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59 l’arte abruzzese del Trecento, anche a seguito del terremoto del 2009, 1 sta vivendo un periodo di intensa attività di studi: sono stati organizzati convegni 2 e mostre e sono stati pubblicati libri 3 e contributi diversi. 4 un’attività che ha presentato un patrimonio di opere, pitture e sculture lignee, abbastanza imponente, tanto da permettere una considerazione che si potrebbe definire quantitativa. È chiaro che si lavora su una percentuale minima rispetto alle opere prodotte in quel periodo e che ogni conclusione potrebbe rivelarsi viziata, ma, ad un’analisi generale del patrimonio di pittura e scultura all’Aquila e in Abruzzo nel XIv secolo, un dato risulta visibile sopra ogni altro: la mancanza di una mac- china d’altare su modello toscano o veneto, con figure dipinte intere o a mezzo busto. Manca in sostanza il polittico scompartito gotico così come veniva costruito in altre zone d’Italia. È possibile quindi che, al- meno fino all’inizio del quattrocento, la forma più diffusa di pala d’altare fosse un’altra: tabernacoli mo- numentali con la figura centrale scolpita e tabelle laterali richiudibili, spesso dipinte con storie riferite al santo o alla Madonna col Bambino che ne formava il centro. la maggior parte delle sculture lignee superstiti, infatti, sono state concepite in posizione centrale, destinate ad una visione frontale e intagliate con la schiena concava o piatta per essere appoggiate ad una parete, probabilmente lignea anch’essa. un’evidenza talmente macroscopica che fu letta come una sorta di norma generale già da Mariani nel 1930. 5 una particolarità che l’Abruzzo aquilano condivide con l’umbria meridionale, con parte del lazio e delle Marche, in pratica con quella parte d’Italia centrale che gli studi di Previtali avevano definito come umbria alla sinistra del Tevere 6 e che più o meno comprendeva il territorio delle antiche diocesi di Spoleto, Ascoli Piceno, Teramo, l’Aquila, rieti e Sulmona, un’entità culturale omogenea che ebbe, in quel periodo, una sua specifica produzione artistica. Non è il luogo per articolare questo discorso, ma la premessa è utile, se non necessaria, per definire il problema. lo stesso Previtali aveva notato che le statue umbre e abruzzesi di cui si occupava erano delle sculture anomale, in cui la policromia era fondamentale. Si trattava, in sostanza, di rilievi solo abbozzati, completati dal lavoro del pittore che ne rendeva anche le forme. 7 AlESSANDro DElPrIorI Il SAN NICOLA DI MoNTICCHIo E I TABErNAColI MoNuMENTAlI CoME PAlE D’AlTArE. CoNSIDErAZIoNI SullA PITTurA E SullA SCulTurA DEl TrECENTo TrA SPolETo E l’AquIlA 1. In particolare si segnalano alcune mostre itineranti curate dalla Soprintendenza BSAE dell’Abruzzo che presentavano una selezione delle opere del Museo Nazionale dell’Aquila, salvate dal crollo del Castello e restaurate; Antiche Madonne 2010; Sa- pienza 2011. 2. Tra i molti contributi si vedano almeno L’Abruzzo in età angioina 2005, Universitates e baronie 2008, Abruzzo 2011. 3. P AoNE 2009, P AoNE - ToMEI 2010. 4. Si vedano le voci bibliografiche citate oltre. 5. MArIANI 1930, s.n.p. ma pp. 16-17 e ultimamente P ASquAlETTI 2009, pp. 87-97, in part. p. 91. 6. Si veda ora PrEvITAlI 1991, pp. 70-82. 7. Ibidem, pp. 24-25 e pp. 70-71; un’idea completamente diversa è espressa recentemente da Paone 2011, p. 59 che sottolinea come l’importanza della policromia nelle sculture sia il segno dell’intervento di un pittore distinto dallo scultore. la studiosa indica come questo sia documentato molto spesso. In realtà non esistono per il Duecento e tutto il Trecento tra Spoleto e l’Aquila dei documenti che aiutino in tal senso, ma credo che ci si voglia riferire alle firme doppie che appaiono nella Madonna di Bu-

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l’arte abruzzese del Trecento, anche a seguito del terremoto del 2009,1 sta vivendo un periodo di intensaattività di studi: sono stati organizzati convegni2 e mostre e sono stati pubblicati libri3 e contributi diversi.4

un’attività che ha presentato un patrimonio di opere, pitture e sculture lignee, abbastanza imponente,tanto da permettere una considerazione che si potrebbe definire quantitativa.

È chiaro che si lavora su una percentuale minima rispetto alle opere prodotte in quel periodo e cheogni conclusione potrebbe rivelarsi viziata, ma, ad un’analisi generale del patrimonio di pittura e sculturaall’Aquila e in Abruzzo nel XIv secolo, un dato risulta visibile sopra ogni altro: la mancanza di una mac-china d’altare su modello toscano o veneto, con figure dipinte intere o a mezzo busto. Manca in sostanzail polittico scompartito gotico così come veniva costruito in altre zone d’Italia. È possibile quindi che, al-meno fino all’inizio del quattrocento, la forma più diffusa di pala d’altare fosse un’altra: tabernacoli mo-numentali con la figura centrale scolpita e tabelle laterali richiudibili, spesso dipinte con storie riferite alsanto o alla Madonna col Bambino che ne formava il centro.

la maggior parte delle sculture lignee superstiti, infatti, sono state concepite in posizione centrale,destinate ad una visione frontale e intagliate con la schiena concava o piatta per essere appoggiate ad unaparete, probabilmente lignea anch’essa. un’evidenza talmente macroscopica che fu letta come una sortadi norma generale già da Mariani nel 1930.5

una particolarità che l’Abruzzo aquilano condivide con l’umbria meridionale, con parte del lazio edelle Marche, in pratica con quella parte d’Italia centrale che gli studi di Previtali avevano definito comeumbria alla sinistra del Tevere6 e che più o meno comprendeva il territorio delle antiche diocesi di Spoleto,Ascoli Piceno, Teramo, l’Aquila, rieti e Sulmona, un’entità culturale omogenea che ebbe, in quel periodo,una sua specifica produzione artistica. Non è il luogo per articolare questo discorso, ma la premessa èutile, se non necessaria, per definire il problema.

lo stesso Previtali aveva notato che le statue umbre e abruzzesi di cui si occupava erano delle scultureanomale, in cui la policromia era fondamentale. Si trattava, in sostanza, di rilievi solo abbozzati, completatidal lavoro del pittore che ne rendeva anche le forme.7

AlESSANDro DElPrIorI

Il SAN NICOLA DI MoNTICCHIoE I TABErNAColI MoNuMENTAlI CoME PAlE D’AlTArE.

CoNSIDErAZIoNI SullA PITTurA E SullA SCulTurADEl TrECENTo TrA SPolETo E l’AquIlA

1. In particolare si segnalano alcune mostre itineranti curate dalla Soprintendenza BSAE dell’Abruzzo che presentavano unaselezione delle opere del Museo Nazionale dell’Aquila, salvate dal crollo del Castello e restaurate; Antiche Madonne 2010; Sa-pienza 2011.

