Firenze insurgent city, prima parte

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I materiali qui presentati derivano da una ricerca svolta all’interno del Lapei (Laboratorio di progettazione ecologica degli insediamenti) del Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del Territorio dell’Università di Firenze. Coordinamento della ricerca: Giancarlo Paba Gruppo di lavoro: Giovanni Allegretti, Marvi Maggio, Anna Lisa Pecoriello, Camilla Perrone, Daniela Poli, Francesca Rispoli, Lorenzo Tripodi Progetto grafico e cura editoriale: Manuela Conti, Lorenzo Tripodi I materiali pubblicati sono no-copyright. Essi possono essere liberamente diffu- si, senza fini commerciali e con citazione della fonte. I N S U R G E N T C I T Y RACCO N T I E GEOGRA F I E D I U N AL T RA F I RE N Z E

Transcript of Firenze insurgent city, prima parte

I materiali qui presentati derivano da una ricerca svolta all’interno del Lapei

(Laboratorio di progettazione ecologica degli insediamenti) del Dipartimento di

Urbanistica e Pianificazione del Territorio dell’Università di Firenze.

Coordinamento della ricerca: Giancarlo Paba

Gruppo di lavoro: Giovanni Allegretti, Marvi Maggio, Anna Lisa Pecoriello, Camilla

Perrone, Daniela Poli, Francesca Rispoli, Lorenzo Tripodi

Progetto grafico e cura editoriale: Manuela Conti, Lorenzo Tripodi

I materiali pubblicati sono no-copyright. Essi possono essere liberamente diffu-

si, senza fini commerciali e con citazione della fonte.

I N S UR G EN TC I T YR A C C O NT I E GE OGR A FI E D I U N’ A L T R A FI R EN Z E

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contenuti

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4CONTESTED PLACES

RACCONTI E GEOGRAFIE DI UN’ALTRA FIRENZEGiancarlo Paba

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10FIRENZE ‘INSURGENT CITY’?Marvi Maggio, Anna Lisa Pecoriello, Francesca Rispoli, Lorenzo Tripodi

GEOGRAFIE URBANE, NETWORK COLORATI, NUOVE PRATICHE SOCIALICamilla Perrone

POCO FIUME E MOLTI PONTI

LA CITTÀ LETTA DAL MARGINE, ATTRAVERSO LO SGUARDO DEI SUOI

OSPITI-COSTRUTTORI

Daniela Poli

GENTE DELL’ISOLOTTO

Giovanni Allegretti

GENIO E SREGOLATEZZA: I MOMENTI-SPAZIO DELLA TRASGRESSIONE

COME UN ‘DIAVOLO IN CORPO URBANO’Giovanni Allegretti

LA CITTÀ CANCELLATA

LA CITTÀ INSURGENT

Contested spaces/centri sociali: mappa

PIAZZA SANTO SPIRITO

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MOVIMENTO DI LOTTA PER LA CASA

I luoghi storici della sinistra nel quartiere di Santa Croce: mappa

DISCONTINUITÀ

CASE OCCUPATE, LABORATORI DELLA DIVERSITÀ:

L'ESPERIENZA DI VIA ALDINI

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CSA EX EMERSON

CPA

AGGIORNAMENTI

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Le case occupate: mappa 43

Francesca Rispoli

Marvi Maggio

Marvi Maggio

Marvi Maggio, Francesca Rispoli, Lorenzo Tripodi

Anna Lisa Pecoriello

Marvi Maggio

Lorenzo Tripodi

Marvi Maggio

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Un quotidiano dissociato

7Intervista a Piero Colacicchi, coordinatore dell’Associazione Diritti delle Minoranze

Intervista a un graffitista rom

Anche noi possiamo contribuire a rinnovare questa citta'

Intervista a un bancarellaio brasiliano regolare

Un sognatore su strada

Intervista a un “marchettaro” brasiliano

Sprecare l’Arno, dandogli le spalle

Il centro è un buco neroIntervista a un lavavetri marocchino

Attraverso le crisi: ridare un senso al mio viaggio

Intervista a una domestica filippina

Firenze: uno sguardo esterno, dal limite

Intervista a un operaio albanese

L’ombelico del mondo

Siamo anche corpi e non solo braccia

Intervista a due immigrati rumeni

La periferia è un villaggio

La città ha un senso di marcia

Intervista a un bancarellaio senegalese

Scontento e contestatore: verso un sindacalismo informale

Intervista a un operaio senegalese

Una città di archi e porte di vetro

Conversazione con la gestrice di una rosticceria indiana

Una ‘via larga’ per la fede

Restituzione di una conversazione ‘corale’ con cinque rappresentanti della comunità islami-

ca di via Ghibelli na, di diverse nazionalità.

Ascoltare la città

Intervista a un g r i o t del Burkina Faso

La casa è un diritto

Intervista a Lorenzo del Movimento di lotta per la casa a cura di Marvi Maggio

Autocostruzione o autorecupero?Intervista a Dario di via Aldini a cura di Anna Lisa Pecoriello

Centro Popolare Autogestito

intervista a Edoardo del CPA a cura di Marvi Maggio e Francesca Rispoli

La civetta Lepolda e una geografia ipersensibile

Riorganizzazione di un’intervista ad un attivista e un’attivista di ‘Azione Gay e Lesbica’

a cura di Giovanni Allegretti

Il Territorio della prostituzione a Firenze: oltre il concetto di

confine amministrativo

Conversazione con alcuni operatori del C.I.P. e con la mediatrice culturale nigeriana della

cooperativa C.A.T a cura di Giovanni All egretti.

Intervista a un giovane rom

Intervista a un ambulante e maratoneta kenyota

Intervista a un ambulante senegalese

ATLANTE DI VOCI

a cura di Lorenzo Tripodi

Interagire con i ‘figli del ghetto’

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1. “UNA MACCHINA PERVERSA DI BELLEZZA”

“La città, popolata da due categorie di persone, gli affaristi e le loro vittime, è abitabile [...]

in maniera dolorosa, disturbante ogni indole naturale, col tempo perturbante e devastante,

molto spesso unicamente subdola e micidiale. Da un lato le esasperate condizioni atmosfe-

riche, irritanti, snervanti e comunque ammorbanti per chi vive nella città, e dall’altro l’ar-

chitettura, che in queste condizioni atmosferiche ha effetti sempre più disastrosi sulla

costituzione di questa gente [...], un clima che produce in continuazione, con incredibile irri-

guardosità, siffatti abitanti irritanti e snervanti e ammorbanti e umilianti e urtanti, dotati

di grande volgarità e bassezza. [...] Colui che sia cresciuto in questa città [...], colui che fin

dall’infanzia più remota, con grandissima disponibilità emotiva e intellettuale per questa

città, sia stato incapsulato da un lato nel vistoso evolversi della sua fama mondiale come in

una macchina perversa di bellezza, macchina bugiarda che produce vero denaro e finto

denaro [...], costui non può far altro che conservare un ricordo tremendo [...] della città e

delle condizioni di vita in questa città [...], una città che da sempre ferisce, esaspera e

comunque annienta qualsiasi personalità creativa. [...] Per colui che tenta di trovare equili-

brio e giustizia in questa città che in ogni parte del mondo gode fama soltanto di bellezza

e nobiltà, e [...] della fama derivata dall’arte, la cosiddetta Grande Arte, essa, la città, ben

presto non risulta altro che un freddo museo di morte, esposto a malattie e bassezze di ogni

genere, e in questa città si ingigantiscono per lui tutti gli ostacoli immaginabili e inimmagi-

nabili, i quali spietatamente devastano e profondamente ledono le sue energie e le sue doti

e attitudini spirituali; ben presto dunque la città, per lui, non è più una bella natura e un’e-

semplare architettura, ma nient’altro che un groviglio umano impenetrabile di volgarità e di

bassezza, ed egli non cammina più in mezzo [all’arte] quando passa per le strade della città,

ma è soltanto disgustato dal pantano morale in cui sono immersi i suoi abitanti.”

(Thomas Bernhard, L’origine, Adelphi, Milano, 1982, pp. 9-13)

L’i nvettiva di Thomas Bernhard, nella citazione che apre questo scri tto, è rivolta naturalmente a Salisburgo. Sono state neces-

sarie poche correzioni nella forma per adattarla a Firenze e nessuna correzione sarebbe davvero necessaria nel la sostanza.

Firenze è diventata anch’essa “una macchina perversa di bellezza” e di morte dell’anima. Ed è soprattutto, per una parte

importante dei suoi cittadini vecchi e nuovi, una macchina di sofferenza materiale, e di difficile e contrastata sopravviven-

za. L’atmosfera mortale - per la comunione del clima e della devastazione ambientale - la rende nociva, il contrasto tra cen-

tro e periferia la rende bugiarda e bi fronte, il dominio del commercio e del denaro la rende cinica e crudele, lo sfruttamento

parassitario della cultura antica e la crisi della cultura contemporanea la rendono sterile e opaca, l’avarizia materiale e men-

tale delle sue classi dirgenti la rende spesso ostile e non accogliente.

Come nella Salisburgo di Bernhard la scena pubblica fiorentina riflette il degrado fisico-ambientale della città: stanche azio-

ni di governo, sceriffi e “securizzatori” accaniti, imbonitori e modiste, registi e comici di regime, cantanti ex-alternativi ven-

duti e imbolsiti, teatri sclerotizzati e teatrini che riciclano show televisivi, in generale culture fossili e ortogonali alla speri-

mentazione e al coraggio critico.

La macchina perversa di bellezza di Firenze - “ freddo museo di morte” - è rappresentata in mille mappe e in mille guide in

modo adeguato. Iper-rappresentata: un’i nflazione di immagini e racconti, di camere con vista, di viste convenzionali e bana-

lizzate: vera alluvione terminale, e deserto di significato, della comunicazione di Firenze nel mondo.

La nostra ricerca ha ignorato questa figura della città del l’arte e del commercio culturale - solo qualche accenno vi è dedi-

cato - e si è rivolta invece alla ricostruzione di qualche parte dell’altra geografia di Firenze: una geografia interstiziale,

nascosta, fluida, mutevole, e tuttavia attiva, densa, creativa, la contro-geografia di un’altra Firenze, di una città nascente,

emergente, mescolata a quella esistente, dentro e contro la città esistente. Semmai questa geografia si ricollega alla gran-

de linea storica sotterranea della Firenze delle lotte sociali e di popolo, e della resistenza al potere e al conformismo cultu-

rale, da Savonarola a Enzo Mazzi, da don Milani a Ernesto Balducci, dalla rivolta dei Ciompi alle lotte della Firenze operaia,

dai movimenti giovanili del dopoguerra alle iniziative di base della comunità delle Piagge, fino alle mille altre manifestazio-

ni e figure, insofferenti e inquiete, della storia fiorentina recente e lontana.

