Introduzione ai fondamenti delle tecniche artistiche. Lezione 2.

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INTRODUZIONE AI FONDAMENTI

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INTRODUZIONE AI FONDAMENTI

MIERIS, Frans van, the Elder, Allegoria della Pittura, olio su rame 1661

ARTE

Cos’è l’arte se non domanda di senso, interrogazione senza fine intorno alle pratiche e ai linguaggi che portano alla scoperta di sé e del mondo, pratica radicalmente interrogativa essa stessa ed assolutamente impratica, nell’assenza di specifiche finalità, ma necessaria, continua capacità di allusione a quel reale che non si dissolve nel visibile?

Pratica dell’invisibile dunque ed inesausto movimento verso quel centro da cui s’ illumina la tenebra e da cui muove ogni altra pratica, attività simbolica per eccellenza, perché la natura dell’arte, nella sua assoluta simbolicità costitutiva, ovvero, letteralmente, nella sua capacità di gettare in campo, tenendole insieme, cose di per sé diverse e apparentemente divise, nella sua contraddittoria genericità, in grado proprio per tale ragione di veicolare ogni relazione per quanto paradossale, può ancora suggerirci una visione del mondo - sulla quale oggi più che mai poter riflettere.

L’arte, rompendo ogni schema precostituito, ogni “forma chiusa” ed ogni specialismo operativo, si fa espressione di una necessaria e nomadica libertà, fondata su di un pensiero rizomatico e non omologabile nonché sull’atopica assenza di luoghi.

In questo modo essa, anziché accettare un destino di annichilimento nel mondo, continua ad annidarsi nelle pieghe del reale e, facendosi essa stessa figura della piega (folding), può ancora inviare all’uomo segnali di senso, pallide luci dell’essenza.

Come si può essere artisti, allora? Se è vero che artisti si può diventare per scelta o per formazione, esercitando la propria libertà nei confronti del destino, è altrettanto vero che questo atto di estrema libertà, di arbitrio personale, nasce sul terreno di una originaria necessità che fonda ogni possibile condizione. Come dire che artisti “si diventa” perché così è necessario.

Ed è egualmente per questo che quella dell’artista è una condizione libera, ma pur sempre condizione, l’“annuncio di un comune accordo”, quello corrispondente alla decisione di stare entro un dominio cui non ci si può sottrarre.

Una condizione interrogante ed interrogabile nelle forme di un “sentire” prima ancora e molto più che di un “capire”, di un “intelligere”.

La pratica del “sentire” rispetto a quella del “capire” include terreni (alogici, prelogici, onirici, fantastico-immaginativi, deliranti), che non trovano buona accoglienza nell’ambito dei saperi di ordine logico-razionale. Per questo gli artisti, ma soprattutto le loro opere, sono guardati con diffidenza e talvolta con sufficienza da quelle persone che identificano il concetto di “bene” con quello di “progresso” e di “ordine razionale”, così come questi si sono espressi nella tradizione del pensiero occidentale e nel moderno apparato scientifico-tecnologico, ovvero prima attraverso il potere del linguaggio, del logos, poi attraverso lo strapotere dell’apparato scientifico-tecnologico.

D’altra parte può fare anche troppo comodo a molti di collocare su un terreno infido come quello irrazionale del “sentire” una pratica che appare discutibile nei suoi stessi fondamenti alla luce di quei principi logico-razionali. Una marginalizzazione di questo tipo risulta inaccettabile per noi.

OPERA

In realtà sono sostanzialmente due le conseguenze del tutto intollerabili che l’opera conduce con sé: la sua costitutiva e fondativa caratteristica di trasgredire la regola ogni qual volta la si pratica, mettendo così in discussione i propri statuti e la sua conseguente sostanziale irriducibilità a tutti gli ordini, compreso quello del linguaggio, il suo rifiuto ad essere posseduta fino in fondo, nonostante i tentativi della critica e di tutti i linguaggi secondi.

Dunque se noi parliamo di un “sentire” è perché vogliamo con questa parola indicare una pratica di pro-duzione di senso più che di significati, una pratica di emersione e manifestazione di una facoltà di “provare”, di sperimentare, di teorizzare ossia propriamente di “vedere”, di imparare a conoscere, di essere consapevoli, di ri-tenere quindi, e pertanto di comprehendere, afferrando un qualche cosa che non si fa per altre vie conoscere e che è la sostanza stessa dell’opera e dell’essere artista nel comune destino con l’opera.

Ciò significherà che l’esperienza dell’arte, di cui l’opera è l’epifania, è sì un’esperienza profondamente conoscitiva, attraversabile dalla ragione, ma niente affatto riducibile al suo puro e nichilistico dominio.

