riviste di cinema («La lanterna», «Cafè Chantant», «La rivi-sta fono-cinematografica») e i primi articoli di Giovanni Papinie Sebastiano Arturo Luciani. A parte questi due casi e pochi al-tri, in questa fase si risente ancora del disinteresse del mondodella cultura umanistica per il cinematografo. Un disinteressedovuto in gran parte all’influenza dell’estetica di Benedetto Cro-ce. La vulgata crociana privilegia il sentimento del soggetto crea-tore e l’intuizione lirica rispetto alla tecnica. Quindi porta a unatteggiamento di sospetto preventivo nei confronti del cinema,arte meccanica per eccellenza. AMilano, a Napoli, su riviste co-me «La rivista fono-cinematografica», «La lanterna», «Il cine-matografo», prevale l’interesse per gli aspetto scientifici del me-dium. Non vengono ancora poste questioni relative alle poten-zialità espressive del nuovo mezzo, né al suo possibile statuto ar-tistico. Solo alcuni intellettuali si muovono in controtendenza.Tra questi uno dei più tempestivi è appunto Papini che su «Lastampa» instaura un parallelo tra cinema e vita moderna cele-

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brando il cinematografo come superiore al teatro per la sua pos-sibilità di registrare e riprodurre grandi eventi appena avvenuti[Papini 1907].

Le istanze che dominano in questo periodo sono essenzial-mente tre: una necessità di nobilitare il nuovo mezzo portando-lo verso le classi più abbienti, con la conseguente promozione diun cinema di derivazione letteraria in grado di attirare un pub-blico provvisto di un minimo capitale culturale; la volontà di le-gare la modernità tecnologica del medium al clima di celebra-zione della tecnica tipico, per esempio, dell’avanguardia futuri-sta (non a caso molti sostenitori del cinematografo sono legati alfuturismo o influenzati direttamente da Filippo Tommaso Ma-rinetti); il progetto di trovare una via cinematografica al reali-smo: in questo caso, più che sulla sperimentazione fantastica, siinsiste sul potere di riproduzione del vero, di adesione alla veri-tà storica che il cinema può garantire.

Alla funzione sociale del cinema (in chiave realista) si dimostravicina la pubblicazione «Lux», di Gustavo Lombardo. L’aumen-to della durata dei film, la nascita di un sistema narrativo sono fat-tori determinanti nello spostare l’attenzione sui problemi espres-sivi. Nel 1910 nasce «Vita cinematografica», una delle testate piùimportanti del periodo del muto (che si prolunga fino al 1934).Il problema estetico si affaccia anche su altre testate in concomi-tanza con la nascita di rubriche stabili sul cinema. Un’apposita ru-brica è creata su «La gazzetta del popolo» già dal 1908, altri quo-tidiani imitano l’esempio e chiedono agli intellettuali di farsi ca-rico delle recensioni. Nasce la tradizione di affidare ai letterati lerubriche cinematografiche. Matilde Serao interviene con regola-rità sulle pagine dei giornali partenopei e così fanno altri suoi col-leghi. Le voci sono a favore o contro. Gli interventi di condannae sospetto non mancano. Ma il fronte opposto si infoltisce: Lui-gi Capuana, Grazia Deledda, NinoOxilia si dichiarano favorevolial nuovo mezzo. Convinti della superiorità del cinematografo (ri-spetto alle arti ottocentesche e soprattutto al teatro) rimangonoPrezzolini e Marinetti, per giungere alla consacrazione del nuo-vo mezzo da parte di D’Annunzio, nel 1914.

Per quanto Ricciotto Canudo sia considerato il primo teori-co delle origini che concepisce in modo sistematico il cinema co-me arte, al suo pensiero non sfuggono anche gli aspetti medio-logici del mezzo. In Canudo il processo di estetizzazione del me-

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dium si incrocia con un analogo processo di estetizzazione degliaspetti cinetici della vita moderna, inaugurando una delle tanteversioni di quel movimento di generale trascrizione delle cate-gorie estetiche nel campo della vita quotidiana e della sfera me-diale che avrà importanti sviluppi nella storia della società dellacomunicazione novecentesca (dalle avanguardie fino ai proces-si più vicini alla nostra epoca descritti, tra gli altri, da GianniVattimo [Vattimo 1989]). Canudo pensa che il cinematograforesti un’arte nella sua essenza e un divertimento fotografico nel-la maggior parte delle sue applicazioni. Egli descrive, più cheun’estetica cinematografica, i modi attraverso i quali il cinemapuò aderire ai precetti di un’estetica generale delle arti moderne.Il criterio che guida la valutazione del cinema in termini tantoentusiastici è una delle categorie estetiche più consolidate, quel-la della totalità: il cinema sarà la settima arte perché saprà co-gliere per evocazione, far vibrare il tutto nel frammento. C’è unnesso strettissimo tra la meccanica del mondo restituita dal ci-nematografo e la capacità di sintesi evocatrice, cioè di implicarela «vita totale», «lo slancio dell’individuo verso l’universale»[Canudo 1966, 268].

A questo punto la questione dell’artisticità del cinema è po-sta. Ci si interroga anche sullo statuto dell’autore cinematogra-fico, cioè sulla figura che istituzionalmente può essere ritenutaresponsabile del risultato estetico. Per un po’ di tempo, in Italiacome in altri paesi, autore del film sarà un titolo attribuibile a di-verse figure professionali: lo scrittore da cui deriva l’opera (e chemagari ha collaborato alla realizzazione cinematografica), op-pure il direttore di scena [Pescatore 1999].

Grazie agli interventi di Sebastiano Arturo Luciani vengonoaffrontati i problemi specifici del linguaggio cinematografico(ritmo, montaggio, illuminazione) e i legami con le altre arti [Lu-ciani 1920, 1928]. Il cinema, mediante questo confronto serra-to (al quale è stato dato il nome di paradigma comparativo [Bo-schi 1998] e che è tipico delle teorie cinematografiche classiche)entra di fatto nel contesto estetico-culturale dell’epoca. Una si-mile constatazione però non deve fare dimenticare che la criti-ca cinematografica per la maggior parte dei casi è del tuttosprovveduta. Nella pratica corrente di recensione domina l’im-pressionismo più assoluto, l’occhio del recensore è disattento a

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ogni elemento tecnico ed espressivo specifico. Se quindi la ri-flessione teorica non è povera di contributi, la pratica analiticae recensoria rimane legata a moduli retorici e concettuali inade-guati [Pellizzari 1999].

Il biennio 1912-’13 è anche ricordato come il periodo in cuisi comincia a discutere in modo frequente del problema del-l’autore. È indubbio che a cavallo dei primi dieci anni del seco-lo alcuni fattori producono il progressivo collocamento del ci-nema nell’ambito degli interessi umanistici. Come abbiamo det-to, gli elementi all’origine del fenomeno sono diversi: un mo-dello produttivo che sull’esempio dell’operazione «film d’arte»punta a divulgare il patrimonio letterario e figurativo della tra-dizione, l’attività delle riviste specializzate (nel 1910 nasce a To-rino «Vita cinematografica»), gli intellettuali e il loro rapportocon lo schermo. A riguardo di questo ultimo punto, oltre agliatteggiamenti diversi che due personalità come Gabriele D’An-nunzio e Luigi Pirandello hanno verso il cinema, va ricordato ildibattito suscitato presso l’intellighenzia letteraria da singolifilm. La prima manifestazione di potenza culturale della nuovaforma di spettacolo è di tre anni precedente a Cabiria. Si trattade l’Inferno (1911) prodotto dalla Milano Film. La pellicola tra-duce sullo schermo l’iconografia delle illustrazioni di Gustav Do-ré realizzate per la Commedia dantesca. L’incontro tra cinema epittura non sfugge agli intellettuali presenti alla prima napoleta-na, come Roberto Bracco, Benedetto Croce e Matilde Serao. AParigi, Ricciotto Canuto presenta la pellicola all’École des Hau-tes Etudes Sociales della Sorbona. Da qui è un susseguirsi diadattamenti cinematografici di testi letterari di successo. Mentresul piano teorico fioriscono i primi studi che cercano di defini-re uno specifico cinematografico proprio in relazione alle artimaggiori (musica, teatro, letteratura, pittura), i letterati vengonoattratti dal mondo del cinema per motivi assai prosaici. Da Ni-no Oxilia a Verga, da Trampolini a Gozzano, da Pirandello aD’Annunzio, le collaborazioni cinematografiche degli scrittorisono soprattutto un segno del potere di seduzione economicache il nuovo mezzo riesce a esprimere. C’è chi cede semplice-mente i diritti delle proprie opere. C’è chi incarica scrittori-om-bra di adattare i testi letterari per lo schermo, chi invece scrivein prima persona. Qualcuno se ne vergogna (Verga). Qualcun

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altro lo ammette senza rimpianto (Gozzano). È D’Annunzio co-lui che espone maggiormente il proprio nome nel processo dinobilitazione culturale: «Quando firma il contratto con Pastro-ne per le didascalie di Cabiria, D’Annunzio, con una sola mos-sa, si assume la piena paternità di un’opera non sua, si offre, di-remmo oggi, come testimonial della qualità del prodotto e gliconferisce un marchio di legittimità artistica […] che modificain modo decisivo i rapporti tra cinema e letteratura» [Brunetta2004, 62].

Matilde Serao è vicina alle idee di D’Annunzio sul cinema-tografo. Amica intima di Eleonora Duse (colei che si era espo-sta ai fischi del pubblico per difendere sulle scene un altro idea-le dannunziano, quello teatrale), giornalista di successo e scrit-trice affermata presso la borghesia partenopea (e non solo: nel1926, un anno prima della morte, concorre al Nobel perdendo-lo a vantaggio di Grazia Deledda), scrive di Cabiria proprio at-traverso l’argomento del valore artistico. La pellicola le appareuna «possente istoria di passione» che allarga l’esperienza per-cettiva dello spettacolo comune, che produce una sintesi liricaimplicitamente vicina ai canoni estetici difesi dallo stesso D’An-nunzio e ispirati al concetto di opera d’arte totale teorizzato daWagner. Cabiria è un film che, nelle parole della scrittrice, puòconquistare lo spettatore digiuno di cinema, come pure non la-scerà indifferente colui che conosce il linguaggio cinematografi-co ed è in grado di apprezzare il progresso tecnico che nel filmviene esibito [Serao 1914].

1.2… e in Francia

In Francia, un esempio della tendenza a considerare il cine-ma come luogo di riflessione estetico-teorica è il numero doppio(16/17) della rivista «Les Cahiers du Mois», nel 1925. Siamo inun periodo di fervida attività culturale, a Parigi. Mostre, confe-renze, dibattiti si susseguono. È l’anno della Exposition Inter-nationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes. Nel mon-do del cinematografo i confini tra ruoli professionali sono labi-li: «Teorici e cineasti spesso coincidono (Germane Dulac, JeanEpstein, Marcel L’Herbier, René Clair…), altre volte sono i cri-tici cinematografici che diventeranno storici del cinema (Léon

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Moussignac, Georges Charensol, il giovane Jean Mitry…) op-pure sono scrittori, scienziati, filosofi» [Canosa 2001]. All’in-terno della rivista prevalgono interventi di carattere generale,nei quali circolano nozioni teoriche note all’epoca. Si parla di«settima arte», «decima musa», «fotogenia» e «cinegrafia». Cisi interroga su questioni di poetica, sul rapporto tra pensieromoderno e il cinema consultando intellettuali e artisti di presti-gio a vario grado già “compromessi” con il nuovo mezzo (Al-berto Cavalcanti, Fernand Léger, Robert Mallet-Stevens, JeanCocteau, Robert Desnos).

Già a partire dal 1914 la stampa cinematografica specializ-zata si espande in modo energico (tanto che si parla di una pri-ma epoca d’oro delle riviste di cinema). «Le Film», «La Scèneet l’écran», «L’Ecran», «Hebdo-Film», «L’Argus di cinéma»,«Le Cinéopse», «Cinema-spectacle», «Ciné pour tous», «Scé-nario», «La Cinématographie française»: sono queste solo al-cune riviste del periodo dedicate al commento e alla critica deifilm [Ciment, Zimmer 1997]. Se i primi entusiasti sostenitoridella settima arte non potevano essere considerati critici cine-matografici in senso stretto (in quanto erano soprattutto teori-ci o artisti), il ruolo di critico invece è appropriato per LouisDelluc [Delluc 1985]. Regista in proprio di non eccezionalesuccesso, giovanissimo critico teatrale, Delluc incontra il cine-ma già nella prima parte degli anni Dieci. Come per altri suoicontemporanei l’incontro prende forma di folgorazione allaprima parigina di I prevaricatori, un film di Cecil B. DeMille del1915. Le sue riflessioni più celebri riguardano il concetto di«fotogenia» e il ruolo dell’attore cinematografico. Eppure Del-luc non si considerava un teorico quanto piuttosto un anima-tore culturale tempestivo e prolifico. Sono molte le pubblica-zioni da lui fondate o alle quali collaborava: «Paris-Midi»,«Bonsoir», «Le Film», «Le Journal du Ciné-club», «Cinéa»,solo per ricordare le principali. La prosa mette in luce un ap-proccio ai singoli film che già contiene le caratteristiche poi at-tive nella critica cinematografica moderna del secondo dopo-guerra: la predilezione per il cinema americano (Chaplin, Grif-fith) bilanciata da un’attenzione a tutto campo per le retro-spettive e per i generi minori come il documentario, l’indipen-denza di giudizio aliena dalle tentazioni della promozione com-merciale, l’enunciazione chiara di un gusto individuale, l’ironia

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e l’agilità di scrittura, la pratica di affiancare all’analisi dei sin-goli film l’esercizio di promozione culturale (Delluc inventatermini ora entrati nel gergo comune come «cineclub», «ci-neasta», e si prodiga per la diffusione del cinema di qualitàstraniero, per esempio con il lancio di Il gabinetto del dottorCaligari).

Delluc non è il solo a gettare le basi per una critica cinema-tografica adulta. Egli si trova in compagnia di scrittori (Apolli-naire, Colette, Aragon) e di altri specialisti (René Jeanne, EmileVuillermoz). Nel corso della seconda parte degli anni Venti l’in-teresse per il cinema monta su più fronti. Da un lato si assiste alcrescere della saggistica, con una suddivisione in sottogeneri chediventerà poi tradizionale: storie del cinema, monografie d’au-tore, saggi teorici ecc. Nel 1922 esce L’Arbre d’Eden di Elie Fau-re. Poco dopo le pubblicazioni di Léon Moussignac (Naissancedu cinéma, 1925; Le cinéma soviétique, 1928) mescolano un’im-postazione marxista con la celebrazione della scuola sovietica ela divulgazione delle teorie di Canudo. Polymnie di Jean Prévoste Charlie Chaplin di Henry Poulaille mantengono vivo l’interes-se per la recitazione, la mimica e l’arte dell’attore.

Su un altro versante continua l’espansione del mercato edi-toriale legato alle riviste specializzate. Certe pubblicazioni han-no vita breve, altre resistono più a lungo. Nel complesso il nu-mero delle proposte si aggira intorno alle cinquanta unità solonella prima parte del decennio. Un posto particolare è occupa-to dalla prima serie di «La Revue du cinéma». Diretta e fonda-ta da Jean George Auriol nel 1928, ha vita breve ma contribui-sce a elevare gli standard critici dell’epoca. Auriol promuove unintervento culturale in grado di superare l’approccio program-maticamente celebrativo della generazione precedente (Delluc,Canudo) verso un’impostazione più empirica, legata alla letturadei singoli film e a una visone del cinema come esperienza dipassione quotidiana. La rivista dà per scontata la necessità ditrattare il cinema con lo stesso grado di serietà del teatro, maconcede spazio al culto popolare per le star (Dietrich, Garbo)come pure dedica, non senza vezzo, alcune pagine a generi som-mersi come i film medici e di esplorazione.

Nel corso degli anni Trenta, in sintonia con gli eventi storiciche investono il continente europeo, il clima politico e socialedel paese cambia, anche se il cinema continua a occupare un po-

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sto privilegiato nella cultura parigina. In genere questo decennioè messo in ombra dai clamori della prima generazione di inter-venti (Delluc, Epstein ecc.) e dai successi della generazione del-l’immediato dopoguerra (Bazin, Sadoul, Astruc, Agel). Il dibat-tito sul cinema, prima di politicizzarsi verso la fine degli anniTrenta come quasi ogni aspetto della vita culturale nazionale, siorganizza intorno ad alcune querelle, tra le quali le più impor-tanti riguardano il passaggio al sonoro e la presenza di mae-stranze straniere (soprattutto tedesche) nel mondo del cinemafrancese. Gli schieramenti critici rispecchiano gli schieramentipolitici. Da una parte e dall’altra emergono i nomi di recensoridestinati a diventare maestri della generazione successiva. I luo-ghi in cui si pensa e commenta il cinema sono sempre più le ri-viste specializzate o le pubblicazioni di cultura generale. A sini-stra si collocano Pierre Bost e George Sadoul. Su «Esprit» Ro-ger Leenhardt e Valery Jahier riservano attenzioni particolari al-la cinematografia americana, aprendo così la strada alla colla-borazione di Bazin. A destra si trovano intellettuali ascoltati einfluenti. Lucien Rebatet (che si firma con lo pseudonimo diFrançois Vinneuil), apprezzato musicologo, voce indipendente(caratteristiche che non possono fare dimenticare, malgrado l’in-dulgenza post-bellica di Truffaut, la sua attività pamphlettisticaradicalmente xenofoba e antisemita), si esercita sulle colonne di«Action française» e «Je suis partout» [Rebatet 2009]. Sulla «Re-vue universelle» Robert Brasillach tiene una doppia rubrica (ci-nematografica e teatrale) nella quale confluiscono articoli sullacommedia americana, Cukor, Ford, Wyler, a cui, sempre Truf-faut, guarderà come modello. Autorevole è pure Alexandre Ar-noux che scrive su «Les Nouvelles littéraires», rivista per il pub-blico colto e adatta ad accogliere la finezza di scrittura di Ar-noux, il quale ha modo di esercitarsi pure su «Pour Vous», pub-blicazione specializzata, pensata per il grande pubblico (con unatiratura che raggiunge anche le 80.000 copie), molto curata nel-le illustrazioni e nella veste grafica.

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Capitolo 2

Primo approfondimento: il secondo dopoguerrae la nascita della critica moderna in Francia

2.1 Tra anni Quaranta e Cinquanta

Nel dopoguerra il cinema riconquista rapidamente il centrodella scena culturale nazionale francese, come testimoniano l’in-vestimento dello Stato nella diffusione della cultura cinemato-grafica e un generale clima in cui il cinema è al centro degli in-teressi di filosofi, intellettuali, letterati. Il periodo è propizio e ilboom editoriale delle riviste lo conferma: il terreno è reso anco-ra più favorevole dal successo di tirature ottenuto dalle pubbli-cazioni clandestine, dal lavoro dei cine-club e dalla pubblica-zione delle riviste più importanti dell’immediato dopoguerra. A«L’Ecran Français» (nato come supplemento a «Les LettresFrançaises» nel 1943) si aggiungono, nel corso del solo 1946,«Télé-Ciné», «Image et Son», la seconda serie della «Revue duCinéma», e a breve distanza, «Cahiers du Cinema» (1951) e «Po-sitif» (1952).Per rappresentare un punto di congiungimento tra la gene-

razione cinefila degli anni Venti e quella del dopoguerra JeanGeorge Auriol, nell’ottobre del 1946, rianima «La Revue du ci-néma». La rivista uscirà fino al 1948 e farà in tempo a pubblica-re uno dei primi dossier su Hitchcock aprendo la strada alle ce-lebrazioni che avrebbero investito il regista inglese di lì a pochimesi. Sono soprattutto Alexandre Astruc e André Bazin a favo-rire il cambiamento delle categorie critiche post-belliche.Astruc è l’autore di una trentina di articoli influenti all’epo-

ca all’interno del dibattito sul realismo, e viene ricordato so-prattutto per la definizione della caméra-stylo: il cinema è un lin-guaggio attraverso il quale l’artista può esprimere pensieri e os-sessioni servendosi della macchina da presa esattamente comeun saggista o un romanziere fa con la penna [Astruc 1948, ora

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in Grignaffini 1984]. Il cinema viene associato, per la prima vol-ta in modo così esplicito, alla libera espressione individuale.Bazin scrive per «Esprit», «Le tempes Modernes» e «La re-

vue du Cinéma». Pensatore al centro della ricerca storico-teori-ca ancora oggi [Andrew 2011], critico del quale non si sono stu-diati a fondo tutti gli scritti (oltre ai saggi sono stati catalogati eattendono analisi sistematiche circa duemilaseicento articoli),Bazin partecipa al dibattito teorico mettendo a punto distinguotra diverse forme di realismo (tecnico, ontologico, psicologico).È un operatore culturale impegnato nell’attività dei cine-club (laprogrammazione di Objectif 49) e nella diffusione di film o in-tere cinematografie (come avviene con il neorealismo italiano,attraverso gli articoli sulla «scuola della liberazione» [Bazin1973] e la presentazione parigina di Roma città aperta). Inoltreè un critico che riflette sul ruolo stesso della critica e che, assie-me ad Astruc, promuove il concetto di nuova avanguardia: su-perando la concezione elitaria alla base delle avanguardie stori-che, egli individua nel cinema uno strumento la cui estetica è apriori destinata al grande pubblico. Bazin, assieme a Jacques Do-niol-Valcroze, non crede che un regista d’avanguardia sia qual-cuno che fa parte di un piccolo movimento distinto e aristocra-tico ma chiunque riesca a evidenziare le potenzialità estetichedel mezzo. Così sono d’avanguardia i film di Méliès, PrestonSturges, Wyler, Renoir, indipendentemente da quanto i singoliautori abbiano desiderato raggiungere o evitare il successo com-merciale.Nella cultura cinematografica post-bellica Bazin si colloca tra

spinte al rinnovamento delle categorie critiche, teorizzazioni sulrealismo e apporto fenomenologico all’interpretazione dell’im-magine (egli è più influenzato da André Malraux, Maurice Mer-leau-Ponty e Jean-Paul Sartre che dai critici-teorici degli anniVenti come Delluc o Léon Moussinac). È utile però ricordareanche le novità introdotte sul piano della scrittura e del ragio-namento critico. Lo stile baziniano introduce scarti rispetto allaforme giornalistiche consolidate. Analizzando la recensione diBazin su Alba Tragica, Jacques Aumont e Michel Marie notanoche «la prima caratteristica della scheda […] è la sua lunghezza,piuttosto inconsueta: una buona ventina di pagine. La secondaè la libertà dell’autore in relazione allo schema di rito» [Aumont,Marie 1996, 37-38]. Bazin opera attraverso una ricorrente stra-

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tegia d’analisi. La lettura del contenuto è superata a favore diuno sguardo attento agli aspetti tecnici del linguaggio, i quali aloro volta sono riportati a una concezione estetica generale. L’at-tenzione ai parametri tecnico-formali (piano sequenza, montag-gio, profondità di campo) non scade mai in formalismo di su-perficie (accusa che pure fu mossa all’epoca e che al limite avreb-be un fondamento di maggiore verità se riferita ad Astruc). Latecnica rimanda sempre a una metafisica, all’uomo che se ne faespressione. Per quanto i suoi assunti teorici possano essere di-scussi, le capacità di interpretazione di Bazin, il formidabile in-tuito per i particolari e per i loro significati meno evidenti (sitratti dei baffetti di Charlot, di un gesto, o di un’espressione mi-nima di un attore) hanno pochi eguali tra le voci del tempo e percerti versi anticipano un rapporto con il cinema classico di tipomodernista che comincerà a diffondersi solo negli anni Sessan-ta con la maturazione del cinema moderno.Auriol aveva il desiderio di riprendere l’esperienza della «Re-

vue du Cinéma» con una nuova rivista. La sua morte accidenta-le nel 1950 spinge Bazin, Jacques Doniol-Valcroze, Joseph-Ma-rie Lo Duca a fondare i «Cahiers du cinéma». Il primo numero,con copertina gialla che richiama la «Revue» e foto di Viale delTramonto, esce il primo di aprile del 1951. I «Cahiers» del pri-mo periodo dimostrano un eclettismo in seguito abbandonato.Nella prima fase la rivista difende il cinema americano, quellofrancese (Bresson, ma anche Carné e Autant-Lara) come quellostaliniano (malgrado Bazin si fosse attirato l’epiteto di «liberaleborghese» da parte della critica comunista di «Les Lettres Fran-çaises» e «l’Humanitè» a causa di Il mito di Stalin nel cinema so-vietico, un articolo pubblicato nel 1950 in cui venivano smonta-ti il linguaggio e la messa in scena del dittatore sovietico nel ci-nema di propaganda [ora in Bazin 1973]). Tra il 1953 e il 1956una lotta interna alla redazione contrappone la vecchia guardia(Bazin, Doniol-Valcroze, Pierre Kast, Joseph-Marie Lo Duca) aigiovani collaboratori della corrente hitchcock-hawksiana (Roh-mer, Rivette, Godard e Truffaut). Con il consolidamento del po-tere dei giovani lo spirito polemico e le intransigenze di gusto sifanno più acuti e la necessità di rottura nei confronti della criti-ca tradizionale riverbera fuori dall’ambiente ristretto dei «Ca-hiers». È nata la politique des auteurs.

