Il domicilio di soccorso e altre questioni: spunti per uno studio sulle anagrafi e la mobilità...

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1 Stefano Gallo Il domicilio di soccorso e altre questioni: spunti per uno studio sulle anagrafi e la mobilità territoriale interna in Italia tra fine ‘800 e fascismo La statistica fu paragonata alla fotografia e sta bene; ma, in fotografia, un uomo aggrappato ad un masso, mezzo metro più su del livello stradale, può apparire un ardito scalatore. Basta che non si veda la strada. (Giusti 1945, 8) Gli spostamenti e le loro tracce La mobilità territoriale costituisce un terreno di studio di particolare delicatezza per chi si occupa di demografia: non esistono infatti criteri univoci per definire e misurare gli spostamenti e tutti i tentativi sono condannati a una inevitabile parzialità. L’evento alla base di ogni registrazione sta nell’incontro tra una persona che abbia attraversato un qualsiasi tipo di confine e una istituzione che prenda nota di questo evento e che ne renda disponibile l’utilizzo a fine statistico. Non sempre questo contatto avviene, per la natura stessa di un passaggio che non lascia la traccia, o perché gli attori in gioco si adoperano perché questo non venga annotato. I risultati raggiunti costituiscono delle approssimazioni più o meno valide a seconda delle condizioni concrete di raccolta delle informazioni: quello migratorio è quindi da considerare come fenomeno sociale in senso ampio, in cui non è possibile trascurare i rapporti che corrono tra chi misura e chi è misurato, il ruolo che l’uno ha nei confronti dell’altro. La stessa definizione dell’oggetto di studio, il ‘migrante’, è incerta e variabile: all’inizio del Novecento per la legislazione italiana era emigrante all’estero chi viaggiava con un biglietto di terza classe, non gli altri (Ostuni 2001); oggi è considerato ‘straniero’ dallo Stato italiano, e quindi soggetto a determinate politiche di immigrazione, solo chi proviene dai paesi non appartenenti alla Comunità Europea. Non si svela niente di nuovo nel dire che dietro le definizioni della statistica stanno preoccupazioni e attenzioni sociali e che queste sono particolarmente forti per il campo migratorio. Ma se il discorso può essere relativamente conosciuto per quel che riguarda gli spostamenti che varcano le frontiere, meno è stato scritto sulla mobilità interna, quella che non vede cambiare le bandiere e che non coinvolge autorità statali diverse. In questo caso le definizioni appaiono più neutre, spogliate da connotazioni di ceto o provenienza: lo spostamento da un comune a un altro costituirebbe di per sé un evento significativo,

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Stefano Gallo

Il domicilio di soccorso e altre questioni: spunti per uno studio sulle anagrafi e la

mobilità territoriale interna in Italia tra fine ‘800 e fascismo

La statistica fu paragonata alla fotografia e sta bene;

ma, in fotografia, un uomo aggrappato ad un masso,

mezzo metro più su del livello stradale, può apparire un ardito scalatore.

Basta che non si veda la strada.

(Giusti 1945, 8)

Gli spostamenti e le loro tracce

La mobilità territoriale costituisce un terreno di studio di particolare delicatezza per chi

si occupa di demografia: non esistono infatti criteri univoci per definire e misurare gli

spostamenti e tutti i tentativi sono condannati a una inevitabile parzialità. L’evento alla

base di ogni registrazione sta nell’incontro tra una persona che abbia attraversato un

qualsiasi tipo di confine e una istituzione che prenda nota di questo evento e che ne

renda disponibile l’utilizzo a fine statistico. Non sempre questo contatto avviene, per la

natura stessa di un passaggio che non lascia la traccia, o perché gli attori in gioco si

adoperano perché questo non venga annotato. I risultati raggiunti costituiscono delle

approssimazioni più o meno valide a seconda delle condizioni concrete di raccolta delle

informazioni: quello migratorio è quindi da considerare come fenomeno sociale in

senso ampio, in cui non è possibile trascurare i rapporti che corrono tra chi misura e chi

è misurato, il ruolo che l’uno ha nei confronti dell’altro.

La stessa definizione dell’oggetto di studio, il ‘migrante’, è incerta e variabile: all’inizio

del Novecento per la legislazione italiana era emigrante all’estero chi viaggiava con un

biglietto di terza classe, non gli altri (Ostuni 2001); oggi è considerato ‘straniero’ dallo

Stato italiano, e quindi soggetto a determinate politiche di immigrazione, solo chi

proviene dai paesi non appartenenti alla Comunità Europea. Non si svela niente di

nuovo nel dire che dietro le definizioni della statistica stanno preoccupazioni e

attenzioni sociali e che queste sono particolarmente forti per il campo migratorio. Ma se

il discorso può essere relativamente conosciuto per quel che riguarda gli spostamenti

che varcano le frontiere, meno è stato scritto sulla mobilità interna, quella che non vede

cambiare le bandiere e che non coinvolge autorità statali diverse. In questo caso le

definizioni appaiono più neutre, spogliate da connotazioni di ceto o provenienza: lo

spostamento da un comune a un altro costituirebbe di per sé un evento significativo,

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contribuendo a formare l’indice della mobilità interna di un paese. Quando poi ci si

accorge dell’esistenza di imponenti trasferimenti, di lunga distanza o con direzioni

costanti (montagna-pianura, campagna-città), si parla di flussi migratori interni, di

esodo rurale, e di fenomeni sociali da analizzare e interpretare. Le basi statistiche

provengono dai due maggiori strumenti in campo demografico, i censimenti e i registri

anagrafici. Si tratta di due registrazioni differenti (a grandi linee la prima misura lo

stock, la seconda i flussi), ma il rapporto tra queste due fonti è molto stretto, come

notava già nel 1873 il Ministro dell’Agricoltura, del Commercio e dell’Industria,

presentando il nuovo regolamento anagrafico: «il registro di popolazione, mentre da un

lato s’impianta e mette radice nei risultati del censimento, dall’altro si riannoda e trae

partito dai registri dello stato civile; le tre istituzioni si collegano in un insieme

armonico e compiono il sistema della demografia» (GU 20-5-1873)1.

‘Sistema integrato’ quindi, che non potrebbe funzionare se non in accordo con le altre

sue parti: censimento e registri comunali facevano (e fanno ancora) appoggio l’uno

sull’altro per verificarsi e completarsi, di modo che le pecche e le mancanze dell’uno

possano correggersi col confronto con l’altro, a condizione che questo non ripeta le

stesse pecche e le stesse mancanze.

Anche l’utilizzo dei registri di popolazione come fonti dirette è stato sottoposto al

vaglio critico degli studiosi di migrazioni: non bastano i cambiamenti di residenza per

comprendere le caratteristiche della mobilità territoriale, a volte neanche per registrarla.

Negli anni Cinquanta il demografo svedese Torsten Hägerstrand affermava come il

basare le analisi esclusivamente sui registri perpetuasse una visione errata delle

migrazioni, puntiforme e statica («the dot-maps give a static picture, as if each

individual has his given place»), e non consentisse di seguire gli spostamenti all’interno

di una stessa cellula di osservazione (il comune, la parrocchia), mentre la raffigurazione

più adeguata sarebbe stata un sistema di iso-linee basato sui cambiamenti dei centri di

interesse e attività di ogni individuo (Hägerstrand 1957). Secondo lo schema elaborato

da Pierre-Jean Thumerelle il luogo di residenza è solo il centro convenzionale di uno

spazio di vita più ampio che comprende tutta una serie di luoghi di interesse tra cui si

effettuano degli spostamenti abituali. La modifica di questo centro convenzionale non

1 Il corsivo è mio. Nel testo si sono utilizzate le seguenti abbreviazioni, seguite dalla data di pubblicazione o della registrazione: GU per «Gazzetta Ufficiale», AP per «Atti Parlamentari – Camera dei Deputati – Discussioni», SC per «Lo Stato Civile Italiano». Per questi ultimi due ho preferito dare l’indicazione completa anche delle pagine per facilitarne una eventuale consultazione. La «Gazzetta Ufficiale» non ha una numerazione coerente, per cui è stata segnalata solo la data di uscita del fascicolo.

