IL FEMMINISMO DEGLI ANNI SETTANTA IN EGITTO E ITALIA UN'ANALISI COMPARATA

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Università degli Studi di Firenze Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” Corso di Laurea specialistica in Relazioni Internazionali TESI DI LAUREA IN Storia dei Trattati e Politica Internazionale IL FEMMINISMO DEGLI ANNI SETTANTA IN EGITTO E ITALIA UN'ANALISI COMPARATA Relatore: Prof. Alberto Tonini Candidato: Francesca La Bella Anno Accademico 2008\2009 1

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Università degli Studi di FirenzeFacoltà di Scienze Politiche

“Cesare Alfieri”

Corso di Laurea specialistica in Relazioni Internazionali

TESI DI LAUREA INStoria dei Trattati e Politica Internazionale

IL FEMMINISMO DEGLI ANNI SETTANTA IN EGITTO E ITALIAUN'ANALISI COMPARATA

Relatore: Prof. Alberto Tonini Candidato: Francesca La Bella

Anno Accademico 2008\2009

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2

INDICE

INTRODUZIONE...................................................................................................pag. 5

CAPITOLO 1

1.1 – I PRECEDENTI STORICI DEL FEMMINISMO...........................................pag. 9

1.1.1- Il primo femminismo.......................................................................................pag. 9

1.1.2- La corrente liberale........................................................................................pag. 14

1.1.3- La corrente socialista.....................................................................................pag. 16

1.1.4- La campagna per il suffragio.........................................................................pag. 19

1.1.5- Post seconda guerra mondiale.......................................................................pag. 24

1.2 – ITALIA...........................................................................................................pag. 27

1.2.1- Le prime esperienze.......................................................................................pag. 27

1.2.2- Post seconda guerra mondiale.......................................................................pag. 34

1.3 – EGITTO..........................................................................................................pag. 37

1.3.1- Le prime esperienze.......................................................................................pag. 37

1.3.2- La rivoluzione del 1919 e le sue conseguenze..............................................pag. 42

1.3.3- Gli anni Trenta e Quaranta............................................................................pag. 48

CAPITOLO 2

2.1- LA CONDIZIONE DELLA DONNA IN ITALIA..........................................pag. 55

2.1.1- Scuola e lavoro..............................................................................................pag. 56

2.1.2- Famiglia e sessualità......................................................................................pag. 62

2.2- IL MOVIMENTO FEMMINISTA IN ITALIA................................................pag.65

2.2.1- La nascita del neo-femminismo e il rapporto con gli altri soggetti politici...pag. 65

2.2.2- La critica alle organizzazioni femministe tradizionali..................................pag. 71

2.2.3- Teorie e pratiche del neo-femminismo..........................................................pag. 73

CAPITOLO 3

3.1- LA CONDIZIONE DELLA DONNA IN EGITTO..........................................pag. 83

3

3.1.1- Scuola e lavoro..............................................................................................pag. 87

3.1.2- Famiglia e sessualità......................................................................................pag.91

3.2- IL MOVIMENTO FEMMINISTA IN EGITTO...............................................pag. 94

3.2.1- Il rapporto femminismo-islamismo...............................................................pag. 98

3.2.2- Il femminismo sessuale e Nawal el-Saadawi..............................................pag. 102

CAPITOLO 4

4.1- GLI SVILUPPI SUCCESSIVI.......................................................................pag. 105

4.1.1- Italia.............................................................................................................pag. 105

4.1.2- Egitto...........................................................................................................pag. 109

4.2- IL DIBATTITO ORIENTE-OCCIDENTE....................................................pag. 114

CONCLUSIONI..................................................................................................pag. 121

ALLEGATI..........................................................................................................pag. 125

BIBLIOGRAFIA.................................................................................................pag. 129

4

INTRODUZIONE

Questa tesi si pone l’obiettivo di analizzare brevemente il fenomeno femminista in Italia

e in Egitto negli anni Settanta attraverso una comparazione che renda merito di

similitudini e differenze tra i due paesi. La condizione della donna nel mondo ha

assunto caratteristiche molto variegate a seconda della cultura locale, della religione, del

tempo e dei luoghi, ma alcuni problemi fondamentali sono stati affrontati dalle donne di

ogni parte del mondo dando vita a movimenti che, per quanto differenti, hanno tentato

di dare una risposta concreta a queste questioni. L'obiettivo della ricerca è, dunque,

quello di dimostrare che i movimenti in generale, e quelli femministi in particolare,

dipendono direttamente dalla struttura sociale dei paesi e dalle tradizioni insite nella

cultura in cui questi fenomeni nascono. Sottolineando alcuni elementi di continuità tra

condizione della donna e reazione femminile, tra storia sociale e storia dei movimenti

politici, questo lavoro tenta di mostrare come sia possibile coniugare uno stesso

problema con sfaccettature diverse a seconda delle convinzioni politiche-religiose delle

militanti e del contesto storico contingente. La scelta di Italia ed Egitto è dovuta al fatto

che questi due paesi, entrambi affacciati sul Mediterraneo, hanno avuto, nel corso della

storia, molte caratteristiche comuni sia sociali sia nel tipo di mobilitazione pur

mantenendo le proprie specificità locali. Nell'analisi dei risultati si noterà come i

caratteri che il femminismo ha assunto nei due paesi siano, però, molto differenti a

causa della preponderanza dell'elemento locale. Gli anni Settanta, scelti in quanto anni

di cambiamento e di mobilitazione per entrambi i paesi, hanno costituito per l'Italia il

laboratorio politico di una generazione grazie alla sperimentazione di un nuovo modo di

fare politica basato sulla partecipazione attiva mentre per l'Egitto sono stati gli anni

della transizione dal socialismo nasseriano al liberalismo di Sadat con la conseguente

apertura a capitali stranieri e alla propaganda islamista dei Fratelli Musulmani.

Al fine di analizzare questi aspetti le fonti utilizzate sono sia di tipo storico sia di tipo

politologico e pongono particolare attenzione agli aspetti economici e sociali dei paesi

presi in esame. Nella scelta delle fonti si è cercato di utilizzare sia opere del periodo

preso in esame che rendessero merito del fermento sociale e culturale del periodo sia

ricerche degli anni successivi che valutassero, in maniera maggiormente obiettiva, lati

positivi e negativi del periodo. Servendosi, da una parte, di opere di donne che hanno

5

partecipato direttamente alle mobilitazione e, dall'altra, di opere scritte da soggetti

esterni e imparziali si è cercato di presentare un'analisi che fosse, contemporaneamente,

soggettiva e oggettiva. Lungi dall'essere esaustiva, lo studio si basa, per tutte le ragioni

sopra descritte, su fonti di varia natura tra cui monografie e saggi, articoli e tesi, siti web

e video nel tentativo di dare una visione il più ampia e il più articolata possibile del

fenomeno. Se nel caso italiano è stato difficile fare una cernita tra i numerosissimi

documenti sull'argomento in modo da seguire alcuni fili conduttori principali, l'analisi

del fenomeno egiziano è stata resa particolarmente difficoltosa dalla scarsità di fonti

sull'argomento. Mentre sulla situazione egiziana di inizio secolo è stato scritto molto,

così come è stato fatto per il femminismo islamico di fine secolo, il femminismo degli

anni Settanta ha sofferto della scomparsa dei gruppi organizzati avvenuta negli anni di

Nasser e della evanescenza del fenomeno femminista in un periodo di fervore islamico,

lasciando poche tracce di sé.

La tesi è stata strutturata in modo da sottolineare con forza l'importanza delle esperienze

precedenti nella formazione del pensiero politico femminista nel periodo in analisi. A

questo fine, il primo capitolo è un excursus storico che descrive in maniera essenziale le

principali trasformazioni dell'ideologia femminista nel tempo sia a livello internazionale

sia a livello interno, le linee di continuità e i punti di rottura tra le diverse teorizzazioni.

Nella trattazione, al fine di dimostrare il rapporto biunivoco tra storia sociale e storia

politica, femminismo e storia delle donne si intersecano fino a confondersi, dando, in

questo modo, una visione il più possibile organica della questione femminile. Nei due

capitoli centrali, invece, si tratta la storia del movimento femminista delineando, in

particolare, le differenze con i gruppi del periodo precedente in modo da sottolineare

fratture ed elementi di continuità, il rapporto con gli altri soggetti sociali per rendere

merito del contesto politico di azione e la teorizzazione femminista in senso stretto al

fine di mostrare la reale produzione di idee di queste donne. Per contestualizzare questa

disamina la prima parte dei due capitoli è stata dedicata alla descrizione della

condizione della donna e ai suoi mutamenti. Un movimento politico come quello

femminista parte necessariamente dall'analisi della realtà vissuta per teorizzare la

liberazione della donna e, dunque, una disamina sul femminismo sarebbe

incomprensibile in mancanza di una analisi della sua condizione nel periodo in analisi.

Il quarto e ultimo capitolo, invece, vuole presentare una breve panoramica delle

6

evoluzioni successive del movimento femminista e dei problemi ancora aperti in questo

campo. Senza alcuna velleità di completezza, il capitolo mira unicamente a sottolineare

alcuni aspetti critici della questione femminile dagli anni Ottanta fino ai giorni nostri e

le soluzioni che le donne hanno messo in campo.

7

8

CAPITOLO 1

1.1 – I PRECEDENTI STORICI DEL FEMMINISMO

1.1.1- Il primo femminismo

A differenza di quanto si possa pensare il femminismo non è un’invenzione degli ultimi

due secoli anche se più andiamo indietro nel tempo più il dibattito risulta essere

esclusivo appannaggio maschile. Se si vuole individuare quella che può essere definita

la prima donna a parlare di problemi di genere si può arrivare fino al quindicesimo

secolo con la francese Christine de Pisan (1364-1430). L’influenza di questa autrice può

essere rintracciata nel dibattito inglese della fine del diciassettesimo secolo quando

iniziò la prima significativa ondata di protesta femminile. In quel periodo le donne

iniziarono ad avere accesso ad opuscoli riguardanti la questione di genere pubblicati,

solitamente, in forma anonima. Il contesto storico del momento, segnato da un radicale

mutamento economico, politico e sociale, oltre che da un nuovo interesse delle donne

per la propria condizione, fece sì che la discussione, iniziata in quel momento, risultasse

radicalmente diversa da tutto ciò che c’era stato in precedenza. Benché sia indubbio che

il dibattito riflettesse le tensioni e i bisogni di una società in mutamento e, di

conseguenza, il disagio delle donne per la loro condizione, si deve fare molta attenzione

nel derivare la teoria femminista dalla condizione della donna nel periodo in analisi in

quanto molti sono i fattori esterni che tendono a modificare la prospettiva. Nonostante

questo, è fondamentale ricordare che queste teorie nacquero in un periodo in cui il

capitalismo nascente aveva messo le donne davanti alla contraddizione della staticità del

proprio ruolo a fronte di un mutamento sostanziale della società.

La transizione da una società perlopiù agraria verso un sistema industriale portò ad

avere sempre più lavoratori salariati, una divisione del lavoro sempre più complessa e il

declino del tradizionale sistema di impresa familiare creando, per la prima volta, una

netta distinzione tra sfera pubblica (il mondo del lavoro) e sfera privata (la casa e la

famiglia). In questo contesto le donne vennero progressivamente escluse da attività e

professioni in cui erano precedentemente impiegate venendo relegate nell’ambito

domestico. Non deve sorprendere, dunque, che la condizione della donna fosse oggetto

di dibattito. La questione dell’autorità dello stato e del padre di famiglia erano

intimamente connesse all’analisi politica del tempo in quanto il patriarcato veniva

considerato, di fatto, parallelo al potere dello stato sulla società. L’indebolimento di una

9

di queste due istituzioni avrebbe automaticamente portato all’indebolimento dell’altra

con effetti rivoluzionari sulla società stessa1. L’emancipazione della donna, nel suo

duplice aspetto di processo sociale concreto e di presa di coscienza, andò di pari passo

con il generale cambiamento politico ed economico di tutta la società. I suoi inizi

coincisero con due momenti fondamentali della storia moderna: la rivoluzione

industriale e la rivoluzione francese, i due nodi dialettici del passaggio da una società

feudale- mercantilistica a una società borghese-capitalistica. L’impiego di manodopera

femminile, nei paesi dove la rivoluzione industriale muoveva i primi passi, obbligò le

donne a durissime condizioni di lavoro ma, chiamandole a partecipare direttamente alla

produzione, ne incentivò l'emancipazione accrescendo la loro indipendenza, demolendo

il sistema patriarcale e permettendo loro di svincolarsi dagli stringenti rapporti familiari

e domestici2. La lotta della donna ebbe molteplici aspetti in comune con la lotta del

nascente proletariato industriale3.

Gli albori del movimento delle donne si collocano in un periodo storico di radicali

mutamenti economici, sociali e culturali, di innovazioni tecniche e di costume. Alcune

di queste scoperte ebbero effetti rivoluzionari, come ad esempio i telai meccanici che

eliminarono il lavoro artigianale casalingo e misero donne e uomini in concorrenza in

ambito manifatturiero, settore diventato esclusivamente extra familiare. Grandi masse di

donne e uomini andarono, quindi, ad ingrossare le file della forza lavoro disponibile

entrando tra loro in concorrenza. Oltre al lavoro esterno, le donne dovettero, inoltre,

occuparsi della dimensione familiare e del supplementare lavoro casalingo non

retribuito in quanto non considerato lavoro produttivo4.

La metà del diciottesimo secolo vide un arretramento del movimento femminista in

quanto coloro che ritenevano che anche le donne avessero il dono della ragione

risultavano meno convincenti di coloro che sostenevano l’innata debolezza e

dipendenza delle donne dagli uomini. Nonostante questo, durante tutto il periodo molte

donne continuarono a scrivere e, in questo modo, la questione dell’istruzione femminile

1 Valerie Bryson, Feminist political theory: an introduction, Londra, The Macmillan Press, 1992, pag.

11-13.

2 Vladimir Ilich Lenin, L’emancipazione della donna, Roma, Editori Riuniti, 1971, pag. 21-22.

3 Rosalba Spagnoletti, I movimenti femministi in Italia, Roma, La Nuova Sinistra: Samonà e Savelli,

1971, pag. 8.

4 Cavarero, Restaino, Le filosofie femministe, Bruno Mondadori, Milano, 2002, pag. 8-9.

10

non scomparve completamente dalle agende politiche benché fosse diventata sempre più

marginale. Molte donne dell’epoca dichiararono, inoltre, di opporsi fermamente alle

idee femministe in quanto accettavano che la loro posizione fosse subordinata agli

uomini data la differenza biologica e sessuale, ma nello stesso tempo, negando le loro

stesse affermazioni vivevano ogni giorno da donne emancipate e indipendenti.

Nel corso della rivoluzione francese del 1789 molte donne parteciparono assiduamente

alle sedute dell’assemblea intervenendo attivamente nei dibattiti. Nel clima egalitario ed

illuministico della rivoluzione francese presero corpo importanti aspetti della questione

femminile che affondarono le loro radici nella cultura e nelle rivendicazioni

democratico-borghesi del tempo e che ebbero tra le loro principali animatrici donne dei

ceti intellettuali e borghesi5. Emersero, così, personalità come Olympe de Gouges che,

nel 1789, con il “Cahier des doléances et réclamations des femmes” chiese la libera

partecipazione delle donne in tutti i settori della vita pubblica e amministrativa. In

seguito, ritenendo che “l’esercizio dei diritti naturali della donna non trova limiti se non nella

perpetua tirannia dell’uomo che le si oppone”6 pubblicò, nel 1791, la “Dichiarazione dei

diritti della donna e della cittadina” in cui reclamava il diritto di voto, la possibilità di

accedere a tutti gli impieghi pubblici e l’uguaglianza per le donne. Il suo impegno

politico fu tanto inviso alle autorità che poco tempo dopo venne ghigliottinata7. Con il

riflusso dello slancio rivoluzionario le conquiste ottenute anche con la partecipazione

delle donne del terzo stato vennero abrogate sino a quando, nel 1804, il codice

napoleonico confermò la vecchia condizione di inferiorità delle donne8.

Con l’Illuminismo e la forte critica al potere centrale iniziò la rivendicazione di questi

diritti che, però, rimasero a lungo esclusivo appannaggio degli uomini. Mary

Wollstonecraft ha il merito di aver dimostrato con “Vindication of the rights of

woman”, opera pubblicata a Londra nel 1792, che tali diritti potevano essere concessi

anche alle donne. Nonostante la sistematizzazione delle richieste femministe durante la

rivoluzione francese fosse rimasta incompiuta, gli effetti sulla consapevolezza delle

donne furono enormi portando ad un aumento esponenziale della partecipazione

femminile a movimenti emancipazionisti sia in Francia sia all’estero. Laddove questo

5 Rosalba Spagnoletti, op.cit., pag. 8-9.

6 Annie Goldmann, Le donne entrano in scena, Firenze, Giunti Gruppo Editoriale, 1996, pag. 44.

7 Ibidem.

8 Rosalba Spagnoletti, op.cit., pag. 9.

11

non avvenne non fu per la teoria femminista in sé, ma perché questa veniva identificata

come ideologia rivoluzionaria connessa con la violenza e, dunque, turbativa dell’ordine

precostituito9.

L'opera della Wollstonecraft risultò scandalosa così come scandalosa fu la vita

dell’autrice. Nonostante fosse nata in una famiglia di modesta estrazione sociale in

perenne difficoltà economica, l'autrice riuscì a studiare rendendosi molto presto

indipendente dalla famiglia. Alla Wollstonecraft bisogna riconoscere di essere stata tra

le scrittrici che meglio hanno rappresentato la condizione femminile. La sua analisi,

infatti, indicò alle donne, in maniera moderna e innovativa, un percorso di

emancipazione che passava per la definizione metodica dei diritti che si intendeva

conquistare e dei modi per ottenerli10. In continuità con le posizioni delle prime

femministe la Wollstonecraft rifiutò il principio per cui si presumeva che le donne

avessero minore ragionevolezza rispetto agli uomini e che debolezza e frivolezza

potessero, invece, essere considerate caratteristiche peculiari del genere femminile.

Affermò, inoltre, che le donne e gli uomini avrebbero dovuto avere uguale possibilità di

accesso all'istruzione dato che erano entrambi in possesso della ragione. L'autrice si

spinse a riconoscere il libero arbitrio delle donne con la conseguente necessità di dar

loro un ruolo nella società attraverso la garanzia di diritti e doveri. L'autrice scrisse in

un periodo di radicale trasformazione e di sviluppo industriale in cui si aprirono nuove

possibilità di impiego prive di garanzie per le donne proletarie, mentre nelle classi

medie le possibilità di impiego femminile erano quasi nulle e la donna era relegata al

ruolo di oggetto ornamentale del marito. In questo contesto la Wollstonecraft affermò,

dunque, la necessità di educazione, lavoro, diritto di proprietà e diritti civili per le

donne. A suo parere questi cambiamenti avrebbero limitato i matrimoni dettati dalla

necessità economica e avrebbero affrancato le mogli dalla benevolenza dei mariti. Il

rifiuto della distinzione tra sfera pubblica e sfera privata in quanto limitativa della

libertà della donna era strettamente collegato con la ricerca dell'indipendenza

economica in quanto la donna svolgendo lavori di casa non pagati veniva mantenuta

totalmente dall’uomo che operava nella sfera pubblica. Alla luce di questa analisi è stato

in seguito rimproverato alla Wollstonecraft di difendere i soli diritti delle donne della

9 Valerie Bryson, op.cit., pag. 17-19.

10 Cavarero, Restaino, op.cit., pag. 3-5.

12

classe media nell’ottica di una parità all’interno della sola borghesia11. Nonostante

l'analisi della Wollstonecraft fosse molto efficace, l'autrice mancò totalmente nella

sistematizzazione di un programma di cambiamento.

Si può, invece, iniziare a parlare di un grande movimento politico, la “prima ondata” del

femminismo, verso la metà del 1800 quando in Gran Bretagna e Stati Uniti decine di

migliaia di donne riuscirono, per la prima volta in maniera organizzata, a porre

all'attenzione della società la questione femminile, arrivando ad ottenere conquiste

pratiche di grande rilevanza come maggiore accesso all'istruzione e alcune forme di

tutela in ambito lavorativo. Molto diversi erano i bisogni delle donne della classe media

e quelli delle proletarie e il mondo femminile risultò inevitabilmente diviso sia dal

punto di vista dell'analisi sia da quello delle pratiche e degli obiettivi della lotta. Le

donne appartenenti alle classi dominanti dell’epoca precedente e alle nuove classi

borghesi emerse nel settore mercantile e capitalistico scelsero consapevolmente di non

entrare in conflitto con gli uomini sul piano economico perché, vivendo mantenute da

padri, mariti o fratelli e passando dal possesso-protezione dell’uno a quello dell’altro,

non avevano alcuna possibilità di concorrere. Questa condizione si configurava come

privilegiata rispetto a quella delle donne delle classi lavoratrici, pur non essendo per

nulla “gratificante” per molte di loro. Allo stesso modo la questione femminile non

poteva essere considerata esclusivo appannaggio delle donne appartenenti alle classi

proletarie costrette a vendere la loro forza lavoro entrando in concorrenza con uomini e

bambini per accedere al mercato del lavoro12.

Le prime crearono, dunque, un movimento di sole donne, in seguito chiamato

femminista per rivendicare principalmente il diritto di voto e altri diritti mentre le

seconde non riuscirono a costruire un movimento di sole donne essendo, in una certa

misura, costrette ad accettare l’assorbimento delle loro esigenze e richieste di donne

nelle più generali teorizzazioni e pratiche organizzative che univano le rivendicazioni di

tutti i soggetti sfruttati. La problematica femminile sul piano teorico, pratico e politico,

si configurò, quindi, dalla metà dell’ottocento, come oggetto e impegno di due

orientamenti dominanti che alcune volte trovarono ragioni comuni di lotta ma più

spesso ragioni di dissenso. Da una parte il focus veniva posto sulla necessità di ottenere

uguali diritti civili e politici per tutti, mentre dall'altra si parlava di lotta di classe e

11 Valerie Bryson, op.cit., pag. 22-27.

12 Cavarero, Restaino, op.cit., pag. 9.

13

rivoluzione. Le personalità e le correnti femministe sono state tradizionalmente

ricondotte a gruppi ideologici più generali perchè da questi hanno preso a prestito

principi fondativi e visioni del mondo supportando in maniera variabile le diverse

ideologie e modificando di conseguenza le proprie rivendicazioni e il proprio

linguaggio13. Questo fu più evidente durante le prime lotte quando le donne provarono

ad imporsi nella società applicando anche a sé stesse le teorie che venivano

propagandate per gli uomini. L'orientamento liberale e quello socialista sono un ottimo

esempio di questo.

1.1.2- La corrente liberale

Nella prima metà dell'ottocento si aprirono per molte operaie nuove possibilità di lavoro

che avrebbero potuto offrire un certo grado di indipendenza economica, ma solo in

maniera provvisoria, in quanto questa sarebbe stata persa al momento del matrimonio.

Per le donne delle classi medie, invece, l'unica fonte di sostentamento e di sicurezza

economica rimase il marito. Crebbe così la separazione tra la sfera pubblica e la sfera

privata e si rafforzò l'idea del maschio produttore e della donna riproduttrice14. Le teorie

che propagandarono questa divisione tralasciarono le migliaia di donne lavoratrici che

contribuivano considerevolmente alle finanze familiari e le donne non sposate,

considerate anomalie del sistema. L'analisi liberale, perlopiù inglese e nata grazie ai

contributi teorici di Harriet Taylor e di John Stuart Mill, partì da questo contesto per

proporre una visione complessiva della subordinazione femminile. Obiettivo comune

degli scritti dei due fu da una parte la negazione della presunta inferiorità della donna,

dall’altra l’individuazione di metodi e mezzi necessari al superamento della condizione

di inferiorità e di soggezione della donna rispetto all'uomo in tutti gli strati sociali. Essi

mossero dal presupposto illuminista per cui ogni essere umano è “naturalmente”

autonomo, razionale e morale e, per questo, deve essere libero di esercitare nella società

i diritti che ne derivano. Individuando nel contesto storico e non nella natura la ragione

della sottomissione delle donne, indicarono i modi e i metodi per conquistare quei diritti

che le donne si vedevano negati15. Da un certo punto di vista The subjection of women

13 Dolores Morondo Taramundi, Il dilemma della differenza nella teoria femminista del diritto, Pesaro,

ES@, 2004, pag. 10-13.

14 Valerie Bryson, op.cit., pag. 36.

15 Cavarero, Restaino, op.cit., pag. 10-11.

14

di John Stuart Mill fu un semplice ampliamento della dottrina illuminista alle donne.

Affermando che la presunta inferiorità femminile derivava da pressioni sociali e

mancanza di educazione, concluse che dovessero essere concesse alle donne le stesse

opportunità degli uomini. Questo implicava l'erroneità della distinzione tra uomini e

donne e la necessità della perfetta uguaglianza legale tra i sessi. Pur affermando

l'uguaglianza, John Stuart Mill riconobbe l'esistenza di differenze tra uomini e donne

che ne delineavano i compiti nella società e, anche se lasciò un certo margine al libero

arbitrio, ribadì, in questo modo, una distinzione tra sfera pubblica e sfera privata16.

Il movimento delle donne, nato ed affermatosi negli ultimi decenni dell’ottocento e nel

primo decennio del novecento e ispirato alle tesi liberali e ugualitarie, ebbe come

obiettivo essenziale l’uguaglianza tra i sessi nell'ambito della legge. Anche se questi

movimenti femministi furono, perlopiù, composti da donne delle classi medie con

intenti riformisti questo non significava necessariamente un'accettazione acritica dei

valori e delle priorità maschili. Per molte donne l'ottenimento di diritti legali e politici

non era solamente un modo per sentirsi pari agli uomini, ma un modo per migliorare le

condizioni di vita domestiche senza dover mettere in dubbio la dottrina delle sfere

separate17. Fu proprio la mancanza di intenti rivoluzionari che consentì ai movimenti

appartenenti a quella che è stata definita “prima ondata” di ottenere buona parte, anche

se non la totalità, dei diritti richiesti.

Durante il diciannovesimo secolo le prime richieste femministe vennero messe al centro

del programma politico di numerosi movimenti che si erano formati per sostenere

riforme legislative, politiche ed educative nella società, nella prospettiva di una

campagna di massa a favore del suffragio universale. Questo tipo di femminismo

affermò la necessità di permettere alle donne di entrare in politica in base alla

concezione per cui le donne avrebbero portato, grazie alla loro superiorità morale, un

effetto benefico alla società. Queste autrici non denigrarono, dunque, il ruolo della

legge, ma chiesero una riforma che permettesse l'estensione di diritti già esistenti anche

al mondo femminile. Pur non portando avanti un attacco organico al sistema socio-

economico, al matrimonio e alla famiglia si può evidenziare, comunque, un certo grado

di radicalismo nelle posizioni di queste femministe. Individuarono nella società due

classi in completa antitesi e distintamente separate, quella degli uomini e quella delle

16 Valerie Bryson, op.cit., pag. 54-57.

17 Ibidem

15

donne, e accompagnarono frequentemente questa divisione con la celebrazione della

solidarietà femminile18.

Mentre nei paesi di religione cattolica la Chiesa si oppose duramente al femminismo, in

quanto riteneva che distruggesse la famiglia patriarcale, nei paesi di religione

protestante, come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, il movimento femminista ebbe

maggiore successo. Il primo congresso sui diritti delle donne che si tenne, grazie al

contesto favorevole, proprio negli Stati Uniti, fu il “Seneca Falls Convention” del 1848

da cui uscì una dichiarazione che intendeva garantire uguali diritti a tutti

indipendentemente dal sesso19. Il congresso costituì una pietra miliare per il

femminismo liberale dato che, da quel momento in avanti, la razionalità delle donne e

l’uguaglianza tra uomini e donne vennero presi come dati di fatto e le fumose richieste

di emancipazione del passato si trasformarono in concrete richieste di mutamento.

Nonostante sia un aspetto marginale della dottrina femminista liberale, non bisogna

dimenticare l'analisi della dimensione privata dell'oppressione. Le liberali non parlarono

specificatamente di questo aspetto, non perché fosse meno importante, ma perché

credevano che la soluzione alla violenza in famiglia passasse necessariamente per

l'acquisizione dell'indipendenza economica o della tutela legale. L’avvio massiccio della

campagna per il suffragio iniziò verso la fine del secolo quando sembrava che gli altri

diritti fossero stati ottenuti.

1.1.3- La corrente socialista

Tematiche relative alla condizione di subordinazione della donna e alle possibilità di

liberazione furono presenti nel corso del diciannovesimo secolo sia in molte donne

impegnate nelle lotte operaie sia in teorici utopisti come Saint Simon o Fourier che,

nella “Teoria dei quattro movimenti e dei destini generali” del 1808, ne rivelò la

specificità20. La lotta della donna si legò, in molte occasioni, a quella del proletariato e

anche in quei paesi dove essa ebbe contenuti e programmi di stampo liberale non ignorò

i contributi che il socialismo le mise a disposizione.

L’unione tra il pensiero socialista utopista e l’analisi femminista liberale di John Stuart

Mill e di Harriet Taylor portò alla nascita del movimento delle femministe socialiste.

18 Cavarero, Restaino, op.cit., pag. 10-11.

19 Vedi ALLEGATO A.

20 Rosalba Spagnoletti, op.cit., pag. 9.

16

Un movimento particolarmente eterogeneo al cui interno si delinearono alcuni principi

comuni. L’obiettivo non era l’uguaglianza dei diritti all’interno del sistema esistente, ma

all’interno di una società radicalmente modificata priva di proprietà privata in cui alle

donne venisse garantita l'indipendenza sia economica sia legale21. Venne fortemente

contestata la divisione del lavoro per genere e si affermò la necessità che le donne

avessero accesso al mondo del lavoro e che, contemporaneamente, gli uomini

condividessero l’onere del lavoro domestico. La famiglia come istituzione venne

condannata in quanto fonte del potere maschile, bastione di un individualismo

incompatibile con la cooperazione socialista e limite al libero arbitrio. Infine si ritenne

che la libera espressione della sessualità e l’amore libero potessero essere alla base di

una società libera. Per un breve periodo socialismo e femminismo furono fortemente

legati dall’idea per cui solo trasformando la vita personale dei singoli si sarebbero potuti

sviluppare significativi mutamenti sia in campo politico sia nel campo socio-

economico22.

Dopo il fallimento dei socialisti utopisti nel delineare un programma di azione concreto

si arrivò nel 1884 all'elaborazione più organica di tali tematiche con gli scritti di Karl

Marx e Frederich Engels e, in particolar modo, con il saggio engelsiano L’origine della

famiglia, della proprietà privata e dello stato. Nell’analisi di Engels le donne avrebbero

smesso di essere protagoniste della storia quando, passando all’allevamento e

all’agricoltura stanziale, l’uomo iniziò ad avere una proprietà privata da difendere.

Nacque, così, il patriarcato e, con esso, la schiavitù della donna rispetto all’uomo.

L’origine della proprietà privata, della famiglia monogamica, segnarono quindi l’origine

della schiavitù della donna, il passaggio da una condizione di libertà-parità ad una di

subordinazione e inferiorità23. Nonostante Marx non avesse mai dedicato una specifica

analisi alla condizione della donna, più volte individuò questo parametro come metro di

valutazione di progresso sociale di una società. La teoria marxista, inoltre, offrì

un'analisi della storia e della società ritenuta da molti efficace e, per questo, utilizzata in

seguito per la teorizzazione femminista di ambito socialista.

La tesi di fondo, che distingue l’orientamento socialista da quello liberale sul tema, è

che le conquiste legali di uguaglianza formale tra uomini e donne non cambino, se non

21 Valerie Bryson, op.cit., pag. 27-31.

22 Ibidem.

23 Cavarero, Restaino, op.cit., pag. 15-17.

17

in misura minima, le condizioni materiali di subordinazione della donna come non

hanno cambiato le condizioni materiali di subordinazione dei proletari24. I marxisti

ritennero che le riforme legali e politiche non fossero sufficienti per assicurare la fine

della subordinazione femminile. Non ritenendo analizzabile in astratto la questione

femminile posero, dunque, le basi per una indispensabile contestualizzazione.

L'opposizione all'emancipazione della donna non doveva, dunque, essere considerata

solo una questione di ingiustizia, ma si credeva riflettesse interessi materiali e bisogni

economici strutturali della società. Per le donne, come per ogni gruppo oppresso,

l'emancipazione non sarebbe stata ottenuta, perciò, attraverso la garanzia di diritti civili

e politici, ma solamente attraverso la ristrutturazione dell'intera società al fine di

ottenere la perfetta eguaglianza economica tra tutti. Si ritenne, inoltre, che le condizioni

materiali per questo cambiamento fossero già presenti nella società contemporanea e

che un cambiamento vincente necessitasse sia di circostanze oggettive sia di volontà

rivoluzionaria consapevole e organizzata. La lotta per l'uguaglianza sessuale venne

totalmente subordinata alla lotta di classe in base alla considerazione per cui la piena

libertà femminile, come quella maschile, avrebbero potuto essere ottenute solo

attraverso la sostituzione del capitalismo con il comunismo. Infine sottolinearono con

forza che la piena indipendenza economica non era sufficiente per stabilire

l'uguaglianza tra uomini e donne, a questo fine sarebbe stata necessaria una

riorganizzazione su basi collettive della cura della casa e dei bambini.

Questo è il contributo positivo del marxismo alla teoria femminista, ma esiste anche un

contributo negativo. Non riconoscendo alcuna oppressione al di fuori di quella

economica si negò la possibilità che esistesse un conflitto non economico tra i sessi e

che il patriarcato potesse resistere alla caduta del capitalismo25. Il patriarcato e la

monogamia, intesa come possesso della moglie, non erano, inoltre, esclusivo

appannaggio della borghesia in quanto anche il marito proletario si comportava come

padrone all’interno della famiglia ed era, per questo, necessario allargare l'analisi anche

ad altri settori oltre a quello economico26.

Per i 150 anni seguenti le campagne suffragiste furono molto lontane dalle

rivendicazioni socialiste di lotta di classe facendo, spesso, scomparire la dimensione più

24 Cavarero, Restaino, op.cit., pag. 15.

25 Valerie Bryson, op.cit., pag. 67.

26 Cavarero, Restaino, op.cit., pag. 17.

18

ampia della lotta per l'emancipazione.

1.1.4- La campagna per il suffragio

Attorno alla fine del diciannovesimo secolo molte delle richieste avanzate dal

movimento femminista del periodo precedente erano state accolte sia in Gran Bretagna

sia negli Stati Uniti. In particolare nel campo dell'educazione, nonostante le condizioni

fossero molto lontane dall'essere egualitarie, si era ampliato notevolmente il numero di

donne e ragazze che vi potevano accedere. Una delle prime conseguenze fu una

maggiore richiesta di insegnanti, nuova fonte di lavoro per molte donne delle classi

medie come era stato per il contemporaneo sviluppo del lavoro da ufficio. La sola

educazione non poteva, però, affrancare le donne dal loro tradizionale ruolo nella

società soprattutto perché la maggior parte dei college puntava più a creare buone madri

e buone mogli che non donne indipendenti. Allo stesso modo le nuove forme di lavoro

non portarono alla liberazione della donna, ma, molto spesso, a nuove forme di

sfruttamento. Il fatto che fossero stati rimossi tutti gli ostacoli formali al riconoscimento

della razionalità femminile e che l'incremento dell'educazione avesse dato alle donne gli

strumenti intellettuali per richiedere i diritti derivanti non portò automaticamente al

miglioramento della condizione femminile27.

I cambiamenti pratici furono accompagnati da mutamenti culturali, sociali e di nuove

prospettive soprattutto per le donne della classe media. Questo fermento non andò, però,

ad intaccare il rigido controllo della morale sessuale. Anche se esisteva maggiore

apertura nella discussione di questi argomenti la libertà sessuale, l'amore libero e il

controllo delle nascite continuarono ad essere visti più come sfruttamento che non come

liberazione delle donne. In quello stesso periodo le donne fecero il loro ingresso nella

sfera pubblica in maniera massiccia. Per molte di loro, appartenenti perlopiù alla classe

media questa attività pubblica fu una semplice estensione del tradizionale lavoro

caritatevole mentre per la maggior parte delle donne lavoratrici questa entrata fu

mediata da organizzazioni sindacali, sia miste che di sole donne, che stavano nascendo

in quegli anni. Nonostante il sindacalismo femminile coinvolgesse solo una piccola

parte delle donne occupate, suscitò, spesso, l'ostilità sia dei datori di lavoro sia degli

altri lavoratori perché considerato dagli uni oppositore e dagli altri concorrente. Alla

fine del secolo, dunque, le donne non erano più totalmente escluse dalla vita pubblica e

27 Valerie Bryson, op.cit., pag. 80-84.

19

dal dibattito politico e molte di loro avevano conquistato un ruolo anche fuori casa. Per

queste donne il diritto di voto, che era sembrato una richiesta rivoluzionaria pochi anni

prima, era ora una necessità evidente. In questo contesto la campagna per il suffragio

iniziò a dominare l'agenda del femminismo sia in Gran Bretagna sia negli Stati Uniti28.

