IN PARTIBUS INFIDELIUM FORME E SENSI DEL PREGARE NELL’ESPERIENZA LETTERARIA ITALIANA...

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153 IN PARTIBUS INFIDELIUM: FORME E SENSI DEL PREGARE NELLESPERIENZA LETTERARIA ITALIANA DELL’OTTO/NOVECENTO 1. PREMESSA Inizio spiegando il titolo, e magari precisandolo. L’arco temporale racchiuso nel mio intervento sarà quello intercorrente fra l’Ottocen- to e il Novecento, perché solo considerando lo sviluppo dell’espe- rienza letteraria dall’insorgere del moderno all’età più propriamente contemporanea è possibile rendersi conto dei fenomeni in questio- ne da un punto di vista storico. «,Q SDUWLEXV LQÀGHOLXPª VLJQLÀFD FKH sceglierò di concentrarmi su una serie di scrittori la cui esistenza, ELRJUDÀFDPHQWH LQWHVD QRQ q VWDWD FDUDWWHUL]]DWD GD XQ·HVSOLFLWD DGH- sione di fede, o comunque da una qualsiasi forma di credenza in un GLR WUDVFHQGHQWH EHQVu GD XQ DEEDQGRQR GD XQ ULÀXWR GD XQD GL- stanza ovvero da una serena indifferenza. Sceglierò i miei autori nel novero dei poeti, per la maggior perspicuità della lirica – data la sua incisività ‘scultorea’ e la sua relativa brevità – in vista della conduzio- ne di un discorso che sia al contempo ampio ma di estensione ‘tipo- JUDÀFD· QHFHVVDULDPHQWH FLUFRVFULWWD 6L WUDWWHUj GXQTXH GL XQD VHULH di testi in forma di preghiera o di componimenti comunque segnati dall’atto del pregare, messi su carta però da uomini che di norma 1 non hanno vissuto l’orazione come pratica esistenziale, e che pure si sono trovati – a partire da una diversa sostanza, da un differente livello del sé, molto più vicino al corpo e al suo abisso prezioso e insondabile – a immettere o addirittura a formulare preghiere nel loro concreto, vitale actus scribendi. 1 Dico «di norma» perché ovviamente non sono trascurabili in questo con- WHVWR VXO YHUVDQWH ELRJUDÀFR O·HVSHULHQ]D GL VHPLQDULVWD YLVVXWD GD Foscolo, la tradizione devota in cui è innestato Leopardi, la formazione cattolica di un poeta come Pasolini.

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IN PARTIBUS INFIDELIUM: FORME E SENSI DEL PREGARE NELL’ESPERIENZA LETTERARIA ITALIANA

DELL’OTTO/NOVECENTO

1. PREMESSA

Inizio spiegando il titolo, e magari precisandolo. L’arco temporale racchiuso nel mio intervento sarà quello intercorrente fra l’Ottocen-to e il Novecento, perché solo considerando lo sviluppo dell’espe-rienza letteraria dall’insorgere del moderno all’età più propriamente contemporanea è possibile rendersi conto dei fenomeni in questio-ne da un punto di vista storico. «sceglierò di concentrarmi su una serie di scrittori la cui esistenza,

-sione di fede, o comunque da una qualsiasi forma di credenza in un

-stanza ovvero da una serena indifferenza. Sceglierò i miei autori nel novero dei poeti, per la maggior perspicuità della lirica – data la sua incisività ‘scultorea’ e la sua relativa brevità – in vista della conduzio-ne di un discorso che sia al contempo ampio ma di estensione ‘tipo-

di testi in forma di preghiera o di componimenti comunque segnati dall’atto del pregare, messi su carta però da uomini che di norma1 non hanno vissuto l’orazione come pratica esistenziale, e che pure si sono trovati – a partire da una diversa sostanza, da un differente livello del sé, molto più vicino al corpo e al suo abisso prezioso e insondabile – a immettere o addirittura a formulare preghiere nel loro concreto, vitale actus scribendi.

1 Dico «di norma» perché ovviamente non sono trascurabili in questo con-Foscolo, la

tradizione devota in cui è innestato Leopardi, la formazione cattolica di un poeta come Pasolini.

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Queste brevi considerazioni spiegano il motivo per cui fra i poeti di cui mi occuperò non ci saranno ad esempio Manzoni o Tomma-seo, l’Ungaretti post conversione, Luzi e Betocchi, ma nemmeno ovviamente Turoldo, Guidacci, Campo (nonché la variegata pro-duzione ‘religiosa’, e spesso orante, di Alda Merini). Per comodità espositiva e per questioni di equilibrio interno ho scelto due autori ‘fondamentali’ per ogni fase storica considerata: Foscolo e Leopar-di per il primo Ottocento, Carducci e D’Annunzio per il secondo, Montale e Quasimodo per la prima metà del Novecento, Pasolini e Caproni per gli anni più vicini a noi. Di tutti ho naturalmente consi-derato l’estensione integrale dell’opera, anche qualora travalicasse i

Mi pare utile inoltre anticipare qui, in premessa, una sorta di de-scrizione fenomenologica generale dei testi che saranno poi analiz-zati in dettaglio. È lecito infatti, da parte del lettore di queste pagine, chiedersi (e chiedere) sin da subito se si troverà di fronte ad un insie-me linguistico variegato e privo di profonda unità (eccetto quella del tutto esterna fornita dal tema proposto), ovvero se dall’osservatorio della parola orante i testi in gioco potranno apparire disposti all’in-terno di un unico orizzonte storico ed ermeneutico. Credo di poter anticipare una risposta certamente positiva a questa domanda. La preghiera dei poeti che ascolteremo sembra infatti generata e come collocata nel cuore di un’assenza, di un mancare di Dio in quanto

di un paradigma religioso, sociale e culturale capace di conferire un senso condiviso alla vita individuale e collettiva. È all’interno della

-cipiente che si può intendere e collocare lo spazio originario, il porto immaginario da cui i nostri testi prendono il largo, facendo i conti con i primi segnali dell’assenza – ancora non colti dalla consapevo-lezza sociale del tempo (si pensi alla situazione tipica di tanto Otto-cento, legato, nelle sue percezioni e nelle sue espressioni socialmen-te diffuse, ad una resistente tradizione di riti, usi e simboli ‘religiosi’) – e giungendo poi a confrontarsi con la massiccia secolarizzazione contemporanea e con le sue contraddizioni ‘postmoderne’.

Senza la «morte di Dio», insomma, i testi che prenderemo in esa-me non ci sarebbero, o non avrebbero comunque assunto la forma attuale, che è quella di una reazione di diversa fattura e di diverso

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indirizzo ad un unico evento capitale. Anzi, considerando come ter-reno comune di coltura di queste sofferte e atipiche orazioni, di queste proiezioni verso il Magnus Absens tentate in una zona imper-scrutabile e nucleare dell’esserci, le tipologie giudeocristiane della preghiera, e dunque, in primo luogo, la preghiera biblica, si potrebbe sostenere che – eccettuata l’orazione o l’invocazione ‘neopagana’ di D’Annunzio (e per altri versi di Carducci) – tutti gli altri testi siano riunibili sotto il segno di una preghiera di tipo ‘getsemanico’, ovvero ‘staurologico’. Voglio dire cioè che fra tutti i verbi usati dal N.T. per indicare l’atto del ‘pregare’ è certamente il verbo «krazein» – equiva-lente dell’italiano ‘gridare’, ma con una connotazione quasi espres-sionistica legata all’etimologico ‘gracchiare’, ovvero ‘alzare un grido stridulo, aspro, sensibilmente rauco’ – quello che più si avvicina all’e-sperienza comunicataci dai poeti in esame.2 E «krazein» è il verbo del grido di Gesù sulla croce prima di morire («

», ovvero «gridando di nuovo a gran voce rese lo spirito», Mt 27, 50), quel grido ritenuto dagli esegeti come una forma estrema di preghiera da parte di Gesù, che ha appena levato al Padre le parole del Salmo 22: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbando-nato?». In quel grido vengono accolte e raccolte tutte le urla, tutte le voci forti e spesso disperate che si alzano dalla terra verso il cielo nella distretta mortale. In quel grido Gesù si assimila alle tante don-ne e ai tanti uomini che, incontrandolo sulle strade della Palestina, non hanno trovato altro modo per pregarlo, per invocare il suo aiu-to, che «gridare». «Krazein» è – non per nulla – il verbo della preghie-ra dei due ciechi in Matteo («Dauid»: «gridando e dicendo: “Figlio di Davide, abbi pietà di noi”», Mt ekrazen legou-

»: «gridava: “Abbi pietà di me, Signore Mt 15, 22), del padre del ragazzo indemoniato

(« apistia»: «grida e dice: “Io credo: aiutami nella mia incredulità”», Mc 9, 23). Ma «krazein» è anche uno dei due verbi greci (insieme a «boan») con cui i Settanta traducono i verbi della radice ebraica «s‘q/z‘q», che

2 Cfr. Grande Lessico del Nuovo Testamento, fondato da G. Kittel, continuato da G. Friedrich, ed. it. a cura di F. Montagnini, G. Scarpat, O. Soffritti, vol. V, fasc. I, krazo (W. Grundmann), Brescia, Paideia, pp. 957-74.

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ricorrono nell’A.T. per dire l’invocazione del popolo o del singolo

Hasel – «di uno degli aspetti principali della preghiera dell’A.T.».3 Israele d’altronde non poteva dimenticare di essere nata da un grido levato a Dio nell’angoscia dal popolo schiavo in Egitto (Es 2, 23), e dunque non può sorprendere che «z ‘aq», ovvero «krazein» siano le parole giuste per dire, ad esempio, il grido dell’orante dei Salmi. Di quel salmista, soprattutto, la cui invocazione non trova ascolto («Signore, Dio della mia salvezza / davanti a te grido giorno e notte [...] Ma io a te, Signore, grido aiuto [...] Perché Signore mi respingi?», Sal 87, 2.14.15).4 Mi riferisco anzitutto all’orante del Salmo 87, che sente Dio irrimediabilmente lontano, addirittura nemico, e che alza la sua voce come nel deserto, in un’assenza disperante di soccorso. Il grido del salmista – alla stessa maniera del grido di Giobbe (Gb 19, 7) – è rivolto al Dio che non ascolta, ad un Dio inspiegabilmente muto, che non viene incontro alla preghiera accorata del giusto, che non aiuta il suo fedele. È in quest’orbita – credo – che si possono collocare le parole poetiche di cui ora andremo ad ascoltare l’eco. Parole di uomini che ‘pregano’ – al di là si se stessi, potremmo dire – dinanzi ad un Dio che viene meno, ad un Dio che non si può

testi un grido, che può divenire invocazione accorata ovvero celata,

acuminata sino all’ironia.5

3 Grande Lessico dell’Antico Testamento, a cura di G. J. Botterweck e H. Ringren, ed. it. a cura di P. G. Borbone, vol. II, z ‘aq (G. F. Hasel), Brescia, Paideia, pp. 667-78.

4 Per un’interpretazione del Salmo 87 (88) sintonica con il nostro ambito di ricerca cfr. G. RAVASI, Il libro dei Salmi. Commento e attualizzazione, vol. II, Bologna, EDB, 1986, pp. 803-19.

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solide acquisizioni della critica. L’interrogazione ermeneutica sulla preghiera in

individuazione delle emergenze del sacro in chiave sia classica che biblica, come fa, nel suo bel contributo, G. BARBERI SQUAROTTI, I miti e il sacro. Poesia del Novecen-to, Cosenza, Pellegrini, 2003) non conosce infatti sinora uno sviluppo organico, almeno in campo italiano. Fa (luminosa) eccezione la lunga ricerca di Giovanni

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2. IL PRIMO OTTOCENTO. DA JACOPO AL PASTORE ERRANTE

2.1. Foscolo. Sul limitare del transito

Le antenne più sensibili della letteratura italiana moderna ai gran-di rivolgimenti della cultura europea sono senza ombra di dubbio quelle di Foscolo e di Leopardi. In essi la facies dolorosa del trapasso moderno si rende luminosamente visibile, facendo della loro opera la testimonianza viva di una temperie delle cui conseguenze ci sen-tiamo ancora investiti. È questo il motivo profondo che consente alla lirica foscoliana, del tutto interna alla tradizione petrarchesca e improntata al più rigido classicismo, di risuonare ancor oggi ai nostri orecchi con una melodia ben diversa da quella di tutta la produzio-ne settecentesca, o anche di quella coeva (pensiamo a un Monti). Il segreto della prossimità di Foscolo non si scopre dunque sul piano linguistico né dell’innovazione formale. Foscolo ci è vicino perché

Pozzi, che ha toccato più volte il nostro tema. Si pensi ad un saggio come I nomi di Dio nei «Promessi sposi», ospitato in Alternatim (Milano, Adelphi, 1996, pp. 315-89), dove fra l’altro la preghiera maxima è quella di Renzo nel lazzaretto, «la cui formulazione verbale è quanto di più alto esista nella graduatoria dei modi in cui l’uomo interpella Dio: la preghiera dalla sintassi incoerente, dal lessico confuso,

-nevolo e interprete». Una preghiera, insomma, quale apice del «gemito del cuore» posto a «fondamento dell’orazione cristiana» (pp. 316-7). Si tratta, come si vede, di una tipologia di preghiera eminentemente getsemanica o staurologica, in quanto basata sul grido e sull’espressione corporea, al di là di ogni precisione verbale. Nondimeno, Pozzi preferisce, nei suoi percorsi, attenersi di consueto all’analisi di materiali testuali di matrice esplicitamente cristiana: dagli studi su Francesco all’analisi del linguaggio eucologico del popolo cattolico italiano in epoca tridenti-

Pazzi o Veronica Giuliani (G. POZZI, Grammatica e retorica dei santi, Milano, Vita e Pensiero, 1997). Nella nostra ottica, invece, hanno un rilievo centrale le preghiere dei poeti che non hanno pensato mai ai propri testi in termini confessionali o naturalmente credenti, e che quindi portano nel tema una prospettiva meno in-quadrabile, ma piena di fascino, sul linguaggio della fede – sulla sua persistenza sotterranea o sulla sua messa fuori gioco – in un tempo segnato dall’eclissi del Dio

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meglio un programmatico squilibrio – si sta appressando, e su que-sto crinale egli si pone in quanto soggetto di domanda, di ricerca, di coraggiosa risposta.

La morte sarà ‘il’ tema unico, quasi assoluto, delle sue opere mag-giori, non per mera automatica assimilazione ad un habitus diffuso nella lirica europea (inglese in primo luogo: da Young, a Grey, a Keats), bensì perché, come va confusamente emergendo nell’Eu-

cartina di tornasole del cambiamento. Se Dio viene meno, la morte non è più protetta, garantita da un ordine ulteriore, e la giustizia non è più assicurata, almeno in una dimensione altra della vita. Se Dio manca, si è posti invece di fronte alla possibilità del nulla, alla forza devastante di un evento che non può essere sanato da un intervento superiore, da una mano soccorritrice. Il disgregarsi dell’orizzonte

intensità così profonda, con un’angoscia che solo la via della poesia eternatrice potrà placare. Sarà questo l’approdo dei Sepolcri – ideal-mente collegato a quello di Né più mai toccherò le sacre sponde, il celebre sonetto A Zacinto –, a cui Ugo perverrà al termine di un’indagine serrata che sempre avrà di mira il morire. Ma la strada verso la sua personalissima soluzione sarà non poco accidentata. E, su di essa, una tappa fondamentale, in quanto espressione di tutti i travagli e le contraddizioni della sua scrittura, sarà rappresentata dall’Ortis. Il no-stro viaggio comincia da qui, con l’unica eccezione al programma di letture rigorosamente poetiche che ci siamo dati. Ma è un’eccezione indispensabile, se l’Ortis è – come mi pare – uno snodo essenziale o addirittura un abbrivio di tutto il dinamismo successivo. Per una

libro di Jacopo porta la data del 1798 (la stessa degli esordi di «Athe-naeum»), mentre il primo Ortis approvato dall’autore sarà quello del

lo differenzia dall’edizione zurighese del 1816 come ha mostrato Terzoli.6 Ma su questo punto avremo modo di tornare.

6 Mi riferisco all’importante ed originale contributo di A. M. TERZOLI, Il libro di Jacopo, Roma, Salerno, 1988.

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-sonaggi dei romanzi o dei soggetti che dicono ‘io’ nella poesia il rispecchiamento dei loro autori. Questo saggio è d’altronde tutto poggiato sul convincimento opposto. Ma non si può nascondere

Ortis sia in verità molto simile a quella sperimentata dal suo autore. Nato a Zante, introdotto agli studi ecclesiastici, attento e costante lettore della Bibbia, poi catapultato nella giovinezza in un contesto

-ne di Francia e soprattutto della sua ‘esportazione’ ad opera delle truppe del generale Bonaparte, Foscolo si forma alla frontiera fra la Scrittura e il ‘mestiere’ usuale di tanti letterati della tradizione da un lato, e l’immersione dall’altro in un mondo in subbuglio, dove egli si fa militare, uomo di mondo e intellettuale impegnato in una battaglia culturale e politica che ruota attorno ai destini dell’Italia.

