Introduzione e curatela numero monografico "Solidarietà in movimento" di Scienza & Politica
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SCIENZA & POLITICA, vol. XXVI, no. 51, 2014, pp. 3-16
DOI: 10.6092/issn.1825-9618/4626 ISSN: 1825-9618
3
SCIENZA & POLITICA
per una storia delle dottr ine
A B S T R A C T
*****
Alla luce della ripresa del dibattito sul tema della solidarietà, questo contributo introduttivo alla sezione monografica di «Scienza & Politica» si propone di mettere in luce la funzione epistemologica di questo concetto nella costituzione del tempo e dello spazio della regolazione sociale. Prendendo in esame il contributo della sociologia alla costruzione e sviluppo dello Stato sociale novecentesco, si vaglierà la capacità euristica e normativa del concetto di solidarietà di fronte alle sfide che la globalizzazione economica e sociale pone alla possibilità di una regolazione societaria delle in-terdipendenze globali. PAROLE CHIAVE: Solidarietà; Sociologia; Contratto; Stato sociale; Globalizzazione.
Solidarietà in movimento. Politica, sociologia e diritto tra welfare e globalizzazione
Solidarity on the Move. Politics, Sociology and Law
between Welfare and Globalization
Luca Cobbe
Università di Macerata [email protected]
Starting from the current revival of the debate around the issue of solidarity, this introductory contribution to the monographic section of «Scienza & Politica» aims to highlighting the epistemological function of this concept in the constitution of the time and the space of social regulation. Taking into consideration the contribution of soci-ology to the construction and the development of the twentieth-century welfare state, it treats and questions the heuristic and normative capacity of the concept of solidarity in front of the challenges that globalization poses to the economic and social possibility of a societal regulation of global interdependencies. KEYWORDS: Solidarity; Sociology; Contract; Welfare State; Globalization.
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Nel 2007, cogliendo una suggestione che iniziava a diffondersi ben oltre i
confini del dibattito accademico1, Pierangelo Schiera ed Elena Antonetti pub-
blicavano sulle pagine di questa rivista una call for papers sul tema della frater-
nità/solidarietà. I due autori della call si domandavano se, attraverso la presa in
considerazione di questa «linea di scorrimento sociale-istituzionale», fosse
possibile mostrare alcuni mutamenti passati e presenti delle modalità di orga-
nizzazione politica, dentro e oltre l’evoluzione e la degenerazione della forma
statuale nella sua declinazione costituzionale prima e democratica poi2.
Collocata sin dalle sue origini ottocentesche in uno spazio “ibrido” tra il
pubblico e il privato, la solidarietà veniva riconosciuta quale principale molla di
attivazione di quel campo di azione “amministrativa” che, storicamente, ha fat-
to fronte alle sfide lanciate dai movimenti sociali attraverso la costituzione del-
la società quale spazio di integrazione, uno spazio che da allora viene compreso
per l’appunto come solidale.
Dopo quella call il dibattito attorno al concetto di solidarietà si è ulterior-
mente arricchito e si è fatto più problematico3. Sotto l’accelerazione imposta
dai processi di erosione dello Stato sociale novecentesco, dalle dinamiche di in-
tegrazione-costruzione dell’Unione europea, dall’approfondirsi delle disugua-
glianze su scala globale, dall’espansione del lavoro informale e precario, dalle
pressioni esercitate dalle migrazioni sui mercati del lavoro nazionali, i riferi-
menti e gli appelli alla solidarietà si sono moltiplicati contribuendo da un lato a
riaffermare la “fortuna” di questo concetto, dall’altro ad aumentarne a sproposi-
to l’equivocità. È chiaro che si tratta principalmente di un movimento reattivo,
per certi versi simile a quello che a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, ha
stabilito le coordinate del dibattito attorno al concetto di cittadinanza. Il rinno-
vato interesse per il tema della solidarietà è infatti legato al progressivo scemare
dell’interesse rispetto alla cittadinanza, al suo divenire “mera retorica”, anche a
causa del formalismo giuridico che continua a segnare i discorsi contemporanei
sui diritti provocandone costantemente lo scivolamento in una dimensione
“moralistica”. Come vedremo, questo rischio è presente anche nel dibattito sulla
solidarietà.
1 Per nominare i più recenti contributi al dibattito: H. BRUNKHORST, Solidarity: From Civic Friend-
ship to a Global Legal Community (2002), Cambridge (Mass.)-London, Mit Press, 2005; S. STJERNØ, Solidarity in Europe: The History of an Idea, Cambridge, Cambridge University Press, 2005; M.-C. BLAIS, La solidarietà. Storia di un’idea (2007), Milano, Giuffrè, 2012. 2 P. SCHIERA, E. ANTONETTI, Call for papers, «Scienza & Politica», 19, 36/2007, pp. 109-110:
http://scienzaepolitica.unibo.it/article/view/2802/2199. Sul nesso tra solidarietà e amministrazione P. SCHIERA, L’amministrazione pubblica in Europa tra costituzionalismo e solidarietà, «Scienza & Politica», 20, 38/2008, pp. 5-13: http://scienzaepolitica.unibo.it/article/view/2778/2175. 3 Per ultimo S. RODOTÀ, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Roma-Bari, Laterza, 2014. Un’utile rasse-
gna del dibattito è presente in S. GIUBBONI, Solidarietà, «Politica del diritto», 4, dicembre/2012, pp. 525-553. Sulla sponda francese e in ambito prettamente sociologico, interessanti suggestioni sono presenti in D. MARTUCCELLI, Interculturalité et mondialisation: le défi d'une poétique de la solidarité, « Revista CIDOB d’Afers Internacionals», 73-74/2006, pp. 269-299.
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Dietro al ritorno della solidarietà come tema centrale del dibattito politico e
pubblico c’è l’esigenza di declinare su una dimensione più concreta e pratica
(istituzionale più che giuridica, che riguarda l’azione più che i princìpi) le que-
stioni relative all’attacco ai sistemi di welfare. Tuttavia, lo spostamento di pro-
spettiva dai “diritti” ai “doveri” di cui spesso si è caricato il riferimento alla soli-
darietà pare risolvere per mezzo di un tropismo lessicale un problema decisa-
mente più complesso, che è difficile immaginare come esterno al concetto4. Al-
cune direttrici di questo dibattito suscitano infatti l’impressione che le difficol-
tà che la solidarietà oggi incontra nel tradursi in azione, in comportamenti so-
ciali e giuridici, in politiche pubbliche siano concepite come attinenti a un pia-
no di realtà rispetto al quale il concetto di solidarietà dovrebbe intervenire
esclusivamente nella forma di soluzione. La solidarietà è immaginata in questo
modo come cura per un male prodotto dalla sua assenza. La soluzione al pro-
blema della "crisi effettuale" della solidarietà si esprime così in un tautologico
appello alla sua riattivazione, in un "allargamento" dei campi della sua applica-
zione o piuttosto, riprendendo una delle sue classiche declinazioni ottocente-
sche, nel tentativo di elevare “il sociale” a fine supremo dell’azione dei poteri
pubblici e alla dignità smarrita di principio costituzionale, magari sotto la pres-
sione di un’opinione pubblica tornata improvvisamente a illuminarsi per effetto
di qualche indefinita dinamica.
L’intenzione che sottende questo numero monografico dedicato alla solida-
rietà, che vorrebbe anche indicare possibili linee di ricerca, procede da una pro-
spettiva profondamente differente. Si tratta, cioè, di affrontare il problema del-
la solidarietà provando a sottrarsi alle ipoteche cognitive presenti nelle argo-
mentazioni a cui abbiamo fatto riferimento. La prospettiva storica, se svincola-
ta da una mera ricostruzione lineare dell’evoluzione di un’idea, può tornare a
essere d’aiuto. La solidarietà, come concetto che storicamente si è formato
all’incrocio col processo di formazione e sviluppo delle scienze sociali, è stata
principalmente un operatore epistemologico in grado, prima ancora di articola-
re delle risposte politiche, di produrre una “visione”5, una strutturazione del
campo del reale, un ordine dotato di un suo tempo e di un suo spazio, quello
del “sociale”6. Il concetto di solidarietà ha quindi esibito in prima istanza una
capacità performativa, quantomeno da un punto di vista cognitivo. Proprio a
4 Su questo punto interviene criticamente S. RODOTÀ, Solidarietà, pp. 48-56, anche se la sua critica
finisce per risolvere su un terreno tutto giuridico la novità rappresentata dal diritto sociale, o dai diritti sociali, espressione del nesso solidarietà-diritto. 5 Sul rapporto tra politica e visione si veda S. WOLIN, Politica e visione. Continuità e innovazione nel
pensiero occidentale (1960), Bologna, Il Mulino, 1996, in part. pp. 32-39. 6 Sul ruolo produttivo delle scienze sociali rispetto alle visioni e conformazioni dell’ordine moderno
si veda M. RICCIARDI, La società come ordine. Storia e teoria politica dei concetti sociali, Macerata, Eum, 2010.
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partire da questo livello ci interessa mettere a tema il concetto di solidarietà nel
momento del suo ritorno sulla scena del dibattito pubblico. Provare a ricercare i
limiti e le possibilità di questo concetto in quanto operatore epistemologico;
sondarne le capacità descrittive e prescrittive e la connessione che lega causal-
mente questi piani: questi sono alcuni dei propositi, sicuramente ambiziosi,
che animano i contributi di questo numero monografico di «Scienza & Politi-
ca».
A nostro giudizio, solo impostando il problema in questo modo è possibile
testare il concetto e la pratica della solidarietà rispetto alle sfide del presente,
mettendo cioè in tensione tanto la sua capacità descrittiva quanto quella nor-
mativa.
Per delineare questa dimensione della solidarietà è imprescindibile il riferi-
mento, oltre che alla genesi di questo concetto nella tradizione socialista e re-
pubblicana francese, alla sua codificazione da parte della scuola sociologica
durkheimiana, alla quale sono dedicati i due contributi di questo numero. Co-
me mostra Andrea Lanza nel suo saggio sulle traiettorie della solidarietà attor-
no al 1848, sin dal momento in cui “emerge” dalla fraternità, la solidarietà as-
sume la caratteristica di un concetto sfrangiato e conteso tra differenti declina-
zioni, ideologiche e materiali, che contribuiscono alla produzione di un prima
visione sociologica dello spazio della società. Tuttavia, è solo nell’elaborazione
di Durkheim che la solidarietà acquisisce pienamente la duplice valenza di
elemento di strutturazione del discorso e di regolazione delle pratiche giuridi-
co-istituzionali. Il concetto di solidarietà permette di porre la questione
dell’ordine e della normatività in una forma radicalmente differente tanto dalla
teoria politica e giuridica, quanto dalle scienze sociali precedenti. La solidarietà
è, rispetto al nesso sociale, sia un indice della sua consistenza sia un modello
normativo. Nel pensiero durkheimiano, la trattazione della solidarietà veicola
una determinata modalità di porre la questione del tempo e dello spazio della
relazione sociale.
Solitamente intesa come sinonimo di coesione, la solidarietà nella vulgata
sociologica è quasi sempre stata declinata spazialmente: come interdipendenza
delle funzioni svolte in un organismo sociale, come indice dell’unità di una
formazione sociale sottoposta a spinte centrifughe, come misura della sua salu-
te o patologia, come pendant di una contiguità spaziale e come indice delle ca-
pacità inclusive di una società. Anche muovendosi dalla sociologia “spontanea”
a quella classica, è difficile negare la presenza di una declinazione di questo ti-
po. Soprattutto in riferimento alle sfide poste dalla nuova dimensione tempora-
le del globale, è importante mostrare che la solidarietà interviene nel discorso
sociologico come criterio capace di materializzare, di rendere visibile, una par-
ticolare temporalità della relazione sociale. Non si tratta solo del rapporto che
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connette in sequenza solidarietà meccanica e solidarietà organica e che gioca
un ruolo importante nella produzione dell’immaginario sociologico del tempo,
grazie alla sua capacità di tradurre la questione della «grande trasformazione»7
nei termini dello sviluppo di processi di «de-socializzazione» dell’individuo
prodotti dall’affievolirsi dei vincoli gerarchici che caratterizzavano le forme
premoderne di solidarietà8. Più importante della sequenza storico-evolutiva tra
le diverse forme di solidarietà9, ci pare essere la particolare dimensione tempo-
rale che si determina dentro e attraverso la relazione sociale. Da questo punto
di vista è importante rilevare il nesso che la solidarietà intrattiene col diritto.
Esso, infatti, è «il simbolo visibile»10 della solidarietà. Solo seguendo le sue
traiettorie storiche è possibile ricostruire le differenti configurazioni di una so-
lidarietà che non è mai una pura potenzialità, ma assume maggiore consistenza
quanto più aumenta la sua capacità di porre dei vincoli. Proprio per questo, fi-
no a oggi, è spettato al diritto renderla intellegibile sia in quanto “materia”, sia
in quanto “forma” del nesso sociale. Non è tuttavia solo la sanzione organizzata
giuridicamente a catturare l’attenzione di Durkheim. Se la norma è espressione
della solidarietà, quest’ultima a sua volta implica un incontro di coscienze, pre-
suppone cioè una comunicazione senza la quale non potrebbe nascere nessuna
norma. Solidarietà, diritto e comunicazione indicano perciò tre articolazioni di
un legame sociale che paradossalmente aumenta la propria capacità regolativa
nella misura in cui coincide con un processo sempre maggiore di differenzia-
zione e di individualizzazione, ossia di produzione delle condizioni grazie alle
quali è possibile stabilire contatti e rapporti reciproci. In maniera del tutto con-
seguente, partendo dal diritto di proprietà, la genealogia durkheimiana del giu-
ridico si conclude perciò con l’analisi della forma contrattuale, quale forma di
relazione che non si esaurisce nel diritto che pure la regola11.
Lo sviluppo del diritto contrattuale (dal contratto reale a quello consensua-
le, passando per quello solenne), che nella trattazione di Durkheim segna il
passaggio dalla solidarietà meccanica a quella organica, non si spiega infatti,
come nella visione liberale, come affrancamento degli individui da tutti i pre-
7 K. POLANYI, La grande trasformazione (1944), Torino, Einaudi, 1974. 8 H. BRUNKHORST, Solidarity, p. 92. 9 Sulla complessa articolazione temporale tra solidarietà meccanica e organica nel pensiero di Dur-
kheim in riferimento alla configurazione del collettivo mi permetto di rinviare a L. COBBE, Dalla sovranità del popolo al governo della società. Émile Durkheim e l’enigma democratico, in G. BONAIU-
TI, G. RUOCCO, L. SCUCCIMARRA (eds), Il governo del popolo. Rappresentanza, partecipazione, esclu-sione alle origini della democrazia moderna. 3. Dalla Comune di Parigi alla prima guerra mondiale, Roma, Viella, 2014, pp. 223-256. 10 É. DURKHEIM, La divisione del lavoro sociale (1893), Torino, Edizioni di Comunità, 1999, p. 86. 11 É. DURKHEIM, Lezioni di sociologia. Fisica dei costumi e del diritto (1950), Milano, Etas, 1973, pp.
119 ss.; sul rapporto tra solidarietà, diritto e comunicazione cfr. M.A. TOSCANO, Evoluzione e crisi del mondo normativo. Durkheim e Weber, Roma-Bari, Laterza, 1975, in part. pp. 11-23.
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cedenti tipi di solidarietà sociale, ma come la produzione di una nuova forma
di solidarietà che agisce costruendo una nuova temporalità orientata al futuro.
Questa constatazione non è però sufficiente a comprendere in che modo la so-
ciologia si differenzia rispetto alla tradizione liberale: tanto il contratto indivi-
duale quanto quello “sociale” sono infatti un dispositivo che regola il tempo che
intercorre tra la promessa e la sua esecuzione, rispondendo così all’ansia nei
confronti del futuro propria della condizione moderna. In una prospettiva libe-
rale il contratto incarna la possibilità che si dia un inizio a un rapporto interin-
dividuale proiettando l’azione degli individui in un futuro regolato sulla base
delle libere volontà dei contraenti. Niente di più lontano dalla prospettiva so-
ciologica.
«Non tutto nel contratto è contrattuale»12. Attraverso questa sibillina ma ef-
ficace espressione, l’intenzione di Durkheim è di mostrare dietro al contratto e
alla sua efficacia regolativa un livello di normatività invisibile in grado di confe-
rire cogenza e capacità trasformativa a questo stesso strumento giuridico. Se un
contratto, anche e soprattutto “consensuale”, è possibile e se la relazione con-
trattuale può assurgere a cifra della modernità è per ragioni profondamente dif-
ferenti da quelle proposte dall’individualismo metodologico. Dire che un con-
tratto è tale perché prende forma a partire dalle libere volontà di due individui
autonomi significa non considerare quell’insieme di condizioni determinanti
per garantire la sua implementazione. Esiste un livello di consenso al contratto
che è irriducibile a quello dei singoli contraenti e che ne disciplina costante-
mente i termini di applicazione.
Riprendendo una linea argomentativa proposta da Robert Castel13, si può di-
re che alla base del contratto è sempre presente un elemento di status, che si
attiva alla sua stipula, ma che è indipendente dalla volontà dei contraenti e che
il contratto ammette come condizione. Esiste cioè una regolazione sociale che
ha una sua logica estranea a quella contrattuale ma che si attiva nel momento
in cui viene posto in essere un contratto14. Quest’ultimo fa dunque sempre parte
di un processo di produzione e riproduzione delle regolazioni sociali, un pro-
cesso che Hume avrebbe definito convenzionale, che satura il tempo, apparen-
temente aperto e vuoto, tra la promessa e la prestazione. Quando si stipula un
contratto si “dà per scontato” che l’altra persona adempia il suo dovere, anche in
assenza di adeguate garanzie (che non sarebbero mai adeguate se il futuro fosse
12 Ivi, p. 218. 13 R. CASTEL, Le metamorfosi della questione sociale: una cronaca del salariato (1995), Avellino, Sel-
lino, 2007. Su questo testo si vedano le incisive considerazioni sviluppate in B. KARSENTI, Eléments pour une généalogie du concept de solidarité, in «Futur Antérieur», dicembre, 41-42/1997: http://www.multitudes.net/Elements-pour-une-genealogie-du/. 14 Sull’autonomia normativa della società in Durkheim cfr. M. RICCIARDI, La forza della società: di-
sciplina, morale e governo in Émile Durkheim, in L. BLANCO (ed) Dottrine e istituzioni in Occidente, Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 185-209.
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assunto sul serio come imperscrutabile, ossia come contingenza pura). Questo
“dare per scontato” è legato a una certa «attitudine cognitiva» dei contraenti
che sarebbe impossibile qualora la società non si desse nella forma di un accu-
mulo, psicologico in primo luogo, di esperienze contrattuali15. Il contratto è il
simbolo della solidarietà esistente tra gli individui, ossia di un nesso sociale che
si dà nella forma della differenziazione piuttosto che dell’omogeneità. Esso è
vincolato alla presenza e contribuisce a produrre un’omogeneizzazione del
tempo, inteso come svolgersi continuo e privo di interruzioni di una sequenza
di azioni sociali solidali. Esso perciò presuppone, oltre a produrre, una solida-
rietà protratta nel tempo tra le azioni collettive. Forzando un po’, ciò equivale a
dire che i contratti, anche quelli privati, si effettuano in relazione, inconsapevo-
le per lo più, a un più ampio e tacito “contratto sociale” che ne assicura
l’operatività e rispetto al quale essi non sono momenti “originari” di obbliga-
zione ma semplicemente ripetitori differenziali di un’obbligazione più ampia
che è quella societaria. Siamo dunque di fronte a una solidarietà in movimento,
una modalità di articolare le connessioni delle azioni interindividuali che è pro-
fondamente diversa dalle forme rigide dell’antica società per ceti.
Lo sviluppo e il successo della forma contrattuale quale paradigma del rap-
porto sociale e solidale si accompagna dunque a un mutamento dell’esperienza
del tempo: da una concezione del tempo calibrata sull’esperienza individuale,
biografica, si passa così a una concezione sociale del tempo, misurata rispetto
alla vita della società intesa come essere sui generis, irriducibile alla somma dei
tempi individuali ma in grado di sussumere, e al contempo produrre e valoriz-
zare, le traiettorie meno ordinate e plurali di esperienza di cui quei tempi indi-
viduali sono portatori. Per quanto prenda corpo prima dell’ascesa dello Stato
sociale novecentesco, la teoria durkheimiana è quella che è maggiormente in
grado di spiegare la solidarietà sulla quale esso si fonda poiché pensa il processo
di integrazione degli individui dentro una struttura politico-istituzionale che
dipende completamente dalla loro società.
Lo sviluppo dello Stato sociale novecentesco rappresenta perciò al meglio
questa trasformazione della concezione del tempo. Riprendendo una felice
espressione di François Ewald, si può dire che il «contratto di solidarietà» che
lo innerva, incarnato nei sistemi di assicurazione previdenziali, produce una
dilatazione del tempo che non comprende la sola biografia di un individuo o
una singola generazione, ma molteplici biografie e generazioni, presupponen-
15 Fondamentale su questo passaggio B. KARSENTI, De l’individu à la personne: contrainte du contrat,
«Actes de savoirs», 3, 2007, pp. 31-56.
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do in questo modo la sopravvivenza della società per un futuro indefinito16. As-
sistiamo perciò alla produzione, per via istituzionale e quindi artificiale, di una
temporalità collettiva irriducibile a una concezione biologica e naturale di tem-
po e in grado di riqualificare in senso “politico” la stessa nozione di generazione
e di solidarietà intergenerazionale. Questa concezione del tempo esibisce un
profondo debito tanto con il concetto comtiano di progresso17, quanto con i
suoi sviluppi nella tradizione solidarista francese18. Il prisma della solidarietà
permette però di cogliere le modificazioni strutturali che permeano anche
l’azione e la conformazione dello Stato.
Il progetto dello Stato sociale è di trascendere l’individualismo senza negare
il riferimento all’individualità e ai suoi tempi, ma donandogli un nuovo "sup-
porto" in grado di potenziarne capacità e autonomia: il diritto sociale o, se si
vuole marcare ancor di più la torsione che la solidarietà imprime alle stesse ca-
tegorie giuridiche, la «proprietà sociale»19. In questo processo di costruzione
dell’unità sociale per mezzo della valorizzazione e protezione della differenza
individuale lo Stato, oltre alla sicurezza, garantisce anche la propria esistenza,
conservazione, permanenza. L’assicurazione sociale è un’assicurazione contro
le rivoluzioni, in primo luogo20. Ma in questo processo costante di neutralizza-
zione dei conflitti e polarizzazioni di classe, la solidarietà è una rivoluzione per
lo stesso Stato, un movimento, una visione in grado di modificare profonda-
mente la sua logica e la sua struttura, come mostra bene Nicola Marcucci nel
suo contributo su Durkheim e la giustizia sociale.
All’altezza di queste dinamiche e riprendendo la questione con la quale ab-
biamo aperto, ossia quella del ritorno del bisogno di solidarietà, ci si deve però
domandare se e quanto un concetto di questo tipo possa davvero essere d’aiuto
per districarsi di fronte all’esplosione del tempo lineare e progressivo della sto-
ria che caratterizza la nostra contemporaneità. Attraverso il dispositivo del con-
tratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato – forma giuridica
storicamente determinata del rapporto di salario –, lo Stato sociale novecente-
sco aveva innescato, almeno in Europa, un processo di regolazione che, proprio
16
F. EWALD, Insurance and Risk, in G. BURCHELL - C. GORDON - P. MILLER (eds), The Foucault Effect. Studies in Governamentality. With Two Lectures and an Interview with Michel Foucault, Chicago, The University Press of Chicago, 1991, p. 209. Sulla nozione di contratto di solidarietà e sul suo ruo-lo nella costruzione dello Stato sociale in Francia imprescindibile è F. EWALD, L’Etat providence, Pa-ris, Grasset, 1986, in part. pp. 349-380. 17
Cfr. L. SCUCCIMARRA, Tempo di progresso, tempo di crisi. Modelli di filosofia della storia del dibatti-to francese post-rivoluzionario, «Sociologia», 1/2011, pp. 27-43. 18
E. ANTONETTI, La solidarietà di Léon Bourgeois: libertà, ordine, giustizia, pace, «Scienza & Politi-ca», 20, 38/2008, pp. 27-47: http://scienzaepolitica.unibo.it/article/view/2780/2177. Cfr. anche L. BOURGEOIS, La costruzione della solidarietà, introduzione e cura di E. ANTONETTI, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011. 19
R. CASTEL - C. HAROCHE, Proprietà privata, proprietà sociale, proprietà di sé. Conversazioni sulla
costruzione dell’individuo moderno (2001), Macerata, Quodlibet , 2013. 20
F. EWALD, Insurance and Risk, p. 209.
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perché caratterizzato da una mobilità interna, era riuscito a integrare le tempo-
ralità individuali nel più ampio tempo progressivo della cittadinanza sociale.
Senza addentrarci nella complicata questione della pluralità dei registri
temporali che segnerebbe il presente globalizzato, basta semplicemente pren-
dere in considerazione il modo in cui la crisi del modello lavoristico della citta-
dinanza sociale frantuma la temporalità solidale. Una crisi del tempo storico
che, come mostra Paola Persano nel suo contributo, si riverbera anche sulla
classica modalità in cui fino a questo momento era stata pensata la solidarietà
tra generazioni – la catena generazionale – producendo, più che un ritorno al
“tempo di natura” dell’individuo, la moltiplicazione di isole, di frammenti di
prossimità generazionale.
La risposta storicamente necessaria alla crisi di valorizzazione del capitale
degli anni ’70 si è contraddistinta per una moltiplicazione delle forme irregola-
ri, informali e precarie del lavoro che hanno reso inefficace e desueta la capacità
dello Stato e della società di integrare differenti temporalità in un unico tempo
sociale, progressivo e solidale. Ciò ha significato anche la crisi di un particolare
immaginario associativo, di una visione della società in quanto unità prodotta
attraverso un complesso meccanismo amministrativo di raggruppamento e di
connessione di interessi che, qualora lasciati liberi di agire nello spazio del
mercato avrebbero preso direzioni centrifughe. Quest’unità, attraverso un par-
ticolare mix di consenso individuale e costrizione invisibile collettiva, era la ci-
fra delle libertà e delle autonomie individuali.
Alle prese con queste e altre trasformazioni, come quelle determinate dai
movimenti migratori, la cittadinanza sociale più che un movimento solidale e
ascendente diviene oggi il sintomo dell’intermittenza e frantumazione di una
solidarietà che non è più in grado di proteggere il legame sociale vincolando lo
spazio dell’agire mercantile, rispetto al quale sempre più spesso si trova subor-
dinata21.
21
È interessante, a questo proposito, rilevare la torsione “mercantilistica” della solidarietà che si sta
determinando a ridosso del processo di istituzionalizzazione europea. Come rileva Giubboni, da un lato, «a livello europeo la vera accezione di solidarietà che è assunta è relativa al fatto che gli Stati membri dell’Unione europea formano una “comunità di solidarietà” solo nel senso specifico che la stabilità della moneta comune viene credibilmente e permanentemente assicurata grazie ad una stretta disciplina dei vincoli di bilancio di tutti i paesi che vi prendono parte» (S. GIUBBONI, Solida-rietà, p. 547); dall’altro, «i sistemi di protezione sociale sono sottoposti ad un vincolo di permanen-te “ricalibratura” in affiancamento alle politiche di flessibilizzazione del mercato del lavoro; e, so-prattutto, l’idea di solidarietà, cui essi erano storicamente ispirati in una logica eminentemente redistributiva, deve essere ripensata e riarticolata in termini competitivi» (ivi, p. 551). Già più di dieci anni fa Wolfgang Streeck aveva letto queste trasformazioni nel segno di un passaggio da una solidarietà «redistributiva» a una «competitiva», basata sull’attivazione dei soggetti protetti (W. STREECK, Il modello sociale europeo: dalla redistribuzione alla solidarietà competitiva, «Stato e mer-cato», 58, aprile/2000, pp. 3-24). Più recente, rispetto all’affermazione di una logica della contro-partita e di un paradigma dell’attivazione, è il contributo di R. CASTEL, L’avenir de la solidarité, Paris, PUF, 2013.
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Su Le Monde diplomatique dello scorso novembre, in un articolo intitolato
Ni assurance ni charité: la solidarité22, Alain Supiot si interrogava sugli effetti
che l’attacco contemporaneo ai servizi pubblici nazionali, la ridefinizione dei
regimi fiscali e dei diritti sindacali e di sciopero stanno producendo in Europa.
Saremmo di fronte alla rottura del nesso tra sacrificio (debito) e reciprocità
(credito) che fino a oggi ha rappresentato la base del funzionamento istituzio-
nale della solidarietà nelle singole società nazionali. Garantendo alle imprese il
monopolio della mobilità, che viene limitata quando è esercitata dagli individui
(siano essi cittadini comunitari o meno), il nuovo modello sociale europeo di
fatto mina quel legame tra il dovere di contribuire e il diritto di beneficiare di
servizi e prestazioni che ha rappresentato per tutto il Novecento uno dei prin-
cipali argini alla disintegrazione e polarizzazione dell’unità sociale. Sempre più
individui sono chiamati a sacrificarsi in nome della società senza però godere
di una qualche forma di reciprocità in termini di salario, reddito e prestazioni.
Il modello che si sta affermando sembra piuttosto essere: dai e ti sarà chiesto.
Di fronte a dinamiche di tale portata e intensità, domandarsi se il dispositi-
vo giuridico del contratto, magari reinventato nella forma di un «nuovo con-
tratto comunitario», possa essere ancora lo strumento attraverso il quale pensa-
re e produrre oggi una solidarietà all’altezza del rapporto societario globale23
rischia di tralasciare un elemento decisivo: il contratto, come abbiamo visto,
oltre a produrre solidarietà la presuppone, esso ha nei confronti della società
un “debito ontologico”.
Nel 1996, elaborando la propria sociologia del rischio, con l’usuale e cinica
sensibilità che lo contraddistingue, Niklas Luhmann si domandava: «è indi-
spensabile presupporre solidarietà (o in caso contrario far ricorso ai meccani-
smi coercitivi del diritto) se si vuole arrivare a delle regolamentazioni sociali»24?
Prendendo congedo dalla carriera semantica del termine, nella prospettiva del-
la sociologia dei sistemi la solidarietà diviene un particolare meccanismo socia-
le che interviene nel momento in cui il problema dell’incertezza del futuro si
presenta come puro pericolo non imputabile ad alcuna decisione o a compor-
tamenti passati.
«In vista di pericoli viene spontaneo accertarsi di poter contare su un aiuto sociale. I pericoli, per esempio nella forma di nemici esterni, conducono alla solidarietà. Nes-suno dei coinvolti è responsabile per il pericolo, nessuno può dire con certezza come lo si possa evitare. Si può pregare per ottenere dalle potenze religiose protezione o
22 A. SUPIOT, Ni assurance ni charité: la solidarité, «Le Monde diplomatique», n. 728, no-
vembre/2014, p. 3. 23 Così per esempio P. PERULLI, Il dio Contratto. Origine e istituzione della società contemporanea,
Torino, Einaudi, 2012, in particolare nell’ultima parte del testo. 24 N. LUHMANN, Pericolo oppure rischio, solidarietà oppure conflitto (1996), in N. LUHMANN, Il ri-
schio dell’assicurazione contro i pericoli, a cura di A. CEVOLINI, Milano, Armando, p. 100. Per un ap-profondimento sul concetto di rischio nella prospettiva della sociologia dei sistemi si veda quanto-meno N. LUHMANN, Sociologia del rischio (1991), Milano, Bruno Mondadori, 1996.
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aiuto, oppure ci si può procurare in modo preventivo un’assistenza sociale nel caso che il pericolo si realizzi»
25.
Soprattutto, secondo Luhmann, ogni introduzione del futuro nel presente
comporta forme determinate di discriminazione sociale. Mentre Habermas
pensa che sia possibile costruire comunicativamente delle soluzioni ragionevoli
grazie alle quali alla fine tutti potranno essere d’accordo26, per Luhmann, la
produzione di solidarietà sociale si è sempre accompagnata a forme di costri-
zione sociale per via dei criteri assoluti comunque necessari per la costruzione
della comunità. Nella più recente modernità, queste discriminazioni sociali so-
no coincise con i processi di produzione di confini della cittadinanza di cui ci
parla la vicenda dello Stato nazione, anche e soprattutto nel suo farsi Stato na-
zional-sociale27. Da questo punto di vista ha ragione Supiot quando distingue la
solidarietà dall’assicurazione: «a differenza di questa, che poggia sul calcolo at-
tuariale dei rischi, un regime di solidarietà riposa sull’appartenenza a una co-
munità, sia essa nazionale, professionale o familiare»28. Più di un secolo prima,
ma mettendo in luce lo stesso nesso tra solidarietà, tempo e appartenenza, Re-
nan poteva perciò affermare «la nazione è una grande solidarietà, costituita dal
sentimento dei sacrifici compiuti e da quelli che si è ancora disposti a compiere
insieme»29.
Come abbiamo già detto in riferimento al tempo sociale della solidarietà e
della cittadinanza, il quadro nazionale è stato storicamente il polo di riferimen-
to costante che permette agli individui di pensarsi come solidali e come parte
attiva alla produzione di coesione della totalità sociale. Disegnando lo spazio
politico-territoriale dentro il quale si sono sviluppati i nuovi regimi di solida-
rietà, le forme di mutualizzazione e di socializzazione dei rischi immanenti alla
società industriale e di massa, lo Stato nazione è stato per tutto il Novecento, la
principale macchina di produzione di confini necessari allo stesso funziona-
mento della solidarietà30. La questione dei confini è perciò un elemento essen-
ziale nella definizione dello stesso concetto di solidarietà31. Esso mostra infatti
25
Ivi, pp. 95-96. 26
Cfr. J. HABERMAS, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia (1992), Milano, Guerini, 1996. 27
Cfr. S. MEZZADRA, Diritti di cittadinanza e Welfare State. Citizenship and Social Class di Tom Mar-shall cinquant’anni dopo, in T.H. MARSHALL, Cittadinanza e classe sociale, Roma-Bari, Laterza, pp. v-xxxiv. 28
A. SUPIOT, Ni assurance ni charité, p. 3. 29
E. RENAN, Che cos’è una nazione? (1882), Roma, Donzelli, 1998, p. 16. 30
S. GIUBBONI, Solidarietà, pp. 535-537. 31
Sul nesso tra confini e solidarietà si veda l’introduzione di Beatrice Magni alla traduzione dell’opera di M.-C. Blais, B. MAGNI, Tra ponti e confini: l’idea di solidarietà, in M.-C. BLAIS, La soli-darietà, pp. vii-xli. Sulla centralità del tema dei confini rispetto al dibattito sulla globalizzazione fondamentale è il riferimento A S. MEZZADRA, B. NEILSON, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale (2013), Bologna, Il Mulino, 2014.
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la persistenza di una tensione tra la proiezione universalistica del concetto e la
sua inevitabile fissazione, territorializzazione in uno spazio politico, entro cui
esso può operare e trovare concreta attuazione. Il punto in questione non è solo
relativo all’opposizione tra una declinazione universale e una reale della solida-
rietà o alla tensione tra la proiezione universalistica verso l’eguaglianza e la re-
strizione particolaristica legata ai criteri che presiedono alla raccolta e alla redi-
stribuzione delle risorse all’interno di una certa collettività32. La questione è re-
lativa alla stessa crisi dell’universalità che il concetto di solidarietà contribuisce
a determinare producendo la sua scomposizione tra una dimensione reale, co-
me interdipendenza, una fittizia, ossia incarnata in un’esperienza istituzionale,
e infine una dimensione ideale, come «esigenza assoluta e infinita»33 racchiusa
in un ideale politico. Alla base della tensione tra interdipendenza globale dei
rapporti societari, dimensione statuale e tensione ideale e trasformativa agisce,
come mostra Bruno Karsenti nel suo contributo, un problema già presente
nell’elaborazione durkheimiana dell’antinomia tra nazionalismo e cosmopoliti-
smo. Questo problema va richiamato per evitare che all’assenza di nuove cate-
gorie analitiche per interpretare il presente si risponda per via di una rimozione
aproblematica delle questioni ancora aperte che continuano ad attraversare
quelle del passato.
A fronte di questa tensione irrisolta, la domanda posta da Luhmann ritorna
nella forma di un nuovo dilemma: la solidarietà può ancora essere il polo con-
cettuale al quale continuare a fare riferimento per ripensare una regolazione
sociale all’altezza dei processi di destrutturazione dello Stato nazionale e di pre-
figurazione di un legame societario che progressivamente si sta strutturando su
scala globale34?
Un dato va rilevato: le tensioni e le diseguaglianze generate dai processi so-
ciali ed economici di globalizzazione stanno facendo risorgere alcune forme di
«solidarietà nell’azione»35, come quelle che si manifestano negli scioperi che si
stanno verificando nella «fabbrica mondiale cinese»36, piuttosto che nelle sol-
levazioni del mondo arabo37 o in alcuni esperimenti mutualistici che stanno
attraversando le periferie sempre più proletarizzate e impoverite delle metro-
32
Così S. GIUBBONI, Solidarietà, p. 537. 33
E. BALIBAR, Gli universali, in E. BALIBAR, La paura delle masse. Politica e ideologia prima e dopo
Marx (1997), Milano, Mimesis, 2001, pp. 233-252. 34
Cfr. N. LUHMANN, Globalization or World Society: How to conceive of modern society?, «Interna-
tional Review of Sociology/Revue Internationale de Sociologie», 7, 1/1997, pp. 67-79. 35
Così sempre A. SUPIOT, Ni assurance ni charité, p. 3. 36 Cfr. PUN NGAI, Cina, la società armoniosa. Sfruttamento e resistenza degli operai migranti, Mila-
no, Jaca book, 2012; PUN NGAI, LU HUILIN, GUO YUHUA, SHEN YUAN, Nella fabbrica globale. Vite al lavoro e resistenze operaie nei laboratori della Foxconn, di prossima pubblicazione presso la casa editrice Ombrecorte di Verona.. 37 Cfr. L. PAGGI (ed), Le rivolte arabe e le repliche della storia. Le economie di rendita, i soggetti poli-
tici, i condizionamenti politici, Verona, Ombrecorte, 2014.
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poli globali. Al netto del serio problema rappresentato dal contemporaneo ri-
torno anche di forme escludenti di solidarietà che si riscontra nei fondamenta-
lismi religiosi o etnici, il problema che si vuole sottolineare è relativo alla dina-
mica di “prefigurazione” di una solidarietà futura e pienamente transnazionale
che spesso ci si sforza di rintracciare in queste forme di solidarietà nell’azione.
“La solidarietà è un’arma” è una frase che continua a echeggiare negli slogan di
chi quotidianamente prova a reagire a questo stato di fatto. Tuttavia è lecito
domandarsi se continuare a usare oggi un vocabolario di una tradizione la cui
ambizione era di definire l’unità del sociale sia davvero utile per focalizzare il
problema del nostro presente, che ha più a che vedere con il modo in cui diffe-
renze e gerarchie si stiano strutturando in una società oramai pienamente glo-
bale. Siamo sicuri che etichettare sotto il segno della solidarietà i nuovi processi
di organizzazione delle lotte sul lavoro e non che si stanno diffondendo su scala
globale non rischi di rimuovere esattamente la novità di cui possono essere
eventualmente portatori? Detto in altri termini, nominare questi processi or-
ganizzativi sotto il segno della solidarietà rischia a nostro giudizio di veicolare
un’immagine armonica del sociale rispetto alla quale la costruzione di solida-
rietà può essere pensata solo nella forma del ripristino di un sociale corrotto e
rotto dai comportamenti mercantili. Accanto a questo rischio, una simile con-
cezione del sociale veicola l’idea che lo sfruttamento possa essere risarcito im-
maginando spazi sottratti alla logica del mercato oppure procrastinandolo in
un futuro sempre più insondabile e utopico.
La compresenza di forme e declinazioni differenti e spesso confliggenti del-
la solidarietà ci impone sicuramente di divaricare questo concetto e di compli-
carlo. Come mette bene in luce Monica Stronati nel suo contributo
sull’associazionismo di mutuo soccorso nell’Italia dell’Ottocento, è importante
rilevare storicamente la presenza di differenti “visioni della solidarietà”, in par-
ticolare dentro esperienze che hanno preso forma ai margini dell’azione statale
ma che riguardano processi di organizzazione sociale più ampi. Esperienze ca-
paci, da un lato, di mettere in discussione la dinamica confinante della solida-
rietà statale, dall’altro, anche a causa dell’assenza della pretesa di essere colletti-
vamente vincolanti, di restare a loro volta confinate in una sorta di “incompiu-
tezza strutturale”.
Le questioni poste dal ritorno del bisogno di solidarietà sono perciò molte e
complesse. Partire dalla funzione epistemologica che questo concetto ha svolto
e dalla visione che ha imposto sicuramente può esserci d’aiuto nel districarci in
questo groviglio di problemi. Ma al di là di tutte le cautele, un approccio di
questo tipo sedimenta un’ultima questione con la quale è possibile concludere
questo primo tentativo di discussione del problema: è possibile che alla base
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della frammentazione attuale della solidarietà ci sia la solidarietà stessa, o al-
meno alcune dinamiche innescate dalla sua “visione”? Una domanda di questo
tipo muoverebbe dal presupposto che la crisi della solidarietà coincida con la
difficoltà di governare i processi che essa stessa ha innescato, producendo di-
namiche e aspettative non più contenibili38. Forse, allora, una storia “cattiva”
della solidarietà, che ne metta in luce gli aspetti scompositivi, permetterebbe di
cogliere i punti ciechi dei più recenti appelli in sua difesa, spingendoci nella di-
rezione di un superamento del concetto stesso di solidarietà.
38 Recuperiamo qui una suggestione sviluppata in M. PICCININI, Cittadinanza in saturazione. Note
per una critica dei diritti, «DeriveApprodi», 24, XII, inverno2003-primavera 2004, pp. 119-122.
SCIENZA & POLITICA, vol. XXVI, no. 51, 2014, pp. 17-39
DOI: 10.6092/issn.1825-9618/4627 ISSN: 1825-9618
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per una storia delle dottr ine
A B S T R A C T
*****
Ringrazio Manuela Ceretta e Simona Cerutti per le discussioni avute con loro, per la loro attenta lettura del mano-scritto e per i numerosi consigli che mi hanno consentito di mettere a fuoco i nodi problematici e di allargare i campi di indagine sulle trasformazioni ottocentesche del termine solidarité. Data l’occasione, non posso non ag-giungere che la loro solidarietà non le impegna in alcun modo nelle mancanze e negli errori di cui sono e resto l’unico responsabile.
L’articolo si concentra sulla storia socio-lessicale dei termini «fraternité» e «solidarité» nella Francia della prima metà dell’Ottocento. In particolare l’autore mette in luce come, nel 1848, il termine «fratellanza» venga allo stesso tempo inserito nel motto repubblicano e associato al repubblicanesimo socialista sconfitto. L’autore si concentra quindi sul sinonimo «solidarietà» ricostruendo i suoi diversi contesti d’uso (fiscale, legale, religioso, economico e politico) per mostrare come l’uso nel contesto sociale accompagni la nascita di un approccio sociologico di matrice repubblicano-sansimoniana. PAROLE CHIAVE: Fratellanza; Solidarietà; Socialismo; 1848; Pierre Leroux.
Fraternité e solidarité intorno al 1848. Tracce di un approccio sociologico.
Fraternité and solidarité in 1848. Traces of a Sociological Approach.
Andrea Lanza
EHESS - École des Hautes Études en Sciences Sociales – Paris [email protected]
The article focuses on the social-lexical history of the terms fraternité and solidarité in France during the first half of the 19th century. In particular, the author highlights how, in 1848, fratenité is both used in the motto of the Republic and associated with the defeated socialist republicanism. Then, the author focuses on its synonymous, solidarité, and he reconstructs the different contexts of use of this term (fiscal, legal, religious, economic and polit-ical contexts), in order to show that its use in the social context accompanies the formation of the first sociological approach with a republican-saint-simonian matrix. KEYWORDS: Fraternity; Solidarity; Socialism; 1848; Pierre Leroux.