2. Tra i molti contributi si vedano almeno L’Abruzzo in età angioina 2005, Universitates e baronie 2008, Abruzzo 2011.

3. PAoNE 2009, PAoNE - ToMEI 2010.

4. Si vedano le voci bibliografiche citate oltre.

5. MArIANI 1930, s.n.p. ma pp. 16-17 e ultimamente PASquAlETTI 2009, pp. 87-97, in part. p. 91.

6. Si veda ora PrEvITAlI 1991, pp. 70-82.

7. Ibidem, pp. 24-25 e pp. 70-71; un’idea completamente diversa è espressa recentemente da Paone 2011, p. 59 che sottolineacome l’importanza della policromia nelle sculture sia il segno dell’intervento di un pittore distinto dallo scultore. la studiosaindica come questo sia documentato molto spesso. In realtà non esistono per il Duecento e tutto il Trecento tra Spoleto e l’Aquiladei documenti che aiutino in tal senso, ma credo che ci si voglia riferire alle firme doppie che appaiono nella Madonna di Bu-

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Il fatto che tali oggetti facessero parte di complessi in parte a rilievo e in parte semplicemente dipinti,la scultura e le tabelle laterali, fa pensare che tutto sia frutto del lavoro di un unico responsabile che potevaconfezionare l’intero tabernacolo.

A tal proposito è giusto sottolineare come questa particolarità sembra partire ancora nel Duecento ecoinvolgere la ben nota e assai dibattuta Madonna di Bugnara8 nella cui preziosa iscrizione si legge cheMachilone e suo figlio dipinsero quell’opera. A mio avviso è certo, come già indicato da Corrado fratini,9

che quel «DEPINSEruNT» si riferisca al fatto che i due artisti avessero prodotto tutto l’oggetto, completoin origine delle tabelle laterali, che era considerato come un trittico dipinto con le stesse funzioni dellenumerose immagini della Madonna col Bambino con chiudende diffuse nella stessa umbria alla sinistradel Tevere.10

una situazione, questa, comune a tutti gli artisti spoletini del primo Trecento, dal Maestro di Cesi finoal Maestro di fossa,11 ma che, si vedrà, sembra identica anche per l’arte abruzzese. una nuova confermaviene da un recente studio di gaetano Curzi che ha riqualificato una Maestà conservata presso il Museodel louvre a Parigi e che gli ultimi studi avevano considerato falsa12. Si tratta di una Madonna col Bambino

gnara, per cui si veda oltre, e nel Crocifisso di Arquata del Tronto. quest’ultima, però, è molto problematica perché a mio avvisola lettura fornita da Italio Zicari (frater raineri dominus corpus fecit frater berardus aidavit) e riportata da Alleva, in Restaurinelle Marche 1973, pp. 27-31 n. 4, in part. p. 28, ripresa da MASSA 1999, p. 33, non è del tutto convincente. Si legge infatti solo«(frA)TEr rAINErI DoM […] / (frATE)r BErA(r)uS T AIDA / […] Nu […] TP […] Su» e dopo la parola «AIDA» si vedono chiaramentei tre punti utilizzati come segni di spazio tra le parole, per cui non credo che si possa sciogliere in «AIDAvIT»; già MArCHI 2006,pp. 34-35, notava che la lettura forzava «la reale presenza delle lettere» e anche se sostanzialmente accettava i due nomi riportatiraniero e Bernardo come gli artefici dell’oggetto, sottolineava come questo sia in realtà una sorta di pittura a rilievo tanto dafar «venire il sospetto che non esistessero, al momento e nel luogo specifico di produzione del manufatto in predicato, compe-terenze distinte e differenziate fra intagliatore-scultore e pittore; anzi, lo scultore doveva essere completamente assente». Daquanto detto finora e da quanto cercherò di argomentare, mi pare giusto poter allargare il «momento e luogo specifico» a tuttao quasi la produzione di sculture lignee medievali di area spoletina e, per alcuni versi, di tutta l’umbria alla sinistra del Tevere.In questo dibattito, che non ho la presunzione di argomentare qui per intero, entra un Arcangelo Gabriele pubblicato da A. Ba-gnoli, in Scultura dipinta 1987, pp. 73-75 n. 15, che reca in basso la firma dove si legge che l’autore «ANgIEluS SCulPSIT ET

PINSIT» quella scultura nel 1370. Senza scendere troppo in dettaglio, anche considerando la datazione piuttosto avanzata, mipare importante sottolineare che la necessità di scandire il doppio ruolo dell’autore nel lavorare la scultura sia la base per com-prendere la differenza sostanziale con le nostre opere. In quel caso si trattava di una scultura a tutto tondo in cui l’autore orgo-gliosamente ci informa che poteva ottemperare anche alla policromia, come se fosse un dato in un certo senso nuovo. NelleMadonne col Bambino qui discusse (cfr. infra nota 9) l’iscrizione ci informa sempre che gli autori «DEPINSEruNT» le loro opere,come se fossero semplicemente dei dipinti. la pochezza del rilievo e il fatto che queste Madonne col Bambino fossero al centrodi un tabernacolo che fungeva come pala d’altare rendevano le opere tali e quali ad un dipinto, tanto da rendere superfluo illavoro di uno scultore specializzato o quanto meno rendeva superfluo indicarne il nome.

8. Per cui cfr. ora l. Arbace, in Antiche Madonne 2010, pp. 70-71 n. 7.

9. frATINI 2001, p. 19 e sciolta come «[A]NNo DNI: M: CC: lXII // M[A]CHIloN’ (ET) CE [- -] A [-] EI(uS) fIlIv(uS) DE[PIN]S[E]ru(N)T

HoC oPvS», che è sostanzialmente giusta anche se l’apostrofo dopo «MACHIloN» andrebbe letto come abbreviazione di «vS».una lettura concorrente è stata proposto da fuCINESE 1991, pp. 233, nota 4, che riprendeva quanto riportato da PAolIllI 1968,p. 27, che leggeva «ANNo DM MCClII M(A)g ANToN C PAC ET fIlIuS DC S(CulPSE)ruNT HoC oPuS», in cui i nomi venivano inter-pretati come Maestro Antonio Pace e suo figlio Domenico. In realtà, guardando le foto pubblicate prima e dopo il restauro inTutela dei beni 1983, pp. 13-16, si vede bene che l’iscrizione era stata pesantemente ritracciata e aveva più di una lettera alterata.Tuttavia la lettura di Paolilli e fucinese è stata considerata attendibile anche ultimamente da ToMEI 2005, p. 187, in cui lo stu-dioso propone prudentemente che i presunti Antonio Pace e suo figlio Domenico siano uno l’intagliatore e l’altro il responsabiledella decorazione pittorica. Concetto ribadito anche in ToMEI 2010, p. 3, mentre CurZI 2010-2011, p. 33, accetta la lettura difratini.

10. Il modello potrebbe essere rinvenuto nella cosiddetta Madonna dei Crociati di rinaldetto di ranuccio ora conservata nellacripta ottocentesca della Basilica di Santa Chiara ad Assisi. Secondo DE MArCHI 2009, pp. 610-611, sarebbe stata la prima diuna serie di immagini simili destinate a complessi monastici femminili.

11. Su questi argomenti mi permetto di rimandare ad un mio lavoro di prossima pubblicazione. Il problema era già stato affrontatoda frATINI 1997, pp. 289-291, e frATINI 1998, p. 42.

12. CurZI 2011, p. 38. Prima di lui frATINI 2001, p. 22, che riportava l’idea di Jean-rené gaborit, poi espressa in Sculptureseuropéennes 2006, p. 155 cat. Campana 1. A pesare per la sua originalità è anche la provenienza dal coro della chiesa di San-t’Agostino a gubbio già nel 1736, anno in cui ricostruirono il coro in sostituzione di uno più antico entro il quale, non sappiamocome, era stata collocata la scultura, come riportato da gNolI 1980, p. 177; e CECE - SANNIPolI 2001, p. 77.

