G. Jellinek, La natura giuridica degli accordi fra Stati. Traduzione ed edizione dal tedesco di...

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Georg Jellinek La natura giuridica degli accordi fra Stati Contributo all’edificio giuridico del diritto internazionale Traduzione e Prefazione di Giuliana Scotto

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Georg Jellinek

La natura giuridica degli accordi fra StatiContributo all’edificio giuridico del diritto internazionale

Traduzione e Prefazione di Giuliana Scotto

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autore: Georg Jellinektitolo originale: Die rechtliche Natur der Staatenverträge. Ein Beitrag zur juristischen Construction des Völkerrechts, Alfred Hölder, Wien, 1880

traduzione dal tedesco e Prefazione di Giuliana Scotto

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Indice

Prefazione – di Giuliana Scotto

1. Il testo sulla natura giuridica degli accordi fra Stati nel

percorso di pensiero di Georg Jellinek, p. 4

2. Struttura e temi principali di “La natura giuridica degli

accordi fra Stati”, p. 12

3. Perché tradurre il testo di Jellinek all’inizio del III millennio,

p. 22

4. Potestà statale e sovranità nel pensiero di Jellinek. Diritto,

limite e soglia, p. 30

5. Etica e diritto, p. 41

6. Alcune note e avvertenze sulla presente traduzione italiana,

p. 47

La natura giuridica degli accordi fra Stati. Contributo all’edificio giuridico del

diritto internazionale – di Georg Jellinek

Premessa, p. 56

Introduzione, p. 58

Capitolo primo, p. 66

Capitolo secondo, p. 102

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Prefazione

di Giuliana Scotto

Nota del traduttore

1. Il testo sulla natura giuridica degli accordi fra Stati nelpercorso di pensiero di Georg Jellinek

Il breve lavoro di Georg Jellinek dedicato alla natura giuridica degli accordi fra Stati si colloca nella produzione tardo-giovanile del pensatore austriaco. Dico “pensatore” e non “filosofo” né “giurista”, ma neppure “filosofo del diritto” né “della politica”, in quanto è vero che in un certo senso – per chi vi si accosti con la mentalità filologica che in quanto moderni ci trasciniamo dietro, rassicurante fardello, dal secolo diciannovesimo – Georg Jellinek è stato tutto ciò, vale a dire giurista e filosofo, sia del diritto che della politica. Nondimeno dire “pensatore” contiene in sé il desiderio di strappare la sua figura dalle maglie della storia lontana in cui è relegata, ai margini tanto della filosofia di scuola che del lavorio prudente sullo jus (sorta di circoscritta frònesis). Jellinek ha pensato sul diritto, si è interrogato sul suo senso e sulla sua funzione a fini sociali e di giustizia. Si è chiesto quali siano i meccanismi ultimi nei quali risiede l’efficacia delle norme giuridiche, in altre parole quali siano i modi e i mezzi per imporre il rispetto di tali norme, in particolare nel caso che forse alimenta tutta l’interrogazione intorno al diritto in quanto tale – vale a dire nel caso della loro violazione.

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Cercando di fare i conti con il nascente formalismo giuridico positivista, tenendo in considerazione il problema del rapporto diritto-sovranità, Jellinek ha tentato di indicare una direzione possibile dell’uso del diritto allo scopo esplicito di eliminarne gli abusi molto prima che il diritto conoscesse le gravi strumentalizzazioni sofferte nel corso del novecento, dove per diritto si è intesa la norma, concepita come sradicata dalla dimensione etica, purché posta, a costo di qualunque suo contenuto. Georg Jellinek non ha mai saputo che due guerre avrebbero insanguinato il mondo e specialmente l’Europa; la sua vita si spegne nel 1911 quando egli, appena sessantenne, ha consegnato alla posterità la versione già rivista della sua opera più consistente e matura, la Allgemeine Staatslehre1, dedicataall’essenza dello Stato, lavoro, questo, appassionato e interlocutorio nel suo aggirarsi fra varie questioni sottesedal fenomeno della potestà statale, e ciononostante costantemente riecheggiante, come un basso continuo, il limite che necessariamente attraversa ogni compagine statale in quanto determinazione storica. Lo scritto sulla dottrina generale dello Stato è tuttavia rimasto al margine della grande corrente che ha sospinto la riflessione sull’intreccio fra diritto e politica, su democrazia e tirannide, diritti fondamentali e olocausto, e fra tante voci autorevoli quella di Jellinek, che non ha potuto misurarsi al banco di prova delle guerre mondiali e dei rivolgimenti che in ogni ambito hanno segnato indelebilmente il secolo scorso, s’è affievolita, ricacciata nel quadro diinterpretazioni sbrigative. Tali interpretazioni, mettendo in evidenza come secondo Jellinek il fondamento del dirittoandrebbe ravvisato nella volontà, hanno contribuito allavulgata per la quale secondo il nostro autore il fondamento del diritto, e specialmente del diritto internazionale2,

1 Cfr. G. Jellinek, Allgemeine Staatslehre, I ed. O. Häring, Berlin,

1900. Di quest’opera di Jellinek sono state pubblicate una prima traduzione italiana di M. Petrozziello, La dottrina generale dello Stato, con introduzione e capitoli aggiuntivi di V.E. Orlando, Società Editrice Libraria, Milano, 1921, condotta sulla II edizione tedesca, O. Häring, Berlin, 1905; e una seconda traduzione ad opera dei medesimi curatori (condotta sulla base della terza edizione tedesca, postuma, del 1914) e apparsa per l’editore Giuffrè, Milano, 1949, con il titolo La dottrina generale del diritto dello Stato.

2 In Italia vedasi per esempio G. Morelli, Nozioni di diritto internazionale, VII ed., Cedam, Padova, 1967, p. 11; B. Conforti,

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risiederebbe in ultima analisi nella volontà concepita come arbitrio.

Dunque è per il lavoro sulla dottrina generale dello Stato che Jellinek è per lo più ricordato. E non tanto dai giuristi quanto piuttosto dai teorici del diritto o della politica, e ciò benché egli sia stato giurista per formazione e abbia insegnato diritto pubblico presso l’Università di Heidelberg3. Il motivo fondamentale per il quale Jellinek

Diritto internazionale, VII ed., Editoriale Scientifica, Napoli, 2006, p. 8. Trattandosi di due manuali di diritto internazionale fra i più diffusi negli ultimi venti-trent’anni, è evidente come l’idea che per Jellinek il fondamento ultimo del diritto risiederebbe nella volontà sovrana dello Stato concepita come arbitrio sia altrettanto radicata fra gli studiosi italiani della materia. Ma forse la considerazione di cui gode il pensiero di Jellinek oltralpe non è così diversa. Fra gli studiosi del diritto internazionale di lingua tedesca può ricordarsi per esempio come il pensiero di Jellinek sia equivocato da H. Wehberg, “Pacta Sunt Servanda”, in American Journal of International Law, vol. 53, 1959, pp. 775-786, a p. 781. Più recentemente B. Simma, “The Contribution of Alfred Verdross to the Theory of International Law”, in European Journal of International Law, 1995, pp. 33-54, a p. 40 mostra una lettura assai frettolosa del breve saggio di Jellinek qui tradotto (infatti l’autore cita ivi, in nota 32, p. 45 di Die rechtliche Natur, corrispondente alle pp. 99-100 dellapresente traduzione, dando prova non soltanto di aver frainteso il senso del passo citato ma anche di aver mal letto le pagine precedenti, nelle quali Jellinek conduce la propria argomentazione contro la tesi della volontà intesa come arbitrio). Nella medesima e travisante linea interpretativa, in un passato ancor più prossimo al nostro tempo, S. Hobe, K. Nowrot, “Whither the Sovereign State?”, in German Yearbook of International Law, 2007, pp. 243–302, a p. 253. Maggior giustizia è resa al pensiero di Jellinek da J. Von Bernstorff, Der Glaube an das universale Recht: zur Völkerrechtstheorie Hans Kelsens und seiner Schüler, Nomos, Baden Baden, 2001, p. 23 ss., che può leggersi anche in traduzione inglese a cura di T. Dunlap, The Public International Law Theory of Hans Kelsen, Believing in Universal Law, Cambridge University Press, New York, 2010, p. 26 ss. Ma, a mio avviso, la pur limpida sintesi del volumetto di Jellinek sulla natura degli accordi fra Stati ivi contenuta è presentata senza riflettere a sufficienza sul fondamento etico del diritto e sulle sue conseguenze pratiche.

3 Sulla vita di Jellinek vedansi alcuni dettagli biografici nel necrologio comparso in The American Journal of International Law, vol. 5, n. 3, July, 1911, pp. 716-18; in lingua italiana v. Enciclopedia Italiana, edita a cura dell’Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, vol. XVIII, GV-INDE, Rizzoli, Milano, 1933, voce “Jellinek, Georg”, p. 793; e più ampiamente in lingua tedesca A. Hollerbach, voce “Jellinek, Georg”, in Neue deutsche Biographie,

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non è ricordato fra i giuristi è rappresentato dal fatto che, mediante lo studio del diritto pubblico (invece che del più tecnico e solido diritto civile), egli si è posto subito a margine rispetto alle attività e ai problemi cui per lo più i giuristi si dedicano, e così non ha potuto offrire a questi ultimi strumenti immediatamente applicabili alla soluzionedi singoli casi pratici. La riflessione sullo Stato maturatada Jellinek ha invece preferito toccare il fenomeno statalecosì come esso si andava configurando alla fine dell’ottocento e prima ancora delle evoluzioni e deglisconvolgimenti che avrebbe conosciuto nel secolo delle due guerre mondiali. Rispetto al periodo in cui Jellinek matura le proprie idee intorno alla natura dello Stato, nel corso del novecento si assiste a un profondo ripensamento di questo istituto basilare della vita in comune, e ciò non soltanto dal punto di vista degli assetti politici, scossi e rimescolati a conclusione delle due guerre, ma anche grazie al consolidamento di alcuni concetti di base. Fra questi si pensi a quello di Stato-apparato o Stato-governo che tantoprofondamente si sono radicati nella dottrina internazionalistica, soppiantando in particolare il concetto schmittiano che ricollegava lo Stato in senso moderno alla sua base territoriale4.

E tuttavia, rispetto a queste evoluzioni che il concetto di Stato e per conseguenza anche quello di diritto avrebbero conosciuto nel corso del novecento, il pensiero di Jellinek è stato tramandato come se la sua meditazione non fosse ormai più attuale. A tale riguardo, può riportarsi

Band 10., Dunker & Humblot, Berlin, 1974, pp. 391-392, digitalizzato e consultabile in rete al sito http://daten.digitale-sammlungen.de/0001/bsb00016327/images/index.html?seite=407. Più recentemente vedansi ancora i contributi raccolti nella I parte di S.L. Paulson, M. Schulte (a cura di), Georg Jellinek. Beiträge zu Leben und Werk, Mohr Siebeck, Tübingen, 2000, pp. 3-101. Va ricordato che un elenco completo delle opere di Jellinek è comparso a cura del figlio Walter, poco dopo la scomparsa di Jellinek, in “Georg Jellineks Werke”, in Archiv des öffentlichen Rechts, 1911, vol. 27, pp. 606-619. Un lascito delle opere di Jellinek è attualmente custodito nel Bundesarchiv di Koblenz.

4 Cfr. in particolare C. Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Duncker & Humblot, Berlin, 1974, tr. it. di E. Castrucci, a cura di F. Volpi, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, Adelphi, Milano, 1991, p. 145.

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la riflessione di Vittorio Emanuele Orlando il quale, all’indomani della fine del primo conflitto mondiale, nella sua Avvertenza preliminare all’edizione italianadell’Allgemeine Staatslehre, motivava il ritardo più che ventennale della versione italiana rispetto alla prima apparizione in lingua tedesca con la seguente osservazione: “quale interesse poteva mai attribuirsi allo studio dei problemi concernenti lo Stato, la natura e i rapporti di esso, nell’ordine interno e in quello internazionale, mentre la guerra stessa, sia pure per ripercussione indiretta, metteva in questione tutto questo medesimo complesso di problemi?”5.

Ma l’oblio, almeno parziale, al quale sembra esser stato consegnato il pensiero di Jellinek è motivato non soltanto dal fatto che il suo lavoro più importante, apparso agli albori del XX secolo, per forza di cose non ha potuto fare i conti con le questioni aperte dall’affermarsi, proprio nel corso del novecento, di vari regimi totalitari. A mio avviso, il motivo principale di questo oblio risiede nel fatto che, nella Allgemeine Staatslehre, Jellinek matura la convinzione, già affiorante in altri scritti, secondo la quale il fondamento del diritto e dello Stato deve rinvenirsi nelladimensione etica6 (sviluppando così un’idea già cara a Hegel7) ma in un tempo in cui invece era il positivismo giuridico ad andare per la maggiore, e così sarebbe stato per i decenni a venire in modo sempre più intenso, grazie soprattutto alla declinazione formalista del positivismo offerta da Hans Kelsen. Jellinek manteneva il diritto ancorato all’etica, discuteva il fondamento del diritto rinnovando questioni di diritto naturale irrisolte e forse irrisolvibili; Kelsen, invece, anche grazie al suo granderigore argomentativo unito a una non comune capacità

5 V.E. Orlando, Avvertenza preliminare a G. Jellinek, La dottrina

generale dello Stato, cit., pp. IX-XIV, a p. X.6 G. Jellinek, La dottrina generale dello Stato, cit., pp. 633-634.7 G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts.

Naturrecht und Staatswissenschaft im Grundrisse, Berlin, 1821, ed. e tr. it. di V. Cicero, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello Stato, Rusconi, Milano, 19982, in particolare la Parte terza dedicata alla Sittlichkeit (termine tradotto comunemente con “eticità”), pp. 293 ss. §§ 142 ss. Sui problemi di traduzione di questa parola v. infra, questa Prefazione, § 6.

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immaginifica8, convinceva studiosi e uomini politici che il contenuto delle norme giuridiche è altra cosa rispetto al contenuto delle norme morali e, individuando la specificità della norma giuridica nel fatto di esser posta dal potere statale, a prescindere dal suo contenuto9, sgomberava il campo da questioni di principio quali la giustizia, la morale ecc. su cui la modernità, tendenzialmente radicata dal lato del soggettivismo, non riesce a trovare criteri risolutivi che riescano ad abbracciare una volta per tutte il lato dell’universalità e della condivisibilità. A prescindere dalle applicazioni estreme che il formalismo kelseniano possa aver conosciuto – le quali condurrebbero per esempio ad affermare la natura pienamente giuridica delle leggi razziali in quanto poste dal Terzo Reich, operando così una scissione rispetto al problema del loro contenuto morale o di giustizia –, è inoltre indubbio che il grande fascino della teoria kelseniana risiede anche in una sorta di dimensione etica intrinseca, vale a dire tutta raccolta eimplicata nell’attività di interpretazione della norma in quanto appartenente a un sistema giuridico basato sulla Grundnorm e non su valori estrinseci non codificati nell’ordinamento giuridico.

L’interpretazione della norma giuridica in senso strettamente formalistico richiede all’ermeneuta – giurista, filosofo che sia – di abbandonare i propri valori e le proprie convinzioni personali al fine di abbracciare qualcosa di oggettivo, di posto e pertanto di almeno relativamente inamovibile, cioè di non disponibile secondo il capriccio soggettivo. Il formalismo kelseniano chiede all’interprete di uscir fuori di sé, di abbracciare qualcosa che esiste oggettivamente in quanto posto dagli organi dello Stato e

8 Capacità (quella di pensare a nuove ipotesi alle quali potrebbe

estendersi la regola contenuta in una norma), la quale probabilmente, contrariamente a quanto crede l’uomo di strada, è requisito indispensabile per chi voglia dedicarsi al diritto.

9 H. Kelsen, Reine Rechtslehre. Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik, Franz Deuticke Verlag, Wien, 1934, tr. it. di R. Treves, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino, 1952, p. 96: “le norme giuridiche [...] non sono valide in forza del loro contenuto. Ogni qualsiasi contenuto può essere diritto: non vi è nessun comportamento umano che, come tale, in forza del suo contenuto, non possa diventare contenuto di una norma giuridica [...]. Il diritto vale soltanto come diritto positivo, cioè come diritto posto”.

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di darvi corretta attuazione, secondo una logica che riecheggia il sacrificio personale, la rinuncia al proprio codice etico o religioso nel nome dell’indisponibilità del diritto, ciò che quindi non può evitare di toccare in qualche modo le corde della deontologia professionale10. Non è un caso che proprio all’inizio del novecento si sviluppi una riflessione come quella di Max Weber,orientata a estrarre un’etica dei funzionari pubblici, ruote dentate le quali non soltanto “permettono il funzionamento”, “fanno funzionare” la macchina statale secondo criteri di razionalità, ma sono anche essenzialmente “fungibili”, possono cioè essere incontrati come soggetti universali i quali non portano con sé una storia personale, con propri dispiaceri e ambizioni e malumori, o che almeno, per svolgere nella maniera più adeguata i propri compiti, devono accantonare tutto il loro bagaglio soggettivo che li rende esseri umani unici. I funzionari in quanto tali devono “soltanto” far funzionare l’ufficio pubblico cui sono preposti11, in quanto l’utente anonimo che vi si rivolge non chiede loro null’altro che il servizio che essi hanno l’incarico e l’onore di svolgere. In qualche modo, sia la riflessione kelseniana che quella weberiana non tanto sembrano aver rinunciato completamente a una coloritura morale del problema della norma giuridica, quanto sembrano aver ricollocato la dimensione etica all’interno del diritto stesso, quasi che tale eticità fosse un risultato automatico (un “in sé”)dell’interpretazione (da parte del giudice) ovvero

10 Tale connessione fra dimensione etica (Sitte) e figura del

funzionario dello Stato è già messa in luce da Hegel in Lineamenti di filosofia del diritto, cit., p. 499 ss., in particolare i §§ 294 ss. In senso conforme vedasi anche la Prefazione dell’autore in H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., pp. 42-43; nonché M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, Mohr, Tübingen, 1922, tr. it. di AA. VV., ed. a cura di P. Rossi, Economia e società, Edizioni di Comunità, Milano, 1961, vol. II, p. 707 ss.

11 M. Weber, Economia e società, cit., vol. II, p. 711: “[l]’onore del funzionario consiste nella capacità di eseguire coscienziosamente, sotto la responsabilità di chi glielo impartisce, un ordine che gli appare errato, quando l’autorità a lui preposta vi insiste nonostante le sue osservazioni, esattamente come se esso corrispondesse al suo proprio convincimento: senza questa disciplina etica nel senso più alto e senza questa abnegazione l’intero apparato andrebbe in rovina”.

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dell’applicazione (ad opera del funzionario) della norma giuridica12. Tale eticità non troverebbe alcuna corrispondenza necessaria con valori morali estrinseci al diritto, e quindi in qualche modo essa sarebbe messa al riparo dalle oscillazioni soggettivistiche cui qualunquecodice etico potrebbe sottostare in virtù di un radicamentoancorché minimo nell’interiorità del singolo.

Se si tiene conto di questa direzione portante adottata dalla riflessione novecentesca sul diritto e sulla compagine statale, si coglie in maniera intuitiva come il pensiero di Jellinek, anche nel suo lavoro più maturo e noto, con la sua insistenza sull’aspetto etico quale dimensione estrinseca al diritto nella quale soltanto può rinvenirsi il fondamento ultimo delle garanzie del diritto in quanto tale, possa esser apparso non al passo coi tempi. Se ciò appare comprensibile riguardo a un’opera dellaconsistenza della Allgemeine Staatslehre, ancor più si comprende come mai un testo breve come La natura giuridica degli accordi fra Stati, risalente al 1880, quando l’autore non aveva neppure trent’anni, sia caduto nel dimenticatoio, grazie anche alla lettura sbrigativa che tuttora ne viene data dalla dottrina internazionalistica e cui s’è accennato. Indubbiamente a quest’obliocontribuisce anche il fatto che il diritto internazionale si ènotevolmente evoluto dal 1880 a oggi. Non soltanto il lavoro di Jellinek all’epoca in cui è stato redatto non poteva prendere in esame fenomeni macroscopici del diritto internazionale contemporaneo, quali la nascita delle Nazioni Unite, la decolonizzazione, il consolidamento del divieto dell’uso della forza, lo sviluppo della tutela internazionale dei diritti umani. Ma nel 1880 persino la Società delle Nazioni che ora ci appare come un organismo assai rudimentale se paragonata alle attuali organizzazioniinternazionali, nonché le prime importanti convenzioni in materia di diritto bellico, erano ancora lontane a venire.

Ma di che cosa tratta questo breve lavoro giovanile?

12 Vero è che, a differenza di Kelsen, Weber distingue una

“razionalità formale” da una “razionalità materiale” quali opposti criteri che possono orientare l’agire dei funzionari statali: cfr. M. Weber, Economia e società, cit., vol. II, pp. 16-17.

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2. Struttura e temi principali di “La natura giuridica degliaccordi fra Stati”

Il titolo completo del testo di Jellinek qui presentato per la prima volta in traduzione italiana recita: La natura giuridica degli accordi fra Stati. Contributo all’edificio giuridico del diritto internazionale. Come accennato, il testo esce a Vienna nel 1880 per l’editore di corte e universitario Alfred Hölder ed è subito recensito da Johann Caspar Bluntschli13.

Arricchito di una breve premessa nella quale si intuisce come alla fine dell’ottocento il diritto internazionale fosse oggetto di un dibattito che ne poneva in questione la stessa esistenza in quanto ordinamento giuridico a sé stante, La natura giuridica degli accordi fra Stati si articola in due capitoli preceduti da alcune pagine introduttive dove Jellinek illustra la necessità di rintracciare un fondamento oggettivo del diritto internazionale che consenta di considerare quest’ultimo come vero e proprio fenomeno giuridico – al pari delle varie altre branche del diritto. Richiamando Grozio, in queste pagine introduttive Jellinek parte dal presupposto che ogni principio giuridico, per essere considerato tale, deve radicarsi nella libera volontà o dello Stato o del popolo. Ricordando poi come sia merito di Hegel aver messo in luce che, in mancanza di una volontà generale costituita al di sopra degli Stati, il diritto internazionale vada inteso come posto dalla volontà di questi ultimi, Jellinek rinvieneil fondamento del diritto internazionale nella volontà dello Stato, la quale in particolare si manifesta nel fenomenodell’accordo. Tuttavia per Jellinek l’accordo di per sé non sarebbe in grado di rendere conto del carattere giuridico e obiettivo del diritto internazionale per cui vanno chiariti alcuni punti che contribuiscono a elevare l’ordinamento giuridico internazionale al pieno rango di “diritto” vero e proprio. Se si considerasse il diritto internazionale come consistente dei soli accordi, non si potrebbe infatti fare a meno di concludere per un’ineliminabile carattere soggettivo di tale diritto che si risolverebbe nell’esistenza di

13 La recensione di J.C. Bluntschli, “Dr. Georg Jellinek, die

rechtliche Natur der Staatenverträge. Wien, A. Hölder, 1880. 66 S.” compare nella Kritische Vierteljahresschrift für Gesetzgebung und Rechtswissenschaft, vol. 22, tomo III, 1880, pp. 579-581.

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fasci di norme giuridiche unilaterali, poste cioè dallo Stato verso l’esterno, le quali soltanto per una casuale coincidenza convergerebbero con norme altrettantounilateralmente poste da un altro o da altri Stati le quali per avventura si trovassero ad avere contenuto corrispondente. Inoltre non si capirebbe a partire da quale principio accordi così concepiti riceverebbero validità giuridica. In realtà proprio osservando la prassi statale occorre ammettere l’esistenza di norme obiettive che disciplinano i modi di formazione degli accordi, la liceità del loro contenuto, i loro effetti, le modalità della loro estinzione ecc. Ma – pone la questione Jellinek – come vanno considerate tali norme che regolano gli accordi internazionali? Si tratta di norme di diritto naturale,ovvero di norme facenti parte del diritto delle obbligazionile quali vengono trasposte in via analogica a regolare gli accordi internazionali? E come uscire dall’impasse per la quale “volontà dello Stato sovrano” risuona immediatamente come “arbitrio dello Stato”? Per poter rispondere a tale questione Jellinek ritorna sulla volontà quale fondamento di ogni fenomeno giuridico e osserva come, quando si parla di “volontà dello Stato” a fondamento del diritto internazionale, occorraulteriormente qualificare tale volontà come “volontà obbligante dello Stato” e intenderla come volontà dello Stato la quale è in grado di obbligare lo Stato stesso. In altre parole Jellinek prende esplicitamente distanza da coloro che intendono la volontà dello Stato in quanto tale come “al di fuori del diritto”. Secondo Jellinek, infatti, la contraddizione insita nell’auto-obbligazione dello Stato ed esposta sul vassoio d’argento dai teorici della sovranità assoluta secondo i quali chi ha il potere (la forza, la potenza, l’autorità, la violenza: Gewalt) di porre il diritto potrebbe non soltanto fare la norma, ma anche disfarla a proprio piacimento, cioè a proprio capriccio, è contraddizione soltanto apparente.

E con il desiderio di addentrarsi in questa contraddizione si apre il primo capitolo de La natura giuridica degli accordi fra Stati. In questa parte, dedicata a indagare la natura della volontà dello Stato, sembra perdersi di vista l’obiettivo fondamentale, o almeno il tema fondamentale del lavoro, vale a dire il fondamento del diritto internazionale. Ma la ricognizione dei caratteri della

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volontà dello Stato, in primo luogo dal punto di vista del diritto interno, serve a Jellinek per giungere ad affermareche la volontà dello Stato può auto-obbligarsi, e anzi, nonpuò che auto-obbligarsi sempre, in ogni sua manifestazione in quanto manifestazione determinata, sia dal lato interno che dal lato esterno.

A tale riguardo, nello svolgimento della propria argomentazione, Jellinek comincia col prendere in esame alcune celebri, “ruvide” dottrine sulla natura della sovranità statale concepita, se non in prima battuta, almeno in ultima analisi come arbitrio: principalmente quelle di Bodin, di Hobbes, di Rousseau, di Kant. Tuttavia, osserva Jellinek, gli stessi sostenitori di questa visione della natura della sovranità statale finiscono col dover poi trovare limiti all’arbitrio del princeps legibus solutus,rintracciati di volta in volta nella morale, nel diritto naturale, nella volontà divina. Anzi, fa notare Jellinek, l’intero compito della filosofia del diritto sino a Fichte è stato proprio quello di trovare limiti all’esercizio dell’arbitrio dello Stato concepito secondo questa modalità assoluta e ciò in modo da fondare in maniera più garantita l’esercizio dei diritti personali individuali.

Ma, come accennato, concepire una volontà auto-obbligante dello Stato è per Jellinek contraddizione soltanto apparente. Traendo esempio dalla vita pratica, Jellinek ricorda che ogni atteggiamento morale basato sulla volontà di mantenere, conformemente a certi principi professati, un determinato comportamento in maniera durevole nel tempo, anche per esempio nel futuro, nonostante ciò possa comportare un contrasto e una presa di distanza rispetto alla realtà circostante, mostra come lacapacità di auto-obbligarsi sia carattere proprio della volontà. Anzi, se la volontà dei singoli non avesse la possibilità di assumere alcun impegno mediante questa capacità di auto-obbligazione, la stessa convivenza fra gli esseri umani sarebbe intollerabile. Ed è proprio grazie alla possibilità che la volontà del singolo vincoli se stessa a quanto essa stessa ha manifestato, che è possibilequalcosa come il fenomeno del diritto. Ciò vale tanto per il singolo che per la collettività la quale, in quanto raccogliente un gruppo di individui tenuti insieme da nessi di varia natura, trova nello Stato la propria espressione più compiuta. L’errore della maggior parte degli studiosi

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che si sono dedicati al tema della sovranità risiede secondo Jellinek nel fatto di concepire la sovranità come assoluta, nel farla coincidere con l’arbitrio, mentre l’essenza della potestà statale va ravvisata nella “potenza di dare prescrizioni alla propria volontà”, ciò che Jellinek qualifica come autocrazia (Selbstherrlichkeit), capacità di autodominarsi, cioè di produrre diritto il cui destinatario è la stessa potestà statale.

Tale carattere ultimo della potestà dello Stato può cogliersi per Jellinek in particolare se si riflette su vari elementi ricorrenti nella vita degli Stati moderni. Innanzitutto, i diritti fondamentali dei singoli devono essere concepiti come impegno dello Stato a non intrudere nella sfera degli individui, come già messo in luce da Gerber, che Jellinek richiama espressamente. Una diversa concezione farebbe crollare l’intero edificio del diritto pubblico. In secondo luogo, come Jellinek sottolinea ricordando la posizione teorica di Thon, gli stessi poteri fondamentali in cui si articola la potestà statale –legislativo, esecutivo e giudiziario – conoscono fenomeni che ben possono essere interpretati come impegno della volontà statale a obbligare se stessa. Ciò accade per esempio mediante un atto legislativo con il quale la potestà dello Stato, ingiungendo determinati comportamenti allearticolazioni del potere esecutivo (per esempio rivolgendo agli uffici della pubblica amministrazione determinate disposizioni), obbliga se stessa a dare attuazione a quanto stabilito nell’atto legislativo. Dato che sia il potere legislativo sia quello esecutivo sono manifestazioni della potestà statale, mediante l’adozione della legge destinata alla pubblica amministrazione lo Stato vincola se stesso. Come chiarito più avanti, ciò vale anche per i rapporti che il potere legislativo intrattiene con il potere giudiziario.Questi esempi delle varie articolazioni del potere dello Stato indicanti la modalità con la quale la potestà dello Stato vincola se stessa offrono inoltre a Jellinek il destro per agganciare il discorso delle garanzie del diritto al fondamento ultimo dell’etica e per discutere l’attività dello Stato alla luce degli scopi stessi dello Stato. Ma su questo punto dovrò tornare, in quanto è proprio il nesso problematico posto da Jellinek fra etica e diritto ad avermi spinto a presentare in traduzione italiana questo lavoro ormai così lontano nel tempo.

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Per riprendere con la sintesi degli argomenti di Jellinek volti a dimostrare come la volontà dello Stato abbia natura di auto-obbligazione, va segnalato che l’autore austriaco rileva poi come – a prescindere dal fatto che le leggi contengano disposizioni indirizzate al potere esecutivo ovvero al giudice nel momento in cui questi sono chiamati a eseguire e applicare la legge nella sua determinazione concreta e non “un’altra legge” –, possa ben affermarsi che è in generale, mediante l’esercizio stesso del potere legislativo in quanto manifestazione della volontà dello Stato, che lo Stato vincola in primo luogo se stesso. Ciò è patente nel fenomeno nella vacatio legis. Nel lasso di tempo fra l’adozione della legge a conclusionedell’iter di approvazione parlamentare, la sua pubblicazione negli strumenti ufficiali di comunicazione a ciò preposti e l’entrata in vigore per i singoli destinatari delle sue disposizioni, la legge obbliga soltanto la potestà statale, la quale durante la vacatio (dunque prima dell’entrata in vigore) non potrebbe ritirarla né modificarla se non secondo norme costituzionalmente conformi.

Prima di passare specificamente a esaminare come la volontà auto-obbligantesi dello Stato costituisca non soltanto il fondamento del diritto interno, ma anche del diritto internazionale, Jellinek affronta poi quella che egli definisce come “l’obiezione più seria” che possa sollevarsi contro la teoria dell’auto-obbligazione da lui sostenuta. Tale obiezione può essere così riassunta: anche se si ammette che lo Stato nell’esercizio dell’attività legislativa obbliga se stesso, tale auto-obbligazione non è in fin dei conti vacua ab initio, dato che lo Stato, nel quale si concentra la potestà legislativa, può, mediante procedimenti costituzionalmente conformi, con una legge di contenuto contrario in ogni momento vanificare l’obbligo assunto? A questo punto la soluzione proposta da Jellinek è a mio avviso pienamente consapevole della rinuncia chechiede alle teorie fondate sul formalismo giuridico. Tale obiezione è ammissibile infatti soltanto finché si consideriil diritto dal punto di vista formale, ma è proprio questopunto di vista che secondo Jellinek va abbandonato a favore di un approccio sostanziale. E qui torna il tema degli scopi dello Stato. Per Jellinek la posizione del diritto non è uno scopo perseguito dallo Stato che dal punto di vista contenutistico possa corrispondere a motivi arbitrari,

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ma deve essere orientato da motivi ragionevoli. Certo, il contenuto normativo di un ordinamento giuridico non può predeterminarsi in anticipo, almeno non si può farlo in dettaglio, vale a dire prevedendo con sufficiente precisione quale sarà il contenuto di tutte – o almeno delle più importanti fra le sue norme. Ma per Jellinek è certo che fra gli scopi dello Stato vi è quello di porre il diritto e di proteggere il diritto così posto, sicché mutando le norme esistenti in maniera arbitraria, lo Stato finirebbe per agire in maniera contraria ai propri scopi e dunque contro se stesso, mettendo prima o poi a repentaglio la propria stessa integrità e/o la propria stessa esistenza. Ciò non significa che il diritto positivo, una volta posto, vadaconsiderato come immutabile. Per Jellinek anzi è affidato alla prudenza e alla sensibilità degli organi statali di introdurre quelle modifiche necessarie per corrispondere alle trasformazioni cui la vita dello Stato necessariamente soggiace. Ma – e ciò è espressamente sottolineato da Jellinek – “ogni atto di legislazione che volesse modificare le leggi esistenti corrispondenti allo scopo del diritto[...] sarebbe allora giuridicamente non conforme”, vale a dire sarebbe un atto illecito. Solamente in tal senso può dirsi che per sua propria natura l’auto-obbligazione dello Stato non è mai eterna ma soggiace sempre alla clausola rebus sic stantibus, giacché ogni norma posta dallo Stato sussiste e ha ragione di sussistere soltanto nella misura in cui corrisponda allo scopo dello Stato. Dunque il principio dell’auto-obbligazione così come sostenuto da Jellinek ha senso se si comprende che “[s]oltanto per il tempo in cui i rapporti oggettivi alla cui normazione è determinata la relativa legge restano i medesimi immodificati l’auto-obbligazione dello Stato ha assolutamente forza vincolanteper quest’ultimo” (corsivo mio).

