Il domicilio di soccorso e altre questioni: spunti per uno studio sulle anagrafi e la mobilità...
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Stefano Gallo
Il domicilio di soccorso e altre questioni: spunti per uno studio sulle anagrafi e la
mobilità territoriale interna in Italia tra fine ‘800 e fascismo
La statistica fu paragonata alla fotografia e sta bene;
ma, in fotografia, un uomo aggrappato ad un masso,
mezzo metro più su del livello stradale, può apparire un ardito scalatore.
Basta che non si veda la strada.
(Giusti 1945, 8)
Gli spostamenti e le loro tracce
La mobilità territoriale costituisce un terreno di studio di particolare delicatezza per chi
si occupa di demografia: non esistono infatti criteri univoci per definire e misurare gli
spostamenti e tutti i tentativi sono condannati a una inevitabile parzialità. L’evento alla
base di ogni registrazione sta nell’incontro tra una persona che abbia attraversato un
qualsiasi tipo di confine e una istituzione che prenda nota di questo evento e che ne
renda disponibile l’utilizzo a fine statistico. Non sempre questo contatto avviene, per la
natura stessa di un passaggio che non lascia la traccia, o perché gli attori in gioco si
adoperano perché questo non venga annotato. I risultati raggiunti costituiscono delle
approssimazioni più o meno valide a seconda delle condizioni concrete di raccolta delle
informazioni: quello migratorio è quindi da considerare come fenomeno sociale in
senso ampio, in cui non è possibile trascurare i rapporti che corrono tra chi misura e chi
è misurato, il ruolo che l’uno ha nei confronti dell’altro.
La stessa definizione dell’oggetto di studio, il ‘migrante’, è incerta e variabile: all’inizio
del Novecento per la legislazione italiana era emigrante all’estero chi viaggiava con un
biglietto di terza classe, non gli altri (Ostuni 2001); oggi è considerato ‘straniero’ dallo
Stato italiano, e quindi soggetto a determinate politiche di immigrazione, solo chi
proviene dai paesi non appartenenti alla Comunità Europea. Non si svela niente di
nuovo nel dire che dietro le definizioni della statistica stanno preoccupazioni e
attenzioni sociali e che queste sono particolarmente forti per il campo migratorio. Ma se
il discorso può essere relativamente conosciuto per quel che riguarda gli spostamenti
che varcano le frontiere, meno è stato scritto sulla mobilità interna, quella che non vede
cambiare le bandiere e che non coinvolge autorità statali diverse. In questo caso le
definizioni appaiono più neutre, spogliate da connotazioni di ceto o provenienza: lo
spostamento da un comune a un altro costituirebbe di per sé un evento significativo,
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contribuendo a formare l’indice della mobilità interna di un paese. Quando poi ci si
accorge dell’esistenza di imponenti trasferimenti, di lunga distanza o con direzioni
costanti (montagna-pianura, campagna-città), si parla di flussi migratori interni, di
esodo rurale, e di fenomeni sociali da analizzare e interpretare. Le basi statistiche
provengono dai due maggiori strumenti in campo demografico, i censimenti e i registri
anagrafici. Si tratta di due registrazioni differenti (a grandi linee la prima misura lo
stock, la seconda i flussi), ma il rapporto tra queste due fonti è molto stretto, come
notava già nel 1873 il Ministro dell’Agricoltura, del Commercio e dell’Industria,
presentando il nuovo regolamento anagrafico: «il registro di popolazione, mentre da un
lato s’impianta e mette radice nei risultati del censimento, dall’altro si riannoda e trae
partito dai registri dello stato civile; le tre istituzioni si collegano in un insieme
armonico e compiono il sistema della demografia» (GU 20-5-1873)1.
‘Sistema integrato’ quindi, che non potrebbe funzionare se non in accordo con le altre
sue parti: censimento e registri comunali facevano (e fanno ancora) appoggio l’uno
sull’altro per verificarsi e completarsi, di modo che le pecche e le mancanze dell’uno
possano correggersi col confronto con l’altro, a condizione che questo non ripeta le
stesse pecche e le stesse mancanze.
Anche l’utilizzo dei registri di popolazione come fonti dirette è stato sottoposto al
vaglio critico degli studiosi di migrazioni: non bastano i cambiamenti di residenza per
comprendere le caratteristiche della mobilità territoriale, a volte neanche per registrarla.
Negli anni Cinquanta il demografo svedese Torsten Hägerstrand affermava come il
basare le analisi esclusivamente sui registri perpetuasse una visione errata delle
migrazioni, puntiforme e statica («the dot-maps give a static picture, as if each
individual has his given place»), e non consentisse di seguire gli spostamenti all’interno
di una stessa cellula di osservazione (il comune, la parrocchia), mentre la raffigurazione
più adeguata sarebbe stata un sistema di iso-linee basato sui cambiamenti dei centri di
interesse e attività di ogni individuo (Hägerstrand 1957). Secondo lo schema elaborato
da Pierre-Jean Thumerelle il luogo di residenza è solo il centro convenzionale di uno
spazio di vita più ampio che comprende tutta una serie di luoghi di interesse tra cui si
effettuano degli spostamenti abituali. La modifica di questo centro convenzionale non
1 Il corsivo è mio. Nel testo si sono utilizzate le seguenti abbreviazioni, seguite dalla data di pubblicazione o della registrazione: GU per «Gazzetta Ufficiale», AP per «Atti Parlamentari – Camera dei Deputati – Discussioni», SC per «Lo Stato Civile Italiano». Per questi ultimi due ho preferito dare l’indicazione completa anche delle pagine per facilitarne una eventuale consultazione. La «Gazzetta Ufficiale» non ha una numerazione coerente, per cui è stata segnalata solo la data di uscita del fascicolo.
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può essere messa in relazione diretta e immediata con la modifica del proprio spazio di
vita (Thumerelle 1986). Queste osservazioni sono state raccolte e ampliate da Paul-
André Rosental, che ha anche provveduto ad applicarle all’interno di un ambizioso
progetto sulla mobilità interna nella Francia dell’Ottocento: la critica veniva rivolta ora
agli studi di demografia storica che utilizzano la residenza degli individui come base per
lo studio delle migrazioni, senza considerare come sia riduttiva tale ottica. Utilizzare
solo il cambiamento di residenza per determinare la misura e la qualità degli
spostamenti porta a forzare la varietà dei casi all’interno di un unico modello, composto
da singoli atomi indipendenti (individui o nuclei familiari) che operano dei passaggi
netti da un luogo a un altro, in un istante preciso nel tempo. Non è così nella realtà: la
scelta di spostarsi va collocata in un contesto relazionale maggiore rispetto a un nucleo
familiare ristretto, in uno spazio di riferimento più largo di un solo punto, in un tempo
che comprende anche la storia dei propri familiari e delle persone vicine (Rosental
1999). C’è pure chi ha sottolineato come la nozione di residenza per lo studio della
mobilità ha senso solo se applicata a persone abitualmente sedentarie, ma perde la presa
con la realtà dal momento in cui esaminiamo casi che si allontanano da un determinato
modello sociale di esistenza: «ethnocentric assumptions inherent in migration
definitions result in culturally biased notions of how and why human spatial movement
occurs. […] Estimates of differentials and rates may be skewed because of systematic
exclusion along age, income, or racial lines» (Behr, Gober 1982, 181). Gli esempi
portati dai due geografi statunitensi in questione percorrono tutto lo spettro dei casi che
si allontanano da un immagine media di modello familiare occidentale tradizionalista:
famiglie bipolari, comunità nere dei quartieri poveri nel Midwest, nativi americani,
homeless, …
Queste indicazioni ci possono essere utili se ci caliamo nel contesto dei recenti studi
migratori italiani: la direzione presa negli ultimi anni dalle ricerche più avvertite va
verso l’ampliamento del modello tradizionale di esperienza migratoria, grazie a
un’attenzione maggiore ai processi di lungo periodo, alla dimensione familiare e
relazionale, alle esperienze di mobilità a breve raggio o alle migrazioni temporanee e
periodiche, al ruolo femminile nei progetti migratori. I passi avanti fatti in questo senso
vedono in prima fila approcci di taglio antropologico e microstorico, maturati poi nella
proposta delle analisi di rete, nell’attenzione alla dimensione relazionale soggettiva
(Gribaudi 1987; Arru, Ramella 2003; Corti 2005). Sono tutti elementi, questi, messi in
ombra dalla stessa organizzazione burocratica che ruota intorno all’attribuzione della
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residenza, come in parte abbiamo già rilevato. Gli spostamenti stagionali o di corta
distanza non venivano neanche registrati dalle anagrafi; le persone non stanziali, che
formavano la cosiddetta popolazione ‘avventizia’ o ‘mobile’, furono escluse
dall’iscrizione con il regolamento del 1901, per le grandi difficoltà che questo tipo di
incombenza portava al lavoro dei comuni2. Spesso i trasferimenti definitivi all’estero o
verso altri comuni non venivano neanche segnalati dagli interessati, per dimenticanza o
per la volontà di non tagliare un legame concreto, per quanto formale, con il luogo di
origine. Spesso erano gli stessi funzionari comunali a lamentarsene: «si è rilevato che
una notevole quantità di persone risultano da oltre otto o dieci anni, ed anche più,
emigrate per altri Comuni, ed anche all’Estero, mentre figurano tuttora iscritte in questo
R. d. P. [registro di popolazione]. Per moltissime di dette persone s’ignora perfino il
luogo per dove emigrarono» (SC 1-7-1930, 111).