Il movimento delle suffragette, sviluppatosi tra il 1860 e il 1930, ebbe un ruolo

determinante nell'affermazione dell'eguaglianza di genere grazie alla sua opera di

collegamento tra donne di diversa classe sociale e di diversa istruzione al fine di

raggiungere un obiettivo comune: il diritto di voto. Nonostante le mobilitazioni di

massa, talvolta violente, la richiesta del diritto di voto, divenuto ormai irrinunciabile,

incontrò durissime resistenze29. La richiesta di concessione del diritto di voto venne

percepita come centrale in quanto l’esplicita esclusione delle donne dalla partecipazione

politica rappresentava la chiara volontà di mantenere la donna in condizione di

inferiorità rispetto all'uomo. La concentrazione delle energie femministe nella

campagna per il voto nei primi anni del ventesimo secolo venne, spesso, percepita come

una distrazione rispetto ad argomenti più importanti. In realtà la richiesta di voto ebbe

significati molto diversi a seconda di chi la sostenne. Questo implicò che, per quanto

per alcune donne il suffragio costituisse un fine in se, per molte altre fece parte di una

progettualità più ampia. Verso la fine del secolo, in particolare in America, in molte

frange del movimento suffragista dominò l'idea che le donne, essendo maggiormente

pacifiche, avrebbero sedato conflitti e moralizzato la gestione degli affari pubblici se

fosse stato loro concesso di partecipare alla vita politica del paese. Con questo tipo di

analisi si dipinse una donna ideale, madre e nutrice, a cui gli autori del tempo chiesero

esclusivamente di non snaturarsi e, dunque, di non voler assomigliare all'uomo30.

La combinazione dei concetti di uguaglianza di diritti e di differenza naturale fu oggetto

dell’analisi del movimento femminista portandolo, infine, a spaccarsi in due. Parte di

coloro che si allontanarono dal concetto cardine di eguaglianza di diritti approdarono ad

una analisi ricca di istanze anti-democratiche. Per quanto possa essere paradossale

coloro che chiedevano diritti per le donne domandavano, altresì, che questi stessi diritti

venissero negati ad alcune categorie di individui sulla base del censo, della razza e della

28 Valerie Bryson, op.cit

., pag. 84.

29 Annie Goldmann, op.cit., pag. 54-56.

30 Ibidem.

20

classe. E’ importante ricordare che in Inghilterra la campagna per il suffragio iniziò in

un periodo in cui il diritto di voto era negato anche a molti uomini delle classi

lavoratrici e le suffragette, appartenenti perlopiù alla classe media, scelsero

consapevolmente di non fare una lotta per il suffragio universale, ma di rivendicare il

loro diritto di voto in quanto appartenenti ad una classe a cui era già garantito questo

diritto. Nonostante questo, la campagna suffragista rafforzò enormemente le istanze del

movimento operaio e, alla fine del secolo, il diritto di voto era stato concesso a larga

parte degli uomini di questa classe31. Negli Stati Uniti questa spinta anti-democratica fu

meno imponente anche se a partire dal 1903 si portò avanti la rivendicazione del

suffragio con la parola d’ordine del “voto educato”. In questo modo il voto per le donne,

che era stato in passato espressione di uguaglianza dei diritti, divenne un aspetto di

privilegio sociale in quanto venne chiesta la garanzia di questo diritto solo per le donne

istruite32.

Non condividendo la prospettiva del voto come fine ultimo della lotta per

l'emancipazione e ambendo ad un mutamento più ampio della società che andasse a

migliorare le condizioni di vita di tutti, molti di coloro che lottavano per il suffragio non

accettarono questa prospettiva conservatrice ed elitaria. Negli Stati Uniti alcune frange

della campagna per il suffragio tentarono di coinvolgere nella lotta donne della classe

lavoratrice, nere ed immigrate. In Inghilterra coloro che si opposero alla linea liberale

scelsero di portare avanti una lotta per estendere il diritto di voto a tutti indistintamente

dal sesso, dalla classe e dalla razza. In altre parti d'Europa la lotta per il diritto di voto fu

gestita completamente dai partiti socialisti di massa molto più che dalle donne delle

classi medie. In Germania, dove le contraddizioni di classe erano più nette per

l’arretratezza dei vecchi rapporti di produzione e dell’apparato politico-istituzionale e

dove il peso del marxismo era sempre più rilevante, un'analisi femminista marxista

individuò nella concessione di diritti alle donne una importante arma per la guerra

rivoluzionaria e si ribadiva che l'oppressione della donna sarebbe stata superata

abbattendo il capitalismo33. Dopo una prima fase nazionale i movimenti femministi si

internazionalizzarono attraverso la nascita delle prime leghe come l’International

31 Cavarero, Restaino, op.cit., pag. 18-19.

32 Valerie Bryson, op.cit., pag. 81-83.

33 Rosalba Spagnoletti, op.cit., pag. 10.

21

Council of Women del 188934.

La situazione venne radicalmente modificata dalla prima guerra mondiale e

dall'ingresso delle donne nel mondo del lavoro per sostituire gli uomini al fronte. Alla

fine della guerra, dopo aver per anni gestito l’economia dei loro paesi, occupando posti

sia nell’industria sia nell’amministrazione, le donne non furono più disposte ad essere

tenute ai margini delle decisioni politiche. Il primo paese nel mondo a concedere il

diritto di voto alle donne fu la Nuova Zelanda nel 1894, seguito a breve dall'Australia;

in Europa sia Finlandia che Norvegia garantirono questo diritto nel 1914 e molti altri lo

fecero poco dopo la fine della prima guerra mondiale, come la Germania. In Gran

Bretagna venne raggiunto un risultato parziale con la concessione del voto alle donne

della classe media con più di trent'anni nel 1918 grazie alla campagna, con azioni molto

dure e spettacolari, delle suffragette inglesi. Questo fece sì che poco più del cinquanta

percento delle donne del paese avesse diritto a votare. Negli Stati Uniti il voto venne

concesso gradualmente stato per stato fino ad essere sancito ufficialmente con il

diciannovesimo emendamento nel 192035. Le femministe statunitensi appartenevano,

perlopiù, ad una classe media relativamente istruita e benestante e questo portò ad una

automatica esclusione dal movimento delle donne nere che non si riconobbero nei

bisogni e nelle scelte della maggioranza e crearono loro organizzazioni. Durante la

prima guerra mondiale la questione del voto fu parte integrante del dibattito politico

negli Stati Uniti e le femministe manifestarono, organizzarono conferenze e riunioni

inondando i giornali con articoli per tentare di sensibilizzare l’opinione pubblica sul

diritto di voto. Nonostante tutto questo impegno, fu soprattutto l’apporto delle donne

alla produzione bellica che fece pendere il corso delle cose a loro favore36.

L'ottenimento del diritto di voto fu, di fatto, una grande vittoria per le femministe della

“prima ondata”, nelle sue correnti liberale e socialista, ma non portò ad una situazione

di tranquillità. Dopo il raggiungimento di questi importanti obiettivi il movimento si

trovò ad affrontare un periodo di crisi di identità e di proposte che durò circa

cinquant’anni37. Tra le due guerre, infatti, si assistette ad un periodo di particolare

travaglio per il movimento femminista. Il voto aveva dimostrato in primo luogo che le

34 Rosalba Spagnoletti, op.cit., pag. 10.

35 Annie Goldmann, op.cit., pag. 51-53.

36 Ibidem.

37 Cavarero, Restaino, op.cit., pag. 19.

22

donne non votavano tutte allo stesso modo ma, come gli uomini, a seconda della classe,

della religione e delle tradizioni familiari. Non si può, però, parlare di anni di silenzio

del femminismo, in quanto furono anni di grande dibattito in cui divennero evidenti le

profonde contraddizioni nascoste nella campagna per il suffragio. Argomenti chiave di

questo periodo furono la questione della legislazione a tutela della salute delle donne

contro gli effetti particolarmente dannosi del lavoro pesante e delle lunghe ore di lavoro,

lo speciale trattamento lavorativo in caso di maternità e il gravoso problema del

controllo delle nascite 38.

Una delle prime occasioni in cui le donne ottennero la parità tra i sessi fu in Russia in

seguito alla rivoluzione del 1917. Uno dei primi decreti del nascente governo

rivoluzionario sancì l’uguaglianza giuridico-formale tra i due sessi e approvò una serie

di provvedimenti atti ad assicurare anche una parità sostanziale. Fu una conquista che le

donne russe, le quali avevano già partecipato alle lotte del 1905, ottennero in prima

persona. La rivoluzione di ottobre fu, dunque, sia una vittoria per le donne russe sia un

momento particolarmente importante per il movimento femminista in generale, e

soprattutto per quello di ispirazione marxista39. Per molte donne europee la nascita di un

paese comunista era un banco di prova per vedere se l'emancipazione proposta dalle tesi

marxiste potesse essere realizzabile nella realtà. L'importanza della questione femminile

nella strutturazione del governo rivoluzionario può essere efficacemente evidenziata

attraverso le parole di Lenin che affermò più volte che l’edificazione del socialismo

sarebbe cominciata soltanto dopo la realizzazione dell’uguaglianza della donna, non

discostandosi, dunque, né dalle posizioni degli utopisti come Fourier né da Marx. La

vera emancipazione veniva, dunque, equiparata al vero comunismo. Tuttavia si riteneva

che l’emancipazione delle operaie dovesse essere opera delle operaie stesse

sintetizzando la questione operaia e la questione femminile nell'ottica di una

trasformazione socialista della società40. Allo stesso modo nell'organizzazione pratica

del nuovo stato rivoluzionario vennero presi dei provvedimenti per migliorare la

condizione delle donne, come mense collettive, asili e venne favorito l'ingresso della

manodopera femminile nel sistema produttivo.

“Perché la donna sia completamente libera e realmente pari all’uomo, bisogna che i

38 Valerie Bryson, op.cit., pag. 81-83.

39 Rosalba Spagnoletti, op.cit., pag. 11.

40 Vladimir Ilich Lenin, op.cit., pag. 13.

23

lavori domestici siano un servizio pubblico e che la donna partecipi al lavoro

produttivo generale. Allora essa avrà una posizione uguale a quella dell’uomo”41.

L’involuzione generale dell’ottobre rivoluzionario, in seguito, frenò il processo

emancipativo femminile e, nonostante gli innegabili progressi (abolizione di poligamia,

concubinaggio e possesso delle fidanzate bambine, affermazione della parità tra i sessi

in ogni campo), non si ottenne durante l'epoca sovietica la parità sostanziale che le

femministe ritenevano l'obiettivo ultimo42.

1.1.5- Post seconda guerra mondiale

Dopo il rigurgito anti-femminista del nazi-fascismo, contro il quale la donna offrì un

importante contributo attraverso le lotte di liberazione e le organizzazioni partigiane,

nella nuova società dei consumi e del benessere essa sembrò ormai paga del compito

assegnatole43. Entrate in massa a sostituire gli uomini nel lavoro extra domestico durante

la guerra, con il loro ritorno dal fronte, le donne vennero gradualmente rimandate a casa

e invitate ad occuparsi preferibilmente del marito, dei figli e della cura dell’abitazione,

anche se la scarsità di manodopera e la necessità di ristrutturare l'economia

continuarono a garantire la partecipazione di molte di esse al mondo del lavoro. L’invito

a tornare a casa venne affiancato dalla comparsa di accessori sempre più moderni per

rendere gradevoli i lavori domestici, vivibili gli ambienti casalinghi e più facili gli

spostamenti. Le giovani vennero sollecitate a sposarsi presto, a trovare una sistemazione

definitiva nel matrimonio, ad abbandonare studi e lavoro extra domestico rinunciando

ad ambizioni professionali a favore della realizzazione della “vera” natura femminile44.

L'entrata massiccia di beni di consumo nelle loro vite e il declino della dimensione delle

famiglie, portando a una diminuzione del carico del lavoro domestico, resero sempre

meno attraenti le tesi del femminismo in quanto questo venne visto come movimento

che aveva già vinto e che poco concordava con i valori pro-famiglia imperanti al tempo.

Alle giovani donne, cresciute nell'era post-bellica, era, inoltre, negato l’accesso alla

grande eredità del femminismo data la cesura ideologica rappresentata dalla seconda

guerra mondiale. Fu in questo periodo che alcune pensatrici, non classificabili come

41 Vladimir Ilich Lenin, op.cit., pag. 54.

42 Rosalba Spagnoletti, op.cit., pag. 11.

43 Ivi, pag. 12.

44 Cavarero, Restaino, op.cit., pag. 27-28

24

liberali o socialiste, fecero un bilancio di ciò che le donne avevano fatto e ottenuto con

le loro lotte dirette a conquistare l’eguaglianza nei diritti o nelle condizioni materiali.

Quest’analisi portò a mettere in discussione la validità dell'obiettivo stesso di

uguaglianza e a ricercare un percorso nuovo che sottolineasse l’importanza della

differenza tra donne e uomini in una società, comunque, garante dell’uguaglianza nei

diritti e nelle condizioni materiali per ciascun individuo indipendentemente dal sesso. E'

solo in questo contesto che si può capire l'importanza del “Secondo sesso” di Simone de

Beauvoir (1908-1986), opera che, pubblicata nel 1949, fu a lungo l'unico testo

realmente femminista del periodo45. L’opera della de Beauvoir, tradotta in inglese nel

1953, ebbe larga diffusione presso le donne colte ed urbanizzate d’Europa e degli Stati

Uniti, la cui condizione sociale aveva subito un rapido cambiamento durante gli anni

precedenti46. La de Beauvoir affermò sempre di non aver sofferto il suo sesso pur

riconoscendo che per molte donne fu, invece, molto difficile essere donna. De Beauvoir

ritenne che la donna, nel corso della storia, avesse accettato il suo destino di essere

Altro rispetto all’uomo, il secondo sesso rispetto al primo. La donna, dunque,

condizionata ma mai costretta dalla società, poteva essere considerata complice

dell’uomo nel mantenere invariata tale posizione.

L'opera raccoglie molto materiale filosofico, psicologico, antropologico, storico e

letterario per dimostrare che l’ostacolo maggiore alla libertà femminile non è il dato

biologico, ma la situazione economica47. La de Beauvoir collocò la problematica della

donna, della sua condizione di subordinazione e oppressione, delle cause e delle

possibilità di emancipazione da questa, in una prospettiva dichiaratamente

esistenzialistica. Secondo la sua analisi la subordinazione, se non addirittura la schiavitù

della donna rispetto all’uomo costituiva un fatto constatabile universalmente, per il

quale venivano date spiegazioni insufficienti o sbagliate. Come le femministe radicali

del periodo successivo analizzò i limiti non politici alla libertà della donna, come ad

esempio la famiglia. Allo stesso modo, come le femministe marxiste, non vide la

liberazione delle donne come un processo astorico, ma affermò che solo nelle moderne

condizioni di produzione fosse possibile per le donne realizzare le loro potenzialità con

libertà e autonomia. Nonostante la vicinanza con l'analisi marxista, per cui la

45 Valerie Bryson, op.cit., pag. 150-151.

46 Cavarero, Restaino, op.cit., pag. 23.

47 Valerie Bryson, op.cit., pag. 150-151.

25

liberazione della donna è possibile attraverso l’utilizzo dei mezzi di produzione

disponibili nel periodo, la grande attenzione della de Beauvoir per la razionalità,

l’autonomia e l’autoaffermazione l'avvicinarono molto di più alle tesi liberali che non a

quelle marxiste. L'autrice considerò parziali, quando non errate, le spiegazioni che non

evidenziavano la specificità della condizione di inferiorità della donna, non assimilabile

ad altri tipi di oppressione e/o subordinazione. Da una differenza necessariamente

conflittuale fondata sulla subordinazione, secondo la de Beauvoir, si sarebbe potuti

passare a una differenza armonica stabilita esclusivamente su una distinzione di ruoli

funzionali alla vita nella società. Nel discutere cosa significhi essere donna la de

Beauvoir fece, inoltre, una dettagliata descrizione delle caratteristiche fisiche dell'essere

femminile. Ritenne che nessun aspetto fisico dell’uomo fosse tanto coercitivo quanto gli

aspetti fisici della donna. La gravidanza, le mestruazioni, l'allattamento furono visti

come fortissimi vincoli alla libertà delle donne, intrappolate nel loro corpo, vittime delle

necessità riproduttive della specie. Non accettando che questi handicap fisici potessero

determinare la posizione della donna nella società, affermò che la moderna tecnologia

avrebbe potuto ovviare a questi deficit permettendo alle donne di partecipare alla

produzione.

Pur provenendo da una analisi che aveva il suo fulcro nella condizione della donna della

classe media riconobbe i limiti della teoria basata solo su di esse. Sottolineò, dunque,

come per le donne lavoratrici che si occupino anche del lavoro domestico, il lavoro

esterno fosse più un surplus di sfruttamento che non una via per l'emancipazione. Il

prezzo dell’indipendenza per queste donne era ancora troppo alto. Come le femministe

marxiste (vedi la tedesca Clara Zetkin o la russa Alexandra Kollontai) considerava

l’entrata delle donne nel mondo del lavoro con la conseguente indipendenza economica

come molto più importante rispetto alla garanzia di diritti civili e politici, ma riteneva

che la vera libertà per le donne fosse possibile solo attraverso un mutamento a tutto

tondo che non si limitasse al solo aspetto economico e, quindi, impossibile da ottenere

all'interno di un sistema socialista48.

48 Valerie Bryson, op.cit., pag. 154.

26

1.2 - ITALIA

1.2.1- Le prime esperienze

La storia del movimento di emancipazione femminile in Italia presenta caratteri

peculiari a causa del contesto di questo paese, discontinuo rispetto al resto d'Europa.

L'emancipazione della donna, nel duplice aspetto di mutamento della sua condizione sul

piano sociale e di presa di coscienza deve, dunque, essere letta in relazione alle

caratteristiche proprie del paese Italia e delle sue trasformazioni. Tra queste è necessario

ricordare il ritardo nella transizione da un sistema economico agricolo-artigianale ad

uno industriale a causa della mancanza di una autentica rivoluzione tecnica e

l’influenza del cattolicesimo sul costume e sulla cultura del paese 49. Lo sviluppo

economico, rispetto a quello in atto negli altri paesi europei, fu molto lento e

principalmente ancorato a una struttura pre-industriale sia a causa del grado di

arretratezza strutturale dell’agricoltura che aveva bloccato lo sviluppo italiano sia del

processo di ineguale collocazione geografica della piccola industria, fenomeno specifico

di alcune particolari zone del settentrione. Le conseguenze sociali di questa struttura

economica furono la persistenza di forti legami paternalistici nella famiglia e il

rallentamento della nascita di movimenti realmente femministi a causa della mancanza

del processo di mutamento ben presente, invece, negli altri paesi europei. Allo stesso

modo coloro che divulgavano la fede cattolica, considerando la rivendicazione di diritti

come sovvertimento dell’ordine naturale, indussero il confino della donna nel ruolo di

madre e di sposa, contribuendo, così, a vanificare ogni possibile cambiamento della sua

condizione indotto dai primi bagliori di industrializzazione50.

In coincidenza con le affermazioni egalitarie della rivoluzione francese e la nascita di

movimenti femministi in tutta Europa, in Italia, si assistette ad una situazione di stasi

indotta dal ritardo nell'arrivo di queste idee innovatrici e dal fatto che queste furono,

perlopiù, frutto di elaborazioni ed esperienze straniere51. L'isolamento dell'Italia si

evidenziò con maggiore forza nell'800 quando le battaglie per l'affermazione dei diritti

della donna nei codici di famiglia, la polemica sull'istruzione femminile e la campagna

per il diritto di voto, ebbero in Italia consistenza minore che in altri paesi. Nonostante

49 Rosalba Spagnoletti, op.cit., pag. 13.

50 Ivi, pag. 13-20.

51 Carla Ravaioli, “L’ideologia femminista prima del fascismo” in Alfieri, Ambrosini, La condizione

economica, sociale e giuridica della donna in Italia, Torino, Paravia, 1975, pag. 182-183.

27

tutto è importante ricordare anche questi momenti in quanto furono cruciali per gettare

le basi del nascente processo emancipativo. Un processo molto difficoltoso in quanto

fortemente ostacolato dalle voci contrarie al rinnovamento che pretendevano che la

donna rimanesse al di fuori dell'arena politica pena la "perdita della femminilità".

Questo in quanto la politica veniva percepita come rinuncia a doti propriamente

femminili come la mitezza e la passività52.

Alla fine del XIX secolo la donna venne impiegata in massa nella nascente produzione

industriale, ma questo non significò immediatamente un concreto miglioramento della

sua condizione né portò alla formazione di un movimento di massa sul tipo di quelli già

operanti in altri paesi53. Nonostante Anna Maria Mozzoni avesse fondato nel 1879 una

Lega promotrice degli interessi femminili che si battè per il diritto di voto alle donne, le

prime femministe italiane si interessarono molto di più delle questioni sociali che non di

quelle più propriamente politiche54. Lo sviluppo del movimento femminista in Italia,

che avvenne in quel periodo, ebbe un forte radicamento nel sociale grazie ad una

variegata presenza di associazioni tra loro federate, come società di mutuo soccorso

cattoliche e laiche, associazioni per la donna di carattere culturale e leghe cristiane. Il

movimento italiano, legato a movimenti stranieri, specialmente tedeschi e inglesi, ebbe

l'ambizione di riformare la società nella sua interezza a partire dal miglioramento

concreto della condizione della donna ed ottenne a questo fine, nel 1910, l'istituzione di

una cassa nazionale di maternità da parte dello stato55. E' interessante notare, in

proposito, come la battaglia per i diritti politici, e in particolare per il suffragio

femminile, non incontrasse solo l'opposizione maschile, ma anche quella di molte

donne, talmente condizionate dall'ideologia dominante da accettare il ruolo subordinato

loro assegnato dalla società rendendosi strumento delle forze reazionarie. Forze

politiche conservatrici, mentalità patriarcale diffusa in tutte le classi sociali e presenza

capillare della chiesa cattolica, contribuirono a vanificare ogni sostanziale mutamento

della condizione femminile nonostante l'ingresso massiccio delle donne nel mondo del

lavoro avesse, a fine secolo, messo le stesse davanti alle contraddizioni insanabili della

52 Carla Ravaioli, op.cit, pag. 182-183.

53 Rosalba Spagnoletti, op.cit., pag. 14.

54 http://www.storiaxxisecolo.it/larepubblica/repubblicadonne.htm.

55 www.comunicazione.uniroma1.it/materiali/10.31.52_Appunti%20movimenti%20femministi.doc.

28

società in generale e della propria condizione in particolare 56. Da tutte queste

contraddizioni nacquero le prime lotte delle donne lavoratrici che si legarono, spesso,

con quelle del nascente movimento operaio57.

L'Italia, rimasto a lungo un paese rurale in cui predominava il lavoro agricolo e il lavoro

a domicilio e quindi privo di un proletariato industriale, alla fine del secolo, vide

svilupparsi, nel settore tessile e del tabacco, una serie di scioperi e manifestazioni, a

tratti anche molto violenti, per ottenere salari migliori. Dal 1876 al 1879 vennero indetti

numerosi scioperi dalle operaie del tessile e dal 1887 al 1897, nelle campagne, anche le

braccianti iniziarono una lotta per migliorare le condizioni salariali. La repressione fu

particolarmente dura e molte dimostranti vennero uccise58. La presenza delle donne

nelle organizzazioni di classe fece si che, all'interno delle organizzazioni operaie, si

aprisse il dibattito sulla condizione femminile in generale, e sulla parità salariale in

particolare. Questo dibattito acquistò nuovo vigore con la costituzione della Lega

promotrice degli interessi femminili del 1881 e ebbe un'ulteriore crescita con l’adesione

della stessa al Partito Operaio Italiano nel 188859. Importante ricordare il ruolo di primo

piano che ebbe Anna Kuliscioff, femminista e socialista, nel portare la questione

femminile all'attenzione del suo partito a partire dal 1890. Sin dall’inizio la questione

venne trattata con un taglio prettamente economicistico, prevalente nell’analisi marxista

della condizione femminile, suscitando l’avversione di molte femministe. Nonostante il

contributo di militanti come Anna Maria Mozzoni ed Emilia Mariani che, in polemica

con il partito e la stessa Kuliscioff, tentarono di dare una visione complessiva della

questione femminile che comprendesse nell'analisi, in chiave di lotta politica specifica,

aspetti sociali e privati, il socialismo italiano non comprese appieno la necessità di

analizzare le peculiarità della subordinazione femminile rispetto a quella del

proletariato. La concezione del ruolo domestico della donna del partito socialista fece sì

che la sua politica femminile non uscisse da uno stretto ambito assistenziale, pur

contribuendo a risolvere alcuni dei problemi più pratici. I socialisti si scontrarono,

dunque, con le femministe, accusate di essere portatrici di interessi borghesi. Dal lato

femminista, la Mozzoni sostenne che:

56 Carla Ravaioli, op.cit., pag. 182-183.

57 Ibidem.

58 Rosalba Spagnoletti, op.cit., pag. 15.

59 Carla Ravaioli, op.cit., pag. 182-183.

29

"L’emancipazione femminile è la suprema, la più vasta e radicale delle questioni

sociali, capace di unire le donne di tutti i ceti per la causa della loro libertà e del

loro riscatto"60.

La stessa polemica fatta con i movimenti femministi di ispirazione liberale nati tra fine

Ottocento e inizio Novecento, come l’Associazione Nazionale per la Donna del 1897 e

il Comitato pro suffragio femminile del 190661, fu frutto della non comprensione delle

rivendicazioni fatte dai movimenti stessi con il conseguente relegamento di tali

rivendicazioni nell'ambito del riformismo borghese. L’obiettivo della piena eguaglianza

giuridica, politica e salariale della donna, seguito dalle suffragiste, avrebbe, invece,

potuto assolvere, nella società italiana, alla necessità di mutare radicalmente la struttura

economica e sociale attraverso l’unione di tutte le donne senza distinzioni di classe62.

Il lavoro produttivo della donna si ripercosse, di fatto, su tutte le relazioni sociali tra le

quali il rapporto con l’uomo rimase l’aspetto insoluto in molti ambiti, lavorativo, sociale

e familiare. Si possono, dunque, identificare tre livelli su cui i movimenti decisero di

agire: il primo economico, il secondo politico-sociale, il terzo privato. Per quanto la

questione del diritto di accesso al mercato del lavoro venisse considerato il nodo

preliminare da sciogliere per poter iniziare ad affrontare le difficoltà del rapporto tra

uomini e donne, in ambito lavorativo, il rapporto dialettico tra i due sessi venne, di fatto,

condizionato dalla tradizione e dalle idee dominanti del periodo e, per le masse

politicizzate, dall’ideologia di appartenenza63. In conseguenza della crescente

insoddisfazione delle donne lavoratrici, tenute a svolgere gli stessi compiti degli uomini

senza il riconoscimento di uguali diritti di espressione, prese corpo dunque, tra le donne

della classe media, l’embrione di un movimento femminista. Al Congresso Nazionale

delle donne italiane che si svolse a Roma dal 24 al 30 aprile del 1908, queste donne,

occupate in vari settori lavorativi, rappresentarono la quota più rilevante delle

partecipanti64. Pur con opinioni divergenti, il carattere di vera e propria “questione

sociale” della condizione femminile emerse durante il congresso grazie alla trattazione

60 www.storiaxxisecolo.it/larepubblica/repubblicadonne.htm.

61 Rosalba Spagnoletti,op.cit., pag. 16.

62 Ibidem.

63 Giulietta Ascoli, La questione femminile in Italia dal ‘900 ad oggi, Milano, Franco Angeli Editore,

1977, pag. 32-33.

64 Ivi, pag. 29-30.

30

di numerosi temi, non solo legati alla condizione giuridica della donna o al diritto di

voto, ma anche alla parità salariale, all’analisi del lavoro a domicilio, all’emigrazione

femminile o alle ripercussione di quella maschile, all’assistenza e alla previdenza. La

provenienza borghese di molte militanti femministe si spiega ricordando la situazione di

arretratezza dell’istruzione in Italia ad ogni livello e, in particolar modo, di quella

femminile. Interessante notare che già dal 1876 le università erano state aperte al mondo

femminile, ma che la percentuale di donne istruite era ancora molto bassa e che le prime

studentesse furono spesso di origine straniera o ebrea, donne che non si inserivano,

dunque, nella tradizione cattolica dominante65. Nonostante questi lievi miglioramenti le

donne continuarono a non avere influenza nell'indirizzare sulle loro istanze né i partiti

liberal democratici né quelli di ispirazione socialista. Riuscirono, però, partecipando alle

lotte operaie, fondando associazioni, pubblicando opuscoli, giornali e riviste, a dare un

grande apporto per l'ottenimento di maggiore consapevolezza delle stesse donne. Le

dimostrazioni femminili contro l’entrata in guerra nel 1914 furono un'ulteriore

testimonianza della vitalità del movimento femminile.

La prima guerra mondiale fu un potente acceleratore dell'ingresso delle donne nel

mondo del lavoro grazie al ruolo di sostituzione degli uomini in tutte le professioni,

comprese quelle più faticose, svolto durante il periodo bellico. Non solo si ampliarono,

in quel periodo, i campi di attività aperti alle donne, ma mutò anche la classe sociale

coinvolta in tale ampliamento, coinvolgendo anche le donne sposate dei ceti medi. Il

fenomeno fu ancora più spettacolare nei paesi fino ad allora più arretrati come l'Italia66.

Comprendere ciò che accadde nell'ambito della questione femminile tra le due guerre e

durante il fascismo e cercare di individuare le ragioni profonde della flessione che

ebbero i movimenti di emancipazione del tempo non è facile. I motivi della crisi vanno

ricercati indietro nel tempo67. Di fatto nel primo dopoguerra le donne in Italia non

ottennero quello che molte altre donne stavano, contemporaneamente, ottenendo nel

resto d'Europa e del mondo. Una delle poche conquiste del primo dopoguerra fu la

soppressione dell’autorità maritale, concessa con legislazione del 1919, mentre

l'estensione del suffragio universale non aveva avuto riguardo per la situazione

femminile. L'unica grande novità del periodo fu lo sviluppo del settore formale e la sua

65 Annie Goldmann, op.cit., pag. 22.

66 Ivi, pag. 21.

67 Giulietta Ascoli, op.cit., pag. 75.

31

femminilizzazione. Le scuole di dattilografia e stenografia, spesso fondate da

femministe, prepararono le giovani agli impieghi d'ufficio, svincolandole, almeno in

parte, dalla dipendenza economica dall'uomo68. L’importanza del problema femminile

venne in quel periodo riproposta da Gramsci, che diede incarico a Camilla Ravera di

tenere una rubrica settimanale intitolata “Tribuna delle donne” su “L’ordine nuovo”69.

Riallacciandosi ad intuizioni femministe precedenti, ma senza dimenticare l'analisi di

classe per cui non può esserci emancipazione della donna in una società capitalista, la

Ravera insistette su molteplici aspetti del costume e della vita familiare femminile.

Sottolineando più volte il carattere storicamente determinato della famiglia patriarcale,

evidenziò gli effetti che il rovesciamento dei rapporti di produzione e l’indipendenza

economica della donna dall’uomo avrebbero avuto sulla morale, sul costume e sui

rapporti tra i sessi. La Ravera non si abbandonò alla sterile accusa del maschio, tipica di

molte correnti del femminismo contemporaneo e successivo, ma diede una lucida

visione del rapporto tra i sessi, definito entro una duplice prigionia di ruoli per cui:

“schiavo del capitale, l’uomo, corrotto dalla sua stessa schiavitù, cerca di prendersi la

rivincita soggiogando la donna, sfruttandola e martirizzandola. La donna non potrà

essere libera finché non sarà libero l’uomo. La donna libera dall’uomo, tutti e due liberi

dal capitale”70.

Nonostante il progressivo processo di emarginazione delle donne dalla produzione

industriale, dovuto alla crescente disponibilità di manodopera maschile e alla crisi

economica, la posizione dei movimenti femministi che, con grande combattività,

avevano posto in modo inderogabile l’importanza della questione femminile, non venne

intaccata e solo l’involuzione generale della società italiana, culminata nel fascismo,

impedì il conseguimento di quelle conquiste a cui lunghi anni di lotte avevano portato71.

Passato il biennio rosso e giunta la crisi italiana ad un punto di stabilizzazione, la

questione femminile assunse, dunque, altre dimensioni. Con la guerra tutta una parte del

movimento femminile, quella propriamente suffragista, in Italia come in Inghilterra,

scese su posizioni rivendicazioniste per ottenere diritti civili e politici, ma questo portò

a un distacco delle donne lavoratrici e, diversamente dall’Inghilterra, aprì, in Italia, la

68 Annie Goldmann, op.cit., pag. 23.

69 Carla Ravaioli, op.cit., pag. 182-183.

70 Ibidem.

71 Rosalba Spagnoletti, op.cit., pag. 17.

32

strada all'involuzione fascista. Non essendo giunte a una intesa sugli obiettivi della lotta,

le due diverse linee del movimento femminile, quella più rigidamente classista e quella

che mirava allo sviluppo autonomo della personalità femminile, furono sconfitte

dall’avvento del fascismo72. Il 1923 costituì in questo senso una tappa discriminante: il

governo Mussolini fece mostra di concedere il suffragio amministrativo esponendo il

suo progetto al Congresso internazionale femminile, ma poi non fece nulla per

concretizzarlo. Il punto di forza del fascismo fu l’intervento sui problemi reali delle

donne, pratica poco attuata dal vecchio stato liberale, in modo da poter imporre una

linea di comportamento adeguata al modello di donna come moglie e madre esemplare.

Espulse, dunque, molte donne dal mondo del lavoro, rinchiudendole nel ristretto ambito

familiare e imponendo loro di fare molti figli per rendere grande la patria. Nonostante

questo il fascismo, avvalendosi del suo potere esclusivo, della debolezza del precedente

movimento femminista e socialista e degli apporti della struttura ecclesiastica, riuscì a

prendere piede anche tra le donne73. Le femministe costituivano ormai, di fronte alle

organizzazioni di massa costruite dal fascismo, un gruppo ristretto e minoritario. Il

fascismo spezzò, di fatto, ogni tendenza innovatrice del movimento femminista

impedendo ogni istanza democratica nella vita civile e riportando indietro di molti

decenni la condizione della donna. Ciò nondimeno le donne, sotto il regime fascista,

furono particolarmente attive in vari momenti di opposizione come nell'imponente

sciopero delle mondine del 1927 e del 193174. I moti di opposizione al fascismo delle

donne italiane trovarono una continuazione nella lotta di liberazione e nella resistenza a

cui le donne parteciparono direttamente con la nascita dei Gruppi di difesa della donna e

delle Volontarie della libertà che operarono in stretto contatto con le brigate partigiane.

Fu proprio a partire dall’esperienza sofferta contro il fascismo che le donne italiane

avvertirono l’importanza delle loro rivendicazioni, una lotta, dunque, per liberarsi dai

vincoli che la rendevano una emarginata dalla società75. La seconda fase dell'esperienza

fascista portò con se, dunque, un nuovo stimolo alla partecipazione femminile al

dibattito politico. Il contributo delle donne alla Resistenza non venne solo da una nuova

consapevolezza della propria condizione di donna, ma nacque da un senso di

72 Giulietta Ascoli, op.cit., pag. 97.

73 Ivi, pag. 82-84.

74 Alfieri, Ambrosini, op.cit., pag. 183.

75 Rosalba Spagnoletti, op.cit., pag. 19.

33

oppressione dalle molteplici sfaccettature: di classe, umana e femminile76.

1.2.2- Post seconda guerra mondiale

La storia del femminismo italiano dal 1945 al 1960 offre più spunti di quanto si possa

pensare e, per questo, nell'affrontarla, bisogna respingere la tentazione, tipica delle

femministe dei decenni successivi, di cancellare tutta l'esperienza associativa e tutto il

dibattito politico antecedente il 1968 ritenendolo meramente preparatorio rispetto al più

diffuso e organico pensiero politico femminista degli anni Sessanta e Settanta. Sebbene

relegato a margine del dibattito politico, il dibattito sulla questione femminile fu

presente anche nel corso del primo trentennio repubblicano. Il suo limite fu,

sicuramente, il peso esercitato dagli schemi ideologici e dalle definizioni astratte di

principio, fossero questi la rivendicazione anti-capitalistica o le recite puramente

moralistiche della donna come persona. E il secondo limite, strettamente connesso al

primo, fu il carattere sostanzialmente minoritario che fece sì che il movimento soffrisse

di marginalità e peccasse, di conseguenza, di astrattezza almeno fino alla fine degli anni

Sessanta77.

Il problema fu che i progressi fatti dal movimento femminista a inizio secolo non

sortirono particolari effetti all’indomani della liberazione. Le donne, alla caduta del

fascismo, si trovarono, dunque, culturalmente impreparate ad entrare nel dibattito

politico, senza punti di riferimento se non i partiti, non molto impegnati in materia. La

stessa ammissione delle donne al voto con parità di diritti, che si realizzò con delibera

del consiglio dei ministri il 30 gennaio 1945, ebbe un duplice risvolto. Da un lato

rappresentò la conquista della parità politica tra uomo e donna, sostenuta dalle forze

democratiche, ma dall’altra assecondò le speranze di chi riteneva che l’elettorato

femminile sarebbe stato più moderato fungendo da bilanciamento delle istanze più

avanzate dell’elettorato maschile. La fase che si aprì con il voto alle donne, segnata

dalla spinta ad essere protagoniste, maturata nella resistenza, ma anche da tutti i ritardi

culturali propri del ventennio fascista, lasciò alcuni segni importanti, ma venne bloccata

dalla ripresa centralista, condizione sine qua non della tenuta del quadro democratico78.

76 Giulietta Ascoli, op.cit., pag. 98-100.

77 Paola Gaiotti di Biase, Questione femminile e femminismo nella storia della repubblica, Brescia,

Morcelliana, 1979, pag. 15-17.