Ma non si può dire opera senza dire destino. Da soli e in relazione tra loro i due termini costituiscono un’immagine straordinaria della complessità che abbiamo davanti.

Altre parole sono: Poiesis, Tyche e Ananke, fare libero e necessario, Aletheia, verità, Eidos, bellezza, Aeternitas, oltre il tempo dell’uomo.

L’opera, in quanto irriducibile, pro-duce sempre una ulteriorità, altro ancora appunto, che ci costringe a pensare o meglio solo a “teorizzare”, theorein, a “vedere”, “intra-vedere” qualcosa che è ma non può essere detto. Lo dico però senza possibili confusioni con la pletora di quanti, sostenendo l’indicibilità dell’arte, non dicono infine davvero nulla. Spero si possa capire che lo sforzo è di altra natura.

La domanda che mi faccio è la seguente: cos’è davvero l’opera e dove sta la sua facoltà, la sua magnificenza, la sua capacità appunto di rendere grandi, la sua opulenza senza sfarzo?

La radice stessa della parola ci aiuta a capirlo: opus-ops è quella forza, quella potenza, tutto ciò che pone in condizione di fare grandi cose. Ma Ops è anche il nome della dea dell’abbondanza del raccolto, più tardi identificata con Rhea o Cibele, l’”opima frugum copia” che protegge il grano una volta deposto nel granaio.

Come vediamo essa è dunque insieme fin dall’inizio facoltà e destino di sopravvivenza, questa è la sua folgorante verità, questo suo stare ad immagine di un tempo aeternus, tempo dell’indistruttibilità e dell’irremovibilità, eterno o aevi terminus, sulla linea di confine del tempo storico, nell’ordine immutabile delle cose, nell’ordine di ciò che è ed è per sempre, un fare che sospende il tempo, un tempo della sospensione. Opera vera e necessaria.

Giulio Paolini, Opus, 2006, Luci a Torino, Installazione luminosa

Sì, opera vera non perché essa stessa rappresenti la verità o una parte della verità , ma perché in essa può mostrarsi l’essenza autentica dell’origine, in un trasparire e in un e-venire che rompono la scorza dura di ogni linguaggio, di ogni non verità, di ogni nichilismo.

Personalmente non trovo trascurabile il fatto che l’opera d’arte, a differenza delle altre opere umane e degli stessi linguaggi della scienza, presenti come caratteristica sua propria la necessità, per compiersi, di una costante apertura di senso e di un orizzonte di attesa veritativa che solo nella religione forse, ancor più che nella filosofia, possono trovare l’eguale e che nel caso dell’arte appaiono inoltre collegati in un tutt’uno, a mio parere, con la sua stessa e specifica “natura

infelice” – così vorrei chiamarla.

La “natura infelice” dell’opera d’arte, normalmente colta come un difetto, una mancanza, una diminutio, è invece, secondo me, ciò che permette di limitare i danni prodotti dal logos.

Tento di spiegarmi meglio. È nella natura del logos ridurre ogni cosa a concetto, ad astrazione e ciò facendo si finisce col restringere sempre più l’orizzonte del possibile traducendolo in quello del probabile, assai meno ricco di aperture e di ferite, attraverso le quali quell’originario di cui la verità è apparizione coincidente può manifestarsi.

TECNICA

Ciò vuol dire anche che il destino dell’Occidente logico-tecnico-scientifico è quello di perdere definitivamente ogni traccia di verità e comunque di non poterne cogliere più la presenza. Questo vuol dire altresì che soltanto l’arte, con la sua natura infelice potrà continuare ad esprimere questa necessità? Ve lo pongo come un interrogativo aperto.