D’altronde, il motivo politico occuperà a ragione una zona im-portante del romanzo epistolare giovanile. Ma sarebbe un errore di prospettiva ridurre l’Ortis all’espressione tumultuosa di un disagio politico ed esistenziale, dispiegato, lungo il romanzo, nel pellegri-naggio di Jacopo esule e nella sua sfortunata storia d’amore con Teresa. Una tale lettura rischierebbe infatti, come è accaduto per altri versi ad ogni ermeneutica rapsodica dei Sepolcri, di non cogliere

-gue nel contesto culturale coevo. Ciò vuol dire che Jacopo soffre – è vero – per la libertà della patria conculcata e tradita a Campoformio, e vive un dolore mortale per la perdita della donna che rappresenta l’anima a lui elettivamente compagna, ma il suo dolore è reso davve-

-zione, dalla lacerazione interiore che lo regge e lo sostanzia.

Si tratta, nel romanzo, di una lotta continua e senza esclusione di colpi fra le due istanze costitutive del sé di Jacopo, del suo corpo e della sua storia: il cuore e la ragione. Guardato da quest’angolo visuale, l’itinerario dell’Ortis è chiaro. Jacopo è costitutivamente un uomo del cuore, perché in una fresca, dolce amicizia con le creature è collocata la sua infanzia («Io non ho l’anima negra;; e tu il sai, mio

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ti i viventi [...] Quanto mi sta d’intorno richiama al cuore quel dolce sogno della mia fanciullezza»).7 Ma, crescendo, la durezza della vita, la sofferenza dei giusti, la sventura politica della sua patria lo han-no ferito e gli hanno aperto gli occhi sopra una diversa verità. Nel mondo visto sub specie rationis la Natura è un meccanismo impietoso di generazione e distruzione degli esseri (della cui «brama di vita»

un insieme si eventi insensato e ripetitivo, la morte un liberatorio ingresso nel nulla (che permette a Jacopo di ridere anche dell’onni-potenza di Dio),8 la religione una creazione illusoria dell’uomo, nata dal bisogno degli infelici. L’apparizione di Teresa funziona però nel romanzo alla stregua di un’attivazione rinnovata dell’ordo cordis, che riporta Jacopo ad una esistenza riscaldata dalla passione e dall’a-more. Torna l’impeto iniziale, quello di una passione ardente per l’umano, che lo fa vibrare per gli spiriti eletti e per le grandi anime (come quella di Parini), lo accalora in difesa del bene e del giusto, gli fa sentire profonda compassione per gli sventurati, per gli indigenti, lo fa reagire dinanzi all’arroganza dei potenti, gli pone soprattutto nuovamente davanti agli occhi lo spettacolo di una Natura bella, edenica, una Natura ‘creata’ da Dio, illuminata dal sole che di Dio è immagine mirabile. Un Dio che soccorre gli umili e viene incontro

È una rigenerazione dovuta a colei che incarna la bellezza celeste e la purezza di cuore, e che innalza nuovamente l’anima dell’amante, assorto in contemplazione. Si tratta di un’esperienza dai contorni chiaramente petrarcheschi – non sfugga la costante considerazione di Petrarca come «padre» di Jacopo, sin dal pellegrinaggio ad Arquà

aveva segnato, nella lirica e nella cultura europea del XIV secolo, -

nitivamente si installa. L’alto vissuto spirituale dell’amore per Teresa Fram-

mento che è la mise en abîme del romanzo) pare a Jacopo un dono e

7 U. FOSCOLO, Ultime lettere di Jacopo Ortis, in ID., Opere, a cura di F. Gavazzeni, tomo II, Milano-Napoli, Ricciardi-Mondadori, 1996, p. 604 e p. 622.

8 «Uscirò, uscirò dall’inferno della vita;; e basto io solo: a questa idea rido e della fortuna, e degli uomini, e della stessa onnipotenza di Dio» (ivi, p. 625).

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una benedizione della Natura e di Dio sulla sua vita. Teresa è la don-na-angelo, la Venere celeste che solleva l’amato in una zona dell’es-sere ben diversa da quella abitata dall’eros volgare. Ma l’illusione

costretta dal padre per vili motivi economici, e che la costringerà a sposare l’ottuso e mai amato Odoardo – in uno con la chiara perce-zione dell’inutilità di ogni lotta di liberazione della patria – prostrano Jacopo e lo riaprono alla convinzione della vanità universale, della speranza impossibile, della via del sepolcro, perseguita e attivamente realizzata, come l’unica liberazione offerta all’infelice.

Le preghiere di cui è punteggiato l’Ortis sono l’espressione più alta e decisiva di questa divaricazione interiore, di questa ferita dell’a-

contrasto lacerante fra un ordine edenico, infantile, e il verbo della

e si afferma, è proprio la dimensione religiosa – quella della fede di Jacopo e della sua preghiera – il luogo ideale nel quale sommamen-te la tensione si esprime. La religio cordis della tradizione, con la sua immagine consolidata di Dio, e l’attacco moderno al sacro e al Dio garante – sole e perno dell’universo – si confrontano e si scontrano nelle tante orazioni di Jacopo, il cui rilievo fondante è stato spesso sottovalutato dalla critica. L’Ortis non è semplicemente il romanzo epistolare di una irrisoluzione giovanile e di una delusione politica e amorosa irrimediabile. Il libro di Jacopo rappresenta altresì, ben più in profondità, il segnalatore luminoso di un passaggio epocale, un documento fondamentale in cui si ospita ancora tutto il lievito del passato ed intanto si è posti di fronte ad un futuro diverso. È ad un crinale culturale che l’Ortis presiede, quasi alla maniera – al-meno nel suo nucleo orante, religioso – di una riscrittura moderna delle Confessiones agostiniane: un lungo, inesausto colloquio con Dio, in cui non si afferma però il passaggio dall’uomo pagano all’uomo

della religione greca e latina al Dio della vera religio, bensì si appren-de, si sperimenta nel vivo della carne e della parola dell’orante il transito inevitabile e doloroso dal Dio della Bibbia e della traditio al Dio assente, al Dio mancante ovvero alla sua moderna eclissi. La grandezza di Jacopo sta nel non ‘dire’ tutto questo alla maniera di

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materia incandescente di un’orazione in cui il Dio che si invoca è al contempo il Dio che scompare.

***

Cerchiamo di capire. Come ho già detto, nell’Ortis Jacopo prega, a lungo e ripetutamente, in forma dialogica, diretta, o anche in ma-niera indiretta, citando solo l’oggetto, la modalità o il motivo di una preghiera che non viene però rivolta al Padre. Le orazioni di Jacopo

-re e ragione, fra tradizione e modernità, che regge tutto il libro.

Da un lato troviamo infatti il Dio della religione del cuore, il Dio vivente e rassicurante dell’antica fede. Questo Dio ha deliberata-mente creato in Jacopo il cuore adatto all’amore per Teresa («Teresa è mia, tutta;; tu me l’hai conceduta perché mi creasti un cuore capace di amarla immensamente, eternamente»);;9 si comporta da pedagogo con le sue creature, usando la sofferenza come educatrice della virtù

-genita le hai data per guida la sventura»);;10 dona la morte come una grazia liberatrice a chi sia stretto in un cerchio di sofferenza insop-portabile («Ti ringrazio, eterno Iddio, ti ringrazio! Tu dunque hai ritirato il tuo spirito, e Lauretta ha lasciato alla terra le sue infelicità;; tu ascolti i gemiti che partono dalle viscere dell’anima, e mandi la morte per isciogliere dalle catene della vita le tue creature persegui-

11 conosce il dolore estremo della sua creatura («Frat-tanto Dio ha conosciuto ch’ella non poteva reggere più»),12 che a Lui si rivolge con forza, ma solo per liberare dal peso la propria anima («Piangendo e invocandoti cerco soltanto di liberare quest’anima»);;13 ascolta il gemito di chi lo invoca («Ormai non so che supplicare il sommo Dio, e supplicarlo co’ miei gemiti, e cercare qualche aiuto fuori di questo mondo dove tutto ci perseguita o ci abbandona»).14

9 Ivi, p. 614.10 Ibidem.11 Ivi, p. 620.12 Ivi, p. 621.13 Ivi, p. 631.14 Ivi, p. 637.

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A questo Dio il cuore dell’orante torna anche involontariamente nel dolore («Abbandonato da tutti non chiedi aiuto dal cielo? non

a lui»).15 A Lui chiede il refrigerio del pianto («Mio Dio, mio Dio, concedimi il refrigerio del pianto»).16 Di Lui professa la fedeltà, nella certezza che pure nella morte non ritirerà il suo sguardo dall’amante infelice («Consolati, Teresa, quel Dio a cui tu ricorri con tanta pietà, se degna d’alcuna cura la vita e la morte di una umile creatura, non ritirerà il suo sguardo neppure da me»).17

Dall’altro c’è il Dio a cui si leva la voce dell’orante nell’abbando-no, un Dio che viene meno, assente e al limite nemico, verso cui gri-da colui che ha conosciuto la durezza del mondo, il gelo del calcolo, la forza devastante del dubbio. Jacopo sente che qualcosa si è rotto,

con le parole della Bibbia, appoggiandosi alla preghiera di Giobbe e di Ezechia, all’invocazione del Salmista e alla desolata saggezza del Qoelet.

Quali sono però in concreto le parole della preghiera ‘getsemani-ca’ di Jacopo? Cerco di parafrasarla e di citarla insieme, per non sot-trarle in nessun modo intensità e potenza. Mio Dio, ci sei tu ancora per noi o sei un padre che non ha più cura degli uomini («Eterno Iddio, esisti tu per noi mortali? o sei tu padre snaturato verso le tue creature?»)?18 E perché ci fai conoscere la felicità e poi ce ne privi («ahi adesso! e perché farmi conoscere la felicità s’io doveva bra-

19 Perché i giusti devono essere sottoposti alla prova, senza che tu dia poi loro la forza di resistere («So che quando hai mandato sulla terra la

perché poi lasciasti la giovinezza e la beltà così deboli da non poter sostenere le discipline di sì austera istitutrice?»)?20 Perché non mi ascolti, mi condanni all’agonia e mi fai maledire i miei giorni, mentre

15 Ivi, p. 672.16 Ivi, p. 686.17 Ivi, p. 691.18 Ivi, p. 614.19 Ibidem.20 Ibidem.

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io sono innocente? («Dio non mi ode. Mi condanna anzi ogn’istante all’agonia della morte;; e mi costringe a maledire i miei giorni che pur non sono macchiati di alcun delitto. / Che? se tu se’ un Dio forte,

visiti nel tuo furore la terza e la quarta generazione, dovrò io sperar di placarti? No. Manda in me l’ira tua con la quale siedi nell’inferno

che dovranno ardere milioni e milioni di popoli ai quali non ti se’ fatto conoscere. Ahi, sento pure che ho bisogno di te. Ma spogliati degli attributi di cui gli uomini ti hanno vestito per farti simile a loro. Non sei tu il padre della natura e il consolatore

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È a partire da queste domande radicali che si dispiega il travaglio interiore di Jacopo. Il Dio che gli aveva donato Teresa gli appare ora come un Dio giudice, che considera peccato l’agostiniana (e petrar-chesca) conversio ad creaturam di Jacopo («Piangendo e invocandoti cerco soltanto di liberare quest’anima: – di liberarla? oh non mai: ella è piena;; ma non di te. Ecco o Lorenzo, fuor delle mie labbra il delitto per cui Dio ha ritirato il suo sguardo da me. Io non l’ho adorato mai, come Teresa. Bestemmia! pari a Dio costei che sarà a

Teresa a Dio stesso?... Ah da lei si spande beltà celeste e immensa, beltà onnipotente! Io lancio uno sguardo su l’universo, e contemplo con occhio attonito l’eternità;; tutto è caos, tutto sfuma e si annulla, Dio stesso mi diventa incomprensibile... ma Teresa mi sta sempre davanti»).22 Davanti a questo Dio l’orante sta con il suo corpo, già da morente («giaccio con gli occhi spalancati. Mio Dio, mio Dio!»),23 e mentre si trova sulla soglia del nulla lo sente ormai lontano e in-conoscibile, seppur unico, paradossale aiuto nell’angoscia («io scen-derò nel nulla [...] E così nel mio furore e nelle mie superstizioni io mi prostendo su la polvere a scongiurare orrendamente un Dio che non conosco, ch’io non offesi, di cui dubito sempre... e poi tremo e l’adoro. Dov’io cerco aiuto? non in me, non negli uomini: la terra è insanguinata, e il Sole è negro»).24 A Lui chiede conto del suo dolore,

21 Ivi, pp. 630-1. Il corsivo è nel testo.22 Ivi, p. 631.23 Ivi, p. 640.24 Ivi, p. 669.

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Jacopo la conseguenza inevitabile del silenzio del Padre di fronte al suo grido, al suo desiderio di non bere il calice amaro («dopo mille speranze ho perduto tutto!... Godi tu Padre dei gemiti dell’umanità;; pretendi tu che ella sopporti le sventure quando sono più violente delle sue forze?... Egli sa ch’io non posso resistere più... ed ha udito con quante preghiere l’ho supplicato, perché mi allontanasse que-sto calice amaro. Addio, dunque... addio all’universo!»).25

quando si trova ormai sul limitare dell’abisso, Jacopo sancisce – ri-volgendosi a Teresa, ma ancora indirettamente innalzando a Dio la

paterno, dal dissidio del Secretum («Tutto è preparato;; la notte è già troppo avanzata... addio... fra poco saremo disgiunti dal nulla, o dalla incomprensibile eternità. Nel nulla? – Sì, sì;; poiché sarò senza di te, io prego il sommo Iddio, se non ci riserba alcun luogo ov’io possa riunirmi teco per sempre, lo prego dalle viscere dell’anima mia, e in questa tremenda ora della morte, perché egli m’abbandoni soltanto nel nulla. Ma io moro incontaminato, e padrone di me stesso, e pie-no di te, e certo del tuo pianto!... Perdonami, Teresa, se mai... Addio, addio... accogli l’anima mia»).26

La scelta di Jacopo in favore di Teresa, il suo decidersi per il nulla contro l’ipotetica eternità di Dio e del suo regno, qualora dovesse costargli la perdita della sua amata, segna un mutamento di paradig-ma ormai decisivo per l’uomo entrato nella Stimmung del moderno. La fedeltà al tempo e all’altro – che è fedeltà alla fragilità della rela-zione terrena, del suo senso limitato e del suo dono – si contrappo-

-ma («Addio, addio... accogli l’anima mia»), a differenza di quel che sarà nell’edizione zurighese («Teresa è innocente. – Ora tu accogli l’anima mia»),27 non ha nel 1802 i caratteri ‘ortodossi’ della citazione evangelica («Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito», Lc 23,

25 Ivi, p. 692.26 Ivi, p. 694.27 U. FOSCOLO, Ultime lettere di Jacopo Ortis, in ID., Opere. Prose e saggi, ed. dir. da

F. Gavazzeni, vol. I, testo stabilito e annotato da A. M. Terzoli, Torino-Parigi, Einaudi-Gallimard, 1995, p. 138.

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46), ma lascia in una voluta apertura il destinatario dell’appello, quasi a non voler distinguere l’amata a cui la lettera è rivolta da Colui al quale i morenti si rivolgono religiosamente in hora mortis. Comunque si voglia sciogliere tale deliberata ambiguità, non si resta lontani dal vero sostenendo che dove Dio non è più un ‘tu’ a cui consegnare la vita e soprattutto la morte sta per iniziare la storia di una consistenza

dell’esserci.

***

Si misura qui inoltre più marcatamente la distanza fra Jacopo e Werther. È inutile ricordare ovviamente quanto numerose e signi-

sia la portata del debito dell’Ortis verso i Leiden, di caratura impa-ragonabile rispetto a quello contratto da Foscolo con le tante altre ‘fonti’ individuate dalla critica (da Rousseau a Sterne, da Wieland a Barthélemy, da Richardson e dalla letteratura sepolcrale ingle-se all’Ossian;; senza però dimenticare, ad intra, lo stesso epistolario foscoliano).28 Un debito tanto importante ed acclarato da far dedica-re la foscoliana , posta in appendice all’Ortis 1816, proprio ai rapporti del romanzo italiano con il suo antesignano te-desco (questione risolta, secondo Ugo, con la distinzione fra vero reale e perfezione ideale, fra Arte e Genio, per cui l’Ortis avrebbe preso a modello la ‘forma’ del Werther – in primo luogo l’intuizione dell’unico destinatario delle lettere – a fronte di una sua diversa, per-sonalissima ‘sostanza’ ideale e spirituale).

È d’altronde facile mostrare come per lunghi tratti del libro Jaco-po segua le tracce del suo fratello maggiore, sulla cui bocca Goethe mette parole che saranno certamente presenti al giovane eroe fosco-liano. Si pensi, trascegliendo quasi a caso fra i tanti accostamenti pos-sibili, alla vibrazione dell’Onnipotente avvertita dinanzi all’incanto della Natura creata, che provoca a propria volta il compiacimento di

28 Basti ricordare qui, solo come esempi ‘classici’ di individuazione di larghi ‘debiti’ foscoliani, W. BINNI, Il «Socrate delirante» del Wieland e l’«Ortis» del Foscolo, in «La Rassegna della letteratura italiana», maggio-agosto 1959, pp. 219-34;; e C. GOFFIS, Il «Sesto Tomo» e la formazione letteraria del Foscolo, in «Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino», vol. 88, 1953-1954, pp. 1-65.