78 Ivi, pag. 17.

34

La ripresa della “questione femminile” non avvenne immediatamente e un programma

organico venne ripreso solamente venticinque anni dopo. Persino l’antifascismo e

l’anticapitalismo che avevano caratterizzato le celebrazioni clandestine dell’8 marzo

assunsero toni diversi e la “giornata della donna operaia” si trasformò in “giornata della

donna” svincolando totalmente il discorso femminista dalla prospettiva di classe79. I

progetti di riforma del diritto di famiglia continuarono ad essere osteggiati e rimandati

e, malgrado varie organizzazioni avessero portato avanti piattaforme rivendicative dei

diritti delle donne sia sul piano dell’inserimento pieno e qualificato nel mercato del

lavoro sia sul problema della socializzazione dei servizi, per molti anni non si ebbero

risultati significativi. Le donne continuarono a partecipare alle lotte popolari attraverso

la mediazione della famiglia, ma all’interno delle classi subalterne, grazie alla fase di

profondo mutamento sociale, si attenuò parzialmente l'imbrigliamento della personalità

femminile, e venne, al contrario, esaltato il momento di ribellione e di lotta80. Tutto ciò

non implicò, però, alcuna significativa modificazione dei ruoli nell’ambito della

struttura familiare. Questo perché la rivolta delle donne veniva percepita come parte

della più ampia lotta di classe scaturita dai radicali mutamenti sociali degli anni

precedenti e, di conseguenza, non si pensava di dover intervenire a modifica del

persistente rapporto di oppressione uomo-donna. L'esigenza di una organizzazione

autonoma delle donne era già stata sentita alla fine della guerra, ma prese ancor più

forza a seguito dell’ottenimento del diritto di voto81. Le donne, in un periodo di

profonda trasformazione del paese, vollero essere soggetti attivi del dibattito politico,

per la prima volta, con un momento di partecipazione attiva. La costituzione dell'UDI

(Unione delle Donne Italiane) nel settembre 1944 rientrò in quest'ambito, riprendendo

nel suo programma, dopo vent’anni di regime fascista, il discorso dell’emancipazione e

riproponendo, in particolare, gli obiettivi del diritto di voto e di libero accesso al lavoro

per tutte le donne82. La relazione dei Gruppi di Difesa delle Donne presentata al primo

congresso nazionale dell’UDI (Unione delle Donne Italiane) nell’ottobre del 1945,

diede la linea da seguire per la costituzione di questo soggetto autonomo sottolineando

79 Alfieri, Ambrosini, op.cit., pag. 185-186.

80 Gloria Chianese, Storia sociale della donna in Italia (1800-1980), Napoli, Guida editori, 1980, pag.

98.

81 Rosalba Spagnoletti, op.cit., pag. 20.

82 Gloria Chianese, op.cit., pag. 91.

35

con forza la necessità di fondare un’organizzazione che non fosse appendice di un

partito per affrontare i problemi femminili. Per fare questo sarebbe stato necessario

riuscire a far convergere gli interessi di tutte le donne, indipendentemente dalla

posizione sociale, dalle tendenze politiche e dal credo religioso verso alcuni obiettivi

comuni che l'organizzazione avrebbe perseguito. Al primo congresso dell’UDI tenutosi

a Firenze dal 20 al 23 ottobre 1945, fu deciso, dunque, di sviluppare un’ampia iniziativa

politica per le libertà civili e politiche femminili e di operare parallelamente sul piano

sindacale83. Le scelte e la politica dell’UDI, la sua scarsa influenza su larghi settori sia

della piccola borghesia sia del proletariato portarono all’inglobamento nell’area della

sinistra parlamentare e, in particolare, in quella del PCI84. La seconda metà degli anni

Cinquanta vide una fase di riflessione, di divulgazione e di ripresa dell'attenzione sulla

questione femminile di cui associazioni come l'UDI furono comunque protagoniste,

grazie alla tradizionale azione in quest'ambito e l'attenzione che posero ai contributi dei

singoli e alla nuova tematica sindacale85. In sintesi l’UDI, nel dopoguerra e per tutti gli

anni ’50 si configurò come organizzazione operante tra le donne dei ceti popolari

attraverso iniziative che privilegiavano il terreno dei bisogni sociali. Il problema

dell’emancipazione femminile venne, quindi, considerato come parte di una strategia di

rinnovamento complessivo della società italiana e ricondotto, per questo, ad una analisi

dei rapporti politici e sociali esistenti. Si scelse consapevolmente di non esaminare la

subalternità della donna alla luce del rapporto uomo-donna, interno a tutte le classi

sociali, ma di iscriverla in una analisi politica di chiara ispirazione marxista. Non

appare, dunque, casuale che in questo periodo né dalla sinistra, né dall’UDI stessa

fossero introdotte tematiche che investissero la specificità della condizione femminile

come, ad esempio, l’aborto. Il moderatismo di ampi settori femminili e la posizione del

socialismo che vedeva come prioritaria la lotta di classe rispetto all'emancipazione

femminile fecero sì che la sensibilizzazione dell’opinione pubblica su tematiche spinose

come l’aborto e il divorzio fu, a lungo, patrimonio di piccoli gruppi provenienti dalla

sinistra liberale. Pur trattandosi di battaglie difficili, profondamente avversate dalla

cultura del tempo, si radicarono nel nuovo discorso sulle libertà civili agendo laddove le

trasformazioni della struttura familiare avevano cominciato a modificare i codici di

83 Gloria Chianese, op.cit., pag. 92.

84 Rosalba Spagnoletti, op.cit., pag. 20.

85 Paola Gaiotti di Biase, op.cit., pag. 18.

36

comportamento tradizionali. La vera emancipazione venne, però, raggiunta solo dalle

militanti dato che, per loro, la militanza politica coincise con un personale processo di

emancipazione sociale86.

1.3 - EGITTO

1.3.1- Le prime esperienze

Per parlare di femminismo egiziano è necessario delineare alcune caratteristiche dello

stesso, persistenti in ogni periodo storico. In primo luogo bisogna ricordare che l’Egitto

è stato un paese pioniere in materia sia nella specifica regione sia nel mondo islamico

nella sua interezza diventando punto di riferimento fondamentale per tutti i movimenti

di emancipazione della donna dell'area arabo-musulmana. In secondo luogo

l’intrecciarsi della questione femminile con quella islamica, quella nazionale e con

istanze democratiche di applicazione dei diritti umani ha fatto sì che il movimento

femminile non fosse mai totalmente indipendente dalle contingenze nazionali e dall'elite

maschile. Bisogna sottolineare, inoltre, che il femminismo egiziano ebbe molti più punti

in comune con i movimenti del terzo mondo che non con quelli di matrice occidentale.

Nacque nell’ambito della classe media urbana, dove era accentuata la segregazione

femminile, a seguito del passaggio dall'economia agraria di sussistenza al capitalismo.

A differenza delle occidentali le femministe del terzo mondo furono obbligate, dunque,

a prendere posizione in merito ai discorsi anti-coloniali e anti-imperialisti87. Infine è

interessante notare come la questione femminile fu argomento centrale del dibattito

proprio nei periodi di fervore anticoloniale mentre venne parzialmente accantonato al

momento del raggiungimento della piena indipendenza88.

La volontà delle donne egiziane di affermare il proprio ruolo nella società del loro paese

emerse in coincidenza con un fenomeno di rinascita e rifiorimento comune ai paesi

arabi, definito nahda. Il termine, derivante dal termine arabo “alzarsi, risvegliarsi”,

designava un movimento di rinascita sociale, politica e letteraria che si manifestò nella

seconda metà del diciannovesimo secolo sia nel Maġreb sia nel Masreq. La storiografia

86 Gloria Chianese, op.cit., pag. 101.

87 Margot Badran, “Indipendent women-more than a century of feminism in Egypt” in Judith E. Tucker,

Arab Women, Georgetown, Indiana University Press, 1993, pag. 129-130.

88 Margot Badran, “Flows of feminism in Egypt” in Bartuli (a cura di), Egitto oggi, Venezia, Casa

Editrice il Ponte, 2003, pag. 109-111.

37

individua nella penetrazione europea, compiuta attraverso la spedizione di Napoleone

del 1798-1799, l’evento spartiacque che segnò l’entrata dell’Egitto nell’epoca moderna.

A seguito di questo evento, infatti, la dirigenza egiziana avvertì la pressante necessità di

rinnovamento della società. A questa modernizzazione diede un ulteriore contributo

Muhammad Alì, governatore d’Egitto per il sultanato ottomano, che coinvolse anche le

donne nel progetto di riforma nel campo educativo e culturale.89 Radicali mutamenti si

evidenziarono nella maggiore possibilità di movimento assicurata da un innovativo

sistema stradale e dai nuovi mezzi di locomozione90. Nell’Egitto del diciannovesimo

secolo si assistette, dunque, alla nascita dello stato moderno, frutto dell'espansione del

capitalismo e della conseguente piena incorporazione nel sistema economico mondiale,

oltre che della secolarizzazione, dell’innovazione tecnologica e dell’urbanizzazione.

Questo portò, forzatamente, ad un mutamento radicale della vita degli egiziani di ogni

classe e genere. Anche dal punto di vista sociale i cambiamenti, conseguenza del

pervadente influsso del capitalismo coloniale, furono numerosi. Questi sconvolgimenti

vennero immediatamente messi al centro del dibattito tra tradizionalisti e riformatori91.

Nello stesso periodo la questione femminile iniziò ad essere oggetto di discussione. I

pensatori religiosi modernisti, intellettuali cardine della società islamica, posero

inizialmente il problema come un problema di interpretazione della legge. La delicata

questione dell’istruzione femminile fu al centro delle riflessioni di Refa’a al-Tahtawi,

intellettuale egiziano illuminato, che affermò che la scolarizzazione delle donne avrebbe

permesso loro di diventare buone compagne per i loro mariti nonché valide sostitute, in

caso di bisogno, nelle occupazioni maschili92. Nel tardo ottocento il pensiero di Refa’a

al-Tahtawi venne sviluppato da Mohamed Abduh che, sostenendo che l’oppressione

della donna derivava dalla disintegrazione della società musulmana, ritenne necessaria

la rivitalizzazione dell’Islam per modificare lo stato delle cose. L'interesse per la

condizione femminile era dato dal fatto che si riteneva che la liberazione della donna

89 www.environment-responsibility-and-duties.eu.

90 Margot Badran, op.cit. (1993), pag. 132.

91 H. El-Halawany, “Women’s Education in the different Egyptian feminist discourses of veil in late

19th and through the 20th century”, In Focus Journal, Open Forum, quarto trimestre 2002 ,

www.escotet.org/infocus/forum/halawany.htm.

92 www.environment-responsibility-and-duties.eu.

38

fosse una precondizione necessaria per la costruzione di una moderna società islamica93.

La modernizzazione economica e istituzionale, insieme al rinnovamento dei costumi e

delle produzioni culturali, implicò, quindi, la necessità di ripensare l'organizzazione

delle relazioni familiari e di genere. Per molte donne la prima tappa dell'evoluzione del

femminismo fu segnata dall'interesse per le opere sociali e solo in un secondo momento

nacque un interesse politico. Questo secondo passaggio avvenne quando le donne

egiziane furono costrette a prendere coscienza che, a causa del regime di occupazione

britannica, era necessario scalfire un doppio sistema di oppressione, costituito da

patriarcato tradizionale e sistema coloniale, per conseguire un apprezzabile livello di

emancipazione94. L’indipendenza e l’autorganizzazione di queste donne fu da esempio e

fonte di ammirazione per tutte le donne della regione. In questo contesto deve essere

ricordata Aisha Taymor, poetessa della classe altolocata turco-egiziana e traduttrice per

la casa reale, che portò avanti una battaglia per aprire l’istruzione alle ragazze

influenzando molte donne della sua stessa classe sociale. Questa battaglia fu, per molto

tempo, legata a doppio filo con la lotta per permettere alle donne di lavorare. In questo

ambito fu molto difficile ottenere qualcosa in quanto era diffusa l’idea per cui una

donna avrebbe perso, lavorando, la sua femminilità95.

Al volgere del diciannovesimo secolo nacquero in Egitto vari partiti politici tra cui il più

importante fu il Partito Nazionale che, raggruppando intellettuali e studenti in favore

dell'indipendenza in un'ottica di modernizzazione rispettosa della cultura islamica, fu

essenziale per l'avvenire dei movimenti femministi96. Il movimento femminista

egiziano trasse, infatti, le sue radici nell'intensa attività politica dell'epoca. Solitamente

le pioniere della letteratura e del giornalismo dichiararono di essere state sostenute, nel

loro percorso di formazione e di affermazione professionale, dai padri e da alcuni

professori fiduciosi nelle loro capacità. Tuttavia le questioni ritenute centrali dagli uni e

dalle altre erano spesso differenti, se non in contrapposizione, e si venne ad evidenziare

un palese scollamento tra le due componenti, quella maschile e quella femminile. Figura

93 H. El-Halawany, op.cit.

94 Lucia Sorbera, “Viaggiare e svelarsi alle origini del femminismo egiziano”, in Margini e confini.

Studi sulla cultura delle donne nell'età contemporanea, Venezia, Editrice Cafoscarina, 2006, pag. 6-10.

95 H. El-Halawany, op.cit.

96 Ada Lonni, Femminismo e lotte di liberazione nei paesi arabo-islamici (Algeria, Egitto, Palestina,

Tunisia), L'Harmattan Italia, 2002, pag. 40.

39

fondamentale in questo contesto è Qasim Amin (1865-1908), avvocato e giurista

egiziano, che dedicò due libri alla questione della liberazione della donna: Tahrir al-

Mar'a (L’emancipazione della donna, 1899) e Al-Mar'a Al-jedida (La donna nuova,

1900). Frequentemente indicato come il primo femminista arabo ed egiziano, credeva

che la liberazione della donna passasse in primo luogo attraverso l'educazione e, in

seconda battuta, con la rimozione del velo e la fine della segregazione femminile.

Convinto della superiorità occidentale e dell'arretratezza delle società musulmane

vedeva nella liberazione della donna un passo necessario alla modernizzazione di tutta

la società97. Per lo scrittore la donna, essere responsabile dotata del diritto e del dovere

di partecipare alla vita politica dell'Egitto, avrebbe dovuto essere riconosciuta come

partner nella lotta per l'indipendenza dell'Egitto98. Un breve estratto del suo libro,

L'emancipazione della donna, pubblicato nel 1899, permette di cogliere l'impatto

rivoluzionario del suo pensiero:

“In summary, nothing in the laws of Islam or in its intentions can account for the

status of Muslim women. The existing situation is contrary to the law because

originally women in Islam were granted an equal place in human society.”99

Sulla scia di Qasim Amin alcune donne, colte ed altolocate, iniziarono a chiedere con

forza la fine della segregazione femminile e l’espansione delle opportunità educative

per le donne100. Nacque così il femminismo egiziano vero e proprio che infranse il mito

occidentale di esclusività della pratica femminista.

Rivelando l'impazienza femminile per le continue restrizioni alla mobilità e

all'educazione, le donne della classe media iniziarono ad impegnarsi in forme basilari di

femminismo sociale creando moderne associazioni filantropiche secolari e iniziando

corsi per le donne all'Università. Una di queste associazioni fu la Mabarrat Muhammad

Ali, fondata nel 1909 per dare assistenza medica e lezioni di primo soccorso alle donne

dei quartieri. Pur essendo una struttura puramente assistenziale acquisì significato

97 H. El-Halawany, op.cit.

98 Ada Lonni , op.cit., pag. 36-42.

99 Qasim Amin, The liberation of women & the new women, American University in Cairo press, 2000,

pag.8, “In pratica non può essere trovato nulla nelle leggi o nelle intenzioni islamiche che giustifichi lo

status delle donne musulmane. La situazione attuale è contraria alla legge perchè in origine, in ambito

islamico, veniva garantito alle donne una posizione di uguaglianza nella società”. N.d.A.

100 Renata Pepicelli, “Donne e diritti nello spazio mediterraneo” in Zolo, Cassano, L'alternativa

mediterranea, Milano, Feltrinelli, 2007, pag. 322-323.

40

politico grazie all'azione delle sue fondatrici che collocarono esplicitamente questo

progetto in un ambito femminista proponendolo come primo passo nel processo di

emancipazione delle donne delle classi meno abbienti101. Tra le prime attiviste di questo

femminismo sociale, Bahitha al-Badiya, donna fortemente impegnata nell’istruzione

femminile e nella lotta alla poligamia, inviò, nel 1911, dieci richieste al Congresso

Egiziano di Heliopoli, puntualmente respinte, allo scopo di indurre provvedimenti che

sancissero la parità dei diritti tra i sessi102. Le richieste più significative furono il diritto

all'educazione di ogni tipo e grado, il libero accesso al lavoro e alle professioni e la

possibilità di partecipare alla preghiera collettiva alla moschea103. Non potendo

presentare essa stessa le proposte al congresso in quanto l'accesso era riservato agli

uomini accettò che fosse un uomo a farlo per lei. Questo suo passivo adeguarsi alle

norme e la sua contrarietà a campagne per l'eliminazione del velo rientravano in una

strategia di azione basata sulla promozione di uno sviluppo femminile all'interno

dell'attuale sistema di segregazione senza alcuna velleità rivoluzionaria104. La scrittrice

ebbe anche una accesa disputa con Qasim Amin in merito alla questione del velo.

Mentre l'avvocato invitava a rivedere l’imposizione del velo, il cui uso, secondo la sua

interpretazione, non sarebbe stato contemplato dai precetti della legge islamica, l'autrice

affermava che il focus doveva essere spostato dal velo in sé alla facoltà di scegliere che

sarebbe stata ottenuta, a sua volta, solo dando l'accesso all'educazione per le ragazze. E'

accertato, d'altra parte, che il velo stesse entrando in disuso e che il passaggio,

comunque graduale, fosse più dettato da contingenze materiali che non da battaglie

femministe come quelle per il suffragio universale o per la riforma del diritto di

famiglia. Le donne, preferendo che l'interesse pubblico fosse concentrato su altri temi

rispetto al velo, scelsero di risemantizzare quei costumi che potevano evocare

nell'opinione comune una femminilità tradizionale e passivamente accettata per

promuovere la presenza attiva della donna nella società. Le femministe capirono che la

divisione pubblico-privato era funzionale al mantenimento dell'ordine patriarcale e che

l'unico modo per liberarsi dai vincoli era utilizzare gli stessi strumenti

101 Margot Badran, op.cit.(1993), pag. 133.

102 www.environment-responsibility-and-duties.eu.

103 Margot Badran, op.cit. (2003), pag. 109-111.

104 Margot Badran, op.cit. (1993), pag. 134.

41

dell'oppressione105. Il pensiero e l'azione della prima generazione di femministe egiziane

furono, dunque, caratterizzate da una forte tensione verso il superamento dei confini

materiali e simbolici imposti alle donne dalla mentalità tradizionale esprimendo una

forte volontà di autorappresentazione. In primo luogo il superamento del confine che

impediva di partecipare attivamente alla costruzione dello spazio pubblico e che

obbligava a coprirsi con il velo ogni volta che venivano varcate le sicure mura

domestiche. In secondo luogo il superamento dei confini del nascente spazio nazionale

egiziano, nella volontà di instaurare un dialogo con le controparti straniere. Infine il

superamento della stessa retorica nazionalista, che offrì alle donne qualche spazio di

espressione e di legittimazione, ma solo nella misura in cui queste si accontentassero di

essere l'emblema della modernizzazione come “madri della patria”106. Nonostante

questo le donne sfruttarono la loro entrata nella sfera pubblica, avvenuta attraverso il

canale del nazionalismo, per forzare i vincoli che le confinavano in uno spazio ristretto

e sfidare le contingenti norme culturali, sociali e politiche. Sfruttando il loro

coinvolgimento nella lotta nazionalista, attraverso l'azione collettiva, le donne

provarono a criticare le relazioni di genere attraverso la trasgressione di queste norme107.

1.3.2- La rivoluzione del 1919 e le sue conseguenze

Fra 1883 e il 1914 il governo britannico gestì l'amministrazione egiziana in modo da

renderla efficace, meno corrotta e capace di gestire una sana politica fiscale108. Nel 1914

questo controllo venne rafforzato con la proclamazione del protettorato sull'Egitto

utilizzando come pretesto l'alleanza della Turchia con la Germania e la conseguente

necessità difensiva. Interpretando il velo e la segregazione della donna come tradizioni

oppressive figlie del retaggio culturale islamico, i coloni li presentarono come sintomi

dell'arretratezza delle società islamiche e li utilizzarono per denigrare la cultura locale a

favore delle tradizioni occidentali. Il femminismo da loro proposto venne, così,

utilizzato per scalfire la compattezza della società109. Gli egiziani rimasero, però, uniti e

dopo un primo periodo di attesa in cui sperarono nella concessione della piena

105 Lucia Sorbera, op.cit., pag. 10-13.

106 Ivi, pag. 3.

107 H. El-Halawany, op.cit.

108 Ada Lonni , op.cit., pag. 36-42.

109 H. El-Halawany, op.cit.

42

indipendenza alla fine della guerra, delusi della non concessione, si rivoltarono.

Sull'onda dei movimenti di protesta, le donne s'impegnarono ad organizzare vaste

manifestazioni posponendo la questione della propria liberazione in nome della difesa

della propria identità nazionale. Tra queste Huda Shaarawi, moglie di un politico

nazionalista, fece novecento telefonate per chiamare le donne ad una dimostrazione

pubblica e, per la prima volta nella storia del paese, anche le recluse degli harem scesero

in strada110. Nonostante la partecipazione delle donne, fino ad allora estranee alle

manifestazioni di piazza, non riuscirono ad ottenere risultati concreti e l'esercito

represse duramente e indistintamente le proteste111.

In questo periodo donne appartenenti a diverse comunità religiose lavorarono alla

creazione di uno Stato-nazione unico, laico, basato sull'uguaglianza tra tutti i cittadini,

nel quale vi fosse spazio per la religione, ma che non fosse organizzato intorno ad essa

e, per questo, il loro femminismo venne, in seguito, definito “laico”. Questo nacque, di

fatto, con intense campagne collettive frutto di una elaborazione complessa che

coniugava modernismo islamico, nazionalismo laico e tutela dei diritti umani

democratica112. Il primo passaggio nella formazione di una organizzazione

esclusivamente femminile fu, nel 1920, la prima riunione dei cinquecento membri

femminili del Wafd, il partito nazionalista egiziano. Le partecipanti decisero di creare

un comitato centrale delle donne del Wafd, composto da quindici rappresentanti, con

presidente Huda Shaarawi, con il compito di trovare luoghi sicuri per le riunioni

politiche dei leader del Wafd e di boicottare ogni merce di origine britannica,

incoraggiando la produzione locale. Lo stesso anno le donne aderirono alla lega

internazionale per il suffragio femminile113.

La consapevolezza delle donne andò, dunque, di pari passo con l'aumento del fervore

nazionalista e, nel 1922, quando venne concessa la semi-indipendenza, le donne attesero

un riconoscimento politico del lavoro svolto che non avvenne. Le donne si sentirono

tradite dal fatto che “women might defend Egypt during times of crisis, but in normal times

110 Ada Lonni , op.cit., pag. 36-42.

111 Lucia Sorbera, op.cit., pag. 6-10.

112 Margot Badran, “Il femminismo islamico” in Zolo, Cassano, L'alternativa mediterranea, Milano,

Feltrinelli, 2007, pag. 339-340.

113 Ada Lonni , op.cit., pag. 36-42.

43

men must govern and command the public sphere”114.

Le donne si ritrovarono, così, scontente dei risultati sia come femministe, dato che non

era stato concesso loro il suffragio universale, sia come nazionaliste, dato il

mantenimento di truppe britanniche sul suolo egiziano115. Nonostante il ruolo

fondamentale delle donne nella lotta nazionalista e le continue promesse di

emancipazione fatte dagli uomini durante il periodo di protesta, le promesse vennero

ritrattate e le donne rimandate a casa. Le donne argomentarono immediatamente che il

patriarcato era, a livello nazionale, contiguo al controllo coloniale e che la liberazione

sarebbe stata incompleta se priva di emancipazione della donna. Questi avvenimenti

produssero, dunque, delle rotture significative tra le elite nazionaliste maschili e la loro

controparte femminile in quanto emerse in maniera inequivocabile che la semi-

indipendenza aveva risolto solo una parte del problema dato che l'ostacolo maggiore

all'emancipazione della donna, il sistema patriarcale, non era stato rimosso. Se il

nazionalismo aveva delineato un primo spazio entro il quale le donne potevano

esprimere le proprie rivendicazioni, si evidenziò in questo secondo momento la

necessità di declinare il nazionalismo in modo da esplicitare le rivendicazioni

propriamente femminili sottolineando come anche la differenza di genere avesse un suo

peso negli equilibri di potere116.

Anno cardine nello sviluppo del movimento femminista egiziano è sicuramente il 1923.

Proprio in quell'anno, per la prima volta, le donne usarono in pubblico la parola

femminismo utilizzando contemporaneamente il termine arabo nisa'iyya, cioè ciò che

pertiene alle donne, e il termine francese féminism, che indicava la nuova inflessione

che le donne davano al termine nisa'iyya117. Ottenuta la semi-indipendenza le donne

furono obbligate a prendere coscienza del fatto che avrebbero dovuto muoversi

indipendentemente se avessero voluto migliorare la propria situazione. A seguito della

promulgazione della nuova costituzione che prevedeva l'uguaglianza di tutti gli egiziani

venne, infatti, approvata una legge elettorale che non prevedeva per le donne il diritto di

114 Margot Badran, op.cit. (1993), pag. 135, “Le donne avrebbero dovuto difendere l'Egitto durante i

periodi di crisi, ma nei periodi di normalità gli uomini avrebbero dovuto governare e controllare la sfera

pubblica”. N.d.A.

115 Lucia Sorbera, op.cit., pag. 6-10.

116 Ibidem.

117 Margot Badran, op.cit. (2003), pag. 111-114.

44

voto. Le femministe egiziane, musulmane e cristiane, crearono così un loro movimento,

secolare, femminista e nazionalista118. Venne fondata, dunque, la prima organizzazione

realmente femminista, l'Unione Femminista Egiziana (UFE). Il gruppo, nato da una

costola del Wafd, rivendicò immediatamente la sua indipendenza dalla dirigenza

maschile pur abbracciando in toto le rivendicazioni nazionaliste del partito. Fin dalla

creazione furono centrali nel programma dell'UFE la rivendicazione del diritto di voto e

la possibilità di espressione delle donne circa l'avvenire dell'Egitto indipendente119.

Fondatrice dell'Unione fu Huda Shaarawi, figura di spicco, come già ricordato, sia in

ambito nazionalista sia in ambito femminista grazie al suo contributo, nel primo caso,

alla rivoluzione del 1919 e, nel secondo caso, nella creazione delle prime scuole

pubbliche per le ragazze e dei primi giornali dedicati alle donne120.

Contestualmente alla formazione dell'UFE le egiziane vennero formalmente invitate a

Roma al congresso dell'International Women Suffrage Alliance, fondata nel 1904, e

questo costituì un momento di svolta per il movimento femminista del paese. La

delegazione, composta da Huda Shaarawi, Nabawiya Musa e Saiza Nabarawi, comunicò

immediatamente alla stampa l'intenzione di partecipare all'evento assumendosi l'onere-

onore di rappresentare l'Egitto in un contesto internazionale e dimostrando

immediatamente l'indisponibilità delle donne ad agire nelle retrovie121. Questo incontro

risultò maggiormente cruciale in quanto si inserì in un sistema di relazioni

transnazionali tra i diversi gruppi femministi. Fin dalla sua fondazione il femminismo

egiziano si radicò, infatti, sia a livello nazionale sia a livello transnazionale. I

femminismi, nati nei tempi della maggiore espansione e del massimo potere del

colonialismo, nel vortice dei movimenti di liberazione nazionale, strinsero, fin

dall'inizio del secolo, alleanze transnazionali mentre si impegnavano attivamente nelle

lotte autoctone. Attraverso questo rapporto biunivoco, particolarmente accentuato tra le

due rive del Mediterraneo, venne smentita l'idea che il femminismo fosse un prodotto

della sola cultura occidentale e che la declinazione arabo-musulmana fosse,

sostanzialmente, in antitesi rispetto ad esso122. Dalle coste meridionali e orientali del

118 Margot Badran, op.cit. (2003), pag. 111-114.

119 Ada Lonni , op.cit., pag. 36-42.

120 Renata Pepicelli, op.cit., pag. 323.

121 Lucia Sorbera, op.cit., pag. 15.

122 Margot Badran, op.cit. (2007), pag. 339-340.

45

Mediterraneo giunsero a Roma una delegazione egiziana ed una palestinese in

rappresentanza di tutto il mondo arabo123. La partecipazione al congresso di Roma aprì

una nuova fase nella militanza delle femministe egiziane, che iniziarono a concentrarsi

in particolar modo sugli obiettivi femministi. Venne considerato indispensabile

denunciare come esclusivo prodotto dell'ignoranza l'immagine di passività e debolezza

che l'occidente aveva delle donne egiziane. Allo stesso modo il rifiuto del velo venne

proposto in modo da evitare strumentalizzazioni da parte coloniale pur portando un

attacco alla tradizionale cultura patriarcale. La scelta di queste femministe era

funzionale ad una autorappresentazione che delegittimasse l'immagine inventata

dall'uomo occidentale della donna orientale impedendo l'utilizzo di questa per

perpetuare un controllo coloniale in nome di una presunta supremazia culturale. La

forza rivoluzionaria del pensiero femminista egiziano non si evidenziò solo in proposte

emancipazionistiche come suffragio, parità nell'istruzione e nel lavoro e

regolamentazione di divorzio e poligamia, ma anche in un nuovo modo di concepire il

nazionalismo. Esse, infatti, declinarono un nuovo tipo di nazionalismo privo della ferrea

contrapposizione tra Oriente ed Occidente che, invece, continuava ad esercitare un certo

fascino sulle elite nazionaliste maschili124.

Rientrando ad Alessandria dal congresso le delegate, in rappresentanza di tutte le donne,

si levarono pubblicamente il velo, mostrando il volto scoperto. Con questo gesto venne,

di fatto, segnata la fine di un sistema di confinamento e di invisibilità della donna e la

sua entrata nella vita pubblica125. Al tempo il costume di coprire il volto non denotava

l'appartenenza delle donne ad una comunità religiosa, ma ad un gruppo sociale,

l'aristocrazia urbana e, quando i giornali pubblicarono le foto con i visi scoperti, le

donne di queste classi sociali furono incoraggiate all'emulazione, e gradualmente la

tradizione del velo cadde in disuso. Nonostante possa essere circoscritto a gesto

dimostrativo, non deve essere trascurato il progetto complessivo sotteso al rifiuto del

velo, in cui la volontà di farsi conoscere, di sottrarsi a false rappresentazioni e di

rivendicare il diritto a parlare per sé assumono una posizione preminente. Ciò che le

femministe intendevano fare era imporre fisicamente la loro presenza nello spazio

123 Margot Badran, op.cit. (2007), pag. 339-340.

124 Lucia Sorbera, op.cit., pag. 19-26.

125 Margot Badran, op.cit. (2003), pag. 111-114.

46

pubblico sottraendosi a narrazioni altrui126.

Nel programma di azione messo in atto dalle femministe a partire da quel momento

traspare l'approccio riformista rimasto, a lungo, una delle caratteristiche principali del

femminismo egiziano. Il superamento dei vincoli con misure non rivoluzionarie emerse

anche nel settore dell'evoluzione dello statuto personale come nel caso della poligamia

di cui le femministe ne auspicarono l'eliminazione progressiva pur ammettendo delle

eccezioni qualora la sposa non potesse avere figli. In base alla presunzione per cui

l'Islam attribuirebbe uguali diritti ai due sessi e non intendendo sconvolgere l'ordine

prestabilito in campo religioso e sociale, cercarono di convincere i loro interlocutori che

sarebbe stato necessario modificare gradualmente certe situazioni per arrivare a una

giustizia più equa127. In realtà il programma delle femministe si compose di tre aspetti,

uscendo dall'ambito strettamente emancipazionista ed evidenziando, nelle protagoniste,

una capacità di analisi e una maturità frutto di una riflessione profonda. Le donne

avevano, infatti, un progetto di profonda riforma della società egiziana che la rendesse

maggiormente egalitaria per mezzo delle riforme. Politicamente, le donne chiesero

l'indipendenza immediata dell'Egitto e del Sudan, la neutralità del canale di Suez e il

non riconoscimento degli accordi conclusi in precedenza senza il consenso della

nazione (trattato di Losanna del 1923). Socialmente, le donne chiesero l'istruzione

obbligatoria per tutti (ragazzi e ragazze) e in ogni parte del paese, dichiarandosi

disponibili all'adozione dell'insegnamento religioso e morale purchè venissero impartite

anche lezioni di igiene e di diritto pubblico agli allievi. Insistettero, inoltre,

sull'importanza dell'insegnamento universitario e sulla diffusione della lingua araba. Dal

punto di vista economico pensarono ad un sistema doganale appropriato che

proteggesse le industrie locali dalla concorrenza estera ed esigettero la limitazione delle

concessioni commerciali agli stranieri. Ritennero, infine, necessaria la costruzione di

ospedali, la ristrutturazione delle prigioni e la previsione di programmi contro la

prostituzione e il traffico di stupefacenti. Per quanto riguarda lo statuto personale, le

egiziane, considerando il miglioramento della condizione della donna come dato

essenziale per l'evoluzione di un intero paese, ritennero che il solo modo per riformare

la società fosse la promozione dell'uguaglianza tra uomo e donna lodata, ai loro occhi,

dalla stessa religione musulmana. In questo contesto proposero la modifica delle norme

126 Lucia Sorbera, op.cit., pag. 19-26.

127 Ada Lonni , op.cit., pag. 36-42.

47

riguardanti il diritto di famiglia e i diritti politici, in particolar modo in merito

all'accesso al voto128.

1.3.3- Gli anni Trenta e Quaranta

Grazie al lavoro continuo di sensibilizzazione nei confronti dei problemi delle egiziane

le femministe riuscirono ad ottenere alcuni risultati tangibili. In materia di istruzione,

nel 1923, una convenzione rese obbligatoria la scolarizzazione per tutti i bambini fino ai

dodici anni e, dal 1929, le ragazze poterono accedere a scuole di ogni ordine e grado

compresa l'università. L'Università del Cairo fu, infatti, la prima nel mondo arabo (nel

1929) ad accettare ai corsi le studentesse129. In materia di statuto personale, invece, la

legge n°25/1929 riconobbe alla donna, per la prima volta, il diritto al divorzio in quattro

situazioni: incapacità dello sposo di mantenere la moglie; malattia contagiosa o

pericolosa del marito; scomparsa del marito; maltrattamenti. In questo stesso contesto

venne, inoltre, prevista la possibilità dell'affidamento dei figli alla madre in casi

eccezionali.130 . Queste piccole conquiste non soddisfacevano, però, le femministe che

avrebbero voluto una modifica radicale della condizione della donna e non limitate

riforme prive di organicità.

In quegli anni la grande povertà e la totale mancanza di istruzione e di tutela sanitaria

piagavano le classi proletarie urbane e, in questo contesto, si venne ad inserire l'opera

dei Fratelli Musulmani che, grazie al loro lavoro di prima assistenza, ottennero un

grande seguito, sia maschile sia femminile, fra queste classi. La fortuna dei Fratelli

Musulmani era dovuta anche all'incapacità dell'UFE di ampliare la propria opera ad uno

spettro femminile più ampio131. Mentre a livello nazionale si manifestarono queste

mancanze, il movimento ottenne buoni risultati operando in una dimensione

transnazionale. E’ importante sottolineare, in questo senso, il ruolo determinante

dell'UFE nell'istituzione del femminismo pan-arabo. Per molto tempo le donne ad est

della penisola araba avevano esortato il femminismo egiziano a unirsi alla lotta per la

liberazione della Palestina fino a che, all'inizio degli anni trenta, donne musulmane e

cristiane si impegnarono nel consolidare una cultura femminista panaraba. La causa

128 Ada Lonni , op.cit., pag. 36-42.

129 Renata Pepicelli, op.cit., pag. 322-323.

130 Ada Lonni , op.cit., pag. 36-42.

131 Margot Badran, op.cit. (1993), pag. 137.

48

nazionalista consentì alle donne di viaggiare da sole e, occupandosi di Palestina, queste

donne difesero, allo stesso tempo, i loro interessi femministi, mostrando come questa

unità di intenti servisse il bene comune. L'UFE raccolse, dunque, la richiesta di aiuto

delle donne di Palestina e radunò donne di diverso orientamento ideologico nell’ottica

della creazione di un movimento che coniugasse militanza nazionalista e

consolidamento del femminismo pan-arabo. A riconoscimento dell’impegno delle

egiziane, nel 1938, le leader delle associazioni femminili di Palestina, Siria, Libano e

Iraq delegarono la Shaarawi a rappresentare le donne arabe in tutti i forum in cui

venisse affrontata la questione palestinese. La conferenza di Copenaghen del 1939

evidenziò i limiti del movimento femminista internazionale in quanto la partecipazione

fu particolarmente esigua e non si trovò un accordo nemmeno tra le poche delegazioni

presenti sul ruolo del femminismo e su quale fosse la relazione tra femminismo e

nazionalismo132. Quando le femministe arabe si incontrarono nuovamente al Cairo nel

1944 nella Conferenza Femminista Pan-araba l'obiettivo fu quello di stabilire una

strategia per il processo di costruzione degli stati nazionali post-coloniali, ma il tutto si

risolse in un nulla di fatto133. La contestuale creazione dell’Unione Femminista Pan-

araba costituì uno dei momenti più alti del progetto femminista transnazionale in quanto

vennero ribadite molte delle richieste care ai femminismi nazionali: il diritto delle

donne di esercitare il voto attivo e passivo; il diritto al lavoro e alla qualificazione

professionale; la necessità di riformare le leggi sulla persona attraverso una

interpretazione più illuminata della legge islamica134. Tuttavia, nella fase successiva, per

quanto le donne tentarono di contribuire alla formazione dei nuovi stati e di nuove

società, continuando a portare avanti la loro lotta con grande determinazione, si

trovarono ad affrontare una rinnovata resistenza patriarcale e ricominciarono ad essere

messe da parte135.