La mancanza di teorie unificanti, non fa che portare oggi le cose dell’arte nel binario morto della banalità, della citazione formale, di una ripetizione esausta che manifestano la negazione stessa del concetto di opera d’arte. Ne consegue la fine della potenza allusiva dell’immagine e della capacità dell’arte a produrre immaginario, pensiero, cambiamento, nuova sensibilità. Con ciò svanisce anche la sua possibilità di essere quella presentazione del mondo che porta ad una riflessione ed interrogazione intorno alle pratiche e ai linguaggi del fare dell’arte. Il mito dell’arte rimane circoscritto in se stesso, senza quel movimento ininterrotto del pensiero e quell’attività simbolica generatrice con cui si costituiva il senso e l’impalcatura dell’opera e della produzione dell’ immaginario poetico e senza l’approfondimento ed il confronto con altri saperi. La fine della storia e delle grandi narrazioni insieme al processo di apparizione e spettacolarizzazione dell’arte tipiche dell’era post-moderna, rivelano un limite, un fallimento coincidenti con l’incapacità dell’artista di pensare liberamente il proprio tempo, in una prospettiva etica e culturale autonoma attraverso cui poter osservare, comprendere, interpretare il reale. Allo stesso tempo l’arte, nel tempo delle nuove tecnologie multi ed extramediali, ha bisogno di ripensare il suo fondamento, di ritrovare un nuovo vocabolario attraverso cui potersi intendere e differenziarsi così da quella mera esteriorità da cui il concetto di esposizione trae alimento, per continuare e tornare ad essere quell’essenziale modo di esistenza e conoscenza, di disponibilità aperta verso il cuore delle cose. La nuova sensibilità del contemporaneo chiama ad un etica della responsabilità che consiste in un prendersi cura degli aspetti più contingenti della vita e del pianeta in un rinnovato rapporto con gli altri, in una ritrovata metaforica poeticità. Un movimento che ancora si dirige dal non senso al senso.

Ma come si manifesta e in che cosa consiste la natura infelice dell’arte? Nel fatto proprio di non consistere di solo linguaggio, ma di materia, di non essere solo concetto ma espressione (ex -

premere). È questa opacità nettamente contrapposta alla trasparenza della scienza e di gran parte della stessa filosofia, questo grumo di terra greve e questo nodo irrisolvibile, questa piega insondabile ad offrire la più grandiosa apertura di senso che possa precedere ed intersecare ogni possibile linguaggio umano.

Opacità che è sostanza dell’evenire dell’opera ed è in tale evidente evenire che, condotta dall’arte, l’originaria verità può apparire nella cosa e può apparire in quanto necessaria.

Nell’opera si realizza un processo di disvelamento di sé e dello stesso artista che la compie, il quale mostra, potremmo dire con le parole di Agostino, “ciò che è più intimo dell’anima mia”, attraverso l’epifaneia, della poesia, di una poiesis, intesa come un fare che è frutto di un’azione umana priva di intenzioni, di una praxis originaria che consente all’opera di darsi infine essa stessa come telos o compimento ed anche esito dalla prigione del silenzio, “exitus de Aegypto” possiamo parafrasare, poiché è l’invisibile che si mostra e il visibile che arretra, per darsi infine al theorein che la contempla, in quanto accade secondo necessità propria, non rimandando ad altro da sé, totalmente riposando in sé stessa.

Si tratta della “costruzione di un vero e proprio atto vitale. La libertà, la bellezza e l’eternità dell’arte sono pari soltanto all’intima coerenza interiore che ad essa è richiesta, alla necessità del proprio ordine, ma di un ordine che non subisce pressioni estranee, venute da fuori a sottrarre coerenza ed autonomia alla concezione dell’opera.

L’artista, in quanto fattore e demiurgo, deve essere osservante della legge, ma di quella legge interiore, di quell’ordine che ispira il suo fare, che egli trova dentro se stesso e che si manifesta nell’arte, nella techne, “qualsiasi causa – dice Platone – che fa passare qualcosa dal non essere all’essere”.

Questo è il mistero dell’arte. Trarre dal Silenzio, un Silenzio che parla nell’artista, e quasi per caso, apò Tyches come dice Aristotele, l’inesprimibile e il necessario.

L’atto dell’artista che ci riconduce all’origine della materia determinandola come essente, acquista il significato generale del dominio su tutto ciò che è plasmabile, su tutto ciò che è forma, distanza ed avvicinamento al nulla originario, al vuoto purissimo.

Forse l’arte è proprio questa sospensione sull’abisso del nulla, e del nulla, della sua presenza necessaria essa riferisce agli uomini, del fascino del principio, indicandoci, nella sua determinata indeterminatezza, il fondamento della struttura dell’esistente, dove necessità e caso si piegano insieme.”

Arte=artus, arto, articolazione e giuntura tra necessità e caso, tra verità e linguaggio, tra topos e atopia, tra storia ed eternità. Ne deriva una ulteriore possibilità interpretativa allora: arte come “between” e “piega” deleuziana, figura di una relazione di complessità, che è evidente fin nel gioco etimologico pliancy - complication.

Ma il ruolo rilevante che hanno oggi le teorie della complessità in campo scientifico - ossia di essere proposte come modelli interpretativi che riescano a dare ragione della caotica contraddittorietà del reale, della molteplicità frattalica del suo presentarsi, attraverso geometrie autogenerative non più riconducibili ad un inizio, per ridurre così i rischi della vera catastrofe impliciti in un pensiero nomade e rizomatico per eccellenza come quello contemporaneo, teso a dissolvere e decostruire ogni forma conosciuta, assumendo anzi quello della catastrofe come modello autointerpretante e modello dei modelli, un pensiero che trova una certo non banale esemplificazione in concetti come quelli di flessibilità, virtualità, mondializzazione, ecc., - è in qualche modo confrontabile con il concetto di complessità dell’opera, quale noi abbiamo fin qui se non descritto, almeno tentato di avvicinare?