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Dio («Quando la cara valle intorno a me vapora e la luce del sole, già alto, s’adagia sulla impenetrabile oscurità della mia selva [...] sento la presenza dell’Onnipossente, che ci fece a Sua immagine, lo spiro

termine degli oceani inesplorati, va il respiro dell’Eterno Creatore, e si compiace in ogni granello di polvere che lo riceve e ha vita»);;29 al

della vita («Tu mi chiedi se mi devi mandare i miei libri. Caro, per amor di Dio te ne prego, lasciali dove sono e che non mi vengano fra i piedi. Non voglio più farmi condurre, spronare, infervorare dai libri;; ché questo cuore già bolle abbastanza di per sé»);;30 all’attacco deciso ai benpensanti («O gente benpensante! [...] Passione! Ebrietà! Follia! Voi ve ne state tranquilli, impassibili, voi gente morale! Con-dannate l’ubriaco, inorridite del pazzo, e passate oltre come fanno i preti per la vostra strada, ringraziando Dio con animo fariseo che non v’ha fatto come uno di questi»);;31 al lamento per la sventura che colpisce senza motivo tante creature («Ecco, Alberto, la storia di parecchie creature. E dimmi, non è come la malattia? La natura non trova via d’uscita dal labirinto di forze confuse, contraddittorie;; e la creatura deve perire. Sciagurato colui che può assistere e dire: Insensata!»);;32 allo sgomento per l’«Abisso del Sepolcro» che gli si apre davanti e gli fa apparire come «un Mostro» la natura con la sua «forza di morte»;;33 al tema persistente del ritratto («Aspettavo noti-zia quando fosse il giorno della vostra nozze, e m’ero proposto di togliere, quel giorno stesso, con la massima solennità, la siluette di Carlotta dalla parete dove sta appesa, e di seppellirla fra le altre carte. Ma ora siete sposati, e il suo ritratto è lì ancora»).34

Eppure, come già sosteneva il ‘bibliografo’ della Notizia, le diver-genze di fondo fra l’Ortis e il Werther emergono ai nostri occhi con

29 J. W. GOETHE, I dolori del giovane Werther, tr. it. di G. Borgese, in ID., Romanzi, a cura di R. Caruzzi, Milano, Mondadori, 2003 [1774], p. 9 e p. 60.

30 Ivi, p. 10.31 Ivi, p. 54.32 Ivi, p. 57.33 Ivi, p. 60.34 Ivi, p. 77.

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altrettanta chiarezza. Alla linearità della vicenda wertheriana – in cui un cuore aperto e sensibile giunge progressivamente a conoscere la ferita dell’amore impossibile – si contrappone la lacerazione fra cuore e ragione che fa di Jacopo, sin dall’inizio, un uomo segnato dal gelo della ratio e al contempo dotato di un cuore appassionato ed ‘edenico’. All’esemplarità morale dell’eroe di Goethe, costantemen-te esibita nei Leiden, fa da contraltare la consapevolezza ortisiana del peccato, connesso alla Spaltung (petrarchesca) fra Dio e Teresa. Rispetto al substrato essenzialmente ‘laico’ della scrittura goethiana funge da decisivo contrappeso il tessuto biblico dell’Ortis, impareg-giabile connettivo e vera ‘fonte’ occulta di tutta la lingua del roman-zo, come ha mostrato ad abundantiam Anna Maria Terzoli.35 Ma è proprio sul piano della preghiera che si sente uno scarto decisivo.

Certo, anche Werther, come poi Jacopo, prega più volte nelle sue lettere. Prega per Carlotta («Io non ho più preghiere se non per lei»).36 E prega Dio, sentendosi al suo cospetto come una fonte inaridita («Ma ahimè! Io sento che Dio non dà la pioggia e il sereno all’insistenza delle nostre preghiere»),37 senza vergognarsi di gridare a lui come Gesù in croce («Non è la voce della creatura, tutta chiusa in se stessa e sfuggente a se stessa e ruinante senza posa, quella che dai baratri profondi dove le ultime forze si dibattono invano, geme: Dio mio! Dio mio! perché m’abbandonasti? Io dovrei vergognami di questo grido, avere orrore di questo istante, quando non lo evitò Colui che avvolge i cieli come una tela?»),38 sperimentando il senso del peccato e il dubbio sul peccato («Ah, vedi, c’è come una mura-

35 È merito precipuo infatti della sua ricerca quello di aver messo in luce lo sfondo biblico del vocabolario e dello stile di Jacopo, che è il vero basso continuo del libro. Ciò non toglie che i risultati del lavoro di Terzoli possano ulteriormente essere precisati (ad esempio, l’acribia di Lorenzo – «Cercai quasi con religione pari tutti i vestigi dell’amico mio nelle sue ore supreme, e con pari religione io scrivo quelle cose che ho potuto sapere» – rimanda, in maniera ancora più stringente, non alla Prima Lettera di Giovanni ma all’introduzione del vangelo di Luca: «così ho deciso di fare ricerche

-nato», Lc 1, 3) o magari in qualche caso attenuati rispetto alla certezza della fonte e del debito relativo. Ciò nulla toglie alla portata e al valore del contributo della studiosa all’intendimento del «libro di Jacopo».

36 Ivi, p. 63.37 Ivi, p. 98.38 Ivi, p. 100.

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glia davanti alla mia anima. Questo Paradiso... e poi... l’abisso, per scontarvi il peccato... / Peccato?»),39 sperando che il Padre, che pur non conosce, non lo respinga («Padre! ch’io non conosco. Padre! che altra volta mi empivi tutta l’anima e adesso hai distolto la tua faccia da me! chiamami a te! non restar muto ancora!»).40 Eppure,

protagonista dei Leiden, infatti, muore convinto di andare al Padre, come il Figlio risorto («Io ti precorro! Io vado dal Padre mio, dal

41 e arriva a ringraziare Dio per il fervore degli ultimi istanti, sicuro che l’Eterno lo terrà al suo cuore («Io ti ringrazio, Dio, che ai miei ultimi istanti dai questa forza, questo fervore»).42

Jacopo no. Se Werther può ancora sentirlo vicino, per Jacopo Dio è ormai (pressoché irrimediabilmente) lontano. Se all’episto-lografo dei Leiden si apre la prospettiva del cielo, dinanzi all’uomo dell’Ortis si spalanca il nulla. E non come uno spettro, bensì, al li-mite, come una scelta consapevole dinanzi all’ipotesi di un’eternità

chiesto a Lorenzo una sepoltura ‘irreligiosa’, senza sepolcri e senza riti, solo con Teresa accanto («Fa’ ch’io sia sepolto, così come sarò stato trovato, in un sito abbandonato, di notte, senza esequie, senza lapide, sotto i pini del colle che guarda la chiesa. Il ritratto di Teresa sia sotterrato col mio cadavere»).43

Werther, quel-la pur innegabile dell’Ortis è dunque segnata dal primato della croce, ovvero della sofferenza del Figlio dinanzi all’abbandono del Padre

-zione col Christus patiens che giunge, nell’Ortis 1802una protesta e di un distacco potenti. Tanto da consigliare al Foscolo ‘zurighese’ una

39 Ivi, p. 101.40 Ivi, p. 105.41 Ivi, p. 136. È un calco delle parole del Risorto a Maria di Magdala: «Io salgo

al Padre mio e Padre vostro» (Gv 20, 17).42 Ivi, p. 142.43 Ivi, p. 693.

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e soprattutto – nella allegata – un’esplicita, rive-latrice apologia della ‘religiosità’ dell’Ortis, scambiato a suo dire da molti per un libro irreligioso a causa di colpevoli tagli testuali operati

religione, hanno per lo più lasciato interi que’ passi;; dove invece pare

d’allora a’ quali ne’ libri non piaceva la religione»).44 Ma non solo. Si tratta di una religiosità rafforzata (e forzata) dal ‘bibliografo’ del 1816 con un’ermeneutica devota della morte di Jacopo, in cui tutti i dati delle ultime ore vengono letti – ‘contro’ Werther – in termini di

explicit del libro.45 E se si fa caso alla facile risoluzione della cristologia wer-theriana in un accordo fra il dolore dell’uomo e l’accoglienza di Dio, l’interpretazione foscoliana del 1816 sembra collocarsi ai limiti del capovolgimento del primitivo spirito ortisiano.

In verità Werther, morendo, si libera dal senso di colpa, e lascian-do sul comodino l’Emilia Galotti di Lessing tende probabilmente ad

della virtù.46 La Bibbia chiusa posta sul comodino di Jacopo – quella Bibbia su cui si è affannato, negli ultimi giorni di vita, a tradurre Giobbe, Qoelet e il cantico di Ezechia47 – immette certo la sua storia

44 U. FOSCOLO, , in ID., Opere. Prose e saggi, ed dir. da F. Ga-vazzeni, cit., p. 147.

45 «Ha sul tavolino la bibbia chiusa, e sovr’essa l’oriuolo dal quale aspetta il mo-Werther fu portato

alla sepoltura e nessun sacerdote lo accompagnò. L’Ortis fu dall’amico sotterrato sul monte de’ pini piantati da suo padre, e trapiantati da lui, sotto l’ombra de’ quali egli avea tante volte desiderato riposare» (U. FOSCOLO, , cit., pp. 198-9).

46 Cfr. R. T. ITTNER, Werther und Emilia Galotti, in «The Journal of English and Germanic Philology», vol. XLI, 1942, pp. 418-26.

47 «Per entro la Bibbia si trovarono, assai giorni dopo, le traduzioni zeppe di cassature e quasi non leggibili di alcuni versi del libro di Job, del secondo capo dell’Ecclesiaste, e di tutto il cantico di Ezechia» (U. FOSCOLO, Ultime lettere di Jacopo Ortis, cit., p. 678. Il

dunque quelle sapienziali della Bibbia. Da un lato Giobbe, dall’altro Qoelet (e in particolare il capitolo secondo, sulla vana ricerca della gioia e del piacere, che si

Ezechia, re di Giuda, il cui cantico di ringraziamento è contenuto nel libro del profeta Isaia (Is 38, 9-20): qui infatti il fedele sull’orlo della morte sperimenta in extremis il soccorso divino («Ecco, la mia infermità si è cambiata in salute. Tu hai preservato la mia

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sulla scia dei grandi sofferenti (e dei grandi oranti) della Scrittura. Ma la sua irrevocabile chiusura ci rimanda non alla pia consuetudine

di un’energia ispirativa dell’oratiolungo tempo millenario in cui quella preghiera poteva ancora spera-re di essere ascoltata.

2.2. Leopardi. Oratio a solitudine

Lo si è capito. Nel nostro itinerario, Jacopo Ortis rappresenta lo snodo iniziale, colui che pone le premesse di una profonda novità. In questo senso, le parole di Leopardi che adesso ascoltiamo sono come la presa d’atto del cambiamento. Hanno il sapore del farsi cari-co, da parte di chi non può tirarsi indietro e decide di addossarsi sino in fondo il pericolo e lo stile, il taglio penetrante della svolta. Non ci sono perciò nei Canti testi che possano essere assimilati propriamen-te a delle orazioni, così come era stato nell’Ortis. Eppure il lungo Canto del pastore che vaga per le steppe asiatiche – il meraviglioso Canto notturno – può certamente essere letto in chiave eucologica. Ma vale la pena averlo davanti, per ripercorrerlo nella nostra ottica:

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, / Silenziosa luna? / Sorgi la sera, e vai, / Con-templando i deserti;; indi ti posi. / Ancor non sei tu paga / Di riandare i sempiterni calli? / Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga / Di mirar queste valli? / Somiglia alla tua vita / La vita del pastore. / Sorge in sul primo albore;; / Move la greggia oltre pel campo, e vede / Greggi, fontane ed erbe;; / Poi stanco si riposa in su la sera: / Altro mai non ispera. / Dimmi, o luna: a che vale / Al pastor la sua vita, / La vostra vita a voi? dimmi: ove tende / Questo vagar mio breve, / Il tuo corso immortale?

Certo, non c’è più Dio né un credente che a lui si volga, in questo Canto. C’è un uomo che abita un deserto e da lì, dallo spazio simbo-lico dell’abbandono e della solitudine, ‘dice’ e ‘si dice’ di fronte ad

vita / dalla fossa della distruzione, / perché ti sei gettato dietro le spalle / tutti i miei peccati»;; «Ecce in pace amaritudo mea amarissima. Tu autem eruisti animam meam ut non periret;; proiecisti post tergum tuum omnia peccata mea» Is 38, 17). Come se Jacopo avesse cercato di specchiarsi, nel passaggio decisivo della sua esistenza, sia nella protesta di Giobbe che nella disillusione di Qoelet e, perché no, nella speranza di Ezechia.

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un fantasma, un’immagine del dio che ha ormai, giusta il verbo di Hölderlin, abbandonato la terra.

È questo forse il motivo di fondo per cui una ciclica ondata di interrogazioni fa da ritornello al Canto notturno. Il pastore non può ‘chiedere’ nulla alla maniera dell’orante biblico, non può attendersi nulla, ma solo presentare le domande aperte per lui a partire da una

angoscia, non c’è più grido nella sua parola rivolta verso il cielo. La sua nenia potente e soave è come un ‘osso di seppia’ montalia-

moderno, dopo che il sentimento dell’abbandono e della distanza sia stato metabolizzato ma non rimosso o comunque ritenuto inin-

L’attacco del Canto è in tal senso indicativo. La preghiera biblica era essenzialmente un dialogo, uno dei modi in cui il credente si metteva nella fede in un reale rapporto con il suo Dio. La domanda che apre il testo («Che fai tu, luna, in ciel, dimmi che fai, / silenziosa luna?») è certo ancora il tentativo di cominciare un dialogo. È un dia-logo impossibile, perché l’interlocutore celeste è già dato per muto e contro il suo silenzio non si può ricorrere nel grido, chiamando-lo in giudizio come fa l’uomo sofferente della Scrittura. Eppure è come se non si potesse concepire il volgersi dello sguardo dell’uomo verso il cielo se non immaginando un Altro con cui poter parlare, sebbene si sappia già che l’Altro – o meglio l’Altra – non dirà nulla e non verrà incontro all’inchiesta del pastore. Siamo di fronte insom-ma, all’ombra, al residuo di una struttura dialogica che non può più presupporre la relazione, ma semplicemente istituirla nell’assenza, muovendo dall’apertura interiore di colui che leva la sua voce.

È in quest’ordine che bisogna collocare anche il dinamismo fon-damentale della prima strofa del Canto. Il pastore prova ad identi-

vita / la vita del pastore». Cerca cioè di annodare un legame, di creare una base comune, ma soprattutto di avvicinare la siderale di-stanza che lo separa dalla sua supposta interlocutrice. Se la tipicità dell’immagine biblica di Dio consisteva nella sua sconvolgente uma-nità, il pastore asiatico inizia il suo canto tentando di dare alla luna i tratti del proprio esserci, non certo nel senso di una parola o di un sentimento umani, bensì nel risvolto del tutto esterno del fare

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quotidiano, del moto e del compito di ogni giorno, nella sua velata,

Solo se l’Altro è posto in qualche modo ‘di fronte’ e condivide una comune condizione, è possibile levare una domanda che lo rag-giunga: «Dimmi, o luna: a che vale / al pastor la sua vita, / la vostra vita a voi?». L’orante biblico per eccellenza, e cioè il grande Salomo-ne, fu lodato da Dio perché salendo al trono aveva chiesto in dono la sapienza.48 Il pastore, che da quel cielo chiuso sa già in anticipo di non poter ricevere nulla, si pone idealmente sulla sua strada, non più attendendo la luce di un sapere impossibile, ma ponendo sin da principio la speranza che qualcuno nell’universo sappia.

Che cosa? È il tema delle due strofe successive.

Vecchierel bianco, infermo, / Mezzo vestito e scalzo, / Con gravissimo fascio in su le spalle, / Per montagna e per valle, / Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, / Al vento, alla tempesta, e quando avvampa / L’ora, e quando poi gela, / Corre via, corre, anela, / Varca torrenti e stagni, / Cade, risorge, e più e più s’affretta, / Senza posa o ristoro, / Lacero, san-

-rido, immenso, / Ov’ei precipitando, il tutto obblia. / Vergine luna, tale / È la vita mortale.

Nasce l’uomo a fatica, / Ed è rischio di morte il nascimento. / Prova pena e tormento / Per prima cosa;; e in sul principio stesso / La madre e il genitore / Il prende a consolar dell’esser nato. / Poi che crescendo viene, / L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre /

più grato / Non si fa da parenti alla lor prole. / Ma perché dare al sole, / Perché reggere in vita / Chi poi di quella consolar convenga? / Se la vita è sventura / Perché da noi si dura? / Intatta luna, tale / È lo stato mortale. / Ma tu mortal non sei, / E forse del mio dir poco ti cale.

Il pastore vorrebbe conoscere il senso di un’esistenza su cui cala il gelo dell’ordo rationis, quel gelo che aveva inquietato i giorni di Jaco-po. La «vita mortale», guardata dall’osservatorio neutrale del sapere moderno, altro non è che una fatica titanica, un dolore continuo, una corsa senza sosta, il cui protagonista (il «vecchierel» petrarche-sco) è in fondo un Christus patiens, dal corpo ferito e piagato («lace-ro, sanguinoso»), soggetto a continue cadute e a tentativi di ripresa («cade, risorge, e più e più s’affretta»). La sua meta è l’abisso. Un vortice «orrido, immenso» da cui sarà inghiottito, senza che nulla rimanga, senza nemmeno un ricordo di quanto ha fatto e lottato («il

-

48 Sap 9, 1-18.

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ventura umana. Già la nascita è insidiata dalla morte («Nasce l’uomo a fatica, / Ed è rischio di morte il nascimento»), e il fatto stesso di vivere richiede un’offerta altrui di sostegno e di coraggio («la madre e il genitore / Il prende a consolar dell’essere nato»). Eppure, di fronte a questo quadro, l’uomo non desiste, non si abbatte, non trae le naturali conclusioni della sua incomprensibile condizione. Infatti, «Se la vita è sventura, / Perché da noi si dura?». L’inchiesta del pa-store non riguarda dunque il dipanarsi di una vicenda le cui tappe inesorabili gli sono inequivocabilmente chiare. L’interrogazione vie-

-do spassionato (puramente razionale, appunto) gli suggerisce, e il testardo, implacabile desiderio, la voglia di vivere e di generare che abita gli umani. Già Montaigne e Pascal l’avevano messo in chiaro. C’è qualcosa che spinge l’uomo, c’è un’energia che viene dal corpo, incomprensibile alla pura ratio, ma innegabile nella sua potenza al di là di ogni convinzione, di ogni astratto sapere. La vita è sventura, ma gli uomini la ‘durano’, la portano avanti con convinzione apparente-mente cieca e testarda, perché una dynamis li conduce, la cui portata rimane indominabile al puro intelletto.