Dunque è la volontà auto-obbligantesi dello Stato a costituire il fondamento di ogni fenomeno giuridico: sia all’interno dello Stato, mediante la legge, con la quale lo Stato si rivolge non soltanto ai propri sudditi, ma anche a se stesso; sia all’esterno verso altri soggetti sovrani, mediante l’accordo internazionale. A questo punto Jellinek passa infatti a considerare come la natura di auto-obbligazione della volontà dello Stato nella sua connessione con gli scopi ragionevoli di questo sia principio cardine anche dal lato esterno della volontà

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statale, vale a dire nei rapporti con altri Stati. Dato che lo Stato per sua natura necessita di completamento, e dunque da questa incompletezza dello Stato scaturisce la necessità di relazionarsi con altri Stati, è necessario il riconoscimento giuridico di questi. Jellinek sottolinea come lo Stato non possa scegliere in maniera arbitraria se entrare o meno in relazione con altri Stati. Gli accordi stipulati con questi sono altrettanto inviolabili come le leggi interne, e pertanto soltanto un motivo ragionevole può dispensare lo Stato dall’obbligo assunto, sia sul piano interno che internazionale. Ma Jellinek previene il lettore che vorrebbe individuare una possibile contraddizione fra la libertà e al contempo la necessità che contrassegnano sia l’adozione dei contenuti delle leggi interne che la stipulazione degli accordi internazionali. Per sciogliere questa apparente contraddizione Jellinek propone alcuni esempi concreti di cui riporto in questa sintesi soltantoquello di più immediata comprensione. Libertà e necessitàpossono coesistere proprio come nel caso di un individuo che deve nutrirsi – altrimenti il suo corpo deperisce e muore – ma al contempo può scegliere come, quando, quanto e di che tipo di alimenti cibarsi. Così lo Stato è libero di stipulare accordi con altri Stati, ma se lo fa contravvenendo a quelli che sono i propri scopi, può mettere a repentaglio la propria stessa esistenza.

A questo punto si apre la seconda sezione del volumetto, più succinta rispetto alla parte vista sin qui. In questa sezione la preoccupazione principale di Jellinek è quella di dimostrare l’esistenza di un diritto internazionale oggettivo, e non soltanto quale posizione unilaterale dello Stato (cioè come sua attività esterna che solamente in maniera casuale incontra la corrispondente volontà di altri Stati). Ora, per dimostrare che il diritto internazionale non può esser ridotto a mera attività esterna dello Stato, Jellinek osserva innanzitutto come ciò che consente di creare diritto fra due soggetti sia il riconoscimento, cioè il fatto che ciascuno venga riconosciuto dall’altro cometitolare di diritti14. Dice Jellinek, a mio avviso in parte

14 Per J. von Bernstorff, “Georg Jellinek – Völkerrecht als

modernes öffentliches Recht im fin de siècle?”, in S.L. Paulson, M. Schulte (a cura di), Georg Jellinek. Beiträge zu Leben und Werk, cit., pp. 183-207, a p. 194, testo e nota 57, questo riconoscimento di cui parla Jellinek sembra interpretato in senso meno radicale di come

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contraddicendosi e comunque in maniera meno efficace rispetto a quanto osservato a proposito dell’incompletezza dello Stato: “si può entrare in relazione soltanto con qualcuno di cui si riconosca l’esistenza giuridica [...] ubi societas, ibi jus. Lo Stato resta formalmente libero di entrare o meno nella societas. Ma se l’ha fatto, allora insieme con la societas esso ha voluto anche lo jus”. Da qui la natura oggettiva delle relazioni fra Stati, giacché lo Stato, nel momento in cui entra in “relazione di vita con un altro Stato, [...] assume nella propria volontà i momenti oggettivi che regolano questa relazione di vita, essidivengono norme che ne vincolano la volontà mediante la sua volontà”. E, precisa Jellinek, le norme del diritto internazionale non sono propriamente diritto di natura, in quanto tali momenti oggettivi di per sé non sarebbero che vuoti schemi, i quali però ricevono concretezza e vitalità mediante la volontà creatrice dello Stato per il fatto di entrare in relazione con altri Stati sulla base del riconoscimento. Qui Jellinek ricorda come lo stesso jus gentium elaborato dalla giurisprudenza romana, sorto dalla natura stessa delle cose da regolare, sia divenuto diritto delle genti solamente in quanto è stato adottato da “omnes gentes” (jus quo omnes gentes utuntur). Similmente gli Stati, in mancanza di un’autorità sovraordinata cui sia affidato il compito di porre il diritto, “elevano la naturalis ratio a criterio della propria volontà e con ciò la fanno diventare civilis ratio”, sicché può esser creato fra gli Stati un diritto oggettivo fondato sulla natura della cosa. In ciò Jellinek prende le distanze dalla tesi, ancor oggi latente inmolti manuali di diritto internazionale, per la quale le norme giuridiche in vigore fra gli Stati sarebbero create “per analogia” con le norme del diritto privato, ovvero

secondo me dovrebbe intendersi. Da questi autori il riconoscimento di cui parla Jellinek è inteso come uno “strumento” di cui lo Stato può servirsi (o eventualmente, evita di servirsi), al fine di entrare in relazione con altri soggetti a lui pari o “farsi carico” del diritto oggettivo così creato. A prescindere da quella che sarà la posizione di Jellinek su questo punto, come approfondita successivamente allo scritto qui in oggetto (gli autori legano infatti la loro interpretazione piuttosto al Sistema dei diritti pubblici soggettivi, I ed. 1892, che non a La natura giuridica degli accordi fra Stati) mi sembra che qui invece Jellinek intenda il riconoscimento in senso hegeliano, vale a dire come fondamento della relazione giuridica nella dimensione della Sittilichkeit.

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sarebbero una trasposizione ai rapporti interstatali di norme provenienti dal diritto privato. In realtà, fra accordo fra privati e accordo fra Stati vi sono soltanto alcuni “punti di contatto”, e la forza produttiva di norme attribuita all’analogia può ammettersi soltanto ove sia lo stesso diritto internazionale a contemplare l’analogia quale fonte di diritto. Una volta chiarito ciò, Jellinek passa a occuparsi delle norme in materia di ratifica degli accordi, prendendo in considerazione sia le questioni relative alla competenza a stipulare, sia quelle riguardanti la natura degli accordi internazionali prima che sopraggiunga la ratifica. Non ritengo utile dilungarmi su questo punto in questa breve sintesi del testo di Jellinek considerato che trattasi diquestioni le quali, a seguito dell’adozione della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati, non vengono attualmente poste seriamente in discussione in modo difforme da quanto proposto dal nostro.

Nella parte conclusiva del suo scritto invece Jellinek spende alcune interessanti riflessioni sul principio fondamentale che domina l’istituto giuridico dell’accordo internazionale, vale a dire pacta sunt servanda. Riproponendo quanto già esposto sopra a proposito del fondamento ultimo del diritto posto dallo Stato dal lato interno, Jellinek precisa qui come i motivi materiali della forza vincolante degli accordi interstatali siano i medesimi che spingono lo Stato a fornire tutela giuridica ai rapporti fra privati, vale a dire sostanzialmente motivi di natura etica, che Jellinek individua proponendo tre “gradi” di “eticità”: moral, ethisch, sittlich (ampliando così la contrapposizione a due termini proposta da Hegel nella sua filosofia del diritto, polarizzata sul rapporto moral-sittlich). Come già accennato, riservo a un secondo momento l’esame di tali questioni, non ultimo anche per via della povertà della lingua italiana che non consente un’adeguata traduzione del termine sittlich, la cui radice etimologica, Sitte, raccoglie insieme i significati di“costume”, “uso”, “principio etico” “costumanza”, “buon costume”. Ciò che qui conta è l’accento, nuovamente posto da Jellinek, sul fondamento etico-morale quale radicamento ultimo delle garanzie del diritto; non sonotuttavia poco problematiche le conclusioni cui l’autore perviene, in quanto per esempio egli considera che un accordo internazionale “unsittlich”, cioè grosso modo

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“contrario ai buoni costumi”, andrebbe considerato giuridicamente nullo perché altrimenti verrebbe meno una delle garanzie fondamentali del diritto internazionale15.

L’ultima parte del testo, considerati i lavori di codificazione che hanno avuto ad oggetto il diritto dei trattati, è indubbiamente la meno interessante. Qui Jellinek tocca, ma in verità senza approfondire granché, quelle che sono le cause di invalidità e di estinzione degli accordi internazionali. Fra le cause di invalidità egli richiama i “classici” vizi della volontà (errore, dolo, violenza esercitata sul plenipotenziario) mostrando cosìindirettamente quanto problematica fosse già ai suoi tempi la valutazione della liceità degli accordi conclusi mediante la violenza esercitata sullo Stato (per esempio gli accordi di pace). Nella seconda categoria egli annovera alcune fra le cause di estinzione del vincolo pattizio fra Stati (scadenza del termine, distruzione dell’oggetto dell’accordo ecc.) soffermandosi brevemente sulla possibilità che uno Stato si liberi dal vincolo pattizio contratto invocando la necessità suprema della propria autoconservazione. Anche qui, benché in maniera assai stringata, Jellinek argomenta a favore di tale possibilità richiamando l’operatività della clausola rebus sic stantibus già ricordata.

Infine, ancora fra le cause di estinzione degli accordi, Jellinek ricorda l’effetto estintivo del principio inadimplenti non est adimplendum e svolge al riguardo una breve riflessione sull’autotutela in diritto internazionale che per quanto succinta non è priva di implicazioni problematiche, soprattutto alla luce degli sviluppi del dirittointernazionale attuale. Per Jellinek l’autotutela sembra dover essere intesa come via di fatto (e non via giuridica) all’attuazione del diritto, e ciò stante la natura sovrana dei soggetti del diritto internazionale16.

15 È forse per considerazioni di questo tipo che il pensiero

Jellinek è considerato un po’ datato, oppure la sua è una vera e propria lungimiranza rispetto a quelle che sarebbero state quasi un secolo dopo le norme di jus cogens a venire, in particolare gli artt. 53 e 64 della ricordata Convenzione di Vienna?

16 In questo ritengo superata la visione di Jellinek soprattutto alla luce dei lavori di codificazione ad opera della Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite in materia di responsabilità internazionale degli Stati per fatti illeciti (v. al sito www.un.org la relativa, ricchissima documentazione predisposta dai vari relatori che si sono avvicendati in quasi mezzo secolo di lavori per la

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A questo punto Jellinek ritiene di aver dimostrato sufficientemente l’esistenza del diritto internazionale oggettivo e, nel ribadire che il diritto internazionale, così dimostrato come esistente, trae la propria ragion d’essere dalla natura dei rapporti di vita fra gli Stati fondati a loro volta sul riconoscimento reciproco da parte degli Stati, chiude il proprio discorso.

3. Perché tradurre il testo di Jellinek all’inizio del IIImillennio

Dopo questa breve sintesi del contenuto del saggio di Jellinek qui presentato per la prima volta in versione italiana, vorrei svolgere qualche considerazione sul motivo che mi ha spinto a tradurre un lavoro che per alcuni aspetti è sicuramente ormai superato. In primo luogo, mi sembra che l’oblìo nel quale, almeno nell’ambito della dottrina internazionalistica, sembra caduto il pensiero di Jellinek riguardo al fondamento teorico del vincolo derivante da accordi internazionali sia dovuto a un essenziale fraintendimento del suo modo di ravvisare talefondamento essenzialmente nella “volontà dello Stato”. Ma,come accennato, comunemente si considera che, ammettendo quale premessa – dunque a fondamento del diritto internazionale – la volontà dello Stato, la conseguenza logica necessaria da trarre parrebbe essere che il diritto internazionale si fondi sulla volontà dello

redazione di un progetto di convenzione ancora non adottato dagli Stati). Ma questo superamento mi sembra già attestato nell’opinione individuale di Dionisio Anzilotti in occasione della pronuncia sull’affare dei regimi doganali fra Germania e Austria, allorché egli sottolineava che indipendenza dello Stato significa non riconoscere alcuna autorità al di sopra di sé se non quella del diritto internazionale (cfr. Permanent Court of International Justice, Series A./B., Fascicule No. 41, Customs Régime Between Germany and Austria, Protocol of March 19th, 1931, del 5 settembre 1931, pp. 37-54; l’opinione individuale di Anzilotti può leggersi ivi, pp. 55-73, p. 57). Sottolineo questo punto per mettere in luce come, in caso di violazione del diritto da parte di uno Stato, la facoltà dello Stato leso di ricorrere a meccanismi di autotutela sia prevista dal diritto internazionale e da questo regolamentata; pertanto mi sembra che essa costituisca una via pienamente giuridica (e non fattuale) di attuazione/esecuzione del diritto.

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Stato intesa come arbitrio o comunque si dissolva in una serie di norme semplicemente rivolte verso l’esterno, dunque segnate da un irriducibile soggettivismo – che comunque è in grado di produrre abusi. Ma la brevesintesi appena tracciata dovrebbe aver persuaso il lettore che per Jellinek è di importanza essenziale dimostrare proprio il contrario, e cioè innanzitutto che la volontà dello Stato non va intesa come arbitrio; e poi che il diritto internazionale, pur fondato sulla volontà dello Stato, è diritto oggettivo e sarebbe riduttivo intenderlo come mero diritto statale rivolto verso l’esterno. In questo punto, anzi, Jellinek, servendosi di temi, termini e snodi fondamentali del pensiero hegeliano, mi sembra rappresentare unimportante anello di congiunzione fra, da un lato, la filosofia del diritto facente capo allo stesso Hegel – secondo il quale, non senza ambiguità, il diritto internazionale non pare riuscire a stabilizzarsi in una dimensione oggettiva ma sempre sottostà alla volontà particolare dei singoli Stati17 – e, dall’altro lato, la riflessione sul dirittointernazionale (condotta nel novecento soprattutto dagiuristi) che accantonerà il problema del diritto internazionale oggettivo come falso problema, tant’è che fra gli studiosi del diritto internazionale contemporaneo la

17 Cfr. per esempio G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del

diritto, cit., pp. 555-556, §§ 333-334. A mio avviso in qualche modo su questo punto Jellinek porta la filosofia hegeliana alle estreme conseguenze. Mi pare che Jellinek con la sua riflessione mostri come lo stadio dello Stato, il quale per Hegel rappresentava il compimento in senso storico-politico dello spirito, se considerato dalla sola prospettiva del lato “interno”, e cioè del diritto nazionale, soffra di incompletezza e quindi finisca sotto questo profilo per configurarsi come momento soggettivo, lasciando forse presagire come il movimento storico dello spirito evolverà verso il suo toglimento (Aufhebung), cioè verso il superamento del lato soggettivo e il consolidamento di un momento obiettivo superiore. Forse all’inizio del III millennio può dirsi che tale “momento obiettivo” è rappresentato dalla comunità internazionale? – realtà, questa, che all’epoca di Hegel era ben lungi dal presentare i caratteri di complessità con cui hanno a che fare gli studiosi del diritto internazionale contemporaneo. Senza poter qui approfondire la questione se per Hegel lo Stato, per ciò che di esso vi è ancora di soggettivo, sarebbe un momento destinato a esser tolto, è a mio avviso con grande acume che Jellinek più volte pone l’accento, nel suo piccolo testo, sull’esigenza di considerare il diritto internazionale come un “momento obiettivo”.

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natura obbiettiva18 di questo ordinamento giuridico così peculiare non viene praticamente più revocata seriamente in dubbio.

In secondo luogo, al di là di quelli che poi sarebbero stati gli sviluppi del diritto internazionale nel corso del novecento e che Jellinek certo non poteva prevedere, è proprio il motivo che l’ha destinato all’oblio a rendere ora necessaria una rivalutazione del suo pensiero. Dopo vari decenni in cui la teoria pura kelseniana ha dominato la riflessione sul fenomeno giuridico determinandol’approccio formalista allo studio e all’applicazione del diritto, in particolare dopo aver assistito alla deriva catastrofica che una visione soltanto formale del diritto ha portato con sé19, qualche correttivo in senso sostanzialista20 sembra indispensabile per non correre il rischio di ripetere l’errore di rivestire di una patina dilegalità fatti aberranti come genocidi, sparizioni di massa, misure armate contro persone inermi.

Corrispondendo in qualche modo alla necessità di operare tale correttivo all’approccio formalista, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale il grande movimento di riassetto interno degli Stati più progrediti si è volto innanzitutto ad affermare l’inviolabilità di alcuni diritti individuali ritenuti “fondamentali”. In secondo luogo, all’interno di alcune costituzioni sono stati inseriti meccanismi per garantire tale inviolabilità dei diritti fondamentali e porre i sistemi democratici al riparo da sovvertimenti in senso dittatoriale attuati mediante strumenti normativi che della legalità mantengono soltanto la parvenza. Il più diffuso di tali meccanismi –

18 Almeno nel senso di “oggettivamente esistente” e dunque non

“produzione soggettiva dello Stato”, ma senza porre il problema di un’avvenuta Aufhebung della compagine statale così come pensata da Hegel.

19 Giacché, come già accennato, una tale visione soltanto formale porta a considerare come pienamente “giuridiche” norme quali le leggi razziali e tutte quelle norme istitutive di patente ingiustizia legalizzata soltanto in quanto “posta” dagli organi detentori del potere legislativo.

20 Approccio sostanzialista sul quale pure, peraltro, va ricordato che da qualche decennio batte l’accento un filone della dottrina costituzionalistica italiana, quella che per esempio risale al pensiero di Costantino Mortati e arriva ad altri studiosi contemporanei, per esempio Gianni Ferrara e Fulco Lanchester.

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quasi grado-zero degli ordinamenti democratici – risiede come noto nel carattere rigido di cui sono dotate ormai la maggior parte delle costituzioni che contemplano dirittiinviolabili21. Ma questa evoluzione “sostanzialista” non ha soltanto conosciuto un approfondimento dal versante interno dei diritti nazionali, bensì, come noto, ha anche trovato notevole impulso e rafforzamento mediante lo sviluppo dei diritti umani in quanto diritti inviolabili a livello internazionale, sia pattizio che generale22. Inoltre, per gli Stati come il nostro, coinvolti nel processo di integrazione europea, la ratifica del Trattato di Lisbona ha determinato il recepimento anche a livello europeo – quindi in una sorta di posizione intermedia, ancorché giuridicamente discontinua fra diritti interni e diritto internazionale – di una serie di norme in materia di diritti umani fondamentali le quali rafforzano ulteriormente i diritti individuali e le loro possibilità di esercizio23.

Come può dunque cogliersi da queste brevi considerazioni, nello sviluppo della teoria giuridica del novecento può rilevarsi un filo conduttore il quale mostra una evoluzione la quale più o meno consapevolmente muove verso una ricusazione del formalismo giuridico nel senso proposto da Kelsen e delle sue derive più aberranti. Benché l’autorevolezza di Kelsen non sia messa in discussione, giacché l’ermeneutica giuridica è o dovrebbe essere, almeno nel nostro Paese, ancora legata al rigoroso approccio logico-deduttivo grazie al quale il nostro

21 Vedansi a tal proposito l’evoluzione tracciata e le

considerazioni riportate in P. Biscaretti di Ruffia, Introduzione al diritto costituzionale comparato. Le “forme di Stato” e le “forme di governo”. Le costituzioni moderne, Giuffrè, Milano 1988.

22 Sulle principali garanzie predisposte dal diritto internazionale in materia di diritti umani vedasi in particolare A. Marchesi, Diritti umani e Nazioni Unite. Diritti, obblighi e garanzie, Franco Angeli, Milano 2007, di cui è apparsa anche una più recente edizione dal titolo modificato in La protezione internazionale dei diritti umani. Nazioni Unite e organizzazioni regionali, Franco Angeli, Milano, 2011.

23 Sia mediante l’adozione della cd. Carta di Nizza che mediante l’adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950: cfr. l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea come modificato dal Trattato di Lisbona. Su tale norma vedasi in maniera succinta ma efficace U. Draetta, Elementi di diritto dell’Unione Europea. Parte istituzionale. Ordinamento e struttura dell’Unione europea, V ed., Giuffrè, Milano, 2009, in particolare p. 252 ss.

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ordinamento giuridico in quanto sistema può essere percorso in trasparenza dai principi primi (carta costituzionale) sino alle più minute norme di dettaglio e di grado infimo, il contenuto di alcune norme fondamentali è protetto dalle distorsioni che l’adozione di interpretazioni meramente formalistiche rischierebbe di produrre24.

Ora, alla luce di quanto osservato, mi sembra interessante rilevare come Jellinek già nel breve scritto qui tradotto abbia messo l’accento sulla opportunità di accostarsi al diritto in senso sostanziale, e ciò molti decenni prima che la storia degli ordinamenti giuridici novecenteschi si avviasse verso le derive provocate dai regimi dittatoriali. A tale riguardo, e con grandelungimiranza, se si tiene conto dello sviluppo in senso sostanzialista che tanti sistemi giuridici hanno esperito nel corso del novecento, Jellinek osserva:

“dobbiamo abbandonare il punto di vista giuridico formale perindagare quali siano i momenti che guidano la volontà dello Statonella creazione del diritto. Infatti la determinazione di ciò che deve diventare diritto è necessariamente dipendente dal momentosostanziale del diritto e dello Stato. Pertanto qui abbiamo bisogno di rivolgerci alla natura dello Stato al fine di chiarire il processo che determina lo Stato a dare alla propria volontà un contenutoconcreto”25.

E la natura dello Stato che Jellinek si propone qui di indagare non è accostata nel senso formalista suggeritodalla dottrina kelseniana, ma al contrario, è orientata dall’attenzione agli scopi dello Stato, i quali per Jellinek non possono che essere identificati in senso sostanzialista, vale a dire dal punto di vista del loro contenuto, che per Jellinek deve essere “ragionevole”. Come si legge nelle sue parole, infatti,

24 Come noto, nel nostro Paese fra gli altri svolge tale funzione il

principio di ragionevolezza (desunto in sostanza dell’art. 3 della nostra Costituzione) così come elaborato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. A tale riguardo vedansi per tutti i commenti all’art. 3.1 Cost., di A. Celotto, e all’art. 3.2 Cost., di A. Giorgis in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, UTET, Torino, 2006, vol. I, Artt. 1-54, rispettivamente pp. 65-87 e 88-113, nonché i riferimenti di dottrina e giurisprudenza ivi riportati.

25 Cfr. infra, p. 94 (corsivi miei).

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“[c]omunque si voglia pensare all’essenza dello Stato, una cosa ancor oggi è posta al di là di ogni dubbio: che essa non può essereintesa come arbitrio, che a determinare la volontà dello Stato nonsono ghiribizzi lunatici, ma motivi ragionevoli. Non è materialmenteriposto nel capriccio dello Stato se esso in generale voglia creare un ordinamento giuridico e quale contenuto questo debba possedere”26.

In altri termini, Jellinek pone l’accento sul fatto che, benché non possa predeterminarsi in anticipo il contenuto delle norme giuridiche che verranno create dallo Stato, in ogni caso tali norme debbono essere ragionevoli, e non possono essere il frutto di una volontà arbitraria. “Ragionevole” indica qualcosa che, come nel caso di “razionale”, si radica nella facoltà umana della “ragione”. Ma nonostante questa comune radice nella ragione, “ragionevole” è qui in qualche modo opposto a “razionale”. “Razionale” è radicato nella ragione in quanto qualifica un giudizio fondato su criteri puramente logico-deduttivi, in modo incurante dei contenuti elaborati e del loro impatto pratico-concreto. La dottrina pura del diritto elaborata da Kelsen sembra radicarsi lungo il versante della razionalità nella misura in cui ammette in quanto giuridiche norme di qualsivoglia contenuto, purché concatenate da criteri logici in senso formale. La “ragionevolezza” di cui parla Jellinek invece si situa sul versante del rapporto fra ragione e dimensione pratica. Il criterio che essa offre per vagliare la norma giuridica non rinuncia a “sporcarsi le mani” percosì dire con la difficoltà di addivenire a un’applicazione del diritto che risponda a giustizia. Mi sembra di poter leggere alla luce di tale considerazione il fatto che, come ho già ricordato, il principio di ragionevolezza nel nostro ordinamento giuridico attuale è esplicitamente riconnesso al principio di eguaglianza (sia formale che sostanziale) di fronte alla legge enunciato nell’art. 3 della nostra Costituzione, il quale probabilmente può considerarsi come la norma più importante dell’ordinamento giuridico italiano nel suo complesso.

Come ritiene Jellinek di poter saggiare la ragionevolezza dei motivi che deve orientare lo Stato in particolar modo nella posizione del proprio diritto? L’autore austriaco sottolinea a questo punto come il porre e difendere il diritto non siano due scopi fra i tanti che lo

26 Cfr. infra, p. 94 (corsivo nel testo).

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Stato possiede per sua propria natura, ai quali deve ottemperare ma che potrebbe non realizzare perconseguirne altri più importanti eventualmente con essi confliggenti. Porre e difendere il diritto sono invece scopiessenziali dello Stato, anzi, sono piuttosto due aspetti di un unico e medesimo scopo. Nelle parole di Jellinek:

“lo Stato è vincolato dai propri scopi dei quali fa parte anche quello di essere l’organo del popolo che pone il diritto e che protegge il diritto. Se non realizza questo scopo o se addirittura agisce controdi esso, con ciò lo Stato commette un attacco verso se stesso, cerca di distruggere le condizioni della sua propria esistenza”27.

Dunque, se lo Stato non raggiunge questo suo scopo primario, consistente nella posizione del diritto e nella tutela del diritto posto, va contro la propria stessa natura e mina se stesso dalle proprie fondamenta, innesca il meccanismo più o meno rapido della propria distruzione. Di tale principio Jellinek sottolinea l’importanza non soltanto a livello del diritto interno, ma anche sul pianopiù ampio del diritto internazionale. A tale proposito, su questo più ampio piano, si coglie in quest’osservazione di Jellinek una luce di straordinaria attualità, che richiama alla mente fra l’altro la connessione fra tutela dei diritti umani fondamentali e mantenimento della pace, esplicitamente concretizzata in senso propositivo nel 1992 nel celebre documento An Agenda for Peace del Segretario generale delle Nazioni Unite Boutros-Ghali28. La

27 Cfr. infra, p. 94 (corsivi miei).28 Cfr. An Agenda for Peace. Preventive diplomacy, peacemaking

and peace-keeping, UN Doc. A/47/277- S24111, del 17 giugno 1992, pubblicato al sito http://www.un.org/Docs/SG/agpeace.html. L’idea che il mantenimento della pace sia collegato al rispetto del diritto non è una novità del Segretario Generale. Già nel 1941 il presidente americano Roosevelt, con il discorso sulle “quattro libertà” tenuto dinanzi al Congresso con lo scopo di giustificare la partecipazione degli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale, aveva “posto un collegamento, ideale e politico, fra protezione dei diritti umani e mantenimento della pace internazionale” (così A. Marchesi, Diritti umani e Nazioni unite, cit., p. 11). Lo stesso Kelsen, facendo tesoro dell’esperienza della Società delle Nazioni, quando ancora il secondo conflitto mondiale era in corso, racchiudeva un progetto quanto mai ambizioso, consegnandolo alle pagine acute e al tempo stesso visionarie di Peace through Law, University of North Carolina Press, 1944, tr. it., di L. Ciaurro, La pace attraverso il diritto,

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connessione ivi posta fra mantenimento della pace e tutela dei diritti umani, due competenze delle Nazioni Unite che per tanti anni si sono sviluppate in maniera separata, ciascuna come settore a sé, sta a significare che la pace (e ciò può valere non soltanto per quella sociale all’interno di qualunque Stato, ma per la stessa pace internazionale) si alimenta, si rafforza, si diffonde proteggendo, rafforzando e diffondendo il diritto. Là dove i diritti sono rispettati, gli individui hanno motivi meno solidi di contestare l’esercizio del potere politico, il malcontento è meno radicale, lepersone riescono a godere maggiormente della bellezza della propria esistenza, senza esser preda di rabbia né senso di ingiustizia, sentimenti i quali possono spingere a comportamenti inconsulti in grado di innescare pericolose reazioni a catena, che nei tempi più bui dilagano senza possibilità di contenimento, neppure ad opera delle forze pubbliche. Reciprocamente, è proprio la violazione deidiritti a costituire uno dei più importanti fattori di instabilità in quanto essa è fonte di astio, iniquità, senso di insoddisfazione e desiderio/bisogno di cambiamento. La storia stessa è testimone di questa stretta connessione fra pace sociale e rispetto del diritto e nonostante la lezione storica dalla quale si potrebbe apprendere, soltanto pochissimi anni ci separano da un documento comel’Agenda for Peace come se anche il solo fissare per iscritto tale connessione fosse frutto di uno sforzo titanico. Alla luce di questa considerazione, dell’oblìo in cui l’esigenza del rispetto dei diritti sembra continuamente cadere, la riflessione di Jellinek mantiene pertanto integra tutta la sua attualità.

Giappichelli, Torino, 1990. In questo scritto Kelsen cercava di mettere in luce le debolezze intrinseche del diritto internazionale e proporvi rimedi adeguati, facendo proprio leva sul dato di fatto storico, questo, che in effetti una comunità nella quale il diritto è rispettato ha esistenza più pacifica e duratura di una nella quale invece il diritto è calpestato. Nonostante questi precedenti eccellenti, intendo sottolineare come nell’Agenda for Peace per la prima volta si sia tentato di tradurre in concreto, pensando a una serie di misure specifiche alle quali fare ricorso, il nesso fra mantenimento della pace e tutela di una categoria particolare di diritti la cui protezione è in grado di condizionare in maniera capillare il mantenimento della pace, vale a dire i diritti umani fondamentali.

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4. Potestà statale e sovranità nel pensiero di Jellinek. Diritto,limite e soglia

Jellinek dice dunque: scopo (sommo) dello Stato è porre e proteggere il diritto. Peraltro, con questa considerazione, Jellinek non intende affermare ingenuamente che il diritto, una volta posto, debba restare in vigore per sempre. Al contrario, egli sottolinea come

“dato che la società per la quale le leggi sono predisposte è concepita in costante movimento e trasformazione, la potestà dello Stato commetterebbe il maggior illecito materiale se volesse ritenersi vincolata in eterno mediante le proprie leggi; con ciò essa opererebbeaddirittura per la sua propria rovina, così come essa fa ogni voltache agisce contro gli scopi dello Stato”29.

Dunque, non soltanto è ammissibile che lo Stato modifichi il diritto che esso stesso ha creato, ma anche è necessario che lo faccia per corrispondere a nuove esigenze imposte dalle inevitabili trasformazioni cui ogni gruppo sociale va incontro nella propria esistenza storica. Tuttavia, di nuovo, questa considerazione di Jellinek va letta alla luce del suo approccio sostanzialista. Si ricadrebbe infatti nel medesimo vizio del formalismokelseniano che considera norma giuridica quella prodotta dallo Stato a prescindere dal suo contenuto se si ammettesse che lo Stato possa revocare diritti già concessi (per esempio quelli fondamentali riconosciuti ai singoli) invocando in maniera pretestuosa l’avvenuto cambiamento delle circostanze che l’avevano condotto un tempo a concederli. Nonostante tale chiara presa di posizione da parte di Jellinek, questo punto resta assai delicato tuttora, nel nostro tempo, in quanto esso tocca fra gli altri il problema dello stato di eccezione quale manifestazionepropria e più originaria della potestà sovrana dello Stato.

