Giorgio Vasari tra Roma e Firenze

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GIORGIO VASARI TRA ROMA E FIRENZE 1. 1538-1553: «E’ non ha fermezza» La sfortuna critica di Giorgio Vasari in campo artistico ha influito non poco sulla valutazione delle Vite: usandole per lo più gli storici dell’arte per rintracciare volta per volta infor- mazioni spicciole sui singoli artisti, si è giunti a perderne la visione storica complessiva. Per di più, la «congiuntura fatale e necessaria fra cultura e politica» (1) operata nel ventennio 1554-1574, in cui Vasari fu al servizio del duca Cosimo I e che portò alla creazione di quelle che sono le istituzioni fon- damentali dell’arte occidentale (l’Accademia, la galleria; non il museo ché il termine fu posto in uso dall’amico Giovio), ha condotto a una valutazione parziale dell’attività di Vasari, e in particolare del suo pensiero, che è quello che qui ci interes- sa. La critica vasariana degli ultimi anni ha cioè operato una semplificazione della figura di Vasari schiacciandone l’attività di scrittore sull’ultimo periodo della sua vita, quello in cui – a partire dal dicembre 1554 fino alla morte – egli fu il prin- cipale artefice e coordinatore della politica artistica del duca Cosimo I a Firenze; si è passato, invece, sotto silenzio il pe- riodo che va dal 1537 al 1554 in cui Vasari si allontanò dai Medici e per alcuni anni progettò di stabilirsi a Roma per tro- varvi una sistemazione definitiva e per avere dei benefici ec- clesiastici: eppure fu in ambiente romano – e farnesiano, cioè antimediceo per eccellenza – che Vasari scrisse la prima re- (1) L’espressione è di A. PAOLUCCI, Giorgio Vasari fra cultura e politica, in Per- corsi vasariani tra le arti e le lettere, a cura di M. Spagnolo e P. Torriti, Montepul- ciano, Le Balze, 2004, pp. 13-19. 481-522 13-02-2008 18:11 Pagina 481

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GIORGIO VASARI TRA ROMA E FIRENZE

1. 1538-1553: «E’ non ha fermezza»

La sfortuna critica di Giorgio Vasari in campo artistico hainfluito non poco sulla valutazione delle Vite: usandole per lopiù gli storici dell’arte per rintracciare volta per volta infor-mazioni spicciole sui singoli artisti, si è giunti a perderne lavisione storica complessiva. Per di più, la «congiuntura fatalee necessaria fra cultura e politica» (1) operata nel ventennio1554-1574, in cui Vasari fu al servizio del duca Cosimo I eche portò alla creazione di quelle che sono le istituzioni fon-damentali dell’arte occidentale (l’Accademia, la galleria; nonil museo ché il termine fu posto in uso dall’amico Giovio), hacondotto a una valutazione parziale dell’attività di Vasari, e inparticolare del suo pensiero, che è quello che qui ci interes-sa. La critica vasariana degli ultimi anni ha cioè operato unasemplificazione della figura di Vasari schiacciandone l’attivitàdi scrittore sull’ultimo periodo della sua vita, quello in cui –a partire dal dicembre 1554 fino alla morte – egli fu il prin-cipale artefice e coordinatore della politica artistica del ducaCosimo I a Firenze; si è passato, invece, sotto silenzio il pe-riodo che va dal 1537 al 1554 in cui Vasari si allontanò daiMedici e per alcuni anni progettò di stabilirsi a Roma per tro-varvi una sistemazione definitiva e per avere dei benefici ec-clesiastici: eppure fu in ambiente romano – e farnesiano, cioèantimediceo per eccellenza – che Vasari scrisse la prima re-

(1) L’espressione è di A. PAOLUCCI, Giorgio Vasari fra cultura e politica, in Per-corsi vasariani tra le arti e le lettere, a cura di M. Spagnolo e P. Torriti, Montepul-ciano, Le Balze, 2004, pp. 13-19.

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dazione delle Vite. Vasari cortigiano di Cosimo sembra al con-trario essere oggi diventata la cifra sotto cui catalogare l’au-tore delle Vite: un tipo di lettura monodirezionale che nonconcede all’autore studiato la possibilità di un’evoluzione in-tellettuale e che, fatta eccezione per la struttura interna del-l’opera, finisce per indirizzare ideologicamente la valutazionedelle due edizioni delle Vite, la Torrentiniana del 1550 e laGiuntina del 1568. Una lettura di tal genere è figlia della “leg-genda nera” di Cosimo I ed è nata dal disconoscimento deirisultati della ricerca storica novecentesca, prima fra tutti quel-la di Giorgio Spini (2), sulle vicende che portarono alla sta-bilizzazione del dominio fiorentino come ducato mediceo; aquesto si deve aggiungere l’uso indiscriminato della categoriadi Manierismo nel campo della storiografia artistica: la ver-sione “debole” della categoria di Manierismo, opportuna-mente proposta da John Shearman, è stata ripresa da Anto-nio Pinelli che l’ha piegata a fare di Vasari un esempio dellacoincidenza tra artista di corte e maniera (3). Più articolata, adispetto del sottotitolo, è la posizione di Roland Le Mollé inquella che resta l’unica biografia recente (4): ma anche in que-sta è insufficiente l’analisi del periodo centrale della vita diVasari, quello in cui si emancipò dalla protezione dei Medicie scrisse la prima redazione delle Vite; il peso dato al perio-do “cosimiano” dell’attività di Vasari diventa preponderante,mentre sorvola sulla sua attività al servizio del più grande po-tentato fautore di una politica contraria ai Medici, quello deiFarnese durante il pontificato di Paolo III. Su questa linea ilpasso successivo è stato compiuto dal filosofo francese JeanSalem (5) che assume Vasari ad archetipo del cortigiano op-portunista, fino a trasformarlo nel simbolo dell’arrivista pen-

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(2) G. SPINI, Cosimo I de’ Medici e la indipendenza del principato mediceo, Fi-renze, Vallecchi, 1945; e si veda almeno F. DIAZ, Il Granducato di Toscana. I Medici,in Storia d’Italia, a cura di G. Galasso, Torino, Utet, 1986, vol. 13.

(3) A. PINELLI, La bella maniera. Artisti del Cinquecento tra regola e licenza, To-rino, Einaudi, 1993.

(4) R. LE MOLLÉ, Georges Vasari. L’homme des Médicis. Biographie, Paris, Gras-set, 1995.

(5) J. SALEM, Giorgio Vasari (1511-1574) ou l’art de parvenir, Paris, Kimé,2002.

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tito, modello per gli ex sessantottini in carriera (“l’ancêtretrop peu connu des soixante-huitards repentis”, p. 7), coluiche incarnerebbe un’epoca di riflusso “mitterandiano” dopola libertà o l’utopia. Salem, senza pensare che tutta l’arte ita-liana, come tutta la letteratura francese (fino a Voltaire com-preso, avrebbe detto l’Alfieri), è strettamente legata alle cor-ti, giunge alle conclusioni parossistiche che abbiamo citato.Una tale interpretazione, pur nelle sue esagerazioni infantili-stiche, è comunque figlia dell’opposizione repubblica/princi-pato stabilita dalla tradizione storica su Firenze e può ripren-dere e distorcere l’analisi condotta da Zygmunt Wazbinski inun convegno (6) del 1974 per radicalizzarla in un confrontotra un Vasari libero, non ancora cortigiano di qualcuno (1550)e un Vasari arrivato (1568): la differenza tra Torrentiniana eGiuntina starebbe tutta nel fatto che la seconda è un’operacortigiana pervasa dal clima di celebrazione di Firenze e del-le sue tradizioni, della famiglia Medici, ecc.: su queste e altresimili considerazioni si è venuto a creare il mito del primatodella Torrentiniana sulla Giuntina, che è un altro bel luogocomune – con pochi fondamenti e figlio della tendenza aignorare l’evoluzione stilistica del genere storiografico nel Cin-quecento – della critica vasariana del secondo Novecento (7).La stessa accusa è formulata in modo più sottile da GeorgesDidi-Hubermann, che fa di Vasari il fondatore di una conce-zione dell’imitazione come arte accademica, privilegio di ungruppo ristretto di cortigiani, in opposizione alla concezioneepistemica aperta dell’arte propria dell’antichità (8); qui, ac-

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(6) L’idée de l’histoire dans la première et la seconde édition des «Vies» de Vasa-ri, in Vasari storiografo e artista, Firenze, Istituto Nazionale di studi sul Rinascimen-to, 1976, pp. 1-26.

(7) Molto più fondate mi paiono le considerazioni di A. MATUCCI, Machiavellinella storiografia fiorentina. Per la storia di un genere letterario, Firenze, Olschki,1991, p. 266: «[…] contemporaneamente un Vasari applica le forme della storiogra-fia ad altri soggetti e nel passaggio dall’edizione torrentiniana a quella giuntina del-le Vite l’insegnamento dei Discorsi e della Storia d’Italia si fa sempre più presente,nella ricerca di maggiori spazi riservati al «giudizio» del narratore, e nella conse-guente costruzione di una linea unitaria che lega tutte le sezioni dell’opera».

(8) G. DIDI-HUBERMANN, Devant le temps, Paris, Editions de Minuit, 2000, pp.59-72; ID., Ressemblance mythifiée et ressemblance oubliée chez Vasari: la légende duportrait sur le vif, in «Mélanges de l'Ecole française de Rome, Italie et Méditerranée»,CVI, 1994, 2, pp. 383-432.

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canto a Vasari, viene svalutata l’opera di Cosimo I, che conla sua politica culturale portò invece a risolvere i problemi delprovincialismo della cultura fiorentina drammaticamenteemersi durante il ducato di Alessandro (9).

L’aver proiettato la realtà finale di Vasari cortigiano su tut-ta la sua attività e sul suo pensiero politico e storiografico hainfluito negativamente anche su un recente studio di criticabibliografica (10) dedicato alle due edizioni delle Vite: quil’autore fa delle affermazioni incaute e non provate comequella secondo cui fu lo stesso Cosimo a ingiungere a Bor-ghini, Lenzoni e Giambullari di seguire la revisione e la stam-pa delle Vite (p. 21) e, nonostante le ricerche rigorose, pro-pone una lettura dell’opera storiografica vasariana sotto l’in-segna della celebrazione medicea.

La mancanza di una approfondita biografia critica di Va-sari ci costringe qui a ripercorrere gli anni del distacco di Va-sari dalla famiglia Medici dopo l’educazione ricevuta neglianni dell’adolescenza e della prima gioventù. I primi contattidi Vasari con la famiglia Medici risalgono infatti attorno al1525 (o 1524) quando, all’età di tredici anni, il cardinale diCortona Silvio Passerini lo condusse a Firenze. Iniziò da quelmomento la lunga consuetudine che Vasari avrebbe avuto conla casata fiorentina e che lo condusse a proseguire la propriaeducazione, già iniziata ad Arezzo soprattutto al seguito diGiovanni Pollastra, insieme agli allora promettenti rampolli dicasa Medici, i futuri cardinale Ippolito e duca Alessandro: magli insegnamenti allora impartiti da un precettore come Pie-rio Valeriano vengono passati quasi sotto silenzio nelle me-morie vasariane. Forse il Valeriano si indirizzava fin da allora

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(9) In tempi recentissimi si è avviata una nuova stagione di studi sulla politicaculturale di Cosimo. Si vedano i lavori curati da Konrad Eisenbichler, The CulturalPolitics of Duke Cosimo I de’ Medici, Burlington, Ashgate, 2001 e The Cultural Worldof Eleonora di Toledo: Duchess of Florenze and Siena, ivi, 2004. Sulla situazione sto-rica nuovi approcci e documenti sono rintracciabili in S. LO RE, La crisi della libertàfiorentina. Alle origini della formazione politica e intellettuale di Benedetto Varchi ePiero Vettori, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2006 e in P. SIMONCELLI, Fuo-riuscitismo repubblicano fiorentino 1530-1554 (volume primo: 1530-1537), Milano,Franco Angeli, 2006.

(10) C. M. SIMONETTI, La vita delle «Vite» vasariane. Profilo storico di due edi-zioni, Firenze, Olschki, 2005.

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verso argomenti “ermetici” che, al pari dell’astrologia, della fi-siognomica e della chiromanzia a Vasari non intereressavanoper nulla, come attesta precocemente la straordinaria letteradella primavera del 1538 ad Ottaviano de’ Medici «sopra laresolutione della pazzia» di cui ci toccherà di parlare piùavanti. La consuetudine con casa Medici venne però interrottada una lunga crisi che comprende un periodo centrale dellavita di Vasari, quello che va dal 1537 al 1554 e che contiene,fra l’altro, l’elaborazione, la stesura e la pubblicazione dellaprima edizione delle Vite.

Negli anni tra il 1525 e il 1537 Vasari aveva avuto la pro-tezione del cardinale Ippolito, del duca Alessandro e, soprat-tutto, quella di Ottaviano de’ Medici, e la possibilità di stu-diare e fare pratica con alcuni tra i maggiori artisti dell’epo-ca. I primi sintomi di una crisi nei rapporti con i Medici econ la vita di corte vengono posti da Vasari nel 1535, data incui il cardinale Ippolito de’ Medici muore (forse avvelenatosu ordine del duca Alessandro); ancora nel suo profilo auto-biografico, pubblicato nella seconda edizione delle Vite nel1568, Vasari può scrivere:

Intanto, essendo morto Ipolito cardinale, nel quale era la somma collocatadi tutte le mie speranze, cominciai a conoscere quanto sono vane, le piùvolte, le speranze di questo mondo, e che bisogna in se stesso, e nell’esse-re da qualche cosa, principalmente confidarsi. [VI, 374] (11)

Sono i sintomi di una crisi di fiducia nelle vicende delmondo e delle corti alle quali viene opposta la pace della fedee del sentimento religioso. Questa opposizione latente esplo-se nel 1537, all’indomani dell’uccisione del duca Alessandroper mano di Lorenzino de’ Medici: così Vasari scriveva allozio Antonio ad Arezzo subito dopo la notizia della morte delduca:

[…] non piango già il ritrovarmi nella mia professione nella manierache sapete, perché se tutta la corte attendessi all’opre virtuose, quando vienla morte de’ padroni loro ogni aria darebbe il pane alla loro servitù; ma chi

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(11) Le citazioni provengono da G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti pittori, scul-tori e architetti, nelle redazioni del 1550 e del 1568, a cura di R. Bettarini e P. Ba-rocchi, Firenze, Sansoni (poi S.P.E.S.), 1966-87.

