Il test di una vita: profilo di Eric Hobsbawm

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Il test di una vita: profilo di Eric Hobsbawm Aldo Agosti The test of a life: an Eric Hobsbawm profile takes a look at the figure of Eric Hobsbawm, retracing the main stages of his intellectual biography: from his middle- European background to his university education in Cambridge; from his involvement with the Communist Party to his studies of social banditry and the British working class; from his particular and original blend of Marxism to his analyses of capitalism and the concept of revolution (in the four volumes of Ages); from an evaluation of his work as an historian of society and culture to the reasons for his influence on contemporary historiography. Key words: Eric Hobsbawm, biography, historiography, Marxism, social history, cultural history. Parole chiave: Eric Hobsbawm, biografia, storiografia, Marxismo, storia sociale, sto- ria culturale. Il test della vita di uno storico è se sappia for- mulare e rispondere a domande, soprattutto ipotetiche, su temi di particolare importanza per lo storico stesso, come se fosse un giornali- sta intento a raccontare vicende da lungo tem- po passate e, tuttavia, non da estraneo ma da persona profondamente coinvolta 1 . Eric Hobsbawm ha compiuto, l’8 giugno del 2010, 93 anni. Partecipa an- cora vivacemente al dibattito storiografico soprattutto con le recensioni che pubblica sulla «London Review of Books», e non lesina commenti acuti e spesso taglienti sulla situazione politica, specialmente internazionale. Sta la- vorando a un libro dal titolo eloquente: How to Change the World: Marx and Marxism 1840-2009 2 . Anche se è difficile avventurarsi in classifiche di que- 1 E.J. Hobsbawm, Anni interessanti. Autobiografia di uno storico, Rizzoli, Milano 2002, p. 459. 2 Lo si apprende dalla «London Review of Books» (www.lrb.co.uk/v30/n02/eric-hob- sbawm/diary). «Passato e presente», a. XXIX (2011), n. 82 Copyrigt © FrancoAngeli N.B. Copia ad uso personale. Non ne è consentita la condivisione e/o la messa a disposizione al pubblico su rete pubblica o privata, sia in forma gratuita sia a pagamento.

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Il test di una vita:profilo di Eric Hobsbawm

Aldo Agosti

The test of a life: an Eric Hobsbawm profile takes a look at the figure of EricHobsbawm, retracing the main stages of his intellectual biography: from his middle-European background to his university education in Cambridge; from hisinvolvement with the Communist Party to his studies of social banditry and theBritish working class; from his particular and original blend of Marxism to hisanalyses of capitalism and the concept of revolution (in the four volumes of Ages);from an evaluation of his work as an historian of society and culture to the reasonsfor his influence on contemporary historiography.

Key words: Eric Hobsbawm, biography, historiography, Marxism, social history,cultural history.Parole chiave: Eric Hobsbawm, biografia, storiografia, Marxismo, storia sociale, sto-ria culturale.

Il test della vita di uno storico è se sappia for-mulare e rispondere a domande, soprattuttoipotetiche, su temi di particolare importanzaper lo storico stesso, come se fosse un giornali-sta intento a raccontare vicende da lungo tem-po passate e, tuttavia, non da estraneo ma dapersona profondamente coinvolta1.

Eric Hobsbawm ha compiuto, l’8 giugno del 2010, 93 anni. Partecipa an-cora vivacemente al dibattito storiografico soprattutto con le recensioni chepubblica sulla «London Review of Books», e non lesina commenti acuti espesso taglienti sulla situazione politica, specialmente internazionale. Sta la-vorando a un libro dal titolo eloquente: How to Change the World: Marx andMarxism 1840-20092. Anche se è difficile avventurarsi in classifiche di que-

1 E.J. Hobsbawm, Anni interessanti. Autobiografia di uno storico, Rizzoli, Milano 2002, p. 459.2 Lo si apprende dalla «London Review of Books» (www.lrb.co.uk/v30/n02/eric-hob-

sbawm/diary).

«Passato e presente», a. XXIX (2011), n. 82

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sto genere, Hobsbawm è probabilmente lo storico vivente più famoso al mon-do e quasi certamente uno dei più letti. Il libro che ha consacrato la sua cele-brità, Il secolo breve, uscito sedici anni fa, è stato tradotto in almeno 37 lin-gue. Tracciare nello spazio di poche pagine un suo profilo che provi a spiega-re almeno in parte le ragioni di questa straordinaria fortuna non è evidente-mente un compito facile e obbliga per forza a scegliere alcuni temi su cuiconcentrarsi3.

Partire dalla sua biografia è un approccio meno scontato di quanto possaapparire. Non accade infatti sovente che la personale biografia di uno storicorappresenti in modo così emblematico nodi e fasi salienti di una parte almenodelle epoche che sono al centro della sua opera. Nel caso di Hobsbawm ècertamente così. E bisogna dire che se si riesce a cogliere questa cifra parti-colare, e in questo caso così marcata, del rapporto tra individuo e grande hi-stoire, è prima di tutto proprio grazie alla sua lezione, che ci ha insegnato, findai suoi primi libri, a scorgere nei percorsi biografici individuali altrettantitasselli di quel grande mosaico che è la storia collettiva. Un motivo non se-condario del fascino dei suoi scritti – oltre agli altri su cui tornerò – sta sicu-ramente nei non frequenti ma sempre illuminanti flash autobiografici che lipercorrono. Sono flash fondati sulla memoria personale, anche su quella cheegli ha felicemente definito, nell’Età degli Imperi, la «zona crepuscolare» trastoria e memoria, quella che si estende «dal punto di inizio delle tradizioni ememorie familiari ancora vive (diciamo dalla più antica fotografia di famigliache il familiare più anziano è in grado di identificare o spiegare), fino al ter-mine dell’infanzia, quando le vicende pubbliche e quelle private sono avverti-te come inseparabili»4. Ed è una memoria in qualche caso più efficace dellacitazione storiografica, come quando, per dipingere gli effetti dell’inflazionedel primo dopoguerra, Hobsbawm ricorda, nel Secolo breve, che suo nonnocalcolò che il provento della sua polizza assicurativa, maturata in Austria inquel periodo, gli era appena sufficiente per pagarsi una consumazione in uncaffè di Vienna5.

Eric John Hobsbawm è nato ad Alessandria d’Egitto nel 1917. I suoi geni-tori si erano conosciuti «là dove l’economia e la politica dell’età imperiale(per non parlare della storia sociale della medesima) li aveva fatti incontrare»6

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3 Nell’articolo riprendo, oltre che il testo della lectio tenuta a Torino in occasione del con-ferimento dalla laurea honoris causa a Eric Hobsbawm il 27 marzo 2000, alcuni spunti formu-lati in recensioni e interventi sui suoi libri apparsi su «Passato e presente» tra il 1986 e il2006. Quando il numero era già in bozze è uscito G. Elliott, Hobsbawm. History and Politics,Pluto Press, London 2010, leggibile e acuto profilo dello storico inglese di cui non ho potutosfortunatamente tener conto.

4 E.J. Hobsbawm, L’età degli imperi 1875-1914, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 5. Questoaspetto è stato colto bene da G. Santomassimo nella sua recensione su «il manifesto» all’auto-biografia di Hobsbawm (Id., Eric il rosso, partitura per il Novecento, 8 gennaio 2003, ora inId., Antifascismo e dintorni, manifestolibri, Roma 2004, pp. 213-17).

5 E.J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1997, p. 112.6 L’età degli Imperi cit., p. 5.

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e dove difficilmente avrebbero potuto incontrarsi prima di quel particolaremomento storico, ma anche dopo di esso: sua madre era una ragazza vienne-se di buona famiglia che si godeva un meritato viaggio premio dopo la licen-za liceale, suo padre un impiegato in un ufficio commerciale. Hobsbawm tra-scorse l’infanzia e la prima adolescenza tra la Vienna della Finis Austriae or-mai consumata e la Berlino della Repubblica di Weimar già prossima al suotragico crollo. La sua era, come ricorda nella sua autobiografia, «una famigliaebraica piccolo borghese tenuta insieme non solo dai legami affettivi tra ma-dri, figli e nipoti, e tra fratelli e sorelle, ma anche dalla necessitàeconomica»7. A spezzare la trama di una vita relativamente serena nonostantele ricorrenti difficoltà economiche sopravviene, nel giro di soli due anni, lamorte dei genitori, che lascia Eric orfano a soli 14 anni. Così da Vienna Hob-sbawm si trasferisce presso la famiglia di uno zio a Berlino: dove arriva nel1931, nel pieno della crisi economica e della minacciosa ascesa del partitonazionalsocialista. In questa Berlino, dove pure avverte un’atmosfera di anti-semitismo meno virulento e diffuso di quello che aveva conosciuto a Vienna,il ragazzo inizia gli studi liceali e soprattutto fa il suo apprendistato politico:entra a far parte del Sozialistische Schülerbund, un’organizzazione studente-sca non dichiaratamente comunista ma molto vicina alla Kpd.

Nel 1932 le vicissitudini della famiglia lo fanno approdare in Inghilterra:là dove suo nonno, artigiano ebanista, era giunto negli anni ’70 dell’800 dallaPolonia russa, imponendo al funzionario cockney dell’anagrafe londinese unesercizio di trascrizione che attraverso successive peripezie burocratiche8 tra-sformò un cognome tipicamente ebraico come Obstbaum in quello un po’strano che ancora porta. Vive dunque gli anni più intensi della sua formazio-ne intellettuale in quello che restava ancora un osservatorio privilegiato perafferrare il presente e capire il passato: l’impronta cosmopolita impressa nelsuo percorso biografico, che è rimasta sempre ben visibile, si fonde con ilmeglio della tradizione intellettuale britannica. Per inciso, non può non colpi-re l’analogia con la vicenda biografica di un altro grande storico praticamentecoetaneo di Hobsbawm, anche se molto lontano dalla sua impostazione,George L. Mosse: anche lui – pur appartenente a un famiglia di condizioneeconomica molto più agiata – ebreo e emigrato dalla Germania nel 1933, an-che lui approdato in Gran Bretagna, prima a York e poi nella stessa Cambrid-ge in cui studia il giovane Eric. L’importanza del background mitteleuropeo ècertamente rilevante nel percorso intellettuale di quest’ultimo: probabilmentedi più di quanto non lo sia la sua identità ebraica, che non sembrerebbe esse-re stata vissuta da lui in modo particolarmente intenso né, come è accaduto amolti altri, riscoperta in tarda età9. I suoi studi non riflettono un’attenzione

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7 Anni interessanti cit., p. 29.8 Fu al consolato britannico di Alessandra d’Egitto che Eric John Ernest fu registrato come

Hobsbawm: il cognome di suo padre era Hobsbaum (ivi, p. 18). 9 Le considerazioni più distese che Hobsbawm fa a proposito della propria identità ebraica

sono in Anni interessanti cit., pp. 35-39, dove tra l’altro ricorda di aver sempre cercato di atte-

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privilegiata alle tematiche che la riguardano. Arno Mayer, nella discussionedel Secolo breve che si è svolta a Roma nel 1998, è stato molto esplicito: «Iorimprovero Hobsbawm – ha scritto – come qualsiasi persona della sua e dellamia generazione con alle spalle un certo patrimonio di esperienze, per nonaver posto il “giudeocidio” al centro di questa epoca di catastrofe», e la con-statazione non è infondata10. L’autore del Secolo breve sembra interessato apresentare gli ebrei non tanto come vittime11, quanto come protagonisti dellavita culturale e politica del ’900, e in particolare della mobilitazione antifa-scista e della Resistenza. Di questa impostazione si coglie un riflesso già inun saggio del 1971, in cui, discutendo in un’ottica storica e comparativa dellaformazione dei giovani rivoluzionari francesi del maggio del 1968, Hob-sbawm si lascia andare ad alcuni commenti sulla sua “biografia sociale”. Di-chiara di vedersi come un sopravvissuto della «civiltà ebraica delle classi me-die dell’Europa centrale dopo la prima guerra mondiale». Il crollo dell’ordinesociale prebellico, la rivoluzione sovietica e il risorgente odio contro gli ebreilasciavano dietro di sé «soltanto catastrofe e problematica sopravvivenza: siviveva in un tempo preso a prestito e lo si sapeva». E aggiunge:

Che cosa erano diventati in queste circostanze dei giovani intellettuali ebrei? Noncerto liberali, giacché il mondo del liberalismo (che includeva la socialdemocrazia)era precisamente quello che era crollato. Come ebrei ci era preclusa per definizione lapossibilità di sostenere partiti che fossero fondati sull’osservanza confessionale o suun nazionalismo che escludesse gli ebrei e, in ambedue i casi, sull’antisemitismo. Di-

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nersi al principio che gli aveva insegnato sua madre: «Non devi mai far qualcosa né dare l’im-pressione di far qualcosa che lasci pensare che ti vergogni di essere ebreo»: un principio chedichiara di aver sempre cercato di osservare «benché alla luce del comportamento del governoisraeliano, la fatica di attenervisi sia a volte quasi intollerabile» (p. 39).