Primo approfondimento 15

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2.2 La politique des auteurs

Atto di nascita della politica degli autori è considerato l’arti-colo di Truffaut Alì Babà e la “politica degli autori” [Truffaut1955]. Siamo nel febbraio del 1955. Ma una politica non si puòfare da soli e la politica degli autori non è stata una vera e pro-pria rivoluzione in quanto ha sempre presupposto un buon gra-do di continuità con il passato [De Vincenti 1980, Grignaffini1984, Costa 1995, De Baecque 1993].Il carattere collettivo del fenomeno appare chiaro. La politi-

que è espressione dell’ala oltranzista della redazione dei «Cahiers»,composta quasi esclusivamente da futuri registi (Truffaut, Go-dard, Rivette, Rohmer) formatisi nella cultura cinefila e nei suoiluoghi più istituzionali (i cineclub del quartiere latino di Parigi, laCinémathèque, la «Gazzette du cinéma»). Quasi tutte le idee pro-mulgate da questi giovani sono sedimentate nel corso di un pe-riodo compreso tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni deldecennio successivo: dalle pagine della «Gazzette» viene la no-zione di messa in scena, così come prende avvio l’operazione dirivalutazione di Hitchcock; gli aspetti più teorici e la centralità deivalori religiosi trasformati in mezzi di valutazione e interpretazio-ne derivano da Bazin; l’idea della macchina da presa come stru-mento della libera espressione del sé discende da Astruc; da Ro-ger Leenhardt è ereditata la possibilità di stabilire classifiche digradimento tra registi fino a quel momento ritenuti non degni diparticolare interesse comeWilliamWyler o John Ford.La novità della politique sta nel tono inedito dato alla di-

scussione, nello spirito iconoclasta, nell’attacco a un nemico cheviene identificato con più precisione rispetto al passato. I giova-ni turchi (così venivano chiamati i collaboratori più combattividei «Cahiers») non sono disposti a farsi trattare dai critici dellagenerazione precedente con l’accondiscendenza generalmenteriservata agli scolari freschi di letture e visioni sbagliate. In unaparola: l’elemento di novità è proprio la politica stessa, la con-cezione della critica come luogo di usurpazione del potere di in-fluenza sul mondo del cinema, spazio dove sono necessarie li-bertà di giudizio e assoluta sincerità. Dove intransigenza e as-senza di diplomazia sono la regola.Innanzitutto bisogna sgomberare il campo da un possibile

equivoco: la politique non ha mai sostenuto la tesi della promo-

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zione generica del cinema d’autore. Ciò era già stato fatto dai cri-tici che, richiamandosi alle categorie della critica d’arte e lettera-ria, avevanomutuato proprio da queste la nozione di autore-crea-tore dell’opera [Costa 1995]. L’aspetto specifico della politique èdi avere applicato la categoria di autore a terreni inediti, in luo-ghi nei quali fino a quel punto si era voluto vedere solo mercato,industria, mestiere. Così, quei film che poco prima erano consi-derati prodotti di equipe, oggetti privi di reali tratti distintivi, se-gni di standardizzazione produttiva, diventano manifestazionedel talento individuale. Non si deve dimenticare che in un’altratradizione culturale (la sociologia critica francofortese) TheodorAdorno eMaxHorkheimer avevano appena finito di liquidare al-la stregua di differenti modelli di giardinette Ford fatte in serie al-cune delle commedie americane oggi considerate dalla storia edalla critica del cinema tra le migliori degli anni Trenta e Qua-ranta [Adorno, Horkheimer 1966]. Se oggi, contro il giudizio diAdorno, studiamo quei film nelle università di tutto il mondo, losi deve anche all’apprezzamento promosso con vigore propriodalla politica degli autori. In una Francia fieramente nazionalistae arroccata nella difesa della qualità del cinema francese (altropilastro della tradizione che la politique aveva cominciato a sbri-ciolare), il cinema americano è il luogo principale dello scanda-lo. Ma i registi americani non sono l’unico oggetto d’amore. Al-tri europei sono al centro del dibattito: Rossellini, Bresson, so-pra tutti Renoir. E anche Jacques Becker.Alì Babà e “la politica degli autori” è un articolo nel quale

Truffaut prende le difese di un film minore di Becker e così fa-cendo espone le caratteristiche principali della politique. Questecaratteristiche sono state descritte da Antoine De Baecque [DeBaecque 1993 e 2003] e si possono riassumere in tre punti:

1. Il volontarismo dell’amore. Truffaut scrive: «Alla prima vi-sione, Alì Babà mi ha deluso, alla seconda annoiato, alla terzaappassionato e rapito. Lo vedrò ancora, senz’altro, ma so percerto che, superato vittoriosamente lo scoglio insidioso della ci-fra tre, ogni film prende il suo posto nel mio museo privato, mol-to ristretto» [Truffaut 1955, ora in La politica degli autori 2003,29]. È in gioco un rituale che prevede la visione ripetuta e l’in-timità con il film da amare. Si badi bene: «da amare», non sem-plicemente «amato». La politique richiede che si segua una pro-

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cedura: più visioni dello stesso film a distanza ravvicinata, pros-semica vincolante rispetto allo schermo (i giovani turchi si strin-gevano sempre nelle prime quattro file dei cineclub), discussio-ne a fine proiezione. La procedura risponde a un imperativo:non bisogna semplicemente provare piacere e amore per certifilm, bisogna farseli piacere. Sempre Truffaut aveva affermato:bisogna amare Fritz Lang. Se in un film cogliamo i segni indele-bili dell’autore, bisognerà difenderlo in ogni caso: «[…] prefe-risco schierarmi con Astruc, Rivette e tutti quanti amano senzadistinzione tutti i film diWelles perché sono film diWelles e nonassomigliano a nessun altro, per questo “stile Welles” che si tro-va in tutti i suoi film, siano essi lussuosi o poveri, girati rapida-mente o lentamente» [De Baecque 1993, 101].Anche di fronte ad Alì Babà, un film di cassetta con Fer-

nandel, trascurato dalla critica, Truffaut ammette il proprio im-barazzo ma confessa che, anche se non gli fosse piaciuto, loavrebbe difeso in nome della politique. Poi, in soccorso del cri-tico è arrivato il rituale: le visioni multiple hanno portato lospettatore a farsi piacere il film. Il piacere funziona, in un mec-canismo circolare, da prova della validità della politique stessa.Si tratta di «una cifra magica: la politica degli autori darà incambio, a chi si sottometterà ai suoi rituali, la scoperta dello sti-le di un autore, non tanto là dove il segno dell’autore è eviden-te, ma là dove solo a pochi è dato vederlo, nell’opera minore,occasionale» [Costa 1995, 82].

2. Il dovere di seguire l’opera nel suo farsi. La necessità di ama-re l’opera di un regista si collega al fatto che l’oggetto da amarenon è il singolo film, il testo nella sua unicità puntuale. Scriveancora Truffaut a proposito di Grisbì di Jacques Becker «[…]abbiamo scoperto il cinema quando Becker vi debuttava, ab-biamo assistito ai suoi brancolamenti, ai suoi tentativi: abbiamovisto un’opera farsi» [De Baecque 1993, 98-99]. Ciò che va giu-dicato e analizzato è un’entità che quantitativamente sfugge al-la dimensione dell’opera presa in se stessa. L’apprezzamentoestetico si deve rivolgere a qualcosa che è sempre più piccolo opiù grande del “film esemplare”. Più piccolo, perché i critici del-la politique non difendono la nozione di capolavoro (anzi, ne han-no orrore), né le categorie estetiche che ne rendono possibile ilriconoscimento nella tradizione (coerenza dell’insieme, perfetta

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riuscita rispetto alle intenzioni, “nobiltà” dei contenuti ecc.) malo scarto, il particolare secondario nell’opera maggiore, oppurele opere meno riuscite di una autore amato, la capacità del sa-crificio e del fallimento in nome di un’ossessione. Più grande,perché accanto all’elogio dell’imperfezione si trova l’idea chenon è il singolo film a contare ma il corpus delle opere. O permeglio dire, l’opera è un insieme di testi, unwork in progress cheguadagna una dimensione intertestuale, che si costituisce nel-l’accumulo di occorrenze legate tra loro dal fatto di essere ri-portabili a una sola fonte creativa (l’autore appunto). Infatti ciòche garantisce per l’integrità del corpus, della sua rilevanza com-plessiva, è ovviamente l’autore stesso.Quando entriamo nella produzione d’autore cambiano le re-

gole della creazione. L’enunciato «non esistono opere, ci sonosolo autori» ha come corollario «la negazione dell’assioma caroai nostri predecessori secondo il quale succede ai film quello chesuccede alle maionesi: riescono o non riescono. Di argomentoin argomento, i nostri predecessori, sono arrivati a parlare, sen-za perdere niente della loro gravità, di invecchiamento e perdi-ta di creatività oppure di rimbambimento per Abel Gance, FrizLang, Hitchcock, Hawks, Rossellini e addirittura per Jean Re-noir e il suo periodo hollywoodiano» [De Beacque 1993, 100].All’idea della senescenza creativa, della resa alle regole del mer-cato, la politique oppone un altro principio: un autore è un au-tore proprio in quanto non invecchia, matura; non declina, sipurifica.L’autore così definito ha un’ultima caratteristica: è consape-

vole della propria unicità. In genio sa di essere un genio, per de-finizione. La prova della consapevolezza va affidata alla paroladell’autore stesso. Nasce così una delle forme discorsive più le-gate alla politique, cioè l’entretien, l’intervista al regista amato.Con i «Cahiers», l’intervista, da genere letterario frivolo, legatoall’occasionalità della conversazione orale, diventa un’arma con-fessionale, uno strumento di analisi dettagliata, il luogo in cui siverificano le interpretazioni. Truffaut a questo riguardo è chia-ro: l’autore deve dimostrarsi consapevole di ciò che i suoi inter-preti scoprono. Il testo è un luogo dove sedimentano significativariamente stratificati, alcuni impliciti, non immediatamente re-peribili se non attraverso un accurato lavoro di lettura, ma co-munque significati di cui l’autore è a conoscenza, sui quali eser-

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cita un dominio. La parola dell’autore – ciò che i teorici dell’in-terpretazione chiamano intentio auctoris – è determinante percorroborare l’esattezza di lettura. I giovani turchi, per esempio,si impegnano in una serie di domande assai complesse rivolte aHitchcock, il quale non sempre sembra disposto ad asseconda-re le traiettorie interpretative dei suoi ammiratori. Truffaut nonvuole un genio incosciente e cerca di persuadere Bazin della con-sapevolezza di Hitchcock a proposito del proprio talento. L’in-tervista diventa un corpo a corpo con l’autore per cercare di in-dividuare un terreno comune di comprensione, per portare allaluce il segreto di una poetica, per registrare le reticenze che l’au-tore costruisce a protezione della creatività [Truffaut 1996].

3. Il concetto di «messa in scena». Il contenuto del film non haun valore assoluto, perché il soggetto del film è la sua messa inscena. Per un inquadramento generale del concetto ci si riferiscea Bazin, il quale, dopo avere definito la messa in scena «la ma-teria stessa del film», aggiunge la definizione seguente: «un’or-ganizzazione degli esseri e delle cose che trova in sé il proprio si-gnificato, intendo dire sia morale che estetico» [Costa 1995, 84].Rivette meglio di altri ha insistito su questa strada arrivando auna definizione di messa in scena come una sorta di registrazio-ne di corpi in relazione tra loro in uno spazio. La registrazione direlazioni tra corpi sospesi in un ambiente è un valore intrinsecodel cinema e trasforma in fattori secondari il soggetto e i conte-sti socioculturali o nazionali a cui è legata la nascita dei singolifilm. A proposito di un regista appartenente a una cultura lon-tana come Kenji Mizogouchi, Rivette scrive: «[…] questi film ciparlano di fatto un linguaggio familiare. Quale? Il solo al qualetutto sommato un cineasta dovrebbe aspirare: quello della miseen scène. […] Se la musica è un idioma universale, lo è anche lamise en scène: è questo, e non il giapponese, che bisogna impa-rare per capire “il Mizogouchi”. Linguaggio comune, ma porta-to qui a un grado di purezza che il nostro cinema occidentale haconosciuto solo in casi eccezionali» [Costa 1995, 84].Linguaggio comune, dunque. In queste parole la messa in sce-

na si configura come una lingua franca capace di abbattere stec-cati linguistici, come una koiné cinematografica in grado di su-perare o fare dimenticare le differenze specifiche tra culture innome di qualcosa che appartiene al cinema in modo intrinseco

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in quanto strumento di espressione universale. Inoltre a tale koi-né «viene riconosciuta la capacità di coniugare gli aspetti dellaoggettività del cinema (il realismo ontologico di ispirazione ba-ziniana) e la soggettività dell’autore che costituisce l’obiettivo difondo della linea critica dei «Cahiers»» [Costa 1995, 85].Nella famosa Lettera su Rossellini, Rivette difende Viaggio in

Italia solo sul piano della messa in scena, rifiutando ogni consi-derazione riferita ad altri aspetti del film, come l’abilità narrativae la costruzione dei personaggi. Il film non ha nulla di letterarioe rappresenta la modernità stessa del cinema, anche per meritodell’apparente banalità dell’intenzione: Rossellini non vuole di-mostrare, ma mostrare; se i personaggi non hanno stati psicolo-gici definiti è perché si rivelano nell’azione. Rossellini mostra cor-pi (quelli degli attori Ingrid Bergman e George Sanders) in unmondo di oggetti differenti e di altri corpi. «Questo non basta afare un film», dicono i detrattori. «Ecco il più moderno dei film»,risponde Rivette, perché la sua verità non si trova nella psicolo-gia che anima gli eroi di una storia, ma nell’insieme attraverso cuii corpi ossessionano una messa in scena e, a forza di ossessionar-la, raggiungono il mistero dell’Incarnazione. Per Rivette il sog-getto stesso di Viaggio in Italia è l’Incarnazione e la sua messa inscena riguarda corpi e oggetti che non sfuggonomai al mistero al-legorico. L’influenza del pensiero religioso è patente non solo inqueste parole: «I dogmi dell’eucarestia […] costituiscono la ba-se fondamentale dell’apporto teorico di Bazin e di Rohmer. L’“etàclassica” del cinema altro non è che un’interpretazione cattolicadel mondo applicata all’ambito della messa in scena: mostrare lacarne (il corpo di Cristo), mostrare degli oggetti (l’ostia) e in lo-ro vedere l’universalità del mondo e la sua anima (la natura divi-na)» [De Baecque 1993, 159]. È comunque nella Lettera su Ros-sellini che il trasferimento dei dogmi cattolici, nella loro espres-sione legata alla potenza spirituale della carne, è portata alle estre-me conseguenze [ora in La politica degli autori 2003].Il concetto di messa in scena, come abbiamo detto, è deter-

minante anche in un processo generale di mediazione tra oppo-sti all’interno dell’edificio concettuale della politica degli auto-ri. Ricapitoliamo: da un lato c’è l’esigenza della sincerità assolu-ta, l’imperativo portato avanti dalla politique di esprimere com-pletamente se stessi, di intendere il cinema come une véritableécriture, secondo l’insegnamento di Astruc (è proprio la sinceri-

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tà a imporre ai giovani turchi l’adorazione per Nicolas Ray); dal-l’altro c’è il cinema, le sue prerogative (registrazione meccanicae oggettiva di corpi in movimento), la sua ontologia, la sua este-tica della realtà. È grazie a una concezione del realismo (deriva-ta da Bazin e da non confondersi con il concetto di verosimi-glianza) e alla difesa del potere di riproduzione meccanica dellacosa in sé che il cinema può essere pensato come arte modernaper eccellenza (oltre che come un’arte spirituale proprio in quan-to oggettiva, legata alla riproduzione di un universo di oggettiche ci spinge a ricercare un “al di là” dei fenomeni, un altro prin-cipio immateriale). È in nome di questi stessi elementi che Hit-chcock può diventare un genio metafisico capace di riproporreossessivamente «la rivelazione, quasi mistica, per prove succes-sive, di personaggi perduti nel mondo degli oggetti» [De Baec-que 1993, 126], che si difendono certi autori dalle loro evidentiimperfezioni, che si neutralizzano tali imperfezioni nel processodi attribuzione di valore estetico.Ecco il valore di mediazione del concetto di messa in scena:

l’autore esprime se stesso completamente. Quando questa sin-cerità, senza perdere nulla di sé, per mediazione della messa inscena, riesce a non tradire ciò che il cinema è e deve essere (la suamorale intrinseca), allora, e solo allora, si giunge all’identità as-soluta e quasi miracolosa dei due estremi. Si può dire cioè chequesto autore è il cinema. E così infatti, per esempio, si dicespesso sui «Cahiers» che Nicholas Ray è il cinema.Il concetto di messa in scena ha anche ricadute sulla valuta-

zione, i giudizi e il gusto dei cinefili francesi (e di quelli che liprenderanno a modello in altri paesi). Questa connessione trala nozione di messa in scena e la valutazione dei film è evidentein un altro celebre brano di Rivette dedicato al film Kapò [Ri-vette 1961]. Per i giovani critici dei «Cahiers» il massimo di-sprezzo va proprio ai registi che vogliono esprimere un sogget-to interessante attraverso uno stile più o meno artistico. Kapò diGillo Pontecorvo ricade in questa casistica: per Rivette, un’ope-ra dal soggetto serissimo (i campi di concentramento nazisti) edalla morale oscena. Il principio secondo cui «la morale è unaquestione di carrellata» (un pilastro del gergo cinefilo attribui-bile a Luc Moullet) potrebbe essere interpretato in senso for-malista. Rivette corregge il tiro e precisa il senso dell’espressio-ne. Kapò è proprio un film formalista, e ciò non basta a salvar-

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lo. Anzi, il formalismo è uno dei motivi della sua condanna. Po-co conta che nei fatti lo stesso Pontecorvo abbia fatto notare cheil tipo di movimento di macchina a giustificazione dell’accusa diabominio non sia esattamente come lo descrive Rivette. La mo-rale della politique ha qualcosa di visionario. Rivette nell’ultimainquadratura della sequenza del suicidio di Riva vede una car-rellata in avanti (in realtà è laterale) per re-inquadrare il cadave-re in contro-piano dal basso, con la preoccupazione di inscrive-re esattamente la mano levata in un angolo del piano finale. L’in-quadratura è stilizzata nel senso di una crocefissione, ma nonpiù di tanto in un film formalmente anche più complesso, so-prattutto nell’uso della disposizione dei corpi in profondità dicampo. La preoccupazione figurativa esibita in questa occasio-ne non è affatto superiore a quella che si trova, per esempio, nel-la prima parte del film. Ma il problema si pone a contatto con larealtà storica dei campi. L’enfasi sulla composizione dell’inqua-dratura e il movimento in avanti sarebbero esattamente la nega-zione della messa in scena, la violenza perpetrata ai danni del-l’ontologia stessa dell’immagine cinematografica. Cosa non tol-lera Rivette? Quel carrello e quel modo di concludere l’inqua-dratura. Cioè, una doppia intenzionalità spettacolare di mani-polazione del reale. Non è che non si possa mettere in scena l’or-rore. È che non si può farne un problema di individualità stili-stica, di intenzione artistica esibita. Il cinema potrebbe registra-re i corpi nello spazio dell’orrore, della nuda vita, ma non devesovrapporre alla messa in scena lo sguardo di un uomo che simanifesta in uno stile. Il luogo dello stile coincide con il luogodel disprezzo critico. La messa in scena, almeno in questo caso,è l’opposto del formalismo.Su questa linea di pensiero e nella volontà di esasperarne i

paradossi logici ed estetici si colloca il lavoro di Michel Mour-let: il principale esponente della così detta «scuola del Mac-Ma-hon». Il nome della corrente viene dalla sala cinematograficaomonima già frequentata dai giovani turchi. A lungo i mac-ma-honiani sono stati considerati una versione parodica e manieri-sta della politique, il suo versante estremo, più politicamentescorretto (e propriamente fascista). De Baecque, senza negaredel tutto questi aspetti, considera gli articoli di Mourlet coe-renti agli assunti della politique. Per Mourlet il cinema è un’ar-te ipnotica e catartica che deve privare lo spettatore di ogni di-

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stanza cosciente. Nella sua prosa la fascinazione assoluta per icorpi umani portati in scena produce, in un tripudio di accen-ti omoerotici, un elogio del corpo guerriero e virile, della ma-gnificenza dell’espressione, della sublimazione dei gesti, in-somma, della bellezza pro-filmica. Gli autori maggiormenteamati sono Losey, Lang, Preminger, Walsh, ma anche De Millee Vittorio Cottafavi. Il disprezzo pressoché assoluto investe ilcinema moderno della Nouvelle Vague, alla pari di tutti i regi-sti “intellettuali”. Il gusto per la provocazione può coinciderecon il paradosso: Bergman è demodé ancora prima di girare ilsuo primo film, Fellini gira pellicole grottesche perché ha spo-sato Giulietta Masina. E così via.Con il n. 111 dei «Cahiers», dedicato a Losey, i mac-maho-

niani suscitano l’irritazione degli altri redattori e da quel mo-mento spariscono dalla rivista. Daranno vita, tra il 1961 e il 1966,a un’altra pubblicazione: «Présence du Cinéma». Mourlet fa intempo a dare un’impronta personale al numero 111 con un ar-ticolo in cui afferma che la messa in scena è l’unico segno del-l’intelligenza di un autore. Lo stile ne è la negazione. Per Mour-let, che non ama Hitchcock e Welles, Hitchcock ha uno stile.Losey no. Questo è il suo pregio. La stilizzazione di Welles nonè che una “provocazione” di fronte alla lealtà loseyana. Un simileragionamento è condotto a partire da nozioni comuni nella tra-dizione artistica. La storia dell’estetica ci insegna che il pensie-ro dell’arte ha codificato delle versioni privilegiate del concettodi bellezza. Tra quelle tradizionali, il critico mac-mahoniano neadotta in modo programmatico tre incrociandole tra loro: l’ideadel bello come ordine, misura, e l’idea della rivendicazione del-la semplicità e soprattutto della luminosità del bello [Bodei1995]. Rigore, semplicità, folgorazione. Ogni forma loseyanasembra ottenere questo effetto. Semplicità, esattezza trasparen-za dei gesti, esaltazione della vicinanza dei corpi (della carne, deinervi, delle pulsazioni del sangue) si contrappongono alla di-storsione dell’intelletto, alla relativizzazione della visione sog-gettiva (idea del bello come elemento ineffabile, indefinito). Ave-re una visione compiuta e personale del mondo è un atto disdi-cevole. Non esiste un universo loseyano. Losey non propone unmondo, non registra la presenza sullo schermo di unmondo pos-sibile, ma del mondo reale: illuminazione dell’evidenza [Mour-let 1987].

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2.3 La critica moderna tra novità e tradizione

Per necessità di sintesi proviamo a individuare i nodi pro-blematici intorno ai quali collocare il lascito storico della cinefi-lia critica e della politique des auteurs. Ci sono tre ordini di con-traddizioni produttive che hanno influenzato i critici delle ge-nerazioni successive e che si sono riprodotte all’interno delle va-rie comunità critiche nel corso della storia.

Modernità/tradizione

Quando la politique rifiuta la distinzione forma/contenuto innome della messa in scena, rivaluta la serie b o considera Hit-chcock un genio perché in lui riconosce proprio ciò che la criti-ca precedente gli ha negato (realismo, soggetto, contenuti), com-pie un capovolgimento delle regole consolidate dalla tradizionecritica. Ma si tratta di un rinnovamento integrale? Quanto è ac-cettato e quanto è rifiutato della tradizione culturale?Su un piano generale la politica dei giovani turchi si presen-

ta come un compromesso tra innovazione ed elementi familiari.Lo abbiamo detto: la politique applica determinate categorieestetiche su un territorio nuovo: il cinema commerciale, pro-dotto in serie dall’industria hollywoodiana e un certo cinemadella modernità. Il luogo di applicazione è del tutto inedito magli strumenti concettuali spesso vengono dal passato, a comin-ciare dall’idea-cardine della politique, la nozione di autore, laquale deriva proprio dalla teorizzazione del genio creatore pro-posta dal Romanticismo [Caughie 1981].I nuovi moralisti promuovono un amore per il cinema in ter-

mini di contro-cultura. Eppure partono da gusti piuttosto con-divisi nel sistema delle arti consolidate. Come è stato notato, tragli scrittori più citati dai «Cahiers» anni Cinquanta, oltre a Bal-zac, sono Gide, Valéry, Cocteau, cioè i continuatori del classici-smo francese. Il gusto letterario dei «Cahiers» è tradizionale eanti-moderno. Non vengono affatto amati gli scrittori del Nou-veu Roman. E poco citati sono Klossowski, Char, Queneau,Blanchot, Bataille, Genet.Nella pratica critica i fattori di rottura sono numerosi. L’ele-

mento più moderno è probabilmente ciò che Rohmer ha indica-to come il passaggio dalla politica dei brani scelti a quella delle

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opere complete [De Baecque 1993, 106]. La critica tradizionalecelebra il capolavoro, la perfezione formale, la compostezza,l’equilibrio espressivo, i picchi di una carriera. I «Cahiers» di-fendono l’integrità delle filmografie dei cineasti amati. Allo stes-so tempo dedicano cura alle opere minori (come Alì Babà o Lacongiura degli innocenti di Hitchcock). L’idea nuova è che si pos-sa essere al contempo geniali e falliti, che sia proprio il sacrificiodella perfezione a permettere di leggere un autore come un libroaperto, in quanto il vero autore pratica l’arte del fallimento condisinvoltura. Con altrettanta disinvoltura i giovani turchi tessonol’elogio dell’imperfezione. Ancora Truffaut: «Il film riuscito, se-condo il vecchio modello critico, è quello in cui tutti gli elemen-ti partecipano, allo stesso modo, di un tutto che merita allora l’ag-gettivo di perfetto. Ora la perfezione, la riuscita, io le definiscoabiette, indecenti, immorali e oscene» [De Baecque 1993, 105].Eppure accanto al disprezzo per il culto della bella immagi-

ne e per criteri di gusto consolidati c’è anche il progetto di col-locare la modernità del cinema all’interno di un processo di con-tinuità, nel solco del percorso secolare delle arti. Gli articoli diRohmer sono il luogo in cui meglio si vede il processo di nego-ziazione tra spinte alla celebrazione della modernità e il peso del-la classicità e della tradizione. Rohmer, soprattutto nella raccol-ta di scritti intitolata in italiano La celluloide e il marmo, rivisitala gerarchia delle arti in nome del cinema americano [Rohmer1991]. Registra il passaggio di un patrimonio storico dal propriopaese alle coste della California: «Questa scienza dell’efficacia,questa purezza di linee, questa economia di mezzi, tutte pro-prietà classiche, che diamine, non furono forse appannaggio dinoi francesi?» [De Baecque 1993, 114]. Hollywood diventa laculla dello spirito originario del classicismo francese del XVIIsecolo e del Rinascimento italiano. Il classicismo è definito lamodernità del cinema. Modernità e classicità del cinema coinci-dono: «Al cinema il classicismo non è alle nostre spalle, ma da-vanti a noi» [De Baecque 1993, 143]. Rohmer crede all’intrin-seca “occidentalità” del cinema. Il cinema è universale ma il luo-go di questa universalità non è ovunque. Si tratta di affermare ildogma delle poche nazioni creatrici: Italia, Francia, soprattuttoStati Uniti.Eppure la fede nella modernità e nella “occidentalità” del ci-

nema è costruita attraverso il confronto con la letteratura, le ar-

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ti plastiche e figurative. Un confronto che rinnova (più che con-testare) i criteri estetici radicati nella tradizione: inscindibilità dimateriale e spirituale, culto del bello naturale (registrazione del-la cosa in sé), aspirazione alla linearità, alla semplicità, all’onestàespressiva, all’universalità, alla spiritualità.