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può essere messa in relazione diretta e immediata con la modifica del proprio spazio di

vita (Thumerelle 1986). Queste osservazioni sono state raccolte e ampliate da Paul-

André Rosental, che ha anche provveduto ad applicarle all’interno di un ambizioso

progetto sulla mobilità interna nella Francia dell’Ottocento: la critica veniva rivolta ora

agli studi di demografia storica che utilizzano la residenza degli individui come base per

lo studio delle migrazioni, senza considerare come sia riduttiva tale ottica. Utilizzare

solo il cambiamento di residenza per determinare la misura e la qualità degli

spostamenti porta a forzare la varietà dei casi all’interno di un unico modello, composto

da singoli atomi indipendenti (individui o nuclei familiari) che operano dei passaggi

netti da un luogo a un altro, in un istante preciso nel tempo. Non è così nella realtà: la

scelta di spostarsi va collocata in un contesto relazionale maggiore rispetto a un nucleo

familiare ristretto, in uno spazio di riferimento più largo di un solo punto, in un tempo

che comprende anche la storia dei propri familiari e delle persone vicine (Rosental

1999). C’è pure chi ha sottolineato come la nozione di residenza per lo studio della

mobilità ha senso solo se applicata a persone abitualmente sedentarie, ma perde la presa

con la realtà dal momento in cui esaminiamo casi che si allontanano da un determinato

modello sociale di esistenza: «ethnocentric assumptions inherent in migration

definitions result in culturally biased notions of how and why human spatial movement

occurs. […] Estimates of differentials and rates may be skewed because of systematic

exclusion along age, income, or racial lines» (Behr, Gober 1982, 181). Gli esempi

portati dai due geografi statunitensi in questione percorrono tutto lo spettro dei casi che

si allontanano da un immagine media di modello familiare occidentale tradizionalista:

famiglie bipolari, comunità nere dei quartieri poveri nel Midwest, nativi americani,

homeless, …

Queste indicazioni ci possono essere utili se ci caliamo nel contesto dei recenti studi

migratori italiani: la direzione presa negli ultimi anni dalle ricerche più avvertite va

verso l’ampliamento del modello tradizionale di esperienza migratoria, grazie a

un’attenzione maggiore ai processi di lungo periodo, alla dimensione familiare e

relazionale, alle esperienze di mobilità a breve raggio o alle migrazioni temporanee e

periodiche, al ruolo femminile nei progetti migratori. I passi avanti fatti in questo senso

vedono in prima fila approcci di taglio antropologico e microstorico, maturati poi nella

proposta delle analisi di rete, nell’attenzione alla dimensione relazionale soggettiva

(Gribaudi 1987; Arru, Ramella 2003; Corti 2005). Sono tutti elementi, questi, messi in

ombra dalla stessa organizzazione burocratica che ruota intorno all’attribuzione della

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residenza, come in parte abbiamo già rilevato. Gli spostamenti stagionali o di corta

distanza non venivano neanche registrati dalle anagrafi; le persone non stanziali, che

formavano la cosiddetta popolazione ‘avventizia’ o ‘mobile’, furono escluse

dall’iscrizione con il regolamento del 1901, per le grandi difficoltà che questo tipo di

incombenza portava al lavoro dei comuni2. Spesso i trasferimenti definitivi all’estero o

verso altri comuni non venivano neanche segnalati dagli interessati, per dimenticanza o

per la volontà di non tagliare un legame concreto, per quanto formale, con il luogo di

origine. Spesso erano gli stessi funzionari comunali a lamentarsene: «si è rilevato che

una notevole quantità di persone risultano da oltre otto o dieci anni, ed anche più,

emigrate per altri Comuni, ed anche all’Estero, mentre figurano tuttora iscritte in questo

R. d. P. [registro di popolazione]. Per moltissime di dette persone s’ignora perfino il

luogo per dove emigrarono» (SC 1-7-1930, 111).

La cancellazione di queste persone poteva avvenire solo d’ufficio, se un impiegato

solerte e puntiglioso si interessava alla situazione. Ma prendiamo anche la questione del

genere: secondo i regolamenti anagrafici era necessaria la richiesta del capo famiglia

per permettere il trasferimento della residenza degli altri membri familiari; capitava che

questo tipo di disposizioni portasse a situazioni come quella descritta a inizio

Novecento dall’ufficiale di stato civile di Fermo: «La famiglia Isidori, composta del

capo, della moglie e di quattro figli, da circa 5 anni si è stabilita in Milano; il capo di

essa, però, Isidori Cristiano, da tempo più lungo si è allontanato, senza avere mai dato

notizie di sé alla famiglia e si suppone trovisi in America». Alla richiesta di iscrizione

anagrafica della famiglia nei registri milanesi, il comune rispose con un netto rifiuto: «si

avverte il Sindaco di Fermo che non avendo il capo famiglia residenza in questo

Comune e trovandosi in America, questo ufficio non può procedere alla iscrizione della

moglie e de’ figli minorenni, dovendo i medesimi seguire la residenza del rispettivo

marito e padre. Osservasi, inoltre, che non si può far figurare come capo famiglia la

moglie, in quanto che la medesima non può essere investita di tale carica, mancando

documenti ufficiali comprovanti la mancanza del marito» (SC 15-6-1904, 190).

2 Non è mia intenzione tracciare una storia istituzionale della tenuta del registro di popolazione in Italia, per cui sarebbe necessario prendere in esame una serie di dettagli tecnici che qui verranno solo accennati. Un lavoro del genere è stato fatto sui censimenti della popolazione (Pravato 1990). Per fornire tuttavia dei punti di riferimento ricordo che dall’Unità ad oggi sono stati emessi sei regolamenti anagrafici, contenuti nelle seguenti norme: R. D. 31 dicembre 1864, n. 2105; R. D. 4 aprile 1873, n. 1363; R. D. 21 settembre 1901, n. 445; R. D. 2 dicembre 1929, n. 2123; D. P. R. 31 gennaio 1958, n. 136; D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223. Soprattutto i primi regolamenti costituivano delle indicazioni di base, degli standard minimi che potevano essere integrate con le pratiche e i bisogni dei comuni più organizzati.

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Si tratta di contrasti che compaiono non di rado nelle pagine delle riviste di

amministrazione comunale: per quanto la legge consentisse alle mogli di assumere il

ruolo di capo famiglia, la prassi tendeva a delegare all’uomo la sfera delle relazioni con

la burocrazia, con una conseguente probabile sottorappresentazione del ruolo

femminile3. La capacità giuridica femminile venne riconosciuta solo dopo la prima

guerra mondiale.

La visione che si ha delle migrazioni è pesantemente condizionata dalle condizioni

storiche di raccolta dei dati, ne riproduce gli stessi schemi mentali, le inquadra nelle

stesse categorie, almeno fino al momento in cui non si affaccia un differente tipo di

sensibilità, che rovesci i luoghi comuni consolidati e proponga altre piste di ricerca.