10 L’età degli estremi. Discutendo con Hobsbawm del Secolo breve, a cura di S. Pons, Ca-rocci, Roma 1998, p. 33. Per la verità, non è solo che la Shoah «non sia messa al centro» dellibro: nell’indice analitico del volume in inglese il lemma non è contemplato (mentre vi si tro-va quello Jews), e nella narrazione gli accenni sono molto asciutti e non frequentissimi: senon vado errato, quello più diretto e esplicito è fatto nel quadro del giudizio sulla secondaguerra mondiale come «guerra di ideologie» e anche «palesemente, una guerra per la vita»:«Il prezzo che gli sconfitti dovevano pagare al regime nazionalsocialista era la schiavitù e lamorte, come si dimostrò in Polonia e nelle parti dell’Urss occupate dai tedeschi e come con-fermò il destino degli ebrei, il cui sterminio sistematico venne lentamente alla luce di fronteagli occhi increduli del mondo» (Il secolo breve cit., p. 58). In tempi più recenti lo storico in-glese ha assunto, di fronte alla questione della perseguibilità penale del negazionismo (pro-cesso Irving-Lipstadt), una posizione talmente “oggettiva” da attirarsi accuse nemmeno trop-po velate di parzialità da parte dalla comunità ebraica. Si veda la sua lectio magistralis in oc-casione della laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Torino nel 2000, Giudiziostorico e giudizio politico, «L’Ateneo», notiziario dell’Università degli studi di Torino, 18,2001, pp. 67-70; per alcuni echi polemici, cfr. B. Gravagnuolo, Se il marxista Hobsbawmapre a Irving, «l’Unità», 30 marzo 2000 e N. Ajello, Gli storici contro Hobsbawm, «la Re-pubblica», 30 marzo 2000.

11 Concise ma efficacissime sono però le sue notazioni sull’antisemitismo ne Il secolo bre-ve cit., p. 147.

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venimmo comunisti, o una qualche forma equivalente di rivoluzionari marxisti, oppu-re – se sceglievamo una qualche forma di nazionalismo di sangue e terra – sionisti12.

Proprio per questo Hobsbawm, dopo aver frequentato gli ultimi anni discuola superiore alla St. Marylebone Grammar School di Londra, studia sto-ria nella Cambridge di Keynes e Sraffa ma, come racconta nella sua autobio-grafia, arriva al King’s College già «decisissimo a iscriversi al partito comu-nista e a tuffarsi nella politica». Diventa membro della segreteria della sezio-ne studentesca di Cambridge («fu la più alta carica politica che abbia mai oc-cupato», ricorda con ironia13): e si ritrova a lavorare con un gruppo di studen-ti indiani, il che lo rende sensibile alle tematiche di quello che si sarebbe poichiamato il Terzo Mondo: infatti il suo primo progetto di ricerca riguardava iproblemi agrari dell’Africa del Nord francese, quasi un presagio di quel«Journal of Peasant Studies» che avrebbe diretto insieme a Rodney Hilton edel cui primo numero avrebbe scritto nel 1973 l’editoriale14. Ma la guerra esei anni di servizio militare lo fanno rinunciare, e scegliere alla ripresa deglistudi una tesi di dottorato sulla Fabian Society. Un argomento, questo, cheperò abbandona abbastanza presto e che non sembra averlo appassionato, senon per la scoperta che lo porta a fare della Webb Collection nella Bibliotecadella London School of Economics15. È dalla Industrial Democracy deiWebb, e più ancora dalla meno nota trilogia di John e Barbara Hammond(The Village Labourer, The Town Labourer e The Skilled Labourer16) che haorigine il suo interesse per la storia della classe operaia britannica, il tema sucui pubblica i suoi primi articoli.

Il genere di labour history dominante quando Hobsbawm comincia ad oc-cuparsene era influenzato dall’approccio prevalentemente politico-istituziona-le degli stessi Webb e di G.D.H. Cole. Hobsbawm la piega piuttosto nel sen-so di quella che si chiamava la working class history, cioè una storia non li-mitata ai lavoratori organizzati e alle loro organizzazioni e gruppi dirigenti,ma centrata sulle esperienze materiali di vita delle classi lavoratrici. Come èovvio per l’opera di uno studioso che abbraccia un arco di anni così lungo, il

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12 Gli intellettuali e la lotta di classe, in I rivoluzionari, Einaudi, Torino 1975, pp. 303-04.Richiama l’attenzione su questo passaggio H.J. Kaye, The British Marxist Historians. An In-troductory Analysis, Basil Blackwell, Oxford 1984, pp. 132-34.

13 Anni interessanti cit., p. 130.14 Il mondo contadino avrebbe del resto occupato a lungo il campo degli interessi di

Hobsbawm: basti ricordare lo studio sui moti contadini inglesi del 1830, condotto insieme aGeorge Rudé nel 1959: Captain Swing: A Social History of the Great English AgriculturalUprising of 1830, Routledge and Keegan Paul, London 1982 (trad. it. Rivoluzione industrialee rivolta nelle campagne, pref. di G. Turi, Editori Riuniti, Roma 1973).

15 Tuttavia Hobsbawm avrebbe pubblicato nei primi anni ’60 un saggio di notevole interes-se sul tema: I fabiani: una nuova interpretazione, in Studi di storia del movimento operaio, Ei-naudi, Torino 1972, pp. 292-316.

16 The Village Labourer (1911), ed. by G.E. Mingay; The Town Labourer (1917), ed. by J.Lovell; The Skilled Labourer (1919), ed. by J. Rule, tutti pubblicati da Longman, London-NewYork 1979.

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modo di concepire labour history e social history non è rimasto in Hob-sbawm uguale a se stesso, ma si è andato facendo sempre più ricco e piùsfaccettato, mantenendo comunque una sua specificità e originalità. Nella tra-ma degli articoli della metà degli anni ’5017 si intravede ancora una decisaprevalenza della storia economica, con un’attenzione particolare per gli indiciquantitativi. Così in Labouring Men, una raccolta dei suoi più significativistudi sul tema scritti fra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’60, figura-no importanti e assai discussi contributi allo standard-of-living debate (perHobsbawm era indubbio e dimostrabile che il tenore di vita delle classi lavo-ratrici britanniche era, se non peggiorato, certo non migliorato durante la Ri-voluzione industriale e in conseguenza di questa). Troviamo però anche, oltrea diversi interventi su temi di storia sindacale, saggi su Tom Paine, sul luddi-smo, sul rapporto fra metodismo e sentimenti rivoluzionari all’inizio del XIXsecolo, sul tema della possibile relazione fra “aristocrazia operaia” e stabilitàsociale nell’età vittoriana, sulle tradizioni e i costumi delle classi lavoratriciin Inghilterra e in Francia e sul loro impatto sui rispettivi movimenti operai:una varietà di tematiche anticipatrici di contributi successivi, che testimonia-no la versatilità di Hobsbawm e sembrano confermare che, come è stato os-servato, le distanze prese da una labour history solo istituzionale o organizza-tiva non implicavano l’abbraccio di una storia senza politica18, quanto piutto-sto «una riconcettualizzazione della politica»19. Torneremo più avanti sul mo-do in cui queste intuizioni seminali saranno sviluppate negli anni ’70. Qui in-vece è necessario, anche per poter in seguito apprezzare l’originalità della po-sizione di Hobsbawm, cercare di capire come fosse entrato il marxismo nelprocesso di formazione del giovane studioso.

Gli studi storici a Cambridge non ne erano particolarmente influenzati.Hobsbawm ricorda un solo professore che gli abbia parlato di Marx: era Mi-chael (“Mounia”) Postan, un emigrato russo che insegnava storia economicae che certamente per il marxismo non aveva simpatia, ma almeno si confron-tava con le sue tesi a viso aperto. Dunque, come del resto era frequente per legenerazioni formatesi negli anni ’30, l’adesione alla lezione storica delmarxismo non era tanto la premessa dell’impegno politico, quanto la suaconseguenza. Dice Hobsbawm di sé e dei suoi compagni di studi, in modomolto sintetico ma efficace:

Ci accontentavamo di sapere che Marx ed Engels avevano raddrizzato la filosofiadi Hegel, senza preoccuparci di scoprire che cosa fosse mai ciò che avevano rimesso

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17 In particolare Il tenore di vita in Gran Bretagna nel periodo 1790-1850, La storia e “lediaboliche buie officine”, Postilla al dibattito sul tenore di vita, Fluttuazioni economiche emovimenti sociali dopo il 1800, raccolti nella traduzione italiana di Labouring Men, intitolataStudi di storia del movimento operaio, Einaudi, Torino 1972, pp. 76-185.

18 Sarebbe stata questa la critica espressa da T. Judt, A Clown in Regal Purple. Social Hi-story and the Historians, «History Workshop Journal», Spring 1979.

19 H.J. Kaye, The British Marxist Historians cit., p. 139.

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con i piedi per terra. Quel che rendeva il marxismo irresistibile era la sua portata uni-versale. Il “materialismo dialettico” forniva, se non una “teoria del tutto”, almenouna “struttura del tutto”, collegando la natura organica e inorganica con i fatti umani,collettivi e individuali e offrendo una guida alla natura di tutte le interazioni in unmondo in costante divenire20.

