Il colorito nella pittura riformata fiorentina, analizzato nelle "Notizie" di Filippo Baldinucci

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Università degli studi di Firenze Facoltà di lettere e filosofia Corso di Laurea in Discipline delle arti, musica e spettacolo Il ‘colorito’ nella pittura riformata fiorentina nelle ‘Notizie’ di Filippo Baldinucci. Relatore: Prof.ssa Mara Visonà Candidato: Valerio Vallini

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Università degli studi di Firenze

Facoltà di lettere e filosofia

Corso di Laurea in Discipline delle arti, musica e spettacolo

Il ‘colorito’ nella pittura riformata fiorentinanelle ‘Notizie’ di Filippo Baldinucci.

Relatore: Prof.ssa Mara Visonà Candidato: Valerio Vallini

Introduzione.

Parlare del colore prendendo in analisi la scena fiorentina può essere visto, dato il

pensiero critico consolidato dalle teorie Vasariane, come un ossimoro.

Per secoli infatti Firenze ha visto il fondamento della pittura nella suddivisione di

disegno ed invenzione: ovvero, in senso molto ampio, ciò che potrebbe essere

riconducibile rispettivamente alla forma ed al contenuto, relegando il colorito ad un

livello più basso, rifacendosi così ad una tematica già apparsa nella Poetica[1] di

Aristotele, che afferma: «chi infatti buttasse giù a casaccio i colori più belli, non

diletterebbe mai la vista come chi ha disegnato una figura in bianco». Negli ultimi due

decenni del Quattrocento, sembra però iniziare a serpeggiare nella città granducale

una nuova tendenza, dove il colore inizia ad assumere una grande importanza

all'interno dell'opera.

Dalla seconda metà del Cinquecento, a Firenze ed in tutta la Toscana crebbe la

fama del pittore ed architetto Santi di Tito, fino a renderlo una delle personalità di

spicco dell'epoca. Noto come autore di numerosissime opere devozionali, propose,

tramite uno stile contenuto, una quieta riforma che contrastava con le tendenze

manieriste del periodo, rispettando le richieste avanzate dalla Chiesa dopo il Concilio

Tridentino, di una pittura funzionale come ‘Bibbia dei poveri’ ed andando a

riprendere lo studio del classicismo, a cui si era avvicinato grazie all'influsso dei

seguaci di Raffaello nel suo soggiorno romano dal 1558 al 1564, fondendolo con la

semplicità compositiva delle opere fiorentine del primo Cinquecento.

Il suo stile sobrio ebbe molto successo, rendendo le sue opere apprezzabili ai più ed

assicurandosi un vasto consenso popolare, tanto che Baldinucci, l'illustre storico

[1] ARISTOTELE, La Poetica, 1450a, 1-3.

I

fiorentino precedentemente presentato, lo giudica «universalissimo» e «tanto

intelligente nella composizione delle storie, che forse si lasciò in dietro molti pittori di

primo grido di quel secolo»[2] fino a riferirci di una probabile invidia da parte di

Tiziano. Fu possibile per questo autore, citato come «valorosissimo in disegno,

benché di non molto grazioso colorito»[3] essere di fondamentale importanza in un

movimento che vide il colore fra i suoi protagonisti: di fatto Santi di Tito, col suo

modo di comporre le opere, aveva avviato una riforma destinata ad essere punto di

partenza per quello che sarà uno dei frequentatori della sua bottega e che riprenderà

lo stile compositivo ed il disegno sopraffino del Maestro fondendolo con coloriti vivi

e rigorosi studi anatomici che arriveranno a prefigurare il Barocco.

Lodovico Cardi detto Il Cigoli, infatti, sarà il punto di partenza per una cerchia di

artisti fiorentini consci della forza del colore, attenti allo studio delle fonti veneziane e

correggesche, coadiuvate da una ripresa della tradizione locale; attuando così una

riforma nella riforma. Prendendo le basi delle tendenze antimanieriste imposte dal

Titi, facendole proprie ed alterandole introdurrà ciò che sarà una delle sue cifre

stilistiche: un colorito vivo e brillante unito ad una profondità spaziale derivata dallo

studio della composizione correggesca.

Il Cigoli non fu l'unico ad assimilare i precetti di Santi di Tito ed unirli con un

ricco studio del colore ed un pathos vivo: fu infatti affiancato dal Passignano che,

anzi, fu diretto studioso del cromatismo veneziano grazie ad un soggiorno che

impiegò la maggior parte degli anni ottanta, durante il quale, sotto la guida del suo

maestro Federico Zuccari, si lanciò nello studio dei colori complementari di Paolo

Veronese, delle opere ricche di colorito di Tiziano e del Tintoretto, e molto

probabilmente di Palma il Giovane, prima di tornare a Firenze, probabilmente nel

1588.

I due, assieme, aderirono ai precetti della riforma di Santi di Tito, ma entrambi si

discostarono dalla colorazione fredda del Titi per infondere nelle loro opere una

profondità ed un pathos amplificati dal colorito caldo e vivo, non più un accessorio

[2] F. BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, stamperia Piero Matini, 1688, p.118.[3] Ibidem.

II

ma vera e propria parte della composizione e del disegno stesso. Si può affermare che

in questo momento i due implementano il colore nel binomio vasariano di disegno ed

invenzione, non contraddicendo l'aretino, bensì aggiungendo un elemento sino a quel

momento lasciato, paradossalmente, in ombra. Il colorire, dunque, non più come

mero inganno dei sensi, ma parte fondamentale di una poetica dell'immagine e della

composizione.

A questa nuova visione del colore si accosteranno gli allievi dei due precursori,

rimasti negli annali come maggiori esponenti del Seicento fiorentino e toscano tutto.

Degli insegnamenti del Cigoli e del Passignano faranno infatti tesoro artisti come

Fabrizio Boschi, Andrea Commodi, Matteo Rosselli, Giovanni Bilivert, e ai loro

precetti si accosterano personalità di spicco come Cristofano Allori e Carlo Dolci,

traghettando l'arte della città granducale verso il nascente gusto barocco; tutti però,

recuperando il classicismo disegnativo della tradizione locale d'inizio Cinquecento,

come Andrea del Sarto e Fra' Bartolomeo; e molto probabilmente sarà questa la

ragione che relegherà la riforma seicentesca fiorentina ad una minore universalità

rispetto alla contemporanea riforma bolognese, che tenderà a qualificarsi in senso

“antichizzante”[4].

Nel 1604 il Cigoli si trasferì nella capitale papale, occupando un ruolo di guida per

i pittori fiorentini alla corte dei papi ClementeVIII e Paolo V ed incarnò, nello

scenario romano, l'emblema dell'artista di scuola fiorentina alle prese con le nuove

influenze nazionali ed internazionali. Numerosi allievi passarono dalla sua sua

bottega romana, come Andrea Commodi, un giovanissimo Bernini, Domenico Fetti e

Sigismondo Coccapani; fu suo allievo a Roma pure Giovanni Bilivert, che tornò

precocemente a Firenze nel 1607, confermandosi in quel periodo, dato l'esodo

romano, come uno dei pochi riformisti in terra fiorentina ed ebbe una grande

influenza su futuri maestri come il giovane Cristofano Allori.

Cristofano Allori si confermò come il più promettente fra tutti, divenendo

l'emblema dell'artista completo, anche grazie alla biografia redatta dal Baldinucci,

[4] MINA GREGORI, 1962, p. 31.

III

dove ci viene presentato come poeta, musicista, attore, incarnando i canoni della

prolificità artistica del granducato di Cosimo II. Mosse i primi passi sotto gli

insegnamenti del padre, per poi arrivare, tramite lo studio connesso del Cigoli, di

Gregorio Pagani e del disegno rigoroso di Santi di Tito, a sviluppare uno stile figlio

della riforma Cigolesca ma permeato di arricchimenti pittorici determinanti per

l'espansione coloristica.

Altro importantissimo artista fu Carlo Dolci: personalità di spicco del Seicento,

venerato dai contemporanei ed in seguito attaccato dai critici successivi, specie

nell'Ottocento, per il suo eccessivo perfezionismo e la profonda pietà dei suoi

personaggi, che codificarono lo stile pio dell'iconografia barocca. Apprezzato molto

nell'ambiente borghese, si fece fautore di un complesso colorismo che sfiorava

squisitezze quasi smaltate, a cui pervenne tramite un recupero del Bronzino ed uno

studio approfondito delle tecniche coloristiche olandesi, che potè studiare

approfonditamente nelle collezioni granducali.

Questi artisti, maggiori esponenti di una riforma rimasta decisamente in ombra,

traghettarono il gusto fiorentino dalla maniera alla grandiosità barocca, rimanendo

fedeli però ai principi della scuola locale. Si creò così una commistione di disegno

perfetto e colorito brillante funzionale alla narrazione, cambiando definitivamente

l'estetica del tempo e lasciando ai posteri una nuova, brillante maniera, che influenzò

notevolmente gli artisti toscani venuti successivamente.

IV

Il parere critico sul ‘colorito’ di

Filippo Baldinucci

L'opera di Filippo Baldinucci si pone, ancora oggi, come punto di riferimento per

l'analisi del Seicento fiorentino e toscano. Le sue Notizie de' professori di disegno da

Cimabue in qua, pubblicate dal 1681 al 1728, in parte edite postume sotto la

supervisione del figlio Francesco Saverio, «concepite originariamente come appunti

in appoggio alla sua attività di ordinatore e a integrazione del grande Albero genealogico

delle maniere da lui ideato nel 1675 e di cui purtroppo si è persa traccia, gli si

allargarono a mano a mano, finendo per prendere l'aspetto di storia di tutta l'arte

italiana dalle origini sino all'anno 1670»[1]. Strutturate seguendo un ordine

cronologico, scandito per decennali, occupano un posto importante nella letteratura

artistica europea, fornendo notizie altrimenti irreperibili, ed essendo catalogabili,

secondo Julius Von Schlosser, come «la prima storia universale dell'arte figurativa in

Europa, scritta in uno stile impeccabile, si da esser compresa fra i testi di lingua della

Crusca. Questo suo carattere di storia universale è spesso attenuato dall'innata

tradizione umanistica : si comincia con l'avo leggendario Cimabue, rimanendo poi

sempre sulla base dell'impronta individualistica propria della tendenza più antica,

interrotta solo da Winckelmann e dai suoi seguaci, attraverso singole descrizioni

empirico-biografiche, conformi alla tradizione dell'umanesimo e del Rinascimento»[2].

Già Francesco Maria Niccolò Gabburri nelle sue Vite di Pittori redatte fra il 1730

ed il 1742 circa, riconosce l'immensa importanza dell'opera baldinucciana,

affermando, senza badare a lodi, che «la città di Firenze, anzi l’Europa tutta, debbe

professare una obbligazione grandissima a Filippo Baldinucci per la bellissima opera

sua delle Vite dei pittori, scritte da esso, con penna d'oro, per via di decennali,

[1] S.SAMEK LUDOVICI, Roma, 1963.[2] J. VON SCHLOSSER, 1924, Firenze, 1956. p. 466.

1

cominciando da Cimabue, restauratore universale indubitato della pittura.

Accompagnò quest’opera coi disegni della maggior parte di quegli artefici dei quali

aveva descritta la vita, distribuendoli in 130 grossi volumi, per la G. M. del

serenissimo cardinale Leopoldo de’ Medici, i quali si conservano presentemente nella

Real Galleria di Toscana, come un prezioso tesoro, che tale si può chiamare con tutta

giustizia»[3]. Partendo da Cimabue, Baldinucci esamina più aspetti del contesto italo-

europeo dell'epoca, usando debitamente la storiografia precedente ed analizzando

ogni autore soffermandosi sia sul punto di vista umano che su quello artistico.

Il punto di vista dello storico fiorentino è però ben diverso da quello del suo

illustre precedente aretino, infatti: «Il Baldinucci non è un artista come il Vasari, e ci

offre invece pienamente il tipo di quei letterati che si occupano d'arte, rappresentato

da molto tempo nella sua patria» continua Schlosser, «rivelatoci anche dalla

caratteristica impronta di quell'età della erudita filologia con i suoi tesori e le sue

compilazioni d'ogni genere. Egli ha riunito documenti e altri manoscritti in quantità

rilevante, — le sue copiose raccolte sono nella Biblioteca Nazionale di Firenze, — e

anche se la sua critica è talvolta discutibile , con questo uso di relazioni autentiche egli

si avvicina al tipo del moderno storico dell'arte; nel Vasari vi era qualcosa di simile,

ma era puro ornamento. Il Baldinucci conserva però un contatto immediato e

notevole con l'arte stessa; anzi, avendo dovuto fare grandi acquisti di quadri per

Cosimo III, egli ne trasse occasione a considerare con uno spirito assolutamente

diverso da quello degli antichi, e anche del Vasari, un campo particolarmente fecondo

per la critica stilistica, quello dei disegni»[4].

Nonostante Baldinucci si adoperasse, con risultati anche notevoli, nel disegno

(come viene testimoniato anche dal Gabburri: «Disegnava perfettamente bene a lapis

rosso e nero, di che ne fanno un’ampia testimonianza tanti ritratti disegnati in tal

guisa di sua mano, tutti di uomini singolari in lettere, per nascita o per eccellenza

nell'arte della pittura»[5]), quello che offre nelle sue Notizie è essenzialmente un punto

di vista non da artista, anzi, afferma Baldinucci stesso: «Pittore non sono; di esser

[3] F. GABBURRI, Firenze, 1730-1742ca. II, cc. 953-954. [4] J. VON SCHLOSSER, 1924, Firenze, 1956. pp. 466-467.[5] F.GABBURRI, Firenze, 1730-1742ca. II, c. 953

2

dilettante non ardisco affermare, sapendo di qual lega debbono essere i veri dilettanti

dell'Arti Nostre; e certa cosa è, che io non son punto ingegnoso»[6], bensì da letterato.

Un letterato, però, estremamente formato nel campo artistico, ed in grado di usare la

propria esperienza alla corte medicea come metro di valutazione: «il Baldinucci

rimane pur sempre in rapporto immediato e profondo con l'arte vera e propria, da

vero conoscitore versato non solo nel linguaggio tecnico, ma nella tecnica stessa : lo

dimostrano i suoi apprezzamenti formali»[7].

Accanto alle sue Notizie, altra opera fondamentale per avere chiari i concetti

espressi dal fiorentino, è il Vocabolario toscano dell'arte del disegno del 1681. Un

documento unico nel suo genere, che fornisce al lettore una raccolta di terminologie,

procedimenti tecnici e manuali, strumenti e nozioni relative alle arti del Seicento,

senza trascurare affatto le arti minori, anzi, fornendo molto spazio ad artigianato e

mestiere.

Consultando il Vocabolario (la cui stesura, assieme a quella delle Notizie, valse a

Baldinucci l'ammissione nell'Accademia della Crusca) ed andando, nello specifico, alla

voce ‘Colore’, il lettore si trova davanti ad una vera e propria storia sintetizzata del

colore, dove può leggere come «Secondo alcuni antichi Filosofi è una qualità nella

superficie, o nell'estremità de' corpi sodi e terminati, la quale gli rende visibili. Di

questi è principio formale il lume, e la trasparenza principio materiale. Alcuni colori

sono, e si dicono principali; ed altri mezzani, o secondi colori. Aristotile tenne

opinione che due solamente fossero i colori principali, cioè il bianco, e 'l nero; e tutti

gli altri disse esser colori mezzani, come participanti di quei due. Altri sono stati di

parere, che i principali sieno sette, cioè il bianco, il nero, il giallo, il rosso, il verde, la

porpora, e l'azzurro, chiamando mezzani tutti gli altri, come che da questi derivino.