Sapere/credere

Non bisogna confondere la cinefilia popolare, basata sulculto dell’attore e delle star, con la “cinefilia critica” dei «Ca-hiers». La politica degli autori discende dalla cinefilia critica,è un tipo di pratica interpretativa che lega efficacia e ragiond’essere al sapere, vale a dire alla realtà ben documentata, al-l’evidenza dei fatti. L’amore per il cinema che informa la poli-tique è un amore di conoscenza. Si può ben dire che la politi-que, pur essendo fieramente anti-accademica, prende dall’uni-versità criteri di apprendimento e standard di erudizione. Econdivide il desiderio di portare l’analisi del film a un gradodi precisione di linguaggio che, in altro campo e con altri mez-zi, era stato espresso anche dal progetto di fare della filmolo-gia una scienza esatta, obiettivo primario della «Revue Inter-national de Philmologie».Quando Truffaut veste i panni del critico della critica, l’at-

tacco all’istituzione rappresentata dai recensori di vecchia gene-razione è durissimo. In I sette vizi capitali della critica egli elen-ca una serie di difetti della categoria, tra i quali: mancanza di im-maginazione, saccenteria, incapacità di ricostruire le intenzionidegli autori se non quando evidenti, ignoranza della storia e del-la tecnica del cinema [Truffaut 1988]. Le alternative per reagireal relativismo impressionista della critica più frettolosa sono:l’erudizione esercitata sulla compilazione delle filmografie com-plete e sulla correzione degli errori fattuali presenti nelle storiedel cinema pubblicate (per esempio quella di Sadoul), il fetici-smo analitico che ripercorre tutti i particolari di una messa inscena.Da questo punto di vista la politica degli autori è legata al-

l’idea fondamentale della critica come espressione del progettoilluminista. La tradizione critica moderna ha per scopo il fare sìche la verità sia indipendente dall’autorità: si giunge alla veritàattraverso una procedura analitica che esamina i pro e i contro

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di un enunciato, indipendentemente dall’autorità che dominasu quel luogo di enunciazione. Nel nostro caso, qualora ci siaun’autorità, questa dovrà essere l’autorità dell’autore cinemato-grafico che ha dimostrato indubitabili qualità (qualità che sonolì sotto gli occhi di tutti, se si ha la pazienza di cercarle). Ma fat-ta eccezione per alcuni autori, la critica secondo Truffaut, con-siste esattamente nella contestazione dell’autorità che ha domi-nato fino a quel momento su un settore della cultura (la culturacinematografica francese post-bellica). Si tratta di dimostrarel’inesistenza di due presunte qualità: la qualità-competenza deicritici francesi tradizionali e la qualità del loro oggetto di vene-razione: il cinema francese, appunto, “di qualità”, il quale, nona caso, Truffaut, in un articolo intitolato Una certa tendenza delcinema francese [Truffaut 1988], riduce a un insieme incoerentecomposto da sfruttamento di tematiche sessuali, pretese di im-pegno sociale, soggetti resi inconsistenti da sterili tecniche diadattamento letterario.D’altra parte, affianco alla verità come effetto della dimo-

strazione e del sapere, si colloca un’idea della verità come rive-lazione, come atto dogmatico indifferente all’argomentazione lo-gica. A ben vedere non c’è nulla di ragionevole nella pretesa diaffermare l’infallibilità di un autore, nell’idea che un autore siadegno a priori di fiducia e amore. Eppure dietro all’affermazio-ne che è sempre meglio il brutto film di una autore al film benfatto di un mestierante, dietro a enunciati come «Non ho anco-ra visto Rapporto confidenziale, ma so che è un buon film, per-ché è di OrsonWelles […]» [De Baecque 1993, 101] si nascon-de quel volontarismo a fondamento del quale agisce propriol’idea dell’infallibilità.Bazin se ne era accorto e nel saggio Sulla politica degli autori

[Grignaffini 1984] cercava di ragionare con i suoi allievi in ter-mini di «politica delle opere». Secondo Bazin il dogma dell’in-fallibilità dell’autore porta al culto estetico della personalità: «IGoethe, gli Shakespeare, i Beethoven, i Michelangelo creavano,a fianco di opere belle, delle cose non solo mediocri, ma assolu-tamente orrende» [De Baecque 1993, 108]. L’autore esiste ma èimmerso in una tradizione storica, in un insieme di meccanismiproduttivi, in un background espressivo e tecnologico che locondizionano. L’insieme di fattori contestuali si evolve. Ci sonocineasti che abitano perfettamente a proprio agio l’evoluzione e

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altri che si fanno superare e invecchiano. Il genio quindi è unasorta di congiuntura tra doni personali e il momento storico.Tutti i grandi cineasti fanno film discontinui: «Certo ammiroMrArkadin e vi trovo gli stessi doni che in Citizen Kane. Ma CitizenKane apre una nuova era del cinema americano e Mr Arkadinnon è che un film di secondo piano» [Grignaffini 1984, 71]. Adattirare l’ammirazione di Bazin non è tanto la possibilità del sin-golo genio infallibile, quanto piuttosto quei contesti, come la tra-dizione hollywoodiana, che hanno saputo esprimere un “geniocollettivo” in grado di preservare l’espressione individuale al-l’interno di un assetto commerciale.La cosa interessante è che lo stesso Bazin, quando ama vera-

mente il film di un cineasta, ripercorre quasi le stesse dinamichedi amore incondizionato dei suoi allievi. Egli a proposito di Lu-ci della ribalta di Chaplin scrive: «Si ha senza dubbio il diritto difare delle riserve sui capolavori […] E non dico che queste cri-tiche siano false o sterili, ma osservo che a partire da una certaqualità della creazione artistica e, in ogni caso, davanti all’evi-denza del genio, il partito preso contrario è necessariamente piùfecondo. Voglio dire che invece di immaginare di estrarre dal-l’opera i suoi pretesi difetti, è meglio accordare loro il pregiudiziofavorevole e trattarli come qualità di cui non abbiamo saputo an-cora cogliere il segreto. Attitudine critica assurda, ne convengo,se si dubita del suo oggetto, e che presuppone qualcosa comeuna sfida. Bisogna “credere” a Limelight per farsene così l’av-vocato totale, ma le ragioni per credervi non mancano» [Bazin1973-1986, 250]. L’opera è quindi un capolavoro e ha elementiche giustificano un atteggiamento di venerazione. Eppure nonsono le qualità a orientare l’atteggiamento. Ma l’atteggiamentoa favorire l’emersione di certe qualità. La postura del critico sibasa su una sorta di promessa, di atto di fede. Non è errato leg-gere la proposta baziniana su Chaplin nei seguenti termini: c’èsolo un atteggiamento che si addice al genio dell’autore. Anchequando qualche dettaglio del film ci sembra mal riuscito (la pri-ma parte della pellicola, le disquisizioni filosofiche di Calvero)dobbiamo dubitare di noi stessi e chiederci cosa ci sia di sba-gliato nel nostro rapporto con il film [Žižek 2004].A fare da autorità indiscutibile possono essere anche delle fi-

gure di critici, che magari nel frattempo sono diventati registi ri-spettati a livello internazionale. La prima generazione dei gio-

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vani turchi aveva saputo contestare la tradizione dalle radici escegliersi i propri padri. Questi padri si chiamavano Hitchcock,Renoir, Ray, Welles ecc. La generazione successiva vede nellestesse personalità di Truffaut, Godard, Rivette, delle figure au-torevoli a cui credere senza riserve.Il volto più autentico del culto estetico della personalità di

seconda generazione si trova nell’episodio del carrello di Kapò,che ha per protagonisti il film di Gillo Pontecorvo, la parola diRivette e il giovanissimo Serge Daney, cioè colui che diventeràprobabilmente il miglior critico cinematografico francese deglianni Settanta e Ottanta, qui però ancora alle prima armi. I fattisono noti: un giorno Daney apre il n. 120 dei «Cahiers» e leggeun articolo di Rivette di cui abbiamo già parlato: Dell’abiezione.Nel pezzo, tra le altre cose, si legge: «Guardate […] in Kapò lascena in cui Riva si uccide, gettandosi sul filo spinato percorsodalla corrente; l’uomo che decide, in quel momento, di fare unacarrellata in avanti, per inquadrare il cadavere in contro-pianodall’alto, preoccupandosi di iscrivere esattamente la mano leva-ta in un angolo dell’inquadratura finale, quest’uomo merita ilpiù profondo disprezzo» [De Baecque 1993, 237-238]. È questauna posizione in puro stile «Cahiers» in cui Rivette fa da passa-parola di un interdetto che, dall’intrinseca oscenità di un testo,lo attraversa per raggiungere, mediante la scrittura, i suoi letto-ri (e tra questi, il diciassettenne Daney). Rivette trasmette undogma. È un’autorità che impone alla prassi critica una fede inbase alla quale si afferma di avere visto per interposta persona.E infatti Daney può scrivere: «Non ho mai visto Kapòma possougualmente dire di averlo visto. L’ho visto perché qualcuno – aparole – me l’ha mostrato» [Daney 1995, 23]. Sostituiamo la pa-rola «Kapò» con la parola «Dio» e avremo esattamente il di-scorso tipico del fedele.

Verità/relativismo

Una conseguenza della commistione tra elementi di cono-scenza e di fede, di sapere e di credere, è che c’è qualcosa di ir-razionale nella politique. L’idea stessa di assumere l’autore comeparametro pressoché unico di valutazione di un’opera significateorizzare l’esclusione dall’interpretazione di elementi che ra-gionevolmente non dovrebbero essere esclusi (fattori storici, di

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valutazione della costruzione del racconto ecc.). Così abbiamoda un lato enunciati basati sulla certezza, l’erudizione, l’arguziaanalitica, la dimostrazione, in generale la convinzione che le co-se stanno come stanno e che basta un occhio particolarmente at-tento per accorgersene (discorso essenzialista che invoca prati-che descrittive adeguate). Dall’altro abbiamo una critica basatasul passaparola, l’atto di fede, il rispetto dell’autorità. Mentre lacinefilia critica inaugura una retorica che riesce a trasformare glistati d’animo in assiomi evidenti e in un nuovo modo di inter-pretare i film, allo stesso tempo alla base della politica degli au-tori «possiamo individuare una esplicita tendenza a esibire il ca-rattere convenzionale e arbitrario di attribuzione di valore este-tico, legandolo a un sentimento di appartenenza, di gruppo e,allo stesso tempo, a una pratica critica che assumeva i caratteridella custodia di “segreti professionali”» [Costa 1995, 8]. La cer-tezza della verità, proprio nel momento in cui è affermata conmaggior forza e dogmatismo, lascia la scena al relativismo, al so-spetto di trovarsi di fronte a un delirio organizzato, estrema-mente ben costruito, ma pur sempre eccentrico (lo stesso Cha-brol ha definito proprio un «deliro organizzato» il libro scrittoassieme a Rohmer su Hitchcock). Lo spirito settario comunque,dal punto di vista storico, non ha incontrato grandi difficoltà nelconquistare autorità. È bastato che un gruppo ristretto di indi-vidui (i giovani turchi) cominciasse a imporre certe abitudini, asocializzare certe forme di visione, a scrivere e argomentare leproprie idee in modo usurpatore e convincente, perché emer-gesse una nuova idea di cinema. La stabilità del canone è stataintaccata per sempre. Si può quindi dire che la cinefilia critica ela politique partecipano a quel movimento (tipico della moder-nità) visibile su tutta la scena culturale novecentesca, un movi-mento che gli estetologi a volte chiamano relativizzazione del bel-lo e che viene spesso associato a una generale erosione della sta-bilità del concetto stesso di gusto estetico.

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Capitolo 3

Secondo approfondimento:dal sonoro al canone (neo)realista in Italia

3.1 La critica verso l’istituzionalizzazione

Dal punto di vista generale della cultura cinematografica ita-liana gli anni Trenta sono un periodo di efferverscenza intellet-tuale. La riflessione critico-teorica costituisce un momento im-portante della rinascita del cinema nazionale, svolgendo una fun-zione promozionale e progettuale allo stesso tempo, in quantocoinvolta sia sul piano della pubblicistica sia su quello delle isti-tuzioni. A riguardo bisogna ricordare il ruolo avuto da una rivi-sta come «Cinematografo» di Alessandro Blasetti (1927-1931)che negli anni a cavallo tra il muto e il sonoro ingaggia una cam-pagna per la rinascita della produzione italiana, prestando at-tenzione anche agli aspetti tecnici ed estetici del cinema (tra icollaboratori, Anton Giulio Bragaglia e Umberto Barbaro). Al-le iniziative giornalistiche si accompagnano le iniziative istitu-zionali: L’Unione del Cinema Educativo (LUCE), il Centro Spe-rimentale di Cinematografia che ha avuto come antesignana laScuola Nazionale di Cinema presso l’Accademia Nazionale diSanta Cecilia (1931-1935), la grande Enciclopedia del Cinemache avrebbe dovuto essere realizzata dall’Istituto Internaziona-le per la Cinematografia Educativa per l’editore Ulrico Hoepli(l’impresa non giunse a compimento).

Il passaggio dal muto al sonoro, a cavallo tra anni Venti eTrenta, porta con sé una nuova contrapposizione di schiera-menti, tra chi è favorevole all’innovazione tecnica e chi rim-piange il muto. Sul primo fronte si colloca il lavoro editoriale diAnton Giulio Bragaglia che riesce a fare sopravvivere lo spiritodelle avanguardie oltre il loro ciclo di vita e riflette sul passaggioal sonoro e sulle modificazioni che apporta ai legami tra cinemae teatro [Bragaglia 1929].

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Nel corso degli anni Trenta – rimandiamo il problema delrapporto tra critica e fascismo, che richiederebbe una tratta-zione a parte [Pistagnesi 1976; Zagarrio 1976] – la critica gua-dagna in definizione istituzionale, i critici acquistano compe-tenze. Grazie ad alcune firme (Mario Soldati, Nicola Chiaro-monte, Emilio Cecchi) cominciano a circolare discorsi ben ar-ticolati sul cinema americano, il divismo, il rapporto tra cinemae cultura di massa. La critica cinematografica conquista digni-tà sui quotidiani. Si assiste allo sviluppo della pubblicistica ci-nematografica sulle riviste culturali, popolari e specializzate(«Bianco & Nero», diretta da Chiarini, ottiene ben presto me-ritata fama). Sono per lo più intellettuali di formazione umani-stica a occupare il ruolo di critici cinematografici: Filippo Sac-chi al «Corriere della sera» dai primi anni Trenta, Mario Gro-mo alla «Stampa». Tra gli altri letterati che scrivono più o me-no stabilmente di cinema: Giacomo Debenedetti, Alberto Sa-vinio, Alberto Moravia, Guido Piovene, Mario Pannunzio, Cor-rado Pavolini, Massimo Bontempelli. La partecipazione dei let-terati produce una costante della cultura cinematografica ita-liana: la dipendenza dei modelli teorico-critici dalle categorieestetiche dominanti nel campo letterario. D’altra parte, è pro-prio dai letterati che provengono, per lo più in forme non si-stematiche, proposte e provocazioni innovative o anticipatrici.Degni di nota sono, in questa direzione, «L’Italiano» di LeoLonganesi, una rivista che si occupa frequentemente di cinema(anche con un numero monografico: 17-18, gennaio-febbraiodel 1933) e «Prospettive» di Curzio Malaparte, che dedica alcinema il suo secondo numero (1937).

Il fronte teorico è vivace. L’imperialismo dell’estetica crocia-na viene indebolito dai lavori di Bragaglia ed Eugenio Giovan-netti [Giovannetti 1930]. Su «Bianco & Nero», prima sotto la di-rezione di Vezio Orazi e poi di Chiarini, nel corso dei primi an-ni Quaranta si nota una frattura tra l’ampio spazio dedicato al-la riflessione storico-teorica (con i lunghi articoli sulle cinema-tografie estere, le traduzioni integrali di monografie di Béla Ba-làzs, o gli scritti di Umberto Barbaro, Francesco Pasinetti, i sag-gi di teoria del montaggio, i completamenti dell’antologia sul-l’attore, le inchieste sul rapporto tra intellettuali e cinema) e l’esi-gua presenza di critiche di singoli film. L’attività culturale/edi-toriale di Chiarini e Barbaro cerca e ottiene l’avvicinamento ad

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altre tradizioni critiche: l’estetica di Giovanni Gentile, il con-fronto con le teorie del cinema straniere. Il regime in parte vigi-la, in parte appare distratto.

3.2 L’esperienza di «Cinema»

Con la rivista «Cinema» la critica comincia a presentarsi perciò che sarà in modo più evidente nel dopoguerra: soprattuttovolontà di capire il cinema per modificarlo indicando nuovestrade da percorrere. Sotto la direzione prima di Vittorio Mus-solini e poi di Gianni Puccini, nei primi anni Quaranta, la pub-blicazione ospita giovani firme talvolta destinate al successo an-che in campo registico. Qui vanno colti i primi germi della poe-tica neorealista. Si denuncia la perdita di valori comuni, si pro-muove un nuovo umanesimo. Viene anticipata la poetica za-vattiniana del pedinamento. Gli scritti di Giuseppe De Santis,Mario Alicata, Massimo Mida, Antonio Pietrangeli descrivonoe prescrivono un “dover essere” del cinema a venire, secondoindicazioni poetiche che trovano in Ossessione una sorta di ma-nifesto realizzato.

«Cinema» è la rivista su cui il lavoro critico sul cinema italia-no è andato più a fondo. L’impostazione rispecchia la scissione traaspetti culturologici e aspetti estetici individuata da Ruggero Eu-geni attraverso la riflessione teorica a cavallo tra anni Trenta eQuaranta, negli scritti di Alberto Consiglio, Luigi Chiarini e Um-berto Barbaro [Eugeni 2006]. I poli corrispondono a due modidiversi di considerare il cinema: uno in termini di fatto sociale emediale, di elaborazione/rilancio di gusti, abitudini e comporta-menti; l’altro in termini di fatto eminentemente estetico. Nel-l’ipotesi di Eugeni, a venire meno sarebbe proprio un punto di in-contro tra le due concezioni del fatto cinematografico. Sulle pa-gine di «Cinema» un elemento che sembra colmare il vuoto, ofunzionare come soluzione di compromesso tra gli estremi, è ilconcetto di mestiere. Carlo Lizzani elogia questa nozione, pro-prio in contrapposizione a un’industria che troppo spesso ha tra-scurato il problema della competenza professionale e a un’este-tica eccessivamente legata a dinamiche astratte [Lizzani 1943].

D’altra parte, sulle valutazioni dei critici pesa il retroterra del-l’idealismo filosofico italiano. La vera poesia è pensata come ri-

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gidamente ancorata al concetto di unità delle arti e vincolata al-la presenza di una indifferenziata «ispirazione creatrice supe-riore». Sulle pagine di «Cinema» un discorso di politica culturale(legato al medium, al linguaggio) in virtù del quale si possono di-fendere i prodotti medi, gli onesti artigiani e mestieranti, è sem-pre tenuto separato da un livello che riguarda il cinema ancorada fare, un livello di apparizione di una vera arte di cui si intra-vedono solo brevi epifanie ai margini dell’esistente. Ne consegueche l’avvento della cinematografia italiana più autentica (ecco unaggettivo ricorrente nel linguaggio di «Cinema») sarà necessita-to da norme di carattere universale. In altri termini, come prin-cipio ultimo non conta solo un’idea di cosa sia il cinema genui-namente realista (procedura specifica relativa alle opzioni espres-sive e tecnologiche del mezzo-cinema), ma anche l’idea di un’ar-te realmente autentica (la procedura generica arte nella sua tota-lità). È questo che si vuole dire quando si afferma: «Il cinema èarte nuova ma non nuova estetica» [Barendson 1943, in Mida,Quaglietti 1980, 239]. Sembra una precisazione secondaria. Nonlo è. Perché la distinzione tra un piano governato da genericheleggi universali e un piano empirico legato al contingente dei ca-si concreti, dal punto di vista dell’attività critica, è produttiva.Più precisamente, consente di compiere almeno tre operazionicaratteristiche dell’approccio di «Cinema» alla cinematografianazionale.

In primo luogo lo iato tra critica concreta e rimando a un’ideavaga e comprensiva di arte permette ai collaboratori di «Cine-ma» di evitare i toni della propaganda più diretta, pur lascian-done inalterati alcuni presupposti. Si elogia Vecchia Guardia, ep-pure, al contempo, si tende a inscrivere il problema del ruolosociale/propagandistico del cinema all’interno di un rapportotra ragioni dell’arte e ragioni della politica, dove siano ancorauna volta le prime a sovra-determinare le seconde, secondo i cri-teri di un’arte che si vuole realista, eppure autonoma (ecco altritre termini ricorrenti, spesso legati tra loro: autonomia, univer-salità, spiritualità). Poiché una vera arte autonoma è un’arte rea-lista, il valore sociale del cinema discende dalla corretta com-prensione pratica di tale identità, piuttosto che da esigenze re-toriche esteriori e posticce. In genere la legittimità di un cinemapropagandistico non è per nulla messa in discussione sulle pa-gine della rivista. Al limite, di quest’ultimo si offre un modello

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descrittivo più complesso rispetto a quelli offerti da altri (a vol-te più triviali) discorsi critici.

In secondo luogo, la distinzione consente di immaginare unanorma estetica vincolante legata a un cinema ancora tutto da fa-re, un cinema puro per il quale bisogna inventare ed educare unpubblico, senza rinunciare a una critica propriamente di ten-denza, cioè a impegnarsi in un esercizio di avanguardia del gusto,un gusto da promuovere affinché da minoritario e marginale con-quisti il centro della produzione fino a coincidere con l’autono-mia e la riconoscibilità di un nuovo stile unitario. Fare una criti-ca di tendenza significa proprio questo: riconoscere tutti i meri-ti a registi come Mario Camerini e Alessandro Blasetti evitando-ne la celebrazione “integrale”, considerandoli autori non “pie-ni”, che hanno perso la strada; oppure significa insistere su ciòche ancora non c’è e al contempo cercare le tracce del nuovo làdove appare defilato, cioè a dire sia a margine di una tradizionestorica con bel altre e più vistose ascendenze (di Cabiria si può di-re che è un film «dove i mazzi degli agli e gli stoccafissi appesi siricordano con più piacere che non le didascalie di D’Annunzio»[Pietrangeli 1942]) sia all’interno della tradizione spettacolare,di propaganda, o di altro orientamento (tracce dell’«autenticonostro spirito» sono trovate da De Santis in Piccolo Mondo anti-co di Mario Soldati [De Santis 1941a]). Una critica quindi indi-ziale, che procede per isolamento di frammenti privilegiati e si-gnificativi, come in una recensione di Un garibaldino al conven-to, dove si sottolineano i dettagli, le «brevi situazioni svolgentisil’una dietro l’altra» [De Santis 1942, 100], oppure come quandovengono selezionate panoramiche, scene, elementi ambientali “ti-pici” di un nuovo stile italiano in Ettore Fieramosca, Terra di nes-suno, Piccolo Hotel, Montevergine.

In terzo luogo la distinzione facilita l’orientamento dei giudizia partire da una contrapposizione vaga, logicamente poco rigo-rosa, sull’asse interiorità/esteriorità. Interni e ineffabili sono icriteri con cui sarebbe garantita la genuinità del realismo: la sin-cerità e la spiritualità. Ancora Lizzani: «condizione di questa sal-vezza è soltanto la sincerità» [Lizzani, 1942, 638]. E la salvezzadi cui si parla è la salvezza dal formalismo, dall’elzevirismo ci-nematografico, idolo polemico di «Cinema» di cui diremo an-cora qualcosa tra breve, luogo del falso, della simulazione, del-l’apparente realismo, di un realismo esteriore e di fatto caratte-

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rizzato attraverso un linguaggio dell’esteriorità («[…] un vigorecontenutistico era più evidente nel piccolo mondo dei Max, as-sai caldo, che nei Promessi sposi, tutti alimentati dal di fuori, suimargini formali» [Lizzani 1942, 638]).

3.3 Realismo e ambientazione

Su «Cinema» il problema del rinnovamento del cinema ita-liano ruota intorno a un argomento centrale: l’ambientazione.Esistono dei modelli a cui si guarda per realizzare l’idea di unanuova poetica capace di indirizzare la produzione nazionale. Perquanto concerne il problema del modello produttivo, almeno aparole, e per motivi generali che tuttavia non sembrano incom-patibili con molte delle idee circolanti su «Cinema», il cinema te-desco coevo [Viazzi 1941]. Per quanto concerne il paesaggio, ilcinema francese, che rappresenta un modello proprio in rela-zione alla caratterizzazione ambientale. Infine, fa da esempioqualche illustre precedente nella cinematografia nazionale. Vec-chia guardia, Sole, 1860, sempre elogiati sulla stampa d’epoca,diventano su «Cinema» il segno della “nostra” avanguardia, diun’avanguardia italiana, «che ha fatto meno chiasso» di quella le-gata alle esperienze degli anni Dieci e Venti: per alcuni critici, ilpunto di congiunzione con i cenni di una scuola realista che vie-ne fatta risalire a Sperduti nel buio [Mida, Montesanti 1941].

La questione è complessa. Si tratta certamente in primo luo-go di enunciare la necessità di una presenza, contro un cinemadell’assenza del paesaggio e della caratterizzazione (nazionale,ambientale ecc.), un cinema sordo alla poesia dell’ambiente, uncinema popolato da cadaveri [Visconti 1941], cioè stereotipi de-rivati da una tradizione artificiosa, banale e meschina, chiusosull’orizzonte di ricostruzioni anonime nei teatri di posa.

Il paesaggio non parla da solo. Sul paesaggio vanno compiu-te operazioni specifiche. Entra in gioco un sistema di mosse pos-sibili, dove copre un ruolo essenziale il modello rappresentatodalla letteratura verista e in particolar modo da Verga. Non èdifficile riconoscere la formazione letteraria di De Santis, Pie-trangeli e Alicata, i quali citano Defoe, Flaubert, Stendhal, Faul-kner, Gogol, Kafka, Thackeray, Dickens, Zola, Maupassant. Ilcinema, lo dicono a chiare lettere Alicata e De Santis, contro le

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pretese dei cineasti “puri”, è un «insostituibile capitolo nella sto-ria del gusto letterario e artistico del Novecento» [Alicata, DeSantis 1941, 216]. E proprio la sua vocazione narrativa lo lega auna tradizione letteraria specifica, che è quella appunto del rea-lismo europeo ottocentesco. Così come Carné, Renoir e Duviviersanno ritrovare uno stile rileggendo Zola e Maupassant, anche inItalia dovremmo varcare la porta principale della nostra narra-tiva, il che significa ritornare a Verga inteso come creatore di unpaese, di un tempo, di una società, adattissimo per riscattarsi dalgusto borghese.

D’altra parte il proposito di portare la macchina da presa fuo-ri, tra le cose del mondo, deve attuarsi mediante un rapporto in-terno tra le cose stesse e l’uomo: il paesaggio non avrà impor-tanza se non ci sarà l’uomo, e viceversa. A tale co-implicazioneDe Santis dà il nome di linguaggio dei rapporti, proprio per in-tendere i legami profondi tra soggetto e mondo che lo circonda,in direzione di una capacità del cinematografo di dare impor-tanza a tutti i particolari ordinari, a ogni segno di presenza del-l’uomo, nella sua dimensione intima ma anche corale e di rela-zione con la natura [De Santis 1941b]. Quindi, due estremi chesi richiamano: la caratterizzazione del paesaggio potrà toccaretutti i gradi del particolare e del tipico (nazionale, regionale, pro-vinciale, corale, intimista) ma lo potrà fare proprio perché inquesto modo dovrà connettersi a un orizzonte più ampio. A fa-re da centro d’equilibrio pare comunque rimanere ben salda lafigura umana. Così la riflessione sull’istanza realista può slittaredalla centralità della questione dell’ambientazione ad altre, inapparenza più marginali, eppure ugualmente interessanti. Peresempio si trova su «Cinema» una attenta analisi dell’attore, siain direzione di uno studio del rapporto tra volto, corpo e “re-spiro” dell’inquadratura sia in direzione di una considerazionedelle tipologie attoriali nazionali (Vittorio De Sica, Amedeo Naz-zari, Clara Calamai).

La rappresentazione del paesaggio non deve solo evitare il ri-schio della genericità da teatro di posa. Ma anche lo stereotipo,la riconoscibilità più convenzionale, l’eccesso di tipicità e di de-corativismo. Qui si innesta la già citata polemica contro il for-malismo, l’elzevirismo cinematografico, il calligrafismo. Si trattaa ben vedere della polemica in cui meglio si misura lo scarto tra«Cinema» e le altre riviste di settore (probabilmente più che in

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relazione ad altri argomenti, compreso il troppo generico temadella difesa di una nuova istanza realista del cinema italiano). Sealtrove il calligrafismo può apparire come una declinazione diprofessionalità e alto artigianato, negli scritti di «Cinema» di-venta un esempio di confronto erroneo con la tradizione lette-raria e al contempo un caso di rapporto controproducente conla tradizione pittorico-figurativa. La severità verso la correntecalligrafica è forte e si sostanzia nell’accusa di distogliere l’at-tenzione dai veri segni di cambiamento. Veri segni che trovanoin Ossessione, già dal suo annuncio, l’incarnazione più rappre-sentativa. Più di una rivista si mostra ben disposta verso l’operaprima di Visconti. Su «Cinema» viene letta come la realizzazio-ne della poetica verista promossa dalla rivista, come film del qua-le «in anticipo sulla realizzazione compiuta del tutto, possiamoscorgere la violenta capacità di superare gli schemi e le conven-zioni, di scoprire nella natura e nel mondo morale nuovi rap-porti e nuovi motivi» [Scagnetti 1942, 451]. Dopo l’uscita nellesale e le polemiche conseguenti innescate sulla stampa, la pelli-cola diventa l’occasione di raccolta e rilancio di quattro anni dibattaglia delle idee.

3.4 «Cinema» e l’opzione realista: una questione ancora aperta

Se è innegabile che vi sono occasioni, come nel caso di Os-sessione o della polemica anti-calligrafica, in cui il gusto di «Ci-nema» si distingue da quello delle altre sotto-comunità critichedell’epoca, è altrettanto vero che il contributo in termini di esclu-sività dei contenuti di pensiero espressi da questa testata va og-gi ridimensionato.

L’idea di un’avanguardia del gusto, di una redazione “di fron-da” impegnata a fare passare tra le maglie ideologiche del regi-me i contenuti puri di un’istanza realista che, assieme alla mili-tanza anti-fascista, costituirebbe il nocciolo esclusivo dell’evo-luzione neorealista successiva, rischia di essere fuorviante. Oquantomeno attenuabile a fronte di alcune considerazioni. Giàa restare entro l’orizzonte della rivista, è praticamente impossi-bile cogliere con precisione il potenziale d’erosione delle posi-zioni più avanzate della testata nei confronti della politica fasci-sta. In genere si risponde a questo problema invocando l’esi-

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stenza di una sorta di cifrario, di linguaggio in codice destinatoa funzionare per chi avesse disposto degli strumenti per inter-pretare. Ammesso che sia proprio così, non è mai stato chiaritoil livello di diffusione di conoscenza del codice per la decripta-zione di questo ipotetico idioletto critico contro-ideologico.Quanti sapevano? Quanti potevano leggere sotto la superficiedelle parole? Chi era interessato a farlo? Particolari che sarebbeessenziale chiarire. Soprattutto a fronte di fatti più banali, maanche più incontestabili. L’editoriale del n. 137 indica una per-fetta conciliabilità tra retorica di regime e posizioni critiche del-la rivista. L’autore del pezzo (che si firma Niméco) elogia i po-chi film rispecchianti la vita dei soldati italiani, tra i quali La na-ve bianca, Luciano Serra pilota, L’assedio dell’Alcazar, poi se laprende con le commediole sentimentali. Tutto l’articolo fa pro-prio un linguaggio (conquiste spirituali, legami tra uomo e na-tura, la vita quotidiana), che è quello degli “irregolari” di «Ci-nema», di cui declina una versione più propagandistica e nazio-nalista, con ciò stesso indicando quantomeno che quello mede-simo linguaggio è politicamente neutro, buono per servire alladissimulazione più o meno onesta o all’allineamento integralealla propaganda. Il problema non è quello di riconoscere l’esi-stenza di differenze e sfumature tra il realismo promosso da «Ci-nema» e l’esigenza generica di maggiore realismo così come ve-niva a proporsi nei discorsi più organici all’ideologia fascista. Ta-li differenze sono visibili (o ricostruibili). Il problema è che lapossibilità stessa di queste differenze ci dovrebbe portare a ri-considerare il grado di condivisibilità culturale dell’istanza rea-lista nel dibattito critico sul cinema italiano dei primi anni Qua-ranta.