Il mestiere di storico lo apprende e lo affina, secondo quanto egli stesso hadiverse volte ricordato, più che da maestri accademici, in quella straordinariafucina intellettuale che fu il gruppo degli storici marxisti iscritti al Partito co-munista britannico, costituitosi nel 1946: Maurice Dobb, Christopher Hill,Rodney Hilton, Victor Kiernan, Edward P. Thompson. Per un decennio que-sto gruppo diede vita, per dirla con le sue stesse parole, a «qualcosa di similea un seminario permanente, nel quale tutti noi abbiamo appreso una quantitàenorme di cose e, per così dire, siamo cresciuti come storici senza aver cerca-to sistematicamente di farlo»21. L’impronta più significativa e duratura chequesta straordinaria comunità scientifica lasciò nel campo degli studi storicifu la fondazione, nel 1952, della rivista «Past & Present», di cui Hobsbawmfu co-fondatore, membro della direzione e per diversi anni assistant editor.Come ha messo bene in luce Geoff Eley, «Past & Present» fu «uno sforzoestremamente consapevole di preservare lo spazio per un dialogo con gli sto-rici non marxisti in un’epoca in cui la guerra fredda stava chiudendo semprepiù ogni contatto»22 e si distinse per la vasta rete di rapporti internazionaliche seppe intessere soprattutto con la storiografia europea, inclusa quella deipaesi di oltrecortina23.

Da allora e per sempre, l’attività di ricerca si è coniugata per lui stretta-mente con l’impegno politico militante. Quando avrebbe scritto, molti annipiù tardi, che «noi storici operiamo in quella zona grigia dove sull’indagine,e perfino sulla scelta, di ciò che è storia influisce costantemente chi siamonoi e che cosa vogliamo che avvenga o non avvenga»24, in realtà probabil-mente pensava a questo. Peraltro, come riconoscono anche i suoi critici, que-sto modo di intendere la sua funzione di storico, molto di rado ha rappresen-tato in modo diretto un condizionamento: semmai, è stata l’etichetta di stori-co militante a non rendere particolarmente facile la sua carriera accademica.

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20 Anni interessanti cit., p. 115.21 Una storia per «cambiare o almeno criticare il mondo». Intervista a Eric J. Hobsbawm,

a cura di A. Agosti, «Passato e presente», 16 (1998), n. 43, p. 95.22 G. Eley, A Crooked Line. From Cultural History to the History of the Society, The Uni-

versity of Michigan Press, Ann Arbor 2007, pp. 30-31.23 Sul ruolo di «Past & Present», nel cinquantenario della fondazione, Hobsbawm, che è

tuttora presidente della Past & Present Society, ha tenuto una conferenza ricca di notazioni au-tobiografiche e di riflessioni interessanti sulla svolta storiografica degli anni ’80: A Life in Hi-story, «Past & Present», 2002, n. 177. pp. 3-16. Per un quadro d’insieme cfr. H.J. Kaye, TheBritish Marxist Historians cit. e più di recente G. Gomez Bravo, The British Social History:Report of a Collective Contribution, «Historia y comunicación social», 2003, n. 8, pp. 119-37.

24 La storia è progredita? in De Historia, Rizzoli, Milano 1997, pp. 87-88.

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Impegno militante vuole dire per Hobsbawm appartenenza comunista: equesto, che è uno dei temi che solcano più a fondo le sue pagine autobiogra-fiche e che lascia una traccia particolarmente importante nel suo libro forsepiù noto, Il secolo breve, è un punto su cui merita di soffermarsi. Come siadiventato comunista e che tipo di comunista sia stato, Hobsbawm sente il bi-sogno di spiegarlo e raccontarlo distesamente e più volte.

I mesi passati a Berlino fecero di me – scrive in Anni interessanti – un comunistaa vita, o almeno un uomo la cui vita perderebbe la sua stessa natura e il suo signifi-cato senza il progetto politico a cui si è dedicato fin da scolaro, anche se quel proget-to è poi innegabilmente fallito e, come ora comprendo, era destinato a fallire. Il so-gno della rivoluzione d’ottobre è ancora da qualche parte dentro di me, come i testicancellati che attendono di essere ricuperati da un esperto in qualche parte dell’harddisk di un computer. L’ho abbandonato – anzi, l’ho rifiutato – ma non è stato oblite-rato […]. Appartengo alla generazione per la quale la rivoluzione d’ottobre rappre-sentò la speranza del mondo25.

Di questo DNA fanno parte l’internazionalismo («il nostro era un movi-mento per tutta l’umanità e non per qualche suo particolare settore»26) e la fi-ducia in una rivoluzione mondiale (anche se ricorda che «ciò che ci aspetta-vamo non era la drammaticità di un’insurrezione, bensì quella di una perse-cuzione»27, e il modello di riferimento a cui si ispirava era più il contegno diDimitrov al processo di Lipsia per l’incendio del Reichstag che l’assalto alPalazzo d’inverno). In effetti, del comunismo quello che lascia una tracciapiù profonda nella formazione della sua personalità è il motivo della lottacontro la minacciosa avanzata del fascismo nell’Europa degli anni ’30. Era ingioco – questo non cesserà mai di sostenere nelle sue riflessioni da storico suquel periodo, per esempio nel Secolo breve e anche in uno dei suoi saggi piùbelli, quello compreso nel secondo tomo del III volume della Storia delmarxismo, dedicato all’antifascismo degli intellettuali negli anni ’3028 – lasopravvivenza stessa di una civiltà imperniata sui valori dell’Illuminismo edelle tre grandi rivoluzioni (quella americana, quella francese e quella russa)che li avevano in vario modo fatti propri e declinati. La crisi europea dell’en-tre-deux-guerres non rappresenta retrospettivamente per Hobsbawm solo unperiodo di «trentun anni di guerra mondiale», ma anche una «guerra civile in-ternazionale». Lo storico inglese non esita dunque ad accettare un termine –quello di guerra civile europea – che è associato soprattutto all’opera di ErnstNolte: ma ne smonta con decisione la tesi centrale della “consequenzialità”del fascismo rispetto al bolscevismo. Da un lato riconduce le origini del fa-scismo a un brodo di cultura irrazionalistico che fermenta già ben prima della

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25 Anni interessanti cit., pp. 71-72.26 Ivi, p. 158.27 Ivi, p. 89.28 Gli intellettuali e l’antifascismo, in Storia del marxismo, vol. III, Il marxismo della Terza

Internazionale, t. 2, Dalla crisi del ’29 al XX Congresso, Einaudi, Torino 1981, pp. 443-90.

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guerra, e trae poi da questa la spinta decisiva. Dall’altro mostra come decisi-vi nel salto di qualità del fascismo siano state la crisi economica mondiale, ela coniugazione del suo sistema di valori e del suo modello di Stato con laforza economica e il ruolo geopolitico di una grande potenza come la Ger-mania. In modo più implicito ma altrettanto inequivocabile prende le distan-ze anche da un altro storico, François Furet, che nel suo libro uscito l’annodopo Il secolo breve29 sarebbe partito dallo stesso concetto di guerra civileeuropea per dipingere un quadro in cui si confrontano «due reazioni antilibe-rali, antinomiche ma in un certo senso parallele e gemelle, nelle quali eglivede gli attori della parentesi totalitaria che avrebbe perturbato il camminoinesorabile della civiltà occidentale verso la democrazia liberale»30: se perFuret l’antifascismo è un’idea «tutta negativa», «un’astuzia attraverso la qua-le il totalitarismo comunista ha esteso la propria influenza indossando i pan-ni di difensore della democrazia»31, per Hobsbawm è invece il cemento diuna nuova, più larga unità delle forze raccolte nello sforzo comune di difen-dere la democrazia rappresentativa e insieme di ripensarla in termini nuovi.Ed è questa la mobilitazione unitaria anche se alla fine effimera del Frontepopolare: una mobilitazione promossa soprattutto dalla guerra di Spagna esimboleggiata dal famoso discorso della Pasionaria al Vélodrome d’hivernel luglio 1936, cui Hobsbawm diciannovenne assiste riportandone un’im-pressione incancellabile32. La guerra di Spagna resta «la sola causapolitica – scriverà quasi sessant’anni dopo nel Secolo breve – che anche aconsiderarla retrospettivamente, mantiene la purezza e la cogenza ideale cheebbe nel 1936»33. Su questa doppia matrice – internazionalista e antifascista– della sua adesione mai rinnegata e anzi ancora orgogliosamente rivendicataal comunismo Hobsbawm scrive nella sua autobiografia pagine molto lucide;se sottolinea che il suo secondo aspetto «continua tutt’oggi a determinare ilsuo modo di pensare strategicamente alla politica», è anche consapevole diappartenere «alla generazione unita da un cordone ombelicale quasi inscindi-bile dalla speranza della rivoluzione mondiale e della sua sede originale, larivoluzione d’ottobre»34.

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29 Le passé d’une illusion. Essai sur l’idée communiste au XXème siècle, Laffont-CalmannLévy, Paris 2005.

30 E. Traverso, A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, il Mulino, Bologna2007, p. 34.

31 Ivi, p. 214.32 Data dagli anni del Fronte popolare un rapporto particolarmente intenso con la Francia e

la cultura francese, che Hobsbawm coltivò passando regolarmente le vacanze estive presso lozio paterno Sidney.

33 Il secolo breve cit., p. 193.34 Non sembra cogliere l’importanza di questo franco riconoscimento la recensione molto

critica che Tony Judt ha dedicato all’autobiografia di Hobsbawm: in cui lo accusa di «essereriuscito a dormire ignorando il terrore e la vergogna della nostra epoca», e di essere «un man-darino – un mandarino comunista – con la sicurezza e i pregiudizi della sua casta»: Eric Hob-sbawm e il fascino del comunismo, in T. Judt, L’età dell’oblio. Sulle rimozioni del ’900, trad.it. Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 122, 127.

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Spiega anche (ed è una spiegazione interessante, perché probabilmente puòestendersi a non pochi intellettuali inglesi della stessa generazione che aveva-no compiuto una scelta simile alla sua) come a rafforzare la sua identità co-munista quando la fede nella rivoluzione mondiale e nel modello sovieticomostrava i primi segni di incrinatura sia stata, più di ogni altra cosa, la cro-ciata mondiale dell’anticomunismo, la «retorica dei liberali della guerra fred-da, […] la loro convinzione che tutti i comunisti fossero semplicementeagenti del nemico sovietico e la loro conseguente negazione che un comuni-sta potesse essere un membro stimato della comunità intellettuale»35. Però,come già si è osservato, questo senso di appartenenza militante, mai venutomeno, solo di rado ha interferito direttamente con il lavoro di Hobsbawm co-me storico36. E d’altra parte a Hobsbawm è ben chiaro che, come dice in unapagina di Echi della Marsigliese spiegando il rapporto dello storico con lapolitica, «tutti noi, inevitabilmente, scriviamo del passato dentro la storia deinostri giorni e in un certo senso combattiamo le battaglie di oggi indossandocostumi d’epoca». Ma gli è altrettanto chiaro che non si può scrivere del pas-sato «soltanto da dentro la storia del [proprio] tempo», altrimenti si può giun-gere, «anche senza volerlo, a falsificare tanto il passato quanto il presente»37.

Evidentemente Hobsbawm ha avvertito questo rischio in modo molto fortee molto presto: tanto che, dopo essersi occupato in modo originale e innovati-vo di labour history per l’80038, per sua stessa ammissione il timore che lasua collocazione politica interferisse con la sua libertà di ricerca intellettualelo ha indotto ad astenersi a lungo da ogni incursione nella storia politica delmovimento operaio del ’900; e dell’esperienza del “socialismo realizzato” siè occupato solo – nel Secolo breve – dopo la sua fine.

Hobsbawm ha ammesso peraltro che la cesura del 1956 ha trasformato lasua identità di comunista in modo profondo. In Anni interessanti rievoca quelpunto di svolta con emozione ancora trasparente: «perfino dopo quasi mezzosecolo sento quasi un nodo in gola quando ricordo la tensione quasi intollera-bile nella quale vivemmo, mese dopo mese, gli interminabili momenti, primadi decidere che cosa dire e fare, da cui sembravano dipendere le nostre vitefuture, gli amici che si stringevano insieme o si affrontavano apertamente co-me avversari, la sensazione di rotolare, senza volerlo ma in modo irreversibi-le, lungo la china verso l’impatto finale»39.