L’interesse che viene dimostrato in alcuni settori molto avanzati della ricerca scientifica per l’esperienza della creatività artistica - tutti conoscono l’esempio del MediaLab del MIT - e viceversa l’interesse non imitativo di alcuni artisti per la ricerca scientifica e le nuove tecnologie, evidenziano un possibile futuro intreccio, un ipotetico, utopico, atopico luogo di incontro dove destini diversi potrebbero reciprocamente perfezionarsi e compiersi in un unico solo destino dell’umano, in cui mortalità ed immortalità siano restituite alla propria condizione di verità.

Tuttavia non mi sembra che stia prendendo piede questo tipo di nuova consapevolezza, al contrario il perdurante e massiccio dispiegamento di un assoluto dominio da parte dei saperi scientifici e tecnologici, i primi anch’essi sempre più dipendenti dai secondi - si pensi alle cosiddette tecnoscienze - e la totale trasparenza e globalizzazione del reale che ne derivano, con conseguente perdita dell’identità materiale e culturale, impongono perfino di riconsiderare la possibilità stessa di avere un qualsivoglia destino, il quale oggi, nel senso proprio del termine, sembra essere stato sottratto alla nostra condizione di uomini.

Perciò l’arte oggi si ritrova pienamente nella figura della piega, del folding, e nella dimensione della complication, ma non perché essa abbia la pretesa di conseguire per tale via un dominio sul reale, insidiandone la complessità, desumendone i modelli per schematizzarli e clonarli, tentando la struttura della catastrofe in un gioco di sostituzione del reale, bensì perché essa abita da sempre la piega intesa come dimensione non lineare, non progressiva, non invasiva, non dominante, non esibizionista, articolata (arte-arto) ed elastica della ricerca. La flessibilità di una semplice goccia d’acqua che corre sulla superficie rugosa dell’albero piegandosi ad essa, seguendone le tortuosità, insinuandosi tra le fessure, tracciando sentieri interrotti.

Opera orientale, nascente chimera, araba fenice, memore destino, cristallo di sale, sale della terra, oscura illuminazione occidentale: tutto ciò è l’arte.

METODO

E’ possibile individuare precisi principi compositivi che presiedono alla creazione dell’opera d’arte e se sì su quale epistéme o terreno di fondazione essi poggiano? Altrimenti detto: è possibile pensare ad una scienza dell’arte in analogia ai saperi scientifici e storici i quali tutti presuppongono

l’esistenza di fondamenti teorici che hanno dignità scientifica in quanto sono strutturati secondo un preciso metodo verificabile attraverso l’esperienza?

Una risposta negativa a tale quesito spiega le ragioni di fondo che hanno condotto ad una sostanziale emarginazione delle pratiche artistiche dal contesto dei saperi scientifici - quelli che si riconoscono oggi nell’ ”Universitas studiorum” - relegandole nell’ambito di un’esperienza che, per quanto significativa, viene intesa più come oggetto che soggetto di studio, e nella scuola più come apprendimento tecnico che come oggetto di riflessione concettuale.

Diversamente è andata per l’architettura o la filosofia. Nel primo caso perché l’architettura, a lungo considerata una pratica preminentemente artistica e come tale pur sempre minore ha trovato specialmente nella scienza della costruzione e in quella del calcolo il fondamento di un nuovo statuto scientifico in grado di potenziarne i valori funzionali (il che non è successo per la scultura), tranne a cogliere ora con nuova consapevolezza tutti i limiti di una visione così riduttiva, nel secondo caso perché la filosofia, di fatto decaduta ormai a storia della filosofia, ha ritrovato nel metodo storico più che in quello deduttivo – speculativo la via dell’Università.

Potremmo dire che la stessa cosa vale in certa misura per l’arte, considerata non in quanto pratica ma in quanto storia, filologia, metodologia critica.