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è appoggiato a essa o per nobiltà di sangue o per servitù d’uomini che mol-ti anni habbino seguito quella fattione, o che tolti dalle staffe o dal gover-no de’ cani e fatti segretarii dalle insolentie loro, questi ammorbano tantoil cielo, che Iddio che ci governa, togliendogli quest’appoggi, gli conducein estrema disperatione e miseria. Conosco, ora che mi si è stracciato il velodavanti a gl’occhi, che il non temere Dio, il non conoscerlo di dove m’hatratto sendo ancor fresche le piaghe di casa mia per la morte di mio padre,se seguitavo questa servitù, se bene acquistavo onore, fama e ricchezza peril corpo, facevo vergogna, danno e infelice l’anima mia. Ora, poi che la mor-te ha rotto le catene della servitù mia, presa già con questa illustrissimacasa, risolvo di separami per un’ tempo da tutte le corti, così di principiecclesiastici come secolari; conoscendo con questi esempli, che Iddio haràpiù compassione di me vedendomi andare stentando di città in città, fa-cendo di questa poca virtù che m’ha data ornamenti al mondo, confessan-do Sua Maestà e esser sempre disposto al suo santo servitio (12).

Queste parole potrebbero essere interpretate come l’indi-ce di una crisi momentanea dovuta alla morte del duca e altimore di una sollevazione popolare che avrebbe colpito gliuomini, come lui, legati ai Medici. In realtà la disposizioned’animo di Vasari non era dovuta alla contingenza del mo-mento, ma si fondava su un sentimento religioso profondo chesembra anticipare scritture e testimonianze religiose di unCinquecento più maturo. Questa esplosione di sentimenti re-ligiosi si risolve anche in un atteggiamento politico in Vasari:la condanna delle corti è inequivocabile, anche se i toni del-la lettera non possono venire ricondotti a un atteggiamentosavonaroliano, come pure sarebbe stato possibile vista la con-tinuità sotterranea di quell’insegnamento a Firenze (Vasaristesso ricorderà ancora, ad anni di distanza, l’ammirazione diMichelangelo per il domenicano). Certo la morte del padreavvenuta dieci anni prima e quella di quasi tutti i suoi gran-di protettori dovettero segnare profondamente l’animo delgiovane Vasari, che nella relazione scritta anni dopo giungeràad edulcorare i toni di quei momenti e a suggerire un’unitàdi intenti con Ottaviano de’ Medici:

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(12) Cito, con ammodernamenti, dalla copia settecentesca conservata alla Bi-blioteca Riccardiana di Firenze (Ricc. 2354, cc. 25r-26v) da cui dipendono tutte leedizioni della lettera e, da ultima, Il carteggio di Giorgio Vasari, edito e accompagnatodal commento critico del dott. Carlo Frey, München, Müller, 1923, vol. I, pp. 76-77.La data del 7 gennaio 1537, il giorno successivo all’uccisione di Alessandro, è giu-stamente messa in dubbio dal Frey.

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Ora, mentre andava procacciandomi sotto la protezione del duca Ales-sandro onore, nome e facultà, fu il povero signore crudelmente ucciso, eta me levato ogni speranza di quello che io mi andava, mediante il suo fa-vore, promettendo dalla fortuna. Per che mancati, in pochi anni, Clemen-te, Ipolito et Alessandro, mi risolvei, consigliato da Messer Ottaviano, a nonvolere più seguitare la fortuna delle corti, ma l’arte sola, se bene facile sarebbe stato accomodarmi col signor Cosimo de’ Medici nuovo duca. [VI,376]

Rispetto a quanto pubblicato nel 1568 l’epistolario offre al-tri toni, molto più drammatici, anche se risolti in chiave reli-giosa ed insieme estetica nel soggiorno al convento e all’ere-mo di Camaldoli. Non è chiaro, visti i contrasti di poco suc-cessivi, se nel 1537 Ottaviano de’ Medici fosse d’accordo conla decisione di Vasari; in ogni caso egli partì per Arezzo inpreda a quella che oggi verrebbe definita una profonda de-pressione e della quale Vasari descrive minutamente i sinto-mi: lo stare chiuso in casa abbandonando i rapporti umani, illavorare senza un’idea precisa dei risultati da raggiungere, lamancanza di prospettive per uno che sentiva il peso di doversostenere la famiglia, dovetterlo trascinarlo verso la dispera-zione. La via d’uscita gli fu offerta ancora una volta dal suovecchio istitutore, l’umanista aretino Giovanni Pollastra, chegli offrì, appunto, di andare all’eremo di Camaldoli a dipin-gere per i monaci. Era il luogo che, oltre a consentirgli unavita all’aria aperta, poteva soddisfare le sue ansie religiose conun’esperienza di petrarchesca vita solitaria; così, infatti, Vasa-ri si esprimeva nella splendida lettera che da Camaldoli, pro-babilmente ai primi di agosto del 1537, scriveva al Pollastra:

Se tutti i mali fossero conosciuti da’ Medici, come ha conosciuto la vo-stra accuratezza la cagione del mio, credo che dopo la morte farebbe pocodanno alla generatione humana. Ecco io, smarrito costì in Arezzo, dispera-to da’ travagli della morte del duca Alessandro, dispiacendomi il commer-tio degl’huomini, la domestichezza de’ parenti e le cure familiari di casa,m’ero per malinconia rinchiuso in una stanza; né facendo altro che lavora-re, consumavo l’opera, il cervello e me medesimo in un tempo, senza lamente per le immaginationi spaventose fatta malinconica, mi havevano inmodo ammorbato l’intelletto, che credo, s’io fossi perseverato in quei pen-sieri, facevo col tempo qualche cattivo fine. Siate voi, messer Giovanni miocaro, benedetto da Iddio mille volte, poi che sono per mezzo vostro con-dotto all’hermo di Camaldoli, dove non potevo per cognoscer me stesso ca-pitare in luogo nessuno migliore. Perch’oltre che passo tempo con util mioin compagnia di questi santi religiosi, i quali hanno in dua giorni fatto un

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giovamento alla natura mia sì buono e sano che già comincio a conoscerela mia folle pazzia, dove ella ciecamente mi menava, scorgo qui in questoaltissimo giogo dell’alpe fra questi dritti abeti la perfettione che si cava dal-la quiete. Così come ogn’anno fanno essi intorno a loro un palco di ramia croce andando dritti al cielo, così questi romiti santi immitandoli e insie-me chi dimora qui lassando la terra vana, con il fervore dello spirito ele-vato a Dio alzandosi, per la perfettione del continuo se gli avvicina più; ecosì come qui non curano le tentationi nimiche e le vanità mondane, an-cora che il crollare de venti e la tempesta gli batta e percuota del continuo,non di meno ridendosi di noi, poi che nel rasserenar dell’aria si fan piùdritti, più belli, più duri e più perfetti che fussin mai: che certamente si co-nosce che’l cielo gli dona la costantia e la fede, così a questi animi che intutto servano a lui. Ho visto e parlato sino a ora a cinque vecchi, d’anni 80l’uno in circa, che, fortificati di perfettione nel Signore, m’è parso sentirparlare cinque angioli di paradiso; e son stupito a veder quegli di quella etàdecrepita la notte per questi ghiacci levarsi come i giovani, ancora che lenevi s’alzino assai, e partirsi dalle loro celle, murate e sparse lontano 150passi per l’ermo, venire alla chiesa a i mattutini e a tutte l’ore diurne conuna allegrezza e giocondità come se andassino a nozze; quivi il silentio stàcon quella muta loquela sua che non ardisce a pena sospirare; né foglie de-gl’abeti ardiscono di ragionar co’ venti; e le acque, che vanno per certe doc-cie di legno per tutto l’ermo, portano dall’una all’altra cella de romiti ac-que, camminando sempre chiarissime con un rispetto maraviglioso. Mi èpiaciuto il vedere per ogni cella uno ambulatorio da passeggiare di 12 pas-si e uno scrittoio da scrivere e studiare e il letto vicino e un tavolino che ècome una finestra che, bucata di fuori, pare una ruota da monache e si ser-ra: dove mettono la piatanza a’ detti romiti i conversi, acciò che chi stadrento, aprendolo a sua posta, fa tavola e piglia il mangiare; e finito, ripo-ne e i piattti e quello gli avanza, chiudendo; e il medesimo che gli portòpieni, gli porta via voti senza una parola mai. Vi è da fare il fuoco con buo-na provisione di legne per la state e per il verno, e una bella cappelletta,ornata e devota, che caveria le orationi de’ pensieri a ogni disperato animo.Taccio l’altre infinite comodità di loggie, comodità di lavar panni, orti bel-lissimi, che sono un conforto grandissimo a chi gli gode: pensate a chi glivede […] (13).

Anche tralasciando i richiami letterari di una tale descri-zione, occorre però notare la grande capacità letteraria di Va-sari nel genere epistolare; già la lettera allo zio aveva lasciatointendere la sua abilità: ora il passaggio della sua condizionedai toni cupi della malinconia depressiva a quelli elegiaci del-la salute ritrovata nella solitudine alpestre dell’eremo lasciaspazio a toni degni delle opere latine del Petrarca. La descri-zione che Vasari farà della stessa esperienza nella Giuntina del

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(13) Ricc. 2354, cc. 29r-30v (poi in Carteggio cit., pp. 89-90).

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1568 tace i toni drammatici della sua condizione esistenzialee attenua la descrizione poetica dell’ambiente per tornare an-cora una volta sull’opposizione tra la quiete e la meditazionesu Dio rispetto alla vita di corte e alla mondanità:

E così tirando innanzi in Arezzo la detta tavola, e facciata di San Roccocon l’ornamento, mi andava mettendo a ordine per andare a Roma, quan-do per mezzo di Messer Giovanni Pollastra, come Dio volle (al quale sem-pre mi sono raccomandato e del quale riconosco et ho riconosciuto sem-pre ogni mio bene), fu’ chiamato a Camaldoli, capo della congregazione ca-maldolense, dai padri di quell’eremo a vedere quello che disegnavano divoler fare nella loro chiesa. Dove giunto, mi piacque sommamente l’alpe-stre et eterna solitudine e quiete di quel luogo santo, […] in detto spaziodi due mesi, provai quanto molto più giovi agli studii una dolce quiete etonesta solitudine, che i rumori delle piazze e delle corti, conobbi dico l’er-ror mio, d’avere posto per l’addietro le speranze mie negl’uomini e nellebaie e girandole di questo mondo. [VI, 376-77]

Certo l’opposizione – da un punto di vista della salvezzadell’anima ma anche della necessità di una ricerca di crescitapersonale e artistica – alla vita di corte si fece sentire in quelperiodo come una scelta di campo. Anche negli anni succes-sivi le sue ansie religiose, a dispetto di comportamenti non ap-prezzati dalla Chiesa, continuarono e si trasformarono poi inuna fede più serena, come testimoniano le poesie e le letterea uno dei più grandi predicatori dell’epoca, il padre Gabrie-le Fiamma (14), con il quale Vasari intrattenne una sinceraamicizia. Tornato da Camaldoli fu pressoché obbligato a ese-guire per Ottaviano una copia del dipinto di Raffaello che raf-figurava Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e de’ Ros-si: fu questo l’ultimo lavoro prima di partire per Roma:

Benché, signor mio, il desiderio che mi sprona, un di, s’io potrò farlo,è di ricondurmi a quella Roma, la quale mediante l’opere antiche e mo-derne fece condurre gl’ingegni eccellenti a quella perfetione dove difficil-mente si può arrivare; e ve ne faccia fede le sue statue e pitture (15).

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(14) Lettere al Fiamma sono riprodotte nel Carteggio cit. Poesie di Vasari dalRicc. 2948 sono state pubblicate da U. SCOTI BERTINELLI, Giorgio Vasari scrittore, «An-nali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa», XIX, 1906, pp. 263-303. Sul Fiam-ma si veda ora C. LERI, Esercizi metrici sui «Salmi»: la poesia di Gabriele Fiamma, inScrittura religiosa. Forme letterarie dal Trecento al Cinquecento, a cura di C. Delcor-no e M.L. Doglio, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 127-159.

(15) Dalla lettera a Ottaviano de’ Medici, posteriore al 20 dicembre 1537, Ricc.2354, c. 31r (poi in Carteggio cit., pp. 92-3).

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Vasari giunse così a Roma nel febbraio del 1538 per con-tinuare i propri studi e affinare la propria maniera sull’arteantica: le opinioni sulla durata del soggiorno romano doveva-no però essere molto diverse. Pochi mesi dopo, nella stessaprimavera del 1538, Ottaviano de’ Medici cercò di convin-cerlo a tornare a Firenze e a entrare alle dipendenze di Cosi-mo, ma Vasari fu irremovibile. Due lettere non datate, di te-nore e stile completamente diversi, scritte da Roma nella pri-mavera del 1538 a Ottaviano che lo richiamava a Firenze, mo-strano un Vasari convinto in pieno della propria risoluzione ebasterebbero da sole a confermarne le qualità letterarie e lacapacità di adottare stili epistolari diversi già in quel periodo.La prima lettera, scritta nel registro ufficiale e con toni pom-posi, non dovette sortire l’effetto che Vasari si riproponeva:

Da che la sola cortesia vostra, Magnanimo Patrone, è stata principiodell’esser mio, quelle gratie che il cielo in me fa risplendere vengano mos-se più dal rispetto che hanno a vostri fatali vestigii, che al merito della bas-sezza mia. Perché quella benignità che in voi han messa la generosità del-le stelle e lo influsso de’ fati han sì colmo le misure de’ vostri alti concet-ti, che ne traboccate d’ogni ora talmente, che non è maraviglia se chi vi siaggira intorno non pure illustra, risplende e indora, ma molto più chi conaffetione vi osserva, rassomiglia. E da che Iddio e voi solo mi havete fattoconoscere quali sieno quelli che per la fama e per opere al mondo son chia-ri, stimati, riveriti, honorati e con premio riconosciuti, non ci essendo ter-mine di facultà o di grado a chi per viltà di nascita e per istento di beninon può al mondo apparir chiaro, sendo il senno di tali tenuto abbietto,via non si trova migliore quanto quella del seguitare gli studii di quale scien-za si voglia, per venire di tanta bassezza a qualche principio di eminentia[…] (16).

Alle stesse altezze volava la prosa di Vasari nel resto dellalettera, ma l’esercizio di alta retorica non toccò minimamen-te Ottaviano, che con prosa molto più bassa dovette fargli sa-pere che considerava una pazzia il rifiuto di tornare a Firen-ze per entrare al servizio di Cosimo. A quel punto Vasarioperò un capovolgimento di valori su tutto il fronte: senten-dosi dare del pazzo ripensò alle proprie meditazioni religiosee alle proprie ansie: prese l’offesa per impresa e costruì unproprio breve elogio della pazzia, che naturalmente non po-

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(16) BRF, cod. ricc. 2354, cc. 56v-58v (poi in Carteggio cit., pp. 94-5).