CONTESTED PLACES

RACCONTI E GEOGRAFIE DI UN’ALTRA FIRENZE

Giancarlo Paba1

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2. INSURGENT CITY

“Molti abbandoneranno le proprie abitazioni, e porteran con seco tutti e sua valsenti, e

andranno abitare in altri paesi.”

(Leonardo da Vinci, Codice Atlantico, 370 v.a)

“L’esuberanza di vita […], la tendenza ad arrampicarsi verso l’alto, per cogliere più energia

di quella necessaria alla sopravvivenza, correndo rischi, compiendo salti avventurosi, col-

locando la bandiera della vita su qualche montagna più alta, prima di cercare di nuovo sicu-

rezza – alla fine la morte – nella valle sottostante.”

(Lewis Mumford, The Conduct of Life, Secker & Warburg, 1952, p. 38)

“L’esagerazione è nel corso delle cose. La natura non manda nel mondo nessun essere, nes-

sun uomo, senza aggiungere un piccolo eccesso della stessa specifica qualità. Dato il piane-

ta occorre aggiungere l’impulso; cosicché la natura aggiunse per ogni essere uno scatto di

violenza di direzione sul suo particolare sentiero, una spinta per metterlo sul suo cammino;

in ogni esemplare un di più di generosità, una goccia di troppo. Senza elettricità l’aria si cor-

romperebbe, e senza questa violenza di direzione che hanno in sé uomini e donne, senza

un pizzico di ostinazione e di fanatismo, non avremmo né incentivo, né efficienza. Dobbiamo

mirare al di sopra del segno, per colpire nel segno. Ogni atto ha in sé una qualche falsità di

esagerazione.”

(Ralph Waldo Emerson, Nature, 1844)

Definiamo spesso nel testo quest’altra Firenze come insurgent city, ed è necessario qualche chiarimento sul signi ficato che

viene dato a questa espressione, e più in generale alla parola i n s u r g e n t. James Holston ha denominato qualche anno fa “spa-

ces of insurgent citizenship” 1 gli spazi sottratti al dominio moderno e pianificato della città. Secondo Holston essi “includo-

no i l territorio dei senza casa, le reti dei migranti, i quartieri dell’appartenenza omosessuale, le peri ferie autocostruite [...] ,

le g a n g l a n d s, i condomini fortificati, i luoghi dell’ autoproduzione, gli insediamenti degli s q u a t t e r s, i campi suburbani degli

stranieri, i s w e a t s h o p se le cosiddette zone del nuovo razzismo” 2. Holston considerainsurgent tutti gl i spazi nei quali si svol-

gono pratiche che “disturbano le storie consolidate” della città moderna. Si tratta per i nostri fini di un’accezione forse trop-

po vasta e internamente contraddittoria, comprendendo insieme i luoghi di opposizione creativa e i luoghi di nuovo sfrutta-

mento e degrado.

Più vicina al nostro punto di vista è la ripresa del l’espressione da parte di Leonie Sandercock in un numero recente della rivi-

sta Plurimondi da lei curato. Sandercock chiama “ insurgent planning practices” le iniziative di pianificazione e di resisten-

za/trasformazione che si oppongono alla città esistente (alla sua struttura organizzativa e di potere) e nello stesso tempo

positivamente costruiscono i primi congegni di una città alternativa e differente. Friedmann collega queste iniziative alla

dinamica delle cittadinanze in espansione, ad un allargamento progressivo degli spazi di democrazia3. Le nuove cittadinan-

ze creano un contesto plurale e creativo, una vera e proprio m u l t i p l i / c i t y, all’interno della quale diventano praticabili forme

di utopia concreta, a c h i e v a b l e, per una più completa fioritura degli esseri umani4.

Pur tenendo conto di questi contributi più recenti, il termine insurgent mantiene tuttavia per noi un campo di risonanze più

antico, ma ancora suggestivo, ed è per questo che preferiamo non tradurlo (emergente, insorgente, e traduzioni simili, impo-

verirebbero e renderebbero banale questo campo di significati). In particolare è alla central ità di questa espressione nel pen-

siero del grande planner scozzese dei primi anni del Novecento Patrick Geddes (e alla declinazione di quel concetto negli

scritti di Lewis Mumford) che facciamo riferimento. Sul pensiero di Geddes è forse possibile fondare una sorta di in s u r g e n t

u r b a n i s m: come idea di trasformazione della città capace di mettere in moto “the forward movement of life” , il movimento

in avanti del la vita, “ its insurgence and its expectancy” 5. I n s u r g e n c e, ha scritto Mumford, è appunto la “capacità di supera-

re, attraverso il potere o l’astuzia, attraverso il piano o il sogno, le forze che minacciano l’organismo” 6. Le pratiche indivi-

duali e collettive insurgent sono un dato biologico ed esistenziale, prima che poli tico; sono per noi la manifestazione ele-

mentare del diritto alla vita e alla città dei suoi abitanti più poveri e deprivati.

I n s u r g e n t, nel senso che abbiamo qui precisato, sono quindi i movimenti stessi dei corpi in città, degli organismi che voglio-

no sopravvivenza e speranza di futuro. I movimenti molecolari: le traiettorie dei corpi nella scena pubblica della città, alla

ricerca di occasioni di vi ta e di felici tà; i movimenti associati: le interazioni tra i corpi, l’aiuto reciproco, la solidarietà nell’a-

micizia e nel lavoro comune; le reti organizzate di resistenza e di azione: il radicamento delle nuove comunità nello spazio,

nel processo di costruzione o trasformazione dei luoghi e degl i insediamenti .

Al centro del nostro racconto abbiamo quindi collocato le pratiche di vita dei nuovi cittadini, le piccole antropologie del quo-

tidiano, le storie o le microstorie individuali e di gruppo, i vissuti personal i o col lettivi. Per utilizzare di nuovo una metafora

geddesiana, abbiamo cercato di ricostruire qualche ramificazione del web of life, del reticolo di vita, delle nuove cittadinan-

ze in espansione nei territori di Firenze.

Insurgent city non è quindi città sovversiva o rivoluzionaria (non è così Firenze, non sono così oggi le città i tal iane, che lo si

desideri o meno). È però campo di forze, tensioni, desideri, conflitti , aspirazioni. È l’insieme di azioni compiute o parziali di

trasformazione, di piccole utopie realizzate o di semplici gesti di sopravvivenza, di manifestazioni di resistenza e di lotta,

di conquiste individuali o collettive, di micropoteri diffusi (“ thousand of tiny empowerments” , per riprendere ancora una

volta una definizione di Sandercock7). I n s u r g e n tnon è soltanto l’azione antagonista, algebricamente negativa, rovesciamen-

to meccanico che contesta e nello stesso tempo legittima l’ ordine sociale (e spaziale) costituito. Le pratiche sociali i n s u r g e n t

sono invece il risultato di intenzionalità collettive positive, progettuali, costruttive: esse trasformano l’antagonismo in pro-

6

tagonismo. Pratiche che stanno su un altro piano, su altri mille piani, indifferenti al mondo tradizionale della lotta politica, e

delle ideologie. Pratiche “ impolitiche” , spesso cattive e bastarde, in qualche misura, e forse proprio per questo le sole effi-

cacemente politiche.

3. LO SPAZIO DEI PUNTI DI VISTA

L’ intenzione originaria della ricerca era quella di costruire un vero e proprio atlante della città, in particolare della sua nuova

morfologia sociale. Esistono molti modi di intendere la costruzione di un atlante. Un modo, possiamo dire classico, è quello di

raggrumare in immagini compatte e definite le conoscenze consolidate di qualche porzione di mondo o di società. L’atlante

fissa in questo modo il territorio conosciuto, la terra cognita, in una figura unitaria e condivisa. Questa modalità di rappre-

sentazione presuppone l’ unità e la stabi lità del mondo, e l’univocità del punto di vista. Essa implica che il tempo dell’esplo-

razione sia finito, e che la funzione di sanzione del possesso e del comando, implicita in ogni geografia, prevalga su quella

della conoscenza e dell’azione. Materialmente alla fine questo tipo di atlante è un prodotto organico, omogeneo, definito

nelle scale di rappresentazione, e nella corrispondenza biunivoca tra l’universo dei segni grafici utilizzati e l’universo dei

fenomeni reali rappresentati. Come potevamo arrivare ad una rappresentazione certa e fissa delle cittadinanze mutevoli di

Firenze e delle loro mutevoli relazioni con lo spazio? Non era questa la strada che era possibile intraprendere.

Esiste tuttavia un altro modo di intendere un atlante, ed è quello che abbiamo scelto per la nostra esperienza. Esso presup-

pone i l fatto che l’esplorazione non sia compiuta ed anzi impone che la rappresentazione sia al servizio dell’esplorazione e

della scoperta. Le “mappe” e le narrazioni - i resoconti iconografici e topografici - si riempiono di piste, di segni provvisori,

si coprono di immagini e suggestioni util i per avanzare nella terra incognita, nel territorio sconosciuto. L’atlante consolida

temporaneamente l’andamento di un percorso, quasi fosse un diario di bordo, più che la carta di orientamento di un pacifico

baedeker. Questo secondo tipo di rappresentazione ha il vantaggio di restare vicino alle cose raffigurate e alle persone rac-

contate, accostandole e mettendole in relazione senza unificarle in un dispositivo ordinato e uniforme.

Una complicazione ulteriore era costituita dal fatto che l’ oggetto della rappresentazione doveva essere proprio il mondo in

ebollizione della città i n s u r g e n t: la città delle soggettività liberate, delle cittadinanze in espansione e in movimento, un

campo fluido e dinamico, abitato da una pletora di attori e iniziative. I materiali da rappresentare non erano quindi costitui-

ti da oggetti, ma da intrecci di relazioni umane, di nuovi rapporti intersoggettivi, e dal loro difficile e controverso rapporto

con la struttura morfologica e organizzativa della città.

Abbiamo quindi pensato a un atlante plurale, polimorfo, decentrato, che puntasse a rappresentare “lo spazio dei punti di

vista” della città emergente nella sua estensione e nella sua complicazione, un atlante di voci e di relazioni, di percorsi e di

testimonianze. Ci ha guidato questa indicazione di Pierre Bourdieu, in un volume che avevamo assunto come modello (e la cui

qualità non siamo riusciti neppure ad approssimare): “per capire ciò che accade nei luoghi [...] che riavvicinano persone che

tutto separa, costringendole a coabitare, sia nell’ ignoranza o nella reciproca incomprensione, sia nel confl itto, latente o

dichiarato, con tutte le sofferenze che ne risultano, non basta rendere conto di ciascuno dei punti di vista presi in modo sepa-

rato. Bisogna anche confrontarli come sono nel la realtà [...] per fare apparire, attraverso il semplice effetto di giustapposi-

zione, ciò che risulta dallo scontro di visioni del mondo differenti o antagoniste: cioè, in certi casi, il t r a g i c o, che nasce dallo

scontro senza concessioni o compromessi di punti di vista incompatibili, perché ugualmente fondati su qualche ragione socia-

le” . Le nuove geografie urbane sono “diff icili da rappresentare e pensare” e richiedono una rappresentazione multipla e com-

plessa: “abbandonare il punto di vista unico, centrale, dominante, quasi divino, nel quale si colloca volentieri l’osservatore,

[...] a favore della plural ità di prospettive corrispondente alla pluralità di punti di vista” 8.