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1. La fratellanza, o del terzo termine e della sua pronta sconfitta
Dei tre principi del motto adottato nel 1848 dalla Repubblica francese1, ri-
preso alla caduta del secondo impero e d’allora rimasto associato a questa con
l’eccezione della breve fase pétainista2, la fratellanza è senza dubbio quello che
sembrerebbe più sfuggente. In uno dei pochi lavori dedicati al ruolo della fra-
tellanza nel diritto pubblico francese, Michel Borgetto ne sottolinea la parziale
irriducibilità al diritto3. Un altro eminente storico del diritto francese, Jacques
Le Goff, pur sottolineando la centralità della nozione nella costruzione dei di-
ritti sociali, definisce la fratellanza un «riferimento simpatico», ma afferma che
esso «non genera che una debole produttività politica e giuridica, a differenza
della libertà e dell’uguaglianza, facilmente convertite in diritti»4. La frase sem-
bra di primo acchito condivisibile; tuttavia nemmeno le traduzioni giuridiche
dell’uguaglianza e della libertà, a rifletterci, vanno da sé. La traduzione
dell’uguaglianza, tutto fuorché «concreta», impone l’introduzione della figura
astratta del cittadino uguale in diritto ai suoi pari. Per quel che è della libertà, la
sua traduzione giuridica può apparire una decisa riduzione fondandosi sulla
confusione o sovrapposizione fra libertà e arbitrio. Se, da una parte, si dirà che
il venir meno di riferimenti socialmente condivisi a verità trascendenti non può
che comportare l’associazione fra libertà e autonomia nel definire il bene,
dall’altra sia le teorie psicologiche sia le teorie sociologiche, sebbene in termini
diversi e divergenti, ci invitano alla cautela nel pensare che le nostre idee di li-
bertà siano traducibili in termini giuridici concreti. Del resto, spesso, la tradu-
zione giuridica della libertà si riduce alla definizione dei limiti della libertà.
Ugualmente, la libertà come partecipazione alla determinazione collettiva della
legge non può che divenire paradossale in una società che si fonda sul principio
rappresentativo, in cui cioè la politica (nei migliori dei casi) è la rappresenta-
zione della divisione sociale, e in cui cioè la presenza di maggioranze e mino-
ranze è un fatto strutturale e la finzione originaria di un’approssimazione
dell’unanimità è guardata con terrore. Non si tratta evidentemente di mettere
1 Cfr. Per una storia del termine e del concetto politico della fratellanza, cfr. M. DAVID, Le printemps
de la Fraternité. Genèse et vicissitudes 1830-1851, Paris, Aubier, 1992; M. DAVID, Fraternité et Révolu-tion française 1789-1799, Paris, Aubier, 1987; M. OZOUF, Liberté Égalité Fraternité, in P. NORA (ed), Les lieux de mémoire. III. Les France, Paris, Gallimard, 1992, vol. III, pp. 583-629; G. PANELLA, Fra-ternité. Semantica di un concetto, «Teoria politica», 2-3/1989, pp. 143-166. 2 Il 15 settembre 1940, il presidente del consiglio Pétain sostituirà la celebre devise con il motto
“Travail, Famille, Patrie”. 3 Presentando un lavoro di settecento pagine dedicato alla nozione di fratellanza nel diritto pubbli-
co francese, Borgetto dedica l’intera introduzione a sottolineare quella che gli appare come l’impossibilità di una vera traduzione in diritto di tale valore – cfr. M. BORGETTO, La Notion de fra-ternité en droit public français. Le passé, le présent et l’avenir de la solidarité, Paris, Librairie géné-rale de droit et de jurisprudence, 1993. 4 J. LE GOFF, Le droit à la fraternité n’existe pas, «Revue Projet», 329, 2012, p. 14 (superfluo forse ri-
cordare che benché perfetta, si tratti di una semplice omonimia con il celebre medievista).
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in causa la pertinenza o i limiti di queste traduzioni, tanto più che tali messe in
causa sono al cuore del conflitto intorno a cui prendono forma e unità le nostre
società. La necessaria finzione giuridica dell’individuo libero e quindi traspa-
rente a se stesso e l’introduzione della figura astratta del cittadino eguale in di-
ritti, in due modi diversi e complementari, rispondono al ruolo che il diritto
svolge nelle società democratiche: la mediazione temporanea, con funzione a
sua volta normativa, ma mai sottratta alla discussione, di un conflitto che
l’assenza di possibili riferimenti trascendenti rende insuperabile.
In altri termini, rispetto alla fratellanza, la libertà e l’uguaglianza sono prin-
cipi che non hanno di per sé nulla di più naturalmente incline a tradursi in di-
ritto; si può osservare come si siano storicamente imposti come luoghi di di-
sputa, come principi condivisi ma la cui definizione costituisce motivo di con-
flitto. La fratellanza non ha forse avuto la stessa sorte; tuttavia, si può dire che
alla fratellanza corrisponda il luogo di disputa intorno all’equilibrio fra indi-
pendenza e dovere di sostegno fra i cittadini o fra i cittadini e la società, ovvero
lo Stato a cui è demandato il compito. Se tale luogo ha stentato a definirsi sotto
il termine di fratellanza, finendo per rivelarsi piuttosto sotto quello di solida-
rietà, le ragioni sono molteplici, e in particolare non mancano ragioni che at-
tengono alla storia, per così dire, lessicale, ai giochi di rimandi, echi e memorie
che le parole portano con sé. In questo contributo cercherò in un primo mo-
mento di avanzare un’ipotesi che, almeno parzialmente, possa rispondere della
sfortuna politico-giuridica della fraternité in Francia, per poi soffermarmi più
lungamente sull’emergere e sul diffondersi nei dibattiti politici e sociali del suo
quasi sinonimo solidarité.
Nella sfortuna della fratellanza gioca un importante ruolo il fatto che, nel
momento in cui è adottata come terzo principio del motto della Repubblica
francese, venendo così posto come principio condiviso e, quindi, come poten-
ziale luogo di disputa, la fratellanza è anche l’emblema di una parte, e più in
particolare di una parte che da lì a qualche mese sarà sconfitta, quella dei socia-
listi. Nel suo lavoro sulla fratellanza, divenuta l’opera di riferimento su questo
tema, Marcel David introduce il 1848 sottolineando due fasi «nettamente sepa-
rate»; individua cioè dalle giornate di febbraio ad aprile, una prima fase in cui
la fratellanza sarebbe il «principio per eccellenza dello Stato», e una seconda
fase, a partire d’aprile, in cui la conflittualità, che degenera in giugno in guerra
civile farebbe «passare d’attualità» la fratellanza5. L’analisi di David si concen-
tra allora sulle due fasi prendendo in conto le diverse dimensioni che
l’«ufficializzazione» e la «democratizzazione» della fratellanza implicano. Se il
5 M. DAVID, Le Printemps de la Fraternité, p. 169.
LANZA, Fraternité e solidarité intorno al 1848
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proposito e le osservazioni che espone David sono certamente interessanti, oc-
corre però prendere in considerazione un aspetto sottostimato profondamente
da questo studioso: l’ideale di fratellanza è esso stesso preso nel conflitto ed è,
come dicevo, l’emblema di una delle parti in conflitto. Fin dalla fine degli anni
Trenta, la fratellanza è, infatti, il principio primo, ritenuto in grado di permet-
tere il giusto dispiegarsi di eguaglianza e libertà, di un insieme eterogeneo di
pensatori e operai, portatori di quel nuovo discorso socialista repubblicano che
prende forma a Parigi e che s’intreccia con il costituirsi di un’identità della clas-
se operaia, ovvero di un’identità collettiva che fa della condizione particolare di
minorità ed esclusione il fondamento per un progetto politico universale di tra-
sformazione in senso egualitario. Proprio della nuova prospettiva socialista re-
pubblicana è la valorizzazione della storia e del legame sociale fondato sulla
condivisione nello spazio e nel tempo, secondo il linguaggio dell’epoca, di un
«dogma»; la fratellanza può allora mobilitare i ricordi della prima Repubblica e
del ruolo del popolo di Parigi, legandoli alla tradizione millenaria del cristiane-
simo e facendone il fondamento di una nuova religione, superamento della
passata, e nuova coscienza dell’umanità nella storia6.
Si possono leggere allora le due fasi di David sotto un’altra luce: se un primo
relativo successo dei repubblicani socialisti contribuisce a far sì che la nuova
Repubblica adotti il celebre motto e che proietti quindi l’ideale della fratellanza
fra i principi condivisi e unificanti, sul senso e la connotazione da dare a quel
principio si apre inevitabilmente un conflitto in cui i moderati si battono per
dissociare la fratellanza dal socialismo. In altri termini, si è al cuore della ten-
sione della primavera 1848: per i socialisti, la repubblica del suffragio universale
(maschile) non può che svilupparsi nella direzione di una democrazia sociale,
di una «repubblica democratica e sociale»; per i moderati che riconoscono il
nuovo regime, esso merita il pieno sostegno nella misura in cui è capace di ar-
ginare le spinte «anarchiche» contro l’ordine sociale costituito.
Le diverse citazioni che David riporta a testimonianza del successo della fra-
tellanza nella prima fase devono quindi essere lette come testimonianze di una
prima lotta per appropriazioni contrapposte con cui soprattutto gli ambienti
cattolici contrastano la potenziale egemonia socialista repubblicana. La posi-
zione delle gerarchie cattoliche, e dei vescovi in particolare, ha dell’inedito in
Francia: la Chiesa cattolica si confronta con una Repubblica non solo non anti-
religiosa, ma in cui diverse forze promuovono dei tentativi di «superare» il cri-
stianesimo, adottando l’esplicita analogia col superamento cristiano dell’ebra-
ismo. Inoltre, all’interno della stessa Chiesa, vi sono spinte di riforma e di evo- 6
Per un’analisi approfondita del discorso socialista degli anni Quaranta, che non casualmente defi-
nisco «fraternitario», mi permetto di rinviare al mio All’abolizione del proletariato! Il discorso socia-lista fraternitario 1839-1847, Milano, Franco Angeli, 2010 – sul ruolo specifico del termine-concetto della fratellanza in tale logica discorsiva, cfr. in particolare 145-154.
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luzioni progressiste del cattolicesimo. La Chiesa cattolica si trova così nella
condizione di dover ripensare il proprio ruolo rispetto alla società e allo Stato.
Le diverse prese di posizione da parte dei vescovi a favore della Repubblica por-
tano quasi sempre l’esplicito richiamo all’allineamento al nuovo regime in no-
me dell’opposizione allo spettro comunista, alle non meglio precisate forze del
disordine7. In questa dinamica, la fratellanza cristiana è contrapposta alla fra-
tellanza socialista. Da parte loro, invece, liberali e moderati laici non danno
prova di un particolare entusiasmo per la fratellanza. Tocqueville, per esempio,
nella corrispondenza dimostra fin da febbraio non solo di temere la guerra civi-
le, ma di voler consumare il più presto possibile lo scontro finale con quelli che
genericamente indica come «i violenti», riunendo sotto questa definizione i di-
versi socialisti e le masse dei quartieri popolari della capitale (il centro operaio
fra le Halles e le porte, e i faubourgs). Tocqueville osserva giustamente che il
richiamo alla fratellanza nei saluti è un esplicito richiamo alla prima repubblica
e nei suoi Souvenirs non usa che il termine fratellanza cinque volte, di cui quat-
tro mostrando esplicitamente o implicitamente il proprio disagio di fronte a
tale termine. Non resta che una quinta occorrenza, al vero piuttosto neutra, che
David sceglie di citare8.
Dopo la sconfitta dell’insurrezione e la repressione generalizzata, da fine
giugno 1848, le posizioni socialiste sono in una certa misura delegittimate; evo-
cata in un’accezione politica nei discorsi partigiani di socialisti e operai, con un
riferimento principale ai rapporti fra lavoratori e alla socialità futura, la fratel-
lanza scomparirà dal contesto politico istituzionale, non restando che nel mot-
to ufficiale della Repubblica. Nella Costituzione approvata nel novembre suc-
cessivo, la fratellanza non comparirà che due volte in maniera indiretta, sotto
forma di aggettivo e di avverbio, rimandando al dovere di aiuto reciproco fra
7 Lo spoglio della rivista L’ami de la religion del mese di marzo mostra emblematicamente tale posi-
zione; cfr. per esempio la lettera pubblica del vescovo di Mans sul numero del 14 mars 1848, n° 4506, pp. 619-620. 8 Cfr. A. TOCQUEVILLE, Souvenirs, in A. TOCQUEVILLE, Œuvres III, Gallimard-Pléiade, Paris 2004: «[à
la campagne] La propriété, chez tous ceux qui en jouissaient, était devenue une sorte de fraternité» (p. 799; citazione scelta da David); «La plupart des prétendants avaient repris les vieux usages de 92. On écrivait aux gens en les appelant "Citoyens" et on les saluait "avec fraternité". Je ne voulus jamais me couvrir de ces friperies révolutionnaires» (p. 800); «Je me rappelle avoir lu, entre autres, dans les journaux d’alors cette annonce, qui me frappe encore comme un modèle de vanité, de pol-tronnerie et de bêtise agréablement mêlées ensemble. "Monsieur le rédacteur, y était-il dit, j’emprunte la voix de votre journal pour prévenir mes locataires que, voulant mettre en pratique à leur égard les principes de fraternité qui doivent guider les vrais démocrates, je délivrerai à ceux de mes locataires qui le réclameront, quittance définitive du terme prochain"» (p. 810); Tocqueville evoca il personaggio allegorico della Fratellanza durante la festa della Concordia, cui si reca armato di pistola (p. 834); «les hommes du peuple qui élevaient celle-ci [une barricade], voyant un beau monsieur en habit noir et linge très blanc parcourir doucement les rues sales des environs de l’Hôtel de Ville et s’arrêter devant eux d’un air placide et curieux, imaginèrent de tirer parti de cet observateur suspect. Ils lui demandèrent, au nom de la fraternité, de les aider dans leur ouvrage; Corcelles était brave comme César, mais il jugea avec raison que, dans cette circonstance, il n’y avait rien de mieux à faire que de céder sans bruit» (pp. 844-845).
LANZA, Fraternité e solidarité intorno al 1848
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cittadini (art. VII) e all’assistenza che la Repubblica deve garantire a tutti i cit-
tadini (art. VIII).
2. Per una mappatura degli usi di solidarité nella prima metà
dell’Ottocento
Jacqueline Lalouette, in un interessante saggio, ha insistito su una reale al-
ternativa di significati fra i termini solidarité, fraternité e charité, per ricondurli
prioritariamente a una o un’altra dottrina; mi sembra invece che i primi due
termini circolino fra le dottrine, alternandosi negli usi presenti, portando con
sé echi differenti, ma restando potenzialmente aperti a ogni evoluzione9. Sulla
media durata, invece, la fortuna del termine solidarietà è incomparabile, po-
tendo contare su una minore connotazione emotivo-sentimentale e, ancor più,
non dovendo pagare il tributo di una pericolosa associazione con i giacobini e i
sanculotti del 1793 e soprattutto con quell’insurrezione del giugno 1848 bandita
dalla memoria al punto che, ancor oggi, nessun luogo parigino ne ricorda gli
eccidi e le migliaia di morti. Del suo quasi sinonimo fraternité, solidarité non
deve scontare le compromissioni pericolose, e per questo, in poco tempo, inizia
a diffondersi nel suo senso attuale di sostegno politico e operaio, e, soprattutto,
per designare il legame sociale d’interdipendenza di ogni uomo (in quanto per-
sona, cittadino e produttore), imponendosi infine sotto la Terza repubblica in
campo politico10 ed economico, con il solidarismo, come in campo sociologico,
con la scuola durkheimiana.
La prima sensibile diffusione di questo termine è da cercare all’inizio degli
anni Quaranta dell’Ottocento, quando solidarité si diffonde nel suo uso politi-
co-sociale con un significato che prende proficuamente a oscillare fra due acce-
zioni: un’accezione in cui prevale la dimensione della comunanza di interessi e
di sentimenti, e un’accezione in cui prevale la dimensione del legame sociale
che lega gli individui prima di ogni volontà e a prescindere da ogni scelta. La
solidarietà designa cioè l’unità dell’umanità nello spazio e nel tempo,
l’interdipendenza e il sentimento che ne deriva. Come spesso accade, il con-
fronto con la necessità di una traduzione in un’altra lingua impone di sciogliere
9 Cfr. J. LALOUETTE, Charité, philanthropie et solidarité en France vers 1848. Pour une histoire des
mots et des doctrines, in J.-L. MAYAUD (ed), 1848: actes du colloque international du cent cinquante-naire, Paris, Créaphis, 2002, pp. 203-231. Per una recentissima discussione sulla divergenza di signi-ficati tra fratellanza e solidarietà, cfr. S. RODOTÀ, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Roma-Bari, La-terza, 2014, pp. 23-24. 10
Nel suo lavoro dedicato alla storia dell’idea di solidarietà, Marie-Claude Blais indica come data di consacrazione politica della solidarietà il 1896, per rivenire in un secondo momento sulle radici «romantiche» di tale idea, cfr. M.-C. BLAIS, Marie-Claude Blais, La solidarietà. Storia di un’idea (2007), Milano, Giuffrè, 2012. Sulla storia del termine e del concetto di solidarietà, cfr. anche: S. STJERNØ, Solidarity in Europe: The History of an Idea, Cambridge, Cambridge University Press, 2004, in particolare pp. 25-33; J.E.S. HAYWARD, Solidarity: the Social History of an Idea in Nineteenth Century France, «International Review of Social History», 4, 2/1959, pp. 261-284.
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le ambiguità e sintetizzare le diverse accezioni date a un termine. Nell’edizione
inglese di 1848: Historical Revelations, Louis Blanc chiarisce retrospettivamente
la definizione del termine solidarité: «I use “mutual responsability” for our
French word “solidarité”, which cannot be expressed by any single word in Eng-
lish, and which implies identity of interests combined with identity of feel-
ings»11.
La solidarité è una mutua responsabilità, un dovere di assistenza e di condi-
visione in virtù di un legame e di un debito che si contrae con gli altri per il solo
fatto che non si sarebbe ciò che si è senza società e senza generazioni passate.
Come sintetizzano i redattori della rivista operaia «La Fraternité» nel 1842:
«L’homme, être incomplet, a un continuel besoin de l’assistance de ses semblables: de là son essence éminemment sociable et le lien de solidarité qu’établissent entre tous les hommes, non seulement les nécessités physiques, mais encore les besoins moraux»
12.
Il termine solidarietà rimanda quindi direttamente alla natura sociale
dell’uomo e di tutte le sue attività: non si è chi si è se non attraverso l’edu-
cazione ricevuta dalla società e dalle generazioni precedenti; non si fa (e quindi
anche produce) ciò che si fa, se non grazie alle conoscenze ricevute, agli stru-
menti messi a punto da altri, alla collaborazione e allo scambio con il resto della
società.
Non può allora stupire che il termine solidarietà si diffonda proprio
all’inizio degli anni Quaranta, nel momento cioè in cui, in maniera relativa-
mente improvvisa, s’impone in una parte importante degli ambienti repubbli-
cani radicali e operai politicamente impegnati un nuovo discorso politico, che
coniuga la concezione della trasformazione della società nella storia propria
delle scuole socialiste e il linguaggio politico proprio della tradizione repubbli-
cana. Come ho già sottolineato, il termine e il concetto che caratterizzano il di-
scorso e la retorica del nuovo socialismo repubblicano è quello della fratellan-
za, ma il concetto-termine di solidarietà emerge come sinonimo, da una parte
meno mobilitante poiché privo di tradizione, dall’altra, nella sua novità, più at-
to a descrivere il legame sociale come oggetto, allo stesso tempo, dell’osser-
vazione scientifica e della riflessione morale.
Difficile ricostruire i diversi canali, paralleli o convergenti, di questa emer-
sione e diffusione. Nel 1863, ne La Grève de Samarez, Leroux scriverà: «J’ai le 11 L. BLANC, 1848: Historical Revelations, London, Chapman and Hall, 1858, p. 162. Una decina di
anni prima, nel 1849, Louis Blanc nel suo «The New World» osserva: «The word Solidarité has no equivalent in English, we have, therefore, taken the liberty to translate it, by giving it an English termination. It means a bond of mutual and reciprocal responsability between the members of a community or association» (per questa citazione e più in generale da diffusione del termine inglese solidarity, cfr. F. PROIETTI, Louis Blanc nel dibattito politico inglese (188-1852), Firenze, Centro Edi-toriale Toscano, 2009, pp. 56-58 (e note). 12
Considérations sur la propriété, «La Fraternité», février 1842, I, n° 10, p. 30.
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premier emprunté aux légistes le terme de Solidarité, pour l’introduire dans la
Philosophie, c’est-à-dire, suivant moi, dans la Religion»13. Leroux fa in partico-
lare riferimento al proprio grosso volume De l’Humanité pubblicato nel 1840 e
in cui il termine solidarité gioca effettivamente un ruolo importante. Questa
citazione è stata ripresa in maniera spesso acritica al momento dell’epoca d’oro
della solidarité, sotto la Terza Repubblica. A questo proposito, all’inizio di un
saggio dedicato alle nozioni di solidarietà in Leroux, Armelle Le Bras-Chopard
richiama giustamente l’attenzione sul fatto che il rinvio a Leroux come padre
del termine solidarité nel suo uso socio-politico s’imponga negli anni Ottanta
dell’Ottocento, nel momento in cui cioè il solidarismo si costituisce in movi-
mento politico ed economico, e che tale rinvio divenga canonico, in assenza di
una reale lettura del testo citato (di cui, sintomaticamente, si ricopia una data
di edizione erronea, 1839)14.
L’uso di Leroux è parzialmente innovativo e gioca un ruolo fondamentale
nella diffusione del termine e del concetto di solidarietà in ambito politico, so-
ciale e sociologico. Leroux è effettivamente un uomo al cuore dell’elaborazione
del primo socialismo repubblicano, e se si osserva la diffusione del termine so-
lidarietà, tanto sotto la penna di hommes de plume (Constantin Pecqueur,
Etienne Cabet, Louis Blanc etc.), quanto nella stampa operaia o, ancora, di una
scrittrice come George Sand, si constaterà l’estrema vicinanza, anche personale,
degli utilizzatori del termine a Pierre Leroux. Tuttavia, bisogna anche sottoli-
neare che l’uso di Leroux non è affatto unico e che le esportazioni del termine
solidarité dal contesto prettamente giuridico sono diverse, per certi versi paral-
lele, a cominciare già dalla fine del Settecento e poi lungo tutta la metà
dell’Ottocento, con una sensibile crescita a partire dagli anni Trenta e, come si
diceva, con una sorta di esplosione negli ambiti socialisti dall’inizio degli anni
Quaranta.
S’impone allora qui, per noi, la necessità di una pur rapida mappatura di
questi usi. E questa mappatura non può che iniziare con l’osservazione del ve-
loce perdersi del suo uso in campo fiscale, campo in cui originariamente
l’espressione era circoscritta e da cui si era estesa in epoca moderna al più gene-
rale linguaggio del diritto. Già ai tempi della rivoluzione, la solidarietà fiscale
ha una connotazione negativa e rimanda a un’organizzazione della raccolta del-
le tasse in cui un’intera comunità viene considerata in solidum, nella sua totali-
tà, debitrice di una determinata somma.
Campo fiscale. L’idea di una solidarietà nel debito fiscale di una comunità
locale è già in crisi alla fine dell’ancien régime, ma rimanda, in effetti, all’uso
13
P. LEROUX, La Grève de Samarez, Paris, Dentu, 1863, v. I, p. 254. 14
Cfr. A. LE BRAS CHOPARD, Métamorphoses d’une notion: la solidarité chez Pierre Leroux, in J. CHE-
VALIER - D. COCHART (eds), La Solidarité: un sentiment républicain?, Paris, Puf, 1992, pp. 55-56.
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più diffuso del termine solidarité o dell’analoga espressione in solidum in epoca
moderna. Innumerevoli e differenti fonti testimoniano della centralità della
questione della riscossione delle imposte in solidum, della conflittualità che
questa produceva a livello locale e delle tensioni fra élites locali e autorità cen-
trali che scaturivano continuamente a partire dalle richieste di rivedere le quote
assegnate alla singola comunità a seguito di trasformazioni amministrative e
demografiche o dell’ottenimento di privilegi che diminuivano i soggetti fra cui
ripartire la somma. Se tale organizzazione fiscale era già oggetto di critiche ra-
dicali e sottomessa a importanti riforme, essa cade in totale disgrazia con la Ri-
voluzione che in nome dell’eguaglianza delegittima, più ancora di ogni diffe-
renza, ogni arbitrarietà. I testi di materia fiscale tendono a evitare l’uso del
termine, e quando vi ricorrono non mancano d’imbarazzo o debbono insistere
sulla necessità di dover ammettere un’accezione positiva, in determinate condi-
zioni, della solidarité15.
Sfogliare un testo quale il Recueil méthodique des lois, décrets, réglemens,
instructions et décisions sur le cadastre de la France; approuvé par le ministre
des finances, del 1811, risulta particolarmente istruttivo16. Nel «Titre premier: les
principes du cadastre» si distinguono immediatamente «les impôts de réparti-
tion» e «les impôts de quotité». A richiamare la nostra attenzione devono esse-
re le prime, le «impôts de répartition»; si definiscono in tale modo le tasse per
cui si fissa in anticipo la somma totale del gettito, ripartendo in seguito «di
grado in grado», quindi ripartendo le proporzioni del gettito atteso fra i diversi
dipartimenti, poi fra gli arrondissements di un dipartimento, quindi fra i co-
muni di un arrondissement, infine fra i contribuenti di un comune. Questo ge-
nere di tassa, si dice, presenta due nodi problematici: primo, la struttura stessa
della ripartizione stabilisce fra i contribuenti di un comune «une véritable soli-
darité»17; secondo, la giustizia di tale tipo di tassa è inficiata da errori nelle ri-
partizioni ai diversi livelli del gettito stabilito18. Il commentatore delle riforme
fiscali in corso spiega allora che per le tasse fondiarie è possibile conciliare il
vantaggio dato dalla ripartizione, ovvero la possibilità di determinare in antici-
po il gettito atteso, e il vantaggio derivante dal criterio di quotité, ovvero
l’equità del peso fiscale individuale, eliminando così i punti critici messi prece-
dentemente in luce. Lo strumento per pervenire a ciò è evidentemente il cata-
sto, o in altri termini la stima precisa del valore della rendita fondiaria naziona- 15
Fra le difese, in condizioni precise, della solidarité nelle tasse fondarie, cfr. N. DE CONDORCET,
Essai sur la constitution et les fonctions des assemblées provinciales, in Œuvres complètes de Con-dorcet, Brunswick et Paris, Henrichs, Fuchs, Koenig, Levrault, 1804, vol. XIV, pp. 44-47. 16
Recueil méthodique des lois, décrets, règlements, instructions et décisions sur le cadastre de la France; approuvé par le ministre des finances, Paris, Imprimerie Impériale, 1811. 17
Ivi, p. 13. 18
Cfr. ivi p. 14.
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le e di ogni parcella. Si stabilisce allora il gettito desiderato, si determina la pro-
porzione rispetto al totale della rendita fondiaria (per es. 1/9) e s’impone a ogni
contribuente la tassa dovuta, senza necessità di ricalcoli e di sovrattasse aggiun-
tive. Per quello che interessa noi qui, è utile sottolineare la maniera di sintetiz-
zare infine i vantaggi del catasto: «Alors, plus de répartition, plus de solidarité
entre les contribuables, plus de réclamations en surtaxe, plus de réimposi-
tions»19. A conferma ulteriore dell’accezione eminentemente negativa del ter-
mine solidarité è sufficiente una rapida scorsa dell’indice degli argomenti di
questo stesso volume: «solidarité entre contribuables» rimanda a due pagine, in
un caso, per la pagina 5, riportando «est un inconvénient de la contribution
foncière», e nell’altro, per la pagina 14, riportando «n’existe plus dans le cada-
stre»20.
Campo giuridico. L’accezione negativa della solidarietà intesa come lega-
me arbitrariamente stabilito fra diversi debitori è confermata anche nell’uso
giuridico più generale21. Il decreto del 20 agosto 1792, spesso poi evocato come
legge del medesimo giorno, implica all’articolo primo del titolo terzo una sorta
di azzeramento generale di tutte le solidarietà passate per il rimborso di rendite
fondiarie; si stabilisce cioè che ogni debitore non possa essere chiamato a ri-
spondere che della parte di debito proporzionato alla sua rendita22. Nel decen-
nio successivo, il Codice Civile cristallizza in un sistema organico la nuova con-
cezione della solidarietà sintetizzata dall’articolo 1202, che riprende la legge
promulgata il 17 febbraio 1804: «La solidarité ne se présume point; il faut qu’elle
soit expressément stipulée. Cette règle ne cesse que dans les cas où la solidarité
a lieu de plein droit, en vertu d’une disposition de la loi»23.
Per riassumere la trasformazione dell’uso giuridico di solidarité si può dire
che fra il periodo finale dell’ancien régime, la rivoluzione e la cristallizzazione
napoleonica, la solidarietà avvertita come arbitraria, non riconducibile cioè a
una volontaria adesione individuale, cade in disuso quale palesemente iniqua;
essa lascia il posto a una solidarietà di nuovo tipo, esplicitamente sottoscritta
da parte dei debitori o dei potenziali debitori, designando la condivisione di un
19
Ivi, p. 17. 20
Ivi, p. 396. 21
A maggior ragione, la Rivoluzione rende impensabile ogni tipo di "solidarietà" in campo penale – per un'esemplificazione del concetto e del funzionamento della responsabilità penale "in solidum" come dispositivo giuridico corrispondente, per esempio, alla struttura sociale delle «parentelle» nella Liguria moderna, cfr. O. RAGGIO, Faide e parentele. Lo stato genovese visto dalla Fontabuona, Torino, Einaudi, 1990 (per una sintesi pp. 247-254). 22
Decreto (ma evocato come legge) del 20 agosto 1792, titolo II, articolo primo: «Toute solidarité pour le paiement des cens, rentes, prestations et redevances, de quelque nature qu’ils soient et sous quelque dénomination qu’ils existent, est abolie sans indemnité, même pour les arrérages échus; en conséquence, chacun des redevables sera libre de servir sa portion de rente, sans qu’il puisse être contraint à payer celle des codébiteurs». 23
Articolo 1202 del Code Civil, creato dalla legge 1804-02-07 promulgata il 17 febbraio 1804. Nel si-stema italiano, la solidarietà è definita e normata dagli articoli 1292 e seguenti del Codice Civile.
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debito o di un impegno (un affitto per esempio) di cui ogni debitore può essere
chiamato dal creditore a rispondere nella sua totalità. Sotto questa forma per-
dura fino ad oggi, e ci si potrebbe chiedere come l’accezione altrimenti positiva
del termine solidarité faciliti l’accettazione di contratti che sarebbero altrimenti
guardati con sospetto: è il caso, in Francia, per esempio, dei contrats solidaires
in campo abitativo attraverso cui ogni inquilino in coabitazione (spesso quindi
giovane) s’impegna, talvolta senza una reale consapevolezza, a coprire la totali-
tà dell’affitto dovuto al proprietario in caso di inadempienza dei coinquilini.
Campo istituzionale. Osservando la diffusione del termine solidarité a fine
Settecento e inizio Ottocento, in campo politico-istituzionale, vi è un altro uso
da considerare: l’uso di solidarité in riferimento alla famiglia reale. Tale uso ri-
manda anch’esso al significato di corresponsabilità; in questo caso la corre-
sponsabilità è consustanziale al principio di eredità e rimanda all’unità che lega
i membri della famiglia reale, secondo una gerarchizzazione esplicitamente
formalizzata. Una lettera di Napoleone al fratello Luigi allora re d’Olanda è uti-
le per mettere in evidenza non solo l’uso in tale senso, ma la potenziale rise-
mantizzazione in un nuovo senso nazionale:
«Vous devez comprendre que je ne me sépare pas de mes prédécesseurs, et que de-puis Clovis jusqu’au comité de salut public, je me tiens solidaire de tout, et que le mal qu’on dit de gaîté de cœur contre les gouvernements qui m’ont précédé, je le tiens comme dit dans l’intention de m’offenser»
24.
Il significato di corresponsabilità negli atti istituzionali si dà anche in conte-
sti differenti da quello della famiglia reale; ricorre, per esempio, nel diritto ca-
nonico in riferimento alla corresponsabilità che deriva dalla collegialità dei pre-
sbiteri. Durante la Rivoluzione, e in particolare tra il 1790 e il 1792, i dibattiti
politico-istituzionali vedono un uso frequente del termine solidarité e dei suoi
derivati a proposito del rapporto fra ministri e sulla natura delle scelte prese dal
consiglio dei ministri. Il dibattito sulla natura delle deliberazioni del consiglio
dei ministri e sulle responsabilità individuali di questi, che vede ancora l’uso
del termine solidarité, riprende con forza durante la Restaurazione, quando le
relazioni fra corona, ministri e parlamento divengono il campo di un conflitto
molto più profondo intorno alla sovranità.
Generalizzazione del significato. A questo insieme di significati in evolu-
zione in ambito giuridico, fiscale e istituzionale si affianca da fine Settecento
un significato molto più generico d’interdipendenza. Si tratta evidentemente di
un semplice allargamento del significato iniziale: se originariamente l’inter-
24
Numerose pubblicazioni a partire dagli anni 1820 riportano questa lettera, cito per comodità dal
libro del repubblicano ed ex-sansimoniano P.-M. LAURENT (DE L’ARDÈCHE), Histoire de l’Empereur Napoléon, Paris, Schneider et Lagrand, 1840, p. 502 (una prima versione era stata pubblicata sotto diverso titolo nel 1829).
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dipendenza è fra i debitori che hanno condiviso «in solidum» un debito, solida-
rité prende a indicare, a prescindere dalla natura della situazione, il rapporto
d’interdipendenza fra le cose. Procedendo nella nostra mappatura, veniamo al-
lora ai significati totalmente inediti che emergono nella prima metà
dell’Ottocento a seguito di nuovi modi d’intendere l’interdipendenza. In parti-
colare occorre mettere in evidenza quattro contesti differenti fra loro: fisiologi-
co, economico, teologico e socio-morale.
Campo fisiologico. In questa accezione generica d’interdipendenza, soli-
darité si diffonde nel linguaggio fisiologico. Senza che l’uso sia indicativo di una
particolare scuola o di un particolare approccio, il termine rimanda in generale,
tanto in chiave organicista che in chiave vitalista, alla necessità di superare il
meccanicismo: solidarité indica, infatti, l’interdipendenza fra organi e le corre-
lazioni fra le loro disfunzioni. Così per esempio nel prestigioso Dictionnaire des
sciences medicales, pubblicato dall’editore Panckoucke tra il 1818 e il 1822, alla
voce «Perturbation», dopo aver sottolineato che «tous les organes sont soli-
daires», si scrive: «Si cette solidarité réciproque des organes est l’instrument de
la vie, le garant de la santé, même le propagateur de la maladie, elle devient
aussi l’élément à l’aide duquel la médicine agit sur le corps organisé»25. L’uso in
campo fisiologico sarà indiscutibilmente fondamentale nella traduzione del
termine solidarité in ambito socio-politico, tanto più che ciò sarà particolar-
mente frequente in ambienti marcati dall’idea di una scienza sociale intesa
come scienza dell’organismo sociale. Tale passaggio non sarà necessariamente
immediato. Per esempio, nonostante nell’epoca d’oro della solidarietà, alla na-
scita del solidarismo e della sociologia durkheimiana, non manchino riferimen-
ti a un presunto uso di Comte, vi è da notare che il teorico della physiologie so-
ciale usi solidarité non in riferimento all’interdipendenza costitutiva del legame
sociale, ma all’interdipendenza necessaria fra i diversi campi del sapere e fra la
filosofia positiva e il senso comune.
Campo economico. Negli scritti di carattere economico, il termine solida-
rité compare, seppur raramente, per designare l’interdipendenza d’interessi. Per
esempio, Sismondi descrive la condivisione d’interessi fra proprietari terrieri e
contadini in termini di solidarité naturelle e auspica un solidarité equivalente,
seppur non naturale, fra proprietari e operai26. Se il termine designa la condivi-
sione d’interessi particolari, esso appare suscettibile di indicare l’inter-
dipendenza generale. In questa prospettiva, Blanqui constata proprio all’inizio
del suo corso di Economia industriale che «La société s’est transformée d’une
manière telle, depuis quelques années, que nous devenons insensiblement so- 25
J.-B. NACQUART, Perturbation, in Dictionnaire des sciences médicales par une société de médecins et de chirugiens, Paris, Panckoucke, 1820, t. 41, p. 37. 26
Cfr. J.-C.-L. SISMONDE DE SISMONDI, Nouveaux principes d’économie politique ou de la richesse dans ses rapports avec la population, Paris, Delaunay, 1819, vol. II, livre VII, chapitre 9.
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lidaires les uns des autres, peuples et individus, dans la bonne comme dans la
mauvaise fortune»27. Così, all’inizio degli anni Quaranta, quando come detto si
assiste a una prima fortuna del termine negli ambienti socialisti, anche presso
gli economisti il termine sembra essere pronto ad assumere il significato di leg-
ge generale soggiacente la coesione sociale. Alla fine degli anni Quaranta, in un
capitolo inedito che sarà pubblicato nell’edizione del 1851 delle Harmonies éco-
nomiques, Bastiat scrive della «loi de Solidarité» come della legge naturale-
sociale d’interdipendenza generale:
«Il en résulte de là que les actes et les habitudes de l’individu produisent, outre les conséquences qui retombent sur lui-même, d’autres conséquences bonnes ou mau-vaises qui s’étendent à ses semblables. – C’est ce qu’on appelle la loi de solidarité, qui est une sorte de Responsabilité collective»
28.
Ritornerò su questo punto perché risulta essere di fondamentale interesse,
per il momento mi limito a sottolineare che Bastiat espone questa tesi come un
esplicito rovesciamento delle posizioni di Rousseau e del suo presunto artificia-
lismo: la legge di solidarietà, che fa sì che ogni individuo in società sia interdi-
pendente da tutti gli altri, è un fatto che precede ogni adesione e ogni volontà, è
una legge propriamente sociale.
Campo teologico. Un significato assolutamente diverso è quello che la so-
lidarietà assume in campo religioso, sebbene a ben guardare finisce per conver-
gere proprio su questo terreno che potremmo definire sociologico. Del resto
non casualmente questo uso di solidarité viene sottolineato nel 1906 proprio da
una figura come quella di Célestin Bouglé all’incontro fra solidarismo politico e
sociologia durkheimiana29. Bouglé insiste soprattutto sul debito che l’idea di
solidarité ha con il cristianesimo e in particolare con l’idea di unità dell’uma-
nità, espressa dalla morte di tutti in Adamo, e dalla salvezza di tutti nel Cristo30.
In particolare egli sottolinea come siano, fin da inizio Ottocento, Bonald e Mai-
stre a portare questa idea cristiana nel pensiero sociale. Bouglé attribuisce, fra
virgolette ma senza un preciso rimando, tre frasi a Maistre:
«Or, l’âme de cette école, n’est-ce point justement cette notion du péché originel "qui explique tout et sans lequel on n’explique rien"? C’est elle qui obsède la pensée de De Maistre de "cette épouvantable communication de crimes qui est entre les hommes", et lui révèle, dans les souffrances de l’individu, le fruit naturel de la dégradation de la masse. C’est elle qui lui fera découvrir nommément, avant Pierre Leroux,
27
A.-J. BLANQUI (L’AINE), Cours d’économie industrielle, 1836-1837 (au conservatoire des arts et mé-
tiers), Paris, J. Angé et Comp., 1837, pp. 1-2. 28
F. BASTIAT, Harmonies économiques. II édition augmentée des manuscrits laissés par l’auteur, Pa-
ris, Guillaumin et C., 1851, pp. 536-537. 29
Cfr. C. BOUGLE, Note sur les origines chrétiennes du solidarisme, in «Revue de Métaphysique et de
Morale», 14, 2/Mars, 1906, pp. 251-264. 30
Ivi, p. 254.
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"l’extension de ce terme de jurisprudence – la solidarité – le plus propre à exprimer la réversibilité des mérites"»
31.
Se la prima è effettivamente una citazione letterale tratta dal primo volume
delle Soirées de Saint-Pétersbourg, le successive non sembrano trovare una cor-
rispondenza precisa. Non solo, l’ultima citazione porta a credere che Maistre
ritenga la parola solidarité la più adatta; in un’occorrenza del secondo volume
della stessa opera, che probabilmente è l’unica, Maistre si giustifica invece per il
ricorso a un termine giuridico: «vous me permettrez bien ce terme de jurispru-
dence»32. Si può inoltre sottolineare un’altra questione su cui Bouglé passa con
una certa fretta: se è vero che i tradizionalisti cattolici giocano un ruolo impor-
tante nell’emergere di un uso sociale del termine solidarité, come più in genera-
le di un approccio sociologico, è vero anche che è solo durante la prima metà
dell’Ottocento che, probabilmente proprio grazie a loro, il termine si diffonde
nel lessico teologico. L’immagine paolina dell’unità dell’uomo, di tutte le gene-
razioni, in Adamo e in Cristo, nel peccato e nella speranza della Salvezza, si sin-
tetizza perfettamente nel termine solidarietà, tanto che esso ormai s’incontra
facilmente, dal Catechismo della Chiesa Cattolica ai commenti di Agostino; bi-
sogna però costatare che l’uso del termine sembrerebbe risalire proprio ai de-
cenni che vanno tra la fine del Settecento e gli anni Quaranta dell’Ottocento33.
La fortuna di questo termine non è forse senza legami con la volontà di rea-
gire all’universalismo astratto dei diritti dell’uomo, da una parte contrapponen-
do il carattere insuperabilmente nazionale delle comunità politiche (socio-
storico-politiche), dall’altra, rilanciando a un diverso livello l’universalismo cri-
stiano. Come sintetizza efficacemente Donoso Cortès nel 1851:
«[Le dogme] du péché originel et celui de l’imputation sont corrélatifs à celui qui en-seigne l’unité substantielle du genre humain, et comme conséquence de l’un et de l’autre vient le dogme d’après lequel l’homme est assujetti à une responsabilité qui lui est commune avec les autres hommes. Cette responsabilité en commun qu’on ap-pelle solidarité, est une des plus belles et des plus augustes révélations du dogme ca-tholique»
34.
La fortuna di solidarité in correlazione al peccato originale nella prima metà
dell’Ottocento è testimoniata anche dalla critica che porta Lamennais a tale
dottrina, proprio enfatizzando l’accezione negativa del termine ereditata
31
Ivi, p. 255 32
J. DE MAISTRE, Les soirées de Saint-Pétersbourg ou entretiens sur le gouvernement temporel de la
providence, Paris, Librairie Grecque, Latine et Française, 1821, vol. II, p. 236. 33
Una ricostruzione dell’uso teologico del termine solidarité resta da fare. Come detto, la dottrina
del peccato originale si sarebbe potuta prestata a una contaminazione con l’uso giuridico del termi-ne, ma ciò non sembra di fatto avvenire prima della fine del Settecento. Un momento forse deter-minante, soprattutto per l’influenza diretta sul tradizionalismo cattolico post-rivoluzionario, po-trebbe essere stato giocato dal mistico Fabre d’Olivet, frequentato personalmente da Ballanche, che usa il termine solidarité. 34
D. CORTES, Essai sur le catholicisme, le libéralisme et le socialisme, Bruxelles, de Mortier, 1851, pp. 196-197.
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dall’uso d’ancien régime in altri contesti. Di fatto, nel momento in cui si distan-
zia dal tradizionalismo antirivoluzionario per assumere posizioni che fanno
della tradizione il principio in trasformazione della società, per Lammenais la
presunta solidarietà nel peccato originale non è che l’attribuzione alla giustizia
divina di un’arbitrarietà intollerabile. Sul fronte pienamente repubblicano, an-
che Jules Michelet descrive nel 1847 la Rivoluzione proprio in termini di pas-
saggio da una falsa solidarietà a una vera alludendo anche all’uso teologico:
«Ainsi disparait du monde la fausse solidarité. L’injuste transmission du bien,
perpétuée dans la noblesse; l’injuste transmission du mal, par le péché originel,
ou la flétrissure civile des descendants du coupable, la Révolution les efface». E
qualche riga sotto ribadisce in una prospettiva messianico-repubblicana: «Il
fallait bien abolir la fraternité de la mort pour fonder celle de la vie»35.