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35 Anni interessanti cit., p. 242.36 Forse proprio nelle pagine dedicate alla guerra fredda nel Secolo breve si può cogliere

l’eco di un’interferenza di questo tipo: rinvio su questo alle mie osservazioni nella discussionea più a voci Il secolo breve, «Passato e presente», 14 (1996), n. 37, p. 17.

37 Echi della Marsigliese. Due secoli giudicano la Rivoluzione francese, Rizzoli, Milano1991, p. 11. Il saggio si presentava come «una difesa, e anche una spiegazione, della vecchiatradizione» della storiografia francese della Rivoluzione, associata dalle interpretazioni “revi-sioniste” al marxismo e in quanto tale rigettata. È uno degli scritti più vigorosamente polemicidi Hobsbawm.

38 Oltre a Labouring Men, ampiamente citato nelle pagine precedenti, cfr. Worlds of Labour.Further Studies in the History of Labour, con le traduzioni italiane citate alla nota 60.

39 Anni interessanti cit., pp. 229-30.

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Cambia da allora la natura della sua appartenenza al partito, che non è piùrinnovata da un vincolo formale40. Pur raramente protagonista di battaglie po-litiche (anche se significativamente alla fine degli anni ’70 mise impietosa-mente in luce l’inadeguatezza dell’Old Labour nel fronteggiare i profondicambiamenti economici e sociali41 in atto e nei primi anni ’80 si batté per con-trastare la deriva estremista da cui sentiva minacciato il Labour Party), Hob-sbawm diventa negli anni «una personalità che può parlare francamente, criti-camente, anche scetticamente ma senza pentirsi e non senza orgoglio a nomedi coloro che si schierano per una sinistra nella quale le vecchie distinzioni dipartito e di ortodossia non contano più». «In pratica – ci racconta nella suaautobiografia – mi riciclai, passando da militante a compagno di strada o sim-patizzante, o, per dirla in altri termini, da membro effettivo del partito comuni-sta britannico diventai una specie di membro spirituale del partito comunistaitaliano, che era molto più consono alla mia idea di comunismo»42.

Questa notazione permette di introdurre un altro tema che merita di esseretrattato: il rapporto di Hobsbawm con gli storici italiani. La sua frequentazio-ne del nostro paese risale al 1951, e segue un percorso significativo: Sraffa,da Cambridge, lo raccomanda a Cantimori, e attraverso quest’ultimo l’alloratrentaquattrenne storico inglese conosce due intellettuali prestigiosi del Pci:Ambrogio Donini ed Emilio Sereni. Di quest’ultimo e della sua straordinariaversatilità ed erudizione riporta un’impressione incancellabile: ma sembrache sia venuto dal primo, storico delle religioni, l’input a studiare le formedel ribellismo primitivo, di stampo spesso millenaristico43, che suscitano suHobsbawm un grande fascino e gli fanno scrivere uno dei suoi libri più im-portanti, I ribelli. Con un percorso poi ripreso con Captain Swing, il libroscritto nel 1969 insieme a George Rudé che avrebbe affrontato l’ondata di

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40 È da notare che comunque Hobsbawm conservò la tessera del partito, e la restituì solodue anni prima della dissoluzione del CPGB nel 1991; ma soprattutto non respinse mai la qua-lifica di «comunista». In questo, la sua posizione nel gruppo degli storici fu simile a quella diMaurice Dobb e Victor Kiernan, differenziandosi invece da quella di più netta rottura di Rod-ney Hilton, Christopher Hill e soprattutto Edward P. Thompson.

41 Il suo scritto più significativo al riguardo è The Forward March of Labour Halted, il te-sto della sua Marx Memorial Lecture del 1978 che diede il titolo a una raccolta di scritti: TheForward March of Labour halted?, ed. by M. Jacques and F. Mulhern, Nlb, London 1981.

42 Anni interessanti cit., p. 241.43 «Mi sembrava di aver scoperto in Italia un fenomeno che trovavo politicamente e intel-

lettualmente molto stimolante, e che era in gran parte documentato: la coesistenza, nella sini-stra, di gente che vi era arrivata su presupposti politici tipici del XX secolo e, allo stesso tem-po, su basi molto più antiche, finanche cinquecentesche: uno strano miscuglio fra Lenin e Lu-tero. Ciò che all’inizio mi interessò al soggetto fu un episodio che mi aveva raccontato Am-brogio Donini: mi disse che il Pci aveva avuto alcune difficoltà nel biennio 1949-50, durantele battaglie che si accesero in quel periodo nel Sud, perché nelle nuove sezioni del partito trop-po spesso i congressi sceglievano dei testimoni di Geova come segretari. Perché, in qualchemodo, la rivolta contro i proprietari terrieri e la rivolta contro la Chiesa e il clericalismo, sierano fuse spesso in un’unica reazione politica» (Intervista sul nuovo secolo, a cura di A. Poli-to, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 132).

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protesta contadina che sconvolse l’Inghilterra meridionale e orientale nel183044, egli apre la strada «a un dialogo straordinariamente lungo e duraturofra storia e antropologia. Contribuisce a ridefinire il modo in cui la politicapuò essere pensata in società prive di una costituzione democratica, del pri-mato della legge o di un sistema parlamentare sviluppato»45.

Anche l’interesse per questo tema poteva forse essere nato a contatto conChristopher Hill, nella discussione che coinvolse certamente gli storici del“seminario permanente” a proposito degli studi di Hill sui levellers e sulleforme di religiosità ultraradicale dell’Inghilterra del ’600. Il tramite fra que-sto tipo di tematiche e certe loro declinazioni specificamente italiane è vero-similmente fornito dalle pagine di Gramsci sulla questione meridionale e sul-le classi subalterne, da cui Hobsbawm dice di essere stato molto colpito; macon la storiografia marxista italiana di quegli anni il suo rapporto è basato piùsu frequentazioni e amicizie personali che su affinità di approccio metodolo-gico46. Dalla storiografia molto politica che si praticava allora nel nostro pae-se Hobsbawm non è molto attratto: è assai più presente in lui l’interesse perla scuola francese delle Annales, con cui è entrato direttamente in contattol’anno precedente, nel 1950, a Parigi. L’influenza di questa scuola fu notevo-le sugli storici marxisti inglesi, anche se mediata da un maggiore empirismoe dalla diffidenza per una categorizzazione alle volte troppo astratta. Hob-sbawm ha sempre rivendicato l’importanza di questo rapporto. Ha ricordatoche quando Marc Bloch venne a parlare a Cambridge negli anni ’30 – quelliin cui lui ci studiava – «tutti avemmo la netta sensazione di assistere a ungrande evento»47. E ha anche ricordato che più tardi gli storici marxisti rite-nevano che «l’unica branca della storia ufficiale che avesse senso per loro, oalmeno che potessero utilizzare, era la storia economica, o almeno la storiaeconomica e sociale»48. È interessante notare che l’incontro avvenne soprat-tutto – secondo quanto Hobsbawm ricorda – nel corso del dibattito sui Pro-

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44 Il libro fu tradotto in italiano con il titolo Rivoluzione industriale e rivolta nella campa-gne cit.

45 G. Eley, A Crooked Line cit., p. 30.46 Bisognerebbe però trattare più diffusamente di quanto non sia possibile in queste pagi-

ne il tema più generale dell’influenza che Gramsci ha su Hobsbawm e della lettura che que-st’ultimo fa del suo pensiero: per una prima approssimazione cfr. almeno il suo intervento alconvegno internazionale di studi gramsciani del 1957, Gramsci e la teoria politica marxista,in Istituto Gramsci, Politica e storia in Gramsci, v. II, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 37-51; e, su tutt’altro piano, la commovente videoregistrazione del messaggio ad Antonio “Ni-no” Gramsci, Londra, 20 marzo 2007, curata da G. Baratta, visibile ad es. in www.it.netlog.com/people/videos/videoid=it-3588479. Da sottolineare anche che al ricordato saggioEchi della Marsigliese Hobsbawm faccia seguire sei pagine di Gramsci sul giacobinismotratte dai Quaderni del carcere.

47 La storiografia inglese e le Annales: una nota, in De Historia cit., p. 213. L’enfasi diquesta affermazione, che risale al 1978, è però ridimensionata in Anni interessanti: «Non ri-cordo nulla, ahimè, della sua lezione, se non l’immagine di un uomo piccolo e tozzo» (p. 213).

48 La storiografia inglese e le Annales cit., p. 213.

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blemi di storia del capitalismo di Maurice Dobb49, e cioè sulla valutazione dadare sul periodo fra la fine del XV e la fine del XVIII secolo e sul suo signi-ficato sullo sviluppo dell’economia del mondo moderno50.

Il rapporto intellettuale con l’Italia però non si interruppe mai, e riprese vi-gorosamente negli anni ’70, nella stagione forse più felice della storiografiadi area comunista: riprese, forse non è inutile sottolinearlo, sul terreno prefe-rito da quest’ultima, quello di una storiografia divenuta più aperta alla storiasociale e culturale, ma ancora saldamente ancorata al terreno dei movimentipolitici. Ne resta una traccia importante nella Storia del marxismo einaudia-na, alla quale Hobsbawm collaborò con grande impegno fianco a fianco conCorrado Vivanti ed Ernesto Ragionieri51.

In Italia Hobsbawm aveva cominciato ad essere conosciuto nel 1963, quan-do la casa editrice Il Saggiatore, che aveva opzionato la composita collanaWorld Histories of Civilization (presentata in italiano con il titolo «Il Portola-no»), pubblicò Le rivoluzioni borghesi, peraltro accolto nel silenzio più assolu-to della cultura accademica italiana. Alcuni suoi saggi erano già stati ospitaticon rilievo dalla «Rivista storica del socialismo», da «Società» e da «Studi sto-rici»52; ma forse il suo lavoro che ebbe più successo fu il già citato I ribelli,scritto nel 1959 e tradotto nel 1966. Il libro interessò probabilmente il lettoreitaliano sia perché affrontava temi di storia della penisola (il messianismo diDavide Lazzaretti e dei minatori dell’Amiata, la mafia come espressione diprotesta sociale) sia perché, dimostrandosi capace di far interagire categorieanalitiche di altre scienze sociali (in questo caso soprattutto l’etnologia e l’an-tropologia) con la ricostruzione degli avvenimenti storici, intercettava una di-scussione che si era aperta nella cultura di sinistra italiana sulla scia degli studidi Ernesto De Martino. Più in generale, come è stato osservato, esso affascinòper «alcune delle ricche implicazioni metodologiche proprie dell’accostamentofra situazioni ed epoche apparentemente lontane, ma accomunate dalla brusca,forzata penetrazione del capitalismo»: un tema avviato «a divenire patrimoniodi un numero considerevole di studenti e di intellettuali italiani»53.

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49 Cfr. infra nota 77. Di Dobb Hobsbawm traccia un bel ritratto in C.H. Feinstein (ed.), So-cialism, Capitalism and Economic Growth. Essays presented to Maurice Dobb, CambridgeUP, London 1967.