La storia dell’arte infatti aspira a porsi in modo pressoché esclusivo come scienza dell’arte, metodologicamente fondata, avendo per questo motivo la necessità di ergere il proprio dominio sulla pratica dell’arte, intesa come mera teche e produzione di oggetti, cui la storia e l’estetica sanno rendere giustizia e dignità concettuale. Infatti l’estetica sarebbe in grado di cogliere essa sola nell’opera le ragioni del senso, che altrimenti resterebbero latenti e non riconducibili ad un principio interpretativo. Per questi motivi l’arte viene insegnata in modo quasi esclusivo sotto forma di storia dell’arte o di estetica, solo in specifici contesti professionali come pratica, nelle scuole “per artisti”, riservate a quei pochi che intendano accoglierne e conoscerne a fini produttivi i procedimenti tecnici. Ciò ha consentito da una parte di costruire in Italia un percorso formativo secondario di tipo sostanzialmente professionale, nonostante l’istituzione con la riforma gentiliana del Liceo artistico, un liceo di soli quattro anni, quindi minore, dall’altra di intendere tradizionalmente il rapporto con l’arte nella scuola (primaria e secondaria) con una valenza assai periferica rispetto all’impianto formativo generale, linguistico e scientifico.

Questa articolazione si rivela del tutto insufficiente perché, al di là delle belle parole contenute nei programmi, non si è mai tentato di affrontare seriamente i veri quesiti posti dall’arte, anzi li si è elusi in modo proporzionale allo sviluppo massiccio di una civiltà dell’immagine talmente prepotente da rendere accettabile solo ciò che è visibile, e da rendere ogni cosa talmente visibile da farla diventare trasparente, talmente trasparente da renderla invisibile ed assente.

L’arte infatti contraddice.

Contraddice la ragione, il metodo, il significato dell’esperienza, la trasparenza dell’immagine, per cui praticare o insegnare l’arte vuol dire innanzitutto praticare o insegnare la pratica delle contraddizioni, il sovvertimento del metodo, l’abolizione dell’univocità del significato, l’opacità dell’immagine che corrisponde alla sostanza opaca del mondo.

La scienza e la tecnica, oggi potentemente associate nelle tecnoscienze, mettono in luce, l’arte nasconde e lo fa proprio nel momento in cui sembra illuminarci. La scienza pretende di fare luce, l’arte mostra il nascondimento.

Dunque, quello che sgomenta dell’arte, ciò che la rende peraltro per la medesima ragione desiderabile e ricercata, ma sempre radicalmente “lontana” ai suoi esegeti, è proprio questa irriducibilità, prima di tutto irriducibilità ai principi razionali su cui devono poggiare ogni metodo e ogni certezza.

Una posizione comoda anche per l’artista il quale aumenta così il proprio grado di libertà non dovendo dar ragione del suo lavoro. Il che spiega perché molti artisti, pur esprimendo sostanziali riserve sul ruolo dei critici rispetto al loro lavoro, tuttavia ne accettano spesso la posizione dominante, talvolta straripante, diventandone nei casi peggiori deboli vittime.

Non solo l’arte contraddice e dunque è pregiudizialmente contraria ad ogni tipo di ordine, ma si dirige verso una pratica di decostruzione di ogni ordine possibile. Si dirà facilmente che in fin dei conti quello che emerge alla fine, concretizzandosi nell’opera, è pur sempre una sorta di ordine nuovo: “ex chao cosmus”, ma non è così.

Quello che si concretizza nell’opera, a conclusione di un processo creativo che è sempre costruttivo - decostruttivo sia rispetto ai materiali, sia rispetto alle opere precedenti dello stesso artista, sia rispetto agli altri artisti del proprio tempo o del passato, è un ordine apparente e transitorio, subito licenziato e smentito, perfetto, quindi passato e perciò irripetibile, destinato a non ripetersi. Al contrario dell’esperimento scientifico destinato a ripetersi. Per questo anche non c’è linearità o progresso nel lavoro di un artista. Ma questo accade talvolta anche nel campo della ricerca scientifica, benché più di rado. Una fondamentale differenza tra la scienza e l’arte è che la scienza (e la storia) sono discipline diaboliche, cioè pratiche fondate sulla scissione, sul discernimento, sulla divisione, sulla distinzione.

Tutto ciò che fa il pensiero scientifico è distinguere, distinguere per capire e possedere. L’arte invece è disciplina simbolica, cioè una pratica fondata sulla comprensione, sulla capacità di “gettare insieme” più cose o cose che all’apparenza non possono coesistere, sul paradosso quindi.

Queste specifiche facoltà dell’arte dicono che essa non può mai porsi come precetto e tanto meno come tecnica, ovvero come strumento per qualche finalità diversa.

Se essa è infatti paradosso, opposta alla doxa, al pensiero comune, ostacolo, bastone fra le ruote, vuol dire che la sua natura non è quella di confermare un ordine esistente ma di contraddirlo.