Come ha mostrato Antonio Costa, richiamandosi agli studi diMaria Corti e Alberto Asor Rosa sul neorealismo letterario e lacultura italiana, è lecito ipotizzare forti continuità tra la culturafascista e alcuni dei tratti distintivi del corpus critico di «Cine-ma». Il richiamo alla letteratura di Verga come modello cine-matografico può essere riportato a tematiche che, in campo let-terario, erano tipiche del movimento giovanile fascista, e che nelnostro caso sarebbero confermate dagli accenti presenti negli ar-ticoli sul verismo di De Santis e Alicata, consueti di quel “cultodel primitivo” talvolta indicato come uno dei nodi centrali del-la cultura italiana degli anni Trenta. Analogamente l’anti-intimi-

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smo e l’anti-calligrafismo possono essere letti come «la tradu-zione cinematografica della battaglia che […] aveva occupato leriviste giovanili […] contro intellettuali di formazione pre-fa-scista, ermetici, formalisti; tutti coloro, insomma, che, rifiutan-do per varie ragioni le parole d’ordine di “impegno” e del “rea-lismo” (ovviamente nell’accezione unica possibile), si rifugiava-no in altri valori» [Costa 1984, 34].

Se si sposta lo sguardo fuori da «Cinema», si nota che la mag-gioranza della critica cinematografica dell’epoca è tutt’altro cheindulgente verso la produzione media nazionale. Sul versantedel rifiuto delle commedie di Bonnard, Mattioli e Malasomma«Cinema» si trova in ottima compagnia. Come pure lo è quan-do bisogna promuovere il riscatto del paesaggio. Così come nonè esclusivo di «Cinema» il rifiuto di una cinematografia anoni-ma, fatta in ambienti chiusi e senza tempo, di storie decadenti daromanzo d’appendice, allo stesso modo la promozione del-l’istanza realista attraversa tutta la cultura cinematografica dellaseconda parte degli anni Trenta e soprattutto dei primi Qua-ranta, dove spinte verso un maggior generico realismo e coin-volgimento nelle cose della Nazione, cinema di propaganda,apertura dello sguardo sulla realtà politica e sociale (fasciste) siintrecciano di continuo. Infatti può capitare di leggere elogi del-la parlata schietta della gente comune e di assenza di retoricadell’eroismo in una recensione fascistissima e militarista su Gia-rabub di Alessandrini [Càllari 1941]. Oppure di incontrare, suun settimanale ad alta tiratura ligio alla propaganda, la richiestadi spingere le macchine da presa un po’ al di fuori degli studi diCinecittà incontro alle bellezze naturali, «perché la natura è unaspecie di freno istintivo ad ogni possibile sbandamento versol’esotico. Perché le bellezze naturali, se ben intese, possono neu-tralizzare false tendenze cosmopolite» [Ceretti 1940, 5].

Tutto ciò avviene anche perché la promozione di un nuo-vo sguardo verso la realtà è presente su più piani: nel lanciodel cinema documentario di guerra, politico o anche turistico(punti su cui preme la stessa politica di regime); nell’invito afare un cinema (pure di finzione) addosso agli eventi bellici, sepossibile per magnificare le vittorie dell’Asse; ma anche, piùcapillarmente, in una serie di discorsi marginali e talvolta piùideologicamente neutri, non di meno capaci di contribuire apromuovere una preferenza per il lavoro fedele alla realtà del-

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la macchina da presa rispetto all’elaborazione fantastica deimateriali; discorsi che vanno dalla promozione delle “meravi-glie” del micro-cinematografo, agli accenti quasi tecnolatriciper il valore e il coraggio degli operatori delle riprese aereedurante le fasi di guerra ecc. Insomma, l’opzione realista, co-sì determinante nel dibattito sul cinema italiano, è spendibilesu più fronti. Non è possibile ridurre la complessità di un si-mile quadro a contrapposizioni come «Cinema»/cultura cine-matografica dominante, o realismo/anonimia d’ambientazionenei teatri di posa.

3.5 Il canone (neo)realista

Il dopoguerra rappresenta un periodo di attivismo culturalee battaglia delle idee tra i diversi orientamenti ideologici impe-gnati nel tentativo di egemonizzare il mondo della cultura. Ladifesa del cinema italiano appare una priorità culturale. In pocotempo nascono più di trenta riviste di cinema e vengono pub-blicate diverse monografie. Non pochi intellettuali sono chia-mati a esprimersi su questioni di cinema o a tenere rubriche dicritica. Tra questi Elio Vittorini, Italo Calvino, Franco Fortini,Renato Guttuso, Eugenio Montale, Ennio Flaiano, Cesare Mu-satti, Giacomo Debenedetti, Alberto Moravia, Giuseppe Berto,Corrado Alvaro.

La teoria e la critica cinematografica mantengono fede aipropri assunti teorici e di gusto, pur dislocandoli in un oriz-zonte ideologico-politico invertito di segno. La figura più si-gnificativa a riguardo è Chiarini: rinato alle magnifiche sorti eprogressive del socialismo, come teorico, dopo il 1945, riordi-na il proprio pensiero lasciandone inalterate le coordinate difondo; come critico conferma gusti, diffidenze e interdetti pre-bellici. I quali sono ben compendiati nel celebre dibattito chelo vede scontrarsi con Guido Aristarco intorno a Senso, il filmdi Luchino Visconti.

Il tema del dibattito è l’eredità del neorealismo negli anniCinquanta e ha luogo sul n. 55 di «Cinema nuovo» nel marzodel 1955. Per Chiarini idea e realtà si fondono nell’opera neo-realista al punto che la forma specifica del cinema e la sua po-tenza realistica diventano la stessa cosa. La “curiosità” del nuo-

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vo cinema si traduce immediatamente in una poetica dell’og-gettività. Di conseguenza gli elementi spettacolari del cinemavengono tollerati a malapena e solo se inseriti nelle legittimitàconcesse dalla natura della forma realista. Date tali premesse,Chiarini giunge alla conclusione che Senso rappresenta un tra-dimento della causa neorealista. Pressoché ogni elemento delfilm viene investito da un’accusa: quella di funzionare contro unrealismo autentico che si dovrebbe costruire attraverso un inti-mo e diretto rapporto tra l’idea e le cose. Il nemico ha un nome:esteriorità. L’esteriorità ha un luogo di apparizione: lo spettaco-lo. Tutto ciò che lo spettacolo (contrapposto al film) porta consé – virtuosismo tecnico, composizione formalizzata dell’imma-gine, efficacia emotiva del soggetto, sensualità dei corpi – con-giura contro il principio del realismo come espressione di un’in-teriorità fatta rappresentazione di una realtà che parla «di persé sola» [Chiarini 1955].

Aristarco risponde a Chiarini difendendo il film. Senso nonconfigura un tradimento, una regressione rispetto al neoreali-smo, ma un passaggio, un superamento nella direzione di unapoetica compiutamente realista. La notissima tesi del passaggiodal neorealismo al realismo è costruita da Aristarco analizzandosoprattutto la struttura narrativa del film. Senso diventa il filmdella decadenza della borghesia, anzi, per essere più precisi, del-la borghesia come classe sociale decadente, giunta al termine delproprio ciclo di vita. Nelle parole di Aristarco, Visconti non ca-de nel bozzetto e nella narrazione episodica (difetti ancora rin-tracciabili in certi film neorealisti) perché opta sempre per lapredominanza della narrazione sulla descrizione recuperando lagrande tradizione del romanzo ottocentesco. Chiarini avevaespresso un sospetto nei confronti dei grandi intrecci romanze-schi trasferiti sullo schermo. Aristarco invece riscatta il raccon-to vedendovi lo strumento che concede al regista la possibilità didefinire in modo più preciso la fisionomia dei tipi umani, di ren-dere più chiaro il rapporto di dipendenza che lega la vita ai fe-nomeni sociali. Chiarini aveva contestato al film la bella forma,l’immagine ricercata. Aristarco dimostra che il calligrafismo è alservizio di una identificazione dialettica messa in atto per me-glio esprimere lo splendore esteriore e decadente del mondorappresentato [Aristarco 1955].

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Che vi sia una sostanziale continuità tra la teoria del cinemaprebellica e quella degli anni Cinquanta è cosa documentabileanche a livello immediato. Dalla seconda metà degli anni Qua-ranta i pensatori attivi nel campo teorico sono quasi sempre glistessi del periodo precedente. E tutti lavorano a una revisio-ne/riproposizione del proprio lavoro. Oltre al caso di Chiarini,è quanto avviene con Carlo Ludovico Ragghianti, Umberto Bar-baro e Alberto Consiglio. Gli anni Cinquanta sono il periododell’onda lunga del crocianesimo, dei «problemi che, anche seaffrontati in forme (apparentemente) anti-crociane, e spesso construmenti forniti dall’ideologia marxista, […] manifestavano, nelloro essere contro, la difficoltà, talvolta l’impossibilità, di anda-re oltre Croce, di essere post-crociani» [De Gaetano 2005, 39].

All’attività di Chiarini e Barbaro, che dà ancora orientamen-to alle pubblicazioni di settore, si affianca la lezione di GalvanoDella Volpe, filosofo marxista, non certo ortodosso, il quale, conIl verosimile filmico, contribuisce a intaccare le fondamenta del-la cultura idealista italiana [Della Volpe 1954]. In generale peròle referenze filosofiche del dibattito rimangono limitate entro inomi di Croce, Marx, Gramsci, De Sanctis, e poco dopo Lu-kács. La prima storia delle teoriche approfondita viene scrittada Aristarco agli inizi degli anni Cinquanta [Aristarco 1951].

Lo scontro politico tra le due grandi sub-culture nazionali diquesti anni (quella cattolica legata alla Democrazia Cristiana equella comunista legata al Partito Comunista Italiano) lascia unsegno anche sul terreno della cultura cinematografica. Ben pre-sto l’irrigidimento ideologico si fa tangibile in vari campi dellasocietà. La corrente neorealista, dopo i primi successi presso leèlites intellettuali e l’interesse internazionale, si rivela un feno-meno tutt’altro che unitario, ma al contempo diventa un parti-to preso, una poetica da difendere dai rischi di contaminazione.Nasce il canone realista. La valutazione si stringe intorno a pre-cetti estetici normativi. Il messaggio del film deve corrisponde-re a certe parole d’ordine, pena l’accusa di tradimento: «L’indi-vidualismo, l’analisi psicologica, l’allegoria, la dimensione oni-rica, non hanno diritto di cittadinanza» [Brunetta 1993, 378]. Itentativi di aprire la lezione del realismo a forme di intratteni-mento popolare (come fa, per esempio, Giuseppe De Santis, conRiso Amaro, nel 1949) sono guardati con sospetto quando noncon aperta ostilità. Condanne e incomprensioni investono i fe-

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nomeni più interessanti del cinema post-bellico: dai film di Ros-sellini e Fellini a quelli di Antonioni, Lizzani, Zampa, Pietrangeli,Lattuada.

Esemplare a riguardo il percorso di un critico-teorico comeAristarco. Egli è tra gli animatori della nuova serie di «Cinema»(le pubblicazioni riprendono nel 1948) e fonda, nel 1952, «Ci-nema nuovo» (che dirigerà fino alla morte, avvenuta nel 1996).La passione militante lo porta a seguire la maggior parte dei filmitaliani a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta. Ben prestoperò la rivista, per quanto autorevole, si chiude su posizioni pu-riste, contro ogni traccia di individualismo, di cronaca o di temiesistenziali lontani dalla Grande Storia. Visconti è consideratouno dei pochi registi in grado di perseguire il grande progettodel passaggio dal neorealismo al realismo (intrapreso, come ab-biamo visto, con Senso, nel 1954). Altri autori italiani accettatinel pantheon saranno Antonioni e i fratelli Taviani. Non moltoaltro. Le estromissioni invece investono maestri riconosciuti del-la cinematografica internazionale: Fritz Lang, John Ford, OrsonWelles, Alfred Hitchcock.

A favore della lotta al pregiudizio si distinguono in questoperiodo dei giovani critici militanti che ben presto occuperannoun ruolo importante nel rinnovo delle leve a fine anni Cinquan-ta. Tra questi vanno segnalati Renzo Renzi, Tullio Kezich, Calli-sto Cosulich, Oreste del Buono.

Oltre alla ripresa delle pubblicazioni per «Bianco & Nero»,nel 1950 nasce «Filmcritica» (attiva ancora oggi). Il direttore,Edoardo Bruno, accoglie una gamma di voci politicamente dis-sonanti: Pietro Bianchi, Gian Luigi Rondi, Luigi Chiarini, Glau-co Viazzi, Carlo Lizzani. Nel 1952, fondata da Fernaldo DiGiammatteo, nasce la «Rassegna del film», una delle poche rivi-ste che tenta di stare al passo con l’evoluzione dell’industria ci-nematografica nazionale, affrontando senza preconcetti il cine-ma popolare. Da un certo momento in poi comunque sembrache il lavoro critico proceda «per accumulazione e ripetizione,senza il gusto delle scoperte e il piacere della creatività» [Bru-netta 1993, 404]. Si allarga la frattura tra autori e critici da unaparte, tra critica specializzata e critica quotidianistica dall’altra.

Sui quotidiani, un cambio della guardia delle leve critiche siha all’inizio degli anni Sessanta. Nuove firme si fanno spazio sul-le testate principali. Al «Corriere della sera» Arturo Lanocita re-

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siste fino al 1961, poi viene sostituito da Giovanni Grazzini (unitalianista di formazione). Al «Giorno» va Pietro Bianchi. A «LaStampa», già dal 1955, Mario Gromo ha lasciato l’incarico a LeoPestelli. Ugo Casiraghi scrive su l’«Unità» (edizione milanese).Moravia tiene una rubrica su «L’Espresso», Filippo Sacchi su«Epoca». L’innovazione è comunque solo parziale. Dal punto divista degli strumenti impiegati, i recensori non contribuisconoalla diffusione di una terminologia tecnica propria di un lin-guaggio specialistico. Ci si mantiene ancorati a parametri di ve-rosimiglianza e coerenza drammatica modellati sugli standarddel senso comune. Malgrado ciò, il ricambio delle maestranzecritiche degli anni Sessanta partecipa, almeno marginalmente, aun più ampio percorso di emancipazione dalle tematiche del rea-lismo dominanti nel decennio precedente. La compattezza delfronte realista comincia a sgretolarsi. Sotto gli attacchi portatida un libro come Scrittori e popolo di Alberto Asor Rosa [AsorRosa 1965], per mediazione dei contribuiti delle nuove avan-guardie sessantesche, si assiste a uno spostamento progressivodell’interesse verso la sperimentazione linguistica, verso una con-cezione non strettamente oppositiva dei termini del binomio for-ma/contenuto, verso alcuni fenomeni della letteratura e del ci-nema popolare.

Una spinta desacralizzante nei modi di intendere il rapportotra cultura alta e cultura bassa è favorita, sempre in inizio di de-cennio, dalla pubblicazione di Apocalittici e integrati di Umber-to Eco [Eco 1964]. Di lì a poco la critica cinematografica si mi-sura con gli strumenti concettuali messi a disposizione dalle nuo-ve scienze, soprattutto semiotica e sociologia. Nell’ambito deiconvegni svoltisi presso la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro,dal 1965 al 1967, intellettuali come Roland Barthes, ChristianMetz, Pier Paolo Pasolini si incontrano nell’interesse comuneper la creazione di una coscienza critica sensibile alle pratiche disignificazione e all’analisi del testo [Pescatore 2002; Bisoni2008]. Saranno soprattutto le riviste specializzate a raccoglierequeste sollecitazioni nel momento in cui lo scontro politicoesploderà nei conflitti del Sessantotto e degli anni seguenti.

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Dagli anni delle lotte politichealla fine del secolo

4.1 Sessantotto e dintorni

Negli anni della contestazione la critica cinematografica mili-tante anima un dibattito che ha per oggetto il rapporto tra prati-ca filmica e pratica rivoluzionaria. È il problema del cinema po-litico. Le posizioni in campo possono essere riportate alle quat-tro pubblicazioni principali nel periodo [Casetti 1993].

«Cinema nuovo» si erge a difesa del realismo critico e dellametodologia marxiana. Il cinema appartiene alla cultura domi-nante, cioè borghese. Il cinema da promuovere e difendere èquello che sa farsi espressione delle ragioni delle classi subalter-ne, tenute ai margini della Storia: un cinema con una forte fun-zione sociale.

Di impostazione più radicale e maoista, «Ombre Rosse», di-retta da Goffredo Fofi, Paolo Bertetto, Gianni volpi, dà voce almovimento studentesco. Il ruolo del critico è messo in discus-sione alla pari del ruolo di ogni operatore nel campo della cul-tura borghese: l’intellettuale deve smettere di concepire se stes-so in termini di specializzazione dei saperi e prendere parte allalotta politica concreta. La critica ha il dovere di intervenire inmodo fazioso, arbitrario, a difesa di certe ipotesi di lavoro cul-turale e contro altre. In altre parole, il critico ha il compito dimettersi al servizio della rivoluzione, depurando il proprio ra-gionamento della fascinazione per gli intellettualismi eccessivi.

Diverso il taglio di «Filmcritica». La rivista si schiera per ilprimato dell’elemento estetico su quello politico. Gli autori di-fesi appartengono alle cinematografie emergenti e all’avanguar-dia: Carmelo Bene, Glauber Rocha, Godard, Truffaut, Polan-ski, il Free cinema inglese. Ma anche Hawks, Welles e altri clas-sici hollywoodiani. L’idea-base della rivista è che la dimensione

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politica di un film dipende dal suo essere in grado di riflettere suipropri problemi formali andando oltre l’utilizzo di un linguag-gio esplicativo, didascalico, autoritario. Il cinema da difendere èquello che riesce a evocare «un senso in più», vale a dire a gio-care la carta della ricchezza espressiva e a consentire la libertàdelle interpretazioni [Segatori 1996, Tomassetti 1971].

Su posizioni simili ma espresse con forza e linguaggio diffe-renti si colloca «Cinema & Film». La pubblicazione, nata nel1967, ha vita breve. La coordinazione redazionale è di AdrianoAprà, Stefano Roncoroni, Franco Ferrini, Enzo Ungari, Mauri-zio Ponzi. Le idee di «Cinema & Film» sono ispirate ai «Ca-hiers» degli anni Cinquanta e vengono filtrate attraverso l’inte-resse per l’analisi del testo caratteristico del periodo. La rivistaè ricca di letture dettagliate di film, di analisi che tentano di in-scrivere il problema dell’ideologia e del valore politico di singo-le pellicole sul piano della significazione del linguaggio cinema-tografico. L’enfasi va sul linguaggio che, se correttamente domi-nato, consente di esprimersi fuori dalla rappresentazione domi-nante. Le correnti e gli autori più difesi sono vari: Dreyer, Hit-chcock, ma anche Bertolucci, Straub, l’underground.

In Francia, il nesso cinema/politica prende la forma di unariflessione preliminare sul rapporto tra dispositivo cinemato-grafico, tecnica e ideologia. Sotto l’influenza del marxismo (diun marxismo particolare: quello riletto da Luis Althusser) e, inseguito, della psicanalisi lacaniana, si sviluppa una critica al-l’ideologia della rappresentazione. Nel 1969, su «Cinéthique»(rivista di estrema sinistra, influenzata teoricamente da «TelQuel», la bibbia del radicalismo teorico letterario francese) ci siinterroga sul ruolo della macchina da presa. Il punto è che, pri-ma ancora di definire il grado di militanza sulla base di que-stioni espressive o di contenuto, bisogna chiedersi cosa sia ilmezzo usato. La macchina da presa, prima ancora di diffonde-re qualsiasi cosa, diffonde ideologia borghese. Essa non ripro-duce il mondo così com’è, ma il mondo filtrato attraverso uncodice rappresentativo storicamente determinato. La camera ri-produce i meccanismi della prospettiva rinascimentale e con ciòè la codificazione stessa dello sguardo borghese. Il cinema è inquanto tale schierato ideologicamente sul versante del rilan-cio/perfezionamento della rappresentazione codificata dalla tra-dizione borghese/capitalista. Il cinema tradizionale riproduce

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le ideologie esistenti a livello di contenuto. Ma contempora-neamente promuove un’ideologia propria, cioè l’impressione direaltà. Ciò che bisogna fare è promuovere un tipo di cinema ingrado di interrompere l’illusione di naturalezza e trasparenzadella rappresentazione del cinema classico. Diventa necessariospezzare l’impressione di realtà cara allo spettacolo borghesemediante un cinema materialista, dialettico, capace di portare inscena i meccanismi produttivi e concreti del fare cinema (comeavviene in certi film di Godard, dove si vedono inquadrati gliassegni necessari a pagare le maestranze del film stesso che si staguardando, o dove gli attori si rivolgono alla macchina da pre-sa dicendo «siamo attori di un film di J. L. Godard»).

I «Cahiers» rifiutano la netta dicotomia tra l’essere fuori el’essere dentro al sistema di rappresentazione dominante. Da unlato ci sono film di rottura che interrompono l’illusionismo clas-sico. Dall’altro ci sono film ciecamente fedeli all’ideologia do-minante. Ma in mezzo si collocano molti film che lavorano a de-costruzioni parziali dell’ideologia dominante o film, come quel-li di Hitchcock, Dreyer, Rossellini, che sembrano interni al-l’ideologia borghese ma in realtà ne sanno individuare i punti dirottura, contraddizione o eccesso.

Come si può notare il problema dell’ideologia è posto in mo-do diverso in Francia e in Italia. Lasciamo questa contrapposi-zione teorica sullo sfondo. Ciò che qui interessa è la ricaduta del-la differenza sul piano della critica, del giudizio, della promo-zione culturale. Diversità che è osservabile su un doppio fronte.

In primo luogo la visione del cinema politico in Francia è le-gata in modo molto stretto al dibattito teorico nazionale. L’ap-plicazione conseguente di quanto viene teorizzato porta comerisultato che, per esempio, tra Crepa padrone: tutto va bene diGodard (1972) e Coup pour coup di Marin Karmitz (1972) si di-chiara a chiare lettere che l’unico autentico film politico è il pri-mo. In Italia su «Ombre rosse» si può leggere esattamente il giu-dizio contrario: Karmitz il vero rivoluzionario, Godard l’autoreinvoluto, incomprensibile, formalista.

In secondo luogo, i «Cahiers» da un lato vanno oltre il dog-ma delle nazione creatrici, attraverso la nozione di terzo cinemaaprono al cinema brasiliano, giapponese, canadese e russo. Dal-l’altro rimangono aggrappati al canone classico pur decostruen-dolo ideologicamente. È vero che non si tratta di un movimen-

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to unitario. Già prima del Sessantotto la tradizione della rivistaè messa sotto assedio: decostruzione delle nozioni di «autore» e«messa in scena», critica frontale a cineasti come Minnelli e Pre-minger sulla base di raid teorici di tipo interdisciplinare (anco-ra semiotica e psicanalisi) ad opera di nuovi critici come LousComolli e André Labarthe. Il cinema difeso in occasione dei fe-stival (Nouveu Cinéma: Bertolucci, Straub, Rocha) è visibile so-lo nelle grandi città e spesso con anni di ritardo. I lettori si al-lontanano dall’elite critica. I film stanno in secondo piano, ser-vono da studi di caso per urgenze teoriche e politiche di ben al-tra portata. D’altra parte, l’analisti testuale, per quanto influen-zata dai seminari di Althusser e nutrita a robuste dosi di lingui-stica, si esercita spesso su film canonici in senso classico (di Wel-les, Ford, Sternberg), promuove letture rigorose, scientifiche diHitchcock (cose che infatti motivano gli attacchi della ben piùdottrinaria e gauchista «Cinéthique»). Quando i «Cahiers» de-finiscono la categoria dei film «che sono parte del sistema di do-minio ma che ne lavorano le contraddizioni dall’interno» apro-no una spazio di riflessione in grado di recuperare la tradizionedel classico in una prospettiva di negoziazione tra spinte alla de-costruzione politica e ciò che rimane (e resiste) della cinefiliastorica.

Questo contributo di mediazione sarà ripreso anche in Italiadalla cinefilia politicizzata degli anni Settanta [Ortoleva 1999].Ma è anche tra le caratteristiche principali di Serge Daney, unodei critici di cinema più apprezzati degli anni Settanta e Ottanta.Daney ha fatto parte della seconda generazione di critici chegiunge ai «Cahiers» quando i giovani turchi sono già maestri af-fermati o autori internazionali, e che ha saputo mediare tra leistanze cinefile e le urgenze politiche degli anni Sessanta-Settan-ta. In Daney, nella sua prosa al contempo disincantata e rigoro-sa, si coglie l’abilità di fare incontrare/scontrare la lezione di Ri-vette e Godard con il richiamo a pensatori ad essa estranei comeLouis Althusser, Jacques Lacan, Michel Foucault e Jacques Ran-ciere. Nella sua prosa si mescolano suggestioni teoriche, tentati-vi di mantenere in vita un’idea di etica della visione, capacità ana-litica di indagare in tempo reale le differenze tra la classicità delcinema e le sue mutazioni mediali. Ricorda Antoine De Baecque,a proposito di Daney: «non ha mai concepito il cinema come unsistema chiuso, e lo ha aperto incessantemente verso una geo-

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grafia del viaggio o verso i mondi intellettuali che, a volte, pos-sono circondarlo o affiancarlo. Perciò tiene a incontrare Deleu-ze, Ferro, Legendre o Sibony, permettendo ai «Cahiers» di rin-novare le proprie riserve di idee. Infine comprende abbastanza infretta, in particolare grazie a Godard, che l’immagine cinemato-grafica non è più sola, che essa ha a che fare con quelle della pub-blicità e della televisione» [De Baecque 1993, 353]. Negli anniOttanta Daney è tra i primi a essere consapevole che non ha piùsenso chiudersi nell’atteggiamento del cinefilo nostalgico, in rim-pianto di una purezza dell’immagine cinematografica persa persempre. Egli pubblica su «Libération» una serie di riflessioni sul-la ri-proposizione, la messa in circolo del patrimonio della storiadel cinema attraverso la televisione. Contemporaneamente si ac-corge che il confronto tra cinema e l’audiovisivo in generale ha ri-definito in modo profondo e inusuale l’archivio complessivo del-le immagini in movimento producendo effetti anche sul campodel cinema stesso [Daney 1995; id. 1999].

In Italia il dibattito critico si svolge soprattutto sul fronte delcinema politico, sia attraverso la discussione intorno a film so-cialmente impegnati talvolta prodotti dalle grandi case di pro-duzione sia attraverso la promozione di ipotesi di cinema mili-tante legate ai collettivi politici. Le cose iniziano a cambiare ver-so la metà del decennio. Voci sempre meno isolate fanno nota-re che è ora di cominciare a leggere «Tel Quel» per capire la rap-presentazione e Foucault per capire San Michele aveva un gallo[Farassino 1973]. «Bianco & Nero» si trasforma in una pubbli-cazione monografica che ospita speciali dedicati a questioni co-me il cinema francese dopo il Sessantotto, il rapporto tra cine-ma e televisione negli Stati Uniti, Sergio Leone, il film speri-mentale. Il fascicolo che raccoglie i numeri 9-12 del 1976 è par-ticolarmente significativo. Intitolato La controversia Visconti,presenta articoli di giovani studiosi che, in polemica con la cri-tica tradizionale, rifiutano la retorica di celebrazione del registamilanese. Visconti diventa l’emblema dell’arretratezza e del pro-vincialismo della cultura cinematografica italiana [Di Giammat-teo 1976; Grasso 1976; Menon 1976].

