I “balli russi” nel cinema muto italiano

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associazione italiana per le ricerche di storia del cinema

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di storia del cinema

“Immagine – Note di Storia del Cinema”

n. 9, 2014 (semestrale)

Comitato scientifico: Giorgio Bertellini (University of Michigan), Ivo Blom (VU University, Amsterdam), Giulia Carluccio (Università degli Studi di Torino), Elena Dagrada (Università degli Studi di Milano), Michèle Lagny (Université de Sorbonne Nouvelle, Paris III), Giovanni Lista (C.N.R.S. - Centre National de la Recherche Scientifique, Paris), Pierre Sorlin (Université de

Sorbonne Nouvelle, Paris III)Segreteria di redazione: Sila Berruti, Eugenio De Bernardis, Paolo Grassini, Davide Gherardi, Marco Grifo, Giovanni Lasi, Elena Nepoti, Sarah Pesenti Campagnoni, Fabio Pezzetti Tonion,

Federico StriuliRedazione: Silvio Alovisio, Francesca Angelucci, Giulio Bursi, Paolo Caneppele, Paola Cristalli, Monica Dall’Asta, Stella Dagna, Raffaele De Berti, Alessandro Faccioli, Alberto Friedemann (†), Claudia Gianetto, Luca Giuliani, Cristina Jandelli, Massimo Locatelli, Luca Mazzei, Elena

Mosconi, Federico Pierotti, Maria Assunta Pimpinelli, Simone Venturini, Federico Vitella

Redazione: San Polo 896 – 30125 Venezia

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Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Venezia, n. 23 del 12 settembre 2012

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Il presente fascicolo è stato realizzato con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo – Direzione Generale per il Cinema

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Immagine n. 9

Sommario

Elisa Uffreduzzi e Cristina JandelliLa danza nel cinema muto

p. 7

Laurent GuidoTra spettacoli paradossali e dispositivi tecnici:

sulle danze (serpentine) nel cinema dei primi annip. 12

Elisa UffreduzziI “balli russi” nel cinema muto italiano

p. 45

Mariapaola PieriniLa sua propria danza: Alla Nazimova

p. 79

Massimo LocatelliCultura materializzata nel corpo.

Anita Berber e Valeska Gertp. 111

Francesco Casetti e Luca MazzeiLa modernità controversa.

Cinema ed esperienza del modernoin Italia dal 1900 al 1945

p. 143

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I “balli russi” nel cinema muto italianoelisa uffreduzzi

Nella produzione cinematografica del muto italiano possiamo individuare quattro macro-categorie di danza: ballo folclorico, danze di società, danza classica e modernismo coreutico –, ciascuna delle quali racchiude al suo interno altre sottocategorie. In particolare, l’etichetta ‘modernismo coreutico’ sottintende ramificazioni minori, quali le idee coreutiche innovative di pioniere della danza moderna come Loïe Fuller, Ruth Saint Denis e Isadora Duncan. Esse possono agilmente essere raggruppate in due correnti o per meglio dire due ‘concezioni estetiche’ della danza nuova, la quale è da intendersi tale in contrapposizione alla tecnica del balletto classico-romantico, il cui rigido schematismo era ormai avvertito da più parti come vuoto virtuosismo. Tali ‘concezioni estetiche’ sono essenzialmente la danza orientalista, che s’inserisce nella più ampia fascinazione culturale per l’Oriente, diffusasi in Occidente alla fine dell’Ottocento, e la danza d’avanguardia, in diverse accezioni. Il fil rouge, che attraversa senza soluzione di continuità le diverse espressioni del modernismo coreutico nel cinema muto italiano, è quello dei ‘balli russi’.Il termine rievoca immediatamente la celebre compagnia dei Ballets Russes, fondata da Sergej Djaghilev nel 1909, che cercò di rinnovare le atrofizzate forme del balletto dall’interno, realizzando opere innovative a partire da quello stesso linguaggio coreutico e aprendo così la strada al ‘balletto moderno’1. Ricorrendo di volta in volta al genio di artisti quali Benois e Bakst per scenografie e costumi; Fokin, Nižinskij e Massine per le coreografie delle prime stagioni2 e musicisti come Stravinskij e Debussy, i Ballets Russes presentarono al pubblico spettacoli di forte impatto visivo, convogliando l’attenzione europea, e parigina in primo luogo, verso la cultura russa. Una tendenza questa, che si sarebbe accentuata dopo la rivoluzione del 1917, con l’arrivo nella capitale francese degli esuli aristocratici russi. Fin dalla sua prima stagione parigina (1909/1910)3, la compagnia colpì l’immaginario

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occidentale non soltanto per la sperimentazione inerente alla danza, ma anche per le dirompenti scenografie e costumi: “fino a quel momento […] la danza classica era vestita in tutù e calzamaglia e le sue scene erano estremamente semplificate. Benois e, soprattutto, Bakst vestirono i danzatori con costumi mirabolanti […] e li fecero muovere in scene elaboratissime e colorate”4. Nel 1912 i Ballets Russes danzarono L’Après-midi d’un faune, su coreografie di Nižinskij e musiche di Debussy. Celebri i costumi di Bakst per il balletto, su tutti la tuta aderente e maculata indossata dallo stesso Nižinskij, che colpì anche l’immaginazione di Natacha Rambova, tanto che volle immortalare anche il proprio amante – Rodolfo Valentino – con quel suggestivo travestimento5 (Figg. 1-2). L’anno seguente le coreografie antiaccademiche de Le Sacre du printemps, ideate da Nižinskij sulle musiche di Stravinskij, avrebbero scandalizzato ancora una volta Parigi e l’Europa, e la carica eversiva dei Ballets Russes avrebbe continuato inarrestabile la sua corsa fino alla morte dell’impresario, Djaghilev, nel 19296.Tra i balletti allestiti dalla compagnia russa, in particolare Shéhérazade (1910) avrebbe avuto una longeva fortuna, grazie ai celebri costumi di Léon Bakst, tanto da influenzare anche il noto couturier parigino Paul Poiret. Questi, probabilmente anche per la forte suggestione derivata dagli allestimenti dei Ballets Russes, creò modelli ispirati alle culture orientali e arabe7, eliminando il busto dalla moda femminile fin dal 1906 e proponendo i suoi celebri pantaloni ‘da harem’8. Poiret si faceva così concretamente interprete delle riflessioni che già sul finire dell’Ottocento si erano diffuse in Europa ad opera di associazioni come The Rational Dress Society (1881) e The Healthy and Artistic Dress Union (1890) di Londra, allo scopo di modificare l’abito femminile, colpevole di minacciare la salute della donna, principalmente a causa del corsetto9, ma soprattutto s’inseriva nella corrente orientalista di fine Ottocento, cui lo stesso balletto Shéhérazade afferiva.Se i Ballets Russes rivoluzionarono le forme del balletto, nondimeno rimanevano pur sempre confinati all’interno di un medesimo vocabolario coreutico, mentre altri ‘balli russi’ elusero completamente quella grammatica gestuale per dar vita a una

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coreutica affatto nuova, che risentiva fortemente dell’influenza delle teorie di François Delsarte e Isadora Duncan in primo luogo.

Ileana Leonidoff e i suoi “Balli russi”

Ileana Leonidoff, all’anagrafe Elena Sergeevna Pisarevskaja, era nata a Sebastoboli, in Crimea, nel 189310. Arrivò al cinema ‘per caso’: dopo il debutto come cantante lirica, partecipò a un concerto di beneficenza per la Casa del Soldato, al Teatro Nazionale, nel luglio 191611. Prese parte alla serata dapprima in veste di pianista, poi di danzatrice, al fianco di Tais Galickaja, sostituendo una performance di Stacia Napierkowska12. All’indomani dell’estemporanea esibizione, il futurista Anton Giulio Bragaglia ne era entusiasta13, tanto da scritturare sia Tais Galickaja che la Leonidoff per Thaïs14.Per la verità a colpire Bragaglia era stata soprattutto Tais Galickaja. Prova ne sia il fatto che il regista volle farne la protagonista del film, nel ruolo della contessa Véra Préobrajenska, detta ‘Nitchevo’, dedita alla letteratura sotto lo pseudonimo di ‘Thais’. Il suo ruolo è l’ennesima rivisitazione del mito della femme fatale che si redime con la morte, in ossequio alla morale borghese peraltro tanto osteggiata dai futuristi. Bragaglia le contrappone l’altro archetipo dell’eterno femminino: la donna angelicata, qui incarnata proprio dalla Leonidoff nei panni di una danzatrice. Se quasi nulla sappiamo di Thais Galickaja, più generose sono le informazioni biografiche note su Ileana Leonidoff: probabilmente mosse i primi passi in ambito cinematografico recitando in ruoli minori per la Film d’Arte Italiana, a partire dal 191415. “La collaborazione con Bragaglia e la vicinanza con i futuristi portarono presto Ileana ad accostarsi alla danza e alla mimica e a ritagliarsi un proprio spazio nel territorio coreutico italiano”16. Dunque, se si eccettua quella breve apparizione nella serata di beneficenza del luglio 1916, è lecito affermare che la Leonidoff arrivò alla danza grazie al cinema e all’esperienza futurista e non al termine di un percorso di studi coreutici accademici. Il dato è importante per capire il tipo di concezione coreografica alla base della sua esperienza di danzatrice,