Al la fine di questo tentativo rimane sospesa la risposta a questa domanda: il disordine dei materiali finali del nostro lavoro

è soltanto il risultato dei limiti della nostra capacità di ricerca e interpretazione o rappresentano viceversa, almeno parzial-

mente, lo spazio dei punti di vista che abbiamo cercato di indagare?

4. EFFETTI DI LUOGO

Un altro aspetto della ricerca ha creato problemi e difficoltà. La nostra intenzione era di arrivare a definire i contorni fisici,

perfino morfologici e architettonici, della città alternativa ed emergente. Non soltanto raccontare vicende e raccogliere

testimonianze, ma anche rappresentare trasformazioni, catturare la nuova figura spaziale della città, il territorio i n s u r g e n t

di Firenze, il reticolo fisico di una nuova geografia. Pensavamo che nelle energie sociali dispiegate dalle nuove cittadinanze

ci fosse capacità di progetto e di trasformazione della città e volevamo raff igurare i risultati di questa capacità.

In realtà l’universo del le soggettività emergenti non è ancora in grado di produrre un cambiamento organico e strutturato

della città. I movimenti i n s u r g e n tsono al l’origine di modificazioni puntuali , di microtrasformazioni, e qualche volta deposi-

tano solo sintomi di presenza, lasciano tracce di percorso. Abbiamo quindi cercato di rilevare quei fenomeni che è possibile

chiamare, utilizzando ancora una volta un’espressione di Bourdieu, gli “effetti di luogo” delle nuove azioni collettive. Tenendo

conto dei molti modi di incisione del lo spazio fisico e sociale abbiamo cercato di registrare un campo molto vasto degli effet-

ti di luogo delle nuove pratiche sociali sul territorio fiorentino: cambiamenti d’uso e di funzione, processi di ri-semantizza-

zione e di ri-significazione di edifici e luoghi pubblici, creazione o ri-creazione di luoghi collettivi, “colorazione” dello spazio

urbano (dal w r i t i n g, alle modi ficazioni di arredo e di aspetto, ai suoni e ai segni della vita sociale, ai mercati e alle presenze

volanti, ecc.), riconfigurazione dei tempi urbani (una diversa organizzazione della notte e più in generale dei ritmi di funzio-

namento della città), occupazione e riorganizzazione di spazi costruiti e non, auto-ristrutturazioni, progetti partecipati,

occupazioni alternative dell’etere e dello spazio immateriale, riqualificazioni in forme autoprodotte di immobili e aree urba-

7

ne (immobili collettivi di abitazione, autorecupero di edifici e di aree per nuovi usi sociali, adozione e gestione di spazi aper-

ti, ecc.), e in qualche caso la creazione di veri e propri cantieri sociali di trasformazione della città (Isolotto per il passato di

Firenze, Piagge oggi), capaci di incidere in modo più evidente e significativo sull’organizzazione della città.

Insomma la definizione più giusta, entro la quale riassumere gli effetti di luogo delle nuove cittadinanze, è quella secondo la

quale lo spazio urbano è contested space9: spazi e luoghi del la città disputati e contesi, in particolare gli spazi pubblici, le

piazze, le strade, e in generale il territorio aperto, i parchi, i giardini, le aree marginali e di connessione, le zone e gli edifici

abbandonati. Luoghi contesi tra diverse opzioni d’uso, traiettorie di vita e di fferenti aspettative e progetti di città: Homi

Bhabha li ha chiamati third space, “spazio terzo”, interstiziale, i n b e t w e e n, nel quale si articolano le differenze e viene nego-

ziata la vita, contrattata e giocata l’ esistenza1 0.

La scelta del soggetto e del modo di costruzione della ricerca ha quindi condizionato la sua costituzione materiale, impo-

nendoci un cambiamento di rotta rispetto alle intenzioni di partenza. I contenuti di questo resoconto figurato di ricerca

nascono da sondaggi , messe a fuoco parziali, contatti e immersioni nei movimenti della città, e naturalmente da ricerche vere

e proprio su argomenti specifici, o da ricerche-azione su alcuni territori. Spesso i contenuti sono costituiti da ragionamenti

attorno a piccoli accadimenti, microfenomeni, e qualche volta naturalmente anche da indagini di fenomeni più complessi ,

incontrati nell’esplorazione della città e del lo spazio sociale. I materiali qui presentati sono costituiti da molte cose mesco-

late tra di loro: documenti iconografici in prima istanza (fotografie, carte, mappe, diagrammi, schemi interpretativi), ma

anche racconti, storie, interviste, narrazioni.

5. DALLA RESISTENZA AI CANTIERI SOCIALI

“Potentially, the list of acts of resistance is endless - everything from footdragging to wal-

king, from sit-in to outings, from chaining oneself up in treetops to dancing the night away,

from parody to passing, from bombs to hoaxes, from graffiti tags on New York trains to

stealing pens from employers, from no voting to releasing laboratory animals, from mug-

ging yuppies to buying shares, from cheating to dropping out, from tattoos to body piercing,

from pink air to pink triangles, from loud music to loud T-shirts, from memories to dreams

- and the reason for this seems to be that definitions of resistance have become bound up

with the ways that people are understood to have capacities to change things, through

giving their own (resistant) meanings to things, through finding their own tactics for avoi-

ding, taunting, attacking, undermining, enduring, hindering, mocking the everyday exercise

of power.” 11

(S. Pile, M. Keith, eds., Geographies of Resistance, Routledge, London/New York, 1997)

Qualche osservazione è necessaria per spiegare i contenuti e l’articolazione delle diverse sezioni della ricerca. Vi si trovano,

spesso incrociati, due tipi di racconto. Alcuni temi sono presenti in modo trasversale nei contributi e nelle interviste, a volte

ripetuti e riesaminati da diversi punti di osservazione. In altri materiali, relativamente ad aspetti della ricerca più circoscritti ,

vengono utilizzati modi più tradizionali di resoconto, in forma quasi di piccolo saggio o ricostruzione critica. Infine i mate-

riali iconografici e i brani di interviste costituiscono una sorta di infrastruttura della narrazione, intesi quasi come momenti

di irruzione della realtà nelle diverse parti del volume.

Scorrerò ora i contenuti della ricerca in modo libero soffermandomi sugli aspetti che mi sembrano più interessanti (magari

in disaccordo con i “miei” ricercatori). Non è possibile una classificazione ordinata e in qualche modo gerarchizzata delle

azioni e dei movimenti indagati. Non c’è logica unitaria e piani ficazione dall’alto nella città “altra” . Sarebbe quindi sbagliato

collocare i movimenti urbani e le azioni progettuali o ribelli in una linea crescente di importanza e di significato. Molte pic-

cole azioni ripetute possono avere una capacità di incisione dello spazio urbano maggiore rispetto a quella di una singola

grande iniziativa organizzata. In realtà un carattere rilevante del mondo che abbiamo esplorato è proprio la mescolanza

delle cose significative e il loro emergere imprevedibile nei diversi luoghi della città, in una semplice biografia individuale,

così come nell’esperienza politicamente gestita di un’occupazione o nella trasformazione partecipata di un immobile o un

q u a r t i e r e .

Sullo sfondo del le esplorazioni urbane rappresentate è possibile intravedere da ogni parte il profilo minaccioso della città

ostile alle nuove cittadinanze in espansione. L’abbiamo chiamata gated city: città vietata, sorvegliata, città che respinge e

si chiude nel tentativo di imbrigliamento e contenimento delle energie urbane alternative. È la città dei recinti, delle barrie-

re, dei cancelli, dei codici di accesso, del controllo remoto o ravvicinato, delle limitazioni di tempo e di spazio, del la privatiz-

zazione e della sorveglianza dello spazio pubblico. È la ci ttà che discrimina e respinge ai margini, la città della pulizia etnica

nelle vie centrali e della pulizia “ecologica” sulle sponde del l’Arno (per eliminare anche negli spazi periferici le presenze

sociali ritenute pericolose). È una “architettura della paura” che in questo modo si consolida, attraverso piccoli e grandi dis-

positivi spazial i e di controllo: una visione paranoica e “securizzata” della vita urbana che contrasta con la stessa più pro-

fonda sostanza dell’i dea di città1 2.

La prima dimensione dell’opposizione alla città-fortezza che diventa necessario considerare è quindi quella della resisten-

za. Le “arti della resistenza” sono le armi dei poveri, una sorta di “ infrapolitica di coloro che non hanno potere” 1 3.

Nascondersi , dissimulare, non collaborare, disobbedire, fingere ignoranza, arrangiarsi: le arti della sopravvivenza costitui-

scono un insieme di attività spontanee e informali, che non richiedono coordinamento e piani ficazione, una sorta di “ brech-

tiana - o schweickiana - forma di lotta di classe” 1 4. Anche nei movimenti più consapevoli, progettuali e trasformativi, la resi-

stenza costituisce un fondamento e un punto di partenza. Ed è su una base di resistenza e ribell ione, molte volte individua-

le e soli taria, qualche volta organizzata e intenzionale, che poggiano anche le esperienze con un contenuto più alto di rea-

8

l izzazione e di speranza.

Resistenza al controllo e organizzazione positiva della sopravvivenza si dispiegano in particolare nello spazio pubblico, spa-

zio conteso per eccellenza della città. Abbiamo esaminato questa disputa col lettiva dello spazio in alcuni luoghi sensibili: le

piazze storiche, i luoghi di aggregazione del centro antico, la stazione e i territori del commercio e del transito, le strade

stesse della città alla fine. Ed abbiamo registrato i segni positivi di questa disputa, le microtrasformazioni e i processi di riap-

propriazione dello spazio collettivo (piazze multietniche, strade colorate, ecc.).