Tutto ciò che fa l’arte è mescolare, mescolare per confondere e rinunciare a possedere. L’arte de-costruisce e in essa ogni finalità è assente. Ed è costitutivamente assente perché se ci fosse verrebbe a negarne l’esistenza.

Ancora oggi tuttavia simili concetti trovano difficoltà ad essere compresi e sopravvivono atteggiamenti culturali assolutamente impropri, inadeguati, talvolta addirittura nefasti, che hanno la propria origine in una visione “triviale” dell’arte, non triviale nel senso delle arti del trivio e del quadrivio che già sarebbe una visione liberale, ma nel senso più comune del termine, intendendola come una disciplina dal carattere strettamente professionale, quasi artigiano in certi casi, quindi riconducibile, del tutto banalmente però, a quelle artes meccaniche tra le quali l’arte nel medioevo era collocata. In tal modo si evita di cogliere e problematizzare la natura rigorosamente concettuale del fare dell’arte, quale emerge dalla sua lunga storia fin dai bagliori dell’Umanesimo.

Viceversa all’ opposto estremo vi è l’idea di un’arte intesa come espressione di una totale ma falsa libertà creativa, che tutto può concedersi, emanazione volgare del concetto romantico (così come appunto esso è stato popolarmente e banalmente traslato), di genio, di originalità e quindi legata al

fraintendimento basso, scurrile, del concetto di ispirazione. Questo concetto della assoluta soggettività dell’ispirazione, sempre legittima e quindi destinata a porsi nel dominio della altrettanto legittima soggettività e relatività del giudizio, trova perfettamente riscontro, giustificandola, nell’opinione diffusa in certi ambienti del nostro paese pur socialmente rilevanti, economici o tecnico - scientifici, secondo i quali la conoscenza pratica dell’arte sarebbe in definitiva una cosa alquanto futile, superflua, in considerazione del fatto che tutti possono facilmente accedervi all’occasione. Può essere anche vero che l’arte indizia di una superfluità, di una inutilità, di una non finalità nel proprio fare, ma naturalmente questo ci sposta in un ordine teorico assai più problematico che va a cogliere il senso stesso del fare dell’arte come un fare non quotidiano, come un fare non finalizzato, come un fare che sospende anzi ogni rapporto con il quotidiano e con un fine determinato, determinando una sorta di epoché.

Il collante che unifica in qualche maniera questi due atteggiamenti apparentemente divergenti è in realtà una sorta di vuoto teorico, un vuoto teorico di fatto, in base al quale il momento pratico del fare artistico sembra trovare una sorta di autoreferenzialità o nello specifico della tecnica o nella soggettività dell’individuo, che diviene obiettivamente forma di una innaturale separatezza piuttosto che di una necessaria autonomia.

Mentre assai più complesso dal punto di vista teorico, culturale e sociale è il processo autonomo di sviluppo della conoscenza tecnica realizzatosi in ogni tempo attraverso la figura dell’artista, nel quale senza dubbio convergono specifiche cognizioni desunte dalla storia e integrate dalla propria personale esperienza del fare ma all’interno di una fondamentale prassi di comprensione generale del mondo e di una capacità di “vedere” orizzonti che non può non generare un movimento di costante spostamento altrove sicché, di scarto in scarto, l’artista procede verso un ignoto fare le cui regole mai sono state fissate.

MEZZI E MATERIALI

Egualmente pericoloso per la comprensione dei linguaggi dell’arte è il mito della neutralità delle tecniche, degli strumenti, dei materiali, ecc. Tale supposizione mi sembra profondamente sbagliata, erronea, perché assolutamente mai le tecniche (o i materiali) – come vedremo - si pongono come qualcosa di neutrale rispetto al fare, proprio in ragione del fatto che esse non solo sono diversissime e articolate, ma soprattutto sono espressione di un fare – di un poiein – che, oltre a richiedere un insieme di operazioni strumentali e manuali che intervengono sulla materia, la organizzano esprimendo una precisa e determinata concezione del mondo, la Weltanschauung dell’artista che nell’opera tende a porsi come un valore e come un valore assoluto e non imitabile; tanto è vero che il fine della tecnica artistica non è la produzione di oggetti, ma la creazione di valori, per cui risulta inseparabile dal concetto di tecnica tutto l’iter processuale - ideativo che caratterizza l’opera, e che talvolta è l’opera stessa, rendendola diversa e irrepetibile. Nell’esperienza dell’arte contemporanea questo elemento risulta particolarmente evidente negli artisti che tracciano i percorsi più significativi del secondo 900, a partire da Warhol e Beuys e con non minore evidenza in Kosuth e Sol LeWitt, fino ad artisti più “giovani” come Jenny Holzer e Barbara Kruger, Ashley Bickerton, Reinhard Mucha, Tony Cragg, Rosemarie Trockel e Cindy Sherman, solo per ricordarne alcuni fra i tanti.