Il problema dello stato di eccezione, in particolare nella sua declinazione schmittiana30, ha goduto in tempi

29 Cfr. infra, p. 95 (corsivo nel testo).30 Cfr. C. Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von

der Souveränität, (1922), Duncker & Humblot, Berlin, 20048, tr. it. di P. Schiera, Teologia politica: quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna, 1972, pp. 27-86. Oltre al lavoro di Schmitt sulla teologia politica, tematicamente rilevante è anche il breve scritto di W. Benjamin Per

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recenti di rinnovato favore, grazie alla sua ripresa, in Italia, ad opera del fortunato libello di Giorgio Agamben che si è servito di questa figura per leggere alcuni inquietanti fenomeni del nostro passato più vicino, come le condizioni di detenzione a Guantánamo, le leggi italiane sul terrorismo e, risalendo nel tempo, gli stessi campi di sterminio istituiti dal regime nazista31. In estrema sintesi, secondo la dottrina dello stato di eccezione, invocando l’emergenza, al fine di preservare se stesso o l’ordine in vigore, il titolare della potestà sovrana potrebbe liberarsi degli obblighi precedentemente contratti. Esempio tipico potrebbe essere quello dello Stato il quale per far fronte a una situazione eccezionale sospende l’ordinamento giuridico vigente e instaura un ordinamento speciale, eventualmente repressivo o tirannico, al fine di ristabilire prima o poi (ma non necessariamente) l’ordinamento sospeso. Sulla base di questo schema Agamben ha letto per esempio l’USA Patriot Act, il terribile, retrogrado, illecito provvedimento gravemente lesivo dei dirittifondamentali degli individui ritenuti responsabili delleattività di terrorismo e adottato dall’allora presidente G.W. Bush all’indomani dell’attentato alle torri gemelle nel 200132.

Ora, se la dottrina di Carl Schmitt, la quale già negli anni venti del novecento doveva apparire come assai conservatrice, poteva avere un senso in un’epoca in cui il dominio coloniale era concepito come parte irrinunciabile della potestà di molti Stati europei, e allorché era ancora

la critica della violenza, in Schriften, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1955, trad. it. a cura di R. Solmi, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino, 1995, pp. 5–30. Va ricordato che, ancor prima di ricevere la nuova risonanza cui accenno nel testo, il pensiero di questi due grandi pensatori passa per il medio di J. Derrida, Force de loi. Le “Fondement mystique de l’autorité”, Galilée, Paris, 1994, trad. it. a cura di F. Garritano, Forza di legge. Il “fondamento mistico dell’autorità”, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.

31 G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.

32 USA Patriot Act è acronimo di Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism Act of 2001; il testo integrale è consultabile al sito della Biblioteca del Congresso http://thomas.loc.gov/cgi-bin/query/D?c107:1:./temp/~c107aFx6AG::, visitato il 25 settembre 2012. Per la lettura di quest’atto alla luce della dottrina dello stato di eccezione v. G. Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 12.

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assai vivo il retaggio dell’idea del sovrano assoluto33, mi sembra che la sua proposizione nei termini con cui essa ha ritrovato nuova eco nel dibattito contemporaneo non soltanto sia poco prudente, ma finisca anche col non tenere in conto molti elementi di sviluppo del diritto. È poco prudente perché, assumendo lo stato di eccezione a fondamento ineliminabile del fenomeno giuridico e in qualche modo “più autentico” rispetto al diritto stesso incontrato invece come una sovrastruttura, si finisce conl’accogliere con fatalismo l’avvento di sciagure politiche (per esempio l’instaurazione, mediante l’invocazione dell’emergenza, di regimi dittatoriali), quasi che queste non potessero essere che la manifestazione necessaria di tale dimensione “più autentica” e “più originaria”34. Inoltre essa non tiene conto degli sviluppi del diritto, né costituzionale né internazionale, attestati in tutto il secondo novecento, in quanto misconosce il fatto che, ancorché faticoso, lo sviluppo delle garanzie giuridiche può essere consideratocome l’argine nei confronti di fenomeni di sopraffazione(purtroppo così frequenti nel corso della nostra storia, anche recente) che null’altro sono se non violazioni del diritto, soprusi, calpestamenti di esseri umani e non potranno mai, a mio avviso – non con la coscienza maturata nella contemporaneità – adeguatamente camuffarsi da fenomeni “più autentici” sotto alcuna parvenza di legalità35.

Che cosa dice Jellinek in ordine a un problema così delicato? Prima facie egli sembra ammettere un meccanismo come quello dello stato di eccezione, là dove scrive:

33 Tale idea doveva continuare in qualche modo a sussistere sotto

le ceneri della caduta delle monarchie assolute in quanto prima della seconda guerra mondiale molte costituzioni avevano carattere flessibile, cioè erano state adottate con legge ordinaria per grazioso atto del sovrano e i diritti ivi contenuti avrebbero potuto essere revocati in qualunque momento mediante una qualunque legge ordinaria successiva.

34 Alla fine sembra questo il senso ultimo a risuonare nel pur fascinoso scritto di G. Agamben Stato di eccezione, cit., cfr. spec. pp. 47 ss. e 77 ss.

35 Mi sia qui consentito il rinvio al mio Riflessioni su stato di eccezione, diritto internazionale e sovranità, Aracne, Roma, 2008, spec. il II Capitolo.

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“[l]o Stato non può mai obbligarsi al riconoscimento incondizionato di un principio giuridico. Sempre, laddove nel caso concreto gli scopi supremi dello Stato entrino in gioco contro il mantenimento di una regola giuridica astratta, quest’ultima deve cessare di avere vigenza. È insensato pretendere dallo Stato che esso, per corrispondere a un obbligo assunto, debba annichilire se stesso e, come all’individuo, anche allo Stato deve essere riservato un diritto di necessità. Inoltre [...] le norme non sono comandi vigenti senza eccezione, bensì regole con eccezioni. Lo Stato comanda: non devi uccidere; ma il comando che esso ingiunge al giustiziere di dare esecuzione ai condannati, l’incarico ai propri soldati di lottare con armi letali contro il nemico e così via, in determinati casi priva la sua propria norma di efficacia (setzt seine eigene Norm außer Kraft). Lo Stato dichiara inviolabile la proprietà; e tuttavia nell’interesse della comunità esso è costretto a violare la propria norma mediante l’espropriazione. L’auto-obbligazione statale non può essere assoluta né riguardo alla durata né all’ambito di validità. Dato che ogni obbligazione statale, in base al suo lato sostanziale, è adempimento dello scopo dello Stato, essa sussiste soltanto finché corrisponde a tale scopo. Perciò ogni atto di volontà statale contiene in sé la clausola rebus sic stantibus”36.

Questo passo può esser letto – ed è stato letto da alcuni37 – come la riprova che per Jellinek il diritto riposa in ultima analisi nella volontà-capriccio dello Stato e che, invocata l’emergenza, lo Stato può sospendere l’ordinamento giuridico da esso stesso posto. In realtà, tale conclusione non è ammissibile non soltanto perché Jellinek non ha mai potuto confrontarsi con le questioni che storicamente si sarebbero poste in concreto mediante il ricorso alla legislazione d’emergenza, ma anche perché le pagine di Jellinek vanno lette sempre tenendo presente l’approccio sostanzialista, che noi, imbevuti di formalismo giuridico di stampo kelseniano, tendiamo troppo spesso a dimenticare. Subito dopo il passo appena tratto da La natura giuridica degli accordi fra Stati, si legge infatti:

“[s]oltanto per il tempo in cui i rapporti oggettivi alla cui normazione è determinata la relativa legge restano i medesimi immodificati l’auto-obbligazione dello Stato ha assolutamente forza vincolante per quest’ultimo”38.

E subito più avanti, Jellinek ricorda:

36 Cfr. infra, pp. 95-96 (corsivi nel testo).37 Per qualche esempio v. gli autori citati supra alla nota 2.38 Cfr. infra, p. 96 (corsivi miei).

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“un obbligo dello Stato può sussistere soltanto finché esso sia ragionevole, cioè corrispondente ai bisogni dello Stato”39.

Abbiamo visto sopra in quale senso “ragionevole” possa essere opposto a “razionale”. In altre parole – per chi abbia voglia di abbandonare il formalismo e abbracciare la sostanza, il contenuto dei diritti, e di considerare questi davvero come inalienabili, cioè come indisponibili40, uno Stato non potrebbe mai legittimamente violare i diritti fondamentali dei propri sudditi, neppure invocando l’emergenza. La violazione dei diritti fondamentali degli individui, cioè di coloro che “fanno” la sovranità, in quanto sovranità popolare, deve essere considerata illecita. Non riesco a immaginare una situazione di emergenza nella quale il popolo, in quanto esercitante il potere sovrano, desideri e metta consapevolmente e sistematicamente in atto la propria rovina, l’eliminazione piena e volontaria ad opera di ciascuno dei propri diritti fondamentali. La consapevole rinuncia di ciascuno al proprio diritto di pensare e manifestare il proprio pensiero liberamente, di riunirsi pacificamente, di muoversi sulla terra, di celebrare i propri riti, di ottenere un’equa retribuzione per la fatica svolta ogni giorno, e così via. Altro problema è naturalmente il dominio che il potere politico può attuare mediante strumenti subdoli che anestetizzano gli individui e li inducono a concentrare le proprie forze e risorse dedicandole a oggetti di consumo41.

39 Cfr. infra, p. 96 (corsivo mio).40 Sulla indisponibilità quale tratto ontologico del diritto a causa

della sua posizione di terzietà rispetto ai singoli coinvolti nella relazione giuridica cfr. B. Romano, Filosofia del diritto, Laterza, Roma, Bari, 2005, p. 114 ss.

41 Su tale problema dell’anestetizzazione che subiamo in particolare grazie alle protesi tecnologiche v. P. Montani, Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, Carocci, Roma, 20092. Anche questo autore parte dalla fascinazione dell’idea della “nuda vita” secondo la proposta agambeniana. La nuda vita, cioè la condizione quale esito della nostra anestetizzazione dovuta ai diversi fattori esaminati dall’autore, sarebbe oggetto di un biopotere e di una biopolitica i quali hanno tutto l’interesse a mantenerci “anestetizzati”, a convogliare l’esperienza verso “dispositivi protesici volti a livellare, contrarre e canalizzare la percezione” (ivi, p. 98). Condivido la preoccupazione dell’autore, ma me ne distanzio nella misura in cui ritengo che la “nuda vita” non costituisca un tertium

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Ma la visione di Jellinek non si oppone alla tesi dello stato di eccezione soltanto per via ermeneutica, per così dire, “postuma”, mediante parole che non sono quelle proprie dell’autore che invece parrebbe forzato interpretare in un verso piuttosto che in un altro. Prima di giungere a tematizzare il problema dell’eccezione, Jellinek ha infatti diffusamente trattato delle teorie che si attardano, ancora alla fine del secolo XIX, a concepire la sovranità come assoluta, e lo ha fatto costantemente richiamando il lettore al suo approccio sostanzialista. Jellinek ricorda come alle origini dello Stato in senso moderno molti suoi teorici si siano affannati ad affermarne la qualità sovrana nel senso di “superiorem non recognoscens” in quanto a questi autori premeva emancipare nel modo più efficace e persuasivopossibile la nuova nascente compagine rispetto alle due autorità che strutturavano in maniera bipolare la respublica christianorum durante il medioevo, vale a dire il papato e l’impero. Ma ben presto, come osserva lo stesso Jellinek, gli stessi teorici della sovranità avvertono la necessità di porre limiti alla sovranità stessa: limiti che sono rintracciati nella legge divina, nel diritto naturale ecc. Ora, è proprio questo tema del limite che rappresenta, a mio avviso, il punto essenziale grazie al quale la teoria di Jellinek non può farsi confluire nel grande filone di coloro che stemperano l’efficacia e la forza dei diritti nel grancalderone dello stato di eccezione. Due sono le considerazioni che svolge Jellinek al riguardo e che mostrano come debba considerarsi ormai tramontata e non realistica la tesi che vorrebbe vedere la sovranità ancora come assoluta.

genus (fra vita quotidiana e vita autentica, per riprendere una nota distinzione heideggeriana) spuntato fuori nell’era contemporanea, bensì soltanto una maniera più dilagante, diffusa e compiuta di “inautenticità”, cioè di fuga di fronte a tutto ciò che è inquietante e ci fa sentire “messi in gioco”. È anche alla luce di questa considerazione che lo stato di eccezione il quale secondo queste ricostruzioni teoriche si ricollega direttamente alla nuda vita non mi pare un fondamento più originario, che lascia venir fuori la dimensione autentica del diritto, del linguaggio ecc., ma soltanto una dimensione più dilagante e generalizzata di “anestetizzazione” nel senso del tacito e dissimulato predominio ad opera di alcuni il quale, dal punto di vista giuridico, si concreta nella violazione dei diritti essenziali di altri.

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La prima è che il sovrano stesso, per quanto potente, longevo, carismatico ecc., è pur sempre un essere umano mortale, con tutti i limiti che tale condizione comporta. Nessun sovrano (neppure il monarca assoluto) sfugge alla determinatezza, alla contingenza della propria condizione umana transeunte. Osserva al riguardo Jellinek:

“[l]a prudenza dello Stato è prudenza umana, e la prudenza umana può errare”42.

E, più avanti, citando un passo di Zachariae, Jellinek fa propria l’idea che è del tutto irrealistico considerare la potenza dei mortali come assoluta:

“non è in potere del sovrano dello Stato, chiunque questo sia, di mantenere immutata la condizione della società civile, sulla qualecomunque bisogna calibrare le leggi. Nessun mortale può dire: solefermati! Oppure: fin qui e non oltre”43.

Dunque chi è investito della potestà dello Stato, ancorché nelle sue mani siano concentrati tutti i poteri pubblici, non è onnipotente. Innanzitutto, egli è esposto all’errore. E in secondo luogo, non è in grado di condizionare gli eventi esteriori conformandoli in tutto e per tutto al proprio volere.

Che il sovrano si ponga al di fuori della legge è una finzione comoda al potere politico al fine di perpetuare l’idea mitica di un potere sovrannaturale del quale il sovrano in un modo o nell’altro sarebbe investito. Gli antichi imperatori romani avevano sfruttato già da tempo questa modalità di dominio delle coscienze e delle masse. Si pensi al rilievo funebre a base della Colonna antonina, custodito attualmente nell’area adiacente al Cortile della Pigna ai Musei Vaticani, il quale raffigura l’apoteosi dell’imperatore Antonino con la sposa Faustina, divinizzatie trasportati in alto sulle ali del tempo eterno Aiòn, come se la loro vicenda potesse sfuggire alla miseria che affliggei mortali44. Ma si tratta di una finzione, di una mitizzazione che scinde il racconto delle gesta dalla caducità del corpo, dal suo essere comunque esposto alla

42 Cfr. infra, p. 94.43 Cfr. infra, p. 95, in nota 2.44 Cfr. l’immagine posta in fine a questa Prefazione.

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contingenza e alla finitezza. Nella sua riflessione, Agamben sembrerebbe voler tentare una via d’uscita a tale finitezza che investe completamente la figura di ogni sovrano. Egli la rinviene nella finzione costituita dalla figura giuridica dell’interregnum. Mediante questo istituto la nomina dell’interrex alla morte del sovrano quasi prolungava il perdurare in vita di quest’ultimo al fine di dare continuità al potere sino all’insediamento del nuovo monarcalegittimo45. Se una figura del genere e altri meccanismi analoghi atti a dare continuità al potere politico riuscissero a strappare l’esercizio della potestà dello Stato alla contingenza, si potrebbe forse pensare che al di là delle vicissitudini umane nelle quali essa si incarna, la potestà statale in quanto tale è assoluta, è posta al di fuori della legge, perdura oltre le vite dei singoli, si protrae in una dimensione di onnipotenza sub specie aeternitatis. Ma le limpide considerazioni di Jellinek al riguardo evitano di farci catturare da questa sorta di rassicurante travisamento della natura della potestà statale (dico “rassicurante” perché mi pare che tutto ciò che, per via di un concetto, strappa alla finitezza, in qualche modo rassicura). Dice Jellinek, svolgendo una riflessione più ampia che si spinge sino a toccare il problema del fondamento contrattualistico del vincolo sociale:

“[l]a stessa auto-obbligazione dello Stato nella sua forma più pura, spesso perciò indicata come giuridicamente inqualificabile da parte dei suoi oppositori, si mostra negli atti mediante i quali la potestà dello Stato modifica la propria posizione giuridica statale vigente in base a libera decisione, dunque principalmente nei casi incui la persona di un sovrano illimitato dichiari di esercitare la legislazione in futuro soltanto con l’approvazione [...] di altri. Finché l’idea di Stato non si era ancora formata in maniera pura e chiara, si poteva concepire la concessione di una costituzione da parte del principe come un contratto stipulato fra principe e sudditi. Ma per laconcezione moderna dello Stato, la quale ha quasi completamentebandito la categoria del contratto a spiegazione dei fenomeni dellavita interna dello Stato, può ravvisarsi in quegli atti soltanto la decisione del sovrano vincolante una volta per tutte, una decisione che produce diritto non solamente per i sudditi ma anche per il sovrano stesso. Il titolare della potestà dello Stato si assoggetta alla legge che egli stesso ha formulato”46.

45 G. Agamben, Stato di eccezione, cit., pp. 101-102.46 Cfr. infra, pp. 75-76.

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Proprio ponendo il diritto, cioè vincolando in primo luogo se stesso mediante l’adozione di un atto normativo che si impegna a rispettare nei confronti dei propri sudditi, lo Stato, se ancor mai potrebbe considerarsi “assoluto” nelperiodo storico delle monarchie assolute, si consegna irrevocabilmente alla determinatezza. L’impegno stipulato mediante la propria stessa volontà, cioè l’auto-obbligazione, fa sì che lo Stato si vincoli per il futuro a quanto egli stesso ha prescritto. Dal momento che non può prescrivere né auto prescrivere ciò che è indeterminato, mediante la posizione del diritto – ciò che corrisponde allo scopo sommo dello Stato – lo Stato si pone sempre sul versante della determinatezza. Ciò che è slegato dalla contingenza del prescrivere norme singole, puntuali (per quanto queste possano esser state redatte in modo vago), ciò che è indeterminata anomia, soluzione dei vincoli che stringono sempre alla dimensione concreta, non appartiene alla vita reale dello Stato. Lo Stato si dà sempre in quanto limite. Il contenuto di tale limite può variare nello spazio e nel tempo, ma come afferma lo stessoJellinek:

“nello [s]tato di diritto per la modifica della volontà legislatricesono sempre prescritte certe forme, forme senza il rispetto delle qualiuna legge non potrebbe neppure venire in essere. Queste formelimitano la volontà del legislatore e ciò proprio perché egli le ha volute. D’altronde egli può modificare queste forme, ma è costretto dall’essenza dello Stato a restringere formalmente il proprio arbitrio, il quale materialmente non sussiste affatto; al posto delle forme eliminate devono subentrarne di nuove in quanto lo Stato non conosce una volontà statale senza forma. E se il legislatore può modificare le leggi esistenti, ai fini di una tale modifica è pur sempre necessario un nuovo libero [...] atto di volontà. Fintanto che il legislatore non ha voluto diversamente, le disposizioni da lui formulate, le quali si rivolgono a lui, sono vincolanti per la sua volontà. Le autolimitazioni della legislazione non sarebbero di natura giuridica soltanto qualora la legislazione potesse essere interpretata come arbitrio, interpretazione che contrasta sin dal fondamento con l’essenza dello Stato”47.

La potestà statale, proprio per il fatto di radicarsi sempre nella contingenza storica, per il fatto di darsi sempre nella determinatezza, dunque non si pone mai né al di là della soglia, nella zona di anomia che secondo

47 Cfr. infra, pp. 79-80.

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alcuni costituirebbe il fondamento del diritto48, né è questa soglia, perché essa si pone tutta sul versante di questa determinatezza e finitezza. Alla dimensione di soglia, sorta di caotico fondamento nascosto, trascendente, rimosso (penso per esempio alla sua declinazione nel pensiero di Derrida), il diritto, almeno il diritto positivo, oggetto e limite dell’esercizio della potestà statale, non riesce ad accedere, in quanto ciò che la potestà dello Stato crea, esegue, dichiara come vigente, è sempre collocato sul versante della determinatezza e della contingenza. Lo stesso diritto naturale, il cui luogo di residenza resta quanto mai indeterminato e misterioso – tant’è che il movimento del positivismo giuridico preferisce addirittura evitare di prenderlo in considerazione – e che potrebbe forse considerarsi il luogo (o meglio, il non-luogo) dal quale scaturiscono nuove norme giuridiche, dal qualeprobabilmente sono state tratte fuori le norme sui diritti dell’uomo proprio all’indomani delle loro più graviviolazioni49, non sembra profilarsi come tale ambito anomico, bensì, tutt’al contrario, come una sorta di immateriale e ideale sorgente del diritto, dalla quale soltanto con il procedere storico sembra trarsi la forza per adottare correttivi agli ordinamenti giuridici vigenti, per cassare norme e provvedimenti che producono ingiustizia. E non vale opporre a tale considerazione che in realtà la storia attesta sacche di involuzione, lunghi e bui momenti nei quali il potere politico revoca i diritti una volta concessi, promulga leggi discriminatorie, adottaprovvedimenti gravemente lesivi delle posizioni dei proprisudditi. Tali fattori non accedono ad alcuna dimensione più originaria né del diritto né del potere politico, non sono rivelativi di alcun ordine puramente fattuale al quale siamo ontologicamente consegnati e del quale ci troviamo

48 Questa “soglia” sarebbe la linea di indeterminatezza che separa

il diritto dal fatto, costituirebbe lo spazio anomico in cui il diritto si indetermina nel fatto, vale a dire nella pura fattualità e brutalità, dimensione alla quale in tal modo un accesso sarebbe possibile: in tal senso v. G. Agamben, Stato di eccezione, cit., passim e con speciale limpidezza pp. 49 e 65 ss.

49 Cfr. per esempio la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, adottata poco dopo lo scoppio della rivoluzione francese, nonché la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite poco tempo dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale.

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in balìa, perché si tratta pur sempre di atti, fatti, decisioni e scelte di esseri umani che non possono che concretizzarsi nella determinatezza, nel limite. Piuttosto, tali fattori, come mostra limpidamente lo stesso Jellinek, nel produrre malcontento e instabilità sociale, sono strumenti con i quali lo Stato si scava la fossa da solo.

Un’ultima osservazione prima di chiudere questo paragrafo. Come s’è visto dal penultimo passaggio citato, Jellinek mostra poca simpatia per la dottrina del contratto sociale quale spiegazione dell’origine di fenomeni quali la società civile e l’ordinamento giuridico. Non soltanto perché egli rileva esplicitamente alcune incongruenze nel pensiero di Rousseau, ma anche sotto l’influsso della filosofia hegeliana che parimenti non considerava la figura del contratto sociale come idonea a spiegare il sorgere dello Stato50. Ciò è tanto più significativo se si riflette che Hegel, come già a suo tempo Hobbes, era propenso a considerarecome “stato di natura” il tipo di rapporti intercorrenti fra gli Stati51.

Anche su questo punto il pensiero di Jellinek appare in tutta la sua acutezza52. Fra gli stessi studiosi del diritto internazionale attuale sono pochi coloro che discutono l’assunto che, a fondamento della nascita del diritto internazionale, il contratto sociale sarebbe lo strumento che consente di uscire dallo stato di natura. Pregnanti al riguardo invece le considerazioni di Tullio Treves, il quale mette in luce l’inidoneità della figura del contratto sociale a spiegare la modalità del rapportarsi reciproco degli Stati e degli altri soggetti internazionali53. Dal vincolo di un contratto societario, infatti, in qualche modo, se pur finale, ci si può liberare. Gli Stati invece non potrebbero uscire fuori dalla società internazionale, vi sarebbero ricacciati dentro dal fatto stesso di coesistere con altri soggetti in posizione di parità. Questa osservazione mi sembra molto

50 Cfr. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., p. 419

s., § 258.51 Cfr. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., p. 555,

§ 333.52 Ancorché, va detto, l’autore non sia interessato a trarre da

queste sue osservazioni le estreme conseguenze, per cui su questo punto le argomentazioni da lui proposte rivelano qualche incoerenza.

53 T. Treves, Diritto internazionale. Problemi fondamentali, Giuffrè, Milano, 2005, pp. 14-15.

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importante in quanto radica il fenomeno giuridico nella stessa coesistenza di una pluralità di soggetti. Il diritto forse non riesce ad accedere ad alcuna soglia – esso stesso appartiene al versante della determinatezza e ad esso illimite è strettamente connaturato, così come è connaturato al linguaggio di cui il diritto è intessuto; ma al contempo non ci si può disfare del diritto in quanto modalità possibile di relazione fra più soggetti. Pur tenendosi tutto dal lato della finitezza, dell’imperfezione e del limite, il diritto si mostra come fenomeno ontologico e non sovrastrutturale. Tale riflessione illumina meglio la natura stessa dei rapporti internazionali, i quali, pur regolati da un ordinamento che rispetto ai diritti internipresenta garanzie meno perfette, non sono paragonabili in nessun modo al mitico stato di natura.

5. Etica e diritto

Ho accennato al fatto che in qualche punto del suo volumetto, Jellinek si sofferma sul nesso fra diritto ed etica. Non lo fa per distinguere l’uno dall’altra; non lo fa per esibire un qualche contenuto delle norme giuridiche che risulti eticamente accettabile. Per Jellinek piuttosto l’etica è quella dimensione alla quale soltanto può farsi appello nel momento in cui qualcosa si frattura all’interno della macchina statale e questa cessa di funzionare nel modo in cui dovrebbe, cioè conformemente al proprio ordinamento, in applicazione delle norme che essa stessa ha posto. Jellinek parte dal dato che lo Stato è sovrano, cioè non riconosce alcun potere al di sopra di sé. Le tre “direzioni” o “branche” (Richtungen) nelle quali si articola, si suddivide e mediante cui agisce la potestà dello Stato, vale a dire potere legislativo, esecutivo e giudiziario, possono essere regolamentate – è ciò che accade nello stato di diritto – secondo un meccanismo che cerca di garantire la corretta creazione, attuazione e applicazione del diritto da parte di tutt’e tre le “direzioni”, nel senso che il potere legislativo ingiunge ai giudici come essi debbono giudicare, stabilisce i limiti d’azione dell’esecutivo, e a loro volta i giudici possono sanzionare l’attività del potere legislativo per esempio cassando o disapplicando le norme illegittime ecc. Ma che cosa succede nel caso di inerzia o di

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esercizio illegittimo dei propri poteri da parte di ciascuna delle tre “branche” in cui si articola la potestà dello Stato? Vediamo che cosa dice Jellinek al riguardo:

“[s]econdo l’opinione dominante fra la più larga parte dei giuristi [...] il diritto è possibile soltanto sul presupposto che vi sia un’autorità giudicante e costringente. In questa interpretazione le norme giuridiche sono norme di coercizione la cui applicazione è assicurata mediante la pronuncia giudiziale. Un’autorità innalzata al di sopra delle parti, una potestà più potente di coloro che sono soggetti alla norma deve fornire la garanzia per l’adempimento di questa. Ora, se vi sono norme che si rivolgono alla potestà stessa dello Stato, quale ruolo potrebbe svolgere nei suoi confronti la coercizione? È anche soltanto ipotizzabile una coercizione che la potestà dello Stato esercita contro se stessa? Obbligare se stessi è possibile, ma mai costringere se stessi! Se la potestà dello Stato non ottempera a uno degli obblighi posti a se stessa, non vi è potere giuridico in grado di fare in modo che essa si attenga all’adempimento delle proprie obbligazioni. Le garanzie allo scopo che lo Stato realizzi una disposizione contenuta nella costituzione, che una pronuncia giudiziale venga eseguita, che l’amministrazione venga esercitata entro limiti giuridici, sono e rimangono di natura puramente morale, in questi casi il diritto non dispone di mezzi coercitivi”54.

Come si legge chiaramente dal passo riportato e pensando a un esempio concreto, nel caso dell’adozione da parte del potere legislativo di norme costituzionalmente illegittime (in violazione dei diritti individuali fondamentali), che l’esecutivo applichi ledendo patentemente le posizioni dei singoli e per le quali ilgiudice, rifiutandosi di espungere tali norme dall’ordinamento, ricusi indebitamente ogni forma di risarcimento ai singoli che vi avrebbero diritto, allora ci troviamo di fronte a un blocco totale della macchina statale, in quanto non vi sono meccanismi coercitivi giuridici in grado di obbligare la potestà dello Stato acorrispondere ai propri scopi. Prosegue Jellinek:

“[c]ontro la nostra posizione non si obietti che nelle pronunce dei tribunali amministrativi, nella responsabilità dei ministri, esistono garanzie per la realizzazione delle disposizioni costituzionali, per l’esercizio dell’amministrazione entro i limiti di diritto e così via. Giacché è proprio lo Stato stesso a chiamare a responsabilità i ministri, a cassare i provvedimenti delle autorità amministrative non conformi a diritto. In tutti questi casi lo Stato

54 Cfr. infra, pp. 88-89 (corsivi miei).

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vuole ancor sempre la realizzazione del diritto; qui la coercizione è diretta non contro se stesso, bensì contro singoli organi che si trovano in rapporto di sudditanza rispetto ad esso. Ma quando tutti gli elementi della potestà dello Stato si uniscono per metterel’arbitrio al posto del diritto, per violare obblighi che essi in quantotali dovrebbero riconoscere, allora lo Stato agisce illecitamente senzache sia presente un giudice che potrebbe impartirgli ordini né un esecutore che potrebbe dare esecuzione alla pronuncia. [...] Ora, se da un lato la coercizione giuridica contro lo Stato è inammissibile, dall’altro lato la posizione del giudice rispetto ad esso è di natura completamente diversa di quella rispetto al suddito. Il giudice non può contrapporglisi come un’autorità. Nella misura in cui la funzione giudicante non consiste nel procedimento puramente logico del trovare il diritto, il giudice, come accennato, è tutt’uno con la potestà dello Stato. Lo Stato nel quale il giudice emana la sentenza giudiziale esegue la sua propria sentenza. Anche nella misura in cui l’ordine del giudice sia indirizzato allo Stato stesso, eseguendolo, lo Stato porta a compimento soltanto le sue proprie ordinanze. Perciò lo Stato è sempre giudice in causa propria. Esso non si assoggetta mai alla pronuncia del giudice riconoscendolo come superiore, bensì riconosce la volontà del giudice come la sua propria. Con ciò si verifica nell’organismo della potestà dello Stato il medesimo processo che accade nell’individuo che eleva una rappresentazioneragionevole a motivo per la propria volontà. Qui come lì la volontà sisubordina a quanto liberamente ammesso come ragionevole”55.

Come si vede, fino a quando nello Stato vi sono organi che ne concretizzano la volontà, lo Stato, pur trovandosi ad attraversare momenti patologici, finisce poi col funzionare. Ma se si crea una situazione tale per cui tutti gli organi statali smettono di dare attuazione agli obblighi che la potestà dello Stato ha dato a se stessa per auto-regolare il proprio comportamento nei riguardi dei propri sudditi, allora non vi sono meccanismi giuridici disponibili per indurre al rispetto del diritto gli organi statali agenti in violazione degli obblighi assunti dallo Stato. È a questo punto che soltanto l’etica, soltanto la libera coscienza individuale può ancora indurre i singoli organi a desistere dal proprio comportamento illegittimo e dare corso all’applicazione delle norme giuridiche. Quil’etica, quale fondamento ultimo della garanzia di applicazione del diritto non è nulla di corrispondente a un insieme di norme codificate e corrispondenti nel contenuto per esempio a norme religiose. Si tratta invece del mantener fede all’impegno che lo Stato ha assunto auto-

55 Cfr. infra, pp. 89-90.

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obbligandosi, cioè impegnandosi a garantire determinati diritti ai propri sudditi. Qui l’etica è il mantenere, eseguire e attuare il diritto posto e vigente, nel considerarlo cioècome indisponibile. Qual’è l’esito della violazione di tale impegno, che Jellinek qualifica come impegno etico, ultima ratio per ottenere il rispetto del diritto nel caso di alterazione patologica di tutte le funzioni dello Stato? L’esito è il sovvertimento del viver civile, lo spezzarsi dell’ordinamento giuridico e delle sue garanzie, l’irruzione di forze prive di qualificazione giuridica:

“quando le forze (Kräfte) elementari del popolo si agitano e la forza dello Stato (Staatsgewalt) vi si oppone lottando e vincendo la violenza del popolo (Volksgewalt), questo è un processo completamente privo di qualificazione giuridica, o piuttosto qui illecito e illecito si fronteggiano giuridicamente. Una giustificazione della rivoluzione è possibile a partire da un punto di vista etico e di filosofia della storia e da una visione che osservi il momento sostanziale del diritto, ma una sua giustificazione giuridica, una sua interpretazione come coercizione giuridica contro l’illecito statale è inammissibile”56.

L’irrompere di questa instabilità, l’instaurarsi di forze rivoluzionarie suggella la frattura dell’ordine giuridico preesistente, ma a differenza di quanto ritiene parte della dottrina dello stato di eccezione, tale possibilità non fa accedere a una dimensione di “pura fattualità”, “più originaria” rispetto a quella della vita ordinata mediante il diritto. Se così fosse, una volta liberata questa dimensione più vera, più autentica, più violenta e dunque più fortedella sovrastruttura che vuole imbrigliarla (cioè il diritto), essa prenderebbe piede e il diritto in quanto fenomeno scivolerebbe via dall’ambito delle relazioni umane, così come storicamente è attestato lo scomparire di certe malattie ormai debellate, che hanno costretto il corpo entro limiti intollerabili. Invece curiosamente, è proprio a seguito dei fatti più sanguinosi che l’esigenza di porre ildiritto sembra sorgere con maggior forza, tanto che si cerca di escogitare garanzie più raffinate per evitare la violazione delle sue norme. Tuttavia, mettendo in luce l’aspetto etico quale garanzia ultima del diritto nel senso che s’è visto, Jellinek indica una via possibile per cercare di risolvere un problema con il quale nella vita di tutti i

56 Cfr. infra, pp. 89-90 (corsivo nel testo).

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giorni ci confrontiamo continuamente. Quante volterecandoci in un qualunque ufficio pubblico assistiamo a indebiti comportamenti che in un modo o nell’altro finiscono col ledere i nostri diritti individuali? Quante volte uscendo dalle aule di tribunale le parti di una causa sono insoddisfatte della sentenza?