50 La storiografia inglese e le Annales cit., p. 215.51 Molto notevole fu l’attrazione che su Hobsbawm esercitò la stagione dell’eurocomuni-

smo, soprattutto quello italiano. Ne resta una traccia particolare nell’intervista che fece nel1975 a Giorgio Napolitano, probabilmente il dirigente del Pci a cui è stato più legato sul pianodell’amicizia personale: G. Napolitano, Intervista sul Pci, a cura di E.J. Hobsbawm, Laterza,Roma-Bari 1975. Per un commento molto positivo di Hobsbawm all’elezione di Napolitano aPresidente della Repubblica cfr. E. Franceschini, Intervista a Eric Hobsbawm su Giorgio Na-politano, «la Repubblica», 11 maggio 2006.

52 Peraltro Hobsbawm era già noto ai circoli intellettuali vicini alla sinistra marxista attra-verso il suo breve intervento al primo convegno di studi gramsciani, tenutosi a Roma nel1957, i cui atti furono pubblicati dagli Editori Riuniti l’anno dopo.

53 Così E. Menduni, Fra storia sociale e storia della società. Eric Hobsbawm, «Studi stori-ci», 1973, n. 3, pp. 681-98, che traccia un resoconto molto puntuale della “fortuna” di Hob-sbawm in Italia, e più in generale un suo esauriente profilo come storico fino al 1973.

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Ma probabilmente il lavoro di Hobsbawm che lasciò un’impronta vera-mente duratura sul dibattito storiografico italiano fu un breve ma densissimoarticolo che fu pubblicato da «Quaderni storici» nel 1973 con il titolo Dallastoria sociale alla storia della società, e che era uscito in inglese nel 1970.D’altra parte questo saggio ha impresso una traccia profonda anche sulla for-mazione di un’intera generazione di storici inglesi e americani: basti vedere,per esempio, la frequenza con cui lo cita Geoff Eley nella sua recente auto-biografia intellettuale54. Il saggio prendeva di fatto le distanze da due tenden-ze storiografiche che si erano a lungo e fecondamente intrecciate con il lavo-ro di Hobsbawm. Da una parte confermava un entusiasmo meno che tiepidoper il riorientamento impresso alla labour history e alla social history daglisviluppi che erano seguiti a The Making of the English Working Class diThompson55. Il grande libro dello storico di Oxford aveva trattato molti temigià anticipati dalla ricerca di Hobsbawm, e in un buona parte in piena sinto-nia con lui: e tuttavia, per dirla con Geoff Eley, aveva «schiuso la via alleambiguità e alle complessità della storia culturale»56, esercitando una forteinfluenza su una nuova generazione di studiosi che di quell’opera avrebberocolto più le affinità con i lavori pionieristici di Hoggart e Williams che conl’autore di Primitive Rebels57. Dall’altro Hobsbawm criticava implicitamentela scuola delle Annales (soprattutto dai suoi sviluppi in quegli anni) e mette-va in discussione la tendenza a «trasformare la storia sociale in una proiezio-ne retrospettiva della sociologia»: «la storia della società è storia – scriveva –cioè ha tra le sue dimensioni quella del tempo cronologico reale. […] la sto-ria della società risulta […] dalla collaborazione fra modelli generali dellastruttura e del mutamento sociale e l’insieme specifico di fenomeni effettiva-mente avvenuti»58. Hobsbawm tracciava una sorta di mappa che a distanza dimolti anni conserva ancora quasi intatta la sua capacità di orientare la ricerca,individuando come terreni di approfondimento interdisciplinare questi temi o

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54 The Crooked Line cit., ad es. pp. 11 e 26.55 Hobsbawm non ha certo lesinato apprezzamenti al libro di Thompson, salutandolo fin dal

suo apparire come «una pietra miliare nella storia della classe operaia inglese», ma qualchefrecciata non l’ha risparmiata, per esempio per il suo «markedly if not professionally sociolo-gical approach» o la sua «romantic sympathy with the defetaed heroes of its story». Nella re-censione che gli dedicò appena uscito, da cui sono tratte queste citazioni (apparsa sul «NewStatesman» del 29 novembre 1963 con il titolo Organized Orphans) lo giudicava «excessivilylong without actually being comprehensive», e, ancora molti anni dopo, non avrebbe mancatodi notare, in un ritratto di Thompson ricco di simpatia umana, che «la natura aveva omesso difornirgli un redattore e una bussola incorporata» (Anni interessanti cit., p. 239).

56 The Crooked Line cit., p. 56.57 Il riferimento è a R. Hoggart, Uses of Literacy. Aspects of Working-Class Life, with Spe-

cial Reference to Publications and Entertainments, Chatto & Windus, London 1957 e a R.Wil-liams, Culture and Society 1780-1950, Hogarth Press, London 1958 (trad. it. Cultura e rivolu-zione industriale in Inghilterra, Einaudi, Torino 1968). La trattazione più approfondita di que-sto complesso intreccio è nell’eccellente libro di D. Dworkin, Cultural Marxism in Post-warBritain. History, the New Left and the Origins of Cultural Studies, Duke UP, Durham 1997.

58 Il saggio è ora tra quelli raccolti in De Historia cit. La citazione è tratta da p. 98.

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complessi di questioni: demografia e relazioni di parentela, studi urbani, clas-si e gruppi sociali, storia delle mentalità e della cultura in senso antropologi-co, trasformazioni delle società (mutamenti/permanenze, modernizzazione,industrializzazione), movimenti e sociali e fenomeni di protesta sociale. Daallora, nella sua più che quarantennale opera di storico, Hobsbawm ha scrittomoltissimi libri e un numero sterminato di saggi che hanno sempre tenutoferma questa chiave interpretativa, pur spaziando in campi molto diversi. Si èmosso spesso ai confini tra storia sociale, antropologia e sociologia. Ha af-frontato tematiche come quelle del rapporto tra religione, secolarizzazionedella società e cultura del movimento operaio; oppure della trasformazionenell’arco di oltre un secolo dei suoi rituali e della sua iconografia. Si è con-frontato con il complesso intreccio tra coscienza di classe e coscienza di ap-partenenza a una nazione, e con il rapporto tra esistenza sociale e coscienzain casi tanto lontani tra loro come quelli dei contadini degli altipiani peruvia-ni e dei calzolai inglesi e tedeschi fra ’700 e ’800. In questo straordinario ca-leidoscopio di tematiche, è sempre stata presente la “storia dal basso”59, masenza le accentuazioni radicali e marcatamente ideologiche che l’hanno con-notata in molta storia sociale degli anni ’70.

Vale forse la pena di fermarsi un momento su uno dei più significativi diquesti contributi, anche perché sembra proiettare in modo esemplare proprionella labour history quel mutamento di orizzonte (dalla storia sociale alla sto-ria della società) che Hobsbawm aveva teorizzato all’inizio degli anni ’70. Èil saggio intitolato The Making of the Working Class 1870-191460, che impli-ca già nella periodizzazione una presa di distanza dall’interpretazionedell’omonimo celebre libro di Thompson. Riconosce, certo, sulla scia diThompson, che molti elementi di quelli che sarebbero stati più tardi stili divita, culture e movimenti delle classi lavoratrici britanniche risalgono allaprima fase della Rivoluzione industriale. Ma ritiene che di formazione di«un’unica classe operaia, votata a un unico destino nonostante le differenzeal suo interno» non si possa parlare prima della fine degli anni ’70 del XIXsecolo. E mette in evidenza in tutta la loro importanza le radici economichedi questo processo di formazione: il delinearsi di un modello industriale rela-tivamente uniforme in tutta la Gran Bretagna, il carattere sempre più naziona-le e non più circoscrivibile ad aree geografiche separate delle fluttuazionidell’economia, la crescita numerica del proletariato industriale come mercato

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59 Cfr. il saggio del 1985 in onore di G. Rudé, La storia dal basso, ivi, pp. 237-53.60 Esso apparve per la prima volta in Worlds of Labour. Further Studies in the History of

Labour, Weidenfeld & Nicholson, London 1984. Il volume ebbe un’edizione italiana due annidopo: Lavoro, cultura e mentalità collettive nella società industriale, Laterza, Roma-Bari1986, e poi 1990. Alcuni dei saggi sono stati riproposti nel 1998 in Uncommon People, NewPress 1998 (trad. it. Gente non comune, Rizzoli, Milano 2000). In Gente non comune il titolodel saggio è tradotto in modo palesemente inesatto La produzione della classe operaia, mentrein Lavoro, cultura e mentalità collettive suonava La creazione della classe operaia: in nessunodei due casi si può cogliere il riferimento al libro di Thompson, la cui discussione costituisce ilnucleo del saggio.

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potenziale, il forte aumento dei salari reali medi durante un periodo di costodella vita rapidamente decrescente, la modificazione della composizione pro-fessionale della classe operaia e la sua stratificazione. Attribuisce però parti-colare rilievo anche ai fattori di coscienza e di cultura. Respinge come deltutto sbagliata l’immagine accreditata da alcuni storici di una classe operaiacome «una sorta di sottosuolo passivo e qualunquista […] o come un immen-so ghetto comprendente gran parte della nazione, o al più come una forza ca-pace di mobilitarsi solo in difesa di interessi economici più o meno corporati-vi»61. Vede affermarsi soprattutto dopo il 1890 una forte coscienza di classenelle aree urbane, non identificabile però semplicemente con quella delleavanguardie di attivisti e militanti socialisti. I caratteri fondamentali di questaemergente coscienza di classe sono un profondo senso della separatezza dellavoro manuale, un codice non formulato ma molto forte basato sulla solida-rietà, la «lealtà», il mutuo aiuto e la cooperazione; e si accompagnano allaformazione di modelli di comportamento, di abitudini e di stili di vita suiquali Hobsbawm proietta rapidi ma efficaci squarci di luce: l’affermarsi delfootball come uno sport proletario di massa, lo sviluppo di un luogo di va-canza frequentato quasi esclusivamente dai lavoratori e dalle loro famigliecome Blackpool, la diffusione degli spacci di fish and chips, e persino l’ado-zione dell’«inconfondibile copricapo» del proletariato britannico, il berrettinoreso poi celebre dalle vignette di Andy Capp degli anni ’60.

Come pochi altri questo saggio permette di vedere di che pasta sia fatto ilmarxismo di Hobsbawm: in particolare quanto rifugga dal determinismo eco-nomico e dalle spiegazioni monocausali. La questione può apparire oggi re-lativamente secondaria, ma in realtà fu al centro della discussione sull’operadello storico britannico almeno fino a quando il grande successo di pubblicoarriso al Secolo breve non spostò l’interesse dai temi metodologici al meritodella sua interpretazione della storia del ’900. I curatori del primo volume disaggi in onore di Hobsbawm apparso nel 1983, Raphael Samuel e GarethStedman Jones, pur sottolineando nella loro premessa la sua capacità di «te-nere insieme, in una rete virtualmente senza cuciture, le proposizioni delmarxismo classico e le preoccupazioni empiriche degli storici sociali ed eco-nomici», scrivevano che l’approccio di Hobsbawm al vecchio problema delrapporto fra base e sovrastruttura era brillante e illuminante, ma rimaneva inultima analisi un approccio «marxista ortodosso»62. Creating a Marxist Hi-storiography: the Contribution of Eric J. Hobsbawm si intitolava un densosaggio pubblicato da James Cronin nel 1979, nel quale l’autore, pur prodigodi elogi nei confronti dello storico inglese, sembrava deluso che egli «avessedetto assai poco sui fondamenti concettuali della sua opera, o sulle sue im-plicazioni per la teoria marxista»63; e un saggio molto bello e altrettanto elo-

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61 Traggo le citazioni dalla traduzione di Gente non comune cit., p. 101.62 Culture, Ideology and Politics. Essays for Eric Hobsbawm, Routledge, London 1982, p.