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segnatamente nei ruoli cinematografici che la vedono impegnata in numeri di danza. Nel dicembre del 1916, Ileana Leonidoff è al seguito della compagnia del coreografo Nicola Guerra, con cui intraprende una tournée che la vedrà impegnata in una serie di ‘cammei mimico-espressivi’, nell’ambito dello spettacolo Pastelli coreografici. Si tratta di una forma di danza nuova per il pubblico dell’epoca, avvezzo a spettacoli come il Ballo Excelsior17, dove una coreutica fortemente debitrice della tradizione coreografica classico-romantica era ridotta a mero pretesto spettacolare. In Pastelli coreografici, piccoli ‘quadri’ mimico-danzati in relazione sinestetica con musica, scenografia e costumi, costituiscono lo spettacolo, articolato in diversi momenti, ciascuno con interpreti diversi. Ileana è la protagonista del ‘quadro’ costituito dal mimodramma Giuditta, musicato da Arrigo Pedrollo:

il secondo ballo: Giuditta, mimodramma in un quadro, rievoca l’episodio biblico della esecuzione d’Oloferne. L’azione è movimentata, drammaticissima. La scena in cui Giuditta tenta di sedurre Oloferne col fascino della danza, è veramente deliziosa. […] Anche qui, come nella Salomè, l’artista è stato trascinato dalla leggenda in fantasiose ricerche di armonie esotiche da cui ha saputo trarre effetti di sonorità e di impasti veramente magistrali. La interprete di questo ballo, Elena Leonidof [sic], è una artista di primissimo ordine; seducente, fine, agile, con movimenti da serpe e da pantera, di una bellezza plastica insuperabile. E fu applauditissima con gli altri esecutori18.

Di qui in poi si moltiplicano le apparizioni sceniche della Leonidoff in veste di danzatrice19.Ma Ileana Leonidoff non è solo un’esecutrice: nell’aprile del 1918 pubblica sulle pagine di “Il Mondo” un vero e proprio Manifesto artistico, intitolato Il mimodramma, nel quale esplicita le caratteristiche della sua originale concezione coreutica20. Secondo Laura Piccolo non è da escludere la collaborazione dello stesso Bragaglia o di altri esponenti dell’avanguardia italiana ad essa vicini, come Aldo Molinari ed Enrico Prampolini, per la stesura del Manifesto21. Comunque

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Il mimodramma resta imprescindibile per ricostruire “l’arte della danzatrice russa non solo nei primi anni Dieci, ma anche nella futura attività di coreografa con la compagnia di balli russi22, che la porterà a spaziare dalla danza alla mimica, sino a sperimentare, nel 1921, l’essenza stessa del mimodramma, la commedia dell’arte”23. Secondo l’esigenza di recuperare la pantomima alla sua purezza originale, Bragaglia potrebbe aver effettivamente collaborato alla stesura del manifesto del mimodramma. Nel testo, Ileana Leonidoff precisa che “il ballo – comunemente – è un assurdo tedioso, solo accettabile come svago per i bimbi o i vecchi ritornati tali”, distinguendo da esso il mimodramma, “ove l’orchestra ha tutta la libertà sinfonica, e l’azione è più rapida e concisa, offre un campo indefinito per l’autore della musica e del soggetto, e per l’attore, poiché nessuno di essi dipende dall’altro. È una creazione libera, illimitata. È la sintesi dell’arte”24.A proposito della scenografia, la danzatrice sottolinea come “effetti meravigliosi in questo campo ha già raggiunto Léon Bakst, il grande novatore russo”25. Evidenziando dunque come vi fosse un sottile filo conduttore che dal balletto classico-romantico, passando per i Ballets Russes ed il rinnovamento della moda femminile del tempo, portava alla danza d’avanguardia e segnatamente a quella di Ileana Leonidoff.“Nella creazione dei miei mimodrammi” – conclude Ileana nel testo – “è la ricerca affannosa della perfetta fusione tra la musica, il gesto e il colore […] per il raggiungimento di una forma purissima e libera di Arte. […] il mimodramma è germe, la sintesi dell’arte teatrale”26. Sinestesia, arte sintetica, opera d’arte totale27, sono i paradigmi che s’incrociano e si sovrappongono nella concezione teorica mimico-coreutica di Ileana Leonidoff. Non a caso in epigrafe all’articolo di “Il Mondo” compariva un verso di Maurice Maeterlinck, che nel solco del Simbolismo aveva compiuto prima il suo apprendistato poetico, poi la sua opera. Proprio il Simbolismo è per la danzatrice il nucleo dal quale partire per superare le convenzioni ascrivibili al ‘ballo russo’. A ben guardare, nel mimodramma, la danza è solo uno degli elementi che compongono lo spettacolo, al pari di parola, musica e canto. Del resto ai principi espressi nel Manifesto del 1918 la danzatrice si atterrà lungo tutto il suo percorso artistico-coreutico, pur non fregiandosi più del termine ‘mimodramma’, che rievoca tra l’altro le concezioni teatrali

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di coevi innovatori della scena come Gordon Craig e Mejercho’ld. Tesa tra Simbolismo e avanguardia futurista, la danza di Ileana Leonidoff è legata a doppio filo con la sua esperienza cinematografica. Non a caso, quando abbandona il grande schermo alla fine degli anni Dieci, si reinventa dedicandosi completamente alla danza: se a Parigi i Ballets Russes di Sergej Djaghilev avevano debuttato nel maggio del 1909 al Théâtre du Châtelet, Ileana Leonidoff nel maggio del 1920 fonda una sua compagnia di danza, i Balli russi Leonidoff, con la collaborazione di Aldo Molinari (per scene, costumi e ‘quadri’) e Ottorino Respighi (per le musiche)28. La scelta della denominazione della compagnia è un’operazione artistica e insieme di marketing, finalizzata a proporre l’iniziativa come ideale proseguimento delle innovazioni proposte dai Ballets Russes29.In veste di coreografa, la danzatrice sviluppa una coreutica personale fortemente innovativa, che si rifà sostanzialmente ai principi esposti nel Manifesto del mimodramma del 1918. La compagnia debutta al teatro Quirino il 28 maggio del 1920, con una serie di sei balletti originali: Fantasia indiana, Sèvres de la vieille France, Canzoni arabe, Foglie d’Autunno, Pirrica e Destino. Nel pot-pourri di stili e suggestioni culturali, tra la tradizione folklorica russa, quella del mondo classico e della Commedia dell’Arte, si rilevano ben due occorrenze di ascendenza orientale. Se Fantasia indiana rievoca il ricordo di Radha di Ruth Saint Denis – per il nucleo tematico legato ad una divinità indiana –- e Canzoni arabe quello di Shéhérazade dei Ballets Russes – non foss’altro che per l’ambientazione, unitamente alle musiche di Nikolaj Rimskij-Korsakov30, che ricorrono anche in questo caso – in Pirrica la coreografa invece “riprende quel filone di riscoperta della Grecia operato da Isadora Duncan e dagli stessi Ballets Russes”, con “pose plastiche di gusto classico”31.Vediamo ora come questo tipo di concezione coreografica della Leonidoff s’inserisce nel cinema futurista. Tra il 1917 e il 1920 Ileana Leonidoff interpreta circa quindici film, nei quali è spesso – ma non in modo esclusivo – impegnata nel ruolo di danzatrice, intrecciando così realtà e finzione. “Ilana Leonidoff resta però una fugace apparizione di quel fascino slavo così di moda ad inizio secolo nel mondo cinematografico italiano […], in ombra rispetto alle dive polacche più

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note, quali Diana Karenne, Soava Gallone, Elena Makowska o, anche, Stacia Napierkowska, considerate in tutto e per tutto dive italiane”32. Nel contesto di una carriera artistica composita quale fu quella di Ileana Leonidoff, tra modernismo coreutico, cinema e Futurismo, Thaïs rappresenta al tempo stesso il suo esordio cinematografico e una conferma del suo ruolo di danzatrice. L’avveniristica scenografia del film, scaturita dalla fantasia di Enrico Prampolini, affianca a interni di gusto decadente e dannunziano33 i motivi geometrici che emergono fin dalla prima inquadratura, in cui la Galickaja si staglia sullo sfondo stilizzato. Prampolini nel 1915 aveva pubblicato il Manifesto Scenografia e coreografia futurista, nel quale auspicava l’avvento di una scena riformata, antinaturalistica, che, abbandonato l’uso dei fondali dipinti, fosse costituita da “un’architettura elettromeccanica incolore, vivificata potentemente da emanazioni cromatiche di fonte luminosa, generata da riflettori elettrici dai vetri multicolori disposti, coordinati analogicamente alla psiche che ogni azione scenica richiede”34. In tal senso egli dimostrava di avere pienamente compreso ed ereditato la carica eversiva della scena e della performance imposte dalla Serpentina della Fuller35.La danza non occupa un ruolo centrale nella narrazione. La danza interviene all’inizio del film ed è funzionale alla presentazione di Bianca Belincioni Stagno36 (Ileana Leonidoff), fedele amica della protagonista, la già menzionata contessa Véra Préobrajenska. Il titolo 237 precede l’inquadratura fissa a seguire, che ci presenta il personaggio di Bianca Belincioni Stagno. Si tratta di una manciata di secondi38, eppure in quel breve frammento del film è contenuta una coreografia. Interprete della scena e del personaggio, nonché presunta – avanziamo l’ipotesi – ideatrice della breve coreografia, è Ileana Leonidoff, semi-sconosciuta cantante lirica della scena italiana, che di lì a poco sarebbe divenuta celebre danzatrice e attrice cinematografica. Dell’abilità coreutica del personaggio di Bianca ci informa già la didascalia e questa caratteristica è del tutto ininfluente sullo sviluppo della narrazione. In questo senso la breve coreografia di presentazione eseguita da Bianca si configura come un mero pretesto per offrire all’interprete, Ileana Leonidoff, l’occasione di esprimersi al meglio su un terreno, quello della danza, nel quale