Ho accennato come alla classe dei funzionari statali si chieda di svolgere compiti in maniera efficiente, oggettiva, rendendo un servizio che presenta standard qualitativi contrassegnati in qualche modo da una sorta di universalità. Il funzionario deve svolgere il proprio ufficio mettendo da parte le proprie convinzioni personali, politiche, religiose, il proprio bagaglio di vita vissuta ecc. In tal modo il funzionario è concepito come una sorta di entità “metafisica”, astratta, fungibile. Non è neppure tenuto a interrogarsi sulla giustizia né sull’opportunità del proprio operato, egli deve soltanto mettere in atto le norme esistenti, altrimenti la grande macchina che contribuisce a far funzionare rischierebbe di incepparsi. Ma è davvero praticabile questa scissione fra personalità singolare e funzione? È vero che per far funzionare il proprio ufficio il funzionario deve accantonare le proprie convinzioni private e le proprie cure, ma a ben guardare non soltanto la scissione fra funzione e vita concreta della persona cheriveste un ufficio non è che una finzione, ma è proprio questa scissione ad alimentare l’inefficienza di tanti pubblici ufficiali, che non sono responsabilizzati, cioè non investono se stessi nello svolgimento della propria attività, ma la percepiscono come alcunché di estraneo che a lungo andare finisce con l’alienarli. L’accento posto da Jellineksulla dimensione etica quale ultima ratio a garanzia dei diritti potrebbe forse invece far riflettere sull’opportunità di alimentare proprio la dimensione etica dei singoli incaricati di ricoprire gli uffici pubblici. Come ha mostrato gran parte della filosofia del novecento, non c’è mai l’essere umano in generale, ma sempre e solo persone esistenti inconcreto. La forza di questa esistenza concreta di ciascuno, anche nella sua dimensione etica, può essere forse non alcunché da tagliar via, da cui scindersi interiormente, bensì un ambito di cui prendersi cura,adottando per esempio adeguate misure educative a livello pubblico. È vero che i valori etici in quanto tali sono difficilmente determinabili, ma in quanto esseri umani

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esistenti in concreto, ci troviamo naturalmente in una condizione di interezza che può diventare una risorsainvece che qualcosa da fiaccare e spezzare. Con ciònaturalmente non intendo semplificare la natura inquietante dell’uomo e in particolare dell’uomo moderno, forse irrimediabilmente scisso, messa in luce da tanta letteratura e riflessione filosofica. Intendo soltanto richiamare quella dimensione integra, in cui ciò che facciamo è anche ciò in cui crediamo e ciò che ci sembra giusto e bello e buono, e che diversamente dalla scissione che patiamo, ci è nota come una memoria lontana, come una tranquilla felicità mai raggiunta e sempre tentatrice57.

D’altronde, la dimensione etica suggerita da Jellinek quale garanzia ultima del diritto, sia interno che internazionale, come ho accennato, non si concreta nell’elencazione di alcun “codice” comportamentale. Essa invece consiste – in breve – nella rinuncia all’arbitrio, nel mantener fede all’impegno assunto. È il diritto stesso a raggiungere prima o poi un contenuto normativo corrispondente a valori etici; il nostro tempo per quanto complicato per fortuna è testimone di questo sviluppo, in particolare dei diritti fondamentali delle persone. Semplicemente attuandoli, cioè auto-vincolando l’agire di ciascuno al loro contenuto, non soltanto il “diritto” può trovare più efficaci garanzie, ma l’intera società non può che ricavarne una esistenza migliore. La tesi di Jellinek mostra come, in mancanza di strumenti giuridici efficaci, quella etica sia l’unica strada percorribile per evitare la rovina a livello sociale.

57 Il mio richiamo a questa originaria interezza del soggetto quale

luogo primario da cui attingere la forza per alimentarne la capacità etica non può che fondarsi, in questa sede, su una semplificazione del modo di intendere il soggetto. Ognuno sa da sé ciò che dentro di sé è ancora integro e ciò che è irrimediabilmente spezzato. Ma mi sembra significativo che questo richiamo all’etica sia avvertito come essenziale anche da chi non rinuncia a mettere in campo tutta la complessità e la contraddittorietà del soggetto moderno, in un intreccio esplicito con molti temi che ho tentato di discutere in questa Prefazione. A tale riguardo vedasi P. Vinci, “ ‘Nella fodera del nulla’. Violenza e redenzione in Walter Benjamin”, in Giornale di Metafisica – Nuova serie, vol. XXXII, 2010, pp. 367-383, spec. a p. 382.

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6. Alcune note e avvertenze sulla presente traduzione italiana

Infine, vorrei dare alcune indicazioni sui criteri che mi hanno guidato nell’attività di traduzione ed edizione del saggio di Jellinek.

Intanto, proprio perché mi premeva innanzitutto richiamare l’accento sull’attualità del pensiero di Jellinek, ho ritenuto che un apparato filologico sugli autori citati da Jellinek (suoi contemporanei e non) avrebbe finito con lo stemperare l’importanza del suo scritto, e lo avrebbe circonfuso di un’aura passatista che invece è proprio ciò che vorrei evitare che accadesse. L’istanza etica nel suo rapporto col diritto non è una cosa passata, “dell’ottocento”, di cui purtroppo ancora ci trasciniamo dietro l’approccio filologico, ma è scottante problema del presente, che tocca la vita di tutti i giorni all’interno di uno Stato democratico come il nostro e così come nel rapporto degli Stati fra loro. Dunque il lettore non troverà riferimenti biografici su Gerber, Jehring, Bodin e gli altri autori citati da Jellinek, proprio come leggendo un testo contemporaneo non si trovano informazioni storiche sugliautori citati nelle note, ma si è completamente concentrati sul contenuto di ciò che si legge.

Poi, dal momento che lo studio della traduzione e in particolare della traduzione giuridica ha ricevuto crescente attenzione specialmente negli ultimi anni, vorrei chiarire alcuni punti al riguardo.

Innanzitutto il testo di Jellinek è un testo giuridico discorsivo. In generale, chi ha una formazione da giurista, sa bene quanto la lettera del testo sia fondamentale, e quanto a volte un avverbio o una virgola in più o in meno possano celare impostazioni teoriche – e, all’atto applicativo, soluzioni pratiche – del tutto divergenti fra loro58. Se ciò è vero in linea generale, non può farsi però a

58 Si consideri per esempio che la nozione di “sovranità”

emergente dallo studio di G. Arangio-Ruiz, Le domaine réservé. L’organisation internationale et le rapport entre droit international et droit interne. Cours général de droit international public, in Recueil des Cours de l’Académie de Droit International de la Haye, vol. 225, 1990, tomo IV, pp. 13–484, si dipana tutta a partire dall’interpretazione che l’autore dà al termine “essentiellement” contenuto nella versione francese dell’art. 2.7 della Carta delle

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meno di considerare che la “traduzione giuridica” non è un ambito omogeneo fra le varie tecniche di traduzionesettoriale e che quindi seguire i medesimi criteri all’interno di un testo “giuridico” lasciandosi orientare solamente dal lessico della singola branca del diritto in cui ricade la materia del testo da tradurre può produrre risultati assai poco soddisfacenti59.

In realtà, sapere di trovarsi di fronte a un testo di tipo giuridico non è indicazione di per sé sufficiente per decidere quali strategie traduttive mettere in opera. Le strategie cambiano necessariamente a seconda della tipologia testuale che si ha di fronte. Se per esempio un testo normativo (si pensi a un articolo di legge) richiede al traduttore uno sforzo maggiore per attenersi quanto più possibile alla lettera del testo di partenza, un testo teorico non soltanto ammette minor fedeltà, ma talora la richiede come necessaria in quanto il testo teorico (è il caso tipico dell’articolo scientifico) possiede di solito un andamentoche persegue l’obiettivo dell’efficacia persuasiva. Il lettore del testo di arrivo può essere per esempio meglio persuasograzie alla linearità sintattica la quale, se può tradire la forma o la struttura della lingua di partenza, consente meglio di cogliere i contenuti. È per questo motivo che talora, laddove il significato non ha subito alcun

Nazioni Unite, e che per l’autore in italiano non andrebbe tradotto –come forse verrebbe naturale – con “essenzialmente”, bensì “per essenza” (cfr. ivi, p. 136), che nel contesto non è affatto un sinonimo di “essenzialmente”, a meno di travisare la natura della sovranità ai sensi del diritto internazionale.

Un altro esempio può essere ancora tratto dalla Carta delle Nazioni Unite, là dove la virgola prima di “e la giustizia” nell’articolo 2.3 (“[i] Membri devono risolvere le loro controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza internazionali, e la giustizia, non siano messe in pericolo”) è stata talora interpretata come se la giustizia fosse un obbligo meno stringente, posto in secondo piano, rispetto a quello di non mettere in pericolo la pace e la sicurezza.

59 Sotto questo profilo occorre fare grande attenzione ai software di traduzione automatica così come alla traduzione delle “collocazioni” le quali spesso celano trappole che minano la qualità della traduzione. Sul tema delle collocazioni in questo settore vedansi le riflessioni metodologiche di A. Lombardi, Collocazioni e linguaggio giuridico. Proposte per un’analisi semi-automatica delle unità complesse in testi del diritto penale italiano e tedesco, Pubblicazioni dell’I.S.U. Università Cattolica, Milano, 2004.

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detrimento, ho preferito eliminare qualche articolo determinativo o indeterminativo di troppo, in quanto essi avrebbero inutilmente appesantito il testo italiano, specienelle locuzioni preposizionali dove l’italiano giuridico ha consolidato forme stereotipate non perfettamente corrispondenti, nella struttura, alle locuzioni tedesche60.

Per quanto riguarda alcuni aspetti sintattici, altra scelta orientata dallo stile giuridico italiano è stata quella di preferire “l’enclisi del -si con l’infinito retto da un verbo modale”61 (per esempio “possono farsi” in luogo della struttura sintattica a tre termini “si possono fare” nella quale si ha posizione proclitica, tanto più diffusa nella lingua comune e specie nel parlato).

Quasi obbligata invece la scelta di porre pressoché sempre dopo il nome cui si riferisce l’aggettivo in posizione attributiva, il quale invece in tedesco (come in inglese) è sempre anteposto. Se la anteposizione è ammessa in poesia62, nel linguaggio giuridico invece, a parte il caso in cui la posizione sintattica incida direttamente sulla semantica (per esempio un certo giorno/un giorno certo; relativa importanza/importanza relativa), si tende a ricorrervi quasi esclusivamente nel caso di locuzioni stereotipate (per esempio “in rigorosa conformità con”) oppure là dove al sostantivo segue un sintagma di

60 Per esempio nella Premessa, “ridurre il diritto internazionale a

diritto esterno dello Stato” traduce il tedesco “das Völkerrecht auf ein äusseres Staatsrecht reducieren”, tralasciando dunque l’articolo indeterminativo. L’italiano giuridico infatti predilige uno stile quanto più possibile nominale, e fa un uso degli articoli determinativi e indeterminativi non corrispondente al tedesco, lingua che invece più spesso rinuncia all’articolo nel registro comune. Sullo stile nominale quale marca generale del testo scientifico v. F. Scarpa, La traduzione specializzata. Lingue speciali e mediazione linguistica, Hoepli, Milano, 2001, p. 37 ss.

61 Così B. Mortara Garavelli, Le parole e la giustizia. Divagazioni grammaticali e retoriche su testi giuridici italiani, Einaudi, Torino, 2001, p. 156. Tale scelta stilistica si motiva per una “densità lessicale” (lexikalische Dichte) che contraddistingue il linguaggio giuridico (cfr. R. Stolze, Die Fachübersetzung. Eine Einführung, Narr, Tübingen, 1999, p. 177).

62 Anche la poesia italiana infatti conosce questa anteposizione (cfr.: “sempre caro mi fu quest’ermo colle [...]/[…] interminati spazi di là da quella”); laddove essa compare in testi giuridici, corrisponde secondo qualcuno a un innalzamento di registro (così B. Mortara Garavelli, Le parole e la giustizia, cit. p. 165).

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specificazione per cui l’anteposizione dell’aggettivo può stringere meglio il nesso con il sintagma al genitivo (peresempio “nuova creazione di diritto” invece che “creazione nuova di diritto”) e servire a togliere il dubbio sul sostantivo con il quale concorda (per esempio “applicazione di una scorretta dottrina aristotelica di filosofia del diritto” in luogo di “applicazione di una dottrina aristotelica scorretta di filosofia del diritto).

Ancora, la sintassi tedesca diverge da quella italiana nel fenomeno delle parole composte, cd. “Zusammensetzung” delle parole63. Il termine Staatsgewalt che in questo scritto di Jellinek ricorre tante volte, in tedesco è costituito da una sola parola formata a sua volta da due sostantivi autonomi (Staat e Gewalt). Nella traduzione italiana ho reso questo termine quasi sempre con “potestà dello Stato”; più raramente con “potestàstatale” sfruttando una risorsa dell’italiano che a volte ammette l’unificazione degli elementi del sintagma al genitivo mediante il solo aggettivo64, cd. “aggettivo di relazione” (Relationsadjektiv)65.

Un altro punto di divergenza fra italiano e tedesco che ha orientato scelte traduttive talora non letterali è la traduzione della frase relativa. Innanzitutto, ho evitato per quanto possibile di riprodurre la scansione delle virgole in tedesco (cosa che per esempio non è riuscito a eludere il traduttore italiano de La teoria generale dello Stato dello stesso Jellinek66), la quale come noto ha valore sintattico-semantico e non stilistico. Anzi, per quanto possibile, ho preferito evitare di ricorrere alla virgola tentando invece di ottenere il medesimo effetto di pausa del pensiero mediante accorgimenti di tipo sintattico, talvolta mediantei trattini. Ma, come accennavo, in particolare nelle frasi

63 Sulla composizione delle parole in tedesco v. C. Di Meola, La

linguistica tedesca. Un’introduzione con esercizi e bibliografia ragionata, Bulzoni, Roma, 2007, p. 71 ss., dove si mette in evidenza la varietà sintattica, strutturale e semantica cui una parola composta in tedesco può dar luogo in traduzione italiana.

64 Sgraziata, peraltro, mi risulta la produzione di aggettivi in -ale, ricorrente in certa letteratura specialistica, molto diffusa fra gli stessi linguisti, a partire dal sintagma al genitivo con sostantivi terminanti in –zione (ma non solo): per esempio “della situazione” “situazionale”.

65 Cfr. R. Stolze, Die Fachübersetzung, cit., p. 73 ss.66 Traduzione ed edizione italiana citata supra, nota 1.

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introdotte dal pronome relativo ho voluto evitare la separazione mediante virgola dalla frase precedente, in qualche caso semplificando la frase mediante l’eliminazione del pronome e il costrutto più sintetico del participio, presente o passato. Talvolta invece il complesso costrutto dei sintagmi preposizionali in tedesco ha richiesto di essere sciolto e semplificato proprio grazie a una frase relativa, al fine di evitare che il testo diventasse troppo denso.

Dal punto di vista ortografico occorre poi ricordare che il testo di Jellinek è stato pubblicato anteriormente alla grande riforma dell’ortografia tedesca approvata nella Conferenza di Berlino del 190167. Pertanto nel testo originale di Jellinek alcuni titoli di opere e nomi di autori pure assai noti agli studiosi italiani sono scritti secondo le regole ortografiche ancora in vigore alla fine dell’ottocento. L’effetto “destabilizzante” è particolarmente evidente per il nome di von Ihering, noto in Italia come “Jehring”, secondo la variante ortografica più recente. Ho preferito lasciare l’ortografia originaria in quanto chi desiderasse approfondire qualche aspetto e andare in cerca dei testi originali degli autori citati da Jellinek, in molti casi digitalizzati in quanto ormai liberi di copyright, a mio avviso può avere maggior facilità di accesso ad essi familiarizzando, grazie alla presente traduzione, con quella che era l’ortografia dell’epoca.

Sotto il profilo lessicale non è stato necessario adottare un linguaggio innovativo in quanto il tesoro lessicale di base del diritto pubblico e del diritto internazionale impiegato da Jellinek è rimasto sostanzialmente inalterato. Di conseguenza le scelte traduttive cui mi sono attenuta non dovrebbero produrreeffetti stranianti alla lettura. Soltanto su un punto ancora vorrei illustrare il criterio che mi ha guidato, dal momento che mi sono in parte discostata dalle modalità traduttive consolidate. Il punto in questione riguarda la traduzione dei termini moral, ethisch e sittlich. Moral e sittlich si ritrovano contrapposti già nella filosofia del diritto hegeliana, e la corrente traduzione italiana corrisponde

67 Su questa riforma vedasi S. Bosco Coletsos, Storia della lingua

tedesca, Rosenberg & Sellier, Torino, 2003, p. 272 ss.

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rispettivamente a morale ed etico68. Ora, come già osservato, è profonda l’influenza della filosofia hegelianasu Jellinek, ed effettivamente, dal momento che sittlichassume un senso molto più pregnante rispetto a moral, in mancanza di un terzo termine sinonimo italiano per tradurre ethisch, forse avrebbe avuto un suo senso mantenere tale consolidata contrapposizione fra moral e sittlich e riassorbire ethisch nel primo termine traducendolo dunque con “morale”. Tuttavia Jellinek fa un uso assai parco di sittlich e spende molto più volentieriethisch in contrapposizione a moral. Dunque ho tradotto:moral con “morale”; ethisch con “etico” e sittlich e Sittlichkeit (termini, questi ultimi due, che compaiono soltanto nelle ultime pagine de La natura giuridica degli accordi fa Stati), talora con “consuetudine etica”, talaltra con “buoni costumi”, in quanto, da un canto, deve tenersi conto che la “coutume”, ciò che meglio tradurrebbe Sittlichkeit, cioè “costume-consuetudine”, è in diritto internazionale la consuetudine vera e propria in quantofonte di diritto generale e dunque dire “consuetudine etica” mi sembra racchiudere in sé sia il senso giuridico vero e proprio di questa peculiare fonte del diritto, sia la sua discendenza dal diritto naturale, come avevano pensato i padri del diritto naturale quando s’interrogavano sul fondamento di questo ordinamento così peculiare. D’altro canto, in diritto interno si parla per esempio di nullità dei contratti per contrarietà al buon costume (per esempio il contratto con il quale Tizio vendesse un organo del proprio corpo), cioè per contrasto con quell’insieme di valori largamente accettati la contravvenzione ai quali produceriprovazione sociale. È in tal senso che Jellinek sembra parlare di accordi unsittlich fra Stati, cioè accordi che, prima che contrastare con una norma giuridica vera e propria, vanno contro un senso di giustizia, di equità e di moralità tutt’insieme intrecciate. È d’altronde lo stesso Hegel ad affermare che sono i costumi (Sitten) a fondamento del diritto internazionale69, e quindi mi

68 Vedasi per esempio il titolo del § 141 Übergang von der

Moralität in Sittlichkeit, tradotto da Cicero come Passaggio dalla moralità all’eticità (G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., pp. 288-289).

69 G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., pp. 560-561, § 339.

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sembra che la Sittlichkeit come intesa da Jellinek debba includere non soltanto un contenuto etico, ma anche regolativo in senso giuridico vero e proprio.

Roma, settembre 2012

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70 Base della colonna di Antonino Pio raffigurante l’apoteosi

dell’imperatore Antonino Pio e della sposa Faustina, Città del Vaticano, Musei Vaticani, foto di Niccolò Cesareo.

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La natura giuridica degli accordi fra StatiContributo all’edificio giuridico del diritto internazionale

di Georg Jellinek

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PremessaPremessa

Il dibattito sui fondamenti del diritto internazionale si preoccupa di toccare soltanto i profili più esteriori. Ma è soltanto la soluzione del singolo problema che può far saggiare la consistenza e il valore dei principi generali.

Se in queste pagine riuscirà a compiersi l’edificio giuridico di uno dei settori più importanti del diritto internazionale si sarà raggiunto in tal modo un duplice obiettivo.

In primo luogo, una discussione approfondita del principio soggettivo del diritto internazionale, dal quale dipende pure la stessa valutazione giuridica di questo. A mio avviso il carattere giuridico del diritto internazionale è da dimostrarsi soltanto per la via intrapresa da von Kaltenborn e Bulmerincq, e recentemente da Bergbohm. Ma proprio la negazione della possibilità di una costruzione giuridica autonoma sostenuta di recente da Fricker mostra quanto questo punto necessiti ancora di una giustificazione e di un’indagine penetrante.

E poi la fondazione del diritto pattizio in base alla natura della cosa. Di fronte alla negazione, diffusa presso gli stessi adepti del diritto internazionale, di un diritto internazionale generale positivo e alla conseguente disponibilità a ravvisare in relazione ai principi internazionali un’intesa soltanto casuale degli Stati, s’è dovuto mettere in evidenza il momento razionale nel diritto internazionale e dare dimostrazione che qui vi sono norme

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il cui riconoscimento collettivo è già dato dalla natura del negozio giuridico. Proprio la questione della scaturigine del diritto pattizio oggettivo mostra l’insufficienza della tesi che vuole ridurre il diritto internazionale a diritto esternodello Stato.

La prima parte della presente trattazione deve inoltre chiarire quanto l’esistenza giuridica del diritto internazionale sia intimamente legata all’ordinamento giuridico interno e quali gravi conseguenze abbia la negazione del primo ai fini del carattere giuridico del secondo. Pertanto queste pagine auspicano di poter rivendicare qualche rilevanza anche per la teoria generaledel diritto.

Vienna, maggio 1880L’autore

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IntroduzioneIntroduzione

In nessuna disciplina giuridica capita altrettanto frequentementedi mettere in discussione i principi fondamentali come indiritto internazionale. Considerato spesso come inferiore dagli studiosi di altri rami della scienza del diritto, di quando in quando negato nella sua esistenza giuridica e ricondotto alla morale statale o alla politica o ad altra incerta categoria scientifica, il diritto internazionale deve sempre affannarsi per affermare la propria esistenza in quanto scienza e deve costantemente badare a demolire gli argomenti contrari dimostrando di poggiare sul medesimo fondamento del diritto costituzionale, del dirittoprocessuale, penale e privato.

Tutti i tentativi di fondare il diritto internazionale possono essere ricondotti a due forme basilari. O si prendono le mosse dal punto di vista speculativo e si cerca di dimostrare che ci si trova di fronte a un momento sostanziale in base al quale consegue di necessità logica l’esistenza di un ordinamento giuridico al di sopra degli Stati, ovvero si mostra che il medesimo concetto di diritto che si trova a fondamento delle branche della scienza giuridica di cui nessuno dubita costituisce anche l’essenza delle disposizioni valevoli per le relazioni internazionali. Come la prima modalità è indispensabile a una riflessione che ricerchi i fondamenti ultimi, altrettanto è impossibile cogliere un ordinamento giuridico nella sua più intima

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essenza qualora si tralasci quel momento sostanziale; sicché il giurista in cuor suo sarà pienamente convinto della qualità giuridica del diritto internazionale soltanto se nel diritto internazionale gli venga esibito quel medesimo principio formale sul quale sono eretti gli edifici delle altre discipline giuridiche. Sia che, come in Suarez e Bluntschli, si prendano le mosse dall’idea di umanità, sia che si considerino l’ordinamento conforme a ragione dellacomunità internazionale, come in Kaltenborn e Mohl, o lacoscienza giuridica dei popoli quale fonte materiale del diritto internazionale, come in Savigny e Hälschner, rimane sempre la questione di come si debba pensare giuridicamente questo diritto, come esso sia da ricondurre a conformità con i principi che, risultato di un’indagine scientifica accurata, sono stati stabiliti dalla scienza giuridica quali condizioni di ogni diritto. La netta configurazione (Ausbildung) formale che il concetto di diritto ha subito mediante i lavori sistematici degli ultimi decenni lascia apparire tutte le pretese derivanti dalla pura idea di diritto, con tutto il diverso valore che esse posseggono, non più come diritto nel senso formalisticoche afferma la propria esistenza accanto, al di sopra o addirittura contro il diritto positivo, bensì attribuiscecarattere giuridico soltanto a quei principi di cui stabiliscedirettamente la validità pratica. Ma la giurisprudenza quale organo di produzione giuridica conosce soltanto, da un lato, il popolo nella sua esistenza naturale il quale per via di consuetudine diviene consapevole delle norme regolanti ogni aspetto dell’agire dei propri connazionali, dall’altro lato il popolo come unità organizzata, come Stato, il quale pone e mantiene il diritto in quanto volontà sovrana della totalità. È come volontà della comunità che ciascun principio il quale avanzi la pretesa di valere come principio giuridico deve essere dimostrato, che sia del popolo o dello Stato1. Con ciò è indicata l’unica via possibile per una fondazione giuridica del diritto internazionale. Esso deve mostrarsi come fondato nella

1 Anche la volontà produttiva di diritto delle corporazioni

autonomiche ricade sotto il concetto di volontà dello Stato nella misura in cui essa produce diritto soltanto per il fatto che lo Stato ne riconosce la qualità di fonte giuridica, cioè in maniera tacita o espressa riconosce come sue proprie le manifestazioni di volontà autonome.

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libera volontà degli Stati o popoli, un pensiero che il padre della scienza giuridica del diritto internazionale già aveva in mente1. Ma solo con Hegel e la sua scuola il principioche i diritti degli Stati “hanno la propria realtà non in una volontà generale costituita al di sopra degli Stati [...], bensì nella volontà particolare di questi”2 è stato energicamentesottolineato quale punto di partenza inamovibile del diritto internazionale positivo, almeno fintanto che non esiste una potestà (Gewalt) sovraordinata agli Stati. Quale fondamento e pietra angolare di un edificio giuridico del diritto internazionale deve valere il principio che “fattori principali per la posizione e la realizzazione del diritto

1 Hugo Grotius, De Jure Belli ac Pacis. Proleg. 40: “quod enim ex

certis principiis certa argumentatione deduci non potest, et tamen ubique observatum apparet,sequitur, ut ex voluntate libera ortum habeat”. Cfr. A. Bulmerincq, Praxis, Theorie und Codification des Völkerrechts, Leipzig 1874, p. 72.

2 Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, § 333 [il passaggio da Hegel citato da Jellinek è lacunoso, forse per adattarne il testo ai propri fini; pertanto la traduzione italiana qui fornita si discosta da quelle sinora edite in lingua italiana, ndt]. Allorché R. v. Mohl, Die Geschichte und Literatur der Staatswissenschaften, vol. I, p. 382, osserva contro Pütter che la fondazione del diritto internazionale sulla libera volontà degli Stati conduce a un caos di arbitrarietà e al completo toglimento (Aufhebung) del diritto internazionale, e allorché Bluntschli, Das moderne Völkerrecht als Rechtsbuch dargestellt, III ed., 1878, p. 60, dà espressione a pensieri analoghi, con ciò viene da essi negata l’applicabilità del concetto di diritto al diritto internazionale, anzi all’intero diritto vigente all’interno dello Stato. Invece questo indubbiamente poggia secondo il suo lato giuridico-formalistico sulla libertà della volontà statale, senza che perciò l’ordinamento giuridico si inabissi in alcun caos. D’altronde questa libertà, come già abbiamo osservato sopra, non è l’ultimo, filosofico fondamento del diritto, che a nostro avviso può essere rinvenuto soltanto in un principio oggettivo, ma per la costruzione giuridica, come accennato, il momento sostanziale nel diritto è piuttosto indifferente, esso è, se ci si può esprimer così, di natura metagiuridica. Il giurista è autorizzato ed è in grado di non ammettere altro principio formale del diritto se non la libera volontà della comunità statale o popolare se non vuole rinunciare ai limiti che ha faticosamente tratteggiato al proprio oggetto e precipitare con ciò nella confusione e nella mancanza di chiarezza che per lui significherebbero il vero caos. Del resto Bluntschli riconosce prontamente che al presente gli Stati esprimono il proprio convincimento giuridico soltanto nella “forma problematica di una dichiarazione plurima”, op. cit., p. 5.

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internazionale, i soli chiamati soggetti del diritto internazionale, restano gli Stati”1.

Ho premesso queste osservazioni al fine di marcare la mia presa di posizione su un problema che appartiene alle questioni fondamentali del diritto internazionale, ma che in maniera singolare negli ultimi tempi non è stato affatto trattato in dettaglio e di cui nella letteratura più risalente si dà conto soltanto in maniera oscura, poco precisa. Fra i momenti più importanti della vita internazionale vanno annoverati gli accordi fra gli Stati. È principalmente mediante accordi che vengono posti principi per il comportamento reciproco degli Stati; la loro importanzaper il diritto internazionale è immensa, giacché essicostituiscono una fonte primaria che consente di conoscere che cosa gli Stati si pongono come diritto per le proprie relazioni con altri. Ora, ammesso che tali accordi sono di natura giuridica, se garantiscono diritti e vincolano la libertà degli Stati, da dove scaturisce il diritto oggettivo in base al quale essi debbono essere valutati? Ogni diritto presuppone un metro cui commisurarsi,norme mediante le quali esso deve essere esaminato.

Gli accordi fra Stati possono avere carattere giuridico soltanto se esistono norme che si trovano al di sopra degli accordi e dalle quali gli accordi ricevono la loro validità giuridica. Di fatto in ogni manuale di diritto internazionale si trova un’intera sfilza di disposizioni giuridiche che debbono regolare la formazione, il contenuto, l’effetto, le modalità e l’estinzione degli accordi. Da quale fonte scaturiscono ora i principi giuridici che debbono regolare i rapporti pattizi fra gli Stati? Si tratta di principi del diritto naturale, dato che molte di queste norme tanto assomigliano alle disposizioni poste un tempo nel diritto privato naturale? Si tratta di astrazioni in base al modernodiritto delle obbligazioni che per analogiam sono statetrasposte agli accordi fra Stati? Sono consuetudini internazionali quelle da cui esse traggono la propria origine, o poggiano sulla volontà dello Stato manifestata in forma di legge? Anche se il diritto internazionale più antico ha avuto cura di distinguere fra le diverse fonti del diritto internazionale, esso non ha mai indagato in dettaglio quali principi pertengano al presunto diritto naturale, al diritto

1 Bulmerincq, op. cit., p. 7.

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pattizio, consuetudinario ecc. Al massimo si sono posti al vertice dell’indagine gli scarni principi che debbono appartenere allo jus gentium necessarium per poi trattare l’intera materia senza curarsi dell’origine dei singoli principi del diritto internazionale. Sia come sia, allascienza rimane il compito di mostrare che “gli accordi internazionali sono qualcosa”1 e di determinare questo qualcosa con acume giuridico, un compito che ben si annovera fra i più ardui della scienza. Del tutto a ragione E. Meier osserva: “la questione della presenza di principi giuridici oggettivi sottende per il diritto internazionale difficoltà maggiori che per qualunque altro ambito giuridico. Le intese espresse fra Stati sovrani infatti riguardano sinora la determinazione di diritti soggettivipiuttosto che oggettivi, relazioni internazionali piuttosto che norme giuridiche e istituti giuridici”2. Il problema qui sollevato si acuisce di fronte alla questione se e per quale via lo Stato crei diritto internazionale oggettivo così come esso produce principi giuridici vincolanti per i propri atti.

Per risolvere tale problema occorre innanzitutto rispondere a un’altra questione appartenente a quelle di principio sull’intero diritto e dalla cui soluzione dipende non solo l’esistenza giuridica del diritto internazionale, ma anche il carattere del diritto in generale. Ogni diritto è volontà della comunità statale che emerge nella forma della legge o della consuetudine giuridica. Conformemente a ciò, un diritto può essere creato per lo Stato stesso soltanto quando questo sia in condizione di darsi da sé stesso prescrizioni alla cui osservanza esso è vincolato.Non è sufficiente provare che il diritto internazionale è volontà dello Stato, proprio come è avvenuto di recente nellavoro di Bergbohm in materia3. Il fatto di essere volontà

1 Heffter, Das europäische Völkerrecht der Gegenwart, III ed., §

81.2 Über den Abschluss von Staatsverträgen, Leipzig 1874, p. 36.3 Staatsverträge und Gesetze als Quellen des Völkerrechts, Dorpat

1877, p. 18 ss. Quando Bergbohm, p. 19, solleva la questione “(gli Stati) possono far valere per sé la propria volontà lasciando però intatta la propria indipendenza? Oppure debbono in realtà confessare la propria volontà proprio perché la volontà di alcuni o di molti altri Stati ha precisamente il medesimo contenuto?”, è appunto il cuore della fondazione giuridica del diritto internazionale motivare la risposta a questa domanda mostrando come la volontà propria dello Stato possa creare diritto per quest’ultimo.