In particolare abbiamo cercato di disegnare una cartografia degli abitanti provenienti da lontano, degli “stranieri”, dei

migranti. Vivere, cercare di continuare a vivere, dispiegare “insurgent living practices” , potremmo dire parafrasando l’e-

spressione di Sandercock dalla quale siamo partiti, significa davvero in questo caso essere costretti a resistere e insieme a

cambiare la città. La vita non è garantita per questa categoria di cittadini negati, la loro esistenza non si è ancora quieta-

mente cristallizzata nelle case e nella città. Vivere per i migranti è ancora un obiettivo, non una condizione naturale di par-

tenza, ed è quindi necessariamente un progetto. “Allo straniero non domandare il luogo di nascita, ma il luogo d’avvenire”1 5

, ha scritto una volta provocatoriamente Edmond Jabès. Vivere significa conquistare un riparo, attrezzare uno spazio collet-

tivo di sopravvivenza, garantire i l soddisfacimento di bisogni elementari, adattare la struttura dei consumi e dei commerci,

assicurarsi le possibilità di movimento e di comunicazione, aggredire i problemi del lavoro e del la formazione, affermare il

diritto a una famiglia e a una discendenza, aff rontare anche il problema del tempo libero, del sesso, del pane e delle rose

insieme. È allora come conseguenza di questo progressivo radicamento del la vita dei migranti che gli effetti di luogo si accu-

mulano nello spazio e la città si deforma, si trasforma e si colora1 6.

Se leggete con attenzione le interviste vedrete che gl i itinerari di vita dei migranti non sono mai lineari e banali. Emergono

biografie complesse e contraddittorie: resistenza e progetto, devianza e desiderio di normalità, individualismo e fratellan-

za. Emergono inquietudine e adattabilità, rabbia e fiducia nel futuro, voglia di fare e di costruire, astuzia e imprenditoriali-

tà, e anche molta cultura, e una conoscenza delle altre culture e degli altri l inguaggi magari superiore alla maggioranza dei

cittadini “ordinari” . In qualche caso le storie di vita sono costrette ad attraversare una sorta di zona selvaggia, di “wild

zone” , il territorio di frontiera della città, collocato sul bordo, qualche volta oltre il bordo, della norma e del la legalità1 7.

Spazio terzo, zona selvaggia, oppure ancora spazi obliqui, ibridi , ambigui, come nel caso dei queer spaces, degli spazi “sba-

gliati” delle libere pratiche sessuali. Si diffondono allora le nuove geografie del desiderio e della libertà dei corpi1 8, anche in

questo caso spesso sul confine tra auto-espressione e auto-sfruttamento.

Una parte importante della ricerca è dedicata alla geografia dei luoghi occupati della città, degli immobili liberati da gruppi

di ci ttadini senza casa, del la aree o delle fabbriche abbandonate che sono diventate luoghi complessi della città alternativa

ed emergente. Le occupazioni - uso questo termine per indicare una fenomenologia di azioni internamente molto articolata

- sono all’origine di una contesa spaziale diffusa in tutto il territorio della città. Nella ricostruzione contenuta in questo volu-

me sono messi in evidenza le reti organizzative, le strategie, il carattere intenzionale e poli ticamente deliberato di molte

iniziative, in particolare sul grande tema generale della casa e dei centri sociali. In queste note mi piace tuttavia sottolineare

di queste esperienze il carattere aperto, imprevedibile, non programmato, persino impolitico, nel senso che ho all’ inizio pre-

cisato. Dell’occupazione di via Aldini, per esempio, e dell’occupazione dell’ immobile di via Bufalini duramente interrotta e

repressa, mi sembrano importanti, intrisi di futuro e di speranza, il carattere complesso dell’ esperienza, il tessuto relazio-

nale, l’ incontro di vissuti e culture, l’ intreccio di età e di aspettative, la valorizzazione del sentimento e del lavoro colletti-

vo, pur tra molte difficoltà e contraddizioni. Del l’esperienza dei centri sociali, a Firenze come altrove molto differenziata sia

tra i diversi centri sia tra i modi di vivere il senso dell’ esperienza all’ interno di ciascun centro, ciò che mi sembra anche in

questo caso più radicalmente ostile al la struttura di potere della città esistente è alla fine il contenuto materiale e concre-

to delle occupazioni, quotidiano, esistenziale, anche in questo caso l’aspetto i n s u r g e n tnel senso geddesiano: insurgent è la

vita collettiva in quel momento, l’ energia sprigionata, la pratica diretta del cambiamento. È un punto di vista non completa-

mente condiviso da tutti i partecipanti a questa ricerca, che mi premeva tuttavia qui di valorizzare e offrire alla discussio-

ne. E in ogni caso il testo ingloba in diverse parti la voce diretta dei protagonisti e sarà possibile per i lettori apprezzare

signi ficati e differenze.

Fondamentali sono infine le parti della ricerca dedicate alla ricostruzione di due esperienze particolarmente ri levanti nell’a-

rea fiorentina che abbiamo chiamato “cantieri sociali” : le esperienze delle comunità dell’Isolotto e delle Piagge. Si tratta di

“cantieri” che hanno una storia e un significato differente. La comunità dell’Isolotto ha una lunga e nobi le storia trentenna-

le, legata al la figura importante e decisiva di Enzo Mazzi, molto conosciuta e studiata. Qui viene ripresa secondo un partico-

lare punto di vista: la storia del la comunità viene guardata a partire dalla piazza, dal modo in cui la struttura fisica e simbo-

lica della piazza riflette le vicende della comunità e del rapporto della comunità con i poteri - religiosi, social i e politici - della

c i t t à .

Quello delle Piagge è viceversa un cantiere in corso, caldo e turbolento, al quale dedicheremo uno scritto più organico in un’al-

tra occasione 1 9. Le Piagge sono un laboratorio di trasformazione fisica e sociale, un deposito mutevole di energie positive,

anche scomposte e contraddittorie, una ragnatela di associazioni e di gruppi di volontariato. Da questo minuto e differen-

ziato universo di attività collettive - nel quale il centro del la comunità di via Lombardia coordinato da Don Alessandro Santoro

esercita un ruolo determinante - derivano microazioni trasformative, di natura puntuale, spesso circoscritte, e tuttavia

emergenti , attive. La protesta diventa rivendicazione positiva, la resistenza diventa iniziativa e progetto, le strategia di

sopravvivenza diventano impegno diretto nella costruzione del proprio insediamento e del proprio destino.

Che cosa accomuna queste esperienze, pur tra tante differenze del la storia individuale e collettiva dei loro protagonisti? Direi

proprio il carattere articolato e ambiziosamente completo del loro raggio d’azione. I cantieri sociali dell’ Isolotto e della

Piagge sono ipotesi di città all’opera, pratiche alternative di città che cercano di investire tutti gl i aspetti della struttura

urbana, micro-utopie in corso di real izzazione. Le attività della comunità delle Piagge riguardano per esempio la casa e l’ac-

9

coglienza, il lavoro e la formazione, la comunicazione e l’ incontro, la spiritualità e l’aiuto materiale, e molti altri aspetti anco-

ra. E questo complesso di attività è specificamente orientato alla riprogettazione del luogo, alla riqualificazione del quartie-

re, nel le sue componenti urbanistiche e sociali2 0.

6. UNA RICERCA FAZIOSA E PLURALE

Le immagini e le storie di questa ricerca nascono da indagini coinvolgenti, esposte, faziose. Abbiamo utilizzato strumenti

diversi, a seconda dei casi, forse con qualche confusione e qualche rischio di approssimazione: colloqui partecipati e intensi,

più densi della semplice intervista a testimoni privilegiati (intervista-dialogo dunque, ad alto tasso di interazione-interpre-

tazione); “ ricostruzioni critiche del caso” condotte molto dall’i nterno; qualche volta “osservazione partecipante” nel senso

tradizionale, complicata da una grado di adesione emotiva più spinta, nel corso delle esplorazioni urbane; “ ricerche-azione”

(è il caso del laboratorio di quartiere delle Piagge, ancora in corso) nelle quali i ricercatori hanno partecipato attivamente ai

progetti e alle realizzazioni. In molti casi i ricercatori erano quindi interni alle situazioni raccontate, o quasi-interni, oppure

lo sono diventati . Alcune parti del rapporto di ricerca assumono per certi aspetti anche una forma di auto-descrizione.

Il punto di vista espresso non è mai neutrale, anzi è contaminato dalla relazione con gli interlocutori della ricerca. Molti svol-

gimenti dell’indagine sono stati l’esito imprevedibile dell’ interazione con i soggetti, come nel caso di molte interviste. Le

interviste-dialogo sono state rilavorate, e poi ricontrollate con gli interlocutori, in un lavoro comune e circolare.

Il gruppo stesso dei ricercatori costituisce un esempio della molteplici tà di prospettive e orizzonti del la città insurgent e

alternativa. I ricercatori coinvolti hanno opinioni e atteggiamenti differenti, qualche volta un punto di vista interno ai movi-

menti, quasi complice, qualche volta un punto di vista più distaccato e perplesso. Quasi tutti hanno infine uno sguardo più

estremo del coordinatore della ricerca, ed alcuni di essi, dopo molte discussioni, fanno ancora oggi fatica ad accettare l’i dea

che le pratiche di vi ta per così dire biologicamente insurgent risultino significative e davvero alternative, e sono viceversa

più affezionati agli aspetti organizzativi e poli tici in qualche modo più tradizionali dei movimenti sociali urbani. I materiali

derivanti da questo diff ici le intreccio di sensibilità e posizioni sono quindi assai differenziati tra di loro, a volte persino inter-

namente contraddittori, ma abbiamo preferito rinunciare a un lavoro di riduzione e di omologazione. Ci è sembrato insomma

che l’articolazione di voci e di linguaggi del gruppo di lavoro potesse rappresentare meglio la pluralità di voci, atteggiamen-

ti e speranze di quella parte di città che abbiamo cercate di indagare e comprendere.

Note

1 J. Holston, “Spaces of Insurgent Citizenship” in J. Holston, ed., Cities and Citizenship, Duke University Press, Duhram/London, 1999, pp.

155-173 (la prima versione di questo saggio è del 1995).2 J. Holston, cit., p. 167.3 L. Sandercock, “Translations: From Insurgent Planning Practices to Radical Planning Discourses”, J. Friedmann, “Claiming Rights:

Citizenship and the Spaces of Democracy”,Plurimondi. An International Forum forResearch and Debite on Human Settlements,n. 2, 1999,

pp. 37-46, 287-303.4 J. Friedman,“ The Good City: In Defense of Utopian Thinking”, International Journal of Urban and Regional Research, 2, 2000, pp. 460-

472.5 L. Mumford, The Conduct of Life, Secker & Warburg, London, 1952, p. 30.6 L. Mumford, “Mumford on Geddes”, Architectural Review, 108, 1950, p. 83.7 L. Sandercock, Toward Cosmopolis: Planning for Multicultural Cities, John Wiley & Sons, Chichester/New York, 1998.8 P. Bourdieu, a cura di, La misère du monde, Seuil, Paris, 1993, pp. 13-14.9 L’espressione è utilizzata largamente in N.R. Fyfe, ed., Images of the Street: Planning, Identity and Control in Public Space, Routledge,

London/New York, 1998.10 H. Bhabha, The Location of Culture, Routledge, New York/London, 1994, pp. 101-10211 Chiedo scusa per non essere riuscito a tradurre in modo efficace questa citazione, un lavoro superiore alle mie forze (e anche a quel-

le di molti amici cui mi sono rivolto) e di aver quindi deciso di riprodurre l’originale. Credo infatti che l’elenco di gesti alternativi, a mio

parere bello ed espressivo, risulti alla fine sufficientemente comprensibile così come lo hanno scritto gli autori.12 N. Ellin, ed., Architecture of Fear, Princeton Architectural Press, New York, 1997.13 Da una citazione dell’antropologo J. Scott in D.S. Moore, “Remapping Resistance: ‘Ground for Struggle’ and the Politics of Place”, in S.