Per completare questo brevissimo panorama dell’uso teologico di solidarité,
bisogna infine evocare chi, in realtà, attribuisce la maggiore importanza al ter-
mine solidarietà in questa accezione: Ballanche, autore ben conosciuto
all’epoca, la cui difficile collocazione ha forse contribuito al suo oblio. Non è
secondario ricordare anche che Leroux conosceva personalmente Ballanche.
Quando il socialista enfatizza il proprio ruolo nell’attribuzione di una portata
generale del termine solidarité dimentica forse di aver letto nelle pagine di Bal-
lanche l’esposizione di una «doctrine de la solidarité». Le prospettive sono tut-
tavia, a livello lessicale, l’una l’inverso dell’altra. Se per Leroux la solidarité, fon-
data sulla scoperta dei legami profondi dell’individuo con l’umanità, permette
la coscienza e la partecipazione di ogni individuo all’unità nello spazio e nel
tempo dell’Umanità e supera così la carità cristiana, in cui l’amore fra gli uomi-
ni non appare che come riflesso di un amore per Dio; per Ballanche la solidarie-
tà sarà superata dalla carità. La solidarietà rappresenta, infatti, la forza che uni-
sce gli uomini e che via via si rinforza e si estende nel succedersi dei cicli palin-
genetici, alla famiglia, ai popoli, all’umanità; allo stesso tempo, però, la solida-
rietà è anche il giogo che pesa su tutti gli uomini a causa del peccato originale e
che il Cristo è venuto a sollevare. La legge dell’evangelo, infatti, è liberatrice: «la
loi de la solidarité est donc destinée à se transformer en la loi de charité; la
sympathie générale est le lien qui unit l’une à l’autre»36. In altri termini, rea-
gendo a suo modo allo spettro post-rivoluzionario della polverizzazione sociale,
Ballanche sostiene che si possa dare e che si darà una società anche nel mo-
mento in cui la solidarietà sembra indebolirsi. L’indebolirsi della solidarietà è,
infatti, da intendere come scomparsa della solidarietà dalle leggi sociali e come
35
J. MICHELET, Histoire de la Révolution française, Paris, Chamerot, 1847, vol. I, pp. XIII-XIV. 36
P.-S. BALLANCHE, Essais de palingénésie sociale. I. Prolégomènes, (1827), in P.-S. BALLANCHE, Œuvres de Ballanche, Paris, Barbezat, 1830, p. 206 (cfr. anche p. 214).
LANZA, Fraternité e solidarité intorno al 1848
SCIENZA & POLITICA
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sua permanenza nelle leggi provvidenziali: «ne serait-ce point là le fruit de la
transformation de la solidarité en charité?»37.
Campo socio-morale. Come vedremo meglio più in basso, il termine soli-
darité gode di un certo uso negli ambienti sansimoniani. Nelle prefazioni alla
Histoire parlementaire de la Révolution française (1834-1838), come in altri suoi
scritti, il repubblicano ex-sansimoniano Buchez, che in una prospettiva sociali-
sta coniuga giacobinismo e cattolicesimo, utilizza numerose volte il termine so-
lidarité e i suoi derivati: con questa espressione designa la comune legge morale
del dovere di collaborazione e sostegno verso ogni altro uomo, resa universale
dalla predicazione di Gesù e dal magistero della Chiesa romana e socialmente
impostasi con la Rivoluzione. Per Buchez la solidarietà deriva dalla condivisio-
ne della condizione di dipendenza da Dio: «les hommes dépendent de Dieu, et
[…] l’homme dépend des hommes»38. Gli uomini sono quindi solidali in un
medesimo dovere morale. Infatti, la sovranità che gli uomini possono esercitare
(parziale, ché quella assoluta, in cui la libertà coincide con l’indipendenza, ap-
partiene solo a Dio) si distingue in due funzioni: quella del potere temporale
che garantisce l’insegnamento e il rispetto della legge umana, e quella del pote-
re spirituale che Buchez descrive in diretta relazione con la solidarietà: «[cette
fonction] ayant pour but d’enseigner la loi de Dieu, et d’en pratiquer les com-
mandements dans ce qu’ils ont de plus difficile, ce qui en fait le ministère de la
solidarité humaine»39. Lo statuto della legge morale è ambiguo: se tale legge
implica la possibile adesione dell’individuo, come la sua possibile disobbedien-
za, la visione della storia come di una progressiva realizzazione della dottrina
dell’uguaglianza porta a fare della diffusione del sentimento di solidarietà una
costante storica in continua crescita. In questo senso, la legge morale cristiana
della solidarietà è per Buchez anche una componente fondamentale del legame
sociale e l’approfondimento della coscienza di tale legge una prerogativa della
modernità e una promessa di compimento della rivoluzione; tale compimento
si realizza in una coincidenza finale dei termini: la consapevolezza della corre-
sponsabilità del compimento della missione storica dell’umanità crea una
«stretta solidarietà»40. La coscienza dell’unità crea un’unità di ordine superiore.
Inoltre, la solidarietà non è da Buchez unicamente intesa nella sua dimensione
universale, ma anche o prima di tutto nella dimensione nazionale, nella misura
in cui sono le nazioni, sviluppando le proprie prerogative e il proprio compito
storico, a far progredire l’umanità. Il termine ha così allo stesso tempo un signi-
37
Ivi, p. 378. 38
P.-J.-B. BUCHEZ, Préface, in P.-J.-B. BUCHEZ, P.-C. ROUX, Histoire parlementaire de la Révolution
Française, Paris, Paulin, 1836, vol. 23, p. viij. 39
Ibidem. 40
Cfr. per esempio P.-J.-B. BUCHEZ, Introduction à la science de l’histiore. (1833), Paris, Guillaumin, 1842, vol. II, p. 4.
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ficato universale e un significato nazionale, e in questa prospettiva lo si incon-
tra nelle pagine del giornale operaio, legato a Buchez, «L’Atelier»41, la cui pub-
blicazione inizia nel 1840.
Vi è infine un ultimo uso politico-morale diffuso proprio nel momento in
cui il termine solidarité ha la sua prima fortuna, da prendere in conto tanto più
che si riscontra in particolare negli ambienti socialisti operai e repubblicani:
l’uso nel significato di dichiararsi dalla stessa parte di una vittima o di un accu-
sato. Tale uso politico militante ha, forse e in parte, origine nel senso proprio
giuridico, nella misura in cui significa denunciarsi pubblicamente come rei di
un medesimo reato o partecipare a collette per pagare le multe o sostenere le
famiglie dei condannati. Tuttavia, tale senso si rinforza senz’altro nel nuovo si-
gnificato di legame sociale, particolare ma espressione e immagine di quello
universale destinato a trionfare. Così, emblematicamente, «La Fraternité de
1845», nel numero del febbraio 1848 scritto e pubblicato prima della rivoluzio-
ne, apre il trafiletto dedicato alla sottoscrizione a favore delle famiglie dei dete-
nuti politici scrivendo: «Si la solidarité est un devoir sacré, c’est surtout pour les
hommes qui professent les idées démocratiques», per fare poi appello «au nom
de la solidarité sainte du malheur»42.
3. Solidarietà e tracce di un approccio sociologico
In questo contesto, Leroux riprende una parte almeno delle accezioni già
diffuse per fare della solidarietà un perno della propria teoria socialista. Con un
movimento che, come già accennato, sembra un rovesciamento dell’idea di Bal-
lanche, Leroux fa della solidarietà il superamento della carità cristiana, per-
messo dalla conoscenza, insieme religiosa e scientifica, della natura dell’uomo e
della storia e del carattere unitario dell’umanità. Occorre forse chiarire un pos-
sibile equivoco, in cui cade, per esempio, l’economista solidarista Charles Gide,
dimostrando per altro di citare Leroux come padre dell’uso politico e sociale di
solidarité senza avere mai aperto una sua opera. L’opposizione fra solidarietà
socialista e carità cristiana non va assolutamente letta nel senso laicista datogli
sotto la Terza Repubblica, nel senso cioè della chiosa di Gide:
«Leroux aurait été bien désagréablement surpris si on lui avait dit que la solidarité est elle-même viciée par la même origine chrétienne! car l’apôtre de la charité, Paul, est aussi celui qui a donné la définition la plus énergique de la solidarité. Heurese-ment Pierre Leroux ne l’avait pas lu»
43.
41
Cfr. per esempio De la souveraineté du peuple, «L’Atelier», anno II, n° 6, février 1842, p. 43. 42
Souscription en faveur des familles des détenus politiques, «La Fraternité de 1845», febbraio 1848,
anno IV, n° 2, p. 16. 43
C. GIDE, La solidarité. Cours au Collège de France, 1927-1938, Paris, Puf, 1932, p. 193.
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SCIENZA & POLITICA
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Fin dalla prefazione del suo volume, Leroux, lettore delle Scritture, scrive:
«L’antique mythe de la Bible juive nous faisait tous solidaires en Adam. Le Christia-nisme s’est enté sur cette solidarité. Jésus-Christ, sauveur de l’humanité par voie de réversibilité et de solidarité, est un mythe correspondant au mythe d’Adam, damna-teur de sa race par solidarité aussi et réversibilité. La vérité, c’est qu’en effet nous sommes tous solidaires, et vivons d’une vie commune, ou plutôt, comme dit Jésus, d’une vie une»
44.
Non solo Leroux riconosce la radice cristiana (e non potrebbe essere altri-
menti vista la sua filosofia della storia), ma cita proprio l’immagine paolina del-
la duplice solidarietà in Adamo e in Cristo. La riprende per stravolgerla nella
misura in cui attribuisce alla caduta il significato figurato della separazione,
della lacerazione della prima perfetta e inconsapevole unità, e fa dell’incarna-
zione la figurazione del carattere divino dell’umanità. Adamo e Cristo sono al-
lora simboli dell’unità del genere umano nel susseguirsi delle generazioni, im-
magini dell’umanità come essere le cui parti sono in necessaria interdipenden-
za fra loro e con il tutto. Gli usi fisiologico, teologico e sociale di solidarité con-
vergono quindi nell’uso di Leroux per cui la solidarietà è il legame delle parti
con il tutto, la partecipazione di ciascuno all’umanità e, anche, contempora-
neamente, legge morale e principio di organizzazione.
A partire da De l’Humanité, pubblicato nel 1840, nella sua prospettiva, Le-
roux fa così convergere diversi degli usi che si erano diffusi fra la Rivoluzione e
gli anni Trenta in un significato religioso-politico-sociologico, aprendo la soli-
darietà al duplice senso che costituisce la sua forza: da una parte, la relazione
oggettiva che unisce ciascun individuo, di ogni generazione e luogo, agli altri e
all’umanità tutta intera, ovvero la legge stessa che unisce gli uomini in comuni-
tà, in nazioni e in una potenziale interdipendenza delle nazioni; dall’altra, il
sentimento soggettivo che marca, accompagna, rafforza l’adesione e il ricono-
scimento, nel linguaggio di Leroux, dell’io al non-io, dell’individuo al suo pros-
simo e all’umanità.
Nel 1847, qualcuno molto vicino a Leroux, Grégoire Champseix, espone sulla
«Revue Sociale» una sintesi della dottrina elaborata nella comunità di Bous-
sac45, in cui emerge con chiarezza la centralità della nozione di solidarietà, inte-
sa come legge morale, come legge dell’ordine naturale e come principio d’orga-
nizzazione. La solidarietà è il principio stesso dell’umanità nel tempo, da cui
44
P. LEROUX, De l’Humanité, Paris, Perrotin 1840, p. XXI. Per questi motivi, oltre che per le manife-ste radici massoniche della fratellanza repubblicana, l’idea secondo cui la sfortuna della fratellanza sia anche dovuta al suo carattere religioso poco incline ad accordarsi alla laicità della Terza Repub-blica (cfr. J. LE GOFF, Le droit à la fraternité, p. 14) appare discutibile. 45
Ottenuto il brevetto di stampatore, Leroux fonda a Boussac (nella Creuse) una sorta di comunità-
cooperativa, cui partecipano diversi operai con le proprie famiglie, oltre che, per esempio, l’amica George Sand, e che diverrà dal 1847 anche una colonia agricola, in cui si studiano-praticano i prin-cipi astratti e concreti di una dottrina socialista (cfr. la serie di articoli Notes historiques sur l’Association de Boussac scritti da Auguste Desmoulins e pubblicati sulla «Revue Sociale», pubbli-cata, tra l’altro, proprio dalla cooperativa di Boussac nel 1850).
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consegue la dimostrazione della reincarnazione: «La Solidarité des hommes est
éternelle: elle est, elle a été, elle sera toujours; d’où il suit que le ciel est sur la
terre, d’où il suit comme conséquence certaine et démontrable, que l’homme
renaît dans l’Humanité»46. La solidarietà è la legge morale e naturale la cui di-
sobbedienza è all’origine stessa del male: «Le mal moral n’a pas d’existence
propre, il n’est pas inhérent à l’Humanité comme partie intégrante, constitutive
de l’essence Humanité. Il se manifeste toutefois, mais parce que les hommes ne
suivent pas leur loi morale, la Solidarité»47. La solidarietà è il legame oggettivo
fra gli uomini che fa della dominazione la condizione d’impossibilità della li-
bertà per chiunque: «Par Solidarité, le mal retourne à celui qui le cause.
L’homme qui entretient la servitude, sous quelque forme que ce soit, ne jouit
pas de la liberté; il est esclave»48. La solidarietà è allora la legge morale che deve
divenire il principio stesso dell’organizzazione sociale: «Le principe de la Soli-
darité est réellement un principe d’organisation»49. Tale principio deve portare
a ripensare l’intera società, a iniziare dalla posizione della donna che sarà
d’uguaglianza di fronte all’uomo; nell’uguaglianza, gli esseri umani saranno
davvero uniti e potranno conoscere «des joies qu’ils n’ont pas même
soupçonnées encore»50.
L’oscillazione fra i significati che rinviano al legame oggettivo e al sentimen-
to soggettivo è avvertita come tollerabile e null’affatto contraddittoria in virtù
della legge del progresso: la storia è infatti la ricomposizione dell’unità attra-
verso la rivelazione all’umanità della propria natura. Tale rivelazione è storica
non solo perché avviene nella storia, ma anche perché avviene attraverso la sto-
ria, attraverso l’azione che permette di comprendersi e di migliorarsi. Tale rive-
lazione è la progressiva comprensione sotto forme simboliche più complete del-
la propria verità; è l’adesione delle parti al tutto, degli individui all’umanità. Per
questo la solidarietà viene posta da Leroux come chiave di volta della propria
dottrina, come dogma da cui far derivare una scienza sociale. Sintetizzando il
suo pensiero, Leroux scrive: «mais le principe religieux, le dogme métaphy-
sique, quel est-il? Permettez-moi de vous le dire, c’est le dogme de la Solidarité;
solidarité éternelle qui unit tous les membres de l’Humanité, qui crée pour eux
tous le droit et le devoir, et identifie le devoir au droit»51.
46
G. CHAMPSEIX, Exposé sommaire de la doctrine de l’Humanité (III), «Revue Sociale», février 1848, année II, n° 5, p. 66. 47
Ivi, p. 73. 48
Ivi, p. 68 49
G. CHAMPSEIX, Exposé sommaire de la doctrine de l’Humanité (IV), «Revue Sociale», mars 1848, année II, n° 6, p. 83. 50
Ivi, p. 85. 51
P. LEROUX, Philosophie et socialisme - III, «La République», 3 août 1850, p. 1
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Facendo della solidarietà il fulcro di un pensiero che articola l’analisi del le-
game che istituisce il sociale e il sentimento individuale di empatia verso il
prossimo e verso l’insieme dell’umanità, Leroux le dà un significato compiuta-
mente socialista. In altre parole, Leroux chiama con il termine solidarité
l’interdipendenza fra gli individui che istituisce nel presente il legame sociale e
nel tempo la continuità dell’esperienza umana. Tale interdipendenza, possibile
oggetto di una scienza sociale, costituisce il presupposto diversamente svilup-
pato delle diverse dottrine socialiste fin dalla loro formazione qualche decennio
prima.
Il termine solidarité accompagna, sebbene in maniera episodica prima di
Leroux52, l’emergenza del discorso socialista poiché tale discorso si configura
come una possibile declinazione del modo di pensare e rapportarsi alla società,
intendendo società nel modo che s’impone fra fine Settecento e metà Ottocen-
to, ovvero come «il termine che viene allora scelto per nominare l’insieme di
tensioni, contraddizioni e problemi che derivano dalla ricaduta delle idee di li-
bertà e di uguaglianza e per alludere al campo sul quale deve esercitarsi lo sfor-
zo di ricomposizione della scienza»53. Con il significato che la scienza storico-
sociale dei primi socialisti implica, il termine solidarité è di tanto in tanto uti-
lizzato già prima che negli scritti degli ex-sansimoniani Buchez e Leroux. Per
esempio, argomentando a proposito dell’assurdità di concepire una società fon-
data sull’intérêt bien entendu, i primi discepoli di Saint-Simon scrivono:
«En admettant même que ce système pût exercer une influence réelle, cette in-fluence se bornerait à empêcher les hommes de SE NUIRE; mais telle n’est pas l’unique obligation qui leur soit imposée: ils doivent encore s’entr’aider, puisque leurs destinées sont enchaînées, puisqu’ils sont solidaires des souffrances, des joies les uns des autres, et qu’ils ne peuvent s’avancer dans les voies de l’amour, de la science, de la puissance, qu’en étendant sans cesse cette solidarité»
54.
Un’altra testimonianza dell’uso in questo senso del termine solidarité negli
ambienti sansimoniani è costituita da un manoscritto di Constantin Enfantin
del giugno 1833, in cui il père sansimoniano contrappone il «dogme de la soli-
darité» alla gelosia e allo scoraggiamento cui porta l’«isolement de chaque indi-
vidu, et son indépendance»55.
52
Emblematico a questo proposito il caso del più conosciuto a posteriori fra gli eredi del saint-
simonismo, Auguste Comte, che pur sviluppando il proprio discorso proprio intorno alla necessità di comprendere il legame sociale attraverso uno studio scientifico della società, da una parte non chiama mai tale legame solidarietà, dall’altra viene considerato un elemento fondamentale nella storia di questa «idea», cfr. S. STJERNØ, Solidarity in Europe, pp. 30-33. 53
S. CHIGNOLA, Fragile cristallo. Per la storia del concetto di società, Napoli, Editoriale Scientifica,
2004, p.11. 54
Doctrine de Saint-Simon. Exposition, Première année, Paris 1829 (II édition), p. 257. 55
Bibliothèque de l’Arsenal, fond Enfantin, MS 7803/62 - note aventi per titolo “Du bien et du mal”, f. 5r (datate giugno 1833). Da sottolineare che Enfantin aveva ricevuto personalmente da Ballanche i volumi della Palingénésie sociale e aveva scambiato con l’autore delle lettere piene d’entusiasmo (cfr. sempre nel fond Enfantin dell’Arsénal: Ms 7643ff. 310-314). Sull’influenza di Ballanche, «verso il 1828», su diversi membri della scuola sansimoniana, cfr. la testimonianza diretta riportata, in un
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Si comprende allora come, nel momento in cui il socialismo inizia a definir-
si appunto socialismo, ovvero nel momento in cui la prospettiva propriamente
socialista (o sociologica) si coniuga con un discorso repubblicano, tanto in al-
cuni settori delle classi operaie (soprattutto parigine e, in modo diverso, lione-
si) quanto intorno ad alcune figure intellettuali formatesi nel sansimonismo,
anche grazie allo spesso evocato a questo proposito lunghissimo tomo De
l’Humanité, il termine solidarité si diffonda velocemente. Sebbene rimanga po-
liticamente e retoricamente in secondo piano rispetto a fraternité, la cui forza
deriva anche dalla capacità di entrare in eco con i ricordi della grande Rivolu-
zione, solidarité è il termine che, rimandando a immagini diverse ma in sinto-
nia, può meglio tradurre la tensione stessa del socialismo di quegli anni: la con-
giunzione fra un’ambizione scientifica, un sentimento e una pratica dell’unione
e l’attesa di una società finalmente in grado di realizzare la naturale unità fra gli
uomini.
Da una parte trova echi nell’uso militante che si sta diffondendo, dall’altro,
incrociandosi alle tendenze a porre le relazioni di produzione come fondamen-
tali del legame sociale, recupera ed estende il significato di correlazione fra in-
teressi. Questo secondo caso è ben evidente in uno dei teorici socialisti più fini,
destinato a svolgere un ruolo non trascurabile benché non visibile, nel 1848 e in
particolare nella Commissione del Lussemburgo (l’assemblea ufficiale delle de-
legazioni di tutti i mestieri parigini): Constantin Pecqueur. Nei suoi scritti, a
partire già dal 1839, Pecqueur utilizza spesso il termine solidarité attribuendogli
un’importanza via via crescente e un significato originariamente legato
all’interrelazione generica d’interessi, per riferirsi sempre più spesso alla comu-
nanza d’interessi in associazioni operaie e in associazioni di associazioni, ac-
quisendo quindi anche una dimensione morale ed emotiva.
La velocità con cui il termine s’impone fra i socialisti dell’epoca è testimo-
niata dall’evoluzione dell’apparato grafico e redazionale del Voyage en Icarie, il
libro più importante di Etienne Cabet e sorta di opera culto per il movimento
maggiormente organizzato dell’epoca. Nelle primissime edizioni del Voyage,
fra 1839 e 1840, il termine solidarité non compare mai, mentre già nel 1843 esso
appare non solo in copertina, tra i principi fondamentali, ma anche nell’indice
tematico in cui si scrive esplicitamente che l’intero volume dimostra come il
comunismo realizzi la solidarietà, rimandando nello specifico a una pagina in
cui, fra l’altro, il termine non ricorre. In un contesto assolutamente diverso del
socialismo francese di quegli anni, in campo cioè fourierista, la fortuna del
termine, oltre alle occorrenze nelle riviste, è efficacemente mostrato dalla pub-
saggio dedicato a Ballanche, da C.-A. SAINTE-BEUVE, Portraits littéraires, Paris, Renduel, 1836, vol. III, p. 50.
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blicazione nel 1842 di Solidarité. Vue synthétique sur la doctrine de Charles Fou-
rier di Hippolyte Renaud che riespone il pensiero di Charles Fourier imponen-
do come parola chiave proprio solidarité.
Nelle sue diverse declinazioni, il socialismo differisce dalla prospettiva degli
economisti politici unicamente per la volontà di non ridurre la struttura che
garantisce l’equilibrio del sociale all’economico: la differenza di significato at-
tribuito negli stessi anni a solidarité da Leroux e da Bastiat palesa l’analogia e
l’irriducibile distanza.
La mappatura degli usi del termine solidarité e la costatazione della sua
prima fortuna nel socialismo al momento del suo imporsi nei dibattiti politici
possono invitarci a una cauta osservazione: sebbene il termine si ritrovi in con-
testi molto diversi e con significati divergenti e talvolta irriducibili, una parte di
questi rimanda direttamente a quello che si potrebbe descrivere come un primo
momento sociologico56. Ricostruire una vera e propria genealogia della solida-
rietà socialista e sociologica sarebbe un’inesatta forzatura; tuttavia si può rileva-
re che il termine ritorni nei principali contesti che concorrono, anche conflit-
tualmente, alla mise en forme di una prospettiva sociologica: il tradizionalismo
cattolico, la poliedrica figura di Ballanche, il sansimonismo e la diaspora degli
ex-sansimoniani, e il mondo operaio parigino.
Nel mezzo secolo che divide la Rivoluzione dal 1848, la solidarietà acquista
una nuova serie di significati, ponendosi come potenziale categoria chiave di
un nuovo modo di pensare la società. In contesto legale e fiscale, la solidarietà
«naturale» cui l’individuo si trova legato per nascita o per condizioni che lo
precedono e lo trascendono è abbandonata a favore di una solidarietà quasi
unicamente volontaria, esplicitamente sottoscritta. Il nuovo significato socio-
logico riviene inconsapevolmente, dopo alcuni decenni, e non certo per filia-
zione diretta, ma attraverso i vari passaggi che si sono cercati di distinguere,
all’idea originaria di un legame che precede gli individui o meglio a un legame
intrinseco a quello che diversi sansimoniani ed ex-sansimoniani chiamano
l’individuo sociale. Durante la Monarchia di Luglio, il nuovo significato di soli-
darietà s’intreccia alle nuove accezioni assunte dal termine fratellanza, che ri-
mandano non solo a un ideale politico e sociale, ma anche a un principio mora-
le, alla base del legame sociale e in progressivo approfondimento ed estensione
nella storia. Fratellanza e solidarietà si alternano così negli usi, sovrapponendo-
si nei significati, fino a quando il primo si mostra troppo ingombrante a causa
degli echi giacobini e insurrezionali di cui risuona, e il secondo può proseguire
56
Se, per i motivi per cui si è detto, è legittimo parlare di primo momento sociologico, è necessario sottolineare la distanza teorica rispetto al momento durkheimiano, in particolare nella maniera di articolare azione e scienza, ovvero socialismo e sociologia, e conseguentemente di istaurare il rap-porto fra saperi degli scienziati e saperi dei produttori, fra scienza sociale e principi-azioni di auto-organizzazione della società nel suo insieme e del lavoro in particolare.
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le proprie evoluzioni da protagonista. Nella trasformazione del termine solida-
rité si può allora misurare la mutazione profonda, nel contraddittorio dispie-
garsi della società democratica, del modo d’intendere la natura, la storia e la
società, o meglio il nuovo modo d’intendere la naturalità della storia e della so-
cietà. La solidarietà s’impone proprio per indicare l’interrelazione che costitui-
sce il sociale a prescindere dall’adesione individuale. Essendo la visione della
scienza sociale pensata ed elaborata come strumento della trasformazione so-
ciale, la solidarietà si pone inoltre, allo stesso tempo, al cuore di un modo di in-
tendere il progetto politico come emancipazione dell’uomo attraverso la consa-
pevolezza della propria natura sociale e, infine, come realizzazione della coin-
cidenza fra il movimento storico-sociale e l’autodeterminazione esplicita della
società57
.
57
Per questa interpretazione rimando anche all’analisi di Vincent Bourdeau che, a partire dal caso
specifico di Renouvier, propone di leggere il passaggio della preferenza per la fratellanza a quella per la solidarietà in maniera alternativa sia a Michel Borgetto che a Jack Hayward; se per Borgetto la solidarietà costituisce una riduzione dell’ideale di fratellanza, e per Hayward costituisce al contra-rio un affinamento della nozione di fratellanza, per Bourdeau l’adozione del termine solidarité ri-mandando al “fatto di agire in comune” marca l’emergere in Renouvier di una prospettiva di tra-sformazione sociale e politica finalizzata al sostituire e sovrapporre alle determinazioni morali na-turali, delle determinazioni oggetto di deliberazione, ovvero alla solidarietà subita la solidarietà volontaria - cfr. V. BOURDEAU, Du Manuel républicain (1848) à La science de la morale (1869): fra-ternité et solidarité selon Renouvier, in F. BRAHAMI – O. ROYNETTE (eds), Fraternité. Regards croisés, Besançon, Presses Universitaires de Franche-Comté, 2009, pp. 269-285.
SCIENZA & POLITICA, vol. XXVI, no. 51, 2014, pp. 41-62
DOI: 10.6092/issn.1825-9618/4628 ISSN: 1825-9618
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SCIENZA & POLITICA
per una storia delle dottr ine
A B S T R A C T
*****
Il saggio muove dalla tensione tra società e umanità, tra nazionalismo e cosmopolitismo, per discutere il concetto so-ciologico di Stato in Emile Durkheim. L’autore critica l’analisi di Pierre Bourdieu, che indica nello Stato durkheimia-no solo l’espressione della società repubblicana francese di fine Ottocento. Lo Stato sarebbe invece per Durkheim l’espressione organizzata dell’autorità presente in ogni società. Diversamente da quanto avviene nella teoria politica moderna in particolare di Hobbes e Rousseau, lo Stato durkheimiano non è la somma di forze, quanto piuttosto l’esito di un processo mentale che lega gli individui alla loro organizzazione statale. Proprio per questo lo Stato è «l’organo del pensiero sociale», che consente deliberazioni successive grazie alla mediazione tra governanti e governati, senza presupporre gli individui ma producendo in continuazione l'ambiente della loro azione.
PAROLE CHIAVE: Nazionalismo; Cosmopolitismo; Società; Umanità; Stato.
Politique de Durkheim. Société, humanité, État
Politics of Durkheim. Society, Humanity, State
Bruno Karsenti
EHESS - École des Hautes Études en Sciences Sociales – Paris [email protected]
The essay moves from the tension between society and humanity, between nationalism and cosmopolitism, in order to discuss the sociological concept of the State according to Emile Durkheim. The author criticizes Pierre Bourdieu who maintains that the Durkheimian State was only the expression of the French republican society at the end of the 19th century. The State should be instead for Durkheim the organized expression of the authority existing in every society. Unlike what happens in modern political theory, in particular in Hobbes and Rousseau, the sociological State is not the sum of the forces, but rather the result of a mental process that links individuals to their state organization. Precisely for this reason the state is «the organ of social thought», which allows subse-quent deliberations through the mediation between rulers and ruled, without presupposing individuals but pro-ducing continuously the environment of their action. KEYWORDS: Nationalism; Cosmopolitism; Society; Humanity; State.
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La réflexion politique de Durkheim est aux prises avec une grande antino-
mie, lieu commun de l’époque qui ne s’est pas vidé de toute actualité, même s’il
ne se formulerait sans doute plus aujourd’hui exactement dans les mêmes
termes: l’antinomie entre nationalisme et cosmopolitisme. Dans les cours sur
l’éducation morale, elle est énoncée de la façon suivante:
«D’une part, nous ne pouvons pas nous empêcher de concevoir des fins morales plus hautes que les fins nationales; d’autre part, il ne semble pas possible que ces fins plus hautes puissent prendre corps en un groupe humain qui leur soit parfaitement adé-quat».
La société est un être réel, perceptible actuellement sous différentes modali-
tés, par tous les sujets humains, où qu’ils se trouvent. L’humanité n’est qu’un
«être de raison», et il faut supposer qu’elle est destinée à le rester. Elle ne forme
pas actuellement un groupe humain auquel puisse correspondre des fins défi-
nies, et il est peu probable qu’elle le devienne un jour. On décèle ici une hésita-
tion: sachant que les fins morales de l’action humaine s’enracinent dans l’être
collectif, comment faut-il interpréter le genre de fins qui a pour objet l’homme
en tant qu’homme, abstraction faite des caractères sociaux qui le spécifient? Ce
genre de fin existe, c’est un fait, et ce fait est à l’origine des problèmes politiques
les plus aigus auxquels la modernité soit confrontée. Bien qu’on doive affirmer
que l’homme «n’est un être moral que parce qu’il vit au sein de sociétés consti-
tuées», on sent dans le même temps «qu’au-dessus des forces nationales, il en
est d’autres, moins éphémères et plus hautes, parce qu’elles ne tiennent pas aux
conditions spéciales dans lesquelles se trouve un groupe politique déterminé,
et qu’elles ne sont pas solidaires de ses destinées»1. Le problème sur lequel je
veux attirer l’attention pour commencer est le suivant: pour que des fins mo-
rales se déterminent et orientent l’action, quelles qu’elles soient, il est néces-
saire de supposer un processus de valorisation collective. L’approche sociolo-
gique de la morale repose sur cette prémisse, et il n’est pas question d’y déroger.
C’est par là que l’approche sociologique de la morale s’est constituée, en opposi-
tion à l’approche individualiste, qu’elle soit utilitariste ou kantienne. Sur le plan
politique, c’est par là aussi que la sociologie s’est séparée de la philosophie poli-
tique moderne fondée sur les théories du droit naturel. Ce n’est pas en présup-
posant les droits naturels de l’individu, des droits que la modernité aurait eu le
privilège historique dégager comme inhérents à la nature de l’homme, indé-
pendamment de toute considération quant à ses formes sociales d’existence,
que la sociologie vient éclairer la politique moderne. Au contraire, c’est en
montrant la genèse sociale de ces droits, que l’individu moderne recueille en
lui-même, mais qui ne procèdent pas de lui-même. Et c’est en montrant aussi
que ces droits sont appelés à se modifier, à s’approfondir, à s’enrichir, en fonc-
1 E. DURKHEIM, Leçons de sociologie, Paris, Puf, 2010, p. 107.
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tion de l’évolution sociale particulière dans laquelle la modernité est engagée.
Dès lors, on a un décrochage difficile à comprendre: l’humanité semble
s’émanciper de la société, à titre de pourvoyeuse de fins plus hautes que celles
que la société concrète est à même de poser, et s’imposant à elles. Or comment
expliquer cela, si l’humanité ne se laisse pas décrire socialement?
On est donc face à une contradiction. La plus mauvaise manière de la ré-
soudre – la manière libérale individualiste – serait de s’en tenir à un dépasse-
ment de la société en direction de l’individu, se bornant à affirmer que
l’humanité n’est faite que d’individus, et que les liens qui la soudent sont des
liens interindividuels. Mieux vaut s’en tenir à une version plus problématique
de la contradiction. On dira alors la chose suivante: la tension dans l’ordre des
fins modernes vient de cette tendance, toujours plus accusée dans les sociétés à
solidarité organique, à valoriser l’individualité dans sa forme, indépendamment
de son contenu empirique particularisé, et à faire de la représentation de
l’homme en tant qu’homme une représentation collective dotée d’une dimen-
sion normative supérieure. Les fins supérieures sont des fins humaines, et ces
fins humaines naissent du fait de l’individualisme. C’est ainsi que l’idée d’une
«société humaine universelle» émerge spontanément de l’évolution sociale.
Elle comprend tous les hommes du seul fait qu’ils sont hommes; leurs rapports
se conçoivent sur cette seule base, strictement humaine, sans autre qualifica-
tion. Il s’agit pourtant d’un être irréel qui ne se soutient que d’une pensée - un
«être de raison». Plus précisément, il s’agit d’un être engendré idéalement par
la pensée moderne. On dira alors que certains sujets humains, appartenant à un
certain type de société (industrielles et développées, en l’occurrence), en sont
venus à concevoir cette fin supérieure à la société nationale, et à imaginer une
réalité sociale supérieure correspondant à cette fin. Or cette inclination, bien
que naturelle, ne doit pas emporter d’illusion. C’est qu’il n’y a pas de réalité so-
ciale au-delà de la société.
On doit donc faire une distinction, qui n’est pas simplement terminolo-
gique, mais conceptuelle. Bien que l’idée d’humanité soit tout à fait légitime et
valide en tant qu’idée, l’idée de société humaine universelle – ou encore, pour
parler comme Rousseau dans le Manuscrit de Genève, de «société générale du
genre humain»2 - est quant à elle dépourvue de consistance. Lorsque la socio-
logie cherche à s’établir à partir de l’idée d’humanité, elle fait nécessairement
2 Cette expression Rousseau la tirait lui-même de Bossuet (Politique tirée de l’écriture sainte, art. II,
L. I). Il faut à cet égard se souvenir que la découverte très tardive du Manuscrit de Genève, en 1882, a relancé complètement l’interprétation d’ensemble de l’œuvre, et a en particulier poussé Durkheim à dispenser une série de cours, lorsqu’il était encore à Bordeaux, dont l’article posthume Le “Contrat social” de Rousseau, «Revue de métaphysique et de morale», XXV/1918, pp. 1-23 et 129-161 est l’expression aboutie.
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fausse route. Ce qui ne veut pas dire qu’elle n’a pas à lui faire une place. À en
croire les Règles de la méthode sociologique, c’est d’avoir voulu se donner
l’humanité comme prémisse, au-delà de son projet sociologique, qui a perdu
Comte, et l’a engager dans une vision simplifiée des lois sociales, réduites ulti-
mement à la loi des trois états. À cela, il convient d’opposer la conception des
types ou des espèces sociales, telle qu’elle est par exemple mise en œuvre chez
Spencer – et cela abstraction faite de l’erreur dans laquelle Spencer devant à son
tour tombe, faisant de la société des individus l’aboutissement d’une évolution
sociale traversée par la tension de l’individualisme.
Pourtant, on ne peut s’en tenir à une solution aussi superficielle de la con-
tradiction moderne. Si l’idée de société humaine universelle est un leurre, on
n’ignorera pas le mouvement d’élargissement des sociétés nationales, ni
l’intensification croissante des relations internationales. Ne serait-ce pas alors
que l’humanité, sans être une société actuelle, se construit réellement à travers
ce double mouvement – et se construit, à terme, comme une société qu’elle
n’est simplement pas encore? Ce mouvement a effectivement lieu, et il pousse à
former des hypothèses sur une sorte de terme final de l’évolution sociale, en-
tendue comme devenir irrésistible des sociétés, ou encore comme procès de ci-
vilisation.
Voilà le mot difficile aujourd’hui à prononcer sans une forte résistance.
Freud, Durkheim, mais aussi plus tardivement Bloch ou Febvre, pouvaient en-
core l’invoquer, mais nous ne pouvons faire de même, après deux guerres mon-
diales et une succession de guerres coloniales qui ont fait définitivement tom-
ber la vision unilinéaire d’une ère post-nationale sur la lancée du procès de civi-
lisation définissant l’Occident. Si les motifs conjugués de la globalisation et de
la mondialisation parviennent difficilement à se régler dans le discours con-
temporains des sciences sociales, une chose reste sûre: c’est qu’ils se forment
sur les ruines d’une conception de l’élargissement depuis un centre dont nos
sociétés serait comme le premier occupant. Et cependant, il serait très som-
maire d’imputer à ces pensées de la première moitié du XXème
siècle une dose
excessive de naïveté, plus ou moins colorée de bonne conscience ou de mau-
vaise foi. C’est qu’on doit aux sciences sociales – et, ajouterai-je, à la naissance
de la psychanalyse - bien autre chose qu’une apologie. La preuve est qu’on
trouve chez Durkheim (et surtout chez Mauss), une critique aiguë de l’usage du
mot de civilisation au singulier. Des blocs culturels peuvent et doivent être ap-
préhendés à partir de traits communs à plusieurs sociétés, que ce soit sur le
plan des usages, des croyances ou des représentations, justifiant la distinction
entre des civilisations au pluriel, dont chacune est un objet sociologique légi-
time – en particulier lorsqu’on adopte une perspective aussi bien comparative
que diffusionniste. Au plan politique cependant, cela n’entame pas, chez
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Durkheim du moins, la conviction profonde qu’une grande tendance se dégage
qui, par-delà la critique de l’ethnocentrisme, de ses projections et de ses réduc-
tions, accorde tout de même à l’idée de procès de civilisation un certain crédit:
«Ce que nous montre l’histoire, c’est que toujours, par une véritable force des choses, les petites patries sont venues se fondre au sein de patries plus grandes, et celles-ci au sein d’autres plus grandes encore»
3.
Et il est vrai que dans ce constat, un acteur historique se détache, avec lequel
nous devons encore faire les comptes, si mondialisée soit désormais notre vi-
sion des choses. Le rôle joué par les «grands États européens» mérite d’être re-
levé, qu’on les considère selon leur constitution respective ou selon la construc-
tion de leurs rapports mutuels. Ce qui, sous le nom de civilisation au singulier,
se profile alors, c’est une forme de totalisation, entendue comme le terme d’un
long processus extrêmement ramifié à sa base, mais globalement convergent à
son sommet. Ce terme, il faut ajouter qu’il est l’objet d’un désir moderne. En
bon européen, on le souhaite assez proche, et l’on voudrait en quelque sorte le
toucher du doigt. Or c’est là qu’on s’expose selon Durkheim à une certaine dé-
ception:
«En vain, on représente comme moyen terme des sociétés les plus vastes que celles qui existent actuellement, une confédération des États européens par exemple. Cette confédération plus vaste serait à son tour comme un État particulier, ayant sa per-sonnalité et ses intérêts, sa physionomie propre. Ce ne sera pas l’humanité»
4.
Les «bons européens», pour reprendre la catégorie forgée par Nietzsche et
orientée par lui vers un tout autre usage, ne sont rien d’autre pour Durkheim
que des humanistes. La question est alors de savoir s’ils ont les moyens d’être ce
qu’ils prétendent. De quel prix se paie l’idée d’homme telle qu’elle émerge de
l’histoire des sociétés européennes, et peuvent-elles vraiment le payer? En leur
faveur plaide l’argument de l’élargissement, la fusion progressive des sociétés,
dont Durkheim ne doute pas. Et pourtant, ce que montre la «confédération eu-
ropéenne» qui en est le témoin, c’est que si loin qu’on pousse le processus, c’est
toujours d’État qu’il s’agit. Notons qu’on n’est pas sorti, de notre contradiction
de départ mais qu’on l’a seulement spécifiée en lui attachant un facteur pro-
prement politique. L’idée d’humanité, pour être prise au sérieux, exigerait en
fait autre chose que l’élargissement spatial: non pas seulement une totalisation
qui ne laisserait aucun vide à la surface de la terre, non pas seulement
l’abolition d’un dehors à l’exclusion duquel la personnalité collective de réfé-
rence aurait encore à se définir, mais la transformation de l’idée même de socié-
té, qui la dégagerait de toute référence à du «propre», que ce soit en termes
3 E. DURKHEIM, La science sociale et l’action, Paris, Presse Universitaire de France, 1970, p. 297.
4 E. DURKHEIM, Leçons de sociologie, p. 108.
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d’intérêt, de personnalité ou de physionomie du groupe – ce qui reviendrait en
somme à la délester de l’État. Voilà exactement ce qui est, pour Durkheim,
inenvisageable. L’Europe, si compréhensive soit-elle, ne pourra pour éviter de
recomposer une personnalité de niveau supérieur, à laquelle le mot d’État con-
viendra encore. Bref, Durkheim s’est refusé à y voir une disparition de la forme-
État, parce qu’il n’y a pas vu une solution cosmopolitique à l’antinomie entre
humanité et société.
Le sociologue ne s’arrête toutefois pas à ce constat désabusé. C’est que, sans
rien nier de ce qui vient d’être dit, le problème mérite d’être posé autrement. Il
est arrivé quelque chose à la forme-État en Europe qui, sans l’abolir, modifie
notablement la perception de l’antinomie à laquelle on paraît ici renvoyée, celle
entre nationalisme et cosmopolitisme. Autrement dit, plutôt que de voir com-
ment s’est modifiée socialement l’idée d’individu au point de faire émerger,
dans plusieurs sociétés emportées dans le même régime de modification, il
vaut mieux s’attacher à la modification du dispositif politique dans lequel l’idée
s’est creusée. Si l’Europe n’est pas insignifiante, c’est en ce qu’elle nous livre,
corrélée, une histoire de l’individu et de l’État considérés dans leur rapport.
C’est ce rapport qui n’est pas clair pour nous, et c’est de cette obscurité que nais-
sent nos dilemmes qui prennent encore la forme de l’opposition entre nationa-
lisme et cosmopolitisme. Lire ce qu’exprime l’entité «Europe» (qu’on tienne ou
non à l’affecter d’un sens civilisationnel) sous la double détermination de
l’individu et de l’État, voilà en ce que cherche au bout du compte une sociologie
politique d’inspiration durkheimienne.