IX.63 «Radical History», winter 1978-1979, p. 95.

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giativo di Eugene Genovese del 1984, individuando nell’opera di Hobsbawm«una possente difesa del materialismo storico», ammetteva le difficoltà dietichettarlo in maniera rigida e finiva argutamente per assimilare al suo «unmarxismo che ha spazio tanto per San Tommaso d’Aquino quanto per Sig-mund Freud»64. Il principale interessato, come notava lo stesso Genovese,sembrava relativamente indifferente a questa querelle. Egli ribadiva, in unalezione tenuta nel 1983 nel centenario della morte di Marx, di non aver maimesso in discussione che «l’analisi di qualsiasi società, in qualsiasi momentodel suo sviluppo storico, deve cominciare dal suo modo di produzione», nécessato di sostenere che «il concetto di struttura e sovrastruttura sia essenzia-le per definire un insieme di priorità analitiche»65. Ma non perdeva occasionedi rimarcare le sue distanze da una concezione del marxismo come determi-nismo economico: continuava a sottolineare che «la “base” consiste non nel-la tecnologia o nell’economia, ma nella “totalità di queste relazioni di produ-zione”, ovvero nell’organizzazione sociale intesa nel suo senso più ampio inrelazione a un livello dato delle forze materiali della produzione»66. Inoltre,tanto nei suoi scritti di metodologia quanto nei suoi studi storici, ribadivache là dove le classi esistono si sviluppano in relazione l’una all’altra e cometotalità: «la classe non può essere ridotta a un singolo aspetto di questa rela-zione, nemmeno a quello economico. In breve, essa implica l’intera so-cietà»67. Ancora molti anni dopo, senza proclami altisonanti ma in modomolto chiaro, Hobsbawm avrebbe riproposto il marxismo come canone di in-terpretazione storica ancora valido almeno per due ragioni: perché esso inse-gna che il presente non è il punto di approdo finale della storia, e perché dàgli strumenti per analizzare i modi in cui «un particolare sistema sociale ge-nera, o fallisce nel generare, le forze del cambiamento»68. «Ritengo che lacosa più interessante del mio libro – affermava a conclusione della discussio-ne svoltasi a Roma su Il secolo breve – consista nel tentativo di spiegare per-ché le previsioni di Marx, del Marx del 1848, si siano rivelate così vicino al-la realtà nella seconda metà del XX secolo»69. Certo, il suo è un marxismo

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64 E. Genovese, The Politics of Class Struggle in the History of the Society: an Appraisal ofthe Work of Eric Hobsbawm, in The Power of the Past. Essays for Eric Hobsbawm, ed. by P.Thane, G. Crossick and R. Floud, Cambridge UP, London 1984, p. 31.

65 Marx e la storia, in De Historia cit., pp. 194-95. Con lo stesso titolo Hobsbawm firmavaun editoriale (più sintetico ma non meno stimolante nell’argomentazione) per il n. 3 di «Passa-to e presente», 2 (1983), pp. 3-11.

66 Cosa devono gli storici a Karl Marx, in De Historia cit., p. 186, n. 10.67 Economic and Social History Divided, «New Society», 11 luglio 1974, cit. da H.J. Kaye,

The British Marxist Historians cit., p. 282.68 Una storia per «cambiare o almeno per criticare il mondo» cit., p. 107.69 L’età degli estremi cit., p. 122. Nella sua autobiografia, con il tocco di ironia che gli è

abituale, ha affermato: «Non mi dispiace neppure ora di essere indicato come “Hobsbawm, lostorico marxista”, etichetta che tutt’oggi mi porto intorno al collo, quasi fossi una di quelle ca-raffe dei vari liquori che, dopo cena, vengono degustati nelle sale di ritrovo dei college e cherecano l’etichetta per evitare che i professori confondano il porto con lo sherry. Anche oggi ènecessario richiamare l’attenzione dei giovani storici sulla concezione materialistica della sto-

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molto “laico”, problematico, arricchito a quel punto da ulteriori motivi di di-sincanto dettati dall’analisi impietosa della parabola dei sistemi socialisti edelle ragioni del loro crollo. Soprattutto è un marxismo “aperto”: da moltotempo Hobsbawm sostiene che la storiografia marxista non sia e non possaessere isolata dal resto del pensiero e della ricerca storica: il marxismo, os-servava già nella citata conferenza del 1983, aveva talmente trasformato lastoriografia internazionale che ormai era spesso impossibile dire se un’operaparticolare fosse stata scritta da un marxista o da un non marxista. Non se nerammaricava; anzi si augurava «un giorno [in cui] nessuno chiedesse più seun autore è marxista o meno, perché allora i marxisti sarebbero pienamentesoddisfatti della trasformazione della storia prodotta dalle idee di Marx»70.Chi legga oggi un libro di grande respiro e grande fascino, in cui il dialogocon Hobsbawm è costantemente presente, come La nascita del mondo mo-derno di Chistopher Bayly, non può non essere colpito dal fatto che almenonelle ricostruzioni storiche di lungo periodo e ampio orizzonte geografico ilsuo auspicio si è in buona parte avverato.

Senza dubbio lo stesso Hobsbawm ha dato un decisivo contributo in que-sto senso con le sue grandi storie di sintesi del mondo contemporaneo, attra-verso le quali è arrivato ad affermarsi come uno dei maggiori storici del no-stro tempo. È ovviamente impossibile, nello spazio di un breve profilo comequesto, trattare in modo adeguato di questa parte della sua opera. Si può almassimo cercare di estrapolarne alcuni dei tratti più significativi, senza di-menticare che i quattro volumi accomunati nei titoli in inglese dal termineAge (The Age of Revolution, The Age of Capital, The Age of Empires, e infineThe Age of Extremes, più noto al lettore italiano con il suo sottotitolo TheShort Twentieth Century) non sono stati fin dall’inizio concepiti come unprogetto unitario, ma hanno avuto un’origine quasi casuale, per poi assumerenei primi tre, con maggiore consapevolezza dell’autore, la forma generale diuno studio del “lungo ’800” nel quadro della storia mondiale, ed essere allafine completati da un volume che per alcuni aspetti differisce dai precedenti,non fosse altro perché abbraccia un periodo assai più lungo. Il fascino forsemaggiore di questi libri – nessuno escluso – risiede nell’ampiezza del respirocronologico e degli orizzonti geografici della narrazione, che restituisce sem-pre affreschi ricchi di contrasti e di chiaroscuri e che rivela nuovi particolariogni volta che li si osservi. Molti studiosi che li hanno analizzati nel loro in-sieme concordano nel cogliere nella trattazione di ciascun periodo uno studiodi developing totalities, in cui «l’economia politica e i rapporti e le lotte diclasse del capitalismo industrializzato o in via di industrializzazione determi-nano, strutturano o conformano i rispettivi sviluppi, inclusi quelli delle scien-

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ria: forse, ciò è ancora più necessario di ieri, visto che oggi anche le mode accademiche di si-nistra liquidano quella concezione come nei giorni in cui veniva condannata come propagandatotalitaria» (Anni interessanti cit., p. 334).

70 Marx e la storia cit., p. 202.

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ze, delle idee, delle religioni e delle arti»71. Tra le ragioni che incoraggiano illettore comune ad accostarsi ai libri di Hobsbawm sta infatti, quasi certamen-te, l’interesse per tematiche solitamente estranee alle competenze di storicinon specialisti. In ciascuno dei quattro volumi delle Ages almeno due capitolisono dedicati agli sviluppi delle religioni, delle ideologie, delle scienze e del-le arti, visti in stretto rapporto con l’evoluzione della società e delle mentalitàcollettive. In Age of Revolution, per esempio, si possono leggere pagine ma-gistrali sull’influenza del romanticismo sulle arti, compendiate nell’afferma-zione che «se dovessimo riassumere in una sola frase […] il rapporto esisten-te fra l’artista e la società di quel tempo, potremmo dire che la Rivoluzionefrancese lo ispirava col suo esempio, la Rivoluzione industriale col suo orro-re, mentre la società borghese che scaturiva dall’una e dall’altra trasformavala sua stessa esistenza e i suoi metodi creativi»72. Ed è difficile riassumere latendenza delle scienze nell’età del «trionfo della borghesia» con altrettantaefficacia di quella che Hobsbawm mostra in Age of Capital: un’epoca che ge-nera una borghesia tanto sicura di se stessa e tanto piena di successo che isuoi parametri scientifici sono incapaci di oltrepassare i confini di determina-te concezioni del mondo fisico73; così come è esemplarmente illustrato inAge of Extremes il singolare paradosso – che già aveva colpito Nicola Galle-rano – «di un’epoca che, attraversata dal più rapido e rivoluzionario progres-so delle scienze “dure” fino ad ora conosciuto, vi reagisce con un atteggia-mento diffuso di irrazionalismo e di diffidenza, quando non di (contradditto-rio) rifiuto del “progresso scientifico” delle cui realizzazioni peraltro quoti-dianamente si avvale»74.

Capace di spaziare nel tempo e negli orizzonti disciplinari con una fluiditàe ricchezza di riferimenti sorprendenti in chi tende a considerarsi soprattuttouno storico del “lungo ’800”, Hobsbawm si muove con uguale disinvoltura inun orizzonte geografico amplissimo. Non vi è passaggio del suo ragionamen-to che non si appoggi su una calzante evocazione dell’esempio concreto, delcaso specifico, con una straordinaria abbondanza di informazioni circostan-ziate che spaziano su tutto l’ambito temporale e su tutti i possibili luoghigeografici della storia degli ultimi duecentocinquant’anni: senza compiaci-mento né ostentazione erudita. Non vi è di conseguenza capitolo, non vi èpraticamente pagina in cui lettore non trovi stimoli per nuove idee e nuove ri-flessioni. Molto prima che il termine «globalizzazione» inflazionasse il lessi-co politico e storiografico, l’approccio di Hobsbawm rivelava già una scelta

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71 H.J. Kaye, The British Marxist Historians cit., 159. A sua volta J. Cronin rileva: «l’interaopera di Hobsbawm rappresenta un riconoscimento implicito della necessità di sistemare lamateria attraverso ricerche concrete, empiriche dell’effettiva relazione tra i differenti livellidella totalità» (Creating a Marxist Historiography cit.).

72 Le rivoluzioni borghesi 1789-1848, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 354.73 J. Cronin, Creating a Marxist Historiography cit., p. 99.74 Intervento di N. Gallerano nella discussione su Il secolo breve, «Passato e presente» cit.,

p. 20.

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precisa: le grandi trasformazioni del mondo moderno erano da lui lette nellachiave dell’interdipendenza tra la civiltà europea e atlantica e quelle degli al-tri continenti. I suoi libri realizzano in modo esemplare la fusione traun’informazione puntuale e rigorosa sulle ricerche condotte per lunghi annisu aspetti particolari e l’analisi dei grandi problemi e degli svolgimenti gene-rali. Si resta sempre stupiti nel vedere quale sterminata massa di letture – enon solo storiche, ma sociologiche, economiche e antropologiche – sia capa-ce di dominare e di mettere a frutto nelle pagine che dedica ai paesi non ap-partenenti al centro motore dello sviluppo del capitalismo, il quale pure restal’oggetto primo della sua indagine: l’India e il Brasile, il Perù e la Malesia, ilMessico e l’Egitto.