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stava muovendo i primi passi, riscuotendo l’apprezzamento del pubblico e di Bragaglia in primis che – come abbiamo ricordato – proprio dopo averla vista danzare, l’aveva scelta per la parte di Bianca.Veniamo dunque al dettaglio della coreografia: pur molto breve, essa condensa in sé una commistione di stilemi del balletto romantico e della danza moderna, insieme a movenze ascrivibili all’humus culturale orientalista del tempo. Piuttosto che di corpo in movimento, in questo caso, è opportuno parlare di ‘pose coreografiche’ (cinque, per l’esattezza), che mentre presentano la danzatrice protagonista, scompongono la grammatica del balletto classico-romantico. 1ª posa. Definisce uno stile che potremmo dire, semplificando, ‘egizio’, giacché appare ispirato all’iconografia di tante scene raffigurate sulle pareti delle piramidi dell’antico Egitto. Ileana Leonidoff porta il braccio sinistro davanti al viso, mentre il destro è teso indietro. Disegna così una sorta di secondo arabesque destrutturato, col braccio sinistro davanti al volto e il gomito piegato mentre il destro è steso indietro e le gambe sono in effacé derrière a sinistra en dedans, con le ginocchia piegate. Anche la gamba dietro è a terra anziché sollevata, come dovrebbe essere in un arabesque canonico.

2ª posa. Alla quale arriva semplicemente stendendo le gambe: quella destra en dehors, la sinistra in tendu en dedans dietro, mantenendo dunque la posizione del corpo effacé derrière a sinistra en dedans come sopra, mentre le braccia disegnano un cerchio accanto al viso, alla sua destra.

3ª posa. Porta le braccia alla seconda, con una marcata inclinazione laterale del busto sul fianco destro e lo sguardo rivolto verso la mano destra (le braccia sono in seconda allongé e seguono la direzione del busto). Cambia la posizione del corpo, che ora è in effacé derrière a destra, con le ginocchia flesse, parallele.

4ª posa. Che diremo ‘del cigno’: le braccia sono rivolte all’indietro, mentre le gambe sono incrociate davanti (la sua destra davanti alla

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sinistra) e la testa bassa, lo sguardo rivolto alla sua destra, lievemente in diagonale a destra.

5ª posa. Cambia l’incrocio delle gambe (la sua gamba sinistra è ora davanti alla destra) e si siede a terra, tenendo le mani sul grembo, in una sorta di plié portato agli estremi, fino a toccare il suolo. Tiene lo sguardo basso, ma la testa e la schiena sono ben erette. ‘Aspetta’ la chiusura del quadro, mantenendo la posa.

Nella 1ª posa, quel braccio che ricorda vagamente le raffigurazioni bidimensionali di pareti e suppellettili dell’antico Egitto, è assimilabile all’atteggiamento adottato da Isadora Duncan rispetto alla pittura vascolare dell’antica Grecia. Se è impossibile stabilire con certezza la fondatezza dell’ipotesi di un’ispirazione archeologica, più diretta sembra la derivazione dal mimodramma, definito dalla Leonidoff nel suo Manifesto come il risultato di una somma di piccoli quadri mimo-danzati. I suoi spettacoli erano infatti articolati in brevi sezioni indipendenti. Si pensi al balletto di debutto dei Balli russi Leonidoff (28 maggio del 1920), dove il segmento Pirrica era “un’azione mimata nella quale si succedono figure e pose plastiche simili a quelle dipinte da Duride sui vasi greci”39. Fu lei stessa, nel Manifesto del mimodramma, a parlare di pose, precisando che “una semplice contrazione della fisionomia potrà bastare a dare tutta la sensazione di un istante drammatico”40; e più avanti, a proposito della scena “stilizzata” dirà: “il quadro risulti come un bassorilievo animato, in cui tutto, secondo l’epoca del soggetto, prenda, esagerando, la linea dello stile, specie nei movimenti, nel disegno delle pose e dei costumi”41. Pose dunque, attitudes, sintesi di uno stato d’animo o di una situazione drammatica. Al contrario la 4ª posa, che non a caso abbiamo definito ‘del cigno’, ricorda piuttosto certi atteggiamenti delle braccia visti nel balletto La morte del cigno (1905), il celebre assolo coreografato da Michail Fokin su musica di Saint-Saëns, per Anna Pavlova42: le braccia sono infatti rivolte all’indietro, mentre le gambe sono incrociate davanti (la sua destra davanti alla sinistra) e la testa bassa, lo sguardo rivolto alla sua destra (Figg. 3-4). La 2a e la 3a posa si attestano invece sul gesto minimalista, stilizzato e schematico come le geometrie descritte dalle scenografie di Prampolini

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per il film. Nel complesso le prime quattro attitudes descrivono una sorta di chiasmo, i cui estremi sono costituiti dai due modelli coreutici opposti della danza nuova e del balletto romantico, mentre gli elementi centrali sono espressione del geometrismo astratto di Prampolini. Chiude il chiasmo coreografico l’inchino finale (5ª posa).

La ‘danza russa’ secondo Ida Rubinštejn

Il cinema muto italiano chiude la sua stagione d’oro nel 1921, quando il fallimento della Banca di Sconto gli infligge un colpo mortale, segnando il ritiro del capitale finanziario dall’industria cinematografica43. La produzione nazionale subisce infatti una netta battuta d’arresto, definendo una situazione di crisi che permarrà pressoché invariata fino all’avvento del sonoro. Ma il 1921 si rivela un anno cruciale anche per l’intreccio di relazioni che legano il cinema alla danza e al modernismo coreutico in particolare, teso fra le due ‘correnti’ complementari dell’Orientalismo e della danza d’avanguardia. È in questo snodo fondamentale della storia del cinema italiano che s’inserisce la figura di Ida Rubinštejn. Priva di una formazione coreutica di tipo tradizionale, approdò alla danza nei panni dell’eroina biblica e femme fatale, nonché massima icona orientalista fin de siècle: tra il 1908 e il 1909 allestì a San Pietroburgo due spettacoli di Salomè, la pièce teatrale di Oscar Wilde. Per le scene e i costumi si rivolse a Bakst; per la partitura a Glazunov; per la regia a Mejerchol’d e per la coreografia della danza di Salomè a Fokin, che orchestrò per l’occasione una partitura coreografica di ascendenza orientale. Fu quello il primo approccio alla danza in senso professionale. Bakst riuscì a eludere il divieto del Santo Sinodo di rappresentare il testo di Wilde, facendo dello spettacolo una rappresentazione muta. L’escamotage si rivelò particolarmente fortunato per la danzatrice che da quel momento sarà esaltata soprattutto per le sue doti mimiche e plastiche44. Il personaggio biblico costituì a lungo una vera e propria ossessione per la ballerina russa: vi tornerà ancora a Parigi, nel 1909, nel 1912 e nel 191945.Frattanto, nel maggio del 1912 al Théâtre du Châtelet, la Rubinštejn si era esibita in Hélène de Sparte, dal testo del poeta belga Emile Verhaeren46.

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Ne vennero lodati gli atteggiamenti plastici, immortalati da Georges Tribout in una serie di disegni pubblicati in un libretto con commento di Charles Batilliot. Proprio questi consentono oggi di individuare i caratteri fondamentali dello stile coreutico della danzatrice:

accanto a momenti di severa e composta staticità si alternano una serie di atteggiamenti, in piedi o seduta, che insistono soprattutto sulla mobilità del busto con frequenti torsioni della testa all’indietro, sull’ampio movimento delle braccia, sulla costante contrapposizione degli arti in funzione di un’espressività che non dimentica mai l’eleganza compositiva. A giudicare da queste immagini appare evidente il debito della Rubinštejn nei confronti della Duncan47.