Partons donc du dispositif politique lui-même, c’est-à-dire de l’État. Mais
sans en accepter de définition non-sociologique. Le problème s’agissant de
l’État, c’est que la rupture avec les prénotions n’est pas directement aux prises
avec des constructions de sens commun, mais avec des constructions philoso-
phiques qui fonctionnent comme un instinct moderne, instinct si fort qu’il im-
prègne continuellement le discours des sciences sociales lui-même. Sur l’État,
plus que sur tout autre objet, la sociologie semble ne pas parvenir à opérer sa
rupture, son décrochage, sa redéfinition complète de la réalité et de notre ma-
nière de la percevoir en prenant un point de vue social sur elle. Les cours de
Bourdieu sur l’État, tenus au début des années quatre-vingt-dix et publiés tout
récemment5, ne font rien d’autre que tourner autour et chercher à contourner
cette difficulté, voire cette impossibilité. Leur mérite réside dans cette espèce
d’effort constamment repris – à partir de Weber, d’Elias, de Marx, plus secrète-
ment d’Althusser aussi (même si Bourdieu aime à dire que son approche n’a
rien à voir avec l’idée d’appareil idéologique d’État, ce qui me semble faux), et
5 P. BOURDIEU, Sur l’État, Paris, Seuil, 2011.
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enfin de Durkheim – mais d’un Durkheim qu’on voudrait alors compatible avec
des conceptions qui n’ont pas effectué la même rupture que celle qu’il a tenté
d’effectuer. On dira ainsi que l’État, socialement perçu, c’est le champ politico-
administratif, associé à un appareil de sanction. Ce champ est objectivé et ob-
jectivable à partir du moment où on travaille la définition wébérienne de l’État
comme monopole de la violence physique légitime d’une façon qui fait jouer
dans l’adjectif «légitime» une construction et une accumulation de pouvoir
symbolique qui redéfinit précisément la monopolisation de la force physique,
de telle sorte que cette force, exercée par l’État, ne peut être dite une force qu’en
un sens absolument spécifique – irréductible à tout autre type de force. C’est
l’amendement bourdieusien à la définition wébérienne qui se dit dans le cours
de la manière suivante: «monopole de la violence physique et symbolique légi-
time». Bien que Bourdieu ne l’explicite pas comme je le fais, le complément,
pris à la lettre, doit avoir le sens suivant: le symbolique n’est pas interne à la lé-
gitimation qui viendrait envelopper la force secondairement, l’habiller, mais il y
a du légitime symboliquement, qu’on doit distinguer de la légitimation de la
force et qu’on doit articuler autrement à elle6. Ce complément s’explique par le
fait qu’il n’y a pas de contrainte physique étatique qui ne présuppose une re-
connaissance de la part des sujets de l’État. C’est par exemple pour Bourdieu le
tort d’Elias que de ne pas permettre de le penser7. Mais encore faut-il préciser
comment on entend cette reconnaissance: car elle n’est pas seulement accepta-
tion. Bourdieu, par endroits, retombe du côté du «faire accepter», et à d’autres
endroits, cherche à y échapper. C’est le cas notamment lorsqu’il montre que la
reconnaissance engage une élaboration proprement «idéelle», ou mentale, qui
passe prioritairement par le droit et l’activité des juristes, non pas comme des
agents d’habillage de la force, mais comme formateurs d’un processus
d’accumulation symbolique qui sous-tend et conditionne l’accumulation phy-
6 Je note au passage que c’est parce qu’il n’a pas explicité de cette manière sa pensée, explication qui
ne fait que suivre la lettre de son «complément», qu’il a pu ainsi récuser sans ambages la concep-tion althussérienne des appareils idéologiques (qu’il juge étroitement fonctionnaliste). Il évite ainsi de se confronter à ce qui a été le cœur de cette conception: distinguer appareil répressif d’Etat et appareil idéologique d’État (armée, famille, église, école), en s’écartant sur un point décisif de l’acception marxiste de l’idéologie. L’appareil idéologique prend sens, en effet, si on admet que l’idéologie n’est pas «rapport imaginaire aux conditions réelles d’existence», mais déformation et information des rapports imaginaires eux-mêmes : elle agit, à l’aide de ces appareils, sur le rapport imaginaire que les hommes ont aux rapports de production pris dans leur globalité. Elle n’est pas une simple représentation, mais une opération dans l’ordre des représentations qui lient déjà les individus à la totalité sociale où est déjà transposé l’ordre des rapports réels. Son fonctionnement est alors plus symbolique qu’imaginaire. Et pour le penser, c’est la façon dont les représentations collectives agissent dans les psychismes individuels qui doit être prise en compte. Par-là, on revient à Durkheim, tout au moins à la forme qu’il avait donnée au problème d’une configuration propre-ment psychique des faits sociaux, et à la pensée de l’État qui doit en découler. La même attraction durkheimienne est du reste patente dans Bourdieu. 7 P. BOURDIEU, Sur l’État, p. 204.
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sique8. C’est ainsi que Durkheim resurgit positivement dans son cours, en con-
trepoint de vigoureuses prises de distance affirmées par ailleurs. Dans les pas-
sages où Bourdieu tient à s’en démarquer, Durkheim est critiqué comme un so-
ciologue trop pris dans la forme État qu’il voulait à toute force légitimer, l’État-
nation républicain où il était enferré sans savoir à quel point il l’était, fonction-
naire qui ne se pensait pas, ou en tout cas pas suffisamment comme fonction-
naire, «poisson dans l’eau dans l’État»9. Mais Bourdieu sent bien que sur ce
point, sa critique tourne court. En effet, puisque tout converge, dans
l’explicitation du complément apporté à la définition wébérienne, sur la surdé-
termination ou l’efficace symbolique d’une pensée d’État depuis laquelle le so-
ciologue entreprend de penser l’État, on ne peut pas «sortir de l’eau» aussi faci-
lement qu’on le voudrait, en se donnant pour levier une pensée hors-État. En-
tendons, on peut certes le faire, mais pas sociologiquement: on peut le faire phi-
losophiquement, en adoptant un point de vue individualiste qui s’installe en un
lieu depuis lequel une critique de l’État extérieur, de l’État répressif ou de l’État-
idéologique comme vêtement de l’État répressif, est toujours bien armée. En
accentuant le caractère violent de la contrainte étatique (alors que Weber, il
faut s’en souvenir, parlait plus volontiers de contrainte que de violence) on fait
pencher la définition prétendument sociologique de ce côté. Mais si la violence
n’est pas seulement contrainte subie du côté de l’agent individuel, mais ouver-
ture à une délégitimation de la contrainte «réputée légitime» par cet agent du
seul fait qu’il la sent (et qu’il se dit seulement qu’elle lui fait violence), alors on
sort de la vision sociologique. Le légitime, pris au niveau symbolique, n’est pas
du légitimé, susceptible en cela d’être délégitimé. C’est la logique d’une cohé-
sion inséparablement mentale et sociale, pour laquelle l’individu et la con-
trainte qu’il perçoit n’offrent pas un contrepoint critique et une ressource de dé-
légitimation – puisque c’est précisément dans cet ordre qu’il se pense lui-même
et agit comme individu10.
Le sociologue ne se donne pas ce recours aisément critique, à la fois parce
qu’il pense l’individu autrement (la représentation que celui-ci a de lui-même
est le produit des rapports sociaux, déclinés en certains rapports mentaux dans
lesquels l’État intervient déjà, en tant que processus d’accumulation propre-
ment symbolique), et parce que l’État n’est pas pour lui extérieur, mais se donne
8 Ivi, p. 307.
9 Ivi, p. 338.
10 À cet égard, on peut d’ailleurs voir que Bourdieu a beaucoup perdu en s’éloignant comme il l’a fait
d’Althusser. Car, en somme, l’interpellation des individus en sujets comme étant le ressort le plus enfoui et le plus déterminant des appareils idéologique d’État, touchait bien l’essentiel, et revenait pertinemment sur le vrai problème introduit par Durkheim: la constitution moderne (Althusser dirait capitaliste, ce qui change certainement les choses, mais à un autre niveau seulement) de l’État et de l’individu. Or chez Bourdieu, lorsque l’individu est invoqué, c’est seulement à travers le tort physique qu’il subit sous l’effet de sa socialisation étatique. Le physique réinvesti alors le symbo-lique, et le dissout dans un concept non-interrogé de violence.
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plutôt comme une entité que les pratiques sociales font elles-mêmes émerger, à
un certain niveau de leur effectuation – pour le dire en mode durkheimien, une
strate de notre milieu qui offre à nos pratiques et à nos pensées une forme par-
ticulière de résistance dans le mouvement par lequel elle se produisent, résis-
tances qui sont les points sociologiquement diffractés de l’apparition de l’État
aux individus et aux sous-groupes. Bourdieu, qui voudrait à la fois qu’on résiste
à l’État et qu’on reconnaisse sa résistance propre dans le moment où on lui ré-
siste (mais aussi où on ne lui résiste pas) doit alors aussi aborder l’État en strict
durkheimien: comme le fabricateur moderne des structures perceptives du
monde social, comme ce qui fait tenir ce monde par les sujets sociaux qui le
perçoivent ensemble, comme le double agent collectif d’un conformisme moral
et d’un conformisme logique, de façon à faire adhérer connaissance et évalua-
tion à un niveau que l’ensemble des membres d’une société, à un niveau plus
profond que celui de leurs oppositions de classe, communiquent nécessaire-
ment. Bref, en sociologue, Bourdieu doit admettre qu’un consensus qui a pour
nom État, à niveau pratique et logique, s’est formé dans les sociétés modernes,
comme condition de leur intégration, et que les rapports de dominations et les
conflits de classes s’étayent sur les captations et le détournement des bénéfices
qu’on peut tirer de ce foyer valoriel, cognitif et perceptif, mais non sur son exis-
tence. Bourdieu est rigoureux au regard de ses prémisses quand il spécifie sa
critique de l’État en critique sociologique de la noblesse d’État. Il est consé-
quent avec lui-même quand il justifie la formulation moderne de cette critique,
et même son accentuation, par la perpétuation des logiques aristocratiques et
leur transformation dans le cadre du fonctionnariat d’État post-révo-
lutionnaire. Ou encore: il est authentiquement sociologue lorsqu’il ne fait pas
valoir le dissensus des points de vues particularisés contre un consensus appa-
rent servant à masquer des dominations réelles, mais quand il analyse ces do-
minations comme dévoiement d’un consensus réel qui n’est pas exprimé dans le
consensus instrumentalisé. Il est sociologue, en d’autres termes, lorsqu’il laisse
transparaître l’unité propre du social sous les rapports sociaux de domination.
Et que sa critique de l’État ne se conduit que sous la forme des processus de pri-
vatisation de la logique d’État.
Et dans ces moments (essaimés et non articulés dans son cours, qui veut
sans cesse gagner sur les deux tableaux, celui de la critique de l’État, et celui
d’une véritable sociologie de l’État qui ne tomberait pas dans les prénotions vé-
hiculée par une intention critique de facture individualiste), il s’approche au
plus près de Durkheim. Mais de quel Durkheim?
Après ce très long préambule, je vais exposer de façon didactique la pensée
durkheimienne de l’État, et montrer en quoi elle est susceptible de nous éclai-
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rer dans nombre d’apories que nous rencontrons aujourd’hui, à commencer par
celle que j’ai rappelée en commençant sur l’Europe, l’antinomie du cosmopoli-
tisme et du nationalisme. Je vais remettre sur le métier ce que Durkheim a pen-
sé sous le concept d’État, pour y chercher le sens politique de sa sociologie, et
pour expliquer en quoi cette nouvelle approche de l’État a pu apparaître au so-
ciologue comme le seul moyen de tracer une voie praticable dans la principale
antinomie des modernes, la concurrence dans laquelle les modernes sont irré-
médiablement pris entre des fins liées à leur société d’appartenance (en langage
moderne, des fins nationales) et des fins qui leur sont effectivement supé-
rieures, et dont on ne peut pas ne pas concevoir simultanément la supériorité
(des fins humaines, au sens générique du mot, ces fins que nous, «bons euro-
péens», avons constamment en tête).
Avec Durkheim, le trouble dans la lecture est provoqué par le fait que le
descriptif et le prescriptif paraissent inextricablement mêlés, jetant en perma-
nence un soupçon de partialité sur sa reconstitution historico-sociologique, la-
quelle ne semble avoir d’autre but que de justifier l’État-Nation moderne (c’est
la critique du «poisson dans l’eau», qu’on a retrouvé sous la plume de Bour-
dieu). Or le soupçon, ici, nous détourne de ce qu’une telle justification peut
avoir de singulier. Pour le dire brièvement, je crois qu’on a tort de penser que
l’on sait déjà de quoi parle Durkheim lorsqu’il invoque l’État-Nation. Car
l’acception qu’il en donne ne correspond en réalité à aucune des formes poli-
tiques en vigueur à la fin du XIXème
siècle. Et, il n’est pas certain, sur ce point,
que la singularité de son discours ait été entendue dans ce qu’elle signifiait réel-
lement.
Le bon point de départ tient dans cette formule: «Les États sont aujourd’hui
les plus hautes sociétés organisées qui existent»11. Ce qu’il faut entendre de
deux manières: tout d’abord, l’État en général, en tant que réalité politique, va-
rie en fonction du critère de l’organisation. Ensuite, l’État moderne correspond
à l’organisation sociale la plus haute. Apparemment, on a donc un schéma évo-
lutif, dont l’État moderne occuperait le sommet. Il différencie et totalise – il
œuvre à la reconnaissance et à la valorisation toujours plus grande des organes
individuels, avec leurs sphères d’actions distinctes et irréductibles, et maintient
l’unité sociale ainsi formée, cohésion fondée sur des liens plus nombreux et
plus souples qu’on aurait tort de croire par cela même plus fragiles et moins
contraignants. Bref, sans lui, la solidarité organique serait impossible, parce que
ce ne serait pas une solidarité.
Or Durkheim construit cette position par réfutation de toutes les théories
en vigueur: pas seulement les libéraux, pas seulement la conception de l’État-
11 E. DURKHEIM, Leçons de sociologie, p. 108.
SCIENZA & POLITICA
vol. XXVI, no. 51, 2014, pp. 41-62 51
gardien des théories du droit naturel – qui, pour lui, renvoient à l’idée que les
droits de l’individu que l’État devrait défendre ont leur source dans l’individu
même – pas seulement le socialisme collectiviste – qui, dans sa version qui n’a
plus conscience de ses sources saint-simoniennes, ne fait que transférer sur
l’être collectif les droits des individus privés, à commencer par le droit de pro-
priété. Il s’oppose aussi – là se trouve la démarcation théorique la plus opéra-
toire – à Fustel de Coulanges et à Maine, sur le thème de la genèse de l’État à
partir d’une transformation de la société domestique, par composition succes-
sive du pouvoir patriarcal. Une société politique n’est correctement définie que
par l’apparition d’un «pouvoir gouvernemental». Il n’y a pas de politique sans
qu’un gouvernement n’apparaisse, auquel est affecté un genre de pouvoir dont
on ne comprend absolument pas la nature lorsqu’on le pense en référence au
pouvoir du père ou à celui du chef. Ici se trouve l’erreur la plus commune en po-
litique: d’avoir négligé la différence que la société politique introduit par rap-
port aux groupes partiels en termes de définition du pouvoir.
«L’organisation des groupes partiels, clans, familles, etc., n’a donc pas précédé l’organisation de l’agrégat total qui est résulté de leur réunion. D’où il ne faut pas conclure davantage que, inversement, la première est née de la seconde. La vérité est qu’elles sont solidaires, comme nous le disions tout à l’heure, et se conditionnent mutuellement. Les parties ne se sont pas organisées d’abord, pour former un tout à leur image, mais le tout et les parties se sont organisées en même temps»
12.
On ne peut dire plus clairement qu’une pensée en termes d’organisation en-
gage une rupture avec l’évolutionnisme, même lorsque des énoncés en appa-
rence évolutionnistes – mais qui sont alors simplement historiques – viennent
la traduire empiriquement. Il reste cependant à dire l’essentiel: en quoi consiste
le rapport synchronique du tout aux parties? Quelle traduction politique
donne-t-il de la dynamique de l’organisation? Ces questions se ramènent à
celle-ci: comment comprendre la spécificité du pouvoir gouvernemental, du
gouvernement en tant que tel, pierre angulaire de l’État que Durkheim s’est ef-
forcé de définir?
La réponse passe par une notion dont l’importance n’a cessé de grandir dans
son œuvre – au point, dans une note importante des Formes élémentaires,
d’être quasiment érigée en objet principal de la sociologie en général. Cette no-
tion est celle d’autorité. Dans les Formes, elle est invoquée dans une perspective
épistémologique, afin de corriger les malentendus causés par le critère de la
contrainte. Mais il est évident que là n’est pas son lieu d’émergence, puisqu’elle
a commencé à se formuler dans ses analyses pédagogiques et politiques. Pour
s’en tenir au second aspect qui nous occupe ici, il est frappant de la voir appa-
raître comme une modification de la définition de la souveraineté de l’État. Se- 12
E. DURKHEIM, Leçons de sociologie, p. 83.
KARSENTI, Politique de Durkheim
SCIENZA & POLITICA
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lon Durkheim, si la forme-État a quelque consistance, il la devra toujours – que
l’on parle des États anciens ou des États modernes, par conséquent – à ce qu’il
contient d’«autorité souveraine». Ce syntagme n’a rien d’une redondance. Il dé-
voile le cœur du rapport politique, comme rapport d’essence gouvernementale.
Ce rapport fait du souverain, non celui qui dispose d’une force exercée massi-
vement sur les membres du groupe, mais celui qui a été investi par le groupe
d’une grandeur spécifique, grandeur qui le place précisément au-delà de toute
forme de coercition matérielle. Cette grandeur souveraine, où l’État a son cri-
tère définitionnel, Durkheim la conçoit comme un effet de l’organisation. En se
différenciant les uns au regard des autres, les groupes partiels ne font pas que se
mesurer horizontalement: ils s’inscrivent dans une totalité, qui se voit investie
d’un sens de leur propre point de vue, pour chacun des individus qui les com-
posent.
En cela, l’organisation est un phénomène dont les effets sont d’abord men-
taux. L’autorité n’est autre que le genre de pensée qui se dégage dès que se met
en place un rapport synchronique du tout aux parties – il est un effet direct du
processus différenciateur et ordonnateur de l’organisation sociale, dès qu’on
s’élève au-dessus des familles et des clans, et du type de pouvoir qui peut s’y af-
firmer. Et la politique, pour Durkheim, naît très exactement en ce point. La
souveraineté n’est pas une puissance, un concentré de forces, c’est une autorité,
c’est-à-dire un concentré de pensée, un pôle idéel depuis lequel une action de
type gouvernemental peut se conduire – c’est-à-dire une orientation de la vie de
la société dans son ensemble, composée de groupes partiels en eux-mêmes
non-politiques, mais au sein desquels les individus font néanmoins une cer-
taine expérience de la vie politique du seul fait que l’autorité souveraine est
pour eux dotée de sens – que sa centralité, corollaire de sa supériorité, est re-
connue socialement, c’est-à-dire autorisée.
On comprend ainsi le soin que prend Durkheim à n’employer le mot État
qu’en un sens très restreint. Dire que la France est un État est un énoncé dé-
pourvu de sens en sociologie. La France est une société politique, qui comporte
un État – c’est-à-dire un organe auquel est attribué le pouvoir gouvernemental.
Les gouvernés ne font pas partie de l’État, l’État se confond avec les gouver-
nants. Pour consentir à cette restriction, il faut toutefois bien comprendre le
sens que prend le verbe «gouverner». Le comprendre, c’est adopter une accep-
tion strictement anti-rousseauiste. C’est épurer radicalement le gouvernement
de toute tâche pratique d’exécution, le faire tout entier consister en une activité
de pensée – c’est-à-dire en une fonction de délibération et de résolution (sur
cette question de la résolution, une difficulté gît sans aucun doute, mais je la
laisse de côté pour l’instant) sur la direction qu’il convient de communiquer aux
sous-groupes qui lui sont subordonnés. Pour cela, il use d’un appareil adminis-
SCIENZA & POLITICA
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tratif – se dote d’un appareil scolaire, d’un appareil fiscal, d’un appareil sani-
taire, et même d’un appareil religieux – dépendances de l’État qui ne se confon-
dent pas avec lui, mais exécutent les mouvements qu’il se borne à ordonner – et
à ordonner, dans la mesure où il les a conçus.
C’est en présentant les choses ainsi qu’on est position de situer exactement
la rupture sociologique avec la philosophie politique, et le sens exact qu’il faut
lui donner. Elle se situe au niveau de la «délibération». L’anti-rousseauisme sur
la question de la délibération doit être souligné, car ses implications, jamais
dégagées comme telles par Durkheim, n’en sont pas moins importantes, no-
tamment en ce qui concerne la réintroduction de la question du particularisme
dans le cadre étatique qu’on vient de voir. Pour Rousseau, on le sait, la délibéra-
tion renvoie au législatif, distingué absolument de l’exécutif, c’est-à-dire du
gouvernement. Le gouvernement ne délibère pas, il exécute la loi; seul le
peuple assemblé délibère, c’est-à-dire produit la loi comme déclaration de la
volonté générale. Et, au fond, toute notre pensée philosophique spontanée ac-
crédite cette idée. Durkheim retient incontestablement de Rousseau que le
point culminant de la politique n’est pas affaire d’acte particularisé dans sa visée
et son objet, comme l’est une tâche d’exécution. Il retient aussi que l’autorité
souveraine est affaire de droit politique, non d’une économie des forces comme
chez Hobbes – bref, que l’autorisation ne se ramène pas à un transfert de puis-
sance. De là, il ne faut pourtant pas conclure que le peuple serait lui-même
l’instance de la délibération, et qu’un centre gouvernemental, distingué à
l’intérieur de la société, ne pourrait être qu’exécutif. Le gouvernement doit se
détacher dans la totalité du corps comme sa «conscience délibérante». La socié-
té durkheimienne n’est pas la gangue enveloppant un peuple en puissance, re-
venant sur lui-même par le jeu de la délibération dont tout citoyen serait ca-
pable, un peuple dégageant par lui-même sa volonté générale. La société
durkheimienne est une réalité stratifiée, traversée par une conscience diffuse,
distribuée en sous-groupes qui sont autant d’espaces de socialisation et de fa-
brication de pensées à chaque fois spécifiques. Or la politique a affaire, non à
des individus, mais à ce genre de réalité – une réalité en elle-même socialisée.
Elle a affaire à ce genre de réalité, d’où elle permet que se dégagent des individus,
qui sont donc une réalité sociale de second ordre. Avant d’en venir à cette carac-
téristique libératrice, il importait de souligner que le point de vue sociologique
commence par changer radicalement les coordonnées suivant lesquelles on doit
traiter des problèmes classiques de la division et de la distribution des pouvoirs.
KARSENTI, Politique de Durkheim
SCIENZA & POLITICA
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Autre manière d’avancer dans la même direction: La société ne pense pas
par l’État, mais l’État pense pour la société, c’est là sa raison d’être13. De là, de
cette destination de l’État qui l’isole au sein de la société dont il fait partie, on
doit tirer une conclusion décisive (là aussi, on distingue très rarement, par quoi
on vire à un étatisme qui n’est pas dans Durkheim): l’État n’incarne pas la cons-
cience collective, il n’en est pas le moyen d’expression ou le canal d’affirmation.
La pensée, en lui, s’élabore sous une forme que les groupes sociaux ne peuvent
pas connaître. Et c’est à l’égard de cette stricte pensée, de cette activité exclusive
de toute pratique exécutoire, que le mot d’autorité acquiert son sens plein – ou
encore, que le verbe gouverner parvient à spécifier réellement le concept de
pouvoir en pouvoir gouvernemental.
Mais de quoi est faite cette pensée dont on parle, que l’on place si haut et
dans un tel état de pureté? La difficulté, ici, vient de ce que l’État, dans ce pro-
cessus d’isolation, ne cesse pas d’être un organe social, auquel est assignée une
certaine fonction. Penser pour la société, c’est avoir la société en tête, si l’on
peut dire, quand bien même on admet que ce n’est pas elle qui pense. Que
pense l’État, et comment le pense-t-il? A ces deux questions, que je traiterai
tour à tour, c’est l’idée de «conscience délibérante et résolutoire» qui voudrait
apporter une réponse. Ou encore, c’est l’élément de clarté, ou la clarification
impartie à cet organe qui exige d’être analysée.
La conscience délibérante n’est pas la conscience collective. Pourtant, la
conscience collective existe: elle est faite des pensées diffuses qui émergent au
niveau des sous-groupes, pris dans leurs activités respectives14
. Ces sous-
groupes contraignent les individus, les déterminent à agir en un certain sens.
C’est là que naît ce que Durkheim appelle la conscience diffuse de la société.
Elle est diffuse, non simplement parce qu’elle est fragmentée, en manque
13
E. DURKHEIM, Leçons de sociologie, p. 86. 14
Il faut se souvenir de ce que l’expression de conscience collective (ou commune) est avancée de
façon extrêmement prudente et exploratoire dans la Division du travail social (1893), Paris, Alcan, 1922, pp. 46-47. Elle est tout à fait distinguée, non pas simplement de la conscience individuelle, mais aussi et surtout de la conscience sociale. Celle-ci est faite des pensées qui traversent la société et se forment en elles à travers les différentes fonctions qui s’y développent. Ainsi, dans une société fortement différenciée, les fonctions judiciaires, gouvernementales, scientifiques, industrielles, définissent des systèmes relativement autonomes de représentations et d’actions, par quoi on peut entendre des modes de production psychiques. Le gouvernement est saisi à travers cette différen-ciation fonctionnelle : il est un lieu où se forment des représentations d’un certains types, distinctes d’autres productions psychiques. La conscience collective est tout autre chose: elle est l’ensemble des représentations communément partagées par toute la société, pour autant qu’elle est une socié-té. Durkheim s’est posé la question de savoir s’il ne lui fallait pas inventer un terme technique nou-veau pour ce genre de réalité psychique, et y a finalement renoncé, s’appuyant sur un élément du langage commun et s’efforçant d’en fixer étroitement le sens et l’usage. On gardera à l’esprit que la politique, où la pensée d’Etat, si elle entretient un certain rapport à la conscience commune (ex-pression préférable à collective) , ne coïncide nullement avec elle. Tout au contraire, elle est née d’un haut degré de spécification de l’action réflexive d’un certain organe. Elle a son ressort dans le lien établi entre cette extrême spécification et l’existence des représentations communes (et qu’il faut les connaître et les explorer. À ce niveau, elle procède d’une conscience qu’il y a de la cons-cience collective ou commune – et que celle-ci se concentre sur la représentation de l’individu.
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d’organisation et d’unité, incapable de voir le tout qui enveloppe les sous-
groupes. Elle est aussi diffuse au sens où elle est confuse. Et elle est confuse sur
un point précis: celui de l’agent social qui accomplit l’activité en question. Ce
que la conscience diffuse ne voit pas, ce n’est pas le tout: c’est l’individu, en tant
que celui-ci est socialement agissant, en tant que les actions accomplies en so-
ciété procèdent de lui.
Au niveau du sous-groupe, il est naturel que l’individu soit sacrifié à la re-
présentation qu’il a de lui-même, comme source de son action; il est naturel
qu’il ne conçoive son action qu’en référence au groupe particulier où elle
s’insère. Et pourtant, il est naturel qu’il perçoive aussi que c’est bien lui qui agit,
et que cette pensée s’accuse à mesure que les sous-groupes se rapportent les uns
aux autres en formant une totalité plus complexe, qui dépasse la particularité
de chacun d’eux. Par où l’on voit que cette pensée qui lui vient alors, la pensée
de son individualité agissante, et qui est en attente de clarification, elle ne lui
vient pas toute seule de son propre fond. Elle lui vient de ce que les sous-
groupes s’assemblent en une entité plus haute, qui n’est pas de même nature
que chacun pris à part. Elle lui vient de la perception de l’autorité, au-delà du
pouvoir effectif dans chaque groupe d’appartenance. Elle lui vient de la pensée
de l’autorité, ou de l’autorité comme pensée. Encore une fois, ce n’est pas par
addition des corporations, par addition des clans, par addition des familles que
naît une société politique: c’est par l’instanciation d’une entité d’un autre type,
qui les lie entre elles d’un autre type de lien – ce lien d’essence mentale qu’on a
défini comme «autorité souveraine».
Aussi ce lien, on le comprend maintenant, s’alimente d’un contenu de pen-
sée bien défini: il procède de l’activité que les sous-groupes commandent et
compriment, de l’individu comme tel, de l’individu comme «foyer autonome
d’action». Le rapport synchronique du tout aux parties opère à ce niveau: dès
que les sous-groupes deviennent parties d’un tout qui les dépasse, ce tout se
nourrit de ce que les parties elles-mêmes retenaient enfermé et comprimé en
elles: les individus en pensée, qui ne sont pas des parties de la société, mais qui
sont plutôt l’idée nécessaire à ce que se tisse le lien entre le tout et ses parties,
entre la société et les groupes qu’elle comprend.
C’est le point le plus difficile à comprendre dans la théorie durkheimienne
de l’État: entre État et individu, le rapport de causalité joue dans les deux sens,
ce qui interdit de poser l’un indépendamment de l’autre, comme s’il était le
premier terme qui aurait donné son impulsion à l’évolution sociale. À la limite,
ni l’un ni l’autre n’existe comme un état de fait, une donnée de départ: seule la
société et les individualités empiriques (qu’il faut ici distinguer de l’idée
d’individu, de l’individu en pensée, ou encore, pour être plus précis, de la per-
KARSENTI, Politique de Durkheim
SCIENZA & POLITICA
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sonne, car c’est au fond la personne qui est ce «foyer autonome d’action» de-
mandant d’être pensé) existent à l’état de données empiriques. L’État et
l’individu émergent conjointement du fait que les groupes s’organisent, intera-
gissent, s’agrègent en un tout – lequel, en tant que tout, requiert une pensée de
l’action référée à l’individualité dans sa forme, sous peine de retomber dans la
pensée diffuse et comprimée des sous-groupes.
La conscience délibérante, alors, c’est celle qui ne pense et ne parle que des
individualités dans le procès de socialisation qui les portent à se dépasser elles-
mêmes, c’est-à-dire à se libérer de la socialisation à laquelle les sous-groupes les
soumettent, pour s’emplir d’une nouvelle consistance sociale conforme à l’entité
spécifique qu’est la société politique. C’est une conscience des «conflits de
forces sociales» antagoniques15, qui ont l’individu pour enjeu. À l’aide de
l’opérateur «individu», la société s’appréhende politiquement, c’est-à-dire
avance dans l’affrontement de ses conflits intrinsèques, qui ne peuvent jamais
disparaître, puisqu’ils se recréent sans cesse au niveau du rapport entre les
groupes et de ce que chacun d’eux fait peser sur la conscience que l’individu
prend de lui-même dans la société globale. L’existence politique est donc une
visée sociale, pour autant qu’elle est conduite au prisme de l’individu.
C’est là que les formes-État varient historiquement – c’est dans la façon dont
ce prisme opère, dans le degré de conscience avec lequel il opère, que ces varia-
tions sont analysables. Précisons: la structure d’ensemble de l’État qu’on a dé-
crite, son essence gouvernementale, sa définition comme «autorité souve-
raine», vaut pour tout État – moderne et ancien, indifféremment. Dès qu’il y a
expérience politique véritable (comme expérience mentale de l’autorité), il y a
État, ou plutôt il y a étatisation, qui est en fait une étatisation de la pensée. Mais
dès qu’il y a étatisation de la pensée, il y a individuation de la visée de ce qui est
en réalité au cœur de l’expérience politique – qui n’est pas la guerre, qui n’est
pas le groupe d’appartenance, mais qui est la socialisation de l’individu – et
donc la reconnaissance du fait que c’est par l’individu, par chacun, que
l’expérience sociale, qui est l’expérience humaine par excellence, se conduit.
C’est dans la reconnaissance de ce processus que l’entrée dans la modernité, et
que le syntagme État-moderne, se distingue absolument dans Durkheim. Et
c’est pour cela que lorsqu’on prend en considération la confédération euro-
péenne, lorsqu’on reprend à partir de la forme de convergence étatique qu’elle
représente la grande antinomie du nationalisme et du cosmopolitisme, on parle
en fait d’une réalité historique très déterminée.
Je vais revenir sur ce point pour finir. Mais avant, je veux souligner un point
essentiel: c’est qu’on parle d’individu, ici, au sens d’individu socialisé. Or cela a
15
E. DURKHEIM, Leçons de sociologie, p. 99.
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une implication majeure: c’est que l’étatisation suppose un processus intérieur
nouveau de socialisation, et donc une autre socialisation que celle des sous-
groupe dont l’État s’est décroché. Autrement dit, tout le processus n’est possible
que si les sous-groupes eux-mêmes se voient requalifiés – et qu’un certain type
de sous-groupe soit réélaboré pour les besoins de la cause. La théorie durkhei-
mienne des corporations professionnelles prend son sens ici. La corporation
n’est pas un sous-groupe comme les autres, parce que c’est un sous-groupe où la
socialisation organique de l’individualité trouve la possibilité de se conduire.
La théorie des corporations a été profondément retravaillée par des re-
cherches récentes (notamment M. Plouviez et F. Callegaro16), je ne m’y attarde-
rai donc pas. Simplement, je poserai la question: pourquoi la corporation pro-
fessionnelle? La réponse, ramenée à la formulation la plus condensée qu’on
puisse lui donner, est la suivante: parce que c’est dans l’exercice de la profession
que le foyer d’activité qu’est l’individu se réfléchit lui-même, et accède au degré
de conscience sociale le plus élevé de ce qu’il est en tant qu’individualité, tout
en participant à une tâche commune, complémentaire d’autres tâches. C’est en
tout cas ainsi que le sociologue voyait les choses à la fin du XIXème
siècle, et il
reste à savoir si, sans changer la structure du modèle, le jugement doit demeu-
rer aujourd’hui inchangé. C’est une question qui se pose directement au socio-
logue, pas au philosophe qui lit Durkheim. Celui-ci s’en tient au constat sui-
vant: la corporation durkheimienne est celle d’une profession qui ne se pense
en intériorité qu’en se rapportant à d’autres professions, et où l’idée
d’individualité agissante s’enrichit dans ce double rapport. Elle est alors un re-
lais de pensée essentiel pour l’État, qu’elle instruit et qui est instruit par elle. En
cela, elle ne fait pas partie des organes d’exécution. Elle n’a rien à voir avec
l’administration. Elle est plutôt ce qui, à un niveau moins élevé que la cons-
cience délibérante, mais en étant reliée à elle, participe de la délibération. C’est
pourquoi elle a d’ailleurs un rôle proprement politique. Rien n’est plus signifi-
catif à cet égard que la fonction que Durkheim lui confère de tenir lieu de col-
lège électoral.
On voit donc ce que pense l’État: l’individu, ce qui veut dire en l’occurrence la
socialisation accomplie à un degré supérieur aux groupes d’appartenance – sous
condition d’une appartenance à la profession, comme relais mental indispen-
sable à cet affranchissement. Une appartenance à la profession voulant dire:
rapport à soi comme agissant en commun, comme étant le foyer d’une action
16
M. PLOUVIEZ, Sociology as Subversion. Discussing the Reproductive Interpretations of Durkheim, «Journal of Classical Sociology», August/November, 12/2012, pp. 428-448; F. CALLEGARO, The Ideal of the Person. Recovering the Novelty of Durkheim’s Sociology. Part I: The Idea of Society and its Re-lation to the Individual, «Journal of Classical Sociology», August/November, 12/2012, pp. 479-512.
KARSENTI, Politique de Durkheim
SCIENZA & POLITICA
vol. XXVI, no. 51, 2014, pp. 41-62 58
qui s’accomplit corrélativement à d’autres actions – étant entendu que ce n’est
que dans ce rapport que l’idée d’individu prend quelque consistance, accède à
l’existence essentiellement mentale qui est la sienne.
Voilà pour le contenu de la pensée de l’État, uni aux corporations. Mainte-
nant, efforçons nous de répondre à la seconde question: comment se construit
cette pensée politique, prise comme pensée des gouvernants (et pas des gou-
vernés, ou du moins à laquelle les gouvernés ne participent que par le biais des
corporations)? Comment décrire, non plus son contenu, mais sa forme, c’est-à-
dire en l’occurrence son procès de formation?
Faisons une objection qui nous brûle les lèvres. En liant aussi étroitement
pensée et État, il semble qu’on soit projeté dans un rêve intellectualiste. Sur-
tout, il semble qu’on se voie contraint, non seulement de séparer la politique et
l’action, mais encore de reléguer au second plan l’action sociale elle-même,
pour ne considérer que la forme individuelle comme une pensée que l’individu
dégage de son action, pour ainsi dire en la quittant. Or ici encore, Durkheim
surprend les attentes de son lecteur. Penser pour la société, nous dit-il, ce n’est
pas «penser pour penser». Mais c’est précisément penser pour agir. C’est dans
cette expression que se concentre la difficulté. Qu’est-ce qu’une pensée pour
l’action? Dans une certaine mesure, on peut dire que Durkheim n’a rien cher-
ché d’autre, que tout le projet sociologique tient au sens qu’on doit donner à
cette figure. Le problème remonte d’ailleurs à aux prémisses de ce projet, au
statut de la «science sociale» comme point de jonction problématique où le
plus haut niveau de la théorie est censé venir toucher la pratique, et la guider
intérieurement, c’est-à-dire aussi l’altérer. On en trouve évidemment un écho
dans la sentence de la seconde préface de la Division du travail, répétée inlassa-
blement et devenue une sorte de lieu commun, sans être le plus souvent com-
prise dans ce qu’elle a de problématique, que la sociologie ne vaudrait pas une
heure de peine si elle ne servait l’action. À mon sens – et à la différence de
Comte – ce n’est pas dans son épistémologie, dans sa méthode scientifique, que
Durkheim a abordé le plus directement cette question : mais c’est, encore une
fois, dans sa politique (et aussi, mais c’est un point que je n’examine pas, dans
sa pédagogie).
Penser pour agir, est-ce exactement penser? Oui, à condition de séparer ce
genre de pensée de la pensée scientifique et des progrès de l’esprit. Je laisse de
côté la question délicate de savoir s’il faut qu’il y ait de la pensée pour la pensée
(ce que Durkheim appelle dans les Leçons de la «réflexion», ou de la «spécula-
tion»17), pour qu’il y ait de la pensée pour l’action, et je me borne à remarquer
que Durkheim les sépare expressément, signe que l’État n’a rien à voir avec les
17
E. DURKHEIM, Leçons de sociologie, p. 95.
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progrès de l’intelligence au sens strict. La comparaison entre la cité grecque, le
monde romain et le monde chrétien ne laisse à ses yeux subsister aucune ambi-
guïté: la pensée de l’individu n’est pas essentiellement liée à l’intensité de la ré-
flexion théorique, alors qu’elle est inséparable des relâchement des préroga-
tives des groupes secondaires par l’intervention d’une autorité souveraine, éle-
vée au-dessus d’eux, et que les individus regardent comme supérieure, dans la
mesure exacte où elle leur restitue leur forme individuelle (où elle «rachète»
l’individu aux groupes partiels qui l’ont comprimé, dit exactement Durkheim).
De ce point de vue, le christianisme est même un sommet, que ne retrouvera
sur le mode terrestre que la Révolution française: avec lui, l’homme en tant
qu’homme est posé comme fin dans son absoluité. Et cette fin est posée à la fa-
veur d’une pensée de l’autorité qui est de même nature que celle de la forme-
État - d’où une interrogation très singulière, qui naît dans Durkheim: qu’est-ce
que le christianisme implique politiquement, en tant qu’instanciation de
l’autorité souveraine corrélative de son élévation de l’individualité?
Mais alors, qu’est-ce donc que cette pensée qui n’a pas pour but de penser?
Et qu’est-ce que cet État délibérant, qui pense selon cette autre pensée que la
pensée «réfléchissante»? La réponse se laisse lire très difficilement dans les
textes. On la décèle dans la citation suivante:
«L’État est l’organe même de la pensée sociale. Dans les conditions présentes, cette pensée est tournée vers un but pratique, et non spéculatif. L’État, au moins en géné-ral, ne pense pas pour penser, pour construire des systèmes de doctrines, mais pour diriger la conduite collective. Il n’en reste pas moins que sa fonction essentielle est de penser»
18.
On voit que la formulation est embarrassée. Ce que Durkheim cherche à dé-
gager comme la détermination la plus aiguisée de la fonction étatique, c’est une
pensée qui se détermine comme pensée à l’état pratique, un type de pensée qui
s’articule spéculativement selon son rapport à l’action, et dont aucun moment
de construction ne s’abstrait de cette orientation qui l’éclaire de bout en bout et
lui donne, littéralement, son sens – c’est-à-dire à la fois sa signification et sa di-
rection. C’est ici aussi que le lien qu’on a relevé plus haut entre délibération et
résolution, le fait que délibérer et se résoudre, ou décider, soient du côté des
gouvernants deux actes enchaînés dans une même trame, inséparablement
spéculative et pratique, se comprend maintenant. En toute rigueur, il est faux
de dire que l’État, parce qu’il pense, n’agit pas. Il agit d’un genre d’action qui n’a
pas le caractère commun aux actions sociales accomplies dans la masse des
gouvernés. Son action tient en une résolution à agir, au terme d’une délibéra-
tion qui est bien une pensée. Notons au passage que Comte avait soulevé exac-
18
E. DURKHEIM, Leçons de sociologie, p. 87.
KARSENTI, Politique de Durkheim
SCIENZA & POLITICA
vol. XXVI, no. 51, 2014, pp. 41-62 60
tement ce problème, de ce qui de l’intérieur de la délibération, active son
propre terme. La force de Durkheim, c’est de lui avoir donner sa solution dans
le cadre d’une pensée complètement renouvelée de l’État; et conceptuellement
d’avoir fait de l’État le lieu de formation d’une pensée pratique, ou encore, si
l’on prend les choses dans l’autre sens, de la seule dimension de la pratique qui
puisse être dite non exécutoire, parce que constituée intrinsèquement par une
dynamique de pensée.
Mais pour comprendre cette solution, et pour se prémunir contre le carac-
tère de postulat théorique qu’elle risque de revêtir, il faut creuser un peu plus.
La question est: comment une pensée à l’état pratique est-elle possible? Elle
l’est, si et seulement si son contenu ne résout pas en une pure spéculation, la
tire vers la pratique en tant que telle. Elle l’est, si et seulement si ce qu’elle pense
ne se sépare à aucun moment de ce qui se pratique. Or tel est bien le cas, dès
lors qu’on a reconnu que ce que pense l’État, c’est l’individu. L’individu, non pas
comme un donné, un sujet dépositaire et détenteur de droits qu’il suffirait de
mettre au jour et d’analyser, mais l’individu comme un but qui se dessine à
même la pensée que les individus empiriques développent au cours de leurs ac-
tions communes – c’est-à-dire dans la vie sociale qui émerge de la confronta-
tion des différents sous-groupes et de leur soumission commune à un autorité
souveraine où se réfléchit leur coappartenance à une même totalité.
C’est là le point le plus original et le plus décisif de l’individualisme sociolo-
gique défendu par Durkheim, corrélat de sa théorie de l’État. L’individu, ou en-
core la personne, est la seule pensée pratique dont les hommes soient capables,
pour autant qu’ils agissent en commun, dans une société qui excède la totalisa-
tion des sous-groupes. La personne ne s’érige au centre de l’individualisme
qu’en ce sens pratique, et non spéculatif. «Ce qui est à la base du droit indivi-
duel, ce n’est pas la notion de l’individu tel qu’il est, mais c’est la manière dont
la société le pratique, le conçoit, l’estimation qu’elle en fait»19. Il faut prendre ici
l’enchaînement à la lettre: c’est en pratiquant la personne qu’on lui fournit son
contenu idéel, qu’on précise sa conception, qu’on définit la pensée qui s’y rap-
porte et que l’État travaille, ce qui explique du reste que ce contenu soit appelé
nécessairement à varier et à s’enrichir de nouvelles dimensions, imprévisibles à
partir de l’état présent des représentations. Loin qu’on aille de l’idée à l’action,
c’est l’action qui vient donner corps à l’idée, et la faire vivre comme idée suscep-
tible, à titre de valeur communément admise, d’orienter de nouvelles actions.