Pur tu, solinga, eterna peregrina, / Che sì pensosa sei, tu forse intendi, / Questo viver terreno, / Il patir nostro, il sospirar, che sia;; / Che sia questo morir, questo supremo / Sco-lorar del sembiante, / E perir dalla terra, e venir meno / Ad ogni usata, amante compagnia. / E tu certo comprendi / Il perché delle cose, e vedi il frutto / Del mattin, della sera, / Del

-ra, / A chi giovi l’ardore, e che procacci / Il verno co’ suoi ghiacci. / Mille cose sai tu, mille discopri, / Che son celate al semplice pastore. / Spesso quand’io ti miro / Star così muta

/ Seguirmi viaggiando a mano a mano;; / E quando miro in cielo arder le stelle;; / Dico

seren? che vuol dir questa / Solitudine immensa? ed io che sono? / Così meco ragiono: e della stanza / Smisurata e superba, / E dell’innumerabile famiglia;; / Poi di tanto adoprar, di tanti moti / D’ogni celeste, ogni terrena cosa, / Girando senza posa, / Per tornar sempre là donde son mosse;; / Uso alcuno, alcun frutto / Indovinar non so. Ma tu per certo, / Giovinetta immortal, conosci il tutto. / Questo io conosco e sento, / Che degli eterni giri, / Che dell’esser mio frale, / Qualche bene o contento / Avrà fors’altri;; a me la vita è male.

È interessante notare come la medesima contraddizione dell’Or-tis venga così rimodulata nel Canto notturno. La quarta strofa del testo leopardiano propone un punto di vista diverso da quello del nulla della ragione. Ma mentre si trattava per Jacopo dell’individuazione di due piani alternativi, ferocemente contrapposti, nel pastore leopar-

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oblatio cordis – non si oppone fron-talmente alla verità che lo mina e lo mette in crisi, bensì è alimentato

fragilità, della precarietà assoluta che si genera la domanda sull’oltre. È perché si sa la propria condizione – il proprio essere murati, sot-tratti ad ogni ulteriorità sul piano del sensibile – che si leva l’inter-rogativo sull’incommensurabile dell’esistenza e dell’universo tutto.

Canto come potenze estranee, ma si richiamano e sgorgano l’una dal seno dell’altra. E così, pur dichiarando senza remore la percezione negativa del proprio essere nel mondo («a me la vita è male»), l’immaginario poeta della steppa può al contempo porre la questione di uno sguardo totale, gestalti-co, che non gli appartiene («Mille cose sai tu, mille discopri, / Che son celate al semplice pastore [...] Ma tu per certo, / Giovinetta

della parzialità e dunque ammissione di una indominabilità del tutto.-

i tratti di una fenomenologia impietosa del comune destino. Se già piena di pathos era stata – come un anticipo – la descrizione amorosa del compito paterno e materno («Poi che crescendo viene, / l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre / con atti e con parole / studiasi

/ non si fa da parenti alla lor prole»), dove di fronte al dolore del-la nascita si poneva come un argine amoroso il sostegno familiare, l’holding di un incoraggiamento, di un ‘far cuore’ per proiettare il

-tura genitoriale), ora – nel quarto movimento del canto – le stes-se realtà delle due strofe precedenti, senza venir sottratte in alcun

nuova intensità di sentimento.Il «viver terreno» infatti non è più qui solo l’affannoso affrettarsi

verso la fossa ma, colto dall’interno del Leib, si muta ora in un «pa-tir», un «sospirar», un’effusione dolorosa dell’anima. La morte, d’al-tronde, non coincide semplicemente con un abisso orrendo. Dal de-licato, intimo osservatorio del corpo vivente, essa appare ora come un «supremo scolorar del sembiante». Morire è un «perir dalla terra»,

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compagnia», un lasciare la vita intesa dunque nella sua costitutiva componente relazionale, nel suo essere spazio sereno e consueto di un farsi compagnia intessuto d’amore. Lo stesso vale per la natura, per l’avvicendamento inesausto delle stagioni, dove vengono ora in primo piano il «dolce amore» e il sorriso della primavera, «l’ardore» dell’estate e la potenza oscuramente generativa del ghiaccio inver-nale. Il passaggio dalla fenomenologia dell’esteriorità sensibile alla fenomenologia del corpo vivente provoca d’altronde uno sguardo sull’universo centrato sull’esperienza soggettiva del tempo e dello

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nunzia non smentisce in alcun modo la ferita dell’assenza. Come a dire che il pastore non vive una contraddizione patente, ma pone semplicemente, dinanzi al dio silenzioso e inconcepibile, la doman-da generata dall’incomprensibile, dal tutto inafferrabile e aperto a possibilità ignote – seppur per lui inattingibili – di fronte alla crudele fragilità, all’insensatezza apparente dell’esistere.

O greggia mia che posi, oh te beata, / Che la miseria tua, credo, non sai! / Quanta in-vidia ti porto! / Non sol perché d’affanno / Quasi libera vai;; / Ch’ogni stento, ogni danno, / Ogni estremo timor subito scordi;; / Ma più perché giammai tedio non provi. / Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe, / Tu se’ queta e contenta;; / E gran parte dell’anno / Senza noia consumi in quello stato. / Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, / E un fastidio m’ingombra / La mente, ed uno spron quasi mi punge / Sì che, sedendo, più che mai son

di pianto. / Quel che tu goda o quanto, / Non so già dir;; ma fortunata sei. / Ed io godo ancor poco, / O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno. / Se tu parlar sapessi, io chiederei: / Dimmi: perché giacendo / A bell’agio, ozioso, / S’appaga ogni animale;; / Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?

Immerso quindi in una patente Zwischenheit fra il gelo della ratio solitaria e l’excitatio cordis di fronte ad ogni apparizione dell’altro, del suo sguardo e della sua presenza (perché è l’altro il segreto di ogni sussulto cordiale del Canto), posto in un luogo dove non si danno alternative ma solo coesistenze, il pastore asiatico può mostrarsi così

Pascal. «O greggia mia che posi, oh te beata, / Che la miseria tua, credo, non sai!», e cioè la parola d’esordio della quinta strofa, appare infatti stagliata sullo sfondo dei Pensieri, se la consapevolezza della «miseria», il ‘sapere’

grandeur dell’uo-

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segreto dello scatto degli umani verso l’oltre. Non semplicemente sospesi – nel Canto – à la Schopenhauer, fra il dolore del bisogno (la ‘brama’) e la noia della soddisfazione (il «tedio»), ma inquietati da un rovello immotivato («Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, / E un fastidio m’ingombra / La mente, ed uno spron quasi mi punge / Sì che, sedendo, più che mai son lunge / Da trovar pace o loco») che coincide in fondo con la pura apertura del desiderio, con la spinta

-tizzabile. Perché ‘l’uomo dei moderni’ non solo non si appaga di nulla, ma in una maniera ben più profonda sente il nulla di un essere mai conchiuso, è soggetto ad un’inquietudine priva di fondamento e

Forse s’avess’io l’ale / Da volar su le nubi, / E noverar le stelle ad una ad una, / O come il tuono errar di giogo in giogo, / Più felice sarei, dolce mia greggia, / Più felice sarei, candida luna. / O forse erra dal vero, / Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero: / Forse in qual forma, in quale / Stato che sia, dentro covile o cuna, / È funesto a chi nasce il dì natale.

49 Quest’uomo ormai

la necessaria deminutio del dubbio – la tensione ultimativa del suo domandare. Nel «Forse s’avess’io l’ale» del pastore asiatico si lascia infatti intravedere il desiderio forte ed impossibile di un raggiungi-mento. Si tratta certo di una levitazione capace di portare l’orante di questo doloroso deserto che è diventato il mondo abbandonato dagli dei al medesimo punto da cui la sua Interlocutrice – colei che certo ‘conosce’ e ‘comprende’ il tutto – guarda l’universo e se ne spiega il senso. Ma mentre chiede follemente di risolvere l’enigma,

incredibile («Più felice sarei, dolce mia greggia, / Più felice sarei, can-dida luna»), che sposta nuovamente sul piano vitale del corpo e del sentimento il desiderio di sapere, e ne fa un’aspirazione dirompente

49 Canto, restano fondamentali le osservazioni di G. SAVOCA, -no», in ID., , Firenze, Olschki, 2009, pp. 217-44.

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alla «candida», «eterna peregrina». Senza che nulla si tolga, si possa togliere, alla funeste terrestrità dell’essere. In questo senso, l’ultimo movimento del Canto

-tiva del desiderio sostenuta dall’ordo cordis -

ordo rationis, porta sapientemente all’acme le due polarità inestricabili della grande lirica leopardiana. E se a chiudere l’ultimo movimento del Canto è il puntuale rovesciamento della massima tradizionale antica per cui il dies mortis era in verità dies natalis (ora invece mutato in giorno funesto e mortifero: «È funesto a chi nasce il dì natale»), a sigillarne l’incipit c’è un ‘ottativo del volo’ che trasforma in una meravigliosa ipotesi del terzo tipo l’‘indicativo del naufragio’ posto a sentinella dell’ .

179

3. IL SECONDO OTTOCENTO. DALLA PREGHIERA AD OMERO ALLA REAZIONE NEOPAGANA

Nel quadro della nostra breve storia letteraria delle forme e dei sensi del pregare, tutta svolta , la coppia di scrittori del secondo Ottocento che ora prendiamo in considerazione apre dinanzi ai nostri occhi uno scenario nuovo. A diverso titolo, infatti, Carducci e D’Annunzio rappresentano una modalità di fronteggia-mento dell’eclissi di Dio ben diversa da quella che Foscolo e Leopar-di ci hanno offerto all’inizio del XIX secolo. Non per nulla, la linea del krazein a quest’altezza si interrompe, per dar vita ad una reazione, e a forme di preghiera che potremmo chiamare ‘neopagane’. Non

-tiva, ma solo sottolineare uno scavalcamento deciso dell’angoscia di Jacopo e dell’inchiesta del pastore errante, coerentemente con una presa d’atto indiscussa del Gottes Tod. Se nei poeti (non esplicita-mente credenti) del Novecento di cui parleremo, i conti dell’orante con Dio e con il suo nascondimento (o «inesistenza», per dirla con Caproni) saranno totalmente riaperti, in Carducci e in D’Annunzio si assiste ad un movimento diverso, ma idealmente convergente, di

in limine mortis (Carducci) o a ricostruire una dimensione religiosa per l’uomo moderno su un fondamento classico, e dunque sui valori e le divinità di un Olimpo pagano.

3.1.

Partiamo da Carducci. Sarebbe, com’è ovvio, completamente inuti-le e al limite fuorviante un’excursus dell’opera carducciana in ottica eucologica. Ciò non toglie che, in uno dei suoi testi più alti – che è poi anche l’ultima poesia del vate di Valdicastello – ci sia consentito di essere tout à coup posti dinanzi ad un’emergenza sorprendente (e innegabilmente autentica), di un atteggiamento orante che si sente subito, ben al di là di ogni retorica antireligiosa o di ogni apologia di Satana. Il testo di Presso una certosa è notissimo, ma vale la pena rileggerlo:

180

Da quel verde, mestamente pertinace tra le foglieGialle e rosse de l’acacia, senza vento una si toglie:E con fremito leggeroPar che passi un’anima.

Velo argenteo par la nebbia su ’l ruscello che gorgoglia,Tra la nebbia ne1 ruscello cade a perdersi la foglia.Che sospira il cimitero,

Improvviso rompe il sole sopra l’umido mattino,Navigando tra le bianche nubi l’aere azzurrino:Si rallegra il bosco austeroGià del verno prèsago.

A me, prima che l’inverno stringa pur l’anima miaIl tuo riso, o sacra luce, o divina poesia!Il tuo canto, o padre Omero,Pria che l’ombra avvolgami!

Non è possibile né utile in questa sede condurre un’analisi pun-tuale della lirica. Sappiamo che il poeta è vicino alla morte, e che

una notevole, riconosciuta incisività, insieme con una splendida ni-

‘prega’, in quelli che sono gli ultimi quattro versi del suo corpus. In questa preghiera Dio non c’è. Non perché dichiarato assente, ma in quanto tenuto del tutto fuori dall’orizzonte testuale, dal movimento eucologico del soggetto che dice ‘io’ in questo componimento. Il modo di porsi di fronte alla sua eclissi non è qui quello del grido, della domanda o dell’inchiesta. In Presso una certosa, semplicemente, l’asse della preghiera viene spostato in un’altra direzione, su un di-verso versante. Quello dell’antichità pagana, di una mitica grecità ti-pica del classicismo romantico, in cui la poesia e la sua incarnazione, ovvero il grande padre Omero, diventano le uniche manifestazioni del divino invocabili nella distretta.

Non sfugga infatti che pure il testo di Carducci prende le mos-se dal confronto con la fragilità dell’esserci, dall’esistenza esposta

del pastore asiatico non sono lontani da qui. Anzi si potrebbe dire

181

con buona approssimazione che la questione è la stessa. Solo che il modo di avvicinarla (e, in qualche modo, di risolverla) è diverso.

A chiudere il corpus (e il corpo) di Carducci non è più la preghiera ancora giudeocristiana di Jacopo, né l’appello al dio silenzioso del pastore, bensì l’invocazione alla poesia come nuova divinità, istanza ultima nell’angoscia della morte. Una morte a cui non si può sfug-gire, che si approssima inesorabilmente. Di fronte alla quale non si chiede un’ulteriorità, una salvezza oltremondana. Non si protesta per la distanza di Dio, né ci si interroga sul senso del tutto, elevando

-cità del nostro esserci. In Presso una certosa la morte è lì, ineluttabile,

gorgo. Le foglie sono infatti, anzitutto, quelle di Omero («Come le stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini;; / le foglie, alcune ne getta

-vera;; / così le stirpi degli uomini: nasce una, l’altra dilegua»).50 Il ruscello è la forma gentile, naturale, dell’abisso.

Eppure c’è tristezza ma non sgomento in questa visione ‘neopa-gana’ della vita e della morte. Solo accettazione dolorosa del destino. Senza stoicismi ma senza indulgenza al grido o alla disperazione. L’uomo appartiene alla natura e si esaurisce come ogni elemento del suo ciclo. Come la foglia, dunque, a cui può rassomigliare il trapas-so dell’anima. La similitudine pone volutamente la rappresentazione della morte tipica del platonismo cristiano (il ‘passaggio’ dell’anima, ormai liberata dal corpo) in correlazione con il ciclo della natura, e la riassorbe nel ‘come’ («par che passi»). Non vi è alcuna adesione all’imago mortis della tradizione. Essa viene utilizzata qui come una modalità mitica utile per dire quel che in una coerente visione neo-pagana si dice e si vede attraverso la natura e il suo moto inesausto. D’altronde, l’io lirico di Presso una certosa non trae dalla fragilità della foglia nessuna considerazione sulla vanità di un’esistenza che avreb-be per questo bisogno di riscatto. Il ciclo è questo. La vita si svolge secondo questi ritmi, che riguardano tutti gli esseri. Pensare o spe-rare di sottrarsi è inutile e insensato. La cosa è triste, getta un velo

ed equa.

50 Iliade VI, 146-149.

182

Per questo, l’invocazione dell’ultima quartina interviene quale ap-

resa bella dalla poesia. Non vi si chiede salvezza né intendimento di

anche i giorni ultimi siano vissuti sotto il medesimo segno di bellez-za e di conforto che la «divina» parola della poesia ha impresso su questa esistenza. Così come un raggio di luce attraversa il bosco sul

della penetri ancora il buio che va addensandosi sulla vita del poeta, e gli doni un attimo di gioia.

Nulla ormai da fare o da dire dunque sul dopo, sul senso. Solo ‘questa’ vita. Da vivere bene, da sentire rischiarata sino alle soglie del suo esaurirsi. ‘Dammi ancora e sino all’ultimo la luce che mi hai dato, e dunque donami il canto!’ Un appello come un’orazione, che

Omero e conferisce così un volto paterno a colui al quale la preghiera è rivolta. Ma anche una dichiarazione di fedeltà. Il canto è stata la luce della sua vita, quel raggio di grazia per il quale è valsa per lui la pena di vivere. Non lo abbandoni e lo

e al suo ciclo vitale. Il padre non potrà preservarlo dall’ombra, ma

3.2. D’Annunzio. L’invocazione dalla potenza del moderno

Abbiamo deliberatamente messo sotto una medesima categoria ge-nerale sia Carducci che D’Annunzio. Ma l’atteggiamento colto in Presso una certosa non può certo essere assimilato alla vis del pagane-simo dannunziano. Nel testo di Rime e ritmi, il riferimento all’antico, ai Greci, si dà pur sempre all’interno di una considerazione severa dell’esistenza e del suo destino. Si tratta di una presa di coscienza della morte che non invoca salute dall’alto, ma chiama in aiuto la poesia quale ristoro e rischiaramento di una vita soggetta al buio, attraversata da una corrente fredda e negativa, esiziale qualora le venisse a mancare il soccorso del canto. L’accento ‘neopagano’ di

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supporto spirituale indirizzato all’oggi, ma concepito – lo abbiamo visto – in forma di invocazione nella distretta.