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dello Stato non esaurisce l’essenza del diritto, giacché il diritto non è volontà dello Stato pura e semplice, bensì volontà obbligante dello Stato. Lo Stato crea diritto soltanto se si rivolge a una volontà mediante una norma1. È soltanto in quanto formula prescrizioni regolanti una volontà in ogni aspetto del suo agire che lo Stato è il creatore del diritto. Ogni atto mediante il quale lo Stato crea diritto deve essere interpretato come atto di obbligazione2. Ora, secondo le opinioni prevalenti, è indiscusso che mediante le proprie norme lo Stato può obbligare da una parte i propri sudditi, dall’altra quelli fra i propri organi che debbono vegliare sulla salvaguardia dei rilevanti principi di diritto.

Ogni principio di diritto vincola tanto coloro cui esso direttamente si indirizza, quanto anche gli organi statali nella misura in cui questi sono obbligati a dargli risalto nel caso concreto. Si tratta ora di ciò, se sia possibile dimostrare un’ulteriore terza direzione della volontà dello Stato, cioè se lo Stato sia in condizione di dare prescrizioni obbligatorie alla volontà sua propria.

E sicuramente questa dimostrazione deve avere esito positivo per ciò che indubbiamente vale come diritto. Deve dimostrarsi come nel diritto statale interno vi sia un momento riflessivo per cui vi sono principi di diritto – la cui qualità giuridica è certa – i quali provengono dallo

1 Thon, Rechtsnorm und subjektives Recht, Weimar 1878, p. 8:

“[l]’intero diritto di una comunità non è che un complesso di imperativi“, principio che condivido nella misura in cui anche i principi giuridici permissivi, che Thon vuole eliminare, hanno un lato negativo e visti a partire da questo essi appaiono come comandi. Cfr. Binding, Kritische Vierteljahrsschrift, vol. XXI (1879), p. 561. Quando Zorn, Die deutschen Staatenverträge, Zeitschrift für Staatswissenschaft, vol. 36, p. 6, aggiunge alla definizione di Thon le parole “che lo Stato indirizza ai suoi sudditi e tutela mediante coercizione”, in tal modo egli viene colpito dal giusto rimprovero mosso da Kaltenborn ai denigratori del diritto internazionale per il quale si profila il diritto in modo tale che il diritto internazionale non può più esser diritto. Cfr. Kaltenborn, Kritik des Völkerrechts, p. 307. Per contro, Zorn ha pienamente ragione a ritenere che nella definizione di Thon riesca a sussumersi anche il diritto consuetudinario, op. cit., p. 7.

2 “Ogni norma giuridica può essere espressa nella forma ‘tu sei obbligato’”, Zitelmann, Irrthum und Rechtsgeschäft, Leipzig 1879, p. 223.

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Stato e vincolano lo Stato. Se questa dimostrazione ha esito positivo, allora con ciò si è trovata la base giuridica del diritto internazionale. Ma se fallisce, allora un edificio del diritto internazionale sul fondamento del concetto di diritto contenuto nell’ordinamento giuridico interno dello Stato non è possibile. Il diritto internazionale allora non èdiritto in quel senso in cui lo è il diritto privato, il diritto penale o qualunque altro settore dell’ordinamento giuridico che proviene dallo Stato, e con ciò a coloro che negano il diritto internazionale si concede in linea di massima semplicemente tutto ciò che essi desiderano, giacché che le norme le quali esistono indipendentemente dalla volontà statale e debbono vincolare lo Stato si chiamino diritto internazionale o morale internazionale,che si designino come diritto primitivo o regole di ragionevolezza, è per il giurista fondamentalmente soltanto questione di parole. Manca allora ogni criterio per isolare ciò che in quei principi deve essere diritto dalle disposizioni che appartengono a un altro diritto in quanto settore giuridico.

Pertanto dalla dimostrazione che lo Stato possa obbligare se stesso mediante le proprie norme, che sia possibile che l’obbligante e l’obbligato coincidano in un’unica persona, dipende non soltanto il problema che abbiamo formulato all’inizio, ma anche l’intera esistenza giuridica del diritto internazionale. Se questa dimostrazione ha esito positivo, allora si sarà data provache lo Stato crea norme a se stesso anche nelle sue relazioni verso l’esterno, che anche qui esiste un rapporto obbligatorio nel quale vi è identità fra colui che pone il diritto e colui per il quale il diritto è posto. Infatti lo Stato può sottomettersi soltanto a se stesso1, e soltanto se lo Stato può sottomettersi a se stesso si trova in condizione di porre diritto verso l’esterno2.

1 Tanto che Lasson, Prinzip und Zukunft des Völkerrechts, Leipzig

1871, p. 22, si spinge ad ammettere che “lo Stato non può mai assoggettarsi a un ordinamento giuridico, come in generale neppure a una volontà al di fuori di sé”.

2 Con piena coerenza J. von Held perviene alla negazione del carattere giuridico del diritto internazionale poiché egli non vuole riconoscere il rapporto obbligatorio qui esistente: “(il diritto internazionale) non appartiene alle discipline del diritto pubblico nel senso giuridico del termine, giacché esso dal punto di vista giuridico riposa esclusivamente sul libero convenire, e dunque gli manca

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Contro la possibilità della fondazione giuridica del diritto internazionale sull’autonomia statale si è espresso Fricker nel suo saggio indirizzato contro le argomentazioni di Bergbohm1.

La volontà propria dello Stato non potrebbe creare diritto per lo stesso, neppure quando lo Stato stabilisce regole per il proprio comportamento. Non si darebbe un esser-vincolato dello Stato in senso giuridico, giacché la conseguenza della volontà propria si situa al di fuori del diritto.

Ma nella dimostrazione di queste affermazioni Fricker resta in debito; esse sono appunto la conseguenza del principio formulato a priori che tutte le norme di diritto siano norme coercitive, col che, i fenomeni giuridici importantissimi, come vedremo, che non possono rientrare in questa definizione sono espunti dall’ambito del diritto senza un esame più approfondito. Soprattutto mancherebbero completamente di qualificazione giuridica quegli atti che sono compiuti conformandosi liberamente al comando giuridico. Se la conseguenza della volontàpropria si situasse al di fuori del diritto, allora questodileguerebbe con l’assorbimento della legge nella volontà e per il giusto non vi sarebbe più alcun diritto.

Con ciò non vogliamo anticipare la nostra indagine. La migliore argomentazione contro l’affermazione contraria può consistere soltanto in ciò, che abbia buon esito la dimostrazione che sia possibile un’auto-obbligazione dello Stato e che si diano principi giuridici che in sé comprendono un’auto-obbligazione statale. Perciò dobbiamo innanzitutto rispondere alla domanda: lo Stato può obbligare se stesso mediante le proprie norme?

l’indispensabile rapporto di obbligo di diritto pubblico che assoggetta il particolare al generale”, Grundzüge des allgemeinen Staatsrechts, Leipzig 1868, p. 277.

1 Noch einmal das Problem des Völkerrechts, Zeitschrift für d. ges. Staatswissenschaft, vol. 34, p. 368 ss.

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Capitolo primo

Capitolo primoIn un primo momento, di fronte all’idea di un’auto-

obbligazione dello Stato il pensiero resta perplesso. All’interno dello Stato mediante la volontà statale possono essere imposti obblighi a carico del suddito, la volontà statale può vincolare la volontà del singolo a una dichiarazione resa da quest’ultimo. Ma come è possibile anche soltanto logicamente obbligare se stessi? Colui che non è vincolato da nient’altro se non dalla sua propria volontà non può poi sciogliersi dal vincolo auto-posto(selbstgesetztes Band) appunto mediante questa volontà? Lo Stato quale soggetto della volontà generale invero può tutto giuridicamente, perciò esso può anche liberarsi degli obblighi assunti senza commettere un illecito giacché esso è fonte di tutto il diritto. La volontà generale non può essere vincolata da alcuna legge giuridica!

Ma prima di addentrarci ulteriormente nell’indagine vorremmo sostituire il concetto di Stato, oscuro e non scandagliato nella sua essenza profonda, attorno al quale si tormentano metafisici, psicologi, sociologi e teologi, con il concetto chiaro, solo e unico interessante per il giurista, di potestà statale (Staatsgewalt). Non è la sostanza, l’in-sé dello Stato a occupare il giurista, così come lo psicologo non si occupa dell’anima bensì soltanto degli stati psicologici, così come il matematico non si occupa dell’essenza dello spazio bensì delle figure spaziali.

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Ricercare quell’in-sé delle cose che giace nascosto sotto le loro funzioni è il compito mai risolto della filosofia. Il giurista ha a che fare soltanto con le esternazioni di attività dello Stato ed è soltanto lo Stato che vuole e agisce ciò di cui si occupa il giurista. Pertanto non v’è definizione di diritto dello Stato più sintetica e azzeccata di quella di Gerber: “il diritto dello Stato è la dottrina della potestà statale”1. Per sfuggire a tutte le obiezioni che potrebbero essere ripescate da una qualunque teoria della natura sostanziale dello Stato, affermiamo che quando oraparliamo di Stato, abbiamo davanti agli occhi soltanto lo Stato in quanto potestà statale in base al suo lato giuridico-formale.

Se ora ascoltiamo innanzitutto le antiche dottrine dello Stato, per i più l’idea della sovranità è inconciliabile con la possibilità di una auto-obbligazione giuridica del sovrano mediante i propri comandi. In particolare troviamo fra gli assolutisti la negazione più decisa di un simile rapporto. Il padre della dottrina della sovranità, Jean Bodin, il quale prende le mosse dalla osservazione di principio che la potestà statale possa essere trasferita a qualcuno “pur disposer des biens, des personnes, et de tout l’estat à son plaisir”2 e il quale per la sovranità non conosce altri limiti “que la loy de Dieu et de nature ne commande”3, afferma con piena coerenza: “[s]i donc le prince souverain est exempt des lois des ses predecesseurs, beaucoup moin seroit-il tenu aux loix et ordonnances, qu’il fait; car on peut bien recevoir loy d’autruy, mais il est impossible par nature de se donner loy, non plus que commander à soimesme chose qui depend de sa volonté, comme dit la loy: Nulla obligatio consistere potest, quae a voluntate promittentis statum capit: qui est une raison necessaire, qui monstre évidemment, que le Roy ne peut estre suget à ses loix”4. Il più solerte difensore della dottrina della potestà statale

1 Grundzüge eines Systems des deutschen Staatsrechts, II ed., p.

3.2 Les six livres de la République, Paris 1576, vol. I, Cap. IX, p.

129.3 Ibidem, p. 132 e 133. Secondo Bodin il sovrano non potrebbe

obbligarsi neppure se volesse: “[l]e prince souverain ne se peut lier les mains, quandores il voudroit”, p. 133.

4 Ibidem, p. 130.

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assoluta, Hobbes, si inscrive nella medesima linea di pensiero: “[n]eque sibi dare aliquid quisquam potest; neque sibi obligari. Nam cum idem esset obligatus et obligans, obligans autem liberare obligatum possit, frustra esset, sibi obligari, quia se ipsum potest arbitratu suo liberare; et qui hoc potest, actu iam liber est. Ex quo constat, legibus civilibus non teneri ipsam civitatem. Nam leges civiles sunt leges civitatis; quibus si obligaretur, ipsa obligaretur sibi”. Invero Hobbes si spinge oltre rispetto a Bodin, che dichiara vincolanti gli accordi fra sovrano e sudditi. Egli infatti aggiunge: “[n]eque obligari potestcivitas civi. Quoniam enim hic illum, si voluerit, potestobligatione liberare et vult quoties ipsa vult (quia civis cuiusque voluntas in omnibus rebus comprehenditur in voluntate civitatis), libera est civitas quando vult, hoc est, actu iam liber est. Concilii autem sive hominis, cui summum imperium commissum est, voluntas est voluntas civium. Complectitur ergo voluntates singulorum civium; neque igitur tenetur is, cui summum imperium commissum est legibus civilibus; hoc enim est obligari sibi, neque cuiquam civium”1. Questa ruvida concezione dell’essenza della potestà statale che ricusa persino la possibilità di pensare un’auto-obbligazione ritorna senza temperamenti in Rousseau il quale in questo punto si mostra allievo del difensore della potestà assoluta del principe: “il faut remarquer, que la délibération publique, qui peut obliger tous les sujets envers le souverain [...] ne peut [...] obliger le souverain envers lui-même, et que par conséquent il est contre la nature du corps politique que le souverain

1 De cive c. VI.14. Proprio come Hobbes e anzi richiamandosi a

lui, Puffendorf, de jure naturae et gentium lib. VII c. 6, 3: “Humanae autem leges nihil aliud sunt, quam summi imperii decreta circa ea, quae subjectis ad salutem civitatis observanda sunt hisce directe non obligari summum imperium potest. Summum enim est: ergo a superiore homine obligatio ipsi non potest accedere. Seipsum autem per modum legis, id est, per modum superioris obligare nemo potest”. Dei successivi maestri prekantiani del diritto naturale professano il medesimo principio fra gli altri Achenwall, Jus naturae Ed. sept. tom. II. §. 34: “quoniam porro imperans legem ferens obligationem imponit subditis, non sibimet ipsi; imperans legibus a se latis naturaliter ipse non tenetur”; inoltre Höpfner, Naturrecht, VI ed., Giessen 1795, § 185, nota 2. Contra in particolare v. tuttavia Schnaubert, Auch der Regent ist an die von ihm gegebenen Gesetze gebunden, ed. dal latino di von Hagemeister, Rostock e Leipzig 1795.

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s’impose une loi, qu’il puisse enfreindre. Ne pouvant se considérer que sous un seul et même rapport, il est alors dans le cas d’un particulier contractant avec soi-même; par où l’on voit, qu’il n’y a ni peut y avoir nulle espèce de loi fondamentale obligatoire pour le corps du peuple, pas même le contrat social”1. Anche il diritto naturale tedesco ha nientemeno che in Kant un seguace della dottrina della non-limitabilità formale della potestà dello Stato. L’influsso di Rousseau non si smentisce quando egli formula il principio: “nello Stato colui che governa ha verso i sudditi esclusivamente diritti e non obblighi (coercitivi)”2. Non soltanto l’antico diritto naturale, ma anche la più recente filosofia del diritto ha esponenti che si riconoscono in questa concezione. Così, Stahl afferma che “lo Stato, quand’anche potere sovrano e non assoluto, sarebbeillimitato formalmente ma non materialmente”3. Inoltre, “ingenerale il legislatore stesso non può essere vincolato mediante le proprie leggi”4.

La fonte di tutte queste concezioni è da ricercarsi nel principio del diritto romano princeps legibus solutus est, ed è stato naturalmente proprio nel tempo in cui l’idea moderna di Stato ha dovuto lottare con le istituzioni tramandate dal Medioevo che l’illimitatezza della potestàdello Stato è stata sottolineata con particolare vigore dai sostenitori delle nuove idee, così come la rivoluzionaria dottrina dello Stato con gioia ha fatto propria la teoria della sovranità non vincolabile. Ma ben presto vediamo gli stessi sostenitori dell’assolutismo dello Stato alla ricerca di garanzie che assicurino la certezza che la potestà dello Stato venga esercitata per il sommo bene dei sudditi. Già

1 Du contrat social, Libro I, Cap. VII.2 Rechtslehre, § 49, nota generale, A.W.W. ed. di Rosenkranz e

Schubert, vol. 8, p. 165.3 Staatslehre, III ed., p. 155.4 Ibidem, p. 282. Altri passi lasciano trasparire una diversa

concezione di Stahl, in quanto egli, con la sua storicità dialettica, in generale gira spesso intorno ai problemi. Per esempio [in Die Staatslehre und die Prinzipien des Staatsrechts, III ed., Heidelberg 1856] a p. 189 afferma: “la legge è fondamento e presupposto della potestà statale attraverso cui essa è potestà statale [...] Dall’altro lato è la potestà statale ad essere a sua volta fondamento e presupposto della legge [...] Sussiste fra legge e potestà statale, come nella personalità e nell’organico, presupposizione reciproca ed effetto scambievole (Wecheslwirkung)”.

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Bodin nomina la loy de Dieu et de nature quale limite tracciato alla potestà sovrana. Pur ammettendo la formalenon-vincolatività della potestà statale, gli assolutisti tentano di trovare per essa almeno limiti morali. In tutti loro si fa strada il pensiero naturale che lo Stato, come in generale ogni potestà umana, non possa esistere come mero arbitrio e perciò essi tentano di contemperare l’arbitrio formale che attribuiscono allo Stato mediante un principio materiale che vincoli i titolari della potestà statale. Ma d’altro canto non si cerca di tracciare soltanto limiti morali all’esercizio della potestà statale, bensì emerge l’idea di delimitare questa a un ambito giuridicamente circoscritto. Peraltro per il momento questi non sono limiti giuridici in senso positivo, ma la regolamentazione della potestà statale viene dedotta dal diritto naturale. O si prendono le mosse dal concetto di Stato del diritto privato e si lasciano apparire i titolari della potestà statale come vincolati mediante le promesse che essi hanno formulato ai loro sudditi e che da questi ultimi sono state accolte; ovvero alla potestà statale si tracciano limiti inamovibili mediante il contenuto di contratti posti a fondamento dell’unione statale i quali accordano alla potestà statale soltanto una misura limitata di potere in quanto assolutamente necessaria al raggiungimento degliscopi dello Stato. Il pactum unionis e subjectionis contiene la legittimazione all’esercizio della somma potestà. Ciò che in questi pactis non è stato concesso (gewährt), non spetta alla potestà suprema. Nella filosofia tedesca dello Stato inoltre affiora il pensiero grandioso che lo Stato trova un limite nella sua essenza; pensiero da cui lo spirito tedesco di Thomasius e Wolff non si è più distolto1. L’impulso naturale a trovare un limite fra Stato e individuo è così possente che anche un difensore tanto deciso della sovranità statale assoluta come Rousseau arriva, in contrasto con le proprie premesse, a dare a un capitolo del

1 La prima netta e chiara formulazione in Wolff, Institutiones juris

nat. et gentium, § 980: “”Imperium civile cum metiendum sit ex fine civitatis; idem non extenditur ultra eas civium actiones, quae ad bonum publicum consequendum pertinent, consequenter cum nonnisi quoad easdem libertas naturalis singulorum restringatur, quoad ceteras actiones ea illibata manet”; inoltre: Vernünftige Gedanken von dem gesellschaftlichen Leben der Menschen, § 215 e altri passi.

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suo Contrat social il titolo “Des bornes du pouvoir souverain”1.

Dunque il diritto naturale che prende le mosse dalla concezione che l’auto-obbligarsi della potestà statale sia logicamente inammissibile si vede necessitato a sostituire il difetto formale con un momento sostanziale. Invero, dall’attimo in cui esso penetra come potenza spirituale in lotta contro il sistema di governo dominante, suo compito principale diviene trovare il punto a partire dal quale possono essere tracciati confini inamovibili fra i diritti dello Stato e del singolo. Da Grozio e Spinoza, da Locke e Algernon Sidney, sino a Rousseau e Fichte, questo è il grande problema che muove la dottrina filosofica del diritto.

Che ne è ora della correttezza dell’affermazione dell’inammissibilità di un’obbligazione giuridica dello Stato diffusa anche presso molti giuristi odierni2? L’idea che l’obbligante e l’obbligato siano un’unica e medesima persona è davvero così assurda? Se dalla dottrina del diritto andiamo a guardare l’etica, ci viene incontro la rappresentazione dell’assoggettarsi della volontà ai suoi propri comandi quale pietra prima e angolare dell’etica moderna. L’etica moderna è costruita sul principio dell’autonomia. Hanno pieno valore morale soltanto quelle azioni che scaturiscono dalla disposizione morale, cioè che originano dalla volontà condotta soltanto da un comando morale auto-posto. La volontà che agisce in modo morale non può essere vincolata da nessuna autorità esterna, soltanto dalle leggi che essa stessa si è prescritta, cui essa stessa ha ordinato di conformarsi mediante la propriacoscienza. Una pletora di esempi per l’auto-obbligazione sono offerti non solo dalla dottrina morale teoretica ma anche dalla vita pratica. Avere principi, possedere un carattere forte, che cos’altro significa se non avere la

1 Libro II, cap. IV. Cfr. Warnkönig, Die gegenwärtige Aufgabe der

Rechtsphilosophie, Zeitschrift f. d. g. Staatswissenschaft, vol. 7, p. 502.

2 Innanzitutto di recente ancora Zorn, v. supra, nota 8. Windscheid, Pandekten, III ed., § 305, ammette l’ammissibilità di principio di un’auto-obbligazione. Nota: “Perché qualcuno non potrebbe darsi una legge mediante la propria volontà come chi lascia un’eredità pone una legge agli eredi nella disposizione di ultima volontà?”.

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capacità di elevare le proprie decisioni a prescrizioni vincolanti per la volontà, farle diventare il motivo più forte avverso altre urgenze contrarie, condurre la volontà futura mediante la presente? In che cosa altro consiste la forza di volontà se non nella capacità di elevare mediante decisioni proprie la volontà a un vigore costante che in tutte le circostanze esegue la deliberazione presa? L’atto dell’obbligazione è un processo di motivazione, essoconsiste in ciò, che alla volontà viene posta una sollecitazione, un motivo determinato che va visto come il più forte in assoluto. Per l’atto di obbligazione è indifferente da chi provenga questa sollecitazione, se essa scaturisca da un’intelligenza estranea o dalla vita rappresentativa dell’agente medesimo. Ma certamente si può andare oltre e sostenere persino che in qualche modo ogni obbligazione è auto-obbligazione nella misura in cui la rappresentazione estranea che deve obbligarmi deve essere la mia propria rappresentazione prima di poter aver effetto quale motivo sulla volontà. Soltanto mediante ilmedio del mio intelletto un’altra persona può determinare la mia volontà. Soltanto le mie rappresentazioni possono determinarmi e la legge che origina da una potenza a me estranea può guadagnare vita e forza soltanto qualora io l’abbia prescritta alla mia volontà quale linea di condotta1. Dunque, di una inammissibilità logica dell’auto-obbligazione, di una contraddizione della sua rappresentazione con le nostre leggi del pensiero non può parlarsi.

La possibilità di concepire l’auto-obbligazione potrebbe essere contestata energicamente e con successo soltanto da un punto di vista, quello della assoluta libertà della volontà che identifica la libertà con l’arbitrio. Quando la volontà viene vista come non determinabile mediante motivi ragionevoli, allora senz’altro è impossibile parlare di principi e leggi, ma naturalmente anche di etica e diritto. Quando nulla offre la garanzia che la volontà dell’uomo sia

1 “Il tentativo di una comunità di determinare la condotta dei

consociati mediante i propri comandi è tentativo di posizione del diritto. Ciò che è comandato diviene e resta diritto se e nella misura in cui questo tentativo abbia buon esito. [...] Diritto è motivazione, esso cessa di essere diritto quando non opera più quale motivo”, Thon, Der Rechtsbegriff, in Grünhut’s Zeitschrift f. d. Privat- u. öffentl. Recht d. Gegenwart, vol. 7, p. 247.

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la medesima nell’istante successivo come nel presente, una comunità fra uomini non sarebbe possibile neppure per un’ora. E se si fa riferimento alla volontà dello Stato il quale con la sua potenza coercitiva garantisce la costanza della volontà dei sudditi, da dove prendiamo allora la certezza che tale volontà dello Stato, che peraltro è anchevolontà umana, non si sia modificata nell’istante successivo? Se fosse dato un arbitrio del genere, il mondo sarebbe un gran manicomio i cui ricoverati sarebbero incapaci di farsi un’idea di obbligo, imputazione e colpa1. La negazione della possibilità di una auto-obbligazione a motivo del fatto che la volontà libera può dimostrare la propria libertà anche nel liberarsi delle decisioni prese in passato porta perciò, traendo le conseguenze fino in fondo, alla negazione della morale e del diritto, alla negazione della possibilità di comunità umana. Dunque, se da una parte l’auto-obbligazione è logicamente ammissibile,dall’altra parte essa è necessaria moralmente e giuridicamente, giuridicamente nel senso dell’idea di diritto poiché essa è la condizione preliminare imprescindibile di una vita in comune regolata.

Tuttavia va qui osservata una cosa. L’auto-obbligazione non va concepita come se il singolo atto di volontà fosse quello in cui va ricercato il fondamento ultimo dell’obbligazione della volontà. Non è che una sofisticheria scolastica quando si sostiene che la libertà della volontà potrebbe mostrarsi anche nella rinuncia alla libertà. L’atto di volontà obbligante è soltanto il fondamento formale dell’obbligazione e il giurista puòtranquillizzarsi con questa rappresentazione. Ma il fondamento psicologico ultimo dell’obbligazione, sia mediante la volontà propria, sia mediante l’estranea, consiste in ciò, che la volontà si ritiene vincolata mediante la propria manifestazione.

L’intero compito della filosofia del diritto si concentra sulla questione del perché la volontà debba considerarsi vincolata. Che a fonte dell’ordinamento giuridico si assuma con la scuola di diritto teologizzante il comando divino, con quella naturalistica la legge della natura umana, con il diritto naturale il contratto, si tratta sempre

1 Cfr. le considerazioni rilevanti di Eduard von Hartmann,

Phänomenologie des sittlichen Bewusstseins, Berlin 1879, p. 448 ss.

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della spiegazione dell’enigmatico fenomeno psicologico per cui la volontà si sa obbligabile e obbligata. Quando Kant ha voluto concludere la discussione sul fondamento della forza obbligante dei contratti con l’affermazione che egli considerava l’obbligazione mediante contratto come un imperativo categorico1, ha colto nel giusto nella misura in cui il fondamento psicologico ultimo di un’obbligazionepuò risiedere soltanto della diretta coscienza che ci si saobbligati. Nel supposto imperativo categorico v’è soltanto una parafrasi del fatto che una ulteriore deduzione psicologica della coscienza dell’obbligazione non è possibile. Sia come sia, l’ordinamento giuridico presuppone la possibilità di obbligare la volontà, proprio come il matematico lo spazio e il fisico gli atomi. Un ordinamento giuridico, l’esistenza di una volontà generaleche si trasforma in azione mediante la volontà dei singoli è ammissibile soltanto sul presupposto che la volontà generale venga considerata come vincolante dalle volontà singole, cioè che l’ordinamento giuridico venga considerato vincolante dalla comunità per la quale esso è determinato2. Se anche alcuni oppositori possono essere costretti dalla potenza della comunità e la resistenza di questi stessi non lede il diritto, il non-riconoscimento del diritto da parte della totalità equivale al suo annichilimento. Il riconoscimento della volontà generale da parte della comunità è il suo fondamento formale ultimo. Equesto riconoscimento della volontà può consistere soltanto in ciò, che ci si ritiene obbligati mediante essa stessa; “il riconoscimento che rende diritto il diritto non è un atto provvisorio bensì una condotta abituale durevole in rapporto ai rilevanti principi di diritto”3.

Così allora a un’osservazione più approfondita dilegua l’elemento estraniante che si trova nell’idea della produzione del diritto mediante un autonomo vincolo della volontà. L’errore del diritto naturale è stato quello di

1 Rechtslehre, § 19.2 Cfr. le indagini chiare di Bierling, Zur Kritik der juristischen

Grundbegriffe, I parte, Gotha 1877, le quali mostrano una comprensione dei problemi di filosofia del diritto diventata rara presso i giuristi moderni.

3 Bierling, op. cit., p. 8. Si osservi anche la dimostrazione di Bierling in base alla quale il riconoscimento quale fondamento giuridico ultimo del diritto non si ferma alla teoria del contratto.

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concepire la sovranità nel senso dell’arbitrio, di non ammettere che autonomia e indipendenza non sono opposte ma correlate. Dall’essenza dell’uomo, dalla natura dell’ordinamento giuridico non risulta soltantol’ammissibilità teorica, ma anche la reale necessità del darsi legge da sé. Perciò l’essenza della sovranità non consiste soltanto nella qualità della potestà dello Stato quale somma potenza verso l’esterno, bensì prima di tutto nella autocrazia (Selbstherrlichkeit), nella potenza di dare prescrizioni alla propria volontà, nella capacità di produrre diritto per sé. Con sguardo penetrante L. von Stein ha designato l’autocrazia dello Stato come quel principio giuridico statale che contraddistingue lo Stato da tutte le altre forme di personalità1.

Così condotta la dimostrazione astratta per la possibilità e la necessità della produzione del diritto mediante l’auto-obbligazione della potestà dello Stato, ora bisogna fare la prova sui dati di fatto. Va mostrato che in ciò che indubbiamente vale come diritto è presente un momento che può essere ricondotto soltanto al darsi legge da sé da parte dello Stato. Alla deduzione deve seguire l’induzione al fine di confermare, mediante l’analisi dei fenomeni concreti, come effettivo quanto ci si è rivelato a priori come necessario.

La stessa auto-obbligazione dello Stato nella sua forma più pura, spesso perciò indicata come giuridicamente inqualificabile da parte dei suoi oppositori, si mostra negli atti mediante i quali la potestà dello Stato modifica la propria posizione giuridica statale vigente in base a libera decisione, dunque principalmente nei casi in cui la persona di un sovrano illimitato dichiari di esercitare la legislazione in futuro soltanto con l’approvazione (Zustimmung) di altri. Finché l’idea di Stato non si era ancora formata in maniera pura e chiara, si poteva concepire la concessione di una costituzione da parte del principe come un contratto stipulato fra principe e sudditi. Ma per la concezione moderna dello Stato, la quale ha quasi completamente bandito la categoria del contratto a spiegazione dei fenomeni della vita interna dello Stato, può ravvisarsi in quegli atti soltanto la decisione del sovrano vincolante una volta per tutte, una

1 Handlung der Verwaltungslehre, II ed., p. 42.

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decisione che produce diritto non solamente per i sudditi ma anche per il sovrano stesso. Il titolare della potestà dello Stato si assoggetta alla legge che egli stesso ha formulato1.

A partire da questo punto di vista occorre ora valutare anche tutti i rimanenti limiti della potestà statale. Il moderno diritto dello Stato conosce indubbiamente limitazioni della potestà statale, e senz’altro limitazioni giuridiche positive2. Tutta l’idea dello stato di diritto è riassunta nel principio che esistono limiti giuridici per l’esercizio della potestà statale. Dato che nell’ambito del diritto pubblico, almeno nello Stato moderno, produttrice di diritto è esclusivamente la potestà dello Stato, quei limiti possono essere interpretati soltanto quale risultatodi un’autolimitazione. Perciò ogni atto di volontà dello Stato che si riferisce alla costituzione, è al contempo una

1 Cfr. Zöpfl, Grundsätze des allgemeinen Staatsrechts, III ed., p.

319. Un esempio di auto-legislazione rilevante anche per la forma [si trova] nel diploma dell’Imperatore d’Austria del 20 ottobre 1860:“[c]onsiderato che [...] sul fondamento della sanzione pragmatica e in forza della nostra pienezza di potere abbiamo ritenuto di decidere e di regolamentare quanto segue quale durevole e irrevocabile legge fondamentale dello Stato a nostra propria linea di condotta così come del nostro futuro legislativo nel governo”.

2 Ammesse dalla maggior parte dei pubblicisti del tempo recente, per esempio Schmitthenner, Zwölf Bücher vom Staate, vol. III, p. 288: “i limiti della potestà politica sono... 2. giuridici-positivi (storici) posti mediante la forma concreta e la positiva costituzione dello Stato”. Zöpfl, op. cit., p. 92. Dahlmann, Die Politik, auf den Grund und das Maaß der gegebenen Zustände zurückgeführt, Göttingen 1835, p. 78: “non rientra nel concetto di governo il fatto che la sua manifestazione di volontà non sia vincolata ad alcuna norma”. Mohl, Staatsrecht, Völkerrecht, Politik, vol. II, p. 408. Gerber, Über öffentliche Rechte, Tübingen 1852, p. 79; Id., Grundzüge eines Systems des deutschen Staatsrechts, Leipzig 1869, p. 31, 229. Hermann Schulze, Einleitung in’s deutsche Staatsrecht, II ed., p. 165. J. von Held, Grundzüge des allgemeinen Staatsrechts, p. 324. Hölder, Das Wesen des Staates, Zeitschrift f. d. g. Staatswissensch, vol. 26, p. 651: il diritto dello Stato è l’incarnazione del giuridico, cioè appunto della potestà stessa dello Stato in quanto una di quelle condizioni riconosciute in base alle quali soltanto la sua efficacia può pretendere significato e valenza statale nei confronti del popolo”. Laband, Das Strafrecht des deutschen Reiches, vol. II, p. 202: “lo Stato non può esigere dai propri cittadini nessuna prestazione e nessuna omissione, esso non può comandare né vietare loro alcunché se non in base a un principio di diritto. Questo è il tratto distintivo dello stato di diritto in opposizione alla tirannia”.

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sollecitazione alla volontà statale stessa. Per quantoconcerne le leggi fondamentali, “nella loro concessione, modifica, integrazione, la volontà dello Stato ha come oggetto se stessa”1 Il non ostacolare la libertà dei sudditi in certe relazioni, i diritti dei cittadini nella loro natura puramente negativa quali dichiarazioni della potestà dello Stato, poggiano essenzialmente sulla restrizione dell’ambito di sovranità della potestà dello Stato mediante questa stessa e Gerber ha potuto perciò formularla molto bene nella forma imperativa di norme vincolanti o comeprincipi giuridici negativi: lo Stato non deve controllare la convinzione religiosa degli appartenenti al suo popolo, non deve voler controllare le convinzioni scientifiche degli appartenenti al suo popolo, lo Stato non può far dipendere la manifestazione del pensiero a mezzo stampa da sue previe autorizzazioni, censura ecc.2. Perciò chi limita il diritto alle norme emanate dalla potestà dello Stato verso i sudditi deve coerentemente negare la natura giuridica del diritto costituzionale e con ciò implicite dell’intero diritto statale in quanto esso poggia sul terreno dellacostituzione.