Di questi colori, o per meglio dire, di quegli de' quali i Pittori si servono, alcuni sono

naturali (e questi sono per lo più terre) ed alcuni si fanno artificiosamente; e gli uni, e

gli altri mescolati fra di loro, quando più, quando meno, cagionano un numero

infinito di colori secondi, co' quali giugne il perfetto Artefice ad imitare tutte le cose

[6] F.BALDINUCCI, Firenze, 1681, Giuseppe Rigacci libraio, 1765. pp. 4-5[7] J. VON SCHLOSSER, 1924, Firenze, 1956, p. 467.

3

naturali, ed artificiali, e a dare all'opere sue rilievo e vivacità»[8]; laddove il ‘Colorito’[9] è

trattato, molto più generalmente, come l'abilità del pittore nel maneggiare i colori,

abilità che lo renderà ‘di buon colorito’ o ‘di cattivo colorito’.

L'attenzione di Baldinucci per colore e colorito è riscontrabile in più documenti,

come la Lettera a Lorenzo Gualtieri sopra i pittori più celebri del secolo XVI, dove lo storico

esplica, fra le molte osservazioni, i precetti che secondo lui fondano la buona pittura,

precetti evidentemente formulati grazie alla formazione fiorentina unita allo studio

approfondito delle opere e degli stili italiani ed europei, affermando che il colorire è

un mezzo per completare ciò che il disegno non può ottenere [vd. p. 10], o nella

Lettera a Vincenzo Capponi nella quale si risponde ad alcuni quesiti in materia di pittura del

1681, nella quale vengono affrontati i criteri di distinzione tra le maniere e gli stili di

determinati artisti in modo da poter distinguere le opere originali dalle copie e dove,

nella sezione dedicata alle regole per distinguere le copie dagli originali, il colore

assume una parte fondamentale: infatti, secondo lo storico, l'occhio dell'osservatore

deve ricadere «nell'impastar de' colori, nel posar le tinte, ne' tocchi, ne' ritocchi, nel

colorito, e molto più in certi colpi, che noi diremmo disprezzati, e quasi gettati a caso,

particolarmente nel panneggiare, i quali veduti a distanza fanno conoscere in un

tempo stesso e l'intenzione del pittore, ed una maravigliosa imitazione del vero; cosa

che nelle copie rare volte si vede, se non vi è qualche tocco del maestro»[10],

continuando poi con il monito «chi vuol farsi giudice delle maniere de' Pittori, abbia

vedute tante e tante pitture del maestro, di che egli vuol giudicare la pittura, che gli sia

ben rimasto impresso nella mente tutto il suo fare»[11]. Pareri critici che non vanno a

togliere valore alla copia stessa, vista per la prima volta come utile alla diffusione della

conoscenza ed alla conservazione dell'originale, un «modo di render possibile agli

studiosi la per altro impossibile comunicazione per tutto il mondo, e ad ogni persona,

si dotti esemplari, il che non può farsi se non con le buone copie»[12]. Un concetto

dunque trasversale ad ogni arte, che beneficia la pittura come la scultura ed il disegno,

[8] F. BALDINUCCI, Firenze, per Santi Franchi al segno della Passione, 1681, p. 37. [9] Ibidem.[10] F.BALDINUCCI, Firenze, 1681, Giuseppe Rigacci libraio, 1765, pp. 11-12.[11] Ivi, p. 17.[12] Ivi, p. 21.

4

riaffrontato recentemente da Mina Gregori mettendo in relazione quanto espresso

nella Lettera a Vincenzo Capponi con gli scritti di Luigi Antonio Lanzi e le moderne

tecnologie di laboratorio[13].

Il variegato percorso artistico di Baldinucci iniziò in tenera età frequentando le

botteghe di Iacopo Maria Foggini prima e quella del pittore Matteo Rosselli [14] poi. Il

suo ingegno non risiedeva solamente nelle arti figurative e nella musica, quanto

soprattutto nel mettere esse al servizio di argute conversazioni nell'ambiente

aristocratico e granducale, supportato da una vastissima conoscenza dei soggetti

trattati.

Frequentò poi la corte del gentiluomo Alessandro Valori, dove si distinse come

ottimo ritrattista e uomo con uno spiccato senso degli affari e, nel 1664, il granduca

Ferdinando II lo incaricò di occuparsi degli affari amministrativi delle tenute della

“Virgiliana” di Mantova, possedute dalla sorella del granduca, Anna d'Austria (1616 –

1676)[15], consorte di Ferdinando Carlo d'Austria.

Il soggiorno mantovano permise a Baldinucci di studiare a fondo la cosiddetta

‘maniera lombarda’, ovvero la stilistica appartenente a «quegli Artefici, che anno

procurato d'immitare il bello e natural modo di colorire de' più celebri Pittori

Lombardi»[16] nell'arco che va da Correggio ai Carracci, spesso ripresa dai coloristi

fiorentini di fine Cinquecento ed inizio Seicento sui quali, in questo elaborato, il

parere critico di Baldinucci sarà fondamentale. Sempre a Mantova, alla corte di Carlo

II Gonzaga, ricevette l'ufficiale consacrazione come conoscitore infallibile delle

maniere[17].

Tornò a Firenze dopo due mesi di affari nel mantovano e, una volta rientrato nella

capitale medicea, il cardinale Leopoldo de' Medici prima gli commissionò una copia

della Madonna di Santissima Annunziata da inviare all'imperatore Leopoldo I

d'Asburgo, e poi lo sottopose all'identificazione di circa duecento disegni;

[13] M.GREGORI, Milano 2009, pp. 84-87.[14] F.GABBURRI, Firenze, 1730-1742ca. II, c. 953[15] S.SAMEK LUDOVICI, Roma. 1965[16] F.BALDINUCCI, Firenze, per Santi Franchi al segno della Passione, 1681 p.90. [17] S.SAMEK LUDOVICI, Roma. 1965

5

identificazione che porterà all'affidamento della catalogazione della grandissima

collezione di disegni del cardinale, primo nucleo della attuale collezione di disegni

degli Uffizi, suddivisa dal Baldinucci in più di cento libri con disposizione in ordine

cronologico, disposti poi nel Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi. Seguì

poi un terzo incarico, sempre commissionato dal cardinale Leopoldo, ovvero

l'incremento e la sistemazione della collezione di autoritratti degli artisti degli Uffizi,

nota al mondo come la ‘Raccolta degli Autoritratti’. Gli sforzi di Baldinucci non

passarono certo inosservati, di fatto «Leopoldo apprezzò il suo competente

contributo alla costituzione della sua galleria e favorì i suoi studi illimitatamente,

mettendogli a disposizione la sua vasta rete di agenti che raccoglievano per lui dati

biografici e notizie circa le opere degli artisti contemporanei» [18], raccolta

fondamentale per la stesura delle Notizie dei professori del Disegno, la quale vide nel 1681

la pubblicazione della prima parte, sei anni dopo la morte del Cardinale.

Sempre sotto la protezione del cardinale Leopoldo, Baldinucci viaggiò

assiduamente per l'Italia, specie settentrionale, per commissioni di riconoscimento ed

acquisto opere da parte del prelato, fino alla morte di quest'ultimo, avvenuta nel nel

1675. Successivamente lo stesso incarico, seppur con minore assiduità, fu svolto da

Baldinucci sotto il patrocinio di Cosimo III.

Si sposò nel 1658 con Caterina Scalari, dalla quale ebbe cinque figli, due dei quali

presero gli abiti talari ed uno, il terzogenito Francesco Saverio, continuerà, seppur in

maniera minore, l'opera paterna. Nell'accompagnare a Roma il figlio Antonio per

entrare nella compagnia dei gesuiti che, nel 1681, lo storico fiorentino entrò in

contatto con Cristina di Svezia, la quale incaricò il fiorentino di redarre la biografia

del Bernini. Pubblicata a Firenze nel 1682, La vita del Cavalier Gian Lorenzo Bernini, si

presenta come una raccolta di testimonianze da parte di figli, discepoli e conoscenti,

coadiuvata da un recupero di fonti archivistiche della fabbrica di San Pietro, che

fornisce un ritratto vivo dell'artista e della sua opera completa.

Edito invece nel 1687 fu il Cominciamento e progresso dell'arte dell'intagliare in rame colle

vite di molti de' più eccellenti maestri della stessa professione, importantissima pubblicazione

affermatasi come la prima storia di questa disciplina a livello europeo, ed in un

[18] W. PRINZ, Firenze 1980, p.768.

6

momento in cui la pratica incisoria iniziava ad affermare la sua indipendenza rispetto

alla pittura.

Gli ultimi anni della sua vita furono impiegati in una nuova catalogazione di circa

un migliaio di disegni per Pandolfo Pandolfini, collezione venduta poi al Louvre nel

1806. Si spense a Firenze il 10 gennaio del 1696.

Proprio le opere di Filippo Baldinucci, ancora oggi fonte primaria per indagare il

Seicento, ci servono come punto di partenza per analizzare la riforma del ‘colorito’,

vista dagli occhi di quello che si è rivelato ai posteri come il più importante storico

dell'arte del periodo. L'analisi della riforma affrontata partendo dal punto di vista di

un esperto in grado, tramite le sue molteplici esperienze, di fornire un parere ancora

oggi sfaccettato ed estremamente competente.

7

La Riforma del colorito.

Come già accennato, secondo il Vasari, la buona pittura si fonda sul binomio di

Disegno ed Invenzione, egli così spiega nell'introduzione de ‘Le Vite’, dove afferma che

il Disegno «Non può aver buon'origine se non s'ha dato continuamente opera a

ritrarre cose naturali, e studiato pitture d'eccellenti maestri ed istatue antiche di

rilievo»[1], e continua subordinando ad esso l'Invenzione, che ci viene spiegata come

«Mettere insieme in istoria le figure a quattro, a sei, a dieci, a venti, talmente che si

viene a formare le battaglie e l'altre cose grandi della arte»[2]. Il binomio sopra esposto

fu la base del pensiero artistico della Scuola fiorentina rinascimentale per molto

tempo; in questa visione il colore è ridotto ad un fattore secondario, quasi

ingannatore, come viene esposto nella vita di Giorgione da Castelfranco che, a

seconda del Vasari «egli nel colorito a olio et a fresco fece alcune vivezze et altre cose

morbide et unite e sfumate talmente negli scuri, che fu cagione che molti di quegli,

che erano allora eccellenti, confessassino lui esser nato per metter lo spirito ne le

figure e per contraffar la freschezza de la carne viva»[3]. Il colorito è considerato come

falsificazione della realtà dunque, ingannatore nella sua bellezza; una connotazione

riconducibile al piano dei sensi. Del resto nella, visione accademica fiorentina, se da

una parte il buon disegno poteva essere visto come un mezzo d'espressione del

pensiero scientifico in linea con la concezione rinascimentale è intuibile quanto il

colore invece assuma una connotazione fortemente ‘sensuale’, naturale quindi che

venga visto come elemento comunque secondario, una sorta di distrazione dal nucleo

centrale di un'opera.

[1] G. VASARI, Firenze 1550, Ed. a cura di Luciano Bellosi e Aldo Rossi, 1991, p. 59.[2] Ibidem.[3] ivi, p. 558.

8

Notiamo invece come parallelamente a Venezia, nel ‘Dialogo di Pittura’ del pittore

e letterato Paolo Pino (1548) il colore sia già analizzato come parte fondamentale del

dipinto, dove l'autore afferma «il colorire; questa è una composizione di colori nelle

parti scoperte al vedere, perch'a noi non appartengono quelle cose che non si

scopreno al veder stando in un termine, essendo la pittura proprio soggetto visivo. Il

colorire consiste in tre parti, e prima nel discernere la proprietà delli colori e intender

ben le composizioni loro, cioè redurli alla similitudine delle cose proprie, come il

variar delle carni corrispondenti all'età, alla complessione e al grado di quel che si

pigne, distinguere un panno di lino da quello di lana o di seta, far discernere l'oro dal

rame, il ferro lucido dall'argento, imitar bene il fuoco (il che tengo per difficile),

distinguer l'acque dall'aere; e avvertire sopra il tutto d'unire e accompagnare la

diversità delle tinte in un corpo solo, che così appari nel vivo, di modo che le non

abbino del rimesso, e che non dividano e tagliano una dall'altra; è anco da fuggire il

profilare cosa graziosa, e ornar la varietà degli abiti con freggi differenti, riccami,

stratagli, franze, profili e gemme, con altre leggiadre invenzioni, dico nelle fimbrie

tanto. A ridurre l'opere a fine il maestro deve usarvi diligenzia non estrema. Parmi

anco che molto riesci l'esser netto e delicato nel maneggiare e conservare i colori.

Sono infinite le cose appertinenti al colorire, e impossibil è isplicarle con parole,

perché ciascun colore o da sé o composito può far più effetti, e niun colore vale per

la sua proprietà a fare un minimo dell'effetti del naturale, però se gli conviene

l'intelligenzia e pratica di buon maestro». E si arrivi ad auspicare una commestione di

colorito veneto e disegno fiorentino, quando nella disquisizione sul ‘pittore perfetto’,

viene affermato: «se Tiziano e Michiel Angelo fussero un corpo solo, ove al disegno

di Michiel Angelo aggiuntovi il colore di Tiziano, se gli potrebbe dir lo dio della

pittura, sì come parimenti sono ancora dèi propri, e chi tiene altra opinione è eretico

fetidissimo»[4].

Anche nell' ‘Aretino’ del letterato veneziano Ludovico Dolce (1557) [5], accanto

all'Invenzione ed al Disegno, ci viene presentato il Colorito che, afferma l'autore,

[4] P.PINO, Venezia 1548, Milano 1954, pp. 46-47.[5] L.DOLCE, Venezia 1557, Firenze 1735 ed. bilingue per Michele Neftenus e Francesco Moücke. pp. 214 – 230.

9

deve essere simile al vero, e non basarsi sulla sola scelta di bei materiali: fondamentale

è quindi la bravura dell'artista nella lavorazione del colore, nella giusta disposizione di

luci ed ombre, nell'incarnato relativo alla fisicità del soggetto e dei colori delle stoffe e

relativo drappeggio. Nel testo assistiamo anche ad un'aspra critica di Michelangelo, a

cui Raffaello viene riconosciuto superiore in quanto egregio in tutti e tre i campi.

Viene infatti affermato, tra le tante critiche, che «Chi vede una figura di Michelangelo

le vede tutte». Questa confronto a due, dal quale l'urbinate esce vittorioso, può essere

visto in senso funzionale alla successiva esaltazione di Tiziano operata nel trattato:

viene infatti ritenuto l'esempio di uno stile veneto che è ben lontano dal colorito

‘ruvido’ del fiorentino, bensì erede della perfezione del Sanzio. Una vera e propria

affermazione della visione coloristica veneziana a scapito della scuola fiorentina.

Giungiamo ad una lettera di Filippo Baldinucci dove esplica a Lorenzo Gualtieri

quali sono, secondo lui, i precetti della buona Pittura. La lettera porta la data del 29

gennaio 1681, e qui possiamo notare che secondo il Baldinucci i cardini del buon

dipingere non sono più solo due, ma ben quattro, ed essi sono il Disegno, il Colorito,

l'Accordamento e l'Invenzione. Come possiamo vedere, ai precetti dettati dal Vasari,

vengono aggiunti ben due nuovi punti focali, fra i quali spicca il colorito, che viene

addirittura trattato per secondo. Infatti, esplicando il Disegno e l'Invenzione, il

Baldinucci non si discosta molto dai concetti espressi dall'aretino, avvicinandosi

invece al Colorito afferma che da esso «Nasce principalmente il rilievo, la vaghezza, e

quella totale somiglianza al vero, mediante l'espressione de' vari incidenti di lume, alla

quale non può giungere il disegno con le sue linee»[6]. Una caratteristica quindi

fondamentale, e non di secondo piano come nel secolo precedente; ed ancora spiega

l'Accordamento come «Un retto giudicar de' colori»[7] che fa sì che ogni elemento nel

dipinto «Risulti una concordanza armoniosa»[8]. Notiamo quindi che il colore,

nell'arco di un secolo, ha assunto un ruolo di primo piano anche nella Scuola

fiorentine, generando un desiderio di cambiamento rispetto alle teorie vasariane.