L’esibizione nei panni di Salomè le valse l’ingaggio nella compagnia di Djaghilev, che nello stesso 1909 raggiunse la ‘Ville Lumière’48. Nel 1910 la Rubinštejn interpretò quindi Zobeide, la protagonista di Shéhérazade, che i Ballets Russes trassero da Le mille e una notte, dando così vita a uno spettacolo intriso di Orientalismo. Accanto a lei Nižinskij nei panni dello schiavo d’oro e Bulgakov in quelli del Sultano49. Fokin ideò per il balletto una coreografia innovativa, basata principalmente su tre elementi: la centralità dell’interprete maschile, Nižinskij, atletico ed effeminato allo stesso tempo; la coreografia delle scene corali, l’orgia e il bagno di sangue, che sfruttava tutto il corpo di ballo, impegnato in movimenti geometrici, anziché fare soltanto da sfondo; infine il trattamento innovativo della componente mimica. In special modo, la parte di Ida Rubinštejn faceva uso di una gestualità espressiva non convenzionale e la sua figura allungata e androgina si poneva in diretto contrasto con quella di Nižinskij, che al contrario mancava di mascolinità, determinando così una sorta di inversione di ruoli: di qui il fascino della rappresentazione50. La performance valse alla Rubinštejn l’apprezzamento di D’Annunzio: un incontro che di lì a poco avrebbe segnato una svolta nella carriera della danzatrice. Colpito dal suo aspetto androgino, il Vate vide in lei l’interprete ideale del Martyre de Saint Sébastien (1911)51, dove Ida si esibiva en travesti. La rappresentazione segnò l’inizio di una proficua collaborazione tra la ballerina e lo scrittore italiano;

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un percorso che la portò in seguito anche al cinema. Infatti, nel 1920, la Rubinštejn è interprete del film La nave, per la regia di Gabriellino D’Annunzio, figlio del poeta, e di Mario Roncoroni52. Si tratta della trasposizione cinematografica dell’omonima tragedia in endecasillabi di D’Annunzio padre (1908). La lavorazione del film continuerà per tutto il 1920, fino alla sua distribuzione, nel 1921.Al cinematografo la mancanza della parola favorisce la danzatrice, esaltandone al massimo le celebri pose plastiche e sottraendola alle reiterate critiche per la sua dizione53. Nel film Ida Rubinštejn è Basiliola, l’eroina protagonista nel vi secolo54, non tanto del mito di fondazione della città di Venezia, che il dramma intende celebrare, quanto piuttosto della lotta tra la morente civiltà pagana della quale assurge a simbolo e la civiltà cristiana in crescente espansione, rappresentata dai Gràtici55. La nave si articola in quattro capitoli, ricalcando sostanzialmente la scansione del testo drammatico originale, suddiviso in un prologo e tre episodi. Anche in questo caso il tratto distintivo della femme fatale interpretata dalla Rubinštejn risiede nella danza sensuale. La figura di Basiliola domina la storia, non solo perché è la sua morte a determinare la soluzione dell’azione, ma anche perché proprio attraverso l’arte coreutica la donna manovra i fili della trama: “la danza può determinare il ductus della vicenda, perché danzando la donna afferma se stessa e il proprio volere”56, analogamente a Salomè. La figura dannunziana assurge così al ruolo di femme fatale che usa coscientemente il proprio corpo quale mezzo di seduzione per asservire l’uomo alla propria volontà. Inquadrata per lo più di tre quarti o di profilo per esaltarne le linee della silhouette, la sua mimica è affidata principalmente alla gestualità delle braccia, caratterizzata da ampi movimenti, traduzione visiva degli stati d’animo del personaggio in contrasto con la maschera imperturbabile del volto57.Nel film la Rubinštejn, alias Basiliola, si esibisce in due scene di danza, come indicato anche nel testo dannunziano, dove l’autore si riferisce alla prima come “danza di vittoria”58 e alla seconda come “danza dei sette candelabri”59. In realtà, spiega la stessa Basiliola60, si tratta della stessa ‘danza di vittoria’ la cui esecuzione era stata

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interrotta dalla folla esultante per l’elezione del nuovo tribuno (Marco Gràtico). Nota Sinisi in proposito:

ciò che colpisce è la contaminazione del suo stile con il linguaggio della danse d’école, evidente nell’uso delle mezze punte, nei port de bras, nei pliés. Tutto questo convive con un’impostazione generale più libera, di cui sono segno la flessibilità serpentina del torso, gli agili movimenti delle gambe posti al servizio di una danza che non gioca sull’elevazione, ma sul richiamo alla gravità, con frequenti passaggi e figure raso terra61.

La tensione alla danza accademica è evidentemente il risultato del proficuo apprendistato condotto dalla ballerina sotto lo sguardo vigile di Fokin e di Rosita Mauri, ballerina classica e insegnante della scuola dell’Opéra62. Ancora Sinisi sottolinea la “qualità coreutica” del movimento della Rubinštejn anche quando non danza: “le traiettorie dei suoi gesti, l’ampio fraseggio delle braccia, il senso musicale dei suoi movimenti derivano direttamente dalla danza, a cui si richiamano anche l’incedere regale e persino la plastica nobiltà delle sue pose”63. Tralasciando la prima scena di danza del film, più breve e meno significativa, vediamo dunque nel dettaglio di movimenti e inquadrature la seconda e completa esecuzione della ‘danza dei sette candelabri’.

II scena di danza (capitolo iii).(All’altezza di 37’27’’; salvo dove diversamente indicato, la scena presenta una lieve colorazione in rosso.)Didascalia, Basiliola: “Uomini, vi sovvenga d’una danza ch’io non danzai! Quella vi danzerò… Chi di voi mi vide piombar giù schiantata dalle mie risa ch’erano singulti?”.Inq. 1: dissolvenza in apertura, Basiliola stesa al suolo. Dissolvenza al nero.Inq. 2, mezza figura: Basiliola.Did., Basiliola: “E dissi: ‘Anima mia, anima mia calpesterai la Forza!’ Ed anch’io fui figlia della Promessa”.Inq. 3, mezza figura: Basiliola.Inq. 4: breve panoramica verso sinistra sui commensali che partecipano al banchetto-orgia.

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Did.: “– Gloria a te, aquila di Aquileia! | Vinci, vinci, Furia dei Mari!”.Inq. 5: breve panoramica verso sinistra sui commensali che partecipano al banchetto-orgia.Inq. 6, dettaglio: lo strascico dell’abito di Basiliola (simile al mantello disegnato da Aubrey Beardsley per The Peacock Skirt). La panoramica prosegue da lì verso sinistra, quindi verso l’alto seguendo la silhouette di Basiliola, fino ad arrivare alla mezza figura, con il braccio destro alzato a brandire la spada, fuori campo.Did.: “Riprender voglio l’interrotta danza!”.Inq. 7, quasi a figura intera: Basiliola dalla posa statuaria iniziale abbassa le braccia fino alla seconda posizione, mentre sposta il peso sulla gamba destra, dove sporge l’anca lateralmente, quindi si volge verso la sua sinistra.Inq. 8, campo medio: la folla dei commensali.Did: “– Trionfa con la tua danza come trionfasti coi tuoi incanti! | Danza, o imperatrice!”.Inq. 9, campo medio: la folla dei commensali.Inq. 10, piano americano: Basiliola si toglie il mantello per iniziare la danza, la mdp la segue con una breve panoramica verso destra. Basiliola si ferma, si toglie il copricapo. Esce a destra.Inq. 11, piano ravvicinato: quattro schiavi stendono altrettante clamidi a terra, affinché Basiliola vi danzi sopra.Inq. 12, mezza figura: uno dei cristiani chiude la porta per non vedere.Inq. 13: primo piano di Basiliola, le braccia che serrano la testa in una sorta di quadrilatero irregolare.Did.: “Questa è la notte dell’attesa!… vi dico: ‘Prima che l’aurora balzi ai portici del mare e irraggi il mondo…”.Inq. 14, mezza figura: Basiliola che scioglie la presa delle braccia sulla testa.Did.: “…l’aquila di Aquileia avrà la sua aurora, avrà la sua più rossa aurora”.Inq. 15, campo lungo: uomini a cavallo si allontanano dall’avampiano verso il fondo.

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Inq. 16, piano americano: Basiliola e alcune ancelle, vestizione per la danza. Abito: gonna di tulle; fusciacca annodata sui fianchi; lungo sautoir di perle; reggiseno decorato (ventre scoperto); vari bracciali, grandi orecchini pendenti; capelli sciolti, una coroncina sulla fronte. Danza scalza.Inq. 17, campo medio: i musicisti prendono posto.Inq. 18, figura intera: le sette danzatrici si dispongono ciascuna accanto a uno dei candelabri. Inq. 19, campo medio: la folla.Inq. 20, figura intera: le sette danzatrici prendono (di nuovo) posto ciascuna accanto ad uno dei candelabri. Tenendosi per mano descrivono una serpentina che passa tra un candelabro e l’altro, prendendo ciascuna il proprio posto.Inq. 21, piano ravvicinato dei musicisti che suonano.Inq. 22, primo piano del Vescovo Sergio.(All’altezza di 39’29’’ ha inizio la coreografia vera e propria.)Inq. 23, campo medio: anche Basiliola si è disposta davanti ad un candelabro. Dietro di lei le sette danzatrici presso i candelabri. Basiliola incrocia alternativamente il piede sinistro davanti al destro, quindi lo riporta a sinistra. Le braccia sono stese alla sua sinistra, il destro più in basso del sinistro, similmente alla posizione di ‘arabesca con entrambe le braccia in avanti’. Infine porta il piede sinistro dietro la gamba destra, le braccia in quarta sinistra e sale in rélevé.Inq. 24: alcuni del popolo si arrampicano fuori dalle mura della basilica, per cercare di vedere la danza dalle finestre.Inq. 25: i volti in primo piano del popolo che incita i compagni.Inq. 26: primo piano di Sergio Gràtico.Inq. 27, figura intera: Basiliola viene verso la mdp in pas de bourrée couru.Inq. 28, mezza figura: Basiliola si scopre il volto davanti al quale ha incrociato le braccia.Inq. 29, figura intera: Basiliola compie due giri su se stessa su entrambi i piedi in pas de bourrée marché sur place (en dehors), le braccia in quinta posizione (metodo Cecchetti). Basiliola inizia a piegare le gambe in plié. Raccordo sul movimento.