Qui sta forse uno dei tratti più originali della sua personalità intellettuale edella sua lezione storiografica, che ci è restituito da una sua osservazione nel-le pagine conclusive dell’autobiografia: il fatto di essersi sentito per tutta lavita «qualcuno che non appartiene mai interamente al posto dove si trova» èstato da lui trasformato in un valore aggiunto per la sua professione: «Per de-dicarsi alla storia è indispensabile la mobilità, la capacità di osservare edesplorare un vasto territorio, ossia la capacità di abbandonare il luogo delleproprie radici […]. L’anacronismo e il provincialismo sono i due peccatimortali della storia, entrambi dovuti a una completa ignoranza di come stan-no le cose altrove»75.

Si potrebbe dire che il primo antidoto che Hobsbawm oppone all’anacro-nismo è la sua straordinaria capacità di periodizzare la storia. La storia degliultimi due secoli è stata ridisegnata da lui, con squarci narrativi di grandesuggestione, nelle sue scansioni e nelle sue periodizzazioni. I titoli dei suoilibri sono diventati di fatto altrettante definizioni correnti nel dibattito storio-grafico. La sua capacità di concettualizzare e insieme sintetizzare, di stabilirenessi fra i fenomeni più diversi e di interpretarli, resta uno dei suoi tratti piùoriginali di storico76. Come distinguere un’epoca storica da un’altra, e all’in-terno di ciascuna delle fasi significative? Quando e come un’epoca trapassain un’altra? Qual è il ruolo delle rivoluzioni e delle crisi in questo trapasso?Come distinguere i cambiamenti quantitativi da quelli qualitativi, tra eventi eprocessi di trasformazione strutturali di lungo termine, e come reintegrarli inun più ampio livello di sintesi? Hobsbawm si è confrontato con questo pro-blema fin dall’inizio degli anni ’5077 e se c’è un filo conduttore nella suaopera è lo sforzo di afferrare la dinamica della storia, di scavare sotto la su-perficie degli eventi per cogliere le trasformazioni più profonde e per metter-ne in luce le connessioni. Questo è il senso delle sue periodizzazioni, chehanno finito per fare scuola. Certo, non solo Hobsbawm è il primo a ricono-

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75 Anni interessanti cit., pp. 457-58.76 J. Cronin, Creating a Marxist Historiography cit., p. 94.77 The crisis of the Seventeenth Century (1954) in T. Aston (ed.), Crisis in Europe: 1560-

1660, Basic Books, New York 1965, p. 5. Cfr. anche The Seventeenth Century in the Develop-ment of Capitalism, «Science and Society», 24 (1960), pp. 97-112.

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scere che «la scelta di una datazione non è qualcosa su gli storici siano prontia battersi: è una convenzione»78, ma è lui stesso a renderci perfettamente ilsenso del valore relativo di queste periodizzazioni, quando, proprio nel libroche in questo senso più ha fatto discutere, Il secolo breve, avanza l’idea,straordinariamente suggestiva per l’ampiezza del respiro storico, che il terzoquarto del ’900 segni la fine di sette o otto millenni di storia in cui la stra-grande maggioranza del genere umano è vissuta dell’agricoltura, e in questosenso esso rappresenti «la più profonda rivoluzione sociale dall’età della pie-tra»79. Come tutte le periodizzazioni categorizzanti, quindi, anche quelle pro-poste da Hobsbawm possono essere discutibili e controverse: ma il punto èche tutti gli storici sono stati dal suo lavoro fruttuosamente costretti a reinse-rire la questione del senso del “tempo storico” nella pratica e nell’immagina-zione storiografica80. Si può perciò condividere anche a questo propositoquello che David Landes ha detto dei suoi libri e dei suoi saggi in generale,cioè che, anche quando non se ne condividano le tesi, «leggerne uno è comefare una buon partita di squash: ne vieni via stanco ma rinvigorito e ti sentivirtuoso per lo sforzo»81.

I tre volumi sul “lungo ’800” sono, per ammissione stessa dell’autore, or-ganizzati intorno ad un asse portante che è «il trionfo e la trasformazionestessa del capitalismo nella forma storicamente specifica della società bor-ghese nella sua versione liberale»82. La storia comincia da una «duplice rivo-luzione», quella francese, al pari del suo antecedente americano soprattuttopolitica, e quella industriale britannica, resa possibile anch’essa da una rivo-luzione politica cent’anni prima, ma essenzialmente economica e sociale: duerivoluzioni, o per meglio dire processi rivoluzionari, concepiti «non tanto co-me qualcosa che appartenga alla storia dei due paesi che ne furono i protago-nisti e i simboli, ma come il duplice cratere di un vulcano assai più vasto»83,la cui eruzione assunse la forma di una conquista e di un dominio europeosul resto del mondo. Dopo il 1848 – «la prima e l’ultima rivoluzione europeanel senso quasi letterale del termine, la momentanea realizzazione dei sognidella sinistra e degli incubi della destra» – «l’originaria simmetria» si spezza.L’espansione «improvvisa, vasta e addirittura sconfinata dell’economia mon-

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78 Intervista sul nuovo secolo cit., p. 5.79 Il secolo breve cit., p. 341. Più di trent’anni prima, cioè nel cuore di quella avrebbe poi

definito «l’età dell’oro» successivamente individuata come una cesura di carattere ancora piùepocale, era stata la «duplice rivoluzione» che aveva avuto inizio fra il 1789 e il 1848 ad esse-re da lui indicata «come la più grande trasformazione che si sia avuta nella storia umana,dall’epoca remota in cui l’uomo scoprì l’agricoltura e la metallurgia, la scrittura, la città e loStato»: Le rivoluzioni borghesi 1789-1848 cit., p. 11.

80 B. Bongiovanni, Sublime ironia del vecchio Hobsbawm, ultimo degli storici di razza,«Diario», 27 agosto-2 settembre 1997, p. 63.

81 D. Landes, The Ubiquitous Bourgeoisie, «Times Literary Supplement», 4 giugno 1976,cit. da J. Cronin, Creating Marxist Historiography cit., p. 88.

82 L’età degli imperi cit., pp. 11-12.83 Le rivoluzioni borghesi 1789-1848 cit., p. 12.

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diale capitalistica» fa sì che «la rivoluzione industriale (inglese) inghiottaquella politica (francese)»84. La «baldanzosa conquista del globo da partedell’economica capitalistica, guidata dalla sua classe, la “borghesia”, e sottola bandiere della sua caratteristica espressione, l’ideologia liberale»85 caratte-rizza l’ultimo tratto del “lungo ’800”, cioè l’età imperiale, permeata e domi-nata da una serie di contraddizioni.

Secondo una lettura molto acuta anche se troppo unilaterale dei grandi af-freschi di Hobsbawm sull’800, essi rappresentano forse il prodotto più matu-ro e consapevole di una «sicurezza del ruolo, [una] certezza del punto di vistacritico, una egemonia della disciplina nel fornire una cornice interpretativagenerale al mondo in movimento»86 che – proprio nel momento in cui l’auto-re dava loro le ultime pennellate – stava entrando prepotentemente in crisi. Ineffetti, la lettura degli interventi e metodologici che lo storico inglese svolgenegli anni in cui scrive i tre libri, compresi fra il 1962 e il 1987, sembra riba-dire che per lui la storia ha inequivocabilmente una sua “direzione”: sono la«crescente emancipazione dell’uomo dalla natura e la sua sempre maggiorecapacità di controllarla» a rendere la storia nel suo complesso «orientata e ir-reversibile». E, dato che «il processo e il progresso del controllo dell’uomosulla natura implicano mutamenti che non investono semplicemente le forzeproduttive ma pure i rapporti sociali di produzione, ciò implica anche una de-terminata successione dei sistemi socioeconomici». Dato questo «orientamen-to dello sviluppo storico, le contraddizioni interne ai sistemi socioeconomiciforniscono il meccanismo per il movimento che diventa sviluppo»87. Il muta-mento che diventa sviluppo: qui sta l’irrinunciabile lezione del materialismostorico, quella che induce Hobsbawm a proclamarsi senza alcuna esitazionemarxista. La storia è per lui, infatti, un processo che contiene insieme «ele-menti stabilizzanti e distruttivi»88 di ogni singola formazione sociale. Ma è ilfatto che questi elementi siano «orientati» a garantire che il processo non siavviti in una serie infinita di fluttuazioni cicliche, entro un meccanismo con-tinuo di «destabilizzazione e ristabilizzazione». Naturalmente, ciò non vuoldire affatto che la storia sia «predeterminata», ma soltanto che gli elementidistruttivi posti all’interno di un definito modo di produzione implicano «lapotenzialità della trasformazione», non la sua «certezza». D’altra parte, latrasformazione non è mai puramente interna a una società data, ma riflettesempre influssi esterni, derivanti da altri contesti, cosicché, quando si verifi-ca, non è mai “pura”, ma risulta da una miscela storica, dalla «congiunzionee interazione» di società diversamente strutturate89. Una volta scelto come

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84 Il trionfo della borghesia 1848-1975, Roma-Bari, Laterza 1989 (1975), p. 4.85 L’età degli Imperi cit., p. 12.86 C. Donzelli, Hobsbawm. Grandezze e limiti di una generazione, «L’Indice», ottobre

1997, p. 28.87 Che cosa devono gli storici a Karl Marx, in De Historia cit., p. 182.88 Ivi, p. 183.89 Marx e la storia cit., p. 199.

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campo di applicazione quello delle società capitalistiche e di mercato, si trat-ta di vedere come di volta in volta si sono date delle forme “combinate” dieconomia e di società, che hanno disposto diversamente i loro elementi inter-ni (stabilizzanti o distruttivi) e gli elementi assunti da modi di produzioneesterni e diversi. Dunque, il senso della trasformazione non assume una dire-zione «lineare». È l’«onnipresente combinazione» di elementi diversi che in-teressa lo storico, la specificità dei singoli casi e contesti entro cui si manife-sta il generale corso del mutamento. Ma un corso generale esiste: «è questala certezza “moderna” di Hobsbawm di fronte a ogni possibile attacco disgre-gatore»90.

Si è incrinata in lui questa certezza? Qui è forse il caso di articolare mag-giormente il discorso. Su una cosa Hobsbawm sembra non avere minima-mente cambiato opinione: continua a essere sbagliato per lui pensare che ifatti non abbiano una consistenza in sé, che li distingue da ciò che è soltantouna costruzione mentale. «Io difendo con forza l’opinione che ciò che gli sto-rici indagano è reale», scrive nella prefazione a De Historia ancora nel 1997.Di fronte alla «moda» che ha contagiato negli ultimi anni anche «gli intellet-tuali che si ritengono di sinistra», quella cioè di «negare che la realtà oggetti-va sia accessibile, poiché ciò che chiamiamo “fatti” esisterebbe solo in fun-zione di concetti antecedenti e di problemi formulati nei loro termini», cosìche «il passato che studiamo sarebbe solo una nostra costruzione mentale»,sente il bisogno di riaffermare che «senza la distinzione fra ciò che è e ciòche non è non può esserci nessuna storia. Roma sconfisse Cartagine nelleguerre puniche e non viceversa»91. Naturalmente, il suo non è positivismosemplicistico: egli sa bene che è importante «come raggruppiamo e interpre-tiamo il campione da noi scelto di dati verificabili, che possono includere nonsolo gli eventi accaduti ma anche che la gente pensa su di essi»92. Ma resta inlui incrollabile la certezza del fatto come base imprescindibile dell’operazio-ne storica.