Il sistema anagrafico e la qualità dei dati

Le anagrafi non possono dunque essere considerate una fonte statistica ‘completa’ per

un’analisi delle caratteristiche della mobilità territoriale. Lo ricordava già Nora Federici

nel suo classico manuale di demografia: «Anche ammesso per ipotesi che le

registrazioni anagrafiche fossero dovunque e in ogni caso sicuramente attendibili, esse

non potrebbero fornirci che una misura degli spostamenti di residenza, i quali, in verità,

non corrispondono esattamente alle migrazioni interne definitive […] e tanto meno

comprendono tutte le migrazioni interne». Tra i casi segnalati di completo ‘buio

statistico’, per cui bisognava fare ricorso ad altri tipi di fonti, le «correnti migratorie a

carattere ricorrente (giornaliero, settimanale, stagionale)» (Federici 1960, 400). Eppure

un tentativo per includere nelle schede anagrafiche anche questa mobilità fluida e meno

afferrabile era stato fatto. Quando il giovane stato italiano decise di istituire

l’organizzazione del sistema anagrafico su tutto il territorio nazionale, e di non lasciarlo

a discrezione delle varie autorità cittadine come fece la maggior parte degli altri stati

europei, l’intento era proprio quello di poter seguire tutti gli spostamenti sul territorio, o

almeno la maggior parte possibile. Infatti, dopo aver regolato la tenuta dello stato civile,

che registrava le nascite e le morti, ovvero il movimento naturale della popolazione,

«rimaneva tuttavia inesplorata la parte non meno importante del movimento, che può

chiamarsi sociale, poiché proviene dallo spostamento delle famiglie per ragione di

commerci, di uffici, o di spontanee elezioni. Ma per raggiungere codesto fine, che solo 3 Un discorso analogo può essere fatto per i minorenni, per i quali era necessaria per l’iscrizione una richiesta scritta del padre, e per i domestici, la cui registrazione avveniva nello stesso foglio della famiglia presso la quale prestavano servizio. Anche l’autorizzazione ad emigrare all’estero dipendeva per le donne sposate dall’assenso del marito (Ostuni 2001, 311).

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poteva dare completa la serie dei fatti per cui si avvicendano le generazioni e si

rimescolano le popolazioni, occorreva istituire in ciascun Comune un esatto registro di

popolazione, nel quale si dovessero, volta per volta, annotare tutte le variazioni e le

spostature che avvengono nello Stato delle persone e delle famiglie, onde avere un

censimento, per così dire, diuturno e perpetuo della popolazione» (GU 23-1-1865). Con

queste parole venne varato il primo decreto sulla tenuta dei registri della popolazione

del 1864, poi perfezionato nel 1873, in cui si sancivano le caratteristiche fondamentali

che sarebbero state conservate anche nei decenni successivi: collegamento con lo stato

civile, duplice denuncia in caso di spostamento al comune di emigrazione e a quello di

immigrazione, verifiche periodiche dei registri, accertamenti di ufficio della loro

rispondenza alla realtà. Per la popolazione mobile vennero poi previste delle schede

speciali, di diverso colore, da conservare in uno schedario a parte, in cui segnare «tutti

coloro che, senza avere nel comune la residenza, vi dimorano per più di un mese» (art.

29 del Regio Decreto 4 aprile 1873, n. 1363). Queste disposizioni avrebbero dovuto dar

vita al servizio anagrafico più avanzato d’Europa, come era nelle intenzioni del loro

principale artefice, l’appena nominato Direttore della Statistica Luigi Bodio, il quale

condivideva con il belga Quetelet, promotore dello sviluppo della statistica continentale,

un’idea alta dei fini scientifici di conoscenza demografica del registro di popolazione

(Marucco 1996; Randeerad 1996).

Ma il preteso «censimento diuturno e perpetuo» doveva andare incontro a una serie di

ostacoli che ne minarono l’affermazione. Prima fra tutte le difficoltà da parte dei

comuni, soprattutto i più piccoli e i rurali, di instaurare e mantenere un sistema che

aveva bisogno di un discreto grado di organizzazione ed energie, nonché di un minimo

livello culturale. Carlo Corsini, in un saggio sul «processo formativo

dell’organizzazione delle fonti demografiche», ha mostrato il nesso tra alfabetizzazione

e qualità della raccolta dei dati, sottolineando le differenze territoriali presenti nel paese,

tra nord e sud, tra città e campagna, non attenuate dalla politica scolastica italiana, per

cui si può parlare in questo caso di «acculturazione mancata» (Corsini 1985)4. Il

regolamento del 1901, in uno dei momenti più difficili per la storia della statistica

pubblica italiana, faceva un netto passo indietro nel cammino verso un utilizzo

scientifico ampio dei dati dei registri di popolazione. Disattese quelle aspirazioni troppo

ambiziose per la realtà dei fatti, si ammise l’impossibilità di fare delle anagrafi uno 4 Correnti, in una lettera citata da Corsini, parlava della statistica come di una «confessione sociale» (Corsini 1985, 116).

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strumento di conoscenza statistica ‘completa’: ai comuni si chiedeva solo la

registrazione dei cittadini stanziali. Il decreto regio veniva presentato con queste parole:

«Se si deve rinunciare a chiedere al registro di popolazione ciò che esso non potrà mai

indicare con precisione, cioè quanta sia la popolazione reale di ciascun comune che solo

il censimento può ad un dato momento contare e far conoscere, esso deve rimanere

come strumento statistico per seguire le vicende di quella parte della popolazione, la più

numerosa ed insieme la più facile a rilevarsi, che è la popolazione stabile» (cit. in Leti

2002, 9). Veniva abolita così l’obbligatorietà dello schedario per gli abitanti non

stanziali, anche se il bisogno di un rilevamento, per quanto sommario, della tradizionale

«inquietudine territoriale» della numerosa popolazione rurale italiana (Sori 2001) non

veniva meno: la macchina statale avrebbe comunque continuato, in maniere diverse, a

interrogarsene.

Dal punto di vista dell’affidabilità dei dati, anche semplificando le rilevazioni da

compiersi, le cose non migliorarono di molto. Il sistema anagrafico, come «spina

dorsale di tutti i servizi politico-amministrativi e sociali» (Pagni 1960, 6), trovandosi

nelle mani del municipio, aveva spesso come primo obiettivo il buon funzionamento

della stessa macchina comunale, in una sorta di autoreferenzialità difficile da

scardinare: l’interesse statistico poteva rimanere subordinato, quando non addirittura

intenzionalmente piegato, agli interessi locali. L’evento burocratico della concessione

della residenza in un nuovo comune, atto che implica l’iscrizione del cittadino

interessato all’interno del registro di popolazione locale, modificando il numero degli

appartenenti al comune ne condizionava tutta una serie di norme relative a questioni

elettorali, finanziarie, assistenziali, ecc… Spesso la scarsa affidabilità dei dati non era

dovuta a carenze culturali o a insormontabili difficoltà oggettive, quanto a un calcolo

preciso: è il caso di quei comuni che per ottenere maggiori contributi statali e garantirsi

tutta una serie di privilegi, usavano ‘gonfiare’ le cifre della popolazione. Ugo Giusti,

responsabile della revisione dei risultati del censimento del 1921, constatava come

questo fenomeno fosse diffuso soprattutto nel Meridione, «non soltanto profittando

della facile scappatoia di una abbondante registrazione di assenti all’estero con

presunzione di ritorno, ma altresì aggiungendo persone inesistenti a quelle trovate

presenti alla data del censimento»:a Foggia, che dichiarava 90 mila abitanti, ne

risultavano dopo i controlli appena 67 mila, Siracusa passava da quasi 65 mila a meno

di 50 mila, solo per citare due dei casi più eclatanti. In questi casi, rilevava Giusti, «alle

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abusive aggiunte va unita molto spesso una rilevazione così negligente, da trascurare

parte della popolazione realmente esistente nel Comune al momento del Censimento»

(Giusti 1930, 63). Alle persone in carne ed ossa, che potevano richiedere assistenza e

protezione dal comune e il cui rilevamento costava soldi e tempo, venivano sostituiti

cittadini fittizi, estremamente più comodi e che consentivano comunque di varcare il

numero che delimitava il confine delle classificazioni comunali. Disfunzioni, queste,

che non si limitavano al momento del censimento, ma che erano abituali anche in fase

anagrafica, attraverso la comoda pratica di non cancellare gli emigrati all’estero o in

altri comuni5. Negli anni del boom economico del secondo dopoguerra questo fenomeno

assunse proporzioni notevoli: 700.000 persone che risultavano residenti all’anagrafe

prima del censimento del 1961 si erano in realtà trasferite all’estero. «Questa

discrepanza […] in gran parte si originava dalla interpretazione restrittiva che gli

ufficiali di anagrafe di alcuni comuni interessati per vari motivi a nascondere l’esodo

della loro popolazione, davano alle norme sulla cancellazione anagrafica per gli

emigrati» (Parenti 1994, 89), obbligatoria solo per gli emigrati ‘definitivi’, qualunque

cosa potesse significare questa espressione6. Fenomeno questo che, misto a

inadempienze e imprecisioni, si è continuato a ripetere fino a periodi recentissimi: nel

censimento del 1991, la popolazione registrata in anagrafe dal comune di Napoli

risultava del 13% maggiore di quella risultante dal censimento, quella di Messina

addirittura del 18,9% (Leti 2002, 23).