La cancellazione di queste persone poteva avvenire solo d’ufficio, se un impiegato
solerte e puntiglioso si interessava alla situazione. Ma prendiamo anche la questione del
genere: secondo i regolamenti anagrafici era necessaria la richiesta del capo famiglia
per permettere il trasferimento della residenza degli altri membri familiari; capitava che
questo tipo di disposizioni portasse a situazioni come quella descritta a inizio
Novecento dall’ufficiale di stato civile di Fermo: «La famiglia Isidori, composta del
capo, della moglie e di quattro figli, da circa 5 anni si è stabilita in Milano; il capo di
essa, però, Isidori Cristiano, da tempo più lungo si è allontanato, senza avere mai dato
notizie di sé alla famiglia e si suppone trovisi in America». Alla richiesta di iscrizione
anagrafica della famiglia nei registri milanesi, il comune rispose con un netto rifiuto: «si
avverte il Sindaco di Fermo che non avendo il capo famiglia residenza in questo
Comune e trovandosi in America, questo ufficio non può procedere alla iscrizione della
moglie e de’ figli minorenni, dovendo i medesimi seguire la residenza del rispettivo
marito e padre. Osservasi, inoltre, che non si può far figurare come capo famiglia la
moglie, in quanto che la medesima non può essere investita di tale carica, mancando
documenti ufficiali comprovanti la mancanza del marito» (SC 15-6-1904, 190).
2 Non è mia intenzione tracciare una storia istituzionale della tenuta del registro di popolazione in Italia, per cui sarebbe necessario prendere in esame una serie di dettagli tecnici che qui verranno solo accennati. Un lavoro del genere è stato fatto sui censimenti della popolazione (Pravato 1990). Per fornire tuttavia dei punti di riferimento ricordo che dall’Unità ad oggi sono stati emessi sei regolamenti anagrafici, contenuti nelle seguenti norme: R. D. 31 dicembre 1864, n. 2105; R. D. 4 aprile 1873, n. 1363; R. D. 21 settembre 1901, n. 445; R. D. 2 dicembre 1929, n. 2123; D. P. R. 31 gennaio 1958, n. 136; D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223. Soprattutto i primi regolamenti costituivano delle indicazioni di base, degli standard minimi che potevano essere integrate con le pratiche e i bisogni dei comuni più organizzati.
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Si tratta di contrasti che compaiono non di rado nelle pagine delle riviste di
amministrazione comunale: per quanto la legge consentisse alle mogli di assumere il
ruolo di capo famiglia, la prassi tendeva a delegare all’uomo la sfera delle relazioni con
la burocrazia, con una conseguente probabile sottorappresentazione del ruolo
femminile3. La capacità giuridica femminile venne riconosciuta solo dopo la prima
guerra mondiale.
La visione che si ha delle migrazioni è pesantemente condizionata dalle condizioni
storiche di raccolta dei dati, ne riproduce gli stessi schemi mentali, le inquadra nelle
stesse categorie, almeno fino al momento in cui non si affaccia un differente tipo di
sensibilità, che rovesci i luoghi comuni consolidati e proponga altre piste di ricerca.
Il sistema anagrafico e la qualità dei dati
Le anagrafi non possono dunque essere considerate una fonte statistica ‘completa’ per
un’analisi delle caratteristiche della mobilità territoriale. Lo ricordava già Nora Federici
nel suo classico manuale di demografia: «Anche ammesso per ipotesi che le
registrazioni anagrafiche fossero dovunque e in ogni caso sicuramente attendibili, esse
non potrebbero fornirci che una misura degli spostamenti di residenza, i quali, in verità,
non corrispondono esattamente alle migrazioni interne definitive […] e tanto meno
comprendono tutte le migrazioni interne». Tra i casi segnalati di completo ‘buio
statistico’, per cui bisognava fare ricorso ad altri tipi di fonti, le «correnti migratorie a
carattere ricorrente (giornaliero, settimanale, stagionale)» (Federici 1960, 400). Eppure
un tentativo per includere nelle schede anagrafiche anche questa mobilità fluida e meno
afferrabile era stato fatto. Quando il giovane stato italiano decise di istituire
l’organizzazione del sistema anagrafico su tutto il territorio nazionale, e di non lasciarlo
a discrezione delle varie autorità cittadine come fece la maggior parte degli altri stati
europei, l’intento era proprio quello di poter seguire tutti gli spostamenti sul territorio, o
almeno la maggior parte possibile. Infatti, dopo aver regolato la tenuta dello stato civile,
che registrava le nascite e le morti, ovvero il movimento naturale della popolazione,
«rimaneva tuttavia inesplorata la parte non meno importante del movimento, che può
chiamarsi sociale, poiché proviene dallo spostamento delle famiglie per ragione di
commerci, di uffici, o di spontanee elezioni. Ma per raggiungere codesto fine, che solo 3 Un discorso analogo può essere fatto per i minorenni, per i quali era necessaria per l’iscrizione una richiesta scritta del padre, e per i domestici, la cui registrazione avveniva nello stesso foglio della famiglia presso la quale prestavano servizio. Anche l’autorizzazione ad emigrare all’estero dipendeva per le donne sposate dall’assenso del marito (Ostuni 2001, 311).
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poteva dare completa la serie dei fatti per cui si avvicendano le generazioni e si
rimescolano le popolazioni, occorreva istituire in ciascun Comune un esatto registro di
popolazione, nel quale si dovessero, volta per volta, annotare tutte le variazioni e le
spostature che avvengono nello Stato delle persone e delle famiglie, onde avere un
censimento, per così dire, diuturno e perpetuo della popolazione» (GU 23-1-1865). Con
queste parole venne varato il primo decreto sulla tenuta dei registri della popolazione
del 1864, poi perfezionato nel 1873, in cui si sancivano le caratteristiche fondamentali
che sarebbero state conservate anche nei decenni successivi: collegamento con lo stato
civile, duplice denuncia in caso di spostamento al comune di emigrazione e a quello di
immigrazione, verifiche periodiche dei registri, accertamenti di ufficio della loro
rispondenza alla realtà. Per la popolazione mobile vennero poi previste delle schede
speciali, di diverso colore, da conservare in uno schedario a parte, in cui segnare «tutti
coloro che, senza avere nel comune la residenza, vi dimorano per più di un mese» (art.