Nel corso del decennio, l’attività dei club-cinema (il Filmstu-dio a Roma, Il movie club a Torino, lo Spaziouno a Firenze, laCappella Underground a Trieste ecc.) favorisce la diffusione di un

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gusto cinefilo tutto sommato inedito (o quantomeno rimasto aimargini) che dalle redazioni di «Filmcritica» e «Cinema & Film»filtra in alte riviste o iniziative [Bisoni 2009]. La cinefilia settan-tesca non rinuncia a uno sguardo politicizzato sul cinema di con-sumo, ma in certi casi privilegia i toni del discorso sentimentaleverso il cinema classico, in altri nega che l’unica strada percorri-bile coincida con la politica culturale di «Cinema nuovo» o inse-gue il progetto di una conciliazione tra l’immaginario cinefilo equello popolare, contribuisce alla diffusione di strumenti d’ana-lisi del testo derivati soprattutto dalla semiotica, dalla critica fran-cese dell’ideologia, dalla teoria dei massmedia.

Nell’area della nuova cinefilia si muovono anche critici chedimostreranno capacità di adattamento al sistema dei media ita-liano, ideando trasmissioni e producendo contenuti che ancoraoggi sono considerati parte di un patrimonio essenziale per mol-ti cinefili. Si pensi al lavoro di ri-mediazione della cultura cine-matografica fatto da Claudio G. Fava, Oreste De Fornari, Mar-co Giusti, Enrico Ghezzi. Attraverso i programmi di questi criti-ci e autori televisivi (tra i quali il più noto e duraturo è Fuori Ora-rio), i cinefili delle generazioni successive hanno avuto accessoalla visione televisiva di film di difficile reperibilità, spesso pro-grammati solo da festival internazionali e cineclub cittadini.

Tra i critici cinefili che, a cavallo tra anni Settanta e Ottanta,hanno dato un contributo essenziale allo svecchiamento dellacritica cinematografica e agli studi storici sul cinema, vanno ri-cordati Adriano Aprà, Giovanni Buttafava ed Enzo Ungari.

Aprà è uno dei primi critici che tra anni Sessanta e Settanta,soprattutto lavorando nella redazione di «Cinema & Film», siimpegna nella diffusione di un modello di cinefilia dove inte-ressi estetici e politici si intrecciano. Ha contribuito al rilanciodegli studi sul cinema italiano riscoprendo generi popolari esclu-si dal canone realista (per esempio, i melodrammi di RaffaelloMatarazzo). Già dal 1968-’69 porta avanti varie provocazionicritiche. In quella fine decennio infatti, accanto a un articolo chefa a pezzi senza troppi complimenti Apollon, una fabbrica occu-pata (Gregoretti, 1968), film legato all’ambiente del movimentostudentesco e alla sinistra extra-parlamentare [Aprà 1969], pub-blica un elogio del cinema di Jerry Lewis, fino a quel momentooggetto di poche attenzioni. Aprà si chiede: quale è l’attualità diJerry Lewis nel 1968? Ecco la risposta: Lewis è un regista capa-

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ce di mediare tra la tradizione del racconto hollywoodiano e lespinte decostruttive, moderniste del nuovo cinema. Nei suoi filmla tradizione classica è al contempo rispettata e superata. Lewisama la tradizione da cui proviene, ne riproduce lo splendore tec-nico, la perfezione dei particolari artigianali, accumula tipologiedi genere, e ne mette a nudo le componenti costitutive. Così,benché Godard e Straub facciano film per gli spettatori futuri eLewis “solo” per gli spettatori presenti, si può vedere in que-st’ultimo un regista che produce forme apparentemente cano-niche nel momento stesso in cui le sta dissolvendo, portandoHollywood e ciò che sopravvive delle forme classiche verso unpunto di non ritorno [Aprà 1968].

Giovanni Buttafava è stato un critico poliedrico ed erudito.Pur avendo pubblicato relativamente pochi libri completi a pro-prio nome, il suo ruolo di guida per le generazioni cinefile dellaseconda parte degli anni Settanta viene da più parti riconosciu-to. Buttafava si forma in campo letterario (letteratura russa) e di-venta in breve tempo un esperto poliglotta, fine conoscitore delcinema sovietico. Negli anni Settanta e Ottanta, oltre a scrivere su«L’Espresso», è tra gli animatori dell’iniziativa editoriale de «Ilpatalogo» (assieme a Franco Quadri, con cui aveva già lavoratoa «Ubu», rivista semi-underground da cui, più o meno clande-stinamente, transitano futuri cinefili e professori universitari). Viè nella prosa di Buttafava «[…] la volontà […] di rompere conogni schema: quello delle riviste specializzate, delle pubblicazio-ni ideologiche, dei centri ufficiali, o comunque di “abitarli” a mo-do suo. Come a modo suo vi è il diletto fantasmagorico di occu-parsi di prodotti “bassi” o “popolari” senza rinunciare – in que-sta scelta che suona eterodossa – al metodo critico e senza paro-diarlo: cioè con destrutturazioni divertite e spigliate, e non conidolatrie malinconiche e grevi» [Pellizzari 2000, 11].

Infine Enzo Ungari è ritenuto una delle personalità più rap-presentative della cinefilia degli anni Settanta. Si forma attra-verso la cultura dei club-cinema che aveva contribuito ad ani-mare fin dalle origini. Nei suoi scritti (come in quelli di SergeDaney) si trova un misto di consapevolezza teorica, erudizionestorica e sincero amore per il cinema [Ungari 1978]. L’insiemedi queste qualità lo avrebbe trasformato, se gli fosse stato con-cesso di vivere abbastanza, in una di quelle autorità estranee ascuole o accademie, a cui, nella redazione di complicate opere

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editoriali collettive, si affidano sempre i pezzi più difficili e im-pervi, con la certezza della qualità del risultato. Il suo percorsointellettuale è da cinefilo canonico, a partire dall’amore incon-dizionato per Rossellini. Lo spettro del suo gusto è assai ampio(da Jerry Lewis a Carmelo Bene, passando per Warhol e Berto-lucci) e si forma sui maestri del cinema classico, senza trascura-re la modernità o la scoperta di autori poco conosciuti (Gitai,Kleifi ecc.).

4.2 Dagli anni Ottanta agli inizi del nuovo millennio

Tra anni Settanta e Ottanta i saperi cinematografici prose-guono nel lento processo di istituzionalizzazione. Mentre il mon-do del cinema entra in crisi in particolar modo dal punto di vi-sta della produzione e del consumo in sala, la cultura cinemato-grafica vive un periodo abbastanza florido che dura fino alla me-tà degli anni Ottanta. In questo giro d’anni le pubblicazioni ci-nematografiche aumentano, nascono editori e collane di cine-ma; la storia del cinema entra nelle università e, in via speri-mentale, all’interno di alcuni programmi scolastici. L’interazio-ne tra critica e lavoro universitario porta la riflessione verso ilrecupero di tradizioni teoriche fino a quel momento minoritarie(per esempio, il pensiero di Bazin, autore già parzialmente tra-dotto nel 1972) e a riflettere su fenomeni più o meno recenti, inun’ottica nuova: il rapporto tra cinema e televisione, la serialità,l’intertestualità, la citazione, il remake.

Nello stesso periodo il luogo in cui si manifestano in modoplateale segni di crisi è la critica quotidianista [Colombo 1998].Nell’introduzione a un proprio volume di recensioni GiovanniGrazzini scrive: «estendendosi l’area della società dello spetta-colo, anziché estendersi le competenze, il cronista ha prevalsosul critico sin quasi a neutralizzarlo. Parallelamente alla sua re-sa pressoché totale alla cultura del marketing, la grande stampaha progressivamente ridotto gli spazi concessi al critico, soprat-tutto se dissidente dalle scelte redazionali […]» [Grazzini 1976,19]. Il quotidianista viene affiancato da giornalisti di costume,“coloristi” che ne intaccano l’autonomia. Il critico fatica a staredietro all’incremento dell’offerta culturale tipica degli anni Ot-tanta e Novanta, lamenta la mancanza di spazi e tempi per la ri-

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flessione, dimostra insofferenza per i festival “troppo pieni”.Inoltre, con il passare degli anni, si ha una riduzione degli spazicritici. Le recensioni si accorciano per lasciare spazio ad altri ar-gomenti: «è ormai evidente che il numero di articoli dedicati al-la televisione e lo spazio relativo è pressoché doppio rispetto alcinema» [Brunetta 1993, 120]. Il critico naviga incerto nel pae-saggio multimediale, si trova spinto ai margini dalle dinamichedi consumo. Perde di vista la specificità del ruolo e del propriooggetto di interesse. In questi anni di aperture al racconto, aHollywood, alla televisione, la cinefilia pura viene affiancata daforme di cine-tele-foto-video-fagia. Anche in Francia qualcunoafferma: «Tutto il lavoro della fine degli anni Settanta consiste[…] nel restituire corpo al cinema, attraverso una comprensio-ne della cultura popolare […], della storia (Syberberg), del mo-vimento (Godard, Deleuze), con l’esperienza della paura fisica(De Palma, Cronemberg) o con la curiosità per il corpo dell’al-tro» [De Baecque 1993, 376].

Quindi la critica opera su un terreno di tensioni contrappo-ste. Da una parte la volontà di recuperare il piacere della visio-ne, la dimensione spettacolare dell’evento-film, la necessità di“dare corpo” e consistenza al cinema e alla riflessione che si eser-cita su di esso. Dall’altra, la consapevolezza che l’esercizio criti-co-teorico si produce su oggetti dal profilo sfuggente, che l’og-getto-film si perde, perde peso e corpo, nel flusso mediatico, al-l’interno di uno scenario sociale che si è allontanato dalla radi-calità politica dei Settanta e fa già da terreno di accoglienza perle teorizzazioni sulla postmodernità.

Nel corso degli anni Novanta e nel passaggio alla prima par-te del decennio successivo, accanto al persistere del processo diassottigliamento degli spazi di recensione sulla grande stampa eall’assestarsi delle riviste specializzate su dati di vendita esigui, siosservano fenomeni inediti. I due principali sono: il recupero al-la coscienza critica della produzione nazionale di genere piùsommersa, la prima fase di riorganizzazione della cultura cine-matografica mediante i new media e il web.

La cinefilia politicizzata degli anni Settanta e Ottanta avevacontribuito a colmare i vuoti della storia del cinema ufficiale in-dagando i fenomeni di continuità (in termini di maestranze, sce-neggiatori, pratiche di contaminazione) tra gli autori riconosciu-

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ti dalla cultura alta e il cinema di genere (melodramma, comme-dia anni Trenta ecc.) e concentrandosi su fenomeni solo appa-rentemente marginali (il cinema porno). Malgrado ciò, alcuni ge-neri popolari, come il poliziesco, erano rimasti sostanzialmenteinesplorati e guardati con disprezzo, soprattutto sulla base delpersistere di un forte pregiudizio ideologico. Ora invece una nuo-va leva cinefila raccolta intorno a riviste come «Amarcord» e«Nocturno» si dedica a una sistematica considerazione storico-critica dei generi e dei sotto-generi di profondità. Oltre al poli-ziesco trovano rivalutazione fenomeni come il decamerotico de-gli anni Settanta, il nazi-porno, il Rape & Revange. In alcuni ca-si l’operazione riesce. L’indubbia competenza storica, l’erudizio-ne nel compilare schede e filmografie, la presenza di critici ca-paci di considerare questi fenomeni interpretandoli in modo con-vincente, sono elementi che hanno permesso una migliore intel-ligenza di certi settori dell’industria culturale italiana. In altri ca-si lo spirito collezionistico e sacerdotale, la polemica anti-acca-demica, il partito preso della marginalità di gusto sono sfociati inuna riesumazione archeologica priva di sguardo interpretativo,in un ambiguo (e talvolta molesto) anti-intellettualismo.

Per quanto riguarda la prima fase della diffusione della cul-tura cinematografica on line, il fenomeno che inizialmente pareessere più rilevante è quello dei forum e dei blog di cinema in re-te. Con i blog si assiste a una ripresa di forme discorsive in par-te accantonate, come per esempio, la polemica, il dibattito travoci contrastanti, la conversazione. Inoltre sul web si ricrea quel-l’effetto di comunità, di discorso condiviso e di attivazione diuna memoria sociale che era stata una delle caratteristiche dellacinefilia storica francese.

La cinefilia è sempre stata una formalizzazione di un di-scorso sentimentale verso il cinema. In rete, soprattutto in unaprima fase, prevale proprio questo aspetto: ciò che conta è ilracconto dell’esperienza di visione, la sua condivisione comu-nitaria. L’idea dominante è quella di vivere l’esperienza del ci-nema senza il filtro dei saperi e della cultura cinematografica, at-teggiamento esemplificato dalla frase di Orson Welles rivolta aPeter Bogdanovich, che si trovava a mo’ di epigrafe sulla pagi-na principale del blog di un giovane cinefilo: «Non esiste la cul-tura cinematografica, Peter, solo un enorme mucchio di film».Proprio in ciò però sta anche la differenza sostanziale rispetto

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alle generazioni cinefile degli anni Cinquanta e Settanta. I gio-vani turchi conducevano una battaglia culturale sul terreno deisaperi tradizionali. Era una questione di rivoluzione di gusto eanche di occupazione di luoghi fisici e simbolici: redazioni digiornali, posizioni professionali ecc. Si trattava di sconfiggereuna cultura per fare letteralmente spazio a un’altra. I blog di ci-nema sembrano privi di questa dimensione strategica, polemi-ca e aggressiva. Si collocano ai margini dei saperi più visibili econ essi interagiscono solo marginalmente. Le cose comincianoa cambiare nella seconda parte del primo decennio del nuovomillennio.

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Capitolo 5

La critica di cinema nella cultura digitale

5.1 Una storia inedita

Mentre queste parole vengono scritte la critica cinematografi-ca nell’epoca di internet si avvia a essere una creatura adulta. Oquanto meno adolescente. È qualcosa di cui in sostanza sta diven-tando possibile fare una storia. La forma-blog, il numero dei bloge il loro funzionamento sono cambiati notevolmente negli ultimidieci/quindici anni (dal 1998 al primo decennio del nuovo millen-nio). In questo capitolo l’attenzione cade sui principali cambia-menti in atto, e sui modi in cui questi cambiamenti vengono pen-sati, accettati o rifiutati nella cultura contemporanea.

Almeno su un fatto sono tutti d’accordo: con l’affermarsi delweb un cambiamento c’è stato anche nel mondo della critica ci-nematografica. L’accordo è minore su come interpretarlo. I di-fensori della rete insistono sull’effetto quantitativo: il web ha ge-nerato un avvicinamento al discorso critico che, indipendente-mente dai risultati, è da considerare un fattore positivo. I detrat-tori invece insistono su altri fattori. Luca Malavasi ha sostenuto,per esempio, che la maggior parte dei portali di cinema italiani(MYmovies, Movieplayer) si ispira a un modello di critica con-servatore, interamente costruito sull’emulazione delle formuleproprie della critica cartacea, rivolto a uno spettatore ideale in-gordo di film quanto sostanzialmente indifferente alla qualità del-la scrittura e del pensiero. Per quel che riguarda i blog, la situa-zione non è molto diversa anche se più frastagliata. Malavasi in-dividua tre tipologie di blog di cinema. Nella prima il blogger se-gue un modello diaristico in cui la visione filmica aderisce com-pletamente all’esperienza di vita, «la critica assume dunque la for-ma di un’opinione personale e/o di un consiglio, in bilico tra im-pressione fotografica e chiacchiera in libertà» [Malavasi 2012, 47].

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Nella seconda tipologia il blogger si propone di “fare critica” con-tro la critica ufficiale e le sue consuetudini intellettuali. In questomodello il critico tradizionale è pensato come un soggetto troppoprofessionale e distaccato per rendere conto della “vera” espe-rienza filmica, che in genere il blogger descrive come un insiemedi passioni molto forti e coinvolgenti. Nella terza tipologia il blog-ger non si pone contro la critica professionale ma usa il blog peroffrirne una sorta di prolungamento on line (è il modello propriodi tutti quei critici “professionisti” che tengono anche una pagi-na on line dove “rimediano” i propri contenuti).

Detto ciò, lo stesso Malavasi ammette che in rete si trovanoanche esempi alternativi di sguardo critico, attenti magari a ri-lanciare il progetto di un’autorialità adeguata ai tempi o l’at-tenzione a quel che l’industria culturale mainstream ha trascu-rato. Insomma, oggi nessuno è disposto a negare che «il mon-do della critica e quello della cinefilia sono radicalmente cam-biati nel corso degli ultimi anni» [Menarini 2012, 9]. Lo stes-so può dirsi del cinema e della cultura cinematografica nelleloro totalità.

Sono queste due totalità e i loro incroci a costituire lo sfondomigliore per studiare l’evoluzione recente della critica cinemato-grafica. Ci soffermeremo soprattutto sui problemi interni al mon-do della critica. Però resta fondamentale ricordare brevementeche la critica e la nuova cinefilia sono condizionate in modo pro-fondo dall’impatto delle nuove tecnologie sul patrimonio filmico.Al punto che è stato possibile definire le fasi della cinefilia degliultimi vent’anni cadenzandole sulle tappe dello sviluppo tecnolo-gico: dal VHS al film senza supporto fruibile in rete, passando perdvd e blu-ray [Pezzotta 2012].

Affrontiamo i quattro principali nodi di cambiamento che ilweb ha introdotto nel mondo della critica cinematografica.

5.2 La commistione delle tipologie di discorso

La proliferazione dei blog e dei centri di diffusione di discorsisul cinema di vario genere (siti per specialisti, rubriche on line,forum su piattaforme dedicate ecc.) evidenzia il fatto che ci tro-viamo di fronte a una nebulosa discorsiva estesa e complessa. Letipologie discorsive di base rimangono le stesse: saggio di varie

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lunghezze, interviste, e soprattutto recensioni in tutti i loro pos-sibili sotto-format (brevissime, brevi, medie, lunghe). Tuttavia sipiegano a usi più disinvolti che ne scardinano talvolta le regolecostitutive.

Il campo della forma-recensione è il più adeguato per spie-gare il fenomeno. Come diremo più avanti, la recensione è la for-ma di discorso critico più regolata da codici retorici. Cioè più re-golata da vincoli di inventio e soprattutto di dispositio ed elocu-tio (si vedano i punti 7.2 e 8.3). On line si assiste a una prolife-razione di recensioni, proprio come avviene sulle riviste specia-lizzate non accademiche. On line però la recensione è semprepiù liberata da vincoli retorici (la posizione variabile della tramae del giudizio nel pezzo, le tipologie di cappello introduttivoecc.). Questa libertà è osservabile anche sul piano dei registri di-scorsivi, con un netto predominare del registro informale carat-terizzato da marcatori di colloquialità e scelte lessicali basso-mimetiche.

Il mix degli elementi che ho ricordato può dare vita a variesempi. Eccone due:

Parlami d’amore, ovvero l’Into the Wild italiano.Non sembra pure a voi che questi due si assomiglino un po’?Ma sì! Infatti anche i rispettivi film hanno parecchi punti in co-mune, che rendono l’opus primum mucciniano una specie diInto the Wild della Controriforma. Svolgimenti diversi, ma assinarrativi spesso paralleli. Non ci credete? Leggete la breve com-parazione, poi ne riparliamo.1a) La cosa più toccante, per chi scrive, di Into the Wild è il

tentativo di Christopher (Emil Hirsch) di rifarsi una fa-miglia, di ricostruire ricorrendo a figure parentali sostitu-tive (i due hippie, l’ex militare vedovo) radici, identità eprovenienza che possa sentire davvero sue.

1b) L’unica cosa interessante di Parlami d’amore è il tentativodi Sasha (Silvio Muccino) di rifarsi una famiglia, di rico-struire un complesso di Edipo dopo essere stato progres-sivamente abbandonato dalle persone care.

2a) Christopher fugge dalla upper class nichilista e decadente(la famiglia) e si ritrova nella comunità hippie. Lascia lacittà per la campagna.

2b) Sasha fugge dalla comunità hippie (gli ex tossici di BorgoFiorito) e si ritrova nella upper class nichilista e decaden-te. Lascia la campagna per la città.

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3a) Christopher ha un incontro decisivo con una donna piùanziana (Jan) che lo educa alla nuova vita.

3b) Sasha ha un incontro decisivo con una donna più anziana(Nicole) che lo educa alla nuova vita.

4a) Jan sconta il trauma di una perdita (il figlio) che tende a ri-parare con la presenza di Christopher.

4b) Nicole sconta il trauma di una perdita (il fidanzato) chetende a riparare con la presenza di Sasha.

5a) Christopher incontra una ragazza bellissima con la pas-sione per la musica.

5b) Sasha incontra una ragazza bellissima con la passione perla musica.

6a) Christopher rifiuta di unirsi carnalmente con la ragazzabellissima di cui sopra. Lei piange.

6b) Sasha si unisce carnalmente in modo compulsivo con la ra-gazza bellissima di cui sopra, ma poi la rifiuta. Lei piange.

7a) Christopher incontra una specie di fratello maggiore de-linquente (Vince Vaughn) che, prima di sparire (viene ar-restato), lo incoraggia a seguire il suo istinto: quello per ilviaggio.

7b) Sasha incontra una specie di fratello maggiore delinquen-te (Max Mazzotta) che, prima di sparire (si uccide in crisidi astinenza), lo incoraggia a seguire il suo istinto: quelloper il poker alla texana.

8a) Christopher incontra qualcuno che lo riempie di botte.8b) Sasha incontra qualcuno che lo riempie di botte.9a) Into theWild è un romanzo di formazione che si risolve in

un fallimento, perché il protagonista cerca la solitudine el’autenticità, ma arriva fatalmente a qualcosa di diversoche non cercava, l’autodistruzione.

9b) Parlami d’amore è un romanzo di formazione che si risol-ve in un fallimento, perché (ecco la Controriforma) il pro-tagonista capisce che «non esiste una donna che non pos-sa essere conquistata», ma a quel punto decide di conqui-stare sua mamma.

10a) Into the Wild è un film indubbiamente cinefilo, che ri-manda continuamente alla New Hollywood (Malick, Ra-felson, Peckinpah…). Ma questo forse è il suo lato menointeressante.

10b) Parlami d’amore è la pietra tombale di certa cinefilia no-strana (ci vogliamo mettere in fila?). Quella per intender-ci che mescola Eyes Wide Shut, Il portiere di notte, C’erauna volta in America, L’Atalante, Roma a mano armata per

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creare uno strano intruglio di etica noir (potrei vincere mapreferisco perdere), eccentricità visiva (che belle le luci co-lorate), sceneggiatura composta col t9.

Cose che ci sono nel nuovo film di Soldini, che per fortuna qual-cuno ha finanziato perché non vorremo mica impedire all’arte diesprimersi, scritto da Guia Soncini il 16 ottobre 2012, alle ore14:27 (28 commenti)– Una che dipinge malissimo e fa opere concettuali urende e

però noi dobbiamo empatizzare perché è artista, come dimo-stra la salopette perfettamente istoriata di colori mentre la ma-glietta è intonsa.

– Mastandrea con un sopracciglio bianco perché i poveri nonpossono permettersi la tintura.

– Un tredicenne che invece di farsi le pippe tenta di praticare lazoofilia con una cicogna renitente.

– Il punto di vista della statua di Garibaldi: sostanzialmente,che gli italiani non siano all’altezza.

– Il punto di vista della statua di Leonardo: pure.– Un soggettista che ha detto «Ho un’ideona: facciamo parla-

re le statue di Garibaldi e Leonardo!» – e nessuno gli ha spu-tato.

– La soggettiva della cicogna.– Un affitto pagato in ritardo e un lavoro non pagato sceneg-

giati da gente che, beata lei, non ha un’idea neanche vaga del-le due situazioni (ma a quest’ora starà certamente stigmatiz-zando il precariato in conferenza stampa).

– Una corsa in bici nella metropoli trafficata, delle nuvole al-l’alba e altri effetti visivi fatti col fotosciòp gratuito in provache gira su un Commodore 64.

– Una baita svizzera: la riconosci perché fuori c’è la bandierabianca e rossa, che tutte le baite svizzere piantano sulla sogliacasomai qualcuno non sapesse dove si trova.

– La Gerini fantasma in bikini che a un’ora e un quarto di filmdiventa improvvisamente genovese.

– Battiston che studia le lingue e non sa come si dica «dove» intedesco.

– Gente genericamente corrotta, la riconosci perché dice le uni-che cose di buonsenso, invece d’essere poetica e tentare d’in-gropparsi cicogne o artiste con la fasciatura del naso rotto di-pinta con le tempere.

– Poveri che hanno la sveglia col display rosso.– Poveri che mettono i fiori a centrotavola per cena.

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– Poveri che rifiutano le offerte di altri poveri che portano ca-pretti in dono per scusarsi che il loro figlio abbia messo sul-l’internet il video in cui la figlia dei poveri buoni faceva unapompa al figlio di questi poveri fuoriusciti da La ragazza conla pistola.

– Poveri che sono poveri.– Adolescenti che parlano con accenti a caso diversi da quel-

li della madre, del padre, del fratello e della città in cui vi-vono.

– Adolescenti dei quali comunque non si capiscono la metà deidialoghi, come pure degli adulti, ché la presa diretta è arte,mica scienza, e a vedere le commedie mica ci si va per le bat-tute.

– Collant bianchi a significare intellettuale.– Accessori animalier a significare corruzione.– Favino che doppia una statua, e qualcuno, santiddio, lo sal-

vi da se stesso e dalla sua incapacità di dire «no» ai copio-ni, non possiamo cambiargli numero di telefono? È per ilsuo bene1.

In entrambi i casi abbiamo quasi tutte le componenti richia-mate: disarticolazione della dispositio tradizionale, riarticola-zione del format intorno a modelli nuovi (l’elenco, la lista, il con-fronto a due unità), uso di un linguaggio colloquiale che si ri-chiama alla forma diaristica (non a caso il diary nelle statistichequantitative sui blog è di gran lunga la tipologia di topic più co-mune e frequente [Malavasi 2012]).

5.3 La ridefinizione della nozione di gusto

Fino a qualche anno fa la critica delle riviste specializzate siopponeva alla critica impressionistica, che veniva appunto defi-nita «critica di gusto». Il giudizio e la valutazione erano consi-derate attività compromesse con gli aspetti più aleatori del la-voro intellettuale.

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1 I due articoli sono stati consultati on line l’ultima volta il 30/11/2012 ri-spettivamente ai seguenti indirizzi: http://secondavisione.wordpress.com/2008/02/22/post-643/; http://www.guiasoncini.com/2012/10/16/cose-che-ci-sono-nel-nuovo-film-di-soldini-che-per-fortuna-qualcuno-ha-finanziato-perche-non-vorremo-mica-impedire-allarte-di-esprimersi/.

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Oggi è sempre più difficile ragionare in questi termini. Nel-la società delle reti il posto un tempo occupato dalle agenzie co-me la critica e le istituzioni scolastiche è stato parzialmente pre-so dai nuovi taste maker e la stessa teoria del gusto si trova ad af-frontare problemi inediti.

La sociologia vicina alla lezione di Pierre Bourdieu ha corro-borato e aggiornato il modello di analisi della formazione e del-la trasmissione del gusto in base a quale le pratiche di consumoe apprezzamento culturale sono formate e determinate da net-work sociali preesistenti [Bourdieu 1983]. Al processo, assai no-to, che va dai network relazionali ai gusti oggi se ne affianca unaltro in direzione inversa: dai gusti alle reti di relazioni. Vale a di-re, sul web i differenti stili di consumo e apprezzamento cultu-rale influenzano e/o generano reti sociali [Lizardo 2006; Sulli-van, Gerro 2007]. Il gusto si converte all’istante in forme di so-cialità e di relazione tra individui, come testimoniato anche dairecenti studi sulle liste di preferenze e attività sui social network[Liu 2008]. On line le reti di interrelazione personale sono piùfluide e aperte. Il consumo culturale non solo favorisce i net-work esistenti ma aiuta a crearne di nuovi, offrendo basi con-versazionali per interagire tra soggetti con interessi simili. Il gu-sto diventa sempre più un meccanismo di identificazione ritua-le e un modo per costruire reti fiduciarie, secondo la logica difunzionamento del capitale subculturale, delle nicchie formateda piccole comunità ognuna guidata da un set distintivo di stilidi vita, comunità in cui sono i gusti a costruire il principale ele-mento di socialità/sociabilità.