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firmata da una nuova coppia di artisti spoletini, un certo giacometto di Paolo e suo fratello giuliano. lafirma infatti recita: «IACoBICTuS PAul(u)S DE SPolETo E IulIAN fr(ATEr) EI(uS) DEPI(N)SEru(N)T H(oC)oP(uS) A.D. M.C.C. l. X.X.X.X. I.I.I.I». Mi pare importante sottolineare di nuovo l’utilizzo del verbo «DEPIN-SEruNT», unito alla specifica geografica che indica gli artisti come spoletini. Tra l’altro, «IACoBICTuS» po-trebbe essere letto come una declinazione dialettale tipica del vernacolo spoletino. Sarebbe ora interessantestudiare a fondo la policromia di questa scultura e cercare un parallelo nelle prove dei tanti pittori anonimiche tra la fine del Duecento e l’inizio del secolo successivo sono attivi in quella zona dell’umbria.

A questo punto mi pare importante sottolineare come quasi per ogni pittore attivo tra Spoleto e l’Aquiladalla seconda metà del Duecento a tutto il Trecento si possa trovare un gruppo di opere a rilievo omogeneeper stile che potrebbero rappresentare la fase scultorea della sua attività.

È così, s’è visto, per Simone e Machilone, a cui sarà da accostare anche la stupenda Madonna di San-t’Antimo13 ed una già nella collezione gualino;14 per il Maestro di Cesi, a cui è attribuito il Tabernacolodi Pale di foligno15 e la Santa Cristina al Museo Diocesano di Spoleto;16 per il Maestro della Croce diTrevi, che sembra rappresentare la fase pittorica del Maestro della Croce di visso,17 come pare dimostrarela Croce di Campi;18 stessa cosa è per il Maestro di fossa che ha come fratello scultore il Maestro dellaMadonna di Spoleto.19

lo stesso si può dire per altri due più tardi artisti abruzzesi, il Maestro del Crocifisso d’Argento e ilMaestro di Campo di giove, come ha già introdotto luca Nicoletti.20 I due sono legati assieme da confu-sioni sui loro cataloghi che mi pare il caso di sciogliere e di commentare, presentando novità per l’uno eper l’altro che ruotano intorno ad una scultura ora esposta al Museo dei Cloisters a New York, il SanNicola già a Monticchio, di cui si discuterà più avanti e che è certamente dello stesso autore degli affreschiin San francesco di Castelvecchio Subequo21 e delle tavolette di Sant’Eustachio.

Nel suo studio sulla pittura umbra del Trecento roberto longhi, in due sole straordinarie pagine,creava la figura critica del Maestro del Crocifisso d’Argento,22 pittore attivo nel secondo quarto del secolo,che prendeva il nome da una croce col fondo argentato transitata per qualche tempo nella collezione fo-resti di Carpi e poi dispersa sul mercato. A quella lo studioso aveva aggiunto le ante di un grande dossale

13. Per cui cfr. Bagnoli, in Scultura dipinta 1987, pp. 16-18 n. 1. questa scultura è stata inserita in un gruppo di opere cultural-mente omogeneo ma diverso per stile da frATINI 1995, pp. 20-21, che lo studioso definiva giustamente spoletino. la revisionecritica di quel gruppo e la necessaria creazione di corpora diversi (si veda anche vASTANo - CuZZolIN 2001, pp. 21-38, CurZI

2011, pp. 32-33, Mor 2013 s.n.p.), costituiscono un problema che merita tempo e spazio e che esula un po’ dall’argomento diquesto contributo.

14. Collezioni 2011, n. 18, ma con un enorme refuso nel titolo in cui Machilone diventa «Matilone».

15. Pubblicato da SANTI 1965, pp. 56-58, ma già descritto sull’altare minore dell’eremo di Santa Maria giacobbe di Pale da fA-loCI PulIgNANI 1880, pp. 28-29.

16. Per la Santa Cristina cfr. DElPrIorI 2009, pp. 18-20. Allo stesso autore va senz’altro attribuita una Madonna col Bambinolignea, ancora completa del suo schienale dipinto in cui sopravvivono anche i cardini dove alloggiavano le chiudende, espostadall’antiquario Bastioli all’ultima Biennale Internazionale dell’Antiquariato di roma (2012).

17. le due serie sono state accostate da frATINI 1998, p. 38 e frATINI 1999, p. 52.

18. Pubblicato da frATINI 1999, p. 52 con la giusta attribuzione, ma già visto da fABBI 1963, p. 232 che riportava anche la de-scrizione fattane dal vescovo di Spoleto lascaris, al tempo della sua visita pastorale del 1712. la Croce era esposta entro unaltare barocco posto nella parete sopra l’iconostasi della chiesa; lo stesso fABBI 1963, p. 243, descriveva tre dipinti che attribuivaa Domenico da leonessa, posti sull’altar maggiore di quella chiesa. queste non erano altro che le tabelle poste alle estremitàdelle braccia della Croce ed evidentemente tagliate in occasione della sistemazione della scultura nell’allora collocazione. Aseguito di un restauro del 1997 le tabelle furono ricollocate nella loro posizione ma il Cristo fu spostato nel Duomo di Spoletoe queste vennero inopinatamente tagliate una seconda volta. finalmente ora il complesso è stato ricomposto ed esposto nelMuseo Diocesano di Spoleto.

19. Seguendo un’apertura di frATINI 1997, pp. 290-291.

20. l. P. Nicoletti, in Collezione Saibene 2008, pp. 4-25

21. Si vedano gli interventi di Cristiana Pasqualetti e di Walter Angelelli in questo stesso volume.

22. loNgHI 1973, pp. 35-37.

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con serie di santi separati in due livelli, smembrato e ora diviso tra il Museo fesch di Ajaccio e la Colle-zione Cini a venezia.23

filippo Todini ha arricchito quel corpus degli sportelli di un tabernacolo in collezione privata fio-rentina,24 che successivamente Calcedonio Tropea ha legato ad una Santa Lucia lignea conservata arocca di Cambio,25 nei pressi dell’Aquila. Ancora Todini aveva aggiunto un trittico della collezioneCini con al centro un rilievo in argento sbalzato e i Santi Giacomo e Giovanni Evangelista dipinti neglisportelli e due ulteriori ante di un tabernacolo con le Storie di Santa Caterina d’Alessandria nel MuseoNazionale dell’Aquila, poi collegate con una scultura lignea della santa.26 ultimamente Stefania Paoneha pensato di accostargli anche un polittico con l’Incoronazione della Vergine e santi già nella collezioneDragonetti de Torres all’Aquila,27 che però aveva già una giustissima attribuzione di federico Zeri aBitino da faenza.28

Capolavoro del pittore è il dossale con la serie di santi diviso in quattro frammenti, tre nel Museofesch di Ajaccio, di cui uno acquistato solo nel 2001, proveniente dalla collezione Klofer Truniger di Zu-rigo, e uno nella collezione della fondazione Cini di venezia.29 le tavole sono larghe circa 60 cm ognunae alte 140; seguendo l’orientamento dei santi rappresentati, si comprende come i pannelli fossero pensatiper essere divisi in coppie, da un lato i due scomparti del Museo fesch, dall’altro quello Cini e, estremoa destra, quello già in Svizzera e ora riunito agli altri ad Ajaccio.30 visto che non è possibile che il com-plesso originario fosse stato solamente una serie di santi che si guardano, dobbiamo pensare che al centrodelle quattro tavole trovasse spazio un’ulteriore immagine, forse una scultura lignea della Madonna colBambino (fig. 1).31 Da tutto questo ne deriva che questa sorta di polittico doveva avere una lunghezza to-tale di quasi tre metri (due metri e mezzo circa delle tavole più lo spazio necessario alla scultura).