Da una parte una ridefinizione dei compiti del sistema anagrafico, tra fine Ottocento e

inizio Novecento, dovuta a dei limiti oggettivi, per quanto dipendenti da precise

condizioni storiche, dall’altra dei comportamenti di lungo periodo che tendono a

modificare in eccesso la consistenza della popolazione: si tratta di due esempi che

illustrano l’influenza diretta che l’impianto di registrazione può avere sulla qualità dei

dati, in quanto già portatore in sé di precisi interessi e caratteri (semplificazioni nella

raccolta o interferenze di interessi amministrativi). Nella storia dell’anagrafe, dalla sua

5 Pratica che poteva riguardare anche comuni interessati da notevoli flussi migratori in ingresso, come per il caso di Terni nei primi decenni del ‘900: «sembra possibile ammettere che un certo rigonfiamento delle statistiche della popolazione sia determinato dall’orgoglio cittadino per il rapidissimo sviluppo conosciuto a seguito dell’intenso processo di industrializzazione nonché dall’aspirazione ad un miglior decentramento, nell’ambito regionale, degli organi periferici dello Stato» (Covino, Gallo, Tittarelli 1985, 419). 6 Parenti rileva come in quel periodo questioni del genere, inserite nei meccanismi profondi della macchina giuridica e amministrativa, sfuggissero alla competenza del Consiglio Superiore di statistica, organo molto «professorale» (Parenti 1994, 89). Il più delle volte tali problemi spettavano direttamente ai reparti responsabili dell’Istat.

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affermazione nel contesto unitario allo scoppio del secondo conflitto, è mia opinione

che si possano individuare almeno altri due grandi cambiamenti, originati da

disposizioni a livello nazionale nei campi della sanità e del lavoro, nel significato che

questo ufficio rivestì per la vita dei municipi e per i loro rapporti con i poteri centrali:

uno occorso tra fine ‘800 e inizio ‘900, in corrispondenza del rafforzarsi del ‘welfare

municipale’, l’altro a partire dalla seconda metà degli anni venti, veicolato dalla politica

antiurbana del regime.

I comuni e le spese di spedalità

La riforma voluta da Crispi a fine Ottocento sull’assistenza sanitaria e l’ordinamento

delle opere di beneficenza impostava un sistema nazionale in cui rilevante era il ruolo

affidato agli enti locali7, come era stato affermato dallo stesso ministro in parlamento:

«È il comune che deve pensare ai suoi poveri, e non si può fare altrimenti. Volete forse

che lo Stato si incarichi anche di queste spese? Allora faremmo uno Stato socialista; ed

a me questo non piace» (cit. in Detti 1993, 76). Lo Stato decretava la cornice giuridica

all’interno della quale si dovevano svolgere i rapporti tra i comuni, i medici condotti e

gli istituti di ricovero (di cui si cercava di semplificare e uniformare gli statuti).

L’intenzione era quella di instaurare una sistema di beneficenza capace di integrare

dimensione locale e quadro nazionale. Un aspetto della riforma del 1890 ci interessa in

particolare, quello relativo al domicilio di soccorso, ovvero allo spinoso problema delle

spese relative al ricovero degli indigenti non appartenenti al comune. Ogni municipio

provvedeva a pagare le cure per gli abitanti iscritti nelle liste dei poveri, attraverso

l’opera dei medici condotti all’interno dei propri confini, ma non era tenuto a sostenere

direttamente le spese degli ospedali locali per i ricoveri: questi infatti, se il degente

dimorava nel comune, prestavano gratuitamente il soccorso8. Le cose si facevano più

complesse quando si usciva dal territorio comunale. Uno degli aspetti più innovativi

della riforma era proprio quello di garantire per tutti l’accesso alle cure d’urgenza,

indipendentemente dal comune di appartenenza. Paolo Frascani ha parlato a questo

proposito di «un primo riconoscimento del diritto all’assistenza ospedaliera» (Frascani

1986, 131). Ma rimaneva da chiarire a chi andassero addebitate le spese sostenute per i

non residenti. Si poteva istituire per tutto il territorio nazionale l’assistenza gratuita? 7 Legge 17 luglio 1890, n. 6972. 8 Salvo «nelle provincie dove per legge o consuetudine sussista l’obbligo di rimborsare agli spedali la spesa dei rispettivi malati poveri, [dove] continua provvisoriamente tale obbligo» (articolo 97). Inoltre era in parte compito dei comuni integrare il bilancio delle opere, in caso di necessità.

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Nonostante fosse «nei voti di tutti che la beneficenza ospedaliera dovesse venire

prestata gratuitamente senza riguardo alla provenienza del malato: che cioè in nessun

caso avesse ad essere circoscritta entro confini di Comuni, di Provincie, di Regioni»

(GU 19-9-1896, 5025)9, questo «lodevole concetto […] incontrò non lievi ostacoli per le

difficoltà che si sarebbero create a molti ospedali» (AP 24-11-1899, doc. 44-a)10 e

soprattutto ai loro bilanci che ora venivano integrati dal municipio di appartenenza. Si

decise quindi per l’attribuzione delle spese al comune dell’ultima località nella quale il

ricoverato avesse trascorso cinque anni di dimora ininterrotta, grazie ai quali vi

conseguiva automaticamente il ‘domicilio di soccorso’. Se queste condizioni non

sussistevano o non potevano essere dimostrate, si ricorreva allora al comune di nascita.

Tale disposizione suscitò timori circa l’effettivo rispetto del diritto all’assistenza, come

quelli espressi dal deputato Dobelli durante il dibattito parlamentare: «Ora gli operai, i

quali si recano di regione in regione d’Italia, di Comune in Comune, possono finché

dura il lavoro, e questo lavoro può assicurare ad essi il sostentamento, provvedere alla

loro vita. Ma immaginate un momento di crisi, di repentina sospensione di lavori, e il

giorno in cui una turba di operai, si trova d’improvviso, gettata sul lastrico senza lavoro,

vi pare opportuno di domandare all’operaio, che si trova in queste condizioni e picchia

alle porte dell’Istituto di carità: ditemi se voi avete 5 anni di domicilio in questo

Comune? […] Prolungando il termine a cinque anni, noi veniamo a restringere per

l’operaio i limiti della patria, mentre quanti siamo qui dentro desideriamo che l’operaio

del nostro paese trovi aiuti e soccorsi colà dove egli col sudore della fronte presta la sua

opera» (AP 13-12-1899, 388-389).11

In realtà il soccorso in caso di urgenza era obbligatorio in tutti i casi per gli istituti di

beneficenza e il termine di cinque anni era già un dimezzamento di alcune regole in uso,

che prevedevano dieci anni di domicilio. Inoltre la prova della dimora effettiva evitava

che i comuni potessero interferire nell’appartenenza di alcuni strati popolari ai vari

municipi con delle scelte discutibili sul piano della nazione («i limiti della patria») e dei

principi di uno stato liberale: il soccorso doveva essere un diritto del povero esteso

all’intero paese. In Lombardia, ad esempio, alcune disposizioni di epoca preunitaria

prevedevano il domicilio12 come criterio di appartenenza, ovvero una categoria giuridica

9 Relazione del Ministro dell’Interno al Re del 28 giugno 1896. 10 Relazione al disegno di legge 44-A presentata alla Camera il 24 novembre 1899. 11 Corsivo mio. 12 Per il domicilio, definito come il luogo dove la singola persona stabilisce la sede dei propri interessi, bastava una semplice dichiarazione all’ufficio dello stato civile: era infatti in questo registro che

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che dipendeva esclusivamente da dichiarazioni di intento dell’interessato e non

dall’accertamento di uno stato di fatto. Si potevano avere così due possibili tentazioni.