Per D’Annunzio, naturalmente, il discorso è diverso. Perché il modo in cui i suoi testi si pongono nei riguardi della vita, il ner-bo della loro accoglienza della physis in poesia, è tutto teso verso una resa mitica della totalità del reale, dove ogni cellula dell’essere è come assemblata in un corpo che si vuole glorioso.

Mi riferisco – com’è ovvio – ai libri poetici maggiori, al D’An-nunzio delle Laudi. Un tale tipo di attitudine è solo presentito infatti nel D’Annunzio ‘paradisiaco’, in cui le parole del campo semantico della preghiera e l’atto eucologico stesso hanno ancora una portata ermeneutica notevolmente bassa. Fa eccezione – all’inizio dei Rurali nella Chimera – una poesia intitolata Agli olivi.51 Qui gli alberi d’ulivo

sacro («Olivi, alberi sacri»), «intenti» ad ascoltare l’universo – dal

ascoltare anche la preghiera dell’uomo («udite, udite / la preghiera

ma possono anche conferirla agli oranti. Il sacro viene così attivato religiosamente, in quanto non agisce solo sul piano simbolico bensì anche su quello dell’opus -

tale maestà ch’io penso / l’antichissima dea Pallade Atena»), dove l’associazione fra la dea e gli olivi rimanda a Virgilio (Georgiche, I, 18), ma in maniera ancor più pertinente al di Giannantonio Campano, vescovo e poeta quattrocentesco, predi-letto di Pio II, che ricordando il suo soggiorno giovanile da precet-tore a Venafro, apostrofa gli olivi quali «palladia munera» («Fontibus exundens oleumque insigne Venafrum / Palladia ingenio munera prima dedit»). A lui D’Annunzio si accoda: «O voi, palladia / munera, o voi più sacri della vite».52

51 G. D’ANNUNZIO, Agli olivi, in Chimera, in ID., Versi d’amore e di gloria, ed. dir. da L. Anceschi, a cura di A. Andreoli e N. Lorenzini, tomo I, Milano, Mondadori, 1993, p. 563.

52 Campano cfr. F. DI BERNARDO, . Giannantonio Campano (1429-1477), Roma, Università Gregoriana Editrice, 1975. Il testo del Frammento si legge nell’Appendice A del volume (pp. 412-6).

184

Per il resto, i componimenti della Chimera e del Poema paradisia-co in cui si registrano occorrenze del ‘pregare’ rimandano ad usi e a sensi eucologici largamente denotativi, interni ad un cosmo re-ligioso tradizionale, mai investito di una carica emotiva profonda. La pura strumentalità di questo vocabolario emerge chiaramente in testi come Ave, sorella, nella Chimera, con il suo ritratto di Gabriele fanciullo orante («quando ne la serena puerizia orava»),53 o In votis, nel Poema, con la sua profusione di tutto il languore paradisiaco nelle «preghiere lente», che «vanno sole» nelle «sere lente».54 Ma lo stesso dicasi di componimenti come L’ora o Suspiria de profundis (che chiu-de il Paradisiaco), dove la speranza dell’ascolto divino («Oh se Id-dio l’ascoltasse»)55 o l’invocazione delle «care mani» a Dio e poi alla morte, in favore del poeta («Oh fatemi dormire, / pallide mani! Al-zatevi al mio Dio / congiunte, e voi pregatemi la morte / se troppo è dolce al mio peccato il sonno»),56 trasudano di umori narcisistici, magari riversati nello speculum nella donna amata e sofferente.

Ben altro è il valore del paganesimo rinascente nelle Laudi. In re-lazione al nostro oggetto, una particolare incidenza ha senza dubbio il primo (in verità il terzo in ordine di composizione) dei libri delle Pleiadi, e cioè Maia. «Sempre la Grecia si risveglia in fondo all’anima umana, nei momenti fortunati della vita;; sempre la vita si rinnova e

57 In cerca di una «forma nuova», D’Annunzio – sulla scia del mitiz-zato viaggio del 1895 – si volge alla Grecia quale fonte primigenia di una nuova cultura. Sulla Grecia infatti il poeta ulisside (quello del «Navigare è necessario, vivere non è necessario») non si attarderà

-giato al contempo sulla più potente manifestazione moderna dello spirito greco: quel Rinascimento sbocciato lungo il XVI secolo in una Firenze che rinnovava già nel nome (se Florentia equivale, a dire

53 G. D’ANNUNZIO, Ave, sorella, in Chimera, cit., p. 578.54 ID., In votis, in Poema paradisiaco, cit., pp. 606-7.55 ID., L’ora, ivi, pp. 637-40.56 ID., Suspiria de profundis, ivi, pp. 693-6.57 A. CONTI, La beata riva. Trattato sull’oblio preceduto da un ragionamento di

Gabriele D’Annunzio, Milano, Treves, 1900, p. XXV. Oggi riedito a cura di P. Gibellini, Venezia, Marsilio, 2000. La citazione è tratta ovviamente dal ‘ragiona-mento’ dannunziano.

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di D’Annunzio, ad Anthinia) i fasti dell’antica Atene (sarebbe questo, in fondo, il senso dell’inserto del Ver blandum in Maia). Ma non solo. I fasti greci e rinascimentali sono da ritenere per D’Annunzio pu-

mythos nella modernità: «Oggi [...] dopo innumerevoli turbamenti della coscienza umana, è da noi saputo con certezza inoppugnabile quel che dai greci era sentito e dagli italiani contemporanei di Leonardo era intuito».58 Applicando lo schema triadico della Scienza Nuova (e dello storicismo hegeliano) D’Annunzio si presenta come colui che risuscita oggi il dio ucciso prima dalla chiesa e poi dalla scienza moderna, «il grande Pan», e ne

O-razione agli Ateniesi: «Ogni volta che in questo suolo sacro la ricerca assidua degli adoratori discopre una nuova statua [...] v’è in Italia un poeta religioso che palpita d’una indicibile ansietà e pensa: “Fu dunque ritrovato nel grembo della Madre Ellade un dio calmo e possente, il quale dormì nei secoli un lucido sonno, ed ora si sveglia

creature che sono sepolte nella vostra terra [...] Un giorno – e sia do-mani – taluna di loro dirà forse a un poeta e a un eroe la parola della Risurrezione;; e il poeta e l’eroe la ripeteranno alle genti».59

Bisogna interpretare in tale contesto le grandi preghiere di Maia. La Laus vitae -so inarrestabile di forme diverse e sempre disponibili alla forza pla-smatrice del soggetto («O Vita, o Vita, / dono terribile del dio, / come una spada fedele, / come una ruggente face [...] Nessuna cosa / mi fu aliena;; / nessuna mi sarà / mai, mentre comprendo. / Lau-data sii, Diversità / delle creature, / sirena del mondo!»).60 Ma poi, soprattutto, le tre grandi preghiere che punteggiano il libro.

Preghiera al Cronide –, in cui l’orante invoca il ritorno della religione olimpica e del suo antico equilibrio («O Zeus, Tiranno più grande, / tu carico

58 U. OJETTI, Alla scoperta dei letterati, Milano, Dumolard, 1895, ora in G. D’AN-NUNZIO, Prose giornalistiche, a cura di A. Andreoli, vol. II, Milano, Mondadori, 2003, p. 1389.

59 G. D’ANNUNZIO, , in L’alle-goria dell’Autunno, in ID., Prose di ricerca, a cura di A. Andreoli e G. Zanetti, tomo II, Milano, Mondadori, 2005, pp. 2208-10.

60 ID., Laus vitae in Maia, in Versi d’amore e di gloria, tomo II, cit., pp. 13-4.

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di delitti / e d’oltraggi, ingombro di prede, / tu solo sei l’alta Inno-cenza. / Risolleva l’Olimpo / e poi risorridi alla Terra [...] rinnova per lei l’orizzonte / cui volgere io possa la prora / scolpita cantando il mio canto. // Così pregai nel mio cuore / notturno»),61 contro la

simbolo ermetico della croce, «segno del Fuoco / primerio».62 Il dio vive nel petto del poeta e nell’olimpica notte. E l’indovino di Zeus lo

la faccia di Pan («Subitamente si tacque / in me l’audace tumulto, / come se la preghiera / accolta mi fosse e compiuto / il desiderio e mutato / già l’orizzonte in cintura / più bella e mondata la Terra / e disvelata la faccia / di Pan che conduce / nei tempi il Ritorno eternale»).63 Dove è chiaro che il ritorno di Zeus e di Pan è legato all’opera del poeta capace di mutare di segno le potenze abissali, così

Ancora più forte e decisiva, su questa linea, è la Preghiera a Erme. L’orante invoca sua preghiera non si innalza da una condizione di indigenza. Er-mes è infatti invitato ad udire e a vedere le meraviglie di cui ora la terra rampolla, nel trionfo del moderno, rispetto al tempo antico: «la Terra / è oggi un’àgora immensa / ove non si tendono reti / di belle parole ma guerra / si guerreggia furente / per la ricchezza e l’impero».64 La preghiera diventa così un’esaltazione della civiltà del-la macchina, della fabbrica e del metallo, che rende ormai vano il su-dore di Efesto: «Le città splendono di fabbri / come un astro è cinto di aloni. / Col rombo il traino amplia la notte».65 La nuova alba del mondo, che Ermes contemplerà tornando fra i mortali, sarà dun-que un tempo tanto più grande ed entusiasmante di quello degli dei

annullato, le premesse e le promesse dell’antico. Così la parola cara ad Ermes ora varca gli oceani, grazie alla radio. I nuovi strumenti

61 ID, Preghiera al Cronide, in Maia, cit., pp. 64-7.62 Ivi, p. 66.63 Ivi, p. 69.64 ID., Preghiera a Erme, cit., p. 80.65 Ivi, p. 89.

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musicali, emuli di quelli del dio, risuonano mirabilmente in grandi orchestre e in portentose sinfonie. Cose insomma così meraviglio-se e sorprendenti che se l’orante poeta morisse, Ermes Psicagogo lo tratterrebbe sulla riva di Lete in virtù dell’opulenza che traspare dal suo canto: «Tanti adunque sopra la Terra / deserta d’iddii può la vita / anco esser ricca, Ombra d’aedo?».66 È questo il passaggio per noi decisivo. La terra abbandonata dagli dei, la terra deserta di Hölderlin e di Leopardi, non è più qui lo spazio dell’inchiesta e della dolorosa mancanza, perché il canto dell’aedo può dare forma mitica al mondo, rendendo divino il presente e conferendo al moderno i tratti del tempo di Pan. La religione del grande dio della natura non è un sogno da realizzare, ma una realtà viva nello squilibrio creativo del moderno, romanticamente innalzato all’altezza del mito. Nessuna assenza straziante, nessuna domanda di senso, ma anche nessun buio di morte incipiente bisognoso della luce della , in questa terra che ha ritrovato i suoi dei. Non più divinità olimpiche, inattingibili e diverse, ma uomini elevatisi con il loro lavoro e il loro ingegno all’altezza di dio.

Preghiera alla Madre immortale. «Natura, mia Madre immortale / che anche tu mi dài vita breve / e immensi disegni mi poni / nel cuore, tu nata la prima, / di te medesima nata, / a tutti comune ma sola / incomu-nicabile, m’odi».67 Il poeta sapiente chiede di distendersi in grembo alla madre e di tornare leggero ed ignaro. Assimilato a Dioniso, rina-

dai Titani – l’orante chiede alla Madre di dormire, di riposare «in te 68 Ma non si tratta per

lui di un rifugio sepolcrale e regressivo, bensì della preparazione ad un nuovo slancio. Egli conosce bene l’opera «che dentro mi nasce e si nutre / del misterioso licore»,69 l’opera che ancora deve compiere.

-narlo: «moltiplica questo mio sangue / doglioso, perché più mi ferva

66 Ivi, p. 94.67 ID., Preghiera alla Madre immortale, cit., p. 250.68 Ivi, p. 251.69 Ibidem.

188

/ l’anima e più mi sia divina».70 Il «poeta religioso» di Maia prega in fondo perché la Madre faccia di lui il capostipite di quell’umanità

stesso corpo il grande Pan sulla terra.

70 Ivi, p. 252.

189

4. IL PRIMO NOVECENTO. TRA DOLORISMO ESTETICO ED ESSENZIALITÀ GETSEMANICA

Con l’avvento dei due poeti ‘infedeli’ da me prescelti per testimonia-re le forme del pregare dentro lirica primonovecentesca, si chiude la parentesi del neopaganesimo, almeno nella sua esplicitezza dan-nunziana. Ci troviamo ad affrontare così testi in cui il rivolgersi del

Gestalt eucolo-gica consueta. Nondimeno, fra la preghiera ospitata nei primi libri di Quasimodo e l’orazione

-trato sulla sofferenza del poeta e sulla sua conseguente apertura al canto, e una rigorosa pratica getsemanica penetrata, nel ‘secondo tempo’ montaliano, dal lievito della dissimulazione e dell’ironia, al

una presenza totalmente ‘altra’.

4.1. Quasimodo. Il poeta orante tra sofferenza e narcisismo

Da Acque e terre a Erato e Apollion, la lirica quasimodiana si è più volte modulata secondo il linguaggio della preghiera. Il suo cardine è sempre l’io dolorante del poeta, il suo atto di fede un’accettazione quasi stoica del soffrire, il suo telos ultimo la poesia. Non per caso, d’altronde, da un’analisi sequenziale dei componimenti si ricava il senso di una perfetta inclusione, a cui si giunge però seguendo un andamento parabolico della semantica interna, che da un vertice già raggiunto in esordio discende verso un’esperienza cruda del soffrire, per poi risalire ad una rinnovata consapevolezza del senso poietico del dolore. Tutto ciò senza che però mai si dissolva del tutto il vasto residuo di ambiguità narcisistica che tale dimora ostentata compor-

È in Acque e terre che per la prima volta il poeta di Modica leva il proprio canto sotto le specie dell’orazione. La poesia si intitola Avidamente allargo la mia mano: «In povertà di carne, come sono / eccomi, Padre;; polvere di strada / che il vento leva appena in suo

190

perdono. // Ma se scarnire non sapevo un tempo / la voce primitiva ancora rozza, / avidamente allargo la mia mano: / dammi dolore cibo cotidiano».71 È dunque nella povertà della sarx, nella biblica

del cammino, ridotto a null’altro che a «polvere» (ancora un lemma genesiaco), ma animato dal vento della poesia (simbolo centrale in Quasimodo), che solleva e perdona. Il dolore funziona già qui come una pedagogia della voce, che troppo rozza e spessa un tempo, ora sa invece nutrirsi della quotidianità del dolore.

Lo stesso senso di «pena» attraversa la prima ‘preghiera’ di Oboe sommerso, in origine, nel 1932, dedicata ad Eugenio Montale: Curva minore. «Perdimi, Signore, ché non oda / gli anni sommersi taciti spogliarmi, / sì che cangi la pena in moto aperto: / curva mino-re / del vivere m’avanza».72 La sofferenza è qui quella degli anni che passano e la cui curva residua inesorabilmente si assottiglia. Per

-

naviga felice» al «seme d’orzo o lebbra»), mirabile o cruda che sia.

-sura invalicabile da parte dell’Assente («ognuno si scalza e vacilla / in ricerca. // Ancora mi lasci;; sono solo / nell’ombra»). Questa preghiera di uscita dall’e-sistenza verso una fusione con il vento e la natura diveniente, in tutte le sue forme, si conclude con un senso di abbandono dell’orante, dove il dolore non è riscattato dal canto.

Ma il vertice di questa solitudine, di questa aridità del soffrire senza ricompensa alcuna è senza dubbio la celebre Lamentazione d’un fraticello d’icona,73 chiaramente ispirata alle Lamentazioni bibliche (e dunque, secondo la tradizione, alla preghiera sconsolata del profeta Geremia), ancora contenuta in Oboe. Il suo attacco è eloquente: «Di assai aridità mi vivo, / mio Dio;; / il mio verde squallore». Qui ad-dirittura il verde quasimodiano cambia di segno e diventa attributo

71 Tutte le citazioni sono tratte da S. QUASIMODO, Poesie e Discorsi sulla poesia, a cura di G. Finzi, Milano, Mondadori, 1987 (ivi, p. 30). In presenza del titolo del componimento e della raccolta nel corpo del testo, si indicheranno solo le pagine di riferimento nel suddetto volume.

72 Ivi, p. 47.73 Ivi, p. 50.

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di «squallore». Come se il colore della primavera e della speranza diventasse emblema dell’aridità, in un capovolgimento vertiginoso. Il contesto temporale è quello di una notte assordante e soffocante. L’abito del monaco poeta è una «tunica marcia di orbace» (il tessuto sardo di lana grezza, molto pesante e impermeabile, che era usato per la versione invernale della divisa fascista). Ma sebbene il frati-cello se ne spogli, il senso di aridità e di consumazione è annidato nel suo corpo, se la sua carne è soggetta ad una cardatura e tarlata

/ tarlata d’acaridi: / amore, mio scheletro»). Anzi, l’aberrazione e l’umiliazione raggiungono livelli così alti, che il fraticello poeta si pente di aver dato il proprio sangue al Signore, al quale poi però, in

renversement, si appella come fonte di asilo e di speranza di misericordia («Mi pento / d’averti donato il mio sangue, / Signore, mio asilo: // misericordia!»).