Pur non godendo di uno stato di conservazione eccellente, spellate nella superficie e abrase dal tempo,le tavole sono di una qualità straordinaria, che quasi stupisce. le figure sono elegantissime nelle forme,sinuose nelle pose e dolci nelle vesti panneggiate con una leggerezza che pare supporre la conoscenzadel più bel Simone Martini. Stefania Paone ha cercato di legare l’eleganza francesizzante di questo pittore(e di tanta produzione figurativa abruzzese del Trecento) ad una corrente di risalita che da Napoli potevaportare il linguaggio gotico della corte angioina fino al confine del regno con lo Stato della Chiesa.32 Èperò più plausibile, a mio avviso, che il Maestro del Crocifisso d’Argento sia un creato del Maestro difossa e che quest’ultimo, pittore e scultore genuinamente spoletino, sia il latore di uno stile elegante edecorativo che, partendo da Simone Martini ad Assisi e da Puccio Capanna, arrivi a superare la metà delsecolo informando tanti artisti dell’umbria alla sinistra del Tevere. oltre all’idea generale dei personaggie a dettagli più particolari come le ombre offuscate sotto l’arco sopraccigliare dei personaggi, il pittore

23. Per cui oggi E. Mognetti, in Primitifs italiens 2012, pp. 236-241 n. 30.

24. ToDINI 1986, pp. 405-406.

25. TroPEA 2001a, pp. 304-305.

26. ToDINI 1989, p. 128; gli sportelli furono legati alla Santa già da MorETTI 1968, pp. 26-27, che però considerava il legametra le due opere solo un’ipotesi, con la giusta prudenza. Per le tavole cfr. ora C. Tropea, in Giotto 2009, pp. 208-209 n. 53.

27. PAoNE - ToMEI 2010, p. 74.

28. ZErI 1976, pp. 33-34, che, tra l’altro, vedeva in questo polittico una delle prove della permanenza di Bitino a rimini e delsuo stretto rapporto con la pittura veneta e in particolare con Niccolò di Pietro.

29. Cfr. f. Marcelli, in Giotto 2009, pp. 208-209 n. 52.

30. Dove lo pubblicava ancora frEulEr 1991, pp. 177-179 n. 65, in cui è riprodotta anche la giusta ipotesi di ricostruzione.

31. Come riporta THIéBAuT 1987, p. 98; secondo Andrea De Marchi, come riportato da Mognetti, in Primitifs italiens 2012, p.241, il fatto che al centro ci fosse stata una Madonna col Bambino è suggerito dal gesto di San Giovanni Battista che indica versoil centro. l’assenza di segni per i cardini, non rilevati neppure con la radiografia, esclude si tratti di chiudende per un tabernacolo.Per Zeri e Natali (Dipinti toscani 1984, p. 17), la singolarità della struttura e dell’iconografia, «per la sua assoluta unicità nell’areadella pittura trecentesca tutta intera», non suggerisce alcuna ipotesi, ma il fatto che i Santi guardino in alto starebbe a segnalareche l’elemento centrale includeva le figure dell’Eterno e dello Spirito Santo, o comunque un’allusione alla grazia divina.

32. un’idea presentata più volte dalla studiosa, ma da ultimo PAoNE - ToMEI 2010, pp. 71-73.

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responsabile delle tavole in discussione discende dal Maestro di fossa anche per l’idea dell’incorniciaturaillusiva interna ai dipinti, in cui i due registri sono separati da una finta architettura d’argento che crea undoppio loggiato sotto cui sono posti tutti i personaggi, con un naturalismo davvero impressionante (fig.2). la stessa idea è proposta dal Maestrodi fossa nello spettacolare dossale dellaPinacoteca vaticana, già sull’altar mag-giore della chiesa di San francesco aMontefalco33 e nella tavola ora nella Col-lezione Pittas.34 Nei pannelli fesch - Cini,tra i due ordini di santi si vede anche unamensolatura aggettante che ricorda, a di-stanza di qualche decennio, l’idea di giottoproposta nella Basilica Superiore di Assisi.Non è un caso, per sottolineare ancora unavolta la matrice umbra del pittore, che l’in-corniciatura dello spazio con finte partiturearchitettoniche rese con foglia d’argento,nasca in uno degli incunaboli dello spole-tino Maestro del Dittico Poldi Pezzoli, omeglio della Croce di Trevi: il dossaledella Pinacoteca vaticana35. Il posiziona-

33. Cfr. Pinacoteca Vaticana 1979-1995, pp. 24-32 n. 6, e NuCCIArEllI 2008, pp. 120-123 n. 2.17; per la provenienza da Mon-tefalco si veda NESSI 1988, p. 209.

34. Per cui ora, CASu 2011, pp. 120-123 n. 26, in cui però è riportata l’attribuzione al pittore di un dossale conservato in Pina-coteca vaticana, in realtà del Maestro della Croce di Trevi (o del Dittico Poldi Pezzoli).

35. roSSI 1994, pp. 93-99.

1. Maestro del Crocifisso d’Argento, Dossale (ricostruzione virtuale). Ajaccio, Musée fesch,e venezia, fondazione giorgio Cini.

2. Maestro del Crocifisso d’Argento, Pannello di dossale (par-ticolare). Ajaccio, Musée fesch.

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mento del Maestro del Crocifisso d’Argento a valle dell’esperienza del Maestro di fossa suggerisce unacronologia relativamente bassa per questo dipinto che sarà da considerare databile in anni vicini alla metàdel secolo.

Certamente un dipinto così grande, e di qualità così alta, doveva avere una destinazione prestigiosa,che però, allo stato attuale delle conoscenze non possiamo definire. Il riconoscimento dei santi36 rappre-

sentati può essere di qualche aiuto: in alto, divisi in trii, nei fram-menti fesch sono gli apostoli Taddeo, Matteo, filippo, Tommaso,giacomo maggiore e san Paolo. In quello a venezia, dove le iscri-zioni sono praticamente illeggibili, è san Pietro con sant’Andreae un altro santo canuto che potrebbe essere luca Evangelista, lacui presenza tra i primi seguaci di Cristo potrebbe essere giusti-ficata dal fatto che questi sostituisce giovanni, dipinto in bassonello stesso pannello, sulla sinistra, a fare da pendant al Battistadella tavola di Ajaccio. Nella tavola già in Svizzera, invece, sonosan Bartolomeo, san giacomo minore e san Simone.