[6] F. BALDINUCCI, Firenze, 1681, Giuseppe Rigacci libraio, 1765. pp.102-103.[7] Ibidem.[8] Ibidem.

10

Il seicento fiorentino si presenta come un ambiente in mutamento: la chiusura del

Concilio di Trento nel 1563 decreta un cambio in ambito artistico, ponendo un freno

al manierismo in voga al tempo e riportando l'arte devozionale su dei valori più

popolari, limitando l'interpretazione dell'artista a favore dell'attinenza all'evento

narrato nell'opera; fondamentali sono infatti il decoro, l'aderenza alle scritture, la

leggibilità del dipinto e la sua chiarezza. Un'arte che si rivolge dunque al popolo con

la funzione di istruirlo.

A questa esigenza di cambiamento aderì quello che è considerabile come il

capostipite della riforma artistica: Santi di Tito (Borgo San Sepolcro, 6 ottobre 1536 –

Firenze, 23 luglio 1603). Egli infatti orientò il suo disegno verso la tradizione

fiorentina premanierista già dalla sua prima opera, il completamento dell' Adorazione

dei Magi iniziata dal Sogliani. Distaccatosi dal gusto a lui contemporaneo recuperando

la tradizione locale, una volta a Roma nel 1558 per lavorare al Casino dio Pio IV, al

Belvedere ed a Palazzo Salviati ne approfittò per avvicinarsi alla meditazione su

Raffaello che a quel tempo stava avvenendo nella città papale e i cui frutti percorsero

tutta la sua stilistica successiva.

Dopo il ritorno a Firenze nel 1564 per lavorare alla commemorazione di

Michelangelo Buonarroti ed all'apparato trionfale per le nozze del principe Francesco

con Giovanna d'Austria, importantissimo per il Titi fu un soggiorno a Venezia nei

primi anni settanta, più precisamente «Datato dalla critica moderna sul 1571-72»[9],

che allargò notevolmente la sua tavolozza, soprattutto grazie all'ispirazione data dalla

visione delle opere di Paolo Veronese.

Negli anni successivi, complice il clima post Tridentino, la morte di Vasari e di

Cosimo I, lavorò per le chiese di Firenze sviluppando ed affinando il suo stile, e,

come ci dice Mina Gregori «la poetica svolta da Santi di Tito, che fu nel tempo il

primo “riformatore” a opporsi alla “maniera”, il suo pur incantevole profumo

puristico, condizionano a Firenze i decenni che videro la trasformazione del

gusto»[10]. Successivamente, grazie alla nuova visione luministica e coloristica dei

[9 ]M. COLLARETA, Firenze 1986. II, p. 162.[10] M. GREGORI, 1962, p. 24.

11

dipinti del Cigoli e del Passignano, si produsse in cromatismi e forti chiaroscuri, come

nella Moltiplicazione dei pani e dei pesci del 1592 (Tavola 1), menzionata dal Baldinucci

come «Il miracolo di saziar le Turbe nella chiesa di San Gerbasio»[11] e della variazione

sullo stesso tema del 1603 (Tavole 2.1 – 2.2; qui visualizzata in due foto che

mostrano la tavola prima e dopo il restauro, in quanto «L’opera ha subìto l’alluvione

del 1966 mentre era ancora esposta nella cappella del Palagio degli Spini a Peretola, e

più di un attacco di insetti xilofagi. Per questo è stato fondamentale consolidare gli

strati pittorici lungo la fascia inferiore, danneggiati dall’acqua dell’Arno, rimuovere il

fango ancora presente ed eliminare tutti gli strati incongrui sovrapposti, costituiti da

vernici resinose molto alterate.»[12]) e nel cromatismo morbido di quello che è

considerato uno dei suoi massimi capolavori, ovvero la Visione di San Tommaso

d'Aquino del 1593 (Tavola 3), dove il riflesso della luce sul corpo di Cristo gioca,

assieme ai rossi delle vesti di alcuni dei protagonisti, un ruolo decisivo nella

composizione dell'opera. Evidenti influssi veneti uniti alla meditazione sul coevo

lavoro di Cigoli e Passignano sono evidenti anche nella Sacra Famiglia con San

Giovannino e Sant'Elisabetta del 1601 (Tavola 4).

La religiosità riservata dei personaggi di Santi di Tito fu fondamentale per porre le

basi dello stile che caratterizzò il Seicento fiorentino. Lodovico Cardi detto il Cigoli

(Cigoli di San Miniato, 21 settembre 1559 – Roma, 8 giugno 1613) infatti,

accostandosi agli ideali del Titi, riuscì a traghettare il gusto fiorentino verso un

barocco embrionale tramite la propria reazione al manierismo, tornando

all'imitazione della natura e dell'anatomia, combinando il disegno di scuola fiorentina

con movimenti calcolati, un pathos vivo ed un cromatismo ricchissimo.

Allievo di Alessandro Allori prima, del Buontalenti e dello stesso Santi di Tito poi,

riuscì a trovare una sua personale maniera combinando l'influsso del Barrocci con la

folgorazione dei dipinti del Correggio, che Baldinucci annota addirittura come

[11] F. BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, stamperia Giuseppe Manni, 1702 p. 112.[12] Palazzo Pretorio, La donazione Riblet, <http://www.palazzopretorio.prato.it/pagina47_santi-di-tito.html>

12

«l'Apelle tra i pittori moderni»[13]. Il Cigoli, infatti «avendo egli dopo, lo studio della

maniera del Barroccio, vedute alcune delle maravigliose pitture del Correggio, tanto

se ne invaghì, che volle copiarne, quante ne potè avere, e da quell'ora, mutato

pensiero, all'imitazione di tal maniera, solamente indirizzò ogni suo studio e fatica» [14].

La meditazione sulla spazialità e sul cromatismo del ‘moderno Apelle’ portò il Cigoli

a dipingere, nel 1590, la grandiosa tavola del Martirio di San Lorenzo (Tavola 5),

eseguita per Figline Valdarno che, nonostante la sua stesura travagliata a causa delle

distrazioni musicali dell'artista, risulta come il primo vero e proprio lavoro dove il

colore diventa protagonista, una «componente fondamentale delle riforme di fine

secolo, che rappresentò anche a Firenze l'antidoto all'astrazione della maniera e il

veicolo dell'esigenza di verità, della comunicazione emozionale e della verifica sulla

natura che erano state sollecitate dalle revisioni postridentine.»[15] e tramite una

«Fusione di elementi Tizianeschi e Michelangioleschi»[16], o come viene meglio

esplicato: «il Cigoli si volge al nuovo realismo espressivo, al movimento e alla fusione

di luce e colore appresi dal Barocci, e, tramite quest’ultimo, alle soluzioni del

Correggio (si pensi anche all’ambientazione notturna della cosiddetta Notte di

Dresda). Ad ispirare fortemente Lodovico è però soprattutto Tiziano, autore di un

monumentale Martirio di san Lorenzo per la chiesa veneziana dei Gesuiti»[17] che

inizia a delineare con precisione la linea stilistica che segnerà il Cigoli ed i suoi

seguaci.

A questo periodo appartengono altre opere così caratterizzate, dove «Lo spessore

della materia pittorica e la profondità di campo lo distinguono dagli altri portatori

delle novità veneziane, il Ligozzi e il Passignano»[18] , con quei «nuovi accordi da lui

tentati tra la gamma calda dei veneti con quella acidula e irrealistica del Barroccio»[19]

come nel San Francesco che riceve le Stigmate (Tavola 6) del 1596, «a cui per esser vivo,

altro non manca, che il respirare»[20] e ancora «seppe far apparire in quel volto effetti

[13] F. BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, stamperia Giuseppe Manni, 1702 p127.[14] Ivi, P.21.[15] M.GREGORI, Milano, 1989, p. 281.[16] Ibidem.[17] M.CHAPPEL, Figline, 2008, p.16.[18]M.GREGORI, Firenze,1986, p. 24.[19] R.LONGHI Firenze, 1967, p. 119[20] F. BALDINUCCI, Firenze, stamperia Giuseppe Manni, 1702, p. 26.

13

chiarissimi delle grandi voci del suo cuore, arso dal Divin Fuoco» [21], ponendo

l'accento sulla pregevolezza dell'atmosfera celeste creata dall'artista, dove l'«amore del

contrasto violento è sottolineato dalla luce, una luce scaturita insieme ai due bellissimi

angeli, che ritaglia rocce e fronde, aiutando a chiarire i piani arretrati della

tormentatissima natura»[22] protagonista in tutto e per tutto assieme alla figura del

Santo. O come il Martirio di Santo Stefano (Tavola 7), «nella sua impaginazione neo-

veronesiana, spiegata al lume eccezionalmente chiaro e trasparente»[23], «visibile nella

ricerca oloristica, nella leggerezza e trasparenza del cielo, nella composizione nuova

per la pittura fiorentina»[24] dove va a fondere la sfera naturale e soprannaturale molto

più spiccatamente che nel San Francesco, creando quello che è considerabile come il

«primo esempio di innografia barocca»[25], e che il Baldinucci ci indica come l'opera

che fu stimata da Pietro Da Cortona come la più bella fra le pitture conservate a

Firenze, e quella che gli sarebbe valsa l'appellativo di «Correggio Fiorentino» [26].

L'interesse per il colorito da parte del Cigoli viene reso noto anche tramite la

menzione di uno scritto, andato perduto, a cui l'artista stava lavorando: «sopra le

qualità di, e la natura de' colori, e il modo di perpetuarli al possibile, ne scrisse di sua

mano un dotto libro; ma non andò molto, che il medesimo con suo infinito dolore gli

fu sottratto, senza che mai, ne da lui in vita, ne dopo la morte di lui si potesse venire

in cognizione, ove capitasse; abbiamo ben noi veduti alcuni frammenti, o per meglio

dire, alcune prime bozze fatte per tal opera sopra fogli disegnati di sua mano (…)

benchè brevissimi scritti non lasciano di mostrare per la novità dell'avvertenze avute,

e delle materie usate, la profondità dell'ingegno suo, e la sua attenta ed accurata

investigazione»[27].

Le ‘Notizie’ del Baldinucci ci parlano anche di due opere all'epoca custodite da

Niccolò Ronconi, Fiorentino cavaliere di Santo Stefano: esse sono un «un San

[21] Ibidem.[22] M.BUCCI, S. Miniato, 1959, p.60.[23] M. GREGORI, Avant – propos sulla pittura fiorentina del Seicento in “Paragone” 145, 1962. [24] M.BUCCI, S.Miniato, 1959, P. 71.[25] M. GREGORI, Firenze, 1986, p. 24.[26] F. BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, stamperia Giuseppe Manni, 1702, p. 27.[27] Ivi, p. 22

14

Girolamo in atto di percuotersi con la pietra» (Tavola 8) ed un «San Francesco

d'Assisi genuflesso in atto di orazione»[28] (Tavola 9). Il Baldinucci pone a confronto

le due opere, come se fossero antitesi l'una dell'altra, e focalizzando la propria

ammirazione sulla tavola del San Girolamo, sul suo disegno e lo spiccato cromatismo.

Queste le sue parole: «Per essere la figura del S.Girolamo, quali del tutto ignuda, la

dove quella di S.Francesco vestita, ella si rende più ammirabile per lo disegno, e

colorito del bel rosso, e dell'altre parti scoperte di quel corpo, ed è questa, a mio

credere, una delle Pitture, nelle quali il Cigoli si fece vedere più simile a Tiziano, e ad

ogni altro gran maestro Veneto, e Lombardo, che a se stesso»[29]. Notiamo che ormai

la sicurezza del Maestro nei propri soggetti, che lo porta addirittura a rielaborare

l'iconografia di San Girolamo da studioso nel proprio studio per presentarcelo

nell'atto di penitenza, dove il rosso vivo della veste spicca conferendo alla visione un

contrasto ed una “carnalità” funzionale al personaggio, mai vivo come in quest'opera,

ed alla narrazione dell'evento; laddove invece il cielo limpido e le note dolci e calde

della veste di San Francesco ci suggeriscono tranquillità ed, appunto, l'estasi del

Santo.

Il primo decennio del Seicento corrisponde anche ai soggiorni romani del Cigoli

e all'influenza dell'estetica romana nella sua arte, come afferma infatti Miles Chappel:

«Il Cardi si forgiò un proprio stile di grandeur barocca temperata dal gusto fiorentino

per un disegno perfetto»[30] come evidenziato nel caravaggesco Ecce Homo del 1604

(Tavola 10) conservato ora a Palazzo Pitti; combinazione di altissimi valori cromatici

uniti ad uno spiccato realismo.

Nonostante la sensibilità del Cardi per il colorito, a Roma, il Cigoli fu il massimo

rappresentante della scuola fiorentina e della relativa tradizione disegnativa, sulla

quale tenne addirittura una lezione all'accademia di San Luca. In questo periodo

inoltre, è riportato dal Baldinucci un contatto tra il fiorentino ed un non precisato

allievo di Tiziano, al quale il Cardi si rivolge per assimilare alcune tecniche del

maestro veneziano. Narra infatti l'accademico: «Dipingeva in Roma un pittore, che

[28] Ivi. p. 29.[29] Ibidem.[30] M. L. CHAPPEL, Firenze, 1986, p. 57.

15

era stato discepolo di Tiziano, e che fatta amicizia con costui, a otta a otta si portava

alla sua stanza per desiderio d'udire il modo, che nel maneggiare i colori teneva quel

Gran Maestro, e che fra l'altre cose dicevagli il pittore, che Tiziano era solito

condurre le cose sue con grande accuratezza, ed amore; ma condotte presso a lor

fine, dava loro sopra alcuni colpi, come noi diremmo strapazzati, e questo faceva per

coprire la fatica, e farle parere più maestrevoli, la qual cosa essendo subito piaciuta al

Cigoli, se ne fece subito imitatore»[31].

Uno dei suoi ultimi lavori fu l'affresco della cappella di Santa Maria Maggiore a

Roma, commissionata dal Papa Paolo V Borghese. «Cominciò il Cigoli la sua pittura,

a seconda delle sue grandi idee, alle quali aggiunse il suo mirabile colorito» [32], una di

queste ‘grandi idee’ fu quella di rappresentare la Luna che sostiene la Vergine in

maniera naturalistica, ovvero una Luna intera, la cui falce è evidenziata

dall'illuminazione, e rappresentata con l'aggiunta di crateri; questa visione fu resa

possibile anche grazie all'amicizia del Cardi con Galileo Galilei ed al loro continuo

scambio di idee e lettere. Curioso notare come quindi, inizialmente, le novità

galileiane fossero accettate e conseguentemente delimitate dalla Chiesa all'ambito

scientifico, visto che l'affresco ebbe il consenso di Paolo V Borghese.

Altro mirabile esempio dell'amicizia tra il Cigoli e Galileo, è un'altra lettera inviata

al Cardi dallo scienziato nel giugno del 1612. Nello scritto, Galileo elogia la pittura

come superiore alla scultura, affermando «quanto è da stimarsi piú mirabile la pittura,

se, non avendo ella rilevo alcuno, ci mostra rilevare quanto la scultura! Ma che dico io

quanto la scultura? Mille volte piú» e, mettendo in relazione l'elemento coloristico

con quello scultoreo: «A quello poi che dicono gli scultori, che la natura fa gli uomini

di scultura e non di pittura, rispondo che ella gli fa non meno dipinti che scolpiti,

perché ella gli scolpe e gli colora, ma che questo è a loro imperfezione, e cosa che

scema grandissimamente il pregio alla scultura: perciocchè quanto più i mezzi, co'

quali si imita, son lontani dalle cose da imitarsi, tanto più l'imitazione é

maravigliosa»[33].

[31] F. BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, stamperia Giuseppe Manni, 1702, p. 34.[32] Ivi. p.37.[33] G.GALILEI, Firenze, 26 giugno 1612.