Inoltre le tecniche artistiche non costituiscono certo una parte a sé stante dell’esperienza e dunque non sono una categoria perimetrabile. Questo significa che quel che conta è il modo in cui l’artista si avvicina alle tecniche pure e ai materiali nel tentativo di conoscerne e di utilizzarne esteticamente le possibilità. Spesso succede che l’artista mette in azione tecniche assolutamente desuete sotto il

profilo dell’evoluzione tecnologica, o al contrario utilizzi tecnologie avanzate, le utilizzi cioè in senso proprio, affine agli usi più generali, oppure più spesso e volentieri per fini che sarebbero ritenuti da altri assolutamente marginali o addirittura eretici, inidonei. E’ il caso di tanti artisti che usano le strumentazioni elettroniche, il software informatico, il laser, l’ologramma o la realtà virtuale, ecc., in modo assolutamente difforme dall’uso tecnologico scientifico.

Il significato estetico formale è in ogni caso la componente di fondo nell’utilizzazione di qualsiasi tecnica, ragion per cui riflettere sulle tecniche artistiche significa in primis rilevare e cogliere il comportamento dell’artista nel servirsi di un patrimonio di conoscenze tecniche che appartiene non solo a lui ma all’intera umanità e che egli utilizza. Il centro del problema è pur sempre quella libertà dell’artista di fronte alla tecnica che gli permette anche di concedersi un uso imperfetto della medesima, purché essenziale al proprio intento e ciò fa sì che ogni tecnica consenta di produrre buoni e validi risultati estetici a condizione che corrisponda ad un preciso ordine interiore dell’artista. In tal senso tecnica, rappresentazione e stile si corrispondono esattamente nell’opera.

Il ruolo del mezzo infine è tale che a seconda dei mezzi impiegati tendiamo a parlare non tanto di linguaggio, ma di linguaggi artistici, identificando cioè nel mezzo, una sorta di specifico linguistico a cui si deve poi la struttura stessa dell’opera, come se la natura del materiale determinasse quindi l’organizzazione formale dell’opera. Si tratta di quella che Bachtin ha chiamato estetica materiale e che trova un esempio significativo anche nella ben nota espressione di Marshall mc Luhan, il medium è il messaggio.

Senza dubbio la forma dell’opera è dovuta anche al materiale con cui è stata realizzata.

Il materiale è a propria volta strettamente legato all’opera, la quale tuttavia in quanto tale, si pone come un termine assoluto che trascende ogni materiale; quando l’opera viene letta dal nostro sguardo, il materiale e le sue tecniche costruttive significano ben oltre ciò che sono, mettendo in luce proprio l’atto creativo. E’ ovvio comunque che la scelta di un materiale piuttosto che un altro, o la sua manipolazione fatta in un modo piuttosto che in un altro, assumano un significato nell’opera. Quindi la qualità del mezzo espressivo e la tecnica, sono espressione non solo della qualità formale del prodotto, ma anche dell’idea che lo sorregge; in questo senso l’idea e gli strumenti si sposano integrandosi l’uno nell’altro, tenendo conto che vi è una relazione evidente tra scienza, tecnologia e arte.

Vale forse la pena di ricordare, anche se può sembrare scontata tale osservazione, come la scoperta di particolari procedimenti chimici abbia modificato radicalmente la resa dei colori, rendendo diversi non solo i risultati pittorici, ma anche le possibili applicazioni. In eguale misura si potrebbero ripercorrere le tappe storiche del rapporto opera - mezzo espressivo dalla pittura a tempera, all’affresco medioevale, all’olio rinascimentale che consentiva una diversa varietà di tinte prima impensabili, allo studio rinascimentale delle leghe che favorì la pratica della scultura in bronzo, fino alla scoperta della gelatina di bromuro d’argento che resero possibile la fotografia e così via, fino alle conseguenze che derivano per l’artista contemporaneo dalla scoperta e dall’uso del video, del computer, del web, ecc., apparecchi e tecnologie che gli offrono media veloci, flessibili, comunicativi, che assumono un ruolo niente affatto neutrale ma assolutamente determinante anzi nell’esplodere delle poetiche della sparizione, dell’immaterialità ed infine della piena confluenza nella realtà che caratterizzano l’esperienza contemporanea dell’arte, una strada già perfettamente indicata da Duchamp e scavata da Warhol, eroe o, meglio, anti-eroe dell’arte moderna, essendosi egli spinto – come scrive Baudrillard - più lontano di chiunque altro sulla via della sparizione dell’arte, di cui aveva intuito, secondo la visione baudelairiana, il radicale destino: quello di realizzare il proprio totale disconoscimento nell’ironia oggettiva del mondo della merce, nell’estasi negativa della rappresentazione. Per questo l’eroismo dell’ eroe antieroe

moderno non consiste nel risacralizzare l’arte contro la merce ma nel sacralizzare la merce come merce: da Warhol a Jeff Koons a quello che Germano Celant ha chiamato “inespressionismo”.