Nel registro inferiore, iscritti in un loggiato con archi trilobati,nei frammenti di Ajaccio sono santa Margherita, la Maddalena esan Nicola di Bari, san Tommaso d’Aquino, san Domenico e ilBattista. Il pannello Cini ha san giovanni Evangelista, san PietroMartire e san Biagio, mentre in quello ex-Kofler Truniger sonosan lorenzo, santa Caterina e sant’Agnese. la lunga descrizionedimostra che gli unici santi appartenenti ad un qualsiasi ordinesono domenicani e che nel livello più basso ci sono quattro figurefemminili, tre martiri e santa Maria Maddalena. Sarebbe da per-correre l’idea di una provenienza dall’altar maggiore della chiesadi un importante monastero domenicano in una qualche zonadell’umbria alla sinistra del Tevere, tra Spoleto, la Sabina el’Abruzzo centrale.37 una candidata ideale potrebbe essere lachiesa di san Domenico dell’Aquila, la cui primitiva intitolazioneera, appunto, alla Maddalena. Nella stessa direzione potrebbeesser vista la pur non rara posizione d’onore riservata al Battistae a san Pietro Martire, dipinto lontano dagli altri due frati predi-catori, poiché nella chiesa sono documentate ab antiquo le reli-quie della gola dell’uno e dell’altro.38

la possibile provenienza aquilana dell’opera sposta in Abruzzoil raggio d’azione del pittore che longhi considerava umbro e inquesto senso assume importanza la ricostruzione proposta daCalcedonio Tropea per i bellissimi pannelli in collezione privatafiorentina che in origine provenivano dal tabernacolo che rac-chiudeva la scultura di Santa Lucia nella parrocchiale di roccadi Cambio (fig. 3),39 castello a meno di trenta chilometri dal ca-poluogo abruzzese, qui in una foto pubblicata da Tropea e con-servata nell’archivio fotografico della Soprintendenza aquilana(fig. 4). recentemente tale ricostruzione è stata messa in discus-

36. Per le tavole in Corsica ora Mognetti, in Primitifs Italiens 2012, p. 236.

37. Come già indicato da Dipinti toscani 1984, p. 18.

38. Cfr. PAoNE - ToMEI 2010, p. 96; l’antica dedicazione alla Maddalena è riportata anche da ColAPIETrA 1999, pp. 23-24.

39. TroPEA 2001, pp. 304-305.

3. Maestro del Crocifisso d’Argento,Sportelli di tabernacolo con Santi. fi-renze, collezione privata.

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sione,40 ma, se ce ne fosse bisogno, credo che possa essere risolutiva la presenza della stessa identica de-corazione geometrica sul basamento della scultura e sulle cornici dipinte delle tavole.

la Santa Lucia lignea (fig. 5),41 pochissimo nota, è la perfetta trasposizione tridimensionale dei santidipinti e sarà certamente da considerare dello stesso artista. Si noti anche in questo caso l’intaglio som-mario ma completato dall’ingessatura, che permette di definire i particolari fisionomici, occhi e orecchie,solo col pennello e l’attenzione per le decorazioni, come la copertina del libro o il ricamo del bordo delmanto dorato. un tratto certamente personale del Maestro del Crocifisso d’Argento è però il piglio vigo-roso della forma che assottiglia la massa e sembra far attorcigliare, come un tronco d’albero, la partebassa della statua. un’idea nuova che rende questa scultura come autosufficiente, al contrario delle molteopere lignee coeve per cui il postergale non era solo un supporto fisico ma una struttura necessaria per lacorretta comprensione.

un seguace del Maestro del Crocifisso d’Argento potrebbe essere l’autore di una bella scultura di unSanto Vescovo conservata nella chiesa di San francesco a leonessa.

40. Cfr. PAoNE 2011, p. 46, che obietta che «nella cartolina si vede che la scultura aggetta dal contenitore e ciò non sembradovuto esclusivamente al basamento su cui poggia, sicuramente aggiunto in epoca successiva». Non si capisce perché il basa-mento dovrebbe essere posticcio e, per la verità, la scultura non mi sembra affatto in aggetto.

41. Inspiegabilmente C. Tropea, in Giotto 2009, p. 209, ha dei dubbi sull’identificazione della scultura che secondo lui potrebbeessere anche un’Annunciata o un San Giovanni Evangelista; Paone (in PAoNE - ToMEI 2010, p. 159), infatti, la considera un si-mulacro del giovane apostolo, così come ToMEI 2011a, p. 29. In realtà, sul basamento corre una scritta frammentaria ma abba-stanza chiara che è da leggere «S(an)c(t)a lucia».

4. Maestro del Crocifisso d’Argento,Trittico di Santa lucia. già rocca di Cambio (l’Aquila), chiesa di Santa lucia.5. Maestro del Crocifisso d’Argento,Santa Lucia. rocca di Cambio, chiesa di Santa lucia.

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Il simulacro, chiamato tradizionalmente San Biagio,42 è stato oggetto di uno studio specifico di AnnaMaria Piemonte43 che lo datò al Xv secolo, cercando nella corrente umbro-senese le sue radici e conclu-dendo con l’ipotesi attributiva, davvero poco credibile, a Nicola di ulisse.44 Dopo che la Mercurelli Salaririportò più giustamente il manufatto entro la seconda metà del Trecento,45 ultimamente il tema è stato ri-preso da lorenzi,46 che, d’accordo con la studiosa ha sottolineato la vena senese della policromia.47

la scultura è stata manomessa in più di un punto, le scarpe sono una pessima aggiunta forse ottocen-tesca, tanto che per far loro spazio si è dovuta segare parte della veste. Il braccio destro, invece, è statoabbassato durante l’ultimo restauro del 1957, facendo sembrare piuttosto ridicolo il gesto benedicentedel santo.

la policromia e l’argento di base sono invece perfettamente conservati. Il piviale è decorato, al centrodel petto, con un trittico con la Madonna col Bambino e due angeli, da cui parte una striscia continua diarchetti al cui interno compaiono figure di santi. Subito sotto la figura principale, è San Pietro, appenapiù in basso San Paolo e poi via via gli altri apostoli. In totale otto sulla fascia verticale e quattro ai latidel collo.

le figurette che popolano questa policromia sono, ancora una volta, vicine ai modi del Maestro difossa, vero e proprio faro per l’arte in zona alla metà del secolo, ma la rotondità delle piccole teste (siguardi ad esempio il San Paolo), il disegno dell’occhio a mandorla, la piccola pennellata nera a segnalarel’ombra del sopracciglio, portano queste pitture nell’ambito del Maestro del Crocifisso d’Argento, comespero possa essere chiaro confrontando proprio il San Paolo con l’Evangelista Luca a destra dell’anta didossale conservata presso la fondazione Cini di venezia (figg. 6-7).

42. Il Santo fu reso noto da DE NINo 1904, fu restaurato nel 1957 e pubblicato da MorTArI 1957, pp. 70-71 n. 50.

43. PIEMoNTE 1991, pp. 85-94.

44. Ivi, pp. 91-92.

45. MErCurEllI SAlArI 1993, p. 172; per un’idea diversa sulla cronologia del manufatto si veda l’intervento di gaetano Curziin questo stesso volume.

46. lorENZI 2009, p. 140.

47. Cosi come rIgHETTI ToSTI-CroCE 1985, p. 18 e D’ACHIllE - IAZEollA 1985, pp. 206-207.

7. Maestro del Crocifisso d’Ar-gento, Pannello di dossale (partico-lare). venezia, fondazione giorgioCini.

6. Ambito del Maestro del Crocifisso d’Ar-gento, Santo Vescovo (Biagio?), particolare delSan Paolo. leonessa, chiesa di San francesco.

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Se è vero, come sembra, che la fase scultorea del Maestro del Crocifisso d’Argento sia rappresentatadalla Santa Lucia di rocca di Cambio, allora bisognerà ripensare completamente la Santa Caterina d’Ales-sandria del Museo Nazionale dell’Aquila (fig. 8), scultura che, come s’è detto, è tradizionalmente legataalle due ante di tabernacolo che rappresentano le Storie della martire (fig. 9),48 ma con cui non condividela stessa provenienza, i dipinti dal convento di Santa Caterina dell’Aquila e la scultura dalla collezionedei duchi rivera all’Aquila.