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Inq. 30, mezza figura: Basiliola si abbassa in un profondo plié, le braccia in seconda posizione.Inq. 31: piano ravvicinato di Basiliola che è ormai al suolo, le braccia stese davanti a sé in una sorta di port de bras verso le gambe.Inq. 32, campo medio: la folla di convitati nella basilica.Inq. 33: mezza figura di Basiliola di profilo, le braccia stese davanti a sé, lo sguardo laterale verso l’obiettivo, ondeggia i polsi.Inq. 34, figura intera: Basiliola, i piedi in quinta in rélévé, le braccia incrociate e piegate sopra la testa, arretra verso il fondo eseguendo un pas de bourrée couru, quindi si piega in un plié. Ripete il modulo più volte. Infine si ferma in una breve posa, con le gambe in croisé derrière a destra. Quindi esegue alcuni salti: stende la gamba sinistra in quarta avanti, mentre la destra si piega in plié e porta il busto verso la gamba stesa davanti. Da questa posizione iniziale con un primo salto inverte la posizione delle gambe, poi esegue una serie di pas de chat alternativamente a destra e a sinistra.Inq. 35: musicisti in primo piano.Inq. 36, figura intera: Basiliola esegue una serie di salti alternando l’incrocio delle gambe e delle braccia (in allongé, uno in quinta, l’altro alla seconda). Infine ‘si congela’ in una posa con le braccia in allongé (il sinistro alla seconda, il destro in quinta), le gambe in croisé derrière a sinistra, col peso spostato sul ginocchio sinistro, che è dunque piegato; la schiena in un marcato cambré. Quindi esegue tre grand battement in attitude alternando le gambe e procedendo verso la sinistra del quadro. Cambia direzione: esegue una serie di passi (arabesque in rélevé e temps levé) verso il lato destro del quadro, quindi fa due passi indietro, poi di nuovo due in avanti. Infine scende al suolo in una posa orientaleggiante: il braccio sinistro piegato sopra la testa; il destro steso verso la sua sinistra; le gambe piegate lateralmente al suolo. Ondeggia il polso sinistro. Quindi cambia posa: scaricando tutto il peso sul ginocchio destro, stende lateralmente la gamba sinistra, mentre porta le braccia in quinta per poi riaprirle in allongé e portarle alla seconda posizione. Si sdraia a terra.Inq. 37: primo piano di Marco Gràtico.Inq. 38: primo piano di due convitati che amoreggiano.

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Inq. 39: mascherino rotondo, mezza figura di Basiliola che si sta sdraiando a terra con un ampio movimento delle braccia. Inq. 40: mezza figura dei musicisti che suonano.Inq. 41, figura intera: Basiliola si rialza in rélevé, quindi avanza a salti in passé; arretra in pas de bourrée couru; esegue un paio di port de bras; prosegue la marcia all’indietro a passi saltati in passé; con gli stessi salti in passé viene avanti; si ferma in una posa; esce a sinistra del quadro eseguendo dei grand battement.Inq. 42, campo medio: la folla nella basilica.Inq. 43: primi piani di alcuni del popolo che incitano i compagni. Colore azzurro.Did.: “– Vince Diona!”Inq. 44, mezza figura del coro che canta.Inq. 45: campo medio della folla nella basilica.Did.: “Cristo vince! Il Re nostro vince! Vince la Fede!”. La didascalia preannuncia l’ingresso di Teodoro nella basilica, che mette fine alla festa e dunque alla danza.(All’altezza di 41’58’’ fine della danza) (Figg. 5-6).

Nel testo d’origine, allorché Basiliola entra in scena, viene presentata dal ‘piloto’ come “sirena”64, ovvero una creatura femminile capace, con le proprie abilità seduttive, di portare alla perdizione l’uomo. Per di più a tale appellativo si accompagna la specifica della capigliatura fulva, nelle parole de ‘i compagni navali’: “– Porta un diadema. | No: una benda che rosseggia, d’oro | porporino. | – È la sua capellatura | di fiamma”65. Una caratteristica che aveva accompagnato l’iconografia femminile cara alla pittura preraffaellita – si pensi, per esempio, alla Beata Beatrix66 dipinta da Dante Gabriel Rossetti – e che corrispondeva sostanzialmente al mito della femme fatale. Patrizia Veroli sottolinea invece la consonanza tra la spada brandita da Basiliola e il tirso delle baccanti67, mentre Maurice Emmanuel riconosceva nella torcia l’oggetto simbolo delle orge dionisiache. Lo stesso autore classificò inoltre come ‘cambrure’ (backward bending) quel riversare il capo all’indietro, ricorrente nella danza di Basiliola68: un gesto nel quale s’identifica una delle manifestazioni corporee che agli inizi del Novecento erano ritenute sintomo evidente di isteria,

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malattia considerata tipicamente femminile, a partire dal nome, che allude in modo evidente all’utero (dal greco hysteros)69.Riguardo alla danza nello specifico, il testo dannunziano70 non fornisce indicazioni di movimento neanche nelle didascalie per quanto riguarda la prima occorrenza coreutica71, mentre riserva più indicazioni per la seconda, l’esecuzione completa della danza ‘dei sette candelabri’. Dal dramma d’origine apprendiamo infatti che sono i convitati dell’Agape ad invitarla a danzare scalza: “– Slaccia i tuoi calzari! | – Danza co’ piedi ignudi!”72. Milva Maria Cappellini individua a tal proposito la matrice di una simile immagine negli Atti degli Apostoli, che si ritrova negli Altri taccuini dannunziani73, ma credo che non sia una forzatura leggere in questo gesto l’eco dell’immaginario orientalista per cui l’odalisca, la danzatrice-seduttrice orientale, da Salomè a Ruth Saint Denis, balla a piedi nudi.Stando al testo originale, per la seconda ‘sessione’ di danza, Basiliola si appresta a danzare sulla clamide purpurea del tribuno Marco, di nuovo con la spada74: (Basiliola) “Danzerò | non sopra i vostri sai, uomini, ma | sopra la bella clàmide che m’ebbi | dal Principe del mare [il tribuno Marco Gràtico]. Danzerò | su la porpora, o uomini, ma non | su quella che fu stesa innanzi al seggio | di pietra ove accosciati ai quattro canti | stavano i miei fratelli”75. In realtà nel film Basiliola sfodera la spada prima di iniziare a ballare, mentre un’altra clamide decorata non sta a delimitare lo spazio scenico, bensì è indossata dalla danzatrice, che se la toglie prima della vestizione rituale che precede la coreografia. Tale mantello ricorda vagamente quello ideato da Aubrey Beardsley per The Peacock Skirt, una delle illustrazioni che nel 1894 decoravano l’edizione inglese della Salomè di Oscar Wilde, nonché quello successivamente indossato da Alla Nazimova nel finale dell’adattamento cinematografico di Charles Bryant, con i costumi di Natacha Rambova ispirati alle stesse illustrazioni di Beardsley76. D’altro canto, proprio come nel testo d’origine77, vediamo ‘i convivi dell’Agape’ disporre a terra il proprio saio perché Basiliola vi danzi sopra.Nel film la ‘danza dei sette candelabri’ si svolge all’interno della Basilica e nel testo la descrizione della coreografia è affidata alle didascalie: “le sette danzatrici altocinte si avanzano successivamente fino all’ara,

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versano l’aroma, depongono il vòto avorio: e movendosi in numero si ritraggono. Intorno agli alti candelabri, come intorno ai tronchi le driadi dei Gentili, avvolgono la mollezza del bisso e delle membra, ora implicando le mani, ora inseguendosi disciolte”78. Più avanti vi sono precise indicazioni anche per la danza di Basiliola:

intorno all’ara dei Nàumachi ella celebra la sua danza votiva, selvaggiamente. Sommosso dall’aura della violenza il fumo degli aròmati s’incurva, si sparpaglia, si prolunga, lambe le braccia della Furia marina, scivola sul nitore della spada, svola tra le serpi della cesarie. Nei moti delle reni e delle anche scricchiolano le scaglie del cinto; per la fenditura laterale apparisce e sparisce tra la mobilità delle pieghe la coscia nervosa; e gli anelli dei malleoli tintinnano; e quando il torso si piega in dietro, le mammelle s’ergono sforzando i pettorali di gemme che le comprimono in forma di coppe riverse. Allora gli uomini prorompono in grida, s’inarcano come per balzare e ghermire. Sotto i gàleri di lupo, sotto i coppi di cuoio indurito, sotto i pìlei ricurvi le facce abbronzate dalla salsedine e dall’ardore si contraggono nella bramosia e lampeggiano79.