“Lavorare sulla forma appariscente dell’arte,” dice Celant, “portando l’attenzione sull’inganno dell’arte”.

Tutto ciò è chiara conseguenza di una incontrovertibile tendenza che, fin dagli inizi della modernità, pone, con radicalità che non ammette ormai più alternative, il tema del definitivo scavalcamento del concetto di tecnica artistica ancora intesa come semplice techne, come patrimonio di conoscenze storiche e personali maturate esclusivamente dall’artista ed apre, insieme alla affermazione della assoluta centralità del procedimento, ad una prospettiva di totale democratizzazione delle tecniche e delle esperienze dell’arte.

Se infatti le tecnologie si rendono parimenti disponibili per chi intenda usarle e se la questione veramente dirimente del senso dell’opera affonda non sul terreno delle abilità tecniche ma su quello dei procedimenti, dei concetti, delle scelte ideative, della progettualità sociale e culturale del’artista, della sua capacità comunicativa e relazionale, della sua facoltà di stabilire nessi pregnanti con i contesti in cui si opera, ogni uomo – come sosteneva Joseph Beuys - potrà davvero essere un artista, purché ne sia consapevole e purché questo sia il suo necessario destino.

Per altro verso si mostra qui il fantastico paradosso dell’arte. Quanto più l’arte coincide con il reale, mostrandosi come parte indistinguibile del medesimo, tanto più essa è avvertita da tutti noi come necessaria, poiché soltanto quando cade nel suo dominio il reale riesce ad illuminarsi di senso.

Si potrebbe anche dire che l’arte determina la realtà e non viceversa.

Ciò significa che, per mezzo dell’arte, si può aspirare ad una autentica rifondazione del senso delle cose e dell’esperienza della vita che passa di nuovo attraverso gli interrogativi originari.

Su questo piano si gioca un significato essenziale della modernità, un significato problematico e senza risposte precostituite.

AL DI LA’ DELLE APPARENZE

In sostanza le pratiche dell’arte – al di là delle apparenze contrarie – hanno pur sempre ancora la possibilità di nutrirsi di un atteggiamento progettuale e rifondativo come anche di una maggior consapevolezza epistemologica, evocando il pensiero che già Leonardo aveva dell’arte e la sua rivendicazione della pittura come fatto eminentemente mentale, come scienza, ove la pratica fonda la teoria non meno che la teoria la pratica entro una visione che non può mai prescindere dall’esperienza. Una correlazione che è comune a tutte le altre scienze, per cui appunto il Da Vinci poteva dire che la pratica pittorica è scienza per eccellenza, quella di cui “l’origine il mezzo, i fini, passano per i sensi” e che essa “non pasce di sogni” i suoi destinatari.

Una riflessione adeguata dunque va fatta non solo – come è abitudine scolastica invalsa - sul corpo nell’arte, ma sul corpo dell’arte, il quale consiste sempre e comunque nel rapporto fra l’artista e la sua pratica, in quanto capace questa ultima di rendere manifesta un’idea delle cose che sono e alle quali l’artista attinge. Attraversando la concretezza dell’opera dobbiamo stare in guardia rispetto a certi rituali esecutivi, mostrando come le tecniche in campo artistico non possono essere assunte

come un elemento neutrale rispetto al pensiero, che se tale pensiero non viene posto necessariamente, allora il fatto artistico si assolutizza in una sua immagine isolata. In altre parole, se non si vuole che l’arte sia semplicemente ridotta a una delle tante pratiche specialistiche, più o meno raccordate ai processi produttivi di beni materiali o immateriali della società contemporanea, attraverso la sua applicazione all’industria dell’immagine da una parte o la sua sparizione nell’universo negativo della merce dall’altra, a vantaggio di un mondo totalmente estetizzato o anestetizzato, è necessario che essa ritrovi nella pratica artistica, come nell’insegnamento, quella dimensione rifondativa che la ripristini.

Le domande di fondo che l’arte ha sempre posto fin dalle sue origini, sono state neutralizzate prima dalla filosofia, poi dalla scienza: da qui la necessità di un confronto rinnovato tra forme del conoscere che perseguono un comune intento rifondativo.