Se da una parte si constatava come fosse consuetudine che «amministratori del comune,

specialmente di comuni rurali, fac[essero] fare ad un povero la dichiarazione di

abbandono o di trasferimento del domicilio in qualche città per caricarne a questa il

mantenimento» (Camera 1889, 74), dall’altra c’era chi richiedeva la possibilità di porre

dei filtri alle porte stesse della città: nel 1877, discutendo del bilancio dell’ospedale

Maggiore di Milano aggravato dalla presenza dei forestieri, il medico comunale Monti

si pronunciava contro l’allargamento indiscriminato del diritto di ricovero di fronte alle

esigenze cittadine: «La legge deve opporre un valido margine a quel commovimento

che si manifesta oggidì nelle masse popolari, d’abbandonare indifferenti il proprio paese

per cercar ventura alla città. […] Si proclami pure essere libero il comune di accogliere

quell’onesto che sa e che può vivere dei suoi mezzi senza ledere l’altrui proprietà, e

d’escludere colui che non offre le necessarie guarentigie» (cit. in Frascani 1986, 131).

Meccanismi simili avvenivano in località dove si avevano dei contrasti di radice

nazionale, come nei territori dell’impero austriaco confinanti con l’Italia: gli emigranti

trentini che dalla Valsugana si recavano per lavoro nella più ricca regione del

Vorarlberg ottenevano la cittadinanza nel comune dopo dieci anni di dimora, prima dei

quali potevano essere allontanati se si fossero trovati senza risorse, proprio per non

gravare sull’assistenza comunale (Grandi 1997).

La dimora effettiva, criterio adottato per ottenere il domicilio di soccorso, doveva

probabilmente servire anche per evitare l’instaurarsi di meccanismi di questo tipo e

diminuire la soglia di discrezionalità in mano alle amministrazioni municipali. Restava

comunque una categoria incerta e mal definita, per cui si faceva spesso ricorso a quella

più precisa della residenza13, facilmente riscontrabile nelle liste di popolazione. Ma

come abbiamo visto non sempre la residenza rispondeva a una situazione reale. I casi di

non riconoscimento dell’effettività della dimora a causa della mancata iscrizione in

anagrafe erano molto frequenti, a volte eclatanti se coinvolgevano intere comunità di

lavoratori trasferiti da anni in un’altra città, come quella dei ciabattini di Salza Irpina

(Avellino) emigrati a Genova e che continuavano a pesare sul bilancio del comune di rimanevano segnati i cambi di domicilio e non in quello della popolazione, che doveva avere scopi statistici più che giuridico-amministrativi. 13 Il regolamento del 1901 includeva nella popolazione stabile, ovvero quella che andava iscritta nei registri, tutte le persone che passavano nel territorio comunale tutta o la maggior parte dell’anno, che avessero fatto dichiarazione o che vi avessero già trascorso almeno un anno senza «notevoli interruzioni» (art. 1).

12

origine. Se ne lamentava il sindaco, scrivendo al Ministero dell’Interno nell’aprile 1906:

«Una larghissima colonia di operai calzolai e ciabattini nati in questo Comune è da

molti anni stanziata in Genova con le rispettive famiglie. Quasi automaticamente

avviene che gli infermi sono ricoverati negli ospedali di Genova e quelle

Amministrazioni richiedono i rimborsi della spesa. […] Se questo principio e questo

sistema dovesse perdurare nel bilancio di questo piccolo Comune, dovrebbero stanziarsi

stabilmente almeno mille lire. Tutto il bilancio non supera le ottomila lire e sono in

corso le pratiche per essere il Comune ritenuto insolvente per tutti gli effetti di legge

[…] Se questo povero Comune non tiene mezzi per sostenere i servizi obbligatorii

locali, come potrebbe sostenere quest’altra spesa non lieve annuale e per giunta non

giustificata né in diritto né in fatto?» (ACS-2, b. 210).

È un caso che mostra la forza del principio dell’origine e dell’appartenenza anagrafica

rispetto alla fragilità delle constatazioni di fatto, su questioni di non poco conto per una

piccola amministrazione. Per Vicopisano, piccolo comune in provincia di Pisa su cui si

è svolta una ricerca specifica, la voce «Spesa per la cura dei malati negli ospedali» era

tutt’altro che secondaria: era aumentata dalle circa 5000 lire del 1890 alle 9400 lire del

1904, quando appare come la prima tra le spese, incidendo per il 22% sul totale delle

uscite (ASV, b. V/30). Nel 1909 il prefetto di Firenze parlava di incombenze ancora

maggiori nella sua provincia: «il numero delle giornate di presenza che ciascun Comune

ha pagato nell’ultimo quinquennio ai vari Ospedali […] è in progressivo aumento, […]

presso alcuni Comuni situati alla periferia di questo Capoluogo raggiunge cifre tali da

procurare alle rispettive amministrazioni una spesa pressochè insostenibile alle stremate

loro finanze, e che in alcuni di essi raggiunge il terzo dell’intiero bilancio» (ACS-2, b.

210, corsivo mio).

L’importanza della residenza nel determinare l’attribuzione della dimora di fatto

ultraquinquennale di una persona in un comune piuttosto che in un altro divenne ancora

maggiore a causa di una legge ad hoc per gli ospedali romani che andava proprio in

quella direzione. Nel 1896 infatti vide la luce una norma che aboliva la tradizionale

gratuità del ricovero a Roma, sede della cristianità, per i forestieri di passaggio: col

nuovo assetto sanitario e con l’accrescersi della popolazione gravitante attorno alla

capitale del regno, ed anche per «il bisogno di togliere l’abuso, in moltissimi casi

verificatosi, che, cioè, da alcune provincie limitrofe si mettessero in istrada ferrata dei

malati per farli curare e ricevere gratuitamente negli Ospedali romani» (GU 19-9-1896),

si stabilì che dovesse essere il comune di origine del ricoverato a pagare. Erano le

13

particolari condizioni della recente crescita della città eterna a imporre una soluzione

del genere, come ricordava alla Camera l’onorevole Santini: «mentre nel 1870 il

censimento di Roma dava 170,000 abitanti, l’ultimo ne presenta quasi mezzo milione. E

mette conto rilevare che di questi 300,000 abitanti in più, fatta eccezione di 60,000 tra

impiegati e persone agiate, i rimanenti sono operai, braccianti, mendicanti, rivenditori

ambulanti, ecc., ecc., accorrenti in Roma a procurarsi, più che il lavoro, gli stenti della

vita, in una rattristante concorrenza con altri infelici della città» (AP 11-7-1896, 7552).

Proprio le presunte qualità dei flussi migratori verso questa città, caratterizzati da un

alto grado di ‘pezzentismo’, ne rendevano necessaria una speciale legislazione. Per

rintracciare l’amministrazione debitrice si stabilì che in questo caso facesse fede

esclusiva l’iscrizione anagrafica accertata in Campidoglio. Si intendeva così dare

maggiori sicurezze di rimborso agli spedali capitolini, «ponendo a fondamento delle

indagini circa l’appartenenza del malato un fatto certo invece di un fatto non sempre

facilmente constatabile» (GU 19-9-1896). Ma, come era prevedibile, questa disposizione

suscitò forti critiche. «Lo Stato civile», la più diffusa rivista dei segretari comunali

(sulla cui rilevanza si veda Romanelli 1989), iniziò a occuparsi nelle sue pagine di

questioni di spedalità proprio per la rilevanza che il caso di Roma aveva assunto:

«Avendo questa pregevole Rivista esteso le sue rubriche anche in materia di spedalità,

mi permetto profittarne per sollevare una questione vitalissima per le finanze Comunali,

stante il progressivo aumento delle spese cui si deve far fronte, specialmente per le

spedalità romane. […] Il legislatore col prescrivere la dichiarazione della dimora

quinquennale risultante dai registri di anagrafe, è partito dal concetto che […] in essi

fossero realmente inscritte e nei termini stabiliti tutte quelle persone che nella Capitale

hanno fissato la propria dimora, […] e se così fosse sarebbe giustissimo ed indiscutibile

il mezzo di prova richiesto, che viceversa è discutibilissimo ed inattendibile di fronte al

vero stato di fatto, cioè delle troppe omissioni che il detto registro presenta» (SC 1-6-

1908, 161-162). L’inefficienza degli uffici capitolini veniva indirettamente a costare

molto a quei comuni, certo non tra i più ricchi, che vedevano partire per Roma molti dei

loro cittadini alla ricerca di lavoro. Il paradosso sta nel fatto che proprio i cittadini senza

redditi erano quelli con meno possibilità di ricorso di fronte a una amministrazione

molto spesso inadempiente, quando non sfacciatamente disinvolta nella compilazione

delle carte: tra i casi più palesi una singolare iscrizione all’anagrafe di un paziente che

viveva a Roma da almeno una decina di anni, registrato come residente proprio il giorno

prima del ricovero (ACS-1, b. 24).