Pile, M. Keith, a cura di., Geographies of Resistance, Routledge, London, 1997, pp. 89-91.14 D.S. Moore, cit.15 E. Jabès, Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato, SE, Milano, 2001, p. 15.16 G. Paba, “Cortei neri e colorati: itinerari e problemi delle cittadinanze emergenti”, Urbanistica, n. 111, 1998, pp. 20-24.17 La wild zone è quello spazio che è possibile nominare come deregolato. […] È lo spazio alternativo di urbanizzazione It is the alterna-

tive space of urbanization as an affirmative postmodern wilderness. These spaces are not without law, bur rather are the spaces of the

without-laws”, cfr. C. Stanley, “Not drowning but waving: urban narratives of dissent in the Wild Zone”, in S. Redheed, a cura di, The Club

Cultures Reader:Readings in Popular Cultural Studies, Blackwell, Oxford, 1997, p. 36.18 D. Bell, G. Valentine, a cura di, Mapping Desire, Routledge, London/New York, 1995; D. Higgs, Queer Spaces: Gay Urban Histories Since 1600,

Routledge, London/New York, 1999.

10

FIRENZE ‘ INSURGENT CITY’?

Marvi Maggio, Anna Lisa Pecoriello, Francesca Rispoli, Lorenzo Tripodi 2

11

Al l’inizio di questa ricerca la domanda che ci siamo posti è stata se davvero potessimo considerare Firenze una città “ insorgente” in

qualche modo. La risposta istintiva, attraverso la nostra esperienza personale di ricercatori, attivisti e in definitiva di cittadini, è stata:

no, non lo è. La nostra percezione era quella di una città chiusa, soffocante, impermeabile al cambiamento, una città strettamente sotto

controllo. Firenze città fossile, Disneyland del rinascimento, centro commerciale di Tokyo: queste definizioni derisorie ed impietose ci

sembravano purtroppo calzanti e precise.

12

Cercavamo trasformazioni positive dello spazio urbano, “effetti di luogo” delle nuove pratiche sociali, tracce e segni di

fratellanza e di nuove comunità, modifiche nella percezione, nell’uso e nella forma dello spazio urbano provocate da

identità locali e da aggregazioni sociali alternative; ma ciò che trovavamo ci sembrava insignificante a un primo sguar-

do, non apprezzabile in una ricerca a scala urbana.

Volevamo costruire una mappa della città emergente, ma non riuscivamo a comporre la percezione dei piccoli cristalli di

nuova socialità in una diversa geografia dello spazio urbano. Una nuova configurazione della città non si rivelava anco-

13

ra e ci sembrava di scoprire soltanto casi sporadici di relazioni non convenzionali con il territorio.

Abbiamo dovuto compiere allora un passo indietro e considerare la città nella sua complessità, delinearne i meccanismi

di controllo e di contestazione, i poteri e i contropoteri diffusi, le forme di pianificazione e la reinterpretazione dal basso

di quelle forme.

Partendo dalla configurazione di norme, leggi economiche, confini e dispositivi di controllo sarebbe stato possibile defi-

nire la città insurgent in negativo: la città che contesta, o si nasconde, e fugge.

14

È possibile individuare, nell’esperienza della città, due reti che si compenetrano e si attraversano, si confondono e si includono, in un

conflitto che si moltiplica su tracciati che scavalcano le logiche binarie buono/cattivo, formale/informale, pianificato/spontaneo.

Tracciati spesso nascosti, poco visibili o latenti, che talvolta si impongono all’attenzione perché in un nodo, in un punto di intersezione,

alcune forze si scontrano, e qualcosa esplode. Da una parte cresce l’uniformazione, la semplificazione, la frammentazione, la segrega-

zione e l’esclusione; dall’altra si evolvono living practices, pratiche di vita alternative che rimescolano significati e confini, amplificano

spazi e rumori, inventano forme di territorialità e convivenza.

Nel corso della ricerca la prima impressione di inconsistenza della città alter-

nativa si è alla fine dissipata. Un catalogo di segni di autonomia positiva di

vita e di (r)esistenza si è svolto a poco a poco: esperienze di gruppi organiz-

zati che cercano di dare risposte a bisogni primari, luoghi caratterizzati da

usi irregolari dello spazio e una molteplicità di microconflitti e identità locali

in formazione. Molti piccoli fuochi sembrano bruciare sotto le ceneri della

città. Collocare questi segnali su una mappa ha consentito una prima visione

di Firenze “insurgent city”, come città diffusa fatta di punti, costellazione

casuale di spazi contestati o temporaneamente conquistati.

Una mappa di servizio necessaria, ma provvisoria, dalla quale ci siamo subito

allontanati per cercare altre forme di restituzione di questo pluriverso mute-

vole, inafferrabile, resistente a ogni riduzione e classificazione. Inseguire

segnali attraverso percorsi e derive inconsuete ci ha portato a organizzare

delle sezioni urbane piuttosto che delle visioni planimetriche, a praticare

degli attraversamenti, che ci consentissero delle messe a fuoco traslate

rispetto alla tipica visione prospettica della città, di perderci nei rivoli dei

microsegni in alternativa ai grandi segni orientati della città. Siamo partiti da

segnali effimeri che indicano l’affiorare di nuove pratiche, fino ad arrivare a

manifestazioni complesse di strutturazione di spazi urbani e definizione di

nuove identità, individuando situazioni in grado di generare livelli di organiz-

zazione superiori.

Ci siamo sforzati di ricondurre la nostra attenzione verso i luoghi, pur muo-

vendoci in contesti nei quali la rivendicazione, l’assetto difensivo e ideologi-

co, ha assunto suo malgrado carattere prevalente rispetto all’azione costrut-

tiva e alla progettualità.

Abbiamo scelto di ripercorrere in forma sintetica, tramite due attraversa-

menti le due città complementari e divergenti: la “città cancellata” e la “città

insurgent”.

15

ATTRAVERSAMENTO 2

ATTRAVERSAMENTO 1

È la città uff iciale, ultraliberista e postindustriale, prodotto del mercato in cui si fondono conservazione formale, flessibi-

l ità finanziaria, e mobilità “globalitaria”. Una città che si caratterizza per la scomparsa dello spazio pubblico, reso inutile

dalla dissoluzione della prossimità sociale e riassorbito dall’imperativo consumistico. Quando non sia esplicitamente priva-

tizzato, lo spazio urbano è interdetto da inferriate, cancelli , muri , catene; è la città sorvegliata, in cui strade e piazze, slar-

ghi e giardini sono ridotti a spazio di transito: andare a lavorare, rientrare a casa, fare shopping, consumare il proprio

tempo libero di riproduzione vagando tra bar, discoteche e locali . Una città in cui la funzione preponderante diventa il con-

trollo, e lo sforzo progettuale sembra solo voler ridurre la possibilità di deviare dalle funzioni prestabil ite e di instaurare

relazioni spontanee con il territorio. Lo spazio e il tempo urbano si appiattiscono nel la banalizzazione delle forme d’uso; lo

scenario sociale si polverizza nella dispersione dei circuiti di fruizione prestabi liti e semplificati delle funzioni di produ-

zione e consumo non solo di merci, ma di relazioni interindividuali , di desideri , di rapporto con i luoghi. La città diventa

un’agglomerazione di persone parzializzate come somma di diverse categorie di bisogni, uno spazio socialmente vuoto. La

vita sociale e il coinvolgimento degli individui vengono progressivamente sostituiti dal consumo standardizzato e dall’uso

transitorio; diventa impossibile modificare, sentir proprio, interpretare il significato dello spazio.

Nelle sue recenti trasformazioni Firenze mostra alcune dinamiche significative, comuni forse ad altre città storiche, ma che

qui toccano vertici inauditi. La città storica si trasforma progressivamente da centro della vita sociale a teatro di auto-

rappresentazione di elementi formali ormai scissi dalle dinamiche che li hanno generati: punto d’incontro tra un parco

tematico del Rinascimento e un centro commerciale dedicato al bon gout italiano. Gli edifici del centro diventano luoghi di

rappresentanza o strutture ricettive. I grandi poteri espellono progressivamente, senza lasciare scorie, ogni residuo di vita

locale dalla città; in una sorta di continua operazione di l i f t i n g, tutto ciò che “odora di vita” viene sospinto all’esterno. Il

feticcio della conservazione si trasforma in imbalsamazione; e, in effetti, un’i mplacabile operazione di tassidermia sta

strappando ogni residua traccia di viscere dal tessuto urbano, trasformando il centro in pura esteriorità, e il resto in peri-

feria. In un certo senso è in atto una ricostruzione virtuale delle mura antiche: l’accesso al centro è regolato da accurati

controlli e da porte telematiche (in gran parte coincidenti con le porte antiche), mentre il potere del mercato produce l’ e-

spulsione del “popolo”, ormai esteso a chiunque non partecipi alle dinamiche commerciali e turistiche. Cancellate chiudono

le logge, spunzoni compaiono a impedire la seduta, ordinanze vietano di sedersi sul le scale: “stare” nella città diventa un

reato; puoi percorrerla, riempirti gli occhi, acquistare un souvenir.

È importante notare come la gestione dello spazio pubblico tenda a diventare un settore produttivo finalizzato allo sfrut-

tamento del suolo urbano, attraverso la privatizzazione delle funzioni di controllo e il moltiplicarsi di operatori impiegati

nella riscossione e nella gestione: cooperative di parcheggiatori, addetti alle rimozioni, “vigilini”, vigilanze ambientali,

guardie giurate, che diventano un settore economico non secondario a livel lo locale, da cui derivano effetti paradossali;

solo per fare un esempio, le contravvenzioni cessano di avere una funzione deterrente e diventano voci di bi lancio essen-

ziali dell’economia della ci ttà; il traffico diventa una fonte di reddito da preservare, piuttosto che un problema da risolve-

r e .