16

L'anno successivo, il 1613, fu l'anno fatale per il pittore, che scomparve a Roma a

seguito di una violenta febbre. Alla sua morte molte opere rientrarono a Firenze, e

così pure molti studi preparatori, in cui fu possibile osservare quanto furono

essenziali nella sua arte alcuni esperimenti mutuati dalle tecniche venete, arrivando

all'eliminazione del supporto disegnativo in favore del pastello, che consentì al Cigoli

di «ottenere quelle morbidezze che egli ricavava sull'esempio del Barrocci o del

Correggio, e all'impiego della biacca in studi e modelletti validi per sé stessi,

naturalizzati con un processo liberatorio della materia pittorica che porterà ai bianchi

cremosi e soffiati di Domenico Fetti e del Bilivert suoi scolari a Roma, e di Bernardo

Strozzi»[34]; troviamo nozioni sull'uso del pastello da parte del Cigoli e discepoli anche

nella biografia di Andrea Commodi narrataci da Baldinucci, dove afferma infatti: «E'

notissimo il costume tenuto già dall'insigne pittore Federigo Barrocci, di disegnare

molto, e molto in quel modo che noi definiamo a pastelli, il quale anzi d'un vero

colorire, che di disegnare merita il nome, tanto che non fece egli mai bella pittura, che

in tal maniera di fare non ne studiasse le parti migliori, e fu cagione, che il Cigoli, e

Gregorio Pagani in gioventù inseparabili compagni, che a principio forte

s'invaghirono della maniera di quel gran maestro, ancora essi s'applicassero a fare di

pastelli, ed io ho fatta un'osservazione, che tutti coloro, che o uscirono poi dalla

scuola del Cigoli, o furono suoi compagni di studi, o suoi imitatori, usarono operare

di pastelli, costume poi tanto accettato dagli ottimi Maestri; così veggiamo che

Cristofano Allori, e il nostro Andrea Comodi molto vi attesero»[35], come si osserva

nello splendido pastello del Cristo incoronato di spine custodito a Palazzo Corsini

(Tavola 11.1 – 11.2), studio preparatorio della relativa tavola «chiaramente

d'ispirazione correggesca per la sua pastosa morbidezza»[36]. In queste due tavole

notiamo quanto la dolcezza dell'opera rimanga invariata sia nella sua versione ad olio

quanto nel pastello preliminare, «nel quale è ancora maggiormente visibile il ‘colorire’

sfumato e rosato alla Barroccio»[37].

[34] M.GREGORI, Milano, 1989 p. 283.[35] F. BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, stamperia Giuseppe Manni, 1702, p. 264.[36] M.BUCCI, S.Miniato 1959. P. 49.[37] Ibidem.

17

Fondamentale per la riforma coloristica fiorentina, a fianco al Cigoli, fu la figura

di Domenico Cresti detto il Passignano (Tavernelle Val di Pesa, 1559 – Firenze, 17

maggio 1638), anch'egli influenzato dal cromatismo veneto dopo un soggiorno a

Venezia tra il 1582 ed il 1588 come assistente di Federico Zuccari. Durante gli anni

Ottanta, infatti, nella Serenissima potè dilettarsi nello studio di maestri come

Tintoretto, Veronese, Palma il giovane e Tiziano fino all'assimilazione del cromatismo

di scuola veneta, che lo spinse a creare uno stile pittorico dolce ed atmosferico.

Giunto l'anno 1589 il Passignano dovette tornare a Firenze per le celebrazioni

delle nozze di Ferdinando I e Cristina di Lorena, dove si prodigò in numerose opere

effimere ed apparati cerimoniali per l'occasione. Nello stesso anno arrivò anche il suo

primo incarico importante: la famiglia Salviati infatti gli commissionò due grandi

affreschi nella cappella di San Marco. Dipinse qui la Traslazione del corpo di

Sant'Antonino (Tavola 12.1) e L'esposizione del Corpo di Sant'Antonino (Tavola 12.2).

Questi due affreschi mostrano le qualità della formazione artistica del Passignano

come la ritrattisca (Sono ritratti infatti dal vero molti dei cardinali e vescovi presenti

alla funzione) e l'immediatezza della narrazione, assieme ai colori caldi degli incarnati

e delle vesti che rivelano gli studi veneti e mostrano una spiccata influenza

veronesiana. Scrive Baldinucci infatti «Con quell'altissimo gusto preso di fresco a

Venezia, vi colorì alcuni maravigliosi ignudi di si grande, e nobile maniera, che più

non può fare alcun pennello»[38], nudi che allo stesso tempo sconcertarono e

meravigliarono alla loro prima esposizione[39], ma che vennero giudicati stupendi nella

loro superba imitazione della natura.

Gli anni successivi furono molto operosi per il Passignano, che adottò alcuni tratti

della Riforma di Santi di Tito quali la chiarezza della composizione e la semplicità,

[38] Ivi. p. 133.[39] «Quella nudità però non lasciò di dispiacere al celebre predicatore di quell'ordine fra Niccolò Lorini, il quale predicando in quella chiesa dopo, che fu scoperta l'opera, riflettendo, e con ragione, più al decoro del luogo, che all'eccellenza della pittura, ed alla gran fama del Pittore, disse con gran sentimento, ed energia, le seguenti parole. E' dipingono in chiesa certi mascalzoni, che se voi ce gli vedete vivi, voi gli caccereste fuori colle bastonate; e disse bene al certo, ma l'imitazione del vero camparisce si bella, ed è si curiosa fra gli uomini, che ha forza di render gustoso, e aggradevole nel finto, ciò che per altro nauserebbe nel vero» F.BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, stamperia Giuseppe Manni, 1702, pp.133-134.

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aggiungendo però ad essi le tonalità calde e pastose di gusto veneziano, commistione

di elementi che influenzò decisamente la scena fiorentina; dice infatti Roberto

Longhi: «Il nuovo apporto di fluidità e legamento atmosferico di masse giunto con

Passignano da Venezia – senza parlar del Ligozzi e del Pagani – si confonde e salda

con la tradizione riformata del Titi spostando sempre più l'interesse degli artisti sugli

accordi cromatici e luministici»[40] . Il Cresti infatti «mantenne un equilibrio che non

trova confronti nella sua generazione, tra le qualità fiorentine, tra il rigore disegnativo

e chiarezza del racconto da un lato, e dall'altro l'intonazione degli incarnati» [41]

affiancandosi al Cigoli nella nuova riscoperta del colore. Tra le opere di questo

periodo è esemplare l' Elezione del Beato Manetto a generale dei serviti (Tavola 13) nella

Chiesa della Santissima Annunziata, che troviamo nelle ‘Notizie’ di Baldinucci

menzionata come «Miracolo del Beato Manetto»[42], dove «il severo dominio dello

spazio e dell'ambiente architettonico, arricchito da esperienze sia fiorentine che

venete, indica quanto cammino il pittore aveva fatto dagli anni veneziani. Mentre la

composizione calibrata da due figure come quinte servì da modello al quadro di

Cristofano Allori, destinato a fare pandant, il Passignano è inarrivabile negli

accostamenti di colore nelle superfici seriche di ricordo veronesiano, che ottenne con

una stesura accarezzata nella veste della donna in primo piano»[43]; importantissima

ancora una volte è la meditazione su Paolo Veronese atta dal Passignano, che ne

riprende la stilistica modellandola tramite le proprie esperienze fiorentine.

Viaggiò ripetutamente fra Firenze e Roma, e nel 1625 si aggiudicò la commissione

per un'Incredulità di San Tommaso per il transetto di San Pietro, che gli valse l'incarico

per un'ulteriore opera nella Basilica di San Pietro: ovvero La Presentazione della Vergine,

la quale però già all'epoca dei resoconti di Baldinucci era già compromessa; narra

infatti: «Gli fu data una gran tavola per quella Basilica [S.Pietro. Ndr.] nella quale con

grand' artifizio, e ottimo colorito espresse la storia della Presentazione di Santa Maria

Vergine al Tempio con molte figure, e questa volle dipingere a olio sopra calcina, ma

quest'opera in breve tempo si consumò»[44]. Purtroppo non è l'unica testimonianza

[40] R.LONGHI Firenze, 1967, pp. 119-120.[41] M.GREGORI, Milano, 1989, p. 283.[42] F.BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, stamperia Giuseppe Manni, 1702, p.135.[43] M.GREGORI, Milano, 1989 p. 288.[44] F.BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, stamperia Giuseppe Manni, 1702, p.136.

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della caducità delle opere del Passignano, afferma infatti ancora Baldinucci: «Un solo

difetto però ebbe quest'artefice, a cagion del quale purtroppo presto periranno molte

delle opere sue, e con esse in parte lo splendore del suo nome, e fu, che egli (com' era

solito dire Il Cigoli di lui ragionando) così obbediente la mano a' suoi pensieri, e

possedendo si' gran franchezza di pennello, ogni minimo indugio a veder comparire

sulla tavola il proprio concetto gli pareva mille anni, onde adoperando poco colore il

distendeva liquidissimo, valendosi talvolta per mezza tinta, del nero della mestica, e

talvolta ancora valendosi in certi luoghi della medesima senza altro colore. A questo

aggiungevasi, che in quel tempo per ordinario si facevano in Firenze cattive mestiche,

cioè a dire con terretta, e terra d'ombra, e senza biacca, al che s'accomodava egli

volentieri per esser uomo molto assegnato; (…) la maggior parte dell'opere sue

particolarmente in quei luoghi di esse, ove non fu adoperata la biacca, sonsene andate

in fumo»[45].

Non sono queste le uniche volte in cui il Baldinucci racconta di opere danneggiate

dal tempo o dalla pessima scelta di materiali; egli infatti reputa particolarmente

problematico il colore ‘terra d'ombra’ appena citato nelle cattive mestiche, tant'è che

nel suo ‘Vocabolario Toscano dell'Arte del Disegno’ ci viene presentato come «Un

colore naturale capellino scuro, che serve per dipingere, e per mettere nelle mestiche,

e imprimiture delle tele e tavole. Questo però è stimato dai più pratici pittori un color

maligno; a tanto in sé del disseccante, che nelle mestiche non fa buon lavoro, e nell'a

olio, per altre sue triste qualità, fa variare i coloriti: onde ha ingannato molti, che

l'hanno usato nelle lor tele, anche uomini di gran valore nel colorire »[46]. Sicuramente

tra questi valenti artisti ingannati dalla terra d'ombra è annoverato Carlo Dolci; viene

infatti esplicato, nella sua biografia, che alcune delle sue opere si rovinarono a causa

del colore sopracitato: nello specifico «quelle tele, nell'imprimitura delle quali fu usato

il velenoso colore della terra d'ombra, e quelle eziandio che egli non mesticò da se

[45] Ivi. p. 139.[46] F.BALDINUCCI, Firenze, per Santi Franchi al segno della Passione, 1681. P. 167.[47] F.BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, Stamperia di S.A.R.,1728 p. 506.

20

stesso, come suo solito fare quasi sempre, hanno col tempo scoperto qualche difetto:

ma perchè troppa cosa sarebbe di nominarle tutte, lasceremo di farlo»[47].

Sulla difficoltà di lavorazione della Terra d'ombra si esprime pure l'inglese Edward

Norgate intorno al 1620, scirvendo che è «un colore grasso e sporco, e difficile da

lavorare se lo si macina così com'è appena comperato, ma di grandissimo uso per

ombre, capelli eccetera»[48]. Un materiale dunque problematico, molto apprezzato per

ombreggiature profonde, che richiedeva però una grande attenzione da parte

dell'artista nella sua preparazione e conseguente lavorazione.

Analogamente alle nozioni sulla terra d'ombra, Baldinucci ci fornisce indicazioni

sul brillante colore del ‘verderame’ «Un colore assai comune, che si fa nella vinaccia,

con piastre di rame poste in aceto; e serve per a tempera, e a olio»[49], ed interessante

è la piccola diatriba annessa fra Santi di Tito ed il Cigoli che ci presenta nella

biografia di quest'ultimo, dove infatti viene narrato che il Titi «riprese [il Cigoli. Ndr.]

dell'aver posto in uso il verderame, colore che come egli disse, per esperienza fattane,

in brevità di tempo diventava nero, ed ogni bella pittura guastava; ma il Cigoli, che

per lungo corso di tempo s'era dato a speculare modi di mantenere i colori freschi, ed

accesi sopra le tele, e tavole per lunghissimo tempo, ne più ne meno, come se pure

allora vi fossero stati posati, fu in quell'istante per entro l'interno suo preso da collera,

e non poca, ma seppe reprimere quel moto»[50], mirabile è la risposta del giovane

Cigoli, suo allievo: «io tengo opinione che possa bene il verderame, e qualche altro

colore ancora fare effetti, che voi accennate, ma però sotto le mani di coloro, che

aggiustare e mescolare non lo sanno; ma non già a chi può aver imparato da voi a

maneggiare i pennelli, siccome per grazia vostra potei far io»[51]. Ancora una volta,

dunque, la bravura dell'artista sta anche nella lavorazione dei materiali e non nella

mera applicazione, concetto che riprende la trattatistica pittorica esposta in apertura.

Molto probabilmente però quello trattato da Baldinucci non è propriamente

verderame, quanto un composto di esso conosciuto come ‘resinato di rame’, che

aveva la particolarità di scurire e virare sul marrone/nero. Troviamo una ricetta per

[48] E.NORGATE, Miniatura or the Art of Limming, 1627. Citato in P. BALL, London, 2001, p. 144.[49] F.BALDINUCCI, Firenze, per Santi Franchi al segno della Passione, 1681, p.178.[50] F.BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, Stamperia di S.A.R., 1728, p. 35.[51] Ibidem.

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questo composto già nel 1601, dove l'autore fiorentino Giovambatista Birelli scrive

«Prendete una libbra di fine resina di trementina bianca, tre once di mastice… e

mezza oncia di cera fresca. Mettete tutto assieme in un piccolo recipiente appena

vetrificato, e fate bollire le cose sopradette su un fuoco moderato di carbonella… Poi

aggiungete a queste cose un'oncia di verderame e mettetelo dentro a poco a poco,

mescolando tutto il tempo nel vaso con un bastoncino, in modo che sia bene

incorporato»[52]. In realtà un processo del genere non era la prassi, infatti con

‘resinato di rame’ ci riferiamo ad una vasta varietà di composti, come anche

solamente l'aggiunta di vernice a base di resina al pigmento del verderame. Da questa

natura ‘variabile’ è comprensibile che il colore potesse dare molti problemi se non

lavorato sapientemente.

Tornando adesso ai maestri della riforma coloristica, è necessario menzionare

l'influenza che ebbe sulla scena fiorentina il veronese Jacopo Ligozzi (Verona, 1547 –

Firenze, 1627), chiamato alla corte del Granduca Francesco I nel 1578 come

esecutore di illustrazioni naturalistiche; a tal proposito «La presenza di alcune tavole

non finite consente di apprezzare la complessa e paziente lavorazione miniaturistica

messa in opera dal Ligozzi, il quale da principio profilava leggermente i contorni con

la matita nera, procedendo poi con una prima stesura di colore che veniva

pazientemente velata e rifinita a tempera con pennelli sottilissimi, che gli

permettevano la restituzione delle più ricercate variazioni cromatiche, e infine fissata

con una vernice lucida (forse chiara d'uovo)»[53].

Dalla seconda metà degli anni Ottanta in poi, dopo aver assunto la direzione della

decorazione pittorica della tribuna degli Uffizi, che lo mise a contatto con artisti

come il Cigoli e Gregorio Pagani, l'attività del Ligozzi si intensificò, grazie anche

all'apertura della sua bottega patrocinata da Ferdinando I de' Medici. Per quanto

riguarda le opere del pittore veronese «la provenienza settentrionale e i probabili

rapporti con l'Oltralpe attraverso la sua famiglia d'origine, di pittori e artigiani, si

[52] G.BIRELLI, Opera, II, Firenze 1601, p. 369-70. Citato in P.BALL, London, 2001, p. 122.[53] L.BORTOLOTTI, Roma, 2005.