La théorie politique de Durkheim, on le voit, n’est pas une pièce ajoutée à sa
sociologie, guidée par des convictions qui ne seraient qu’extérieurement en
conformité avec le travail scientifique du sociologue. Elle n’est pas même
19
E. DURKHEIM, Leçons de sociologie, p. 102.
SCIENZA & POLITICA
vol. XXVI, no. 51, 2014, pp. 41-62 61
l’établissement des conditions politiques nécessaires à l’accomplissement d’un
tel travail, dans une société républicaine correctement agencée. Le lien entre la
sociologie et la politique durkheimienne est beaucoup plus profond, parce que,
conceptuellement nécessaire, il vient modifier l’idée même qu’on se fait
d’ordinaire de sa sociologie. Le rôle de l’État, en effet, ne se comprend que sur
fond d’une sociologie de l’action, d’où découle une sociologie des représenta-
tions. Si l’État entretient le culte de l’individu – et non pas, il faut le souligner,
sa croyance -, c’est au sens où il a affaire à une idée pratique, et où il s’efforce
d’aménager «le milieu dans lequel l’individu se meut» - par conséquent, au
sens où il conçoit et ordonne la mise en place de dispositifs institutionnels
permettant aux actions sociales, de plus en plus différenciées par la division du
travail, de s’articuler, tout en alimentant et en précisant la figure de la personne
qui préside à cette articulation. L’individualisme sociologique et pratique de
Durkheim n’a pas à proprement parler de commencement – comme si, à un
moment de l’histoire des sociétés, une représentation de l’individu avait émergé
et fixé sa norme pour l’avenir. Ou plutôt, il commence exactement au point où
l’autorité souveraine apparaît, au moment où les sociétés font l’expérience de la
politique, si balbutiante et inchoative puisse-t-elle être. Et ce mouvement n’a
pas non plus de terme. Bien plutôt, il fait toujours plus de place, sur fond de
développement des sociétés politiques, au concept d’humanité, qui correspond
en fait au procès infini de constitution et de complexification de la figure so-
ciale de la personne prise comme norme collective d’action.
Revenons justement, par ce biais, au rapport entre société et humanité. Au
cœur de cette conception à la fois pratique et spéculative de l’État, les difficultés
liées au concept d’humanité se précisent. On comprend en particulier que
Durkheim ait pu fermement soutenir qu’au-delà de l’État, l’humanité n’a pas de
sens – puisqu’au-delà de l’État tel qu’il le conçoit, rien n’apparaît à titre de dis-
positif où les actions d’où résulte la forme politique de l’humanité puissent ve-
nir s’inscrire. L’aménagement du milieu où la forme individuelle universelle-
ment partagée, ce support durkheimien du concept d’humanité, exige d’être ir-
rigué par des pratiques sociales effectives – par des actions se rapportant les
unes aux autres selon cette norme qu’elles viendraient à la fois appliquer et en-
richir, transformer en la réalisant, recréer en la pratiquant. Or penser cela, c’est
forcément penser dans la forme-État. En précisant bien: dans la forme que seule
la sociologie est à même de donner au concept d’État, dans la forme de l’État re-
créée sociologiquement.
On voit l’extrême tension dans lequel Durkheim mène sa réflexion: appa-
remment, mais ce n’est qu’une apparence tant qu’on n’a pas conduit l’analyse
qu’on vient de restituer, la valeur même qui préside à la justification de l’État
KARSENTI, Politique de Durkheim
SCIENZA & POLITICA
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enjoint de penser son dépassement. Or ce dépassement fait à son tour sentir la
nécessité de s’en remettre à une réalité fonctionnellement analogue à l’État pour
que la valeur qui a gagné son centre ne se perde pas dans le néant, ne se dissipe
pas en une pure idée, décrochée de toute pratique. Pour qu’on ne se mette pas,
en politique, à penser pour penser. À cet égard, un cosmopolitisme à bon
compte, une critique naïve de l’État, est la véritable rechute dans
l’intellectualisme: elle revient à appliquer la pensée réfléchissante là où il fau-
drait adopter la pensée à l’état pratique.
On ne niera pas l’évidence: une société humaine et rien qu’humaine est à
l’étroit dans le cadre étatique, qui réintroduit quoi qu’on fasse la scission que
Rousseau considérait indépassable, celle de l’homme et du citoyen. Mais a-t-on
le bon concept d’État quand on entérine cette scission? C’est ce que le socio-
logue, au fond, ne croit pas. À ses yeux, et pour autant qu’on conçoit correcte-
ment ce qu’est l’État, une société humaine universelle qui l’aurait prétendu-
ment dépassé se priverait du même coup de la seule puissance possible
d’aménagement du milieu, de la seule puissance d’articulation de l’action so-
ciale en fonction de la personne humaine. Et nierait l’humanité du même coup.
Disons-le d’une autre manière: si l’humanité n’équivaut pas à la société hu-
maine universelle, c’est que l’idée de société n’est pas réellement susceptible
d’universalisation. Ou plutôt, elle ne l’est qu’en pensée, et il faut qu’elle le soit
en pensée – mais alors, le prix à payer est lourd, puisque l’idée qui s’en trouve
produite se vide du caractère de société, c’est-à-dire de réalité. La difficulté, on
l’a compris tient au fait que l’illusion qui sous-tend l’antinomie moderne – celle
qu’on formule aujourd’hui en antinomie du cosmopolitisme et du nationalisme
- a quelque chose de nécessaire et d’inévitable. Les sujets sociaux des sociétés
développées ne peuvent pas ne pas penser l’humanité; les membres de la socié-
té politique (mais pas les membres qui composent le gouvernement, qui est
vraiment l’État) ne peuvent pas ne pas concevoir des fins qui dépassent leur
État; cette pensée, en tant que pensée, est non seulement légitime, mais requise
impérativement dans leur constitution morale. En un mot, elle est la marque de
leur progrès, ou encore, comme dit Durkheim dans le passage que je citais en
commençant, de leur engagement dans le procès de la civilisation. Pourtant, il
faut être clair sur ce point: en traduisant cette pensée en une société d’ordre su-
périeur à la leur, ils outrepassent le raisonnement leur permettant de poser des
fins dignes d’être poursuivies. Ils se mettent, encore une fois, à penser pour
penser, plutôt qu’à penser pour agir. Et ils dérogent ainsi à ce que la politique –
et non plus simplement la sociologie – exige d’eux.
SCIENZA & POLITICA, vol. XXVI, no. 51, 2014, pp. 63-85
DOI: 10.6092/issn.1825-9618/4629 ISSN: 1825-9618
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SCIENZA & POLITICA
per una storia delle dottr ine
A B S T R A C T
*****
Le premesse di questo saggio hanno origine in un workshop da me organizzato presso il Centre Marc Bloch di Berlino nel 2013, all’interno del gruppo di ricerca in filosofia. Un ringraziamento ai direttori del gruppo, Denis Thouard e Ayşe Yuva, per aver sostenuto questo progetto.
Il saggio è dedicato alla concezione durkheimiana della giustizia. Si mostra come la polarizzazione hobbesiana tra diritto e giustizia possa essere ritenuta paradigmatica per il pensiero politico moderno. Il contributo durkheimiano riformula l’alternativa hobbesiana, mettendo diversamente a tema la tensione costitutiva tra diritto e giustizia. La critica durkheimana al contrattualismo riconfigura l’ordine giuridico alla luce del concetto di solidarietà, ritenuto da Durkheim la premessa impensata all’obbligazione moderna. Il contrattualismo è la modalità moderna per pensare il rapporto tra società, individuo, proprietà e lavoro. Il contrattualismo è l’istanza a partire dalla quale osservare il rie-mergere di una diversa concezione della giustizia che, attraverso la nozione di contratto giusto, mette in discussione i presupposti formali su cui si è costituito. La giustizia sociale converge con la solidarietà risemantizzando il concetto stesso di obbligazione. PAROLE CHIAVE: Emile Durkheim; Solidarietà; Giustizia; Contratto; Obbligazione.
L’istituzione della giustizia. La solidarietà come obbligazione dei
moderni secondo Durkheim
The Institution of Justice. Solidarity as the Obligation of the
Moderns according to Durkheim
Nicola Marcucci
New School for Social Research - New York – LIER, EHESS - Paris [email protected]
This essay is dedicated to Durkheimian conception of justice. The Hobbesian polarization between law and justice is considered paradigmatic for modern political thought. The Durkheim contribution is a significant reformulation of Hobbes’ alternative, able to highlight differently the constitutive tension between law and justice. Durkheim’s criticism against contract theories reframes the juridical order trough the concept of solidarity, considered by Durkheim as the unthought premise to modern obligation. The contract theory, has to been considered as the modern way to think the relation between society, individual, property and work. Thus, contract theory becomes the claim allowing the emergence of a new conception of justice able to call into question - by the way of the no-tion of fair contract – the formal premises on which contract itself is grounded. So characterized, social justice join the notion of solidarity reframing the concept of obligation itself. KEYWORDS: Emile Durkheim; Solidarity; Justice, Contract; Obligation.
MARCUCCI, L'istituzione della giustizia
SCIENZA & POLITICA
vol. XXVI, no. 51, 2014, pp. 63-85 64
1. La giustizia istituita
Uno degli aspetti attorno al quale la storia del pensiero politico moderno si
sviluppa e contro la quale non smette di rivoltarsi è il divorzio che si opera al
suo interno tra diritto e giustizia. Se osservata da questo punto di vista, la storia
del pensiero politico moderno potrebbe rivelarsi come una lunga gigantoma-
chia, un ciclo alterno di occultamenti e disvelamenti del problema della giusti-
zia e del suo controverso rapporto con il diritto.
Il gesto inaugurale, la scintilla, di questa gigantomachia è ben rappresenta-
ta, dal contributo di Thomas Hobbes. Secondo Hobbes lo stato di natura non è
uno stato ingiusto in ragione della condizione di conflittualità assoluta che lo
definisce, lo stato di natura è uno stato pregiuridico e, in quanto pregiuridico,
estraneo alla distinzione tra giusto e ingiusto:
«To this war of every man against every man, this also is consequent; that nothing can be unjust. The notions of right and wrong, justice and injustice have there no place. Where there is no common power, there is no law: where no law, no injustice. Force, and fraud, are in war the two cardinal virtues. Justice, and injustice are none of the faculties neither of the body, nor mind. If they were, they might be in a man that were alone in the world, as well as his senses, and passions. They are qualities, that relate to men in society, not in solitude»
1.
La giustizia può essere pensata solo attraverso la società, o meglio, la società
non si limita ad amministrare la giustizia ma la istituisce. La questione che
quindi si apre è la seguente: quali sono le condizioni di questa istituzione della
giustizia? La risposta hobbesiana ha polarizzato la critica tra chi ritiene che la
sua istituzione richieda l’affermazione della trascendenza delle leggi di natura;
e chi ritiene che la giustizia possa essere istituita – e non soltanto postulata –
solo se accettiamo la sua condizione di assoluta artificialità.
Queste posizioni implicano un mutuo criticismo. Nel primo caso si ritiene
che l’istituzione (artificiale) della giustizia corrisponda, di fatto, con la sua neu-
tralizzazione e/o spoliticizzazione. La giustizia sarebbe tale solo se pensata at-
traverso la sua eccedenza costitutiva rispetto al diritto, se non altrimenti a ri-
schio di confondere giustizia e legalità. Nel secondo caso si ritiene che la giusti-
zia postulata dalla ragione come una legge (naturale), prima della sua istituzio-
ne, smentisca la condizione di eguaglianza nella quale i moderni, proprio a par-
tire da Hobbes, si pensano. L’eguaglianza degli uomini nello stato di natura, di-
versamente da quella antica, ovvero diversamente dall’eguaglianza dei cittadini
di fronte alla legge (della polis), consiste nell’eguaglianza degli uomini di fronte
all’assenza di una legge (di natura).
La polarizzazione hobbesiana di diritto e giustizia trova, inoltre, un equiva-
lente dentro nell’opposizione tra volontà e legge e nel tentativo di sintesi che le
1 T. HOBBES, Leviathan, Oxford, Oxford University Press, XIII, 13, p. 85.
SCIENZA & POLITICA
vol. XXVI, no. 51, 2014, pp. 63-85 65
teorie dell’obbligazione vogliono fornirne. Perché un individuo, la cui egua-
glianza con i suoi simili allo stato di natura è postulata in ragione dell’assenza
di una legge comune, dovrebbe essere capace di sottomettersi a una legge co-
mune? Che ragioni debbono mobilitarsi per concepire questa sottomissione vo-
lontaria e individuale a una legge collettiva? Pensare che tali risorse siano ri-
scontrabili a livello collettivo, contraddirebbe il postulato fondamentale
dell’eguaglianza naturale di fronte all’assenza di una legge e quindi l’indi-
vidualismo che caratterizza lo stato di natura. Infatti, secondo Hobbes, nello
stato di natura, il collettivo non esiste, ma è disperso in una moltitudine
d’individui, ovvero in un insieme privo di unità reale2. Bisogna quindi ritenere
che queste risorse siano riscontrabili a livello individuale. L’individualismo
moderno contiene dentro di sé il proprio antidoto, la politica dei moderni ap-
pare quindi fondata su una concezione omeopatica della razionalità politica.
Pensare politicamente, per un moderno, se si accetta questo uso paradigma-
tico del pensiero di Hobbes, non significa quindi pensare delle regole di azione
collettiva, ovvero pensare prassiologicamente, quanto giustificare razionalmen-
te (quindi scientificamente) la sottomissione di una volontà libera a una legge
assoluta. Le moderne teorie dell’obbligazione, da Hobbes a Kant, si sviluppano
tutte intorno a questa problematica. È un passaggio importante che vale la pena
sottolineare. Se il diritto moderno concepisce la polarizzazione tra giustizia e
diritto come propria condizione, quindi si sviluppa a partire dalla scissione dei
propri principi fondatori, assumendo una forma essenzialmente antinomica; la
politica moderna concepisce l’obbligazione come una forma specifica di razio-
nalità capace di legare volontà e legge, assumendo un forma essenzialmente
sintetica. Per questa ragione, la messa in discussione del divorzio moderno tra
giustizia e diritto comporta una rivisitazione del problema dell’obbligazione e,
come intendo mostrare, questa intuizione rappresenta un tratto distintivo della
riflessione durkheimiana.
Ritorniamo, per il momento, all’opposizione tra giustizia e diritto. Ai fini
della mia riflessione non è necessario situarsi nell’alternativa proposta dalla cri-
tica hobbesiana, quella tra diritto naturale e diritto positivo, quanto constatare
come essa, proprio in quanto moderna, ha pensato la questione della giustizia
come una scelta da effettuare dentro a questa polarità3. La necessità di scegliere
tra primato della giustizia e primato del diritto è esattamente quello che fa di
2 N. MARCUCCI, La souveraineté en personne. Pour une histoire conceptuelle de la personnification
du collectif, in L. KAUFMANN - D. TROM (eds), Qu’est-ce qu’un collectif ? Du commun au politique, Paris, Les Éditions de l’EHESS, 2010, pp. 75-102. 3 È il valore paradigmatico dell’alternativa ad avere qui valore. Brandom, ad esempio, si riferisce alla
stessa alternativa nella forma dell’opposizione tra diritto naturale in Pufendorf e convenzionalismo in Hobbes: R. BRANDOM, Making It Explicit: Reasoning, Representing, and Discursive Commitment, Cambridge, Harvard University Press, 1994, pp. 46-50.
MARCUCCI, L'istituzione della giustizia
SCIENZA & POLITICA
vol. XXVI, no. 51, 2014, pp. 63-85 66
noi dei moderni; almeno in senso hobbesiano. D’altro canto, l’ambizione a pen-
sare fuori da questa polarità ha prodotto diverse strategie argomentative. A tito-
lo puramente euristico farò riferimento ad alcune di esse.
La necessità di collocarsi fuori da questa polarità - la riscoperta del politico
nel XX secolo nell’opera di autori come Hannah Arendt o Leo Strauss ne sono
una prova – ripensando il primato della politica (aristotelica) in un caso o della
domanda filosofica (platonica) sulla politica nell’altro, hanno rappresentato
due di queste strategie. Essere moderni attraverso gli antichi è apparso a molti
l’unico modo per ripensare la giustizia nell’epoca della sua giuridicizzazione e
della sua spoliticizzazione.
Un'altra strategia per pensare fuori da questa polarità è stata quella che ha
messo a tema la moderna tensione costitutiva tra giustizia e diritto. Non è un
caso se le prime pagine di Per la critica della violenza di Walter Benjamin si
aprono proprio intorno all’alternativa sopra descritta tra diritto naturale e dirit-
to positivo. Giustizia giusnaturalista e diritto giuspositivista sono accomunati
da Benjamin in virtù della loro incapacità nel pensare la violenza.
L’opposizione di giustizia e diritto è compresa nella forma di un’antinomia kan-
tiana secondo cui una posizione – la violenza giustificata secondo il regno dei
fini – o l’altra – la violenza giustificata secondo il regno dei mezzi – si legittima
solo attraverso l’insostenibilità della posizione avversa. Come è noto la pensabi-
lità di questa tensione fuori dall’antinomia moderna tra diritto naturale e dirit-
to positivo può, secondo Benjamin, darsi solo messianicamente, ovvero sovver-
tendo l’assunto al quale l’istituzione hobbesiana della giustizia intendeva forni-
re una legittimazione teorica e una garanzia politica: la separazione moderna
tra potere spirituale e potere temporale.
Tuttavia, sappiamo che tanto il ritorno moderno agli antichi, quanto la rie-
mersione della teologia politica, non possono essere considerati solo come ri-
sposte alla crisi del liberalismo moderno, ma sono state il frutto di una rifles-
sione originatasi sulle macerie delle catastrofi che hanno travolto l’Europa nella
prima e nella seconda guerra mondiale. Tanto le aspettative rivoluzionarie,
quanto la violenza della guerra e lo sterminio di massa, hanno imposto il biso-
gno di una riflessione capace di rendere conto della neutralizzazione moderna
della politica, oltre la polarizzazione moderna tra giustizia e diritto.
La contemporaneità di questi autori ci appare oggi evidente. Da un lato, il
sentimento di spoliticizzazione contemporaneo, almeno in Europa, è rafforzato
dalla convinzione diffusa, che forme di governance neoliberale abbiano neutra-
lizzato di fatto l’agibilità politica delle istituzioni europee. La politica, questo
appare il convincimento tacito o esplicito di molti, deve essere pensata fuori dal
cono d’ombra delle sue istituzioni perché – sebbene le attese rivoluzionarie sia-
SCIENZA & POLITICA
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no ben ridotte rispetto agli anni venti del secolo scorso – il dissidio tra giustizia
e diritto nell’Europa contemporanea è, oramai, insanabile.
Dall’altro lato, il progetto Europeo è inseparabile dalla memoria dei traumi
che le due guerre mondiali hanno prodotto e dalla convinzione, diffusasi nel
secondo dopoguerra, secondo cui l’impoliticità delle istituzioni europee avreb-
be dovuto essere una condizione essenziale per il progetto di pace europea, uni-
ca forma di garanzia al male legale che nella prima metà del novecento si era
prodotto in seno al dissidio tra giustizia e diritto.
Il rischio di pensare la politica europea esclusivamente attraverso la sua sot-
trazione alle istituzioni, giustificando paradossalmente questo bisogno con la
constatazione della latitanza di fatto di quelle stesse istituzioni, mi sembra un
modo possibile per nominare l’impasse dentro la quale ci troviamo. La circola-
rità di questo argomento è evidente.
Mi pare egualmente diffusa l’urgenza percepita da molti di superare questa
impasse. Tuttavia, per farlo, non si può dimenticare che la tensione tra giustizia
e diritto, fuori dalla quale non possiamo dirci moderni, è ancora il problema
che dobbiamo pensare per concepire le nostre istituzioni, tanto quelle esistenti,
quanto quelle che verranno. Le domande che si aprono su questo bisogno sono
molte. Come tematizzare questa tensione fuori dalla polarizzazione hobbesia-
na ma dentro alle condizioni moderne? Ovvero, come pensare l’istituzione del-
la giustizia senza, in tale modo, produrre una fuoriuscita, né greca né teologi-
co-politica, dalle condizioni della modernità politica? Come pensare una isti-
tuzione della giustizia non hobbesiana? La modernità politica contiene dentro
di se risorse sufficienti (teoriche, politiche e morali) per poter essere pensata
oltre il proprio dissidio fondamentale tra giustizia e diritto? La risposta a questa
domanda non è certamente scontata. Ci sono, evidentemente, molte e buone
ragioni per dubitarne. Tuttavia, ve ne sono ancora di più per convincersi che la
circolarità di cui sopra non è foriera di cambiamenti. Vale quindi la pena pro-
varci.
Quello che intendo proporre, è un’interpretazione della riflessione dur-
kheimiana, in particolare del rapporto con cui quest’autore pensa il rapporto
tra solidarietà e giustizia sociale, suggerendo che questa abbia rappresentato
esattamente un tentativo per riflettere sulla tensione tra diritto e giustizia fuori
dalla polarizzazione moderna (hobbesiana), ma all’interno delle condizioni
della modernità politica.
MARCUCCI, L'istituzione della giustizia
SCIENZA & POLITICA
vol. XXVI, no. 51, 2014, pp. 63-85 68
2. L’obbligazione dei moderni e l’impensato della solidarietà
La critica che Durkheim rivolge al contrattualismo nella Divisione del lavoro
sociale è un aspetto molto discusso della sua opera. Frequentemente l’accento è
stato posto sulla contrapposizione durkheimiana al volontarismo e all’indi-
vidualismo contrattualista. Sebbene centrale, quest’aspetto è insufficiente a
comprendere l’ambizione teorica di Durkheim e rischia di ridurre il suo gesto
alla sola opposizione alla tradizione contrattualista, associando il suo posizio-
namento critico a una versione sociologicamente aggiornata di uno dei topoi
del pensiero politico ottocentesco: la critica del contrattualismo.
L’originalità della posizione durkheimiana deve piuttosto essere illustrata
evidenziando come la solidarietà organica – la solidarietà moderna – non sia
l’opposto del contratto, ma sia la sua condizione di possibilità4. La sociologia
durkheimiana non deve essere pensata come una filosofia politica della solida-
rietà, che opporrebbe normativamente il progetto di una società organica e so-
lidale a quello di una società individualista e contrattuale, la sociologia rappre-
senta piuttosto la possibilità della scienza di concepire la solidarietà come un
fatto sociale, e quindi come una condizione della politica moderna. Senza que-
sto passaggio si perde di vista il compito, propriamente sociologico, di operare
una distinzione tra forme normali e forme anormali di divisione del lavoro, ov-
vero si perde il gesto proprio della critica sociologica durkheimiana e la torsio-
ne che essa impone al concetto stesso di normatività.
A questo proposito s’impone quindi un breve richiamo a quanto Durkheim
ci dice del rapporto tra solidarietà e contrattualismo nella Divisone del lavoro
sociale.
È grazie al diritto che, per Durkheim, la natura della solidarietà diventa visi-
bile e quindi intellegibile. La solidarietà moderna si rende intellegibile grazie al
carattere restitutivo del diritto. Nel diritto restitutivo la sanzione perde il suo
carattere espiativo per acquisire una funzione socialmente integrativa. La san-
zione moderna si caratterizza quindi per una «remise en état» che permette, in
seguito a una violazione, di riportare una situazione alla «sua forma normale».
Tuttavia, la sanzione, pur rivelandoci la funzione della solidarietà, non ne
esaurisce la comprensione. Per farlo, suggerisce Durkheim, bisogna non solo
comprendere come un determinato rapporto sociale sia ristabilito ma quando
esso si istituisca come tale. Bisogna quindi comprendere cosa sottenda la possi-
bilità di quelle regole che caratterizzano le sanzioni restitutive del diritto mo-
derno. Queste regole non operano tra individuo e società direttamente, ma me-
diatamente, collegando delle parti della società tra loro. In questo senso, men-
4 A partire da questo passaggio per semplificare - visto che la mia riflessione è dedicata alla solida-
rietà moderna - userò il termine solidarietà per riferirmi alla solidarietà organica.
SCIENZA & POLITICA
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tre il diritto repressivo rivela come la coscienza individuale sia legata alla co-
scienza collettiva senza l’intervento di un mediatore, il diritto restitutivo opera
dentro a questo legame attraverso la mediazioni di corpi intermedi. Questi
corpi intermedi sono corpi di professioni, ovvero associazioni di lavoratori. Le
condizioni giuridiche moderne sono quindi determinate dalla divisione del la-
voro, ovvero da quel fenomeno che rende necessario un modalità associativa
mediata.
Se la solidarietà moderna si caratterizza quindi per il suo carattere mediato,
la natura di questa mediazione può definirsi in due modi che Durkheim chia-
ma negativi o positivi. I legami negativi possono sussistere tanto tra le cose e le
persone quanto tra le persone e loro stesse. Nel primo caso si tratterà di diritti
reali, mentre nel secondo di diritti personali. Ambedue queste forme giuridiche
operano attraverso una forma di solidarietà negativa, che secondo Durkheim
non potrebbe, propriamente parlando, nemmeno essere definita come una vera
forma di solidarietà. Essa garantisce una sorta di principio di non ingerenza tra
parti, siano essi oggetti o persone. La solidarietà negativa, piuttosto che legare
delle parti tra loro le separa e questa mutua separazione garantisce un forma
specifica di relazione sociale riscontrabile tanto dei diritti reali quanto nei dirit-
ti personali. Questa solidarietà negativa che sottende ai diritti di proprietà de-
gli individui sugli oggetti e ai diritti individuali sulla propria persona, non è pe-
rò capace di produrre una reale integrazione tra le parti e quindi di qualificare
la solidarietà moderna. Essa deve essere piuttosto pensata come «le cote négatif
de toute espèce de solidarité»5. In questo senso essa è il sintomo che ci lascia
ipotizzare l’esistenza di un diverso tipo di solidarietà nella società moderna.
Questa distinzione permette a Durkheim non solo di affermare l’esistenza di
un tipo positivo di solidarietà, ma suppone che il modo in cui il pensiero giuri-
dico e politico moderno ha pensato l’individuo debba essere interamente rivisi-
tato. La solidarietà positiva è tale solo se ci indica un diverso modo di essere in-
dividui e questo può essere giustificato soltanto riqualificando integralmente il
modo in cui la modernità politica ha tradotto giuridicamente il rapporto
dell’individuo a se stesso attraverso il diritto individuale e il diritto di proprietà.
È importante comprendere questo movimento in tutta la sua ambizione6.
L’ordine giuridico moderno postula l’esistenza dell’individuo attraverso il dirit-
to che questo esercita su se stesso e sulla proprietà. Postulato questo diritto, la
natura del legame sociale non può essere pensata se non nella forma contrat-
tuale. La sociologia mostra come la forma contrattuale rappresenti
5 E. DURKHEIM, La division du travail social (1893), Paris, PUF, 1967, p. 88.
6 A questo proposito rimando al libro di prossima uscita di FRANCESCO CALLEGARO intitolato: La
science politique des modernes. Durkheim, la sociologie et le projet d’autonomie.
MARCUCCI, L'istituzione della giustizia
SCIENZA & POLITICA
vol. XXVI, no. 51, 2014, pp. 63-85 70
«l’expression juridique de la cooperation» e suppone la possibilità di poter
comprendere diversamente la natura di questa cooperazione. In questo senso la
sociologia riapre il problema moderno dell’obbligazione.
Non si tratta di criticare la natura individualista e volitiva del contratto, sug-
gerendo che l’unico modo per pensare la giustizia consista nell’oltrepassare le
condizioni della sua spoliticizzazione moderna. Questo gesto, che potrebbe ca-
ratterizzare la tradizione marxista, sembra essere destinato ad essere ricattura-
to, secondo Durkheim, dentro alla polarità moderna tra giustizia e diritto e
quindi, nonostante la radicalità della sua intenzione, non riesce a pensare la
tensione costitutiva che lega giustizia e diritto. L’unico modo per pensare que-
sta tensione, secondo Durkheim, consiste nell’individuare una diversa modalità
per comprendere l’obbligazione dei moderni. La solidarietà è il nome di questa
diversa modalità.
Come pensare questa diversa modalità dell’obbligazione moderna? Un pri-
mo modo è sicuramente quello sviluppato da Durkheim nel capitolo della Divi-
sione del lavoro sociale intitolato solidarietà organica e contrattuale. La solida-
rietà, ci dice Durkheim in queste pagine, è inconciliabile con il contrattualismo,
perché nel patto si assiste a una sorta di unione immediata di tutta le volontà
mentre, come osservato in precedenza, la solidarietà moderna si caratterizza
proprio per il fatto che la dipendenza morale dell’individuo al collettivo, assu-
me una forma necessariamente mediata da corpi secondari. Divisione del lavo-
ro e contrattualismo sono dunque due ipotesi inconciliabili.
Allo stesso modo, anche la concezione protosociologica di contratto propo-
sta da Herbert Spencer, risulta incapace di collocarsi all’altezza del problema
dell’impensato dell’obbligazione moderna. La frammentazione spenceriana del
contratto sociale in una serie di contratti particolari ha il merito di non pensare
l’accordo nella forma di una sublimazione della volontà particolare in quella
collettiva, ma affida la possibilità dell’accordo alla «spontaneità degli interessi
individuali»: «En un mot la société ne serait que la mise en rapport d’individus
échangeant les produits de leur travail, et sans qu’aucune action proprement
sociale vienne régler cet échange»7.
Questa spontaneità dell’accordo, presuppone una concezione dell’individuo
comune a quella contrattualista e rappresenta quindi un altro nome della soli-
darietà negativa di cui sopra. Diversamente da quanto proposto dai teorici del
contratto bisogna invece mostrare come il problema sociologico
dell’obbligazione, ovvero l’esistenza stessa di una solidarietà positiva, implichi
una risemantizzazione complessiva dei concetti del diritto moderno che arrivi a
7 E. DURKHEIM, La division du travail social, p. 180.
SCIENZA & POLITICA
vol. XXVI, no. 51, 2014, pp. 63-85 71
interrogare il suo dissidio fondativo con la giustizia8. Solo una volta compiuto
per intero questo movimento sarà possibile capire quali siano le conseguenze
politiche della solidarietà, ovvero quale sia l’effetto della torsione che la socio-
logia riesce a imporre al concetto di obbligazione.
Il testo nel quale Durkheim illustra in tutta la loro ampiezza le conseguenze
teoriche di questa trasformazione sociologica del concetto di obbligazione sono
le Lezioni di sociologia. In special modo, la seconda parte del volume (X-XVIII)
si apre con una rivisitazione del concetto d’individuo e proprietà per poi mo-
strare come la trasformazione imposta dalla sociologia alla comprensione di
questi concetti determini una diversa concezione della giustizia e del suo rap-
porto al diritto.
3. La società come condizione dell’individualismo e della proprietà
La seconda parte delle Lezioni di sociologia, a partire dal capitolo X, sembra
seguire, la classica scansione espositiva delle teorie contrattualiste: individuo
(X), proprietà (XI-XIV), contratto (XV-XVIII). In realtà, questa complementari-
tà espositiva fa il paio e rafforza la radicale torsione che l’analisi sociologica
durkheimiana impone alla concezione del diritto e al suo rapporto con la giu-
stizia.
L’analisi di Durkheim si apre su una costatazione: vi sono dei doveri che
prescindono, apparentemente, dal radicamento di un individuo in una colletti-
vità sia essa un gruppo, la famiglia, l’associazione o lo Stato. Questi doveri rap-
presentano l’espressione più elevata della sfera dell’eticità, sono quelli che ab-
biamo nei confronti della persona umana. Grazie al «renversement de la hie-
rarchie des devoirs»9 prodottasi con il cristianesimo, l’individualismo diviene la
caratteristica propria del mondo moderno. Il primo dovere, «il più imperativo»,
della morale moderna è quindi divenuto la salvaguardia della vita dell’uomo, in
quanto condizione stessa di ogni altro bene. L’analisi sociologica di questo do-
vere, presuppone di comprendere come esso si sia incarnato nella regola che
proibisce l’omicidio.
8 A riguardo di questa trasformazione imposta dalla sociologia alla concettualita’ giuridica e politica
moderna rimando a: H.-P. MÜLLER, Wertkrise und Gesellschaftsreform. Emile Durkheims Schriften zur Politik, Stuttgart, Enke, 1983; M. RICCIARDI, La società come ordine. Storia e teoria politica dei concetti sociali, Macerata, Eum, 2010; J. TERRIER, Visions of the Social. Society as a Political Project in France 1750-1950, Leiden & Boston, Brill, 2011; B. KARSENTI, D'une philosophie à l'autre. Les sciences sociales et la politique des modernes, Paris, Gallimard, 2013. 9 E. DURKHEIM, Leçons de sociologie, Paris, Puf, 1950, p. 143. Qui come nelle seguenti citazioni, no-nostante la numerazione faccia riferimento all’edizione francese, riporto la traduzione italiana di quest'opera a cura di F. Callegaro e N. Marcucci, di prossima uscita nella collana Sociologica presso l’editore Orthotes con il titolo: Fisica del diritto e dei costumi. Per una teoria della morale e dell’organizzazione morale.
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Mostrando come il tasso di omicidi negli ultimi decenni si sia considere-
volmente ridotto, Durkheim mostra come la regola che proibisce l’omicidio si
rinforzi nel corso della civilizzazione. Tuttavia, individuando nello sviluppo
dell’individualismo la ragione del rafforzamento di questa regola, lasceremmo
irrompere nella descrizione del fenomeno un postulato normativo. Diversa-
mente, Durkheim ipotizza che tale rafforzamento sia legato alla riduzione di
una concezione polemologica dello Stato, fondata sull’adesione mistica
dell’individuo al gruppo, ovvero su una sua adesione non mediata. La trasfor-
mazione del rapporto alla statualità, implica una diminuzione della violenza e,
a sua volta, questa fonda la possibilità che la salvaguardia della vita umana sia
elevata a principio costitutivo del mondo moderno e legittima la credenza (al-
trimenti postulata normativamente) che questo principio costitutivo contenga
in sé una forza sufficiente per frenare gli istinti omicidi.
È quindi nella trasformazione della statualità moderna che si radica
l’emergere della concezione moderna dell’individuo. Durkheim propone in
questo modo un’inversione dell’argomento individualista. L’individuo non è –
come vorrebbero le moderne teorie dell’obbligazione - il principio logico neces-
sario per giustificare la libera sottomissione alla legge, quanto il risultato di una
riqualificazione complessiva dei rapporti sociali operatasi nello Stato moder-
no10.
Tuttavia, questa trasformazione e la riqualificazione determinata dal cri-
stianesimo non sono sufficienti a comprendere l’emergere dell’individualismo.
In questo senso un altro assunto logico essenziale del moderno pensiero politi-
co deve essere ripensato, quello che vede nella proprietà privata il risultato
dell’attività umana e che quindi pensa la proprietà al pari dello Stato moderno,
come un prodotto dell’individualismo piuttosto che come una sua premessa es-
senziale.
Questo presupposto proprio al liberalismo moderno non è smentito, secon-
do Durkheim, nemmeno da una parte consistente della tradizione socialista
che, seppure riconoscendo nell’accumulazione originaria un’ideologia espro-
priativa, riconduce al lavoro non espropriato il luogo costitutivo del valore.
L’errore di questo argomento, secondo Durkheim, consiste nell’individuare del-
le cause oggettive che permettano di pensare il valore della proprietà come una
relazione diretta dell’individuo (nel caso del liberalismo) o della classe (nel caso
10 Sulla concezione dello Stato sviluppata da Durkheim nei capitoli precedenti delle Lezioni di socio-logia rimando il lettore al testo di B. Karsenti presentato in questo numero di Scienza & Politica: Politica di Durkheim. Società, umanità, Stato, infra. Sempre sul tema della concezione durkheimia-na dello Stato si veda: S. LUKES, The Sociology of Law and Politics, in S. LUKES, Emile Durkheim. His Life and Work. A Historical and Critical Study, Stanford, Stanford Universy Press, 1973, pp. 255-276; A. GIDDENS, Durkheim’s Political Sociology, in A. GIDDENS, Politics, Sociology and Social Theory. Encounters with Classical and Contemporary Social Thought, Stanford, Stanford University Press, 1995, pp. 78-115; S. STEDMAN JONES, The Thinking State: Power and Democracy, in S. STEDMAN JONES, Durkheim Reconsidered, Cambridge, Polity Press, 2011, pp. 167-182.
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di una parte della tradizione socialista) all’oggetto, piuttosto che come una re-
lazione socialmente mediata. Pensando il lavoro come forma stessa della rela-
zione sociale, modalità propria alla trasformazione della natura in cultura e
quindi elemento dentro al quale le relazioni sociali si danno nella loro univer-
salità produttiva, si suppone che attraverso un’attività umana si possa stabilire
un continuum tra individuo, oggetto e valore. La fallacia di questo argomento
consisterebbe quindi nel voler pensare una rapporto sintetico (il valore come
prodotto sociale) a partire da una relazione analitica, quella tra attività umana e
oggetto. Questa “deduzione della cosa dalla persona” è invece impensabile se-
condo Durkheim senza l’introduzione di un terzo elemento di mediazione, ov-
vero senza una istanza che ne permetta la sintesi.
La questione che quindi si apre concerne la natura di questa istanza capace
di operare una sintesi tra persona e oggetto. Ancora una volta è attraverso
l’apparente accettazione di uno dei presupposti fondativi delle moderne teorie
dell’obbligazione che Durkheim pensa che sia possibile individuare questo
elemento di sintesi. Questo elemento consiste, infatti, nella volontà. Come sta-
bilito da Kant nella Metafisica dei costumi – non si dimentichi che il titolo di
queste lezioni di Durkheim è Fisica dei costumi e del diritto – la proprietà è
fondata su un atto di volontà, perché solo la volontà può stabilire un rapporto
all’oggetto durevole perché capace di sottrarsi alle condizioni trascendentali
dello spazio e del tempo.
Questa messa sotto tutela kantiana della nozione di proprietà attraverso il
concetto di volontà si fonda sul presupposto metafisico del dualismo tra mente
e corpo. Solo pensando la volontà come una facoltà sottratta alle condizioni
proprie della realtà materiale – e quindi kantianamente alle condizioni tra-
scendentali di spazio e tempo – si può infatti ritenere che la volontà possa for-
nire un valido fondamento per la nozione di proprietà.
Ciononostante, dietro all’apparente accettazione di questo principio fonda-
mentale della metafisica moderna, Durkheim sviluppa un argomento che, co-
me nel caso della sua rivisitazione dell’individualismo, ne riformula radical-
mente le condizioni. Non si tratta, infatti, di dimostrare che la volontà sia effet-
tivamente libera e quindi non sottoposta alle leggi che presiedono al mondo
fisico, si tratta piuttosto di costatare che questa fiducia nel fatto che la volontà
garantisca una modalità di affrancamento dalla realtà fisica, prima di essere un
assunto della metafisica moderna, è una credenza diffusa. Questa credenza
produce anzitutto un rispetto per tutti quegli atti nei quali la volontà «si è af-
fermata conformemente al proprio diritto»11.
11 E. DURKHEIM, Leçons de sociologie, p. 159.
MARCUCCI, L'istituzione della giustizia
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Per illustrare questo diritto, Durkheim si richiama nuovamente a Kant, at-
traverso una citazione che è utile riportare integralmente:
«Quando dichiaro (verbalmente o nei fatti) di volere che qualcosa di esteriore diven-ga mio, dichiaro che ognuno è obbligato ad astenersi dall'oggetto sul quale si porta così la mia volontà. Ma questa pretesa presuppone che, reciprocamente, mi ricono-sca obbligato nei confronti di ogni altro ad astenermi in egual misura dal ‘proprio esteriore' di ognuno. Non sono dunque tenuto a rispettare ciò che ognuno dichiara proprio, se l’altro non mi garantisce da parte sua che si condurrà nei miei confronti secondo lo stesso principio (VIII)»
12.
Sebbene questo principio kantiano affermi la necessaria mutualità che si
stabilisce tra la difesa della mia proprietà e la tutela della proprietà altrui, que-
sta concezione dell’obbligazione sembra riprodurre quel concetto di solidarietà
negativa descritto da Durkheim nella Divisione del lavoro sociale. L’obbligo
sembra cioè fondato sulla reciproca astensione dalla sfera d’azione dell’altro e
non su un principio positivo. Per superare questa dimensione puramente nega-
tiva, si deve quindi ipotizzare l’esistenza di una volontà collettiva capace di
fondare la proprietà: «Affinché gli uomini siano fondati nel voler appropriarsi
delle cose individuali, è necessario che le cose siano originariamente possedute
da una collettività»13.
Durkheim mostra come la risposta a questa problematica sia individuata da
Kant nel diritto universale che gli uomini hanno al possesso della terra. Se la
terra fosse infinita, questo primigenio diritto collettivo non potrebbe darsi per-
ché l’umanità sarebbe condannata a disperdersi e non toccherebbe mai, per co-
sì dire, i confini del proprio volere. Al contrario, la condizione di finitezza del
globo, la sua sfericità, impone di ipotizzare un primato dell’occupazione collet-
tiva della terra sull’esercizio volitivo della proprietà. Se in questo modo Kant
sposta il problema del diritto di proprietà su un piano, secondo Durkheim più
solido rispetto a chi intende fondarla sull’attività umana, ciononostante,
l’argomento kantiano è esposto a una contraddizione patente, che Durkheim
non esita a definire lo «scandalo logico» della teoria kantiana della proprietà.
Lo «scandalo logico» kantiano consiste nel derivare questo diritto primige-
nio alla proprietà, prima della sua istituzione volitiva, dalla forza
dell’usurpazione materiale, ovvero da un supposto diritto del primo possidente.
In questo modo si contraddice però la possibilità d’individuare nella volontà il
carattere distintivo della proprietà perché quest’ultima, in ultima istanza, viene
fondata su un fatto materiale. Al contrario, l’assunto kantiano va in certo modo
radicalizzato, secondo l’espressione icastica di Durkheim: «Proprio perché
12
Ibidem. 13
Ibidem.
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l’atto di volere è un atto mentale, l’equilibrio delle volontà individuali deve esse-
re esso stesso mentale, cioè morale»14.
Ancora una volta è l’elemento terzo della sintesi tra persone e cose a latitare
nelle teorie moderne della proprietà. Se un autore come Rousseau dimostra una
notevole sensibilità rispetto a questa problematica, nemmeno lui riesce a pen-
sare il valore se non come un equilibrio tra la natura dell’uomo e quella delle
cose. Durkheim sostiene che questo radicamento del valore nell’equilibrio tra
persone e cose sia fondato su di «un’ipotesi priva di realtà» in quanto
quest’equilibrio è mobile e non stabile come sembra lasciar intendere Rous-
seau.
Si tratta quindi di individuare un principio terzo, capace di fornire una me-
diazione tra l’oggetto e la persona. Durkheim mostra come questo principio
non pertenga alla natura della cosa appropriata ne, tantomeno, alle diverse
modalità di utilizzo degli oggetti sancite dal diritto. Ogni qualificazione positi-
va della proprietà, sia essa fondata sulla natura della cosa o su una pratica, non
riesce, infatti, a rendere conto del fatto che la proprietà si caratterizza per la sua
natura esclusiva. Un oggetto è posseduto da qualcuno perché esclude il posses-
so di chiunque altro, sia esso un individuo o una collettività. Diviene quindi ne-
cessario individuare una modalità descrittiva capace di qualificare positivamen-
te questa separazione della cosa appropriata dal dominio altrui.