A livello nazionale, in questo stesso periodo, emersero alcune figure destinate a

determinare le sorti del movimento femminista del periodo successivo. Fatma Ni'mat

Rashid, Injii Aflatun, Zeinab al-Ghazali e Doriyya Shafiq emersero come leader di

132 Michela De Palma, La questione femminile in Egitto, Tesi di laurea facoltà di Scienze Politiche

Università degli Studi di Firenze, A.A. 2008/2009, pag. 82-84.

133 Margot Badran, op.cit. (2007), pag. 341-342.

134 Michela De Palma, op.cit., pag. 84-88.

135 Margot Badran, op.cit. (2007), pag. 341-342.

49

quattro diverse correnti del femminismo populista. Fatma Ni'mat Rashid fondò, nel

1944, il Partito Femminista Nazionalista (PFN) con il coraggioso intento di creare un

movimento di donne, essenzialmente appartenenti alla classe media, con velleità

politiche. Grazie ai suoi forti legami con il “Partito dei Lavoratori e dei Contadini”

adottò un'ampia agenda di riforme economiche e sociali i cui aspetti principali furono la

lotta per l'ampliamento dell'istruzione e l'insegnamento delle basilari norme di igiene

alle donne delle classi povere del Cairo. La sua carica innovativa è chiaramente

dimostrata dal fatto che fu il primo movimento a parlare esplicitamente di controllo

delle nascite e aborto136. Alla morte della Shaarawi, avvenuta nel 1947, la presidenza

dell'UFE fu affidata alla figlia e la vice presidenza a Saiza Nabarawi, leader del

femminismo populista di sinistra. Quest’ultima tentò di rinnovare l'organizzazione

fondando nel 1950 “Lajna al shabbat” (il comitato giovanile dell'UFE) allo scopo di

reclutare una nuova generazione di donne che permettesse il ricambio interno

all’organizzazione. Una di queste studentesse fu Injii Aflatun, femminista e comunista

che non voleva essere incorporata nei partiti patriarcali della sinistra, ma che non riuscì

a formare un suo movimento indipendente137. Militante dell'organizzazione delle donne

comuniste (Lega delle studentesse e laureate di Egitto) la Aflatun, attraverso l’azione

diretta e la scrittura, pose all’attenzione generale i problemi economici e sociali delle

operaie e delle contadine. Benchè comunista la Aflatun comprese non solo l'importante

influenza della religione sulle masse e la necessità di contestualizzare le rivendicazioni

femminili all'interno di un quadro islamico, ma anche l'imperativo politico per cui le

donne avrebbero dovuto lavorare nei propri gruppi in modo da mantenere gli obiettivi e

le priorità femministe sempre in prima linea.

Le altre due figure femminili che dedicarono la loro vita alla lotta emancipativa delle

donne furono Zeinab al-Ghazali e Doriyya Shafiq. La prima iniziò la sua attività politica

collaborando con Huda Shaarawi per poi fondare la ”Associazione delle donne

musulmane” essendosi trovata in disaccordo con le linee programmatiche dell'UFE.

L'associazione in questione fece opera di assistenza, gestendo orfanotrofi, sostenendo le

famiglie meno abbienti, e aiutandole nella ricerca del lavoro, con l'obiettivo di divulgare

l'Islam. Nonostante l'associazione avesse un orientamento chiaramente islamico riuscì a

mantenere una sua indipendenza rispetto ai Fratelli Musulmani. Inizialmente al fianco

136 Margot Badran, op.cit. (1993), pag. 137.

137 Ibidem.

50

della Shaarawi, al-Ghazzali se ne distaccò presto a causa della convinzione per cui la

liberazione della donna musulmana non può avvenire prendendo a modello una cultura

estranea, ma può affermarsi solo all'interno di uno stato islamico pienamente realizzato.

Figura dai numerosi e contraddittori aspetti, al-Ghazzali ritenne che il principale ruolo

di una donna fosse quello di partecipare alla rinascita del mondo musulmano in quanto

brava moglie e madre e fosse, perciò, suo compito impegnarsi al servizio della patria e

della società anche al di fuori dell'ambito domestico138.

Una iniziativa femminista maggiormente dinamica venne, invece, da Doriyya Shafiq

che fondò nel 1948 (anno dopo la morte della Shaarawi di cui era una protetta) An-Nil,

La figlia del Nilo. L'organizzazione aveva una agenda simile a quella del PFN, ma

dando priorità all'ottenimento di diritti politici per le donne e a favorire un organico

programma di riforma economico-sociale. La Shafiq ebbe, però, risultati migliori

rispetto alla Rashid nell'avvicinare le donne della classe media ed ebbe un buon

radicamento nelle provincie139. Doriyya Shafiq lottò per i diritti delle donne partendo, a

differenza della al-Ghazzali, da una base laica e democratica. Questa sua impostazione

le derivava da una educazione familiare che le aveva trasmesso la convinzione della

superiorità del modello occidentale. Il movimento della Shafiq promosse programmi

culturali e corsi di alfabetizzazione, chiedendo un miglioramento dei servizi sociali oltre

a rivendicare con forza i pieni diritti politici per le donne, legando, così, la campagna

per i diritti politici con quella per i diritti sociali140. Nonostante “La figlia del Nilo” fosse

quotidianamente attaccata dal governo perchè considerata troppo sovversiva, la Shafiq e

altre 1500 donne scelsero, nel 1951, di compiere una azione eclatante per rivendicare i

loro diritti. Fecero un lungo sit-in davanti al parlamento che si trasformò in breve in uno

sciopero di massa in cui rivendicarono con forza l'uguaglianza dei diritti politici, la

riforma delle leggi sulla persona e una paga equa per le donne impegnate nelle

fabbriche. Con queste stesse forze, il movimento, diede un grande contributo agli

scioperi e alle sommosse del 1952141. Attraverso articoli di giornale, discorsi e

manifestazioni, i membri delle formazioni femministe parteciparono attivamente alla

preparazione della rivoluzione reclamando parallelamente la riforma dello statuto

138 Renata Pepicelli, op.cit., pag. 323.

139 Margot Badran, op.cit. (1993), pag. 137-138.

140 Michela De Palma, op.cit., pag. 84-88.

141 Ibidem.

51

personale e i diritti politici.

Le richieste femminili si scontrarono, però, con la violenta reazione delle autorità

religiose, gli Ulema, che, l'11 giugno 1952, emisero una fatwa142 a condanna della

possibile concessione del diritto di voto alle donne. Basandosi su un hadith143 attribuito

al profeta, gli Ulema distinsero funzione pubblica e privata giungendo ad affermare che

la legge avrebbe accordato pari diritti alla donna e all'uomo solo per la seconda funzione

e non per la prima a causa della natura intrinseca della donna. La missione femminile

sarebbe, infatti, la maternità, condizione che renderebbe la donna più debole e più

sensibile al richiamo dei sentimenti rispetto all’uomo144. Il 29 settembre 1952,

nonostante la fatwa, la rivoluzione accordò, per la prima volta nella storia dell'Egitto

moderno, parte dei diritti politici: il voto venne concesso solo alle donne che sapevano

leggere e scrivere, ma non venne loro concesso l'elettorato passivo145. Nonostante

l'impegno rivoluzionario sia di molte donne come singoli sia dei movimenti femministi,

l'ondata di femminismo diffuso venne, di fatto, bloccata da questi primi provvedimenti

del nasserismo. La concessione di alcuni diritti e la repressione di tutte le organizzazioni

indipendenti, mise, infatti, un forte freno al femminismo egiziano146. La prima

conseguenza della rivoluzione fu, infatti, il bando di tutti i gruppi femministi

indipendenti. Nonostante alcuni miglioramenti nell'ambito dell'educazione e della

sanità, oltre all'ottenimento del diritto di voto, le donne continuarono a sentire il peso

del patriarcato a causa del mantenimento delle vecchie leggi sullo statuto personale. Per

opporsi a questa situazione Saiza Nabarawi, Injii Aflatun e altre formarono L'Unione

Femminista Nazionale provando a raccogliere intorno a questa nuova organizzazione

un'ampia coalizione di donne di diverse provenienze, ma il gruppo venne

142 “Responso o parere di un'autorità religiosa islamica. La fatwa può riguardare una materia giuridica,

le pratiche di culto o la legittimità di un dato caso in rapporto alla legge religiosa”, www.treccani.it.

143 “La parola araba hadith ha lo stesso significato che nella lingua italiana ha la parola tradizione. E'

una parola utilizzata per indicare la linea di condotta del profeta Maometto, trasmessa oralmente di

generazione in generazione, mediante una catena di persone degne di fede il cui primo anello è un

testimone appartenente alla cerchia dei compagni o seguaci del profeta”,

www.arabcomint.com/hadith.htm.

144 Cérès Wissa-Wassel, “Femmes et politique en Egypte”, in Femmes et politique autour de la

Méditerranée, Parigi, L'Harmattan, 1980, pag. 186.

145 Ada Lonni , op.cit., pag. 45-46.

146 Margot Badran, op.cit. (2003), pag. 111-114.

52

immediatamente messo al bando per ordine del governo147.

147 Margot Badran, op.cit. (1993), pag. 139-140.

53

54

CAPITOLO 2

2.1- LA CONDIZIONE DELLA DONNA IN ITALIA

Il passaggio dell'Italia da paese agricolo a paese industriale può essere fatto risalire al

1958, anno in cui il numero degli addetti dell'industria superò quello degli addetti

dell'agricoltura, ma la transizione era in atto già da molto tempo. E' interessante notare

come nello stesso momento in cui il settore secondario superò per impiego delle forza

lavoro il primario, il terziario, fino ad allora marginale rispetto agli altri, affiancò e

superò l'industria in partecipazione al prodotto interno lordo. A seguito di questi

importanti cambiamenti uscirono di scena figure sociali che avevano a lungo dominato

la storia della penisola e venne sconvolto il sistema produttivo e relazionale fondato sul

predominio della forza lavoro umana e sul ruolo centrale della famiglia contadina1. In

sintonia con le trasformazioni rurali e, in primo luogo, con l'abbandono delle campagne,

il fenomeno urbano, già di per sé antichissimo, si ampliò e si consolidò enormemente

portando ad una nuova struttura sociale dominata dai ceti medi urbani.2 Cemento e

mattoni cambiarono il volto delle città mentre gli elettrodomestici cambiavano le case

degli italiani. Il nuovo benessere e, soprattutto, la prospettiva di un ulteriore incremento

per il futuro diedero il via alla dilatazione dei consumi e, a partire dalla metà degli anni

Sessanta e lungo tutti gli anni Settanta, prese forma e si consolidò una rivoluzione degli

stili di vita che investì, in tempi diversi, tutti gli strati sociali, le generazioni e le età3. Al

culmine di questo processo di trasformazione, iniziato ovunque a seguito della fine della

Seconda guerra mondiale, l'inquietudine esistenziale giovanile divenne esplosiva e, così,

l'era del consumismo fece esplodere una vera e propria rivoluzione del costume guidata

dai giovani. La società costruita dai padri non piaceva ai figli e mentre chi aveva

sofferto per costruire quel benessere difese i suoi risultati, chi ne aveva semplicemente

goduto i frutti si pose in maniera critica e conflittuale sottolineando le numerose

contraddizioni del sistema. Questa transizione, difficile per tutti i paesi occidentali fu

ancora più brusca per l'Italia, un paese passato in dieci anni dalla civiltà contadina al

neocapitalismo4.

1 Vittorio Vidotto, Italiani/e, Bari, Laterza, 2005, pag. 29-35.

2 Ivi, pag. 43-45.

3 Simona Colarizi, Storia del novecento italiano, Milano, BUR saggi, 2002, pag. 374.

4 Ivi., pag. 391-392.

55

Segnale dell'ottimismo, di una aspettativa di benessere e di una inedita propensione a

investire nel futuro fu, negli anni Sessanta, la coincidenza temporale tra il culmine del

miracolo economico e un numero di matrimoni e nuovi nati mai più raggiunto in

seguito5. Se è vero che il miracolo economico fu soprattutto una crescita socio-

economica di tutta la società italiana, le donne ne furono, come mai in passato,

protagoniste6. Le donne furono, dunque, le vere miracolate degli anni del benessere

subendo una profonda trasformazione identitaria che le trasformò da casalinghe,

protagoniste della crescita sociale ed economica della famiglia negli anni Cinquanta, a

soggetti indipendenti e autonomi, ormai pronti alla lotta emancipazionista, alla fine

degli anni Sessanta7. La femminilizzazione della società fu favorita sia dall'accesso delle

donne a nuovi ruoli sociali sia dall'invecchiamento complessivo della popolazione. Più

donne nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole e nelle università. La società italiana di

quegli anni fu, dunque, il risultato di una rivoluzione femminile che procedette di pari

passo con la graduale scomparsa del vecchio mondo rurale e con l'incremento

dell'occupazione femminile nell'industria e nel terziario impiegatizio e commerciale8. In

questo contesto vennero a confrontarsi le due diverse facce della femminilità italiana.

Quella delle donne più giovani, portatrici di una nuova etica della famiglia e dei rapporti

sociali, e quella delle donne più anziane, fedeli alle tradizioni con cui erano state

cresciute e restie ad assistere inermi alla disgregazione dei valori a cui erano legate.

2.1.1- Scuola e lavoro

Nell'immaginario generale l'istruzione costituisce una delle vie maestre

all'emancipazione e a partire dagli anni Sessanta la scuola, sempre più di massa, diede a

molti soggetti, prima esclusi, la possibilità di accedervi. Considerando che l'accesso

all'istruzione delle classi subalterne fu particolarmente esiguo fino agli anni Sessanta, è

facile comprendere come le difficoltà per le donne si moltiplicassero. Esse subivano sia

gli effetti della contraddizione di classe sia quelli dell'oppressione di genere a causa

della sedimentata convinzione che la cultura fosse inutile, quando non dannosa, per la

5 Vittorio Vidotto, op.cit., pag. VII-VIII.

6 www.siti.chiesacattolica.it/siti/allegati/38/RelazioneDauNovelli.doc.

7 Antonio Cardini, Il miracolo economico italiano, 1958-1963, Bologna, Il Mulino, 2006, pag. 207-208.

8 Vittorio Vidotto, op.cit., pag.VII-VIII.

56

formazione femminile9. A riprova di questo si ricordi che ancora all'inizio degli anni

Sessanta si contavano in Italia tre milioni di analfabete, con punte percentuali

particolarmente significative nel sud Italia10.

La riforma dell'ordinamento scolastico nel 1962, estendendo a 14 anni l'obbligo

scolastico, portò molte giovani ad avvicinarsi al mondo dell'istruzione11. Nonostante la

percentuale di bambine escluse, anche dalla scuola dell'obbligo, rimanesse

proporzionalmente maggiore rispetto a quella dei maschi e che a livelli più alti di

istruzione questo divario si accentuasse, la scuola di massa aveva, infatti, permesso un

maggiore accesso delle donne a tutti i livelli. E' necessario ricordare, però, che il

maggior livello di istruzione, spesso, non portò evidenti miglioramenti nel destino delle

donne delle classi subalterne in quanto, con il progressivo allargamento della possibilità

di accesso all'istruzione, le donne si trovarono con un titolo concesso ad una massa

troppo vasta e, quindi, dequalificato12.

Analizzando il dato disaggregato per livelli scolastici si può notare come la scuola

media mantenne a lungo un tasso di femminilizzazione più basso rispetto alle altre. Se

questo si spiega con facilità rispetto alla scuola dell’infanzia ed elementare, sulla base di

una selezione crescente, è più complesso capirlo in relazione alla scuola secondaria

inferiore. Possono essere date due diverse spiegazioni a questi dati: in primis la scuola

media, proprio per la sua più recente estensione obbligatoria sul territorio nazionale,

trovava ancora alcune sacche di resistenza in realtà più soggette al pregiudizio che

vedeva nell’adolescenza femminile un’età da controllare e vigilare; in secondo luogo,

l'obbligo scolastico portava ad una più facile esplosione delle contraddizioni sia di tipo

economico che sociale rispetto alla scuola superiore dove solo chi aveva le possibilità

mandava i figli, spesso indipendentemente dal sesso, con la conseguente scelta di

favorire la frequenza maschile13. Il portato emancipatorio della scolarizzazione si

intrecciò, inoltre, con forme inedite di specificazione dell'identità di genere tanto che la

9 Gloria Chianese, Storia sociale della donna in Italia (1800-1980), Napoli, Guida editori, 1980, pag.

116-117.

10 Vanessa Roghi, “Arriva il divorzio-Le donne negli anni '60”, in Correva l'anno, 5 maggio 2008,

www.correvalanno.rai.it/category/0,1067207,1067048-1078125,00.html.

11 Ibidem.

12 Davide Degli Incerti (a cura di), La sinistra rivoluzionaria in Italia, Roma, Savelli, 1977, pag. 280.

13 www.emscuola.org/dofras/temi/farruggia/1960-2000.htm.

57

scuola stessa venne a configurarsi come istituzione differenziante. Il successo scolastico

accompagnava molto più le donne che gli uomini, ma la maggior bravura da esse

dimostrata non trovò riscontro né nei livelli né nelle modalità di scolarizzazione14.

Anche dal punto di vista qualitativo l'accesso dei due sessi a scuola fu, infatti,

differenziato. Nelle medie superiori si realizzò, attraverso un meccanismo istituzionale

che divideva lo sbocco tecnico da quello umanistico, quella canalizzazione delle

iscrizioni che portò le donne a concentrarsi in specifici comparti formativi,

riproducendo la segmentazione che segnava mercato del lavoro e università. Scuole

tipicamente femminili furono, anche negli anni della scolarizzazione di massa, quelle

indirizzate all'insegnamento e quelle che consentivano l'accesso alle professioni

terziarie.15. In questo modo i canali di accesso al lavoro femminile rimasero

sostanzialmente immutati indirizzando le ragazze verso l'attività di maestre elementari e

di asilo, ritenute una sorta di prolungamento della funzione materna, o verso ruoli di

segretariato ad esse ritenuti più congeniali16. Nonostante questo, in pochi decenni,

l'integrazione femminile nel sistema scolastico aprì alle donne prospettive professionali

ed esistenziali inedite.

Analogamente sia il mercato del lavoro sia i servizi sociali promossero processi

tendenti, contemporaneamente, a minare le definizioni tradizionali del ruolo delle donne

e a favorirne la rispecificazione. Se per milioni di donne della prima metà del

Novecento stare a casa aveva costituito il simbolo di una raggiunta sicurezza sociale,

con gli anni Sessanta e Settanta il sogno fu quello di avere un lavoro extra-domestico17.

Le casalinghe, trasformate dal boom economico da angeli del focolare in pilastri del

consumo, non erano più considerate un modello per le nuove generazioni pur essendo

ancora più del doppio rispetto alle lavoratrici (12 milioni nel 1961)18. In quegli anni si

assistette, dunque, ad una più elevata partecipazione delle donne all'attività produttiva

con la conseguente ricollocazione, sia quantitativa che qualitativa, della forza lavoro e

con l'apertura di numerose nuove professioni per le donne19. Il consistente incremento

14 Yasmine Ergas, Nelle maglie della politica, Milano, Franco Angeli, 1986, pag. 47-50.

15 Ibidem.

16 Gloria Chianese, op.cit, pag. 116-117.

17 www.siti.chiesacattolica.it/siti/allegati/38/RelazioneDauNovelli.doc.

18 Vanessa Roghi, op.cit.

19 Vittorio Vidotto, op.cit., pag. 4-10.

58

occupazionale delle donne deve essere, però, esaminato considerando le caratteristiche

specifiche del sistema in quella fase di sviluppo. Posto l'incremento dell'occupazione

femminile in valore assoluto, è interessante valutare il fenomeno settore per settore in

relazione all'occupazione maschile. In base a questa analisi si può evincere la netta

prevalenza del terziario, in cui era occupata circa la metà delle donne lavoratrici, anche

se una buona percentuale, circa un terzo delle stesse, aveva trovato lavoro anche in

ambito industriale. L'occupazione femminile in questo settore era, però, soggetta a

maggiori fluttuazioni rispetto a quella maschile in quanto, in una prospettiva di

ristrutturazione del settore industriale, settori scarsamente tecnicizzati, a più alta

presenza femminile, venivano più facilmente colpiti dall'effetto delle crisi

economiche20. L'aumento della produttività industriale era stato determinato, inoltre,

non tanto da un processo di riorganizzazione e aggiornamento del ciclo produttivo

quanto dal più intenso sfruttamento della forza lavoro. Le donne si inserirono in tale

processo produttivo in quanto più facilmente indotte ad accettare turni di lavoro

disagevoli e condizioni di lavoro precarie a causa della debolezza della loro posizione

sociale. La debolezza femminile derivava da vari fattori quali l'instabilità dell'attività

lavorativa, la minore qualificazione professionale, i vincoli derivanti dalla struttura

familiare e l'assenza di idonei servizi sociali21. Per quanto riguarda il settore agricolo

negli anni si è assistito, parallelamente al passaggio da piccole aziende a conduzione

familiare a grandi imprese a capitale privato, ad una progressiva diminuzione delle

donne impiegate nel settore. Il lavoro agricolo così sviluppato eliminava, infatti, forme

arretrate di produzione incidendo negativamente sui livelli occupazionali ed espellendo

manodopera, in particolar modo femminile22. Le donne furono spesso indotte ad

accettare anche le difficili condizioni del lavoro a domicilio, riservato quasi

esclusivamente alla manodopera femminile, sia a causa di un'immediata esigenza di

sussistenza sia per la diffusa convinzione che questo tipo di lavoro fosse maggiormente

conciliabile con l'attività domestica e dunque più consono alle donne23. I contratti di

lavoro per le donne mantennero, inoltre, livelli di garanzia nettamente inferiori rispetto

20 Alfieri, Ambrosini, La condizione economica, sociale e giuridica della donna in Italia, Torino,

Paravia, 1975, pag. 117-120.

21 Ivi, pag.113-115.

22 Ivi, pag. 117-120.

23 Gloria Chianese, op.cit., pag. 115.

59

a quelli maschili. Ad evidenza di questo può essere significativo ricordare che era in uso

presso molti datori di lavoro la consuetudine di far firmare alle donne, al momento

dell'assunzione, una lettera di dimissioni in bianco da consegnare al momento del

matrimonio24. I contratti a termine e i licenziamenti per maternità continuarono, inoltre,

ad essere all'ordine del giorno nonostante fosse stata approvata nel 1950 la legge sul

diritto di maternità per le lavoratrici, la salvaguardia della maternità in ambito

lavorativo assunse una valenza negativa in quanto strettamente collegata al persistere

della struttura patriarcale della famiglia e alla discriminazione lavorativa conseguente25.

Per capire l'urgenza di cambiamento che le donne del tempo sentivano è interessante

notare come nel 1968 solo il 27% degli occupati erano donne pur rappresentando il 67%

delle persone in cerca di primo impiego26. Con il passaggio agli anni Settanta l'economia

ebbe un netto rallentamento a causa della crisi economica e i dati dell'occupazione

riflettono bene la realtà di un'Italia in cui il lavoro femminile venne penalizzato molto

più di quello maschile. In Italia lavoravano, infatti, cinque milioni di donne contro 14

milioni di uomini a fronte di una popolazione di 28 milioni di donne e 26 milioni di

uomini. Analizzando i dati sui salari femminili si può notare, inoltre, che la disparità

salariale, per quanto fosse lievemente diminuita nel tempo, fu una costante degli anni

sessanta e settanta. Nel 1961 per le donne in agricoltura valeva ancora il coefficiente

“Serpieri” che determinava la diversa e inferiore retribuzione femminile rispetto agli

uomini a parità di lavoro svolto. Questo, naturalmente, non valeva solo per l'agricoltura

dove era sancito ufficialmente, ma, in maniera ufficiosa, anche per gli altri settori fino a

differenze del 30%27. Nel 1975 la differenza si attestava ancora attorno al 12%,

nonostante la parità salariale della donna fosse una conquista realizzata a livello

giuridico già con la Costituzione28.

Apparentemente lineare, la norma venne, a lungo, mal interpretata dando luogo a

controversie tendenti, di fatto, a svuotare il significato del principio. Ad una tesi più

rispettosa del concetto egualitario se ne contrappose, infatti, una maggiormente

24 Vanessa Roghi, op.cit.

25 Yasmine Ergas, op.cit. (1986), pag. 47-50.

26 Vanessa Roghi, op.cit.

27 Ibidem.

28 “Art.37- La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che

spettano al lavoratore”, Simona Colarizi, op.cit., pag. 424.

60

restrittiva che integrava il concetto di parità formale con quello di parità di rendimento.

Le differenze salariali venivano determinate, dunque, da sistemi di valutazione della

forza lavoro che, legati al livello di produttività, interessarono principalmente le

maestranze maschili delle industrie settentrionali metalmeccaniche29. La disparità

salariale veniva giustificata in base al presupposto indimostrato e indimostrabile che, a

parità di mansioni, la donna avesse un rendimento inferiore rispetto all'uomo e sulla

base di presunti comportamenti femminili inadeguati alla produzione. Si affermava,

infatti, che le donne lavorassero per soddisfare bisogni non indispensabili, mancassero

di qualifica, avessero una carriera discontinua e che praticassero l'assenteismo più degli

uomini. Queste condizioni vennero considerate come oggettive anche se, vagliate

criticamente, avrebbero dimostrato la loro natura pretestuosa. Quanto alla non

indispensabilità del lavoro femminile l'affermazione risentiva di una analisi centrata

sulle sole donne borghesi che nella maggior parte dei casi non lavoravano per integrare

il reddito familiare quanto per sfuggire alla monotonia della casa o per disporre di

denaro proprio per spese extra. In realtà la galassia delle donne lavoratrici era costituita

principalmente da proletarie, occupate nell'industria e nell'agricoltura, il cui lavoro era

necessario per integrare l'insufficiente salario maschile. In alcuni casi il salario

femminile rappresentava l'unica fonte di reddito familiare. La mancanza di qualifica era,

spesso, equivalente a un mancato riconoscimento della qualifica stessa. Il principio di

salario uguale veniva, così, aggirato con meccanismi di lavoro diseguale, dando alle

donne, dunque, le mansioni meno qualificate e peggio pagate. La discontinuità di

carriera era, invece, direttamente collegata con la carenza dei servizi sociali necessari a

sopperire all'assenza della donna in famiglia. Fu lo stesso comparto industriale a volere

l'espulsione della donna dalla produzione per poterla, in un secondo momento,

riassorbire con una qualificazione ancora minore. Tra i vari aspetti indicati quello che

veniva considerato il maggior ostacolo alla parità salariale era, però, l'assenteismo

femminile. In una analisi più approfondita dei dati, nel momento in cui si esclude il

periodo di maternità che veniva considerata assenteismo, il dato generale risulta

omogeneo tra i due sessi evidenziando una sostanziale parità in questo campo. Nessuna

delle ragioni poste a sostegno della disparità salariale regge, dunque, ad un'analisi

critica approfondita30.

29 Gloria Chianese, op.cit., pag.111-113.

30 Alfieri, Ambrosini, op.cit., pag.124-129.

61

2.1.2- Famiglia e sessualità

All'indomani della Seconda guerra mondiale la Costituzione tentò di istituzionalizzare

un diverso modello di famiglia che liberasse, almeno parzialmente, la donna dai vincoli

del passato liberale ottocentesco e fascista. Pur prendendo direttamente in

considerazione la condizione della donna in una pluralità di norme i costituenti scelsero

consapevolmente di astenersi dal legiferare in merito ai rapporti intrafamiliari e con

l'Art.29 venne sancito il non intervento dello Stato nell'organizzazione familiare,

considerata società naturale autodeterminata31. Pur riconoscendo l'eguaglianza tra i sessi

e pur affermando la parità del lavoro femminile la stessa carta costituzionale abbinò

l'integrazione femminile nel mercato del lavoro allo svolgimento della prioritaria

funzione femminile all'interno della famiglia.32

Questo stato di cose fu accettato a lungo grazie all'opera della famiglia stessa. La

struttura familiare influenzava, infatti, la formazione ideologica dei singoli membri in

direzione del consenso per le norme di comportamento sociale vigenti attraverso

un'opera di mediazione delle tensioni e dei conflitti sociali. In quest'ottica la condizione

femminile dei primi anni sessanta è di difficile analisi in quanto le donne continuarono

ad essere sia vittime sia complici della loro stessa subordinazione. Benché subissero

ogni giorno i condizionamenti e l'oppressione delle figure maschili esistenti nella

struttura familiare di appartenenza, diventarono, spesso, tra i più accaniti difensori della

tradizione familiare attraverso un'azione repressiva nei confronti di figli e figlie33. I

profondi mutamenti che avevano sconvolto la società italiana dal punto di vista

economico non avevano, dunque, messo in discussione la struttura familiare che, al

contrario, si rivelava un indispensabile correttivo degli squilibri sociali conseguenti al

boom economico. Le donne infatti, in quanto mogli e madri, continuarono a svolgere

l'attività assistenziale che lo stato non riusciva a garantire attraverso i troppo spesso

insufficienti servizi sociali. Il modello di sviluppo economico non aveva comportato,

infatti, la costituzione di un'efficace rete assistenziale gestita dallo stato34. In questo

periodo si intrecciarono, perciò, nelle norme che regolavano il diritto di famiglia,

interventi legislativi e amministrativi tendenti ora a consolidare, ora a minare, il nesso

31 Alfieri, Ambrosini, op.cit., pag. 43-52.

32 Yasmine Ergas, op.cit. (1986), pag. 47-50.

33 Gloria Chianese, op.cit., pag. 109-111.

34 Ivi, pag.111-113.

62

fra sesso e genere, fra appartenenza biologica e posizione sociale. Questa ambivalenza

si manifestò nella stessa organizzazione sociale, avendo le politiche istituzionali da una

parte promosso l’ingresso massiccio delle donne nelle sfere della vita pubblica, mentre,

dall'altra, ne canalizzavano la partecipazione in comparti specifici nel sistema di

istruzione o del mercato del lavoro35. Il processo di modernizzazione della

microstruttura familiare italiana che ne trasformò funzione e ruolo modificando la stessa

condizione della donna non eliminò, ma ripropose in forme diverse, la tradizionale

subalternità. Lo sviluppo dell'industria degli elettrodomestici e l'affermarsi nell'industria

alimentare di consistenti comparti per la produzione di cibi a lunga conservazione

contribuirono a modificare le abitudini familiari dando un diverso aspetto al lavoro

domestico. La famiglia acquisì, così, una enorme importanza per la formazione di un

mercato interno per i beni di largo consumo. L'immagine della donna di casa, attenta ad

economizzare e a lucidare il proprio nido, proposta dalla pubblicità si combinò con un

modello di femminilità profondamente sedimentato nella mentalità e nella cultura del

tempo. Alle donne venne chiesto di essere remissive e dolci e la cura del corpo

femminile venne indirizzata al piacere maschile, secondo un modello di bellezza che

non doveva essere provocante o eccentrico, ma piacevole e rassicurante. La donna,

sostanzialmente considerata un oggetto, avrebbe dovuto avere caratteristiche specifiche

quali bellezza, giovane età e fascino. Senza queste doti il successo sarebbe stato negato,

il matrimonio precluso, la ricerca di lavoro difficile36. Intelligenza e cultura venivano,

invece, considerate doti secondarie, quando non difetti. Anche nelle politiche sociali

degli anni settanta è evidente l'intrecciarsi della tutela del ruolo familiare con la

necessità di inserimento delle donne nella società in una logica di ridefinizione dei ruoli

assegnati alle donne37. Anche in questo ambito la donna si trovò in posizione

subordinata, emarginata dai centri vitali e decisionali delle scelte politiche e utilizzata

come esercito di riserva in determinati momenti politici senza mai essere protagonista,

nemmeno nel caso fosse il soggetto centrale della questione. I ruoli che la donna era

tenuta a ricoprire erano essenzialmente contraddittori. L'uno negava l'altro e dalla

35 Yasmine Ergas, “Tra sesso e genere”, in Memoria. Rivista di storia delle donne, 1987, n. 19-20, pag.

11-18.

36 Gloria Chianese, op.cit., pag. 109-111.

37 Yasmine Ergas, op.cit. (1986), pag. 47-50.

63

reciproca negazione si evidenziava maggiormente la subordinazione femminile38.

Per quanto riguarda il codice civile e la disciplina del matrimonio e dei rapporti

coniugali, la cui codifica risaliva al 1942, rimasero sostanzialmente immutati fino

all'approvazione della nuova legge sul diritto di famiglia nel 1975, mantenendo negli

anni uno schema del tutto estraneo al principio egualitario. I doveri imposti per legge

ponevano la donna in una posizione di netta subordinazione rispetto all'uomo soprattutto

attraverso norme che sancivano legalmente la differente posizione sociale di uomo e

donna. E' importante sottolineare, però, che il diritto di per sé non ha la capacità di

trasformare i rapporti esistenti nella società, la sua funzione è quella di tradurre in

termini formali la realtà sociale, non anticipa le trasformazioni, le segue39. La gestione

della sessualità femminile fu, all'epoca, particolarmente difficile in quanto veniva

legalmente e chiaramente distinto ciò che era lecito da ciò che era illecito per una donna

in quest'ambito. In caso di adulterio, ad esempio, la pena era di un anno di reclusione

per la donna e per il suo amante, ma non così per l'uomo. L'adulterio femminile veniva,

infatti, considerata colpa gravissima, tale da mettere in crisi il nucleo familiare, mentre

per gli uomini veniva considerata necessità, soprattutto dopo la chiusura delle case

chiuse di fine anni cinquanta40. Gli sconvolgimenti degli anni sessanta erano, però sotto

gli occhi di tutti e la situazione era destinata a cambiare a breve, se non dal punto di

vista legale, almeno dal punto di vista della consuetudine. In questo senso è significativa

la vicenda di Franca Viola, rapita ancora diciassettenne nel dicembre del 1965 da uno

spasimante e 12 amici, violentata e nascosta per otto giorni, che fu la prima donna a

rifiutare il matrimonio riparatore a seguito di una violenza previsto dall'art.544 del

codice civile (in vigore fino al 1981). Malgrado lo stupro in Italia fosse ancora reato

contro la morale e non contro la persona i giudici, nel 1967, premiarono il coraggio

della ragazza condannando il violentatore a dieci anni di carcere41. Nella stessa

direzione di riconoscimento di maggiori diritti alle donne, conseguente agli

sconvolgimenti economici, politici e sociali della fine degli anni sessanta, andava il

provvedimento che legalizzò, alla fine del 1969, il divorzio. La legge Fortuna-Baslini,

entrata in vigore nel dicembre dell'anno seguente fu, insieme alla depenalizzazione

38 Alfieri, Ambrosini, op.cit., pag. 191-192.

39 Ivi, pag. 43-52.

40 Vanessa Roghi, op.cit.

41 Ibidem.

64

dell'adulterio dello stesso anno, il primo passo verso la parificazione dei diritti tra uomo

e donna sancita solamente nel 1975 con l'approvazione del nuovo diritto di famiglia.

2.2- IL MOVIMENTO FEMMINISTA IN ITALIA

2.2.1- La nascita del neo-femminismo e il rapporto con gli altri soggetti politici

Nella seconda metà degli anni sessanta, contemporaneamente al definirsi di una nuova

identità giovanile, nacquero forme inedite di coinvolgimento civile e politico. L'origine

della nuova sinistra rivoluzionaria in Italia viene spesso fatta coincidere con l'esplodere,

alla fine degli anni sessanta, del movimento degli studenti. Nonostante questa

affermazione possa essere riduttiva è vero che il movimento degli studenti fu, in primo

luogo, una delle ragioni del formarsi di questo spazio politico e, in secondo luogo, diede

quadri, esperienza e peso politico reale alla nuova sinistra. Questo non sarebbe, però,

bastato se tale movimento non si fosse inserito in un processo più ampio di

massificazione della scuola42. A far scattare la scintilla, in Italia come nel resto del

mondo occidentale, fu, infatti, l'inadeguatezza delle strutture scolastiche e universitarie

a fronte della scolarizzazione di massa. Era stato lo stesso sviluppo economico ad

imporre la scolarizzazione di massa: crescita industriale e dilatazione del terziario

richiedevano, infatti, un numero sempre maggiore di soggetti con competenze e

specializzazioni, che la scuola degli anni precedenti non poteva dare. Finché rimase

confinata nelle scuole e nelle università la contestazione studentesca sembrò essere

soltanto una rivoluzione del costume che, pur lasciando frastornata l'intera società, non

avrebbe portato radicali cambiamenti43. Esempio del clima che si respirava in quegli

anni può essere il caso “Zanzara”. Nel marzo 1966 studenti e studentesse del Liceo

Parini di Milano pubblicarono sul giornale studentesco “Zanzara” una serie di innocue

interviste sui comportamenti sessuali delle coetanee, ma nonostante la limitatezza

dell'episodio, la situazione degenerò portando preside, redattori e tipografo a processo

per oltraggio al pudore e diffusione di materiale pornografico. Agli autori degli articoli

venne, inoltre, imposta un'ispezione corporale per accertare la loro integrità fisica e,

mentre i ragazzi accettarono di sottoporvisi, la ragazza si rifiutò44. Al processo vennero

tutti assolti, ma il solo fatto di aver creato uno scandalo di queste dimensioni per un

42 Davide Degli Incerti (a cura di), op.cit., pag. 279-280.

43 Simona Colarizi, op.cit., pag. 395-397.

44 Antonio Cardini, op.cit., pag. 231.

65

articolo di questo genere dà la misura della tensione sociale di quegli anni e dei

pretestuosi tentativi che vennero messi in atto per tentare di contenere il divampante

cambiamento.