Viviamo in una società del giudizio generalizzato, dove i fat-tori di gusto funzionano come dispositivi di selezione nell’im-mensità di opzioni culturali che hanno invaso le nostre vite. Lacritica cinematografica comincia a tenerne conto e torna a mi-surarsi senza pregiudizi con il potere dei gusti. Il fatto è testi-moniato anche dal numero di critici che si impegnano a garan-tire un’affermazione costante della propria expertise on line eun consolidamento del ruolo di taste maker trasversalmente al si-stema dei media, scrivendo sui giornali cartacei ma tenendo an-che rubriche sui siti, dibattendo di cinema sui social network(per esempio, attraverso mini-recensioni su Twitter).

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5.4 La ridefinizione dell’expertise

Un altro modo per rivedere i rapporti tra esercizio critico esociologia del gusto è ragionare sui nuovi profili dell’expertise,cioè sul ruolo dell’esperto nella cultura contemporanea.

A prima vista la metafora migliore per descrivere le moda-lità odierne di diffusione culturale è quella del contagio, delfenomeno virale, dell’epidemia (qualcosa che, tra l’altro, hauno spazio nel nostro immaginario, anche cinematografico).Basta guardare le classifiche settimanali dei video più cliccatisu Youtube per trovarsi di fronte a una miriade di video-suc-cessi effimeri e incontrollabili: unità culturali che, interessateciecamente solo alla replica infinita di se stesse, si diffondonoattraverso ciò di cui dispongono, il vettore di contagio per ec-cellenza della contemporaneità: la rete. Le istituzioni tradizio-nalmente incaricate di dispensare consigli e divieti (come la cri-tica) perdono potere.

Tuttavia ci sono pratiche che permettono il formarsi di sotto-comunità, che fanno da zona di aggregazione di idee, giudizi,abitudini ed esperienze. Continuano a esistere operatori che fa-cilitano la diffusione massiccia di certe unità culturali a discapi-to di altre. Nella teoria delle reti si chiamano connettori (hub)[Barabási 2004], l’evoluzione web di ciò che la sociologia empi-rica dei media tradizionale aveva studiato sotto l’etichetta di lea-der di opinione di tipo locale [Merton 1949].

Questo è il punto in cui si vede meglio il rapporto che legala figura del critico (cinematografico ma non solo) al tema deltramonto dell’expertise così comune negli internet studies. Ipiù entusiasti celebrano la diffusione della cultura cinemato-grafica sul web nei termini di una sconfitta dell’elitarismo cri-tico tradizionale a vantaggio dell’esplosione della forma-re-censione on line su blog, siti, social network. Come dire: «inuovi taste makers siamo noi». In realtà le cose sono un po’più complesse. Infatti anche i difensori delle nuove tecnologiehanno notato come le culture di fandom riproducano spesso lastruttura verticistica, elitaria, tradizionale di organizzazione deisaperi. Per esempio, quando Henry Jenkins studia un gruppodi spettatori che on line fa spoiling della trasmissione televisi-va Survivor (lo spoiling consiste nello svelare in anticipo comesi concludono determinati programmi o film) incontra intelli-

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genza collettiva e modelli di partecipazione ludica alternativaall’expertise tradizionale. Ma anche altro: brain trusts che sisvolgono “a porte chiuse”, vincolo sulla libera circolazione del-le informazioni, segreti svelati in modalità top-down. La co-munità di spoiler di Survivor funziona quando mantiene vivo loscontro tra expert paradigm (soggetti che gestiscono informa-zioni riservate e ricavate da fonti protette) e scoperte artigianali(letture frame by frame ecc.). Ed è un interessante oggetto distudio non tanto come sito di contestazione/superamento deisaperi tradizionali, quanto come occasione in cui è permesso achi non ha accesso a certe istituzioni di riprodurne le dinami-che altrove (fare la parte dell’esperto, giocare il ruolo dell’au-torità indiscutibile, provare l’esperienza dell’autorevolezza in-tellettuale ecc.): una specie di riappropriazione pop del para-digma dell’esperto [Jenkins 2007].

Fenomeni simili sono comuni alla cultura cinematografica online. Nella quale si contendono il campo due principali modellidi influenza culturale, entrambi chiariti dal funzionamento di unsito come Amazon.

Da un lato troviamo il fenomeno delle guide d’acquisto per-sonalizzate on line. Ogni volta che si compera un libro o un film,il sito è in grado di elaborare un parametro di similarità tra uni-tà di consumo e indicare un altro set di item culturali “limitro-fi” che potrebbero ugualmente interessare l’acquirente e chehanno interessato altri consumatori simili a lui. Qui l’expertisetradizionale è superata da un sistema automatico di registrazio-ne ed elaborazione di metadati (item-to-item collaborative filte-ring) capace di creare un simulacro di comunità di consumato-ri. Su questo piano gli algoritmi di raccomandazione tipici dei si-ti di e-commerce rubano il lavoro al recensore e lo fanno senzaneanche prendersi la briga di pensare.

D’altra parte troviamo la sopravvivenza di forme di experti-se [Verboord 2010]. Amazon e siti come MYmovies hanno unasezione dove viene raccolta una rassegna stampa. Nuovi recen-sori si affacciano sempre sulla scena (negli spazi dedicati ai con-sumatori-recensori, o in spazi analoghi di approfondimento do-ve prendono la parola esperti il cui capitale culturale si è conso-lidato altrove). L’expertise tradizionale è continuamente rime-diata attraverso siti, blog, pagine personali, riviste on line; fun-ziona come un sistema senz’altro meno affidabile e chiuso di un

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tempo, ma anche molto più “testabile”. La testabilità va sottoli-neata con forza: il parere dell’esperto è sempre più contro-mo-nitorabile, sottoponibile a sanzione.

Si prenda Metacritic. Il sito rende consultabili decine e deci-ne di recensioni di prodotti afferenti a quattro capitoli di intrat-tenimento (movies, games, tv music). Di ogni film viene fornitoun metascore in centesimi, costituito dalla media delle recen-sioni distribuite su tre gradi di giudizio (positive, mixed, nega-tive). La qualità puntuale delle singole recensioni è a portata dimano. Basta cliccare su «read full review». Il dato più interes-sante rimane il metascore: attraverso una versione sofisticata del-la valutazione «palline e stellette» con un colpo d’occhio ci sipuò fare un’idea dell’accoglienza nord-americana della maggiorparte dei prodotti dell’industria culturale mainstream. Criterianaloghi regolano la sezione degli articoli degli utenti (Users Re-views). Come è facile notare frequentando anche la sezione del-le recensioni degli utenti di Amazon, l’algoritmo del sito riela-bora la valutazione che i singoli lettori danno del valutatore stes-so. Ogni critico ha un punteggio di gradimento che lo spingepiù o meno in alto nella classifica dei recensori più affidabili. Gliscettici avrebbero gioco facile a notare che i criteri indicativi del-la presunta qualità/affidabilità di un recensore sono diversi daivalori fissati nella tradizione umanistica. In sintesi essere unbuon recensore su Amazon significa soddisfare quasi gli stessiparametri individuati da Chuck Tryon a proposito dei bloggerpiù influenti: alta connessione (alto quantitativo di recensionipostate), aggiornamento continuo, coinvolgimento in una retedi altri pareri/utenti, grado di “utilità” immediata [Tryon 2009].

Non bisogna però sottovalutare un fatto nuovo: la prolifera-zione di metadati su Metacritic consente di analizzare lo scorecomplessivo di ogni recensore professionista, leggendo tutte lerecensioni di un singolo critico e il suo grado di “bontà” o “cat-tiveria” verso il cinema in generale in relazione alla media di tut-ti gli altri recensori e in base a tre gradazioni di giudizio (higherthan the average critic/same as the average critic/lower than theaverage critic). Il sistema di valutazione incrociato tra film, pro-dotti culturali, lettori e recensori professionali testimonia in mo-do eloquente quanto la nostra contemporaneità – così infestatada elenchi, classifiche, liste di gradimenti e disgusti – sia unospazio culturale in cui è tutt’altro che superfluo confrontarsi a

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fondo con la funzione orientativa al consumo. Una funzione chetra l’altro orienta non più solo a scegliere tra i prodotti cultura-li ma anche tra le recensioni dei medesimi, tra i critici che ten-tano di commentarli, discreditarli o legittimarli.

5.5 La de-istituzionalizzazione

I fenomeni fin qui considerati (proliferazione delle tipologiediscorsive, inedita funzione sociale del gusto, nuovi profili del-l’expertise, messa in crisi dell’autorità della critica tradizionale)rispondono tutti a una logica profonda di de-istituzionalizza-zione della critica cinematografica. Come vedremo nella secon-da parte (6.3, 6.4), la critica cinematografica non è mai stata uninsieme discorsivo ad alto tasso di istituzionalizzazione. Oggi pe-rò questa situazione si è accentuata. Al punto che per i più scet-tici si può parlare di una vera e propria scomparsa: la critica sisarebbe dissolta nel trionfo dell’opinionismo molecolare e in-competente caratteristico del web.

In conclusione è necessario fare una precisazione ed evitareun rischio.

La precisazione è la seguente. La de-istituzionalizzazione del-la critica on line ha portato allo scoperto la natura sostanzial-mente amatoriale della produzione critica stessa. Per decenni, afronte di un ristrettissimo numero di giornalisti e titolari di ru-brica pagati per vedere e recensire film, circa l’ottanta per cen-to del comparto delle riviste cinematografiche è stato mandatoavanti dal volontariato culturale. Eppure pochi sarebbero statidisposti a considerare fuori luogo la pretesa di essere pagati pervedere film che si sarebbero visti in ogni caso. La critica sul webha mandato in crisi le ultime difese che permettevano di consi-derare seriamente l’attività ricreativa di chi guarda film con pi-glio professionale e competenza come un lavoro salariato. Orapossiamo dire, più lucidamente: c’è stato un periodo piuttostobreve della storia dell’evoluzione culturale dell’occidente in cuiè parsa possibile la distribuzione del privilegio di vivere compi-lando pareri, interpretazioni giudizi sui prodotti della cultura dimassa. Quell’epoca pare in effetti finita. Ciò però non significache anche la critica sia morta. Essa piuttosto circola nelle formenuove che abbiamo cercato di individuare.

La critica di cinema nella cultura digitale 71

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Il rischio da evitare è il pensiero in termini di logica disgiun-tiva: o X o Y. L’ipotesi proposta in questo capitolo è che in certicasi è meglio ragionare in una logica additiva: X e Y. Nei termi-ni del nostro discorso: la rete non manda in crisi la cultura cine-matografica ma solo alcune sue cinghie di trasmissione. Non vin-cola o riduce in modo significativo l’accesso ai saperi tradiziona-li. Qualsiasi critico specializzato può continuare a fare ciò che hasempre fatto, senza rinunciare a standard consolidati di qualità ederudizione. Al contempo, se vuole, può anche collaborare allepiattaforme on line. Scoprirà che i suoi articoli sul web sono let-ti (o almeno visitati) da un numero di persone irraggiungibile perqualsiasi articolo di rivista specializzata su carta.

Alberto Pezzotta ha rimpianto la dolcezza di vivere prima dellarivoluzione globalizzata [Pezzotta 2012], quando gruppi di cinefilihappy few si ritrovavano ai festival di nicchia per compiacersi di es-sere in pochi a conoscere e apprezzare i film di Wong Kar-wai. Dicontro troviamo la posizione di chi, comeRobert Koehler, afferma:«Se […] dovessi scegliere tra l’epoca dei Kael, Sarris e Bazin e la no-stra, caratterizzata damigliaia di punti di vista non esiterei un’istan-te a propendere per quest’ultima. Si tratta di un ambiente moltopiù avventuroso e creativo, con un accesso al cinemamolto più am-pio rispetto al passato. Preferisco vivere una temperie in cui esisto-no critici come Olaf Moller, Francisco Ferreira, Jonathan Rosen-baum, Quintin, Kent Jones, Diego Lerer, Jim Hoberman, RichardBrody e Christoph Huber»2. In verità nessuno ci costringe a sce-gliere tra le due narrazioni (il racconto nostalgico pre-globalizza-zione o l’entusiasmo neo-partecipativo): si può avere Bazin e ancheun sito come Senses of Cinema. Si possono avere i festival di nicchiae, allo stesso tempo, esperienze come quelle offerte dalle risorseweb(Mubi o Festival Scope). Ripetiamo: la diffusione della cultura ci-nematografica digitale ha forse tolto il lavoro a qualcuno ma in ge-nere non segue una logica disgiuntiva: si aggiunge e implementa lacultura cinematografica tradizionale. Almeno questa non è una cat-tiva notizia.

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2 Alessandro Stellino, Daniela Persico, Tutto ciò che è solido si dissolve, con-sultabile all’indirizzo: http://www.filmidee.it/archive/27/article/37/article.aspx.

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Seconda parteIstituzione, metodo, pratica

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Capitolo 6

Definizioni

6.1 Un termine generico

Un articolo di giornale, un tipo di discorso giornalistico, unmestiere, un’istituzione culturale: l’espressione «critica cinema-tografica» può richiamare ognuno di questi aspetti. Il termine ègenerico e va precisato. Si possono individuare quattro aree con-cettuali che definiscono e chiariscono cosa sia la critica cinema-tografica:1) In primo luogo «con critica cinematografica si designa undato testo, e cioè un singolo “pezzo” o un singolo “bra-no” con un proprio oggetto (questo o quel film, questo oquel cinema, questo o quella produzione), con una pro-pria fisionomia (la forma del saggio piuttosto che quelladella recensione o dell’intervento spicciolo), con una pro-pria esistenza materiale (testo scritto, o intervento orale, o“crito-film” – cioè film che analizza un altro film) ecc.»[Casetti 1975, 98].

2) In secondo luogo l’idea di critica rinvia «all’esistenza di uninsieme di testi di un certo tipo, o di una classe di discor-si simili tra di loro» [Casetti 1975, 98].

3) In terzo luogo «designa una norma, e cioè quel qualcosache permette di unificare dei testi diversi sotto un’unicaetichetta e che insieme li distingue da un qualcosa che è“diverso”; ciò che isola, ad esempio, nell’unità di un fasci-colo – per le riviste cinematografiche – o nello spazio li-mitato di una pagina – per i quotidiani –, il “pezzo” criti-co dal saggio teorico, o dall’informazione tecnica, o dallanotizia scandalistica, o dall’inserzione a pagamento; e in-sieme ciò che fa sì che questo pezzo appartenga alla “cri-tica”» [Casetti 1975, 99].

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4) In fine per critica cinematografica si intende «un’istanza ecioè qualcosa che “spinge” a produrre certi discorsi incana-landoli lungo certi itinerari e obbligandoli a rispettare certeregole. La realtà che si designa è un principio pur sempreastratto, ma in un certo senso attivo: è, questa volta, una cer-ta forma di produzione opposta ai propri prodotti, un datopresupposto confrontato con le proprie conseguenze, unaconsuetudine socialmente accettata e socialmente agente di-stinta dalle scelte individuali che le si pongono di faccia[...]». Questa quarta accezione designa «il modo in cui lacritica cinematografica è quello che è, indica il meccanismointerno che i singoli testi mettono in moto o la regola cheistituisce l’insieme nel suo complesso» [Casetti 1975, 99].

Soffermiamoci sugli aspetti istituzionali della critica cinema-tografica: la critica come norma che stabilisce uno scarto rispet-to ad altri tipi di discorso; la critica come sistema discorsivo le-gato a strutture più o meno stabili; la critica come insieme di sa-peri istituzionalizzati che partecipano alla definizione generale diuna cultura.

6.2 La critica come istituzione

La critica cinematografica è un fenomeno relativamente re-cente. Nasce, come abbiamo detto, nella prima parte del XX se-colo, con un ritardo di circa vent’anni sull’invenzione del cine-matografo. Ha avuto circa un secolo per definirsi. Se guardia-mo alle istanze e alle norme che fanno sì che certi discorsi ven-gano considerati critica e altri no, ai soggetti che praticano l’eser-cizio della critica, ci troviamo di fronte a una galassia piuttostoinstabile.Innanzitutto la critica cinematografica non si identifica con

una disciplina precisa. Una disciplina è un campo relativamen-te “solido” di nozioni, di regole di accesso al campo medesimo,di linguaggi, di protocolli operativi. Una disciplina ha un nomericonosciuto scolasticamente e spazi che la circoscrivono (labo-ratori, dipartimenti universitari, riviste, congressi). La medici-na, la fisica, la sociologia sono discipline. La critica cinemato-grafica non possiede le loro regolarità. Essa è composta da co-

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noscenze imperfette, da prestiti e tradimenti di nozioni eredita-te da campi di sapere più definiti e certi (teoria del cinema, teo-ria della letteratura, critica d’arte, critica letteraria ecc.).

6.3 Una prospettiva archeologica

All’interno degli studi che hanno cercato di definire le formedei discorsi, le proposte avanzate da Michel Foucault in L’archeo-logia del sapere hanno ancora un valore operativo. Per Foucault, laricerca archeologica non si occupa dei saperi ben saldi, delle cer-tezze scientifiche, della storia delle scienze, quanto piuttosto del-la storia delle «conoscenze imperfette, male fondate, che malgra-do una vita ostinata non sono riuscite a raggiungere la forma del-la scientificità […] Storia non della letteratura, ma di quel rumo-re collaterale, di quella scrittura quotidiana di breve durata chenon raggiunge mai lo statuto di opera o ne viene subito estromes-sa: analisi delle sotto-letterature, degli almanacchi, dei giornali edelle riviste, dei fuggevoli successi, degli autori inconfessabili. […]è la disciplina delle lingue fluttuanti, delle opere informi, dei teminon collegati» [Foucault 1994, 181]. L’analisi della critica cine-matografica si trova a contatto con oggetti simili. Nel dire che lacritica cinematografica non ha i confini e la stabilità di una disci-plina si sottolinea il fatto che essa è una formazione discorsiva chefunziona come un sistema di dispersione di saperi differenti. Lacritica si ritaglia uno spazio nelle pratiche culturali, si lascia in-fluenzare da differenti forme di sapere, accoglie e riutilizza svaria-te informazioni. È una zona di passaggio dei saperi più diversi.Un’altra nozione elaborata dalla sociologia della cultura che

può tornare utile al nostro discorso è quella di campo disciplina-re. Questa nozione viene utilizzata da Pierre Bourdieu per con-testare l’idea della scienza come impresa di ricerca pura, perfet-tamente autonoma, capace di svilupparsi secondo una logica ri-gorosamente interna. Gli scienziati non formano affatto un grup-po unitario e omogeneo. Il campo di una disciplina, come quel-lo di ogni formazione culturale, è un terreno di lotte per domi-nare, modificare, entrare nel campo medesimo, è il risultato discontri di forza tra i vari agenti che occupano il campo (singoliindividui, equipe di lavoro, scuole). Ogni agente influenza e mo-difica il campo a partire dalla propria forza di intervento che è

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in parte determinata dal capitale simbolico specifico di cui di-spone [Bourdieu 2003].Ciò che è vero per la scienza secondo Bourdieu lo è a mag-

gior ragione per la critica. Il critico, più dello scienziato, defini-sce e si lascia definire da un campo con confini labili. Se infattianalizziamo la critica cinematografica come campo critico, no-tiamo subito che quest’ultimo può essere descritto “per difetto”rispetto alle caratteristiche di altri campi (proprie di formazionicome la fisica e le altre scienze). Un campo ha comunque unastruttura. Il che significa che ha delle proprietà generali e che icambiamenti al proprio interno seguono determinate procedu-re. Invece la critica cinematografica presenta debolezze struttu-rali riassumibili in vari punti.

Specificità di un mestiere

Unmedico, uno psichiatra, un architetto hanno in comune ilfatto di appartenere a un esercizio professionale definito. Il ca-pitale di conoscenze che gli occupanti di un campo disciplinarehanno accumulato riguarda saperi storico-teorici e abilità appli-cative. L’insieme di questi due elementi qualifica le competenzespecifiche di un soggetto appartenente a una disciplina.Nel campo della critica cinematografica la specificità in que-

stione non è così chiara. Da qui la difficoltà stessa di insegnare afare critica. Certo, esistonomanuali di analisi del film, storie del ci-nema, contributi teorici. Ma non esiste un curriculum di studi per-fettamente definito, condiviso e accademicamente sedimentato perstabilire lo specifico professionale di un critico cinematografico.Quest’ultimo può venire da studi universitari genericamente uma-nistici, da saperi settoriali (Dams, curriculum cinema ecc.) o esse-re un operatore culturale cresciuto in autonomia, un critico “fai date”. In altri termini, non esiste un criterio universalmente condivisoper stabilire il quantitativo e il tipo di capitale collettivo accumu-lato necessari per fare parte del campo critico.

Formalizzazione del linguaggio

Nelle discipline e nelle scienze gli operatori del settore di-spongono quasi sempre di un linguaggio molto formalizzato. Ilgergo della ricerca funziona in modo inverso al gergo della di-

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vulgazione. Il primo elimina i riferimenti alle espressioni comu-ni per concentrarsi su tecnicismi settoriali che permettono mag-giore definizione analitica e risparmio di tempo nella spiegazio-ne. Il secondo rende accessibili i termini tecnici parafrasandolinel linguaggio ordinario. Per esempio, a partire dalla metà delXVIII secolo, nella fisica, il linguaggio viene sottoposto a un pro-cesso di matematizzazione che a sua volta produce un’autonomiadel campo scientifico, contribuisce a creare una separazione so-ciale tra i professionisti e gli amatori della disciplina, a distin-guere tra gli insiders e gli outsiders. La competenza matematicadiventa un elemento di discriminazione e di controllo sull’ac-cesso al sapere [Bourdieu 2003, 65].Invece il linguaggio settoriale degli studi cinematografici pre-

senta un grado di specificità ed esclusività piuttosto ridotto. Lacritica cinematografica, soprattutto se esercitata on line o supubblicazioni popolari, rifiuta qualsiasi accenno a termini tec-nici, quella specializzata utilizza un gergo che può apparire osti-co solo in un primo momento. La lettura di un paio di manualidi introduzione all’analisi del cinema mette in grado chiunque dicomprendere la maggior parte dei termini che compongono illinguaggio specialistico.

Forme e forza del diritto d’ingresso

Le scienze e le discipline tendono all’autonomia, a rendersiesclusive, a delimitarsi rispetto ad altri campi di sapere. Lo fan-no, come abbiamo visto, dandosi un linguaggio settoriale e unsapere specifico. Lo fanno anche restringendo il diritto di in-gresso al campo. I campi scientifico, burocratico e giuridico nonsono di facile accessibilità. Per diventare un medico o un fun-zionario specializzato bisogna superare concorsi, ottenere di-plomi, avere riconoscimenti. Il meccanismo delle sanzioni e de-gli attestati stabilisce l’esercizio della professione, i diritti e i po-teri a esso connessi. Appartenere a una disciplina è un fatto di in-vestitura istituzionale. Ma come si stabilisce l’identità dei singo-li soggetti che operano in un campo? Foucault ha studiato il pro-blema della posizione istituzionale del soggetto parlante. Chiparla? Chi è autorizzato a tenere questo tipo di linguaggio (me-dico, sociologico, psicanalitico ecc.)? Quale è lo statuto degli in-dividui che hanno diritto di parola? Per un medico tale diritto è

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sancito da un atto di investitura esplicito (laurea, specializzazio-ne ecc.).Non altrettanto si può dire di un critico cinematografico. Co-

sa sancisce il suo diritto di parola? Non c’è passaggio istituzio-nale che possa garantire questo diritto. Non ci sono test che sta-biliscano una abilitazione legale alla professione. Né basta ap-partenere a un sindacato di categoria (per esempio il SNCCI, ilSindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani) per veder-si riconosciuta una pubblica investitura del tipo di quella otte-nuta nel caso di avvocati e giudici con i rispettivi ordini profes-sionali. Illustri critici cinematografici non hanno mai fatto par-te di associazioni di categoria e si sono vantati di tale autono-mia. Il titolo di critico è informale e si conquista sul campo. Ilcritico non ha mandati da portare a termine né autorità da eser-citare per investitura diretta.

6.4 Grado di autonomia

Il grado complessivo di autonomia di un campo è un effettodei fenomeni che abbiamo considerato fino a ora. Le comunità disapere ben strutturate utilizzano i sistemi di limitazione d’acces-so al proprio corpo dottrinale per definire meglio se stesse e dar-si un grado elevato di autonomia. La definizione di sé come grup-po passa tramite la limitazione del circuito informativo. La so-ciolinguistica ha mostrato che queste pratiche di esclusione sonooperative ovunque nella vita sociale quotidiana [Goffman 1969].I gruppi sociali mettono in scena delle rappresentazioni nella co-municazione e lo fanno spesso sottolineando il “senso del noi” ri-spetto agli altri, identificandosi in gruppi o equipe ristrette conidentità definite in relazione all’esterno. Il senso di esclusività ri-spetto all’esterno nelle discipline è raggiunto attraverso la spe-cializzazione del gergo, la profondità dei saperi, ma non solo.Foucault ha individuato alcune pratiche limitative nei con-

fronti dei soggetti parlanti. Una delle forme attraverso cui si eser-citano processi di restrizione è rappresentato dal rituale. Il ri-tuale ha il compito non solo di definire le qualificazioni che gliindividui devono possedere per tenere un certo tipo di discorso,ma anche di precisare i gesti, i comportamenti, le circostanze el’insieme di segni che devono accompagnare il discorso. Si pen-

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si ai rituali propri dei discorsi di legge nelle aule giudiziarie, al-le cerimonie delle lezioni accademiche, alle procedure che re-golano gli interventi parlamentari.Un’altra forma di restrizione è la costituzione di una società

di discorso. La società di discorso ha la funzione di conservare eproteggere un insieme di saperi e di atti di parola. I discorsi de-vono circolare all’interno di uno spazio chiuso, in modo ristret-to, disciplinato, vincolato [Foucault 1972]. L’esempio della me-dicina è ancora chiarificatore. Una equipe di medici non solo re-gola la professione quotidiana secondo un rituale preciso, ma sicaratterizza anche come una società di discorso da cui il pazien-te è escluso. Dalla grafia illeggibile delle ricette mediche di unavolta al linguaggio delle modalità di assunzione dei medicinali fi-no al gergo delle diagnosi: tutto congiura per il mantenimento diun segreto iniziatico, per l’impossibilità di comunicazione pari-taria tra medico e paziente.I critici cinematografici invece costituiscono una società di

discorso in cui i saperi sono largamente accessibili. Ciò com-porta anche una facile reversibilità dei ruoli. Ci sono critici chesi dedicano alla regia e viceversa. L’esercizio della critica cine-matografica è aperto a tutti. Esistono gruppi e sottogruppi, sot-to-comunità in opposizione tra loro (per esempio, una rivista co-me «Cinema Nuovo» è sempre stata tradizionalmente “nemica”di una rivista come «Filmcritica»). Più che la legittimazione da-ta da una investitura ufficiale (diploma di laurea, abilitazioneecc.) sono i piccoli gesti di affiliazione a una delle sotto-comu-nità a definire, giorno per giorno, l’identità dei singoli critici, acreare le condizioni di un gioco di squadra, a dar vita a un sen-so di equipe. Certo, l’associazione di individui che definisce lacritica cinematografica non ha contorni istituzionali definiti. Aessere incerta è la stessa nozione di ruolo del critico cinemato-grafico. Perché un ruolo sociale sia chiaro devono esserci para-metri stabili, come l’insieme delle regole convenzionali che con-trollano il game sociale e le tattiche attive al suo interno. Ma lacritica cinematografica non ha una strategia unica e comune, ilmestiere di critico è compatibile con altri ruoli (docente univer-sitario, giornalista, saggista ecc.): esiste il ruolo del critico manon ci sono critici di ruolo [De Marchi 1977].È vero quindi che non ci sono saperi vincolanti, barriere sta-

bili, identità ruoli ben definiti. Ciò non significa che l’insieme

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della critica cinematografica non sia individuabile e non presentiregolarità. Se guardiamo ai punti 1 e 2 della nostra quadriparti-zione iniziale, le cose appaiono più chiare: la critica cinemato-grafica si realizza concretamente in un insieme di discorsi rico-noscibili, è composta da articoli, atti di parola, testi scritti conuna materialità e una fisionomia descrivibili.