La teoria durkheimiana della proprietà si fonda sull’intuizione secondo cui
questa positività della sottrazione sia sociologicamente riscontrabile nel tipo
specifico di sottrazione alle cose dal mondo di cui godono gli oggetti religiosi.
Gli oggetti sacri si caratterizzano in una duplice maniera: da un lato si defini-
scono grazie alla loro separazione dalle cose profane e dall’altro sono capaci di
trasmettere il proprio carattere sacrale alle persone con cui entrano in contatto
tramite una forma particolare di contagio.
La cosa appropriata, come la cosa religiosa, si caratterizza tanto per la sua
capacità di essere sottratta all’uso comune, quanto perché sembra che una «sor-
ta di comunità morale» tra la cosa e la persona si fondi su una specie di conta-
gio: «Sembra, dunque, che la cosa appropriata sia solo un tipo, una specie par-
ticolare delle cose religiose»15. Associando la proprietà alla cosa sacra Durkheim
intende superare le impasse delle concezioni filosofiche moderne della proprie-
tà. Da un lato evita di giustificare la proprietà attraverso l’attività produttiva,
riducendo così il legame sintetico tra una cosa e una persona a un legame anali-
tico. Dall’altro, pur ammettendo un legame morale che lega la cosa alla persona
(il contagio tra cosa sacra e persona), non contraddice la natura morale di que-
14
Ivi, p. 165. 15
Ivi, p. 176.
MARCUCCI, L'istituzione della giustizia
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sto legame (come invece fanno le teorie liberali fino allo stesso Kant, indivi-
duando un momento primordiale capace di fondarlo nella natura delle cose
stessa attraverso un diritto naturale del primo possidente). La sacralizzazione
indica la modalità propria dell’appropriazione, in quanto sacralizzando
un’oggetto di fatto ce ne appropriamo e, viceversa, l’appropriazione nasce in
seno alla distinzione tra sacro e profano.
Tuttavia, per quanto attraverso la nozione di contagio religioso Durkheim
riesca a spiegare il senso di comunità morale tra la cosa e il proprietario, questo
aspetto ancora non chiarisce perché la cosa assuma questo carattere sacrale. So-
lo perché le cose – Durkheim dedica una parte importante della sua spiegazio-
ne ai riti istitutivi della proprietà fondiaria – sono originariamente sacre, ovve-
ro di proprietà degli Dei, esse possono divenire proprietà degli uomini. La sacra-
lità che risiede quindi nell’oggetto non pertiene all’oggetto, ma le viene attribui-
ta grazie al suo legame con gli Dei.
La proprietà privata si sviluppa quindi attraverso una sorta di espropriazio-
ne per cui il carattere sacrale di una cosa, il suo essere proprietà degli Dei – ad
esempio il prodotto della coltivazione di un campo - viene spostato sui confini
della cosa stessa – ad esempio il confine che delimita una proprietà fondiaria –
per renderla appropriabile. L’invenzione della proprietà consiste per Durkheim
in questa sorta di perimetrazione della sacralità dell’oggetto, in altre parole
consiste nello spostamento della sacralità dall’oggetto sui confini dell’oggetto.
Delineando questi confini l’uomo si appropria della sacralità dell’oggetto, sot-
trae cioè la cosa sacra alla proprietà degli dei ma, pertanto, la cosa appropriata
mantiene il proprio carattere di sacralità, adesso traslato dal rapporto con gli
Dei al rapporto che essa intrattiene con il suo proprietario. Il proprietario è
quindi colui che controlla i confini della sacralità dell’oggetto e attraverso que-
sto controllo, di fatto, si impadronisce del rapporto morale che precedente-
mente legava l’oggetto agli Dei: «La proprietà umana non è altro che la proprie-
tà religiosa, divina, messa alla portata degli uomini grazie a un certo numero di
pratiche rituali»16.
Inoltre, essendo gli dei delle «forze collettive incarnate, ipostatizzate sotto
forma materiale». Il legame tra questi e l’oggetto è un legame fondamental-
mente sociale.
«La proprietà privata è nata perché l’individuo ha volto a proprio vantaggio, per il proprio uso, il rispetto che la società ispira, quella dignità superiore di cui essa è in-vestita e che aveva trasmesso alle cose di cui è fatto il suo sostrato materiale»
17.
Se la prima forma di proprietà grazie alla quale gli Dei posseggono le cose,
abitandole, ha una natura sociale, la proprietà avrà una natura collettiva; la
16
Ivi, p. 188. 17
Ivi, p. 190.
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proprietà collettiva dovrà quindi essere ritenuta la premessa necessaria alla na-
scita della proprietà privata. Il sacrilegio che l’uomo commette espropriando
una cosa alla proprietà degli dei, rappresenta un sacrilegio che l’uomo commet-
te ai danni della società. È grazie a questo sacrilegio che la proprietà privata
viene istituita.
Storicamente questo passaggio dalla proprietà collettiva alla proprietà priva-
ta è attribuibile a un concorso di cause attribuibili alla nascita del patriarcato e
della proprietà mobiliare. È attraverso l’incremento del prestigio di un singolo
individuo (pater), capace di levarlo a rappresentante della cosa domestica, che
il dominio sulla cosa si singolarizza in quanto il legame che unisce la cosa al
gruppo diviene essenzialmente un legame capace di legare la cosa al rappresen-
tante del gruppo, il patriarca. A questo si aggiunga che con la proprietà immo-
biliare e fondiaria la cosa posseduta mantiene un carattere essenzialmente reli-
gioso capace, come osservato, di sottrarla al commercio mondano; mentre con
la nascita della proprietà mobiliare si stabilisce un legame profano e l’oggetto è
costretto ad adeguarsi a delle condizioni di negoziabilità provocando, di fatto,
l’individualizzazione della proprietà.
La teoria durkheimiana si fonda quindi sulla negazione di quelle concezioni
che riconducono la nozione di proprietà all’attività umana. Come ricorda
l’autore, questo tipo di associazione che, a partire da Locke, è divenuta la moda-
lità dominante attraverso cui il pensiero politico moderno ha pensato la pro-
prietà era sconosciuto all’inizio del XVII secolo e un autore come Grozio sem-
bra, ad esempio, ignorarne l’esistenza.
Se il diritto di proprietà non nasce dal rapporto tra uomo e cosa attraverso
l’attività produttiva, il lavoro, come vedremo, deve essere pensato a partire dal
diritto contrattuale moderno. È attraverso la comprensione del ruolo che il la-
voro ricopre nel diritto contrattuale e attraverso l’analisi degli effetti che il lavo-
ro provoca sullo stesso diritto di proprietà che Durkheim propone di ripensare
il legame tra diritto moderno e giustizia.
4. L’istituzione durkheimiana della giustizia
Come osservato, seguendo la scansione espositiva propria alle teorie con-
trattualiste (individuo, proprietà, contratto) Durkheim ne inverte il significato
mostrando come la proprietà debba essere ritenuta la “condizione materiale”
del culto moderno dell’individuo piuttosto che il suo risultato.
Ciononostante, questa caratterizzazione della proprietà spiega come essa si
sia sviluppata ma non dice niente a riguardo delle modalità reali
d’appropriazione. Che cosa fa di un’appropriazione, un’appropriazione giusta?
MARCUCCI, L'istituzione della giustizia
SCIENZA & POLITICA
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Per farlo Durkheim prende in analisi due modalità di acquisizione della pro-
prietà: l’eredità e il contratto. La prima implica un elemento di arcaismo, in
quanto, essendo una modalità di acquisizione fondata sull’appartenenza
dell’individuo alla famiglia denatura il carattere essenzialmente individuale
della proprietà moderna. È quindi nel contratto, ovvero nell’istituzione princi-
pale dell’obbligazione dei moderni, che deve essere cercata la giustizia
dell’appropriazione in quanto è nel contratto che la volontà che lega la persona
all’oggetto si dà nella propria mediazione con un altra volontà.
Si potrebbe leggere in questo gesto, una volta scartata la possibilità di inter-
rogare la giustizia di un’appropriazione attraverso il rapporto tra lavoro e pro-
prietà, un elemento regressivo. Pensare la giustizia a partire dall’istituzione del
contratto, non significa di fatto sottometterla al formalismo proprio del diritto
moderno? Non si sta così rifiutando la teoria del lavoro-valore in nome di un
convenzionalismo contrattualista rivisitato sociologicamente? Non siamo, di
fatto, nella riproposizione della polarità moderna tra diritto e giustizia?
Come anticipato nelle prime pagine ritengo che quello di Durkheim debba
essere piuttosto letto come un tentativo per riflettere sulla tensione costitutiva
tra diritto e giustizia. Questa tensione è pensabile, secondo Durkheim, a partire
dall’istituzione contrattuale ricostruendone la storia. Soltanto pensando la sto-
ria dell’istituzione contrattuale è possibile mostrare come il diritto moderno
contenga, al proprio interno, lo sviluppo di un concetto di giustizia capace di
trasformare radicalmente l’istituzione contrattuale stessa. Il compito politico
della sociologia consiste, in questo senso, nel mostrare come la giustizia imma-
nente al diritto moderno si dispieghi all’interno della storia dell’istituzione con-
trattuale fino a ridefinirne gli assunti fondamentali18. È esattamente a livello di
questa ridefinizione dell’istituzione contrattuale che, come vedremo, Dur-
kheim reintroduce la questione del lavoro precedentemente evacuata.
La storia del contratto ci mostra, anzitutto, come esso non sia un’istituzione
primitiva, originaria ma, viceversa, si fondi sulla sacralizzazione della volontà
individuale che, come osservato, suppone la trasformazione del concetto di
proprietà individuale che si opera con la nascita della proprietà mobiliare e del
patriarcato.
L’evoluzione dell’istituzione contrattuale, ricostruita meticolosamente da
Durkheim, è riassumibile brevemente distinguendo tre fasi:
1. La prima è quella del contratto reale. Con questa espressione s’intendono
quelle forme di scambio nelle quali la mutualità dell’obbligo si fonda sul fatto
di ricevere materialmente un oggetto. È dalla sussistenza materiale di un ogget-
to ricevuto che si origina per il ricevente l’obbligo dello scambio. In questo caso
18
Per una visione d’insieme sulla riflessione durkheimiana sul diritto: S. LUKES - A. SCULL (eds), Durkheim and the Law, Oxford, Blackwell, 1984.
SCIENZA & POLITICA
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però la volontà dei contraenti non gioca nessun ruolo perché l’obbligazione è
assicurata dal solo trasferimento materiale di un oggetto.
2. La seconda è quella del contratto solenne. In questo caso, l’obbligo nasce
dall’effettiva affermazione della volontà del contraente che tuttavia diviene ef-
fettiva soltanto attraverso un’istanza capace di agire da «garante della promessa
scambiata». Questo garante, per potere esercitare una tale autorità tra le volon-
tà contraenti, deve essere capace di esercitare su queste, un forza sui generis,
ovvero deve avere una natura religiosa. In questo tipo di contratto sono le for-
me rituali che hanno la funzione suppletiva di sacralizzare l’affermazione delle
volontà dei contraenti mettendole così in relazione con l’istanza garante.
Tanto il contratto reale quanto il contratto solenne non possono pertanto
essere ritenuti forme compiute di contrattualità in quanto, sia in un caso sia
nell’altro, il principio di negoziabilità delle volontà non risiede nella volontà
stessa dei contraenti ma si fonda nella cosa scambiata, o nel carattere religioso
del garante. Si tratta quindi in ambedue i casi di contratti unilaterali, in quanto
il contratto non è di per sé capace di produrre obbligazione senza il richiamo a
un istanza materiale o religiosa capace di mettere sotto tutela lo scambio.
3. È solo con il contratto consensuale che l’istituzione del contratto viene
fondata. Il contratto consensuale si fonda nel progressivo esaurimento di quelle
forme rituali che accompagnavano il contratto solenne. In questo senso la ridu-
zione di quelle forme rituali proprie al contratto solenne risponde all’esigenza
delle società moderne di rendere le relazioni giuridiche più flessibili e adattabi-
li alle esigenze sociali. Ciononostante, questo dato è una condizione necessaria
ma non sufficiente per spiegare l’emergenza del contratto consensuale. Non
spiega ancora, infatti, come quella risorsa che nel contratto solenne è data nella
forma di un garante che trascende il contratto, sia nel contratto consensuale
immanente all’atto contrattuale stesso.
In ragione di questo aspetto, ovvero del fatto che le garanzie del contratto,
siano contenute nell’atto stesso, il contratto consensuale può essere associato al
contratto reale, senza però che queste garanzie interne al contratto siano forni-
te dal trasferimento reale di un oggetto.
Diversamente, tanto dal contratto reale quanto da quello solenne, il contrat-
to consensuale si fonda sulla trasformazione della nozione di sanzione nel dirit-
to moderno, la stessa analizzata da Durkheim per definire la solidarietà mo-
derna. È, infatti, la natura punitiva del diritto antico ad implicare che la viola-
zione di un contratto sia sanzionata esclusivamente in caso essa produca un
danno per l’autorità pubblica e non per gli effetti che produce sui singoli mem-
bri della società.
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SCIENZA & POLITICA
vol. XXVI, no. 51, 2014, pp. 63-85 80
Tuttavia, anche il rapporto alla sanzione non è sufficiente a restituire la «ri-
voluzione giuridica» imposta dal contratto consensuale. Radicando la validità
del contratto nel solo consenso, il contratto moderno non solo si smarca
dall’unilateralità che lo aveva caratterizzato tanto nella forma reale che in quel-
la solenne ma, paradossalmente, tradisce l’apparente formalismo su cui si costi-
tuisce, ovvero il fatto che sia fondato sulla libera volontà degli individui. Non
v’è, infatti, niente di più esposto al mutamento storico della nozione di consen-
so e in tal modo la «rivoluzione giuridica» dell’istituzione contrattuale, non so-
lo trasforma radicalmente le forme premoderne di questa istituzione, ma con-
tiene in sé le premesse della propria trasformazione futura.
Diversamente dalle critiche del contrattualismo, che generalmente si con-
centrano sull’irriformabilità di un’istituzione fondata sull’astrazione del libero
arbitrio, Durkheim ritiene che sia proprio in ragione del formalismo del con-
senso, che l’istituzione contrattuale contenga al proprio interno un principio di
mutabilità. Se la razionalità politica moderna può essere detta omeopatica, per-
ché la libertà individuale sembra contenere in sé le risorse logiche sufficienti
per fondare la vita associata; Durkheim non rifiuta questa premessa, ma mostra
che la libertà individuale, se pensata sociologicamente e non solo postulata lo-
gicamente, contiene in se qualcosa che eccede le sue stesse premesse. È
all’interno di questa eccedenza che la questione del lavoro e della giustizia as-
sumono un valore specifico.
Abbiamo mostrato come l’individuo, proprio nel libero esercizio della pro-
pria volontà non sia un’astrazione originaria, ma il frutto di un’evoluzione del
concetto di proprietà. Per capire come la stessa nozione di consenso
nell’esercizio della libertà contrattuale, sia mutata, Durkheim si affida alla di-
stinzione tra consenso libero e volontario:
«L’idea che domina questa evoluzione è che il consenso è veramente tale, che esso vincola veramente e assolutamente chi acconsente all’accordo, solo a condizione di essere stato dato liberamente. Tutto ciò che diminuisce la libertà del contraente, di-minuisce la forza obbligatoria del contratto. Questa regola non deve essere confusa con quella che esige che il contratto sia intenzionale. Infatti, posso aver avuto perfet-tamente la volontà di contrarre così come ho fatto, e, tuttavia, posso aver contratto un impegno solo perché costretto e forzato»
19.
Proprio perché il consenso del contraente contiene in sé un principio forma-
le di variabilità - che va dalla sottomissione volontaria all’esercizio pieno della
propria libertà - che non può essere concepito come puramente astratto. La sto-
ria della moderna istituzione del contratto è tutta compresa dentro a questa
ambivalenza. Fintanto che l’istituzione contrattuale era pensata attraverso
l’intervento di un’istanza terza, fosse essa materiale come nel contratto reale o
sacra come nel contratto solenne, questo principio di variabilità non era visibi-
19 Ivi, p. 228.
SCIENZA & POLITICA
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le. Ma la radicalità dell’ipotesi di Durkheim non si limita a questo principio di
riformabilità della libertà moderna; la sua ipotesi è che sia proprio l’idea di giu-
stizia a riemergere all’interno della variazione della libertà contrattuale moder-
na.
La variazione della libertà del contraente si trasforma parallelamente alla
trasformazione moderna dell’idea di consenso e questa trasformazione include
necessariamente la presa in considerazione delle condizioni di esercizio del
proprio consenso. È quindi dentro a queste condizioni che si assiste alla tra-
sformazione del contratto consensuale e al riemergere del concetto di giustizia.
Se la giustizia consegue dalle stesse condizioni formali del contratto consen-
suale, la sua riemergenza è destinata a segnare una nuova trasformazione per
l’istituzione stessa del contratto. A questo proposito Durkheim introduce un
quarto stadio dell’istituzione contrattuale: il contratto giusto. Il contratto giu-
sto si fonda sulla regola secondo la quale: «il contratto è nullo quando una delle
due parti ha dato il suo consenso solo sotto la pressione di una violenza manife-
sta»20. Questa regola agisce perciò direttamente sulle condizioni del consenso e
quindi sull’esercizio della nostra volontà.
Questa trasformazione si opera in ragione del fatto che le condizioni di la-
voro nel mondo moderno divengono l’elemento fondamentale per misurare le
variazioni nell’esercizio della libertà individuale. È anzitutto nel lavoro, infatti,
che si nasconde quella «violenza manifesta» che trasforma le premesse stesse
del contratto consensuale; è quindi attraverso la comprensione del lavoro come
condizione fondamentale, anche se non esclusiva, all’esercizio del proprio arbi-
trio che l’istituzione contrattuale viene rivoluzionata. Durkheim è consapevole
del fatto che le conseguenze di questa rivoluzione fossero in pieno sviluppo e
quindi lontane dal rendersi interamente visibili, ma è altrettanto chiaro che egli
credesse che l’emergere dello stato sociale ne rappresentasse il laboratorio giu-
ridico e politico.
Secondo l’istituzione del contratto giusto le condizioni di eguaglianza non
si determinano in ragione del libero consenso dei contraenti, ma in ragione del
fatto che le cose e i servizi siano scambiati secondo un valore equo:
«Un contratto giusto non è semplicemente un contratto che è stato acconsentito li-beramente, cioè senza coercizione formale; è un contratto in cui le cose e i servizi sono scambiati al loro valore reale e normale, cioè, insomma, al loro valore giusto»
21.
Ingerendo quindi sulle condizioni di equità nell’esercizio della propria vo-
lontà il contratto giusto che, come osservato, si origina in seno al formalismo
del diritto contrattuale, trasforma radicalmente questa istituzione includendo
20
Ivi, p. 232. 21
Ivi, p. 236.
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un bisogno di equità nello scambio che altrimenti sarebbe escluso. La distribu-
zione delle cose tra gli individui deve cioè effettuarsi secondo: «Il merito sociale
di ciascuno […] Così, il principio che alla base dei contratti equi estende la sua
azione aldilà del diritto contrattuale e tende a diventare la base del diritto di
proprietà»22.
In questo modo, sebbene la nozione di proprietà non sia ricavata analitica-
mente da quella di lavoro, essa viene trasformata con il contratto giusto. Il con-
tratto giusto, trasformando l’istituzione contrattuale attraverso l’estensione del-
le modalità di esercizio della volontà individuale, trasforma di conseguenza la
nostra relazione alla proprietà essendo questa, come osservato in precedenza,
l’istituzione in seno alla quale la libertà dell’individuo moderno si è sviluppata.
Questa ricaduta del contratto giusto sul diritto di proprietà opera, secondo
Durkheim, su due livelli. Da un lato rendendo inusitata l’istituzione
dell’eredità. Dall’altro imponendo una trasmissione della proprietà individuale
a livello collettivo a opera dei corpi intermedi.
Possiamo quindi concludere che attraverso l’istituzione del contratto giusto
Durkheim ritiene che il lavoro divenga un elemento fondamentale
nell’estensione delle condizioni di esercizio del consenso individuale e quindi
delle condizioni contrattuali e che questa estensione abbia una ricaduta fon-
damentale sul diritto di proprietà. L’istituzione del contratto giusto produce
quindi degli effetti sostanziali sull’intera scansione individuo - proprietà – con-
tratto. Il lavoro diviene misura fondamentale della relazione contrattuale; a sua
volta, questa nuova condizione della contrattualità trasforma il diritto di pro-
prietà e, di conseguenza, muta il nostro modo di essere individui. La riseman-
tizzazione complessiva della triade contrattualista mostra in questo modo tutto
il suo potenziale politico.
Ma vi è un ultimo, fondamentale, movimento che l’istituzione del contratto
giusto provoca all’insieme dell’impianto giuridico moderno e riguarda la pro-
blematica posta all’inizio di questo saggio, ovvero il modo in cui i moderni
pensano la giustizia e, di conseguenza, la solidarietà.
Per seguire questo movimento nella sua interezza bisogna ritornare agli ini-
zi della rif lessione di Durkheim ovvero alla sua concezione d’individuo. Durk-
heim mostra come l’universalismo etico che sottende all’individualismo mo-
derno, di cui abbiamo ricostruito lo sviluppo a partire dalla proibizione
dell’omicidio, possa essere distinto secondo due ordini di doveri: i doveri di cari-
tà e i doveri di giustizia. A sua volta la giustizia deve essere distinta in giustizia
distributiva e giustizia retributiva. L’istituzione del contratto giusto mostra co-
me giustizia distributiva e retributiva si “implicano mutualmente” in quanto la
22
Ivi, p. 238.
SCIENZA & POLITICA
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retribuzione – ovvero il rapporto sociale alla proprietà e al lavoro – deve essere
ritenuto una condizione essenziale per una garanzia non formale
dell’eguaglianza giuridica. Tuttavia l’ambizione universalista dell’etica intende
eliminare: «Tutte le sanzioni sociali, tutte le ineguaglianze fisiche, materiali,
quelle che derivano dalla casualità della nascita, dalla condizione familiare, per
lasciar sussistere solo le ineguaglianze di merito»23.
Queste diseguaglianze eccedono i soli condizionamenti materiali coinvol-
gendo quelli morali, ovvero quei condizionamenti che riguardano il prestigio
sociale e la cultura. Il concetto di giustizia deve essere quindi capace di include-
re questo sentimento della pluralità dei condizionamenti sociali, materiali e
morali:
«La carità è il sentimento di simpatia umana che giunge a liberarsi anche da queste ultime considerazioni inegualitarie, a cancellare, a negare, come merito particolare, quest'ultima forma di trasmissione ereditaria, la trasmissione intellettuale. Non è dunque altro se non l'apogeo della giustizia»
24.
Non bisogna a questo proposito farsi ingannare dalla formulazione dur-
kheimiana. Con carità non s'intende una forma di filantropia, la sola ingiun-
zione alla cooperazione che, come osservato in precedenza, snaturerebbe il
senso della riflessione di Durkheim. Si tratta piuttosto di estendere la com-
prensione sociale dell’esercizio individuale della volontà a quelle forme di di
ineguaglianza che sussistono oltre i condizionamenti materiali. Sembrerebbe
quindi legittimo domandarsi se questo «sentimento di simpatia umana» non
riapra una dimensione etica che eccede qualsiasi forma di istituzionalizzazione.
Siamo quindi di fronte a una riapertura della polarità moderna tra giustizia e
diritto? La giustizia continua, in ultima istanza, ad essere dicibile solo grazie
alla propria eccedenza costitutiva rispetto alle istituzioni, ad essere pensabile
solo attraverso la sua polarizzazione con il diritto? La risposta che Durkheim
fornisce a questa domanda con la quale si concludono le Lezioni di sociologia, è
inequivocabile:
«Man mano che avanziamo, la carità propriamente detta […] cessa di essere una sor-ta di dovere supererogatorio, facoltativo, per diventare un’obbligazione in senso stretto e far nascere delle istituzioni»
25.
La possibilità di riconoscere nella solidarietà la specificità dell’obbligazione
dei moderni, non può quindi essere distinta dal bisogno di giustizia sociale che
si origina all’interno della vicenda del contrattualismo moderno, provocando la
nascita di nuove istituzioni. La giustizia sociale è l’altro nome di quella solida-
23
Ivi, p. 243. 24
Ibidem. 25
Ivi, p. 244.
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rietà positiva che il liberalismo, secondo l’analisi della Divisione del lavoro so-
ciale, non riesce a riconoscere.
Possiamo quindi tentare di tirare le fila di quanto detto fin qua. Vediamo
anzitutto come, sebbene la scansione espositiva scelta da Durkheim (individuo,
proprietà, contratto) segua apparentemente lo sviluppo delle teorie contrattua-
liste, ne inverta di fatto il senso e l’ordine. Con l’introduzione del concetto di
contratto giusto, infatti, Durkheim mostra che solo implementando la nozione
di consenso e libertà con quella di giustizia si può pensare il rapporto con la
proprietà e come questa produca una trasformazione della nozione stessa di
individualità.
Se le condizioni di esercizio della libertà contrattuale s’inspessiscono di un
contenuto materiale in ragione di una diversa concezione del consenso che si
produce durante la modernità, fino a lasciar supporre una diversa concezione
della proprietà, questo non significa che la proprietà divenga, per questa ragio-
ne, semplicemente collettiva. Non si suppone cioè un ritorno a forme comuni-
tarie di possesso. Questo movimento è negato secondo Durkheim dal fatto che
la variazione in senso collettivista del consenso si opera nell’individuo e non al
di fuori di lui.
Seguendo l’ordine inverso rispetto alle teorie contrattuali che vanno
dall’individuo alla società, la sociologia lascia emergere come il pensiero politi-
co abbia pensato l’obbligazione come una forma di solidarietà negativa, senza
riuscire a individuare la natura reale del legame che unisce gli individui nella
società moderna. Questo legame, ovvero la solidarietà moderna, non può esse-
re pensato come sovrapposto all’ordine giuridico e economico, come la sola in-
giunzione morale alla cooperazione. La solidarietà deve cessare di essere rite-
nuta un «dovere supraerogatorio», per divenire un’obbligazione in senso stretto
e, perché ciò avvenga, si deve produrre una rivisitazione complessiva del con-
cetto di giustizia sociale.
È proprio questa rivisitazione del concetto di giustizia che ci lascia intrave-
dere l’ambizione del progetto sociologico durkheimiano, ovvero quello di pen-
sare la tensione tra diritto e giustizia, mostrando come la giustizia non debba
essere cercata fuori dall’ordine giuridico moderno, riproducendo in questo mo-
do la polarizzazione tra giustizia e diritto, ma sia proprio nelle stesse condizioni
epistemiche che questo ordine giuridico si è costituito che è possibile pensare
delle nuove forme di istituzione della giustizia. Questa ripoliticizzazione del
diritto via la sociologia mi sembra uno degli obiettivi più ambiziosi del pensiero
di Durkheim.
Ritornando, infine, alla contestualizzazione con cui ho aperto questa rifles-
sione, si potrebbe essere scettici a riguardo dell’attualità della riflessione dur-
kheimiana. Durkheim redige queste pagine sul finire del XIX secolo, in pieno
SCIENZA & POLITICA
vol. XXVI, no. 51, 2014, pp. 63-85 85
sviluppo del movimento operaio, nel momento in cui lo stato sociale sta na-
scendo. Le Lezioni di sociologia sono evidentemente abitate da una fiducia pro-
gressista che nell’Europa contemporanea, dopo decenni di smantellamento del
welfare, sembra destinata a virare rapidamente nell’irrealismo.
Tuttavia è proprio l’Europa attuale lo spazio in cui il bisogno di «creare nuo-
ve istituzioni», capaci di rendere effettiva quella solidarietà che per molti aspet-
ti già unisce gli individui che la compongono, sembra ormai riconoscibile. Si
può ritenere che questa solidarietà sia condannata a restare un «dovere suprae-
rogatorio» di un élite d’intellettuali o pensare che questa solidarietà positiva
rappresenti la sola chance capace di farci superare l’illusione funzionalista, se-
condo la quale la solidarietà si produrrebbe attraverso una naturale convergen-
za degli interessi di mercato. La solidarietà può non essere un termine vuoto
per l’Europa contemporanea, a condizione che le sue istituzioni divengano un
modo per ripensarne la giustizia sociale.
SCIENZA & POLITICA, vol. XXVI, no. 51, 2014, pp. 87-100
DOI: 10.6092/issn.1825-9618/4630 ISSN: 1825-9618
87
SCIENZA & POLITICA
per una storia delle dottr ine
A B S T R A C T
*****
Il contributo affronta la solidarietà delle associazioni di mutuo soccorso nello Stato liberale di diritto. Un fenomeno complesso e variegato che, tuttavia, trova un momento di sintesi in alcuni caratteri, per esempio il principio di egua-glianza (una testa un voto), la partecipazione responsabile, il mutuo aiuto ai soli soci, la natura interclassista dei soda-lizi, il carattere della resilienza. Dal punto di vista pubblicistico le società di mutuo soccorso rappresentano un esempio di rapporti tra Stato e società alternativo a quello individualistico, accolto dal codice civile liberal-borghese del 1865. Un "modello" che coniuga la centralità dell'individuo con la necessaria dimensione relazionale del benessere individua-le.
PAROLE CHIAVE: Solidarietà; Resilienza; Democrazia; Diritti relazionali; Partecipazione responsabile.
Una strategia della resilienza: la solidarietà nel mutuo soccorso
A Strategy of Resilience: Solidarity in Mutual Aid
Monica Stronati
Università di Macerata [email protected]
The aim of this contribution is to observe the solidarity of mutual aid associations in the liberal State of law. It's a complex and varied phenomenon where, however, mutual aid associations find common factors in some charac-teristics, such as the principle of equality (one person one vote), responsible participation, mutual aid to members only, the inter-class nature of partnerships, the resilience feature. From the perspective of the public law science, mutual aid associations represent an example of relationships between State and society which is alternative to the individualistic one, and is accepted by the liberal-bourgeois Civil Code of 1865. A "model" that combines the centrality of the individual with the necessary relational dimension of individual well-being.
KEYWORDS: Solidarity; Resilience; Democracy; Relational Rights; Responsible Participation.
STRONATI, Una strategia di resilenza
SCIENZA & POLITICA
vol. XXVI, no. 51, 2014, pp. 87-100 88
1. L'idea di solidarietà che il contributo si propone di affrontare è quella rap-
presentata dalla stretta di mani, ovvero l'immagine che più caratterizza i "soda-
lizi di mutuo aiuto" tra Otto e Novecento.
Le mani intrecciate evocano reciproco riconoscimento, vincolo, accordo,
fratellanza, solidarietà, l'associazione stessa1. Una molteplicità di significati
che, probabilmente, ha in comune la volontà di aderire a una comunità che si
fonda su una serie di valori e principi. Prima ancora della forma legale associa-
tiva, delle norme statutarie e dei regolamenti, il sodalizio evoca l'adesione a una
struttura antropologica "pregiuridica", ma non per questo meno vincolante2. Il
socio che si sottrae agli impegni non perde solo i vantaggi "assicurativi", ma so-
prattutto la fiducia e la protezione del gruppo. In questo senso, le società di
mutuo aiuto svolgono anche una funzione di disciplinamento, come ben ave-
vano colto alcuni uomini liberali protagonisti del processo di unificazione na-
zionale, personaggi che spesso si facevano promotori delle associazioni attra-
verso le quali divulgavano e introducevano ai valori liberal-borghesi3. Il rove-
scio della medaglia, come la storiografia ha messo in luce, sarebbe la dimensio-
ne politica delle società operaie di mutuo soccorso (SOMS), l'importante ruolo
svolto nella formazione di mature organizzazioni del movimento operaio4. "Pa-
1 Cfr. M. DEGL'INNOCENTI, Introduzione, in G. SILEI (ed), Volontariato e mutua solidarietà. 150 anni
di previdenza in Italia, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 2001, spc., p. 10. 2 Per certi aspetti ricorda una figura controversa ma interessante, quella del Gentlemen's agreement
di origine anglosassone. Con questa espressione, si legge nel Trattato di Galgano, si indica «una figura di "accordo o intesa, diversa dal contract, caratterizzata dall'essere considerata impegnativa solo sul piano dell'onore" e dotata di "un'efficacia moralmente vincolante ma, non per questo, me-no intensa di quella giuridica, in ragione della considerazione che il valore predetto assume in certi ambienti o nell'ambito di determinate categorie e cerchie di soggetti, e dell'effetto deterrente che è in grado di esprimere la sanzione di squalifica o discredito che deriverebbe loro per il mancato ri-spetto di un impegno siffatto"». Dunque, si tratta di un accordo non vincolante giuridicamente, tuttavia la dottrina cita un lodo arbitrale nel quale Irti argomenta «che il vincolo nascente da un gentlemen's agreement va considerato come giuridicamente rilevante, e come fonte di responsabili-tà per inadempimento, se risultante da un contratto che rimette le controversie da esso nascenti ad un giudizio secondo equità» (F. GALGANO, Trattato di diritto civile, II, Padova, Cedam, 2010, p. 293). 3 Senza disconoscere i meriti della storiografia che ha studiato il mutualismo italiano prevalente-
mente sotto il profilo politico «e più precisamente sulla funzione propedeutica e preliminare dell’associazionismo mutualista rispetto ad altre e più “mature” forme di organizzazione del movi-mento operaio», va ricordato che questa tradizione di studi «aveva d’altra parte tenuto in ombra proprio alcuni aspetti tipici dell’associazionismo mutualista, in particolar modo per quello che ri-guardava la sua dimensione economica e sociale», (L. TOMASSINI, Il mutualismo nell’Italia liberale (1861-1922), in Le società di mutuo soccorso italiane e i loro archivi. Atti del seminario di studio Spo-leto, 8-10 novembre 1995, Roma, Ministero per i beni e le attività culturali, 1999, p. 15). Nello stesso senso va Soper quando osserva che «Historians have been inclined to view the effort by liberal elites to form popular associations, before and after unification, as a half-hearted and short-lived pro-logue to the proliferation of truly independent, social trade unions. There are good reasons, howev-er, to put aside the long view of popular associations as failed instruments of bourgeois hegemony or modern labour organization, and examine more closely what was new and meaningful about them in the specific context of Italian unification. Italian liberals were not united in their enthusi-asm for popular associations, but this is neither surprising nor sufficient to explain historians' rela-tive neglect of the topic» (S.C. SOPER, Building a Civil Society. Associations, Public Life, and the Ori-gins of Modern Italy, Toronto-Buffalo-London, University of Toronto Press, 2013, pp. 12-13). 4 Nel senso che «Le società di mutuo soccorso costituiscono l'unico movimento operaio possibile
nell'Italia preunitaria» (P. PASSANITI, Il mutuo soccorso nell’ordine liberale. Il sotto-sistema della so-lidarietà: la legge 3818 del 15 aprile 1886, in G. SILEI (ed), Volontariato e mutua solidarietà, p. 70),
SCIENZA & POLITICA
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lestre", si dice, però anche di partecipazione democratica e soprattutto di eser-
cizio di "diritti" individuali in un contesto necessariamente relazionale.
Non a caso si registra un notevole incremento del numero delle società di
mutuo soccorso (SMS) negli anni immediatamente successivi alla concessione
dello Statuto albertino e soprattutto con l'Unità d'Italia5. Basterà un "omertoso"
articolo statutario a dare "solidarietà" giuridica alle forme di spontanea associa-
zione civile. Com'è noto l'art. 32 dello Statuto albertino introduce il mero dirit-
to di riunione, eppure, «Il 4 marzo 1848 è la data del diritto di associazione»6.
La crescita delle SMS si inserisce nel clima euforico delle libertà costituzionali
che si esprime anche, paradossalmente, con l'associazionismo ottocentesco.
L'individuo liberato dalle tirannie degli Stati pre-unitari, dalle appartenenze del
corporativismo, potrà ora, teoricamente, rivendicare il diritto d'eguaglianza, la
libertà di pensiero, di opinione etc. «Colla libertà ch'è a noi venuta», scrive En-
rico Fano, «tant'altre virtù latenti nell'animo della nazione si sono destate, e fra
esse, quelle dell'associazione e della previdenza»7.
Si trattava però di una rivoluzione politica e non giuridica, perché se il dirit-
to di associazione fosse stato scritto nella Carta costituzionale non per questo
avrebbe avuto maggiori garanzie. Questo perché lo Stato liberale adotta, con
tutti i suoi limiti, il costituzionalismo "alla francese" che afferma la sovranità
della legge e riconosce solo le libertà sancite espressamente dalle norme positi-
ve. In quella prospettiva la Costituzione non è una fonte giuridica sovraordina-
ta alla legge, ma è sostanzialmente un compromesso politico e dunque non ha
la forza giuridica per garantire le già modeste libertà dichiarate8.
La vera dimensione costituzionale dello Stato liberale coincide con la codifi-
cazione legislativa, soprattutto quella del diritto civile. Il modello, ancora una
come conferma lo spirito della legge sul riconoscimento delle società operaie di mutuo soccorso n. 3818 del 15 aprile 1886. Ovvero una legge che «rese obbligatoria la registrazione delle società ope-raie di mutuo soccorso, creando una forma giuridica ad hoc», per favorire un'emersione "controlla-ta" del movimento operaio, ma che «non si pronunciò rispetto alle società di mutuo soccorso non operaie, che dunque rimasero tali, cioè società di mutuo soccorso» di vocazione interclassista e apolitica. Cfr. M. STRONATI, Dalle Società di mutuo soccorso alla Mutua sanitaria integrativa?, «Non Profit», 1/2014, spec. pp. 192 ss. 5 La vera svolta su scala nazionale si ha nel 1861: «L’associazionismo mutualistico divenne un punto
di fondamentale importanza, per le classi dirigenti liberali, sia come strumento per una presenza sul terreno delle politiche sociali, in assenza di interventi diretti dello Stato; sia come affermazione di un principio laico, di regolazione del delicato terreno dell’assistenza e della previdenza, che era stato fino allora appannaggio soprattutto delle corporazioni di mestiere e delle istituzioni legate alla Chiesa» (L. TOMASSINI, Il mutualismo nell’Italia liberale (1861-1922), in Le società di mutuo soc-corso italiane e i loro archivi. Atti del seminario di studio Spoleto, 8-10 novembre 1995, Roma, Mini-stero per i beni e le attività culturali, 1999, p. 17). 6 P. PASSANITI, Il mutuo soccorso nell’ordine liberale, pp. 69-70.
7 E. FANO, Della carità preventiva e dell'ordinamento delle società di mutuo soccorso in Italia, Mila-
no, Stabilimento Giuseppe Civelli, 1869, p. 5. 8 Cfr., M. FIORAVANTI, Costituzionalismo. Percorsi della storia e tendenze attuali, Roma-Bari, Later-
za, 2009, spec., p. 44.
STRONATI, Una strategia di resilenza
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volta, è quello francese, napoleonico, cioè imperniato sul ganglio dell'egua-
glianza dei cittadini proprietari:
«Il legislatore considera l’individuo, come agente isolato, per il suo scopo, con sen-timenti egoistici, non come un agente in cooperazione con altri agenti, e con interes-si comuni. Questa concezione limita il diritto patrimoniale alla funzione di rendere possibile la coesistenza d’interessi individuali opposti; ma elimina la funzione del di-ritto sociale per quei rapporti di solidarietà, i quali sono formati da interessi indivi-duali divergenti che si aggruppano fra loro. La solidarietà nelle sue manifestazioni, le quali servono a temperare l’abuso del diritto, estendere la responsabilità al di là della colpa ed arrivare sino a determinare l’obbligo dell’assistenza reciproca, non è ammessa nel demanio giuridico sociale»
9.
La principale "malattia" del modello codificatorio è l'assurda ambizione di
voler realizzare la certezza giuridica semplificando tutto il diritto nella legge,
un obiettivo da raggiungere eliminando anche il filtro interpretativo della dot-
trina e della giurisprudenza condannando, così, i codici a una eterna distanza
dalla vita reale degli uomini10.
«Ed è questa la ragione principale per la quale i codici, sin dalla loro promulgazione, sono in crisi, ed il diritto è sempre incerto, massime in questo periodo di formazione di una nuova società. Un codice deve essere la raccolta di principii fondamentali formulati in regole certe e precise, ed espressi in testi chiari e sobri, i quali principii debbono irradiare tutta la legislazione civile, rendere i testi adattabili alle esigenze della vita»
11.
La combinazione dei due fattori (la semplificazione di tutto il diritto nella
legge e l'impianto individualistico della legge codificata) non può che escludere
l'associazionismo mutualistico dall'attenzione del legislatore, se non nelle for-
me che vedremo in seguito. In effetti, le società di mutuo soccorso sono un fe-
nomeno spontaneo, una solidarietà civile di fatto. Ancora nel 1904, si rileva che
la denominazione di SMS designa «una categoria empirica», cioè sperimentale,
frutto dell'osservazione. La migliore definizione è quella che si legge nella stati-
stica del Ministero di agricoltura, industria e commercio del 190412, definizione
che coincide con quella degli studiosi di economia sociale. Le SMS sono «asso-
ciazioni formate di più persone che si obbligano di versare in una cassa comune
e periodicamente contribuzioni fisse destinate a sovvenire quei soci che vengo-
no per caso colpiti da una disgraziata evenienza della vita»13.
Il fenomeno era tale che, allora, si diceva: «il secolo XIX passerà alla storia
come il secolo dell’associazionismo»14; proprio «lo spirito di associazione e di
9 M. GALDI, Il diritto novo. Studio giuridico sociale, Napoli, Tip. Giannini & Figli, 1908, p. 28.
10 Cfr. P. GROSSI, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, Giuffrè, 2005, pp. 50 ss.
11 M. GALDI, Il diritto novo, p. 26.
12 ISPETTORATO GENERALE DEL CREDITO E DELLA PREVIDENZA, Le società di mutuo soccorso in Italia al
31 dicembre 1904 (Studio statistico), Roma 1906, p. XXV. 13
U. GOBBI, Le società di mutuo soccorso, Roma-Milano-Napoli, Società Editrice Libraria, 1909, pp. 1-2. 14
A. GROPPALI, I fondamenti giuridici del solidarismo, Genova, Libreria Moderna Giovanni Ricci, 1914, p. 226.
SCIENZA & POLITICA
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solidarietà» venivano indicati come fattori di rinnovamento del diritto contro
l'idea ostile ad ogni forma di associazione propugnata con la Rivoluzione fran-
cese. Il riferimento obbligato è alla legge "Le Chapelier", un «vero totem cultu-
rale dell'Ottocento giuridico»15, che proibiva tutte le vecchie associazioni di pri-
vilegi della società feudale, per liberare le forze produttive della nuova libertà di
eguali: «it was entirely in the sense of the new, abstract constitutional concept
of fraternity»16. La Fraternité veniva intesa in «socially immanent terms as the
realization of the political freedom of all citizens» non allo scopo di creare una
«brotherly community; instead, fraternity was a means for establishing equal
political freedom»17. La fraternità rimaneva un concetto astratto, tendenzial-
mente universale, che però si saldava in una dimensione molto concreta: lo
spazio della nazione. Questa: «è ancorata al suolo, è legata ad un territorio che
[...], per un verso, rende visibile la nazione, e, per un altro verso, la ricongiunge
ad uno Stato che appunto su quel territorio esercita il suo potere»18. Siamo all'o-
rigine dello Stato assistenziale, nel quale non ci sono più spazi intermedi tra
Stato e individuo, e il cui obiettivo è svincolare l'individuo
«dai legami di solidarietà costrittivi e precari in cui si trovava ancora inserito: lo Sta-to assistenziale vuole liberare l'individuo semplificando la realtà sociale. Il suo compi-to è distruggere l'insieme delle strutture, professionali e sociali, che limitano l'auto-nomia dell'individuo. La libertà è concepita come avvento dell'individuo integrale»
19.