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teva adottare la prosa aulica e affettata ma doveva essere im-postato all’insegna di uno stile comico e di un linguaggio bas-so che non censura le espressioni volgari. Ma se lo stile eracomico le sue considerazioni erano molto serie e riguardava-no un’idea di vita libera dalle corti e fondata su soddisfazio-ni e pensieri che andavano oltre la realizzazione economica:

Al Magnifico Ottaviano de’ Medici, sopra la resolutione della pazzia.

La salute di chi al mondo vive consiste nella quiete e nel contentarsi enel stimare niente le cose del mondo e assai quelle del cielo, e così la in-quietudine consiste nel non dar mai posa né fine alle cose del dominare edel reggere, che è una sete che l’acqua che si bee di tal tazza per spegner-la, te l’accende ogni ora più; tal che sempre si sta in agonia d’animo condesiderio di potere, e incazzito dalla speranza fa giardini nel cervello, chevi pianta verzure che non fur mai nel Dioscoride stampate né da lui maiimmaginate o scritte. E questo nasce che si riempie di grandezze il capo e’l cervello e ’l corpo, che mai si trova sieda degna del suo culo. Quivi na-sce che la servitù che gl’è intorno, strangolata dalla poca carità, dalle villa-nie, il più delle volte o il ferro o il veleno fa le vendette dell’insolentia loro;e qui ogniuno che beve a questa tazza vuole le bertucce, le scimie, e’ bab-buini, pappagalli e nani: che altri nani, pappagalli, babbuini, scimie e ber-tuccie che loro? Atteso che il loro instabile cervello va rodendo con la fan-tasia il modo dello ampliarsi; e dove la voglia si mette accanto, non puòcomportare vicini, onde compera case, orti, chiese; e tutto spiana cercandodi allargare il mondo, non li parendo tante quelle tre braccia di terra che‘l sotterrerà. Di sorte che quando veggo spegnere tanta calcina e fare queiviottoli lunghi e mettere in opera tanti legni e fare i granai di Faraone, dicofra me stesso: costoro debbono havere con Cristo fatto la scritta per unpezzo, da ché vanno perpetuando in sì fatta maniera le cose loro. E, vol-tomi in là, guardo la Quiete che alza il capo a ogni cosa e sprezza e si ridedegli strafori delle porte e dell’edifitio da seccare i fichi al sole; alza il capoallo insù et ghignia a uso d’asino quando vuole ridere e, messosi i pannidella gonnella in capo, volta le chiappe del culo al mondo e al cielo per leastrologie false e per le filosomie vane e per le chiromantie a rovescio, pa-rendoli che il pane che si mangia dovessi essere senza sospetto e di dove-re essere sottoposto a correre la fortuna degl’huomini e havere a combat-tere nel campo della disperatione quella grandezza che è odiata da tuttiquelli che hanno a dire di sì contra lor voglia e fare servitù con coloro chevorrebbono vedergli più presto morti che vivi. E però beati a coloro chepazzi al mondo vengano, per che al meno sono fuori di briga a un tratto,ché non hanno gl’huomini piacere di vedergli o di fargli impazzar loro: chemi pare, che chi milita sotto l’insegna dello honore meriti la palma comeSanto Stefano, perché sono troppo orribili gli scherni che la vergogna sen-za rispetto ti fa. Se un nobile di sangue è tanto plebeo di vita e di costu-mi che sia additato per porco o per scimunito o per sgratiato; se di virtùillustre, è tanto vile di nascita che si vergogna fra’ grandi comparire e spes-so sente rimproverare la viltà de’ sua antenati; se nobile e virtuoso, vi sarà

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la povertà e tante corna, che pare che ‘l diavolo habbi fatto il macello acasa sua e la beccheria; se sarà virtuoso, ben nato e con tutti e’ costumi,tanta miseria e gagliofferia che non trova via da potersi la fame e l’avaritiacavare; se prodigo e liberale, i debiti, gli scrocchi e la maledicenza s’inge-gnano strangolarlo; se in quiete e pace ti riposi e con esercitio manuale tieserciti, non stimando se non il proprio vivere e l’onestamente vestire, i bal-zelli ti piovano e gl’accatti di Luciano, onde sei sforzato alla disperationedarti in preda e, bestemmiando il principe, t’accusano, ti tolgon la robba ela vita insieme; o e’ ti fan scherzi che l’amore al quale in vita hai portatotanta reverenza, gli fai quel merito che se li conviene. Tal che, come di so-pra io dissi, la pazzia ha dal mondo, dal cielo priviliegii tali, che vadia comevuole o faccia quel che li piace, che i vituperii, gl’onori li sono tutt’uno,perché non vede, non ode, non sente, non gusta e non tocca a lui smalti-re le male fatte si interpongono fra questo satrapo e l’altro. E così, fino chela vita lo intrattiene, vive; non cura freddo, non caldo, non sete, non fame;né li da noia se mostra più le coscie che ’l capo o vero altro più dishone-sto membro. Si muore, e il pitaffio scrive così al nome suo per le linguedelle genti, come in ne’ marmi scritti quelli che di eloquentia pieni con tan-ti travagli hanno passato questa vita; e trovansi, quando e’ sono pazzi ecel-lenti, così costoro in su le cronache e in su libri come i Cesari et gl’altri se-midei. Per tanto io mi risolvo, che quando la Signoria Vostra et gl’altri vo-stri di casa mi danno titolo di pazzo, che mi sia una corona altro che dilauro o di mirto, ma di purissimo oro; ancora ch’io conchiudo che nellamia pazzia godo più e con manco affanni che non fate voi con cotesti al-tri Aristotili salvatichi nella vostra sapienza. Perché havete tanto che pesta-re con le figure vive, che far non vogliono a modo vostro, più che io conle mie dipinte, che mettono la barba a posta mia e si spogliono e vestanoa mio piacere, dormono e vegghiano secondo che mi aggrada: onde mi na-sce uno esercito fra’ mano, ammazzo ch’io voglio senza mio pericolo e fovivere chi mi piace e fo le persone partiali in qual si voglia cosa, come sonogl’huomini naturali, e mi fanno onore, utile e grado senza fine. Intanto cheio, che non ho invidia a cosa vostra nessuna, vi ringratio del titolo che midate, parendomi che altra lode maggior dar non si possa. E con questo ba-scio le mani alla Signoria Vostra (17).

Ho voluto qui riprodurre per intero la lettera, oltre cheper la sua unicità nel corpus epistolare vasariano, perché daquesta lettera data la liberazione di Vasari dal servizio dei Me-dici: e fu una liberazione che dal 1538 durò fino a quasi tut-to il 1554. Questo distacco di Vasari dai Medici è stato total-mente taciuto dalla recente critica vasariana: è molto più fa-cile ridurre Vasari a un fedele servitore del potere senza esi-tazioni; servitore lo fu, come tutti gli artisti di allora, ma con

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(17) BRF, cod. ricc. 2354, cc. 58v-60v (poi in Il carteggio di Giorgio Vasari cit.,pp. 97-99).

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una propria dignità e con un proprio sentire non comuni. Inogni caso, questa volta Vasari colse nel segno e Ottaviano do-vette convincersi che la sua non era stata una risoluzione af-frettata e dettata dallo smarrimento seguente alla morte delduca. Vasari poté continuare la sua personale ricerca artisti-ca, di cui tappe fondamentali furono, oltre i momenti di quie-te e meditazione nell’eremo di Camaldoli, i soggiorni a Roma,Venezia, Napoli, Rimini, i viaggi in Emilia e nel Veneto e ifrequenti ritorni in Toscana, a Firenze e Arezzo soprattutto.

Nel 1545, però, dopo otto anni di commesse non duratu-re, l’ormai trentaquattrenne pittore dovette pensare che dopotanto vagare era venuto il momento di trovare una sistema-zione più stabile. Al suo ritorno da Napoli a Roma entrò alservizio del cardinale Alessandro Farnese nell’ottobre del1545: fu una decisione favorita probabilmente dall’interessa-mento degli amici Paolo Giovio e Annibal Caro, ma fu ancheuna decisione che avrebbe a lungo ostacolato i suoi successi-vi tentativi di tornare in Toscana e di mettersi al servizio diCosimo I. Quando questi, figlio di Giovanni dalle BandeNere, nel 1537 fu tolto dalla sua condizione privata e sceltoper diventare il nuovo duca di Firenze dopo l’assassinio diAlessandro, si trovò ostacolato dalla famiglia Farnese che in-tendeva estendere alla Toscana la sua politica filofrancese: leostilità tra Cosimo e i Farnese si manifestarono immediata-mente a proposito del matrimonio della vedova di Alessandrode’ Medici, Margherita d’Austria figlia dell’imperatore CarloV, e giunsero al loro culmine con l’interdetto comminato a Fi-renze e ai suoi domini da Paolo III. La politica antimediceadei Farnese ebbe il suo esecutore proprio in Alessandro Far-nese che, oltre ad essere uno dei nipoti favoriti di Paolo III,aveva coagulato attorno a sé i fautori della politica antimedi-cea e in particolare i fuoriusciti toscani che tendevano alla re-staurazione di una repubblica a Firenze. Mettendosi al servi-zio di Alessandro Farnese Vasari sceglieva consapevolmentedi schierarsi contro i suoi antichi protettori e credeva di sce-gliere definitivamente Roma e non Firenze come dimora perla vita.

A questo periodo, in particolare tra il 1545 e il 1547, Va-

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sari fa risalire la composizione della prima redazione delleVite: ancora nella seconda edizione delle Vite del 1568, allor-ché era un fedele collaboratore di Cosimo I, non ebbe diffi-coltà a riconoscere che l’impulso a impegnarsi nella scritturastorica degli artisti gli era venuta dal cenacolo di letterati riu-niti attorno ai Farnese. Il racconto di Vasari è forse fin trop-po noto, ma non sembra inutile riproporlo qui alla luce del-le considerazioni sulla temperie storica e politica che abbia-mo fatto:

In questo tempo andando io spesso la sera, finita la giornata, a veder ce-nare il detto illustrissimo cardinal Farnese, dove erano sempre a trattener-lo, con bellissimi et onorati ragionamenti, il Molza, Anibal Caro, MesserGandolfo, Messer Claudio Tolomei, Messer Romolo Amasseo, monsignorGiovio, et altri molti letterati e galantuomini, de’ quali è sempre piena lacorte di quel signore, si venne a ragionare una sera fra l’altre del museo delGiovio, e de’ ritratti degl’uomini illustri che in quello ha posti con ordineet inscrizioni bellissime. E passando d’una cosa in altra, come si fa ragio-nando, disse monsignor Giovio avere avuto sempre gran voglia, et averlaancora, d’aggiugnere al museo et al suo libro degli Elogi un trattato nelquale si ragionasse degl’uomini illustri nell’arte del disegno, stati da Cima-bue insino a’ tempi nostri. Dintorno a che allargandosi, mostrò certo avergran cognizione e giudizio nelle cose delle nostre arti, ma è ben vero chebastandogli fare gran fascio, non la guardava così in sottile e spesso, favel-lando di detti artefici, o scambiava i nomi, i cognomi, le patrie, l’opere, enon dicea le cose come stavano a punto, ma così alla grossa. Finito cheebbe il Giovio quel suo discorso, voltatosi a me disse il cardinale: “Che nedite voi Giorgio, non sarà questa una bell’opera e fatica?”. “Bella”, rispo-s’io “monsignor illustrissimo, se il Giovio sarà aiutato da chichesia dell’ar-te a mettere le cose a’ luoghi loro, et a dirle come stanno veramente. Par-lo così, perciò che, se bene è stato questo suo discorso maraviglioso, hascambiato e detto molte cose una per un’altra.” “Potrete dunque”, sog-giunse il cardinale pregato dal Giovio, dal Caro, dal Tolomei e dagl’altri“dargli un sunto voi, et una ordinata notizia di tutti i detti artefici, dell’o-pere loro secondo l’ordine de’ tempi. E così aranno anco da voi questo be-nefizio le vostre arti”. La qual cosa ancor che io conoscessi essere sopra lemie forze, promisi secondo il poter mio di far ben volentieri; e così mes-somi giù a ricercare miei ricordi, e scritti fatti intorno a ciò, infin da gio-vanetto, per un certo mio passatempo e per una affezione che io aveva ala memoria de’ nostri artefici, ogni notizia de’ quali mi era carissima, misiinsieme tutto che intorno a ciò mi parve a proposito. E lo portai al Gio-vio, il quale, poi che molto ebbe lodata quella fatica, mi disse: “Giorgiomio, voglio che prendiate voi questa fatica di distendere il tutto in quelmodo che ottimamente veggio saprete fare, perciò che a me non dà il cuo-re, non conoscendo le maniere, né sapendo molti particolari che potrete sa-pere voi, sanza che quando pure io facessi, farei il più più un trattatetto si-mile a quello di Plinio; fate quel ch’io vi dico, Vasari, perché veggio che è

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per riuscirvi bellissimo, ché saggio dato me ne avete in questa narrazione”.Ma parendogli che io a ciò fare non fussi molto risoluto me lo fé dire alCaro, al Molza, al Tolomei et altri miei amicissimi; per che risolutomi fi-nalmente, vi misi mano con intenzione, finita che fusse, di darla a uno diloro, che rivedutola et acconcia, la mandasse fuori sotto altro nome che ilmio. [VI, 390-91]

La prima redazione era pronta nel 1547, quando a Vasarioccorse un “incidente” privato che lo costrinse a modificarei suoi progetti di vita e le sue aspettative: le lettere e le suepoesie testimoniano dei suoi rapporti con famose cortigiane,ma nuove ricerche d’archivio (18) hanno rivelato che in quel-l’anno Vasari ebbe due figli illegittimi da una giovane vedovaaretina, Maddalena Bacci. Per Maddalena Vasari dovette pro-vare un amore intenso (19): non è dato avere notizie certe delperché quell’amore non si concluse con un’unione stabile.Forse agirono motivi di convenienza o forse altro (i figli il-leggititmi potevano essere riconosciuti, come aveva fatto anniprima lo stesso Paolo III): in ogni caso Maddalena sposò uncapitano delle milizie ducali e Vasari incaricò Vincenzio Bor-ghini di iniziare le trattative per organizzare il matrimonio(una sorta di matrimonio riparatore?) con Niccolosa, la gio-vanissima sorella di Maddalena, che nel 1547 aveva appenaundici anni. Data la giovane età della sposa, Vasari chiedevanel 1549 di inserire nel contratto di matrimonio la clausolache Niccolosa dovesse stare ancora due anni nella casa dei ge-nitori. La scelta del matrimonio fu sconsigliata da alcuni in-fluenti amici di Vasari, da Paolo Giovio a Pietro Aretino, piùche altro con motivazioni scherzose; certo è che il matrimo-

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(18) N. LEPRI – A. PALESATI, Fuori dalla corte. Documenti per la biografia vasa-riana, Montepulciano, Le balze, 2003. Un terzo figlio illegittimo lo ebbe, anni piùtardi, da Isabella Mora. Infecondo fu il matrimonio con Niccolosa Bacci.