La protesta non rimase confinata all'ambito scolastico e le conseguenze della

mobilitazione del 1968-69 si riverberarono in ogni ambito sociale portando alla

mobilitazione di ampie fasce della società. In Italia, come in altri paesi europei, uno dei

principali sconvolgimenti fu la mobilitazione delle donne. Fin dagli inizi, infatti, lo

stesso femminismo partecipò a quella generale messa in discussione dell’organizzazione

politica e sociale che scosse l’Italia a partire dal 1968-69. I primi collettivi femministi

addirittura anticiparono le grandi mobilitazioni studentesche come, ad esempio, il

gruppo “Demistificazione autoritarismo” che si formò nel 1966. La formazione di questi

primi gruppi venne rapidamente seguita dalla nascita di altri collettivi femministi

intersecandosi tanto con lo sviluppo della mobilitazione degli studenti da far sì che,

nelle analisi politologiche e sociologiche del periodo, le particolarità del femminismo

parvero smarrirsi. La rinascita del protagonismo femminile venne letta, infatti, come

indicatore dell’elevato tasso di mobilitazione della società civile in quanto il movimento

delle donne rappresentava la politicizzazione inaspettata che esulava dalle categorie

convenzionali dell'impegno politico45. Inserito in questo contesto, il rinascente

femminismo si connotò come movimento di liberazione, profondamente segnato da uno

spirito di rivolta46. Dato costitutivo della gioventù in movimento dell'epoca era, infatti,

una dimensione conflittuale radicale e ostile al compromesso, mutuata, perlopiù,

dall'analisi marxista e giustificata, secondo molti, dall'inadeguatezza della risposta

politica ai bisogni reali della società47.

La nuova consapevolezza femminile, esplosa tra la fine degli anni sessanta e l'inizio

degli anni settanta, non nasceva, però, dal nulla. Derivava, infatti, dal fermento del

mondo femminile dovuto al boom economico post-seconda guerra mondiale e alle sue

conseguenze sociali48. La fase di sviluppo a seguito della guerra aveva offerto alle

donne una scolarità diffusa, anche se ineguale, alcune opportunità di lavoro, anche se

marginale e precario, ma appena la crisi economica aveva bloccato questo sviluppo la

45 Yasmine Ergas, op.cit. (1987), pag. 11-18.

46 Eliane Gubin (a cura di), Le siècle des féminismes, Paris, Les editions de l'atelier, 2004, pag.101.

47 Vittorio Vidotto, op.cit., pag. VII-VIII.

48 Simona Colarizi, op.cit., pag. 422-424.

66

condizione della donna era stata investita da numerose contraddizioni49. Così mentre le

politiche sociali degli anni precedenti avevano moltiplicato i luoghi in cui la vita delle

donne si svolgeva attraverso lo sviluppo di strutture sociali come scuole, università e

centri di servizio sociale, mettendo le donne in contatto con la politicizzazione diffusa

degli anni sessanta, la crisi le indusse a partecipare alle lotte degli anni settanta50. I

movimenti femministi rappresentarono, così, la coscienza critica di questo passaggio,

fornendo peso teorico e mobilitazione organizzativa alla dimensione conflittuale di un

processo già in atto51. I gruppi femministi si andarono, dunque ad inserire in un contesto

in cui da una parte il movimento universitario si stava esaurendo riversandosi nei gruppi

della Nuova Sinistra, mentre dall'altra l'autunno caldo operaio apriva un nuovo fronte di

mobilitazione. Tutto questo avvenne anche grazie all'atteggiamento particolarmente

ambiguo del sistema politico che, mentre proponeva grandi progetti innovatori,

reprimeva i movimenti che avevano portato alla necessità di questo rinnovamento52. Il

1968 cambiò, dunque, radicalmente il precedente modello di donna. Il momento di

svolta fu quando le studentesse, accorse ad occupare le università italiane per

“rivoluzionare il sistema” si trovarono a sperimentare, anche in quest'ambito, forme di

ghettizzazione dovute all'egemonizzazione del movimento da parte dei “compagni”53.

La necessità di porre al centro della lotta politica la liberazione della donna scaturì,

dunque, anche all'interno della stessa esperienza del movimento studentesco da parte di

quelle militanti che individuarono nel ruolo subordinato assegnato alle donne (“donne

dei compagni”,“angeli del ciclostile”) meccanismi più sottili di discriminazione54.

L'approccio egualitario del movimento studentesco, con il rifiuto della delega,

l'esaltazione della spontaneità della lotta, la riaffermazione anticapitalistica della

liberazione individuali portò le donne a chiedersi perché i principi validi per il

proletariato non dovessero valere anche per le donne55. D'altra parte, se, per un verso, la

49 Giulietta Ascoli (a cura di), La questione femminile in Italia dal '900 ad oggi, Milano, Franco angeli

Editore, 1977, pag. 169-170.

50 Yasmine Ergas, op.cit. (1986), pag. 50-52.

51 Vittorio Vidotto, op.cit., pag. VII-VIII.

52 Scattigno, Bertilotti (a cura di), Il femminismo degli anni settanta, Roma, Viella, 2005, pag. 43-44.

53 www.novecentoitaliano.it/Portale/contesto_Sintesi.aspx?id=476&periodo=549.

54 Rosalba Spagnoletti, op.cit., pag. 21.

55 Biancamaria Frabotta, Femminismo e lotta di classe in Italia (1970-1973), Roma, Savelli, 1975, pag.

67

militanza all'interno della nuova sinistra favorì l'omologazione delle donne a ruoli

tradizionali, dall'altra garantì l'accesso delle stesse a risorse politiche precedentemente

sconosciute. Grazie all'appartenenza ai gruppi le donne acquisirono competenze

politiche specifiche e capacità di leadership oltre ad integrarsi nelle reti associative

intervenendo nei mezzi di comunicazione delle stesse. In questo contesto è facile

comprendere perché le organizzazioni della nuova sinistra diventarono sia oggetto di

confronto sia fonte di legittimazione per le donne militanti. Declinando i temi e le tesi

della nuova sinistra attraverso un'analisi sulla specifica condizione femminile, le donne

iniziarono la costruzione di un'identità autonoma che si ridefiniva continuamente nei

confronti delle organizzazioni di riferimento56.

A seguito dell'autunno caldo del 1969 con l'ondata di scioperi a gatto selvaggio e

l'ampliarsi del conflitto sociale nelle fabbriche, la mobilitazione si ampliò a tutti gli altri

settori lavorativi con il conseguente sollevamento di ampie fasce di donne lavoratrici57.

In quello stesso periodo, infatti, molte donne parteciparono agli scioperi delle maggiori

industrie e in alcune aziende come “Alpina” e “Superga”, roccaforti della manodopera

femminile, la lotta fu portata avanti dalle stesse donne58. Per molte l'impegno politico si

collegò, così, alla lotta operaia in una logica di classe. A differenza

dell'emancipazionismo degli anni precedenti, che aveva investito nella difesa delle

donne in quanto donne, indipendentemente dalla posizione sociale, esse ritenevano che

una scelta non di classe avrebbe posto il rischio di avere come pubblico da

sensibilizzare strati sociali che portavano avanti una critica ben tollerata del sistema

perché riformista e non rivoluzionaria59.

“Pertanto la questione femminile come lotta globale contro ogni aspetto

dell'oppressione che la società perpetua nei confronti di tutti gli sfruttati pone il

problema di una lotta rivoluzionaria che trasformi radicalmente la società”60.

La sinistra extraparlamentare, tanto vicina, arrivò ad essere percepita come uno dei

8-9.

56 Yasmine Ergas, op.cit. (1986), pag. 62-64.

57 Patrick Cuninghame, “Italian feminism, workerism and autonomy in the 1970s: the struggle against

unpaid reproductive labour and violence”, in @mnis – Revue de civilisation contemporaine de

l'Université de Bretagne Occidentale, www.univ-brest.fr/amnis/, 2008, pag. 3-4.

58 Vanessa Roghi, op.cit.

59 Alfieri, Ambrosini, op.cit., pag. 186-188.

60 Rosalba Spagnoletti, op.cit., pag. 24.

68

primi nemici da combattere a causa del mancato riconoscimento del sessismo come

fondamento primario di ogni forma di dominio. Il rapporto tra lotta di classe e

contraddizione uomo-donna angustiò a lungo le femministe che, oscillando tra doppia

militanza, difesa dell'autonomia femminista, tentativo di non isolamento e ricerca di

punti di intersezione, si trovarono, infine a dover scegliere uno dei due campi di

azione61. In questa seconda fase i movimenti femministi si discostarono, dunque, dai

gruppi della sinistra extraparlamentare in quanto percepirono la minimizzazione e la

subordinazione della questione femminile rispetto ad altri obiettivi considerati come

prioritari62. La diversità percepita sia nei confronti di altri studenti sia rispetto alla classe

operaia, prevalentemente maschile, portò una netta frattura tra il generale discorso

rivoluzionario e i gruppi di donne militanti, insoddisfatte delle pratiche del movimento.

Le donne, anche se a un livello elitario e non di massa, tentarono, dunque, di ripartire da

questo disagio per articolare un discorso approfondito sulla specificità della condizione

femminile63. Al tema dell'eguaglianza, della parità di diritti e delle opportunità, temi

cardine di quasi un secolo di battaglie emancipazioniste, si sostituì, così, il tema della

diversità, destinato ad orientare l'analisi e la riflessione sulla condizione della donna da

quel momento in avanti. Così la rivoluzione anticapitalista, invocata dagli studenti,

assunse per le donne un significato di rivoluzione contro il dominio maschile, nel

matrimonio e nella famiglia64.

Tutti i movimenti femministi che si svilupparono negli anni Settanta in gran parte

dell’occidente industrializzato posero la differenza sessuale al centro della loro

riflessione e della loro mobilitazione sociale e, pur rimanendo prettamente in ambito

nazionale, stabilirono collegamenti internazionali. Le loro pratiche discorsive, così

come le loro modalità organizzative, portavano, però, il segno dello specifico contesto

culturale, sociale e politico entro il quale emersero e sul quale più direttamente

incisero65. Così il femminismo italiano si differenziò dai numerosi femminismi ad esso

coevi soprattutto grazie ai particolari connotati del suo rapporto con la politica, un

rapporto che per tutto il decennio rimase segnato dalla lunga crisi del sistema politico

61 Scattigno, Bertilotti (a cura di), op.cit. pag. 83-84.

62 Patrick Cuninghame, op.cit., pag. 1-2.

63 Biancamaria Frabotta, op.cit., pag. 8-9.

64 Simona Colarizi, op.cit., pag. 422-424.

65 Yasmine Ergas, op.cit. (1987), pag. 11-18.

69

nazionale. Così, mentre la società si andava trasformando rapidamente e la

radicalizzazione del conflitto sociale si inaspriva per gli effetti della crisi economica e

dell'inflazione, la mobilitazione femminista prese sempre più vigore. La generazione

nata nel dopoguerra percepiva lo scarto tra gli obiettivi e i valori proposti dalle forze

politiche tradizionali e la loro faticosa e incompiuta realizzazione66.

“Cosa possono avere in comune la rivolta di Reggio Calabria del 1970 e il

femminismo, le Brigate rosse e le occupazioni studentesche, la mobilitazione

sindacale e il terrorismo diffuso, se non appunto le forme dell'antagonismo radicale

e una base di consenso sociale, talora circoscritta ma mai esigua, che testimonia di

un'Italia irreconciliata e conflittuale?”67 .

Analizzando il rapporto tra femminismo e sistema politico degli anni Settanta, si

possono, dunque, distinguere due tempi. Nel primo, che va dagli inizi del decennio fino

all’incirca al 1976, la crisi del sistema dei partiti aprì spazio politico ai movimenti

sociali, incoraggiando la politicizzazione della società civile in generale e delle donne in

particolare. Nella seconda fase emerse, invece, il primato della politica tradizionalmente

intesa. I movimenti sociali si videro chiudere lo spazio politico anche a causa dello

scoppio della violenza della seconda metà degli anni settanta, e la dinamica fra partiti e

società civile sembrò ridursi alla mediazione tra le domande del movimento e le risposte

delle istituzioni68. L’atteggiamento dei partiti nei confronti del movimento femminista si

chiarì, ad esempio, nelle vicende che accompagnarono la campagna per la

legalizzazione dell'aborto. Nei primi mesi del 1975, la Corte Costituzionale dichiarò

l’illiceità di alcune norme centrali del Codice Rocco riguardanti la protezione della

stirpe. L’intervento della Corte, creando un vuoto legislativo proprio mentre la

mobilitazione aveva raggiunto l'apice, costrinse i partiti ad affrontare la scottante

questione dell'interruzione volontaria della gravidanza. Nel momento in cui i progetti di

legge vennero presentati in Parlamento, quelli delle principali forze politiche

sembravano ignorare i punti ritenuti fondamentali dal movimento consegnando il potere

decisionale a medici ed esperti e sottraendolo alla donna. La negazione del diritto

all’autodeterminazione femminile fu, dunque, una delle principali cause della sfiducia

del movimento femminista nelle istituzioni anche perché, a prescindere dalla soluzione

66 Vittorio Vidotto, op.cit., pag. 103-107.

67 Ivi, pag.102.

68 Yasmine Ergas, op.cit. (1987), pag. 11-18.

70

dello specifico problema, questo fu uno dei momenti cardine della battaglia per una

diversa collocazione sociale della donna. Quella collocazione che, proclamata con la

Costituzione Repubblicana, sembrava costretta nei limiti di una eguaglianza formale cui

non corrispondeva una reale apertura nella condizione sociale69.

2.2.2- La critica alle organizzazioni femministe tradizionali

Malgrado varie organizzazioni abbiano negli anni portato avanti piattaforme

rivendicative delle donne sul piano dell'inserimento pieno e qualificato nel mercato del

lavoro e sul problema della socializzazione dei servizi, è soltanto con il 1968-69 che in

Italia nasce il nuovo femminismo70. Nei trent'anni precedenti si era, infatti, affermato in

Italia un forte movimento di emancipazione femminile, riformistico, ma agguerrito e

tenace che aveva prodotto effetti non secondari sulla struttura sociale e politica del

paese senza riuscire a creare delle strutture efficaci di autogestione femminile71.

Nonostante le rivendicazioni proposte, legate da un disegno organico di fondo, avessero

contribuito a dare maggiore consapevolezza alle donne e a diffondere una certa cultura

della parità, queste si rivelarono insufficienti non appena la crisi economica mise in

dubbio sia i risultati già acquisiti sia quelli che sembrava potessero essere ottenuti a

breve. Il carattere soggettivamente rivoluzionario del nuovo femminismo incrinò la

fiducia nella gradualità, facendo riesplodere la coscienza di una condizione femminile

cui l'emancipazione non poteva dare risposta72. Tra le cause della svolta del

femminismo degli anni settanta viene, dunque, sottolineato il ruolo della crisi delle

organizzazioni femministe tradizionali. Questa può essere agevolmente ricondotta sia

all'esaurimento dell'illusione relativa all'espansione dell'eguaglianza formale, sia alla

manifestazione dei limiti del modello assimilazionistico. Il modello emancipazionistico,

in cui il diritto avrebbe dovuto essere cieco alle differenze sessuali, aveva mostrato i

suoi limiti sia in ambito liberale, dove maggiori diritti non avevano migliorato

vistosamente la condizione della donna, sia in ambito socialista, dove l'ingresso delle

donne nel sistema produttivo non aveva portato alla fine della subordinazione in ambito

69 Alfieri, Ambrosini, op.cit., pag. 224.

70 Ivi, pag. 186-188.

71 Giulietta Ascoli (a cura di), op.cit., pag. 171-173.

72 Ibidem.

71

familiare73. Per questo motivo, negli anni Sessanta si assistette ad una netta contrazione

della rilevanza politica e della consistenza numerica delle organizzazioni femminili

tradizionali come l'UDI. Quest'ultima aveva avuto, infatti, una drastica flessione

nell'arco degli anni cinquanta fino ad arrivare all'inizio degli anni sessanta a parlare di

completo scioglimento. La politica di promozione femminile dell'UDI seguiva un

doppio binario. Da una parte veniva ritenuto necessario favorire l'inserimento

qualificato, sereno, socialmente e culturalmente maturo delle donne e, in particolar

modo delle giovani generazioni, nel mondo del lavoro, mentre dall'altra sembrava

importante attenuare la presenza e la pressione del lavoro non qualificato, obbligato,

psicologicamente insostenibile. Questo perché si riteneva che ci fosse, nel mondo del

lavoro, un'ampia fascia di donne che vivevano in maniera drammatica il doppio lavoro

causato sia dalla mancanza di efficaci servizi sociali sia da retaggi culturali tradizionali

che delegavano alla donna i compiti di casa74. Questa posizione, limitata al solo ambito

lavorativo, tralasciava le tematiche che iniziavano ad essere dibattute dalle femministe

e che mettevano in luce l'insufficienza di una strategia incentrata solamente sul discorso

dell'emancipazione e la necessità di investire in nuovi ambiti, quali la famiglia, il

divorzio, il matrimonio75. La presenza e il grande seguito di movimenti che ambivano a

rilanciare la questione femminile mutò, in un secondo momento, anche l'atteggiamento

delle organizzazioni femminili tradizionali fino a portare la stessa UDI ad accogliere in

toto, anche se con le dovute cautele, l'intera tematica neo-femminista durante il

congresso annuale del 197376.

Il movimento femminista partì nella sua rinnovata veste riprendendo molte delle

tematiche care al femminismo americano in una teorizzazione stringente della

differenza come valore. Ciò implicava che la strategia dell'uguaglianza in ambito

scolastico e lavorativo, che in Italia era comunque ben lontana dall'essere realizzata,

fosse ritenuta insufficiente e inadeguata a favorire un reale processo di liberazione della

73 Dolores Morondo Taramundi, Il dilemma della differenza nella teoria femminista del diritto, Pesaro,

ES@, 2004, pag. 28-32.

74 Paola Gaiotti di Biase, Questione femminile e femminismo nella storia della repubblica, Brescia,

Morcelliana, 1979, pag. 124-126.

75 Gloria Chianese, op.cit., pag. 120-125.

76 Alfieri, Ambrosini, op.cit., pag. 189.

72

donna77. I movimenti femministi rifiutavano, dunque, l'emancipazione in quanto

considerata adeguamento passivo alla società e alle ideologie dell'oppressore e

rivendicavano il diritto della donna ad essere protagonista di un processo storico da cui

era rimasta a lungo esclusa. I tradizionali binari del rivendicazionismo, che pur avevano

svolto un ruolo di profonda rottura in una prima fase, rivelavano in quegli anni la loro

natura revisionista a fronte della coscienza rivoluzionaria dei movimenti contemporanei.

Pur rivendicando una strategia autonoma per l'emancipazione, le organizzazioni

tradizionali lottavano per l'inserimento della donna nel processo produttivo,

identificando la liberazione della donna con l'ingresso della stessa nel mondo del lavoro

non tenendo conto del fatto che la vera causa dell'oppressione femminile era da cercare,

secondo i nuovi gruppi femministi, nel ruolo produttivo che la donna assumeva

all'interno della famiglia78. Nella rivendicazione della differenza era presente una forte

componente di critica alla tendenza-obbligo di omologazione alla norma maschile. Le

femministe della differenza criticavano, infatti, le campagne per l'eguaglianza che

avevano portato le donne a sentirsi emancipate solo se trattate come uomini, nonostante

uomini e donne fossero diversi e andassero trattati come tali. La critica

all'assimilazionismo fu il principale punto di incontro di correnti molto diverse.

Nacquero gruppi che rivendicavano l'esistenza di una cultura delle donne da valorizzare

e gruppi che rifiutavano l'egemonia maschile senza, però, proporre una valida

alternativa che scelsero di allontanarsi dalle organizzazioni tradizionali per dare una

nuova veste al femminismo italiano79.

2.2.3- Teorie e pratiche del neo-femminismo

Gli anni Settanta si aprirono all’insegna della legge sul divorzio, varata non senza

lacerazioni, benché ormai matura nella società italiana. Considerata un’acquisizione

irrinunciabile da molte donne impegnate nel riconoscimento dei diritti civili, il divorzio

non faceva, però, parte delle parole d’ordine dei neonati gruppi del neo-femminismo,

lontani dall’idea tradizionale di emancipazione che mirava a integrare le donne nella

77 Gloria Chianese, op.cit., pag. 126.

78 Rosalba Spagnoletti, I movimenti femministi in Italia, Roma, La Nuova Sinistra: Samonà e Savelli,

1971, pag. 22-23.

79 Dolores Morondo Taramundi, op.cit., pag. 24-25.

73

società senza metterne in discussione le logiche patriarcali80. Il nuovo movimento

femminista italiano rivolse, dunque, la sua attenzione principale all'analisi dei

meccanismi attraverso i quali la società perpetuava valori funzionali al rafforzamento

della famiglia, considerata, dalle femministe, la fondamentale struttura di oppressione

della donna81. Nel corso degli anni settanta il movimento femminista in Italia non aprì,

però, solo la via a nuovi percorsi di costruzione del sé, ma tentò di sovvertire alla base

l'ordine tradizionale innescando profondi processi di mutamento sociale, culturale e

giuridico. Alla base c'era la volontà delle singole donne di mettere in discussione

l'ordine sociale nei suoi punti più rilevanti: il rapporto pubblico-privato, quello corpo-

mente e quello personale-politico. Questo mutamento, pervasivo in tutte le classi

sociali, portò il femminismo a trasformarsi da impegno di poche militanti a fenomeno di

massa82. Questo nuovo tipo di femminismo, nato a seguito del distacco dai movimenti

politici organizzati, si affermò perciò con un orientamento fortemente critico nei

confronti della sinistra partitica ed extraparlamentare, basandosi su piccoli gruppi di

autocoscienza e sulla circolazione orizzontale delle idee83. I gruppi femministi si

diedero, dunque, una struttura a reticolo in cui le singole cellule vivevano una vita

autonoma dal resto del movimento, pur mantenendo legami attraverso la circolazione di

informazioni e di persone, espliciti solo in occasione di mobilitazioni collettive su

problemi particolari84.

I primi collettivi femministi, comparsi nelle città italiane tra il 1970 e il 1974, ebbero

come principio fondante il separatismo in quanto si credeva che solo in gruppi

esclusivamente femminili fosse possibile affrontare adeguatamente i problemi

riguardanti la sessualità, la ricerca di una soggettività femminile svincolata dai

tradizionali modelli di genere e sperimentare nuove forme di socialità tra donne85. Il

femminismo si alimentò, dunque, di motivazioni e risorse perlopiù autonome e,

nonostante la rimarchevole eterogeneità dei gruppi, si possono identificare alcuni

principi comuni che furono alla base dell'analisi di tutte la femministe: identità,

80 www.novecentoitaliano.it/Portale/contesto_Sintesi.aspx?id=476&periodo=549.

81 Rosalba Spagnoletti , op.cit., pag. 21.

82 Scattigno, Bertilotti (a cura di), op.cit., pag. 100-101.

83 Cavarero, Restaino, Le filosofie femministe, Milano,Bruno Mondadori, 2002, pag. 69.

84 http://cle.ens-lsh.fr/1179423806712/0/fiche___article/&RH=CDL_ITA100101.

85 www.novecentoitaliano.it/Portale/contesto_Sintesi.aspx?id=476&periodo=549.

74

sessualità e solidarietà86. In quegli anni venne partorito il concetto che fu salutato come

lo strumento analitico più creativo del femminismo: la differenza. Da quel momento in

poi i movimenti femministi vennero, infatti, percepiti come aderenti a un principio di

eguaglianza o a un principio di differenza87. Quest'analisi, nata dalla consapevolezza

femminile della propria peculiare condizione di subordinazione, portò a rifiutare il

concetto di eguaglianza visto come adattamento a un modello maschile patriarcale e

veicolo esso stesso dello sfruttamento femminile88. Il neo-femminismo pose, perciò, alla

base della propria analisi teorico-politica la contraddizione uomo-donna, rifiutando in

toto le precedenti tesi marxiste che desumevano la subordinazione femminile dal

rapporto capitale-lavoro. Le implicazioni che ne scaturirono furono rivoluzionarie. In

primo luogo l'uomo venne identificato come nemico principale da combattere in quanto

il primo potere a sottomettere la donna era, nell'opinione delle neo-femministe, quello

maschile89. In secondo luogo, privilegiando il terreno del privato lo individuarono come

luogo dell'azione femminista portando la lotta delle donne a spostarsi dalla conquista

dello spazio pubblico alla liberazione dello spazio privato.

Lo strumento utilizzato a questo fine fu quello dell'autocoscienza attraverso cui,

riflettendo sulla propria storia individuale, le donne riuscirono a ricucire un comune

tessuto di oppressione e subalternità e a far emergere una forte solidarietà femminile

utile alla ricerca di una propria identità distinta da quella di classe90. Per i gruppi di

autocoscienza, formati spesso da dieci-quindici donne, divenne impellente dare

l'assoluta priorità a una riflessione completa sul soggetto femminile con le sue diversità.

Il separatismo venne assunto, dunque, come pratica politica basilare in una duplice

prospettiva che, da una parte avrebbe voluto ridefinire i confini tra pubblico e privato,

mentre dall'altra riconobbe la soggettività femminile come base della lotta al patriarcato

in ogni ambito della conoscenza91. La formazione dei collettivi e l'assunzione della

pratica dell'autocoscienza generarono, così, reti associative tanto coese da essere punti

di riferimento sostanziali per le donne che modificarono, su queste basi, anche la

86 Yasmine Ergas, op.cit. (1987), pag. 11-18.

87 Dolores Morondo Taramundi, op.cit., pag.11-19.

88 Alfieri, Ambrosini, op.cit., pag. 186-188.

89 Gloria Chianese, op.cit., pag. 120-125.

90 Ibidem.

91 Eliane Gubin, op.cit., pag.101-102.

75

propria vita quotidiana92.

Il movimento delle donne non si affermò solo con la pratica dell'autocoscienza e con

l'elaborazione teorica a questa collegata, ma spaziò sul terreno delle grandi lotte sociali

dall'aborto legalizzato e assistito, al divorzio e ai servizi sociali garantiti. Lotte che si

posero in continuità con una tradizione secolare di presenza politica femminile nelle

organizzazioni tradizionali, ma che fecero un salto qualitativo nella definizione degli

obiettivi, delle iniziative politiche e delle pratiche di partecipazione93. Schematizzando

si può dire che due categorie riassumono il moltiplicarsi di incontri, letture, riflessioni,

manifestazioni: la pratica dell'autocoscienza, di cui abbiamo già ampiamente parlato, e

l'azione nel sociale delle donne per le donne. Esempio di quest'azione sociale furono, i

corsi monografici delle 150 ore realizzati nell'ambito del diritto allo studio per i

lavoratori. Questi corsi ruotavano, infatti, attorno ai contenuti dell'esperienza delle

donne in ambito lavorativo, familiare e sanitario diventando luogo di incontro fra donne

fino ad allora divise da differenze culturali e sociali. Lo scambio avveniva nelle due

direzioni: le docenti erano in cerca di una professionalità che esprimesse anche una

scelta politica mentre le corsiste desideravano dotarsi di strumenti culturali per tentare

di cambiare un percorso di vita già segnato94.

In termini legislativi la condizione femminile registrò una trasformazione radicale

durante gli anni settanta. Sebbene le nuove politiche non nascessero sempre sulla scia

del femminismo, esse ne scandirono il ritmo evolutivo intrecciando strettamente il loro

destino con quello dei diversi gruppi femministi95. Le riforme tentarono, attraverso

passaggi il più possibile graduali, di posticipare la morte della famiglia tradizionale

adeguando la disciplina giuridica alla realtà in mutamento. Già dalla fine degli anni

sessanta si era, ad esempio, posto con forza il problema della contraccezione e si erano

viste le prime iniziative politiche intese a rivendicare il diritto della donna

all'autodeterminazione del proprio corpo, ma non si ottenne nulla di significativo fino al

1971. La contraccezione, problema che riguardava le donne di tutte le classi sociali,

allontanò anche molte donne dalla Chiesa a causa della sua continua propaganda contro

la pillola e a favore dei soli metodi naturali ( come l'Ogino-Knauss o calcolo dei giorni

92 Yasmine Ergas, op.cit. (1986), pag. 73.

93 Cavarero, Restaino, op.cit., pag. 69.

94 http://cle.ens-lsh.fr/1179423806712/0/fiche___article/&RH=CDL_ITA100101.

95 Yasmine Ergas, op.cit. (1986) pag. 88-91.

76

fertili)96. La pillola, arrivata nelle farmacie italiane già nel 1966, nonostante la

contraccezione fosse ancora considerata reato contro la stirpe, venne venduta come

farmaco per la cura ormonale per molti anni e le donne dovettero cercare ginecologi

disposti a prescriverla con una valida causale terapeutica. L'art. 533 del codice penale

puniva, inoltre, anche la sola propaganda di mezzi anticoncezionali. Per questo, nel

1971, il neonato Movimento di liberazione della donna (MLD), emanazione del Partito

radicale, promosse una raccolta di firme per la liberalizzazione degli anticoncezionali e

la depenalizzazione dell’aborto e finalmente la Corte Costituzionale prese posizione,

dichiarando illegittimi gli articoli del codice penale che vietavano la propaganda degli

anticoncezionali stessi97.

Tanti e diversi erano, però, i problemi che le donne incontravano nella vita di tutti i

giorni e, mentre sorgevano, grazie all'impegno volontario di molte, gruppi di auto-aiuto,

consultori autogestiti, centri per il controllo demografico, il femminismo si prese in

carico la questione del divorzio98. Tenuto al bando per secoli sulla base di preconcetti

religiosi e per una esasperata tutela della famiglia, il divorzio aveva avuto una lunga e

travagliata storia dalla fine del 1800 fino alla sua approvazione nel novembre del 1969.

Contrariamente alle previsioni dei suoi detrattori, l'istituzione del divorzio non aveva,

però, sconvolto il quadro sociale, dando semplicemente adeguata soluzione a quelle

situazioni in cui l'unità imposta risultava anacronistica e socialmente disastrosa ed

infatti, decorso il primo periodo di risoluzione delle situazioni di divorzio di fatto, il

flusso di domande era calato radicalmente99. Nonostante questo, venne portata avanti

dalle forze più reazionarie un'intensa campagna per l'abrogazione di questo istituto che

portò al referendum del 1974. La grande e partecipata mobilitazione per questa

scadenza dimostrò la capacità di mobilitazione dei gruppi femministi e mutò

significativamente il rapporto tra di essi, partiti politici e mass-media. Il coinvolgimento

nelle manifestazioni di gran parte della società permise al movimento di sdoganarsi dal

settarismo nel quale era stato rinchiuso e di organizzare cortei di massa e aprire sedi

pubbliche del movimento100. Se da una parte la vittoria del fronte favorevole al divorzio,

96 Antonio Cardini, op.cit., pag. 190.

97 Simona Colarizi, op.cit., pag. 425.

98 Ibidem.

99 Alfieri, Ambrosini, op.cit., pag. 211-213.

100 http://cle.ens-lsh.fr/1179423806712/0/fiche___article/&RH=CDL_ITA100101.

77

nel maggio del 1974, registrò l'ormai avvenuto processo di secolarizzazione della

società italiana, dall'altra sancì una nuova autonomia delle donne nella sfera pubblica101.

Solo grazie a questo nel 1975 si giunse a una nuova legge sul diritto di famiglia in cui i

doveri reciproci dei coniugi diventarono diritti-doveri in condizioni di eguaglianza e la

prevalenza della figura del padre scomparve quasi completamente, limitata a casi

particolari di difficoltà della madre. La nuova legislazione in materia familiare aveva

iniziato il suo iter già anni prima con la proposta alle camere di un disegno di legge di

riforma del codice civile nel 1967 e con l'abrogazione del reato di adulterio nel 1969,

ma non si era trovato, per molto tempo, un reale accordo tra le forze politiche102. Il

diritto di famiglia così modificato fu sicuramente un passo avanti dal punto di vista dei

diritti civili, ma le condizioni economiche e sociali della donna rimasero perlopiù

immutate, lasciandola in una condizione di debolezza strettamente dipendente da questi

fattori. La riforma giuridica non fu, infatti, sufficiente in quanto in altri ambiti

permaneva una subordinazione non risolvibile con la semplice modifica di alcune

norme ma che necessitava di un cambiamento radicale dell'assetto stesso della società e

dei rapporti economici in essa esistenti103.

Dopo il referendum sul divorzio e in contemporanea con le campagne per il nuovo

diritto di famiglia, si registrò, inoltre, l'accentuarsi dell'impegno di molte forze politiche

per l'approvazione del progetto di legge per la depenalizzazione dell'aborto.

L'incremento dei matrimoni e il picco delle nascite degli anni Sessanta aveva

rappresentato non più di un onda anomala nella riduzione della natalità in atto dal 1890.

La popolazione italiana si trovava ormai nella fase terminale di quel lungo processo di

transizione demografica che in ogni paese sviluppato aveva segnato il passaggio da una

demografia naturale ad una demografia controllata104. Tuttavia la caduta della natalità

avvenuta negli anni Settanta può essere considerata conseguenza di una vera e propria

rivoluzione nei comportamenti sessuali, soprattutto dei giovani. Nel campo del rapporto

tra i sessi la rivolta giovanile del 1968 aveva portato sia al rifiuto della morale

tradizionale sia al conseguente aumento esponenziale dei rapporti prematrimoniali,

frutto, soprattutto, di una nuova autonomia delle donne nelle relazioni sessuali. Il

101 www.novecentoitaliano.it/Portale/contesto_Sintesi.aspx?id=476&periodo=549.

102 Simona Colarizi, op.cit., pag. 423.

103 Alfieri, Ambrosini, op.cit., pag. 65-75.

104 Vittorio Vidotto, op.cit., pag. 4-10.

78

problema dell'aborto, divenuto oggetto di particolare interesse verso la metà degli anni

settanta, affliggeva il paese già da molto tempo. Nel 1966, con un milione di aborti

clandestini e un giro d'affari di milioni di lire, il fenomeno era tanto preoccupante da

arrivare a parlare di “eccidio del sabato sera” dato che la maggior parte degli interventi

veniva fatta proprio quando i ginecologi erano liberi e le donne avevano la domenica

per riposarsi prima di tornare alla vita normale105. L'aborto veniva praticato da sempre

nonostante la sanzione penale derivante. Negare validità legale all'aborto, posto che esso

veniva comunque praticato, significava incentivare una criminalità sociale, favorirne la

clandestinità, chiudere gli occhi di fronte alla realtà. La disciplina penale esistente non

prevedeva eccezioni nemmeno in casi particolarmente drammatici quali malattie

genetiche del bambino o violenza sessuale ai danni della madre106 .Benché in alcuni

strati della società e tra le femministe si stesse facendo strada un'analisi sul ruolo

materno con il risultato di una maternità posticipata e consapevole, per molte donne

questo non avvenne e la soluzione d'emergenza a gravidanze indesiderate continuò ad

essere l'aborto clandestino. Questo era testimonianza della non conoscenza, quando non

del rifiuto, dei metodi anticoncezionali. La battaglia per la legalizzazione dell'aborto

contribuì a far uscire allo scoperto una pratica le cui dimensioni possono essere

considerate un indicatore del drammatico bisogno delle donne di difendersi

dall'ineluttabilità di un ruolo107. L'esperienza del movimento dei consultori autogestiti

sottolineò, inoltre l'importanza dell'aspetto sociale della militanza che, nel periodo

successivo, smorzò parzialmente il contrasto tra piccolo gruppo e movimento collettivo

particolarmente accentuato durante la campagna per l'aborto108. L'avvio, nel 1974,

dell'autogestione dell'aborto estese le aree di intervento del femminismo. Le tattiche

adottate, prima dai singoli collettivi e poi da coordinamenti appositamente creati, per

permettere alle donne di abortire nonostante i divieti (viaggi a Londra, centri

specializzati), permisero, inoltre, al movimento di estendere la propria influenza a fasce

sociali prima escluse. La richiesta di “aborto libero, gratuito e assistito”, legata a doppio

filo all'affermazione del diritto della donna all'autodeterminazione, lungi dall'esprimere

una rivendicazione specifica, condensava la domanda di riconoscimento della nuova

105 Vanessa Roghi, op.cit.

106 Alfieri, Ambrosini, op.cit., pag. 214-217.

107 Vittorio Vidotto, op.cit., pag. 4-10.

108 Scattigno, Bertilotti (a cura di), op.cit., pag. 179.

79

identità collettiva femminile che si assumeva l'onere di difendere i diritti di tutte le

donne109. Attraverso la lotta per la depenalizzazione dell'aborto molte donne espressero

la volontà di essere protagoniste e il rifiuto del ruolo materno quale unica forma di auto-

realizzazione femminile. Affermarono, inoltre, che la donna avesse il diritto di separare

la sessualità dalla procreazione con tutte le conseguenze sociali che tale separazione

avrebbe comportato110.

Il movimento si era ormai radicato e aveva conquistato visibilità pubblica, ma con

l'approvazione della legge 194 nel 1978 (con cui si consente l’aborto alle donne

maggiorenni fino al terzo mese di gravidanza) il femminismo iniziò la sua parabola

discendente. Per molte femministe, infatti, la fredda sanzione legislativa di

un’esperienza individuale di dolore non poteva costituire un momento di liberazione per

le donne111. La questione consisteva nel fatto che per molte donne impegnate nei gruppi

di autocoscienza la legalizzazione dell'aborto non poteva essere considerata una

soluzione positiva in quanto il corpo della donna rimaneva comunque sottoposto ad una

tutela legale e medica. La proposta femminista era stata la semplice depenalizzazione

dell'aborto che avrebbe permesso alle donne di disporre liberamente del proprio corpo.