Si è osservato che i rivoluzionari francesi si consideravano fratelli «di risul-
tato» cioè uniti da un legame, forse più profondo, allo spirito repubblicano e
democratico.
«Ma s'è forse trattato di una passione passeggera, a cui è seguito il cittadino sociale come cliente passivo ed esigente di uno Stato provvidenza, cioè di uno Stato-padre che tratta i suoi figli come perennemente minori e, conseguentemente, mai capaci di "diventare" fratelli. Non v'è fraternità nel Welfare State, ma semmai solidarietà. Questa a sua volta differisce dalla fraternità in quanto non richiede necessariamente l'eguaglianza ed è compatibile con la dipendenza e l'assistenzialismo»
20.
Posto che i due concetti, fraternità e solidarietà, sono ambigui e mantengo-
no punti di contatto21, si rileva che la solidarietà, a differenza della fraternità,
15
P. PASSANITI, Il mutuo soccorso nell’ordine liberale, p. 74. 16
H. BRUNKHORST, Solidarity. From Civic Friendship to a Global Legal Community, Cambridge (Mass.), MIT, 2005, p. 56. 17
Ivi, p. 59. 18
P. COSTA, Uno spatial turn per la storia del diritto? Una rassegna tematica, «Max Planck Institute
for European Legal History Research Paper», 7/2013, p. 24: http://ssrn.com/abstract=2340055. 19
P. ROSANVALLON, Liberismo, Stato assistenziale e solidarismo, Roma, Armando, 1994, p. 39. 20
F. VIOLA, La fraternità nel bene comune, «Derécho. Revista de fundamentación de las Institu-ciones Jurídicas y de Derechos Humanos», 49/2003, pp. 147-148. 21
La solidarietà è una componente della fraternità: «La solidarité en effet, en évinçant la fraternité, s’est certes substituée à elle comme source d’inspiration du droit positif mais l’a maintenue en vie. Au moment où l’intervention de l’Etat dans la vie sociale se développe, la solidarité se présente comme une justification à ses actions et on la retrouve au fondement de nombre de grands textes de la fin du XIXème siècle et du XXème siècle. La solidarité atteint alors un rayonnement auquel la
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non presuppone necessariamente l'eguaglianza, poiché la solidarietà «è compa-
tibile con la prospettiva impersonale», mentre «la fraternità postula la prospet-
tiva personale»22. In altre parole, la fraternità presupporrebbe l'identità tra sog-
getti, mentre la solidarietà la loro differenza.
2. Spesso la fratellanza è l'insegna anche delle SMS. Le mani che si stringono
fra loro possono rappresentare l'eguaglianza, caratteristica della storia giuridica
occidentale, coniata soprattutto dall'illuminismo giuridico, della fratellanza tra
eguali. Si tratta di un’adesione alla conquista dichiarata nelle costituzioni, ma
non necessariamente corrisponde alla traduzione giuridica che il principio ha
avuto nelle codificazioni. L'esempio più evidente è la formulazione della no-
zione generale dei contratti, cioè lo schema del "libero incontro della volontà
delle parti", che si presumono astrattamente, giuridicamente, eguali. Una rego-
la che presiede anche i contratti di lavoro, la locatio, determinando le note in-
giustizie sociali, sostanziali23. Proprio contro quelle ingiustizie si costituiscono
le società di mutuo soccorso, contro i rischi della perdita del lavoro, degli infor-
tuni, della malattia, della previdenza, etc. Forme spontanee di solidarietà che si
fraternité n’a pu prétendre qu’épisodiquement. Mais il n’y a pas véritablement concurrence entre elles, encore moins élimination de la première au profit de la second, au contraire tout progrès de la solidarité apparaît comme un développement de la fraternité» (P. ARDANT, Prefazione, in M. BOR-
GETTO, La notion de fraternité en droit public francais. Le passé, le présent et l'avenir de la solidarité, Paris, Librairie Générale de Droit et de Jurisprudence, 1993, p. XIII). Le due idee rivestono significa-ti distinti: «si la première désigne la situation où des êtres ou groupements unis par des liens affec-tifs puissants se comportent comme des frères et la seconde la situation où chacun est responsable de tous, toutes deux désignent aussi le principe éthico-politique qui fonde précisément ces situa-tions». Tuttavia, «le deux mots sont utilisés l’un et l’autre pour désigner à la fois une situation et un principe. C’est bien évidemment comme principe que la solidarité apparaît particulièrement nou-velle et revêt en définitive un intérêt: puisqu’aussi bien est-ce en tant que tel qu’elle s’est substituée jadis à la fraternité et a repris en partie le rôle joué par celle-ci dans le droit public français. Envisa-gée comme situation juridique, la solidarité ne revêt en revanche aucun caractère nouveau : elle n’est ici qui la formulation de l’informulé de la fraternité dans la mesure où elle était déjà mise en œuvre alors même que le terme qui la nomme n’existait pas ou était rarement employé. Certains dictionnaires, d’ailleurs, ne s’y trompent pas qui soulignent l’inclusion de la solidarité dans le con-cept de fraternité en définissant celui-ci comme “union intime, solidarité entre les hommes, entre les membres d’une société” ou encore comme “sentiment de solidarité et d’amitié”» (M. BORGETTO, La notion de fraternité en droit public français, p. 11). 22
L. BRUNI - S. ZAMAGNI, Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 22. 23
Nel codice si prevedono solo i rapporti istantanei di scambio, anche la locatio operarum viene interpretata secondo lo schema della vendita, dunque il lavoro sarebbe un capitale produttivo e di conseguenza l’operaio sarebbe il locatore che somministra il capitale-lavoro ricevendo in cambio un salario. La conseguenza è che la forza del lavoro (separata dal corpo umano) diventa l’entità economica amministrata da chi ne può liberamente disporre. Il soggetto unico di diritto impone, poi, che non ci sia più differenza di status tra chi offre e chi presta lavoro. L’unico vincolo è la ne-cessità di trovare un "libero accordo" tra eguali contraenti. In definitiva, però, l'eguaglianza deve passare dall’istituto della proprietà. Questo è il vero cardine dell’ordinamento economico e quindi la sfera di protezione del lavoro è necessariamente limitata alla sola sfera contrattuale nella quale non si trovano strumenti giuridici per tutelare nemmeno l’integrità fisica del prestatore (cfr. P. PAS-
SANITI, Storia del diritto del lavoro. La questione del contratto di lavoro nell'Italia liberale (1865-1920), Milano, Giuffrè, 2006, pp. 32 ss.). Ma «Se il "vero cittadino" non può essere che proprietario, biso-gna fare di tutti i cittadini che non lo sono "una sorta di proprietari"» (P. ROSANVALLON, Liberismo, Stato assistenziale e solidarismo, p. 21), istituendo meccanismi sociali o anche interpretando la for-za-lavoro come l'unica proprietà possibile dei salariati.
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creano nonostante un assetto "costituzionale" individualistico e diffidente ver-
so ogni forma di associazione.
Le stesse ragioni stanno all'origine della nascita del diritto del lavoro24 e del-
la proliferazione delle leggi sociali, tra queste anche la nota legge sul ricono-
scimento delle società operaie di mutuo soccorso, ma l'ottica non era quella di
dare una fisionomia giuridica volta a rafforzare l'associazionismo mutualistico.
Lo scopo della legge era quello di far emergere, con tutte le cautele possibili, il
movimento operaio25. Una miopia della borghesia liberale denunciata da una
parte degli stessi liberali che vedevano in quelle associazioni non il mero stru-
mento di governo delle piazze ma una forma di emancipazione dalla carità e
dalla beneficenza delle nuove, ormai di massa, forme di emarginazione socio-
economica26. Rafforzare giuridicamente le SMS doveva procedere nella direzio-
ne di dare un supporto giuridico solido alla forza di espansione degli scopi di
quelle associazioni. La vivacità delle SMS stava proprio nella capacità di coglie-
re con rapidità i bisogni concreti della società civile e nella funzione di dare
impulso ad altre forme di cooperazione solidale, non ultima quella del credito.
Un'occasione persa dal legislatore, per la miopia di una classe dirigente os-
sessionata dal dissenso politico associato e dallo Stato, dall'unità politica nazio-
nale che passava anche per l'omologazione giuridica e la tenuta dei codici27.
Se da un lato l'ordinamento giuridico liberale sembra segnare sempre più il
passo rispetto alle trasformazioni socio-economiche, d'altro lato l'ordine libera-
le mostra valvole di sicurezza28 che contribuiscono alla sua conservazione. Ac-
24
«La disciplina giuslavoristica si affermò in Italia entro i tradizionali confini del diritto civile e non
contro di essi», G. CAZZETTA, Scienza giuridica, leggi sociali ed origini del diritto al lavoro, in G. CAZ-
ZETTA, Scienza giuridica e trasformazioni sociali. Diritto e lavoro in Italia tra Otto e Novecento, Mi-lano, Giuffrè, 2007, p. 69. 25
Si prendono ad esempio le due forme di società di mutuo soccorso dell'esperienza anglosassone: Friendly Society e Trade’s Union. Il riconoscimento di quest'ultime mostrava un notevole vantaggio per i governi liberali perché «gli operai che formarono quelle Unioni abbandonarono ogni idea ri-voluzionaria, ogni tentativo socialista o comunista di scuotere l’equilibrio sociale, e prendendo a base del loro movimento lo stato economico attuale della società, cercarono di migliorare le loro condizioni intellettuali e materiali; al padrone ed al capitale ultrapotente contro il singolo operaio, esse opposero, mediante l’aggregamento degli operai, la forza delle masse» (L. RODINO, Codice delle società di mutuo soccorso e associazioni congeneri, Firenze, Barbèra, 1894, p. 13). Sulla questione cfr. M. STRONATI, Dalle Società di mutuo soccorso alla Mutua sanitaria integrativa?, «Non Profit», 1/2014, pp. 189 ss. 26
L. MARTONE, Le prime leggi sociali nell’Italia liberale (1883-1886), «Quaderni fiorentini per la Sto-ria del pensiero giuridico moderno», 3-4 (1974-1975), I, pp. 103 ss. Sul punto cfr. M. STRONATI, Un’idea di giustizia solidale. Il buon giudice Majetti e il caso della giurisprudenza “minorile” nel pri-mo Novecento, «Quaderni Fiorentini per la Storia del pensiero giuridico moderno», II, 40/2011, pp. 858 ss. 27
G. CAZZETTA, Codice civile e identità giuridica nazionale. Percorsi e appunti per una storia delle codificazioni moderne, Torino, Giappichelli, 2011; G. CAZZETTA (ed), Retoriche dei giuristi e costru-zione dell'identità nazionale, Bologna, il Mulino, 2013. 28
Ci si riferisce al "doppio livello di legalità", cioè un concetto che «descrive i meccanismi che fan-
no prevalere talvolta l’opportunità politica sulla regola giuridica e sui “principi”, comprimendo dirit-ti e garanzie». Non si tratta solo di «un nodo interno al “problema penale liberale”», né è questione che riguarda singoli autori, «quanto piuttosto il reale dimensionamento dello statuto costituzionale
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canto al diritto dei codici penetra il diritto delle leggi speciali e della giurispru-
denza: «Le corti di cassazione escono dai limiti formali della legge» così come
si moltiplicano le fonti giuridiche attraverso le leggi sociali, «ma le libere inter-
pretazioni non hanno sanzione legale e dunque generano confusione circa i cri-
teri dei giudicanti e le leggi speciali sono particolari e transitorie»29.
La parte più attenta della scienza giuridica italiana si domanda quale potes-
se essere il valore da attribuire alle leggi sociali, per esempio la legge 17 marzo
1898 n. 80 sull'assicurazione obbligatoria per gli infortuni degli operai sul lavo-
ro. Una legge che sovverte il principio codicistico del nesso di causalità tra re-
sponsabilità e colpa. Il 30 gennaio 1900, durante il discorso inaugurale dell'an-
no giuridico alla Corte di Cassazione di Roma, il senatore Quarta pone la que-
stione, se la legge sugli infortuni del lavoro sia una legge eccezionale, rispetto ai
principii generali del diritto, o piuttosto «un jus novum» rispondente al «prin-
cipio di assoluta giustizia»30. Naturalmente la domanda è retorica, perché se-
condo il magistrato la legge sull'assicurazione obbligatoria sugli infortuni non
poteva essere considerata una legge eccezionale ma una legge speciale dal mo-
mento che
«il diritto non è tutto nel codice civile, perché il codice contiene il diritto tradiziona-le, ma al di fuori di esso si va incessantemente elaborando un diritto nuovo, secondo i nuovi rapporti sociali; che la legge sugli infortuni è appunto una nuova creazione del diritto, determinata dalla nuova organizzazione economico-industriale; e che pertanto, come legge speciale e non eccezionale, essa è suscettibile di larga interpre-tazione»
31.
Il magistrato descrive un fenomeno effettivamente operante, quello della
creazione del diritto al di fuori dei circuiti della legge, un fenomeno dovuto alla
grave «sperequazione fra i codici e la vita», colmata dalla coscienza giuridica
che «sorpassa la legge stessa, formando un diritto oltre i limiti della medesi-
ma». Si tratta di un diritto nuovo che «si forma per libera ricerca dei dotti, dei
magistrati e di tutti i giuristi di professione. A questo risultato si giunge, spo-
della libertà e dello Stato che attraversa la cultura liberale. Probabilmente non è solo una questione di «affiancamento» (per dirla con Mario Sbriccoli), ma più in profondità abbiamo a che fare con la struttura mentale e operativa dell’ordine liberale» (L. LACCHÈ, Il nome della «libertà» tre dimensioni nel secolo della costituzione (1848-1948), in F. BAMBI (ed), Un secolo per la Costituzione (1848-1948). Concetti e parole nello svolgersi del lessico costituzionale italiano, Firenze, Accademia della Crusca, 2012, pp. 36-37; F. BAMBI, La giustizia per i galantuomini. Ordine e libertà nell’Italia liberale: il dibat-tito sul carcere preventivo (1865-1913), Milano, Giuffrè, 1990; M. SBRICCOLI, La penalistica civile. Teo-rie e ideologie del diritto penale nell’Italia unita, ora in M. SBRICCOLI, Scritti di storia del diritto penale e della giustizia. Scritti editi e inediti (1972-2007), Milano, Giuffrè, 2009, vol. I, p. 524). 29
M. GALDI, Il diritto novo. Studio giuridico sociale, Napoli, Tip. Giannini & Figli, 1908, p. 37. 30
E. BRUNI, Socialismo e diritto privato, Roma, Sandron, 1907, p. 152. Cfr. M. STRONATI, Il socialismo giuridico e il solidarismo, «Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti . Il contributo italiano alla storia del pensiero», ottava appendice, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 2012, p. 409. 31
E. BRUNI, Socialismo e diritto privato, Roma, Sandron, 1907, pp. 152-153.
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gliandosi di quel cieco feticismo, che s’incominciò ad avere sin dalla metà del
XIX secolo, per la parola della legge»32.
La rappresentazione della dottrina è però illusoria, anche quando coglie che
la soluzione dovrebbe essere "di sistema", concretizzarsi in una vera «riforma
legislativa che ristabilisca l’equilibrio tra diritto individualistico e diritto sociali-
stico», a cominciare dal legislatore che dovrebbe affermare il principio «con
regole giuridiche fondamentali» e rafforzando il ruolo dell'interprete, ovvero il
giudice che applica con «piena libertà di spirito», il principio ai singoli casi. Il
legislatore «dovrebbe tener conto che occorre rafforzare la nozione del dovere,
col sapersi rappresentare, nell’unione di sentimenti e di fratellanza la maggiore
possibile, i diritti dell’uno in confronto dell’altro»33.
Al contrario, proprio la «fase, compresa tra gli anni ottanta del XIX secolo e
la conclusione del primo conflitto mondiale, caratterizzata dall'introduzione
negli ordinamenti dei principali paesi europei di moderni schemi di assicura-
zione obbligatoria» determina il passaggio dal «vecchio concetto di assistenza
ai poveri» al moderno Stato sociale e «l'istituzionalizzazione del concetto di as-
sicurazione sociale»34.
3. Michela Marzano evoca un'efficace metafora di Ulrich Beck35, della socie-
tà parcellizzata come «un mucchio sparso di foglie al vento formato da indivi-
dui», ovvero, una società insicura nella quale l'individuo tenta di proteggere sé
stesso rendendosi indipendente dagli altri. Un bisogno ossessivo che innesca il
compulsivo ricorso ai contratti per compensare la mancanza di fiducia e rag-
giungere certezze e garanzie. La conseguenza è quella di giuridicizzare le rela-
zioni tra le persone e innescare meccanismi di sfiducia reciproca36.
La critica all'individualismo è un tratto caratteristico anche dello stesso Sta-
to liberale di diritto. L'efficace metafora degli individui come foglie al vento ri-
corda immagini e riflessioni circolanti già nel XIX secolo. Per esempio la critica
di Francesco Racioppi all'eccesso di semplificazioni: la riduzione della società
da organismo complesso «d'aggregazioni vive, di relazioni stabili, di gruppi
spontanei» a « semplice moltitudine d'individui isolati, come un polviscolo d'a-
32
M. GALDI, Il diritto novo, p. 37. 33
Ivi, p. 38. 34
G. SILEI, Le socialdemocrazie europee e le origini dello stato sociale (1880-1939), Dipartimento di Scienze Storiche, Giuridiche, Politiche e Sociali, Working Paper n. 35, Siena 1998, p. 2. Il codice sa-nitario introdotto da Crispi nel 1888 e la riforma delle Opere Pie del 1890, che puntava alla laicizza-zione del sistema assistenziale, furono il chiaro risultato delle influenze provenienti dal Reich tede-sco (Ivi, p. 3). 35
U. BECK, Le conflit des deux modernités et la question de la disparition des solidarités, «Lien social et politique», 39/1998. 36
M. MARZANO, Avere fiducia. Perché è necessario credere negli altri, Milano, Mondadori, 2010, p. 91.
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tomi disciolti, che si può disporre a mucchietti come si vuole»37. La critica più
in generale riguarda la semplificazione di tutta la dimensione giuridica nella
legge e in particolare il principio astratto e meramente formale di eguaglianza
ben rappresentato dalla formula contrattuale dello scambio (vendita) di equiva-
lenti. La reciprocità rappresentata dalla mutualità è invece uno scambio rela-
zionale che non si realizza necessariamente nell'uguaglianza, ma piuttosto nel-
le particolari, differenti, necessità/bisogni dei membri nelle loro specifiche
condizioni.
Il tipo di stretta di mani che più si avvicina alla solidarietà che qui si tenta di
osservare è quella tra mani che rappresentano le diversità di status per prove-
nienza sociale, di genere, di età etc., cioè l’irriducibile diversità di ciascuno, so-
prattutto se guardato attraverso i personali bisogni e interessi.
In questo senso le società di mutuo soccorso costituiscono un moderno
strumento di espressione della società civile che si auto-organizza per dare ri-
sposte ai bisogni reali e concreti delle piccole comunità, radicate in specifici
territori. Una visione dell'uomo nel mondo che sovverte la visione newtoniana
dello spazio. Si tratta di una
«rappresentazione dei processi sociali [che] va incontro a una duplice semplificazio-ne: da un lato, supponendo che essi si svolgano autonomamente, indifferenti a ogni ‘localizzazione’, e, dall’altro lato, presentando il territorio come un’entità meramente ‘naturale’, di cui sia possibile una descrizione a prescindere dal suo intimo coinvol-gimento nei processi sociali»
38.
Lo «spazio» delle SMS è anzitutto il «precipitato di pratiche sociali»39, il loro
territorio può anche avere i confini ristretti della pieve, esattamente il luogo
dove si svolge la personalità umana, ma proprio perché determinanti sono le
pratiche sociali, i valori, le virtù condivise e soprattutto i bisogni comuni, quel
«territorio» può anche essere uno spazio potenzialmente infinito40.
Le SMS sembrano possedere la caratteristica della resilienza, nel senso di es-
sere strategie dinamiche di gestione dei rischi. Il modello associativo mutuali-
stico mostra, in effetti, la capacità di adattamento e rinnovamento di fronte ai
37
F. RACIOPPI, La libertà civile e la libertà politica. Prolusione al corso libero di diritto Costituzionale
tenuta all'Università di Roma il 10 Dicembre 1894, «Archivio di Diritto Pubblico», V/1894, pp. 84-85. 38
P. COSTA, Uno spatial turn per la storia del diritto?, p. 7. 39
Prendo a prestito un'espressione di Pietro Costa: «i ‘luoghi’ non sono inerti porzioni di uno spa-
zio meramente fisico, ma sono il precipitato di pratiche sociali» (Ivi, p. 22). 40
Si tratta d'un cambio di prospettiva: «Se si prova a rovesciare la prospettiva e si guardano le cose
“dal di fuori” del territorio, non è che quest’ultimo scompaia; anzi, potrebbe riacquistare nuova va-lenza “progettuale” [...]. Bisogna però abbandonare l’idea fissa di “confine” come misura del territo-rio e sostituirla con quella di “rete” – nel senso di web – e forse sovrapporre al territorio la “reticola-rità”, come spazio allargabile all’infinito ma centrato su un’infinità di punti singoli, di veri e propri nodi, dotati di autonomia e relativa centralità. Il territorio tornerebbe così ad essere qualcosa che dev’essere fatto e conquistato ogni giorno, da ciascuno, che cioè non è predefinito e codificato, ma dev’essere costruito e ricostruito in continuazione, da e con uomini sempre uguali e sempre diversi in uno spazio e un tempo che non hanno più limiti, confini», P. SCHIERA, Misura, Trento, professio-naldreamers, 2011, pp. 10-11: http://www.professional-dreamers.net/_prowp/wpcontent/uploads/ 978-88-904295-6-9web.pdf.).
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continui mutamenti delle dinamiche socio-economiche, e più in generale del
divenire sociale. La solidarietà dei soci delle SMS si costruisce attorno a scopi
flessibili, determinati dalle sollecitazioni degli stessi "soci" in un contesto in
continuo cambiamento. È dunque la solidarietà che produce la resilienza, cioè
la capacità di mutare e innovarsi e non semplicemente conservare gli status dei
membri.
La solidarietà mutualistica evoca un'idea di ordine giuridico distante da
quello legalistico, che si risolve nella sola potestà legislativa, così come evoca
un tipo di relazione tra Stato e società distante da quella semplicistica dell'ordi-
ne giuridico liberale. Nel corso dell'Ottocento emergono istanze di cambiamen-
to dettate dall'osservazione sociale attraverso le nuove emergenti discipline so-
ciali, la statistica, l'antropologia, etc., che "contaminano" il discorso giuridico.
Alessandro Levi41, per esempio, sostiene che «il rapporto giuridico non è re-
lazione ideale fra il soggetto e la norma, bensì relazione reale – attuale o possi-
bile, s'intende, secondo il modo ed il momento in cui la si esamini – fra un sog-
getto ed altri soggetti»42. In buona sostanza la realtà contraddice il postulato
positivistico secondo cui tutto il diritto sarebbe risolto nella legge, così come la
realtà smentisce l'ipotesi che la dimensione giuridica possa essere autosuffi-
ciente:
«non v'è nessun rapporto giuridico, nessuna azione umana e nessuna relazione inte-rumana, che sia soltanto giuridica, che sia in tutto regolata dal diritto, e non anche dalla morale e dall'economia, come non v'è, reciprocamente, alcuna attività che, considerata da queste guise dell'operare, non possa essere concepita altresì sub spe-cie iuris. Ciò che differenzia, appunto, il diritto dall'economia e dalla morale [...], non è il contenuto - che è identico, tutta la realtà pratica umana - bensì il punto di vista, che, per il diritto, è quello dell'alterità, cioè della compatibilità fra l'operare dell'un soggetto e quello degli altri soggetti»
43.
Certamente l'osservazione sociologica contraddice il postulato pubblicistico
della società come mero aggregato di individui, anzi l'ordine giuridico
«può paragonarsi ad un assieme di poliedri, tanti quanti sono gli individui, che compongono lo Stato o meglio l'umanità: e, come nel favo delle api le cellette, da es-se fabbricate cilindriche, per la reciproca pressione diventano prismiche, così le sfere [...] si trasformano in altrettanti poliedri, per le reciproche, necessarie restrizioni nello stato di civile società. Ecco il concetto di diritto, che è una libertà fisica limita-
41
Nel volume del 1914 (Contributi ad una teoria filosofica dell'ordine giuridico, Genova, Formiggini),
Levi «attua compiutamente il passaggio dalla tesi della relazionalità della norma giuridica (la nor-ma giuridica è norma bilaterale), alla tesi della relazionalità del diritto (il diritto è rapporto inter-soggettivo)». (Vedi la relativa voce biografica di P. DI LUCIA, in «Dizionario Biografico dei Giuristi Italiani (XII-XX secolo), diretto da I. BIROCCHI – E. CORTESE – A. MATTONE – M.N. MILETTI, Bologna, Il Mulino, 2013, vol. II, p. 1176. 42
A. LEVI, Contributi ad una teoria filosofica dell'ordine giuridico, Genova, Formiggini, 1914, p. 457. 43
Ivi, p. 458.
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ta, ed è fondato, non sul libero arbitrio, ma sulla necessità dei rapporti esterni indi-viduali e sociali»
44.
Dal punto di vista pubblicistico le società di mutuo soccorso rappresentano
un concreto esempio storico di rapporti tra Stato e società alternativo a quello
atomistico e individualistico, un “modello” che poggia sul self-help, sulla parte-
cipazione responsabile e democratica, un modello che riproduce la struttura
formale della solidarietà45 che coniuga, cioè, la centralità del singolo con la ne-
cessaria dimensione relazionale del benessere individuale. Il principio “una te-
sta un voto”, realizza un’eguaglianza sostanziale, e non solo formale e astratta,
tra i soci e induce una partecipazione responsabile nella vita concreta delle so-
cietà: i diritti sociali prima di essere diritti da reclamare nei confronti di qual-
cuno (per esempio lo Stato), sono diritti da perseguire, semmai, con
l’intervento sussidiario dello Stato e la collaborazione con le pubbliche istitu-
zioni.
Non solo, dunque, un modello di inclusione sociale ma anche espressione
del protagonismo responsabile della società civile. In questo senso la solidarietà
espressa dal mutuo soccorso è distante dal concetto moderno di «redistribution
of financial resources by the state», cioè un concetto di solidarietà che serve «to
legitimate the welfare state», la cui caratteristica
«is not that it consists of moral ideals or duties to support the needy, but that this support is legally institutionalized by the state. Needy citizens do not expect help from their fellow citizens, but instead have a formalized claim to such aid from the appropriate institutions, which puts them in a position to force the appropriate ser-vices with legal means»
46.
4. La solidarietà rappresentata dalle SMS si può considerare uno "scarto"
della storia, ciò che non ha prevalso o comunque che non è stato considerato
adeguato alle necessità contemporanee. Come è noto, è prevalso lo "Stato socia-
le", che pure affondava «le radici in quella koiné solidaristica tardo-
ottocentesca che reclama[va] (pur se composta da diversi idiomi teorici) il su-
peramento dell'individualismo e un maggiore coinvolgimento dello Stato nel
44
E. FERRI, La teorica dell'imputabilità e la negazione del libero arbitrio, Firenze, Barbera, 1878, p. 410. Sulla metafora delle api e dell'alveare cfr. P. COSTA, Le api e l'alveare. Immagini dell'ordine fra 'antico' e 'moderno', in M. SBRICCOLI ET AL., (ed), Ordo juris. Storia e forme dell'esperienza giuridica, Milano, Giuffrè, 2003, pp. 373-409. 45
«The principle of solidarity becomes functional as an ethical and political principle in contexts
where there is a potential divergence between individual self-interest and the good of the commu-nity. Without this potential conflict, the concept loses the tension between the descriptive and the prescriptive dimensions (between the is and the ought), collapsing into a description of the natural reciprocity between individual and community, in the context of a potential divergence of individ-ual self-interest and the good of the community, solidarity calls for a restraint on the pursuit of immediate self-interest, and thus a direct identification with and advancement of the community. This is its formal structure», G. KHUSHF, Solidarity as a Moral and Political Concept: Beyond the Lib-eral/Communitarian Impasse, in K. BAYERTZ (ed), Solidarity, Dordrecht-Boston-London, Kluwer Academic Publishers, 1999, p. 65. 46
K. BAYERTZ, Four Uses of "Solidarity", in K. BAYERTZ (ed), Solidarity, pp. 21-22.
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governo della società»47. Un modello profondamente in crisi ma, al di là delle
apparenze, i limiti dello Stato sociale non sono deducibili da analisi stretta-
mente economiche e finanziarie, piuttosto sono limiti societari e culturali: «Il
vero oggetto di un interrogativo sull'avvenire dello Stato assistenziale è la socie-
tà stessa». L'interrogativo di fondo è sull'evoluzione della struttura sociale «in
che modo lo Stato compone e scompone il sociale, in che modo dà forma ai
rapporti fra gli individui»48.
In buona sostanza è «nello stesso processo generativo dello Stato-nazione
moderno»49 che risiede la ragione della "crisi" dello Stato sociale, in particolare
nel racconto della rappresentazione della società che lo Stato-nazione, e la
pubblicistica in particolare, ha immaginato ed edificato.
Il vero punto di crisi dello Stato sociale sarebbe, dunque, «il rapporto fra
Stato e cittadino (così come si è venuto costruendo lungo l'intera parabola della
modernità)» ed è ciò che necessita di revisione:
«la convinzione che il tramite unico della solidarietà sociale sia lo Stato, come se fra Stato e cittadino non esistessero realtà intermedie. Questo assunto, caratteristico dello Stato liberale, orgogliosamente convinto della salutare e definitiva demolizione (ad opera della rivoluzione) dei corpi intermedi, resta sostanzialmente immutato anche nella fase della costruzione e della realizzazione dello Stato sociale e mostra ora tutta la sua fragilità»
50.
Questa è la ragione per cui lo "scarto" della storia appare oggi sotto una luce
diversa, ovvero un fenomeno che si misura nei tempi lunghi e che merita, forse,
una maggiore attenzione storiografica. La "crisi" della sovranità rende urgente
la riscoperta d'una diversa visione, perché il legame sociale e la solidarietà non
dipendono soltanto dall'azione dello Stato, ma sono tributari delle iniziative
spontanee dei membri della società:
«È a partire da questo presupposto che è possibile ripensare il tradizionale Stato so-ciale facendo leva su un fenomeno recente: sulla crescente importanza di quello che è stato chiamato il Terzo settore; un settore della società civile che è "terzo" rispetto allo Stato e al mercato perché racchiude organizzazioni e attività non riconducibili né all'intervento del primo né alla logica del secondo»
51.
In buona sostanza l'associazionismo costringe ad uscire dalla dicotomia Sta-
to/mercato per riscoprire quelle tradizioni che la storia ha scartato. D'altra par-
te, se è vero che solo nella storia recente si può parlare di Terzo settore52, però 47
P. COSTA, Cittadinanza sociale e diritto del lavoro nell'Italia repubblicana, in G.G. BALANDI - G. CAZZETTA (eds), Diritti e lavoro nell'Italia repubblicana, Milano, Giuffrè, 2009, pp. 32-33. 48
P. ROSANVALLON, Liberismo, Stato assistenziale e solidarismo, p. 16. 49
Ivi, pp. 18-19. 50
P. COSTA, Cittadinanza sociale e diritto del lavoro nell'Italia repubblicana, pp. 61-62. 51
Ivi, p. 62. 52
«Alle sue origini vi è una tradizione di pluralismo dei soggetti e di autonomie istituzionali, con
una forte sottolineatura dei legami associativi, che diverse tradizioni di pensiero hanno saputo va-lorizzare in un fecondo rapporto con il territorio. All'interno dello Stato liberale, la ricchezza degli interventi attuati dal Terzo settore ha avuto dunque un ruolo insostituibile e ha costituito la difesa
STRONATI, Una strategia di resilenza
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«nella sostanza», questo è stato una parte importante della nostra cultura eu-
ropea, anche giuridica, se per Terzo settore si intendono
«quei soggetti che si distanziano rispetto al mercato da un lato e allo Stato dall'altro, configurando una sfera di azione che non è totalmente "privata" ma neppure assimi-labile al "pubblico"; che non persegue un interesse particolare, ma che al contempo non può essere intesa come surrogato delle istituzioni pubbliche. In tal senso sem-pre vi è stato, nell'esperienza italiana, un "Terzo settore", ancorché esso sia stato così definito soltanto negli ultimi tempi, sulla scia di una letteratura di matrice basica-mente anglosassone»
53.
La solidarietà sociale non può realizzarsi unicamente dallo Stato, «destina-
tario di tutte le aspettative e proprio per questo sempre più incapace di rispon-
dere adeguatamente a esse»54, né il Terzo settore può pensarsi alle dipendenze
dello Stato. Piuttosto, il ruolo dello Stato dovrebbe essere quello di «centro di
coordinamento di gruppi spontaneamente emergenti dalla dinamica sociale»55,
o farsi «amministrazione condivisa», cioè alleata ad una società civile alla quale
riconosce autonomia e responsabilità56.
Il cittadino-socio sfugge alle categorie dell'individualismo e del collettivi-
smo, forse rappresenta quella terza via57 che il solidarismo otto-novecentesco
ha faticosamente cercato, in ogni caso costituisce un'alternativa sia alla logica
del cittadino mero utente di servizi, offerti sulla base di bisogni astrattamente
individuati, sia alla logica del cittadino mero cliente del mercato58.
migliore rispetto a tentativi di controllo spesso fuori misura» (E. BRESSAN, Percorsi del Terzo settore e dell'impegno sociale dall'Unità alla prima guerra mondiale, in E. ROSSI - S. ZAMAGNI (eds), Il Terzo settore nell'Italia unita, Bologna, Il Mulino, 2011, p. 13). 53
E. ROSSI - S. ZAMAGNI (eds), Il Terzo settore nell'Italia unita, p. 13. 54
P. COSTA, Cittadinanza sociale e diritto del lavoro nell'Italia repubblicana, p. 63. 55
Ibidem. 56
L. BRUNI - S. ZAMAGNI, Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, pp. 238-239; cfr. G. ARENA, Cittadini attivi. Un altro modo di pensare l'Italia, Roma-Bari, Laterza, 2006; G. ARENA, Uten-ti, clienti, alleati: nuove prospettive nel rapporto fra cittadini e pubbliche amministrazioni, in A. MONTEBUGNOLI (ed), Questioni di welfare, Milano, Angeli, 2002. 57
Tra i tentativi, forse il più noto, è quello di Léon Bourgeois che propone di uscire dal dualismo tra
idee liberali e idee socialiste e optare per una loro sintesi (cfr. L. BOURGEOIS, Solidarité, Paris, Ar-mand Colin et C.ie éditeurs, 1896, p. 9). Per una ricostruzione della storia della solidarietà nel pen-siero francese si rimanda a M.C. BLAIS, La solidarietà. Storia di un'idea, in B. MAGNI (ed), Tra ponti e confini: l'idea di solidarietà, Milano, Giuffrè, 2012, e ai riferimenti bibliografici ivi contenuti. 58
S. ZAMAGNI, Prefazione, in M. LIPPI BRUNI – S. RAGO – C. UGOLINI, Il ruolo delle mutue sanitarie
integrative. Le società di mutuo soccorso nella costruzione del nuovo welfare di comunità, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 11 ss.
SCIENZA & POLITICA, vol. XXVI, no. 51, 2014, pp. 101-115
DOI: 10.6092/issn.1825-9618/4631 ISSN: 1825-9618
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SCIENZA & POLITICA
per una storia delle dottr ine
A B S T R A C T
Il saggio
*****
Il saggio presenta un'analisi dei più rilevanti approcci al tema della solidarietà tra generazioni. Il tempo delle genera-zioni ha incontrato ormai da decenni la storia delle idee. Oggi, all’incrocio tra storia concettuale e sociologia generale, analisi dei processi culturali e storia sociale, la riflessione teorica su un paradigma di ineliminabile vaghezza semantica come quello di "generazione politica" e sul conseguente rapporto di complicità o conflitto tra generazioni si connota per il peso crescente acquisito dal tema della solidarietà intergenerazionale, declinato sia nello spazio delle relazioni della vita tra vecchi, adulti e giovani, che in quello della storia, tra vivi, morti e non ancora nati. È la "contemporanei-tà del non contemporaneo" a imporre la sua logica, chiedendo tuttavia forme nuove di comprensione e rappresenta-zione delle odierne dinamiche globali. PAROLE CHIAVE: Generazione politica; Solidarietà intergenerazionale; Catena del tempo; Welfare.
Gli aggettivi della solidarietà. Traiettorie di ricerca sulla solidarietà
intergenerazionale
The Adjectives of Solidarity.
Trajectories of Research on Intergenerational Solidarity
Paola Persano
Università di Macerata [email protected]
The essay presents an analysis of most of the approaches to the theme of solidarity between generations. For sev-eral decades the time of generations has met the history of ideas. Today, at the intersection of conceptual history and general sociology, and of the analysis of cultural processes and social history, a political reflection is taking place about the "political generation" as a paradigm unavoidably characterized by a kind of semantic vagueness. The same reflection is also confronted with the relationship of complicity or conflict between generations charac-terized by the growing weight acquired by the issue of intergenerational solidarity. This, in turn, is reflected both in the space of life relationships between old, adults and young people, and, in terms of history, among the living, the dead and the unborn. The so-called "non-contemporaneity of contemporary" is imposing its logic, but it re-quires new forms of understanding and representation of today's global dynamics.
KEYWORDS: Political Generation; Intergenerational Solidarity; Chain of Time; Welfare.
PERSANO, Gli aggettivi della solidarietà
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1. Premessa
Nel panorama internazionale delle scienze storiche, sociali, giuridiche e po-
litiche degli ultimi anni, dalla fine del secolo scorso e per tutto questo nuovo
XXI secolo, il tema della solidarietà è stato affrontato a più riprese, non sempre
o non solo in termini assoluti, ma apponendovi aggettivi qualificativi che, nel
restringere il campo applicativo del termine, ne hanno tuttavia spesso allargato,
di contro, la complessità semantica. È questo il caso della solidarietà intergene-
razionale, di cui questo saggio vuol provare a definire contorni e significati,
spazio di pertinenza e variazioni di senso.
Nella locuzione si combinano insieme i due lemmi "solidarietà" e "genera-
zione" – o meglio "generazioni" – che godono entrambi di una storia articolata
e affascinante, di cui intendo qui dar conto in maniera volutamente selettiva, e
lungo una precisa direzione argomentativa che, dall’osservazione del secondo
termine provi a ricavare elementi utili a far luce anche sul primo. Proprio il
rapporto tra le generazioni in un dato contesto sociale, politico e culturale, cre-
do infatti permetta di formulare una qualche ipotesi sulle forme della solidarie-
tà tra individui contemporanei e non coetanei, da un lato, e tra individui coeta-
nei ma non contemporanei, dall’altro. Si tratta del modo quanto meno duplice,
non sempre chiaramente distinto1, in cui è possibile alludere al rapporto gene-
razionale come riflesso della "contemporaneità del non contemporaneo"2, a se-
conda che la solidarietà – o la sua assenza – riguardi la relazione tra individui di
coorti o classi di età (unità di generazione, scriverà Karl Mannheim3, e non ge-
nerazioni vere e proprie) diverse, ma coesistenti in una stessa epoca – il nesso
vecchi-adulti-giovani –, o piuttosto il legame tra individui politicamente attivi
1 Per una distinzione teorica, al contrario, sufficientemente netta, P. RICOEUR, La memoria, la sto-
ria, l’oblio (2000), Milano, Raffaello Cortina Editore, 2003, p. 565. Il filosofo sostiene che «la no-zione di generazione […] offre il duplice senso della contemporaneità di una “medesima” genera-zione, alla quale insieme appartengono esseri di età differenti, e della successione delle genera-zioni, nel senso di sostituzione di una generazione a opera di un’altra, […] duplice relazione, che viene molto ben riassunta da Alfred Schutz nel triplice regno dei predecessori, dei contemporanei e dei discendenti. Quest’espressione segna la transizione fra un legame interpersonale in “noi” e una relazione anonima». Sulla figura del regno dei predecessori, dei contemporanei e dei discen-denti, il riferimento esatto è ad A. SCHUTZ, La fenomenologia del mondo sociale (1960), Bologna, il Mulino, 1974. Per tutte le citazioni di testi in lingua straniera, di cui da ora in poi non sia indicata l’edizione italiana, la traduzione è opera dell’autrice. 2 I rimandi necessari sul punto sono soprattutto alla "non contemporaneità" come estraniazione dal
proprio presente storico (Ernst Bloch) e alla ‘contemporaneità del non contemporaneo’ come coesi-stenza, nella modernità, di velocità e ritmi esperienziali difformi (Reinhart Koselleck). Alla base delle due definizioni, più "passatista" la prima, più aperta al futuro la seconda, stanno, come mi è capitato di sottolineare altrove, «[i] luoghi della riflessione marxiana su preistoria e storia, sviluppo e sottosviluppo» – in particolare il Marx dell’Introduzione a «Per la critica dell’economia politica» (1939), in Opere scelte, Roma, Editori Riuniti, 19793, pp. 711-742. Per la breve citazione tra virgolette e per una serie di considerazioni più generali sul tema, rinvio a P. PERSANO, La catena del tempo. Il vincolo generazionale nel pensiero politico francese tra Ancien régime e Rivoluzione, Macerata, Eum, 2007, pp. 25 ss. e p. 41. 3 K. MANNHEIM, Il problema delle generazioni (1928), in K. MANNHEIM, Sociologia della conoscenza,
Bari, Dedalo, 20002.
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(solitamente, sebbene non necessariamente, gli adulti) di epoche diverse. Ri-
spetto aa questi ultimi il discorso sulla solidarietà diventa davvero intergenera-
zionale, nel senso di implicare le dinamiche di cooperazione e di conflitto tra
generazioni politiche che, succedendosi le une alle altre, rappresentano entità
tendenzialmente affini, se non proprio omogenee, in epoche storicamente di-
verse.
Per raggiungere l’obiettivo di indagine annunciato occorre ricostruire la
messa a tema della questione in sede tanto di dibattito teorico quanto di comu-
nicazione sociale e politica, come pure di decisione istituzionale, e farlo eleg-
gendo nella contemporaneità politica l’ambito delle dinamiche sociali ricondu-
cibili alla dimensione generazionale. Appare chiaro come la letteratura sul tema
si concentri oggi in prevalenza sul primo versante di analisi, quello della rela-
zione più o meno solidale tra vecchi, adulti e giovani, specialmente indagata
all’interno delle società del post o del New Welfare, con un’attenzione particola-
re al legame di responsabilità reciproca tra vecchi e giovani, oggetto dell’agenda
europea perlomeno dal 2012 – European Year for Active Ageing and Solidarity
between Generations –, ma anche destinatario di campagne di comunicazione e
di confronto pubblico come quella condotta in rete nei primi mesi del 2014 sul-
la necessità che il nostro Paese adotti un’imposta di solidarietà generazionale4.