(19) Si vedano i tentativi di N. Lepri, nell’opera citata alla nota precedente, dirintracciare la figura di Maddalena nei dipinti di Vasari. All’amore per Maddalenacredo si possa riferire il seguente sonetto di Vasari: «Fra ’l sì e ’l no combatte il sen-so mio; / L’amor che m’hai mi sforza assai amarte, / L’esser d’altrui affatto mi di-parte / Da te, ma l’amor tuo non mett’in oblio. / Tanto quanto vivrò, tuo sarò io, /Ma non di notte, per ch’in altra parte / Tendo mie rete e do l’alma in disparte, /Che ’l buon cercando vo fuggendo il rio. / Mi sarà grato sempre haver suggetto /Dimostrarti l’amor d’ogni interesso / E far d’obligation per esser sciolto. / Tu piùsarai di te, né con rispetto / Vivrai di me, e lontano e d’appresso, / Né più pauraharai ch’io ti sia tolto». Cito dal Ms. Ricc. 2948, c. 21r. (già edita con errori in SCO-TI BERTINELLI, Giorgio Vasari cit., p. 282).

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nio, più o meno voluto, costringeva Vasari a rivedere i suoiprogetti: spingeva a trovare una sistemazione in Toscana eprecludeva, volendo continuare la carriera a Roma, la possi-bilità di scegliere la strada chiericale e di ottenere dei benefi-ci ecclesiastici, come testimoniano i primi versi di un suo for-se inconcluso capitolo poetico A Michelagnolo Buonarruoti:

Consiglio a voi, messer, che siate vecchio,Chieggio, per che gran pratica ci havete,Sendo d’arte e di senno eterno specchio,

Mi trovo qui lontan, come sapete,Da casa mia, servendo questa corteE non posso, ch’ho moglie, esser più prete.

Non so che posso haver dalla mia sorteChe ’l far ben e ’l far mal è qua tutt’uno,Anzi chi meglio, si stragina alla morte (20).

Gli ultimi versi fanno propendere per l’ipotesi che questoframmento di capitolo sia stato composto tra il 1550 e il 1555,durante il pontificato di Giulio III, già cardinale Gian MariaCiocchi Del Monte, cioè di Monte San Savino nei pressi diArezzo. Dopo la morte di Paolo III, avvenuta il 10 novembre1549, Vasari dovette propendere per la decisione di staccarsidai Farnese e puntare su un ritorno a Firenze: in questo sen-so prese la decisione di dedicare a Cosimo I le Vite che era-no allora sotto i torchi della stamperia ducale dei Torrentinoa Firenze. Soltanto tre mesi dopo, l’elezione al soglio pontifi-cio di Giulio III rimetteva tutto in discussione e riproponevaa Vasari l’alternativa tra Firenze e Roma. L’ultima terzina ci-tata del capitolo a Michelangelo registra la delusione che pocodopo Vasari avrebbe provato davanti alla volubilità di com-mittente di Giulio III, sul quale nell’edizione giuntina delleVite avrebbe poi espresso giudizi molto duri, e che lo avreb-be convinto a tornare in Toscana per riunirsi con la moglie epossibilmente entrare al servizio di Cosimo. Ma in quell’ini-zio del 1550 l’elezione di Giulio III, che aveva fatto grandipromesse a Vasari (21), dovette far sorgere forti dubbi in lui

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(20) Ricc. 2948, 16v (e SCOTI BERTINELLI, Giorgio Vasari cit., p. 277). Non è rarotrovare versi ipermetri nelle poesie di Vasari. La forma stragina è forma regionale per‘strascinare’, ben attestata in Vasari.

(21) «Perciò che andando io fuor di Fiorenza ad incontrare il cardinal di Mon-

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e soprattutto nel suo amico Borghini che con una lettera del22 febbraio 1550 non tardò a rimproverargli l’eccessiva fret-ta nel dedicare l’opera e a consigliargli di scegliere Romacome residenza:

Messer Giorgio mio, voi havesti la fretta maggiore a prometter, voi m’in-tendete, che havete persa un’occasione d’utile et d’honore, che Dio sa quan-to ve ne verrà simile a mano. Et più hora lo conosco che veggo quello chemi scrivete, anchor che subito che fu creata S. Santità, io ci corsi con l’a-nimo; hor sia con Dio!

Noi siamo qui; et, in quanto a me, non mi dispiace punto il disegnovostro, et per me lo farei in ogni modo et così si potessi far di tutta: chesarebbe principio forte di qualche edifitio buono per voi, anchor che, perla gratia di Dio et per le qualità vostre et per lo animo che si vede in S.Santità, spero che non vi sia per manchare nessuno buono et honorevolepartito appresso di lui.

Né dico questo: che ella non sia ottimamente allogata per mille contidove l’avete disegnata; ma per esser questa cosa del Papa, cosa nuova, etquesta altra, per tanti libri dedicatili, quasi horamai stucca, quelle cose chevengono prime et fresche ànno un certo che di buono, che poi quando si è fatto il callo non si stiman tanto; voi m’intendete meglio ch’io non dico(22).

Ad ogni buon conto la prima edizione delle Vite uscì conla dedica a Cosimo. La speranza di Vasari era di ingraziarsi ilduca con questa dedica e di far dimenticare a lui e alla corteil periodo passato al servizio del suo peggior nemico. Sebbe-ne Paolo III fosse morto (e poco dopo di lui, il 31 gennaio1550, era morto un altro acerrimo nemico dei Medici, il car-dinale Ridolfi), il cardinale Alessandro Farnese non desistevadalla politica antimedicea e organizzava insieme agli esuli fio-rentini a Roma le attività che avrebbero portato alla guerra

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te, che passava per andare al Conclavi, non gli ebbi sì tosto fatto riverenza et al-quanto ragionato, che mi disse: “Io vo a Roma, et al sicuro sarò papa. Spedisciti, sehai che fare, e subito, avuto la nuova, vientene a Roma sanza aspettare altri avvisi od’essere chiamato”. Né fu vano cotal pronostico, però che essendo quel carnovale inArezzo, e dandosi ordine a certe feste e mascherate, venne nuova che il detto car-dinale era diventato Giulio Terzo, per che montato subito a cavallo venni a Fioren-za, donde, sollecitato dal Duca, andai a Roma per esservi alla coronazione di dettonuovo Pontefice et al fare dell’apparato» [VI, 397].

(22) Il carteggio di Vincenzio Borghini, I (1541-1552), lettere in lingua italiana acura di D. Francalanci e F. Pellegrini, lettere in lingua latina a cura di E. Carrara,Firenze, S.P.E.S., 2001, p. 303. Per i problemi relativi all’edizione torrentiniana e inparticolare alla dedica dell’opera rimando a M. POZZI – E. MATTIODA, Giorgio Vasa-ri storico e critico, Firenze, Olschki, 2006, pp. 1-7.

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nel senese del 1554. La lettera con cui Vasari l’otto marzo del1550 accompagna l’invio al duca della prima copia delle Viteaffronta apertamente il punto del suo passato al servizio deiFarnese:

[…] Et ancora che per essere io subietto basso et non meriti favor nes-suno da Quella né venire in consideratione di sì gran principe, s’Ella ri-guardera alla servitù di XXII anni che ho fatto a la Illustrissima Casa Vo-stra, e con quanta devotione io abbi spettato che mi si comandi, ancor chenon sia stato messo da Vostra Eccelentia in opera, mercié forse d’un biasimoche per campar dallo stento mi è conuenuto andar a trouar di luogho in luo-gho chi mi metta in opera, ho fatto per servire ogni vilissima cosa: che se for-se io fussi stato dalla pietà di qualcuno, come soglion gli altri che si mettonoin opera, arei fatto forse frutti migliori. Ora, come io mi sia, non avendo al-tro obbietto né altra speranza che nella bontà e benignità Vostra, liberalis-simamente, oltra lo avervi fatto presente di me, vi porgho non le fatiche elo stento di duo mesi, ma quelle di dieci anni […] (23).

L’opposizione al ritorno di Vasari a Firenze era forse so-stenuta dagli artisti che lavoravano per Cosimo, come è statosostenuto traendo dubbie conseguenze dai severi giudizi diVasari su alcuni di essi (24); ma le critiche rivolte a Vasari nonerano di carattere artistico, bensì politico: Cosimo venivasconsigliato di portarsi in casa uno che a Roma era stato alservizio dei Farnese e che probabilmente aveva allacciato rap-porti con i fuoriusciti fiorentini. Dei contatti con la parte an-timedicea testimonia l’elenco delle copie della Torrentinianada inviare in omaggio a Roma (25): se si eccettuano il SignorBaldovino, cioè il fratello di Giulio III, e lo spagnolo cardi-nale di Burgos, l’elenco comprende quattro cardinali ostili aiMedici come Alessandro Farnese, Salviati, Georges d’Arma-gnac e Rodolfo Pio da Carpi (nunzio apostolico in Francia),e altre personalità che per motivi diversi si ritrovavano nellaparte antimedicea: Annibal Caro che stava con i Farnese, ilbanchiere Bindo Altoviti della cui posizione antimedicea sidirà tra poco, e Michelangelo. Vasari inviava in omaggio lecopie a queste personalità non solo per riconoscenza, ma an-

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(23) Il carteggio di Giorgio Vasari cit., p. 270 (corsivo mio).(24) A. PINELLI, La bella maniera cit.(25) Il carteggio di Giorgio Vasari cit., p. 281.

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che perché nel marzo del 1550 Roma si riproponeva comeuna scelta auspicabile, nonostante il matrimonio.

La dedica dell’opera a Cosimo non sortì immediatamentel’effetto sperato, alla fine del 1549, di una sistemazione defi-nitiva a Firenze. Vasari, dopo l’elezione al soglio pontificio diGiulio III, continuò a sognare una sistemazione definitiva aRoma. Nel giro di pochi mesi si dovette però rendere contoche Giulio III come committente non era all’altezza di PaoloIII e del nipote Alessandro Farnese: i continui ripensamentie le indecisioni di quel pontefice erano dovuti in gran partealla sua incapacità di dominare la corte; l’influenza dei corti-giani e dei cardinali era fonte di continua instabilità e rende-va impossibile una progettazione a medio termine. Una talesituazione riproduceva gli aspetti più negativi delle corti: nonil principe, ma i cortigiani detenevano il potere effettivo, e oc-correva adularli per giungere ad avere le commesse. Fu pro-babilmente in questo periodo che Vasari maturò la convin-zione che era preferibile aver a che fare con un committentedeciso, sovrano nelle sue decisioni, piuttosto che con una ple-tora di cortigiani, convinzione che egli avrebbe poi manife-stato apertamente nella Giuntina a proposito della fuga da Ve-nezia di Paris Bordon (cfr. infra § 2). Questa situazione do-vette fargli ricordare le sue meditazioni sulla follia umanaespresse nel 1538 a Ottaviano de’ Medici, come attesta un ca-pitolo poetico alla moglie Niccolosa Bacci riferibile con buo-na probabilità all’inizio del 1552 (26):

[…] Nessun si mosse mai che non andassiPer far un suo disegno, e la fortunaCol contrario suo far nol gliel guastassi,Sì che colui che assai cose ragunaDi ricchezze, muraglie e possessioniÈ un’ombra cieca al sciemo della luna!Per che le nostre vane openioni,Che fan disegni per perpetuarsi Quaggiù, che non son nostre abitationi,

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(26) Ai vv. 56-7 afferma: «Né ti dar passion ch’io ti prometto / Esser costì dicarnovale il giorno». Appunto tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo del 1552 Va-sari si mosse da Roma alla volta di Arezzo, cosa che non accadde negli altri anni.

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Color che pensier fanno in Dio fermarsiE da lui riconoscano ogni beneA quelli il Paradiso debba darsi. (vv. 10-21) (27).

A queste considerazioni faceva immediatamente seguito lacritica della corte:

Certo ch’io mertar debbo queste peneCh’io patisco, ogni giorno in questa corte,Che chi fa ben, quasi mal sempre gli viene.

Conosco ben che la mia vana sorte,Per acquistar più fama e più ricchezze, Mi tien lontan da te, cara Consorte. (vv. 22-27)

Il problema veniva individuato nella necessità di riunirsicon la moglie, ma la soluzione poteva venire solo dalla deci-sione del luogo in cui l’artista si sarebbe stabilito, in Toscanao a Roma:

Hor, poi che chiara io ho dal ciel la vista,E che’l mio mal conosco e la tuo voglia,Vo’ lasciar questa vita amara e trista:

Caverò te di pensier e me di dogliaCol venir io costà, o tu a Roma:Questo è un sì, ch’al cor mai più si spoglia. (vv. 40-45)

Vasari non era in grado di prendere una decisione. A spin-gerlo a lasciare Roma per tentare una problematica sistema-zione a Firenze fu la stanchezza di Giulio III e della sua cor-te. Dalla fine del 1551 Vasari tentò di liberarsi dalle commessepapali, ma non poté fare a meno di assolvere a un debito diospitalità che certo non deponeva a favore della sua fedeltàmedicea e della sua volontà di stabilirsi a Firenze. Infatti, peranni a Roma Vasari era stato ospitato dal grande banchiereBindo Altoviti: per ripagare l’ospitalità Vasari dovette affre-scare le logge del palazzo di Bindo in riva al Tevere. Fu unlavoro che eseguì in tre periodi compresi tra l’autunno del1551 e quello del 1553: e fu anche un lavoro eseguito di malavoglia, avendo ormai determinato di stabilirsi in Toscana, pos-sibilmente a Firenze al servizo di Cosimo, o piuttosto di es-sere un libero pittore che vive di commesse effimere e del pro-fitto dei terreni acquistati. Oltre alla volontà di svincolarsi da

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(27) Ricc. 2948, c. 30v (SCOTI BERTINELLI, Giorgio Vasari cit., p. 290).