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manifestano nell'uso del colore, nelle inscenature compositive alla veneta e nei legami

col manierismo internazionale»[54].

L'artista eseguì i suoi capolavori dopo il 1590 dopo aver terminato i legami

contrattuali con i Medici. Impegnò infatti in questi anni prevalentemente nella

realizzazione di pale d'altare: è del 1593 il San Girolamo sorretto dall'angelo custodito

nella chiesa di San Giovannino, col suo bilanciamento armonioso dei colori e la forte

intensità espressiva del gruppo principale.

La forza coloristica del Ligozzi è riscontrabile anche nel Martirio di Santa Dorotea

(Tavola 14) del 1595, che con la sua brillantezza coloristica riesce a smorzare i toni

drammatici della vicenda narrata. A proposito di questo colorito acceso, cifra stilistica

di quasi tutte le opere dell'artista, viene spiegato da Mina Gregori: «il Ligozzi spazia

tra due obiettivi estremi; evocando impressionanti scene di penitenza come nel San

Girolamo di San Giovanni degli Scolopi (…)o inscenando le pale in macchine

complicate e spettacoli affollati, festosi per la vis coloristica e la bellezza dei vestiti

(per questo aspetto anch'egli contribuì al formarsi del gusto fiorentino), sia che si

tratti di martiri(il quadro di Santa Dorotea in San Francesco a Pescia 1595), di episodi

evangelici (…). Nella rappresentazione mimetica dei velluti e delle sete il pittore

rievoca retrospettivamente i coloristi settentrionali della prima metà del

Cinquecento»[55].

Una presenza importante nel panorama seicentesco fiorentino, che grazie alle sue

influenze riuscì ad importare nuove tendenze, arricchendo la proposta della riforma

antimanierista ed impreziosendola.

Fiorentino di nascita fu Gregorio Pagani (Firenze 1558 – 1608). Allievo di Santi di

Tito prima (il quale essendosi accorto delle sue potenzialità lo faceva operare al fine

di eseguire le rifiniture dei numerosi ritratti che gli venivano commissionati[56]) e del

[54] M.GREGORI,Milano, 1989 p. 290.[55] Ibidem.[56] «Andavasi egli esercitando nello studio dell'arte, ed in breve tanto s'avanzò, che Santi cominciò a valersene molto in ogni sua pittura a fresco, ed a olio; e poerchè quegli, non ostante le moltissime opere, che gli erano date a fare del continuo, aveva gran genio a'ritratti, de' quali non lasciava passare occasione, ch'egli non accettasse; incominciò affine di fuggire il tedio, che le guarnizioni, i busti, l'acconciature, e simili abbigliamenti sogliono apportare, a farle dipingere a Gregorio» F.BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, Stamperia Pietro Matini, 1688, p. 193.

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Cigoli poi, con il quale si recò ad Arezzo per osservare la Madonna del Popolo dipinta

da Federico Barrocci, la quale sarà uno dei punti di partenza per la nascita del loro

stile. Così infatti scrive Baldinucci: «Avvenne circa a questo tempo, che Federigo

Barrocci celebre Pittor d'Urbino mandò in Arezzo una sua tavola, che ebbe al solito

dell'altr'opere di lui non ordinario grido; il che pervenuto all'orecchie di Gregorio,

subito insieme col Cigoli se n'andò a quella volta, ed avendone l'uno, e l'altro gustato

in estremo, s'applicarono a notare più, e diverse osservazioni, e bellissime avvertenze

avutesi dal Pittore in quell'opera; poscia tornati a Firenze, incominciarono a valersene

nelle pitture loro, la maniera, e'l colorito de' loro antichi Maestri in tutto, e per tutto

abbandonando talmente, che collo studio continovo del naturale, e col nuovo gusto

fattosi sopra il bel modo di fare del Barrocci, una nuova bella, e piacevole maniera si

formarono»[57].

A fianco del maestro la meditazione sull'operato del Barrocci si fuse con il

recupero della maniera del Correggio, e, come possiamo notare, fortemente

influenzata da questa commistione coloristica è la tavola della Madonna in trono con il

bambino tra i Santi Michele Arcangelo e Benedetto (Tavola 15[58]) eseguita nel 1595 per la

piccola chiesa di San Michele Arcangelo delle Ville. A tal proposito Baldinucci scrive

«Figurò Maria Vergine sedente col figliolo in grembo, e da una parte S. Michele che

calpesta il demonio, dall’altra S. Benedetto; e questa fu posta nella chiesa di S. Michele

Arcangelo di Pian di Radice. (…) In questa tavola , ch’è colorita a meraviglia e di gran

forza, l’artefice ebbe intenzione di imitare a tutta sua possa la maniera del Correggio,

e fu opinione degli intendenti, ch’egli veramente l’avesse a maraviglia imitata»[59].

Notiamo infatti quanto la dolcezza dell'incarnato si fonda con la luminosità delle

vesti, andando a creare un'atmosfera viva ma esente da forti contrasti.

[57] Ivi. p.194.[58] «La tavola mostrava seri danneggiamenti a causa della massiccia infestazione da insetti xilofagi, causa della crivellatura di tutta la superficie pittorica. La superficie pittorica appariva danneggiata da numerosi fori procurati dai tarli e dai chiodi usati per appendere gli ex voto, nonché ingiallita e offuscata. Il restauro ha previsto: una prima fase di intervento sul supporto ligneo con disinfestazione e consolidamento dell’assemblaggio delle assi; successivi interventi sulla superficie pittorica, con il fissaggio della mestica e del colore di supporto; la pulitura della superficie dalle sedimentazioni per i depositi di vernici ingiallite ed opacizzate; infine la rimozione di vecchi restauri alterati. Si è poi provveduto al restauro pittorico e alla verniciatura finale.» S.BRACCI, Gregorio Pagani: una ‘pala’ per il vescovo, Sinioparte, <http://www.sinopiarte.com/Gregorio_Pagani.html>[59] F.BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, stamperia Pietro Matini, 1688, p..197.

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A partire dall'ultimo decennio del Cinquecento il Pagani fu l'unico tra gli iniziatori

della riforma a rimanere a Firenze, la sua presenza fu di grande influenza per i suoi

allievi Cristofano Allori, personalità di spicco tra gli artisti della riforma, e Matteo

Rosselli, il quale completò le opere rimaste incompiute alla morte del maestro.

Cristofano Allori (Firenze 1577 - 1621) fu uno dei maggiori artisti usciti dai tempi

della riforma e simbolo della cultura figurativa del tempo di Cosimo II. Figlio di

Alessandro Allori, presentatoci da Baldinucci come «pittore universale studiosissimo

dell'anatomia, e dell'ignudo, ma avendo voluto al modo, che per molti si teneva in

quei tempi, imitar Michelagnolo, e perciò premuto assai più in un bel rigirar di

muscolo che in una certa morbidezza, e verità di colorito, attributo proprio della

Pittura, e distinzion della Statuaria, fece apparir l'opere sue, oltre a gran durezza, un

colorito poco lodevole»[60]. Cristofano prese le distanze dal padre dopo averne

comunque assimilato lo stile, abbinandolo anche allo studio dei contemporanei pittori

riformati «tanto più col vedere le pitture del Cigoli, quelle di Gregorio Pagani; e'l

buon disegno di Santi di Tito, si risolvé d'indirizzare i propri studi ad altro oggetto.

Diedesi egli dunque a tutto potere, e a seconda de' propri sentimenti, e del suo

ottimo gusto a cercare il modo di condur le sue pitture di quel colorito mirabile, ch'è

noto»[61]. Tra il 1601 ed il 1602 lavorò, nella bottega di Gregorio Pagani, al Beato

Manetto che risana uno storpio muto (Tavola 16) per la cappella dell'Antella in Santissima

Annunziata, dimostrando una sintesi perfetta di studi sui nuovi maestri della pittura

fiorentina, tanto che «Quando il Cigoli la vide finita, ebbe a dire, che se ne voleva

tornare a Cigoli, e abbandonare il dipingere, perché non mai avrebbe potuto

immaginarsi, che uno, che non aveva fatto a gran segno li studi, e l'opere, che egli

aveva fatto, avesse a condurre una cosa sì bella»[62]. La tavola, benché nata nella

bottega del Pagani, «non offre che tenui tracce dello stile di Gregorio»[63], ed infatti è

«la prima opera che lo rivela colorista potente, in una composizione derivata dal

Cigoli e, per così dire, sorvegliata dal Passignano, ma resa più complessa nello scavo

[60] F.BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, Stamperia Giuseppe Manni, 1702, p. 269.[61] Ibidem.[62] Ivi. p.297.[63] R.CARAPELLI, Firenze, 1986, p. 31.

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psicologico e negli studiati rapporti tra le figure del primo piano e quelle del

fondo»[64].

Lavorò poi ad alcuni bellissimi paesaggi ora perduti che, purtroppo, soffrirono

dell'annerimento dei verdi tipico del resinato di rame prima menzionato; ci viene

infatti riferito che «Fece a olio alcuni paesi bellissimi, per la casa degli Jacopi,

accostandosi alla maniera di Adriano Fiammingo, che allora era molto seguitata a

Firenze (…) Quelli di Cristofano hanno però un certo tocco diligente, e risoluto in

un tempo stesso, e veggionsi ornati di qualche figura d'ottimo gusto, e veramente se i

verdi, di cui è solito valersi tanto egli, che gli altri artefici che usarono quel modo di

fare, non si fussero col tempo ridotti neri affatto, goderebbonsì a' dì nostri con

maggior gusto»[65].

Viene riferitoci inoltre di una notevole Maria Maddalena seduta nel deserto, dipinta in

un ovatino di dimensioni molto ridotte, di «un colorito sì nobile, che io stetti quasi

per dire, che le stesse pitture del Correggio in suo paragone ne perdono»[66].

Proprio la figura di una Maddalena nel deserto (Tavola 17) verrà ripresa in seguito

dall'Allori, rimasto folgorato da un piccolo dipinto del Correggio, e riprodotta

numerose volte: «Era una piccola figura di S.Maria Maddalena nel Deserto, quasi tutta

coperta d'un panno azzurro, e in atto di giacere appoggiata al destro braccio,

leggendo un libro, che tiene colla sinistra mano, tutta fattura del Correggio, questa

venne, non so come sotto l'occhio di Cristofano, il quale molte, e molte volte la

copiò, onde avvenne, che assai se ne videro (…) ma come che il di lui colorito già era

venuto in alto credito, stimarono i più, e fino al presente viene creduto da molti,

ch'elle fussero di sua invenzione, tanto più che Zanobi Rofi suo discepolo anch'egli

ne copiò molte da quelle del maestro, le quali da i meno esperti si stimano pure di

mano di Cristofano»[67]. Purtroppo notiamo quanto il blu della veste sia annerito.

Pur non spostandosi definitivamente nella città papale come gli altri maestri

fiorentini, gli influssi esterni furono numerosi e molto variegati; come l'attenzione

prestata alle opere del fiammingo Rubens, orientamento comune ad alcuni dei pittori

[64] M.GREGORI, Milano, 1989. p. 304.[65] F.BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, Stamperia Giuseppe Manni, 1702, p. 298.[66] Ibidem.[67] Ivi. p. 304.

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fiorentini trasferitisi a Roma.

Il tema della Maddalena tornò negli anni in cui l'Allori raggiunse il suo massimo,

ovvero tra il 1610 ed il 1615, grazie anche a molte suggestioni comuni al barocco

romano. Per questa versione della Santa Maddalena Penitente ritrasse dal vero la sua

amante Mazzafirra, ed In questa ultima interpretazione «Si notano certo i richiami

correggeschi nel chiaroscuro sfumato dei trapassi luministici: ma essi appaiano uniti a

un senso plastico, tornito, e morbido al tempo stesso, che fa supporre uno

spostamento verso l'area bolognese»[68]. A questo fortunato periodo appartiene pure

la celeberrima Giuditta con la testa di Oloferne (Tavola 18), dove possiamo notare

l'influsso caravaggesco filtrato dallo stile di Orazio Gentileschi «da cui dipendono, al

di là delle riletture del Bronzino, i nitori di luci e di superfici della Giuditta»[69], in cui

torna il ritratto dal vero dell'amante unito ad una mirabolante riproduzione

dell'incarnato, ed una luminosità delle stoffe, che mostrano tutta la maestria

dall'artista, nonchè la sua capacità di rielaborare le proprie influenze in maniera unica

ed originale.

Altro importante discepolo di Gregorio Pagani, assieme all'Allori, fu il Fiorentino

Matteo Rosselli (Firenze, 8 agosto 1578 – 18 gennaio 1650), discepolo del Pagani già

dal nono anno di vita. Importantissimo per la sua formazione artistica fu, a

ventiquattro anni, un soggiorno di sei mesi a Roma, incaricato dal maestro come

aiuto del Passignano. Laggiù, assieme al lavoro d'aiuto di cui era stato incaricato

«studiò l'opere di Raffaello, e di Pulidoro; e fece alcune pitture, con le quali, e con

aiuti di costa, che gli erano mandati da Gregorio Pagani suo maestro, mantennesi

assai civilmente»[70]. La prematura morte del padre lo richiamò anzitempo a Firenze .

Dopo pochi anni, nel 1605, con la morte del Pagani ereditò la sua bottega e

l'incarico di portare a termine tutte le opere lasciate incompiute dal maestro. «Questo

però fece al Rosselli un altro bonissimo effetto»[71], di fatto, assieme all'onere di

completare le opere del maestro si presentò per lui una grande occasione

[68] R.CARAPELLI, Firenze, 1986, p. 32. [69] Ibidem.[70] F.BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, Stamperia Giuseppe Manni, 1702, p. 401.[71] Ivi. p. 402.

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remunerativa viste le numerose commissioni lasciate in sospeso dal Pagani.

Lo stile del Rosselli si evolvette verso una teatralità ed un fantastico

‘accordamento’ dei colori da lui disposti nelle sue composizioni, accordamento che

rendeva movimentate le sue opere nonostante la staticità dei corpi da lui riprodotti;

ne è una prova fenomenale la Semiramide (Tavola 19), «un esempio coloristicamente

acceso della sua capacità di narrazione circostanziata, sostenuta dalla grande maniera

e dal pathos così da apparire l'equivalente del teatro del tempo.»[72]. Baldinucci spiega

a proposito di questa maniera in relazione agli anni della riforma: «Aveva il Rosselli

avuto da Gregorio suo Maestro ottimi precetti nell'Arte, come che era stato costui un

pittore d'ottimo gusto, al che s'aggiungeva la felicità di questi tempi, ne' quali

fiorivano i maggior' uomini che in Disegno, e in Pittura abbia avuto la Città di

Firenze, toltone il Buonarroto, Andrea del Sarto, e Pontormo, e pochi altri; tali

furono il Cigoli, il Passignano, Santi di Tito, Cristofano Allori e simili; onde Matteo

s'era fondato, quanto altri mai, e quantunque (…) non fosse solito di dare alle sue

figure un certo discoglimento, e risoluzione bizzarra, come altri hanno fatto, erasi

però formata una maniera vaga, e che dava altrui molto nell'occhio, con bell'aria di

teste, buona invenzione, e accordamento straordinario, e quello che è più, senza che

mai si scorgesse in quelle un minimo errore in disegno»[73].

Fu l' “accordamento”, ovvero la disposizione dei colori e l'interazione fra essi, più

che il buon disegno o l'ottima invenzione, la qualità più apprezzata del Rosselli, e

straordinario il suo talento negli affreschi. A tal proposito ci viene narrato, parlando

dell'affresco di una lunetta raffigurante Alessandro IV quando nel 1255 approva

l'ordine de' Servi, del chiostro di Santissima Annuziata nel 1618: «Questa pittura

riuscì sì bella, non tanto per l'invenzione, o colorito, quanto per lo maraviglioso

accordamento che ella ha in se»[74], ricevendo lodi da parte di Pietro da Cortona e del

Passignano; ed ancora: «E vaglia la verità il Rosselli nel dipingere a fresco ebbe un

talento, che fu suo proprio d'unire, e accordare perfettamente le sue pitture, nel

tempo che la calcina era fresca; e per giungere a tanto, non guardò mai a fatica, solito

[72] M.GREGORI, Milano, 1989, p. 309.[73] F.BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, Stamperia Giuseppe Manni, 1702. pp. 402 – 403.[74] Ivi. p.404.