Qui l’autore sfida le leggi della fisica spingendosi fino a prescrivere persino le reazioni del corpo e del costume ai singoli movimenti. Come si evince da un confronto con l’analisi sopra proposta, le indicazioni non corrispondono alla lettera nella resa filmica, tuttavia permane la serpentina delle sette danzatrici che si dispongono tra un candelabro e l’altro tenendosi per mano e il cambré della schiena (il torso che “si piega in dietro”, nelle parole del poeta).Singolarmente la vestizione rituale per la danza che nel dramma precedeva la prima danza, qui anticipa invece la seconda: (Basiliola) “A me, schiave, l’arcella. | Còrdula, Sima, datemi il mio pettine | d’oro e la zona tutta di bisanti [scil. cintura decorata], | che trèmola e tintinna! E il velo, il velo | serpentino! E gli aròmati!”80.A proposito del costume, alla luce di quest’ultima descrizione e delle precedenti, si noti che a ben guardare la descrizione non corrisponde a nessuna delle mises indossate dall’interprete per la trasposizione

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filmica, mentre aderisce piuttosto rigorosamente al modello ideato da Bakst per il costume della stessa Rubinštejn nei panni di Salomè (1908): tornano qui le coppe rigide che cingono il seno, sopra citate; la cintura decorata, il ‘velo serpentino’; le fenditure dell’abito dalle quali traspare la carne. In un’altra didascalia che precede la ‘danza dei sette candelabri’ si trova traccia dello “scintillìo delle gemme che sul suo petto imitano le scaglie della murena, i due grappoli di perle che dalle tempie le pèndono fino agli angoli della bocca, lo splendore dei suoi denti accresciuto dal minio delle labbra, il battito dei suoi cigli allungati dall’antimonio”81. Elementi che trovano riscontro di nuovo non tanto nei costumi del film, quanto in quello di Salomè e, in chiave rivisitata, in quello indossato per Shéhérazade (Bakst, 1910), dove pure vi è un filo di perle che scende lungo le guance; le fenditure dei pantaloni a rivelare la “coscia nervosa”, calzari gemmati in luogo degli “anelli dei malleoli [che] tintinnano”. La tragedia scritta da D’Annunzio contiene in effetti numerose indicazioni ricche di particolari prescrittivi su costumi, ornamenti, oggetti di scena, distribuite tra didascalie esplicite e implicite, di cui alcuni elementi vengono recuperati nel film, talvolta in momenti diversi rispetto alla collocazione originale (come la “lista purpurea intorno alla fronte imperiale”82 che nello scritto originale compare nel primo episodio, mentre nel film nel terzo capitolo, che corrisponde al secondo episodio, in colore chiaro).Nonostante la sostanziale aderenza del film a tali ‘istruzioni’ implicite nel testo originale, l’allestimento di Gabriellino D’Annunzio e Mario Roncoroni si arricchisce di accenti avanguardistici nelle inquadrature finali della nave sulla quale il tribuno Marco salperà per strappare agli Egizi il corpo di San Marco, protettore di Venezia83: la prua appare decorata da enormi occhi dipinti. È la risposta iconografica a quell’esaltazione della macchina propugnata dai futuristi, “l’imminente e inevitabile identificazione dell’uomo col motore”84, qui adattata al contesto storicizzato del dramma dannunziano.Quanto alla musica di scena, in questo caso gli endecasillabi dei dialoghi contengono didascalie implicite che oltre ad indicare quali strumenti utilizzare, ne definiscono anche la disposizione e, di nuovo

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alle didascalie, è affidata una nota importante circa il rapporto tra musica e danza: “i musici obbediscono al comandamento. È cessato nella Basilica il canto di Maria; e il nome di Diona solo risuona sotto le stelle. Accelerato dagli strumenti, di sùbito si muta il ritmo della cantilena e via via si accorcia il tempo esprimente la volontà guerriera a simiglianza del ballo pirrico [scil. una danza di guerra]”85: dunque la danza si svolgerà a un ritmo sostenuto, e apprendiamo che si tratta di una danza di guerra a tutti gli effetti.La nave ci consente di ricostruire attraverso l’immagine in movimento una sia pur indefinita idea della coreutica di Ida Rubinštejn, nella quale si riconoscono innanzitutto l’influenza di Delsarte e della Duncan:

altera e regale nel portamento, ella affida all’ampio movimento della braccia il compito più importante del suo gioco mimico e interpretativo. Sollevate in alto ad incorniciare la testa, tratte all’indietro quasi a frenare il movimento impetuoso del corpo, proiettate in avanti a supplicare e a ghermire oppure raccolte sul petto come a proteggersi, le braccia della Rubinštejn suggeriscono ogni sfumatura degli stati d’animo del personaggio ancor più del volto, ambiguo e impenetrabile. Un linguaggio espressivo, che sembra richiamarsi alle note teorie delsartiane, secondo cui sono le braccia e il torso, legati alla zona mediana del cuore e alla sfera dei sentimenti, a rivelare gli stati d’animo e i moti interiori86.

Quell’ondeggiare le braccia a partire dai polsi durante la ‘danza dei sette candelabri’ ricorda in effetti il ‘movimento successivo’ di Delsarte, mentre le pose ieratiche come in un bassorilievo greco-antico rievocano la coreutica della Duncan. S’instaura così all’interno della stessa danza una dialettica significativa tra modernismo e tecnica classica. Per la Rubinštejn, che mancava di una regolare formazione accademica, disseminare la sua prestazione originale di passi di danza classica doveva costituire una sorta di patente di autorevolezza coreutica; era il suo personale tributo pagato alla danse d’école per ottenere un riconoscimento del proprio status di danzatrice. Il segno dell’affermazione di una nuova danza che proprio in quanto nata al di fuori della grammatica classica e benché ad essa contrapposta, sentiva

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il bisogno di tornarvi, ora in antitesi, ora in ossequio a quella tecnica.Il cinema è dunque testimone di questa necessità di confronto tra danza ‘vecchia’ e ‘nuova’, in un film che costituisce una sineddoche della danza nel muto italiano, dando conto delle sue molteplici forme e che in un certo senso conclude la stagione del muto nazionale, segnandone apogeo e crisi al tempo stesso.

Dal balletto moderno, cui i Ballets Russes di Djaghilev aprirono la strada, alle pose bidimensionali della Leonidoff, fino al sincretismo coreutico proposto dalla Rubinštejn, tesa tra balletto e ‘danza nuova’ in senso delsartiano, l’avanguardia coreica d’inizio Novecento nasce in Russia, sede della celebre e antica scuola del Bolshoi; passa per la ribalta dei palcoscenici parigini; infine si diffonde nel resto d’Europa e, dunque, anche in Italia, dov’è il cinema a offrirle una seconda vita e una maggiore visibilità. Lungo il suo tragitto incontra correnti artistiche diverse facendole proprie, come il Simbolismo cui la Leonidoff attinge per i suoi mimodrammi o il Futurismo, evidente nell’“identificazione dell’uomo col motore”87 (la nave dagli occhi dipinti), svelata dal film di Gabriellino D’Annunzio e Mario Roncoroni. E così la stagione del muto italiano si fa testimone delle istanze coreutiche di primo Novecento, attraverso casi emblematici come quelli sopra esposti, che tuttavia lungi dal costituire l’eccezione, s’inseriscono piuttosto in un contesto diffuso di relazione sinergica tra danza e cinema italiano.

1 Ballets Russes (Parigi, 1909-1929), compagnia fondata da Sergej Djaghilev con i migliori artisti del Teatro Mariinskij. Cfr. A. Pontremoli, Storia della danza dal Medioevo ai giorni nostri, Firenze, Le Lettere, 2011, cap. viii, p. 146.

2 In seguito anche Bronislava Nijinska (1921) e Georges Balanchine (1925), ma della rivoluzione coreografica che riguarda il periodo di cui qui ci occupiamo sono responsabili i primi.

3 Vedi E. Morini, Storia della moda. xviii-xx secolo, Milano, Skira, 2000, p. 141.

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4 Ivi., p. 149.

5 Vedi A. Walker, Rodolfo Valentino, Milano, Bompiani, 1977 (1ª ed. 1976), p. 54. Cfr. anche G. Studlar, This Mad Masquerade: Stardom and Masculinity in the Jazz Age, New York, Columbia University Press, 1996, p. 192.

6 Vedi A. Pontremoli, Storia della danza dal Medioevo ai giorni nostri, cit., pp. 147-152. Cfr. anche S. Trombetta, Vaslav Nižinskij, Palermo, L’Epos, 2008, in particolare pp. 123-141, 163-181.