Nello stesso tempo la vita sospinta fuori dalle mura si riorganizza intorno a nuove polarità: nuovi centri (commerciali, in

sostanza), intorno a cui si organizzano nuove identità, ma anche nuove resistenze e nuovi conf litti.

16

LA CITTÀ CANCELLATA

17

Imboccando via Cavour dalla porta di San Gallo, siamo subito inquadrati da una telecamera: le nuove porte telematiche (non ancora in

funzione) individueranno automaticamente i veicoli non autorizzati ad entrare in centro; è un primo segnale di come il centro storico si

vada configurando sempre di più come qualcosa di “altro”, cittadella di rappresentanza uniformata all’economia turistica globale piutto-

sto che all’organismo urbano locale. Un’inversione di tendenza rispetto alle operazioni ottocentesche che dall’eliminazione delle mura in

poi miravano a ricomporre la città moderna e quella storica. Seguendo una pista ciclabile sovradimensionata e quasi inutilizzata arrivia-

mo in piazza San Marco; il portico dell’Accademia di Belle Arti, da sempre luogo di ritrovo degli studenti, è stato di recente chiuso con

una pesante cancellata. Sono sempre di più i loggiati, gli slarghi, gli spazi aperti della città ad essere chiusi da inferriate e cancellati dalla

geografia sociale della città; in questa logica, il non-uso, la sottrazione cautelativa del patrimonio comune viene costantemente prefe-

rita ad usi collettivi vivaci, problematici, proponendo un’immagine falsa di decoro e di sicurezza.

Ancora pochi passi e ci troviamo in piazza SS. Annunziata: storicamente sede di strutture di utilità sociale come lo Spedale degli

Innocenti brunelleschiano, la piazza resiste ancora ai processi di sottrazione sociale anche in virtù della sua architettura: le ampie sca-

linate che si fronteggiano (impossibili da chiudere!), il meraviglioso equilibrio tra altezza e ampiezza degli edifici e l’esposizione solare

la rendono luogo di sosta e di ritrovo ideale. Qui gli studenti e i turisti che si riposano convivono senza troppo stridore con i punk e i loro

cani, con gli immigrati che aspettano il pasto alla mensa dell’opera pia, e qualche senza casa che dorme sotto gli archi. È impressionan-

te la capacità della piazza di resistere e mostrare il suo carattere conviviale pur al centro di un quartiere quasi del tutto disinfestato da

forme di vita locale residenziale. Proseguiamo seguendo l’imponente richiamo della cupola brunelleschiana. In una giornata tipo, guar-

dando a destra in via degli Alfani, non è raro scoprire un lungo serpentone di turisti che si dipana fin lì intorno a tutto l’isolato

dell’Accademia. Sul muro dell’isolato le tracce della annoiata attesa di vedere il David: scritte, graffiti con nomi ed iniziali, e una curiosa

stratificazione di gomme da masticare appiccicate ad altezza uomo, una installazione un po’ repellente che qualcuno ha iniziato per caso

e ha generato un catastrofico effetto a catena che, anche se periodicamente rimosso, tende a riformarsi in breve tempo.

Pochi metri e siamo già al Duomo, zona al centro dell’economia turistica cittadina, strettamente controllata dalle forze dell’ordine, rego-

lamentata come puro spazio museale; uno spazio denso, attraversato e furiosamente fotografato da decine di migliaia di persone al gior-

no, oggetto del desiderio dei venditori ambulanti abusivi; osservato dall’alto, il precipitoso ritrarsi dei vu cumprà al passaggio periodico

delle volanti appare come un coreografia inquietante, mentre i mezzi della nettezza urbana irrompono più volte al giorno a lavare la

piazza e le strade limitrofe. In pochi anni intere strade sono state riconvertite ad opera dell’economia turistica, una trasformazione tut-

t’altro che trascurabile: money shops, lavanderie a gettone, internet pointshanno sostituito in breve tutte le forme di commercio di scala

locale; il modello di negozio in franchising omologa velocemente le strade della world city. Anche l’immagine della ” tradizione locale” al

centro del mercato turistico è reinventata su modelli costruiti a tavolino dalle strategie di marketing: è un fiorire di nuove “antiche” gela-

terie, botteghe e osterie, ossimori esibiti senza reticenza. Persino l’onesta pensione “Splendor” si ricicla in hotel “Orto dei Medici”.

ATTRAVERSAMENTO 1

18

Proseguendo, dopo poche decine di metri si apre piazza della Repubblica, la piazza borghese ottocentesca per eccellenza, “da seco-

lare squallore a nuova vita restituita” dopo la demolizione del ghetto ebraico.

Interessante notare come ad usare la piazza come spazio di ritrovo e di sosta siano sempre più spesso i nuovi cittadini immigrati, arabi

e asiatici, che vi trascorrono lunghe ore sulle panchine e sotto il loggiato, osservando e chiacchierando, esibendo posture e atteggiamenti

quasi scomparsi negli abitanti autoctoni.

Da qui in poi siamo nel salotto dello shopping di classe: l’area dell’antico accampamento romano, da via del Corso a via Tornabuoni, si va

sempre più drasticamente specializzando come distretto internazionale della moda, talmente specializzato da espellere poco a poco ogni

esercizio di genere diverso: è il caso di negozi storici come la libreria internazionale Seeber, il caffè Giacosa , la “profumeria inglese”, i

dischi Nannucci e molti altri, in procinto o già sostituiti dalle boutiques di grandi firme.

Il nostro percorso non rivela più grosse sorprese inoltrandosi nella “Disneyland del Rinascimento”; lo spazio urbano, come rivelano i car-

telli presso logge e monumenti, è da considerarsi assimilabile a spazio museale e pertanto soggetto a rigide norme di comportamento.

Piazza della Signoria: immerso in questo “universo parallelo”, il Palazzo Vecchio, sede del comune di Firenze, appare in tutta la sua

alterità, suggerita dall’imponente architettura difensiva. Chi vi entra scopre però la piacevole atmosfera affaccendata del palazzo pub-

blico che ancora concentra molte funzioni civiche nel centro urbano; già si parla però di istituire un biglietto di ingresso e limitarne l’ac-

cesso. [Al momento della redazione finale del testo, questo processo si è già verificato].

Il porticato degli Uffizi è caratterizzato dalle file di visitatori in attesa di accedere alla Galleria, irreggimentati da transenne di rara

trasandatezza; ad intrattenerli l’ormai identica ovunque genia degli “artisti (?) di strada” che si esibisce in un malinconico repertorio

standard. Mimi, musicisti, ritrattisti: regolarizzati dai permessi, normalizzati nei contenuti, industrializzati nell’approccio, i buskers

fanno ormai un lavoro come tutti, partecipi anch’essi della filosofia del franchising. Possiamo scorrere senza intoppi via Por Santa Maria,

il Ponte Vecchioluccicante attraversato da un flusso ininterrotto di turisti che percorrono il tracciato storico-commerciale più famoso

della città.

Da via Guicciardini si giunge a piazza Pitti, dove l’articolazione dello spazio e delle architetture conserva ancora il suo carattere monu-

mentale e celebrativo. A lato di palazzo Pitti si trova uno degli accessi al grande giardino di Boboli, che si estende fino a Porta Romana.

Da alcuni anni il giardino, che era sempre stato uno dei luoghi più frequentati dai residenti dell’Oltrarno e da tutta la città, oltre che dai

turisti, è stato ‘chiuso’. Chiusura che permette l’accesso libero solo ai residenti provvisti di documento di identità, mentre prevede il

pagamento di un biglietto per tutti gli altri.

19

Mentre da un lato le città d’arte

come Firenze si specializzano nella

funzione turistica diventando un

prodotto pubblicitario e di consumo

scambiabile nel circuito della compe-

tizione globale, simulacro di un luogo

collettivo che diventa contenitore

anonimo del l’esclusione e della

riproposizione di false forme di

socialità, l’ambiente urbano continua

a lanciare segnali intermittenti, ma

difficilmente ignorabili, che rendono

lo spazio strumento e contesto di

comunicazione.

La città alternativa e insofferente

non esiste solo nell’immaginario di

alcune persone che vorrebbero vive-

re i luoghi e i tempi urbani in manie-

ra diversa, ma si manifesta attraver-

so pratiche di vita che lasciano trac-

ce e sedimenti materiali, espressioni

di una cittadinanza esigente che per-

cepisce la città come patrimonio di

differenze, opportunità e contesti di

relazione.

Il carattere affermativo delle nuove

forme di socialità e cittadinanza si

riconosce dalle discontinuità, dalle

microlesioni che si vengono a creare

quando azioni sociali quali tativa-

mente diverse da quelle che caratte-

rizzano la città del controllo emer-

gono dall’uniformità dei comporta-

menti imposta dal sistema socio-

urbano dominante, e si manifestano

in spazi dislocati qua e là, connotan-

doli in maniera complessa (conflitto,

contraddizione, identificazione, ...).

Piccole “catastrof i” che creano

“movimento sociale”, pratiche di vita

che si impongono per specificità, per

fluttuazioni che generano lembi di

tessuto sociale territorializzato e

che si materializzano in alcune aree

e parti di città che richiamano le

“zones d’ambiance” individuate dalla

critica situazionista. Zone caratte-

rizzate da un’atmosfera urbana par-

ticolarmente intensa, costituita dal-

l’intreccio di molti fattori: non solo la

composizione sociale o le architettu-

re, ma gli elementi mutevoli della

scena urbana, il gioco di presenze e

assenze, delle luci e dei paesaggi

sonori, degli spostamenti, delle per-

cezioni temporali, del circolare delle

idee.

LA CITTÀ INSURGENT

d i i n s o r g e n z a :atti, comportamenti, segni che indica-

no relazioni emergenti e alternative

con lo spazio urbano; resistenza alle

trasformazioni e alle espropriazioni,

nuove forme di aggregazione, condi-

visione e comunicazione. Eventi che

innescano percezioni mutate dello

spazio, nuovi significati che modifi-

cano il valore degli spazi nelle geo-

grafie comunitarie.

Tra i comportamenti rilevati spicca

l’uso dei muri e delle superfici urbane

come strumento di comunicazione e di

denuncia: un tessuto di piccoli atti,

formalmente illegali, ma che raccon-

tano insostituibilmente il residuo fer-

mento, l’indignazione, la caparbietà

delle minoranze senza voce del la

città. Manifestazioni che hanno luogo

prevalentemente negli spazi saturati

della città, dove il valore fondiario

intensifica il livello di controllo e di

conf li tto, ma dove la capacità di

comunicazione è altissima grazie alla

concomitanza, alla densità del le

traiettorie che si incrociano.

Scritte e volantini, graffiti e striscio-

ni: testi volatili, graffi che lasciano

tracce, vengono coperti, riappaiono, si

stratificano labilmente e sbiadiscono,

lasciando comunque aleggiare la sen-

sazione di un’indomita e combattiva

vivacità.