La proposta, per quanto positiva dal punto di vista teorico, non era stata, però, presa in

considerazione per una più ampia mobilitazione perché considerata perdente in

partenza112. Allo stesso tempo il decentramento amministrativo dei consultori costrinse

il movimento a una micro-articolazione territoriale che ne mise in discussione la

compattezza nei momenti di contrattazione istituzionale e il coinvolgimento in questioni

sempre più tecniche portò ad uno spostamento del contrasto in ambiti maggiormente

istituzionali113. La fase di stallo attraversata dal movimento femminista fu

“espressione di una crisi più generale dei movimenti di protesta, risultato della

conclusione di un ciclo di lotte iniziato negli anni sessanta e terminato con la

ridefinizione dei benefici sociali ottenuti attraverso le lotte. In altre parole lo Stato,

riportando il conflitto ad obiettivi negoziabili e, quindi, di propria competenza,

svuotò di significato le lotte ridefinendone gli obiettivi, delimitando il campo di

109 Yasmine Ergas, op.cit. (1986), pag. 73-77.

110 Libreria delle donne di Milano, Non creder di avere diritti, Torino, Rosenberg & Sellier, 1987, pag.

61.

111 www.novecentoitaliano.it/Portale/contesto_Sintesi.aspx?id=476&periodo=549.

112 Libreria delle donne di Milano, op.cit., pag. 66-69.

113 Yasmine Ergas, op.cit. (1986), pag. 88-91.

80

azione e costringendo i movimenti ad una immersione nel sociale. Se la protesta

giovanile viene letta come espressione della mancata integrazione dei giovani nel

mercato del lavoro così le tematiche femministe intorno alla sessualità vengono

ricondotte ad una contrattazione sulla legge sull'aborto”114.

La pratica dell'autocoscienza si esaurì e con la scoperta dell'eterogeneità del femminile

emersero le prime tensioni destinate a portare allo scioglimento di molti gruppi, con la

conseguente dispersione delle donne che li avevano frequentati. Vasta era la sensazione

che i problemi femminili più urgenti fossero stati risolti e che non fossero più

indispensabili posizioni radicali e, dopo il 1978-79, venne abbandonata l'illusione che il

progetto individuale potesse coincidere con quello collettivo. La crisi del femminismo

non fu definitiva dato che esso continuò a vivere in molteplici forme, soprattutto

culturali, ricche e varie che sfociarono in iniziative associative e istituzionali i cui frutti

si raccolsero negli anni seguenti115. Questo processo che potremmo indicare col termine

di “femminismo diffuso”, si estrinsecò con la penetrazione in una pluralità di strati e

situazioni sociali di tematiche quali il diritto dell'esistenza della donna come persona in

quanto tale, la rivendicazione di spazi di autonomia, una maggiore consapevolezza di sé

in una logica di trasformazione in forme di femminismo nuove e diversificate116.

114 Calabrò- Grasso, Dal movimento femminista al femminismo diffuso, Milano, Franco Angeli editore,

2004, pag. 128.

115 Anna Rossi Doria, Dare forma al silenzio: scritti di storia politica delle donne, Roma,Viella, 2007,

pag. 260-261.

116 http://cle.ens-lsh.fr/1179423806712/0/fiche___article/&RH=CDL_ITA100101.

81

82

CAPITOLO 3

3.1- LA CONDIZIONE DELLA DONNA IN EGITTO

Il colpo di stato del 1952 in Egitto inaugurò una nuova epoca per le donne, grazie ai

programmi volti a favorire l’eguaglianza sociale e l’emancipazione femminile. Il primo

provvedimento in questa direzione fu la legge di riforma agraria, promulgata nel

settembre dello stesso anno, che limitava la proprietà a 200 feddan1 a persona e il cui

principale obiettivo era spezzare il potere della proprietà fondiaria nell’ottica della

costruzione del cosiddetto “socialismo arabo”2. Nei tardi anni Cinquanta si assistette,

inoltre, alla significativa espansione del settore pubblico attraverso decreti che diedero

al governo il controllo dei beni di proprietà straniera e che vennero seguiti, all'inizio

degli anni Sessanta, da un programma di sviluppo centralizzato e da una massiccia

ondata di nazionalizzazioni di imprese, banche e società di trasporti. Allo stesso tempo

vennero creati nuovi posti di lavoro statali al fine di incrementare l'impegno pubblico in

settori ritenuti fondamentali per lo sviluppo del paese quali la sanità e la scuola3.

L’insieme di questi provvedimenti portò ad una radicale modifica della struttura sociale

dell’Egitto, dissolvendo la vecchia elite e integrando nella classe media nuovi segmenti

di popolazione con significative conseguenze sulla vita di tutti e delle donne in

particolare. Parallelamente vennero, infatti, avviati progetti statali di promozione delle

pari opportunità che indussero un reale mutamento della condizione femminile4. Questi

programmi, rientranti in quello che è stato comunemente definito “femminismo di

stato”, ambivano a modificare dall'alto la condizione femminile per modernizzare e

rendere maggiormente efficiente la società egiziana nel suo complesso. Benché a partire

da quel momento le donne venissero considerate parte integrante della società, la loro

posizione in ambito familiare rimase sostanzialmente immutata. Si assistette, di fatto, a

un mero allargamento del Welfare State alle donne e, a questo fine, oltre al diritto di

voto, concesso nel 1956, vennero approvate leggi per favorire e tutelare il lavoro

1Unità di misura egiziana che equivale a circa 0,42 ettari o a 1,038 acri,

www.unc.edu/~rowlett/units/dictF.html.

2 Leila Ahmed, Oltre il velo. La donna nell'Islam da Maometto agli ayatollah, Firenze, La Nuova Italia,

1995, pag. 240.

3 Valentine M. Moghadam, Modernizing women, Londra, Lynne Rienner Publishers, 2003, pag. 57-58.

4 Leila Ahmed, op.cit., pag. 240.

83

femminile e programmi di controllo delle nascite5. La sanzione ufficiale

dell’eguaglianza tra i due sessi si ebbe solo alcuni anni dopo con la Costituzione del

1962 che affermava che il socialismo e la libertà dal bisogno avrebbero potuto essere

realizzati solo offrendo uguali opportunità a uomini e donne6.

Le riforme di Nasser favorirono, dunque, l'istruzione femminile e incoraggiarono

l'accesso al lavoro fuori casa, ma allo stesso tempo misero dei freni sempre maggiori

all'associazionismo femminile e alle organizzazioni femministe indipendenti, oltre a non

modificare le strutture patriarcali tradizionali sia in ambito legislativo sia in ambito

culturale7. A fronte di una concessione di diritti civili, non si ebbe, infatti, la concessione

di diritti politici e per questo la risposta al “femminismo di stato” imposto da Nasser

non fu particolarmente positiva. Se da una parte le femministe non potevano

accontentarsi dato che, a parte qualche piccolo cambiamento, non erano state fatte

riforme del codice di famiglia, non era stata concessa autonomia d'azione e posti di

governo alle donne, le frange musulmane maggiormente radicali non condividevano

l'idea del presidente di obbligare le donne ad uscire dai ruoli tradizionali. Nonostante

tutto, le politiche nasseriane diedero alle donne egiziane un certo margine di

indipendenza che venne enormemente ristretto pochi anni dopo dai provvedimenti

dell’era Sadat8. Entrate in tutti i campi della vita intellettuale e professionale le donne

avevano assunto, infatti, un ruolo sempre più importante nella società partecipando

all’economia e alla vita politica e culturale del paese con forme e caratteri sempre più

complessi9. Se dal punto di vista economico le politiche del governo Sadat colpirono i

diritti delle donne nel tentativo di emulare politiche liberiste occidentali, il revival

islamico portò a sostanziali modifiche nel codice di famiglia di molti paesi arabi, tra cui

anche l'Egitto10.

Tale complessa interrelazione tra economia e religione, derivante dalla mutata realtà

5 Kristina Nordwall, Egyptian Feminism:The Effects of the State, Popular Trends and Islamism on the

Women’s Movement in Egypt, Colorado, 2008, pag.4,

www.coloradocollege.edu/academics/FYE/Essays/Kristina_Nordwall.pdf.

6 Leila Ahmed, op.cit., pag. 240

7 Kristina Nordwall, op.cit., pag. 4.

8 Ibidem.

9 Valentine M. Moghadam, op.cit., pag. 172-174.

10 Ivi, pag. 128.

84

sociale interna, veniva amplificata da ulteriori dimensioni derivanti da fattori esterni. A

partire dagli anni Sessanta la ricchezza dei vicini paesi petroliferi e le difficoltà

economiche egiziane avevano portato, ad esempio, ad una grande emigrazione verso

questi paesi che indusse notevoli effetti sulla pratica islamica egiziana, radicalizzandola

a partire dal lavoro di diffusione iniziato dalla Fratellanza Musulmana, organizzazione

nata alla fine degli anni venti nel paese, a livello locale11.. Venne importato, infatti, un

Islam nettamente più conservatore soprattutto nell'ambito della moralità, della famiglia

e delle relazioni di genere12. Bandita nel 1954, a seguito di un fallito attentato ai danni di

Nasser, la Fratellanza Musulmana, pur in clandestinità, aveva continuato a lavorare a

favore di un'osservanza più ligia alle leggi della Sharìa, rifiutando l'influenza della

cultura occidentale. Il punto di svolta per il movimento islamico fu la sconfitta

dell'Egitto nella guerra dei Sei Giorni del 1967 che, distruggendo le certezze della

popolazione egiziana, indebolì enormemente la fiducia in Nasser, nella sua ideologia

laica e nel suo programma socialista, aprendo una varco alla propaganda religiosa13.

Nasser stesso, deluso, scelse di dimettersi, ma nonostante la grande insoddisfazione le

masse popolari, che continuavano a considerarlo la loro sola speranza, le rifiutarono

platealmente14.

Cercando di dare un senso a quella dura sconfitta molte furono le spiegazioni proposte e

quella che trovò maggiore risonanza fu che Dio aveva abbandonato l’Egitto perché gli

egiziani gli avevano voltato le spalle. Per molti, infatti, la causa prima della sconfitta

egiziana era stata l’aver abbandonato la religione per la modernità. La spiegazione

religiosa riscosse molti consensi portando ad un notevole rafforzamento dei gruppi

integralisti e alla riproposizione di un comportamento islamico maggiormente

conservatore (vestiario umile e morigerato, segregazione domestica femminile, etc)15. Il

grande appeal dei Fratelli Musulmani derivava dal fatto che venivano percepiti come

più razionali e moderati rispetto ad altri gruppi e questo permise loro di sfruttare la

11 Leila Ahmed, op.cit., pag. 239

12 Guenena, Wassef, Unfulfilled promises: women's rights in Egypt, New York, Population Council,

1999, pag. 7-9, www.popcouncil.org/pdfs/unfulfilled_promises.pdf.

13 Ibidem.

14 Ada Lonni (a cura di), Femminismo e lotte di liberazione nei paesi arabo-islamici (Algeria, Egitto,

Palestina, Tunisia), L'Harmattan Italia, 2002, pag.45.

15 Leila Ahmed, op.cit., pag. 248-249.

85

disillusione post-sconfitta del 1967 e il conseguente revival religioso sia cattolico sia

musulmano. Allo stesso modo la vittoria del 1973 nella guerra dello Yom Kippur venne

considerata un premio per il ritorno della religione e diede nuovo vigore alla

propaganda islamica.

Riabilitata dopo la salita al potere di Sadat nel 1970, la Fratellanza tenne rapporti

costanti con il governo grazie alla posizione di Sadat che tentò una mediazione che

appoggiasse le rivendicazioni revisioniste proponendone una modernizzazione sulla

base del contesto storico 16 (hijab anziché niqab)17. Se da una parte il nazionalismo e la

lotta per l'indipendenza legavano strettamente governo e Fratellanza, le riforme,

soprattutto nell'ambito della sharia, crearono grosse frizioni tra le parti e i rapporti

andarono a peggiorare lungo tutti gli anni Settanta proporzionalmente all'acquisizione di

influenza degli islamici nella società fino a giungere alla totale frattura nel 1979 con il

decreto 44 di modifica dello statuto personale18. Se la Costituzione egiziana del 1971

aveva affermato l'uguaglianza delle donne e degli uomini in ogni aspetto della vita, la

natura di questa uguaglianza dipendeva strettamente dalle contestuali interpretazioni sul

ruolo della donna nella società e il governo, che era riuscito a contrastare la spinta

islamica in vari ambiti, non riuscì a farlo in quello del diritto di famiglia perché ritenuto

fondamentale dagli islamici per la costruzione di una identità culturale in netta

contrapposizione con l'occidente. Per questo forti furono le proteste al momento della

revisione dello statuto personale con legge 44 del 1979. Fu proprio questa legge a far

perdere a Sadat l'appoggio degli islamici riportando la questione femminile al centro del

dibattito politico19. Se si volesse dare una spiegazione alla rinnovata vitalità dell'Islam

come alternativo alle ideologie secolari bisognerebbe prendere in considerazione una

serie di fattori economici, politici e sociali. Economicamente l'infitah, o politica della

porta aperta, venne percepita come un pericolo per la classe media, classe chiave della

società egiziana, e stimolò un consumismo sfrenato in netto contrasto con la sobrietà

della vita negli anni Cinquanta e Sessanta. La politica economica del governo, tesa a

16 Michela De Palma, La questione femminile in Egitto, Tesi di laurea facoltà di Scienze Politiche

Università degli Studi di Firenze, A.A. 2008/2009, pag. 96-99.

17 Mentre l’hijab copre solamente la testa della donna e viene associato ad un abbigliamento ampio che

non evidenzi le forme del corpo, il niqab è il velo che lascia scoperti solo gli occhi ed è abbinato ad ampie

vesti fino ai piedi. N.d.A.

18 Guenena, Wassef, op.cit., pag. 7-9.

19 Valentine M. Moghadam, op.cit., pag.163.

86

favorire gli investimenti stranieri, girò le spalle alle classi meno abbienti che videro

nell'Islam radicale un punto di riferimento per il loro malcontento. Se la politica della

porta aperta fece arricchire improvvisamente solo pochi privilegiati, agevolando una

sfacciata corruzione degli apparati statali e uno sfrenato consumismo, la maggior parte

degli egiziani ne sperimentò solo gli effetti negativi20. Per questo i giovani si vedevano

davanti una vita priva di prospettive e fra alcuni egiziani iniziò a diffondersi la

sensazione che malaffare e crisi morale fossero connessi alla presenza degli stranieri. La

nuova tendenza alla promiscuità si scontrava, inoltre, con la sensibilità tradizionale

avversa all'uso di alcolici, sesso e frequentazioni libere21. Dal punto di vista politico il

riavvicinamento agli Stati Uniti portò la classe media ad accusare Sadat di essersi

venduto al nemico e all'incrinarsi delle relazioni con gli altri paesi arabi22. Dato che tutte

le altre voci dissenzienti erano state messe a tacere, il linguaggio religioso dei Fratelli

Musulmani divenne il verbo unico del dissenso politico e del malcontento. Messo, così,

alle strette Sadat cominciò egli stesso a usare un linguaggio religioso per conquistare a

sua volta consensi e legittimità dichiarandosi favorevole alla costruzione di uno stato

fondato su due pilastri: fede (Iman) e scienza (‘Ilm)23.

3.1.1- Scuola e lavoro

Per avere reali possibilità di emancipazione le donne necessitavano di formazione

scolastica, diritto al lavoro e diritto di voto altrimenti sarebbero rimaste incatenate allo

stretto ambito domestico. Nel campo dell’educazione, a seguito della rivoluzione del

1952 e alle riforme del governo Nasser, le donne riuscirono a raggiungere alcuni

importanti risultati. L’educazione, strumento attraverso il quale lo stato riproduce

relazioni sociali e di genere e dunque fattore di mutamento, divenne fondamentale nella

vita egiziana grazie alla convinzione nasseriana secondo la quale una crescita femminile

avrebbe promosso il progresso e la modernizzazione della società tutta24. La politica

scolastica introdotta dal governo ebbe indubbiamente un ruolo enorme nel migliorare la

condizione femminile. Attraverso questo canale, infatti, il governo riuscì a veicolare

20 Leila Ahmed, op.cit., pag. 251-252.

21 Ibidem.

22 Guenena, Wassef, op.cit., pag. 7-9.

23 Leila Ahmed, op.cit., pag. 250.

24 Guenena, Wassef, op.cit., pag. 21-27.

87

valori politici e civili di grande importanza che contribuirono al mutamento radicale

dello status della donna anche se solo in ambito pubblico25. I primi passi in questa

direzione erano stati compiuti grazie ad un decreto del 1952 che rendeva gratuita e

obbligatoria l’istruzione primaria tra i sei e i dodici anni. Negli anni successivi la

gratuità venne estesa a tutti i livelli dell’istruzione, compresa l’università. La riforma e

la modernizzazione dell'educazione sconvolsero la tradizionale struttura universitaria e

l’aumento della presenza femminile fu straordinario in tutti i livelli dell’istruzione26.

L’accesso alle facoltà miste negli atenei era competitivo, basato sui voti e senza

discriminazione di sesso e lo Stato fornì assistenza finanziaria agli studenti bisognosi e a

quelli meritevoli garantendo un impiego ai laureati come ulteriore incentivo al

completamento degli studi. La domanda di istruzione per entrambi i sessi, soprattutto

nelle aree urbane, crebbe enormemente superando ampiamente l’offerta e mettendo in

luce la carenza di personale e di strutture. Le strutture e i docenti venivano utilizzati per

più di un turno giornaliero e il rapporto studenti-docenti era altissimo. L’aumento più

vistoso della partecipazione scolastica femminile si ebbe a livello di istruzione superiore

dove le iscrizioni femminili salirono rapidamente a un ritmo molto più rapido di quelle

maschili tanto che il rapporto maschi femmine passò da 13,2:1 nel 1953-54 a 1,8:1 nel

197627.

L’accesso delle donne all’istruzione produsse un radicale mutamento dell’occupazione

femminile sia in termini numerici sia in termini strutturali. Il cambiamento delle

attitudini maschili dipendeva sicuramente dal contesto economico. In una condizione di

difficoltà economica gli uomini smettono di guardare con sospetto al lavoro femminile e

lo vedono semplicemente come un secondo stipendio che contribuisce ad alleviare il

carico dalle loro spalle28. La legge 91 del 1954 sul lavoro prevedeva, inoltre, che donne

e uomini avessero gli stessi diritti in ambito lavorativo e uguali stipendi oltre a

prevedere provvedimenti specifici per donne sposate e madri29. La garanzia statale di un

lavoro per ogni diplomato e per ogni laureato portò, di conseguenza, molte donne a

sfruttare l'istruzione gratuita e le agevolazioni concesse dallo stato. Se nel 1962 le donne

25 Guenena, Wassef, op.cit., pag. 21-27.

26 Massimo Campanini, Storia dell'Egitto contemporaneo, Roma, Lavoro, 2005, pag. 177-178.

27 Leila Ahmed, op.cit., pag. 241-242.

28 Beck- Keddie, Women in the muslim world, Cambridge, Harvard university press, 1978, pag. 93.

29 Valentine M. Moghadam, op.cit., pag. 57-58.

88

rappresentavano il 4% della forza lavoro, vent’anni dopo la percentuale era giunta al

15%30. Questo incremento era dovuto quasi esclusivamente all’entrata nel mercato del

lavoro di donne con un'istruzione scolastica che andavano a ricoprire principalmente

ruoli nel campo dell’insegnamento e della sanità come pure in quelli della pubblica

amministrazione e del lavoro impiegatizio. Nonostante questi sviluppi positivi i

problemi demografici ed economici dell’Egitto impedirono di raggiungere l’obiettivo

dell’eliminazione dell’analfabetismo anche perché il sistema scolastico perpetuava,

anche se in misura minore, le discriminazioni di classe, favorendo i ceti ricchi rispetto a

quelli più poveri poiché le famiglie economicamente svantaggiate non riuscivano a

procurare ai figli libri e vestiti, sia nelle aree urbane sia in quelle rurali. In questa

situazione le femmine erano molto più discriminate rispetto ai maschi perché le famiglie

non vedevano utilità nella loro istruzione, con un conseguente alto tasso di abbandono

scolastico. Per questi motivi, nonostante i progressi raggiunti a partire dagli anni

Cinquanta, la piaga dell’analfabetismo era ancora molto profonda all’alba degli anni

Settanta31. In Egitto e in pochi altri stati era emersa una tendenza positiva all'impiego

lavorativo di donne urbanizzate nubili o vedove. Questo faceva sì che queste donne

acquisissero rispetto e riconoscimento sociale sulla base delle proprie competenze32.

Nonostante questo la percentuale di donne che continuavano gli studi dopo i quindici

anni rimaneva comunque limitata e la maggior parte di esse provenivano dalle classi

maggiormente istruite, costituendo una piccola elite principalmente urbana non

rappresentativa della situazione generale33.

Nonostante questi squilibri le politiche nasseriane avevano permesso a molte donne di

insidiare campi che erano stati fino ad allora di esclusivo appannaggio maschile come

università, amministrazione pubblica, diplomazia, politica, ma le contingenze storiche

bloccarono questo processo. Nel settembre del 1971, con l'approvazione della nuova

costituzione iniziò la politica della porta aperta di Sadat meglio conosciuta come infitah

e, mentre le condizioni economiche peggioravano, le donne vennero progressivamente

espulse dal mondo del lavoro sia con motivazioni economiche sia con motivazioni

30 Leila Ahmed, op.cit., pag. 242-243.

31 Ibidem.

32 Beck- Keddie, op.cit., pag. 93.

33 Ivi, pag. 78-79.

89

religiose e di morale34. Dal punto di vista economico la liberalizzazione selvaggia del

mercato dell'era Sadat mutò le condizioni occupazionali delle donne. La sempre

maggiore dipendenza dall'occidente portò un incremento della disoccupazione e una

crescente sperequazione economica, influenzando, così, la domanda di lavoro

femminile, le condizioni e i tipi di lavoro loro offerti e minando, di fatto, il

“femminismo di stato” nasseriano35. Dal punto di vista morale è significativo constatare

come anche la carta costituzionale promulgata nell'era Sadat sancisse diversi ruoli per

uomini e donne. A questo proposito è significativo ricordare l'Articolo 11 della

Costituzione che affermava:

“the State guarantees the reconciliation of woman's duties toward her family with

her work in society, and her equality with man in the political, social, cultural, and

economic fields of life without prejudice to the principles of Islamic Sharìa”36.

Nonostante venga ribadita l'uguaglianza tra donne e uomini, gli obblighi di quest'ultimi

non vengono menzionati mentre viene sancito l'obbligo della donna a dividersi tra la

cura della casa considerata come prioritaria e la vita nello spazio pubblico a cui si lascia

uno spazio residuale. Allo stesso modo l'articolo 9 affermava che:

“The family is at the base of the society and is shaped by religion, ethics, and

nationalism. The state pledges to preserve this genuine character of the Egyptian

family, the customs and values it represents, and to generalize them to the rest of

the society”37.

In questo modo si delineano esattamente i caratteri che deve avere la famiglia egiziana e

quali devono essere i suoi valori fondanti: religione, etica e nazionalismo. Ne consegue

che, in un periodo di fervore religioso, la famiglia, e la società tutta, debbano essere

improntate ai valori di un Islam sempre più radicale.

34 Valentine M. Moghadam, op.cit., pag. 57-58.

35 Ivi, pag. 172-174.

36 “Lo stato garantisce la conciliazione tra i diversi compiti della donna nella famiglia e nel mondo del

lavoro, la sua condizione di eguaglianza con l’uomo in ambito politico, sociale, culturale ed economico

senza pregiudizi rispetto alla legge islamica (Sharìa)” N.d.T., Guenena, Wassef, op.cit., 1999, pag. 21-27.

37 “La famiglia è alla base della società ed è intimamente connessa con la religione, l’etica e il

nazionalismo. Lo stato ambisce a preservare il carattere tradizionale della famiglia egiziana, i costumi e i

valori che rappresenta in modo da generalizzarli al resto della società” N.d.T., Ibidem.

90

3.1.2- Famiglia e sessualità

Persuaso dai dati che dimostravano che i livelli di natalità diminuivano

proporzionalmente alla crescita del livello di scolarizzazione delle donne, il governo

Nasser scelse di risolvere i problemi demografici sia favorendo l'educazione femminile

sia avviando programmi di pianificazione familiare38. Se da una parte i dati dimostrano

che in Egitto negli anni Sessanta il numero di figli passava dai 4,4 delle donne

analfabete ai 2,1 delle donne con educazione secondaria fino ad arrivare agli 1,8 delle

donne laureate, tutto ciò non può essere derivato esclusivamente da un maggior uso

della contraccezione, ma anche dal fatto che una donna che ha studiato solitamente

lavora e, di conseguenza, mette al mondo meno figli39. Di contro programmi di

pianificazione familiare e una moderata persuasione alla contraccezione furono scelte

politiche promosse ampiamente in quel periodo, benché l'orientamento religioso della

popolazione, sia musulmana sia cristiana, non consentisse di ottenere risultati

significativi e il tasso di sviluppo demografico rimanesse altissimo, superiore al 2,5%

annuo40.

Fra i suoi meriti il regime nasseriano ha, dunque, quello di aver predisposto, a partire

dal 1960, una pianificazione familiare volta a controbilanciare la crescita demografica.

Già in seguito al colpo di stato del 1952, il governo aveva cominciato a prendere prov-

vedimenti per il controllo delle nascite aprendo, a partire dal 1955, i primi centri di pia-

nificazione familiare mantenuti in vita fino al 1967 quando le spese militari dirottarono

i fondi destinati a questi programmi41. La donna non più considerata esclusivamente

come procreatrice, ma come potenziale produttrice, capace di collaborare al riassetto sia

politico sia economico, acquisì, così, un nuovo ruolo nella società. L'azione, coordinata

da un comitato organizzatore indipendente da qualsiasi ministero e in funzione dal 1965

si muoveva su più fronti come, ad esempio, lavori di ricerca a livello sanitario e

sociologico, campagne a favore della pianificazione familiare e dell'uso di contraccettivi

e selezione e formazione di volontarie da inviare, dopo qualche mese di stage, nei centri

di pianificazione familiare rurali ed urbani. Le volontarie, giovani e sposate, venivano

scelte nei villaggi rurali e nei quartieri popolari della città in modo che potessero meglio

38 Beck- Keddie, op.cit., pag. 90.

39 Valentine M. Moghadam, op.cit., pag. 135.

40 Massimo Campanini, op.cit., pag. 177-178.

41 Leila Ahmed, op.cit., pag. 243-244.

91

condividere le difficoltà delle interlocutrici42. La riuscita fu, però, modesta in quanto la

procreazione era ancora vista come il modo migliore per assicurare la durata dei

matrimoni. Se da una parte l’alto tasso di mortalità infantile portava a fare più figli per

aumentare le probabilità di sopravvivenza, questi venivano visti anche come mezzo per

la donna per legare a se un marito recalcitante43. Al di là dei risultati realmente positivi,

la politica di pianificazione ha il merito di aver fatto evolvere la mentalità, nella misura

in cui questi problemi hanno iniziato ad essere discussi anche al di fuori delle mura

domestiche44. Quasi a voler compensare, il governo Nasser non mancava, però, di sotto-

lineare l'importanza del ruolo della donna come madre e moglie in ambito familiare in

un ambito di costruzione di una identità nazionale forte45.

Allo stesso modo, nel successivo governo Sadat, il ruolo domestico della donna venne

ribadito con forza. La svolta governativa del 1970 significò la riabilitazione dei Fratelli

Musulmani e di tutti quei soggetti che, paladini dell’Islam radicale, erano stati esclusi

dalla vita politica durante l’epoca nasseriana. L'islamismo politico, come ideologia

alternativa all'occidentalizzazione e all'imperialismo, seppe far leva sui sentimenti di

frustrazione dei popoli mediorientali in generale e del popolo egiziano in particolare,

suscitati dal fallimento della guerra del 1967 e dalla mancata emancipazione

dall'occidente46. La nuova ondata islamica iniziata negli anni Settanta raggiunse il suo

apice negli anni Ottanta, idealizzando il ruolo familiare e domestico della donna,

riassegnando la donna allo stretto ambito della casa e cacciandola dai luoghi pubblici di

lavoro se priva dell'abbigliamento adeguato. La segregazione sessuale e il ritorno nelle

case in nome della moralità furono accompagnati da una massiccia campagna

sull’abbigliamento in generale e sul velo in particolare. Si affermava in questo modo

che la donna avesse bisogno, per accedere allo spazio pubblico, di una “frontiera” che la

dividesse dal mondo esterno, in questo caso il velo. Una delle motivazioni principali del

ritorno del velo fu, infatti, la necessità di ridefinire i confini dello spazio riservato alle

donne dopo l'ingresso di massa di queste nella società attraverso educazione e lavoro47

42 Ada Lonni (a cura di), op.cit., pag. 46-47.

43 Leila Ahmed, op.cit., pag. 243-244.

44 Ada Lonni (a cura di), op.cit., pag. 46-47.

45 Guenena, Wassef, op.cit., pag. 21-27.

46 Massimo Campanini, op.cit., pag. 204.

47 Guenena, Wassef, op.cit., pag. 45.

92

Per le donne, inoltre, l'abito islamico aveva vari vantaggi: economico, non essendo

soggetto ai cambiamenti della moda; tutelante, in quanto le proteggeva da possibili

molestie maschili facendo sì che la presenza delle donne in uno spazio pubblico non

costituisse né una sfida né una violazione dell'etica socio-culturale islamica48. Il costume

islamico permise, dunque, a molte donne di partecipare alla vita pubblica pur

rispettando i dettami dell’Islam49. Mentre il velo tradizionale, a lungo oggetto di

contestazione e focolaio di controversia, nella prima metà del secolo era stato percepito

come simbolo della subordinazione femminile e aveva riflesso la polarizzazione dei

generi, il nuovo velo amplificò lo scisma tra musulmani e cristiani, ma soprattutto divise

islamisti e secolaristi. Nonostante gli abiti non fossero quelli tradizionali, essi avrebbero

dovuto rispondere al requisito islamico di modestia e molte donne scelsero di indossare

il velo, che fino ad allora non avevano portato, più per conformismo che per reale fede.

Un nuovo conformismo religioso, particolarmente accentuato tra gli studenti

universitari a partire dalla metà degli anni Settanta, si sviluppò nelle università dei

maggiori centri urbani e studenti e giovani professionisti di entrambi i sessi divennero i

principali sostenitori dell'integralismo islamico50.

Immediatamente dopo l'arrivo al potere di Sadat, nel 1971, si era posta la questione di

riconsiderare il ruolo della Sharìa nella costituzione e le femministe egiziane ne

avevano approfittato per chiedere una revisione dello statuto personale che ponesse fine

alla discriminazione tra uomo e donna per quanto riguardava poligamia, divorzio e

affidamento dei figli51. L’unico provvedimento realmente riformatore dell’era Sadat per

quanto riguarda le condizioni di vita femminili fu proprio sulla disciplina relativa alla

poligamia e venne emanato, tra grandi conflitti, nel 1979. Nel giugno di quell'anno il

governo egiziano promulgò la legge 44 di riforma dello statuto personale che concedeva

maggiori diritti alla donna in ambito familiare. In base a questa norma il matrimonio di

un uomo con una seconda donna poteva essere sottoposto ad alcuni vincoli. Il marito

aveva, a partire da quel momento, il dovere di informare la moglie in caso di nuove

nozze con la possibilità per la donna di chiedere l’immediato divorzio nel caso

disapprovasse il secondo matrimonio. Un articolo della legge costringeva, inoltre, il

48 Leila Ahmed, op.cit., pag. 253-257.

49 Valentine M. Moghadam, op.cit., pag. 172-174.

50 Leila Ahmed, op.cit., pag. 253-257.

51 Ada Lonni (a cura di), op.cit., pag. 47-48.

93

marito che voleva divorziare a notificarlo alla moglie e, se lei non fosse stata d'accordo,

in mancanza di ragioni valide per separarsi, lo sposo aveva l’obbligo di mantenimento

per due anni. Oltre alla possibilità per la madre di tenere i figli con sé a seguito di un

divorzio ( fino ai 10 anni per i maschi e fino a 12 per le femmine) la legge prevedeva,

inoltre, la possibilità per la sposa di lavorare senza autorizzazioni del marito purché

assolvesse anche ai suoi doveri coniugali52.

3.2- IL MOVIMENTO FEMMINISTA IN EGITTO

Maggiore istruzione, mobilità sociale verticale per entrambi i sessi, crescente presenza

femminile nel mondo del lavoro, soprattutto in ambito urbano, e un forte processo di

migrazione sia interna sia da e verso l’esterno avevano radicalmente mutato la struttura

sociale del paese portando ad una crescente politicizzazione di ampi strati della

popolazione sia urbana sia rurale; nuovi modelli di comportamento, derivanti da questi

mutamenti sociali, avevano iniziato a diffondersi tra la popolazione53. Parallelamente la

guerra dei sei giorni del 1967 aveva segnato un punto di svolta per la rinascita delle

organizzazioni femminili. Le madri che avevano visto morire i figli per salvare l'onore

dell'Egitto avevano cercato conforto impegnandosi nei gruppi di assistenza a feriti,

orfani e vedove inaugurando, in questo modo, una nuova stagione di impegno

femminile dopo la lunga pausa dovuta alla repressione delle organizzazioni indipendenti

avvenuta durante il governo Nasser. Grazie al sempre maggiore coinvolgimento delle

donne nella ricostruzione del paese, l'attivismo femminile riprese vigore e si diffuse in

tutti gli strati della società54. A seguito di questo nuovo impegno, anche il femminismo

militante riprese vigore e un nuovo movimento sembrò prendere vita in coincidenza con

l'avvio della politica della porta aperta di Sadat e il progressivo radicamento delle

dottrine fondamentaliste tra gli studenti universitari, tra gli uomini e le donne di basso

ceto sociale e tra la popolazione rurale del paese55.

Parlare di femminismo, nell'accezione occidentale del termine, nell'Egitto degli anni

Sessanta e Settanta è molto difficoltoso. In quegli anni, infatti, veniva data, dalle donne

stesse, una connotazione particolarmente negativa al termine in quanto questo evocava

52 Ada Lonni (a cura di), op.cit, pag. 47-48.

53 Leila Ahmed, op.cit., Firenze, pag. 245-248.

54 Ada Lonni (a cura di), op.cit., pag. 45.

55 Michela De Palma, op.cit., pag. 96-99.

94

antagonismo e animosità e molte attiviste rifiutavano di identificarsi con soggetti

mascolini, aggressivi, ninfomani e spesso omosessuali come la morale del tempo

dipingeva le femministe. La resistenza di molte donne ad identificarsi con il

femminismo non era, però, solo legata all'immagine negativa della femminista militante,

ma era dovuta anche alla convinzione per cui la questione femminile era da considerarsi

secondaria rispetto ad altre questioni come la lotta alla povertà e all'analfabetismo,

l'anti-imperialismo e la difesa dei valori fondanti dell'Islam. Si pensava, inoltre, che

affrontando prioritariamente queste questioni, comuni a tutta la società senza

discriminazioni di sesso, sarebbe migliorata anche la condizione delle donne56. Il

femminismo veniva considerato, inoltre, un prodotto esclusivamente occidentale e,

quindi, da rifiutare a priori in quanto mezzo coloniale di dominazione imperialista57. Nel

mondo islamico si era accentuata negli anni la necessità di produrre un discorso sul

femminismo e sui diritti delle donne con connotazione locale, non riconducibile

all'imposizione esterna. Era, dunque, necessaria una rottura con la precedente esperienza

in una logica di ancoraggio della lotta per i diritti delle donne alla cultura locale58. Il

femminismo in ambito egiziano fu, pertanto, più un percorso di acquisizione di

consapevolezza individuale e collettiva delle donne della loro condizione di oppressione

che non un movimento organico di analisi della dimensione donna. Proprio per questo

motivo le femministe e le attiviste per i diritti delle donne hanno lavorato, negli anni,

alla liberazione da ogni forma di oppressione e alla promozione di relazioni egualitarie

tra uomini e donne, ma senza la volontà di proporre un modello sociale alternativo. Le

donne chiedevano, dunque, maggiori diritti in ogni campo in modo che l'eguaglianza di

genere diventasse realtà sia all'interno della famiglia, sia davanti alla legge, sia sul posto

di lavoro, sia nell'educazione e nell'accesso ai servizi, senza mettere in discussione la

società e i suoi valori59.

Le femministe egiziane, durante tutto il ventesimo secolo, tentarono di mantenere una

certa indipendenza rispetto ai movimenti politici e religiosi operanti nel paese

nonostante questo fosse molto difficile. Dopo aver compreso che alla base della

56 Guenena, Wassef, op.cit., pag. 3-5.

57 Ibidem.

58 Ruba Salih, “Femminismo e islamismo” in Teresa Bertilotti, Altri femminismi, Roma, Manifesto libri,

2006, pag. 105.