La tesi da noi sostenuta che nelle disposizioni fondamentali del diritto dello Stato siano da rinvenirsi essenzialmente auto-obbligazioni dello Stato, è confermata, con una limitazione di principio, dalla teoria delle norme nella formulazione che essa ha ricevuto da Thon. Secondo Thon lo Stato può stabilire norme anche per la sua propria condotta giuridica; ma una simile limitazione della propria libertà di agire contieneinnanzitutto l’annunciazione della decisione di agire in futuro in una certa maniera in questa o quella situazione. Soltanto la partizione delle diverse funzioni statali fra diversi organi, in particolare la separazione della potestà legislativa da quella di governo, rendono possibile che questa decisione della volontà, formulata e annunciata da determinati organi dello Stato, contenga al contempo un

1 Gerber, Grundzüge, pp. 13-14.2 Gerber, Grundzüge, p. 34 ss. Laband, op. cit., vol. I, p. 149: per

la potestà dello Stato i diritti di libertà o diritti fondamentali sono norme che la potestà dello Stato dà a se stessa”. Proprio nella interpretazione dei diritti fondamentali quali principi meramente vincolanti di diritto oggettivo il carattere dell’auto-obbligazione statale emerge con la massima chiarezza.

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imperativo per l’altra parte chiamata all’esecuzione1. Conformemente a ciò, nell’auto-obbligazione della potestà dello Stato vi sarebbe una obbligazione di una direzione della potestà dello Stato mediante l’altra. D’altronde nella maggior parte dei casi ciò è vero. Ma anche l’obbligazione della potestà legislativa mediante se stessa non soltanto è ammissibile in teoria, ma anche presente in fatto. I principi giuridici sui diritti politici di libertà sonod’altronde norme per l’attività amministrativa dello Stato ma sono anche “limiti alla potestà legiferante nella misura in cui un loro accantonamento diviene possibile soltanto mediante l’eliminazione costituzionalmente conforme di una parte delle leggi fondamentali”2. Le disposizioni per l’adozione, costituzionalmente conforme, delle leggi, il principio fondamentale per cui le leggi non possono essere dotate di efficacia retroattiva, la dichiarazione dell’intangibilità dei diritti conseguiti possono essere interpretati solo come limitazioni giuridiche che la potestà legislatrice ha posto a se stessa. In essi v’è più di una decisione, in essi è presente una vera prescrizione per la volontà statale futura3. D’altronde non sono mancati coloro che hanno voluto ravvisare in queste disposizioni soltanto obbligazioni morali, il che però trova la sua ragione soltanto in ciò, che costoro hanno operato con un concetto di diritto interpretato a priori in senso troppo ristretto a partire dal quale, d’altronde, i citati principi di diritto costituzionale non possono più essere compresi come principi giuridici. Così per esempio Bähr afferma che il principio per cui la legislazione non potrebbe ledere i diritti correttamente conseguiti (wohlerworbene Rechte)

1 Rechtsnorm u. subj. Recht, p. 141. Assai correttamente Thon

riconduce all’auto-obbligazione statale la posizione di diritto privato dello Stato in quanto fiscus. Cfr. Mohl, Encyclopädie der Staatswissenschaften, I ed., p. 193.

2 Gerber, Grundzüge, p. 36.3 Ciò si mostra nel modo più chiaro nell’art. I dell’emendamento

del 25 dicembre 1791 alla Costituzione degli Stati Uniti del Nordamerica: “il Congresso non potrà mai emanare una legge nella quale una religione venga dichiarata come dominante o venga impedito il libero esercizio di un’altra, o mediante la quale vengano limitati la libertà di parola o la libertà di stampa, o il diritto del popolo di riunirsi liberamente e di trasmettere al governo petizioni per l’eliminazione di abusi”. Vedi Schubert, Die Verfassungsurkunden, vol. I, p. 319.

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sarebbe soltanto una limitazione morale per la legislazione1, affermazione che peraltro si radica nella petitio principii che diritto e legge conserverebbero vero significato e forza soltanto là dove trovassero una pronuncia giudiziale disposta alla loro realizzazione2; inoltre Max Seydel, ricordando in tutto e per tutto Hobbes, sostiene che colui dal quale origina il diritto è al di sopra del diritto, che la volontà del sovrano abbraccia terra e genti senza alcun limite giuridico, che la volontà sovrana in quanto fonte del diritto non può essere essa stessa diritto3. Ma accanto a ciò Seydel parla di “limitazione legislativa della volontà sovrana”, che è quella posta dal sovrano a se stesso4. Seydel non fa il minimo tentativo per sciogliere questa contraddizione5. Anche Ihering il quale, come vedremo presto, è uno dei più solerti e arguti sostenitori della tesi dell’auto-limitazione della potestà statale, intende la legislazione, proprio nel senso di Stahl, come assoluta posta al di sopra della legge. Ogni legge che essa emana, comunque possa esserne mai formulato il contenuto, è un atto legale compiuto in senso giuridico, lalegislazione perciò non può mai commettere un arbitrio insenso giuridico, ciò significherebbe che ad essa non spetterebbe il diritto di modificare le leggi esistenti, una contraddizione della potestà dello Stato con se stessa6. Ma nello [s]tato di diritto per la modifica della volontà legislatrice sono sempre prescritte certe forme, forme senza il rispetto delle quali una legge non potrebbe neppure venire in essere. Queste forme limitano la volontà del legislatore e ciò proprio perché egli le ha volute. D’altronde egli può modificare queste forme, ma è costrettodall’essenza dello Stato a restringere formalmente il

1 Der Rechtsstaat, Kassel e Göttingen 1864, p. 50.2 Ibid. p 12.3 Allgemeine Staatslehre, Würzburg 1873, pp. 9, 13, 61.4 Ibid., p. 66. Come da questo punto di vista si possa arrivare ai

diritti pubblici, ai diritti contro il sovrano, come questo sia il caso per Seydel, resta del tutto incomprensibile. La differenza tracciata da Seydel fra sovrano e Stato coincide precisamente con quella di Rousseau fra souverain e état.

5 Fra i negatori dell’obbligazione giuridica del legislativo, occorre inoltre annoverare Fricker. V. supra, p. 65. Cfr. op. cit., p. 402: “se lo Stato non ha diritto al disopra di sé esso è vincolato soltanto dalla sua propria volontà, dunque non è affatto vincolato giuridicamente”.

6 V. von Ihering, Der Zweck im Recht, vol. I, p. 350.

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proprio arbitrio, il quale materialmente non sussiste affatto; al posto delle forme eliminate devono subentrarne di nuove in quanto lo Stato non conosce una volontà statale senza forma. E se il legislatore può modificare le leggi esistenti, ai fini di una tale modifica è pur sempre necessario un nuovo libero (selbstständig) atto di volontà. Fintanto che il legislatore non ha voluto diversamente, le disposizioni da lui formulate, le quali si rivolgono a lui, sono vincolanti per la sua volontà. Le autolimitazioni della legislazione non sarebbero di natura giuridica soltanto qualora la legislazione potesse essere interpretata come arbitrio, interpretazione che contrasta sin dal fondamento con l’essenza dello Stato. Ma come il legislatore sia giuridicamente in condizione di modificare la propria volontà nonostante l’auto-obbligazione della propria volontà – ecco questo è il punto tanto importante che presto dovremo discutere.

Il nòcciolo della nostra indagine risiede propriamente nella dimostrazione dell’auto-obbligazione della potestà legislativa. Infatti non si può dubitare fondatamente di un’obbligazione di altre attività dello Stato mediante quella legislativa. Che l’amministrazione e la giustizia possano ricevere comandi dalla legislazione appartiene ai fatti fondamentali del diritto pubblico senza i quali l’esistenza di un ordinamento giuridico neppure è pensabile. Nella misura in cui la potestà dello Stato deve essere pensata in abstracto come unitaria, vi è anche qui un’auto-obbligazione dello Stato, sicché ciascuna norma del diritto pubblico contiene un momento dell’auto-obbligazione.

Del tutto a ragione Binding ha messo in rilievo che le norme della legge penale sono indirizzate allo Stato stesso1. Garantendo diritti pubblici ai sudditi, lo Stato si obbliga a certe prestazioni nei confronti dei sudditi; dal punto di vista di chi è sottoposto alla potestà dello Stato,

1 Die Normen und ihre Übertragung, vol. I, p. 13. Anche qualora si

ritenga che le leggi penali sono obblighi del giudice di porle al fondamento delle sue sentenze, deve comunque ammettersi che esse, come Binding osserva in modo pertinente, contengono una fissazione della volontà dello Stato nei confronti del criminale, fissazione che non solo come ritiene Thon, è una decisione, bensì una vera norma, una norma mediante la quale la futura volontà dello Stato è vincolata sino alla modifica della legge penale. Cfr. le osservazioni che seguono nel testo.

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qui appare obbligata la potestà statale stessa1. Ma poiché la realizzazione della volontà dello Stato è affidata a organi diversi da quelli che hanno prodotto la volontà dato che all’interno della potestà unitaria dello Stato i vari organi di questa hanno una certa indipendenza (Selbstständigkeit)reciproca – nella quale per lo più sono da ricercarsi le garanzie del diritto pubblico –, si può, da un lato tenendo a mente questo momento dell’indipendenza e al contempo ricordando il rapporto di soggezione nel quale le altre attività della potestà dello Stato stanno rispetto alla legislazione, formulare l’affermazione che anche l’obbligazione dell’amministrazione mediante la potestà legislativa ricadrebbe in quel concetto di diritto in base al quale questo consiste soltanto delle norme emanate dalla potestà dello Stato ai suoi sudditi. Peraltro, di fronte all’obbligazione della legislazione mediante questa stessa,una tale obiezione è inammissibile. Mentre si potrebbe invocare che in una certa misura la volontà dello Stato si divide e crea all’interno di se stessa un oggetto diverso da sé, qui la volontà stessa afferra se stessa. O si fanno sparire dal diritto tutti i principi che vincolano la volontà del legislatore, o si ammette che quel concetto ristretto di diritto non è in grado di spiegare tutti i fenomeni del diritto. E quell’escludere dal diritto le disposizioni vincolanti la volontà del legislatore è, come già accennato, una negazione dell’intero diritto costituzionale il quale, in base alla precisa definizione di L. von Stein, deve essere inteso come l’ordinamento legislativamente disposto per la formazione della volontà dello Stato2, e di conseguenzacome una negazione della possibilità dello [s]tato di diritto il quale batte sulla fissazione legislativa della competenza della potestà statale in tutte le sue funzioni e dunque anche di quella legiferante.

Nell’auto-obbligazione del sovrano e della potestà legislativa però il carattere dell’autonomo vincolo della volontà dello Stato emerge soltanto nella maniera più pura e chiara. Ma come abbiamo già accennato, essa è contenuta di fatto in ogni principio di diritto pubblico, anzi in generale in ogni principio giuridico. Appartiene ai più grandi meriti della scienza statalistica tedesca quello di

1 Cfr. Ulbrich, Öffentliche Rechte und Verwaltungs-

Gerichtsbarkeit, Prag 1875, p. 53.2 Die Verwaltungslehre, vol. I, Stuttgart 1865, p. 24.

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aver messo in evidenza il carattere unitario della potestà statale, di aver dimostrato che quelli che si chiamavano poteri dello Stato nella assoluta separazione dei quali si ravvisava la salvezza (Heil) del popolo sono soltantodistinte funzioni di un’unica e medesima potestà statale. In ogni delimitazione degli ambiti rispettivi delle singole funzioni statali non può tuttavia mai perdersi di vista il pensiero che una frantumazione meccanica della potestà dello Stato in più parti significa al contempo una frantumazione dell’unità dello Stato. Se una divisione della potestà dello Stato in più potestà indipendenti (selbstständig) è teoricamente dannosa, essa è oltretuttoirrealizzabile in pratica. Potrebbero trovarsi soltanto pochi organi statali le cui funzioni appartengano totalmente ed esclusivamente a uno dei poteri1. Per conseguenza quando si guarda all’unità organica interna delle facoltà dello Statobisogna interpretare come auto-obbligazione ogni decisione dello Stato con la quale esso vincola in una qualche direzione una qualunque delle proprie attività. E dato che ogni legge deve essere realizzata mediante una qualche funzione dello Stato (giacché l’essenza della legge è che essa non significhi meramente un desiderio del legislatore, bensì un volere che deve tradursi in atto) non solo, come pensa Gerber, si può considerare gran parte delle leggi statali nel senso che in esse al contempo puòessere giuridicamente stabilita la misura e l’efficacia della potestà dello Stato2 (il che potrebbe del resto sempre costituirne l’oggetto); ma anche una tale fissazione

1 Sulla infondatezza dell’errore ancor oggi comune che la

costituzione inglese si fondi sul principio della divisione dei poteri v. Bagehot, Englische Verfassungszustände, in tedesco, con una premessa di von Holtzendorff, Berlin 1868. Anche le corporazioni legislative continentali svolgono atti di amministrazione. A questi spettano la scelta dei funzionari, il mantenimento della disciplina e così via. Nella competenza del legislatore può ricadere persino l’istituzione di organi giudiziari come per esempio in Austrial’elezione, da parte del Parlamento, dei membri della Corte di Stato la quale decide sulle azioni contro i ministri.

2 Grundzüge, p. 31. Cfr. Laband, op. cit., vol. II, p. 205: “le leggi di cui qui si parla (le leggi amministrative) nel complesso hanno a che fare con una delimitazione della potestà dello Stato. Esse dànno le prescrizioni giuridiche sugli effetti che allo Stato è consentito esercitare sulle persone e i patrimoni dei propri sudditi. [...] Il contenuto complessivo di tutte queste leggi definisce il contenuto giuridico della potestà dello Stato”.

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giuridica dell’esercizio della potestà dello Stato è da ravvisarsi senza eccezione in ogni legge come in ogni principio del diritto positivo da qualunque fonte esso possa scaturire, dato che esso direttamente o indirettamente è contenuto della volontà dello Stato. Quando viene emanata una legge che si riferisce a rapporti privati, la limitazione della potestà dello Stato è presente in ciò, che i fenomenidella vita giuridica che vanno sussunti sotto la relativalegge devono essere giudicati soltanto in base a tale legge e a nessun’altra. L’essenza della legge (e in generale del diritto oggettivo) consiste appunto nel fatto che essa esclude l’arbitrio per la valutazione dei fenomeni ad essa assoggettati, nel fatto che essa dà alla volontà dello Stato un contenuto determinato il quale accanto a sé non ne tollera alcuno contrastante. Legge e autolimitazione dello Stato sono concetti correlati. Anche nel caso dell’individuo un determinato contenuto della volontà ne esclude ogni altro per la durata del volere. Persino il più convintoindeterminista deve ammettere che in un unico e medesimo istante non si può volere qualcosa contemporaneamente al suo contrario.

In ogni concreto volere è perciò presente una limitazione della volontà in quanto capacità di volere. E questa limitazione è auto-voluta poiché essa è posta necessariamente con il contenuto stesso della volontà. Perciò ogni atto del volere statale è limitazione della volontà dello Stato e precisamente auto-limitazione, dato che questa limitazione non è imposta allo Statodall’esterno, bensì emerge dall’intima natura della sua volontà. E quest’auto-limitazione dello Stato non è transitoria. La volontà naturale dell’individuo in quanto tale non è ulteriormente vincolata formalmente dal compimento di un atto di volontà, tranne che nel caso in cui una volontà superiore gli imponesse di esser vincolato a un’azione della volontà dileguata o presupponesse la durata della volontà manifestata un tempo1, ovvero nel caso in cui la volontà individuale stessa si ritenesse vincolata per motivi etici da ciò che un tempo ha voluto. Diversa è la volontà dello Stato. Nel caso della volontà

1 Come per esempio nel caso della volontà di possesso la quale,

in base alla disposizione dell’ordinamento giuridico, non cessa mediante il mero non-volere bensì soltanto mediante un agere in contrarium.

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dello Stato il volere di ciò che un tempo è stato disposto quale contenuto per la volontà perdura fin quando non consegue un secondo atto di volontà mediante il quale viene posta fine alla durata del precedente atto di volontà. Lo Stato non cessa di volere ciò che un tempo ha posto a contenuto della propria volontà1 finché un atto di volontà opposta non tolga (aufhebt) il precedente. La volontà dello Stato, almeno quella dello [s]tato di diritto, perciò è molto più costante e affidabile della volontà dell’individuo e su questa costanza del volere statale, sulla durevolezza del vincolarsi della volontà statale al proprio contenuto, poggiano in principio l’intero ordinamento giuridico, il sentimento di sicurezza che è la precondizione ineliminabile del fare e del lavoro dei sudditi. Se non ci si potesse affidare a ciò, che lo Stato nelle proprie leggi e nei principi di diritto da esso riconosciuti rispetta e riconosce un limite della propria volontà, allora la vita all’interno dello Stato sarebbe la più insopportabile e vi sarebbero quelle condizioni statali che hanno spinto i precursoridella rivoluzione ad apprezzare il tempo dell’assenza delloStato quale periodo sommamente ideale per l’umanità.

Questo momento, presente in ogni principio giuridico,dell’auto-assoggettamento dello Stato alla propria volontà da nessuno è stato posto in evidenza in maniera più netta come da Ihering2. Questi, nello sviluppo del diritto in quanto comando, in quanto norma, distingue tre stadi. Il primo stadio è quello del comando individuale, il quale emerge soltanto mediante l’esigenza diretta del caso singolo per poi dileguare subito dopo che il caso per il quale esso è stato disposto è risolto. Il secondo stadio è la norma che vincola unilateralmente la regola astratta posta per una serie di casi la quale obbliga i sudditi alla potestàdello Stato senza che il suo autore sia vincolato da essa. Il terzo stadio della norma è quello in cui essa vincola al contempo la stessa potestà statale che l’ha emanata. È soltanto con ciò che viene raggiunto lo status giuridico e nell’applicazione della norma viene bandita la casualità. “Diritto in questo senso pieno del termine è dunque la forza vincolante bilaterale della legge, l’auto-sotto-ordinazione della potestà statale alle leggi emanate da essa

1 Tranne che nel caso in cui lo Stato abbia posto a se stesso un

termine determinato.2 Op. cit., pp. 321-426.

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stessa”1. La potestà dello Stato ammette l’obbligatorietàdelle norme giuridiche nei riguardi di se stessa in ciò, che essa rinunzia alla pronuncia del diritto e la trasferisce al giudice. “L’istituzione dell’ufficio del giudice è auto-limitazione di principio della potestà dello Stato in rapporto alla parte del diritto la cui realizzazione è trasferita al giudice, conferimento di potere al giudice sulla base del proprio convincimento di trovare il diritto indipendentemente da essa e assicurazione della forzavincolante della pronuncia da lui emanata”2. L’istituzione del giudice e l’indipendenza a lui assicurata è dunque la garanzia per la realizzazione del diritto dal lato dell’obbligazione della potestà dello Stato e al contempo il tratto distintivo del diritto rispetto all’attività di amministrazione dello Stato. Vorrei qui prescindere dalla grossolana divisione fra giustizia e amministrazione che traccia Ihering, il quale mette in discussione già la mera esistenza di un diritto amministrativo, il fatto che l’amministrazione stessa porta alla costruzione di principi giuridici3 e dall’altro lato la qualità di cura (Pflege) del diritto quale ramo dell’amministrazione. Ma pur se Iheringha inteso il momento dell’auto-obbligazione nelle norme dello stato di diritto tanto correttamente e acutamente, tuttavia contro le sue considerazioni si sollevano gravi dubbi. Innanzitutto egli trascura l’esistenza di norme unilateralmente vincolanti le quali esternano la loro forza obbligatoria soltanto rispetto alla potestà dello Stato, o piuttosto: conformemente alla propria affermazione che la legislazione non può porsi al di sotto di una legge da essa adottata, egli deve negare l’esistenza di norme giuridiche costituzionali e perciò togliere all’edificio dello stato di diritto il terreno sotto i piedi. E così tutto il suo edificio dinorme vincolanti bilateralmente è possibile soltanto sul fondamento dell’ammissione di una norma che vincoli esclusivamente la potestà dello Stato, cioè di quella norma mediante la quale la potestà dello Stato adotta l’ “auto-

1 Op. cit., p. 344.2 Op. cit., p. 382.3 Cfr. le obiezioni di Thon, Zeitschrift f. d. Pr.- u. öffentl. Recht, p.

256 ss. V. inoltre Laband, Staatsrecht, vol. II, § 67: “l’attività di amministrazione dello Stato è al contempo applicazione e produzione del diritto pubblico e fra amministrazione e costruzione del diritto ha luogo un perdurante effetto reciproco”.

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limitazione di principio”. L’atto per mezzo del quale la potestà dello Stato delimita i confini entro i quali essa assicura l’indipendenza al giudice deve essere comunque inteso da Ihering quale norma giuridica altrimenti egli non potrebbe qualificare il mancato rispetto dell’indipendenzadel giudice da parte dello Stato come inescusabileviolazione del diritto1. Almeno l’organizzazione dei tribunali e la determinazione delle loro competenze devono essere intese da questo punto di vista come principi di diritto che si indirizzano soltanto alla potestà dello Stato, norme unilaterali vincolanti che non vincolano nessuno se non il loro autore. E certo queste norme debbono essere viste anche quali obbligazioni per la legislazione. O Ihering intende che il potere legislativo non è vincolato dal principio dell’indipendenza dei giudici? Esso può adottare leggi che tolgono (aufheben) questo principio? Nella misura in cui derogasse a questo principio appartenente secondoIhering alle condizioni indispensabili dello stato di diritto,il potere legislativo non commetterebbe una violazione del diritto proprio come la potestà dello Stato che non rispettasse la pronuncia del giudice? Portare fino in fondo il pensiero di Ihering senza contraddizione è possibile soltanto ammettendo norme vincolanti unilateralmente rivolte soltanto alla potestà dello Stato la quale è in grado di stringere in vincoli anche il fattore produttivo di diritto nella vita dello Stato, il potere legislativo. Se anche le norme mediante la cui emanazione il potere legislativo viola un obbligo posto a se stesso costituiscono dirittoformale, si ha l’illecito che la legislazione commette nellaistituzione di nuovo diritto laddove il vecchio avrebbe potuto ancora valere. Mediante l’atto di creazione giuridica la potestà dello Stato qui compie un illecito, escluso il caso che la nuova creazione di diritto sia una creazione necessaria, imposta dagli scopi dello Stato, di cui presto dovremo parlare. Formalmente è possibile che la legislazione per vie conformi alla costituzione imponga mediante legge speciale la confisca del patrimonio di un innocente; ma in questo caso essa infrangerebbe la normache impone la inviolabilità della proprietà e che essa ha riconosciuto per se stessa come vincolante, proprio come

1 Op. cit., p. 382.

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fa il ladro1. Dall’esistenza di norme unilateralmente vincolanti indirizzate soltanto alla potestà dello Stato risulta che l’obbligazione della potestà dello Stato è l’unico punto che accomuna tutti i principi giuridici ammessi dallo Stato, dunque tutti i principi di diritto positivo. Come emerge dalla nostra ricostruzione, vi sono principi che non si rivolgono ai sudditi delle leggi; ma una norma che non obbligasse lo Stato non è neppure pensabile, altrimenti qualcosa dovrebbe poter essere al contempo contenutodella volontà dello Stato e non contenuto in questa stessa.La più ampia definizione del diritto sarebbe conformemente a quella che contrassegna il diritto come la quintessenza delle norme considerate dallo Stato come per esso vincolanti. Così l’auto-obbligazione della potestà dello Stato, di cui all’inizio abbiamo verificato la dubbia ammissibilità logica, ci si mostra quale essenza dell’intero ordinamento giuridico.

Il secondo punto nelle considerazioni di Ihering rispetto al quale dobbiamo dichiararci contrari è la posizione che egli riserva al giudice. Per lui il giudice appare totalmente indipendente dalla potestà dello Stato, questa gli sta sempre contrapposta e si piega davanti alla sua pronuncia. Qui abbiamo quella lacerazione della potestà dello Stato che necessariamente conduce a un annichilimento dell’idea di Stato, “la costruzione teoretica del fondamento di un conflitto di Stato permanente”2. Il giudice non sta come un estraneo rispetto allo Stato, né si trova al di sopra dello Stato come un’autorità superiore. Egli stesso connota soltanto un determinato aspetto della potestà dello Stato, all’interno di tale potestà nelle funzioni che gli sono proprie egli è soltanto un momento nettamente delimitato rispetto agli altri. Ma è lo Stato stesso che parla per la bocca del giudice; in lui, quando pronuncia il diritto ed emana le sue sentenze nel nome dello Stato o del suo sovrano rappresentante, sipersonifica lo Stato. Nella misura in cui, inoltre, la pronuncia del giudice contiene non soltanto un giudizio, una dichiarazione del diritto da applicare nel caso concreto, bensì anche un comando, sia esso alle parti, sia alla potestà dello Stato; nella misura in cui dunque nella

1 Cfr. Gerber, Grundzüge, p. 29.2 F. von Holtzendorff, Die Principien der Politik, II ed., Berlin

1879, p. 125.

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pronuncia del giudice sia contenuta una imposizione o un ordine, ciò da cui scaturisce l’ordine è la potestà dello Stato stessa1. Volontà del giudice è volontà dello Stato. Se non fosse così, lo Stato non potrebbe mai assoggettarsialla pronuncia di un giudice. Infatti, comunque si voglia intendere la sovranità, resta fermo che fra i suoi caratteri necessari va annoverata l’indipendenza dello Stato. Lo Stato non può riconoscere al sopra di sé alcuna volontà superiore, esso non può piegarsi ad altra volontà se non alla propria. Se il giudice stesse al di sopra dello Stato come un’autorità superiore, da lui lo Stato dovrebbe poter ricevere comandi, e allora sovrano sarebbe il giudice e non lo Stato. Nella misura in cui trasferisce al giudice l’attività giusdicente, la potestà dello Stato “non dichiara davanti a tutto il popolo di voler rinunciare ad essa”2, bensì di mettere al riparo la sua propria volontà e l’esecuzione della stessa di fronte all’arbitrio dei propri organi.

E ora si chiarisce perché la dimostrazione che l’auto-obbligazione statale crea diritto in generale ha rilevanza di principio per il concetto di diritto. Secondo l’opinione dominante fra la più larga parte dei giuristi e che di recente ha anche ricevuto nuovo appoggio da parte di Ihering3, il diritto è possibile soltanto sul presupposto che vi sia un’autorità giudicante e costringente. In questa interpretazione le norme giuridiche sono norme di coercizione la cui applicazione è assicurata mediante la pronuncia giudiziale. Un’autorità innalzata al di sopra

1 Cfr. Degenkolb, Einlassungszwang und Urtheilsnorm, Leipzig

1877, p. 82: „[n]ella giurisdizione nel suo complesso necessariamente giudicare e ordinare si intrecciano insieme”. Questo ordinare giudiziale non può mai essere pensato come svincolato dalla potestà dello Stato, come il giudizio il quale non è volere né agire, bensì un processo puramente logico: “[l]’essenza della potestà giudicante non risiede nel giudicare, bensì nel condannare (richten). [...] Il giudicare nel senso di riconoscere e pronunciare il diritto nel caso singolo, non è affatto necessariamente una funzione autoritativa, né l’esercizio di potestà o potenza statale [...] Per contro il condannare, cioè la garanzia della tutela giuridica e l’applicazione del diritto [...] è visto da sempre come un’attività autoritativa e perciò ovunque agli ufficiali e ai magistrati giudicanti viene affidata una potestà statale”. Bluntschli, Allgemeine Staatslehre, V ed., p. 595.

2 Op. cit., p. 382.3 Op. cit., p. 434. Diritto = tutela delle condizioni di vita della

società in forma di coercizione.

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delle parti, una potestà più potente di coloro che sono soggetti alla norma deve fornire la garanzia per l’adempimento di questa. Ora, se vi sono norme che si rivolgono alla potestà stessa dello Stato, quale ruolo potrebbe svolgere nei suoi confronti la coercizione? È anche soltanto ipotizzabile una coercizione che la potestà dello Stato esercita contro se stessa? Obbligare se stessi è possibile, ma mai costringere se stessi! Se la potestà delloStato non ottempera a uno degli obblighi posti a se stessa,non vi è potere giuridico in grado di fare in modo che essa si attenga all’adempimento delle proprie obbligazioni. Le garanzie allo scopo che lo Stato realizzi una disposizione contenuta nella costituzione, che una pronuncia giudiziale venga eseguita, che l’amministrazione venga esercitata entro limiti giuridici, sono e rimangono di natura puramente morale, in questi casi il diritto non dispone di mezzi coercitivi1. Contro la nostra posizione non si obietti che nelle pronunce dei tribunali amministrativi, nella responsabilità dei ministri, esistono garanzie per la realizzazione delle disposizioni costituzionali, per l’esercizio dell’amministrazione entro i limiti di diritto e così via.Giacché è proprio lo Stato stesso a chiamare a responsabilità i ministri, a cassare i provvedimenti delle autorità amministrative non conformi a diritto. In tutti questi casi lo Stato vuole ancor sempre la realizzazione del diritto; qui la coercizione non è diretta contro se stesso, bensì contro singoli organi che si trovano in rapporto di sudditanza rispetto ad esso. Ma quando tutti gli elementi della potestà dello Stato si uniscono per mettere l’arbitrio al posto del diritto, per violare obblighi che essi in quanto tali dovrebbero riconoscere, allora lo Stato agisceillecitamente senza che sia presente un giudice che potrebbe impartirgli ordini né un esecutore che potrebbe dare esecuzione alla pronuncia. Allora quando le forze (Kräfte) elementari del popolo si agitano e la forza dello Stato (Staatsgewalt) vi si oppone lottando e vincendo la violenza del popolo (Volksgewalt), questo è un processo completamente privo di qualificazione giuridica, o piuttosto qui illecito e illecito si fronteggiano giuridicamente. Una giustificazione della rivoluzione è

1 Bergbohm, op. cit., p. 25. Inoltre del tutto a ragione Bergbohm

mette in evidenza che vi sono disposizioni giuridiche che in generale escludono il giudice. P. 26, n. 1.

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possibile a partire da un punto di vista etico e di filosofia della storia e da una visione che osservi il momento sostanziale del diritto, ma una sua giustificazionegiuridica, una sua interpretazione come coercizionegiuridica contro l’illecito statale è inammissibile.

Ora, se da un lato la coercizione giuridica contro lo Stato è inammissibile, dall’altro lato la posizione del giudice rispetto ad esso è di natura completamente diversa di quella rispetto al suddito. Il giudice non può contrapporglisi come un’autorità. Nella misura in cui la funzione giudicante non consiste nel procedimento puramente logico del trovare il diritto, il giudice, come accennato, è tutt’uno con la potestà dello Stato. Lo Statonel quale il giudice emana la sentenza giudiziale esegue la sua propria sentenza. Anche nella misura in cui l’ordine del giudice sia indirizzato allo Stato stesso, eseguendolo lo Stato porta a compimento soltanto le sue proprie ordinanze. Perciò lo Stato è sempre giudice in causa propria. Esso non si assoggetta mai alla pronuncia del giudice riconoscendolo come superiore, bensì riconosce la volontà del giudice come la sua propria. Con ciò si verifica nell’organismo della potestà dello Stato il medesimoprocesso che accade nell’individuo che eleva una rappresentazione ragionevole a motivo per la propria volontà. Qui come lì la volontà si subordina a quanto liberamente ammesso come ragionevole.

L’auto-obbligazione statale dunque non conosce alcuna coercizione e neppure alcun giudice nel senso consueto. E dato che in ogni legge è contenuto il momento dell’auto-obbligazione statale, dato che vi sono principi di diritto la cui natura consiste esclusivamente nell’autonomo vincolarsi della volontà dello Stato, pertanto, senza esame più approfondito – dialettico e speculativo – della questione di quanto l’esistenza deldiritto sia condizionata dall’esistenza delle proprie garanzie, risulta dalla osservazione scevra da pregiudizi delle norme le quali indubbiamente posseggono forza giuridica che vi è diritto che in sé non porta altre garanzie se non la volontà di quello cui le norme sono indirizzate, cioè dello Stato. Se a queste leges imperfectae si vuole togliere carattere giuridico per il fatto di essere imperfectae, allora in base alle nostre osservazioni si deve negare l’esistenza di un ordinamento giuridico per lo Stato,

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dunque in generale il diritto pubblico, poiché ogni principio giuridico nel suo indirizzarsi alla potestà dello Stato necessariamente è e deve rimanere imperfetto.

La doppia direzione verso cui si esterna la volontà dello Stato trova del resto espressione nei diversi stadi della adozione delle leggi in modo conforme alla costituzione. Un progetto di legge assume il rango di parte costitutiva dell’ordinamento giuridico innanzitutto mediante l’approvazione che conferisce forza di diritto al contenuto della legge, e in secondo luogo mediante la stesura finale e la pubblicazione con cui la legge vienedichiarata come adottata in modo conforme alla costituzione e ne viene prescritta l’osservanza ai sudditi. Ora, mediante l’approvazione il legislatore prima di tutti obbliga se stesso.