È dall’abisso della Lamentazione che ha inizio in Oboe sommerso un movimento di risalita verso il senso, il cui primo germe è La mia giornata paziente.74 «La mia giornata paziente / a te consegno, Signore, / non sanata infermità, / i ginocchi spaccati dalla noia. // M’abban-dono, m’abbandono;; / ululo di primavera, / è una foresta / nata nei miei occhi di terra». Scritta come un Salmo per l’angelo infernale, que-

rinascita, mentre negli occhi del poeta, come fossero terra, nasce una foresta, probabile allusione, nel vocabolario quasimodiano, alla poesia e al canto.

Sulla stessa linea della Mia giornata (e a rafforzarne l’interpreta-zione di caduta-rinascita, immersione-risorgimento), troviamo due altre liriche ‘oranti’. La prima appartiene, pur con tutte le delicatezza del caso, al registro tipicamente cattolico della preghiera ai santi. In verità, la Metamorfosi nell’urna del santo75 è un testo di ispirazione foscoliana, in cui il poeta, in visita alla tomba del santo (si tratta chiaramente dell’urna vitrea esposta talvolta nelle chiese), interpreta la morte come processo di «maturazione/devastazione» (idea teoso-

74 Ivi, p. 57.75 Ivi, p. 58.

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partecipa la vita stessa dell’io in forma di seme («gemono al seme sparso / larve verdi»), grazie ad un dinamismo che include nel sepol-cro i simboli ‘celesti’ della «luce» e degli «alberi», nonché appunto il «verde» della «primavera». Si tratta di un patimento, di una riduzione a «reliquia», da cui «nasce» dal «buio» della «memoria» un canto lon-tano e schermato: i «timpani sepolti» altro non sono infatti che una diversa forma dell’oboe sommerso.

Anche in Seme76 la «terra», in una «notte» ‘astrale’, si popola di «alberi», di «isole» e di «acque», mentre «un suono d’ali» (che riman-da all’angelo) «si apre» sul «cuore» del poeta. Egli accoglie in sé ogni

così lieve son fatto, / così dentro alle cose / che cammino coi cieli;; // che quando Tu voglia / in seme mi getti / già stanco del peso che dorme». La leggerezza raggiunta – ovvero la paradossale coinciden-za fra l’essere «dentro» alle cose e il camminare «coi cieli», che mette insieme l’‘alto’ e il ‘basso’ – consente il levarsi di una preghiera al Tu

condizione già descritta in Metamorfosi.Le orazioni di Oboe sommerso (lasciando da parte la Preghiera alla

pioggia -pletano la loro parabola inclusiva con l’Amen per la Domenica in albis,77 che è anche l’ultimo testo della sezione dedicata all’Oboe nell’anto-logia Ed è subito sera: «Non m’hai tradito, Signore: / d’ogni dolore / son fatto primo nato». Come in un perfetto pendant con Avidamente allargo la mia mano -lore e si ringrazia il Signore perché il cibo quotidiano del dolore non è mancato. Di ogni dolore il poeta è fatto «primo nato»: egli nasce cioè dall’utero del dolore, ma ne è il primogenito, colui che ne è fra tutti toccato (e dunque generato) per primo. Un segno indiretto di elezione quasi ‘cristologica’, chiaramente in vista del canto.

Non sfugga però che la sezione Erato e Apollion di Ed è subito sera – nonché dunque, idealmente, l’esperienza più propriamente ermetica di Quasimodo – si conclude con un’ultima preghiera: Del peccatore di miti: «Del peccatore di miti, / ricorda l’innocenza, / o

76 Ivi, p. 69.77 Ivi, p. 76.

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Eterno;; e i rapimenti, e le stimmate funeste. // Ha il tuo segno di bene e di male, / e immagini ove si duole / la patria della terra».78 È un testo in forma di preghiera biblica: il «ricordati» appartiene infatti originariamente all’orazione di Israele, specialmente nel momento della richiesta di perdono (la festa dello Yom Kippur). Ma qui il pec-

stimmate», alla maniera dei mistici) si sente in verità ‘innocente’: la -

cordarsi di lui perché si trova addosso il segno della contraddizione etica tipica degli umani e da Dio stesso voluta. Ma, soprattutto, il peccatore poeta ha le immagini che servono a dare rappresentazione al dolore della terra-patria (se il genitivo «della terra» è, come pare, soggettivo). Per la sua dedizione, per la sua creazione mitica, il poeta merita dunque la memoria divina. Ma qui il ruolo si estenua e il do-lore si estetizza totalmente, proiettando sull’ un fasti-dioso fascio di luce narcisistica. In ogni caso, anche in quest’ultimo testo, il messaggio ‘orante’ di Quasimodo rimane invariato: il canto generato dal dolore dell’abbandono di Dio, che immerge nella sof-

4.2. Montale. Dall’orazione getsemanica all’antiteologia mistica

La prima qualità riconoscibile della ‘preghiera’ ospitata nei testi mon-taliani è certamente, a un secolo circa dai Canti leopardiani, la sua

in altri termini, che dopo le deviazioni dannunziane (e carducciane) e la morbidezza ermetica del dolore quasimodiano, la lirica di Mon-tale ci propone per converso un affresco dell’orazione seriamen-te innestato nel giardino degli ulivi. Né si deve dimenticare come il lessico della preghiera intrida di sé proprio l’incipit della poesia montaliana, insediandosi nell’ultima quartina di In limine, la lirica di esordio degli Ossi: «Cerca una maglia rotta nella rete / che ci strin-ge, tu balza fuori, fuggi! / Va, per te l’ho pregato, – ora la sete / mi

78 Ivi, p. 97.

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sarà lieve, meno acre la ruggine».79 Sono versi celeberrimi, di cui si è sottolineato ad abundantiam alla vulgata – nel contesto del mondo montaliano. Ma se si pone l’accento sul «per te l’ho pregato», si guadagna forse nella lettura una prospettiva relazionale diversa: il poeta vi si fa soggetto eucologico, che vede la liberazione come un’uscita, un esodo possibile non più per un popolo biblico (la cattività rimane infatti una condizione col-lettiva: «ci stringe»), bensì per un solo graziato, che l’intercessione dell’orante potrebbe accompagnare e sostenere nel balzo verso la libertà. In limine si chiude insomma con un’oratio intercessionis, in cui il poeta letteralmente ‘si mette in mezzo’ per garantire all’altro una possibilità di salvezza. Un gesto mosaico quasi, ovvero latamente cristologico, se la preghiera per la salute del ‘tu’ allevierà la «sete»

(«Gesù disse: “Ho sete”»), posto dal vangelo di Giovanni in stretta correlazione con l’opus salutis. La preghiera per l’altro disincrosta il cuore e allevia il tormento del desiderio, al di là di ogni eventuale (impossibile) compimento dell’invocazione. Gli Ossi cominciano da un’orazione e da un «per» che orienta la parola del poeta verso l’altro prima che verso l’alto, dove ciò che conta non è l’ascolto ma l’inter-cessione stessa.

Montale, una declinazione della preghiera quale voce levata nel silenzio, nell’assoluta mancan-za di risposta, ma in ogni caso segnata dall’appello per la salvezza dell’altro. E tutti i componimenti del primo tempo montaliano in cui la preghiera o il pregare si affacciano sulla scena del testo possono

In limine. Con un’opportu-na rimodulazione della ‘salvezza’ della lirica introduttoria, però, nel senso di sostegno orante nella prova, dinanzi alle pressanti richieste del destino, al confronto con l’ultimità della vita e della morte. Più che di salvezza, insomma, si tratta di aiuto o di scampo nel peirasmos, nel momento decisivo dell’esistenza, che è poi anche, inevitabilmen-te, fronteggiamento della morte e del morire.

79 E. MONTALE, Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1984, p. 7. Anche in questo caso si fornirà in nota solo la pagina della poesia riferita all’edizione citata.

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Così è per l’Esterina di Falsetto,80 creatura leggiadra, marina, so-lare, sulla quale però si addensano i «venti autunni» e il viluppo di «andate primavere», mentre rintocca per lei «un presagio» (presu-mibilmente di morte) «nell’elisie sfere». Per lei il poeta prega: «Un suono non ti renda / qual d’incrinata brocca / percossa!;; / io prego sia / per te concerto ineffabile / di sonagliere». Qui il presagio-rin-tocco, pauroso segnale sonoro della fragilità costitutiva dell’esistere, che tocca anche la bellezza e la gioia di vivere – perché non si sfug-ge all’ontologia della «canna» pascaliana o della «giara» del grande agrigentino81 – viene ‘sperato’ e, almeno nella preghiera del poeta, trasformato, in un «concerto ineffabile di sonagliere», dove l’abbas-samento del suono mirabile delle sfere celesti al terrestre tintinnare dei sonagli delle bestie da soma non indica una perdita, una caduta, bensì un guadagno vitale nell’aderenza all’umile, indicibile, musica della vita.

E così è anche per l’io lirico di Incontro82 – ancora negli Ossi –, a cui «sembra / che attorno mi si effonda / un ronzio qual di sfere quando un’ora / sta per scoccare». Qui è lui a chiedere compagnia persistente al ‘tu’ femminile fatto «tristezza» («Tu non m’abbando-nare mia tristezza»), o almeno forza nella prova, se lei è ormai «som-mersa», «sparita»: «Prega per me / allora ch’io discenda altro cammi-no / che una via di città, / nell’aria persa, innanzi al brulichio / dei vivi;; ch’io ti senta accanto;; ch’io / scenda senza viltà». La preghiera per l’altro si fa qui preghiera dell’altro, anzi dell’altra, perché il poeta sappia affrontare con dignità la discesa verso la foce, che è poi la

ovvero dello stesso cammino brulicante dei vivi su «una via di città».Il milieu doloroso, getsemanico della preghiera montaliana non

viene meno neanche nelle Occasioni, sebbene vi si trovi una sola oc-

80 Ivi, p. 14.81 La brocca percossa rinvia infatti alla fragilità del roseau pascaliano e, sulla sua

scia, a quella della giara della nota novella pirandelliana, ma ancor prima (e me-glio) all’enigmatico personaggio di Giaracannà nella prima edizione del Fu Mattia Pascal. A questo proposito mi permetto di rimandare ad A. SICHERA, Ecce Homo!

Pirandello, Firenze, Olschki, 2005.82 Ivi, pp. 98-9.

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Siena, durante la grande corsa estiva, e per questo intitolata Palio.83 Il suo attacco («La tua fuga non s’è dunque perduta / in un giro di trottola / al margine della strada»), se letto nel contesto globale del

In limine, perché qui non si tratta più di uno slancio verso la salvezza, bensì di un andare nella direzione di un traguardo posto al di là del

non inutilità dell’avventura terrena («Il presente s’allontana / ed il

il suo perno / ma il solco resti inciso. Poi, nient’altro»). In questo

allo svolgimento criptico della relazione fra l’io e il tu, la «preghiera» appare in parentesi, in un momento di ricordo del passato infantile della donna, che si sovrappone al presente della gara: «Torna un’eco di là: ‘c’era una volta...’ / (rammenta la preghiera che dal buio / ti

volta diaccia / grava ora un sonno di sasso, / la voce dalla cantina / nessuno ascolta, o sei te. // La sbarra in croce non scande / la luce per chi s’è smarrito, / la morte non ha altra voce / di quella che

la menzione della preghiera giunta dal buio è, in un primo tempo,

del ‘tu’. Molte sono le riprese dei simboli presenti nei versi ‘senesi’: il «reame» si connette al «sigillo imperioso» che il poeta scopre fra

-magini» «nell’acqua del rubino»;; l’oppressione della «volta» ghiac-ciata all’«orrore» del prigioniero;; la «sbarra della croce» alle aste che «s’incrociano». Né manca un fondamentale rimando interno fra «la voce» inascoltata e la voce della morte, coincidente con quella che «spande la vita»: un’«altra voce», come «altra» è la voce che mette in fuga l’orrore carcerario.

Il senso complessivo della scena pare il passaggio da una leg-

83 Ivi, pp. 187-9.

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del Campo e che l’«altra voce» dichiara) ad un regime di pesantezza e di oscurità (contro la luce diffusa della piazza), segnato da una voce che giunge dal profondo (la cantina) e che potrebbe coincidere con la donna stessa. La sua rivelazione – intimamente connessa alla memoria della preghiera arrivata dal buio – riguarda in fondo l’in-sospettabile carattere mortuario di quella leggera vitalità (se per gli smarriti, i dannati dall’«ergotante balbuzie», la croce non «scande» la luce di Pd VIII, 97), che la donna portatrice del sigillo deve oltrepas-sare in vista di un compimento, di un traguardo posto oltre la «selva dei gonfaloni» e «lo scampanìo / del cielo irrefrenato».

Un forte contrasto caratterizza invece le due occorrenze del ‘pregare’ nella Bufera. Per un verso infatti, in Proda di Versilia,84 la compagnia della preghiera nella distretta assume un rilievo escatolo-gico, dolce, improntato ad una serena ‘comunione dei santi’: «I miei morti che prego perché preghino / per me, per i miei vivi com’io invoco / per essi non resurrezione ma / il compiersi di quella vita ch’ebbero / inesplicata e inesplicabile, oggi / più di rado discendo-no dagli orizzonti aperti». In un testo di natura anamnestica, il poeta

di accudimento premuroso, di sonno confortato dalla presenza dei propri cari, di cibo familiare, preparato con perizia e con amore, un’infanzia di «vite ancora umane / e gesti conoscibili», contrappo-

presente del ri-cordante. Ed è l’avvento dei suoi morti la molla dello scatto memoriale, in uno scambio di orazioni in cui il poeta prega per il superamento di una condizione di irrisolutezza che conduca i suoi cari verso il compimento di una vita leopardianamente «arca-na», mentre chiede loro al contempo di assistere lui e i suoi vivi nelle vicende di un’esistenza inafferrabile e infangata.

Per altro verso, a divenire prova, e addirittura «supplizio», è la preghiera stessa in Su una lettera non scritta.85 Si descrive qui la con-

-camente. Se ella è infatti nello spazio escatologico di Finisterre, e partecipa di una vita fragile ma abitata dalla speranza e da una vastità

84 Ivi, pp. 253-4.85 Ivi, p. 199.

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-

terreno («Ben altro è sulla terra»), per cui quasi spera di non incon-trare la voce e la luce dell’amata, provenienti da un ordine troppo diverso («Oh ch’io non oda / nulla di te, ch’io fugga dal bagliore / dei tuoi cigli»). In realtà, il desiderio di sfuggire esprime l’agitazione e l’indecisione di chi è lontano. Per lui, infatti, «la sera si fa lunga / la preghiera è supplizio e non ancora / tra le rocce che sorgono t’è giunta / la bottiglia del mare». Il suo messaggio di naufrago, la sua bottiglia, non è giunta a Finisterre, ed è questo in verità a non dargli pace. La preghiera che rimane inascoltata si muta dunque in «sup-plizio». Nemmeno nell’orazione, si potrebbe dire, sostantivizzando l’avverbio grazie all’appoggio dell’enjambement, l’io trova un «àncora» di serenità e di speranza.

***

Che cosa c’è di nuovo nella semantica eucologica, se ora ci volgiamo dal ‘primo’ al ‘secondo’ Montale, quello che si snoda da Satura in

rimane immutata. Lo sguardo orante resta rivolto verso la concre-tezza della vita. Quel che si accentua enormemente è il senso di una radicale terrestrità, intesa però nella sua facies più umile e quotidiana, e dunque lontana da ogni forma di sublime ‘alto’ e da ogni sottoli-neatura drammatica dei momenti apicali dell’esistenza, interpretati nei primi libri – lo abbiamo visto – alla maniera di un più o meno nitido peirasmos. Non che si perda la qualità getsemanica dell’ora-zione più usuale e prossimo dell’esserci, nel volto più umano e ‘medio’ del nostro vissuto, dove si gioca la vita di tutti e non la scommessa dei pochi eletti. L’esistenza è ancora in questione, ma traguardata nel suo inalterato rischio dal lato opposto, dalla parte degli uomi-ni comuni. È così che la leggerezza e l’ironia possono attraversare l’indubbia profondità di poesie tanto spiazzanti e contemporanee. D’altronde, la distanza dall’insidia della vetta conduce il poeta al ri-

vivo nei primi tre libri montaliani (dove vige un assoluto rispetto del

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nome, ed è di norma la maiuscola pronominale l’unico modo per distinguere la presenza di Dio all’interno dei versi), ma ora, a partire da Satura

nei confronti dell’esperienza banalmente sensibile dell’oltre. Incar-nazione radicale e antiteologia speculativa sono quindi i corni di un

Xenia.«“Pregava?”. “Sì, pregava Sant’Antonio / perché fa ritrovare / gli

ombrelli smarriti e altri oggetti / del guardaroba di Sant’Ermete”. / -

ciente” disse il prete».86 Si tratta di uno dei componimenti che Mon-tale – negli Xenia, mirabile canzoniere d’amore – dedica alla moglie morta, la «donna miope» riapparsagli nella nebbia, una sera, mentre sta leggendo il libro della consolazione di Israele, il cosiddetto Deu-teroisaia. Il ritorno di lei rappresenta per il poeta l’opportunità di una profonda revisione esistenziale e poetica. Mettendosi alla scuola della sua nuova (o forse immutabile) Musa, infatti, il soggetto che dice ‘io’ in questi versi impara ad apprezzare una presenza dell’ol-tre tanto reale quanto impercettibile, mentre apprende un atteggia-mento di gratuità e di accoglienza verso ogni espressione della vita. Dominati dalla donna miope – dalla sua quotidiana cura del mondo, dal suo legame con oggetti inutili e personaggi improponibili, dalla sua custodia testarda dei poveri ricordi dei morti e dei vivi – questi componimenti (e molti altri di Satura e dei libri successivi) vivono di

-samente) sublime, del sentimento e del dolore, e un registro basso, della medietà e del sorriso. Il lutto e la mancanza non vi sono in nes-

-

parola si mostra negli Xenia nel suo versante amichevole e colloquia-

in una dedizione ostinata alla litote rispetto ad ogni determinazione positiva della condizione oltremondana della donna.