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di porsi a lavoro alla levata del sole, e senza pigliare che pochissima refezione sul

palco, preferarvi la State fino all'imbrunir dell'aria, e l'inverno vegliandovi fino alle

cinque ore della notte; perchè e' voleva esso lasciare l'intonaco, non che l'intonaco

lasciasse lui, che però non ebbe mai bisogno di ritoccare a secco, e l'opere sue non

paiono fatte a fresco ma a olio»[75].

Da segnalare è la Natività del 1633 (Tavola 20) eseguita per la Chiesa dei Santi

Michele e Gaetano, con la sua tenera luminosità soprannaturale che contrasta, ma in

maniera del tutto naturale ed essenzialmente dolcissima, con le ombreggiature dello

sfondo, il tutto unito al pathos vivido dei protagonisti. Altro saggio della maestria di

Rosselli è soprattutto la più tarda Invenzione della Santa Croce (Tavola 21) del 1644,

«assai bell'opera, e forse delle migliori, che uscissero mai da' suoi pennelli» [76] ed

ancora «La quale a parer de' professori non invidia le tavole del Cigoli»[77]. Per l'opera

si avvalse del consiglio di Pietro da Cortona, consiglio riscontrabile nella

monumentalità dell'impostazione. Come nelle altre opere del Rosselli, l'interazione fra

i colori disposti sulla tavola crea un cromatismo avvolgente, riuscendo a fondere

l'atmosfera, il colorito delle carni e la brillantezza delle vesti in un' unico accordo

cromatico. Ciò, unito all'ottimo disegno ed alla splendida teatralità della scena, crea

una tavola fra le migliori dell'artista.

Tra gli artisti della riforma rimasti all'opera a Firenze fu anche Giovanni Bilivert

(Firenze, 25 agosto 1585 – 16 luglio 1644), rientrato da Roma dopo un soggiorno dal

1604 al 1607 come allievo del Cigoli, «la sua presenza a Firenze dalla fine del 1607

dovette avere dei riflessi su Cristofano Allori, egli fu portatore di arricchimenti

pittorici che corrispondono a un temperamento brillante e furono determinanti per

l'espansione delle tendenze cigolesche in un'accezione prevalentemente

coloristica.»[78].

Una delle prime opere dell'artista fu Il martirio di San Callisto, datato 1610 e

probabilmente inviato da Firenze, nonostante il Baldinucci lo faccia risalire già al

[75] Ibidem.[76] Ivi. p.407.[77] Ibidem.[78] M.GREGORI, Milano, 1989, p. 305.

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soggiorno romano[79], custodito nella omonima chiesa romana. La tavola attesta

l'immensa bravura dell'artista, che con il suo primo lavoro autonomo «si portò per

modo, che non è chi la riconosca per d'altra mano, che dello stesso Cigoli» [80]. Anche

se secondo Gofridus Hoogewerff «Si tratta di una composizione certo audace, ma

sgradevole, che rivela l'influsso mal assimilato del Caravaggio, anche nel colorito

indeciso e pesante.»[81].

A Firenze, nel 1611 ottiene l'incarico come disegnatore di figure e paesaggi per i

commessi di pietre dure da parte di Cosimo II e l'anno seguente completa una delle

sue opere più fortunate: L'Arcangelo che rifiuta i doni di Tobia (Tavola 22), eseguita per il

commerciante Filippo Ricci Comi. La tela, custodita nella Galleria Palatina, mostra

uno spiccata propensione verso i colori brillanti ed una grande attenzione nei

confronti dei dettagli e, soprattutto, dei costumi sfarzosi e cangianti «ottenuti con

l'efficace artificio del marezzare»[82], dove la luce è completamente indirizzata,

ottenendo un risultato di immensa brillantezza e vivacità.

Il 1613 fu l'anno della morte di Ludovico Cigoli suo maestro, ed il Bilivert,

stimato il migliore dei suoi discepoli, fu incaricato di completare i dipinti del maestro,

ai quali comunque continuò ad affiancare con successo la produzione di opere

proprie, come lo splendido Miracolo di San Zenobi.

Le opere del Bilivert sono «sostenute da una sicura base disegnativa, da sfarzo

costumistico e preziosismi cromatici»[83], in linea con le qualità dimostrate

nell'Arcangelo. Segnò poi un cambio di stile la pala d'altare di Il ritrovamento della Santa

Croce eseguita per la Chiesa di Santa Croce nel 1621. Il cambio di rotta è evidente:

con il respiro atmosferico ed i forti chiaroscuri di matrice veneta a

contraddistinguerlo, assieme all' «impianto compositivo normalizzato ed arcaizzante

da far sì che il Venturi, grande estimatore del dipinto, lo scambiasse per opera del

Ligozzi»[84].

[79] R.CONTINI, Firenze, 1986, p. 34.[80] F. BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, Stamperia di S.A.R.,1728, p. 69.[81] G.HOOGEWERF, Roma, 1968.[82] R.CONTINI, Firenze, 1986 p.35.[83] Ibidem.[84] Ibidem.

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L'abilità dell'artista di essere talmente vario da confondere gli osservatori delle

proprie tele è nota anche dal Baldinucci: «colorì sopra tavola una Vergine con Gesù e

San Giovanni, a imitazione della maniera lombarda, che si dice fusse mostrata dal

Granduca Ferdinando II a Pietro da Cortona, senza dirgli chi l'avesse fatta: e che per

aver egli non solo imitato quella maniera, ma adornato il quadro d'un ornamento

antico, lo stesso Pietro ne rimase ingannato: e che allora quel Serenissimo gli dicesse

chi veramente aveva fatto il quadro»[85].

Con l'entrata nel terzo decennio del 1600, l'interesse del Bilivert si spostò verso i

soggetti desacralizzati dell'antico testamento, affiancati a temi cavallereschi o

mitologici, come Eco e Narciso o Cleopatra, non trascurando comunque i temi sacri su

commissione come nella Sant'Elena che guida gli scavi per il ritrovamento della Santa Croce,

portata a termine nel 1637 ma commissionata intorno al 1632, mostrando un

ulteriore cambiamento nella sua stilistica. Dal 1636 in poi tornò ad occuparsi quasi

esclusivamente di tematiche sacre, spostando la sua ricerca stilistica verso una nuova

fase, dominata da una religiosità pacata, smorzando il colorito in favore di effetti di

penombra e sfumature dolci. Il capolavoro simbolo di questa ultima fase è lo

Sposalizio mistico di S. Caterina d'Alessandria (Tavola 23) del 1642 ubicato in Santissima

Annunziata; recentemente restaurato dopo una caduta con relativo squarcio della tela

il 12 agosto 2012[86], dove è possibile notare questo forte sviluppo dello sfumato e dei

giochi d'ombra, senza che sacrifichino la passione del Bilivert per lo sfarzo delle vesti,

qui messe in evidenza dalla Santa.

Esemplari sono le parole con cui Baldinucci si esprime sulla scomparsa dell'artista:

«Al Coreggio e Tiziano diede la maggior parte del suo affetto, tenendo però in

altissima stima Michelagnolo, Andrea del Sarto e'l Pontormo. Il Cigoli stato suo

maestro era solito chiamare il Correggio de' suoi tempi. Non si vide mai contento

appieno delle proprie pitture, solito a dire con grande ansietà: io vorrei pure una volta

fare un opera di mio gusto. Nell'elezione tenne sempre i precetti del Cigoli: e in

quello che all'attitudini appartiene oltremodo Santi di Tito, e fece sempre per le sue

opere studi grandissimi: e soleva dire, che ancora il Cigoli suo maestro faceva lo

[85] F. BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, Stamperia di S.A.R., 1728, p. 72.[86] P.I.MENICHINI,Firenze, 2013, p.6.

31

stesso per le sue»[87].

Giovanni Bilivert non fu il solo a non essere soddisfatto delle proprie opere: un

comportamento analogo è riscontrabile anche nell'atteggiamento di Andrea

Commodi (Firenze, 1560 – 1638) che, al contrario del Bilivert, lo condusse

progressivamente ad operare sempre meno.

Anch'egli discepolo del Cigoli, accadde che «fin da' suoi principi s'innamorasse

tanto degli studi della notomia, e dell'impareggiabile colorito del Correggio, giacche

tale sviscerato amore aveva sempre conosciuto nel Maestro, di cui anche aveva

similissime l'eccellenza nel buon gusto pittorico»[88], continua Baldinucci

presentandocelo come un pittore esitante, che se «fusse stato di maggiore animo, per

vincere una sua certa sua troppo fissa cupidità di non far cosa, che non giungesse al

sommo di quella perfezione che l'ottima sua intelligenza gli faceva concepire; avrebbe

condotto assai più opere, ch' ei non fece, onde ne sarebbe egli stato più glorioso, e'l

mondo più ricco»[89].

Attivo principalmente a Roma, eseguì molte opere devozionali di media

grandezza, e fu molto prolifico il suo lungo soggiorno nell'Urbe dove si produsse in

molte tavole ed affreschi; tra le tante eseguì la tavola di San Carlo Borromeo eseguita

per la chiesa di San Carlo de' Cantinari, rifacimento della medesima tavola ad opera di

Gasparo Colio, tema che riprenderà nel San Carlo Borromeo prega per la cessazione della

peste della Chiesa della Compagnia de' Laici della Santissima Trinità, dove troviamo un

colorito forte e d'impatto, lontano dalla morbidezza correggesca solita degli allievi del

Cigoli «Questa tavola è tocca di gran forza, e con modo Carraccesco; sono

nell'universale di essa accordati i colori per modo, che ella ispira per ogni parte

mestizia, ed orrore»[90].

L'emblematica insoddisfazione del Commodi fece sì che l'incarico

commissionatogli dal Cardinale Capponi, sotto volontà di Papa Paolo V, sfumasse

[87] F. BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, Stamperia di S.A.R. 1728, pp. 81-82. [88] F. BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, Stamperia Giuseppe Manni, 1702, p. 260.[89] Ibidem.[90] Ivi. p. 262.

32

dopo una travagliata lavorazione. L'importante commissione prevedeva infatti una

tavola ispirata al Giudizio Universale di Michelangelo per una Cappella a Monte

Cavallo, ed il Commodi decise di operarsi nell'episodio della Caduta degli angeli ribelli.

Baldinucci narra di una travagliata lavorazione dell'opera, con tanto di modelli nudi

fatti arrampicare su reti da caccia appese al muro per favorire lo studio dal vero[91]. Il

lungo e travagliato studio per l'opera si concluse con la caduta del progetto, anche a

causa della stessa insoddisfazione del pittore. Conclude infatti lo storico fiorentino,

riportando parole da lui attribuite a Matteo Rosselli «che egli [il Commodi, Ndr.], o

manco avvezzo, o poco affezionato al dipingere a fresco, si dichiarò di voler condurre

l'opera sua a olio sopra muro, di che il Pontefice venisse sconsigliato, o pure fusse ciò

preso per pretesto; della pittura, e della cappella, per allora non si fece altro, ne mai

più si parlò»[92]. Una insoddisfazione che, secondo Fiorella Sricchia Santoro, «dice

tutto il necessario sugli irrisolvibili conflitti di una cultura figurativa in crisi quale era

quella fiorentina»[93].

Come precedentemente esposto nella parte relativa al Cigoli, Baldinucci nota

come fosse attività comune di tutti gli allievi del Cardi l'uso del pastello, «Del Comodi

ho io veduto cose belle» ci spiega; «in casa gli eredi di Lionardo Buonarroti è il

proprio ritratto dello stesso Andrea pure di pastelli, fatto di sua propria mano»[94].

Questo Autoritratto (Tavola 24) è una vera e propria testimonianza della maturazione

di questa tecnica di matrice veneta sotto l'influsso dei nuovi coloristi fiorentini, che

ormai si dimostrano pienamente in grado di utilizzare il puro colore come ‘disegno’,

trovando armonia nella commistione dei due elementi.

Nell'ultimo periodo della sua vita, ormai stabile a Firenze dal 1621, rivolse la sua

attenzione alla copia di opere di antichi maestri; attività che non gli lasciò tempo per

lavorare ad opere originali, fino a quando non si spense nel 1638.

Non molte sono le notizie su Fabrizio Boschi (1572 – 1642), annoverato da

Baldinucci tra gli allievi del Passignano. Nel 1602 partì alla volta di Roma per quattro

[91] Ivi. p. 264.[92] Ibidem. [93] F.S.SANTORO, Roma, 1982.[94] F.BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, Stamperia Giuseppe Manni, 1702, pp. 264 – 265.

33

anni, ed è ipotizzato che Fabrizio «pur essendosi già affermato a Firenze come artista

autonomo, lavorasse a Roma affiancando il maestro e operando sia in proprio che

con altri pittori a lui coetanei»[95].

Ben documentate sono invece le opere dal 1606, anno del suo rientro a Firenze,

fino al 1642, anno della sua morte, come la Santa Francesca Romana del 1610 per la

chiesa di San Bartolomeo a Monte Oliveto, dove «si combinano ancora reminescenze

romane, nell'uso drammatico della luce e nell'impostazione monumentale della Santa,

con inserti realistici di matrice fiorentina che si riallacciano alla schiettezza, sia pure

accademica, del Passignano e alla vena novellistica del Poccetti»[96].

Le più importanti innovazioni dal punto di vista coloristico si hanno però nel

periodo tardo dell'artista, dove lo sfumato fluido arriva a prefigurare il barocco; come

evidente nell'Annunciazione (Tavola 25) di San Michele e Gaetano, che mostra un

artista che «pur essendo della passata generazione, accoglie e interpreta i nuovi

fermenti che aprono il quarto decennio del secolo, aderendo al diverso clima con

l'educazione pittorica che gli è propria»[97].

«Merita quest'Artefice molta lode fra' pittori della città nostra, come quegli, che

condusse opere belle, e nelle quali chiunque ha buon gusto nell'Arte, scorge un non

so che del Maestro grande, contenendo elleno un tocco tutto galante, e brioso, colpi

franchissimi, e spediti, e in questa parte differente alquanto dal modo, che avea

tenuto il suo peraltro insigne maestro Passignano»[98]: un artista che riuscì ad

adeguarsi al cambio di gusto e maniera in corso durante la sua vita, e che tramite il

proprio spirito di adattamento aiutò la formazione dell'estetica successiva. Continua

Baldinucci esponendo quella che è, secondo lui, la miglior qualità del Boschi:

«Nell'inventare seppe discostarsi maravigliosamente da certe confusioni, disponendo

le sue figure fra loro stesse in modo, che tutte stanno a' luoghi loro, formano

l'attitudine, e fanno la destinata operazione, senza benché minima noia apportare

all'occhio erudito»[99].

[95] L.LUCCHESI, Firenze, 1986, p. 38.[96] Ibidem.[97] Ibidem.[98] F.BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, Stamperia Giuseppe Manni, 1702, p. 256.[99] Ibidem.

34

Cesare Dandini (Firenze, ottobre 1596 – febbraio 1657) fu dapprima discepolo di

Francesco Curradi, poi frequentatore della bottega di Cristofano Allori, finendo poi

per sistemarsi sotto la guida di Domenico Passignano.