Mediante questo atto egli dichiara che un determinato progetto giuridico deve essere il contenuto della propria volontà1, è essenzialmentel’autodeterminazione della volontà legislativa che porta a espressione l’approvazione. V’è nella vita della legge unlasso di tempo dove essa non obbliga ancora i sudditi, e ciononostante ha già vincolato la volontà del legislatore: questo è senza dubbio il tempo fra l’approvazione e la pubblicazione, o ancor più precisamente, l’istante iniziato il quale i sudditi cui la legge si rivolge sono ad essa stessa vincolati. Così in Austria, come noto, in base alla legge del 10 luglio 1869, la forza vincolante delle promulgazioni contenute nel Reichsgesetzblatt, qualora in queste stesse non si trovi espressamente una disposizione diversa, ha inizio a partire dal quarantacinquesimo giorno dopo il termine di quello in cui è stata edita e inviata l’edizionetedesca di quella parte del Reichsgesetzblatt in cui è contenuta la promulgazione; nell’Impero tedesco, in base all’art. 2 della Costituzione del Reich, dal quattordicesimo giorno dopo il termine di quello in cui è stata edita a Berlino la parte rilevante del Reichsgesetzblatt2. Nel tempo

1 Cfr. Laband, op. cit., vol. II, §§ 56, 57. Contro l’affermazione di

Laband che mediante l’approvazione un principio giuridico viene elevato a legge Binding, Krit. Vierteljahrschrift, vol. XXI, p. 549.

2 Cfr. Code Napoléon, Art. 1. A quanto ne so la vacatio legis è stata sottoposta ad attento esame soltanto da Binding, Krit. Vierteljahrschrift, p. 580 ss. Del tutto correttamente Binding distingue fra dichiarazione solenne del legislatore secondo la quale

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che trascorre dall’approvazione della legge sino alla pubblicazione, dalla pubblicazione per tutta la vacatio legis sino all’inizio della sua forza obbligate, la legge è già parte integrante dell’ordinamento giuridico, ma soltanto nella misura in cui essa è norma unilateralmente obbligante che vincola esclusivamente il legislatore. Dall’istantedell’approvazione sino a quello dell’entrata in vigore dellalegge, benché ancora nessuno dei sudditi vi sia vincolato, il legislatore non può togliere la legge se non in modo conforme alla costituzione, egli dunque indubbiamente è già vincolato dalla legge proprio come se questa fosse entrata già in vigore per i sudditi. Ciascuna legge nel suo processo di sviluppo passa perciò attraverso uno stadio in cui essa mostra in maniera purissima e senza alcuna mescolanza il charakteristikòn esclusivo di tutte le norme di diritto positivo, l’auto-obbligazione della potestà dello Stato. Già questo dato di fatto da solo darebbe prova sufficiente che esiste un diritto mediante il quale è obbligato soltanto lo Stato ma non i sudditi. Da esso consegue anche che un atto di volontà dello Stato che non viene mai pubblicato può ciononostante avere forza vincolante per la potestà dello Stato, benché i sudditi forse non ricevano mai notizia autentica della decisione della potestà dello Stato, situazione che per intendere la natura giuridica degli accordi fra Stati è della più grande rilevanza.

Ora, ammettendo che vi è diritto il quale consiste esclusivamente nel vincolo della volontà dello Stato; che a ogni principio di diritto è intrinseco un momento siffatto dal quale dipende la sua intera esistenza e che non può essere portato a realizzazione mediante coercizione e neppure mediante un giudice quale autorità superiore, ma che trova la propria garanzia soltanto nella volontà morale dello Stato; ammettendo ciò sono cadute due obiezioni fondamentali che vengono sollevate con spossante monotonia contro l’esistenza giuridica del diritto

qualcosa che sino ad allora non era diritto da quel momento in poi deve assumere la qualità di principio di diritto, e dichiarazione del legislatore secondo la quale il principio di diritto debba valere a partire da un certo giorno in avanti. Soltanto credo, nonostante l’opposizione di Binding, che anche nella prima dichiarazione sia contenuta una norma, cioè l’obbligazione del legislatore di elevare l’ordinamento ideale” a reale.

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internazionale. Con ciò è provato che il diritto statale interno in base a una delle sue più importanti relazioni patisce le medesime supposte mancanze di cui soffre e per propria natura deve soffrire in eterno il diritto internazionale. La grande differenza fra diritto statale e diritto internazionale la quale prima facie induce a ravvisare nel primo un diritto più strettamente connesso, fondato su basi più solide, consiste in ciò, che le garanziemorali del diritto statale sono più forti di quelle del dirittointernazionale, che la coscienza della potestà dello Stato di essere obbligata, in relazione ai compiti dello Stato rispettoal proprio popolo, al diritto auto-posto è più potente di quella rispetto agli Stati stranieri. Quando la coscienza morale dei popoli avrà scalato la vetta necessaria per l’assoluta osservanza degli obblighi internazionali, allora a disposizione del diritto internazionale vi saranno le medesime garanzie che oggi tutelano il diritto statale dei popoli civilizzati. Con il carattere positivo del diritto internazionale per questi aspetti la questione sta pertanto proprio come con qualunque altra parte costitutiva del diritto vigente all’interno dello Stato la cui realizzazione inultima istanza dipende sempre da momenti che si trovano al di fuori del diritto1. Svincolato dalla base etica sulla quale poggia, il diritto assomiglia a un castello di carte che il più debole soffio di vento distrugge.

Vale la pena adesso di esaminare l’obiezione più seria che può essere sollevata contro la teoria dell’obbligazione statale da noi sostenuta, alla quale abbiamo già accennato all’inizio della nostra indagine. Con la semplice circostanza che lo Stato può sempre modificare la propria volontà non cade la tesi dell’auto-obbligazione? Nella possibilità che lo Stato possa volere tutto nelle forme costituzionalmente conformi, non è ricompresa anche la possibilità che lo Stato si ri-liberi da ogni possibile contenuto di volontà? Non è l’auto-liberazione dello Stato a rendere impossibile l’auto-obbligazione, e la dottrina degli assolutisti dello Stato non ha perciò ragione a ritenere che un’obbligazione della potestà dello Stato in quanto soggetto è impensabile?

Per rispondere a queste domande dobbiamo abbandonare il punto di vista giuridico formale per

1 Perciò non può negarsi per singole disposizioni del diritto

internazionale la possibilità di una tutela mediante coercizione. Cfr. von Kaltenborn, Kritik, p. 310. Bergbohm, op. cit., p. 23.

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indagare quali siano i momenti che guidano la volontà dello Stato nella creazione del diritto. Infatti la determinazione di ciò che deve diventare diritto è necessariamente dipendente dal momento sostanziale deldiritto e dello Stato. Pertanto qui abbiamo bisogno di rivolgerci alla natura dello Stato al fine di chiarire il processo che determina lo Stato a dare alla propria volontà un contenuto concreto.

Comunque si voglia pensare all’essenza dello Stato, una cosa ancor oggi è posta al di là di ogni dubbio: che essa non può essere intesa come arbitrio, che a determinare la volontà dello Stato non sono ghiribizzi lunatici, ma motivi ragionevoli. Non è materialmente riposto nel capriccio dello Stato se esso in generale voglia creare un ordinamento giuridico e quale contenuto questo debba possedere. Piuttosto lo Stato è vincolato dai propri scopi dei quali fa parte anche quello di essere l’organo del popolo che pone il diritto e che protegge il diritto. Se nonrealizza questo scopo o se addirittura agisce contro di esso, con ciò lo Stato commette un attacco verso se stesso, cerca di distruggere le condizioni della sua propria esistenza. È d’altronde possibile che una legge sia irragionevole, spesso le leggi contengono errori o sono incomplete, ma è quasi impossibile che in un Paese civilizzato venga emanata una legge che non corrispondaagli obblighi dello Stato almeno in base all’apprezzamentosoggettivo del legislatore. In uno Stato moderno soltanto dirado un legislatore potrebbe davvero essere così sventato da attribuire con consapevolezza carattere giuridico a unadisposizione confliggente con gli scopi dello Stato. La prudenza dello Stato è prudenza umana, e la prudenza umana può errare. Ciò non impedisce però che gli Stati abbiano riconosciuto e anche di fatto riconoscano il principio che essi sono obbligati dalla propria natura alla creazione di diritto corrispondente agli scopi sociali del diritto. Ma se lo Stato è obbligato dai propri scopi alla istituzione e al mantenimento dell’ordinamento giuridico, e ha il diritto, che lo Stato crea e tutela, di corrispondere agliscopi sociali del diritto, al mantenimento delle condizioni di esistenza della comunità nazionale dipendenti dalla

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volontà1, in ciò ogni obbligazione che lo Stato si è posto trova il proprio limite. Davanti all’obbligo supremo dello Stato, quello di creare diritto che corrisponda allo scopo dello Stato, tutti gli altri obblighi passano in secondo piano. Qualora un determinato principio di diritto non corrisponda più allo scopo dello Stato, per la volontà dello Stato l’obbligo auto-posto di mantenerlo in vigore viene meno mediante l’obbligo superiore di corrispondere allo scopo dello Stato. Qui accade soltanto quel medesimoprocesso che si verifica in ogni conflitto di obblighi per cui l’obbligo inferiore viene meno mediante il superiore. Inoltre perciò soltanto l’obbligo più alto può apparire come assoluto, mentre rispetto ad esso tutti gli altri obblighi sono soltanto relativi. Se il popolo con la sua organizzazione sociale fosse uno e un medesimo in ogni tempo, non vi sarebbe mai un motivo per una modifica delle leggi, invero ogni atto di legislazione che volessemodificare le leggi esistenti corrispondenti allo scopo del diritto, sarebbe allora giuridicamente non conforme. Ma dato che la società per la quale le leggi sono predisposte è concepita in costante movimento e trasformazione, la potestà dello Stato commetterebbe il maggior illecito materiale se volesse ritenersi vincolata in eterno mediante le proprie leggi; con ciò essa opererebbe addirittura per la sua propria rovina, così come essa fa ogni volta che agisce contro gli scopi dello Stato2.

Lo Stato non può mai obbligarsi al riconoscimento incondizionato di un principio giuridico. Sempre, laddove nel caso concreto gli scopi supremi dello Stato entrino in gioco contro il mantenimento di una regola giuridica astratta, quest’ultima deve cessare di avere vigenza. È insensato pretendere dallo Stato che esso, per corrispondere a un obbligo assunto, debba annichilire se stesso e, come all’individuo, anche allo Stato deve essere

1 Cfr. il mio Die social-ethische Bedeutung von Recht, Unrecht und

Strafe, Wien 1878, p. 42 ss.2 Zachariae, Vierzig Bücher vom Staate, vol. IV, p. 12: “non è in

potere del sovrano dello Stato, chiunque questo sia, di mantenere immutata la condizione della società civile, sulla quale comunque bisogna calibrare le leggi. Nessun mortale può dire: sole fermati! Oppure: fin qui e non oltre”. Cfr. Ihering, op. cit., p. 413 ss., von Holtzendorff, op. cit., p. 136 ss.

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riservato un diritto di necessità1. Inoltre è stato ricordatoda Binding che le norme non sono comandi vigenti senzaeccezione, bensì regole con eccezioni2. Lo Stato comanda: non devi uccidere; ma il comando che esso ingiunge al giustiziere di dare esecuzione ai condannati, l’incarico ai propri soldati di lottare con armi letali contro il nemico e così via, in determinati casi priva la sua propria norma di efficacia (setzt seine eigene Norm außer Kraft). Lo Stato dichiara inviolabile la proprietà; e tuttavia nell’interesse della comunità esso è costretto a violare la propria norma mediante l’espropriazione. L’auto-obbligazione statale non può essere assoluta né riguardo alla durata né all’ambito di validità. Dato che ogni obbligazione statale, in base al suo lato sostanziale, è adempimento dello scopo dello Stato, essa sussiste soltanto finché corrisponde a tale scopo. Perciò ogni atto di volontà statale contiene in sé la clausola rebus sic stantibus. Soltanto per il tempo in cui irapporti oggettivi alla cui normazione è determinata la relativa legge restano i medesimi immodificati l’auto-obbligazione dello Stato ha assolutamente forza vincolanteper quest’ultimo3.

Tenendo a mente che un obbligo dello Stato può sussistere soltanto finché esso sia ragionevole, cioè corrispondente ai bisogni dello Stato, dilegua di nuovo una delle argomentazioni predilette contro il carattere giuridico del diritto internazionale. Allora non è più possibile richiamare la grande frattura fra accordi di Stati e accordi di privati, per cui si dice che quelli possono essere mantenuti o violati non in considerazione del diritto, bensì dell’utile e della potenza4, poiché la comparazione è totalmente non pertinente. Gli accordi fra Stati debbonoessere confrontati non con gli accordi fra privati che sottostanno alle norme statali, bensì con le norme che lo Stato stesso si crea. E lì si mostra che riguardo alle garanzie e alla durata dell’obbligazione degli Stati non

1 Ihering, op. cit., p. 418; Bergbohm, op. cit., p. 109.2 Normen, vol. I, § 8 E. Cfr. Trendelenburg, Naturrecht auf dem

Grunde der Ethik, II ed., § 47.3 A tale proposito osserva von Holtzendorff, op. cit., p. 145, che

“ogni legge, qualora disponga da sé in anticipo la propria immodificabilità storica, finisce con l’approvare la propria futura violazione”.

4 Lasson, op. cit., p. 65.

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sussiste alcuna differenza nelle loro relazioni interne ed esterne. L’interesse degli Stati, così si sostiene, determina esclusivamente il loro rapporto con soggetti in posizione di parità. Ma l’interesse degli Stati, che è tutt’uno con i loro scopi ragionevoli, determina anche esclusivamente il rapporto degli Stati con i propri sudditi. Se si resta legati a visioni di diritto puramente privato, se si osserva il dirittosempre soltanto dal punto di vista dell’individuo, alloral’ordinamento giuridico che vige all’interno dello Stato appare come intangibile, come sottratto a ogni volontà che possa osare scuoterlo. Ma se ci si pone dal punto di vista dello Stato, guardando da quest’altezza alle norme verso il basso invece che rivolgersi ad esse guardando verso l’alto, allora l’ordinamento giuridico, nonostante il proprio carattere vincolante per lo Stato, viene concepito in un costante fluire. Ma come dalla modificabilità delle leggi non può dedursi una prova contro l’esistenza di un ordinamento giuridico vincolante per lo Stato stesso, altrettanto ciò non può valere come obiezione contro ildiritto internazionale se lo Stato all’interno di esso è soggetto alle medesime condizioni come all’interno del proprio diritto. Riconoscendo la clausola rebus sic stantibus quale presupposto necessario di ogni accordo fra Stati, ciononostante non si ripone l’adempimento dei trattati nell’arbitrio degli Stati.

Soltanto un motivo ragionevole può liberare lo Stato dalla inviolabilità dell’accordo, come soltanto un motivo ragionevole può dispensarlo dalla inviolabilità della propria legge1. Se uno Stato vìola un accordo senza un motivo stringente, esso commette illecito materiale e formale. Commette illecito materiale giacché mediante un tale atto esso contraddice ai propri scopi posti dalla sua stessa natura proprio come mediante una violazione arbitraria della propria legge. Infatti degli scopi dello Stato fa parte anche l’istituzione e il mantenimento di rapporti con altri Stati, ciò che troppo spesso viene trascurato. Soltanto una

1 L’ugual natura di accordi fra Stati e principi di diritto statale

quanto alla loro durata sono state messe in evidenza in modo pertinente da Bluntschli, Modernes Völkerrecht, art. 454, nota: “[l]a ‘eternità dei trattati’ è insensata tanto quanto la ‘eternità delle costituzioni’. Entrambi sono incompatibili con lo sviluppo conforme a natura, cioè la modifica dell’umanità e dei popoli, e perciò in contraddizione con il corretto concetto di diritto”.

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filosofia a tavolino che misconosce totalmente il mondoreale potrebbe attribuire allo Stato, in particolare allo Stato moderno, l’autarchia nel senso che spetterebbe al suo gradimento avere a che fare o meno con altri Stati. Giacché non tanto per il dato di fatto della comunità di Stati, quanto già per la natura dello Stato stesso, che necessita di completamento, è data l’esigenza del riconoscimento giuridico di Stati stranieri e del relazionarsi con essi. Volgendo lo sguardo alla natura sostanziale dello Stato, l’arbitrio che altrimenti potrebbe ancora sostenersi a partire da un punto di vistapuramente formalistico, dilegua completamente. Perciò coloro che hanno dedicato la propria attenzione al principio materiale del diritto internazionale hanno pienamente ragione nel sostenere che non dipende affatto dal gradimento degli Stati che essi vogliano vivere o meno in comunità con altri. Non dipende dal loro gradimentopoiché appartiene alle loro condizioni d’esistenza di esser membri, società di Stati.

Come si rapporta ora quest’ultima affermazione al principio posto in cima alla nostra indagine per cui il fondamento giuridico del diritto internazionale andrebbe ricercato soltanto nella volontà dello Stato? Non ci si è frapposto inavvertitamente un altro fondamento del diritto internazionale? Sembra proprio un’evidente contraddizione fondare il diritto sulla libertà e basare tale libertà su di una necessità. Qui ci si trova di fronte a una nuova difficoltà che deve essere sgomberata prima che possiamo procedere.

Abbiamo già chiarito all’inizio che un edificio puramente formale del diritto è inammissibile, che il fondamento ultimo del diritto può essere rinvenuto soltanto in un principio oggettivo. Questo principio che ora dobbiamo delineare è la natura dei rapporti di vita che necessitano della normazione giuridica. Questa natura si contrappone alla volontà dello Stato in maniera così intangibile come in generale la natura alla volontà. Inoltre abbiamo ripetutamente messo in rilievo che l’essenza della volontà non può essere intesa come arbitrio. Ora abbiamo qui una limitazione oggettiva della volontà, essa sussiste al di fuori di ogni dubbio. Se la volontà è l’organo mediante il quale esercitiamo un effetto sul mondo esteriore, medianteil quale possiamo provocare modificazioni nelle cose al di

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fuori di noi, essa è legata alla natura oggettiva di ciò su cuideve prodursi effetto. Mediante la volontà possiamo elevaread azione una decisione presa solamente se vogliamo le condizioni che dipendono da noi, mediante la cui concatenazione causale soltanto possono essere provocate quelle modificazioni il cui esito costituisce la situazione voluta. Si può volere soltanto il possibile, l’impossibile può desiderarsi, ma esso è interamente sottratto alla volontà. Dunque, quando si vuole seriamente, cioè quando si vuole produrre causalità, si devono volere anche le condizioni in base alle quali soltanto può realizzarsi la volontà. È dato nel potere dell’uomo di voler in generale iniziare a volere o meno. Ma una volta che voglia, egli può raggiungere il proprio scopo soltanto sul presupposto che egli elevi a contenuto della propria volontà il percorso prefigurato dalla natura delle cose per il raggiungimento del risultato. Nonostante questo esser-legata (Gebundensein) della volontà ai momenti oggettivi mediante i quali essa raggiunge il proprio scopo, nessuno dubiterà che tutti i mezzi che la volontà ha scelto sono stati voluti liberamente. Chi per esempio vuole appiccare il fuoco a una casa per mezzo di una miccia di zolfo può portare ciò a compimento soltanto accendendo la miccia. Senza l’atto dell’accensione non è presente quella successione causale che conduce all’incendio della casa. Nell’intero complesso dell’atto di incendio l’accensione della miccia costituisce un momento oggettivamente tanto necessario quanto l’atto dell’accensione è nondimeno un atto di libera volontà. Questa necessità oggettiva non toglie la libertà soggettiva, ciò che è oggettivamente necessario è nondimeno voluto liberamente.

Ciò che vale per la volontà dell’individuo non ha minor valenza per la volontà dello Stato. Anche lo Stato può volere soltanto nella misura in cui eleva a contenuto della propria volontà le condizioni per la realizzazione della stessa. Se lo Stato vuole esistere, se vuole adempiere gli scopi predispostigli dalla sua natura, esso deve anche volere i mezzi mediante i quali soltanto questo è possibile. Fra gli scopi dello Stato si annoverano l’istituzione e il mantenimento dell’ordinamento giuridico. Nonostante la sua essenza gli prescriva la creazione e la realizzazione del diritto, l’ordinamento giuridico creato in adempimento dei suoi scopi è comunque opera sua propria, è prodotto della

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sua volontà. Creando e mantenendo l’ordinamentogiuridico, lo Stato adempie con volontà libera ciò che gli è imposto dai suoi scopi necessari. L’intero compito dello Stato si concentra nel fare della necessità oggettiva della propria natura il momento soggettivo della propria volontà. Ma il necessario è perciò, come accennato, tuttavia voluto liberamente; lo Stato avrebbe anche potuto trascurarlo, ma con ciò si sarebbe scavato la fossa da solo. L’uomo deve mangiare e bere per esistere; ma con ciò mangiare e bere non sono atti meno liberi che andare a caccia o danzare.

E ora è ben chiaro che fra la fondazione filosofico-sostanziale e quella giuridico-formale del diritto internazionale non v’è la minima contraddizione. Se fra gli scopi dello Stato si annovera quello di relazionarsi con altri Stati; se l’inadempimento di questo scopo dello Stato comporta un attacco all’esistenza dello Stato, proprio come la violazione arbitraria del diritto auto-posto, allora la istituzione di norme mediante le quali siano regolate le relazioni dello Stato con altri Stati è un’esigenza della natura statale. Queste norme, benché scaturenti dall’essenza della personalità dello Stato la quale può esistere soltanto nella comunità di Stati, sono, nonostante tale circostanza, pur sempre atti liberi della volontà dello Stato. Ancorché sia la sua essenza a prescrivergli l’istituzione di norme vincolanti per il rapporto con altri Stati, è pur sempre con la sua volontà libera che esso corrisponde a questa necessità. Quella natura della cosa che, indipendentemente da esso, rimane inamovibilmentestabile, è psicologicamente soltanto un motivo per la sua volontà1, ma è la libera decisione dello Stato quando esso eleva gli stimoli alla propria volontà derivanti dagli scopi statali a motivi della volontà stessa. Dunque sullo Stato non viene esercitata alcuna costrizione quando esso riconosce norme per il suo comportamento rispetto ad altri, le norme internazionali non sono il prodotto di un potere superiore posto al di sopra dello Stato che gliele imponga in qualche modo, il diritto internazionale non è affatto un diritto sovrastatale, bensì scaturisce

1 “La natura della cosa è soltanto il motivo per la formazione del

diritto, l’occasione affinché un organo istituisca quale norma giuridica la norma presente nella natura della cosa”, Unger, System der österr. Privatrechts, IV ed., p. 67, n. 37.

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formalmente dalla medesima fonte, come ogni diritto oggettivo: dalla volontà dello Stato che pone il diritto.

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Capitolo secondoCapitolo secondo

Abbiamo dimostrato che lo Stato con le sue norme può rivolgersi a se stesso. Quelle norme mediante le quali esso regola il proprio comportamento rispetto ad altri Stati costituiscono il diritto internazionale oggettivo che pertanto formalmente riposa sulla volontà dello Stato proprio come il diritto vigente all’interno dello Stato.

Ma questa fondazione del diritto internazionale non equivale peraltro a una negazione dello stesso? Un diritto internazionale, così si sostiene, è possibile soltanto mediante il convenire (Übereinstimmung) della volontà dei diversi Stati, mediante il riconoscimento uniforme di un diritto vincolante per tutti, esso deve essere un diritto quod apud omnes gentes peraeque custoditur. Facendo degli Stati singoli i creatori sovrani del diritto internazionale questo viene di fatto degradato a un diritto esterno dello Stato e con ciò si ammette che il convenire nelle norme poste dagli Stati per le loro relazioni verso l’esterno èquestione di casualità. Facendo dello Stato il creatore del diritto internazionale, questo è diritto soltanto per lo Stato che lo istituisce, ma è impossibile ottenere per questa strada un diritto dello Stato contro gli altri Stati. “Ciò che vale solo per me perché lo voglio io non può produrre proprio alcun diritto fra me e un altro a me pari”1.

1 Fricker, op. cit., p. 394.

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Gran parte del diritto internazionale d’altronde esiste soltanto nella forma di diritto statale esterno e vi sono innumerevoli disposizioni per il comportamento dello Stato con altri Stati nelle quali un convenire fra gli Stati o non è affatto presente o lo è soltanto per caso. Persino il diritto basato sulla consuetudine internazionale non è completamente unitario e quanto più ciò che è concretamente stabilito si allontana dai principi fondamentali del diritto, tanto più emerge la natura peculiare di ogni popolo anche in relazione al proprio rapporto con altri popoli.

Ma se tutto il diritto internazionale fosse soltanto diritto statale esterno nel senso che in esso un convenire fra i vari Stati non è necessario, con questo risultato la soluzione della questione che ci ha impegnato sarebbe totalmente impossibile. Giacché nessun problema di diritto internazionale dipende dall’esistenza di un diritto comune più della questione della natura giuridica degli accordi fra Stati. Se di due Stati che stipulano un accordo ciascuno ha un diritto diverso per la valutazione degli obblighi da esso assunti, allora l’accordo, una conventio plurium in idem placitum, non è affatto possibile quale istituto del diritto internazionale. Ma ancor meno si potrebbe parlaredi un diritto internazionale dei trattati se fosse corretta l’affermazione di Fricker secondo la quale la volontà propria dello Stato non è in grado di creare diritto per l’altro.

Innanzitutto per quanto riguarda questo punto, il principio di Fricker pensato in maniera coerente porterebbe in generale alla negazione della possibilità del diritto. Tuttavia, la qualità degli esseri umani quali soggetti di diritto poggia giuridicamente sul loro riconoscimento in quanto tali mediante lo Stato. Se la volontà dello Stato può elevare alla personalità giuridica un individuo ad esso assoggettato, se esso con ciò può produrre un diritto fra sé e quella, non si vede perché esso non sia in grado di farlo anche nei confronti di una personalità a esso pari. Con la mia volontà un individuo può essere elevato a soggetto di diritto nei miei confronti solo mediante il fatto che io riconosco il mio volere limitabile mediante l’altro. Ciò vale non solo per lo Stato in relazione ai singoli, ma altrettanto per gli individui viventi nello Stato nei loro rapporti reciproci. Lo Stato d’altronde

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comanda ai singoli di riconoscersi e rispettarsi reciprocamente quali soggetti di diritto; ma colui che oltrepassa il comando giuridico e intrude in sfere giuridiche altrui, mediante tale atto mostra che l’individuo che egli ha offeso non è stato da lui riconosciuto quale soggetto di diritto nella relazione in cui è stato da lui leso. Nessuna pena può revocare questo fatto come non avvenuto. Vale dunque proprio il contrario del principio di Fricker. Soltanto mediante ciò, che qualcosa vale per me perché io lo voglio, può essere prodotto diritto fra me e unaltro. Giacché pure il comando giuridico vale per me soltanto perché lo voglio anche qualora la sua osservanza fosse ottenuta in maniera coercitiva. Coactus volui, sed tamen volui!

Un diritto fra due individui dunque viene creato mediante ciò, che ciascuno dall’altro viene riconosciuto effettivamente come titolare di diritti. Questo vale per tutte le individualità razionali nei loro rapporti reciproci, pertanto anche per gli Stati. Anche per lo Stato un altro diviene soggetto di diritto mediante ciò: che esso lo riconosce come tale, che esso dichiara di voler limitare la propria libertà di azione nei suoi confronti. E questoriconoscimento possiede la medesima garanzia del riconoscimento di altri soggetti di diritto, cioè la volontà dello Stato. E lo Stato deve riconoscere l’altro quale soggetto di diritto se in generale vuole entrare in relazione con esso. La volontà dello Stato è qui legata alla natura oggettiva delle relazioni fra Stati. Si può entrare in relazione soltanto con qualcuno di cui si riconoscal’esistenza giuridica. Con i monti e i boschi, con le piante e gli animali non è possibile alcuno scambio, il presupposto di questo è sempre un rapporto reciproco. Qui mantiene la sua valenza l’antico adagio: ubi societas, ibi jus. Lo Stato resta formalmente libero di entrare o meno nella societas. Ma se l’ha fatto, allora insieme con la societas esso ha voluto anche lo jus.

E con ciò ci viene indicato come, nonostante la creazione unilaterale del diritto internazionale mediante gli Stati singoli, venga prodotto un diritto comune e comune nient’affatto soltanto per caso. Le relazioni possibili fra gli Stati hanno la loro caratteristica natura oggettiva proprio come le relazioni fra gli individui. Questa natura dei rapporti di vita fra gli Stati è fondata sulla natura e gli

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scopi degli Stati. Ora, se uno Stato mediante la propria libera volontà entra in una simile relazione di vita con un altro Stato, esso assume nella propria volontà i momenti oggettivi che regolano questa relazione di vita, essidivengono norme che ne vincolano la volontà mediante la sua volontà. Questi momenti oggettivi diventano diritto nell’attimo in cui lo Stato li assume nella propria volontà accedendo al relativo rapporto. Non è certo un diritto di natura ciò che vincola lo Stato in questi casi, giacché i momenti oggettivi delle relazioni di vita internazionali e le relative conseguenze logiche indipendentemente dalla volontà dello Stato non hanno affatto natura giuridica, essi sono soltanto come vuoti schemi, soltanto pensati, come relazioni potenziali da Stato a Stato, che ottengono carne e sangue, vita e movimento soltanto a partire dalla volontà creatrice dello Stato, rispetto al quale essi si trovano tuttavia in relazione peculiare sicché lo Stato puòchiamare ad esistenza soltanto essi e soltanto in quella forma peculiare1. È dunque diritto positivo quello che gli Stati creano per sé entrando in una simile relazione, e certamente diritto positivo che vincola in maniera paritaria tutti gli Stati che si trovano a entrare in relazione, poiché un divergere dalle regole che qui pervengono al riconoscimento è logicamente impossibile, almeno finché non esiste una potenza superiore al di sopra degli Stati che ponga il diritto.

Questa fondazione del diritto internazionale oggettivo corrisponde pienamente alle tesi che dalla nascita dei principi giuridici internazionali i giuristi romani coltivarono nell’ambito in cui per Roma v’era solamente e unicamente un vero diritto internazionale – il diritto privato. Quello jus gentium, allo sviluppo e alla formazione del quale il diritto romano principalmente è debitore del proprio carattere di diritto mondiale, era, secondo l’opinione dei giuristi, un diritto che sorgeva dalla naturadelle cose, uno jus quod naturalis ratio constituit, ma chedivenne diritto positivo soltanto mediante il proprio carattere di jus quo omnes gentes utuntur2.

1 Cfr. Leist, Civilistische Studien auf dem Gebiete dogmatischer

Analyse, fascicolo I, Jena 1854, p. 62 ss.2 V. Warnkönig, op. cit., p. 630. D’altronde la visione dei giuristi

non corrispondeva completamente al vero contenuto della questione. Cfr. M. Voigt, Die Lehre vom jus naturale, aequum et bonum u. jus

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In generale nessuno in maniera più chiara dei maestri della giurisprudenza classica ha riconosciuto l’esser-legata della fonte di diritto alla natura oggettiva dei rapporti da sottoporre a normazione. Quando il Senato dispone che può essere legato l’usufrutto di tutti i beni patrimoniali, dunque anche di quelli consumabili, in tal modo con ciò esso non ha peraltro potuto creare un usufrutto del denaro: nec enim naturalis ratio auctoritateSenatus commutari potuit1. Questa naturalis ratio dominante la volontà creatrice del diritto, per i giuristi dotati di jus respondendi era la fonte dalla quale essi attingevano le loro decisioni con cui perfezionavano il diritto, in quanto essi cercavano di ottenere dalla natura del caso che era stato sottoposto al loro parere le regole per la sua valutazione. Ora, anche gli Stati, nell’attingere i principi giuridici oggettivi che si riferiscono alle loro relazioni reciproche, debbono percorrere lo stesso sentiero battuto dai giuristi romani. Infatti, là dove non v’èun’autorità superiore che pone il diritto, un diritto oggettivo comune può essere creato soltanto mediante ciò, che coloro per i quali il diritto deve vigere, elevano la naturalis ratio a criterio della propria volontà e con ciò la fanno diventare civilis ratio.

Di conseguenza è anche trovato il punto fermo a partire dal quale soltanto può essere ammessa la natura giuridica degli accordi fra Stati. La tesi consueta è che le norme internazionali pattizie siano formate in analogia con il diritto privato; si è parlato di una diretta trasposizione al diritto internazionale dei principi del diritto delle obbligazioni2. Soltanto che questa tesi lascia non chiarito con quale diritto si possano assurgere analogie provenienti da un ordinamento giuridico in sé chiuso a jus cogens in uno completamente diverso. L’analogia quale fonte didiritto è possibile soltanto in seguito a un riconoscimento della stessa mediante l’ordinamento giuridico vigente, essa

gentium der Römer, Leipzig 1856, vol. I, § 79 ss.; Hildebrand, Geschichte und System des Rechts- und Staatsphilosophie, Erlangen 1862, p. 611 ss., e recentemente Leist, Die realen Grundlagen und die Stoffe des Rechts (Civil. Studien, fascicolo 4), Jena 1877, p. 170 ss.