14

Di fronte a un quadro di questo tipo, diventava molto importante invece per questi

piccoli comuni una tenuta del registro di popolazione che fosse il più corretta e

funzionale possibile. L’anagrafe poteva costituire infatti un’arma per schivare delle

attribuzioni erronee, o quantomeno un valido aiuto per ricostruire gli spostamenti fatti

dai ricoverati ed evitare il pagamento di pesanti rette. Negli anni tra il 1908 e il 1909

«Lo Stato civile» ricevette una quantità notevole di domande inerenti l’attribuzione del

domicilio di soccorso, inviate dai funzionari municipali: un’occhiata agli indici tematici

di quelle annate permette di constatare come, dopo le questioni matrimoniali, fosse

l’argomento più citato, a causa della miriade di piccoli contenziosi che gravitavano

intorno al problema dell’attribuzione delle spese tra comuni e ospedali. Prendiamo

anche qualche esempio concreto, tratto dall’archivio storico di Vicopisano: nel

novembre del 1910 lo Spedale Pammatone di Genova chiedeva il rimborso per tale

Orsola Chiavarini, ricoverata per un parto d’urgenza, «appartenente per domicilio di

soccorso a codesto comune dove il marito: Camerini Corrado di Cesare, ex ferroviere,

nacque né ebbe ad acquistare altrove domicilio di soccorso avendo, fuori di Vicopisano,

sempre fatto vita girovaga». Il segretario comunale si incaricò di indagare se nella «vita

girovaga» di Corrado Camerini non si potesse rintracciare una permanenza prolungata

al fine di scaricare altrove l’onere del domicilio di soccorso. Dall’anagrafe risultava che

Camerini si era trasferito a Verona nel 1902, e da lì ebbe inizio la ricerca. Da fine

novembre a metà dicembre del 1910 una fitta corrispondenza tra i comuni testimonia il

tentativo fatto per venire a capo della vicenda di Camerini, che cambiò almeno quattro

volte residenza nell’arco di otto anni: da Vicopisano a Verona, da Verona a Pistoia, da

qui a Pisa e quindi a Genova. Assente dal comune di origine da quel primo spostamento

di otto anni prima, la mobilità dell’ex ferroviere non lo aveva portato a fermarsi più di

tre anni in ogni posto, condannando Vicopisano a pagare (ASV, b. V/32).

A volte le informazioni ottenute dalle anagrafi venivano integrate con quelle

provenienti da altri tipi di fonte. Dal marzo al giugno del 1913 Antonia Giannini,

vedova di 63 anni, era stata ricoverata a causa di una grave bronchite presso gli Spedali

Civili di Genova. Poiché la Giannini dichiarava di provenire dalla frazione di San

Giovanni alla Vena, appartenente al comune di Vicopisano, veniva inviata la fattura

delle 408 lire spese per i 102 giorni di ricovero. Per prima cosa i funzionari indagarono

sull’identità di Antonia, recandosi a San Giovanni per chiedere informazioni al parroco

e alla famiglia Giannini che là risiedeva, ma anche ai «vecchi» del paese. Nel 1850 il

sistema dello stato civile era un compito delle parrocchie, senza quel livello di

15

formalizzazione e uniformità che avrebbe assunto in seguito, e per interrogare un

passato non troppo remoto bisognava fare affidamento anche su canali informali e

comunitari. Ma una volta riscontrato che una Antonia Giannini era nata a San Giovanni

e che si riteneva abitasse a Pisa da molti anni, la rete informativa attivata dal comune di

Vicopisano si mosse tutta all’interno della macchina statale: il 9 luglio veniva chiesto al

servizio anagrafico di Pisa di cercare traccia della scheda della Giannini, mentre un’altra

«richiesta urgentissima» del sindaco era inoltrata al questore di Genova: «Prego

caldamente V. S. Ill al compiacersi far rintracciare in cotesta città certa Giannini

Antonia fu Tomaso e di fu Guerrucci Margherita di anni 67, uscita da poco da cotesti

spedali ed interrogarla circa l’epoca che abbandonò il domicilio di Pisa, e da quanto

risiede in cotesta città, riferendone». La risposta avuta dal comune di Pisa spinse le

ricerche in direzione di Livorno, dove la Giannini si era trasferita nel 1900, mentre

l’interrogatorio commissionato al questore di Genova dava delle notizie in

contraddizione con quelle già ottenute. Il sindaco si spinse a chiedere un secondo

interrogatorio, più approfondito. Entro fine luglio, il comune di Vicopisano aveva tutte

le informazioni che desiderava sulla vita dell’anziana Antonia, e si rifiutò di pagare la

retta agli Ospedali di Genova. Nel novembre dello stesso anno, quando questi

presentarono ricorso presso il Ministero dell’Interno, Vicopisano era pronto a ribattere

con un controricorso in cui, incrociando le notizie ottenute presso il parroco e gli

abitanti della piccola frazione di San Giovanni alla Vena, dalle anagrafi di Pisa e di

Livorno, con quelle avute grazie al questore di Genova, ricostruirono così la storia di

Antonia: nata nel 1850, si trasferì con la famiglia a Pisa appena due anni dopo e vi

rimase fino ai 50 anni, quando andò a vivere a Livorno. Nel 1903 si spostò a Calci, e

subito dopo a Pontedera, sempre in provincia di Pisa, restandovi fino al trasferimento

definitivo presso il fratello in via San Fruttuoso, a Genova, nel 1909. Le conclusioni

espresse nel controricorso erano perentorie: «Stando così le cose è manifesto che

l’onere della spedalità Giannini fa carico al Comune di Pontedera, ammenochè non sia

questo in grado di provare che dal periodo dal 1903 al 1909 la Giannini non vi si

trattenne per intiero quinquennio. Ciò posto l’onere della spedalità tornerebbe a far

carico al Comune di Pisa. In ogni ipotesi il Comune di Vicopisano deve ritenersi come è

infatti non tenuto al rimborso della spedalità della Giannini» (ASV, b. V/33).

È stato proposto che i registri di popolazione servirono nell’Italia liberale come

strumenti di controllo sociale, passando negli anni dalla semplice raccolta di «“basi di

dati” riferite al complesso della popolazione» al funzionare come «vie di accesso dirette

16

ai singoli membri della società» (Randeraad 1996, 41): i casi osservati dimostrano

piuttosto una loro importante funzione come ‘guide’ adoperate dalle autorità locali per

ricostruire gli spostamenti dei loro cittadini indigenti, dopo che questi si erano verificati.

Uno degli effetti provocati dal sistema dell’assistenza stabilito con la riforma del 1890

fu proprio il rafforzare l’importanza del corretto funzionamento dei registri anagrafici a

fini amministrativi, soprattutto nei comuni minori e in quelle zone dove era più diffusa

la pratica del ricovero ospedaliero, e dove risultava quindi più importante da parte delle

autorità registrare i casi di trasferimento di popolazione in altri centri. In alcune zone

della penisola, soprattutto nel Meridione, non era così usato il ricorso alle strutture

sanitarie, ma si continuava a preferire l’assistenza a casa. Uno studio del Ministero

dell’Interno spiegava così il fenomeno: «nel Napoletano e nelle due grandi isole, […] la

popolazione vive quasi tutta agglomerata in grossi centri, l’assistenza a domicilio è ivi

più facile e più pronta che non nell’Italia settentrionale e centrale, dove trovansi

numerosi operai avventizi, i quali vivono lontani dalle proprie famiglie, e dove gli

agricoltori vivono quasi tutti in case sparse per la campagna» (Ministero dell’Interno

1906, 25).