«Isolato frequentatore di gamme cromatiche depuratissime, gemmee, di

chiarissima ascendenza primocinquecentesca (Pontormo, Bronzino) e intelligente,

bronzeo nelle sperimentazioni luministiche, assai vario nelle tematiche» [100]. Così ci

viene presentato uno dei maggiori artisti della seconda generazione dei pittori

riformati, la cui «parte pittorica accompagna mirabilmente questo traguardo di

perfezione e mistero, realizzato di preferenza in mezze figure, ritratti ideali o

raffigurazioni allegoriche, toccando le superfici delle sete alla paolesca, incendiando il

colore nelle penombre, lavorando le pieghe con l'attenzione di uno studioso del

Dürer quale egli era, ricorrendo spesso al lapislazzulo, ad accostamenti rari di colore,

e gareggiando, al limite dell'illusione, con le materie preziose dei vasi e dei gioielli» [101].

Estremamente prolifico nel campo della ritrattistica a mezzo busto e delle mezze

figure sacre ed allegoriche, focalizzandosi soprattutto su modelli femminili di

straordinaria bellezza ed intensità, come Cristofano Allori prima di lui e come

«Francesco Furini, il solo artista con il quale, negli anni successivi, può confrontarsi

per affinità di scelte tematiche ed insistenza nel privilegiare il motivo della bellezza

femminile, o efebica, quale che sia la figurazione»[102], dal 1627 al 1642 fu stipendiato

da Don Lorenzo de' Medici, per il quale eseguì, assieme ad altre opere, il celebre

Zerbino e Isabella del 1631. Per il cardinal Carlo eseguì nel 1635 Rinaldo e Armida

(Tavola 26): un'opera estremamente teatrale nella sua vivacità coloristica d'impatto,

con i suoi protagonisti concitati ed avvolti in vesti sfarzose ed estremamente

luminose che ben si abbinano con l'atmosfera dorata e soprannaturale; colori vividi

che riescono ad esaltare la dolcezza dell'incarnato senza distrarre l'occhio, andando a

creare un'atmosfera fredda che fu tipica delle sue opere.

Degli anni Quaranta è la celeberrima Sacra Famiglia (Tavola 27) conservata

all'Hermitage di San Pietroburgo: nonostante l'atmosfera molto scura, la luce dorata

[100] R.CONTINI, Firenze, 1986, p. 69.[101] M.GREGORI, Milano, 1989, p. 316.[102] E.BOREA, Roma, 1986.

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delle carni rischiara l'opera, raggiungendo il massimo splendore nella glacialità del

corpo del Bambino, sorretta ed esaltata dalla diagonale formata dal rosso vivo della

veste sottostante e dal volto di San Giuseppe illuminato sul lato destro.

Un esempio emblematico di evoluzione stilistica dell'artista fiorentino lo troviamo

nella ritrattistica: la metà degli anni Trenta corrisponde un periodo di evoluzione per

Cesare Dandini: coloristica prima, sono infatti gli «anni Trenta, ovvero nel momento

del passaggio all'interno del percoeso artstico dandiniano dalla fase “bronzea” a

quella “lunare”»[103] .è enorme il cambiamento di approccio dal ritratto di marmoreo

di Checca Costa (tavola 28) del 1637 al mezzo busto drammatico dell'Artemisia (Tavola

29) di poco più tardo, dove «il Dandini scioglie il consueto distacco psicologico nel

“primo piano” dell'eroina, il cui pathos si modella su Guido Reni, e frana in una

partecipazione dei sensi da interpretarsi come l'adesione del pittore alle tendenze

neocorreggesche e neopergamene introdotte a Firenze negli anni Quaranta»[104].

Proprio gli anni Quaranta furono fondamentali per la formazione di un nuovo

stile, in quanto «il conflitto di tendenze del Seicento fiorentino almeno fino al 1640 è

prodotto di una deferenza tutta toscana al principio disegnativo come istituzione

stilistica, ma proprio in quanto tale ormai da ritenere sopravvivenza d'altri tempi» [105].

Un'epoca dunque transitoria, in cui gli artisti dovettero abbandonare i vecchi precetti

stilistici per abbracciare un nuovo gusto che fosse in grado di portare un'evoluzione

nella pittura fiorentina.

Francesco Furini (Firenze, aprile 1603 – agosto 1649), come già detto, è l'unico

artista assimilabile a Cesare Dandini: sia per la scelta dei temi, per la fascinazione nei

confronti della bellezza femminile derivata dallo studio delle donne di Cristofano

Allori, che per la rievocazione bronziniana nella gamma cromatica, simbolo di una

brillantezza fredda e statuaria.

Analogamente al Dandini ebbe una formazione variegata: prima allievo del

Passignano, poi presso il Bilivert ed infine, come ci viene presentato da Baldinucci,

[103] S.BELLESI, Firenze 2013. p.17.[104] M.GREGORI, Milano, 1989, p. 317.[105] M. GREGORI, 1962, p. 33.

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discepolo di Matteo Rosselli[106]. Studiò intensamente la cultura antica nella galleria

medicea di Firenze prima e direttamente a Roma poi, entrando in diretto contatto col

Bernini, esperienza riscontrabile nella sensualità intrinseca delle opere del pittore.

Baldinucci riferisce pure di un non precisato soggiorno di sette mesi a Venezia[107],

dove potè studiare a fondo la maniera veneta, assimilandola e reinterpretandola a

proprio modo, dove «Il chiaroscuro sfumato che il Furini usò interpretando

probabilmente pensieri di Leonardo di cui fu studioso, e l'uso del lapislazzulo

conferiscono un mistero e una magia che non si riscontrano nella sensualità ben

diversa e smaccata delle analoghe scene dei pittori veneziani che intesero ispirarsi ai

modelli classici»[108].

Questa maniera sensuale, intrisa di rimandi classici è evidente nel Cefalo e Aurora

(Tavola 30) del 1623, dove l'intreccio complesso ed estremamente calcolato degli

elementi è controbilanciato dalla morbidezza coloristica di matrice veneta, unita a

richiami che ricordano il miglior Cristofano Allori.

Elementi analoghi si trovano anche nell'intricato groviglio di corpi dell' Ila e le

ninfe (Tavola 31) della Galleria Palatina, dove è evidente la volontà dell'artista di

ricreare l'eleganza e la plastica degli antichi marmi in corpi di carni di uguale

splendore. Evidente qui è lo sfumato di matrice leonardesca studiato dall'artista, che

conferisce all'opera una profondità spiccata.

Il Furini non badò a spese per la stesura delle proprie opere, tanto che Baldinucci

narra di suoi debiti anche a causa de «la gran quantità di azzurro oltremarino, che egli

usò sempre nelle medesime, dico nelle carni, e fino nelle stesse bozze»[109].

L' ‘azzurro oltremarino’ menzionato da Baldinucci fu uno dei pigmenti più

costosi della storia: introdotto nel medioevo ma noto fin dai tempi antichi; rimasto

privo di alternative di uguale valore per secoli, derivava dalla macinazione della pietra

semipreziosa del lapislazzulo. Una pietra carissima, che veniva da lontano (i principali

[106] F.BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, Stamperia di S.A.R. 1728, p. 258.[107] Ivi, p. 260.[108] M.GREGORI, Milano, 1989, p. 315.[109] F.BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, Stamperia di S.A.R. 1728, p. 266.

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giacimenti erano situati in Siberia, Cina, Afghanistan, Tibet ed Iran) e la cui durezza

rendeva estremamente complicata la sua estrazione. «Usare l'oltremare non

significava soltanto fare sfoggio di ricchezza, ma – specialmente nelle opere sacre del

Medioevo – conferire virtù al dipinto»[110], essa rimase a lungo un simbolo di potere

grazie al suo costo elevatissimo, tanto da poter esserne specificato l'uso nei contratti

in modo da far risaltare la ricchezza e lo status sociale di un committente.

«L'abitudine all'impiego generoso dell'oltremare era limitata essenzialmente

all'Italia, soprattutto per motivi commerciali: i suoi porti erano i canali tramite i quali

il pigmento giungeva in Occidente (…) A Firenze, i Gesuati erano tra i più rinomati

fornitori del pigmento»[111], ed è proprio a proposito dei Gesuati fiorentini che

troviamo un'interessante nozione sull'oltremare nelle ‘Vite’ di Vasari. Nella vita di

Pietro Perugino viene infatti narrato di un incarico per diversi affreschi nel convento

dei suddetti frati, ove «il detto priore molto eccellente in fare gl’azzurri oltramarini, e

però, avendone copia, volle che Piero in tutte le sopra dette opere ne mettesse assai;

ma era nondimeno sì misero e sfiduciato, che non si fidando di Pietro, voleva sempre

esser presente quando egli azzurro nel lavoro adoperava»[112]. La vendetta da parte del

Perugino per tale mancanza di fiducia fu magistrale: dopo aver immerso i pennelli

nella bacinella contenente l'oltremare diluito in acqua, ne strizzava le setole di

nascosto prima di dipingere la parete, facendo sembrare che il colore si esaurisse

molto prima di quanto effettivamente avvenisse. Così facendo continuò a chiedere

che fosse aggiunto altro oltremare alla bacinella, che continuò così ad accumularsi sul

fondo, e fu recuperato dal pittore mentre il priore non guardava[113].

Pur trattandosi probabilmente di un aneddoto di fantasia, ci è utile per avere un'

idea della preziosità di tale pigmento; tuttavia, con l'avvento della pittura ad olio, fu

notato che l'oltremare perdeva di brillantezza nella mistura, e quindi in molti

preferirono iniziare ad utilizzare blu di qualità più scarsa come l'azzurrite, che tendeva

però a virare sul verde scuro/nero se non ben lavorata, o lo smaltino. Gli artisti che

continuarono ad utilizzare il blu oltremare dovevano miscelarlo con della biacca per

[110] P.BALL, London, 2001, p.248.[111] Ibidem.[112] G. VASARI, Firenze 1568, ed. Newton Compton 2007, p.532[113] Ibidem.

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farlo tornare saturo e brillante come prima dell'impasto.

Comprensibile dunque come l'abitudine del Furini di impiegarlo sia nei bozzetti

che negli incarnati fosse estremamente dispendiosa ma, al contempo, una delle cause

del magnetismo delle sue opere, conferendo alle carni dei suoi modelli una freddezza

soprannaturale e fortemente sensuale.

Allievo di Matteo Rosselli e del Passignano, con il quale soggiornò a lungo a

Roma, fu pure Mario Balassi (Firenze, 1604 – 1667). Affiancò all'esperienza romana

viaggi a Vienna e Venezia, che contribuirono alla sua formazione ed allo studio di

vari stili diversi, tanto che in ogni città che toccò «ricercando sempre delle pitture de'

gran maestri, vi acquistò gran pratica nel conoscere le maniere di tutti loro, la quale

gli fu di non poco splendore fra quei dell'arte, tornato in patria» [114].

Tornò a Firenze nel 1637, anno in cui eseguì uno dei suoi capolavori: il Miracolo di

San Nicola Tolentino (Tavola 32) nella chiesa di Sant'Agostino a Prato (ora nel Museo

Civico) «La quale opera non solamente riuscì la più bella ch'è facesse mai o innanzi o

dopo, ma fu cosa singolarissima: ed io per me la stimo per una delle più pregiate

pitture, che abbia quella città; perchè nel tutto ed in ciascheduna parte non saprei

desiderarla né più curiosa né più maestosa di quello che ella sia»[115]. La tavola in

questione mostra una commistione unica di influenze mutuate dalla variegata

esperienza dell'artista: la cura dei dettagli richiama la pittura nord europea mentre la

luminosità presenta forti echi caravaggeschi.

Anche Mario Balassi fu colpito dall'incertezza, ed è emblematico l'episodio in cui,

nella tela dell'Assunzione per la chiesa di Sat'Agostino a Empoli, «molto si affaticò

l'artefice, per ben soddisfare a se stesso: e noi sappiamo, che per tingere la pineta di

San Filippo d'un colore, che bene accordasse col rimanente della tavola, egli in una

sola mattina dipinsela verde, bianca, rossa, gialla, e finalmente si fermò in un certo

colore come di rosa»[116]. Ed infine di come, giunto alla vecchiaia, decise di ritirare

quante più sue opere possibile, al fine di ritoccarle secondo il gusto che aveva

[114] F.BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, Stamperia di S.A.R. 1728. p. 234.[115] Ivi, P. 235.[116] Ivi, P. 236.

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maturato; così facendo «tante ne ritoccò e ridusse a quel suo nuovo modo, che fu

quanto dire, che se non tutte le guastò, almeno molto le peggiorò»[117].

Lorenzo Lippi (Firenze, maggio 1606 – aprile 1665) allievo di Matteo Rosselli, si

oppose alla stilistica teatrale ed avviata verso il barocco di quegli anni, derivata anche

dalla scelta operata da Ferdinando II di promuovere l'attività fiorentina di Pietro da

Cortona.

Secondo Baldinucci questo sua scelta stilistica avvenne sin dalla gioventù, dove

«non volle mai fare studio sopra le opere di molti grandi maestri, stati avanti di lui,

che avessero tenuto maniera diversa: ma un solo ne elesse, in tutto e per tutto

conforme al suo cuore: e questo fu Santi di Tito, celebre pittor fiorentino,

disegnatore maraviglioso, e bravo inventore»[118]; secondo la Gregori invece, dopo

aver collaborato con Matteo Rosselli, la cui influenza è fortemente visibile in opere

giovanili come I tre fanciulli condotti alla fornace ora nella Galleria Palatina, «il

mutamento, non giovanile come si è creduto, ma frutto di una successiva

maturazione, che lo porterà ad una semplificazione stilistica di sapore retrospettivo e

al recupero della tradizione fiorentina avendo come modello Santi di Tito (e talvolta

guardando a certo Gamberucci e al Ligozzi), ha un significato religioso che appare

l'espressione delle confraternite laiche e rappresenta una presa di posizione anche sul

piano dell'etica che spiega la sua amicizia con Salvator Rosa. Questa tendenza

recessiva fu espressa con la fedeltà testuale, con il ritorno ai colori puri e smaltati

(contro il venezianismo trionfante) e alle espressioni limpide e castigate (contro le

morbide ambiguità del Correggio, che il Lippi non amava)»[119].

Un comportamento dunque analogo a quello del maestro a cui si ispirava: ovvero

il recupero della tradizione locale come opposizione alla maniera troppo opulenta del

periodo. Esempi di questa necessità di chiarezza ricercata dal Lippi sono le tele

successive al 1640, come L'allegoria della Musica (Tavola 33), dove il significato

allegorico è esplicitato dall'oggettistica che rende perfettamente chiara l'analogia, ed è

[117] Ibidem.[118] Ivi, p. 451.[119] M.GREGORI, Milano, 1989, p. 320.

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evidente il purismo coloristico, privo di finiture smaltate o riflettenti e di grandissimo

gusto; tendenza evidenziata nella superba resa della veste curata nei dettagli.

La stilistica naturalista del Lippi è evidente anche nello splendido Lot e le sue figlie

(Tavola 34) degli anni Cinquanta, conservato agli Uffizi: dove il patriarca rispecchia a

pieno l'iconografia biblica, ed il taglio teatrale del dipinto è accostato ad una

morbidezza del colore esemplare nel suo essere di eccezionale fattura senza mai

sfociare nel virtuosismo. La cura dei dettagli è sempre altissima e la resa delle vesti,

soprattutto quella del patriarca, è di una tridimensionalità che ha dell'impressionante.

La ricerca naturalistica lo contraddistinse in un periodo di forte cambiamento,

facendolo giungere fino a noi come un artista unico nel suo genere e nel suo

contesto, analogamente al suo principale ispiratore Santi di Tito.

Simbolo del periodo di cambiamenti che stava vivendo l'arte fiorentina, è

sicuramente uno degli artisti che più furono emblematici di questo gusto a cavallo tra

riforma e barocco, nonché il maggior esponente del Seicento fiorentino: Carlo Dolci

(Firenze, 25 maggio 1616 – 17 gennaio 1686).