1 L. 2 § 1 D. de usufr. ear. rer. 7, 5.2 V. Holtzendorff, Encyclopädie der Rechtswissenschaft, II ed., p.

954.

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è “risposta a un problema nello spirito del diritto vigente”1, dunque presuppone il diritto le cui lacune essa è appunto chiamata a colmare ma che essa non può creare ex novo dal fondamento. Prima che l’analogia possa iniziare la propria attività suppletiva, deve essere presente un diritto internazionale oggettivo.

Nella valutazione degli accordi fra Stati non abbiamo a che fare con la trasposizione di principi di diritto privato sul piano del diritto internazionale. Piuttosto quelli che regolano gli accordi fra Stati sono principi giuridici del tutto autonomi. Sono i momenti oggettivi dell’accordo fra Stati e le relative conseguenze logiche ad essere riconosciuti dagli Stati che si trovano in rapporti pattizi, sulla base del fatto che essi li hanno contratti fra loro. I sostenitori dell’analogia privatistica si vedono necessitati a mettere in guardia contro l’applicazione letterale del diritto privato al diritto internazionale, ricordando proprio la “natura peculiare della relazione fra Stati”2, i “peculiariprincipi del diritto internazionale”3, che devono esser posti a fondamento della valutazione degli accordi fra Stati. Dunque anche costoro, per spiegare alcuni fenomeni del diritto internazionale pattizio sono costretti ad assumere il punto di vista che, come risulterà, fa abbracciare con un solo sguardo tutti i momenti che qui vengono in considerazione. Quella supposta analogia del diritto privato deriva semplicemente da ciò, che nel carattere dell’accordo quale “istituto universale del diritto”4, l’accordo fra individui in certi punti ha il medesimocarattere oggettivo dell’accordo fra Stati, sicché dalla natura del rapporto fra Stati debbono risultare principi identici a quelli che scaturiscono dalla natura del rapporto privato. Ma con ciò essi non divengono ancora astrazionidal diritto privato, come ritiene E. Meier5, benché il diritto

1 Ardnts, Pandekten, § 14. Cfr. Klüber, Droit des gens moderne de

l’Europe, Stuttgart 1819, tomo I, § 4, p. 17 ss. Phillimore, Commentaries upon International Law, vol. I, p. 35, caratterizza l’analogia di diritto internazionale come “the application of the principle of a rule, which has been adopted in certain former cases, to govern others of a similar character as yet indeterminated”.

2 E. Meier, op. cit., p. 38.3 Berner, in Bluntschli, Brater, Staatswörterbuch, 1865, la voce

Staatenverträge, vol. IX, p. 639.4 Unger, op. cit., vol. I, § 93.5 Op. cit., p. 37.

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privato abbia innalzato i momenti universali dell’accordo nella coscienza scientifica, bensì scaturiscono dalla natura peculiare degli accordi fra Stati così come gli altri principi giuridici non conformi al diritto privato. La somiglianza fra accordi fra Stati e accordi fra privati è stata ed è spesso sopravvalutata, a detrimento della chiara cognizione del diritto internazionale. Quasi sotto ogni profilo, in relazione ai contraenti, alla forma, agli oggetti, all’efficacia ecc. degli accordi fra Stati prevalgono grandi differenze rispetto al diritto privato, come di recente è stato messo in evidenzaesaurientemente da Carnazza Amari1.

Se ora ci apprestiamo a dedurre i principi generali del diritto internazionale pattizio, dobbiamo sempre avere davanti agli occhi la natura oggettiva dei rapporti pattizi fra Stati. Questa natura viene riconosciuta da un lato dall’essenza dei soggetti contraenti e dall’altro lato dalla natura e dal contenuto della volontà delle parti stipulanti l’accordo.

Per ciò che innanzitutto riguarda i contraenti, essi sono (almeno in relazione ai punti nei quali essi possono obbligarsi) Stati indipendenti. È dalla natura dello Stato che risulta prima di tutto chi sia legittimato alla conclusione dell’accordo. Sono questi i fattori sui quali grava la formazione della volontà dello Stato in base al diritto particolare del relativo Stato, dunque una questione che nel caso concreto può trovare soluzione soltanto in base al diritto statale delle parti contraenti. Su questopunto sono unanimi le più autorevoli personalità del diritto internazionale dei tempi più antichi e più recenti2.

Nelle disposizioni di diritto internazionale sulla ratifica sembra esservi una grande difficoltà, tanto più che la dottrina non è del tutto pervenuta a un risultato unitario sul significato giuridico della ratifica. Mentre alcuni, prendendo le mosse dalla visione privatistica di Grozio e Puffendorf, dichiarano inammissibile il rifiuto della ratifica, se essa non è stata espressamente riservata, qualora il negoziatore si sia tenuto nei limiti delle sue istruzioni3, altri qualificano la ratifica in questo caso quale

1 Trattato sul diritto internazionale pubblico di pace, Milano 1875,

p. 745 ss.2 E. Meier, op. cit., p. 91 ss.3 Klüber, Droit des gens, § 142. Phillimore, Commentaries, II, p.

64; Martens, Einleitung in das positive europäische Völkerrecht, § 42:

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obbligo morale o d’onore1; un terzo orientamento tenta di formulare norme determinate per il rifiuto della ratifica nel caso in cui le istruzioni siano state rispettate2. Perciò gliuni ritengono perfetto l’accordo non appena il negoziatore l’ha stipulato, mentre gli altri non vogliono riconoscere l’esistenza dell’accordo prima che la ratifica sia andata a buon fine.

Ora, qui sembrano evidentemente presenti principi giuridici che possono essere ricondotti soltanto alla consuetudine internazionale ma non alla natura della cosa. Se tuttavia ci si tiene lontani dai pregiudizi del diritto privato e si indaga l’essenza della potestà dello Stato, si trova che il diritto di ratifica è conseguenza logica del concetto di sovranità. Fra i caratteri essenziali della sovranità spicca la sua inalienabilità. Essa non può essere trasferita dal suo legittimo titolare a nessun altro. Ora il diritto di stipulare accordi è parte integrante costitutiva della sovranità; si è ben parlato di una propria potestà di stipulare accordi! Perciò questo diritto può essere tanto poco trasferito a un altro quanto il diritto di dichiarare guerra o di approvare le leggi. Il sovrano può far propria la volontà del negoziatore; ma soltanto dopo che egli ne abbia appreso il contenuto, sia questo contenuto conforme o meno all’incarico da lui previamente conferito. Non soltanto l’importanza della questione, su cui si appuntano Martens, Berner, Bluntschli, Neumann e altri, giustifica la riserva della ratifica. Anche qualora nel caso degli accordi fra Stati si trattasse di questioni insignificanti, anche qualora la ratifica non fosse mai compiuta espressamente, giuridicamente deve sempre ammettersi una ratifica, anche soltanto tacita, poiché essa consegue di necessità

“ma l’intero fondamento di quest’uso produce che quando una parte si offre per la ratifica, l’altra può rifiutarsi con diritto soltanto qualora il suo inviato si sia discostato dai limiti delle sue istruzioni”.

1 Vattel, Droit des gens. L. II, § 156: “Pour refuser avec honneur de ratifier ce que a été conclu en vertu d’un plein pouvoir, il faut que le souverain en ait de fortes et solides raisons”. Heffter, op. cit., § 87: “il rifiuto senza motivo è soltanto una scorrettezza che lede la fede dell’altra parte e ne giustifica l’irritazione”.

2 Wurm, Die Ratification von Staatsverträgern, Deutsche Vierteljahrsschrift, 1845, p. 163 ss. In ciò Wurm è da annoverare fra gli oppositori del libero diritto di ratifica, dato che i motivi da lui addotti come sufficienti per il rifiuto della ratifica sono al contempo cause di nullità degli accordi.

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logica dall’essenza della sovranità. Proprio nella circostanza che gli Stati fanno uso del diritto di ratifica da trecento anni si mostra la forza logica della natura della cosa che resiste vittoriosa contro false teorie. Nonostante autorevoli personalità della scienza abbiano affrontato la questione della ratifica con la categoria del mandato come sviluppata dal diritto romano, al tempo giusto, grazie all’essenza dello Stato sin troppo misconosciuta dal più antico diritto di natura, si sono potute dedurre la prassi degli Stati e per conseguenza le più recenti concezioniscientifiche, benché ancora non domini ovunque piena chiarezza sulla posizione giuridica del sovrano rispetto all’intesa conclusa dal negoziatore in base alle sue istruzioni. La visione corretta derivante dalla natura dello Stato ha trovato la sua più precisa enunciazione grazie a Calvo: “il est hors de doute pour nous que le droit de ne pas ratifier un traité est aussi incontestable que le droit de négocier et de conclure des conventions internationales, et qu’il existe virtuellement, même quand il n’a pas été réservé en termes exprès et formels”1 e l’unico vero motivo giuridico della ratifica è stato riconosciuto da Amari : “il conchiudere trattati è una funzione sovrana, la più interessante forse, e se quella è dalla costituzione attribuita al principe, egli non può ad altri trasferirla,come il magistrato che non può investire un altro del diritto di giudicare, che la legge a lui solo accorda”2. Prima che venga data la ratifica non c’è mai e poi mai un accordo, bensì soltanto una sponsio. Il rifiuto della ratifica è un atto che soggiace peraltro alle circostanze di una valutazione morale e sotto questo profilo un’azione sventata sicuramente mina la reputazione dello Stato, ma in nessun caso con ciò lo Stato commette un illecito. Una norma giuridica che imponesse la conclusione di un accordo a chi non è ancora vincolato non è giuridicamente pensabile.

La ratifica è dunque l’atto mediante il quale lo Stato conclude l’accordo, e in ciò Zorn ha ragione a porre la ratifica degli accordi in parallelo con l’approvazione delle leggi3. Ma si sbaglia completamente quando ravvisa nella ratifica anche l’imperativo che costituisce il diritto verso

1 Le droit international, II ed., Paris 1870, p. 716.2 Op. cit., p. 758.3 Op. cit., p. 25.

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l’interno, il comando legislativo che impone ai cittadini l’osservanza dell’accordo1. Vi sono accordi il cui contenuto si rivolge solamente alla potestà dello Stato sicché non è affatto possibile un imperativo ai cittadini. Un esempio di tale obbligazione gravante soltanto sulla potestà dello Stato è recentemente contenuto nella Convenzione internazionale del 18 settembre 1878 riguardante le misure contro la fillossera della vite. Qui nell’art. 1 si dice: “Les Etats contractants s’engagent à compléter, s’ils ne l’ont déjà fait, leur législation intérieure en vue d’assurer une action commune et efficace contre l’introduction et la propagation du Phylloxera”. A quali cittadini dovrebbe rivolgersi qui l’imperativo? Da tali e simili disposizioni pattizie sorge un obbligo soltanto per la potestà dello Stato in quanto tale. E in principio accade così per ogni altra disposizione pattizia. Anche in tutti gli altri casi mediante la ratifica viene obbligato soltanto lo Stato, così comeaccade nell’approvazione delle leggi2. Soltanto la pubblicazione può far assurgere quelle disposizioni, che potenzialmente contengono norme per i cittadini, a obblighi per questi ultimi. Ma pubblicazione e ratifica sono due processi completamente diversi. La potestà dello Stato in quanto tale è già vincolata mediante la ratifica; la pubblicazione, laddove essa sia in generale possibile e necessaria, dal punto di vista del diritto internazionaleappartiene già all’esecuzione dell’accordo.

Dalla circostanza che nessuna potenza superiore prescrive al di sopra degli Stati requisiti formali per gli accordi risulta che una forma determinata per la validità degli accordi fra Stati non è affatto necessaria, e dunque in particolare una fissazione scritta dell’accordo non è condizione indispensabile per l’esistenza giuridica di questo. Infatti dalla natura di un rapporto di vita non possono mai dedursi a priori forme determinate, esse sono sempre libere determinazioni della civilis ratio. Pertantol’opinione opposta di Neyron e di Schmalz è priva di fondamento. Per la conclusione dell’accordo non sono

1 Ibid., p. 30.2 V. supra, pp. 91-92. Cfr. Meier, op. cit., p. 329. Bluntschli, Mod.

Völkerr., art. 422.

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neppure necessarie parole, come dimostrano gli accordi conclusi in guerra mediante segni1.

Dall’essenza del rapporto pattizio consegue che l’accordo sorge soltanto quando viene raggiunta un’unificazione di volontà fra i contraenti, dunque quando ha avuto luogo la promessa di una parte e l’accettazione dell’altra parte. Perciò non fa differenza se gli accordi siano conclusi in maniera espressa o tacita. Di contro non si può parlare dal punto di vista giuridico di convenzioni presunte, giacché queste potrebbero aver luogo soltanto a seguito di determinazioni espresse dell’ordinamentogiuridico, ma non potrebbero derivarsi dalla natura della cosa la quale soltanto è assunta qui a criterio.

Per ciò che riguarda il contenuto degli accordi, qui vale il principio che domina l’istituto giuridico dell’accordo in tutta la sua interezza, qualunque sia la forma e quali che siano i paciscentes fra cui esso sorge: pacta sunt servanda. Formalmente questo principio deriva dalla volontà di concludere l’accordo, giacché è impossibile al contempo volere e non volere qualcosa, e dato che ogni volere si riferisce al futuro, la volontà di concludere l’accordo si riconosce come vincolata per il futuromediante l’atto di conclusione dell’accordo, altrimenti l’accordo in sé sarebbe impossibile, come già ha riconosciuto Hobbes: frustra essent pacta nisi illis staretur2. E per ciò che riguarda i motivi materiali della forza vincolante degli accordi degli Stati, essi sono esattamente gli stessi che spingono lo Stato a forniretutela giuridica agli accordi conclusi fra privati: il momento etico (ethisch) della fede e quello pratico del bisogno di relazione (Verkehrsbedürfnis)3. È l’interesse a imporre agli Stati di concludere accordi4 ed è l’interesse a esigere di mantenere in piedi l’accordo, poiché a colui che viola l’accordo è sottratta la fede nella sua parola e con ciò esso è respinto dalla comunità di relazione. D’altronde i

1 Martens, § 58; e ancora Bluntschli, Mod. Völkerrecht, Art. 422;

Hartmann, Institutionen des praktischen Völkerrechts in Friedenszeiten, Hannover 1874, p. 135.

2 De cive, III, 1.3 Cfr. Hofmann, Die Entstehungsgründe der Obligationen, Wien

1874, § 9.4 “Un traité... est un pacte fait en vue du bien public par des

puissances supérieures”, Vattel, Liv. II, Ch. XII, § 152.

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principi fondamentali della consuetudine etica (Sittlichkeit)che vigono per gli Stati con le modifiche apportate dalla natura di questi così come per i singoli, vincolano lo Stato alla parola data – principio che può essere contestato soltanto da coloro che, incuranti dello sviluppo della consuetudine etica (sittlich) di due secoli, ravvisano nello Stato la più alta potenza oggettiva dei buoni costumi (sittlich). Così è l’interesse che tutela la fede e la fede che tutela l’interesse. Nell’attenersi, eticamente (ethisch) imposto, alla parola data risiedono anche le garanzie più importanti della vita dei rapporti di diritto internazionale, le quali, come le più alte garanzie di tutto il diritto, non sono più di natura giuridica. Lo Stato che nel relazionarsi con altri Stati non riconoscesse la propria volontà come vincolante per lui stesso, che ritenesse l’obbligo mediante la propria parola come per lui non esistente, si considererebbe perciò ipso facto come posto al di fuori della comunità degli Stati; per conseguenza ancora nessuno Stato, da quando si sono sviluppate le relazioni fra Stati, nonostante tutti gli accordi violati, ha osato negare l’obbligatorietà giuridica delle convenzioni da lui stipulate1. In nessun principio di diritto internazionale l’esser vincolata della volontà mediante il proprio oggetto si mostra più chiaramente quanto in questa disposizione fondamentale dei rapporti internazionali. Anche lo Stato che di fatto non si fosse mai attenuto a un accordosarebbe comunque costretto dalla natura della cosa a riconoscere il principio della obbligatorietà degli accordi, dovrebbe pur ammettere che con l’immotivata violazione dell’accordo trasgredisce il comando da esso stesso riconosciuto vincolante e pertanto commette illecito; quale che sia il comportamento dello Stato rispetto all’accordo stipulato, è fuor di dubbio che lo Stato assoggetta a qualificazione giuridica i propri atti con riferimento all’accordo mediante la conclusione di questo. Infatti che fra Stati venga concluso un accordo con l’intenzione di non attenervisi è, come detto, logicamente impossibile, poichéun accordo può sorgere soltanto quando il consenso

1 “Pacta privatorum tuetur Jus Civile, pacta Principum bona

fides. Hanc si tollas, tollis mutua inter Principes commercia, quae oriuntur e pactis expressis, quin et tollis ipsum Jus Gentium”, Bykershoek, de servanda fide pactorum publicorum. Quaes. Juris publ. L. II Cap. X.

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riguardo ad esso è serio e accompagnato dalla decisione di ritenersi obbligato mediante la promessa data. Chi nega l’esistenza del diritto internazionale deve per conseguenza negare anche la possibilità dell’accordo, cioè negare ciò che di fatto accade davanti ai propri occhi. Non vi sarebbe stato affatto bisogno della dichiarazione espressa delle Potenze nel Protocollo di Londra del 13 marzo 1871, “que c’est un principe essentiel du droit des gens qu’aucune Puissance ne peut se délier des engagements d’un Traité, ni en modifier les stipulations, qu’à la suite de l’assentiment des Parties Contractantes au moyen d’une entente amicale”, giacché questa dichiarazione non ha aggiunto al carattere giuridico di questo principio di diritto internazionale alcun momento nuovo che non esistesse sin dall’attimo in cui per la prima volta uno Stato si è obbligato verso un altro ad alcunché.

Così come la disposizione di diritto che domina il contenuto della volontà risulta dalla natura dell’accordo fra Stati, parimenti dalla natura della volontà creatrice di diritto conseguono le circostanze in base alle quali soltanto può parlarsi del venire in essere di un accordo. Si può volere soltanto il possibile, e cioè il fisicamente possibile; è consentito volere soltanto ciò che è possibile in base al diritto (rechtlich) e in base al buon costume (sittlich). Perciò un accordo può venire in essere soltanto quando è presente una causa1 consentita. Che sia consentitosoltanto volere il possibile in base al diritto e al buon costume risulta innanzitutto dalla considerazione che ammettendo ciò che in base al diritto e al buon costume è impossibile quale contenuto di un accordo si toglie il terreno sotto i piedi del diritto internazionale. Altrimenti con ciò davvero si potrebbe elevare a diritto ogni illecito internazionale ponendolo a contenuto giuridicamente valido di un accordo; l’accordo con uno Stato potrebbe essere tolto (aufgehoben) senza difficoltà mediante un accordo con un altro Stato e tutto il diritto pattizio sarebbecosì vanificato. Per ciò che in particolare riguarda ciò che è possibile in base al buon costume (sittlich), la sua esclusiva ammissibilità quale contenuto dell’accordo consegue dal carattere etico (ethisch) del diritto il quale per sua natura non può mai approvare ciò che è interamente

1 In latino nel testo [ndt].

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esiliato dall’ambito etico (ethisch)1. Se si è ricordato che la storia conosce una sfilza di accordi adempiuti di contenuto contrario al buon costume (unsittlich)2, tanto poco consegue da ciò la natura giuridica di tali accordi come questa consegue per il diritto privato dalla circostanza che di fatto vengono conclusi e mantenuti innumerevolicontratti contrari al buon costume non riconosciutidall’ordinamento giuridico. Ha da valere il principio che accordi contrari al buon costume sono giuridicamente nulli unitamente all’invalidità giuridica degli accordi giuridicamente impossibili piuttosto che il secondo principio più importante del diritto internazionale pattizio, poiché senza queste disposizioni al diritto internazionale verrebbe sottratta una delle sue garanzie più importanti.

Un’altra limitazione della volontà dei contraenti oltre a quella indicata non esiste. Non si è trattato che una di quelle infelici analogie tratte dal diritto privato quando si sosteneva l’impugnabilità degli accordi per violazione abnorme, analogia che era tanto più sbilenca quanto più le disposizioni sulla laesio enormis erano diverse in periodi differenti e in nessun caso derivano dalla natura dell’accordo3. L’applicazione di una scorretta dottrina aristotelica di filosofia del diritto che scambia il punto di vista economico con quello giuridico4 è stata inoltre quella che ha indotto Grozio alla formulazione della teoriadell’uguaglianza della prestazione e della controprestazione5. Dalla natura della volontà non si riesce a dedurre alcuna di quelle limitazioni alla libertà contrattuale che possono rinvenirsi nelle relative disposizioni di diritto privato. E tuttavia dalla natura della cosa risulta che l’accordo produce diritti e obblighi soltanto per i contraenti6.

Dalla natura della volontà consegue inoltre che un vero consenso è poi presente soltanto quando nella

1 Cfr. il mio Die Sozialethische Bedeutung von Recht, Unrecht und

Strafe, Wien 1878, Cap. 2.2 H. B. Oppenheim, System des Völkerrechts, II ed., 1866, p. 186.3 Berner, op. cit., p. 639.4 Cfr. Hildenbrand, op. cit., p. 297.5 De Jure Belli ac Pacis, II, 12, 12-14.6 Alcune eccezioni risultanti tuttavia dalla natura della cosa in

Heffter, § 83.

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conclusione dell’accordo non occorre alcuna frode o errore essenziale scusabile. Questo è di nuovo uno di quei principi che valgono per tutti gli accordi dell’ambito del diritto nel suo complesso. E tuttavia qualcosa di diverso ai fini della validità degli accordi fra Stati vale nel caso dell’esercizio della coercizione (Zwang). Dato che non v’è un ordinamento giuridico sovraordinato agli Stati dotato dimezzi di coercizione, dunque ciascuno Stato deve tutelare da sé il proprio diritto, la coercizione esercitata mediante autotutela, laddove fosse invocata per una violazione del diritto, non è illecita; soltanto un’autorità che è più potente di qualunque singolo può vietare l’esercizio dell’autotutela. Non deve dimenticarsi che vi è stato un periodo in cui nell’ambito della comunità nazionale dominava uno stato giuridico che in gran parte affidava il perseguimento del proprio diritto all’autotutela1.

La coercizione esercitata sull’autorità statale straniera non rende dunque nullo l’accordo coatto, altrimenti non potrebbero esservi trattati di pace. Soltanto una coercizione assoluta che escludesse un’azione della volontà potrebbe rendere l’accordo invalido. Ma qualcosa del genere non è affatto applicabile a uno Stato. La stessa scelta fra perire e consentire all’accordo è ancora una coercizione compulsiva; persino nell’offerta di una simile alternativa v’è ancora un riconoscimento della liberapersonalità statale della controparte2.

Ma di fronte alla limitazione teorica della coercizione la quale non impedisce che l’accordo sia lecito stanno grandi difficoltà pratiche dato che non è presente una decisione oggettiva sulla liceità della coercizione (Zwang) di diritto internazionale nella misura in cui gli Stati sono giudici in causa propria. Con l’eccezione del carattere di conformità al diritto nel concetto della coercizione ammessa in diritto internazionale si ripone di fatto nell’arbitrio dello Stato vinto se esso si consideri vincolatoo meno a un accordo di pace, o piuttosto, si dichiarano perciò non vincolanti gli accordi di pace giacché il caso che uno Stato sia persuaso del diritto della controparte e del suo proprio illecito che ha provocato la guerra è da

1 Bergbohm, op. cit., p. 26.2 “In diritto internazionale si ammette che lo Stato stesso sia

sempre libero e capace di volere purché i suoi rappresentanti sianopersonalmente liberi”, Bluntschli, Mod. Völkerrecht, § 408.

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annoverarsi fra i più rari nella storia1. Vi è un indubitabile impedimento dell’accordo soltanto lì dove è esercitata una coercizione diretta sulla persona del negoziatore o del sovrano in modo da escludere la capacità di resistere di costoro.

Le cause di estinzione degli accordi si producono innanzitutto quali logiche conseguenze in base all’essenza dell’accordo, dunque prestazione della promessa, mutuus dissensus, remissione, scadenza del termine, distruzione incolpevole dell’oggetto promesso, estinzione di una delle parti contraenti, risoluzione, verificarsi della condizione risolutiva. Ma altre due cause di estinzione degli accordi fra Stati sono da ricondursi alla natura propria dello Stato. Una è la collisione degli scopi supremi dello Stato, fra i quali si annovera innanzitutto l’autoconservazione, con l’adempimento dell’accordo. Qui subentra il diritto allostato di necessità che impone allo Stato di tenere la propria esistenza in considerazione maggiore che gliobblighi che ha assunto verso altri. Giuridicamente il verificarsi di tali circostanze che trasformano l’adempimento dell’accordo in una violazione degli obblighi verso se stesso va interpretato come verificarsi incolpevole della impossibilità della prestazione. Un esser vincolato dello Stato per l’eternità appartiene appunto al giuridicamente impossibile, come abbiamo mostrato sopra. Soltanto false astrazioni a partire dal diritto privato possono far credere che mediante il riconoscimento della clausola rebus sic stantibus tacitamente allegata all’accordo fra Stati, il diritto statale pattizio verrebbe vanificato2. Uno Stato non è un individuo fisico che per tutto il tempo della sua vita reca un tipo che si modifica soltanto all’interno di certi limiti, bensì è fattore di sviluppo della storia mondiale concepito in costantemovimento e trasformazione. I secoli, spesso già i decenni, lo trasformano sicché colui che non conosce la continuità storica sarebbe appena in condizione di cogliere una connessione fra lo Stato presente e quello passato. Quali somiglianze mostra la Francia dei Capetingi rispetto

1 La natura giuridica degli accordi di pace viene in effetti negata

da Amari, op. cit., p. 772, a causa della coercizione ivi presente.2 E tuttavia per molto tempo si è imposta la tesi di diritto

naturale che la modifica delle circostanze valesse quale motivo di risoluzione anche per gli accordi di diritto privato!

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all’odierna Repubblica francese o l’Inghilterra di Alfredo il Grande con l’Inghilterra della regina Vittoria? E lo Stato del passato dovrebbe avere il potere di dominare il presente e il futuro dello Stato? La conseguenza sarebbel’irrigidimento dello Stato, la morte della storia mondiale!Soltanto una teoria dimentica dello scopo e della funzionestorica del diritto potrebbe voler imporre allo Stato un obbligo indissolubile. Ma lo scopo del diritto consiste nel mantenimento delle condizioni della vita umana in comune. Fra queste condizioni prima di tutto va annoverata l’organizzazione statale nel suo libero sviluppo. Ciò che la ostacola pertanto non può mai essere diritto. Dato che tutto il diritto, se vuole trovare realizzazione in modo duraturo, deve essere adeguato alla natura delle persone per le quali esso è disposto, così le disposizioni del diritto internazionale dei trattati devono adattarsi alla natura peculiare dello Stato che è differente da quella dell’individuo umano. Per questo è appunto un pregiudizio di diritto privato che possa parlarsi del carattere giuridico degli accordi soltanto qualora la prestazione della promessa è indipendente dalla circostanza che essa sia o meno lesiva dell’interesse del prestante. Non appena si tenga presente che la possibilità della prestazione in diritto internazionale soggiace a un’altra valutazione rispetto a quella del diritto privato, vale il principio che gli accordi siano da rispettare nonostante la forza risolutiva delcambiamento essenziale delle circostanze proprio nel medesimo senso che in diritto privato. Non si è mai ricordato abbastanza spesso quanto questi confronti superficiali con il diritto privato siano pericolosi per la libera valutazione del diritto internazionale. La maggior parte delle obiezioni che vengono sollevate contro l’esistenza giuridica del diritto internazionale scaturiscono dalla frettolosa identificazione di ogni diritto con i tratti essenziali del diritto privato. Dato che mediante un costante sviluppo di millenni il diritto privato, fra tutti i rami del diritto, ha guadagnato la conformazione più ricca e le garanzie più salde, lo sguardo accecato dai raggi di questa parte fulgida dell’ambito giuridico, quando si volge ai rapporti internazionali, non riesce a distinguere più nulla nella tenebra in cui esso si è trasposto e di cui essostesso ha colpa. Ma già osservando attentamente il diritto statale, svanisce il pregiudizio che le disposizioni

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fondamentali del diritto privato sarebbero identiche a quelle del diritto in generale.

La seconda causa di estinzione degli accordi fra Stati risultante dalla natura dello Stato è la violazione dell’accordo da parte di un contraente, ciò per cui l’altro contraente dal punto di vista del diritto internazionale è liberato nei suoi confronti. Dato che gli Stati non hanno giudici né potestà coercitiva al di sopra di sé, essi non possono pretendere per via giuridica – allora si dovrebbeconsiderare l’autotutela in questo senso – alcun adempimento degli obblighi contratti nei loro confronti. Qualora dunque uno Stato si sciolga in modo non conforme a diritto dagli obblighi gravanti su di sé, il consentire della volontà in cui consiste l’accordo è così violato senza che una potenza superiore possa, mediante il proprio comando e la propria coercizione, indurre alripristino della situazione conforme a diritto.

Per ciò che riguarda l’interpretazione degli accordi, questa è lasciata agli stessi Stati contraenti, tranne che nel caso in cui essa sia affidata da questi a un tribunale arbitrale. I principi che gli Stati o rispettivamente i giudici arbitrali in tal caso devono applicare scaturiscono dalla bona fides che forma il fondamento indispensabile delle relazioni amichevoli fra gli Stati. Se qui vanno applicati i principi del diritto privato sull’interpretazione, il motivo di ciò risiede nel fatto che questi principi nella loro versione attualmente riconosciuta si sono avvicinati in generale alla giustizia materiale.

Dall’essenza dei vari accordi che hanno luogo fra Stati risulta infine anche la loro classificazione. Qui trovare il sistema giusto è d’altronde connesso a grandi difficoltà, addirittura alla questione se vi sia in generale un sistema giusto in modo esclusivo. Dato che in diritto internazionale non vi sono come in diritto privato principi giuridici dispositivi che hanno valore suppletivo per la volontà dei contraenti, e dato che non vi sono requisiti formali per gli accordi, questi possono distinguersisoltanto per il loro contenuto. Ma questo può essere ordinato secondo diversi punti di vista senza che sia possibile dichiararne uno come assolutamente giusto. Formulare un sistema degli accordi fra Stati è compito che riteniamo al di fuori di quello che ci siamo qui prefissi.

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Se perciò dalla nostra impostazione sono risultati i principi fondamentali del diritto internazionale dei trattati questo sarebbe avvenuto anche con la determinazione più dettagliata. Infatti una deduzione giuridica di un diritto dei trattati oggettivo diversa da quella che abbiamo dato non è possibile.

Ma con la fissazione del carattere giuridico del diritto internazionale dei trattati si è guadagnato tantissimo a vantaggio del diritto internazionale. Con ciò sono date per gli Stati, ai quali preme attenersi quanto più possibile agli obblighi contratti, norme rispetto alle quali essi sono tenuti a conformarsi; con ciò è dato per l’opinione pubblica del mondo civilizzato un criterio per la valutazione giuridica delle azioni doverose degli Stati e perciò un mezzo di pressione da non sottovalutare contro le voglie contrarie al diritto.

Ma la cosa più importante è che soltanto conl’esistenza di un diritto pattizio oggettivo è assicurato il significato giuridico del contenuto degli accordi e soltanto perciò è presente la possibilità di un consapevole perfezionamento del diritto internazionale. Mediante la natura giuridica degli accordi fra Stati anche il loro contenuto assume significato giuridico: esso costituisceuno jus inter partes. Ora quando il contenuto di un accordo fra Stati non consiste in un diritto soggettivo fondante negozi giuridici bensì nel riconoscimento reciproco di principi giuridici di natura internazionale, allora mediante l’accordo viene creato diritto internazionale e precisamente un diritto internazionale nel pieno senso della parola, in quanto qui v’è necessariamente concordia fra gli Stati contraenti, mentretutto ciò che lo Stato stabilisce unilateralmente relativamente alla sua condotta verso l’esterno offre un diritto internazionale soltanto nella forma incompiuta di un diritto statale esterno. Pertanto non è affatto corretto che nel caso della fissazione di principi giuridici oggettivimediante accordo fra Stati l’accordo sarebbe soltantol’involucro inessenziale per il riconoscimento e la conferma di una regola di diritto1, tranne che questi principi derivino dalla natura dei rapporti di vita, dove però un riconoscimento rispetto ad altri Stati sarebbe superfluo, in

1 Bluntschli, Mod. Völkerrecht, p. 64; Bergbohm, op. cit., p. 81.

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quanto esso è già posto mediante l’esistenza dei relativi rapporti. Ma in tutti gli altri casi è soltanto in virtù dell’accordo che il discostarsi dalla regola giuridica diviene illecito nei confronti degli altri Stati, mentre lì dove esiste un principio giuridico soltanto in quanto volontà dello Stato singolo non può parlarsi di una facoltà di altri Statidi pretendere il rispetto della regola giuridica.