29 del Regio Decreto 4 aprile 1873, n. 1363). Queste disposizioni avrebbero dovuto dar
vita al servizio anagrafico più avanzato d’Europa, come era nelle intenzioni del loro
principale artefice, l’appena nominato Direttore della Statistica Luigi Bodio, il quale
condivideva con il belga Quetelet, promotore dello sviluppo della statistica continentale,
un’idea alta dei fini scientifici di conoscenza demografica del registro di popolazione
(Marucco 1996; Randeerad 1996).
Ma il preteso «censimento diuturno e perpetuo» doveva andare incontro a una serie di
ostacoli che ne minarono l’affermazione. Prima fra tutte le difficoltà da parte dei
comuni, soprattutto i più piccoli e i rurali, di instaurare e mantenere un sistema che
aveva bisogno di un discreto grado di organizzazione ed energie, nonché di un minimo
livello culturale. Carlo Corsini, in un saggio sul «processo formativo
dell’organizzazione delle fonti demografiche», ha mostrato il nesso tra alfabetizzazione
e qualità della raccolta dei dati, sottolineando le differenze territoriali presenti nel paese,
tra nord e sud, tra città e campagna, non attenuate dalla politica scolastica italiana, per
cui si può parlare in questo caso di «acculturazione mancata» (Corsini 1985)4. Il
regolamento del 1901, in uno dei momenti più difficili per la storia della statistica
pubblica italiana, faceva un netto passo indietro nel cammino verso un utilizzo
scientifico ampio dei dati dei registri di popolazione. Disattese quelle aspirazioni troppo
ambiziose per la realtà dei fatti, si ammise l’impossibilità di fare delle anagrafi uno 4 Correnti, in una lettera citata da Corsini, parlava della statistica come di una «confessione sociale» (Corsini 1985, 116).
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strumento di conoscenza statistica ‘completa’: ai comuni si chiedeva solo la
registrazione dei cittadini stanziali. Il decreto regio veniva presentato con queste parole:
«Se si deve rinunciare a chiedere al registro di popolazione ciò che esso non potrà mai
indicare con precisione, cioè quanta sia la popolazione reale di ciascun comune che solo
il censimento può ad un dato momento contare e far conoscere, esso deve rimanere
come strumento statistico per seguire le vicende di quella parte della popolazione, la più
numerosa ed insieme la più facile a rilevarsi, che è la popolazione stabile» (cit. in Leti
2002, 9). Veniva abolita così l’obbligatorietà dello schedario per gli abitanti non
stanziali, anche se il bisogno di un rilevamento, per quanto sommario, della tradizionale
«inquietudine territoriale» della numerosa popolazione rurale italiana (Sori 2001) non
veniva meno: la macchina statale avrebbe comunque continuato, in maniere diverse, a
interrogarsene.
Dal punto di vista dell’affidabilità dei dati, anche semplificando le rilevazioni da
compiersi, le cose non migliorarono di molto. Il sistema anagrafico, come «spina
dorsale di tutti i servizi politico-amministrativi e sociali» (Pagni 1960, 6), trovandosi
nelle mani del municipio, aveva spesso come primo obiettivo il buon funzionamento
della stessa macchina comunale, in una sorta di autoreferenzialità difficile da
scardinare: l’interesse statistico poteva rimanere subordinato, quando non addirittura
intenzionalmente piegato, agli interessi locali. L’evento burocratico della concessione
della residenza in un nuovo comune, atto che implica l’iscrizione del cittadino
interessato all’interno del registro di popolazione locale, modificando il numero degli
appartenenti al comune ne condizionava tutta una serie di norme relative a questioni
elettorali, finanziarie, assistenziali, ecc… Spesso la scarsa affidabilità dei dati non era
dovuta a carenze culturali o a insormontabili difficoltà oggettive, quanto a un calcolo
preciso: è il caso di quei comuni che per ottenere maggiori contributi statali e garantirsi
tutta una serie di privilegi, usavano ‘gonfiare’ le cifre della popolazione. Ugo Giusti,
responsabile della revisione dei risultati del censimento del 1921, constatava come
questo fenomeno fosse diffuso soprattutto nel Meridione, «non soltanto profittando
della facile scappatoia di una abbondante registrazione di assenti all’estero con
presunzione di ritorno, ma altresì aggiungendo persone inesistenti a quelle trovate
presenti alla data del censimento»:a Foggia, che dichiarava 90 mila abitanti, ne
risultavano dopo i controlli appena 67 mila, Siracusa passava da quasi 65 mila a meno
di 50 mila, solo per citare due dei casi più eclatanti. In questi casi, rilevava Giusti, «alle
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abusive aggiunte va unita molto spesso una rilevazione così negligente, da trascurare
parte della popolazione realmente esistente nel Comune al momento del Censimento»
(Giusti 1930, 63). Alle persone in carne ed ossa, che potevano richiedere assistenza e
protezione dal comune e il cui rilevamento costava soldi e tempo, venivano sostituiti
cittadini fittizi, estremamente più comodi e che consentivano comunque di varcare il
numero che delimitava il confine delle classificazioni comunali. Disfunzioni, queste,
che non si limitavano al momento del censimento, ma che erano abituali anche in fase
anagrafica, attraverso la comoda pratica di non cancellare gli emigrati all’estero o in
altri comuni5. Negli anni del boom economico del secondo dopoguerra questo fenomeno
assunse proporzioni notevoli: 700.000 persone che risultavano residenti all’anagrafe
prima del censimento del 1961 si erano in realtà trasferite all’estero. «Questa
discrepanza […] in gran parte si originava dalla interpretazione restrittiva che gli
ufficiali di anagrafe di alcuni comuni interessati per vari motivi a nascondere l’esodo
della loro popolazione, davano alle norme sulla cancellazione anagrafica per gli
emigrati» (Parenti 1994, 89), obbligatoria solo per gli emigrati ‘definitivi’, qualunque
cosa potesse significare questa espressione6. Fenomeno questo che, misto a
inadempienze e imprecisioni, si è continuato a ripetere fino a periodi recentissimi: nel
censimento del 1991, la popolazione registrata in anagrafe dal comune di Napoli
risultava del 13% maggiore di quella risultante dal censimento, quella di Messina
addirittura del 18,9% (Leti 2002, 23).
Da una parte una ridefinizione dei compiti del sistema anagrafico, tra fine Ottocento e
inizio Novecento, dovuta a dei limiti oggettivi, per quanto dipendenti da precise
condizioni storiche, dall’altra dei comportamenti di lungo periodo che tendono a
modificare in eccesso la consistenza della popolazione: si tratta di due esempi che
illustrano l’influenza diretta che l’impianto di registrazione può avere sulla qualità dei
dati, in quanto già portatore in sé di precisi interessi e caratteri (semplificazioni nella
raccolta o interferenze di interessi amministrativi). Nella storia dell’anagrafe, dalla sua
5 Pratica che poteva riguardare anche comuni interessati da notevoli flussi migratori in ingresso, come per il caso di Terni nei primi decenni del ‘900: «sembra possibile ammettere che un certo rigonfiamento delle statistiche della popolazione sia determinato dall’orgoglio cittadino per il rapidissimo sviluppo conosciuto a seguito dell’intenso processo di industrializzazione nonché dall’aspirazione ad un miglior decentramento, nell’ambito regionale, degli organi periferici dello Stato» (Covino, Gallo, Tittarelli 1985, 419). 6 Parenti rileva come in quel periodo questioni del genere, inserite nei meccanismi profondi della macchina giuridica e amministrativa, sfuggissero alla competenza del Consiglio Superiore di statistica, organo molto «professorale» (Parenti 1994, 89). Il più delle volte tali problemi spettavano direttamente ai reparti responsabili dell’Istat.