Al differente grado di tenuta dei registri di popolazione in Italia, collegato da Corsini

col livello di analfabetismo, può quindi aver contribuito anche la diversa pressione che

le spese di spedalità esercitavano sui comuni e il loro minor interesse a una

registrazione corretta della mobilità territoriale. Questo nesso veniva stabilito nel 1904

da Luigi Bellini, redattore de «Lo Stato Civile Italiano», a commento del recente

regolamento anagrafico: «durante questo ultimo ventennio, tutti i Municipi, anche dei

più piccoli Comuni, edotti delle conseguenze del disposto dell’art. 72 della legge sulle

Opere Pie (1890) sul domicilio di soccorso, si sono affrettati ad impiantare o correggere

od aggiornare il rispettivo ruolo di popolazione» (SC 15-8-1904, 242). La diversa

qualità dell’apparato di registrazione dei dati dipenderebbe quindi anche dal loro grado

di interesse in relazione al mondo amministrativo locale, maggiore nel centro nord,

minore nel sud.

Un secondo effetto riguarda più da vicino la storia della sanità in Italia: il ricorso

sempre più largo al ricovero nelle strutture sanitarie rilevato per quegli anni, «il

processo di ospedalizzazione» (Frascani 1986, 159-201), non era esente da spinte che

provenivano dalle questioni concernenti la spedalità di soccorso. Il numero di persone

ricoverate aumentò del 50% nell’arco di un ventennio, dal 1885 al 1902, e nello stesso

periodo la percentuale di malati ricoverati negli ospedali dei capoluoghi di provincia,

17

ma non residenti, aumentò dal 28% al 72% (Frascani 1986, 173), in parte per un

aumento della mobilità della popolazione, in parte proprio grazie al disposto della legge

del 1890, come riscontrava un’inchiesta condotta dal Ministero dell’Interno nel 1902:

«Là dove sono numerosi i lavoranti avventizi, le amministrazioni comunali hanno

interesse a che essi siano curati piuttosto entro l’ospedale che non al proprio domicilio,

per far gravare le spese di assistenza sul comune di origine» (Ministero dell’Interno

1906, 70). Gli istituti sanitari dei capoluoghi di provincia con più di 100.000 abitanti

ospitarono in quello stesso anno il 34% del totale dei degenti. Nelle maggiori città di

porto, in cui ci si imbarcava per l’estero, poteva succedere che gli stessi emigranti in

attesa di partire o appena rientrati fornissero contingenti di ricoverati: è il caso di

Napoli.

Un «uso per lo meno disinvolto» del domicilio di soccorso era diffuso, secondo

Frascani, soprattutto in città come Milano o Torino, in cui le autorità sanitarie erano

consapevoli del fatto che il processo di urbanizzazione veniva ampiamente

sottorappresentato dai servizi anagrafici. Meccanismo questo che porta a proporre un

terzo possibile effetto, ovvero l’instaurarsi, nell’azione quotidiana degli uffici comunali

di quei centri che maggiormente attiravano manodopera dalle campagne, di prassi non

codificate a livello nazionale che operavano una sorta di resistenza all’iscrizione

anagrafica degli strati poveri della popolazione. Queste pratiche, per cui certo non

mancavano gli strumenti, sarebbero quindi state all’origine, ricevendone un massiccio

rinforzo, delle disposizioni antiurbane del regime fascista, di cui tratteremo tra breve.

Ma si tratta di ipotesi formulate a un livello puramente congiunturale, che avrebbero

bisogno di verifiche puntuali, per quanto di non facile realizzazione.

Le anagrafi durante il ventennio

Nel periodo fascista i prefetti dei comuni maggiori furono autorizzati, e anzi vivamente

spinti, ad utilizzare il possesso della residenza come segno di discrimine tra chi era

gradito in città e chi non lo era. A partire dal 1927 vennero prese delle misure per

‘sfollare’ le città e rimandare nei campi coloro che si erano inurbati di recente, così

come si cercarono di controllare ulteriori trasferimenti: la legge 24 dicembre 1928, n.

2961, autorizzava i prefetti a combattere l’urbanesimo lasciando libertà di azione e

fornendo un quadro giuridico elastico che permise una vasta gamma di misure (Istat

1934). Le vecchie preoccupazioni liberali sui rapporti tra autorità e individuo venivano

ora spazzate via dal nuovo spirito dei tempi, che voleva il comportamento del singolo

18

completamente piegato all’interesse dello Stato: la resistenza all’urbanizzazione si

dotava di strumenti inediti e diventava politica ufficiale dello stato (Treves 1976 e 1980,

Mariani 1986, Ipsen 1997). Alcune relazioni prefettizie ci riferiscono delle azioni delle

forze dell’ordine in varie città d’Italia: nel 1928 vennero allontanate da Trieste 1612

persone; da Torino, dal 1º dicembre del 1928 ai primi di giugno dell’anno dopo, ne

furono espulse 1443; il prefetto di Napoli contò 275 ‘rimpatri’ dal febbraio al maggio

del 1929 (ACS-3, b. 1169). Grazie ad un largo uso del foglio di via e dei rimpatri

obbligatori, previsti dall’art. 158 del nuovo testo sulla pubblica sicurezza, i non

residenti che si fossero trovati disoccupati erano sempre soggetti a sanzioni di

allontanamento, a prescindere dalla loro condotta pubblica14.

Le ragioni di queste operazioni venivano poste all’interno della politica demografica

fascista rivolta all’aumento delle nascite, che risultavano in ribasso nei maggiori centri

urbani, ma avevano una loro utilità anche per problemi di altro ordine, come la

questione degli affitti dopo il blocco post-bellico o il rispetto dell’ordine pubblico, in

garanzia dei ceti medi. Sarebbe errato tuttavia sottovalutare per questo l’importanza del

discorso demografico. Le riflessioni sul ‘tramonto dell’occidente’, gli effetti della

transizione demografica sulle nascite negli altri paesi europei costituivano paure reali e

concrete, di cui Mussolini fu un appassionato interprete. Il regime mise in campo una

vera e propria opera di educazione nazionale alla demografia, abituando gli italiani a

leggere su tutti i giornali sfilze di dati che riguardavano nascite, morti, migrazioni di

tutte le città del regno: il Duce raccomandava ai prefetti di farle stampare su ogni

periodico che avesse cadenza almeno settimanale (ACS-3, bb. 1170-1171).

Il numero come potenza, certo, ma anche come espressione di una nazione florida e

vitale: la nazione era concepita come un organismo, e l’interpretazione dei suoi dati

demografici poteva fornire la diagnosi di possibili patologie. Per conoscere in maniera

precisa lo stato di salute della nazione, i servizi statistici vennero accentrati e dotati di

risorse e di un prestigio mai conosciuti prima. Con la fondazione dell’Istituto centrale di

statistica, il suo collocamento sotto la Presidenza del Consiglio e l’affidamento a una

riconosciuta autorità scientifica come Corrado Gini, erano poste le condizioni per un

rilancio della statistica e in particolar modo del settore demografico. Qui uno dei

compiti maggiori dell’Istat fu quello di ottenere dai comuni di tutto il territorio una

corretta tenuta dei registri di popolazione, obiettivo non semplice da raggiungere, che 14 Come ad esempio per una persona con residenza a Vicopisano, che nel maggio 1929 venne espulsa da Torino, «essendo disoccupata e priva di mezzi di sussistenza», senza altre motivazioni (ASV, b. V/86).