Come ultimamente ha proposto anche Stefania Paone, che però non scioglie il complesso, sembra chele Storie di Santa Caterina non entrino nel catalogo del Maestro del Crocifisso d’Argento.49 Certamentealla base c’è la stessa cultura da cui muove l’artista in parola, ma i personaggi più secchi, i contorni dellefigure meno sottili e questo raffinato ma un po’ goffo gusto per l’architettura, mi fanno pensare che il re-sponsabile delle Storie di Santa Caterina sia un pittore più tardo, che certamente conosceva le prove delMaestro del Crocifisso d’Argento ma che discende forse più direttamente, e con qualità un po’ meno so-stenuta, dal Maestro di fossa.

48. Cfr. supra nota 26.

49. PAoNE - ToMEI 2010, pp. 71-73, che attribuisce le tavole ad un anonimo pittore napoletano, idea che non condivido.

8. Maestro di Campo di giove,Santa Caterina d’Alessandria.l’Aquila Museo Nazionale.9. Pittore abruzzese della metàdel XIv secolo, Storie di SantaCaterina d’Alessandria.l’Aquila Museo Nazionale.

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Escluse dal corpus proposto da Todini,50 a questo punto le due ante rimarrebbero un po’ isolate. Credoperò che si possano istituire dei confronti abbastanza convincenti, tanto da supporre un’identità di manotra queste tavole e gli affreschi con le Storie di Sant’Agnese nella chiesa di San francesco a fontecchiodell’Aquila (fig. 10).51 quel che resta del raro ciclo agiografico, subito a sinistra dell’arco trionfale, è rac-chiuso ora in due lunettoni che dovevano essere le pareti di una cappella evidentemente dedicata allasanta. Secondo quanto indicato da Maria Andaloro,52 la scena meglio leggibile, quella più in alto a sinistra,dovrebbe rappresentare Sant’Agnese che lascia la scuola e incontra il figlio del prefetto di Roma. Proprioconfrontando i volti dei personaggi inginocchiati che offrono monili alla santa con le fisionomie presentinelle tavole di santa Caterina, si capiscono i contatti tra le due opere e si scorge lo stesso modo di rappre-sentare la curva del sopracciglio in continuità con il segno del naso, i volti larghi e l’eleganza delle mani,lunghe e affusolate, probabilmente eredità di quella eleganza filo-francese che, via Assisi e Spoleto, avevainformato larga parte dell’arte umbra e abruzzese del primo Trecento e che è la vena più interessante pre-sente nelle Storie di Santa Caterina d’Alessandria (figg. 11-12).

50. ToDINI 1989, p. 128.

51. Per cui ANDAloro 1990, pp. 305-309 e ora PAoNE 2010 a, pp. 90-91.

52. ANDAloro 1990, p. 310.

11. Pittore abruzzese della metà del XIv secolo,Storie di Sant’Agnese(particolare). fontecchio dell’Aquila,chiesa di San francesco.

12. Pittore abruzzese della metà del XIv secolo,Storie di Santa Caterinad’Alessandria (particolare).l’Aquila Museo Nazionale.

10. Pittore abruzzese della metà del XIv secolo,Storie di Sant’Agnese.fontecchio (l’Aquila),chiesa di San francesco.

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Dalla revisione del corpus del Maestro del Crocifisso d’Argento è rimasta ora esclusa ed isolata laSanta Caterina già all’Aquila al Museo Nazionale, su cui torneremo più avanti.

Come hanno presentato Cristiana Pasqualetti e lucaNicoletti,53 un altro protagonista della seconda metà delTrecento nell’Abruzzo aquilano è il Maestro di Campo digiove. responsabile della decorazione della cappella conle Storie di San Francesco a Castelvecchio Subequo54 edella pittura delle tabelle della custodia di Sant’Eustachioappunto a Campo di giove. Nel presentare alcune di quelletabelle per la schedatura delle opere della collezione Sai-bene,55 luca Nicoletti aveva avanzato l’ipotesi che allostesso artista poteva riferirsi anche la scultura di Sant’Eu-stachio, fortunosamente conservata ed ora ricoverata nelPalazzo vescovile di Sulmona.

Evidentemente questo dato si sposa in maniera perfettacon il mio discorso, ma una tale ipotesi, per essere accet-tata, va supportata con altre considerazioni.

Non avendo per il momento documenti a disposizione,ci si dovrà basare sul solo aspetto filologico e stilistico,cercando di arrivare ad una soluzione critica accettabile.Se si dovesse trovare una legge di metodo, semplificando,si può dire che in questa zona dell’Italia centrale nellaquale la pala d’altare nel Trecento sembra essere il taber-nacolo monumentale con una scultura centrale e chiudendedipinte, per considerare un artista responsabile dell’una edelle altre, si dovranno trovare sculture e pitture stilistica-mente omogenee per policromia ed intaglio. In pratica unaserie di sculture inseribili nello stesso corpus dovrebbeavere anche identica policromia e questa dovrebbe essereconfrontabile con un’altra serie omogenea di pitture.

A tal proposito, corre in aiuto il San Nicola che si con-serva ai Cloisters a New York, ma che proviene dalla par-rocchiale – dedicata al santo vescovo – del piccolo centrodi Monticchio, nei pressi dell’Aquila (fig. 13).

la tipologia della statua, fortemente frontale, fa pensareche anche in questo caso attorno ad essa dovessero esserepreviste le storie del santo che andavano a racchiudere ilsimulacro e, una volta aperte, ad identificarlo, ma pur-troppo di queste non abbiamo alcuna notizia.

Sappiamo però che la scultura abbandonò il suoloabruzzese piuttosto tardi, sembra prima della grande

53. Si vedano i loro interventi in questo volume, ma anche PASquAlETTI 2008.

54. Sul ciclo, in aggiunta agli interventi in questo volume, si vedano anche D’AlBErTo 2008, pp. 53-69, AglIETTI 2009, pp.239-295, PoMArICI 2009 e in maniera indiretta ma interessante SABATINI 2009, pp. 71-87. Cfr. da ultimo Paone, in PAoNE -ToMEI 2010, pp. 104-105, che inquadra il pittore nell’ambito della cultura spoletina della seconda metà del Trecento, vicino almaestro responsabile della Cappella della Maddalena in San Domenico a Spoleto. Al di là di una comune matrice all’ombra delMaestro di fossa i contatti sono piuttosto superficiali.

55. Nicoletti, in Collezione Saibene 2008, pp. 24-25.

13. Maestro di Campo di giove, San Nicola.New York, The Cloisters (da Monticchio,l’Aquila).

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guerra, anche se, ancora nel 1932, è citata nell’elenco delle sculture francesizzanti redatto dal gavini.56

Nel 1939, però, il San Nicola è già inserito nel catalogo delle collezioni newyorkesi.57

la storia critica, riassunta nel bel catalogo del Museo uscito recentemente, è assai esigua, se ne lamentaanche lorenzo lorenzi,58 che pubblica la statua datandola alla prima metà del secolo accostandola allascultura perugina, in particolare alla produzione del Maestro della Madonna di Sant’Agostino.

Il santo vescovo, invece, si confronta in maniera ineccepibile con il Sant’Eustachio di Campo di giove.Al di là del differente stato di conservazione, migliore nel esemplare di Monticchio, i due simulacri hannolo stesso modo di trattare il panneggio che ondeggia man mano che si scende, con la cresta delle pieghegeometrica, quasi tagliente. Purtroppo il volto della scultura ora a Sulmona è molto sofferente, ma l’ideagenerale dei volumi è assolutamente identica, soprattutto nel costruire la barba composta di piccole masseraggruppate.