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affermazione nel contesto unitario allo scoppio del secondo conflitto, è mia opinione
che si possano individuare almeno altri due grandi cambiamenti, originati da
disposizioni a livello nazionale nei campi della sanità e del lavoro, nel significato che
questo ufficio rivestì per la vita dei municipi e per i loro rapporti con i poteri centrali:
uno occorso tra fine ‘800 e inizio ‘900, in corrispondenza del rafforzarsi del ‘welfare
municipale’, l’altro a partire dalla seconda metà degli anni venti, veicolato dalla politica
antiurbana del regime.
I comuni e le spese di spedalità
La riforma voluta da Crispi a fine Ottocento sull’assistenza sanitaria e l’ordinamento
delle opere di beneficenza impostava un sistema nazionale in cui rilevante era il ruolo
affidato agli enti locali7, come era stato affermato dallo stesso ministro in parlamento:
«È il comune che deve pensare ai suoi poveri, e non si può fare altrimenti. Volete forse
che lo Stato si incarichi anche di queste spese? Allora faremmo uno Stato socialista; ed
a me questo non piace» (cit. in Detti 1993, 76). Lo Stato decretava la cornice giuridica
all’interno della quale si dovevano svolgere i rapporti tra i comuni, i medici condotti e
gli istituti di ricovero (di cui si cercava di semplificare e uniformare gli statuti).
L’intenzione era quella di instaurare una sistema di beneficenza capace di integrare
dimensione locale e quadro nazionale. Un aspetto della riforma del 1890 ci interessa in
particolare, quello relativo al domicilio di soccorso, ovvero allo spinoso problema delle
spese relative al ricovero degli indigenti non appartenenti al comune. Ogni municipio
provvedeva a pagare le cure per gli abitanti iscritti nelle liste dei poveri, attraverso
l’opera dei medici condotti all’interno dei propri confini, ma non era tenuto a sostenere
direttamente le spese degli ospedali locali per i ricoveri: questi infatti, se il degente
dimorava nel comune, prestavano gratuitamente il soccorso8. Le cose si facevano più
complesse quando si usciva dal territorio comunale. Uno degli aspetti più innovativi
della riforma era proprio quello di garantire per tutti l’accesso alle cure d’urgenza,
indipendentemente dal comune di appartenenza. Paolo Frascani ha parlato a questo
proposito di «un primo riconoscimento del diritto all’assistenza ospedaliera» (Frascani
1986, 131). Ma rimaneva da chiarire a chi andassero addebitate le spese sostenute per i
non residenti. Si poteva istituire per tutto il territorio nazionale l’assistenza gratuita? 7 Legge 17 luglio 1890, n. 6972. 8 Salvo «nelle provincie dove per legge o consuetudine sussista l’obbligo di rimborsare agli spedali la spesa dei rispettivi malati poveri, [dove] continua provvisoriamente tale obbligo» (articolo 97). Inoltre era in parte compito dei comuni integrare il bilancio delle opere, in caso di necessità.
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Nonostante fosse «nei voti di tutti che la beneficenza ospedaliera dovesse venire
prestata gratuitamente senza riguardo alla provenienza del malato: che cioè in nessun
caso avesse ad essere circoscritta entro confini di Comuni, di Provincie, di Regioni»
(GU 19-9-1896, 5025)9, questo «lodevole concetto […] incontrò non lievi ostacoli per le
difficoltà che si sarebbero create a molti ospedali» (AP 24-11-1899, doc. 44-a)10 e
soprattutto ai loro bilanci che ora venivano integrati dal municipio di appartenenza. Si
decise quindi per l’attribuzione delle spese al comune dell’ultima località nella quale il
ricoverato avesse trascorso cinque anni di dimora ininterrotta, grazie ai quali vi
conseguiva automaticamente il ‘domicilio di soccorso’. Se queste condizioni non
sussistevano o non potevano essere dimostrate, si ricorreva allora al comune di nascita.
Tale disposizione suscitò timori circa l’effettivo rispetto del diritto all’assistenza, come
quelli espressi dal deputato Dobelli durante il dibattito parlamentare: «Ora gli operai, i
quali si recano di regione in regione d’Italia, di Comune in Comune, possono finché
dura il lavoro, e questo lavoro può assicurare ad essi il sostentamento, provvedere alla
loro vita. Ma immaginate un momento di crisi, di repentina sospensione di lavori, e il
giorno in cui una turba di operai, si trova d’improvviso, gettata sul lastrico senza lavoro,
vi pare opportuno di domandare all’operaio, che si trova in queste condizioni e picchia
alle porte dell’Istituto di carità: ditemi se voi avete 5 anni di domicilio in questo
Comune? […] Prolungando il termine a cinque anni, noi veniamo a restringere per
l’operaio i limiti della patria, mentre quanti siamo qui dentro desideriamo che l’operaio
del nostro paese trovi aiuti e soccorsi colà dove egli col sudore della fronte presta la sua
opera» (AP 13-12-1899, 388-389).11
In realtà il soccorso in caso di urgenza era obbligatorio in tutti i casi per gli istituti di
beneficenza e il termine di cinque anni era già un dimezzamento di alcune regole in uso,
che prevedevano dieci anni di domicilio. Inoltre la prova della dimora effettiva evitava
che i comuni potessero interferire nell’appartenenza di alcuni strati popolari ai vari
municipi con delle scelte discutibili sul piano della nazione («i limiti della patria») e dei
principi di uno stato liberale: il soccorso doveva essere un diritto del povero esteso
all’intero paese. In Lombardia, ad esempio, alcune disposizioni di epoca preunitaria
prevedevano il domicilio12 come criterio di appartenenza, ovvero una categoria giuridica
9 Relazione del Ministro dell’Interno al Re del 28 giugno 1896. 10 Relazione al disegno di legge 44-A presentata alla Camera il 24 novembre 1899. 11 Corsivo mio. 12 Per il domicilio, definito come il luogo dove la singola persona stabilisce la sede dei propri interessi, bastava una semplice dichiarazione all’ufficio dello stato civile: era infatti in questo registro che
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che dipendeva esclusivamente da dichiarazioni di intento dell’interessato e non
dall’accertamento di uno stato di fatto. Si potevano avere così due possibili tentazioni.
Se da una parte si constatava come fosse consuetudine che «amministratori del comune,
specialmente di comuni rurali, fac[essero] fare ad un povero la dichiarazione di
abbandono o di trasferimento del domicilio in qualche città per caricarne a questa il
mantenimento» (Camera 1889, 74), dall’altra c’era chi richiedeva la possibilità di porre
dei filtri alle porte stesse della città: nel 1877, discutendo del bilancio dell’ospedale
Maggiore di Milano aggravato dalla presenza dei forestieri, il medico comunale Monti
si pronunciava contro l’allargamento indiscriminato del diritto di ricovero di fronte alle
esigenze cittadine: «La legge deve opporre un valido margine a quel commovimento
che si manifesta oggidì nelle masse popolari, d’abbandonare indifferenti il proprio paese
per cercar ventura alla città. […] Si proclami pure essere libero il comune di accogliere
quell’onesto che sa e che può vivere dei suoi mezzi senza ledere l’altrui proprietà, e
d’escludere colui che non offre le necessarie guarentigie» (cit. in Frascani 1986, 131).
Meccanismi simili avvenivano in località dove si avevano dei contrasti di radice
nazionale, come nei territori dell’impero austriaco confinanti con l’Italia: gli emigranti
trentini che dalla Valsugana si recavano per lavoro nella più ricca regione del
Vorarlberg ottenevano la cittadinanza nel comune dopo dieci anni di dimora, prima dei
quali potevano essere allontanati se si fossero trovati senza risorse, proprio per non
gravare sull’assistenza comunale (Grandi 1997).