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Capitolo 7

Il campo della critica cinematografica

7.1 Regolarità

Un elemento di regolarità è il fatto che il campo critico, al-meno fino a qualche anno fa, era divisibile in due macro-blocchi:la critica specializzata (che opera sulle riviste di settore e haun’impronta analitica) e la critica quotidianista (che ha una fun-zione più divulgativa, di intervento/orientamento al consumo etrova spazio soprattutto sui quotidiani, sui settimanali, in televi-sione, sul web).

Questa divisione è accettata da gran parte dei soggetti cheoccupano il campo, i quali si dispongono abbastanza natural-mente su uno dei due fronti o negoziano sempre più spessoposizioni intermedie tra essi. La storia della critica cinemato-grafica è fatta anche di inconciliabilità e divergenze di giudi-zio tra questi due blocchi in merito a molti argomenti. Chi haun po’ di familiarità con la storia della critica può provare a in-dovinare in anticipo quali pellicole saranno difese dai grandigiornali, quali invece dalla pubblicistica di settore e quali ap-provate o rifiutate da entrambi. La storia dei disaccordi criti-ci potrebbe riempire un libro a parte. Solo per fare due esem-pi, il cinema politico degli anni Settanta è stato celebrato dal-la grande stampa e regolarmente osteggiato dalle riviste di ci-nema. In anni più recenti registi come David Cronenberg,Brian De Palma, David Lynch Clint Eastwood sono diventatiautori di culto presso i cinefili almeno quanto hanno suscita-to resistenze presso la stampa non specializzata (per poi inve-ce magari assumere il ruolo di «maestri riconosciuti», capacidi generare un apprezzamento trasversale agli schieramenti eall’opinione pubblica).

Su entrambi i fronti un altro elemento di regolarità è dato dal-

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la presenza di stili di enunciazione e forme del discorso abbastanzaricorrenti. I giornali di cinema ci mettono di fronte a diverse pra-tiche di scrittura: interviste, anticipazioni, recensioni più o menolunghe, articoli sul ruolo della critica stessa, saggi tematici su re-gisti, correnti, generi ecc. Tuttavia non tutte ricorrono con ugua-le frequenza.

7.2 La forma-recensione

Tra le tipologie di discorso critico la più diffusa (e stabile nel-la sua articolazione interna) è la forma-recensione. Con il termi-ne recensione si definisce un tipo di discorso di tradizione giorna-listica costituito da una breve analisi, da un giudizio, da un com-mento, accompagnati da una sinossi di un film. I recensori han-no spesso manifestato un senso di fastidio verso questa forma didiscorso vedendovi il luogo dell’argomentazione superficiale edella valutazione poco analitica. Eppure rimane la formula quan-titativamente più presente sulle riviste specializzate e negli altricontenitori che ospitano critica cinematografica, su carta e online (mentre i suoi spazi sono progressivamente diminuiti suiquotidiani a favore dei pezzi di costume). Riviste come «Segno-cinema», «Cineforum», «Filmcritica», «FilmTV» hanno unacorposa sezione di recensioni.

La forma-recensione può essere studiata sotto vari punti divista. Concentriamoci sugli aspetti retorici, sul rapporto con l’og-getto di analisi e con l’insieme dei discorsi rispetto ai quali la re-censione stessa si differenzia.

La recensione non è semplicemente una forma di meta-di-scorso che si esaurisce nella critica di un oggetto-film: funzionacome un atto di enunciazione che mette in campo alcune cono-scenze, che si richiama ai saperi del cinema (elaborati in sedestorica e teorica); è un doppio atto di discorso: da una parte èuna tipologia di interpretazione rivolta all’esterno verso il pro-prio oggetto (il film di cui parla e riferisce), dall’altro è un attodi collocamento su un terreno di continuità e discontinuità ri-spetto ad altre tipologie discorsive.

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7.3 La recensione nel contesto discorsivo degli altri discorsi critici

La recensione occupa un livello intermedio tra le forme “al-te” del discorso sul cinema e quelle più “basse”. Non appartie-ne al registro accademico delle analisi dettagliate, della storia edella teoria del cinema, ma si distingue anche dalla tradizionedelle cronache dai festival, degli articoli promozionali.

La recensione si dà un’autonomia su più fronti. Nel campodella critica specializzata, per esempio, il recensore può atti-vare dei meccanismi discorsivi che gli permettono di stabilireuna distanza rispetto ad altri discorsi: una funzione-stacco at-traverso cui le recensioni specializzate si differenziano da quan-to viene detto nel campo della critica quotidianista. Frasi come«Non date retta a quello che avete sentito nelle cronache dai fe-stival», «Molti hanno scritto che il film x non vale nulla, inve-ce…» sono modi con i quali si stabilisce una differenziazionedegli statuti discorsivi. Simili operazioni possono essere attiveanche all’interno di uno dei due sotto-campi. Per esempio, neldominio della critica specializzata, la rivista «Cinema nuovo»ha operato spesso attraverso una funzione-stacco rispetto adaltre riviste rivali.

Viceversa, il critico può dare vita a un effetto di continuità dicorpus quando utilizza gli altri discorsi critici per confermare ilproprio giudizio e dare l’impressione che le sue posizioni sianolargamente condivise all’interno della comunità. Frasi come«tutte le riviste di cinema hanno criticato l’aspetto x del film y»o «Nessuno oggi non considererebbe il regista x un vero e pro-prio autore» svolgono proprio questa funzione.

Dal punto di vista della retorica, la critica cinematograficapresenta altre regolarità. Il linguaggio della critica dei quotidia-ni è cambiato poco nel corso degli ultimi vent’anni. Il recenso-re, che esercita il proprio mestiere in un contesto di forti condi-zionamenti istituzionali dati dalla testata ospitante, ha elabora-to una scrittura che, al di là delle normali variazioni sintattico-lessicali, rimane fortemente codificata. La dispositio degli argo-menti segue quasi sempre la successione introduzione-riassuntodella trama-giudizio conclusivo (con riferimento al lavoro degliattori). I registri ricorrenti sono stabili: uso dell’ironia, persona-lizzazione del discorso, ripetizione delle metafore (come quellasportiva o culinaria: il film come «piatto» più o meno riuscito, il

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regista che «va in gol» ecc.). Le scelte lessicali rimandano a unvocabolario non formalizzato e privo di termini tecnici.

Il linguaggio della critica specializzata ha altri vincoli soprat-tutto legati all’uso dei termini tecnici in grado di garantire buo-ni standard di precisione descrittiva. Però i limiti di spazio sonopiù elastici, la dispositio tende a confinare la trama del film inuna sezione a parte lasciando maggiore libertà nell’articolazionedegli argomenti. I registri del discorso sono variabili. Troviamoesempi di enunciazione informale come pure esempi contrariche ricorrono all’asetticità del linguaggio scientifico. Dal puntodi vista concettuale, il richiamo ai saperi teorici, tecnici e storiciè centrale. Il recensore specializzato non nasconde le propriecompetenze, crea un effetto di precisione e profondità di anali-si. Le sempre più sottili differenze tra critica quotidianista e spe-cializzata riguardano in parte il linguaggio, in parte i set di con-cetti ricorrenti. I critici specializzati si appellano in modo fre-quente e naturale ai saperi del cinema (monografie sul cinema,tradizioni culturali legate al lavoro di certe riviste, riviste acca-demiche, nozioni teoriche, rassegne ecc.). La critica delle rivistevive faccia a faccia con la tradizione critica precedente, si misu-ra continuamente con essa. Mentre il recensore da grande quo-tidiano non attribuisce ai saperi storici e teorici specificamentecinematografici un ruolo prioritario (anzi, li dissimula, in un ri-chiamo continuo al senso comune e a fenomeni estetici e cultu-rali non specifici), lo specialista crede in questa specificità e la di-fende. Da qui nasce la maggior parte delle incomprensioni e del-le accuse reciproche che, soprattutto negli anni passati, sono cor-se tra i due schieramenti.

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Capitolo 8

La critica come mestiere

8.1 Il modello di analisi di David Bordwell

Il tipo di attenzione che i critici stessi e gli studiosi di cinemahanno rivolto alla critica ha dato vita a differenti tipologie dicontributi. Alcuni studiosi hanno indagato le questioni istitu-zionali poste dall’esercizio critico, altri si sono soffermati sugliaspetti teorici, altri ancora hanno privilegiato la ricerca storica,raccogliendo gli articoli dei recensori più meritevoli e rico-struendo la storia delle riviste [Pellizzari 1999; Bragaglia 1987;Brunetta 1993; De Vincenti 1980; De Baecque 1993]. Senza par-lare, perché abbiamo già detto delle cose a riguardo, del fattoche i critici stessi hanno animato numerosi dibattiti sulla pro-pria attività, insistendo, di volta in volta, su diversi aspetti: il rap-porto della critica con la cinematografia nazionale, l’esigenza dirinnovare gli strumenti d’analisi ecc. [Per il lavoro teorico si ve-dano Casetti 1975; De Marchi 1977; id. 1977b; Tinazzi 1970 e1972; De Marinis 1996]. Mentre i primi (contributi teorici, me-todologici e storici) hanno intenti modificativi minimi rispetto al-l’assetto dell’esistente, gli ultimi presentano spesso la forma del-la lamentazione e dell’insoddisfazione verso “lo stato delle cose”[Bruno 1989; Canova 1990; Buccheri 1994].

8.2 Quello che i critici non dicono: l’interpretazione in pratica

Ciò che è rimasto quasi sempre inesplorato è proprio il pun-to di partenza da cui bisognerebbe iniziare una ricognizione sul-l’esercizio critico: il lavoro concreto dell’interpretazione. Un’ana-lisi dei modi in cui la critica scompone e analizza i film permet-te di rendere visibile un contrasto. Esiste uno scarto tra l’idea

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che la critica si fa del proprio operare e l’operare concreto cheemerge dalla descrizione degli atti di interpretazione, tra un’im-magine (il prodotto dell’auto-rappresentazione intellettuale delcritico) e una pratica (osservabile empiricamente). In altre paroleil critico dice di fare e crede di fare cose che, sul piano operati-vo, non fa. O viceversa, scredita teoricamente nozioni e concet-ti che poi puntualmente impiega nella pratica.Sotto l’immagine che la critica dà di sé (un’immagine che, co-

me tutte le narrazioni soggettive e interessate, può rivelarsi illu-soria) la critica è impegnata in mosse concrete. Uno studio em-pirico degli atti di interpretazione aiuta anche in questo caso aindividuare alcune ricorrenze. Ciò che sempre ricorre nel cam-po della critica è un set ben consolidato di tricks of the trade, ditrucchi del mestiere, di routine interpretative standardizzate, acui chiunque operi sul campo non è disposto a rinunciare. Sitratta dell’equivalente in campo critico di quell’insieme di at-trezzi chiamati dalla sociologia della scienza «strumenti ceppo»e «strumenti generici» [Bourdieu 2003, 85], strumenti cioè checostituiscono una forma coagulata, largamente condivisa di co-noscenza operativa.David Bordwell è lo studioso che ha dedicato maggiore at-

tenzione alle routine interpretative [Bordwell 1989]. Per questomotivo d’ora in poi procederemo tenendo come guida il suo mo-dello di studio dell’attività critica.

8.3 Critica, retorica e risoluzione di problemi

Secondo Bordwell la critica può essere vista come una pra-tica carica di alte valenze culturali e sociali. Ma funziona so-prattutto come un’attività di problem solving. Giocare il ruolodell’interprete significa proprio questo: risolvere il problema direperire significati non immediatamente individuabili sulla su-perficie del film che si sta analizzando. Il critico ha di continuoa che fare con la nozione di «significato». Un significato che vareperito nel testo e che va costruito attraverso l’analisi e la suaretorica.L’interpretazione consiste nel dare un senso all’oggetto che

stiamo analizzando. Ma nel farlo si devono risolvere una serie disotto-problemi:

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1) Il problema dell’appropriatezza. Il critico deve fare in mo-do che il film sembri appropriato all’analisi che se ne fa. Incerti casi la questione dell’appropriatezza non si pone.Molti film (grandi successi, capolavori consolidati ecc.)non necessitano di una giustificazione per essere interpre-tati. Altri però lo richiedono. Quando, per esempio, dob-biamo rivalutare l’opera di un regista trascurato dalla tra-dizione o fare luce sull’opera minore di un maestro, ab-biamo di solito a che fare con la necessità di spiegare le ra-gioni del nostro discorso. In tale tipo di “giustificazione”sta la questione dell’appropriatezza.

2) Il problema della corrispondenza. L’interpretazione deve es-sere supportata da prove. Deve esserci una corrisponden-za tra l’analisi e le unità testuali. Il critico deve costruire ildiscorso dando l’impressione che esso sia correlato alla re-altà materiale del film.

3) Il problema dell’originalità. Le istituzioni culturali di tipoumanistico non incoraggiano la ripetizione delle idee de-gli altri. Se qualcuno scrivesse di cinema ripetendo ciò chehanno detto in precedenza i colleghi, sarebbe subito ac-cusato di incompetenza, plagio, mancanza di idee. Il criti-co deve dare un’impostazione originale al proprio lavorodifferenziandosi da quanto è stato già scritto. Ci si aspettache un’interpretazione utilizzi metodi nuovi, si serva distrategie consolidate per scoprire elementi inediti, faccialuce su particolari trascurati in precedenza.

4) Il problema della plausibilità. Il critico deve adottare unastrategia per rendere credibile il proprio discorso. È la di-mensione propriamente retorica dell’argomentazione. Ildiscorso più che vero, accurato e appropriato, deve appa-rire verosimile e convincente.

Ancora qualche parola sul rapporto tra retorica e plausibili-tà. Nel modello adottato da Bordwell la retorica copre un ambitoessenziale ma non particolarmente esteso. È possibile estenderela nozione di retorica accogliendone una definizione più ampia.È ciò che ha fatto Alberto Pezzotta nel suo modello di analisidel linguaggio della critica cinematografica, in cui adotta la pro-spettiva scelta da Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca nelTrattato dell’argomentazione (1976) [Pezzotta 2007]. Per i due

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studiosi il dominio della retorica copre tutto lo spettro del di-scorso argomentativo, la cui logica propria è quella del verosi-mile, una zona intermedia tra il discorso dimostrativo delle scien-ze e l’arbitrarietà delle credenze. L’intero discorso della criticarientra nell’ambito dell’argomentazione e ne condivide gli stru-menti e le procedure di base.Come prima cosa la critica cinematografica, per essere vero-

simile, deve individuare un terreno comune con i propri lettori.Per farlo definisce alcune premesse condivise. Le premesse del-l’argomentazione possono essere di tipo quantitativo (la sceltadel linguaggio, di un certo grado di tecnicismo o specializzazio-ne ecc.) o qualitativo (gerarchie di valori). Le gerarchie di valo-ri hanno un ruolo fondamentale. Molti critici presuppongonoche certi valori siano non questionabili: la poca convenienza nelmostrare certe tematiche (violenza, erotismo ecc.) è stato un pre-supposto a lungo vigente nell’ambito della critica cinematogra-fica, così come il valore incontrastato di certi autori, il ricono-scimento implicito di una dicotomia arte/industria ecc.Seguendo Perelman e Olbrechts-Tyteca, Pezzotta elenca al-

cune categorie di gerarchie o luoghi del valore:– I luoghi della quantità: in base ai quali una cosa vale più diun’altra per ragioni quantitative. Si tratta di categorie che icritici cinematografici applicano ogni volta che un film disuccesso è preferito a uno per iniziati, un’estetica dell’ab-bondanza a una dell’ascetismo ecc.– I luoghi della qualità: in base ai quali una cosa vale più diun’altra in virtù della sua singolarità/novità/complessità. Icritici fanno leva su tali categorie quando danno la loro ap-provazione a un film «ambiguo» a scapito di uno «dida-scalico», a un film d’autore rispetto a uno commerciale ecc.– I luoghi dell’ordine: in base ai quali una cosa vale più di un’al-tra perché viene prima. I critici implicitamente fanno uso diqueste categorie quando elogiano il cinema classico o quel-lo delle origini rispetto a quello contemporaneo, o quando,tra i registi, privilegiano i maestri, i capostipiti, i fondatori, leopere prime di autori poi consacrati, infine quando elogianocerti film contemporanei perché legati a un genere “nobile”della storia del cinema (il western, il musical ecc.).– I luoghi dell’esistente: in base ai quali una cosa è migliore diun’altra perché esiste, è attuale e non possibile o eventua-

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le. I critici fanno uso di queste categorie quando privile-giano situazioni narrative o film realistici contro altri rite-nuti inverosimili. In generale l’uso della nozione di «vero-simiglianza» risente sempre di criteri di tal genere.

Oltre a «fare base» su luoghi comuni condivisi da critico elettore, il recensore produce «pezze di appoggio» a sostegno delproprio discorso e sviluppa altre tecniche di argomentazione.Egli dunque fortifica quel che dice attraverso prove. Le pro-

ve possono essere estrinseche o intrinseche. Sono del primo tipoquando esistono già nella realtà. Per esempio, quando un criti-co ricorre a contratti, testi già pubblicati, parole di un registaper corroborare la propria interpretazione, sta servendosi di pro-ve estrinseche. Le prove invece sono intrinseche quando miranoa commuovere o convincere il lettore attraverso elementi creatidal critico stesso (che di volta in volta punterà a esaltare la pro-pria auctoritas, o a evidenziare i tratti patemici dell’esperienzadi visione, insistendo sulla noia, la paura, il disgusto o la gioiaprovocata da un dato film).Le tecniche di argomentazione più comuni elencate da Pez-

zotta sono:– L’associazione: è un tipo di ragionamento che stabilisce unlegame tra un fenomeno generale e uno particolare. Peresempio, viene usato dai critici che difendono un film (fe-nomeno particolare) perché lo ritengono perfetta espres-sione del cinema classico, o di un genere, o della poetica diun autore (fenomeni generali).– Il paragone: è un tipo di ragionamento che consiste nell’ac-costare qualcosa di nuovo a fenomeni già conosciuti. I cri-tici lo usano quando paragonano i registi amati a grandiscrittori, registi, artisti del passato; quando, per esempio, siaccosta un film recente di Betolucci a Renoir, Pasolini,Ophüls.– L’analogia e lametafora (che può essere considerata una sor-ta di analogia condensata). L’analogia è un ragionamento piùaudace del paragone perché non si limita a rispecchiare lastruttura del reale ma la crea. Per questo motivo le analogiesono spesso discutibili o giudicate azzardate. Tuttavia sonousate dai critici in modo costante. Lo stesso dicasi per le me-tafore. Seguiamo l’esempio fatto da Pezzotta: «Si legga la re-

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censione di Truffaut […] a Johnny Guitar, del 1955: “Ni-cholas Ray è un po’ il Rossellini Hollywoodiano. Come luinon spiega, non sottolinea mai. Più che dei film gira deglischemi di film”. In questo caso la definizionemetaforica pre-suppone un’analogia di questo tipo: A (Ray) sta a B (Holly-wood) come C (Rossellini) sta a D (il cinema in generale). Ilrisultato è di designare A come “il C di B”. Truffaut crea que-sta definizione metaforica per promuovere il valore di Ray,avvicinandolo a quello di un maestro indiscusso come Ros-sellini […] I termini che servono al ragionamento (C e D)sono meglio conosciuti o più prestigiosi di quelli su cui ver-te la conclusione (A e B): ed è il motivo per cui questi ultimine ricevono valore» [Pezzotta 2007, 74].– La dissociazione. È un tipo di ragionamento tendente a di-mostrare che un dato di realtà univoco presenta due facce,uno apparente e uno nascosto. I critici lo usano quando di-cono che il film x sembra di genere ma in realtà non è soloquesto. Quando, dopo aver elencato alcune caratteristicheapparenti di un testo, aggiungono qualcosa come «ma il ve-ro tema del film è un altro…». O quando ricorrono a in-terpretazioni psicanalitiche che rintracciano significati pro-fondi non visibili sulla superficie del testo.

Fin qui abbiamo considerato le operazioni retoriche che ilcritico mette in opera e che la retorica classica considerava par-te dell’inventio (il reperimento delle idee, degli argomenti, verio verosimili, utili ai fini del discorso stesso). Ma un critico, co-me ogni oratore, organizza anche i materiali reperiti in una strut-tura (dispositio) e sceglie forma e stile per esprimersi (elocutio).Tralasciamo in questa sede i problemi di elocutio, su cui abbia-mo già detto qualcosa e che riguardano lo stile di scrittura o il re-gistro discorsivo adottati dai singoli critici e che sono influenza-ti da una serie notevole di variabili (scelte lessicali, modelli let-terari di riferimento, condizionamenti imposti dalle sedi edito-riali ecc.). Concentriamoci in breve sulla dispositio.Come si è detto, la recensione è una forma discorsiva che nel

corso degli anni si è mantenuta abbastanza stabile. Tuttavia si èanche sviluppata in diversi format. I principali sono tre:1) La mini-recensione, che solitamente compare sui settima-nali o nelle rubriche periodiche dei quotidiani. È compo-

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sta in genere da 250/650 caratteri. Dato lo spazio a dispo-sizione, la trama è tratteggiata in modo sintetico, solo perelementi salienti. La parte iniziale contiene un esordio ric-co di elementi descrittivi spesso già connotati in modo va-loriale, così da guadagnare spazio. La parte finale riassumein un aggettivo (o poco più) un giudizio lapidario. Chi scri-ve una mini-recensione deve avere qualità da “miniaturi-sta”: precisione lessicale e icasticità di scrittura sono valo-ri essenziali. L’estremizzazione dei tratti della mini-recen-sione si trova negli esempi di micro-recensione che com-paiono su Twitter (massimo 140 caratteri).

2) La recensione lunga, da rivista specializzata, oscillante inmedia tra i 5000 e i 10000 caratteri. In questo caso alle qua-lità della sintesi si preferiscono quelle dell’analisi. Il cuoredi una buona recensione specializzata è l’inventio, la sceltadegli argomenti, che possono essere presentati in manierapiuttosto libera, essendo la sinossi in genere presentata aparte e il giudizio normativo estremamente limitato.

3) La recensione standard, oscillante in genere tra i 2000 e i4500 caratteri. È questa recensione di taglia media a rap-presentare il format dominante su quotidiani e pubblica-zioni on line. È anche la forma di recensione in cui sono ri-masti più codificati e stabili i vincoli di dispositio (che co-munque, in certi casi, vengono trasgrediti).Una recensione standard presenta nella maggior parte del-le occorrenze la seguente ripartizione interna: 1) cappellointroduttivo (agganci all’attualità, considerazioni persona-li, esperienza concreta di visione ecc.); 2) presentazionedella trama; 3) analisi della forma e del contenuto con ipo-tesi interpretative; 4) giudizio di valore sul film (e sulle suecomponenti: attori, fotografia, musica, regia ecc.).

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Capitolo 9

Significati, mappature e schemi

9.1 Tipologie di significato

Nel tentare di soddisfare i criteri di appropriatezza, corri-spondenza, originalità e plausibilità l’interprete, secondo Bor-dwell, si impegna nell’attività di reperimento di significati. I si-gnificati che possono essere costruiti nel corso di un’analisi so-no di quattro tipi:

Significato referenzialeQuando uno spettatore costruisce un primo livello di senso

avanzando ipotesi su fabula e intreccio, sullo spazio-tempo del filmapplicando categorie di orientamento spaziale e di causalità, stamobilitando significati di tipo referenziale. Si tratta di significatiimmediatamente elaborabili che richiedono capacità minime diastrazione e che coincidono in gran parte con l’identificazione/comprensione lineare degli oggetti e delle situazioni presenti sulloschermo. Per esempio, un significato referenziale di Blade Runnerè che l’azione si svolge in una Los Angeles del futuro dove gli uma-ni sono impegnati in una lotta contro i replicanti ribelli.

Significato esplicitoSi tratta di un tipo di significato che entra in gioco quando lo

spettatore, mediante un’operazione di lieve astrazione, assegnaalla diegesi un valore particolare, un significato più concettuale.Uno dei significati espliciti di Blade Runner è che lo sfruttamentointensivo dei replicanti ha portato a un processo di ribellione ti-pico degli oppressi nei confronti degli oppressori.

I significati referenziali ed espliciti costituiscono il processodi comprensione del film e il critico presuppone che essi sianocomunicati in modo diretto, non mediato, dal film stesso.

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Significato implicitoIl significato implicito riguarda gli elementi simbolici che lo

spettatore può attribuire al film come manifestazione di sensonon immediatamente evidente. Si presume che il film comunichiin modo indiretto e mediato questo tipo di significati. Un signi-ficato implicito di Blade Runner è che la ribellione dei replican-ti è più che giustificata in termini esistenziali e politici. Altri si-gnificati impliciti nel film riguardano il tema della visione, dellosguardo inteso come attività percettiva che si svincola dai limitidel corpo umano (l’occhio del replicante ha visto cose che noiumani non possiamo neanche immaginare, ma è anche l’organoche tradisce la natura artificiale del replicante stesso).

Significato sintomaticoÈ quel tipo di significato che si ottiene partendo dall’idea che

il film comunichi non solo in modo indiretto, ma anche in modoinvolontario. Nell’esperienza ordinaria facciamo largo uso di si-gnificati sintomatici. Se per esempio, se sentiamo un uomo direalla propria moglie «taci e vai in cucina» e poi affermare che nonha nulla contro le donne, siamo autorizzati a pensare che la fra-se, malgrado le affermazioni successive, esprima sintomatica-mente il dominio patriarcale sulla donna codificato nella nostrasocietà. È la società che parla attraverso i significati sintomatici,oppure il sintomo rivela l’ossessione nascosta di chi lo esprimeinvolontariamente. Infatti i significati sintomatici presuppongo-no che l’autorità e l’intenzione del parlante non siano d’aiuto nel-l’attribuzione di significato (egli può anche smentire l’attribuzio-ne, ma la cosa non invalida l’attribuzione medesima), come nel-la terapia psicanalitica in cui è l’analista che possiede la verità deldiscorso del paziente. Nel campo del cinema, le femministe nord-americane hanno spesso accusato il cinema horror contempora-neo di veicolare un’immagine violenta e sadica nei confronti delcorpo della donna. I registi hanno puntualmente smentito. Male femministe hanno avuto buon gioco nell’affermare che quellasmentita era priva di valore, in quanto i cineasti possono crearetesti carichi di terrore per il corpo femminile senza saperlo. InBlade Runner, per esempio, una lettura femminista individue-rebbe significati sintomatici di tipo misogino nella considerazio-ne del fatto che Deckard reprime la propria sessualità attraversoatti di violenza che richiamano la dinamica della castrazione (l’uc-cisione di Pris) e nel fatto che quando il protagonista comincia a

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desiderare Rachel, la spinge a baciarlo trattandola come una mer-ce genetica destinata alla soddisfazione dei desideri maschili.

La costruzione di significati impliciti e sintomatici costitui-sce l’operazione di vera e propria interpretazione (non più disemplice comprensione) del film.

Le tipologie di significato non compaiono sempre assieme al-l’interno delle singole recensioni (in alcuni casi i critici si limita-no a evidenziarne alcune) e il loro utilizzo non ha avuto una dif-fusione simultanea nella storia dell’interpretazione. Come ab-biamo visto nella parte storica, è soprattutto nella critica cine-matografica francese del dopoguerra che si sviluppano strumentidi analisi abbastanza sofisticati per il reperimento di significatiimpliciti, mentre è soprattutto tra anni Sessanta e Settanta, a se-guito dell’interazione tra analisi del film e scienze umane (psi-canalisi, semiotica, teorie femministe) che si diffondono le letturesintomatiche dei testi popolari (cinema, ma anche fumetto, pro-grammi televisivi, musica commerciale ecc.).Bisogna sottolineare che gli interpreti hanno possibilità di

movimento varie ma non infinite. Sono vincolati alla realtà te-stuale (problema della corrispondenza e della plausibilità). Alcontempo le quattro categorie offrono grandi possibilità di re-perimento di significati. Così può capitare che si creino contra-sti e disaccordi non solo in relazione al significato da dare a unasequenza, ma anche in relazione alla tipologia di significato. Peresempio, può succedere che un primo critico intenda una spe-cifica inquadratura della protagonista di un film come un ele-mento indicante la sfiducia velata del regista nei confronti del-l’elemento femminile (significato implicito). Un secondo criticopotrebbe sostenere che tale sfiducia non è affatto velata ma deltutto inconsapevole e tipica di tutto il cinema commerciale do-minante (significato sintomatico). Un terzo critico potrebbe in-fine negare del tutto che sia possibile reperire significati misogi-ni all’interno della pellicola (in questo caso il disaccordo non sa-rebbe sulla tipologia del significato ma sull’esistenza stessa di unsignificato preciso come quello reperito dai primi due critici).Chi ha ragione? Saranno i criteri di appropriatezza, origina-

lità e corrispondenza a determinare nel lettore l’impressione cheuna delle interpretazioni sia più convincente delle altre.