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Giulio III, il malanimo di Vasari era forse dettato dal fattoche lavorare per Bindo Altoviti era altrettanto compromet-tente che lavorare per i Farnese. Infatti, dal 1549 e poi di-chiaratamente dal 1553, il banchiere (28) aveva sciolto il suonicodemismo politico e aveva preso decisamente posizione fi-nanziando i fuoriusciti antimedicei: ancora una volta Vasari sitrovava dalla parte sbagliata proprio quando progettava ditornare a Firenze ed entrare al servizio di Cosimo. Troppo,infatti, pesavano i suoi rapporti romani per permettergli di es-sere accolto a Firenze al servizio del duca: così scelse di fareun lungo soggiorno in Toscana dal novembre 1552 alla pri-mavera del 1553; e, nel novembre dello stesso 1553, dopoaver terminato di affrescare palazzo Altoviti, Vasari prese ladecisione di abbandonare definitivamente Roma e di trasfe-rirsi ad Arezzo per vivere insieme alla moglie, riprendendo adessere un pittore libero che viveva di ordinazioni da parte diordini religiosi o di privati.

Neppure questo taglio netto con Roma sortì subito l’effet-to sperato di una chiamata da parte di Cosimo; e nemmenole mediazioni del vescovo di Cortona Gian Battista Ricasoli edi quello di Arezzo Bernardetto Minerbetti riuscirono a ri-solvere in breve tempo la questione. Cosimo non prese unadecisione ma si limitò a commentare che vedeva Vasari nontroppo convinto e sempre sul piede di partenza a ogni ri-chiamo romano; si veda in proposito la lettera del Minerbet-ti a Vasari del 7 ottobre 1553:

Se voi dite da vero di voler mangiar l’oca a Arezzo, voi pagherete al de-bito cogniugale e vi reconcilierete con quel vostro Talassio che dentro allaporta di messer Ottaviano mi par che vi guardi con occhio bieco fin di qua.E consolando li amici, sgannerete il duca mio signor, che a ogni motto chedi voi li vien detto risponde: «E’ non ha fermezza», come quello che du-bita che dandovi qualche faccenda, o da Sua Santità o da altri interrotto ecorrotto, voi non lo piantiate (29).

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(28) Cfr. P. SIMONCELLI, Esuli fiorentini al tempo di Bindo Altoviti, in Ritratto diun banchiere del Rinascimento. Bindo Altoviti tra Raffaello e Cellini, a cura di A.Chong, D. Pegazzano, D. Zikos, Milano, Electa – Boston, Isabella Stewart GardnerMuseum, 2004, pp. 285-327.

(29) Il carteggio di Giorgio Vasari cit., p. 367. Il testo è stato ricontrollato sull’o-riginale conservato a Casa Vasari di Arezzo ed è stato perciò possibile correggere ladata e altre scorrettezze. Il mangiare l’oca è un riferimento alla data di San Martino.

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L’abbandono di Roma e il domicilio stabile ad Arezzo do-vettero convincere Cosimo; ma proprio tra il 1553 e il 1554si verificò la ripresa della guerra con i fuoriusciti fiorentini cheavevano invaso il senese e giunsero a minacciare Firenze. Sol-tanto un evento storico che mettesse fine alle speranze deifuoriusciti poteva far realizzare nello stesso tempo le speran-ze di Vasari e permettere a Cosimo una politica artistica digrande respiro: questo avvenne il 2 agosto del 1554 a Mar-ciano, dove l’esercito dei fuoriusciti agli ordini di Piero Stroz-zi subì la disfatta definitiva da parte delle truppe ducali al co-mando del Marignano. A quel punto le speranze dei repub-blicani fiorentini tramontarono definitivamente; Cosimo, no-nostante la continuazione della guerra di Siena, poteva impo-stare una politica artistica degna di un principe e Vasari nonera più sospetto di vicinanza al nemico: nemmeno quattromesi dopo, nel dicembre 1554, veniva chiamato al servizio diCosimo. La successiva collaborazione di Vasari alla politicaurbanistica e artistica di Cosimo è cosa nota; alcuni annidopo, quando era ormai papa quel Pio V che impostò unapolitica di stretta alleanza con Cosimo, Vasari potè indirizza-re al papa una sonettessa in una delle cui code celebrava ilsuo allontanamento dai Farnese:

Colui che fu già nostro,Dirà Farnese, è stato conosciuto Le sua virtù; or ce l’haviàn perduto (30).

E in un sonetto Al Granduca Cosimo (dunque posterioreal 1569 – se è giusto il titolo riportato dal Ricc. 2948 – annoin cui Pio V assegna il titolo granducale a Cosimo) Vasari po-teva finalmente scrivere l’epitaffio e porre la pietra tombalesulle passate indecisioni tra Firenze e Roma:

Tuo son e sarò, fin che quest’almaSta drento a questa spoglia, e poscia speroViver per l’opre mie con teco al paro.

Per te la virtù mia vive oggi in calmaNé spera più nel successor di PietroMa in te, che troppo m’ami e mi tien’ caro (31).

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(30) Ricc. 2948, c. 4r (SCOTI BERTINELLI, Giorgio Vasari cit., p. 265).(31) Ricc. 2948, c. 12r (Ivi, p. 273) con probabili errori del copista secentesco

(‘Pietro’ per ‘Piero’, ecc.).

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2. Architettura e politica

Il percorso che abbiamo cercato qui di riassumere ha avu-to effetti decisivi sul pensiero e sull’opera letteraria di Vasari;ma la maturazione intellettuale e artistica di Vasari a Roma siè probabilmente nutrita, oltre che dei rapporti con il gruppodei letterati farnesiani, anche dei rapporti con i repubblicanifiorentini e con il pensiero politico e storiografico elaborato aFirenze dopo il 1494 per cercare di spiegare gli imprevisti mu-tamenti nella politica locale e internazionale: un pensiero che,soprattutto per quanto riguarda Machiavelli e Guicciardini, halasciato tracce evidenti nell’opera di Vasari. Se allora ebbecontatti diretti con i fuoriusciti fiorentini a Roma, Vasari cercòpoi di cancellarli accuratamente nel periodo in cui fu al ser-vizio di Cosimo. Proprio un silenzio molto interessante di Va-sari potrebbe rimandare ai contatti con gli esuli fiorentini: miriferisco al suo silenzio su chi lo ha minutamente informatosull’attività degli artisti italiani alla corte di Francia. Vasari inFrancia non andò mai e non può aver visto le opere là ese-guite dagli artisti italiani, da fra Giocondo a Leonardo, finoal Rosso Fiorentino, Paris Bordon e Francesco Primaticcio:qualcuno che stava a Parigi deve averlo informato e Vasari,altrove sempre pronto a ringraziare chi gli ha fornito raggua-gli (32), su questo punto tace. Il problema in questione è sta-to oggetto di esame dal punto di vista ristretto della criticaleonardesca, ma credo vada affrontato dal punto di vista piùampio delle notizie che Vasari poté avere dalla Francia. Cer-to la descrizione che Vasari fa di Monna Lisa pone grossi pro-blemi (33). Ma, nel caso Vasari non abbia mai visto quel qua-dro, doveva allora fidarsi ciecamente del suo informatore del-le cose francesi visto che valuta il dipinto col suo metro digiudizio più alto in assoluto (34), quello della produzione di«timore e tremore» negli intendenti e negli artefici, giudizio

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(32) Cfr. POZZI- MATTIODA, Giorgio Vasari storico e critico cit., pp. 70-71.(33) Cfr. almeno F. ZÖLLNER, Leonardo's Portrait of Mona Lisa del Giocondo, in

«Gazette des Beaux-Arts», CXXI, 1993, pp. 115-138; C. VECCE, Leonardo, Roma, Sa-lerno editrice, 1998, pp. 256-59, 324-26 e 332-336

(34) Sui criteri di giudizio di Vasari rimando a POZZI - MATTIODA, Giorgio Vasa-ri storico e critico cit., pp. 231-260.

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che assegna a sole due altre opere: la cupola di Brunelleschie il Giudizio universale di Michelangelo.

Una spia dell’ambiente da cui gli giunsero le informazionipuò venire da un aneddoto su uno scherzo subito da fra Gio-condo alla corte di Francia, aneddoto aggiunto nella Giunti-na del 1568: qui Vasari ci dice che l’informazione gli è statafornita da Donato Giannotti. È improbabile che Giannotti siala fonte diretta delle informazioni sugli artisti in Francia, an-che perché non è certo che sia mai stato a Parigi (sicuramenteandò due volte a Lione per conto del cardinale di Tournon),ma la presenza dell’ex segretario dei dieci della repubblica fio-rentina del 1527-30 sembra aprire uno spiraglio verso le fre-quentazioni romane di Vasari. Certo entrambi a Roma fre-quentavano Michelangelo, attorno al quale si radunavano al-tri fiorentini, dei quali è talvolta difficile riconoscere la posi-zione politica: è certo, invece, che rispetto ai pochi personag-gi citati nella Torrentiniana (Tommaso de’ Cavalieri, Bindo Al-toviti, Gherardo Perini, Bartolomeo Bettini), nella Giuntinal’elenco si allunga a comprendere Tiberio Calcagni, FrancescoBandini, Uberto Ubaldini, Tommaso de’ Bardi, il cardinale Ri-dolfi. Giannotti viene citato più volte nella Giuntina, segno diuna certa frequentazione, e forse i due si erano rivisti duran-te il soggiorno di Vasari a Venezia nel 1566: la sua presenza,come quella degli altri, nella Giuntina indica che a quel tem-po Vasari riteneva talmente sicura la sua posizione a Firenzeda poter citare anche i fedeli sostenitori della repubblica, masembra essere anche un omaggio a uno degli ultimi pensato-ri politici, verso cui mostra stima anche quando è in disac-cordo con le sue idee. Un confronto con le idee di DonatoGiannotti è forse ravvisabile nella vita di Paris Bordon, cheoffre un modello alternativo a quella di Tiziano che la prece-de: Vasari cerca qui di smontare il mito repubblicano di Ve-nezia, mito ben presente nella cultura politica non solo fio-rentina, ma che aveva trovato la sua sistemazione più organi-ca nel Della Repubblica de’ Viniziani del Giannotti: egli negala mitizzazione dell’ordinamento veneziano come esempio digoverno misto e afferma come sulla laguna prevalgano inte-ressi privati e di parte:

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Ma conoscendo Paris che a chi vuole essere adoperato in Vinezia biso-gna far troppa servitù in cortegiando questo e quello, si risolvé, come uomodi natura quieto e lontano da certi modi di fare, ad ogni occasione che ve-nisse andare a lavorare di fuori quell’opere che innanzi gli mettesse la for-tuna, senza averle a ire mendicando; per che trasferitosi con buona occa-sione l’anno 1538 in Francia al servizio del re Francesco, gli fece molti ri-tratti di dame et altri quadri di diverse pitture […] E questo basti aver det-to di Paris, il quale essendo d’anni settantacinque, se ne sta con sua co-modità in casa quietamente, e lavora per piacere a richiesta d’alcuni prìn-cipi et altri amici suoi, fuggendo la concorrenza e certe vane ambizioni pernon essere offeso e perché non gli sia turbata una sua somma tranquillitàe pace da coloro che non vanno (come dice egli) in verità, ma con doppievie, malignamente e con niuna carità, là dove egli è avezzo a vivere sem-plicemente e con una certa bontà naturale, e non sa sottilizzare, né vivereastutamente. [VI, 172-3]

Niente di strano, si dirà: è prevedibile che nel 1568 il fe-dele suddito di Cosimo I non condivida il mito repubblicanood oligarchico di Venezia; ma qui c’è di più, c’è tutta la di-stanza tra la nuova generazione che preferiva la pace garanti-ta dal sovrano, e la vecchia che rivendicava la libertà repub-blicana: non solo per Vasari quello della repubblica è un mitosuperato, ma è molto meglio per l’artista servire un sovranoassoluto, piuttosto che un governo repubblicano oligarchico;quest’ultimo avviluppa l’artista in una ragnatela di clientele,di servitù e di speranze per lo più deluse; molto meglio allo-ra il rapporto diretto, seppur rischioso, con il principe. Lacondizione dell’arte moderna non prevede più spazio per trat-tative esasperanti né reti di salvataggio come potevano esserele botteghe e le corporazioni: il rapporto diretto dell’artistacon il committente, che Vasari fa iniziare con Leonardo (lacui vita non a caso apre la terza e ultima età dell’arte), ha fat-to finire la tradizione delle botteghe e ha condotto a un di-verso ruolo dell’artista. Il rapporto tra il grande committente(che sia il re di Francia o il duca di Firenze) e l’artista vieneletto da Vasari come un rapporto di forza asimmetrico che ri-chiede da parte dell’artista il raggiungimento di una grandestatura morale e intellettuale per saper fronteggiare l’interlo-cutore. Gran parte della riflessione vasariana è dedicata pro-prio a delineare come l’artista debba maturare la propria Bil-dung e giungere a comportarsi davanti alle situazioni diverseche la fortuna gli propone. È questa una teorizzazione che gli

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sarebbe stata impossibile senza la lezione e il linguaggio deglistorici fiorentini e di Machiavelli in particolare.

Vasari fa risalire al suo primo periodo romano lo studio del-l’architettura, ma è probabile che in quel tempo abbia con-dotto, o almeno approfondito, anche lo studio degli scrittoridi storia e di politica (35), visto il fruttuoso scambio di con-cetti e di termini tra i due ambiti nella sua opera. L’uso dellessico architettonico nelle teorie politiche del Rinascimento ècosa nota (36); quello che stupisce in Vasari è il processo in-verso: l’uso del linguaggio politico per descrivere i mutamentiartistici. Vasari non solo ha usato i concetti principali della sto-riografia “politica” per costruire la sua visione della storia del-l’arte ma, per di più, dove non aveva un lessico per indicarecerti avvenimenti o categorie artistiche, lo ha mutuato dal lin-guaggio della politica. Il caso più evidente mi sembra quellodel termine licenzia, che viene inserito da Vasari all’interno diuna rete lessicale di termini, come “ordini” e “regola”, com-presenti con connotazioni diverse nel linguaggio politico e inquello architettonico. Nella ricostruzione storica di Vasari, l’ar-te del Quattrocento aveva iniziato il recupero della conoscen-za dell’antico: in particolare Brunelleschi e Donatello nella pra-tica e Alberti anche a livello teorico avevano imposto la ripre-sa delle simmetrie e delle leggi architettoniche antiche, quelleche anche in Vasari contribuiscono a precisare la regola, e ave-vano distinto e imposto i vari ordini architettonici. Ma se il tar-do Quattrocento aveva seguito con studiata accuratezza (equindi con affettazione) la regola e gli ordini, il Cinquecentointroduce una funzione liberatoria, anarchica proprio rispettoalla regola e agli ordini, ed è questa che per analogia col lin-guaggio politico Vasari chiama licenzia. Il concetto di licenza,

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(35) Vasari giunge a Roma all’inizio del 1538 su invito del cardinale Ippolito de’Medici. In quel periodo la clientela del cardinale, insieme a quella di Giovanni Gad-di (che comprende, tra gli altri, Caro e Varchi) è impegnata nella preparazione del-l’edizione delle opere di Machiavelli. Cfr. LO RE, op. cit., pp. 170-71.