La dimora effettiva, criterio adottato per ottenere il domicilio di soccorso, doveva
probabilmente servire anche per evitare l’instaurarsi di meccanismi di questo tipo e
diminuire la soglia di discrezionalità in mano alle amministrazioni municipali. Restava
comunque una categoria incerta e mal definita, per cui si faceva spesso ricorso a quella
più precisa della residenza13, facilmente riscontrabile nelle liste di popolazione. Ma
come abbiamo visto non sempre la residenza rispondeva a una situazione reale. I casi di
non riconoscimento dell’effettività della dimora a causa della mancata iscrizione in
anagrafe erano molto frequenti, a volte eclatanti se coinvolgevano intere comunità di
lavoratori trasferiti da anni in un’altra città, come quella dei ciabattini di Salza Irpina
(Avellino) emigrati a Genova e che continuavano a pesare sul bilancio del comune di rimanevano segnati i cambi di domicilio e non in quello della popolazione, che doveva avere scopi statistici più che giuridico-amministrativi. 13 Il regolamento del 1901 includeva nella popolazione stabile, ovvero quella che andava iscritta nei registri, tutte le persone che passavano nel territorio comunale tutta o la maggior parte dell’anno, che avessero fatto dichiarazione o che vi avessero già trascorso almeno un anno senza «notevoli interruzioni» (art. 1).
12
origine. Se ne lamentava il sindaco, scrivendo al Ministero dell’Interno nell’aprile 1906:
«Una larghissima colonia di operai calzolai e ciabattini nati in questo Comune è da
molti anni stanziata in Genova con le rispettive famiglie. Quasi automaticamente
avviene che gli infermi sono ricoverati negli ospedali di Genova e quelle
Amministrazioni richiedono i rimborsi della spesa. […] Se questo principio e questo
sistema dovesse perdurare nel bilancio di questo piccolo Comune, dovrebbero stanziarsi
stabilmente almeno mille lire. Tutto il bilancio non supera le ottomila lire e sono in
corso le pratiche per essere il Comune ritenuto insolvente per tutti gli effetti di legge
[…] Se questo povero Comune non tiene mezzi per sostenere i servizi obbligatorii
locali, come potrebbe sostenere quest’altra spesa non lieve annuale e per giunta non
giustificata né in diritto né in fatto?» (ACS-2, b. 210).
È un caso che mostra la forza del principio dell’origine e dell’appartenenza anagrafica
rispetto alla fragilità delle constatazioni di fatto, su questioni di non poco conto per una
piccola amministrazione. Per Vicopisano, piccolo comune in provincia di Pisa su cui si
è svolta una ricerca specifica, la voce «Spesa per la cura dei malati negli ospedali» era
tutt’altro che secondaria: era aumentata dalle circa 5000 lire del 1890 alle 9400 lire del
1904, quando appare come la prima tra le spese, incidendo per il 22% sul totale delle
uscite (ASV, b. V/30). Nel 1909 il prefetto di Firenze parlava di incombenze ancora
maggiori nella sua provincia: «il numero delle giornate di presenza che ciascun Comune
ha pagato nell’ultimo quinquennio ai vari Ospedali […] è in progressivo aumento, […]
presso alcuni Comuni situati alla periferia di questo Capoluogo raggiunge cifre tali da
procurare alle rispettive amministrazioni una spesa pressochè insostenibile alle stremate
loro finanze, e che in alcuni di essi raggiunge il terzo dell’intiero bilancio» (ACS-2, b.
210, corsivo mio).
L’importanza della residenza nel determinare l’attribuzione della dimora di fatto
ultraquinquennale di una persona in un comune piuttosto che in un altro divenne ancora
maggiore a causa di una legge ad hoc per gli ospedali romani che andava proprio in
quella direzione. Nel 1896 infatti vide la luce una norma che aboliva la tradizionale
gratuità del ricovero a Roma, sede della cristianità, per i forestieri di passaggio: col
nuovo assetto sanitario e con l’accrescersi della popolazione gravitante attorno alla
capitale del regno, ed anche per «il bisogno di togliere l’abuso, in moltissimi casi
verificatosi, che, cioè, da alcune provincie limitrofe si mettessero in istrada ferrata dei
malati per farli curare e ricevere gratuitamente negli Ospedali romani» (GU 19-9-1896),
si stabilì che dovesse essere il comune di origine del ricoverato a pagare. Erano le
13
particolari condizioni della recente crescita della città eterna a imporre una soluzione
del genere, come ricordava alla Camera l’onorevole Santini: «mentre nel 1870 il
censimento di Roma dava 170,000 abitanti, l’ultimo ne presenta quasi mezzo milione. E
mette conto rilevare che di questi 300,000 abitanti in più, fatta eccezione di 60,000 tra
impiegati e persone agiate, i rimanenti sono operai, braccianti, mendicanti, rivenditori
ambulanti, ecc., ecc., accorrenti in Roma a procurarsi, più che il lavoro, gli stenti della
vita, in una rattristante concorrenza con altri infelici della città» (AP 11-7-1896, 7552).
Proprio le presunte qualità dei flussi migratori verso questa città, caratterizzati da un
alto grado di ‘pezzentismo’, ne rendevano necessaria una speciale legislazione. Per
rintracciare l’amministrazione debitrice si stabilì che in questo caso facesse fede
esclusiva l’iscrizione anagrafica accertata in Campidoglio. Si intendeva così dare
maggiori sicurezze di rimborso agli spedali capitolini, «ponendo a fondamento delle
indagini circa l’appartenenza del malato un fatto certo invece di un fatto non sempre
facilmente constatabile» (GU 19-9-1896). Ma, come era prevedibile, questa disposizione
suscitò forti critiche. «Lo Stato civile», la più diffusa rivista dei segretari comunali
(sulla cui rilevanza si veda Romanelli 1989), iniziò a occuparsi nelle sue pagine di
questioni di spedalità proprio per la rilevanza che il caso di Roma aveva assunto:
«Avendo questa pregevole Rivista esteso le sue rubriche anche in materia di spedalità,
mi permetto profittarne per sollevare una questione vitalissima per le finanze Comunali,
stante il progressivo aumento delle spese cui si deve far fronte, specialmente per le
spedalità romane. […] Il legislatore col prescrivere la dichiarazione della dimora
quinquennale risultante dai registri di anagrafe, è partito dal concetto che […] in essi
fossero realmente inscritte e nei termini stabiliti tutte quelle persone che nella Capitale
hanno fissato la propria dimora, […] e se così fosse sarebbe giustissimo ed indiscutibile
il mezzo di prova richiesto, che viceversa è discutibilissimo ed inattendibile di fronte al
vero stato di fatto, cioè delle troppe omissioni che il detto registro presenta» (SC 1-6-
1908, 161-162). L’inefficienza degli uffici capitolini veniva indirettamente a costare
molto a quei comuni, certo non tra i più ricchi, che vedevano partire per Roma molti dei
loro cittadini alla ricerca di lavoro. Il paradosso sta nel fatto che proprio i cittadini senza
redditi erano quelli con meno possibilità di ricorso di fronte a una amministrazione
molto spesso inadempiente, quando non sfacciatamente disinvolta nella compilazione
delle carte: tra i casi più palesi una singolare iscrizione all’anagrafe di un paziente che
viveva a Roma da almeno una decina di anni, registrato come residente proprio il giorno
prima del ricovero (ACS-1, b. 24).