19

venne cercato attraverso l’emanazione di un regolamento anagrafico più funzionale e

soprattutto con il rafforzamento dei controlli delle autorità. Difficile, senza un’estesa

indagine archivistica, riuscire a dare dei giudizi fondati sulla riuscita di questa impresa,

per cui comunque si profusero forze e risorse, e di cui vennero dati giudizi positivi sulla

stampa ufficiale (Avallone 1934). L’impegno venne intensificato soprattutto in

occasione dei censimenti, affinchè all’interno del ‘sistema demografico’ ci fosse un

rapporto più equilibrato con le anagrafi, come indicava il prefetto di Pisa nel gennaio

del 1927: «Occorre […] che in avvenire non siano più i censimenti che forniscano i

materiali per un grossolano impianto anagrafico o per una lenta revisione di uno

schedario mal tenuto, ma debbano invece, essere gli uffici di anagrafe in grado di

fornire a quelle grandi rilevazioni demografiche le direttive locali e il controllo» (ASV,

b. V/70). Si cercò anche di perfezionare la registrazione dei trasferimenti: nel 1930 Gini

chiedeva ai podestà e alle prefetture di distinguere, nelle relazioni inviate all’Istat, i

movimenti migratori avvenuti effettivamente nel momento in cui venivano registrati da

quelli che «si riferiscono ad emigrazioni od immigrazioni avvenute, di fatto, in mesi

precedenti e che, per qualsiasi motivo, furono registrate solo nel mese» (ASV, b. V/93).

Venne insomma recuperato quell’obiettivo ‘alto’ di puntuale raccolta dei dati a fini

demografici che il sistema anagrafico aveva perduto alla fine del secolo precedente, e

che ora con nuovi mezzi a disposizione – un organismo dagli ambiziosi interessi

scientifici e con maggiori capacità di movimento al di sopra della dimensione locale –

poteva essere riproposto15.

Cerchiamo di mettere a fuoco il combinarsi di questi sforzi con le disposizioni per lo

sfollamento delle grandi città, per le quali i problemi connessi alla concessione della

residenza e all’utilizzo dei fogli di via erano centrali. Tali provvedimenti, che

rispondevano a indirizzi nazionali, finivano per dare linfa vitale ad abitudini consolidate

di stampo strettamente localistico, ancora una volta collegate al domicilio di soccorso.

«Lo Stato Civile» affidava alla prima pagina la discussione, quanto mai delicata, degli

effetti che la lotta all’urbanesimo stava avendo in contraddizione con le intenzioni

annunciate: «In molti comuni è invalsa l’abitudine di diffidare (magari con pubblica

ordinanza) i proprietari, dall’affittare case a famiglia o persona povera, proveniente da

altro Comune, se non hanno previamente ottenuto il nulla osta dell’Autorità Comunale.

Se la famiglia non è benvista, l’Autorità stessa minaccia di addossare eventuali spese di 15 Il riferimento imprescindibile per una riflessione sul nodo tra istituzione centrale e amministrazioni periferiche sulle questioni statistiche è Marucco 1996.

20

beneficenza, spedalità, ecc. a chi ha dato in affitto la casa. In certi casi viene impedita,

addirittura, l’entrata in paese della famiglia stessa. […] Altri Comuni, invece,

nell’imminenza dello scadere del periodo utile per l’acquisizione del domicilio di

soccorso, col sistema della pressione, esercitata più o meno direttamente, più o meno

imperiosamente, inducono le famiglie povere a passare in altro Comune». La

discrezionalità prevista solo per le grandi città e con altri scopi che non quelli di evitare

di addossarsi il domicilio di soccorso (per il quale dal 1931 erano sufficienti tre anni di

permanenza), veniva impugnata anche dai comuni minori, con «l’unica mira di

salvaguardare le finanze di un determinato Comune, anziché di un altro»16 (SC, 15-3-

1936, 25-26). Era un tradimento dello spirito per cui era stata emanata la legge del

1928. In realtà, pur rimanendo nei limiti della fascistissima lotta all’urbanesimo a fini

pro-natalisti, si potevano provocare degli effetti imbarazzanti per la cornice giuridica

che racchiudeva il campo anagrafico: rifiutare l’iscrizione di persone che già

dimoravano effettivamente a Torino o a Roma modificava in profondità la nozione

stessa di ‘residenza’, senza che ciò venisse formalizzato. Gini, in contraddizione con il

codice civile, spiegava che l’aver trovato un lavoro era in effetti la condizione per

accertare il trasferimento della residenza (Avallone 1934, 157). Si stava venendo a

creare un rapporto formalizzato tra il diritto di iscrizione nelle liste di appartenenza

comunale e il possesso di fonti di sostentamento, anche a causa della nuova

organizzazione del collocamento che dalla fine degli anni venti era diretta a un controllo

territoriale della manodopera (Musso 2003). La nuova disciplina delle assunzioni

privilegiava gli appartenenti alla comunità locale, secondo il principio per cui prima

bisognava occuparsi dei ‘propri’ disoccupati, poi di quelli ‘forestieri’. Intendendo con

questo termine anche coloro che vivevano ormai da anni in città: «tutti coloro che

giungono ai centri urbani sprovvisti di mezzi di vita e di lavoro – recitava una circolare

del Ministero dell’Interno del 6-12-1928 – […] debbono essere rimpatriati e, se occorre,

coattivamente […]. Criteri analoghi dovranno seguirsi in confronto di coloro che,

oriundi dalla campagna, da tempo, abbiano fissato la propria residenza nel centro

urbano»17 (SC, 1-2-1929, 27). Il confine tra ‘dentro’ e ‘fuori’ si era ristretto sia nello

spazio che nel tempo; la lotta ai disoccupati scosse alle radici le regole base del

funzionamento anagrafico, e consentì ai singoli comuni di fare norma ciò che prima era

16 «Il chè – aggiungeva l’autore – non rientra nel principio corporativo del Fascismo». 17 Corsivo mio.

21

considerata elusione, ovvero di ‘arruolare le anagrafi’ nella costruzione di barriere

all’ingresso della città18.

In un periodo in cui la mobilità territoriale conobbe una intensificazione proprio in

direzione di quelle zone interessate da importanti processi di industrializzazione

(Federico 1985), le risposte del regime, legate al progetto della bonifica integrale e alle

politiche di ‘sventramento’ dei centri storici, fornirono terreno allo svilupparsi delle

facoltà di controllo ed esclusione a disposizione dei poteri locali, a seconda delle loro

esigenze amministrative e sociali (bilancio, sicurezza sociale, ordine pubblico, …),

assecondando linee di comportamento campanilistico dalla tradizione decennale. La

legge più famosa del 193919 contro l’urbanesimo, che rimase vigente nell’ordinamento

italiano fino al 1961, se fornì una base normativa più solida, poteva servire in parte a

contenere l’eterogeneità dei comportamenti municipali e a imporre criteri validi su tutto

il territorio.

La vicenda della spedalità di soccorso legata ai fenomeni di mobilità territoriale, per

quanto in maniera meno intensa rispetto ai primi anni del Novecento, proseguì anche

durante il fascismo e nel primo periodo repubblicano, riproponendo il continuo

risorgere degli stessi difetti di funzionamento di inizio secolo, quando i comuni più

interessati da flussi migratori in uscita avevano provveduto ad affinare i propri servizi

anagrafici per non incorrere in pagamenti dal loro punto di vista ingiustificati. Non

riconosciute nei registri di popolazione, non autorizzate a svolgere lavori regolari,

sottoposte alla minaccia perpetua del foglio di via, le persone provenienti dai piccoli

centri rurali continuavano ad avere bisogno delle cure mediche degli ospedali delle

grandi città. Tracce di questa contraddizione si trovano nei documenti prodotti dai

municipi minori che continuavano a vedersi addossate le spese di ricovero: la loro opera

fu quella di ricostruire le storie migratorie dei propri cittadini indigenti. Di cui altrimenti

sarebbe rimasto ben poco.

18 Su questi temi, qui trattati brevemente, mi permetto di rimandare a un mio lavoro, di prossima pubblicazione nella rivista «Le Carte e la Storia», dal titolo Le anagrafi arruolate: l’Istat e le normative contro l’urbanesimo tra Italia fascista e Italia repubblicana (1928-1961). 19 Legge 6 luglio 1939, n. 1092.

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