(36) Oltre alle pagine di J.W. WHITFIELD, On Machiavelli’s Use of Ordini, in ID.,Discourses on Machiavelli, Cambridge, W. Heffers & Sons, 1969, pp. 141-162, misembra fondamentale l’analisi del lessico politico machiavelliano condotta da J.L.FOURNEL e J.C. ZANCARINI, Sur la langue du «Prince»: des mots pour comprendre etagir, in MACHIAVEL, Le Prince – De principatibus, Paris, P.U.F., 2000, pp. 545-610. Sivedano anche le considerazioni di F. BRUNI, La città divisa. Le parti e il bene comu-ne da Dante a Guicciardini, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 461-62.

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che limitatamente alla pittura coincide con quello castiglione-sco di sprezzatura, viene elaborato e definito da Vasari all’in-terno di una rete lessicale propria del linguaggio politico:

[…] mancandoci ancora nella regola, una licenzia, che non essendo di re-gola, fosse ordinata nella regola e potesse stare senza fare confusione o gua-stare l’ordine, il quale aveva bisogno d’una invenzione copiosa di tutte lecose e d’una certa bellezza continuata in ogni minima cosa, che mostrassetutto quell’ordine con più ornamento (IV, 5).

Vasari sostituisce a sprezzatura il termine licenza, probabil-mente avendo in mente l’uso che di questo vocabolo facevala storiografia non solo fiorentina come della forma degene-rata della democrazia. All’interno della sua costruzione pro-gressiva della storia dell’arte, dalla rinascita verso la perfezio-ne, Vasari si occupa anche di indagare quali siano le forze chepossono portare alla decadenza. Posso supporre (ma non pro-vare) che avesse in mente in particolare quel passo del Proe-mio al quarto libro delle Istorie fiorentine, dove Machiavellioppone le città ben «ordinate», quelle cioè che sono fondatesu buone leggi e su un governo misto, a quelle che possonoessere preda della licenza (37). Vasari assume allora dal lin-guaggio politico il termine licenzia in opposizione alla regolae agli ordini, che ha appena teorizzato come principi dell’ar-te insieme alla misura, al disegno e alla maniera, ma che era-no termini fondamentali della discussione politica sullo stato.Per i trattatisti d’arte precedenti, e per Alberti in particolare,la regola, cioè la legge in architettura, è ripresa dagli edificiantichi; gli ordini sono i differenti stili architettonici; la misu-ra è la proporzione nelle membra, ecc. Vasari sostiene che laterza età dell’arte ha saputo raggiungere la perfezione perchéin questi cinque principi ha inserito una licenzia, un principioanarchico che è stato «ordinat[o] nella regola»: teorizza, cioè,

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(37) «Le città, e quelle massimamente che non sono bene ordinate, le quali sot-to nome di republica si amministrano, variano spesso i governi e stati loro, non me-diante la libertà e la servitù, come molti credono, ma mediante la servitù e la licen-za. Perché della libertà solamente il nome dai ministri della licenza, che sono i po-polani, e da quegli della servitù, che sono i nobili, è celebrato, desiderando qualun-que di costoro non essere né alle leggi né agli uomini sottoposto». Si veda ancora:Istorie fiorentine, VIII, 29; Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, I, 2 -3; I, 47. DiGuicciardini si tengano almeno presenti Storia d’Italia, II, 2 e V, 9.

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la perfezione dell’arte alla stregua dello stato ben regolato, incui la regola e gli ordini possono prevedere la trasgressione.Tradotto nel linguaggio dell’arte significa trovare un principiodi libertà all’interno del classicismo, inglobare l’invenzionedentro alle regole, agli ordini, alle misure. Da un punto di vi-sta terminologico Vasari riprende il lessico dei teorici del clas-sicismo, Alberti in particolare, ma lo rivolta contro di loro ini-ziando la critica alla regola matematica delle proporzioni e allasimmetria degli ordini (38). D’altro canto, le conseguenze diuna simile teorizzazione per l’impianto storico complessivodell’opera vasariana non sono di poco conto: se la licenza èoriginariamente una forza disgregatrice, quella che più di ognialtra spinge verso la decadenza, l’averla regolata dentro la leg-ge significa averle posto un freno, aver dato un governo cosìperfetto all’arte che molto difficilmente potrà ripiombare inuna decadenza generalizzata, in un disordine degli ordini: l’u-nica decadenza possibile potrà essere a questo punto quellapersonale dell’artista che smette di studiare e si limita a «ti-rar di pratica».

L’aver inglobato la licenza nella regola permette un passoin avanti finale, soprattutto per quanto riguarda l’architettu-ra, in cui si passa dalla sgraziata «regola senza regola» degliarchitetti del Duecento al superamento degli ordini nell’ordi-ne composito (un ordine senza ordine, si potrebbe dire) ot-tenuto da Michelangelo grazie alla licenzia nella sacrestia diSan Lorenzo a Firenze:E perché egli la volse fare ad imitazione della sagrestia vecchia, che Filip-po Brunelleschi aveva fatto, ma con altro ordine di ornamenti, vi fece den-tro uno ornamento composito, nel più vario e più nuovo modo che pertempo alcuno gli antichi et i moderni maestri abbino potuto operare; per-ché nella novità di sì belle cornici, capitegli e base, porte, tabernacoli e se-polture, fece assai diverso da quello che di misura, ordine e regola faceva-no gli uomini secondo il comune uso e secondo Vitruvio e le antichità, pernon volere a quello agiugnere. La quale licenzia ha dato grande animo aquelli che hanno veduto il far suo di mettersi a imitarlo, e nuove fantasiesi sono vedute poi alla grottesca più tosto che a ragione o regola, a’ loroornamenti. Onde gli artefici gli hanno infinito e perpetuo obligo, avendoegli rotti i lacci e le catene delle cose, che per via d’una strada comune egli-no di continuo operavano [VI, 54-55].

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(38) Cfr. POZZI - MATTIODA, Giorgio Vasari storico e critico cit., pp. 260-283.

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Il fatto che Vasari abbia scritto una storia degli artisti hain qualche modo ostacolato la percezione della sua operacome una delle grandi opere della storiografia rinascimentale;si è studiata parzialmente la sua concezione della storia, manon si è tenuto conto dei modelli storiografici recenti che glipermisero di giungere a pensare e organizzare un’opera cosìcomplessa. Eppure Vasari, sostenendo di essersi ispirato aglistorici, si riferiva non certo ai vecchi cronisti (39) ma alla mo-derna storiografia, in particolare a quella fiorentina: gli stori-ci e i teorici della politica che cita sono Machiavelli, Guic-ciardini (di cui conosceva, probabilmente attraverso la copiamanoscritta in mano di Vincenzio Borghini, la Storia d’Italiache poi userà ampiamente nei Ragionamenti) e Donato Gian-notti (40).

Vasari rivendica la sua condizione di storico, non di cro-nachista o di raccoglitore di notizie; quello che lo distingueda questi ultimi è l’attenzione alla prudenza, o pietà o ma-gnanimità, che gli uomini usano nelle loro azioni; l’indaginesulle cause, i rapporti, le decisioni e le motivazioni delle azio-ni per giungere alla storia come insegnamento:

Quando io presi primieramente a descrivere queste Vite, non fu mia in-tenzione fare una nota delli artefici et uno inventario, dirò così, dell'opereloro, né giudicai mai degno fine di queste mie, non so come belle, certolunghe e fastidiose fatiche, ritrovare il numero et i nomi e le patrie loro, etinsegnare in che città et in che luogo appunto di esse si trovassino al pre-sente le loro pitture o sculture o fabriche; ché questo io l'arei potuto farecon una semplice tavola, senza interporre in parte alcuna il giudizio mio.Ma vedendo che gli scrittori delle istorie, quegli che per comune consensohanno nome di avere scritto con miglior giudizio, non solo non si sono con-tentati di narrare semplicemente i casi seguiti, ma con ogni diligenza e conmaggior curiosità che hanno potuto, sono iti investigando i modi et i mez-

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(39) Eccezion fatta per Villani che, insieme alla Storia d’Italia di Guicciardini, èanche una delle fonti più importanti per i Ragionamenti in cui Vasari spiega le alle-gorie dei dipinti eseguiti a Palazzo Vecchio.

(40) Le Vite di Vasari agirono anche in senso inverso: indussero altri storici aprecisare o correggere le proprie notizie. È il caso della correzione che BenedettoVarchi apportò in un manoscritto della Storia fiorentina. Nel quarto libro attribuivaa Giotto la tavola dell’Annunziata conservata nella «chiesa dei frati dei Servi»: nelmanoscritto indicato da Simone Albonico come RC4 compare una correzione auto-grafa che sposta l’attribuzione a Pietro Cavallini, in seguito alla conoscenza delle Vitevasariane (cfr. Storici e politici fiorentini del Cinquecento, a cura di A. Baiocchi, testia cura di S. Albonico, Milano-Napoli, Ricciardi, 1994, pp. 1089-90).

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zi e le vie che hanno usati i valenti uomini nel maneggiare l'imprese, e son-si ingegnati di toccare gli errori, et appresso i bei colpi e' ripari e' partitiprudentemente qualche volta presi ne' governi delle faccende, e tutto quel-lo insomma che sagacemente o straccuratamente, con prudenza o con pietào con magnanimità hanno in esse operato, come quelli che conoscevano laistoria essere veramente lo specchio della vita umana, non per narrareasciuttamente i casi occorsi a un principe o d'una republica, ma per av-vertire i giudizii, i consigli, i partiti et i maneggi degli uomini, cagione poidelle felici et infelici azzioni; il che è proprio l'anima dell'istoria; e quelloche invero insegna vivere e fa gli uomini prudenti, e che appresso al piacereche si trae del vedere le cose passate come presenti, è il vero fine di quella;per la qual cosa avendo io preso a scriver la istoria de' nobilissimi artefici,per giovar all'arti quanto patiscono le forze mie, et appresso per onorarle,ho tenuto quanto io poteva, ad imitazione di così valenti uomini, il mede-simo modo; e mi sono ingegnato non solo di dire quel che hanno fatto, madi scegliere ancora discorrendo il meglio dal buono, e l'ottimo dal miglio-re, e notare un poco diligentemente i modi, le arie, le maniere, i tratti e lefantasie de' pittori e degli scultori; investigando, quanto più diligentemen-te ho saputo, di far conoscere a quegli che questo per se stessi non sannofare, le cause e le radici delle maniere e del miglioramento e peggioramen-to delle arti accaduto in diversi tempi et in diverse persone. [III, 3-4]

È all’interno di questa impostazione che il giudizio storico vie-ne a fare i conti con un concetto ben noto della storiografiarinascimentale, quello di qualità de’ tempi (41), che Vasari ri-chiama nel Proemio alla seconda età in un paio di afferma-zioni tese a stabilire una sorta di relativismo storico nell’ap-plicazione del giudizio artistico:

Bene è vero che quantunque la grandezza delle arti nasca in alcuno da ladiligenza, in un altro da lo studio, in questo da la imitazione, in quello dala cognizione delle scienzie che tutte porgono aiuto a queste, e in chi da lepredette cose tutte insieme o da la parte maggiore di quelle, io nientedi-manco, per avere nelle vite de’ particolari ragionato a bastanza de’ modi del’arte, de le maniere e de le cagioni del bene e meglio e ottimo operare diquelli, ragionerò di questa cosa generalmente, e più presto de la qualità de’tempi che de le persone, distinte e divise da me, per non ricercarla troppominutamente, in tre parti, o vogliamole chiamare età, da la rinascita di que-ste arti sino al secolo che noi viviamo, per quella manifestissima differenzache in ciascuna di loro si conosce (III, 5-6).

Ma chi considererà la qualità di que’ tempi, la carestia degli artefici, la dif-ficultà de’ buoni aiuti, le terrà non belle, come ho detto io, ma miracolo-se, e arà piacere infinito di vedere i primi principii e quelle scintille di buo-no che nelle pitture e sculture cominciavono a risuscitare (III, 13-4).

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(41) Cfr. in proposito J.L. FOURNEL e J.C. ZANCARINI, Sur la langue du «Prince» cit.

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Il giudizio sui pittori e sulla loro importanza è relativo alla«qualità de’ tempi», deve cioè tener conto delle conoscenze edella situazione in cui gli artisti si trovarono ad agire. È inquesto ambito che si rivela l’importanza che Vasari doveva at-tribuire al XXV capitolo del Principe di Machiavelli, sul qua-le doveva aver attentamente meditato e che viene tacitamen-te richiamato più volte nel corso dell’opera: non solo in quel-le poche pagine poteva ritrovare due volte l’espressione «qua-lità de’ tempi», ma poteva rinvenire la caratterizzazione dipapa Giulio II come «impetuoso», che riprende per dram-matizzare il rapporto tra il papa e Michelangelo:

Ma tanto quanto più ricusava, tanto maggior voglia ne cresceva al Papa,impetuoso nelle sue imprese, e per arroto di nuovo dagli emuli di Miche-lagnolo stimolato, e spezialmente da Bramante, che quasi il Papa, che erasùbito, si fu per adirare con Michelagnolo. [...]. Là dove condottola finoalla metà, il Papa, che v’era poi andato a vedere alcune volte per certe sca-le a piuoli aiutato da Michelagnolo, volse che ella si scoprissi, perché eradi natura frettoloso e impaziente, e non poteva aspettare ch’ella fussi per-fetta e avessi avuto, come si dice, l’ultima mano (VI, 33-37).

Ma, ancor più del giudizio storico, è il rapporto dell’artistacol gusto del tempo e con la committenza che viene delinea-to in modo prettamente machiavelliano. L’artista ha un carat-tere (“impetuoso” o “respettivo”, si potrebbe dire con Ma-chiavelli) e uno stile: se questi si accordano con quanto ri-chiesto dalla committenza e dalla «qualità de’ tempi» ha for-tuna; se invece discordano, non ha un successo, quanto a de-naro e fama, pari alle sue capacità artistiche. Il «riscontrarsi»col tempo, il possedere le doti che si accordano a quanto èrichiesto dai tempi è la maggior fortuna per l’artista come peril principe machiavelliano. Quanto Vasari scrive a propositodi Antonio Pollaiolo potrebbe figurare come chiosa al capi-tolo XXV del Principe:

Ebbe nel tempo suo felicissima vita, trovando pontefici ricchi e la sua cittàin colmo, che si dilettava di virtù; per che molto fu stimato: dove se forseavesse avuto contrari i tempi, non avrebbe fatto que’ frutti che e’ fece, es-sendo inimici molto i travagli alle scienze delle quali gli uomini fanno pro-fessione e prendono diletto (III, 508).