Ma sull’«orientamento» della storia, sull’eventualità che possa essere statamessa in discussione e forse invalidata una modalità di analisi di ogni singolaformazione sociale come tensione fra elementi stabilizzanti e distruttivi e dicontinuità dialettica ma evolutiva dello sviluppo capitalistico e dei suoi possi-bili punti critici, Hobsbawm sembra essere diventato più cauto. E forse è sta-to il mettere mano alla storia del ’900 che lo ha portato a questo: un secolo incui la narrazione scandita dall’espansione non certo lineare e indolore ma co-munque continua del capitalismo si è fatta, di fronte alle grandi lacerazionirappresentata dalle guerre, più accidentata e più impervia, e si è dovuta misu-rare con la totalizzante onnipresenza delle ideologie. Forse proprio la chiavedi lettura del ’900 come «età degli estremi» (Age of Extremes, ricordiamolo,

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90 C. Donzelli, Hobsbawm cit., p. 29.91 Prefazione a De Historia cit., p. 8.92 Ibidem.

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è il titolo originale in inglese, mentre The Short Twentieth Century è solo ilsottotitolo) sottintende un mutamento di prospettiva. La prima guerra mon-diale è sicuramente il compendio di una serie di “estremi” che lascerà un’im-pronta incancellabile nel resto del secolo. Dopo il 1914 il succedersi di eventicatastrofici – non naturali, ma provocati dall’uomo – e l’imbarbarimento delconfronto fra Stati e fra ideologie sono diventati parti integrante del mondocivile: a tal punto da poter perfino oscurare i continui e straordinari progressitecnologici, gli innegabili miglioramenti dell’organizzazione sociale in molteparti del mondo, che pure si sono verificati. In termini di miglioramento dellecondizioni dell’umanità, e di conoscenza e controllo della natura, la storia del’900 potrebbe evocare l’idea di progresso non meno e forse più di quelladell’800: se le guerre hanno provocato milioni di morti e di profughi, è anchevero che i superstiti sono diventati più numerosi, più sani, più longevi, menoignoranti e che quasi tutti i popoli del mondo vivono all’inizio del XXI seco-lo meglio di quanto vivessero cent’anni fa. Ma l’idea di pensare alla storiadell’umanità in termini di progresso è molto più aleatoria di quanto fosse al-lora. Dal 1914 in poi, in un modo o nell’altro, il mondo ha vissuto in un cli-ma – politico, economico, culturale – di instabilità, di timore, di insicurezzasul suo futuro. Alla vigilia del secondo decennio del XXI secolo le previsioniche si possono razionalmente formulare non hanno più nulla dell’ottimismoche ispirava quelle avanzate sul finire del secolo XIX.

Non ritorneremo qui su un’analisi dettagliata del libro forse più controver-so e comunque più famoso di Hobsbawm93. Ci limitiamo a notare che la terzaed ultima parte del Secolo breve si intitola La frana. La parola esprime beneil venire meno di consolidate certezze, a cui corrisponde l’urgenza di trovareuna bussola per orientarsi in un mondo che «rischia sia l’esplosione che l’im-plosione». A molti recensori del libro, che ne scrissero fra il 1994 e il 1995,sembrò eccessiva la «Jeremiah-like air of impending doom» (per usare le pa-role di Tony Judt94) che predomina nell’ultima parte del libro. Oggi, quindicianni dopo, con una crisi economica dagli effetti pesantissimi che non sembraancora conclusa, e nel mezzo di un periodo di instabilità internazionale cheha prodotto una catena di guerre locali e regionali devastanti, il pessimismodi quelle pagine finali sembra da addebitare assai più alle lucide capacità dianalisi del suo autore che alle sue caratteristiche di comunista impenitente,critico per principio della società liberale e capitalistica. Certo, si può osser-vare, come ha fatto Perry Anderson95, che il contrasto fra «età dell’oro» el’«età della frana» è eccessivamente enfatizzato: gli effetti della modernizza-zione, anche in termini di sviluppo economico e di miglioramento del livello

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93 Rinvio alla discussione che si è svolta sul n. 37 di questa rivista, gennaio-aprile 1997, cit.e anche, più ampiamente, a L’età degli estremi. Discutendo con Hobsbawm del Secolo brevecit.

94 T. Judt, Downhill All the Way, «The New York Review of Books», 25 maggio 1995, p.23.

95 Darkness Falls, «The Guardian», 8 novembre 1994.

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di vita, si fanno sentire in alcune aree del mondo, per esempio nel Sud-Estasiatico, ben oltre l’inizio degli anni ’70, e negli ultimi anni l’area del Pacifi-co è stata teatro di un processo di sviluppo che ha interessato non solo ilGiappone e le cosiddette “tigri”, ma si è esteso a due grandi paesi quali la Ci-na e l’India, ponendo le premesse per il ruolo di locomotive dell’economiamondiale che hanno successivamente assunto.

E tuttavia, il bilancio finale che veniva tracciato nelle ultime pagine del li-bro elencava alcuni tratti salienti della contemporaneità che mantengono intat-ta la loro pregnanza: la fine di un sistema di relazioni internazionali con unastruttura riconoscibile e l’inedito predominio di un’unica superpotenza mon-diale; l’inversione di una tendenza secolare, di un’onda lunga della storia chemuoveva nella direzione della costruzione e del rafforzamento degli Stati na-zionali territoriali e la crisi profonda delle istituzioni ad essi collegate; la mi-grazione di sovranità verso poteri privati e verso istanze diverse dalle istituzio-ni statuali legittimate su basi democratiche che conquistano o riconquistanofunzioni in passato svolte dalla sfera pubblica; la conseguente contemporaneamoltiplicazione di entità sempre più piccole ed economicamente non autosuf-ficienti basate su un’identità etnico-linguistica, associata al risorgere di iden-tità di gruppo, comunitarie e religiose chiuse in se stesse; la messa in discus-sione del monopolio della guerra ad opera degli Stati e la riprivatizzazionedell’esercizio legale della violenza; la crisi profonda della politica e della de-mocrazia partecipata; e la lista potrebbe continuare. Senza dubbio nel Secolobreve Hobsbawm è riuscito a spiegarci magistralmente almeno alcune delle ra-gioni per cui «la storia ci ha portati a questo punto». E dimostra anche una ca-pacità singolare, che è piuttosto inusuale in uno storico, di cogliere gli ele-menti cruciali della “storia del tempo presente”. D’altra parte, Hobsbawm nonha cessato di aggiornare e affinare le conclusioni del libro del 1994 in una ri-lettura si può dire quotidiana del nesso fra passato, presente e futuro. L’indu-stria editoriale ha capito bene l’interesse anche commerciale di queste lucideanalisi: sono usciti già almeno quattro volumetti – e mi limito a prendere inconsiderazione soltanto le pubblicazioni in italiano – che costituiscono unasorta di aggiornamento in progress all’ultimo paragrafo del Secolo breve96.

L’opera di Hobsbawm ha esercitato sul dibattito storiografico un’influenzaprofondissima, di cui le pagine precedenti cercano di dare almeno parzial-mente conto, ma che forse è spiegabile prima di tutto con le sue parole:

Nel complesso – egli ha detto di sé in un’intervista del 1998 – credo che il miocontributo alla disciplina storica sia stato quello di essere capace di lanciare nuoveproposte e nuove idee e di averlo fatto in un momento in cui esse erano mature per

il test di una vita: profilo di eric hobsbawm 139

96 L’uguaglianza sconfitta. Scritti e interviste, Datanews, Roma 2006; La fine dello Stato,Rizzoli, Milano 2007; Imperialismi, Rizzoli, Milano 2007. I saggi compresi in questi tre rac-colte, oltre ad altri quattro, si trovano anche in Globalisation, Democracy and Terrorism, Aba-cus, London 2008. Ma il più significativo, che unisce rapidi scorci di bilancio del passato, trat-ti di analisi del presente e previsioni sul futuro, resta l’Intervista sul nuovo secolo cit.

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provocare una discussione. Forse sono stato aiutato dalla capacità di trovare formulee nomi indovinati per presentarle, e di farlo in momenti in cui gli altri erano pronti aprenderle in considerazione; non necessariamente per stabilire una particolare inter-pretazione: infatti il valore essenziale di molte delle idee che ho proposto è statoquello di suscitare dibattiti interessanti, comprese le critiche e le divergenze97.

È un giudizio ispirato da un certo understatement britannico che assume avolte in Hobsbawm una nota di disarmante modestia. Un giudizio, certo, cheper molti aspetti non rende giustizia al carattere profondamente innovativodella sua ricerca in una molteplicità di campi: basti pensare ai suoi già richia-mati studi pionieristici sulle forme primitive della rivolta sociale, o alla demi-stificazione dei miti di fondazione delle nazioni moderne e al disvelamentodei volti del nazionalismo98, o ancora ai lavori originalissimi di storia dellamusica jazz99. E tuttavia, se si pensa per esempio alla raccolta di saggi pub-blicata nel 1983 insieme a Terence Ranger, L’invenzione della tradizione, allaquale Hobsbawm ha contribuito con un solo saggio di 40 pagine oltre checon l’introduzione, e se si considera la straordinaria fortuna che la tematicaha avuto negli anni successivi e continua ancora oggi ad avere, si capiscequanto il giudizio sia fondato. La vocazione di veicolatore di idee e discus-sioni che Hobsbawm si attribuisce va di pari passo con quella, di cui apparealtrettanto fiero, di alto divulgatore di saperi storici. Anni fa, in un’altra inter-vista concessa a due storiche, Pat Thane e Liz Lunbeck, Hobsbawm rivendi-cava con fermezza la piena dignità di una storiografia che, per essere «diqualche utilità politica e pubblica», si facesse carico del compito di «almenotentare di comunicare con i cittadini comuni». «Mi sembra – affermava – chesia molto importante scrivere storia rivolta non soltanto all’accademia.Nell’arco della mia vita la tendenza dell’attività intellettuale è stata quella diconcentrarsi in modo crescente nelle università e di farsi sempre più esoteri-ca, tanto da consistere nel lavoro di professori che parlano per altri professo-ri, ascoltati distrattamente da studenti che devono ripetere le loro idee per po-ter superare i programmi di esami fissati da professori. Questo restringe con-siderevolmente la disciplina intellettuale»100.

Non c’è alcun dubbio che il contributo dato da Hobsbawm per arginarequesta tendenza sia stato e continui ad essere di assoluto rilievo e che in essostia una delle ragioni della sua grandezza.

140 storici contemporanei

97 Una storia per «cambiare o almeno criticare il mondo» cit., p. 106. 98 Nazioni e nazionalismo dal 1780. Programma, mito, realtà, Einaudi, Torino 1991; ma

sia consentito citare anche l’editoriale scritto per il n. 24 di «Passato e presente», Il nazionali-smo alla fine del XX secolo, 8 (1990), pp. 9-19.

99 Hobsbawm scrisse per dieci anni come critico di jazz per il «New Statesman» con lopseudonimo di Francis Newton (Frankie Newton era il trombettista – comunista – che accom-pagnava Billie Holiday), e con questo firmò The Jazz Scene, uscito in Gran Bretagna nel 1959:in Italia ne fu tradotta la seconda edizione, firmata con il suo nome: Storia sociale del jazz,Editori Riuniti, Roma 1982. Saggi assai interessanti sul tema si trovano anche in Gente noncomune cit.

100 An Interview with Eric Hobsbawm, «Radical History Review», Winter 1978-1979, p. 114.

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