14
Di fronte a un quadro di questo tipo, diventava molto importante invece per questi
piccoli comuni una tenuta del registro di popolazione che fosse il più corretta e
funzionale possibile. L’anagrafe poteva costituire infatti un’arma per schivare delle
attribuzioni erronee, o quantomeno un valido aiuto per ricostruire gli spostamenti fatti
dai ricoverati ed evitare il pagamento di pesanti rette. Negli anni tra il 1908 e il 1909
«Lo Stato civile» ricevette una quantità notevole di domande inerenti l’attribuzione del
domicilio di soccorso, inviate dai funzionari municipali: un’occhiata agli indici tematici
di quelle annate permette di constatare come, dopo le questioni matrimoniali, fosse
l’argomento più citato, a causa della miriade di piccoli contenziosi che gravitavano
intorno al problema dell’attribuzione delle spese tra comuni e ospedali. Prendiamo
anche qualche esempio concreto, tratto dall’archivio storico di Vicopisano: nel
novembre del 1910 lo Spedale Pammatone di Genova chiedeva il rimborso per tale
Orsola Chiavarini, ricoverata per un parto d’urgenza, «appartenente per domicilio di
soccorso a codesto comune dove il marito: Camerini Corrado di Cesare, ex ferroviere,
nacque né ebbe ad acquistare altrove domicilio di soccorso avendo, fuori di Vicopisano,
sempre fatto vita girovaga». Il segretario comunale si incaricò di indagare se nella «vita
girovaga» di Corrado Camerini non si potesse rintracciare una permanenza prolungata
al fine di scaricare altrove l’onere del domicilio di soccorso. Dall’anagrafe risultava che
Camerini si era trasferito a Verona nel 1902, e da lì ebbe inizio la ricerca. Da fine
novembre a metà dicembre del 1910 una fitta corrispondenza tra i comuni testimonia il
tentativo fatto per venire a capo della vicenda di Camerini, che cambiò almeno quattro
volte residenza nell’arco di otto anni: da Vicopisano a Verona, da Verona a Pistoia, da
qui a Pisa e quindi a Genova. Assente dal comune di origine da quel primo spostamento
di otto anni prima, la mobilità dell’ex ferroviere non lo aveva portato a fermarsi più di
tre anni in ogni posto, condannando Vicopisano a pagare (ASV, b. V/32).
A volte le informazioni ottenute dalle anagrafi venivano integrate con quelle
provenienti da altri tipi di fonte. Dal marzo al giugno del 1913 Antonia Giannini,
vedova di 63 anni, era stata ricoverata a causa di una grave bronchite presso gli Spedali
Civili di Genova. Poiché la Giannini dichiarava di provenire dalla frazione di San
Giovanni alla Vena, appartenente al comune di Vicopisano, veniva inviata la fattura
delle 408 lire spese per i 102 giorni di ricovero. Per prima cosa i funzionari indagarono
sull’identità di Antonia, recandosi a San Giovanni per chiedere informazioni al parroco
e alla famiglia Giannini che là risiedeva, ma anche ai «vecchi» del paese. Nel 1850 il
sistema dello stato civile era un compito delle parrocchie, senza quel livello di
15
formalizzazione e uniformità che avrebbe assunto in seguito, e per interrogare un
passato non troppo remoto bisognava fare affidamento anche su canali informali e
comunitari. Ma una volta riscontrato che una Antonia Giannini era nata a San Giovanni
e che si riteneva abitasse a Pisa da molti anni, la rete informativa attivata dal comune di
Vicopisano si mosse tutta all’interno della macchina statale: il 9 luglio veniva chiesto al
servizio anagrafico di Pisa di cercare traccia della scheda della Giannini, mentre un’altra
«richiesta urgentissima» del sindaco era inoltrata al questore di Genova: «Prego
caldamente V. S. Ill al compiacersi far rintracciare in cotesta città certa Giannini
Antonia fu Tomaso e di fu Guerrucci Margherita di anni 67, uscita da poco da cotesti
spedali ed interrogarla circa l’epoca che abbandonò il domicilio di Pisa, e da quanto
risiede in cotesta città, riferendone». La risposta avuta dal comune di Pisa spinse le
ricerche in direzione di Livorno, dove la Giannini si era trasferita nel 1900, mentre
l’interrogatorio commissionato al questore di Genova dava delle notizie in
contraddizione con quelle già ottenute. Il sindaco si spinse a chiedere un secondo
interrogatorio, più approfondito. Entro fine luglio, il comune di Vicopisano aveva tutte
le informazioni che desiderava sulla vita dell’anziana Antonia, e si rifiutò di pagare la
retta agli Ospedali di Genova. Nel novembre dello stesso anno, quando questi
presentarono ricorso presso il Ministero dell’Interno, Vicopisano era pronto a ribattere
con un controricorso in cui, incrociando le notizie ottenute presso il parroco e gli
abitanti della piccola frazione di San Giovanni alla Vena, dalle anagrafi di Pisa e di
Livorno, con quelle avute grazie al questore di Genova, ricostruirono così la storia di
Antonia: nata nel 1850, si trasferì con la famiglia a Pisa appena due anni dopo e vi
rimase fino ai 50 anni, quando andò a vivere a Livorno. Nel 1903 si spostò a Calci, e
subito dopo a Pontedera, sempre in provincia di Pisa, restandovi fino al trasferimento
definitivo presso il fratello in via San Fruttuoso, a Genova, nel 1909. Le conclusioni
espresse nel controricorso erano perentorie: «Stando così le cose è manifesto che
l’onere della spedalità Giannini fa carico al Comune di Pontedera, ammenochè non sia
questo in grado di provare che dal periodo dal 1903 al 1909 la Giannini non vi si
trattenne per intiero quinquennio. Ciò posto l’onere della spedalità tornerebbe a far
carico al Comune di Pisa. In ogni ipotesi il Comune di Vicopisano deve ritenersi come è
infatti non tenuto al rimborso della spedalità della Giannini» (ASV, b. V/33).
È stato proposto che i registri di popolazione servirono nell’Italia liberale come
strumenti di controllo sociale, passando negli anni dalla semplice raccolta di «“basi di
dati” riferite al complesso della popolazione» al funzionare come «vie di accesso dirette
16
ai singoli membri della società» (Randeraad 1996, 41): i casi osservati dimostrano
piuttosto una loro importante funzione come ‘guide’ adoperate dalle autorità locali per
ricostruire gli spostamenti dei loro cittadini indigenti, dopo che questi si erano verificati.
Uno degli effetti provocati dal sistema dell’assistenza stabilito con la riforma del 1890
fu proprio il rafforzare l’importanza del corretto funzionamento dei registri anagrafici a
fini amministrativi, soprattutto nei comuni minori e in quelle zone dove era più diffusa
la pratica del ricovero ospedaliero, e dove risultava quindi più importante da parte delle
autorità registrare i casi di trasferimento di popolazione in altri centri. In alcune zone
della penisola, soprattutto nel Meridione, non era così usato il ricorso alle strutture
sanitarie, ma si continuava a preferire l’assistenza a casa. Uno studio del Ministero
dell’Interno spiegava così il fenomeno: «nel Napoletano e nelle due grandi isole, […] la
popolazione vive quasi tutta agglomerata in grossi centri, l’assistenza a domicilio è ivi
più facile e più pronta che non nell’Italia settentrionale e centrale, dove trovansi
numerosi operai avventizi, i quali vivono lontani dalle proprie famiglie, e dove gli
agricoltori vivono quasi tutti in case sparse per la campagna» (Ministero dell’Interno
1906, 25).
Al differente grado di tenuta dei registri di popolazione in Italia, collegato da Corsini
col livello di analfabetismo, può quindi aver contribuito anche la diversa pressione che
le spese di spedalità esercitavano sui comuni e il loro minor interesse a una
registrazione corretta della mobilità territoriale. Questo nesso veniva stabilito nel 1904
da Luigi Bellini, redattore de «Lo Stato Civile Italiano», a commento del recente
regolamento anagrafico: «durante questo ultimo ventennio, tutti i Municipi, anche dei
più piccoli Comuni, edotti delle conseguenze del disposto dell’art. 72 della legge sulle
Opere Pie (1890) sul domicilio di soccorso, si sono affrettati ad impiantare o correggere
od aggiornare il rispettivo ruolo di popolazione» (SC 15-8-1904, 242). La diversa
qualità dell’apparato di registrazione dei dati dipenderebbe quindi anche dal loro grado
di interesse in relazione al mondo amministrativo locale, maggiore nel centro nord,
minore nel sud.