Ad essere però significativo per l’attribuzione è il piccolo Cristo benedicente che compare al centrodella veste di San Nicola, i cui caratteri sono assolutamente gli stessi delle immagini delle tavolette conle Storie di Sant’Eustachio, a partire dalla decorazione del nimbo, punzonato a buccia d’arancia congrandi bolli centrali, fino all’espressione un po’ imbronciata (fig. 14).

Anche in questo caso è la decorazione policroma che dà il senso della scultura, senza di quella, infatti,avremo forse una massa di legno poco più che informe, si veda ad esempio come sia praticamente inesi-stente l’intaglio degli occhi del vescovo, percepiti solo nella loro consistenza pittorica.

Come ultimamente ha sottolineato Cristiana Pasqualetti,59 è possibile considerare gli affreschi di Ca-stelvecchio Subequo, databili al 1394,60 come opera matura del Maestro di Campo di giove, in un mo-

56. gAvINI 1932, pp. 14-15.

57. rorIMEr 1939, p. 60, in cui però viene indicato come proveniente da Assisi. Solo nell’edizione dello stesso catalogo del1951, p. 61, viene riportata la giusta provenienza abruzzese. Nella ristampa del 1963, pp. 88-89, l’autore significativamenteconfronta questa scultura con un altro vescovo ligneo conservato nel Museo del Bargello (che a mio avviso va inserito nelcorpus del Maestro della Madonna di Spoleto e quindi del Maestro di fossa), indicando come entrambi fossero «of wood, em-bellished with the care given to a panel painted». ora però si veda CASTElNuovo-TEDESCo - SoulTANIAN, 2010, pp. 199-207 n.42, in part. p. 199, «purchased in Assisi before World War I by george grey Bernard, the statue was part of the nucleus ofworks acquired from Berard in 1925».

58. lorENZI 2008, p. 138.

59. PASquAlETTI 2010 b, p. 14.

60. la datazione si ricava da un’iscrizione mutila e ampiamente discussa, per cui cfr. AglIETTI 2009, pp. 246-247 e PoMArICI

2009, p. 386.

14. Maestro di Campo di giove, Cristo benedicente. New York, The Cloisters,particolare del San Nicolada Monticchio.

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mento che già prelude alla conoscenza delle opere prime delMaestro di Beffi. I volumi meno espansi dei visi presenti nellepitture della custodia di Campo di giove, come già indicatoda Nicoletti, fanno propendere per una datazione di queste aldecennio precedente e mi pare che il San Nicola sia opera an-cora meno matura, più vicina agli esempi di metà secolo, in-trisi della cultura del Maestro di fossa; per cui mi parepossibile riferirgli una data dentro l’ottavo decennio del Tre-cento.

Mi sembra, inoltre, che il catalogo del Maestro di Campodi giove potrebbe essere un buon candidato per contenereanche la Santa Caterina d’Alessandria del Museo Nazionaled’Abruzzo che la revisione del corpus del Maestro del Croci-fisso d’Argento aveva lasciato isolata. la statua, condividecol San Nicola di New York il modo di concepire i volumi delvolto, di panneggiare le pieghe del mantello e di dipingere gliocchi. la policromia della veste, però, è ancora legata ai modidel Maestro di fossa e del Maestro del Crocifisso d’Argento:il bordo decorato con un finto ricamo geometrico e alcuni par-ticolari descrittivi come i lacci per chiudere la veste, le deco-razioni della corona e le chiudende del libro che porta inmano, rimandano al mondo della generazione di artisti pre-cedenti. Sarebbe da pensare a questa scultura, quindi, comeun’opera giovanile del Maestro probabilmente ancora dell’ini-zio degli anni settanta.

giovanni Previtali aveva attribuito al Maestro della Ma-donna di Spoleto una bella Sant’Agnese conservata nell’Isa-bella Stewart gardner Museum di Boston (fig. 15).61 Ilconfronto tra l’eleganza avvolgente della serie di Maestà dellospoletino e l’intaglio più netto e meno elegante della martirein America, però, oggi lascia un po’ perplessi. È vero che sonomolti i punti di contatto, dal volto morbido alla solita decora-zione delle vesti, ma si ha la sensazione che si dovrà imma-ginare la scultura di Agnese come discendere da quelle delMaestro di fossa. In altra occasione ho proposto di confron-tare questa scultura con la Santa Caterina dell’Aquila, vistoche le due condividono la stessa idea del mantello che coprele gambe, la stessa policromia del volto e la stessa particolaredecorazione della veste con un inserto al centro del petto. Èvero, però, che la Santa Agnese è certamente più bella ed ele-gante, con quella posizione leggermente movimentata cherompe il rigido schema compositivo della Santa Caterina, dif-ferenze che non possono reggere l’attribuzione allo stesso ar-tefice, ma mi pare certo che la Sant’Agnese entri nel problemache qui si dibatte e che possa essere considerata comeun’opera ponte tra la serie del Maestro di fossa e quella delMaestro di Campo di giove.

61. PrEvITAlI 1991, pp. 43-44. ringrazio Anne Marie Eze che con la consueta gentilezza mi ha fornito delle foto della sculturadurante il restauro.

15. Ambito del Maestro di fossa, Sant’Agnese. Boston, Isabella Stewart gardner Museum.

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un’opera negletta e purtroppo assai malridotta è la Madonna col Bam-bino di Torano,62 ora nel Museo Civico di rieti (fig. 16). Mancando quasitotalmente la policromia non è possibile arrischiare l’analisi stilistica senzacorrere il rischio di prendere un abbaglio, ma il fatto che sia in pratica unacopia della Madonna del Duomo di Spoleto e che in più di un particolare,come i capelli del Bambino, simili a quelli di Sant’Eustachio, e le pieghedel mantello, perfettamente congruenti con quelle di Santa Caterina, sipossa confrontare con le sculture del Maestro di Campo di giove, lasciaaperta la possibilità di inserirla nel percorso dell’anonimo abruzzese.

I recenti, approfonditi, studi di Cristiana Pasqualetti sulla pittura tardo-gotica in Abruzzo e in particolare sul Maestro del Giudizio di loreto Apru-tino,63 hanno avuto tra i tanti risultati apprezzabili la restituzione a quelpittore delle tavole con San Pietro, che finora si credeva Bartolomeo,64 e iSanti Giulitta e Quirico conservate nel Museo Nazionale d’Abruzzo.65

queste sono state considerate come le ante di un tabernacolo che contenevala bella statua di San Michele Arcangelo di Città Sant’Angelo, nei pressidi Pescara, cosa che però appare difficile da dimostrare.66 l’Arcangelo èdavvero straordinario sia nella posizione studiata e articolata, sia nella resadella policromia, sostenuta, tra l’altro, da un invidiabile stato di conserva-zione. Particolari definiti anche nell’intaglio, come le pieghe quasi metal-liche della veste o come la testa del drago, stridono un po’ con la sensazionegenerale che invece, pur non arrivando a quel senso di incompiutezza delleopere più antiche, fa sembrare che il vero significante della scultura sia ilcolore. l’armatura decorata senza alcun spessore, le ali del drago solamentedipinte e il viso dell’Angelo, con i tratti fisionomici appena abbozzati, ri-mandano proprio al mondo trecentesco che fa capo al Maestro di fossa,ma dal quale discendono a distanza di tempo.

Se per il XIv secolo la possibilità che, nella zona in esame, pittore escultore fossero stati la stessa persona, o quanto meno la stessa bottega, èun dato che, anche se cautamente, si potrà considerare per acquisito, cosìnon è per il secolo successivo.