In tale contesto, lo xenion sulla preghiera tende a fare della mo-glie il typos dell’orante, e l’unico medium possibile del senso autentico

86 Ivi, p. 298.

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dell’orazione. La scena è quella di un colloquio fra il poeta e un pre-

della possibilità concreta di un perdono e di un’accoglienza di lei in quell’indicibile «altro mondo». Ora, la preghiera di questa donna umile e sapiente è quanto di più popolare si possa immaginare, ai limiti della superstizione folcloristica. Ma è la preghiera di tante don-ne che hanno imparato di generazione in generazione la preghiera rivolta ai santi per trovare aiuto nelle più banali circostanze della vita. Ed è anche la preghiera a martiri antichi ed improbabili come Ermete, a cui è intestato una sorta di modesto, familiare reliquiario. Ma c’è dell’altro. Sul registro intimo del testo si situa la preghiera di Mosca per i morti, che nessun altro ricorda, e per il poeta. Ed è questa preghiera, col suo segreto, tutto centrato sull’ammirevole semplicità del ‘per’, quanto basta per rendere commendevole la fede della donna miope. La preghiera per l’altro – la preghiera degli Xenia – è qui l’orazione quotidiana e non ortodossa, il pensiero umano semplice e costante per chi non c’è più, per chi non è ricordato (il ricordare è la vera azione di Dio, a cui Mosca si assimila) e per chi si ama. La preghiera reinterpretata nella sua più profonda verità come pensiero amorevole per l’altro, ri-cordo che coglie il cuore dell’a-zione di Dio, è il perno eucologico di questi testi. Ed è, per questo,

Lasciando gli Xenia, e addentrandoci in Satura, ci imbattiamo nell’unico testo in cui il secondo Montale si rivolge direttamente ad un’entità a proprio modo oltremondana. Si tratta dell’Angelo nero.87 Quest’angelo è una forma davvero singolare di messaggero divino: «O grande angelo nero / fuligginoso riparami / sotto le tue ali, / che io possa [...] inginocchiarmi / sui tizzi spenti se mai / vi resti qualche frangia / delle tue penne». Il testo, antitetico ad ogni ange-lologia alta, di ascendenza rilkiana, si gioca tutto su un consapevole, acuto riuso, ma in minore, dei grandi cardini biblici della preghiera e della manifestazione divina, applicati ad un angelo che è l’altra faccia, sporca ed improbabile, di Jahvè Sabaoth. Si pensi già alla ri-chiesta di riparo sotto le ali, che rimanda alla più intima invocazione dell’orante nella Scrittura: quella di Giobbe («All’ombra delle tue ali nascondimi», Gb 40, 13) e del salmista («all’ombra delle tue ali mi

87 Ivi, pp. 378-9.

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rifugio», Sal 56). Ma dello stesso ordine è l’invocazione all’angelo, immagine della «trascolorante, difforme e multiforme» energia del-la vita stessa, perché si mostri: «o angelo nero disvélati / ma non uccidermi col tuo fulgore». A quest’angelo, a questo messaggero divino, ma «non celestiale né umano», piccolo, inafferrabile e incom-prensibile, è chiesto dunque di rivelarsi nelle stesse modalità e con gli stessi riguardi tipici dell’epifania sinaitica («Farò passare davanti a te tutto il mio splendore [...] Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo», Es 33, 19-20). E non solo: «non dissipare la nebbia che ti aureola, / stampati nel mio pensiero» – prega il poeta –, evocando la nube della manifestazione ma soprattutto chiedendo all’angelo quasi la grazia di un rapporto simile a quello richiesto al pio israelita («Questi precetti che oggi ti

Dt 6, 6;; e prima: «con tutta la tua men-te»). Il poeta prega che i segni umili della presenza di questa forma a prima vista irriverente del divino, e anzitutto il suo senso, gli riman-gano impressi.

Perché la sua rivelazione non ha ovviamente a che fare con il piano del sensibile: «se ti prendessi un’ala e la sentissi / scricchiolare / non potrei riconoscerti come faccio / nel sonno, nella veglia, nel mattino». Non è toccando la cenere, l’umile sostanza di quelle ali che l’angelo può essere riconosciuto. Il suo rinvenimento è possibile solo nel semplice dinamismo del quotidiano (il sonno, la veglia, il mattino richiamano ancora l’esortazione del Deuteronomista: «quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai», Dt 6, 7). Ed è assimilabile al miracolo del cam-mello che passa per la cruna di un ago: «perché tra il vero e il falso non una cruna / può trattenere il bipede o il cammello». Come se nel passaggio verso la verità nemmeno se a far da porta ci fosse una cruna essa potrebbe impedire l’incredibile passaggio del cammel-lo. Appoggiandosi ancora antifrasticamente alla parola biblica (qui quella di Gesù in Lc 18, 25) L’Angelo nero paradossale della verità, nascosta nello sporco e nel banale, nel fumo e nella cenere dei camini, che il grande angelo si impegna a ripulire,

-cace, quotidiana alternativa.

Ancora ponendosi sulla medesima ‘via negativa’ si comprende un altro lungo componimento ospitato nel Quaderno di quattro anni: Ai

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tuoi piedi.88 Qui il poeta sembra trasferirsi, fantasticando, sullo stesso piano (contrassegnato nel testo con «quassù») di un Tu naturalmen-te non nominato e invisibile («non si vede nulla di te»). La scena è del tipo ‘confessio post mortem’, in attesa di giudizio: «Mi sono ingi-nocchiato ai tuoi piedi [...] ed ho chiesto perdono per i miei peccati / attendendo il verdetto». Ma l’anticamera del giudizio perde ogni

verdetto «sarà lungo o breve grato o ingrato / ma sempre temporale e qui comincia / l’imbroglio perché nulla di buono è mai pensabile /

-si sugli oggetti lasciati nel «quaggiù», ovvero su quel «nulla vivente» che ha circondato il suo soggiorno terreno e che rimane forse la sua vera consistenza, mentre il suo «corpo incorporeo» «quasi si addor-menta».

È solo nei Diari del ’71 e del ’72 che si possono intravedere i tratti di un’eucologia montaliana, pur sempre enormemente sobria, ma non schermata da procedimenti ironici o da ribaltamenti polemici. Il primo dei due componimenti di cui ci occupiamo chiude il Diario del ’71 e ha per titolo una sigla – p.p.c.89 –, facilmente scioglibile, sulla scorta della Bufera e del titolo della sua ultima sezione, Conclusioni provvisorie, in «per provvisoria conclusione». «La mia valedizione su voi scenda / Chiliasti, amici! Amo la terra, amo // Chi me l’ha data // Chi se la riprende». Non si tratta propriamente di una preghiera, ma nella sua concisione folgorante questo testo delinea senza ombra di dubbio un atteggiamento vitale di tipo orante. Di fronte ai suoi amici millenaristi, il poeta dichiara a gran voce il proprio amore alla terra, a Colui che gliel’ha data e che gliela riprende. Il «Chi» della Buferamadre e alla sua oblazione in Voce giunta con le folaghe («amor di Chi la mosse e non di sé»). Ora è lui ad amare senza riserve Colui che non si può nominare. Di fronte al Chi il poeta è adesso nella condizione di ridire – ma nella sola maniera possibile all’interno di una rigorosa negazione del sensibile e del rappresentabile, e con ben altra consa-

88 Ivi, pp. 594-5.89 Ivi, p. 468. Per una approfondita discussione di questa lirica rimando all’a-

cuta analisi in chiave ossimorica di G. BARBERI SQUAROTTI, I miti e il sacro, cit., pp. 245-6.

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pevolezza – le parole di Giobbe: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto. Sia benedetto il nome del Signore» (Gb 1, 21).

E che in p.p.c. -celo l’altro testo dei Diari, nonché l’ultimo della nostra tappa mon-taliana. In Il mio ottimismo90 il poeta attacca infatti con violenza il pre-

occhi a miliardi», mentre schizza il ritratto del suo Dio innominabile:

bene e il male, / e si chiede perché noi ci siamo cacciati / tra i suoi piedi, non chiesti, non voluti / meno che meno amati. Il mio non è / nulla di tutto questo e perciò lo amo / senza speranza e non gli

negativa, il poeta dei Diari si sposta bruscamente dal piano della teoria a quello dell’esistenza e della sua posizione vitale dinanzi al mai nominato. Se sul piano teologico si disputa su tutto oziosamen-te, su quello eucologico non c’è che l’amore a decidere del nostro essere dinanzi a colui che il poeta non ardisce chiamare. Perché non di nomi si tratta, ma di consegna di sé nelle mani dell’altro. Ogni preghiera di domanda sarebbe in quest’ottica una forzatura incon-cepibile, oltre che un cedimento, o almeno un’allusione velata, ad un risorgente fantasma dell’Onnipotenza, del potere divino sul mondo. Il rispetto e l’amore autentici esigono una rigorosa, serena rinunzia ad ogni forma di compenso o di contraccambio. Il Dio senza nome è il Dio da amare senza sperare nulla, senza chiedere, senza chieder-gli nulla. Il Dio da amare per sé, nella più assoluta inconoscenza. E qui il poeta si incontra inauditamente col mistico.

90 Ivi, p. 508.

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5. IL SECONDO NOVECENTO. DIO VICINO E LONTANO

Nel panorama della letteratura secondonovecentesca, Pasolini e Ca-proni rappresentano due di indole completamente diversa. Pasolini documenta infatti le modalità di orazione possibili in un po-eta di retroterra cattolico, che abbia poi lasciato ogni forma di pra-

personale e soprattutto la sua vocazione poetica. In Caproni, invece, si dispiega la vicenda lirica estrema (e per questo conclusiva della nostra ‘storia’) di una preghiera innalzata, in regime di «morte di Dio», da un poeta orante che invoca l’Altro muovendo paradossal-mente dalla sua scontata «inesistenza». L’impronta del religioso e del cristianesimo in quanto residuo agente nella contemporaneità del vecchio equilibrio del sacro, e la proiezione verso il Dio assente

appaiono icasticamente ai nostri occhi, a dire l’odierna contraddizio-ne della ricerca religiosa fra l’ineliminabilità del sacro e la persistenza

5.1. Pasolini. L’Altro della prossimità e della distanza

L’itinerario pasoliniano comincia, sin dalle Poesie a Casarsa, da un côté religioso molto esplicito, in cui la realtà del Cristo assume im-mediatamente un’importanza decisiva. Con una differenza chiara, però, fra i segnali cristologici della primissima raccoltina edita dalla Libreria Antiquaria Mario Landi di Bologna nel 1940 e la successi-va produzione friulana e in lingua, il cui arco cronologico copre il

Domenica uliva91 il testo che fa da cartina di tornasole della diversità.

91 Tutte le citazioni sono tratte da P. P. PASOLINI, Bestemmia. Tutte le poesie, 2 voll., a cura di G. Chiarcossi e W. Siti, Milano, Garzanti, 1993 (La domenica uliva, pp. 1209-19). Anche in questo caso da ora in poi si indicheranno solo le pagine dei componimenti.

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Nella prima redazione del dialogo sacro fra la Madre e il Figlio con cui si chiudono le Poesie a Casarsa, il desiderio impossibile del Figlio di farsi uguale ai padri viene accolto e mediato dalla Madre in un’orazione («MADRE (parla) E FIGLIO (ripete) Jo soi còme che tu mi às fat, Crist: / ciànt e plànt ’a son ’na ròbe in tè. / Ta la tó crôs inclàudimi, Crist: / jo soi sènze remèdi tò»), in cui il Figlio è invitato

guida paterna che genera una chiamata ‘al’ e ‘del’ dolore. Sulla stessa linea si collocano due testi dispersi del 1941. Soprattutto la Preghiera al non Creduto,92 che appoggiandosi in epigrafe a Michelangelo, misu-ra ancora una distanza lancinante dal Padre, oltre a ribadire l’oscurità di un futuro non assisitito («Tu, governami, m’inchioda sulla croce, / oscura il mio futuro»).

Ma già nella versione della Domènia93 rielaborata per Tal cour d’un frut la preghiera materna è una riformulazione del Padre nostro («MARI E FÌ Pari nustri lontàn / ta la mari dal sèil / nu dal còur da la ciera / come in sun ti ciantàn. // Benedèt il To Nòn / colàt tal nustri lavri / e tal lavri dai fradis / parsè si perdonani. // Dani il pan ogni dì /

cui la lontananza paterna è riequilibrata dalla «matrice del cielo» e dal

Certo, non manca nelle liriche di ambientazione friulana antolo-gizzate in La meglio gioventù l’eco di un’epica biblica, trasportata sulla pagina in obbedienza ai paradigmi di Esodo e dei Salmi (Il quaranta quatri, Il quaranta sinc, La miej zoventùt).94 Il respiro collettivo di questi testi è assicurato dal modello scritturistico, ripercorso con vivacità e grande senso dell’avventura da parte di un popolo in mezzo ai tra-vagli della guerra. Si tratta però di una linea laterale. Da quest’altezza in poi infatti, in maniera indiscutibilmente prioritaria, le poesie in dialetto come anche i testi in lingua dell’Usignolo della Chiesa cattolica

imitatio Christi – facendo insensibilmente del corpo dell’io lirico il prolun-

92 Ivi, pp. 1948-9. L’altro è In te mi penta, pp. 1950-1.93 Ivi, pp. 1355-64.94 Ivi, pp. 165-70.

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gamento/rispecchiamento del corpo del Cristo –, e ad accentuare enormemente i caratteri materni della sua vocazione, nella quale il padre si mostrerà nelle vesti tipiche dell’antagonista edipico, pron-

narcisistico di turbamenti sensuali e di complessi di colpa occupa la scena di questi testi, dove né la ricerca del Padre, né la passio-ne del Figlio fuoriescono da una tendenziale egolatria materna del fanciullo poeta. Gli esempi sono numerosi, proprio sul versante dell’orazione. Si pensi ad un testo come La passione,95 dove Cristo è apostrofato come «Sereno poeta, / fratello ferito»), con un azzera-mento della distanza radicale così viva nelle Poesie a Casarsa ed una forma estenuata di appaiamento dei corpi giovinetti del nazareno e del poeta, in quanto entrambi . Ovvero ai Madrigali a Dio,96

dio («Idiota Dio, decreta / la mia disonestà [...] E allora, o Genitore, / uccidimi: o vuoi che Ti derida»), nella logica di una drammatizza-

Dies irae,97 cupa ammissione di una dipendenza dall’automatismo carnale e soprattutto negazione sofferta della tentazione di tornare alla voce del padre/barbaro («Voi lo sapete, o angeli, che tenta / la mia voce il barbaro che stette / dinanzi ad una terra d’albe e di gemme [...] / O Dio, c’è / già in me il mio fantasma, il mio automa, / che mi soppianterà»).

È con la svolta degli anni sessanta che la posizione pasoliniana inizia a mutare, riacquistando una dimensione relazionale grazie al dolore (non più negato) per l’assenza paterna, e vivendo in termini

Christus patiens. Da Ac-cattone e da Poesia in forma di rosa in poi, la rilettura dell’Evangelo (il cui frutto più alto sarà certamente La ricotta) e i viaggi africani nei luoghi della prigionia del padre, ‘registrati’ con grande sofferenza in poesia, provocheranno un ripensamento che si riverserà anche sul piano dell’orazione. Si pensi ad esempio, già nel 1960, ai testi di Giro a vuoto. In Cristo al Mandrione,98 ad esempio, una povera don-

95 Ivi, pp. 291-5.96 Ivi, pp. 395-7.97 Ivi, pp. 360-1.98 Ivi, p. 1701.

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na del popolo chiede considerazione al «Re dei Re» dal fondo di una esplicita debolezza creaturale, bisognosa del soccorso del Figlio («Fileme, se ce sei, Gesù Cristo / guardeme tutta sporca de fanga, / abbi pietà di me, / io che nun so’ niente, e te er Re dei Re»). Il mo-

contadina è poi elaborato nella Preghiera su commissione.99 Ma il luogo simbolico in cui la cristologia pasoliniana ‘recita’ la propria novità è senza dubbio Bestemmia,100 un poema che trae il titolo dall’Usignolo, in cui la bestemmia, insieme all’eresia, era considerata l’«unica dolce memoria di Cristo».