Un secondo effetto riguarda più da vicino la storia della sanità in Italia: il ricorso
sempre più largo al ricovero nelle strutture sanitarie rilevato per quegli anni, «il
processo di ospedalizzazione» (Frascani 1986, 159-201), non era esente da spinte che
provenivano dalle questioni concernenti la spedalità di soccorso. Il numero di persone
ricoverate aumentò del 50% nell’arco di un ventennio, dal 1885 al 1902, e nello stesso
periodo la percentuale di malati ricoverati negli ospedali dei capoluoghi di provincia,
17
ma non residenti, aumentò dal 28% al 72% (Frascani 1986, 173), in parte per un
aumento della mobilità della popolazione, in parte proprio grazie al disposto della legge
del 1890, come riscontrava un’inchiesta condotta dal Ministero dell’Interno nel 1902:
«Là dove sono numerosi i lavoranti avventizi, le amministrazioni comunali hanno
interesse a che essi siano curati piuttosto entro l’ospedale che non al proprio domicilio,
per far gravare le spese di assistenza sul comune di origine» (Ministero dell’Interno
1906, 70). Gli istituti sanitari dei capoluoghi di provincia con più di 100.000 abitanti
ospitarono in quello stesso anno il 34% del totale dei degenti. Nelle maggiori città di
porto, in cui ci si imbarcava per l’estero, poteva succedere che gli stessi emigranti in
attesa di partire o appena rientrati fornissero contingenti di ricoverati: è il caso di
Napoli.
Un «uso per lo meno disinvolto» del domicilio di soccorso era diffuso, secondo
Frascani, soprattutto in città come Milano o Torino, in cui le autorità sanitarie erano
consapevoli del fatto che il processo di urbanizzazione veniva ampiamente
sottorappresentato dai servizi anagrafici. Meccanismo questo che porta a proporre un
terzo possibile effetto, ovvero l’instaurarsi, nell’azione quotidiana degli uffici comunali
di quei centri che maggiormente attiravano manodopera dalle campagne, di prassi non
codificate a livello nazionale che operavano una sorta di resistenza all’iscrizione
anagrafica degli strati poveri della popolazione. Queste pratiche, per cui certo non
mancavano gli strumenti, sarebbero quindi state all’origine, ricevendone un massiccio
rinforzo, delle disposizioni antiurbane del regime fascista, di cui tratteremo tra breve.
Ma si tratta di ipotesi formulate a un livello puramente congiunturale, che avrebbero
bisogno di verifiche puntuali, per quanto di non facile realizzazione.
Le anagrafi durante il ventennio
Nel periodo fascista i prefetti dei comuni maggiori furono autorizzati, e anzi vivamente
spinti, ad utilizzare il possesso della residenza come segno di discrimine tra chi era
gradito in città e chi non lo era. A partire dal 1927 vennero prese delle misure per
‘sfollare’ le città e rimandare nei campi coloro che si erano inurbati di recente, così
come si cercarono di controllare ulteriori trasferimenti: la legge 24 dicembre 1928, n.
2961, autorizzava i prefetti a combattere l’urbanesimo lasciando libertà di azione e
fornendo un quadro giuridico elastico che permise una vasta gamma di misure (Istat
1934). Le vecchie preoccupazioni liberali sui rapporti tra autorità e individuo venivano
ora spazzate via dal nuovo spirito dei tempi, che voleva il comportamento del singolo
18
completamente piegato all’interesse dello Stato: la resistenza all’urbanizzazione si
dotava di strumenti inediti e diventava politica ufficiale dello stato (Treves 1976 e 1980,
Mariani 1986, Ipsen 1997). Alcune relazioni prefettizie ci riferiscono delle azioni delle
forze dell’ordine in varie città d’Italia: nel 1928 vennero allontanate da Trieste 1612
persone; da Torino, dal 1º dicembre del 1928 ai primi di giugno dell’anno dopo, ne
furono espulse 1443; il prefetto di Napoli contò 275 ‘rimpatri’ dal febbraio al maggio
del 1929 (ACS-3, b. 1169). Grazie ad un largo uso del foglio di via e dei rimpatri
obbligatori, previsti dall’art. 158 del nuovo testo sulla pubblica sicurezza, i non
residenti che si fossero trovati disoccupati erano sempre soggetti a sanzioni di
allontanamento, a prescindere dalla loro condotta pubblica14.
Le ragioni di queste operazioni venivano poste all’interno della politica demografica
fascista rivolta all’aumento delle nascite, che risultavano in ribasso nei maggiori centri
urbani, ma avevano una loro utilità anche per problemi di altro ordine, come la
questione degli affitti dopo il blocco post-bellico o il rispetto dell’ordine pubblico, in
garanzia dei ceti medi. Sarebbe errato tuttavia sottovalutare per questo l’importanza del
discorso demografico. Le riflessioni sul ‘tramonto dell’occidente’, gli effetti della
transizione demografica sulle nascite negli altri paesi europei costituivano paure reali e
concrete, di cui Mussolini fu un appassionato interprete. Il regime mise in campo una
vera e propria opera di educazione nazionale alla demografia, abituando gli italiani a
leggere su tutti i giornali sfilze di dati che riguardavano nascite, morti, migrazioni di
tutte le città del regno: il Duce raccomandava ai prefetti di farle stampare su ogni
periodico che avesse cadenza almeno settimanale (ACS-3, bb. 1170-1171).
Il numero come potenza, certo, ma anche come espressione di una nazione florida e
vitale: la nazione era concepita come un organismo, e l’interpretazione dei suoi dati
demografici poteva fornire la diagnosi di possibili patologie. Per conoscere in maniera
precisa lo stato di salute della nazione, i servizi statistici vennero accentrati e dotati di
risorse e di un prestigio mai conosciuti prima. Con la fondazione dell’Istituto centrale di
statistica, il suo collocamento sotto la Presidenza del Consiglio e l’affidamento a una
riconosciuta autorità scientifica come Corrado Gini, erano poste le condizioni per un
rilancio della statistica e in particolar modo del settore demografico. Qui uno dei
compiti maggiori dell’Istat fu quello di ottenere dai comuni di tutto il territorio una
corretta tenuta dei registri di popolazione, obiettivo non semplice da raggiungere, che 14 Come ad esempio per una persona con residenza a Vicopisano, che nel maggio 1929 venne espulsa da Torino, «essendo disoccupata e priva di mezzi di sussistenza», senza altre motivazioni (ASV, b. V/86).
19
venne cercato attraverso l’emanazione di un regolamento anagrafico più funzionale e
soprattutto con il rafforzamento dei controlli delle autorità. Difficile, senza un’estesa
indagine archivistica, riuscire a dare dei giudizi fondati sulla riuscita di questa impresa,
per cui comunque si profusero forze e risorse, e di cui vennero dati giudizi positivi sulla
stampa ufficiale (Avallone 1934). L’impegno venne intensificato soprattutto in
occasione dei censimenti, affinchè all’interno del ‘sistema demografico’ ci fosse un
rapporto più equilibrato con le anagrafi, come indicava il prefetto di Pisa nel gennaio
del 1927: «Occorre […] che in avvenire non siano più i censimenti che forniscano i
materiali per un grossolano impianto anagrafico o per una lenta revisione di uno
schedario mal tenuto, ma debbano invece, essere gli uffici di anagrafe in grado di
fornire a quelle grandi rilevazioni demografiche le direttive locali e il controllo» (ASV,
b. V/70). Si cercò anche di perfezionare la registrazione dei trasferimenti: nel 1930 Gini
chiedeva ai podestà e alle prefetture di distinguere, nelle relazioni inviate all’Istat, i
movimenti migratori avvenuti effettivamente nel momento in cui venivano registrati da
quelli che «si riferiscono ad emigrazioni od immigrazioni avvenute, di fatto, in mesi
precedenti e che, per qualsiasi motivo, furono registrate solo nel mese» (ASV, b. V/93).