Vasari sa bene che l’artista non ha la possibilità di scontrarsi

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con un potente come il papa o come un sovrano; è in un rap-porto di subordinazione e deve ringraziare quando viene pa-gato: il rapporto di forza è troppo asimmetrico. Una via per-corribile sarebbe utilizzare dei cortigiani come intermediari esopra tutto ripetere le richieste fino a raggiungere lo scopoper sfinimento dell’avversario; per far questo occorre però es-sere dotati di animo adeguato; artisti grandissimi ma eccessi-vamente timidi, come Andrea del Sarto o Baldassarre Peruz-zi, non sono adatti a gestire un rapporto di committenza comequello richiesto dai tempi moderni: si trovano bene se incon-trano il committente generoso, ma non riescono a conclude-re degnamente la contrattazione se devono continuamentechiedere denaro; non sanno adattarsi ai tempi e alle necessità.La riflessione a proposito di Peruzzi nel definire i rapporti fraartista e committente sembra appunto ricalcare l’opposizionemachiavelliana tra impetuosi e respettivi:

Ma ancorché tante fussero le virtù e le fatiche di questo nobile artefice, ellegiovarono poco nondimeno a lui stesso e assai ad altri, perché, se bene fuadoperato da papi, cardinali e altri personaggi grandi e ricchissimi, nonperò alcuno d’essi gli fece mai rilevato benefizio; e ciò poté agevolmenteavvenire non tanto dalla poca liberalità de’ signori, che per lo più menosono liberali dove più doverrebbono, quanto dalla timidità e troppa mode-stia, anzi, per dir meglio in questo caso, dappocaggine di Baldassarri. E perdire il vero, quanto si deve esser discreto con i principi magnanimi e libe-rali, tanto bisogna essere con gl’avari, ingrati e discortesi, importuno sempree fastidioso: perciò che, sì come con i buoni l’importunità e il chieder sempresarebbe vizio, così con gl’avari ell’è virtù, e vizio sarebbe con i sì fatti esserediscreto (IV, 325).

Per Vasari soltanto Michelangelo, straordinario anche in que-sto, saprà adeguarsi ai tempi e alle necessità, essere impetuo-so o respettivo e giungere fino a scontrarsi con Giulio II e congli altri pontefici. L’aneddoto relativo ai denari anticipati daparte sua per pagare i marmi e la susseguente fuga da Romaserve a mettere in luce questa lotta titanica contro il poterepolitico ed economico che Michelangelo intraprende da soloe che costituisce un punto fondamentale del riconoscimentogiuridico ed economico dell’artista:

Dicesi che, mentre che Michelagnolo faceva questa opera, venne a Ripa tut-to il restante de’ marmi per detta sepoltura, che erano rimasti a Carrara, e

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quali fur fatti condurre cogl’altri sopra la piazza di San Pietro: e perché bi-sognava pagarli a chi gli aveva condotti, andò Michelagnolo, come era so-lito, al Papa; ma avendo Sua Santità in quel dì cosa che gli importava perle cose di Bologna, tornò a casa e pagò di suo detti marmi, pensando aver-ne l’ordine subito da Sua Santità. Tornò un altro giorno per parlarne alPapa, e trovato dificultà a entrare, perché un palafreniere gli disse che aves-si pazienzia, che aveva commessione di non metterlo drento, fu detto daun vescovo al palafreniere: «Tu non conosci forse questo uomo». «Troppoben lo conosco – disse il palafrenieri, – ma io son qui per far quel che m’ècommesso da’ miei superiori e dal Papa». Dispiacque questo atto a Mi-chelagnolo, e parendogli il contrario di quello che aveva provato innanzi,sdegnato rispose al palafrenieri del Papa, che gli dicessi che da qui innan-zi quando lo cercava Sua Santità essere ito altrove; e tornato alla stanza, adue ore di notte montò in sulle poste lasciando a due servitori che ven-dessino tutte le cose di casa ai giudei e lo seguitassero a Fiorenza, dove eglis’era avviato (VI, 29).

Il rapporto tra la grandezza dell’artista e il potere del com-mittente viene anche presentato da Vasari secondo un'altraopposizione di termini: cioè, come la ricerca di un giusto mez-zo tra la «discrezione» del committente e la «pacienza», cioèla sopportazione dell’artista. I due termini vengono introdot-ti nella narrazione di un aneddoto risalente al secolo prece-dente, aneddoto che doveva avere una sua tradizione a Romae che Paolo Cortesi (42) aveva già narrato nel 1510. Vasari(con tutta probabilità senza conoscere il De cardinalatu) deveaverlo sentito raccontare a Roma e lo ripropone al grandepubblico in una versione addolcita, se si vuole, ma più co-struttiva. L’aneddoto riguarda Andrea Mantegna che cerca dirimproverare papa Innnocenzo VIII che non paga puntual-mente il pittore e che sembra non aver discernimento, «di-screzione» nel riconoscere i grandi artisti:

Dicesi che il detto Papa, per le molte occupazioni che aveva, non dava cosìspesso danari al Mantegna come egli arebbe avuto bisogno, e che perciò

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(42) P. CORTESII De cardinalatu, In castro cortesio, 1510, c. 87v : «Nam cum sa-cellum in suburbano palatino picturis ornare decrevisset, Andreamque Mantegnem,qui tum maxime frugi ac verecundus naturae imitator in pingendo putaretur, spon-te conductum adhibuisset atque is cum primo quoque tempore ad eum venisset, bien-niique prope spatium pinxisset, nec assem quidem ab eo accoepisset, statuissetquepro eo quod erat ingeniosus et pictor, aliqua ei interpunctione salis tenacem remu-nerandi procrastinationem exprobare, simulachrum muliebri specie adultaque aetateinchoasse dicitur, quod cum Innocentius aspexisset, quis essetque ex eo quae namesset illa tam decursa aetate anus. Atque is ingratidudinem esse respondisset, com-mode inquit prope posset patientia pingi».

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nel dipignere in quel lavoro alcune virtù di terretta, fra l'altre vi fece la di-screzione; onde andato un giorno il papa a vedere l'opra, dimandò Andreache figura fusse quella, a che rispose Andrea: «Ell'è la discrezione». Sog-giunse il pontefice: «Se tu vuoi che ella sia bene accompagnata, falle a can-to la pacienza». Intese il dipintore quello che perciò voleva dire il SantoPadre, e mai più fece motto. Finita l'opera, il Papa con onorevoli premii emolto favore lo rimandò al duca (III, 553).

Pure l’artista deve però usare la discrezione nel suo lavoro:

Bisogna poi che ’l pittore abbia risguardo a farle [le prospettive] con pro-porzione sminuire con la dolcezza de’ colori, la qual’è nell’artefice una ret-ta discrezione et un giudicio buono [I, 120]

Anche qui Vasari riprende un concetto forte come quello didiscrezione e gli mette accanto il «buon giudicio» che sembrarichiamare un concetto forte dell’epoca rinascimentale, bennoto dal Cortegiano di Castiglione fino al Guicciardini: inrealtà l’espressione anche qui è ambigua, perché per Vasari ilgiudicio è la capacità di valutare l’effetto che l’opera d’artefarà sulla percezione visiva e di preferire questo alla regola eal rispetto della misura: il giudicio insieme alla grazia è parteintegrante di quella licenzia di cui si diceva sopra.

Il ricorso alla discrezione è necessario anche nella direzio-ne opposta: l’artista va premiato, ma non con un vitalizio chegli tolga la voglia di lavorare. Chi raggiunge una condizioneagiata difficilmente continua a lavorare con l’impegno di pri-ma. Nella prima età fu questo il caso di Agnolo Gaddi: allo-ra l’arte poteva arricchire un bravo artista, ma era probabil-mente più redditizia la professione di mercante, almeno a cer-ti livelli, come il caso di Agnolo sembra dimostrare. Al tem-po di Vasari la situazione era profondamente mutata: la crisidi un’istituzione come la bottega, l’affrancamento dalle cor-porazioni, le commissioni di grandi monarchi e banchieri po-tevano far raggiungere, come abbiamo già indicato, un livelloeconomico che Vasari non esitava a definire principesco. Que-sta condizione poteva allontanare dalla pratica dell’arte anchechi vi si era dedicato con tutte le proprie forze e costituire undanno per il progresso dell’arte. È quanto accade a Sebastia-no del Piombo che, assunto un ufficio fin troppo ben remu-nerato come quello del piombo, smette quasi di dipingere e

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quando lo fa sembra esservi costretto; di qui una riflessionesulle onorificenze con cui possono essere premiati gli artisti:

Da che si può conoscere quanto s’inganni il discorso nostro e la poca pru-denza umana, che bene spesso, anzi il più delle volte, brama il contrario diciò che più ci fa di mestiero, e credendo segnarsi (come suona il proverbiotosco) con un dito, si dà nell’occhio. È comune opinione degl’uomini chei premii e gl’onori accendino gl’animi de’ mortali agli studii di quell’arti chepiù veggiono essere rimunerate, e che per contrario gli faccia stracurarle eabbandonarle il vedere che coloro, i quali in esse s’affaticano, non siano da-gl’uomini che possono riconosciuti; e per questo gl’antichi e moderni in-sieme biasimano quanto più sanno e possono que’ prìncipi che non sollie-vano i virtuosi di tutte le sorti, e non dànno i debiti premii e onori a chivirtuosamente s’affatica; e comeché questa regola per lo più sia vera, si vedepur tuttavia alcuna volta la liberalità de’ giusti e magnanimi prìncipi ope-rare contrario effetto, poiché molti sono di più utile e giovamento al mon-do in bassa e mediocre fortuna, che nelle grandezze e abbondanze di tuttii beni non sono (V, 96).

La nuova dignità dell’arte richiede che l’artista sia compensa-to adeguatamente ma non più del necessario. Gli artisti aspi-rano, però, anche ad altre gratificazioni, al di là dell’arricchi-mento: la riflessione di Vasari su come l’artista possa esserepremiato è alla base di una linea di pensiero che arriverà finoal XVIII secolo e con cui si confronterà ancora l’Alfieri delDel principe e delle lettere. Durante la civiltà comunale il ri-conoscimento più grande che gli artisti potessero ricevere eraquello di essere chiamati a qualche magistratura o incarico di-plomatico: con le loro opere infatti aumentavano il creditodella città e i cittadini ne erano loro grati. Il proemio dellavita di Ambrogio Lorenzetti sembra un elogio del sistema co-munale:

Se è grande, come è senza dubbio, l’obbligo che aver deono alla naturagl’artefici di bello ingegno, molto maggior doverebbe essere il nostro versoloro, veggendo ch’eglino con molta solecitudine riempiono le città d’ono-rate fabriche e d’utili e vaghi componimenti di storie, arrecando a se me-desimi il più delle volte fama e ricchezze con l’opere loro, come fece Am-bruogio Lorenzetti pittor sanese, il quale ebbe bella e molta invenzione nelcomporre consideratamente e situare in istoria le sue figure (II, 179).

Ad Ambrogio vennero assegnate cariche importanti: questopremio civile esalta la figura dell’artista, gli riconosce una fun-zione di rappresentanza e funziona da forte stimolo a emu-

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larlo (43). La comunità premia gli artefici, perché, come si leg-ge nella premessa alla vita di Taddeo Gaddi:

è bella e veramente utile e lodevole opera premiare in ogni luogo larga-mente la virtù e onorare colui che l’ha, perché infiniti ingegni che talvoltadormirebbono, eccitati da questo invito, si sforzano con ogni industria dinon solamente apprendere quella, ma di venirvi dentro eccellenti per sole-varsi e venire a grado utile e onorevole, onde ne segua onore alla patrialoro e a se stessi gloria, e ricchezze e nobiltà a’ discendenti loro, che da co-tali principii sollevati, bene spesso divengono e ricchissimi e nobilissimi (II,203).

Nel Cinquecento è ormai lontana la possibilità di ottenere taliriconoscimenti: l’artista che agisce a corte o presso un riccoprivato ha il compito di dare lustro al suo principe, che or-mai non si serve più di illustri letterati o artisti ma di tecnicispecializzati. Per lo più all’artista viene affidato il compito dipreparare omaggi e feste per i grandi ospiti, oltre che di ab-bellire e arricchire la corte. In questa nuova condizione nonpuò sperare che prebende economiche; in particolare, se la-vora per lo Stato della Chiesa, può sperare di ricevere dellerendite che gli consentano di affrontare il futuro con tran-quillità economica.

Ma il rapporto tra artista e committente viene prevalente-mente interpretato da Vasari all’insegna dell’opposizione fravirtù e fortuna (44) e fra risoluzione e irresoluzione (impe-tuoso e respettivo nel vocabolario machiavelliano), che diven-tano le coordinate attorno a cui si gioca la realizzazione del-l’opera. In molti casi le grandi opere spesso non vennero rea-

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(43) Che l’artista dia onore e rinomanza alla patria Vasari lo affermava già nel-la Torrentiniana anche a proposito di Spinello aretino: «Quando un solo è cagionedi illustrare una virtù usatasi rozzamente in una patria già per molti anni, e renden-dole il vero splendore la fa conoscere per lodata e ispiritosa, pare che tutti quegliche di sapere e di virtù operano si voltino a lodarlo, a favorirlo, a inalzarlo e ad ono-rarlo, di maniera che molto si sente caricare il peso delle fatiche quel tale in cerca-re d’inalzarsi in quella virtù o scienza, attesoché diventano obbligati agli onori tutticoloro a’ quali per le virtù e per le fatiche son fatti commodi e favori nell’arte inge-gnose che hanno apprese; come fu fatto in Arezzo a Spinello di Luca Spinelli pitto-re» (T II, 277).

(44) Sul motivo machiavelliano di virtù e fortuna in Vasari cfr. A. CALECA, Va-sari e Machiavelli in Percorsi vasarianicit., pp. 21-25. Ricordo che la prima redazio-ne delle Vite era pronta nel 1547; l’anno successivo Vasari dipinse per il soffitto del-la sala del camino della sua casa aretina un’allegoria in cui combattono Virtù, For-tuna e Invidia.