S E G N A L I

20

Ci muoviamo dalla stazione, da quell’area di Santa Maria Novellacosì fitta d’incroci e di sensi nelle innumerevoli geografie persona-

li, dalle più distratte alle più coinvolte, attraversata ogni giorno da un fiume di persone. Quanti si soffermano per un attimo sui volanti-

ni affissi all’ingresso dei sottopassaggi, che indicano eventi, denunciano soprusi e azioni politiche? Di certo non v’è luogo della città in

cui la comunicazione murale spontanea abbia una maggiore potenzialità, anche se si perde nei flussi distratti dei pendolari e nella ridda

di lingue straniere. Qui notiamo anche molte scritte in amarico, in arabo ed in altre lingue, che ci segnalano quanto questo luogo sia impor-

tante nella geografia delle comunità immigrate, luogo di socialità, spazio pubblico per antonomasia della città dispersa e straniera.

Imboccando via Nazionale troviamo il teatro Apollo, in disuso da quindici anni, le cui serrande costuiscono una imponente bacheca.

Notiamo una serie di manoscritti ad opera di un cittadino classe 1926 che rivolge accorati appelli agli amministratori per salvare questo

edificio storico della cultura fiorentina abbandonato al degrado. L’Apollo è il più grande tra i numerosi cinema e teatri rimasti in abban-

dono per anni, e tra gli ultimi ad essere interessati da progetti di recupero come centri commerciali, cinema multisala o sale Bingo.

Ci inoltriamo nel centro viscerale della città, il mercato diSan Lorenzo; gli incroci delle stradine limitrofe al Mercato centrale sono piene

di volantini che pubblicizzano soprattutto le attività dei centri sociali. Anche la zona di san Lorenzo sta subendo evidenti trasformazio-

ni legate all’insediamento delle comunità straniere; vi si notano in particolare alcune strade già fortemente connotate da empori africa-

ni e orientali.

attraversamento 2

21

La mensa universitaria in via San Galloci introduce in una zona diversa, in cui emerge una nuova significativa presenza; dal mercato

inoltrandoci nella via degli Alfani ci ritroviamo nell’ultimo residuo di una geografia “disinteressata” e “culturale” della città: quel siste-

ma universitario minacciato anch’esso dallo smembramento e dall’espulsione verso nuovi poli periferici. Il fiorire dei volantini ai muri

segnala le sedi universitarie più significative e frequentate, le sedi di lettere e di architettura inpiazza Brunelleschi, poi il muraglio-

ne di via degli Alfani : un muro cieco di oltre trenta metri che ospita da anni notizie il succedersi di eventi e di mobilitazioni, graffian-

ti slogan polemici o interventi artistici e che può essere letto nelle sue stratificazioni, nel suo ciclico diradarsi e sbiadire e riempirsi di

nuovo come tornasole dei movimenti dell’underground fiorentino.

Al di fuori di questo percorso, l’attacchinaggio spontaneo si limita ad alcune isole in concomitanza delle scuole superiori.

Sembra che solo gli studenti restino a creare fermento e una minima resistenza alla sterilizzazione del centro; è significativo che nella

mappa dell’attacchinaggio spontaneo negli ultimi anni luoghi come Santa CroceeSan Fredianosiano andati scomparendo, mentre i muri

di questi quartieri storicamente impegnati denunciano solo poche istanze locali degli abitanti: la difesa dallo smog e dal traffico, dal

degrado e dal rumore...

Il nostro percorso si chiude emblematicamenteall’arco di San Pierino, residuo di una firenze popolare ormai scomparsa, crocevia pro-

blematico della città che cambia, tra studenti in fila sotto l’arco per un kebab, i pochi immigrati di lunga data che ancora si ritrovano qui,

spacciatori e clienti invecchiati insieme, periodiche proteste di sparuti comitati di residenti che lamentano un degrado diventato ormai

istituzionale, e che appare più psicologico che fisico.

Alla fine di questa esplorazione ci sembra di poter rilevare come negli ultimi anni sia avvenuta una contrazione dei luo-

ghi della città funzionali alla comunicazione interpersonale ed alla mobilitazione collettiva. Ormai lo sforzo di comuni-

care le iniziative e le istanze degli spazi alternativi si concentra esclusivamente nei percorsi tra le facoltà universita-

rie del centro fino alla stazione, mentre assume maggior rilievo l’uso delle radio locali e di Internet come strumenti di

comunicazione. Anche in questo si nota come lo spazio urbano perda progressivamente la connotazione di spazio di rela-

zione, demandando sempre di più la funzione comunicativa ad ambienti mediati e controllati. Per contro va notato come

abbastanza regolarmente la stampa cittadina, e non solo quella di sinistra, accolga le segnalazioni degli eventi che si

svolgono all’interno degli spazi occupati al fianco delle normali attività culturali “legali “, riconoscendo un ruolo cultu-

rale e politico quasi istituzionale ai centri sociali.

La mappa che segue non è il risultato di un rilievo accurato di dati, e non evidenzia territori omogenei secondo classificazioni di alcun

genere: è l’individuazione di aree “interessanti” , su cui appuntare la nostra attenzione, fatta in via preliminare da noi ricercatori come

primo passo nell’affrontare questo viaggio. E’ un piano di esplorazione, un appunto mentale su quella geografia della nostra città che

consideravamo pulsante, interessata da fenomeni di trasformazione e conflitto, dal futuro incerto; in sostanza soggetta a fenomeni

coincidenti con la definizione di “insurgent city” che avevamo adottato. E’ una mappa che non abbiamo ulteriormente sviluppato, sem-

plice punto di partenza senza pretesa di conclusione.

Essa include gli ultimi residui di spazi indeterminati, interstiziali, della città: terrains vagues come l’ Argingrosso, un vasto triango-

lo residuale delimitato dall’Arno, dal viadotto dell’i ndiano e dal viale Canova, che riserva esperienze inattese come il laghetto bucoli-

co sorto da una cava abbandonata o la teoria di piccoli orti spontanei; o come la vicina area delle C a s c i n e, con l’anfiteatro e la palaz-

zina dell’Indiano, incrocio continuo di usi e consuetudini non ufficiali e regolarizzati, o il contiguo mondo delle discoteche e dei bar

estivi, con le esplosioni di socialità e gli effetti collaterali nei mercati illegali delle droghe e del sesso.

Include aree dismesse in seguito allo smantellamento di istituzioni pubbliche o industriali, come San Salvi, micro-garden city della

malattia mentale, i cui padiglioni ospitano oggi le più svariate funzioni ed esperienze, occupazioni abitative di famiglie immigrate,

laboratori artistici e teatrali, o funzioni residue dell’apparato sanitario pubblico; o come l’area ex Longinotti, fabbrica dismessa

occupata per oltre un decennio da un centro sociale, la cui vicenda ha rappresentato un cardine emblematico del dibattito sulla pia-

nificazione urbana di Firenze. O ancora, piazze e strade calde, come Santo Spiritoo Santissima Annunziata, in cui si riversa cicli-

camente la foga compressa dei giovani e l’i rrequietudine della città negata.

In generale sono luoghi che oltre a ospitare storie e vicende di sopravvivenza, resistenza e di elaborazione politica , creano un intor-

no, generano effetti perturbanti nella città che li circonda: sono valvole di sfogo per esigenze castrate, territori di conflitto tra cul-

ture e generazioni, impasse gestionali delle politiche consolidate. Nel corso di questi ultimi anni abbiamo assistito a una progressiva

riduzione di questi territori indeterminati, soggetti a progetti di rinnovamento, a controllo soffocante, ad operazioni di sanificazione

esasperate. L’adozione di nuovi strumenti urbanistici ha ridato slancio al progetto di rigenerazione delle ultime aree dismesse in poli

commerciali e direzionali. Lo spazio disponibile ad alternative di vita è in estinzione grazie al dominio incontrastato dell’etica di mer-

cato, mentre il braccio di ferro sempre più duro con le forze dell’ordine a difesa delle proprietà degli spazi ha finito per ridurre l’im-

pegno nelle occupazioni a una pratica prevalentemente difensiva che ne mortifica l’aspirazione costruttiva e progettuale. Senza voler

qui scendere nel merito della liceità o della qualità delle attività che vi avevano luogo, non possiamo non rilevare come la trasforma-

zione in senso regolato e controllato di ogni spazio della città non si sia dimostrato in grado di rispondere al sempre crescente senso

di frustrazione, di alienazione, di insofferenza che una ingente parte della cittadinanza avverte nei confronti della vita urbana di

Firenze.

22

CONTESTED SPACES / CENTRI SOCIALI

23

CENTRI SOCIALI

- C P A ., Centro popolare autogestito fi-sud. Nasce nel settenbre 1989 con l’ occupazione dell’ ex fabbrica longinotti, una grande area indu-

striale dismessa di 37000 mq, per rispondere al bisogno di un luogo di aggregazione nella parte sud della città. Malgrado le molte minac-

ce di sgombero, avanzate a partire dal 1996 quando la Coop, proprietaria dell’ area, inizia a presentare progetti speculativi , il Cpa cerca

di contrastare non solo lo sgombero, ma soprattutto la costruzione di un grande centro commerciale Coop nell’ area. Sgomberato il 28

novembre 2001. Rinasce dopo poche settimane con l’occupazione di una ex scuola in via Vill amagna

- Ex- Emerson. Centro sociale autogestito. Nel settembre dell’ 89 viene occupata l’ ex fabbrica Emerson in via Bardazzi, un grande edi-

ficio abbandonato da 9 anni nel quartiere di Novoli, nella periferia nord-ovest dell a città. La scelta del luogo è legata ad una lotta intra-

presa in quegli anni contro la costruzione di un inceneritore di ri fiuti tossici nella zona. Situato al centro di un’area di trasformazione urba-

na strategica per l’amministrazione, viene sgomberato nel lugli o 1993.

- Ex- Emerson. Centro sociale autogestito, via Niccolo da Tolentino. Viene occupato lo stesso giorno dell o sgombero di via Bardazzi dall o

stesso nucleo di persone decise a proseguire l’ esperienza di autogestione un ex calzaturificio dismesso da 10 anni nella zona di Careggi.

- La vill a.Centro sociale autogestito, via Salvi Cristiani. Nasce nell’ estate del 1994 con l’occupazione, da parte di alcuni abitanti del quar-

tiere, di una grande casa colonica di proprietà comunale, posta in mezzo ai palazzi del quartiere di Coverciano. Dopo alcuni anni La Vill a

funziona come circolo di quartiere, si susseguono varie esperienze di autogestione da parte di gruppi diversi, con connotazione politiche

più marcate. Nel marzo 2000 il Comune, avendo deciso la vendita dell o stabile nel quadro di un progetto più ampio di ali enazione di gran

parte del patrimonio storico-architettonico di sua proprietà, decide di sgomberare il centro.