In questo senso sono preziosi alcuni recenti studi di Cristiana Pasqua-letti dedicati al Maestro di Beffi,67 certamente il più importante e più bel

pittore dei primi decenni del Xv secolo partecipe di una circolazione culturale ampia e di matricesostanzialmente adriatica. oltre ad ancorare l’identità del pittore con leonardo da Teramo, lon-

16. Maestro di Campo di gio -ve (?), Madonna col Bam-bino. rieti, Museo Civico.

62. Cfr. MorTArI 1957, pp. 69-70 n. 51, MorTArI 1960, p. 47 n. 90, e MorTArI 1985, p. 142, che la mette in relazione con laMadonna di fossa.

63. PASquAlETTI 2004 e 2006 b.

64. Così TroPEA 2001, p. 300: la tavola ha uno stato di conservazione non buono, ma il santo dello sportello sinistro ha il tra-dizionale mantello giallo e tiene in mano certamente una chiave, di cui si riconosce l’occhiello, per cui è certamente da identi-ficare con san Pietro.

65. Cfr. PASquAlETTI 2004, p. 19, con attribuzione al Maestro del giudizio di loreto Aprutino e non al Maestro di fossa comeerroneamente riferito da PAoNE 2011, p. 65. fu ANDAloro 1990, pp. 309-310, che attribuì la statua di San Michele Arcangelo(v. nota successiva) al Maestro di fossa.

66. Interessanti sono le considerazioni in merito di PAoNE 2011, p. 65, che commentando i risultati del restauro della sculturasottolineava come il modo di costruire la statua, lavorata anche sul retro, non permetteva di pensarla addossata ad un postergalee quindi non poteva essere inserita in un tabernacolo. In effetti anche una descrizione del 1591 riportata da PASquAlETTI 2004,p. 26, nota 64, descrive la scultura senza menzionare le tabelle. la data è relativamente avanzata, ma mi pare che ponga unadifficoltà di un qualche rilievo.

67. PASquAlETTI 2010 a, pp. 271-281.

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gevo maestro documentato da tempo ma finora senza un catalogo di opere, la studiosa ha ripubblicato undocumento importante: il testamento di Cicco di Pietro in cui veniva specificato che egli si era legato insocietà con altri due artisti, leonardo da Teramo, appunto, e onofrio di Colella di Cecco del Sordo perscolpire una statua di San Biagio e di dipingere una scultura di San Sano (Eusanio), che invece era giàabbozzata.68 Sarebbe davvero interessante capire se la società prevedeva la presenza di pittori e scultoriche potevano ottemperare a lavori diversi, oppure era la semplice pratica artistica locale. È interessantein questo senso l’attribuzione assai convincente del Sant’Andrea e del Sant’Antonio Abate di ortucchio(figg. 17-18),69 ora nel Museo Civico di Sulmona, al Maestro di Beffi, a cui, a mio modo di vedere, spettaanche una Madonna col Bambino nel Museo Nazionale dell’Aquila (fig. 19). la scultura proviene dal

17-18. Maestro di Beffi (leonardo da Teramo), Sant’Andrea e Sant’Antonio Abate. Sulmona, Museo Civico(dalla chiesa di Sant’orante a ortucchio).19. Maestro di Beffi (leonardo da Teramo), Madonna in trono. l’Aquila, Museo Nazionale d’Abruzzo (oraCelano, Museo Nazionale della Marsica, Castello Piccolomini).

68. Ibidem; PASquAlETTI 2010 b, pp. 6-8 e 24; per la trascrizione completa del testamento cfr. anche PASquAlETTI 2012.

69. PASquAlETTI 2010 b, p. 6.

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ABSTrACT. The article analyses the remaining paintings and wooden sculptures from the 14th centuryin the Abruzzo region and explains that in this area of Central Italy altarpieces were not conceived in theshape of polyptics, but rather as tabernacles comprising a wooden sculpture set against the central panel,with two lateral painted panels as closable wings. This peculiar structure became traditional during the13th century as proven by the high number of sculptures in the region. The so-called “Bugnara Madonna”is signed by Machilone, who may be identified with the painter who signed together with “Simeone” ontwo painted panels now preserved in rome and Antwerp. This suggests that, in mediaeval Abruzzeseworkshops, the very same artist may have worked both as a painter and sculptor in order to create altar-pieces of this kind.

The article also discusses the production of several artists working in Abruzzo. Their works denotethe marked influence of the style of the Master of fossa, who played a principal role during the 14th

century as painter and sculptor, working at Spoleto, l’Aquila and Sulmona. It is here suggested that theMaster of the Crocifisso d’Argento carved and painted the St. Lucy now preserved at rocca di Cambio,while the St. Catherine of Alexandria in the Museo Nazionale at Celano, assigned by other scholars tothe Master of the Crocifisso d’Argento, is attributed to the Master of Campo di giove.

A further addition to the corpus of the Maestro of Campo di giove is the sculpture representing St.Nicholas now at Cloisters Museum, New York: on the one hand, its polychrome cover reveals a greataffinity with the frescoes of the church of San francesco at Castelvecchio Subequo painted by the Masterof Campo di giove. on the other hand, the St. Nicholas is similar to the sculpture representing the St. Eu-stace originally located in Campo di giove and now preserved at the Bishop’s Palace in Sulmona: the St.Eustace, the piece after which the artist is named, was originally the central part of a tabernacle withwings painted by the Master of Campo di giove. It is therefore likely that the Master of Campo di giovewas wont to execute both the painting and the carving of his tabernacle altarpieces.

convento dei frati minori di Castelvecchio Subequo e fu legata alla produzione lignea senese da MarioMoretti nel catalogo del museo aquilano.70 ultimamente lorenzo lorenzi ne ha ribadito la matrice toscana,notando però la leggerezza dell’intaglio che non presenta le profonde cavità dei suoi presunti modelli.71

Credo che queste differenze siano spiegabili col fatto che in realtà la Madonna poco c’entra con la sculturasenese, ma sia un prodotto tipico della produzione abruzzese. l’impianto frontale con il volto tornito, icapelli appena abbozzati e cadenti sulle spalle, rimandano agli esempi di metà Trecento, ma quel cheresta della policromia, molto rovinata ma con il viso perfettamente leggibile, è ben confrontabile con ivolti del Maestro di Beffi. una proposta assolutamente in linea con quanto sostenuto dalla Pasqualetti,tanto che mi pare che il panneggio gotico del mantello della vergine possa essere letto accanto alle vestidei due Santi del Museo Civico di Sulmona, così come il viso possa essere ben confrontato con quellodel Sant’Andrea di ortucchio.

Anche se la tradizione delle pale d’altare agiografiche in Abruzzo avrà una sua fortuna anche nel quat-trocento, è proprio con leonardo da Teramo che si affievolisce quella sensazione di isolamento che sembrapermeare tutta la produzione dell’umbria alla sinistra del Tevere nel corso dell’intero Trecento. un iso-lamento che non è arretratezza culturale (si veda la qualità straordinaria e l’aggiornamento sui testi piùmoderni del Maestro di fossa)72 ma che si legge meglio come un’evoluzione alternativa al gotico svilup-pato nel resto dell’Italia centro-settentrionale. l’attività del Maestro di Beffi apre le porte alle primeistanze di rinascimento che in Abruzzo saprà essere straordinario.

70. MorETTI 1968, p. 54.

71. lorENZI 2008, p. 144.

72. oltre alla bibliografia già indicata mi pare significativo sottolineare come lo stesso luciano Bellosi nei suoi Maestri delColore del 1966 dedichi la copertina proprio al Maestro di fossa.