59 Guenena, Wassef, op.cit., pag. 3-5.

95

sottomissione delle donne stava il patriarcato e non l’Islam, iniziarono un’autonoma

ricerca delle pratiche di liberazione della donna. Donne di ogni genere, dalle femministe

tradizionali dell’UFE alle socialiste e alle islamiche riconobbero la necessità di

contrapporsi al modello patriarcale affermando che esso andava combattuto ovunque si

presentasse e confutando, così, il principio per cui la condizione della donna derivava

direttamente dai dettami dell’Islam60. Temendo di essere tacciate di occidentalismo

molte scelsero di dare alla lotta per l'emancipazione femminile una connotazione locale

che tenesse conto delle diverse anime della cultura egiziana e, di conseguenza,

rispettosa anche dei dettami islamici. Il ruolo delle donne nella costruzione di una

identità egiziana era centrale data l’importanza del soggetto femminile a tutela

dell’integrità familiare e nazionale. Dovendo convivere con gruppi e governi che,

partendo da posizioni tradizionaliste islamiche e nazionaliste posero molti limiti alla

capacità di azione femminile, le femministe e le attiviste per i diritti delle donne si

trovarono a combattere un processo di ridefinizione della figura femminile come madre,

della propria famiglia e della patria. Per superare questa difficile situazione le donne

furono obbligate a scegliere, a seconda del periodo storico, “ombrelli” che le

proteggessero e se, nelle prime decadi del secolo, scelsero il nazionalismo affermando

che un miglioramento delle condizioni delle donne avrebbe necessariamente portato a

un avanzamento della lotta nazionale, negli anni Settanta dovettero volgersi alla

comunità islamica e ai suoi valori61. Influenzate per un certo periodo anche dalla

dottrina socialista, le donne non ebbero mai risultati tangibili dalle alleanze con soggetti

politico-religiosi nazionali. Questi, infatti, utilizzarono sempre le rivendicazioni

femminili in maniera strumentale rispetto alla contingenza storica e alla necessità di

controllo della società62.

Il rapporto con gli altri soggetti politici e sociali ebbe, però, un effetto sulla

composizione del movimento femminista, influenzando la formazione di correnti

differenziate in base al grado di interrelazione con la dimensione religiosa. Nonostante i

confini tra i gruppi fossero porosi e molte donne si muovessero a cavallo tra diversi tipi

di retorica e di strategia, mettendo in evidenza il carattere complesso e contraddittorio di

60 Margot Badran, “Indipendent women-more than a century of feminism in Egypt” in Judith E. Tucker,

Arab Women, Georgetown, Indiana University Press, 1993, pag. 143-144.

61 Guenena, Wassef, op.cit., pag. 21-27.

62 Margot Badran, op.cit. (1993), pag. 143-144.

96

questo terreno, nel femminismo egiziano possono essere distinte tre differenti tipologie:

il femminismo secolare, il femminismo musulmano e il femminismo islamista63. Il più

familiare per gli occidentali è sicuramente quello secolare che riprendeva molti dei

concetti cari al femminismo europeo e nordamericano. Rivendicando l'uguaglianza dei

diritti tra uomini e donne e tentando di distinguersi dagli altri movimenti attraverso il

netto rifiuto della componente religiosa, rivendicavano diritti uguali per uomini e donne

sottolineando che non si trattava di una concessione della religione, ma di un diritto

naturale proprio di qualsiasi essere umano. Il femminismo musulmano teneva, invece,

una posizione più controversa. Se da una parte affermava che la rivendicazione di diritti

femminili dovesse essere fatta all'interno del panorama islamico, dall'altra incoraggiava

le donne a lavorare fuori casa, a concentrarsi sulla propria carriera e a scegliere

autonomamente il proprio marito. Dall'altra parte, mentre per molte femministe laiche i

codici di famiglia avrebbero dovuto basarsi su convenzioni internazionali, per le

femministe musulmane e islamiste gli strumenti di riforma erano già insiti nella legge

islamica64 Tentando di reinterpretare il Corano per giustificare l'uguaglianza tra uomo e

donna, affermavano, dunque, la natura non misogina dell'Islam; l'insoddisfacente

condizione della donna era, quindi, da considerarsi frutto dell'interpretazione della legge

islamica data dagli uomini per poter mantenere il controllo sul corpo delle donne65. Se

da una parte il femminismo secolare promuoveva l'eguaglianza femminile nella sfera

pubblica pur accettando la complementarietà nella sfera privata, il femminismo

musulmano ribadiva, invece la necessità di uguaglianza tra uomo e donna in entrambe

le sfere66. Ultimo filone è quello del femminismo islamista che affermava la netta

divisione tra spazio pubblico esclusivamente maschile e spazio privato di competenza

femminile. Se essere musulmani significava semplicemente partecipare a una cultura e a

una comunità per nascita e non essere obbligatoriamente praticanti, essere islamisti

significava militare per la costruzione di una società islamica67. In questa logica gli

islamisti rifiutavano lo stesso termine “femminismo” in quanto concetto occidentale e

63 Ruba Salih, op.cit., pag. 107.

64 Ivi, pag. 108.

65 Kristina Nordwall, op.cit., pag. 5-6.

66 Margot Badran, “Flows of feminism in Egypt” in Bartuli (a cura di), Egitto oggi, Venezia, Casa

Editrice il Ponte, 2003, pag. 110.

67 Ruba Salih, op.cit., pag. 111-112.

97

imperialista e proponevano il rispetto delle differenze tra uomini e donne come definite

dalla dottrina islamica e dei compiti assegnati, di conseguenza, ai due sessi68. Le

femministe islamiste erano convinte, infatti, che i problemi delle donne fossero da

attribuire al tentativo delle donne di uguagliare gli uomini, mentre per loro era

necessario ricercare la complementarietà dei ruoli anziché l'uguaglianza. In base a

quest'analisi concludevano che solo attraverso la realizzazione della società islamica le

donne avrebbero potuto ottenere una vita migliore69.

3.2.1- Il rapporto femminismo-islamismo

Durante gli ultimi anni del governo Nasser si erano costituite diverse nuove organizza-

zioni studentesche, anche di orientamento marxista, ma l'attivismo degli studenti si ac-

crebbe in maniera esponenziale dopo le aperture liberali di Sadat. Negli anni seguenti le

tensioni tra studenti e governo iniziarono a manifestarsi in tutta la loro forza. Questo

perché Sadat, pur avendo inizialmente favorito la diffusione dell'islamismo nelle univer-

sità, si trovò poi a doverlo combattere quando iniziò a farsi particolarmente pericoloso

per il suo atteggiamento di critica e di opposizione alle politiche governative. Nel gen-

naio 1972, ad esempio, vennero represse manifestazioni studentesche che chiedevano

maggior chiarezza in politica estera e una più decisa difesa degli interessi dell'Egitto e

questo avvicinò molti studenti all'Islam che, nel frattempo, aveva marginalizzato l'oppo-

sizione marxista facendone una dimensione ideologica trascurabile presso gli studenti70.

Il successo delle associazioni studentesche islamiche era dovuto alla loro capacità di

identificare le cause del disagio, proporre soluzioni alternative ed inserire queste ultime

in una cornice islamica. A fronte di un sovraffollamento delle classi proposero, ad esem-

pio, la divisione delle classi tra maschi e femmine affermando che l'attuale situazione

andava a discapito delle studentesse, ma con il reale fine di delimitare gli spazi di azione

femminile71. Il terreno su cui l'islamismo guadagnava, inoltre, crescente popolarità tra le

fasce giovanili e le donne era quello della crescente insoddisfazione e insicurezza eco-

nomica dovuta al fallimento di processi di modernizzazione e ai programmi di aggiusta-

68 Kristina Nordwall, op.cit., pag. 5-6.

69 Ruba Salih, op.cit., pag. 107.

70 Massimo Campanini, op.cit., pag. 242.

71 William L. Cleveland, A history of the modern middle east, Boulder, Westview Press, 2000, pag. 431.

98

mento strutturale e di liberalizzazione72. In quest'ottica, infatti, molti studiosi ritengono

che la spiegazione principale dell'attecchimento di progetti di stampo islamista nel

mondo mediorientale vada ricercata nel fallimento di progetti di modernizzazione di

stampo occidentale nel portare benessere alle donne:

“After a century of modernization driven by the West, the choice for many remains

between the security and protection that the islamist promise and the cruel exploitation

of a corrupt and mismanaged market economy”73.

Mentre il fondamentalismo acquisiva nuovo radicamento tra gli studenti e nelle classi

medio-basse, soprattutto dell'area rurale, tra le donne il rinvigorimento dell'islamismo

portò a un ritorno del velo (sul capo e a coprire il corpo, ma non sul viso) e un ritorno a

casa74. Una ricerca tra le donne delle classi medio-basse egiziane ha dimostrato, però,

che il velo per molte donne significava maggiore garanzia di trovare marito, ma non si

traduceva necessariamente in una condivisione delle agende sociali o politiche dei mo-

vimenti islamici75.

Se da una parte l'ascesa dei movimenti islamisti aveva indotto, dunque, un arretramento

sostanziale della coscienza della società in merito alle questioni di genere, nuove ondate

di femminismo laico sollevarono le questioni della sessualità e della violenza contro le

donne in ambito domestico e nella sfera pubblica. Questo portò a una dialettica partico-

larmente accesa, quando non all’esplicito conflitto, tra le femministe laiche, che tentaro-

no di mantenere salde le conquiste di genere ottenute nel passato, e gli islamisti difen-

sori del patriarcato76. Nonostante si fosse sopito durante il governo Nasser, il femmini-

smo in Egitto non era, infatti, mai totalmente scomparso e, negli anni Settanta, un movi-

mento nuovo ed eterogeneo apparve sulla scena pubblica. Nel momento in cui l'islami-

smo riprese piede e le donne vennero ricacciate nuovamente in una posizione subordi-

72 Ruba Salih, op.cit., pag. 102.

73 “Dopo un secolo di modernizzazione guidata dall'occidente, la scelta per molti rimane tra la sicurezza

e protezione che gli islamisti promettono e lo sfruttamento crudele di una economia di mercato corrotta e

mal governata”, N.d.A. , Haideh Moghissi, Feminism and Islamic fundamentalism. The limits of Post-

modern Analysis, London, Zed Books, 1999, pag. 44.

74 Margot Badran, op.cit. (1993), pag. 140-141.

75 Ruba Salih, op.cit., pag. 102.

76 Margot Badran, “Il femminismo islamico” in Zolo, Cassano, L'alternativa mediterranea, Milano,

Feltrinelli, 2007, pag. 342-343.

99

nata, anche il femminismo trovò, infatti, nuova forza77. Durante il governo Nasser le

donne avevano assunto vari ruoli nella società grazie ad un miglior livello di educazione

che permetteva una maggiore mobilità sociale femminile e il libero accesso alla vita

pubblica. Le molte donne urbane che avevano risposto entusiasticamente a tutto questo

si opposero tenacemente al ritorno nel ristretto ambito domestico, propagandato dagli

islamici78. Mentre alcune provarono, dunque, a mantenere un ruolo attivo nella società

promuovendo un'agenda di priorità alternativa a quella maschile pur continuando a riba-

dire l’importanza del ruolo della donna nella famiglia, altre affermarono che i diritti del-

le donne erano chiaramente definiti nell’ambito dell’Islam e che era la cattiva interpreta-

zione maschile che li disattendeva79. Il linguaggio utilizzato dalle donne in questa fase

dipendeva, quindi, direttamente dalla classe di provenienza e per questo, mentre il fem-

minismo laico venne percepito come un concetto borghese e occidentale da rifiutare, si

preferì un più onorevole adeguamento dei costumi e della cultura occidentale all'ideale

islamico di decenza80. Grazie allo sviluppo dell’educazione e alle nuove possibilità lavo-

rative per tutte le classi sociali conseguenti alle politiche socialiste dell’era Nasser si

erano, infatti, create le condizioni necessarie alla rinascita di un movimento femminile

che, mutando radicalmente il proprio approccio alla questione rispetto alle femministe

di inizio secolo, preparò il terreno per il femminismo islamico degli anni seguenti. L’in-

cremento dell’accesso femminile all’istruzione universitaria, che aveva permesso alle

donne di acquisire una maggiore consapevolezza della propria condizione e delle possi-

bilità di cambiamento attuabili, consentì alle donne di accedere ai testi sacri dando loro

gli strumenti per interpretarli. Questa nuova conoscenza religiosa, utilizzata a partire da

allora per contestare la visione misogina dell’Islam, permise, dunque, alle donne di evi-

denziare, testi alla mano, l’egualitarismo insito nella dottrina islamica dando nuova for-

za alle rivendicazioni femminili81.

Il femminismo degli anni Settanta e Ottanta, conseguente alla crisi economica e al ritor-

no delle dottrine islamiche maggiormente integraliste, venne, inoltre, favorito dal gover-

no in una logica di contrapposizione con il fondamentalismo islamico in modo da scate-

77 Margot Badran, op.cit. (1993), pag. 140-141.

78 Valentine M. Moghadam, op.cit., pag. 172-174.

79 Ibidem.

80 Leila Ahmed, op.cit., pag. 258-259.

81 Margot Badran, op.cit.(2003), pag. 115.

100

nare una guerra tra istanze radicali mantenendo inalterato lo status quo82. Le donne non

accettarono, però, di essere messe in contrapposizione con l’Islam in una guerra senza

vinti e senza vincitori e usarono argomenti islamici per legittimare il loro ingresso nello

spazio pubblico come avevano fatto in precedenza con il nazionalismo. Nonostante que-

sto, come in passato pur avendo coniugato femminismo e nazionalismo le donne erano

state accusate di essere troppo occidentali e poco patriottiche, così, pur volendo conci-

liare Islam e femminismo, le donne vennero accusate di essere contro la religione83. Con

l'emergere dell'Islam politico gli islamisti avevano, infatti, iniziato un processo di ridefi-

nizione in negativo delle nozioni di secolarismo e laicità in modo da far percepire la lai-

cità come anti-religiosa. All'interno di questo contesto di rinascita religiosa le donne cre-

denti vennero utilizzate contro le donne laiche e in particolar modo contro le femministe

in modo da creare un aperto conflitto tra i diversi modi di essere musulmano mettendo

le donne davanti ad una scelta obbligata84. La posizione degli integralisti nei confronti

delle donne era particolarmente problematica in quanto, dato il suo carattere essenzial-

mente reattivo, intrappolava la questione femminile nel contesto dell'antagonismo cultu-

rale tra occidente e mondo arabo. Non a caso il ripristino di leggi e costumi islamici tra-

dizionali riguardanti le donne era al centro del programma politico degli integralisti, in

modo specularmente opposto all'attacco sferrato dall'occidente contro l'Islam e la cultu-

ra araba. Uomini che si contraddistinguevano, nella società occidentale imperialista, per

la loro intransigente opposizione al femminismo tuonavano contro il degrado delle don-

ne nelle società musulmane diventando i primi campioni dell'abolizione del velo. Nella

loro retorica l'uso del velo e la posizione delle donne nel mondo islamico divennero la

prova dell'inferiorità dei musulmani e la giustificazione dei tentativi di indebolire la so-

cietà e la religione cui appartenevano85. Molti studi hanno analizzato il ruolo delle don-

ne nella costruzione di una moderna soggettività musulmana sottolineando che il cre-

scente riferimento all'Islam come quadro all'interno del quale rivendicare diritti nacque

in opposizione ad un femminismo laico, occidentale, elitario, composto prevalentemen-

te da donne delle classi medio-alte e che fece sua la retorica occidentale e coloniale del-

82 Margot Badran, op.cit (2003), pag. 110.

83 Margot Badran, op.cit.(1993), pag. 143-144.

84 Margot Badran, “Le féminisme islamique en mouvement” in AA.VV., Existe-t-il un féminisme

musulman?, Paris, L'Harmattan, 2007, pag. 56-57.

85 Leila Ahmed, op.cit., pag. 272-273.

101

la modernizzazione, concepita come acquisizione di un modello di società occidentale86.

L'abito islamico che, in questo frangente, molte donne decisero di indossare legittimava,

di fatto, la presenza delle donne in ambito pubblico e, per questo motivo la scelta di

queste donne non deve essere percepita come un arretramento rispetto alle rivendicazio-

ni di autonomia e soggettività delle femministe degli anni precedenti, ma come un'inter-

pretazione locale di un movimento mondiale87. Proprio per questo molti studiosi reputa-

no che il ritorno del velo non debba essere valutato come conseguenza negativa del revi-

val islamico, ma come il mezzo che le donne musulmane hanno per declinare la lotta

per i loro diritti in un contesto culturale specifico88.

3.2.2- Il “femminismo sessuale” e Nawal el-Saadawi

Diversamente dalle femministe di inizio secolo, principalmente coinvolte nella richiesta

di diritti politici e di servizi per le donne, le donne degli anni Sessanta e Settanta

ampliarono il loro spettro di interesse iniziando una discussione sul corpo della donna,

denunciando violenze psicologiche e fisiche e affrontando argomenti tabù come

contraccezione e clitoridectomia 89. Questo mutamento era dovuto principalmente alla

realtà vissuta quotidianamente dalle singole donne. Il “femminismo di stato” nasseriano

aveva dimostrato, infatti, che il solo accesso allo spazio pubblico non significava

liberazione della donna. La mancanza di un programma di accompagnamento che

andasse ad agire sulla condizione della donna all'interno della famiglia e sulla sua

sessualità, permetteva il mantenimento del dominio patriarcale all'interno della società90.

Se si volesse dividere l'impegno femminile egiziano in diverse fasi, la fase intercorsa tra

gli anni Sessanta e Settanta potrebbe essere, dunque, definita la fase del “femminismo

sessuale” perché l’attenzione venne centrata sull'inviolabilità delle donne e l'attenzione

venne focalizzata sui temi della sessualità e del corpo femminile91. Questa battaglia non

era di esclusivo appannaggio delle laiche e anche molte islamiche iniziarono un

percorso che, con una lente femminista, cercava di analizzare gli strumenti del dominio

86 Ruba Salih, op.cit., pag. 101.

87 Leila Ahmed, op.cit., pag. 258-259.

88 Kristina Nordwall, op.cit., pag. 5-6.

89 Leila Ahmed, op.cit., pag. 245-248.

90 Margot Badran, op.cit. (2003), pag. 114.

91 Margot Badran, op.cit. (1993), pag. 131.

102

maschile e il meccanismo di vittimizzazione delle donne nelle sfere intime e informali

della vita92.

La principale esponente di questo periodo può essere sicuramente considerata Nawal al-

Saadawi, medico e femminista socialista, che attraverso i suoi scritti invocò una

rivoluzione sociale, economica e culturale che portasse a un mutamento radicale della

condizione della donna93. L'autrice nel suo libro al-Mar'a wa al-Jins (La donna e il

sesso), pubblicato nel 1972, affrontò apertamente il tema della violenza contro le donne

in ambiente familiare esprimendo posizioni molto forti in merito al danno psico-fisico

conseguente all’oppressione sessuale fisica e mentale meritandosi un'eccezionale

attenzione pubblica che le costò anche il posto di lavoro94. L'opera ebbe una risonanza

molto positiva tra le donne progressiste, ma allo stesso tempo provocò una reazione da

parte delle forze patriarcali particolarmente veemente come dimostrato dalle sue stesse

parole:

“Ho visto ragazze bruciarsi vive o buttarsi nel Nilo e morire affogate per sfuggire

alla tirannia di un padre o di un marito. Ho cercato di aiutarle, ma gli uomini a capo

del villaggio, d'accordo con le autorità statali, mi trasferivano ogni volta con

l'accusa di non rispettare i valori tradizionali della loro comunità e di incitare le

donne a ribellarsi contro la legge e la religione”95.

Come Qasim Amin a inizio secolo si era battuto contro il velo, Nawal al-Saadawi lottò

contro le mutilazioni genitali femminili dimostrando che esse venivano falsamente

attribuite all'Islam pur essendo esclusivamente forme di controllo patriarcale sul corpo

femminile. In base a questa analisi, a differenza delle femministe di inizio secolo che

avevano centrato la discussione sulla prostituzione delle donne più povere, Nawal al-

Saadawi provò ad indagare la sessualità delle donne normali e concluse che, pur non

dovendo sottoporsi alla vessazione della prostituzione, esse venivano ugualmente

oppresse sessualmente96. L'autrice si focalizzò, inoltre sul contesto politico-sociale in

cui si inserivano i problemi delle donne e riuscì a dimostrare che lo sfruttamento

sessuale avveniva in tutte le classi sociali sia a livello pubblico sia, soprattutto, a livello

92 Leila Ahmed, op.cit., pag. 245-248.

93 Valentine M. Moghadam, op.cit., pag. 172-174.

94 Margot Badran, “Il femminismo islamico” in op.cit. (2007), pag. 351.

95 Nawal El Saadawi, Una figlia di Iside, Roma, Nutrimenti, 2002, pag. 300.

96 Margot Badran, op.cit.(1993), pag. 140-141.

103

privato. Nawal al-Saadawi ebbe il merito di discutere a livello pubblico qualcosa che

era da sempre confinato nel privato e coraggiosamente puntò il dito contro uomini e

società che obbligavano le donne a coprirsi per mantenere un confine tangibile tra

pubblico e privato, tra maschile e femminile97. Con l'autorità e la competenze derivante

dall'essere medico, donna e femminista, attaccò con forza le aggressioni contro le

donne, messe in atto a causa della maniacale ossessione maschile per la verginità, senza

arrendersi nemmeno quando venne arrestata per le sue veementi invettive contro la

violenza patriarcale98.

97 Margot Badran, op.cit.(1993), pag. 140-141.

98 Ibidem.

104

CAPITOLO 4

4.1- GLI SVILUPPI SUCCESSIVI

4.1.1- Italia

Dopo i grandi successi e la grande mobilitazione degli anni Sessanta e Settanta il

movimento femminista, in Italia come nel resto del mondo occidentale, sembrò aver

perso buona parte del suo vigore. Nonostante gruppi e associazioni di donne avessero

continuato ad essere attivi in tutto il mondo, ampliando sempre di più il loro campo di

azione, a partire dagli anni Ottanta, il femminismo come attore unitario venne, infatti,

progressivamente relegato in secondo piano rispetto alla scena politica e sociale1.

Questo non significò la scomparsa del femminismo, ma una sua radicale trasformazione

necessaria ad assicurarne la sopravvivenza a fronte del declino dei movimenti. Tuttavia,

secondo molte analiste, il fatto che non ci sia stata una morte del femminismo non

esclude la necessità di elaborare, per il femminismo di tipo politico, un lutto le cui cause

possono essere ricercate sia all'interno sia all'esterno del movimento2. A livello esterno

la limitazione degli spazi di agibilità dei movimenti, la cui prima conseguenza fu una

radicale ridefinizione delle pratiche, venne indotta dalle politiche statali volte a

contrastare il fenomeno terroristico3. A livello interno, invece, i fattori furono

molteplici. In primo luogo, se negli anni Settanta, nonostante l'evidente scarto tra teoria

e pratica, il dialogo tra movimento e istituzioni era rimasto aperto dimostrandosi

fecondo di leggi importanti come quella sul diritto di famiglia, sui consultori familiari e

sull'aborto, negli anni Ottanta, a seguito della dissoluzione dell'UDI e al declino dei

movimenti femministi, si aprì un profondo divario. I movimenti degli anni Settanta

avevano, infatti, tanto rifiutato in linea teorica il riformismo quanto lo avevano, nella

pratica, realizzato. Anche se essi non se ne erano curati, infatti, una legislazione di

riforma, che per importanza e concentrazione nell'arco di pochi anni non ha paragoni

nell'intera storia italiana, derivò più dalla loro presenza sulla scena pubblica che non da

un reale desiderio del legislatore4. Nel periodo successivo, invece, il solco tra istituzioni

1 Marina Cacace, Femminismo e generazioni, Milano, Baldini Castoldi Dalai Editore, 2004, pag. 15.

2 Anna Rossi Doria, Dare forma al silenzio: scritti di storia politica delle donne, Roma,Viella, 2007,

pag. 261-262.

3 Ibidem.

4 Ivi, pag. 260-261.

105

politiche e movimento si allargò esponenzialmente portando alla limitata partecipazione

delle donne in politica nonostante il tentativo, messo in atto ad esempio con la Carta

delle donne, di coniugare contenuti femministi con politiche istituzionali5. A livello

interno influirono sulla crisi del femminismo, inoltre, le divisioni e le contraddizioni in

tema di aborto6. La legalizzazione dell'aborto fu, infatti, il punto di svolta per tutto il

movimento e, attraverso la trasformazione da “pratica politica tra donne” a “servizio per

le donne”, vennero introdotti comportamenti fino ad allora estranei alla pratica

femminista tra cui la delega, la scissione tra esperienza di sé e lavoro per l'altra, la

tecnicizzazione delle relazioni e la specializzazione delle prestazioni7. A fronte del

complesso quadro generale conseguente agli anni di piombo, la fase eroica e

rivoluzionaria dell'autogestione dell'aborto venne, così, chiusa a favore della

legalizzazione che sembrò il miglior risultato ottenibile. Da questo punto di vista la

legge 194 può essere vista come:

“una forma di normalizzazione di comportamenti considerati eversivi come

l'autogestione, anche se da un altro punto di vista essa costituì un tentativo di

avviare una transizione, politicamente impossibile, ma socialmente necessaria,

dall'autocoscienza e autogestione dell'aborto come esperienza della sessualità

femminile, all'istituzionalizzazione e medicalizzazione dell'aborto come rifiuto

della maternità”8.

Il movimento femminista subì, dunque, un mutamento radicale all'inizio degli anni

Ottanta, orientandosi verso un’aggregazione di centri culturali meno impegnati su un

terreno direttamente politico, ma caratterizzati da una ricchissima produzione culturale,

configurandosi come “femminismo culturale”. Vita vissuta e pensiero politico, che

erano stati così strettamente intrecciati nel femminismo degli anni precedenti, vennero,

in questo modo, nuovamente divisi scindendo definitivamente personale e politico9. Con

il termine “femminismo culturale” si suole indicare tutte quelle esperienze legate a

riviste come DWF (Donna, Woman, Femme) e Memoria, librerie delle donne come

quelle di Milano e Bologna, centri di documentazione, cooperative di studio e ricerca,

5 Filippini, Scattigno (a cura di), Una democrazia incompiuta, Milano, Franco Angeli, 2007, pag. 28.

6 Anna Rossi Doria, op.cit., pag. 261-262.

7 Filippini, Scattigno (a cura di), op.cit., pag. 164-166.

8 Ivi., pag. 166.

9 Anna Rossi Doria, op.cit., pag. 262-263.

106

gruppi di donne impegnate in associazioni come le Case delle donne o Centri contro la

violenza, che si vennero a formare tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni

Ottanta e che si svilupparono nel decennio seguente10. La trasformazione si ebbe anche

a livello istituzionale e, mentre il femminismo italiano si ritirava a studiare e filosofare,

nuovi stimoli per le istituzioni italiane giunsero dalle grandi conferenze internazionali e

dalle politiche europee. Furono queste ultime, infatti, a imporre a tutti i paesi della

Comunità Europea politiche di pari opportunità che garantissero la presenza femminile

nel mondo del lavoro e della politica, avviando l’applicazione di parti della Costituzione

italiana mai compiutamente realizzate11. A partire dagli anni Novanta, anche all'interno

del paese, la “questione femminile” venne, così, accantonata a favore di una più

generica “questioni di genere” riguardante tutti, da risolvere per via istituzionale e, in

quel momento, le femministe scelsero di abbandonare definitivamente ogni velleità

rivoluzionaria per concentrarsi su programmi di pari opportunità e sullo sviluppo di

azioni istituzionali volte a promuovere una effettiva partecipazione delle donne al

mercato del lavoro, alla politica e alla società nel suo complesso12.

Nonostante il movimento delle donne, in tutte le diverse forme assunte nella seconda

metà del Novecento, si sia caratterizzato per le conquiste rilevanti che è riuscito ad

ottenere, ad oggi, esistono ancora problemi irrisolti che, in molti casi, tendono ad

aggravarsi. Basti pensare alla limitata presenza delle donne in posti di comando, sia in

politica sia nel mondo del lavoro, agli investimenti insufficienti nel welfare che

obbligano la donna ad un impegno maggiore in ambito familiare (cura di figli, anziani e

malati), al processo endemico e nascosto, ma mai superato, della violenza sulle donne.

Soprattutto le più giovani, però, sottovalutando la portata degli aspetti negativi che il

solo fatto di essere donna comporta, considerano superfluo un femminismo organizzato

che faccia fronte a questi problemi, preferendovi un vago impegno individuale. Questa

dimensione individuale, che molte giovani donne sembrano prediligere, può servire a

consolidare e ad estendere le conquiste già ottenute, ma non è sufficiente di fronte a

10 www.genitoriche.org/php/printable_art.php?id_content=1838.

11 Beatrice Pisa, “Le italiane nella difficile transizione fra anni Settanta e anni Ottanta” in Donne,

politica e istituzioni, Roma, Università Sapienza, edizione 2008,

http://w3.uniroma1.it/donneepolitica/documenti/Beatrice%20Pisa%20-

%20Fra%20anni%20Settanta%20e%20anni%20Ottanta.pdf.

12 www.genitoriche.org/php/printable_art.php?id_content=1838.

107

problemi irrisolti di natura strutturale13. In questo sono identificabili alcune motivazioni

della mancanza di attrazione del femminismo tra le giovani donne. In primo luogo il

femminismo degli ultimi anni non è sfuggito ad un processo di vittimizzazione, che

affligge tutta la società contemporanea, attraverso il quale ci si interessa meno di chi

realizza delle imprese che delle vittime del dominio maschile. Difendendo quest'ultima

ci si sente automaticamente dalla parte giusta della barricata, ma si propone come unica

soluzione alla subordinazione femminile una penalizzazione del reato che vittimizza

ulteriormente la donna senza eliminare le cause strutturali dell'oppressione14. In secondo

luogo, l'opinione maggiormente diffusa è che la libertà femminile consista

nell'esibizione disinvolta del proprio corpo. Accentrando al massimo l'attenzione sulla

carne femminile da coprire e/o scoprire si perdono di vista i reali obiettivi della lotta e si

continua a giudicare l'individuo più per l'appartenenza sessuale che per la personalità15.

Da questo punto di vista le ragazze, che hanno il culto e l'ostentazione della bellezza

come “valore”, non vogliono essere considerate femministe perché associano questi

termine a esseri mascolini, brutti e non “sexy”, come loro vorrebbero, invece, essere16.

Bisogna, inoltre, sottolineare come, a causa di una frammentazione del mercato del

lavoro e di una sempre maggiore differenziazione delle scelte nella procreazione, le

giovani donne, incapaci di individuare interessi comuni tra tutte le donne, basilari per

l'organizzazione di una lotta unitaria, preferiscano l'azione individuale a quella collettiva

per la soluzione dei loro problemi17. La difesa delle caratteristiche individuali e

dell'identità del singolo, avvicinando le giovani donne più ai coetanei maschi che non a

femministe appartenenti ad un'altra generazione, porta, così, al rifiuto di identificarsi

con uno stesso modello di donna con bisogni e desideri pre-determinati18. Ultimo

aspetto è che, nonostante la re-genderization, il ritorno ai generi, sia già in atto dalla

metà degli anni Novanta, soprattutto nella produzione e nella diffusione di giocattoli,

programmi televisivi, libri, film e cartoni, il femminismo non abbia saputo far fronte a

13 Marina Cacace, op.cit., pag. 141.

14 Elisabeth Badinter, La strada degli errori: il pensiero femminista al bivio, Milano, Feltrinelli, 2004,

pag. 12-13.

15 Loredana Lipperini, Ancora dalla parte delle bambine, Milano, Feltrinelli, 2008, pag. 33.

16 Naomi Wolf, Il mito della bellezza, Milano, Arnoldo Mondadori, 1991, pag. 323.

17 Marina Cacace, op.cit., pag. 19.

18 Ivi, pag. 27- 46.

108

questo tipo di problemi dando per scontate conquiste che oggi sono in serio pericolo19.

4.1.2- Egitto

Dopo anni di mutamento politico-sociale, negli anni Ottanta, il femminismo in Egitto

ricominciò a manifestarsi in maniera organizzata tanto che nel 1985, sotto la guida di

Nawal el-Saadawi, venne fondata l'organizzazione Jam'iyya Taddamun lil-Mar'a

al-'Arabiyya meglio conosciuta come AWSA (Arab Women's Solidarity Association)20.

L'associazione, nata con l'intento di porre fine alle discriminazioni di genere sia in

ambito pubblico sia in ambito privato nel contesto arabo, ebbe breve vita a causa dei

contrasti con il governo che la chiuse all'inizio degli anni Novanta. Nonostante questo,

in un contesto non particolarmente favorevole al femminismo laico, il messaggio

dell'associazione venne comunque portato avanti dalle singole donne che, pur

scegliendo di non definirsi femministe e abbandonando la lotta collettiva per quella

individuale, iniziarono un percorso di lotta per l'avanzamento professionale femminile21.

Per quanto un modello di femminismo secolare fosse stato predominante nell'Egitto del

ventesimo secolo, a partire dagli anni Novanta si impose una visione femminista molto

differente che portò il femminismo laico a diventare un fenomeno di scarsa rilevanza

nel panorama egiziano in quanto frutto di scelte individuali delle singole donne. Per

quanto le radici di questo spostamento vadano ricercate negli anni Settanta e Ottanta è,

però, solo con gli anni Novanta che queste si manifestarono con forza. Fu proprio in

questi anni, infatti, che una nuova generazione di donne femministe, in diverse parti del

mondo musulmano, iniziò a organizzarsi organicamene per rispondere con forza ai

continui attacchi degli islamisti, sviluppando un discorso femminista di matrice

islamica22. Margot Badran, una delle maggiori studiose di questo fenomeno, definisce il

femminismo islamico:

“un discorso sull'uguaglianza di genere e sulla giustizia sociale che ancora nel

Corano la sua visione e la sua missione e ricerca la pratica dei diritti e della

giustizia per tutti gli esseri umani nella pienezza della loro esistenza, sia nella sfera

19 Loredana Lipperini, op.cit., pag. 18.

20 Margot Badran, “Indipendent women-more than a century of feminism in Egypt” in Judith E. Tucker,

Arab Women, Georgetown, Indiana University Press, 1993, pag. 141-143.

21 Ibidem.

22 Margot Badran, “Il femminismo islamico” in Zolo, Cassano, L'alternativa mediterranea, 2007, pag.

343.

109

pubblica sia in quella privata”23.

Il nuovo femminismo traeva, dunque, la sua ragion d'essere dalla rilettura del Corano e

di altri testi sacri per dimostrare la natura non misogina della religione islamica. I temi

fondanti del nuovo femminismo sono l'uguaglianza di genere e la giustizia sociale

nell'ambito di una società musulmana. L'adesione alla dottrina islamica permetteva a

questo tipo di femminismo di contrastare realmente il patriarcato locale utilizzando le

stesse fonti della dottrina che combatteva e costituendo, di fatto, un pericolo maggiore

rispetto al femminismo laico per la tenuta della struttura sociale del paese24. Le

femministe islamiche partivano, dunque, da una rilettura contestualizzata dell’Islam da

un punto di vista sociologico al fine di dimostrare fino a quale punto le interpretazioni

patriarcali avessero snaturato i testi sacri nelle parti che riguardavano la condizione

della donna. Per quanto si trattasse solo di un approccio di analisi e di dibattito e non

costituisse ancora una mobilitazione pratica, il femminismo islamico aveva sempre più

presa sulle donne di quest'area del mondo25.

Nonostante questo tipo di femminismo utilizzasse il diritto islamico al fine di migliorare

le condizioni delle donne, molte musulmane, che in una classificazione potrebbero

essere considerate femministe islamiche, non si identificavano in questo concetto.

Alcune di loro rifiutavano questa etichetta ritenendo che il termine femminismo fosse

un prodotto peculiare della storia occidentale, altre rigettavano l'aggettivo islamico in

quanto pregno di significati religiosi e politici. Altre ancora rifiutavano l'espressione

tout cour pur ascrivendo le loro lotte per i diritti delle donne all'interno del contesto

islamico26. Il fatto che il femminismo sia sempre esistito in Medio oriente e, in

particolare in Egitto, contraddice, però, coloro che lo vedono semplicemente come

prodotto dell'occidente come del resto il contributo islamico è certo, soprattutto a

seguito della rivoluzione iraniana del 1979 e al rafforzamento dell'Islam nella società27.

23 Margot Badran, “Il femminismo islamico” in op.cit. (2007), pag. 337.

24Margot Badran, “Flows of feminism in Egypt” in Bartuli (a cura di), Egitto oggi, Venezia, Casa

Editrice il Ponte, 2003, pag. 115.

25Camilla Pitton, “Femminismo islamico: Jihad di genere” in oltreillimes, gennaio 2009,

www.oltreillimes.net/pdf/femminismo_islamico.pdf, pag. 3-4.

26 Renata Pepicelli, “Donne e diritti nello spazio mediterraneo” in Zolo, Cassano, L'alternativa

mediterranea, Milano, Feltrinelli, 2007, pag. 319-321.

27 Haideh Moghissi, Feminism and Islamic fundamentalism. The limits of Post-modern Analysis,

London, Zed Books, 1999, pag. 130-133.

110

Le femministe islamiche, di fatto, non contestavano il messaggio religioso, ma si

opponevano alle interpretazioni che gli uomini preposti a interpretare i testi sacri ne

avevano fatto a posteriori28. La principale preoccupazione del femminismo islamico

consisteva, dunque, nel reinterpretare in chiave femminile la tradizione musulmana

utilizzando a questo fine la ijtihad , la ricerca indipendente sulle fonti religiose29. Le

femministe islamiche si opponevano, perciò, alla lettura selettiva dei testi sacri, che

tendeva ad esasperare alcuni passaggi e a trascurarne altri al fine di supportare una

cultura maschilista legittimandola su basi islamiche30. Richiamandosi al Corano nella

rivendicazione dei propri diritti, queste femministe perseguivano il riconoscimento dei

diritti negati alle donne attraverso un linguaggio semplice e comprensibile per tutti gli

strati della popolazione in modo da riuscire a scardinare le istanze fondamentaliste

dall'interno, grazie all'utilizzo dei metodi di analisi dell'Islam stesso. Scopo di queste

studiose era, dunque, comprendere il patrimonio musulmano per dare applicazione

pratica ai suoi ideali e produrre modelli efficaci di liberazione della religione dalla

prigionia delle tradizioni31. Quanto detto trova applicazione pratica nella rilettura in

chiave riformista delle figure femminili del Corano. Avocandosi il diritto di aprire nuovi

spazi interpretativi con un approccio ai testi sostanzialmente innovativo, anche se fedele

all'etica spirituale dell'Islam, la rilettura delle figure femminili evidenziava, infatti, la

faziosità delle lettura maschile dei testi e la necessità di lavorare su di essi per rompere

il monopolio di un sapere assoluto e costruito a misura di maschio32.