Venne insomma recuperato quell’obiettivo ‘alto’ di puntuale raccolta dei dati a fini
demografici che il sistema anagrafico aveva perduto alla fine del secolo precedente, e
che ora con nuovi mezzi a disposizione – un organismo dagli ambiziosi interessi
scientifici e con maggiori capacità di movimento al di sopra della dimensione locale –
poteva essere riproposto15.
Cerchiamo di mettere a fuoco il combinarsi di questi sforzi con le disposizioni per lo
sfollamento delle grandi città, per le quali i problemi connessi alla concessione della
residenza e all’utilizzo dei fogli di via erano centrali. Tali provvedimenti, che
rispondevano a indirizzi nazionali, finivano per dare linfa vitale ad abitudini consolidate
di stampo strettamente localistico, ancora una volta collegate al domicilio di soccorso.
«Lo Stato Civile» affidava alla prima pagina la discussione, quanto mai delicata, degli
effetti che la lotta all’urbanesimo stava avendo in contraddizione con le intenzioni
annunciate: «In molti comuni è invalsa l’abitudine di diffidare (magari con pubblica
ordinanza) i proprietari, dall’affittare case a famiglia o persona povera, proveniente da
altro Comune, se non hanno previamente ottenuto il nulla osta dell’Autorità Comunale.
Se la famiglia non è benvista, l’Autorità stessa minaccia di addossare eventuali spese di 15 Il riferimento imprescindibile per una riflessione sul nodo tra istituzione centrale e amministrazioni periferiche sulle questioni statistiche è Marucco 1996.
20
beneficenza, spedalità, ecc. a chi ha dato in affitto la casa. In certi casi viene impedita,
addirittura, l’entrata in paese della famiglia stessa. […] Altri Comuni, invece,
nell’imminenza dello scadere del periodo utile per l’acquisizione del domicilio di
soccorso, col sistema della pressione, esercitata più o meno direttamente, più o meno
imperiosamente, inducono le famiglie povere a passare in altro Comune». La
discrezionalità prevista solo per le grandi città e con altri scopi che non quelli di evitare
di addossarsi il domicilio di soccorso (per il quale dal 1931 erano sufficienti tre anni di
permanenza), veniva impugnata anche dai comuni minori, con «l’unica mira di
salvaguardare le finanze di un determinato Comune, anziché di un altro»16 (SC, 15-3-
1936, 25-26). Era un tradimento dello spirito per cui era stata emanata la legge del
1928. In realtà, pur rimanendo nei limiti della fascistissima lotta all’urbanesimo a fini
pro-natalisti, si potevano provocare degli effetti imbarazzanti per la cornice giuridica
che racchiudeva il campo anagrafico: rifiutare l’iscrizione di persone che già
dimoravano effettivamente a Torino o a Roma modificava in profondità la nozione
stessa di ‘residenza’, senza che ciò venisse formalizzato. Gini, in contraddizione con il
codice civile, spiegava che l’aver trovato un lavoro era in effetti la condizione per
accertare il trasferimento della residenza (Avallone 1934, 157). Si stava venendo a
creare un rapporto formalizzato tra il diritto di iscrizione nelle liste di appartenenza
comunale e il possesso di fonti di sostentamento, anche a causa della nuova
organizzazione del collocamento che dalla fine degli anni venti era diretta a un controllo
territoriale della manodopera (Musso 2003). La nuova disciplina delle assunzioni
privilegiava gli appartenenti alla comunità locale, secondo il principio per cui prima
bisognava occuparsi dei ‘propri’ disoccupati, poi di quelli ‘forestieri’. Intendendo con
questo termine anche coloro che vivevano ormai da anni in città: «tutti coloro che
giungono ai centri urbani sprovvisti di mezzi di vita e di lavoro – recitava una circolare
del Ministero dell’Interno del 6-12-1928 – […] debbono essere rimpatriati e, se occorre,
coattivamente […]. Criteri analoghi dovranno seguirsi in confronto di coloro che,
oriundi dalla campagna, da tempo, abbiano fissato la propria residenza nel centro
urbano»17 (SC, 1-2-1929, 27). Il confine tra ‘dentro’ e ‘fuori’ si era ristretto sia nello
spazio che nel tempo; la lotta ai disoccupati scosse alle radici le regole base del
funzionamento anagrafico, e consentì ai singoli comuni di fare norma ciò che prima era
16 «Il chè – aggiungeva l’autore – non rientra nel principio corporativo del Fascismo». 17 Corsivo mio.
21
considerata elusione, ovvero di ‘arruolare le anagrafi’ nella costruzione di barriere
all’ingresso della città18.
In un periodo in cui la mobilità territoriale conobbe una intensificazione proprio in
direzione di quelle zone interessate da importanti processi di industrializzazione
(Federico 1985), le risposte del regime, legate al progetto della bonifica integrale e alle
politiche di ‘sventramento’ dei centri storici, fornirono terreno allo svilupparsi delle
facoltà di controllo ed esclusione a disposizione dei poteri locali, a seconda delle loro
esigenze amministrative e sociali (bilancio, sicurezza sociale, ordine pubblico, …),
assecondando linee di comportamento campanilistico dalla tradizione decennale. La
legge più famosa del 193919 contro l’urbanesimo, che rimase vigente nell’ordinamento
italiano fino al 1961, se fornì una base normativa più solida, poteva servire in parte a
contenere l’eterogeneità dei comportamenti municipali e a imporre criteri validi su tutto
il territorio.
La vicenda della spedalità di soccorso legata ai fenomeni di mobilità territoriale, per
quanto in maniera meno intensa rispetto ai primi anni del Novecento, proseguì anche
durante il fascismo e nel primo periodo repubblicano, riproponendo il continuo
risorgere degli stessi difetti di funzionamento di inizio secolo, quando i comuni più
interessati da flussi migratori in uscita avevano provveduto ad affinare i propri servizi
anagrafici per non incorrere in pagamenti dal loro punto di vista ingiustificati. Non
riconosciute nei registri di popolazione, non autorizzate a svolgere lavori regolari,
sottoposte alla minaccia perpetua del foglio di via, le persone provenienti dai piccoli
centri rurali continuavano ad avere bisogno delle cure mediche degli ospedali delle
grandi città. Tracce di questa contraddizione si trovano nei documenti prodotti dai
municipi minori che continuavano a vedersi addossate le spese di ricovero: la loro opera
fu quella di ricostruire le storie migratorie dei propri cittadini indigenti. Di cui altrimenti
sarebbe rimasto ben poco.
18 Su questi temi, qui trattati brevemente, mi permetto di rimandare a un mio lavoro, di prossima pubblicazione nella rivista «Le Carte e la Storia», dal titolo Le anagrafi arruolate: l’Istat e le normative contro l’urbanesimo tra Italia fascista e Italia repubblicana (1928-1961). 19 Legge 6 luglio 1939, n. 1092.
22
Riferimenti archivistici
ACS Archivio Centrale dello Stato;
ACS-1: ACS, Ministero Interno, Opere Pie, Spedalità Romane, 1901-1915;
ACS-2: ACS, Ministero Interno, Direzione Generale dell’Amministrazione Civile,
Divisione Terza per l’assistenza e la beneficenza pubblica, Triennio 1910-1912;
ACS-3: ACS, Segreteria particolare del Duce, Carteggio ordinario 1922-1943, f.
509560.
ASV Vicopisano, Archivio Storico, Carteggio.
Riferimenti bibliografici
A. Arru, F. Ramella 2003, L’Italia delle migrazioni interne. Donne, uomini, mobilità in
età moderna e contemporanea, Donzelli, Roma.
A. Avallone 1934, Relazione del vice direttore generale sui lavori compiuti nell’anno
1933 dal reparto III, «Annali di statistica», s. VI, v. XXXIII, pp. 99-179.
M. Behr, P. Gober 1982, When a Residence is Not a House: Examining Residence-
Based Migration Definitions, «The Professional Geographer», v. 34, n. 2, pp. 178-184.
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