7 Sebbene Poiret negò sempre di essere stato influenzato dai Ballets Russes, risulta difficile credere che non fosse a conoscenza del balletto Shéhérazade. Inoltre Georges Lepape (autore dell’album promozionale Les Choses de Paul Poiret vues par Georges Lepape, pubblicato il 15 febbraio 1911), mentre lavorava per Poiret, realizzò un dipinto che ritraeva Nižinskij in Shéhérazade. Cfr. P. Wollen, Fashion/Orientalism/The Body, “New Formations”, n. 1, Spring 1987, p. 12.

8 Cfr. E. Morini, Storia della moda, cit., pp. 146, 150.

9 Cfr. ivi, pp. 130, 135.

10 Cfr. L. Piccolo, Ileana Leonidoff. Lo schermo e la danza, Roma, Aracne editrice, 2009, p. 17.

11 Cfr. ivi, p. 21.

12 Ibidem.

13 Vedi A.G. Bragaglia, Le canzoni dei Cosacchi e Thaïs Galizky, “Cronache d’attualità”, 30 luglio 1916, p. 4, citato in L. Piccolo, Ileana Leonidoff, cit., p. 22.

14 Thaïs – Les Possédées. Il film fu ritrovato nel 1938 da Henri Langlois, con il titolo Les Possédées. Si tratta della copia destinata al mercato francese del film Thaïs di Anton Giulio Bragaglia, prodotto nel 1916 dalla società Novissima Film (di Emidio De Medio; visto di censura n. 12429 del 30 gennaio 1917), come recitano anche i titoli di testa nel dvd visionato presso Mediateca Regionale Toscana (Firenze). La copia sopravvissuta è costituita da tre bobine 35 mm (copia in nitrato, colorata) per un totale di m 741. Durata della copia dvd visionata: 26’24’’. La sola copia del film a tutt’oggi rinvenuta è conservata presso la Cinémathèque Française. Il fatto che il film avesse soltanto il titolo Les Possédées ha a lungo alimentato l’incertezza sulla sua identità, cioè se si trattasse del film Perfido incanto o di Thaïs. Interpreti: Thaïs Galitzky (Contessa Véra

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Préobrajenska / Thaïs); Ileana Leonidoff (Bianca Belincioni Stagno); Alberto Casanova (un corteggiatore); Augusto Bandini (Oscar). Notizie relative al film si trovano in J.A. Gili, Thaïs, “Immagine. Note di storia del cinema”, n. s., n. 2, primavera 1986, pp. 1-7; D. Durati, A. Finamore (a cura di), Thais: la sceneggiatura desunta, “La cosa vista”, n. 4, 1986, pp. 3-9; L. Piccolo, “Si gira”: russkie zvezdy na rimskoj s’’emečnoj ploščadke, “Toronto Slavic Quarterly”, n. 21, 2007; G. Lista, Il cinema futurista, Recco (GE), Le Mani, 2010, pp. 41-43.

15 Cfr. la voce Ileana Leonidov di R. Chiti in Filmlexicon degli autori e delle opere, t. iv, col. 983, Roma, Edizioni di Bianco e Nero, 1961, citato in L. Piccolo, Ileana Leonidof, cit., p. 23.

16 L. Piccolo, Ileana Leonidoff, cit., p. 29.

17 Gran Ballo Excelsior: balletto in sei parti e undici scene su libretto e coreografia di Luigi Manzotti. Musiche di Romualdo Marenco, scenografia di Alfredo Edel. Prima Rappresentazione: Milano, Teatro alla Scala, 11 gennaio 1881. Cfr. H. Koegler, Dizionario Gremese della danza e del balletto, Roma, Gremese, 2011, p. 186 (ed. it. di The Concise Oxford Dictionary of Ballet, a cura di A. Testa). Riguardo alla trasposizione filmica del balletto (Excelsior, regia di Luca Comerio, 1913), cfr. F. Pappacena (a cura di), Excelsior. Documenti e saggi, Roma, Di Giacomo, Scuola Nazionale di Cinema – Cineteca Nazionale, 1998; Recupero, ricostruzione, conservazione del patrimonio coreutico italiano del xix secolo, atti del convegno, Consiglio Nazionale delle Ricerche, 10 dicembre 1999, Roma, fascicolo della rivista “Choréographie”, Roma, Associazione culturale Choréographie, 2000, pp. 125-164 e 238-242; E. Mosconi, L’impressione del film. Contributi per una storia culturale del cinema italiano 1895-1945, Milano, Vita e Pensiero, 2008, pp. 55-73 (1a ed.: 2006).

18 [Anonimo], Teatro del Corso. Pastelli coreografici, “Il Resto del Carlino”, 2 dicembre 1916, p. 3, citato in L. Piccolo, Ileana Leonidoff, cit., p. 31.

19 Cfr. L. Piccolo, Ileana Leonidoff, cit., pp. 32-33.

20 I. Leonidoff, Il mimodramma, “Il Mondo”, Milano, n. 15, 1918, p. 10, ora in L. Piccolo, Ileana Leonidoff, cit., pp. 35-37.

21 In effetti, a suffragare la possibilità della collaborazione di Bragaglia alla stesura del Manifesto, si potrebbe addurre l’interesse di questi per la pantomima, espresso a chiare lettere nei testi Il film sonoro ed Evoluzione del mimo e poi messo in pratica in alcuni lavori teatrali. Vedi A.G. Bragaglia, Il film sonoro, Milano, Corbaccio, 1929; Id., Evoluzione del mimo, Milano, Ceschina, 1930. Cfr. E. Mosconi, The Art of ‘Speaking

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Silently’, “Cinema & Cie”, n. 2, Spring 2003, p. 39.

22 Vedi infra, p. 6.

23 L. Piccolo, Ileana Leonidoff, cit., p. 35.

24 I. Leonidoff, Il mimodramma, cit., pp. 35-36.

25 Ivi, p. 36

26 Ivi, p. 37.

27 Cfr. ivi, pp. 36-37.

28 Vedi L. Piccolo, Ileana Leonidoff, cit., pp. 99.

29 Vedi ivi, p. 101. A p. 111, Laura Piccolo ci informa dell’impossibilità di ricostruire il numero di componenti della compagnia; comunque la compagnia era mista.

30 Per l’esattezza: “Il pubblico vola nuovamente in Oriente con il terzo ballo, intitolato Canzoni arabe, su musiche ‘orientali’ di Borodin e Rimskij-Korsakov”. L. Piccolo, Ileana Leonidoff, cit., p. 113.

31 Ivi, p. 114.

32 Ivi, p. 55.

33 Come sottolinea la stessa Laura Piccolo, cfr. ivi, p. 27.

34 E. Prampolini, Scenografia futurista, “La balza futurista”, n. 3, 12 maggio 1915, pp. 17-21.

35 Vedi G. Lista, La danza come performance individuale da Loie Fuller alle avanguardie, in G. Belli, E. Guzzo Vaccarino (a cura di), La Danza delle Avanguardie, Milano, Skira, 2005, pp. 62-63.

36 Questa la trascrizione del nome dalle didascalie francesi dell’unica copia a tutt’oggi rinvenuta del film.37 “Danseuse et écuyère accomplie, la belle et séduisante Bianca Belincioni Stagno”, come legge la copia consultata (vedi sopra). Cfr. anche J.A. Gili, Thaïs, cit., pp. 1-7, dove

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però la grafia del nome acquista una ‘l’ in più: “Bianca Bellincioni Stagno”, ricalcando così perfettamente il nome di una nota attrice coeva.

38 La scena va dal minuto 01,22 al minuto 01,36 del dvd sopra menzionato.

39 L. Piccolo, Ileana Leonidoff, cit., p. 114.

40 I. Leonidoff, Il mimodramma, cit., p. 36.

41 Ibidem.

42 Cfr. H. Koegler, Dizionario Gremese della danza e del balletto, cit., p. 359.

43 Vedi G.P. Brunetta, Il cinema muto italiano, Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 273-291.

44 Vedi S. Sinisi, L’interprete totale. Ida Rubinštejn tra teatro e danza, Torino, Utet, 2011, pp. 12-21.

45 Cfr. ivi, pp. 27-31; 56-59; 78-80.

46 Musiche di Déodat e Séverac; scene e costumi di Léon Bakst; regia di Alexandr Sanin.

47 S. Sinisi, L’interprete totale, cit., p. 56. Nel 1905, Isadora Duncan aveva compiuto la sua prima tournée in Russia: è qui che Ida Rubinštejn deve aver assistito ai suoi spettacoli. Cfr. ivi, p. 13.

48 A Parigi, al Théâtre du Châtelet, i Ballets Russes si esibirono in Cléopâtre il 2 giugno 1909. I ruoli principali furono affidati a Michail Fokin e Anna Pavlova, mentre alla Rubinštejn, priva di una solida base tecnica classica, venne riservato il ruolo della protagonista, adattato alle sue possibilità. La sua parte non prevedeva infatti veri e propri passi di danza, limitandosi a valorizzare le linee allungate del suo corpo magro e flessuoso, di una bellezza androgina. Cfr. ivi, pp. 22-26.