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lizzate perché venne a mancare un fattivo rapporto fra com-mittente e artista: spesso chi voleva far eseguire una grandeopera non era in grado di comprendere le capacità degli ar-tisti e si affidava a persone di scarsa qualità, tramandando allaposterità la propria incompetenza. A volte, invece, principipoco intendenti avevano la fortuna di imbattersi in artisti va-lidi capaci di ingrandire oltre il merito la loro fama:

Molti ingegni si perdono, i quali farebbono opere rare e degne, se nelvenire al mondo percotessero in persone che sapessino e volessino metter-gli in opera a quelle cose dove e’ son buoni: dove egli avviene bene spes-so che chi può, non fa e non vuole, e se pure chi che sia vuole fare unaqualche eccellente fabbrica, non si cura altrimenti cercare d’uno architettorarissimo e d’uno spirito molto elevato, anzi mette lo onore e la gloria suain mano a certi ingegni ladri, che vituperano spesso il nome e la fama del-le memorie; e per tirare in grandezza chi dependa tutto da lui – tanto puo-te la ambizione – dà spesso bando a’ disegni buoni che si gli danno e met-te in opera il più cattivo, onde rimane alla fama sua la goffezza dell’opera,stimandosi per quegli che sono giudiciosi l’artefice e chi lo fa operare es-sere d’uno animo istesso, da che ne l’opere si coniungono. E per lo con-trario quanti sono stati i principi poco intendenti, i quali per essersi in-contrati in persone eccellenti e di giudizio, hanno doppo la morte loro nonminor fama avuto per le memorie delle fabriche che in vita si avessero peril dominio ne’ popoli! (IV, 233-4).

E si vedano altre citazioni: ad esempio, il proemio alla vitadel Pinturicchio:

«Sì come sono molti aiutati dalla fortuna senza essere di molta virtù do-tati, così per lo contrario sono infiniti quei virtuosi che da contraria e ni-mica fortuna sono perseguitati; onde si conosce apertamente che ell'ha perfigliuoli coloro che senza l'aiuto d'alcuna virtù dependono da lei; poiché lepiace che dal suo favore sieno alcuni inalzati, che per via di meriti non sa-rebbono mai conosciuti. Il che si vide nel Pinturicchio da Perugia, il qua-le, ancor che facesse molti lavori e fusse aiutato da diversi, ebbe nondime-no molto maggior nome che le sue opere non meritarono» (III, 571).

E si confronti con quello della vita del Sodoma:

«Se gl’uomini conoscesseno il loro stato quando la fortuna porge lorooccasione di farsi ricchi, favorendoli appresso gl’uomini grandi, e se nellagiovanezza s’affaticassino per accompagnare la virtù con la fortuna, si ve-drebbono maravigliosi effetti uscire dalle loro azzioni; là dove spesse voltesi vede il contrario avenire, perciò che, sì come è vero che chi si fida inte-ramente della fortuna sola resta le più volte ingannato, così è chiarissimo,per quello che ne mostra ogni giorno la sperienza, che anco la virtù solanon fa gran cose, se non accompagnata dalla fortuna» (V, 381).

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Quella tra virtù e fortuna è un’inimicizia, i cui effetti si fan-no sentire anche sui grandi artisti, addirittura su Michelange-lo; così Vasari spiega l’incompiutezza della Notte, ma quelloche dice può assumere valore di teorizzazione più generale:«E certo, se la inimicizia ch’è tra la fortuna e la virtù, e labontà d’una e la invidia dell’altra, avesse lasciato condurre talcosa a fine, poteva mostrare l’arte alla natura che ella di granlunga in ogni pensiero l’avanzava» (VI, 59). Soltanto se ilcommittente ha la competenza necessaria, l’animo risolutonelle decisioni e la tenacia di sollecitare l’artista si può giun-gere a un grande risultato. Nella vita di Antonio Rossellino ilcommittente viene delineato come un principe machiavellia-no che, nel condurre gli eserciti, deve fidarsi delle armi pro-prie e mostrare prontezza e risolutezza nelle decisioni; così an-che i committenti devono essere risoluti, comprendere velo-cemente qual è il progetto da realizzare e farlo mettere in ope-ra con alacrità:

E tutto averebbe finito, ogni poco più che gli fusse stato conceduto di vita,il detto Pontefice [Niccolò V], il quale era d’animo grande e risoluto, e in-tendeva tanto che non meno guidava e reggeva gl’artefici che eglino lui. Laqual cosa fa che le imprese grandi si conducono facilmente a fine, quandoil padrone intende da per sé e come capace può risolvere subito: dove unoirresoluto e incapace nello star fra il sì e il no, fra varii disegni e openionilascia passar molte volte inutilmente il tempo senz’operare (III, 395).

La percentuale di responsabilità che nella realizzazione dellegrandi opere è assegnata alle vicende della storia, della sortepersonale, insomma della fortuna, deve essere limitata dalla ri-solutezza del committente, come si afferma nella vita di Lo-renzo di Bicci a proposito delle opere commissionate da Nic-colò da Uzzano:

e se bene non potrà mai la fortuna oscurare la memoria e la grandezza del-l’animo di Niccolò da Uzzano, non è però che l’universale, dal non si es-sere finita questa opera non riceva danno grandissimo. Laonde, chi diside-ra giovare in simili modi al mondo e lasciare di sé onorata memoria, facciada sé mentre ha vita e non si fidi della fede de’ posteri e degl’eredi, per-ché rade volte si vede avere avuto effetto interamente cosa che si sia la-sciata perché si faccia dai sucessori (II, 319).

L’aneddotica presentata da Vasari a questo proposito è molto

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ampia e varia: si va da committenti ignoranti o irresoluti,come papa Giulio III e Pier Soderini, a committenti che in-vece riescono a far modificare il volto di un paese: è il casodei Gonzaga committenti di Giulio Romano, di Leone X nel-l’età aurea e del duca Cosimo I al tempo di Vasari. Se a que-sti ultimi va gran lode, ai committenti che, mancando di gu-sto, hanno affidato grandi opere ad artisti di second’ordine,va invece il pesantissimo rimprovero di aver modificato la per-cezione che della loro epoca ebbero le età successive. La man-canza, loro imputabile, di opere eccelse si riflette sull’inter-pretazione del periodo storico, come viene detto all’inizio del-la vita del Filarete a proposito delle porte di San Pietro:

Se papa Eugenio Quarto, quando deliberò far di bronzo la porta di S. Pie-ro di Roma, avesse fatto diligenza in cercare d'avere uomini eccellenti perquel lavoro, sì come ne' tempi suoi arebbe agevolmente potuto fare essen-do vivi Filippo di ser Brunellesco, Donatello e altri artefici rari, non sarebbestata condotta quell'opera in così sciaurata maniera come ella si vede ne'tempi nostri. Ma forse intervenne a lui, come molte volte suole avvenire auna buona parte de' principi, che o non s'intendono dell'opere o ne pren-dono pochissimo diletto; ma s’e’ considerassono di quanta importanza siail fare stima delle persone eccellenti nelle cose publiche per la fama che sene lascia, non sarebbono certo così stracurati né essi né i loro ministri: per-ciò che chi s'impaccia con artefici vili e inetti dà poca vita all'opere e allafama, senzaché si fa ingiuria al publico e al secolo in che si è nato, creden-dosi risolutamente da chi vien poi che, se in quella età si fossero trovati mi-gliori maestri, quel principe si sarebbe più tosto di quelli servito che degl'i-netti e plebei (III, 243-4).

La stessa affermazione non è isolata, ma è accompagnata davarie obiezioni contro la vita di corte che si trovano sparsesoprattutto nella terza età e che non sono semplici riprese diluoghi comuni letterari, ma provano la maturità e la libertà digiudizio di Vasari in senso politico. La riflessione sulle corti èlegata all’instabilità dell’artista che deve dipendere spesso dal-la volubilità di un committente che, come la fortuna, può va-riare da un momento all’altro; così l’argomento viene presen-tato nella vita di Girolamo da Carpi:

Ma perché quel Pontefice [Giulio III] non si poteva mai in simili cose con-tentare, e massimamente quando a principio s’intendeva pochissimo del di-segno e non voleva la sera quello che gl’era piacciuto la mattina, e perchéGirolamo avea sempre a contrastare con certi architetti vecchi, ai quali pa-rea strano vedere un uomo nuovo e di poca fama essere stato preposto a

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loro, si risolvé, conosciuta l’invidia e forse malignità di quelli, essendo ancodi natura più tosto freddo che altrimenti, a ritirarsi; e così per lo meglio sene tornò a Monte Cavallo al servizio del cardinale. Della qual cosa fu Gi-rolamo da molti lodato, essendo vita troppo disperata aver tutto il giornoe per ogni minima cosa a star a contendere con questo e quello; e comediceva egli, è tal volta meglio godere la quiete dell’animo con l’acqua e colpane, che stentare nelle grandezze e negl’onori. Fatto dunque che ebbe Gi-rolamo al cardinale suo signore un molto bel quadro che a me, il quale ilvidi, piacque sommamente, essendo già stracco se ne tornò con esso lui aFerrara a godersi la quiete di casa sua con la moglie e con i figliuoli, la-sciando le speranze e le cose della fortuna nelle mani de’ suoi avversarii,che da quel Papa cavarono il medesimo che egli e non altro. [V, 418-9]

La protesta contro certi principi e contro le corti torna ancorpiù chiaramente nella vita di Giovanni da Udine:

Onde accortosi, benché tardi, quanto siano le più volte fallaci le speranzedelle corti e come restino ingannati coloro che si fidano nelle vite di certiprìncipi, se ne tornò a Roma, dove, se bene arebbe potuto vivere d’uffici ed’entrate e servire il cardinale Ippolito de’ Medici et il nuovo pontefice Pau-lo Terzo, si risolvé a rimpatriarsi e tornare a Udine. [V, 454]

L’artista vive nella necessità di una vita sicura che la corte puògarantire: ma qui deve difendersi dall’invidia dell’ambientecortigiano e dalle lotte che si scatenano; onde non stupisceche Vasari apprezzi scelte contrarie come quelle di Giovannida Udine o di Giovanfrancesco Rustici:

Essendo poi tornata in Fiorenza la famiglia de’ Medici, il Rustico si fececonoscere al cardinale Giovanni per creatura di Lorenzo suo padre e fu ri-cevuto con molte carezze, ma perché i modi della corte non gli piacevanoet erano contrarii alla sua natura tutta sincera e quieta e non piena d’invi-dia et ambizione, si volle star sempre da sé e far vita quasi da filosofo, go-dendosi una tranquilla pace e riposo. [V, 476]

L’alternativa tra la sicurezza economica della vita di corte, ela tranquillità morale e l’indipendenza non priva di rischi eco-nomici dell’artista isolato, si presentò più volte allo stesso Va-sari, che nel tracciare il proprio profilo autobiografico nonprovò timori riverenziali nel denunciare i pericoli della vita icorte; anzi riprese passi del proprio epistolario per ricordarealcune sue scelte contro la vita di corte:

mi risolvei, consigliato da Messer Ottaviano, a non volere più seguitare lafortuna delle corti, ma l’arte sola, se bene facile sarebbe stato accomodar-mi col signor Cosimo de’ Medici nuovo duca. [VI, 375]

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il quale in detto spazio di due mesi, provai quanto molto più giovi agli stu-dii una dolce quiete et onesta solitudine, che i rumori delle piazze e dellecorti, conobbi dico l’error mio, d’avere posto per l’addietro le speranze mienegl’uomini e nelle baie e girandole di questo mondo. […] E così rimasod’accordo, me ne venni a Firenze a vedere Messer Ottaviano, dove standoalcuni giorni, durai delle fatiche a far sì che non mi rimettesse al serviziodelle corti, come aveva in animo; pure io vinsi la pugna con buone ragio-ni, e risolveimi d’andar per ogni modo, avanti che altro facessi, a Roma.[VI, 376]

La sua fuga da Firenze nel 1537 fu molto diversa da quellada Roma del 1553: la prima fu una fuga disperata, figlia del-la depressione e risolta in ansie religiose; la seconda fu unadecisione razionale presa in conseguenza della maturazionepersonale e della meditazione che nel frattempo aveva con-dotto su quei testi politici e storici del Cinquecento che for-marono il suo pensiero e gli permisero di trasformare le Vitein un capolavoro della storiografia.

Certo le affermazioni sulle corti vengono in qualche modocorrette dalle lodi a Cosimo I, ma non possono essere passa-te sotto silenzio: Vasari è cosciente che mettendosi a corte l’ar-tista è in mano alla volubilità della fortuna e che questa puòcambiare da un momento all’altro. Per Vasari l’artista deve sa-per prepararsi in ogni momento una via di fuga, un ritiro incui far valere le proprie qualità e affrontare serenamente lapovertà pur di salvaguardare la propria dignità. Non si puòinsomma ridurre Vasari, come pure è stato fatto negli ultimianni, a un artista ossequiente e prono al potere; Vasari ha in-fatti ereditato dalla concezione politica e morale degli storicirepubblicani fiorentini un alto concetto del particulare, chenon è tornaconto personale ma affermazione morale dellapropria virtù umana, nutrita di preparazione culturale fino agiungere all’equilibrio della condotta morale, alla prudenza ealla conoscenza di se stessi. Quando le sue condizioni non siaccorderanno alla qualità de’ tempi, l’artista dovrà fare fon-damento su se stesso, mantenere intatta la propria virtù al difuori della corte.

La storia aveva ormai negato fortuna ai vari modelli idea-li di realizzazione personale elaborati nel Rinascimento: il car-dinale di Paolo Cortesi, il segretario, il cortegiano di Casti-

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glione o il cavaliere cristiano di Sabba da Castiglione. L’arti-sta, come delineato da Vasari, nel suo cercare di adattarsi allafortuna e alla qualità de’ tempi è allora l’ultima proposta diun modello, di un ideale di vita che ha un fondamento eticonell’educazione e nella maturazione personale. L’ultimo fon-damento di questo ideale è infatti nella conoscenza di se stes-si e nella ricerca della perfezione più che delle ricchezze; sonoquesti convincimenti che lo spingono a inserire nelle Vite sen-tenze che non hanno nulla da invidiare alle riflessioni moralidei grandi pensatori dell’Umanesimo e degli storici fiorentini:

E per vero dire, chi stimando le ricchezze quanto si deve e non più, ha perfine delle sue azzioni la virtù, si acquista altri tesori che l'argento e l'oronon sono, senzaché non temono mai niuna di quelle cose che in breve orane spogliano di queste ricchezze terrene, che più del dover scioccamentesono dagli uomini stimate. [III, 313]

E nel vero la maggior prudenza e saviezza, che possa essere in un uomo, èconoscersi, e non presumere di sé più di quello che sia il valore. [IV, 514]

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