Per non dire degli sforzi sistematici di approfondimento teorico, dentro e fuori
i confini europei, in prospettiva tanto nazionale quanto comparata, e in svariati
settori di ricerca – dalla sociologia alla demografia, passando per la storia poli-
tica5; nonché dei tentativi di intervento de iure condendo e per le politiche futu-
re prefigurate come politiche di solidarietà generazionale6. Ciononostante,
scopo di questo saggio è di percorrere il sentiero attualmente – ma non in asso-
luto – meno battuto, quello della relazione tra individui (adulti) di generazioni
politiche diverse che, pur vivendo le une rispetto alle altre dentro una perma-
nente sfasatura temporale – il salto generazionale –, proprio dal fluire della
temporalità storica traggono occasioni di contatto talvolta pacifico, talaltra con-
4 L. MONTI, Serve un’imposta di solidarietà generazionale, «Sbilanciamoci», 31/01/2014, http://
www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Serve-un-imposta-di-solidarieta-generazionale-22022, letto l’11/12/2014. 5 In ambito sociologico: C. SARACENO (ed), Families, Ageing and Social Policy. Intergenerational So-
lidarity in European Welfare States, Cheltenham, UK & Northampton, MA, USA, EE Publishing, 2008; L. CHAUVEL, La solidarité générationnelle. Bonheur familialiste, passivité publique e A.-M. GUILLEMARD, Une nouvelle solidarité entre les agês et les générations dans une société de longévité, entrambi in S. PAUGAM (ed), Repenser la solidarité, Paris, PUF, 2007, rispettivamente pp. 269-287 e pp. 355-375. Più datato, in ambito demografico: H.A. BACKER - P.L.J. HERMKENS (eds), Solidarity of Generations, Amsterdam, Thesis Publishers, 2 voll., 1993, 1994. Infine, nel campo della storia politi-ca: A. PERCHERON - R. REMOND (eds), Age et politique, Paris, Economica, 19992; A. MUXEL, La poli-tique au fil de l’âge, Paris, Presses de Sciences Po, 2011. 6 L. MONTI, Spunti per una politica di solidarietà generazionale, «LUISS Guido Carli»,
http://docenti. luiss.it/monti/files/2013/02/Spunti-per-una-politica-di-solidariet%C3%A0-genera zionale-03.06.13.pdf, letto l’11/12/2014.
PERSANO, Gli aggettivi della solidarietà
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flittuale, nel senso della mediazione o dell’attrito tra le ragioni del passato, del
presente e del futuro. Con la conseguenza che è la nozione di generazione poli-
tica «in quanto soggetto portatore sia di una propria percezione temporale che
di capacità di azione politica»7 ad apparire cruciale, laddove l’analisi dei proces-
si socio-politici sia diretta a cogliere le implicazioni che il nesso generazionale,
nella sua essenza eminentemente temporale, può avere per lo studio delle me-
tamorfosi contemporanee del paradigma della solidarietà. Determinante in tal
senso l’intuizione koselleckiana per cui
«le spinte esperienziali di tipo politico […] evocano […] delle comunanze minimali che comprendono tutte le fasce d’età, così che al di là della generazione biologica e di quella sociale si può parlare anche di unità generazionali di tipo politico. Questa impronta comune si mantiene sino a quando la generazione si estingue in modo temporalmente graduato»
8.
Una storia dell’idea di solidarietà e delle sue concretizzazioni pratiche meno
influenzata dal nesso vecchi-giovani e più orientata a comprendere le dinami-
che socio-politiche e culturali tra generazioni politiche differenti – la catena dei
vivi, dei morti e dei non ancora nati calata nel pieno del fluire storico9, e non
ridotta a metafora esclusiva dell’ecologismo o della riflessione etico-giuridica
sul destino e sui diritti delle generazioni future10
– chiede dunque per sé una
ricostruzione preliminare degli usi storiografici della categoria di generazione
in generale, e di generazione politica in particolare. Il tutto, mi pare, in perfetta
sintonia con l’impianto complessivo del monografico che ospita questo saggio.
2. Il paradigma generazionale: sulla vaghezza di una nozione
Riferendosi alla generazione, qualcuno ha scritto che «fonte d[i] ambiguità è
il fatto che il [suo] significato metaforico […], che è incompatibile con il suo si-
gnificato letterale (o piuttosto originale) [di trasmissione genetica da padre in
figlio], [sia ormai] divenuto dominante»11. Come a dire che proprio lo slittamen-
to dall’uso letterale a quello metaforico e simbolico della parola, nel consacrar-
ne la massima espansione nel dibattito pubblico e nella ricerca scientifica, ne
7 P. PERSANO, La catena del tempo, p. 40.
8 R. KOSELLECK, Erfahrungswandel und Methodenwechsel. Eine historisch-anthropologische Skizze,
in C. MEIER - J. RÜSEN (eds), Historische Methode, München, DTV, 1988, pp. 21-22; in L. SCUC-
CIMARRA, La Begriffsgeschichte e le sue radici intellettuali, «Storica», 10/1998, pp. 7-99, pp. 65-66. 9 Prova ad andare in questa direzione la mia già citata ricerca sulla catena generazionale come cate-
na del tempo in Francia, alle soglie e nel pieno della Rivoluzione settecentesca. 10
S. NERI SERNERI, Il futuro della Terra. Risorse e ambiente per le generazioni che verranno, in “Gene-
razioni”, «Parolechiave», 16/1998, pp. 204-232; R. BIFULCO - A. D’ALOIA (eds), Introduzione a Un di-ritto per il futuro. Teorie e modelli dello sviluppo sostenibile e della responsabilità intergenerazionale, Napoli, Jovene, 2008, pp. IX-XXXV. 11 D.S. MILO, Trahir le temps, Paris, Les Belles Lettres, 1991, p. 183. Si legge altrove: «Pesantemente
caricata di senso, questa nozione resta vaga, poiché se esistono scritti che trattano di generazioni particolari, di relazioni tra generazioni, o ancora che procedono a ricostruzioni storiche per gene-razioni, poche trattazioni hanno approfondito la nozione stessa di generazione», C. ATTIAS-DONFUT, Sociologie des générations. L’empreinte du temps, Paris, PUF, 1988, p. 9.
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avrebbe anche moltiplicato la vischiosità e la vaghezza semantica. Eppure, è so-
lo attraverso il suo uso metaforico, denaturalizzato12
, che la categoria di "gene-
razione" può ambire a farsi strumento euristico efficace, non già per stabilire i
contorni esatti dell’appartenenza generazionale, dicendo quand’è che una gene-
razione esiste e chi ne fa parte – in alternativa, magari, a forme più abusate di
appartenenza identitaria –, ma per decifrare fenomeni sociali e politici come
quello della solidarietà all’interno dei discorsi e delle retoriche comuni, delle
azioni collettive e delle politiche pubbliche, cedendo certamente al «richiamo
della generazione»13
, ma avvertiti del pericolo costante di rinaturalizzare quel
passaggio da una generazione all’altra che gli interpreti più accorti, a varie ri-
prese nella storiografia sull’argomento, hanno avuto cura di sottrarre alla sfera
della vita e ai tempi anagrafici14
.
Si sbaglierebbe quindi a ritenere che in fondo anche per le scienze sociali,
come per l’accezione di senso comune, «il [solo] fatto di appartenere a un de-
terminato ‘tempo’ accomun[i] […] i membri di una generazione»15
: c’è in gioco
decisamente molto di più e di diverso. Si tratta di valorizzare la dimensione del-
la temporalità storica come elemento imprescindibile di ogni eventuale sforzo
definitorio, riattualizzando il ribaltamento, già operato in certe fortunate sta-
gioni storiografiche, di quel tipico riferimento alla generazione già presente
nell’antichità classica, in quanto «eufemismo che sta a significare che i vivi
prendono il posto dei morti e che ricorda, con insistenza, che la storia è la sto-
ria dei mortali»16
. L’idea della successione generazionale come inesorabile pro-
cesso biologico di sostituzione dei vivi ai morti deve tornare a essere soppianta-
ta dalla sua rappresentazione in termini di fenomeno anche culturale, psicolo-
gico e socio-politico in grado di restituire lo scorrere del tempo umano nel suo
complesso17
.
Come si diceva qualche riga sopra, la consapevolezza di questo passaggio
obbligato dalla natura alla cultura, dal biologico al politico, si è manifestata al-
12
F. BENIGNO, Denaturalizzare le generazioni: narrazioni epocali e costruzione delle identità colletti-
ve, in L. CASELLA (ed), Generazioni familiari, generazioni politiche (XVII-XX secc.), «Cheiron», XXV, 49/2008, pp. 1-18. 13
Ivi, p. 2. 14
Si vedano sul punto: F. MENTRÉ, Les générations sociales, Paris, Bossard, 1920; J. ORTEGA Y GASSET, Il tema del nostro tempo (1923), Milano, Sugarco, 1994; e K. MANNHEIM, Il problema delle generazio-ni. 15
A. CAVALLI, Generazioni, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, Roma, Istituto dell’Enciclopedia
italiana, 1994, vol. IV, pp. 237-242, p. 237; poi – in forma più estesa – in «Parolechiave», 16/1998, pp. 17-33, p. 17. 16
C. ATTIAS-DONFUT, Sociologie des générations, p. 9. 17 Nelle Historiae di Erodoto (Libro II, 142), in realtà, già si parla di generazione come criterio diffe-renziale all’interno della durata secolare – tre generazioni per secolo. Questo modello, collocato fra le genealogie generazionali della classicità greca, è diffusamente analizzato da L. SCUCCIMARRA, Ge-nerare il tempo. Discorso generazionale e semantica della temporalità, in L. CASELLA (ed), Genera-zioni familiari, generazioni politiche, pp. 37-63, pp. 38-39.
PERSANO, Gli aggettivi della solidarietà
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tre volte in passato, soprattutto quando tra la metà del XIX e per tutta la prima
parte del XX secolo, in Francia e Germania, la generazione è stata elevata a pa-
radigma storiografico compiuto. Ciò è avvenuto mediante la presa d’atto fon-
damentale per cui solo la storia (della generazione e non storia generazionale18
)
può permettere di studiare la generazione come «strumento di costruzione e
strutturazione della datità storico-sociale»19
o, riprendendo fedelmente le tesi
recenti di Ohad Parnes, come «struttura narrativa e storiografica, […] figura
epistemologica centrale, […] concetto con mutevoli significati e in mutevoli
contesti teorici ed epistemici»20
, da cui – laddove possibile – l’emergere di quel-
la forma di espressione collettiva che è la generazione politica.
Se, come ampiamente chiarito altrove21
, l’interesse per la generazione politi-
ca quale strumento concettuale indispensabile alla conoscenza storica è ini-
zialmente emerso nella sociologia generale francese e tedesca – postcomtiana e
durkheimiana prima, mannheimiana poi –, è con la mediazione ancor oggi
estremamente attiva della sociologia storica22
che, in un secondo momento, la
generazione politica è entrata di diritto a comporre la cassetta degli attrezzi del-
lo storico (non solo francese e tedesco), in particolare contemporaneista. Ne è
scaturito uno scenario composito, attraversato fra l’altro dalla divisione interna
agli oggetti di ricerca tra generazioni intellettuali, sociali e politiche, come – con
un’incursione a volo d’uccello – può facilmente evincersi dal complesso degli
studi dedicati, ad esempio in Francia, alle generazioni intellettuali. Qui si è af-
fermato il filone relativo alla guerra d’Algeria, dove l’antinomia destra-sinistra
da sola non avrebbe saputo spiegare l’atteggiamento degli intellettuali francesi
dell’epoca, essendo lo shock delle culture politiche di natura anche generazio-
nale23
. C’è stato inoltre il più generale sviluppo delle ricerche sulle generazioni
18 Per un duro attacco all’«irrigidimento sincronico» della pretesa storia generazionale oggi mag-giormente in voga, si veda ivi, p. 40. Riprendendo una recente linea critica tedesca che va da Weigel a Parnes, Vedder, Willer e Seibt, l’autore punta l’indice contro «[le] banali retoriche generazionali che a vari livelli scandiscono il discorso pubblico delle società a capitalismo avanzato. Nell’attuale utilizzo del concetto [di generazione] prevale, infatti, il riferimento a immediate identità “anagrafi-che” di gruppo, per lo più definite in modo estremamente vago, alle quali viene riconosciuto un ruolo determinante nell’adozione di modalità comportamentali, stili di vita e atteggiamenti politi-ci. Con ciò la semantica della generazione sperimenta però un drastico irrigidimento sincronico destinato a produrre i suoi effetti più paradossali proprio nell’orizzonte della ricerca storiografica, a mano a mano che si consolida e si diffonde un modello di storia generazionale basato sulla pretesa auto-evidenza di unità generazionali come “comunità di vissuto e di esperienza”», ivi, pp. 39-40. 19
Ivi, p. 40. 20
Ivi, p. 41. 21
P. PERSANO, La catena del tempo, pp. 35 ss. 22
Sulla nascita della «socio-histoire», con la conseguente esigenza – sulla scorta delle ricerche con-
dotte da A. MAILLARD, Entre sociologie et histoire. Recherches sur les intersections des temps, Amiens, HDR de sociologie, UPJV, 2011 – di «storicizzare le temporalità sociali introducendo le congiunture storiche (micro e macro-evenemenziali) e reciprocamente sociologizzare le temporali-tà storiche prendendo in considerazione le esperienze vissute e soggettive», M. ROUSSEL, Une tra-versée de la socio-histoire entre temporalités sociales et temporalités historiques, in C. DUBAR - J. THOEMMES (eds), Les temporalités dans les sciences sociales, Toulouse, Octarès, 2013, p. 114. 23
Winock ha lavorato, nel noto numero di «Vingtième siècle» dedicato nel 1989 a Les générations, proprio alla messa a punto di un tentativo di stratigrafia storica che va, sempre per la Francia, dalla
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letterarie, maturate in Francia ma anche in Spagna – con Ortega y Gasset, pri-
ma, e Julián Marías24
, poi – intorno all’idea diltheyiana di generazione come
cerchia abbastanza ristretta di intellettuali. Quindi la ricerca sulla crisi della
storia condotta da Gérard Noiriel attraverso una tavola generazionale degli sto-
rici universitari francesi del XX secolo25
. Con riferimento, invece, ai lavori sulle
generazioni sociali, sono state la sociologia storica26
e la storia sociale a far regi-
strare i massimi sviluppi; mentre invece, per concludere con la storiografia sulle
generazioni politiche, un posto di rilievo vi è stato occupato dalla vicenda della
militanza politica, soprattutto alla luce di eventi di rottura come le rivoluzioni e
le guerre27
.
A ben vedere, in molte di queste ricerche il tema generazionale si fonde e si
confonde – come già anticipato in precedenza – con l’avvento dei giovani sulla
scena sociale e politica. Quella che Gianfranco Bettin Lattes definisce
l’«ideologia della giovinezza»28
avrebbe contrassegnato il XIX secolo, in quanto
la più adatta ai «bisogni tipici della società industriale». All’interno di questo
tipo di società «l’età adulta venne sempre più a indicare lo status di estraneità
alla modernità», anche perché
«la scuola e il servizio militare consentirono ai giovani, praticamente per la prima volta su una scala di massa, la conoscenza del mondo fino a quel momento preroga-tiva assoluta degli adulti […]. Nella seconda metà dell’Ottocento, poi, [sarebbero] e-mer[se] delle istituzioni nuove ed ispirate integralmente all’ideologia della giovinez-
za: i movimenti giovanili»29
.
Tuttavia, come dovrebbe risultare ormai chiaro da quanto detto in apertura
di saggio, una cosa è l’effetto di età e ben altra l’effetto di generazione30
, in cui il
dato anagrafico può attenuarsi fino addirittura a scomparire. Per restare al
campo della storia contemporanea, infatti, e prendendo per buona la defini- generazione dell’affaire Dreyfus alla cosiddetta “generazione 68”, passando proprio attraverso la generazione della guerra d’Algeria. 24
J. MARÍAS, Costellazioni e generazioni, Palermo, Palumbo, 1983. 25
G. NOIRIEL Sur la crise de l’histoire, Paris, Belin, 1996. 26
P. ABRAMS, Sociologia storica (1982), Bologna, il Mulino, 1983. 27
Solo a titolo di esempio: Klingberg per il legame tra i cicli alterni di isolazionismo e interventi-
smo nella politica estera americana e i vari climi di opinione maturati alla luce del passaggio da una generazione politica all’altra; Olivier Vieviorka sulla generazione della Resistenza in Europa; Phi-lippe Buton e le generazioni comuniste; René Remond e le destre in Francia; Sabbatucci sulle gene-razioni in Italia tra la Grande Guerra e l’avvento del fascismo e Treves su Il fascismo e il problema delle generazioni; Fogt per la storia politica della Germania fra gli inizi e gli anni Settanta del Nove-cento; infine l’ambito di ricerca sulla memoria della Shoah come memoria intergenerazionale all’interno della più ampia storia della questione ebraica. 28
G. BETTIN LATTES, Sul concetto di generazione politica, «Rivista italiana di scienza politica», XXIX, 1/aprile 1999, pp. 23-54, p. 24. 29 Ibidem. Si vedano inoltre: A. KRIEGEL, Le concept politique de génération: apogée et déclin, «Commentaire», 7/1979, pp. 390-399; e, come esempio di maggior attualità per il panorama storio-grafico di casa nostra, P. SORCINELLI - A. VARNI (eds), Il secolo dei giovani. Le nuove generazioni e la storia del Novecento, Roma, Donzelli, 2004. 30
Cfr. J.-P. AZEMA, La clef générationnelle, in Les générations, «Vingtième siècle», 22/avril-juin 1989, pp. 3-10, p. 6.
PERSANO, Gli aggettivi della solidarietà
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zione che di generazione offre Michel Winock quando rinvia a una popolazione
segnata da un «événement dateur», saldata da un’esperienza comune, che svi-
luppa una pratica e un discorso omogenei31
, vediamo come l’effetto di genera-
zione non chiami in causa il tempo biologico individuale, ma quello
dell’esperienza collettiva che si stratifica a partire da un evento originario – «gli
episodi referenziali» di Raoul Girardet32
.
Il nome di quest’ultimo è parte di un confronto pluridecennale sul valore
euristico della categoria di generazione che, culminato negli anni Trenta del
Novecento nella fertile polemica tra Lucien Febvre e Marc Bloch, taglia longi-
tudinalmente l’intera produzione storiografica sul tema, mettendo l’accento
sull’evento proprio allo scopo di provare a rispondere alla domanda se il tempo
storico moderno e contemporaneo, con i tratti di accelerazione o, addirittura,
di iperaccelerazione33
che molti gli attribuiscono, trovi nella generazione poli-
tica un indicatore appropriato. D’altro canto, interpretazioni ispirate alla lezio-
ne di Mannheim riconoscono che, affinché il nesso di generazione si instauri, è
comunque indispensabile che
«l’accelerazione della dinamica storico-sociale non rend[a] più possibile la semplice trasmissione ereditaria del patrimonio tradizionale di modi di sentire, di pensare e di agire. Un’influenza decisiva in proposito è svolta dagli eventi che risultano da mo-bilitazioni collettive e che funzionano come punti di cristallizzazione, come “entele-chie generazionali” [nozione aristotelica, rielaborata poi dallo storico dell’arte W i-lhelm Pinder]»
34.
Vediamo allora alcuni dei passaggi salienti del confronto storiografico ap-
pena evocato.
Nel 1928, anno di pubblicazione di Das Problem der Generationen, Karl
Mannheim, interrogandosi sullo statuto della sociologia storica, ne coglieva la
funzione specifica proprio nel riconoscimento ex-post degli eventi produttivi di
effetti generazionali, non essendo scontato che tutti lo siano35
. Come scrive
Alessandro Cavalli, procedendo all’accurata disamina delle riflessioni del socio-
logo ungherese, affinché abbiano effetti di natura generazionale gli eventi
«debbono costituire in qualche modo una rottura di continuità, una ‘cesura’ o
31
M. WINOCK, Les générations intellectuelles, ivi, pp. 17-38, p. 18. 32
R. GIRARDET, Du concept de génération à la notion de contemporanéité, «Revue d’histoire mo-
derne et contemporaine», XXX, avril-juin 1983, pp. 257-270, p. 265. 33
Sui tratti di ipermodernità, e non già più postmoderni, dell’epoca contemporanea in quanto atta
ad ospitare «una società liberale caratterizzata dal movimento, la fluidità, la flessibilità, separata come non mai dai grandi principi strutturanti della modernità, che hanno dovuto adattarsi al ritmo ipermoderno per non sparire», S. CHARLES, Introduction à la pensée de Gilles Lipovetsky, in G. LIPO-
VETSKY - S. CHARLES (eds), Les temps hypermodernes, Paris, Grasset & Fasquelle, 2004, p. 26. 34
A. CAVALLI, “Generazioni”, «16/1998», pp. 20-21. Corsivo mio. 35
«Non il fatto […] di essere nati nello stesso tempo cronologico, di essere diventati giovani, adulti e vecchi nello stesso tempo costituisce la collocazione comune nello spazio sociale, bensì la possibi-lità ad esso legata di partecipare agli stessi avvenimenti e contenuti di vita e, soprattutto, di essere esposti alle stesse modalità di stratificazione della coscienza», K. MANNHEIM, Il problema delle ge-nerazioni, p. 21.
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una ‘svolta’ nel flusso del divenire: tali sono le ‘crisi’ che minacciano valori e in-
teressi acquisiti (come guerre, rivoluzioni, cambiamenti di regime), ma anche
innovazioni sociali di grande portata che incidono sulle strutture della quoti-
dianità e modificano abitudini e modi di vita consolidati»36
. L’idea di fondo è
che «una generazione si forma negli anni di massima plasmabilità di coloro che
la compongono, sotto l’impatto di eventi chiave nel contesto storico-sociale,
mantiene con il progredire dell’età i suoi tratti fondamentali e scompare solo
con la graduale uscita di scena dei suoi componenti»37
.
Un anno dopo, nel 1929, intendendo applicare alla storia un metodo scienti-
fico centrato sull’uomo38
, e muovendosi all’interno dell’ambizioso progetto di
storia globale e interdisciplinare su base socio-economica veicolato dalle «An-
nales», Febvre esortava gli storici e gli scienziati sociali
«[a] mettere da parte nozioni confuse e inutilmente parassitarie come quella di gene-razione, la quale spingerebbe a ricostruire le principali vicende delle società umane in funzione di un dato gruppo di individui che avrebbero subìto, in condizioni più o meno analoghe d’età, di nazionalità, di cultura e di situazione sociale, l’impronta de-gli stessi avvenimenti – da scegliersi questi ultimi nei più diversi campi dell’attività umana: la politica, ma anche l’ambito intellettuale, morale, religioso, economico. Si tratterebbe, allora, di studiare sotto il nome di generazione “una media di influenze che si esercita su una media di individui”»
39.
La critica di Febvre all’indirizzo della generazione era certamente coerente
con quel progetto di Nouvelle histoire con cui agli inizi degli anni Trenta, e cioè
di fronte – e forse in risposta – alla Grande Depressione e al pieno dilagare dei
fascismi in Europa, si intendevano valorizzare la lunga e media durata dei pro-
cessi storici, le transizioni graduali e spesso inavvertite, i processi di composi-
36
Ibidem. 37
Ivi, p. 23. Poco prima l’autore afferma: «Mannheim non chiarisce le modalità mediante le quali gli eventi, cui gli individui sono esposti nella fase di massima plasmabilità, intervengono nella forma-zione delle strutture cognitive ed emozionali della personalità individuale. Le esperienze precoci, per poter lasciare un segno duraturo su un’intera generazione, devono essere in grado di coinvolge-re in modo non superficiale un numero sufficientemente ampio di persone, devono cioè essere eventi capaci, come direbbe Durkheim, di creare emozioni o entusiasmi collettivi tra coloro che vi partecipano», ivi, p. 21 (inclusa la corrispettiva nota sull’«evento cruciale di portata sociale che la-scia traccia nella biografia individuale [in quanto] “esperienza decisiva, politicamente rilevante”», di cui R. HEBERLE ha scritto in Social Movements, New York, Appelton Century, 1951, p. 122). 38
L. FEBVRE, Problemi di metodo storico, Torino, Einaudi, 19822, p. 141, preciserà più tardi: «qualifico
la storia come studio condotto scientificamente, e non come scienza […]: parlare di scienze significa innanzitutto rievocare l’idea di una somma di risultati, di un tesoro, se si vuole, più o meno ben fornito di monete, le une preziose, le altre no; non significa mettere l’accento su quello che è la proprietà motrice dello studioso, cioè l’inquietudine, il rimettere in causa – non perpetuo e mania-co, ma ragionato e metodico – le verità tradizionali, il bisogno di riprendere, di rimaneggiare, di ripensare […] i risultati acquisiti, per riadattarli alle concezioni e quindi alle condizioni nuove dell’esistenza che il tempo e gli uomini – gli uomini nel tempo – continuamente foggiano». 39 L. FEBVRE, “Génération”, in Projets d’articles du Vocabulaire historique, Bulletin du Centre interna-tional de Synthèse, Section de Synthèse historique, III, 7, «Revue de synthèse historique», tome Quarante-septième, nouvelle Série – tome XXI, juin 1929, pp. 37-43, p. 42.
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zione sociale e culturale, assai più che le cesure e i bruschi passaggi di rotta, re-
stituendo il senso della continuità piuttosto che della rottura storica40
.
Anni dopo Marc Bloch, mosso da idealità e intenti storiografici analoghi41
,
sebbene più clemente sul punto, avrebbe ammesso che
«il concetto di generazione è […] assai elastico, come ogni concetto che cerchi di esprimere, senza deformarle, le cose umane. Ma corrisponde anche a realtà che noi sentiamo molto concrete. Da molto tempo lo si è visto usato, quasi istintivamente, da discipline che per loro stessa natura erano portate a respingere, più delle altre, le vecchie divisioni per regni o per governi: come la storia del pensiero, o quella delle forme artistiche. Esso sembra destinato sempre di più a fornire, a un’analisi ragiona-ta delle vicissitudini umane, la delimitazione di partenza»
42.
Sarebbe stato Yves Renouard, alla metà degli anni Cinquanta del secolo
scorso, a rimettere in relazione diretta la nozione di «fatti ed eventi maggiori» e
quella di generazione43
. E Jean-François Sirinelli, negli anni Novanta, volendo
riabilitare l’evento mediante il recupero della relazione fra generazioni ed even-
ti fondativi, si sarebbe chiesto se «la generazione [debba] restare rinchiusa in
una sorta di prigione storiografica, con i capi d’accusa rilevati sopra [i giudizi di
Febvre e Bloch]»44
, concludendo per il no assoluto, dal momento che la genera-
zione è
«incontestabilmente […] una struttura che l’analisi storica deve prendere in conside-razione. Il che […] contribuisce, se ve ne fosse ancora bisogno, a riabilitare l’evento. Lungi dall’essere soltanto la schiuma di un’onda costituita dalle strutture socio-economiche, [l’evento] può generare strutture: le generazioni, per esempio, create o modellate da un evento fondativo»
45.
Nell’ottica di Sirinelli, si valorizza tanto più l’evento quanto più esso veicola
il senso della rottura e del mutamento storico, e proprio dalla rottura si parte
per cogliere appieno il significato e la portata del fenomeno di generazione.
Abbracciando questa prospettiva, si è spinti a credere che il giudizio demolito-
rio espresso da Febvre all’indirizzo della generazione – poi in qualche modo re-
40
«È una nuova geometria del tempo maturata non a caso nell’ambito di quel laboratorio di speri-
mentazione sociale – sorta di New Deal intellettuale, come è stato definito – sviluppatosi nella Francia degli anni Trenta e volto a elaborare, mediante il concorso di variegati nuclei intellettuali, una terapia di decelerazione delle dinamiche del mutamento, sbilanciate a tal punto da minare la coesione stessa tra i diversi corpi sociali», A. TARPINO, Sentimenti del passato. La dimensione esi-stenziale del lavoro storico, Firenze, La Nuova Italia, 1997, p. 78. 41
Per una ricostruzione dei rapporti storiograficamente salienti tra Febvre e Bloch, alla luce dell’irripetibile esperienza delle «Annales», E. PARIS, L’Esprit des Annales à travers sa pédagogie et la correspondance entre Lucien Febvre et Marc Bloch. 1928-1933, «Storia della storiografia», 32/1997, pp. 71-98. 42
M. BLOCH, Apologia della storia o Mestiere di storico (1949), Torino, Einaudi, 1998, p. 136. 43
Cfr. Y. RENOUARD, La notion de génération en histoire, «Revue historique», 209/1953, pp. 1-23, p.
12. 44
J.-F. SIRINELLI, La génération, in Périodes. La construction du temps historique – Actes du Ve Col-loque d’histoire au présent, Paris, Histoire au présent, Éd. de l’École des Hautes Études, 1991, pp. 129-134, p. 133. 45
Ibidem.
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cuperato da Girardet46
– ne scalfirà appena i contorni, senza comprometterne
del tutto la capacità di farsi categoria storico-concettuale del nostro presente.
3. Tra ipermodernità e conflitto sociale: metamorfosi della solidarietà
intergenerazionale
Le nuove frontiere della ricerca storico-sociale relative alla definizione del
nucleo fondamentale della solidarietà nel fluire del tempo storico, letto in par-
ticolare alla luce della transizione da una generazione all’altra, si attestano oggi
al livello macro e sovranazionale del «discorso politico-culturale sull’Europa»47
.
Non che questo significhi un abbandono definitivo del punto di osservazione
micro e nazionale, che anzi si intreccia sovente con l’altro48
, ma è certo che
l’Europa come spazio di integrazione sociale in costruzione, tanto da un punto
di vista istituzionale che soprattutto, ci pare, da un punto di vista culturale, of-
fre un punto di osservazione ideale per cercare di decifrare il nostro presente
politico attraverso le metamorfosi, già in atto o riconoscibili solo in potenza,
all’interno del paradigma solidaristico.
Illuminante l’analisi condotta dal sociologo politico Klaus Eder che, in un
suo contributo del 2013, scrive della solidarietà come meccanismo di integra-
zione sociale49
, sollevando questioni e tracciando linee argomentative straordi-
nariamente utili al nostro ragionamento. Si parte dall’insoddisfazione tipica
della teoria sociale per il modo in cui la teoria politica classica,
dall’aristotelismo all’artificio politico hobbesiano, dalla libertà repubblicana al
popolo di fratelli della stagione rivoluzionaria francese50
, ha spiegato – o me- 46
R. GIRARDET, Du concept de génération à la notion de contemporanéité, pp. 264-266. 47
P. SEGATTI, Identità europea e generazioni politiche, in E. RECCHI - M. BONTEMPI- C. COLLOCA,
Metamorfosi sociali. Attori e luoghi del mutamento nella società contemporanea, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2013, pp. 41-51, p. 41. 48
Scrive SEGATTI, ivi, p. 42: «In effetti gli studi documentano che le identità duali, nazionali ed eu-ropea, sono in crescita […]. In sostanza mano a mano che l’integrazione si approfondisce, le dina-miche politiche e la cultura che caratterizza il contesto nazionale stanno diventando fattori decisi-vi». Nel medesimo saggio, l’autore dà anche conto dello studio pionieristico di R. INGLEHART (Co-gnitive Mobilization and European Identity, «Comparative Politics», 3/1970, pp. 45-70) sul «ricam-bio generazionale [come] fattore di [maggior] consenso al processo di integrazione europeo. La sua tesi [che tornava purtroppo a sovrapporre generazione e gruppo di età] era che i giovani [degli anni Settanta] mostravano un più spiccato senso di condivisione del comune destino europeo perché più di altri avevano beneficiato della crescita economica e dello sviluppo dei sistemi di istruzione», ivi, p. 41. 49
«Supponendo che in tutte [le] descrizioni offerte dalla teoria politica ci sia una teoria sociale im-plicita, sorge una questione: come trasformare queste teorie sociali implicite in teorie sociali espli-cite che abbiano una valenza analitica. La mia affermazione centrale è che ognuna di queste teorie politiche implica una teoria della solidarietà», K. EDER, La solidarietà oltre lo Stato-nazione. Le basi narrative di una comunità politica europea, in E. RECCHI - M. BONTEMPI - C. COLLOCA, Metamorfosi sociali, pp. 373-394, p. 374. 50
«Un popolo che prova sentimenti di fratellanza produce il consenso su cui si fonda una comunità
politica che è, d’altra parte, negli interessi di tutti poiché realizza un interesse pubblico, una res publica. Fraternité è una modalità storicamente specifica di esprimere quello che intendiamo oggi con il concetto di solidarietà. Fratellanza e solidarietà», ibidem.
PERSANO, Gli aggettivi della solidarietà
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glio, non ha saputo spiegare fino in fondo – il perché del consenso sociale
all’ordine politico. Per Eder, ogni teoria dell’ordine politico ha sempre dietro di
sé una teoria dell’integrazione sociale che, a sua volta, rimanda a una certa teo-
ria della solidarietà; e il grosso equivoco che una parte degli studiosi dei proces-
si politici continuano a perpetuare è quello di pensare che la questione della
solidarietà sia inquadrabile nell’ordine del discorso sulla statualità nazionale in
Occidente, mentre invece a essere qui chiamato in causa è il mercato come spa-
zio dello scambio tra individui e tra entità collettive – generazioni comprese –
assoggettato all’imperativo della restituzione del dono descritto da Mauss51
.
Più diffusamente sul punto:
«Storicamente, questo concetto di solidarietà è stato (con)fuso con (nel) concetto di nazione. La nazione fornisce lo spazio quasi-naturale della solidarietà. Lo stato-na-zione è una comunità politica basata sui vincoli di solidarietà che sono inerenti alla nazione. La nazione è la solidarietà speciale che i suoi membri sentono l’uno per l’altro. Questa solidarietà oltrepassa i confini della famiglia, il tradizionale locus del-la solidarietà […]. Essa ha creato un senso del “noi” solidale, che si è dimostrato esse-re di rilevanza universale: la nazione è diventata – come indica il termine Nazioni Unite – un fenomeno universale»
52.
Il riferimento al pensiero di Mauss, e al valore del dono come «fatto sociale
totale»53
integrato in una dinamica complessa scandita dai tre tempi del dona-
re-ricevere-ricambiare, ci è utile in questa sede non tanto a reperire il fonda-
mento teoretico della solidarietà quanto a coglierne una volta di più
l’estensione temporale nella lunga durata del rapporto tra generazioni politiche
diverse. C’è un rapporto trilaterale di scambio che non investe solo soggetti, ma
anche tempi diversi, essendo difficilmente immaginabile che la restituzione di
quanto ricevuto all’interno della società si consumi tutta nello spazio unico del
presente. A ribadire la propria centralità è dunque il vincolo generazionale co-
me legame più o meno solidale tra il passato, il presente e il futuro politico di
un certo numero di individui tra loro variamente coesi, pur in assenza di con-
temporaneità storica.
Prima di essere calato nella storia, il legame generazionale può tuttavia esse-
re utilmente inquadrato attingendo – solo momentaneamente e per le finalità
esclusive che vedremo di seguito – alle numerosissime interpretazioni che la
riflessione sociologica tenta oggi di offrirne, esplorando la dimensione delle re-
lazioni biologico-familiari tra individui contemporanei da un punto di vista
storico, ma non anagraficamente tali. Alcune di queste interpretazioni hanno il
merito di descrivere meglio di altre la temporalità sociale generale in cui gli ef-
fetti di età si inseriscono, consentendo così di traslare le acquisizioni sul tempo
51
M. MAUSS, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche (1923), Torino, Einaudi, 2002. 52
K. EDER, La solidarietà oltre lo Stato-nazione, p. 374. 53
Cfr. P. CHANIAL, La sociologie comme philosophie politique, Paris, La Découverte, 2011.
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sociale dal piano specifico delle dinamiche di prossimità familiare e amicale –
quelle che attualmente sembrerebbero godere della massima fiducia da parte
degli attori sociali54
e di altrettanta considerazione da parte degli scienziati so-
ciali e politici – al piano dell’agire storico. In linea di massima, il grosso del pa-
norama scientifico interessato tende a esaltare la natura puramente negoziale e
a-conflittuale di quelle relazioni di prossimità, divergendo semmai sulle con-
clusioni ricavate da questa premessa generale, a seconda che a prevalere sia la
convinzione che il negoziato risolva il conflitto, mediandolo, o che invece le
asimmetrie e gli attriti nelle società a pluralismo spinto e a ritmo temporale
iperaccelerato55
, come le odierne società occidentali, neppure si producano, es-
sendo in atto una riconfigurazione talmente radicale dei rapporti tra gruppi di
età (le unità di generazione) da derivarne la neutralizzazione all'origine di ogni
possibile conflittualità sociale. È questo, ad esempio, il caso dell’inter-
pretazione che vuole la prevalente dimensione negoziale agganciata, a monte,
con l’infrangersi delle gerarchie sociali tradizionali e, a valle, con lo spezzettarsi
e moltiplicarsi delle classiche unità di generazione (vecchi-adulti-giovani) in
una miriade di sub-unità, particolarmente concentrate nel breve spazio anagra-
fico ricompreso tra l’infanzia e la giovinezza56
.
A dispetto dell’affresco appena schizzato, e pur accogliendo alcuni dei prin-
cipali assunti delle interpretazioni qui sintetizzate, c’è chi continua però a cre-
dere che «il conflitto rest[i] una possibilità iscritta nelle attuali dinamiche ge-
nerazionali»57
. Saremmo in realtà di fronte a «situazioni orizzontali apparenti»
e a forme di «omologazione generazionale»58
che, pur esercitando un forte e in-
dubbio «effetto di occultamento»59
sulla nostra capacità di comprensione della
54
«[Gli attuali] cambiamenti, che configurano una “crisi di affidabilità” delle sfere istituzionali,
contribuiscono a spostare i riferimenti dell’agire verso i rapporti primari (familiari, amicali) […]. Le sfere di familiarità sono frequentemente indicate come i luoghi sociali cui si può conferire “fiducia”, dove si realizzano i più significativi processi di identificazione e dove sono possibili esperienze di reciprocità. La “relazione” diviene oggetto di nuova attenzione e tematizzazione, ma anche la lente (in molti casi deformante) per leggere le dinamiche sociali e istituzionali», R. CIUCCI, Asimmetrie e conflitti tra le generazioni, «Parolechiave», 16/1998, pp. 35-57, pp. 46-47. 55
«La “velocità eccessiva” dei mutamenti socio-culturali può considerarsi un tratto tipico delle at-tuali società complesse. La sostituzione di stili e orientamenti entro una medesima generazione appare talmente accelerata da impedire processi di assimilazione e di elaborazione sufficientemen-te stabili», ivi, p. 44. 56
«È opinione diffusa che le grandi trasformazioni della socializzazione e dell’educazione abbiano
ormai aperto nelle dinamiche generazionali una stagione di relazioni paritarie e simmetriche. Que-sta idea è strettamente connessa a un’altra immagine secondo cui il conflitto generazionale sarebbe sempre più riassorbito da logiche e pratiche negoziali. Un’altra opinione che gode di un discreto successo afferma che l’accelerazione dei mutamenti sociali e culturali, la grande diffusione degli apparati delle comunicazioni e la connessa moltiplicazione dei messaggi imprimerebbero ritmi di sostituzione degli strumenti di ordinario consumo, degli oggetti simbolici, degli stili di vita tanto intensi da indurre una proliferazione di sub-unità generazionali nell’arco di tempo che dall’infanzia conduce alla giovinezza», ivi, p. 36. 57
Ivi, p. 37. 58
Ivi, p. 41. 59
Ibidem.
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realtà sociale, non riescono a sopprimerne fino in fondo la natura essenzial-
mente asimmetrica e conflittuale. Resta semmai da interrogarsi sulla natura del
conflitto, che non scompare del tutto ma si rimodella, facendosi sempre più
«molecolare»:
«Nelle società pluraliste, altamente differenziate, cambiano i caratteri e gli scenari
del conflitto: accanto al persistere, in forme nuove, di conflitti non-negoziabili (su base etnica, religiosa, localistica, etica), si diffondono conflitti molecolari, difficil-mente generalizzabili, di ridotte dimensioni e piccola portata: si estendono le logi-che e le pratiche negoziali con soluzioni che offrono parziale soddisfazione delle pretese avanzate. Le società pluraliste, mentre, da un lato, moltiplicano i punti di crisi (taluni dei quali assumono caratteri di non-negoziabilità), dall’altro tendono a stemperare e a relativizzare i contrasti»
60.
Se questo è vero in generale per il conflitto tout court, non manca di esserlo
per quello intergenerazionale, che conosce anch’esso un pesante ridimensio-
namento e una altrettanto significativa ristrutturazione, ma mai nel senso della
sua scomparsa definitiva. Le asimmetrie intergenerazionali sono ineliminabili
per ragioni intrinseche alla natura stessa del concetto di generazione, che è
«concetto costitutivamente relazionale»61
, e di una relazione tanto più (poten-
zialmente) conflittuale quanto più forte è il legame che salda (e divide) unità di
generazione e – aggiungiamo qui – generazioni diverse. Cosicché, l’idea che «il
conflitto [sia] una possibilità che accompagna il costituirsi di specifiche unità e
di legami generazionali forti»62
sfata il mito di una coesione e solidarietà auto-
maticamente incompatibili con la conflittualità tra le generazioni. Essere soli-
dali tra loro non implica per le generazioni politiche il fatto di essere social-
mente inerti e politicamente non conflittuali, ma costringe noi che osserviamo
il fenomeno a riconfigurare la solidarietà, sia essa presente o assente in un dato
frangente, alla luce di un tempo sociale in cui è legittimo pensare che vada
sempre più perdendo appeal esplicativo la metafora della catena generazionale
– che incatena, scatenandole talvolta le une verso le altre63
, le varie generazioni
di una certa epoca storica – per fare largo a rappresentazioni diverse come quel-
la che, richiamando l’immagine dell’arcipelago, evoca le «isole di prossimità
generazionale […], [sistema di relazioni in cui] ogni singola sfera […] appare do-
tata di una relativa interna coerenza ma risulta priva di significativi legami con
gli altri ambiti»64
.
60
Ivi, pp. 42-43. 61
«La costituzione “naturalisticamente” asimmetrica del rapporto tra le generazioni non può essere
disinvoltamente ignorata: l’affermarsi di nuove relazioni a base di reciprocità […] non dissolve le asimmetrie, ma le assume e le attraversa. […] il concetto di generazione è costitutivamente relazio-nale […]. La relazione generativa originaria è definita da una radicale asimmetria: le posizioni dei soggetti risultano non comparabili in termini di possibilità e di responsabilità», ivi, pp. 37-38. 62
Ivi, p. 42. 63
P. PERSANO, La catena del tempo, pp. 8 ss. 64
R. CIUCCI, Asimmetrie e conflitti tra le generazioni, p. 45.
SCIENZA & POLITICA
vol. XXVII, no. 51, 2014, pp. 101-115 115
Può questo scenario applicarsi senza forzature alle dinamiche generazionali
che abitano lo spazio della contemporaneità del non contemporaneo, inteso
come si è fatto in apertura di saggio parlando dei rapporti tra individui politi-
camente attivi appartenenti a generazioni (e non a unità di generazione) diffe-
renti? Il nesso di solidarietà/conflitto tra generazioni politiche nel tempo lungo
della storia può essere ricodificato anche a partire da quegli elementi che lo
studio delle modalità di interrelazione insulare fra gruppi di età diversi in un
comune presente sociale ci permette di raccogliere?
Provare a rispondere affermativamente a queste domande sembra essere un
modo plausibile per attraversare un presente di crisi, che è crisi – come è ormai
ovvio – delle strutture sociali e istituzionali su scala interna e internazionale,
europea e globale; ma anche crisi delle forme del pensiero e delle rappresenta-
zioni condivise della temporalità storica, individuale e collettiva, epocale e ge-
nerazionale. Che proprio la crisi, letta in chiave anche temporale, incarni
quell’evento (o aggregato di eventi) a cui i fautori più convinti del ricorso alla
nozione storiografica di generazione politica non hanno saputo finora rinun-
ciare, ci pare altrettanto plausibile. Solo assumendo la crisi, non in generale e in
astratto, ma come evento specificamente correlato al presente sociale per come
siamo in grado di leggerlo, si può sperare di disancorare una certa parte della
riflessione teorica contemporanea dal martellante riferimento allo scontro ge-
nerazionale come pacifico dato di fatto65
, per guardare piuttosto al rapporto tra
i vivi, i morti e i non ancora nati dall’angolo visuale del conflitto realmente pos-
sibile in certe condizioni storiche, e dalla prospettiva di una solidarietà interge-
nerazionale sempre intrinsecamente confliggente, ma non sempre concreta-
mente conflittuale.
65
L.J. KOTLIKOFF - S. BURNS (eds), The Clash of Generations. Saving Ourselves, Our Kids, and Our Economy, Cambridge-London, The MIT Press, 2012.