Il femminismo islamico, dando conto di una doppia appartenenza, enfatizzava, inoltre,

la nascita di una nuova soggettività che celebrava le appartenenze multiple. Da una

parte le donne appartenenti a questo tipo di femminismo si dicevano, infatti, fedeli e

rispettose delle tradizioni e dei valori dell'Islam, mentre dall'altra difendevano

tenacemente i diritti delle donne sia nella sfera pubblica sia in ambito domestico33. In

quest'ottica le femministe islamiche trasmettevano, dunque, un doppio messaggio che

28 Haideh Moghissi, op.cit., pag. 319-321.

29 Ibidem.

30 Camilla Pitton, op.cit., pag. 3-4.

31 Guardi, Bedendo, Teologhe, musulmane, femministe, Torino, Effatà Editrice, 2009, pag. 49-50.

32 Ivi, pag. 69-70.

33 Ruba Salih, op.cit., pag. 111-112.

111

parlava contemporaneamente al proprio contesto locale e alla comunità transnazionale34.

Tuttavia la mera celebrazione della nascita di una nuova soggettività o modernità

islamica in grado di offrire alle donne un percorso di emancipazione più culturalmente

autentico e incontaminato rischiava di rafforzare l'idea secondo la quale le culture

esistono separatamente e in autonomia le une dalle altre35. Le femministe laiche,

criticando tenacemente quest'analisi, sostenevano che, essendo il femminismo una

pratica sociale e non soltanto una forma di emancipazione del singolo individuo, si

dovesse cercare una soluzione comune per tutte le donne indipendentemente

dall'appartenenza spirituale in modo che i diritti non fossero concessi su base religiosa,

ma perché propri dell'essere umano in quanto tale36. Se per molte donne l'unione tra

religione e femminismo era l'unica via possibile per garantire il perseguimento dei diritti

delle donne, per molte altre l'ostilità verso il femminismo era insita nella religione e la

liberazione della donna passava, dunque, necessariamente per la de-islamizzazione37. Il

femminismo locale avrebbe avuto, dunque, la necessità di iniziare un processo di

conciliazione tra queste istanze che rendesse merito delle differenze tra i diversi soggetti

per includere il maggior numero possibile di donne38.

Da quanto detto finora si può concludere che esiste una precisa volontà delle donne

musulmane di rimanere all'interno di un universo valoriale che si richiama all'Islam

utilizzando un linguaggio riferito a tale contesto per coniugare una nuova concezione

della donna. In secondo luogo si evince che tra un discorso di genere e la tradizione

locale sia necessaria una negoziazione. Da questo deriva che solo con un percorso

spirituale interno a un contesto islamico è possibile acquisire coscienza di questa

tradizione nell'ottica di trasformazione della propria condizione39. A questo proposito è

importante sottolineare come l'Islam possa essere conciliabile con il femminismo

solamente se il fattore religioso investe il solo lato spirituale e non quello politico-

legale. Condizione sine qua non per la liberazione della donna è il pieno inserimento

della stessa nella società con uguali diritti e doveri e questo è possibile solo attraverso la

34 Ruba Salih, op.cit., pag. 111-112.

35 Ivi, pag. 115-117.

36 Camilla Pitton, op.cit., pag. 6-7.

37 Haideh Moghissi, op.cit., pag. 134-137.

38 Ivi, pag. 125-127.

39 Guardi, Bedendo, op.cit, pag. 90-91.

112

revisione del diritto di famiglia e della legislazione civile40. Partendo da questa analisi le

femministe islamiche scelsero i tempi e i modi per le proprie rivendicazioni. Lottarono

innanzitutto per una riforma del codice di famiglia sostenendo che per mantenere una

coerenza con il diritto islamico, essendo l'Islam una religione egualitaria, i diritti degli

uomini dovessero necessariamente essere concessi anche alle donne. Nella rilettura

femminista del Corano si denunciava, dunque, la violenza domestica, i matrimoni

precoci e la poligamia, la lapidazione e l’infibulazione, in quanto non contemplate dal

testo originale41.

Un ultimo aspetto da analizzare è quello riguardante il velo. Su questa questione le

femministe islamiche distinguevano tra l’imposizione, equivalente ad una

discriminazione, e la libera scelta effettuata in termini identitari e di sicurezza

personale42. In base a quest'analisi molte attiviste, sociologhe e scienziate sociali, hanno

visto nel risorgere di simboli come il velo un potenziale liberatorio anziché oppressivo,

attraverso cui le donne tentano di guadagnarsi l'accesso allo spazio pubblico43. In una

logica di difesa delle tradizioni islamiche gli studiosi hanno constatato nell'uso

dell'abbigliamento islamico in generale e del velo in particolare, un ritorno alla

tradizione e una difesa della propria cultura quando non una fonte di empowerment per

le donne. Questa visione è, però, secondo Haideh Moghissi, studiosa e femminista

iraniana, particolarmente miope in quanto la scelta non è così consapevole come vuole

essere presentata. Secondo la sua analisi in Egitto, ad esempio, il ritorno del velo è

strettamente connesso con la sconfitta dei processi di modernizzazione capitalistica del

paese, incapaci di migliorare la condizione della donna nella società o di modificare i

valori e le pratiche patriarcali locali44. In questa logica le motivazioni addotte a difesa

del velo sono, a suo parere, scusanti per difendere pratiche fortemente conservatrici

fondamentali per la preservazione della struttura societaria islamica, imposte in maniera

coercitiva dai governi della maggior parte dei paesi musulmani45.

Negli ultimi anni, il femminismo islamico si è manifestato soprattutto negli incontri

40 Haideh Moghissi, op.cit., pag. 142.

41 Camilla Pitton, op.cit., pag. 3-4.

42 Ibidem.

43 Ruba Salih, op.cit., pag. 109.

44 Haideh Moghissi, op.cit., pag. 41-44.

45 Ivi, pag. 45-47.

113

internazionali durante i quali le donne si sono fatte portatrici di un disagio derivante

dalla duplice forma di oppressione che percepivano: quella economica, provocata dalla

crisi del neocapitalismo globale, e quella politica, provocata dal diffondersi del

fondamentalismo islamico. Proprio in risposta a questo il femminismo islamico ha

voluto impegnarsi nella costruzione di una nuova società civile musulmana che,

rifiutando un modello di democrazia appiattito su quello occidentale, si basi sulla

cultura dei diritti umani e sui principali valori coranici: giustizia sociale, libertà di

coscienza e uguaglianza di genere46.

4.2- IL DIBATTITO ORIENTE-OCCIDENTE

Quasi tutte le culture, passate e presenti, in misura maggiore o minore, hanno praticato e

praticano discriminazione nei confronti delle donne, ma questa è, in particolare,una

caratteristica delle culture religiose che cercano nel passato indicazioni o regole su come

vivere nel mondo contemporaneo47. A questo bisogna aggiungere che quasi tutte le

culture del mondo hanno elaborato strutture di socializzazione, rituali, usanze

matrimoniali e altre pratiche culturali che mirano a controllare il corpo della donna. Se

da una parte l'obiettivo era porre la sessualità e il potenziale riproduttivo delle donne

sotto il controllo degli uomini a causa dell'incertezza della paternità e della necessità di

tutela della stirpe, dall'altra il relegare la donna in ambito domestico era necessario per

garantire l'integrità familiare48. Sebbene sia stata considerevolmente mitigata nelle

versioni più progressiste e riformate delle principali religioni monoteiste, questo

approccio nei confronti delle donne resta ancora forte nelle versioni più ortodosse o

fondamentaliste. Questa spinta patriarcale non è circoscritta, però, ad alcune culture

particolarmente arretrate, ma è, anzi, propria sia della cultura occidentale sia di quelle

praticate negli stati-nazione con un passato di conquista e di colonizzazione49.

Anche a causa di molti stereotipi che i colonizzatori occidentali hanno proiettato sul

mondo musulmano, nell'immaginario comune, l'Islam è stata da sempre considerata la

religione maggiormente predisposta al maltrattamento delle donne. Se da una parte

46Camilla Pitton, op.cit., pag. 6-7.

47 Susan Moller Okin, Diritti delle donne e multiculturalismo, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2007,

pag. 19.

48 Ivi, pag. 8-10.

49 Ivi, pag. 10.

114

nessuna religione è stata così tanto demonizzata per le sue pratiche di genere, dall'altra,

però, nessuna si è così tanto arroccata a difesa delle proprie tradizioni50. Da parte

occidentale, per legittimare la dominazione coloniale, caratteristiche come la

domesticità, la purezza sessuale e la castità femminili, considerate appropriate per le

donne europee, vennero presentate nel mondo musulmano come evidenze della

schiavitù sessuale delle donne. Esponenti di una cultura colonialista, antifemministi in

patria, usarono, così, la retorica del femminismo come punta di lancia contro i paesi

musulmani al fine di legittimare il proprio dominio coloniale51. Da parte musulmana,

invece, la sfida stava nel combattere le visioni islamofobiche e orientaliste senza cadere

nella difesa di pratiche di segregazione di genere totalmente indifendibili52

La condizione della donna nelle diverse società è, sostanzialmente, determinata dalle

caratteristiche e dai compiti che l'uomo decide che la donna debba avere. Come nel

mondo musulmano la separazione fondamentale è tra pubblico e privato, in occidente la

differenza fondamentale è tra essere e apparire, tra intelligenza e bellezza53. Nel caso

delle donne occidentali sono i codici del corpo e non dello spazio, che paralizzano le

capacità di emancipazione rendendole oggetti che vivono solo attraverso lo sguardo

dell'osservatore, ossessionate dal peso e dall'aspetto fisico in un circolo vizioso che

porta a un collasso dell'autostima e dell'efficienza54. L'apprensione delle donne nei

confronti dell'età e del peso ne cambia totalmente il modo di ragionare sottoponendole,

di conseguenza, a vessazioni psicologiche inimmaginabili55. Dando particolare

importanza alla bellezza, alla magrezza e alla giovane età nel caso delle donne, e a doti

intellettuali e forza fisica, nel caso dell'uomo, si pone una netta differenziazione tra

l'apparire femminile e l'essere maschile. Ci si aspetta, inoltre, che le donne facciano,

senza alcuna ricompensa economica, il lavoro che riguarda casa e famiglia, a

prescindere che abbiano o meno un lavoro salariato ristabilendo anche in occidente,

anche se solo parzialmente, il confine tra pubblico e privato, tra ambito lavorativo e

50 Haideh Moghissi, op.cit., pag. 13.

51 Leila Ahmed, op.cit., pag. 279-281.

52 Haideh Moghissi, op.cit., pag. 35-37.

53 Fatema Mernissi, L'harem e l'Occidente, Firenze, Giunti, 2000, pag. 79-82.

54 Ivi, pag. 159-161, 173-177.

55 Naomi Wolf, op.cit., pag.133.

115

ambito domestico56. Tratto saliente della cultura musulmana, invece totalmente assente

in quella occidentale, è la paura che le donne possano destabilizzare l'ordine maschile.

Questo avviene perché gli uomini musulmani temono che, introducendo l'eterogeneità

all'interno della società, si renda necessaria l'istituzionalizzazione del pluralismo per

adempiere al principio basilare di eguaglianza57. Se le donne islamiche dovessero

invadere lo spazio pubblico, infatti, la supremazia maschile sarebbe messa in

discussione. Per questo, nel momento in cui le donne, grazie a istruzione e possibilità

lavorative, hanno iniziato a viversi anche l'ambito extra-domestico è stato imposto un

velo che delimitasse lo spazio pubblico maschile da quello privato femminile58.

La storia mostra che il femminismo non è né esclusivamente occidentale, né monolitico

e che il fenomeno è stato declinato nei diversi punti del pianeta a seconda delle

caratteristiche locali:

“...le féminisme est une critique de la subordination féminine et de la domination

masculine (dans divers contextes temporels ou spatiaux) qui s'accompagne d'un effort

pour rectifier la situation qu'engendrent ces rapports de subordination/domination”59.

Essendoci diversi tipi e diverse pratiche del femminismo che corrispondono ai diversi

tipi di oppressione che le donne subiscono nel tempo e nello spazio, rileggere la propria

storia e capire la propria cultura è fondamentale per costruire le basi di qualsiasi

movimento innovatore. L'identificazione storica, necessaria per definire un'identità di

gruppo, non deve limitarsi solamente ad alcuni aspetti, come ad esempio il lato

religioso, perché così facendo si rischia di creare divisioni spaccando il fronte comune

femminile60. Se storicamente un primo punto di tensione tra femminismo occidentale e

altre pratiche femministe è emerso intorno all'incompatibilità tra femminismo e

nazionalismo, questo si è mostrato con chiarezza nell'analisi del rapporto tra

femminismo e islamismo. Nel primo caso molte femministe europee hanno considerato

56 Susan Moller Okin, op.cit., pag. 12-13.

57 Ivi, pag. 21-24.

58 Ivi, pag. 159-161, 173-177.

59 Margot Badran, “Le féminisme islamique en mouvement” in AA.VV., Existe-t-il un féminisme

musulman?, Paris, L'Harmattan, 2007, pag. 54, “...il femminismo è una critica della subordinazione

femminile e della dominazione maschile (all'interno di diversi contesti temporali e spaziali) che si

accompagna ad un impegno per modificare le condizioni che inducono questi rapporti di

subordinazione/dominazione”, N.d.A.

60 Haideh Moghissi, op.cit., pag. 135-138.

116

il nazionalismo come incompatibile con il femminismo ritenendo lo Stato-nazione una

costruzione artificiale e oppressiva nei confronti delle donne61, nel secondo le

femministe europee, critiche verso i comportamenti e le idee dei loro connazionali

rispetto alle donne, sottoscrissero e diffusero l'immagine che di queste società veniva

fatta scagliandosi contro il velo e le usanze delle società musulmane62. Il femminismo

occidentale è stato utilizzato, dunque, in questi paesi in maniera strumentale rispetto a

obiettivi coloniali e gli stessi uomini che in patria avversavano con ogni mezzo il

femminismo, lo proponevano come unica via per le donne islamiche63. Se da una parte

molte battaglie tradizionali delle femministe bianche occidentali sembrano futili alle

donne mediorientali, dall'altra l'avversione verso le femministe occidentali nasceva dal

fatto che queste ultime si occupavano dei problemi delle donne dei paesi in via di

sviluppo in maniera post-colonialista64. La costruzione dell'immagine della donna del

sud del mondo come soggetto oppresso dimostra, infatti, una spiccata attitudine

colonialista in quanto le donne occidentali si pongono come unici soggetti del

mutamento storico di cui le donne musulmane possono essere solamente oggetti65.. La

diversa storia del femminismo in Medio Oriente e nel mondo occidentale indica, però,

che, in quest'ultimo, la lotta per l'emancipazione è cominciata prima non per via del suo

minor tasso di misoginia o di androcentrismo, bensì perché le donne occidentali hanno

saputo sfruttare idee e istituzioni a salvaguardia dei propri interessi66.

A seguito di un particolare rivitalizzarsi dell'islamofobia dell'occidente i maggiori

studiosi islamici hanno fatto fronte comune per dare al mondo musulmano i mezzi per

difendersi dalla colonizzazione culturale dell'occidente. Questo, nel caso del

femminismo, è consistito nel coniugare Islam e femminismo in modo da dare alle donne

la possibilità di rivendicare i propri diritti all'interno di un contesto islamico67. In una

condizione di inasprimento e radicalizzazione della concezione dicotomica del mondo,

promossa sia da forze islamiste radicali che da gran parte dei media e poteri politici

61 Ruba Salih, op.cit., pag. 104.

62 Leila Ahmed, op.cit., pag. 279-281.

63 Haideh Moghissi, op.cit., pag. 16-17.

64 Marina Cacace, op.cit., pag. 53.

65 Ivi, pag. 65.

66 Leila Ahmed, op.cit., pag. 281-282.

67 Haideh Moghissi, op.cit., pag. 35-37.

117

occidentali, è, infatti, quasi inevitabile che le donne musulmane si trovino costrette a

legittimare le proprie rivendicazioni di parità e piena cittadinanza attraverso l'adesione

alla religione islamica68. A volte, nell'urgenza di produrre contro-discorsi che facessero

da contrappeso a visioni orientaliste, frutto di una sempre più diffusa islamofobia, si è

finito, così, con lo sposare visioni totalmente acritiche anche nei confronti di aspetti

deplorevoli delle società e dei regimi musulmani. Queste considerazioni, dall'altra parte,

pongono un rischio uguale e contrario, cioè di marginalizzare come estremista e

fondamentalista una vastità di soggettività e movimenti estremamente diversificati al

loro interno che, nelle proprie pratiche propongono la piena compatibilità tra la propria

cultura e religione e i principi di uguaglianza tra generi69. Appare chiaro, però, che l'idea

che l'emancipazione delle donne sia realizzabile solo attraverso l'abbandono dei costumi

di una cultura androcentrica locale in favore di un'altra cultura non ha alcuna valenza

come, allo stesso modo, appoggiare in toto un discorso come quello musulmano sarebbe

perdente in quanto, molto spesso, la linea di demarcazione tra tutela della cultura

autoctona e copertura dell'ingiustizia contro le donne è molto labile70. Coloro che

avanzano argomenti liberali per i diritti dei gruppi dovrebbero, dunque, preoccuparsi

anche di guardare alle disuguaglianze al loro interno71. La misura in cui ciascuna cultura

è patriarcale e la sua disponibilità a esserlo meno dovrebbero costituire fattori cruciali

nel valutare le giustificazioni dei diritti di gruppo, se si vuole realmente perseguire

l'uguaglianza tra uomo e donna72 e per questo bisognerebbe chiedersi se:

“Si può [..] sospendere il giudizio sulla libertà di scelta delle donne, cavarsela con

una alzata di spalle di fronte al burqa, alle mutilazioni sessuali con la scusa del

rispetto delle differenze o con l'urgenza maggiore di altri problemi, glissare o

minimizzare sul significato sessuofobico dei precetti relativi all'occultamento, in

parte o in toto, del corpo delle donne nell'integralismo?”73.

Molte musulmane, sospinte da una critica dei modelli occidentali e da una crescente

islamizzazione del discorso politico, rivendicano, invece, diritti differenti sia da quelli

68 Ruba Salih, op.cit., pag. 115-117.

69 Ivi, pag. 103-104.

70 Leila Ahmed, op.cit., pag. 279-281 .

71 Susan Moller Okin, op.cit., pag. 21-22.

72 Ivi, pag. 19.

73Monica Lanfranco, “La civiltà delle donne” in Carta etc, anno 2 numero 8, Settembre 2006, pag. 10.

118

indicati dai modelli occidentali sia da quelli consolidati nelle tradizioni locali74. Togliere

dignità a questi femminismi significherebbe ribadire il principio per cui le idee possono

essere partorite solo in occidente e da qui esportate in un resto del mondo totalmente

privo di iniziativa75. Dietro queste posizioni si celerebbe la presunzione che le donne

occidentali possano perseguire obiettivi femministi criticando e ridefinendo la propria

cultura nazionale mentre le musulmane possano emanciparsi solo rinunciando ad essa e

assimilando la cultura non androcentrica e non misogina dell'occidente76. Per altre

autrici, come ad esempio Haideh Moghissi, consigliare alle donne mediorientali di

ancorare le rivendicazioni dei propri diritti ad ideologie culturali locali significa in

ultima istanza sostenere che il femminismo è, e deve rimanere, una prerogativa e un

privilegio delle donne occidentali77. I modelli di emancipazione femminile elaborati in

Occidente, vacillando sotto l'accusa di assimilazionismo, di imperialismo culturale, di

femminismo patriarcale occidentale, talvolta si frantumano di fronte ad una realtà che

oggi appare quanto mai differenziata e complessa. Alcune di quelle donne che durante e

dopo i processi di decolonizzazione si erano battute per modelli di emancipazione alla

maniera occidentale e le nuove generazioni sono impegnate nella difesa di istituzioni e

ruoli che a uno sguardo esterno possono apparire come oppressive e discriminanti78.

Dall’ultimo convegno di Barcellona del 2008, il femminismo islamico è emerso, però,

con una posizione che respinge sostanzialmente la dicotomia tra oriente e occidente, tra

secolare e religioso. Esso sostiene, infatti, che queste dicotomie sono state alimentate

dal colonialismo e poi politicizzate dai movimenti islamisti come identità avversarie. Il

femminismo islamico si fa, così, portavoce di un Islam egualitario e della possibilità di

dialogare su valori condivisi fra le diverse religioni79.

74 Renata Pepicelli, op.cit., pag. 319-320.

75 Margot Badran, “Le féminisme islamique en mouvement” in op.cit. (2007), pag. 54-55.

76 Leila Ahmed, op.cit., pag. 279-281.

77 Ruba Salih, op.cit., pag. 112-114.

78 Renata Pepicelli, op.cit., pag. 319-320.

79 Camilla Pitton, op.cit., pag. 6-7.

119

120

CONCLUSIONI

Come già accennato nell'introduzione, la scelta di Italia e Egitto è stata fatta per le molte

similitudini che presentano e che rendono particolarmente interessante l'analisi dello

sviluppo del movimento femminista in questi paesi. Le caratteristiche economico-

sociali di arretratezza, collegate con società particolarmente frammentate, hanno portato

ad avere caratteri comuni di notevole rilevanza. Negli anni Cinquanta e Sessanta i due

paesi hanno, infatti, subito una svolta economico-sociale tanto repentina quanto

rivoluzionaria a causa del boom economico post-bellico nel caso italiano e del

socialismo nasseriano nel caso egiziano. Questo ha portato, per quanto riguarda

l'oggetto di questa tesi, a un radicale mutamento della condizione della donna. Il

maggiore accesso al mondo dell'istruzione e del lavoro, conseguenza del boom

economico e delle radicali trasformazioni della struttura sociale italiana a seguito della

seconda guerra mondiale, portò una crescente femminilizzazione della società che mutò

i tradizionali rapporti sociali. Questo stesso risultato si ottenne in Egitto attraverso

quello che è stato comunemente definito “femminismo di stato” nasseriano. Attraverso

programmi che ambivano a modificare dall'alto la condizione femminile per

modernizzare e rendere maggiormente efficiente la società egiziana nel suo complesso,

le donne entrarono in tutti i campi della vita intellettuale e professionale assumendo un

ruolo sempre più importante nella società. Nonostante il maggiore accesso a scuola e

lavoro, in entrambi i paesi, gravi discriminazioni nei confronti delle donne continuarono

ad esistere sia in questi ambiti sia, soprattutto, nell'ambito familiare e della sessualità

femminile. Le strutture patriarcali tradizionali erano, infatti, sopravvissute ai profondi

mutamenti sociali e la struttura familiare venne utilizzata come indispensabile correttivo

degli squilibri sociali e politici. Nel caso italiano il ruolo delle donne come madri e

mogli era funzionale in quanto l'attività assistenziale femminile sostituiva quella che lo

stato non riusciva a garantire attraverso i troppo spesso insufficienti servizi sociali. Nel

caso egiziano le politiche di pianificazione familiare, pur avendo il merito di non far più

considerare la donna esclusivamente come procreatrice capace di collaborare al riassetto

sia politico sia economico, non esaurivano le problematiche femminili e furono

percepite come palliativo a fronte di un codice di famiglia sostanzialmente immutato.

Le politiche istituzionali di entrambi i paesi dimostrarono, dunque, un'enorme

ambivalenza promuovendo, da una parte, l’ingresso massiccio delle donne nelle sfere

121

della vita pubblica, mentre, dall'altra, ne mantenevano il ruolo subordinato in ambito

privato.

La crescente politicizzazione di ampi strati della popolazione dovuta alla maggiore

istruzione e al maggiore accesso al mondo del lavoro, legata alla nascita di una nuova

identità giovanile in Italia e al tragico fallimento nella guerra del 1967 in Egitto, portò

all'esplicitazione di una consapevolezza femminile maturata negli anni precedenti. Se in

Italia le politiche sociali avevano moltiplicato le aree in cui la vita delle donne si

svolgeva mettendo le donne in contatto con la politicizzazione diffusa, in Egitto, grazie

al sempre maggiore coinvolgimento delle donne nella ricostruzione del paese post-

guerra dei Sei Giorni, l'attivismo femminile riprese vigore e si diffuse in tutti gli strati

della società. Se il femminismo italiano si distinse per il suo rapporto privilegiato con i

gruppi politici, in particolar modo di sinistra, il femminismo egiziano fu più un percorso

di acquisizione di consapevolezza che non un movimento organico e assunse

connotazioni ideologiche mutevoli fino a giungere all'islamismo. Essenzialmente furono

i caratteri del movimento generale che determinarono i caratteri specifici del movimento

femminista e, in questo senso, furono fondamentali, nella storia del movimento

femminile di questi due paesi, le organizzazioni studentesche. Se in Italia il movimento

degli studenti diede quadri, esperienza e peso politico alla nuova sinistra, in Egitto il

successo delle associazioni studentesche, inizialmente di ispirazione marxista o religiosa

e in seguito solamente di questa seconda categoria, era dovuto alla loro capacità di

identificare le cause del disagio e proporre soluzioni alternative di fronte a una totale

incapacità statale. Il legame tra teorizzazioni del movimento studentesco e femminismo

in Egitto è chiaro se si pensa che, a fronte di un movimento degli studenti basato su un

riformismo islamico, le donne scelsero di conciliare i propri bisogni con la religione e,

in quest'ottica, chiesero riforme da inserire in un contesto strettamente islamico. In Italia

il movimento studentesco ebbe, invece, per lungo tempo, velleità rivoluzionarie e

pratiche anti-autoritarie e anti-clericali che vennero assunte anche dal movimento

femminista. Il laicismo e l'anticlericalismo, fortemente connessi con la natura comunista

di molti gruppi, venivano considerate basi fondanti della lotta per la liberazione della

donna e la Chiesa venne vista, da gran parte del movimento, come ostacolo

all'emancipazione. Il femminismo laico ebbe, invece, poca rilevanza nell'Egitto di

quegli anni per cause diverse, ma fortemente correlate: la sconfitta nella Guerra dei Sei

Giorni fece perdere fiducia nel modello socialista nasseriano e nella laicità

122

propagandata in esso; la protesta degli studenti, forza propulsiva del movimento

femminile, fu intrisa di messaggi islamici; il femminismo in generale, e quello laico in

particolare, venne considerato un prodotto esclusivamente occidentale da rifiutare

prioritariamente in quanto mezzo coloniale di dominazione imperialista. Questo fece sì

che, per lungo tempo, il femminismo rimase, in Egitto, un fenomeno di poche militanti

mentre in Italia, grazie agli eventi contingenti, il femminismo divenne fenomeno di

massa e le proteste furono organizzate e continuative. Questo durò fino agli anni Ottanta

quando, in Egitto, lo spostamento verso gruppi islamici e il totale abbandono del

femminismo laico costituì il vero salto di qualità della mobilitazione e, in Italia,

l'approvazione della legge sull'aborto segnò la fine del femminismo come era stato

concepito in quel decennio.

Esistono, a mio parere, vari ordini di problemi che hanno impedito al femminismo di

questi due paesi di ottenere un mutamento radicale e definitivo della condizione della

donna. Nel caso dell'Egitto, a fronte della totale inesistenza di un'opposizione laica,

l'islamismo è stato visto come unico sbocco credibile per la protesta delle donne.

L'adesione ad un movimento dichiaratamente religioso ha, però, dei rilevanti problemi

di fondo in quanto, in primo luogo, esclude chiunque non appartenga a quella

determinata confessione, in secondo luogo, legittima una definizione dogmatica dei

diritti che non permette cambiamenti e, infine, ratifica una gerarchia di ruoli tra uomo e

donna che, pur essendo più equa, non è uguaglianza. Nel caso italiano, invece, il

pensiero della differenza e l'esasperata centralità della sessualità, hanno portato le donne

a chiudersi in gruppi di analisi sempre più piccoli, privi di contatto con la realtà sociale

e senza alcun progetto di cambiamento organico della società. Solo attraverso il

mutamento radicale della struttura sociale sarebbe stato possibile, invece, ottenere

cambiamenti sostanziali e duraturi della condizione della donna. Le conquiste legali ed

economiche di uguaglianza tra uomini e donne non possono cambiare le condizioni

materiali di subordinazione della donna se il patriarcato permane. Per le donne,

l'emancipazione non può essere ottenuta, dunque, attraverso la semplice garanzia di

alcuni diritti, ma solamente attraverso la ristrutturazione dei rapporti sociali tra

individui. La mancanza di tutto questo fa sì che, per quanto parlare di femminismo oggi

possa sembrare anacronistico, ci si accorga che sarebbe ancora necessario un

movimento delle donne che faccia fronte alla deriva conservatrice e patriarcale della

società. Mentre in Italia nascono leggi-sicurezza per difendere le donne dalle violenze in

123

strada, in Egitto si propaganda il ritorno del velo come unico modo per proteggere le

donne entrate massicciamente nello spazio pubblico. L'immagine della donna come

madre e moglie da tutelare e preservare dall'esterno, dunque, permane e, se da una parte

si centra l’interesse sulla donna in quanto vittima di violenza, dall’altra si offrono

protettori e cavalieri senza che questo possa modificare realmente le basi

dell’oppressione. Il patriarcato non è, infatti, superabile solamente attraverso

l'ottenimento della piena indipendenza economica o con la riorganizzazione su basi

collettive della cura della casa e dei bambini che svincoli la donna dall'ambito

domestico, ma è necessaria un'educazione all'eguaglianza che veicoli il rispetto tra

uomo e donna.

124

ALLEGATO A

Declaration of Sentiments and Resolutions

Seneca Falls Convention1

1848

prepared by Elizabeth Cady Stanton.

When, in the course of human events, it becomes necessary for one portion of the

family of man to assume among the people of the earth a position different from that

which they have hitherto occurred, but one to which the laws of nature and of nature's

God entitle them, a decent respect to the opinions of mankind requires that they should

declare the causes that impel them to such a course.

We hold these truths to be self-evident: that all men and women are created equal; that

they are endowed by their Creator with certain inalienable rights; that among these are

life, liberty, and the pursuit of happiness; that to secure these rights governments are

instituted, deriving their just powers from the consent of the governed. Whenever any

form of government becomes destructive of these ends, it is the right of those who

suffer from it to refuse allegiance to it, and to insist upon the institution of a new

government, laying its foundation on such principles, and organizing its powers in such

form, as to them shall seem most likely to effect their safety and happiness. Prudence

indeed, will dictate that governments long established should not be changed for light

and transient causes and accordingly all experience hath shown that mankind are more

disposed to suffer, while evils are sufferable, than to right themselves by abolishing the

forms to which they were accustomed. But when a long train of abuses and usurpations,

pursuing invariably the same object evinces a design to reduce them under absolute

despotism, it is their duty to throw off such government, and to provide new guards for

their future security. Such has been the patient sufferance of the women under this

government, and such is now the necessity which constrains them to demand the equal

station to which they are entitled.

The history of mankind is a history of repeated injuries and usurpations on the part of

man toward woman, having in direct object the establishment of an absolute tyranny

over her. To prove this, let facts be submitted to a candid world.

He has never permitted her to exercise her inalienable right to the elective franchise.

1 http://womenshistory.about.com/od/suffrage1848/a/seneca_declartn.htm

125

He has compelled her to submit to laws, in the formation of which she had no voice.

He has withheld from her rights which are given to the most ignorant and degraded

men--both natives and foreigners.

Having deprived her of this first right of a citizen, the elective franchise, thereby leaving

her without representation in the halls of legislation, he has oppressed her on all sides.

He has made her, if married, in the eye of the law, civilly dead.

He has taken from her all right in property, even to the wages she earns.

He has made her, morally, an irresponsible being, as she can commit many crimes with

impunity, provided they be done in the presence of her husband. In the covenant of

marriage, she is compelled to promise obedience to her husband, he becoming, to all

intents and purposes, her master--the law giving him power to deprive her of her liberty,

and to administer chastisement.

He has so framed the laws of divorce, as to what shall be the proper causes, and in case

of separation, to whom the guardianship of the children shall be given, as to be wholly

regardless of the happiness of women, the law, in all cases, going upon a false

supposition of the supremacy of man, and giving all power into his hands.

After depriving her of all rights as a married woman, if single, and the owner of

property, he has taxed her to support a government which recognizes her only when her

property can be de profitable to it.

He has monopolized nearly all the profitable employments, and from those she is

permitted to follow, she receives but a scanty remuneration. He closes against her all the

avenues to wealth and distinction which he considers most honorable to himself. As a

teacher of theology, medicine, or law, she is not known.

He has denied her the facilities for obtaining a thorough education, all colleges being

closed against her.

He allows her in Church, as well as State, but a subordinate position, claiming Apostolic

authority for her exclusion from the ministry, and, with some exceptions, from any

public participation in the affairs of the Church.

He has created a false public sentiment by giving to the world a different code of morals

for men and women, by which moral delinquencies which exclude women from society,

are not only tolerated, but deemed of little account in man.

He has usurped the prerogative of Jehovah himself, claiming it as his right to assign for

a sphere of action, when that belongs to conscience and to her God.

126

He has endeavored, in every way that he could, to destroy her confidence in her own

powers, to lessen her self-respect, and to make willing to lead a dependent and abject

life. Now, in view of this entire disfranchisement one-half the people of this country,

their social and religious degradation--in view of the unjust laws above mentioned, and

because women do feel themselves aggrieved, oppressed, and fraudulently deprived of

their most sacred rights, we insist that they have immediate admission to all the rights

and privileges which long to them as citizens of the United States.

In entering upon the great work before us, we anticipate no small amount of

misconception, misrepresentation, and ridicule; but we shall use every instrumentality

within our power to effect our object. We shall employ agents, circulate tracts, petition

the State and National legislatures, and endeavor to enlist the pulpit and the press in our

behalf. We hope this Convention will be followed by a series of Conventions embracing

every part of the country.

(Lucretia Mott, Thomas and Mary Ann McClintock, Amy Post, Catharine A. F.

Stebbins, and others, discussed these resolutions, which were later adopted.)

WHEREAS, The great precept of nature is conceded to be, that "man shall pursue his

own true and substantial happiness." Blackstone in his Commentaries remarks, that this

law of Nature being coeval with mankind, and dictated by God himself, is of course

superior in obligation to any other. It is binding over all the globe, in all countries and at

all times; no human laws are of any validity if contrary to this, and such of them as are

valid, derive all their force, and all their validity, and all their authority, mediately and

immediately, from this original; therefore,

Resolved, That such laws as conflict, in any way, with the true and substantial

happiness of woman, are contrary to the great precept of nature and of no validity, for

this is "superior in obligation to any other."

Resolved, That all laws which prevent woman from occupying such a station in society

as her conscience shall dictate, or which place her in a position inferior to that of man,

are contrary to the great precept of nature, and therefore of no force or authority.

Resolved, That woman is man's equal--was intended to be so by the Creator, and the

highest good of the race demands that she should be recognized as such.

Resolved, That the women of this country ought to be enlightened in regard to the laws

under which they live, that they may no longer publish their degradation by declaring

themselves satisfied with their present position, nor their ignorance, by asserting that

127

they have all the rights they want.

Resolved, That inasmuch as man, while claiming for himself intellectual superiority,

does accord to woman moral superiority, it is pre-eminently his duty to encourage her to

speak and teach, as she has an opportunity, in all religious assemblies .

Resolved, That the same amount of virtue, delicacy, and refinement of behaviour that is

required of woman in the social state, should also be required of man, and the same

transgressions should be visited with equal severity on both man and woman.

Resolved, That the objection of indelicacy and impropriety, which is so often brought

against woman when she addresses a public audience, comes with a very ill-grace from

those who encourage, by their attendance, her appearance on the stage, in the concert, or

in feats of the circus.

Resolved, That woman has too long rested satisfied in the circumscribed limits which

corrupt customs and a perverted application of the scriptures have marked out for her,

and that it is time she should move in the enlarged sphere which her great Creator has

assigned her.

Resolved, That it is the duty of the women of this country to secure to themselves their

sacred right to the elective franchise.

Resolved, That the equality of human rights results necessarily from the fact of the

identity of the race in capabilities and responsibilities.

Resolved, therefore, That, being invested by the Creator with the same capabilities, and

the same consciousness of responsibility for their exercise, it is demonstrably the right

and duty of woman, equally with man, to promote every righteous cause by every

righteous means, and especially in regard to the great subjects of morals and religion, it

is self-evidently her right to participate with her brother in teaching them, I both in

private and in public, by writing and by speaking, by any instrumentalities proper to be

used, and m any assemblies proper to be held; and this being a self-evident truth

growing out of the divinely implanted principles of human nature, any custom or

authority adverse to it, whether modern or wearing the hoary sanction of antiquity, is to

be regarded as a self-evident falsehood, and at war with mankind

Resolved, That the speedy success of our cause depends upon the zealous and untiring

efforts of both men and women, for the overthrow of the monopoly of the pulpit, and for

the securing to woman an equal participation with men in the various trades,

professions, and commerce.

128

BIBLIOGRAFIA

MONOGRAFIE

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