Si tratta di un testo di grande impatto. Ciò che racconta que-sto inedito «poema in forma di sceneggiatura» è infatti una vera e propria esperienza di contemplazione – ovvero la forma più alta di preghiera – il cui soggetto è appunto Bestemmia, un popolano dal sesso potente (possiede sei sorelle contadine in una sola notte) e dal corpo segnato dagli stenti. L’oggetto contemplato, nel frammento

-stanziamento: Cristo è di fronte a lui, è altro da lui, e al contempo Cristo è lui, è Bestemmia stesso, chiamato a rispecchiarsi nel Cro-

corpo morente, mentre si leva la preghiera in canto delle prostitute e dei peccatori, secondo la parola di Gesù nei Vangeli. Pasolini da ‘sceneggiatore-poeta’ coglie l’occasione per riepilogare qui la storia del suo rapporto con Cristo:

La cultura si secca, appassisce:l’orto ben coltivato torna selvaggio.[...]All’origine di un’educazione che scatenò le passioni,non avrei potuto trattenermi, incontinente,dall’immaginare il Cristo d’una visione,scolpito con luci e ombre,e colori, il tetro morello o l’ocra,o il sangue di bue o il blu di Prussia, disteso comeun manto prezioso tra mura scolorite di case contadine lontane;;[...]Oggi, la mia cristologia non più imberbe ma ancora barbarica

99 Ivi, pp. 879-80.100 Ivi, pp. 1824-30.

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(e vuol esserlo) teme di fallirese non suscita invece un’idea di Cristoanteriore a ogni stile, a ogni corso della storia[...]voglio non solo non conoscere il Dante o il Masaccioo il Pontormo che a lungo hanno dominato i miei occhi e il mio cuore, i miei sensi: ma non voglio neancheconoscere la lingua e la pittura.Voglio che quel Cristo si presenti come Cristo in realtà.Non è forse una buona ragione

[...]Lingue e stili! Ma iocon un uomo in carne e ossa,con una vera croce di legno,con dei chiodi veri,e – vorrei – con vero sangue e vero dolore,evocherò la realtà con la realtà.[...]Così Bestemmia vide Cristo – e per forza!Lo vide com’era lui: un corpo;;non c’è carnale differenza fra Bestemmia e ciò che vede.Si tratta soltanto di voltare la macchina da presa.[...]Bestemmia dunque se lo vide davanti come un altro.Aveva la sua stessa natura e, tacendo, parlava con lui.

ma cosa diceva il linguaggio della sua Carne?Che moriva.Lo dicevano gli occhi rovesciati,le guancie tese e grige di mummia,i capelli coperti di un sudore denso come pus,il piccolo torace d’uomo sapiente squarciatocon le labbra della ferita orlate di marciume,le braccia disperatamente tese,e tutto il corpo tirato giù dal suo pesocome una vittima nuda sul trogolo,le gambe bagnate di orinagocciolata giù come alle bestie,

le feci incollate alle coscie puzzolenti,le nuove sopra le vecchie, già secche,perdute dal povero ano senza più volontà.

Io non voglio però snaturare Bestemmia.A ragione la religionenon prende troppo sul serio la poesia.Perciò io devo vedere lui come lui vide Cristo,

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– un oggetto che parla senza parlare,con la sua semplice presenza,con la sua semplice azione,con il suo semplice esserci.Egli è un oggetto.

Citazione lunga, ma necessaria. La storia della ‘preghiera’ paso-liniana – nella sua dimensione cristologica – viene qui acutamente riassunta. Partito, nelle prime poesie casarsesi, dalla percezione di una lontananza che non escludeva il fascino e la chiamata, ma col-

Pasolini -

le, leggendo nel corpo del Cristo sofferente i segni della comune origina materna. Ma nella dialettica fra alterità e prossimità, mentre la prima rende possibile il dialogo e l’atteggiamento orante, in quan-to posizione della distanza e della differenza, la veloce assimilazione

rapporto io/tu è possibile. Com’è ormai chiaro in Bestemmia, lo sno-do degli anni sessanta si è incaricato di riportare progressivamente il poeta bolognese verso un distanziamento («Bestemmia se lo vide

e sensoriale alla sorte di un corpo e di un uomo lontani dalla stiliz-zazione della grande cultura italiana («Era prossimo suo»). L’aspira-zione alla rappresentazione della realtà del morente dice l’anelito ad un’assimilazione tanto profonda quanto impossibile. Ed è qui che si istituiscono paradossalmente le condizioni di una preghiera senza parole (contro la verbosità estenuata dell’Usignolo), di un desiderio che deve rimanere amante e inappagato.

5.2. Caproni. Ovvero: De oratione in morte Dei

Con Caproni siamo di fronte alla poesia più contemporanea, più interna al clima attuale (Res amissa, il suo ultimo libro, pur postumo, è del 1991). In verità, la ricerca di Caproni in linea con il nostro tema data già dal Muro della terra, la raccolta del 1975 dal titolo dante-sco ma non senza un sapore dostoevskijano (vi si sente infatti sullo sfondo l’eco delle Memorie del sottosuolo), se alla prossimità allo spazio

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ci sono altri due libri Il franco cacciatore (1982) e Il conte di Kevenhüller (1986), centrati entrambi attorno alla medesima questione. Eppu-re non bisogna guardare questi testi con gli occhi del dramma in atto. Perché essi ci appaiono anzitutto come poesie della leggerez-za, dell’ironia diffusa, poesie la cui voce sottesa non rappresenta il dramma del moderno o la ricerca di una pur contestatrice, lieve antiteologia speculativa, alla maniera di Montale.

L’uomo di di là del grido del nunzio nietzscheano. Per quest’uomo, Dio si è già assentato e la sua perdita è già stata metabolizzata. Non si può parlarne come di un morto ‘fresco’, ma discorrerne con una sorta di ‘fulminea distensione’, intessuta cioè di testi tanto insistenti quanto spesso folgoranti, che magari utilizzano i topoi nietzscheani, come la caccia e l’uccisione (spesso fusi in un unico crogiuolo: «Il guardacaccia / con un sorriso ironico: // – Cacciatore, la preda / che cerchi io mai la vidi. // Il cacciatore / imbracciando il fucile // – Zitto, Dio esiste soltanto / nell’attimo in cui lo uccidi»),101 quali arnesi di una rappre-sentazione il cui pathos sembra già esaurito, consumato, delibato sino

attingere Dio. Ma v’è un’unica stoica accettazione più nobile ancora: la solitudine senza Dio. Irrespirabile per i più. Dura e incolore come un quarzo. Nera (e tagliente) come l’ossidiana. L’allegria ch’essa può dare è indicibile. È l’adito – troncata ogni netta speranza – a tutte le libertà possibili. Compresa quella (la serpe che si morde la coda) di

non esiste».102

È in questa contestualizzazione che risiede il fascino della ricerca di Caproni. Che potrebbe condensarsi tutta in un ‘perché’, ovvero: perché un uomo che ha già ‘digerito’ l’eclissi di Dio, che è già al di là del ‘dolore’ per la sua perdita, rimane a parlarne e a pensarci, a scri-verne e a discuterne come si fa col tema principale della propria esi-

101 G. CAPRONI, Ribattuta, in ID., Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1999, p. 418. D’ora in poi tutte le citazioni si intenderanno tratte dalla suddetta edizione. Per comodità del lettore si indicheranno però sia il titolo del componimento (di nor-ma non presente nel corpo del testo) sia la pagina relativa.

102 Vi sono casi..., p. 439.

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stenza e delle propria ricerca? E in che forma accade tutto questo? Dio si assottiglia, è ridotto a un puro nome (e «il nome non è la per-sona. / Il nome è la larva»), un , eppure di Lui non si può tacere, Lui non si può archiviare. Come se Caproni rappresentasse e desse voce ad un paradosso del postmoderno (senza però alcuna indulgenza al ritorno di Dio o del religioso): il paradosso dell’ine-liminabilità della questione, che permane anche quando è risolta,

irrilevanza. Di Dio non si fa a meno.Ma in questa poesia non si tratta della supplenza, di un nuovo ap-

pello perché ‘qualcosa manca’ senza Dio, di un bisogno che ritorna. No. La sottrazione del pathossua quasi assoluta anestesia, sembrano funzionare quali antidoti ad ogni tentazione del religioso, ad ogni ritorno della preghiera stessa nella sua forma tradizionale. L’onestà terribile e fascinosa di questi testi è quella di chi sa che non c’è un dopo, un altro mondo («We would not leave / our native home / for any world / beyond the tomb»),103 che a Piero si dà l’addio per sempre («Ho anch’io / detto le mie preghiere / di rito. / Ma solo, / Piero, per dirti addio / e ad-dio per sempre, io / che in te avevo il solo e vero / amico, fratello mio»),104 che l’abisso è scoperchiato («“Enfasi a parte: deo amisso, / che altro può restare in terra / a far da coperchio all’abisso?”»),105 e che pure non chiude la partita come ogni ateo tranquillo, come gli atei del mercato della Fröhliche Wissenschaft.

Tutto è compiuto, nel senso del trionfo del nulla e dell’imperdo-

nera / di credere [...] / come potrà, mio Dio, / come potrà poi senza / odio perdonarti il furto / della tua inesistenza?»),106 eppure que-

che la questione è aperta al di là di ogni soluzione. Ed essa torna

accettata. In questo senso, la mancanza di Dio, la sua non esisten-

103 Versi incontrati poi, p. 372.104 Atque in perpetuum, frater, p. 462.105 Enfasi a parte, p. 829.106 Cantabile (ma stonato), p. 339.

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za, è certo un dato per Caproni – non sarebbe mai possibile fare di lui in alcuna maniera un credente – eppure, al contempo, i suoi testi non rappresentano in nessun modo la conferma di un puro ve-nir meno della fede, bensì la permanenza paradossale e assorbente dell’Assente proprio nella sua assenza e non contro di essa. Dio non c’è, Dio si è ucciso («Un semplice dato: / Dio non s’è nascosto. / Dio s’è suicidato»),107 Dio manca, eppure sulle labbra del poeta Dio resta, Dio non se ne va, il suo Nome non si esaurisce, il suo spazio

indispensabile della soggettività, di colui che dice io nei testi e che è come il modello più puro di uomo (e di poeta) immerso negli anni della contemporaneità postmoderna. Di Dio non si può più parlare alla maniera antica, non lo si può più cercare e invocare come un tempo, eppure le parole del suo antagonistico dialogo con l’uomo, persino le parole della preghiera continuano ad essere pronunciate («Dio di volontà, / Dio onnipotente, cerca / (sfòrzati), a furia d’in-sistere / – almeno – d’esistere»).108

Questa poesia non si costruisce dunque a partire dalla rinunzia a parlare di Dio, a partire dall’assenza, in vista del rifugio nella forma. Era stata questa in fondo la via primaria della modernità romantica: partire dal presupposto del Gottes Tod e porvi rimedio, arginarlo o contrapporsi ad esso riorientando il proprio sforzo verso la lingua, verso la forma, facendo della lo Streben di ogni atto estetico in parole (e non solo). Quella di Caproni è in questo senso la poesia più ‘antiromantica’ della lirica italiana contemporanea. Non perché non accetti i presupposti della Romantik, ma in quanto non li con-cepisce più come tali, bensì li riporta al centro e ne fa l’oggetto di tutta la sua ricerca, l’unico obiettivo della sua parola. Ma ‘dopo’, a cose compiute, a giochi fatti. Dio è morto, e Dio non se ne va («lui, / che loro hanno ucciso, qui / più vivo e più incombente / (più spietato) che mai»).109 Dio è introvabile, eppure Dio si cerca sapendo di non poterlo rintracciare («Aveva posato / la sua lanterna sul prato. / [...] Era scoraggiato. / “Come / può farmi lume”, / pensava. “Come / può forare la tenebra, / in tanta inondazione / di luce?” / Piangeva,

107 Deus absconditus, p. 349.108 Preghiera d’esortazione o d’incoraggii lamento, p. 383.109 Lui, p. 419.

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/ quasi. S’era / coperta la faccia. / Si premeva gli occhi. / Aveva / perso completamente, / con la speranza, ogni traccia»).110 Dio si prega, anche se non può rispondere, anche se si tratta di un rito che non può dare speranza nella morte (è il senso di Atque in perpetuum), ma almeno per esortarlo ad esistere, dopo essersi lamentati della sua mancanza. Unendo la propria voce, sotto traccia, a quella del salmista e di Gesù (si compie così l’itinerario di Jacopo Ortis: «Ah mio Dio, Mio Dio. / Perché non esisti?»).111 Tentando pur invano di pregare nel protiro di un Nome o di un Nume (l’unico spazio sacro possibile per quest’uomo, grazie alla sua natura vestibolare, introduttoria: «Scappai. / Mi rifugiai / nel protiro della cattedrale. / Tentai di pregare. / Cercai d’ordinare la mente. [...] // Riprovai – ma invano – a pregare, / nel protiro della Cattedrale. // (Nel Protiro, forse, della Preda stessa?... // Di un Nome?... / Un Nume?... / For-se / di un qualsiasi animale?...»).112 Cedendo al sentimento della sera,

orante («Non c’è sembianza – è detto – / che affermi la sostanza. // Un rondone / raso l’acqua ne lima / col suo grido la spera. // Due alianti altissimi. // Nera / e perduta la cima / resecata. / Venere / che già la sovrasta. / Richiudo / – con cautela – il portone. / Ne trapassa il legno la sera, / inumidendo l’androne. / Recito la mia preghiera. / Al Nume? // (Forse / – perdutamente e senza / revo-ca – // al vacuo: // al Nome»)).113 Erodendo come fa un topo la logica, apparentemente implacabile, della solitudine senza Dio: «Per

logica. Direi che tutto nel tuo ragionamento è perfetto, se non avessi davanti questo prato di trifoglio. E sarei anche d’accordo con te, se nella mente non mi bruciasse (se non mi bruciasse la mente – con dolcezza) quest’odore di tannino che viene dalla segheria sotto la pioggia: quest’odore di tronchi sbucciati (d’alba e d’alburno), e non ci fosse il fresco delle foglie bagnate come tanti lunghi occhi, e il persistente (ma sempre più sbiadito) blu della notte».114

110 Il cercatore, p. 341.111 I coltelli, p. 331.112 Nel protiro, pp. 599-600.113 , pp. 655-6.114 Altro inserto, p. 511.

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È forse in questa riserva estrema di sentimento trattenuto, in questo rodere la logica da parte del mondo, e soprattutto nell’e-sistenza donata di chi giorno per giorno ha cura del mondo («Ha fatto tutto da sola. // Ha costruito una casa / e l’ha confortata. //

// Ha detto / la sola giusta parola, / e nessun’altra. / Insiste nell’af-fermarla, senza / ripeterla... // Per lei, / e solo grazie a lei, esiste / dunque uno spiraglio ancora / di qua d’ogni inerte speranza?...»),115 nell’esistenza di Rina («Se il mondo prende colore / e vita, lo devo a te, amore...»),116 che si manifesta e appare il principio della domanda e della speranza al di là di ogni inerte speranza, il motivo della parola che ritorna. Anche in Caproni dunque, alla stessa maniera di Monta-le, lo sbigottimento e l’incanto dinanzi alle vite plasmate nel dono e dal dono rappresentano l’estrema via ad spem, quel che impedisce di chiudere, e anzi sempre riapre, l’inchiesta. Il fatto che ci siano donne che offrono tutta la loro esistenza per gli altri, senza alcun riguardo per sé, provoca il ritorno della parola impossibile e inaudita.

Che fa della cosa perduta, della res amissa, la ‘cosa’ della vita e della poesia. Che fa della perdita acquisita il motivo ancora di un ‘insensato’ cercare («Mi piacciono i colpi a vuoto»),117 di un ‘insensa-to’ pregare («Appunto perché lo preghi, / fratello, Dio lo neghi»),118 posto sta al di là della logica («“E allora, sai che ti dico io? / Che proprio dove non c’è nulla / – nemmeno il dove – c’è Dio”»)119 e forse – sembra lasciar intendere Caproni –, più forte di noi, più forte

-mo perché ti sia lunga / e serena la vita. / Ma anche tu, se puoi, / prega, qualche volta, per noi. / E rimettici i nostri debiti / come noi rimettiamo i tuoi».120 La voce di un non credente orante si leva verso il Dio che non esiste augurandogli una lunga vita, in un vertiginoso capovolgimento di ruoli e di appelli, se gli oranti pregano per Dio e Dio è invitato a pregare qualche volta per loro, supponendo dunque

115 Laudetta, p. 672.116 A Rina, II, p. 949.117 Consolazione di Max, p. 601.118 Monito dello stesso, p. 744.119 Pronta replica, o ripetizione (e conferma), p. 702.120 , p. 897.

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che ci sia qualcuno o qualcosa a cui rivolgersi al di là della relazione duale fra il ‘popolo’ e il suo Dio. È in questo fattore neutro, in questa

al di là della fede e di Dio stesso, la preghiera si dà (e forse si giu-

senza ossequi al logos. Una pura richiesta di aiuto e di sostegno nella fatica dell’esistere, che l’uomo pare elevare di per sé, non per un mero bisogno ma come per uno scatto dell’anima, un’espressione

-parsa di qualsiasi garanzia, perché il dinamismo del ‘per’, dell’essere

quanto umani. E così la parola orante si leva per l’altro, dinanzi al

non siamo lasciati soli nella prova («Mio Dio, anche se non esisti, / perché non ci assisti?»;;121 «Signore, anche se non ci sei, / egualmente proteggi / e assisti me e i miei»).122 Da qui si ritorna, o forse si resta, ancora, a Getsemani.

121 Invocazione, p. 954.122 La stessa in termini più prolissi di giaculatoria, p. 955.