«Or per quello che alla pittura appartiene, io non dubito di affermare, che quando

si trova chi ad una estrema imitazione, come io diceva, abbia saputo congiungere un

variar di tinte, una freschezza di colorito, un buon rilievo, una morbidezza nel tutto,

ed in ciascheduna parte, con altre belle qualitadi, che in una preziosa pittura si

richieggono, e sempre simile a se stesso, non in una, ma in ciascheduna dell'opere sue

si possa dire esser egli arrivato a farsi pratico di una delle più difficili materie, che in

questo genere ritrovar si possa, pratico, dico, anzi, pratichissimo, in quel genere di

pratica, ch'io chiamo paziente, anzi la pazienza e la pratica stessa si avrà tutto ciò che

si possa desiderare. Tale pare a me, di poter chiamare il nostro Carlo Dolci»[120]: così

viene a noi introdotto tale artista da Baldinucci, suo sostenitore. Singolare allora è

vedere quanto la fama di tale artista sia stata affossata da critici inglesi, che videro nel

perfezionismo del Dolci e nella sua stilistica un sentimentalismo di bassa lega e

profondamente ridondante, tanto che afferma John Ruskin: «Three penstrokes of

[120] F.BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, stamperia di S.A.R. 1728 p.492.

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Raffaello are a greater and better picture than the most finished work that ever Carlo

Dolci polished into insanity»[121].

Artista estremamente devoto e con una personalità complessa, apprezzato

soprattutto da un pubblico aristocratico ed altolocato, la sua «inquietudine è visibile

nella sua pittura, in cui le dicotomie e il linguaggio spesso tormentato non

appartengono né al mondo della Controriforma, né alla sicurezza trionfalistica del

Barocco»[122].

Talento precocissimo, già operoso nello studio di Jacopo Vignali attorno al 1625,

dimostrò già una maestria innata nel ritratto di Stefano di Bella del 1631

commissionato da Don Lorenzo de' Medici, in cui affiancò ad una rigorosa pittura

una notevole indagine psicologica. L'anno successivo poi eseguì quello che può essere

considerato il suo vero capolavoro giovanile: il ritratto di Fra' Ainolfo de' Bardi (Tavola

35), dove innovazioni come il taglio fino al ginocchio e l'ambientazione all'aperto si

uniscono ad una sofisticata gamma cromatica.

Alla seconda parte degli anni Trenta corrispose una maturazione stilistica verso

una cristallizzazione di tipo bronziniano. A questo periodo appartiene un San Matteo

(Tavola 36) facente parte di una serie di quattro (probabilmente dipinta per

Giovanbattista Galli[123]), dove la colorazione e il trattamento dei dettagli e delle

superfici ha dello straordinario, combinando un chiaroscuro di stampo caravaggesco

ad una morbidezza che rimanda al Correggio.

«Lungo gli anni quaranta Carlo Dolci acquistò una finitezza smaltata, una ricerca

di rarità coloristiche a cui pervenne rievocando il Bronzino, come Cesare Dandini, e

studiando le tecniche della pittura olandese contemporanea che potè conoscere nelle

collezioni granducali»[124], caratteristiche che sono tutte riscontrabili nella Madonna col

Bambino (Tavola 37) del Museo Fabre di Montpellier, risalente al 1642. Gli elementi

tipici del Dolci quali l'impostazione ritrattistica, la superba nitidezza smaltata, la

precisione meticolosa di ogni dettaglio ed il colorito ricco e vibrante sono tutti qui

presenti, in questa opera di straordinaria dolcezza e perfezione.

[121] J.RUSKIN, London, 1903-12, p. 91. [122] C.MCCORQUODALE, Firenze, 1986, p. 81[123] B. FREDERICKSEN, 1976 pp. 67-73. [124] M.GREGORI, Milano, 1989, p. 321.

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I decenni successivi videro il Dolci spostarsi verso forti contrasti di chiaroscuri ed

espressioni estatiche, come evidenziato nella Carità (Tavola 38) del 1659, che

presenta una semplificazione della materia trattata in favore dell'accezione pietistica,

semplificazione che però non va a sminuire la perfezione della pittura. Questo

dipinto fu parte di una serie di figure allegoriche che rappresentarono una delle

poche alternative alla pittura di immagini sacre da sempre operata da parte del pittore.

L'ultimo venticinquennio di vita dell'artista lo vide sempre più tormentato, complice

anche l'unico viaggio che condusse fuori Firenze, chiamato ad Innsbruck nel 1672

per eseguire il ritratto di Claudia Felicita; al suo rientro a Firenze corrispose una fase

di acuta depressione ed un relativo blocco artistico, alla quale riuscì a porre fine

l'amico Domenico Baldinotti: «il Baldinotti diede di mano a una tavotozza, vi

accomodo' sopra i colori, messe all'ordine bacchetta e pennelli, e poi fece dar fuoco

al pezzo grosso, e questo fu, che il Religioso si messe lo posto, gli comandò per

obbedienza il mettersi a finire un velo ad una delle due Immagini di Maria Vergine

gloriosissima, che egli aveva già condotte, una per la Serenissima Granduchessa

Vittoria e l'altra per Filippo Franceschi, ricco cavaliere Fiorentino. Obbedì il pittore;

ed il lavoro riuscì sì bene, che in un subito si dileguò in lui la forte apprensione di

aver perduta ogni abilità nell'arte, e svanirono quegli oscuri fantasmi, e così dopo un

anno di vita, menata in una mestizia, stetti per dire d'inferno, grave agli astanti ed a se

stesso odioso, si ridusse a poco a poco alla primiera salute, correndo l'anno 1675» [125].

Una delle opere figlie di questo travagliato periodo è la tavola dell' Angelo Custode

(Tavola 39) del 1675 eseguito per il duomo di Prato, dove il l'atmosfera scura e cupa

sembra contrastare con l'espressione di felicità quasi infantile dell'Angelo, quasi un

simbolo dello stato d'animo del pittore con la sua ritrovata serenità nonostante gli

‘oscuri fantasmi’ sopra menzionati.

Depressione che, però, tornò negli ultimi anni di vita del pittore, dopo l'incontro

con Luca Giordano, che visitando la bottega del Dolci disse bonariamente: «tutto mi

piace, o Carlo; ma se tu seguiti a far così, dico, se tu impieghi tanto tempo a condurre

tue opere, tanto è lontano, che io pensi, che tu sia per metter insieme i cento

cinquanta mila scudi, che ha procacciati a me il mio pennello, che io credo al certo

[125] F.BALDINUCCI, Firenze, 1681-1728, Stamperia di S.A.R.1728, pp. 504-505.

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che tu ti morrai di fame»[126], parole che fecero piombare l'artista di nuovo in un

estremo malessere che, stavolta, lo accompagnò fino alla tomba.

«Nell'ordine di quel recupero delle proporzioni, della bellezza ideale cui aspirava il

gusto dell'epoca, la scuola fiorentina si modellerà non già sull'antico, ma, come ai

tempi di Santi di Tito, sui pur degnissimi esempi del classicismo del primo

Cinquecento locale, da Andrea Del Sarto a Fra' Bartolomeo. Sarà questa, crediamo,

ragione determinante della minor fortuna sortita dalla riforma dei fiorentini rispetto a

quella, qualificatasi in senso antichizzante, dei bolognesi» [127]. Così Mina Gregori tira

le somme del Seicento fiorentino, vedendo la minor fortuna della scuola toscana nel

suo recupero di fonti locali contrapposte al classicismo Bolognese.

Rappresentò dunque il Seicento, per Firenze, una fase transitoria e contraddittoria,

dove la crisi della cultura disegnativa venne affrontata tramite il recupero di una

sicurezza derivata dalla forza del recente passato, ed unita alla riscoperta

dell'elemento che fino ad allora era stato relegato ad un secondo piano; l'epoca in cui

in cui, dunque, il colore prese il suo posto fra i protagonisti dell'arte nella capitale

Toscana.

[126] Ivi, p. 507.[127] M. GREGORI, 1962. pp. 30-31.

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Tavola 1. Santi di Tito, Moltiplicazione dei pani e dei pesci, 1592. Olio su tavola, 305x190 cm. Firenze, Chiesa di San Gervasio e Protasio.

Tavola 2.1 e 2.2. Santi di Tito, Moltiplicazione dei pani e dei pesci, 1604. Olio su tavola, 304x189cm. Prato, Palazzo Pretorio. Prima e dopo il restauro

Tavola 3. Santi di Tito, Visione di San Tommaso d'Aquino, 1593. Olio su tavola, 362x233 cm. Firenze, Chiesa di San Marco

Tavola 4. Santi di Tito, Sacra Famiglia con San Giovannino e Sant'Elisabetta, 1601. Olio su tela, 170,5x117 cm. Grosseto, Museo Diocesano d'Arte Sacra.

Tavola 5. Ludovico Cigoli, Martirio di San Lotenzo, 1590. Olio su tavola, 300x175 cm. Figline Valdarno, Museo della Collegiata di Santa Maria (in deposito dalle Gallerie di Firenze, inv. 1890 n. 2130)

Tavola 6. Ludovico Cigoli, San Francesco riceve le stigmate, 1596. Olio su tela, 247 x 171 cm. Firenze, Galleria degli Uffizi

Tavola 7. Ludovico Cigoli, Martirio di Santo Stefano, 1597. Olio su tela, 450 x 257 cm. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina ed Appartamenti Reali

Tavola 8. Ludovico Cigoli, San Girolamo penitente, 1603. Olio su tela. Pisa, Palazzo Giuli Rosselmini Gualandi.

Tavola 9. Ludovico Cigoli, San Francesco in Estasi. 1600, Olio su tela, 195,5 x 147 cm. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage. Non sappiamo di preciso quale sia il San Francesco citato dal Baldinucci. Essendo però un tema ricorrente dell'artista, e raffigurato con la medesima iconografia, la scelta è caduta sull'esemplare conservato all'Ermitage in quanto migliore esempio (grazie al suo stato di conservazione) per il cromatismo.

11.1 11.2

Tavola 11.1. Ludovico Cigoli, Gesù coronato di spine. Pastello su carta, 47 x 40 cm. Firenze, collezione Corsini.

Tavola 11.2. Ludovico Cigoli, Gesù coronato di spine. Olio su tavola, 66 x 51 cm. Firenze, collezione Corsini.

Tavola 10. Ludovico Cigoli, Ecce Homo, 1607. Olio su tavola, 175 x 135 cm. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina.

Tavola 12.1. Domenico Passignano, Traslazione del corpo di Sant'Antonino, 1588. Affresco. Firenze, Basilica di San Marco.

Tavola 12.2. Domenico Passignano, Esposizione del corpo di Sant'Antonino, 1588. Affresco. Firenze, Basilica di San Marco.

Tavola 12.3. Domenico Passignano, Esposizione del corpo di Sant'Antonino, 1588. Affresco. Firenze, Basilica di San Marco. Dettaglio

Tavola 13. Domenico Passignano, Elezione di Beato Manetto a Generale dei Serviti, 1602. Olio su tela, 178 x 140 cm. Firenze, Basilica della Santissima Annunziata.

Tavola 14. Jacopo Ligozzi, Il martirio di Santa Dorotea, 1595. Olio su tela. Pescia, Chiesa di San Francesco

Tavola 15. Gregorio Pagani, Madonna in Trono con bambino tra i santi Michele Arcangelo e Benedetto,1595. Olio su tavola, 233 x 156 cm. Le Ville (Terranuova Bracciolini, Arezzo), Chiesa di San Michele Arcangelo.

Tavola 16.1 Cristofano Allori, Beato Manetto risana uno storpio muto, 1605. Olio su tela. 193 x 139 cm. Firenze, Basilica della Santissima Annunziata.

Tavola 16.2 Cristofano Allori, Beato Manetto risana uno storpio muto, 1605. Olio su tela. 193 x 139 cm. Firenze, Basilica della Santissima Annunziata. Dettaglio colore.

Tavola 17. Cristofano Allori, Maria Maddalena Leggente. Data sconosciuta. Olio su tavola, Firenze, Galleria degli Uffizi.

Tavola 18. Cristofano Allori, Giuditta con la testa di Oloferne, 1612. Olio su tela 139 x 116 cm. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina.

Tavola 19. Matteo Rosselli, Semiramide. Olio su tela, 174 x 219 cm. Firenze, Villa medicea La Petraia.

Tavola 20. Matteo Rosselli, Natività, 1633. Olio su tavola. Firenze, Chiesa dei Santi Michele e Gaetano.

Tavola 21. Matteo Rosselli, Invenzione della Vera Croce, 1644. Olio su Tela. Firenze, Chiesa di San Gaetano.

Tavola 22. Giovanni Bilivert, San Raffaele Arcangelo rifiuta i doni di Tobia, 1612. Olio su tela, 175 x 146 cm. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina.

Tavola 23. Giovanni Bilivert, Sposalizio mistico di Santa Caterina d'Alessandria, 1642. Olio su tela, 354 x 222 cm. Firenze, Basilica della Santissima Annunziata.

Tavola 24. Andrea Commodi, Autoritratto. Pastello su carta. Firenze, Casa Buonarroti.

Tavola 25. Fabrizio Boschi, Annunciazione. Olio su tela, 210 x 135 cm. Firenze, Chiesa di San Michele Arcangelo e Gaetano.

Tavola 26. Cesare Dandini, Rinaldo e Armida, 1635. Olio su tela, 185 x 205 cm. Firenze, Galleria degli Uffizi.

Tavola 27. Cesare Dandini, Sacra famiglia, anni '40 del XVII secolo. Olio su tela, 148 x 111 cm. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage.

28 29

Tavola 28. Cesare Dandini, Ritratto di Checca Costa, 1637. Olio su tela, 75 x 60 cm. Milano, collezione Koelliker

Tavola 29. Cesare Dandini, Artemisia, 1638. Olio su tela, 73 x 56 cm. Firenze, collezione Corsini.

Tavola 30. Francesco Furini, Cefalo e Aurora, 1623. Olio su tela, 233 s 192 cm. Portorico, Museo Fereè-Ponce.

Tavola 31. Francesco Furini, Ila e le ninfe, 1630. Olio su tela, 230 x 261 cm. Firenze, Palazzo Pitti.

Tavola 32. Mario Balassi, Miracolo di San Nicola Tolentino, 1637. Olio su tela, 330 x 225 cm. Prato, Museo Civico.

Tavola 33. Lorenzo Lippi, Allegoria della musica, 1642. Olio su tela, 86 x 72 cm. Roma, collezione A.Busiri Vici.

Tavola 34. Lorenzo Lippi, Lot e le sue figlie, Olio su Tela. Firenze, Galleria degli Uffizi.

Tavola 35. Carlo Dolci, Ritratto di Fra' Ainolfo de' Bardi , 1632. Olio su tela, 149.5 x 119 cm. Firenze, Palazzo Pitti.

Tavola 36. Carlo Dolci, San Matteo evangelista, 1637. Olio su Tela, 115 x 110 cm. Los Angeles, Getty Museum.

Tavola 37. Carlo Dolci, Madonna col Bambino, 1642. Olio su tela, 74 x 88 cm. Montpellier, Museo de Fabre.

Tavola 38. Carlo Dolci, La Carità, 1659. Olio su tela, 93 x 76 cm. Prato, Palazzo degli Alberti.

Tavola 39. Carlo Dolci, Angelo custode, 1675. Olio su tavola. Prato, Palazzo vescovile, Museo dell'opera del Duomo.

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Vorrei esprimere la mia gratitudine alla Professoressa Mara Visonà, relatore della miatesi, per l'aiuto e il sostegno fornitomi durante la stesura del lavoro.

Vorrei ricordare e ringraziare anche il personale della biblioteca di via della Pergolaper il graditissimo sostegno ricevuto durante le mie ricerche.

Ringrazio con affetto la mia famiglia che mi ha supportato e sopportato durante glianni all'università.

Infine ho desiderio di ringraziare la mia ragazza Rachele, ed i miei amici Filippo eGiorgio, entrambi in terra straniera; Giacomo e Samuele; poi Lorenzo, lo Wakko e

Filippo per il tempo perso alle prove; gli amici ed i coinquilini che mi hannosopportato durante questi anni d'università e Disco CK per aver provveduto alla

colonna sonora durante la stesura del lavoro.