49 Cfr. ivi, pp. 31-35.

50 Vedi. P. Wollen, Fashion/Orientalism/The Body, cit., pp. 14-15, 19-20.

51 Testo di G. D’Annunzio; scene e costumi di Léon Bakst; coreografie di Michail Fokin; musica di Claude Debussy; regia di Armand Bour. Cfr. S. Sinisi, L’interprete totale, cit., pp. 36-49.

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52 La Nave, copia consultata: Cineteca del Comune di Bologna-Cineteca Italiana-Filmoteca Española; regia di Gabriellino D’Annunzio e Mario Roncoroni. Soggetto: dall’omonima tragedia di Gabriele D’Annunzio (1908); sceneggiatura di Gabriellino D’Annunzio. Lunghezza originale: m 1742; lunghezza copia: m 1700. Copia a colori. Durata: 1h 01’ 20”. Il film è diviso in quattro capitoli: i. Il popolo senza patria; ii. La vindice; iii. Il giudicio di Dio; iv. La nuova Patria. Quanto al restauro: “l’edizione presentata è stata stabilita sulla base di un negativo originale B, in avanzato stato di decomposizione, contenente parti duplicate in epoca muta dal negativo A e riprese scartate dal primo negativo; e sulla base di una copia positiva colorata d’epoca su supporto nitrato, stampata dal negativo A, incompleta e parzialmente decomposta, conservata dalla Filmoteca Española. Le didascalie – assenti dal negativo e in spagnolo nella copia madrilena – sono state ricostruite sulla base del testo spagnolo e del testo della tragedia di D’Annunzio”. Dal programma della xxvi edizione della Mostra Internazionale del Cinema Libero, Il Cinema Ritrovato 1997, xi edizione, 28 giugno - 5 luglio 1997, a cura della Cineteca del Comune di Bologna e Nederlands Filmmuseum.

53 Vedi S. Sinisi, L’interprete totale, cit., pp. 81-84.

54 Altrove è indicato il v sec. per l’ambientazione della trama: cfr. G. D’Annunzio, La nave, a cura di M.M. Cappellini, Genova, De Ferrari, 2013, p. 10.

55 Vedi V. Martinelli, Il cinema muto italiano. I film degli anni Venti. 1921-22, “Bianco & Nero”, a. xlii, n. 1/3, gennaio/giugno 1981, pp. 215-218. Cfr. anche P. Veroli, Baccanti e dive dell’aria. Donne, danza e società in Italia 1900-1945, Città di Castello, Edimond, 2001, pp. 74, 76.

56 P. Veroli, Baccanti e dive dell’aria, cit., p. 71.

57 S. Sinisi (L’interprete totale, cit., p. 82) sottolinea come le braccia della danzatrice, seguendo lente traiettorie, si congelino per brevi istanti in ‘pose’.

58 G. D’Annunzio, La nave, cit., p. 109.

59 Così è definita sin dal testo originale, cfr. G. D’Annunzio, La nave, cit., pp. 242, 249. Cfr. anche Gino, La nave, “La Tribuna Illustrata”, a. xxix, n. 29, 17-24 luglio 1921, p. 3.

60 Basiliola: “Uomini, vi sovvenga di una danza | ch’io non danzai! Quella vi danzerò, | finché non s’oda stridere la folgore | al piè d’oro, dall’ali senza penne”. G. D’Annunzio, La nave, cit., p. 246.

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61 S. Sinisi, L’interprete totale, cit., pp. 82-83.

62 Cfr. ivi, pp. 13, 79.

63 Ivi, p. 83.

64 Il piloto: “Una sirena è sul mare”, G. D’Annunzio, La nave, cit., p. 86. Lo stesso appellativo ricorre anche più avanti nel testo.

65 Ivi, p. 87.

66 D.G. Rossetti, Beata Beatrix (c.1864-70), Oil on canvas, support: mm 864 × 660, frame: mm 1212 × 1015 × 104 mm, London, Tate collection, N01279.

67 P. Veroli, Baccanti e dive dell’aria, cit., p. 80.

68 Ibidem. Cfr. anche M. Emmanuel, The Antique Greek Dance after sculptured and painted figures, New York, John Lane Company, 1916, pp. 254-258 (1a ed. La Danse Grecque antique d’après les monuments figurés, Paris, Hachette, 1896).

69 P. Veroli, Baccanti e dive dell’aria, cit., pp. 81-82.

70 Vedi G. D’Annunzio, La nave, cit., in particolare pp. 109-113, 246-255.

71 Ivi, pp. 112-113. Riguardo al disinteresse di Gabriele D’Annunzio per le coreografie dell’allestimento scenico, vedi V. Valentini, La tragedia moderna e mediterranea, Milano, Franco Angeli, 1992, pp. 278-295, citato in P. Veroli, Baccanti e dive dell’aria, nota n. 54, p. 73. La prima rappresentazione teatrale della tragedia dannunziana avvenne al Teatro Argentina di Roma, l’11 gennaio 1908, con la Compagnia Stabile di Roma, le scenografie di Duilio Cambellotti e le coreografie di Ignazio Organtini. Vedi. V. Valentini, Il poema visibile, Roma, Bulzoni, 1993, pp. 471-473, citato in P. Veroli, Baccanti e dive dell’aria, nota n. 54, p. 73. Cfr. anche il Dizionario Biografico dell’Enciclopedia Treccani, edizione online, alla pagina web: <http://www.treccani.it/enciclopedia/duilio-cambellotti_(Dizionario-Biografico)/>. Il dramma fu in seguito allestito anche al Teatro alla Scala nel settembre 1918; cfr. P. Veroli, Baccanti e dive dell’aria, nota n. 54, p. 74.

72 G. D’Annunzio, La nave, cit., p. 247.73 Nelle note al testo di D’Annunzio per l’edizione curata da Milva Maria Cappellini, quest’ultima scrive infatti: “Atti, 13:25: ‘[…] dietro a me viene uno, di cui io non son

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degno di sciogliere i calzari de’ piedi’; non manca un’eco del topos dannunziano della Vittoria che si slaccia i calzari, per cui cfr. Altri taccuini, p. 12”. G. D’Annunzio, La nave, a cura di M.M. Cappellini, Genova, De Ferrari, 2013, nota n. 98, p. 298.

74 G. D’Annunzio, La nave, cit., p. 246. Anche la prima danza avveniva su un drappo purpureo e prevedeva l’uso di una spada. Cfr. ivi, p. 112.

75 G. D’Annunzio, La nave, cit., p. 248.

76 Salome (1923) di Charles Bryant.

77 “I convivi dell’Agape: – Ecco, stendiamo | i nostri sai azzurri sotto i tuoi | piedi”. G. D’Annunzio, La nave, cit., p. 248.

78 Ivi., p. 250.

79 Ivi, p. 252.

80 Ivi, p. 112.

81 Ivi, p. 244.

82 Ivi, p. 166.

83 Vedi E.R.R. [Eva Rognoni Randi], La nave, “Bianco e Nero”, Roma, n. 7-8, luglio-agosto 1952, pp. 111-112.

84 F.T. Marinetti, L’uomo moltiplicato e il regno della macchina (1910); citiamo dalla ripr. facs. di L. Scrivo (a cura di), Sintesi del futurismo: storia e documenti, Roma, Bulzoni, 1968, p. 21.

85 G. D’Annunzio, La nave, cit., p. 250.

86 S. Sinisi, L’interprete totale, cit., pp. 81-82.

87 Vedi qui nota n. 84.

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Illustrazioni

Fig. 1. Vaslav Nižinskij protagonista de L’Après-midi d’un faune, bal-letto che coreografò per i Ballets Russes di Djaghilev, nel 1912.

Fig. 2. (Shadowland, 1923) Rodolfo Valentino fotografato con un costume molto simile a quello ideato da Leon Bakst per Nižinskij, in occasione de L’Après-midi d’un faune (Ballets Russes, 1912). Ph. Helen MacGregor, probabilmente da un’idea di Natacha Rambova.

Fig. 3. Ileana Leonidoff alias Bianca Belincioni Stagno, ‘danzatrice e ottima amazzone’, nel film Thaïs (1916) di Anton Giulio Bragaglia. Questo fotogramma la ritrae nella 4ª posa (‘posa del cigno’). Si noti infatti l’affinità con quella in Fig. 4.

Fig. 4. Svetlana Zakharova in La morte del cigno, il celebre assolo che Michail Fokin coreografò per Anna Pavlova (1905). Ph. M. Logvinov.

Fig. 5. Ida Rubinštejn nella la seconda scena di danza del film La nave (Gabriellino D’Annunzio e Mario Roncoroni, 1921). Si tratta di un momento della ‘danza dei sette candelabri’.

Fig. 6. Ida Rubinštejn in un altro momento della seconda scena di danza in La nave (Gabriellino D’Annunzio e Mario Roncoroni, 1921). Si tratta ancora della ‘danza dei sette candelabri’.

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Fig. 1

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Fig. 2

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Fig. 3

Fig. 4

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Fig. 5

Fig. 6