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9.2 Strutture di significato

Soffermiamoci su una recensione di Inseparabili, un film diDavid Cronenberg del 1988:

Basato su una vicenda realmente accaduta di due gemelli trovatimorti abbracciati, dieci anni fa a New York, narrata nel romanzoTwins, di Bari Wood e Jack Geasland, il film arriva ai vertici delfantastico e li travalica, si situa in una dimensione in cui tutto ciòche è immaginabile (ossessioni, perversione, scambi di corpi,sdoppiamento di identità) viene attuato in realtà, anzi oltre la re-altà, nella clinica per la cura della sterilità dei gemelli Elliot e Be-verly Mantle (Jeremy Irons), ginecologi e senza che ciò possa tur-bare la rispettabilità e la fama dei due chirurgi che hanno inven-tato un divaricatore Mantle. Ma non è un horror nella tradizionedel gore come non lo erano i precedenti film del regista canadese,è piuttosto unameditazione lacerante sull’ossessione per l’internodel corpo […] resa esplicita da una frase detta da Elliot al fratel-lo ‘dovrebbero fare dei corsi di bellezza per l’interno del corpo’.In una delle scene più sature di angoscia Beverly sogna Claire cherecide con i denti il cordone ombelicale che lo lega al fratello e sisveglia di soprassalto; già in stato di alterazione mentale nel ten-tativo di rovesciare il gioco pericoloso delle identità imposto se-condo natura da Elliot, sprofondato nella droga farmaceutica peraumentare le prestazioni sessuali, Beverly precipita in una vora-gine di delirio che lo porterà a disegnare e farsi costruire stru-menti ginecologici ‘da usare con donne mutanti’. Per Cronen-berg infatti l’orrore fisico non può prescindere da quello menta-le, anzi vi si trasforma ed è quest’ultimo […] a rideterminare ilprimo, in una forma di conversione sempre reversibile […].Estremista, perché metafora di una drastica riflessione sulleconseguenze dello sviluppo della ricerca biologica avanzata[…] Inseparabili basa la sua forza su una capacità visionariaespressa con fredda determinazione concettuale1.

Qui ricorrono gli elementi su cui ci siamo soffermati: un’espo-sizione parziale della trama che porta all’individuazione di signifi-cati referenziali («basato su una vicenda realmente accaduta di duegemelli...»), espliciti («una meditazione lacerante sull’ossessioneper l’interno del corpo») e impliciti («riflessione sulle conseguen-

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1 Paolo Vernaglione, Eversive anatomiche visioni, «Filmcritica», 393, mar-zo 1989, pp. 160-162.

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ze dello sviluppo della ricerca biologica avanzata»); la loro messain relazione con tratti specifici del film (stringhe di dialogo, de-scrizione di alcune scene, richiamo alla tipologia dei personaggi).Inoltre il reperimento dei significati (soprattutto impliciti) si

basa sulla formalizzazione di strutture di senso in unità più com-plesse. Un esempio di formalizzazione è la frase «per Cronen-berg infatti l’orrore fisico non può prescindere da quello men-tale». Fisico/mentale: è un caso di ciò che Bordwell chiama uncampo di relazione semantica (semantic field). I campi di relazio-ne semantica organizzano unità di significato in relazione le unecon le altre, sono uno strumento attraverso cui il critico avanzaipotesi sulla natura dei significati che vuole portare alla luce inun film. I campi di relazione semantica possono differenziarsitra loro in base al grado di complessità. Ci possono essere temistrutturati intorno a schemi di relazione assai articolati (come,per esempio, il quadrato semiotico greimasiano). Sul terreno del-la recensione specializzata sono prevalenti tipologie di semanticfield più semplici, come i doppioni oppositivi e i temi.

9.3 Doppioni oppositivi e temi

Esiste probabilmente un’attitudine cognitiva a pensare peropposti. La storia del pensiero è ricca di esempi. Anche nel cam-po della critica cinematografica: si va dalle analisi di Jaques Ri-vette dei film di Hitchcock nei termini di una opposizione traapparenze e segreti nascosti, alle teorizzazioni di Laura Mulveysul piacere visivo costruite sul binomio voyeurismo/feticismo,alla ricorrenza di coppie come classico/moderno, dominan-te/dominato, movimento/stasi, ordine/disordine. Sono tutti ca-si di doppioni oppositivi [Rivette 1953; Mulvey 1975].Invece quando un significato si moltiplica secondominime va-

rianti attraverso un testo, quando è reperibile in molteplici ele-menti del testo stesso, quando è possibile individuare una ridon-danza di significati simili tra loro che «fanno gruppo», non si par-la più di significati semplici, ma di temi. Un tema è precisamentel’organizzazione coerente e coesa di una serie di significati rag-gruppabili intorno a un universo semantico omogeneo. Gli inter-preti per dare ampiezza oltre che profondità all’analisi preferi-scono organizzare i singoli significati in unità tematiche coerenti.

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Esiste una lista dei temi reperibili predefinita a cui rivolgersinel corso dell’analisi? La risposta è negativa in termini assoluti.Eppure è vero che certi temi ricorrono più di altri e che in ogniepoca non tutti i temi sono percepiti come rilevanti nella stessamaniera. Hanno goduto di ottima stima presso le varie comuni-tà interpretative temi di tipo umanistico come il rapporto tra re-altà e finzione, il tema dell’alienazione, dell’incomunicabilità.Continuano ad avere buon riscontro tematiche legate a questio-ni come l’ambiguità della percezione, l’idea di considerare le sto-rie messe in scena come esempi di “lettura di testi” (il detectivecome lettore modello impegnato nell’interpretazione di un mon-do diegetico testualizzato), la fenomenologia della violenza, laparanoia della società ecc. Godono di credito alterno o sono ap-pannaggio di cerchie ristrette di individui appartenenti a sotto-comunità questioni tematiche mutuate dal realismo estetico distampo marxista, come il problema del rispecchiamento del rea-le o della demistificazione di certe strutture di potere.Il campo dei temi è sempre in espansione. Ma per ogni tema

che diventa rilevante ce n’è un altro che passa nel dimenticatoio.Da dopo gli anniNovanta possiamo, per esempio, costruire una se-rie di campi semantici intorno al «sentire cosale» dei personaggi delcinema attuale seguendo suggestioni derivate dal campo della fi-losofia contemporanea [De Bernardinis 1997]. Allo stesso temposfioreremmo il ridicolo se cercassimo di dare conto di un film neitermini delle tematiche e delle coppie oppositive attivate negli an-ni Sessanta da una rivista maoista come «Ombre Rosse».

9.4 Un tema longevo: la riflessività

I temi cambiano sotto l’influsso costante del contesto cultu-rale. Tuttavia, tra tutti i temi possibili, ce n’è almeno uno che hamostrato di essere più stabile di altri. È il tema della riflessività.Con questo termine si intende la capacità che ha un testo di ri-flettere su se stesso, sulla propria costruzione, sul contesto chelo ha generato ecc.Già negli anni Cinquanta la critica francese si era largamen-

te servita di tematiche riflessive. Aveva fatto scandalo presso lacritica americana che François Truffaut considerasse La finestrasul cortile di Hitchcock non un film sul Greenwich Village di

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New York, ma (a livello implicito) un film sul cinema. Truffautcredeva proprio a questo principio: un buon film ci dice semprequalcosa sulla vita e qualcosa sul cinema. Per molti studiosi delresto tutta l’arte è attraversata da una tensione tra istanze illu-sioniste e istanze riflessive [Stam 1985].La riflessività ha dominato come tematica anche negli anni

Sessanta e Settanta, declinata in una versione politicamente piùradicale. Una riflessività aggressiva e didattica viene promossanel cinema politico materialista e nelle sue principali teorizza-zioni, con la convinzione (fortemente influenzata dalle riflessio-ni di Bertolt Brecht) che l’impressione di realtà prodotta dal ci-nema non sia altro che un effetto di precisi codici del linguaggiocinematografico.Nei due decenni successivi la riflessività ha scoperto un ver-

sante più ludico, si è depoliticizzata almeno in parte ed è stata as-sunta da molti studiosi come il tratto più evidente del cinemapostmoderno (un cinema che rimane concettualmente riflessivocome lo era quello della modernità, ma che è anche ludicamen-te disincantato e capace di recuperare il piacere del testo rinun-ciando all’ascetismo formale del modernismo precedente).Il concetto di riflessività, in altri termini, non ci ha mai ab-

bandonati. Oggi sappiamo che «realistico» non è sinonimo di«borghese» e «riflessivo» non è sinonimo di «rivoluzionario».Cantando Sotto la pioggia ha valenze meta-cinematografiche e ri-flessive ma non ha valenze politiche (se non in senso molto indi-retto). Ritroviamo tratti metalinguistici di tipo godardiano nor-malizzate in trasmissioni televisive popolari (esibizione dell’ap-parato, interpellazioni dirette allo spettatore, mescolamento dimateriali eterogenei come fiction e documentario ecc.). Si pos-sono incontrare testi che sono al contempo riflessivi e reazionari(la maggior parte dei testi televisivi), e testi assolutamente illu-sionisti con vocazione sociale (i film di Ken Loach, per esempio).

9.5 Logica, funzionamento, applicabilità di un tema

Dal punto di vista delle routine interpretative standard, la ri-flessività è un concetto reperibile in modo molto semplice e di-retto. Bordwell ipotizza che il critico effettui uno pseudo-sillo-gismo del tipo:

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questo film ha la proprietà Xquesto film riguarda la proprietà Xla proprietà X è una proprietà del cinemaquesto film riguarda il cinema.

Ovvero: La finestra sul cortile documenta un caso di voyeu-rismo, La finestra su cortile è su un caso di voyeurismo, il cine-ma è strettamente legato al fenomeno del voyeurismo, quindi Lafinestra sul cortile è un film sul cinema.

La nozione di riflessività è così presente e utilizzata per al-meno due motivi:

1) La sua estendibilità a qualsiasi tipologia di significato. Èsemplice individuare elementi di riflessività nel fatto che Ioe Annie mostra gente che parla di cinema e che va al cine-ma. Ciò vuol dire che il film di Allen è un meta-film in vir-tù dei suoi significati espliciti e referenziali. Possiamo pe-rò anche dire che La finestra sul cortile è riflessivo. Ma inquesto caso sarà in virtù di significati di tipo implicito (leimmagini non presentano riferimenti diretti al mondo delcinema, la situazione cinematografica è presente su un pia-no metaforico). Possiamo anche interpretare Quinto pote-re (film di Sidney Lumet, del 1976, in cui si racconta il sui-cidio in diretta di un noto commentatore della tv) comeuna manifestazione di angoscia dell’istituzione cinemato-grafica nei confronti del mezzo televisivo individuabile so-prattutto sul piano sintomatico. E così via.

2) La sua estendibilità a qualsiasi piano della situazione co-municativa instaurata dal film. La riflessività presenta ca-ratteristiche di facile riportabilità a ogni tratto puntuale delfilm considerato. Solo per citare i casi più noti, la narrato-logia, la teoria dell’enunciazione, l’analisi del film ci hannofornito i mezzi per considerare in chiave riflessiva parodie,citazioni, sguardi in macchina, schermi incorniciati e mol-to altro. Tutta una serie di oggetti, situazioni e atteggiamentiha cominciato a manifestare insospettabili caratteristicheriflessive. Non più solo personaggi e avvenimenti, esistentie agenti, ma anche cornici, quadri, porte, finestre, specchi,gesti, movimenti di macchina sono divenuti, più o menometaforicamente, forme di autocoscienza del mezzo, di di-

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chiarazione poetica, di esplicitazione della figura autoriale,di indebitamento nei confronti di testi precedenti. Tuttociò significa, in poche parole, che la riflessività è virtual-mente ovunque nelle pratiche interpretative ordinarie. Ba-sta avere gli strumenti per saperla individuare.

9.6Mappatura, due modelli a confronto

Significati e temi indicano qualcosa, ma non il “dove” di que-sto qualcosa. Sono elementi che, per non rimanere indicazioniastratte, vanno correlati alla concretezza dei dati di un testo. Sevuole soddisfare i criteri di corrispondenza e plausibilità del-l’analisi, il critico deve individuare elementi testuali che funga-no da “attracco” per le unità semantiche. Chiamiamo mappatu-ra (mapping) l’attività di correlazione delle unità semantiche coni giusti elementi testuali. Per Bordwell esistono due strategieprincipali di mappatura:– Modello one-to-many: una unità semantica viene mappata supiù di una proprietà del film. Se, come ha fatto André Bazin,correlo il tema dell’ambiguità del reale inQuarto potere allaprofondità di campo e all’uso del piano sequenza, sto utiliz-zando unamappatura di questo tipo, in cui appunto una uni-tà semantica (ambiguità del reale) viene riportata a più di unacaratteristica del testo (profondità di campo e utilizzo delpiano sequenza) [Bazin 2000]. Nel dire che il tema della ri-flessività è rilevabile nel film X sul livello della costruzionedei personaggi (che, per esempio, lavorano nel mondo delcinema), nell’uso dello sguardo in macchina, nella messa inscena di sale cinematografiche e di apparecchi tecnici di ri-presa, produco un tipo di interpretazione che, giocando conil modello one-to-many, ha il pregio di essere economico sen-za essere necessariamente sintetico.

– Modellomany-to-one: una sola porzione di testo viene con-siderata come veicolo di più di un’unità semantica. Se tro-viamo tensioni sull’asse natura/cultura, elementi di voyeu-rismo e di riflessività nella caratterizzazione di un solo per-sonaggio; se, come spesso si fa nel campo dell’analisi te-stuale, analizziamo dettagliatamente l’incipit di un film, ri-trovando in esso una serie di temi che poi saranno svilup-

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pati lungo tutta la storia, stiamo facendo una mappaturamany-to-one, la quale ha il vantaggio di creare intorno aduna porzione di testo limitata un effetto di complessità e dipolisemia.

9.7 Schemi concettuali

L’attività di mappatura è facilitata dall’utilizzo di schemi co-gnitivi. Schemi cognitivi sono attivi nel nostro campo specificocome nella comprensione della vita di tutti i giorni. Umberto Ecoe i cognitivisti nord-americani sono d’accordo nell’affermare cheper capire cosa accade quando parliamo di cani, gatti, mele o se-die abbiamo bisogno di categorie [Eco 1997]. Gli schemi cogni-tivi ci aiutano a crearle. Per attribuire un significato referenzialebisogna svolgere delle attività di inquadramento, di framing.Per Bordwell esistono due grandi categorie di schemi cogni-

tivi. Gli schemi categoriali e gli schemi personificanti.I primi hanno a che fare con la vera e propria attività di fra-

ming. Il più potente schema categoriale è lo schema di genere.Per quanto problematica sul piano teorico, la nozione di gene-re è continuamente utilizzata, sul piano dell’interpretazione, co-me strumento per individuare caratteristiche testuali a cui rife-rire determinati significati. Melodramma, western, horror, clas-sico, moderno, postmoderno, action movie, sono categorie. I cri-tici le impiegano anche nel processo di attribuzione di valoreestetico. Capita infatti di imbattersi in recensioni in cui gli in-terpreti valorizzano un film proprio a partire dall’individuazio-ne di una variazione-scarto rispetto al genere in cui il film è sta-to incasellato (la congiunzione di tema riflessivo e schema cate-goriale è la strategia-base che sta dietro la maggior parte delledifese condotte dalle riviste specializzate nei confronti dei meta-western degli ultimi vent’anni, da Michael Cimino aWalter Hillpassando per Lawrence Kasdan).Lo schema personificante invece consiste nel trattare una se-

rie di entità astratte (un insieme di personaggi e un oggetto ina-nimato, cioè un film) come soggetti agenti in proprio. Il criticosi serve di schemi di personificazione per individuare agenti piùo meno personificati nel testo, intorno o dietro a esso. Uno deicasi più comuni è quello dell’interpretazione che poggia su uno

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schema di personificazione che a sua volta investe il personaggio(indagato di solito e principalmente nella sua costruzione di ruo-lo narrativo, nell’espressione verbale che egli veicola, negli aspet-ti fisiognomici da cui è più caratterizzato). Altrettanto comunidegli schemi di personificazione del personaggio sono gli sche-mi operativi quando si suppone che sia il film (il cinema) stessoo la macchina da presa ad agire in proprio (per esempio inespressioni come: «la macchina da presa è sempre nervosa e mo-bile»; «il film colma le proprie ellissi poco a poco nel corso delsuo svolgimento»), oppure quando si punta alla personificazio-ne di entità come «stile», «messa in scena» e «narrazione».Senz’altro lo schema personificante attualmente più impie-

gato in campo critico è quello che investe la figura dell’autore.Nei discorsi sul cinema, nell’istituzione critica in particolar mo-do, la nozione di «autore» mantiene una forte e generalizzataoperatività. Essa è in azione, per esempio, quando cerchiamo diindividuare una coerenza tematica e stilistica dietro alle pellico-le di un solo individuo, quando costruiamo un’immagine idea-lizzata del regista e la poniamo a monte del processo creativotrascurando l’apporto di altri fattori produttivi e realizzativi.

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Capitolo 10

Conclusioni: vincoli e libertà

10.1 I limiti dell’interpretazione

Se l’analisi dell’interpretazione offerta da Bordwell è esatta,le routine interpretative sono il punto di equilibrio dell’istituzio-ne critica: da un lato garantiscono libertà analitica grazie alla ric-chezza delle tipologie di significato, alla vastità dei temi reperi-bili e degli schemi codificati dalla tradizione, dall’altro evitanol’anarchia dell’interpretazione, smentiscono l’ipotesi che ormaisia possibile dire tutto ciò che si vuole di un determinato film,perché comunque viene segnato un percorso che non può esse-re abbandonato (non tutti i temi e gli schemi sono legittimi).In certi momenti, leggendo le recensioni, si ha l’impressione

che la qualità di un film non sia più un parametro definibile insé e che si possa parlare solo di un effetto-qualità dato dall’abi-lità dell’interprete. Oggi i critici hanno gli strumenti per indivi-duare tematiche, ossessioni d’autore, stratificazione antinomi-che dei significati pressoché ovunque. Possono descrivere temisimili giungendo a giudizi opposti, oppure riescono a giustifica-re un elemento poco credibile di un testo sul piano referenzialemediante la mobilitazione di un tema scelto ad hoc (per esempio,l’anacronismo in un film storico – poniamo la presenza diegeti-ca di un dipinto ancora non esistente all’epoca dello svolgimen-to dei fatti – può essere giustificato in termini non realistici mo-bilitando un tema mappato sul personaggio, poniamo la “diver-sità” di quest’ultimo rispetto alla sua epoca).Inoltre i critici, anche quando non esprimono giudizi diretti,

possono usare l’interpretazione per conferire valore o disvaloreai film. L’analisi delle recensioni mette in evidenza il fatto chel’interpretazione è raramente disgiunta da processi valutativi.Esistono due strategie dominanti. Quando il critico vuole pro-

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muovere la rilevanza di un film si serve di procedure analiticheaccurate, reperisce temi nuovi e presta attenzione a tutti i parti-colari formali del testo. La giustificazione di eventuali peccheavviene attraverso il reperimento di significati impliciti o sinto-matici, appellandosi al principio di non evidenza (bisogna guar-dare meglio sotto le apparenze). Quando il film non viene con-siderato degno di particolari attenzioni, l’accuratezza di analisilascia il posto a considerazioni sarcastiche sulla tenuta della tra-ma, sulla plausibilità dell’intreccio. L’interpretazione accentual’utilizzo di relazioni testo-realtà, rileva imprecisioni sul pianodel messaggio mobilitando soprattutto significati espliciti e re-ferenziali (è ciò che accade per esempio, quando si sostiene cheuna sequenza girata su un treno vuoto d’estate non è credibileperché i treni d’estate non sono mai vuoti, oppure che le condi-zioni delle donne non sono supportate nella messa in scena dauna giusta conoscenza della realtà storica corrispondente ecc.).I critici possono fare tutto questo e lo fanno. Eppure ciò non

significa che possano fare tutto, che «ogni cosa va bene». L’isti-tuzione critica ha norme e percorsi (routine, appunto) da segui-re. Le routine stesse fanno da argine agli eccessi di originalità.L’originalità individuale si colloca all’interno di una serie di re-golarità, di pratiche che in modo impersonale e poco appari-scente sono operative all’ombra di ogni atto critico. Ciò che gui-da l’interpretazione è ciò che in filosofia della scienza [Kuhn1969] si chiamamatrice disciplinaria, l’insieme delle mosse con-sentite da una data comunità (di lettura o scientifica). Le inter-pretazioni differiscono per qualità le une dalle altre. Questo èovvio. Ma la critica che non usa gli schemi che la definiscononon è una critica in grado di soddisfare i membri della comuni-tà di lettura (in definitiva la parte più consistente dei suoi frui-tori). Le recensioni migliori non sono quelle che sembrano piùoriginali in astratto, ma quelle che usano i temi e gli schemi inmodo originale piuttosto che farsi usare pigramente da loro.

10.2 Storia della critica e storia della cultura: gli studi sulla ricezione

Può apparire noioso spendere energie nell’esposizione delleopinioni altrui. I lavori storici sulla critica cinematografica nonhanno una grande tradizione per questo motivo. Le istituzioni

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del sapere umanistico incoraggiano l’originalità. Il parametro dioriginalità non viene soddisfatto quando ci si limita a ricostrui-re le idee o i giudizi degli altri (degli altri critici, nel caso speci-fico). Anche in campo accademico lo studio della fortuna criti-ca di una autore, di una corrente o di una cinematografia, è con-siderato sinonimo di piatta compilazione.Un modo per riscattare la storia della critica cinematografi-

ca da tali pregiudizi (spesso tutt’altro che infondati) è di inserir-la all’interno di interessi sempre più diffusi negli studi di setto-re. Almeno dalla seconda parte degli anni Novanta l’attenzioneteorica è indirizzata alla figura dello spettatore in carne e ossa, aimodi in cui la sua esperienza può essere pensata come parte del-la storia del cinema e osservata in termini di fruizione cinema-tografica. Sotto l’influsso degli studi di ricezione (reception theo-ry), dei cultural studies (in particolare dei lavori sull’audience te-levisiva e il suo ruolo attivo), delle teorie letterarie reader-orien-ted, si interrogano i modi in cui le comunità di spettatori in-fluenzano, creano, modificano l’identità degli oggetti culturalinel momento in cui li consumano. Gli studi di Janet Staiger, peresempio, si servono della storia della critica cinematografica, del-l’analisi delle interpretazioni di vari film, per ricostruire il con-testo di apparizione di fenomeni specifici. Come si crea un ca-none? Quando un film diventa un classico? Cosa sono i film diculto? Ad alcune di queste domande si può rispondere almenoin parte ricorrendo allo studio della critica cinematografica [Stai-ger 1992 e 2000].

10.3 Janet Staiger di fronte alla ricezione critica di AranciaMeccanica

Ripercorriamo il modo in cui Staiger ricostruisce il contestodi fruizione di Arancia Meccanica di Stanley Kubrick, negli Sta-ti Uniti [Staiger 2000].Alla sua uscita, nel 1971, la pellicola, si afferma come un film-

scandalo che innesca una grossa produzione di discorsi, recen-sioni e dibattiti. Staiger opera su questo materiale scritto una pri-ma divisione: da una parte le recensioni negative del film, dal-l’altra quelle positive. Segue una seconda divisione: all’internodelle recensioni negative vengono individuati tre filoni tematici:

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1) La critica della rappresentazione della violenza e della ses-sualità come fine a se stessa. La violenza viene giudicatagratuita. Le musiche di commento ironiche sugli atti dibrutalità sembrano ai detrattori un segno di cinismo. Ku-brick è accusato di avere posizioni anti-umaniste. Ci si sof-ferma sui processi di immedesimazione dello spettatorenei confronti del protagonista Alex. Le recensioni parlanodi una vittima migliore dei carnefici. Secondo questi arti-coli, il comportamento di Alex è motivato psicologica-mente nel romanzo di Anthony Burgess da cui il film ètratto (cattivi genitori e pessime compagnie), mentre nelfilm l’istituzione poliziesca è descritta nella sua brutalità enel godimento che prova praticando l’eccesso punitivo,senza giustificazioni. Tutto ciò potrebbe suggerire l’ideache non ci sia differenza tra violenza e violenza. Da qui de-riva anche la critica seguente.

2) L’accusa di ambiguità ideologica: il film si concede ap-punto un atteggiamento incerto nei confronti delle bruta-lità mostrate.

3) L’accusa di misoginia. Per alcune femministe il modo in cuiKubrick ha messo in scena la violenza è molto diverso dacome viene descritta nel libro. Nel film sembra che le don-ne vogliano essere martoriate e molestate. Inoltre la vio-lenza sulla donna è trattata comicamente. Il film quindi ri-spetto al romanzo compie uno slittamento da posizioni ge-nericamente misantrope ad altre specificamente misogine.

Queste alcune delle argomentazioni riportate da Staiger trat-te dalla stampa dell’epoca. La cosa interessante è che dietro aogni filone di critica viene individuato un insieme di strati in-terpretativi. I temi critici in altri termini si organizzano nel di-battito a partire dalle circostanze culturali dell’epoca, in conco-mitanza con insiemi discorsivi adiacenti. Per esempio, AranciaMeccanica attira tanto l’attenzione su dinamiche legate alla ses-sualità per un motivo principale: i cambiamenti della definizio-ne di oscenità tra anni Sessanta e Settanta a seguito sia della par-ziale diffusione nelle grandi città del cinema moderno europeosia dei discorsi sulla liberazione sessuale successivi agli anni del-le ribellioni giovanili.Malgrado le voci a sfavore, la pellicola diventa un oggetto di

culto, presto canonizzato come uno dei film più importanti de-

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gli anni Settanta. Dopo avere ripercorso le recensioni a favoreStaiger si sofferma sui fattori contestuali che hanno avuto unruolo nella canonizzazione del film. In primo luogo il pubblicointellettuale della art houses (sorta di circoli culturali del cinemad’autore) promuove e appoggia il film celebrandolo in prospet-tiva autoriale. Il suo regista viene considerato quasi da subito unnuovo maestro. In secondo luogo Arancia Meccanica attira l’at-tenzione delle sottoculture gay e in generale il pubblico dell’un-derground trash cinema raccolto intorno alle proiezioni notturne,cicliche e ripetute, di film di culto. La trasformazione di Aran-cia Meccanica in un film di culto riguarda quindi sia pratiche cri-tiche, sia pubblici selezionati, sale cinematografiche particolari,comunità ristrette di spettatori. Il film lascia il segno che lasciaperché diventa oggetto di strategie di visibilità capillari, diffuse,ma precise, che coinvolgono sottogruppi definiti di spettatori.Arancia Meccanica e le sue interpretazioni fanno parte di una for-mazione discorsiva. I vari strati della formazione riguardano i di-scorsi interpretativi propriamente detti, ma anche pratiche con-crete di visione, comportamento, gusto.

10.4 Coda: la critica nel circuito dei discorsi sociali

Questo è un modo di fare storia della critica che ha almenoil merito di non limitarsi a fare la rassegna stampa di un feno-meno. È un metodo che collega gli enunciati di gusto e le stra-tegie di lettura al contesto intellettuale di un’epoca. La criticacinematografica non è solo un’attività svolta a giochi già fatti, unservizio utile per orientare al consumo, è anche uno dei luoghiin cui viene costruita e negoziata la rilevanza sociale dell’espe-rienza cinematografica. In tal modo la storia della ricezione cri-tica può smettere di essere un esercizio compilativo e diventareun contributo a una più generale storia della cultura.

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