- Il mulino., Centro sociale autogestito. Occupato nel maggio 2000 come risposta allo sgombero della Vill a. La nuova occupazione avrà

vita breve e si conclude nel giugno 2000 con lo sgombero.

- I n d i a n o .. Primo centro sociale autogestito di Firenze nato nel dicembre 1997 con l’ occupazione di una palazzina in fondo al parco dell e

cascine. Diventa alla fine degli anni 80 il principale luogo di espressione dell a cultura punk-anarchica in città. Vi ene sgomberato nel marzo

del 1991. Dopo lo sgombero il comune ristruttura la palazzina e, dopo svariate vicende, accetta la richiesta di assegnazione degli ex-occu-

panti, ormai costituiti in associazione. Nel luglio 2000 il Comune decide di rientrare in possesso dell o stabil e e l’associazione lascia spon-

taneamente la palazzina.

Nel corso del 2001 sono avvenute le seguenti occupazioni:

-Il bandone, Via Maragli ano

-I n f o - s q u a tVia Bufali ni

ex-emerson

indiano

le piagge

Poderaccio

Olmatello

le Cascine

S.Salvi

S.Spirito

Argingrosso

il bandone

info squat

CPA fi-sud

la villa

24

LUOGO PUBBLICO ALTERNATIVO PERCHÉ RESIDUALE?

La cancellazione progressiva delle forme di uso pubblico degli spazi urbani

muta le geografie della città.

La privatizzazione crescente della sfera pubblica e la strategia manageriale

di gestione della città, divenuta prodotto da scambiare sui mercati interna-

zionali, trasformano i modi in cui la società si auto-rappresenta nello spazio

urbano. I meccanismi di valorizzazione economica della rendita urbana e del

mercato immobiliare, associati ai dispositivi di controllo che rispondono alle

nuove “emergenze sicurezza”, si coniugano con la proposizione di spazi di

nuova socialità come le discoteche, gli stadi o i centri commerciali.

Ma al di là delle accattivanti immagini video riprodotte sui megaschermi delle

nuove stazioni ferroviarie dell’alta velocità, o delle finte strade e piazze

ricreate all’interno degli shopping malls, libere dal traffico veicolare e dalla

presenza di residenti, viene da chiedersi dove e come si producano oggi le

nuove forme di urbanità, di interazione sociale, di aderenza al territorio della

città, ancora tutte da scoprire.

Di certo possiamo dire che il valore sociale eurbano dello spazio pubblico sta

mutando radicalmente.

Uno degli aspetti più evidenti della scomparsa dello spazio pubblico nella città

contemporanea si manifesta laddove le piazze perdono la loro natura di luo-

ghi dell’agire sociale, nei quali flussi di persone in movimento incrociano iti-

nerari individuali, rallentano di velocità, improvvisano soste e forme di fre-

quentazione, incontro e aggregazione.

Negli ultimi dieci anni le piazze di Firenze sono scomparse, sottratte alla città

vissuta e agli abitanti per essere trasformate in spazi di transito, di passag-

gio rapido o sosta distratta per i turisti. Presidiate dalla polizia e tenute “in

ordine” da vigili, ausiliari del traffico e guardie ambientali, le piazze subisco-

no un processo di riduzione complessiva delle possibilità di accesso e fruizio-

ne, messo in atto tramite ordinanze speciali e divieti (di entrare, sedersi,

stare, giocare, ecc.) emessi dal sindaco in nome del decoro urbano, della puli-

zia, della vivibilità, della sicurezza.

Firenze è diventata una sequenza di spazi in cui si espongono merci, monu-

menti e architetture, immagine urbana del parco tematico internazionale del-

l’arte, della cultura, della storia e della moda, finalizzata alla cattura dei flus-

si finanziari che attraversano l’economia mondiale.

La vita pubblica sopravvive solo in alcuni luoghi residuali della città, manife-

standosi come capacità di inventare più modi di relazionarsi allo spazio, di

attraversarlo ed essere presenti, di conferirgli significati. La percezione indi-

viduale e talvolta socializzante dei luoghi genera il dinamismo irriducibile

dello stare e dell’andare che si crea in una piazza urbana, spazio connotato,

racchiuso dal volume degli edifici che lo circondano, membrana di costruito

che crea osmosi con il contesto e intrecci tra il dentro e il fuori.

Piazza Santo Spirito è in questo senso un luogo urbano residuale, l’unica piaz-

za di Firenze che sopravvive alla cancellazione. La piazza, di origine storica

e popolare, ha mantenuto negli ultimi vent’anni alcune caratteristiche che le

altre piazze storiche di Firenze hanno perso.

In una città che vive della propria immagine storico-artistica (il disegno urba-

nistico, le architetture, le opere d’arte) e delle merci di lusso (le vetrine del

centro), piazza Santo Spirito si distingue per alcune peculiarità: una piazza

rimasta fortemente integrata con il quartiere, che ospita ancora il mercatino

rionale giornaliero, dove la gente si incontra per stare e per parlare, dove si

può sedere per terra e sui gradini senza che vigili e polizia ti facciano alzare

per problemi di decoro.

Un luogo urbano nel quale si riproducono forme di prossimità e solidarietà, si

tessono reticoli di socialità invisibili ma duraturi, nel quale le differenze - di

PIAZZA SANTO SPIRITO Francesca Rispoli

25

reddito, di cultura, di etnia - cercano forme di convivenza, creando microco-

munità occasionali.

“Molti quartieri storici di Firenze sono stati svuotati dagli abitanti, come

Santa Maria Novella e Santa Croce, quartieri una volta popolari i cui abitanti

vivono adesso nei blocchi-dormitorio del la periferia, dal l’Isolotto alle

Piagge”.

“La zona d’Oltrarno è invece caratterizzata ancora dalla presenza di residen-

ti, soprattutto anziani, che farebbero di tutto per non andarsene da questo

quartiere, nel quale ancora esistono rapporti di comunità e legami di solida-

rietà e mutuo aiuto. In questo senso è possibile riconoscere ancora forme

residue di resistenza e di radicamento.

L'Oltrarno era, storicamente, il quartiere più povero di Firenze, come testi-

moniano certe strutture, per esempio i Bagni Pubblici, nei quali ancora oggi il

sabato vengono a fare la doccia più di cento persone, o l’Albergo Popolare,

servizi che non avrebbero mai fatto costruire, ad esempio, a Coverciano”.

“I momenti storici del cambiamento delle condizioni di vita della zona si pos-

sono far coincidere con le fasi di spopolamento. Ci sono cantieri aperti da

vent’anni, perché il quartiere è stato in parte abbandonato negli anni 60-70,

quando le famiglie più povere, non avendo i soldi necessari per ristrutturare

le vecchie case, si facevano assegnare dal comune le case popolari di perife-

ria. Ma qui la gente piange se deve andare via. Quando vado alle Piagge trovo

la gente di Santo Spirito, cambiata e intristita.

Il legame tra gli abitanti e con il luogo è sempre stato forte.

Oltre ad essere collocata in un quartiere i cui abitanti mantengono un senso

di territorialità e forme di relazioni sociali che sembrano opporre resistenza

alla frammentazione e singolarizzazione degli individui, la piazza accoglie e

include le realtà sociali che la città respinge dai luoghi centrali dell’offerta

turistica, come la Stazione, il Duomo, piazza Signoria, piazza Santa Croce,

strettamente controllati per limitare la presenza degli esclusi, che la città

deve nascondere all’occhio del turista. Nel quartiere di Santo Spirito esistono

ben 45 strutture di accoglienza della marginalità sociale”.

La piazza funziona quindi anche come luogo di incontro, aggregazione e tes-

situra di reti solidali per gli homelessche vanno a lavarsi ai Bagni Pubblici di

via S. Agostino, per gli abitanti dell’Albergo Popolare di via della Chiesa, per

chi normalmente vive nella strada, e per i cosiddetti soggetti a rischio del

quartiere.

UNA PIAZZA, MOLTE GEOGRAFIE

Santo Spirito è sempre stata una piazza “dalle molte vite”, frequentata da

tipi di persone anche molto diverse tra loro. Luogo in cui si realizza una pre-

senza relazionale tanto legata al corpo e alla materialità delle pietre e delle

architetture, quanto agli affetti invisibili e alla comunicazione simbolica tra

gli individui e lo spazio urbano.

L’atmosfera particolare di questo luogo, che favorisce gli incontri, gli scambi

e le forme di socializzazione, risente forse di alcune tracce, appena percet-

tibili, di una realtà storica che ha sedimentato situazioni sociali vissute in

questo spazio in tempi passati, come l’antica struttura economica del quar-

tiere, fondata sull’artigianato, che incoraggiava le forme di interazione e la

costruzione di relazioni sociali.

“Il bar della piazza non era solo un luogo di ritrovo, ma anche un ufficio di

collocamento permanente. Si trovava sempre qualche lavoretto da fare, per-

ché serviva un aiuto a questa o a quella bottega; così, in maniera spontanea,

si imparava il mestiere del pellettiere, del fabbro, del vasaio fiorentino, del

vetraio, del tessitore, del falegname. In quel modo si combinava la trasmis-

sione di conoscenze alle nuove generazioni e la costruzione di una rete di pic-

cola economia di quartiere”.

26

“Qui sono state fondate in passato diverse IPAB, strutture di beneficenza per i

bambini poveri dotate di scuole e botteghe artigiane, create dall’aristocrazia

fiorentina, come i Frescobaldi di via Maggio. Molte di queste esistono ancora,

con affitti vincolati: Il Conventino, gli Artigianelli, l’Istituto Fuso, il Pio Istituto

dei Bardi, dove si insegnava l’arte orafa e da cui provenivano i migliori orafi fio-

rentini. San Pier Martire, in Piazza San Felice, funziona oggi in parte come scuo-

la parificata, mentre alcuni dei fondi sono stati venduti a privati”.

“La tradizione artigianale del quartiere e l’esistenza di queste strutture garan-

tivano il mantenimento di un reticolo di piccole botteghe in tutta la zona

d’Oltrarno. Passando per strada si veniva investiti dagli odori più disparati:

legno, verniciatura, ferro bruciato, trucioli bagnati, pelli conciate, che si mesco-

lavano all’odore del cibo che usciva dalle finestre delle case; oggi questi odori

sono scomparsi”.

“Adesso gli artigiani sono diventati un problema, vivono della loro abilità e del

loro ingegno, ma devono affrontare molte difficoltà. La più grande tra queste è

avere la bottega, perché sempre più gli artigiani, che non possono comprare i

fondi dove lavorano, sono costretti ad abbandonarli e di conseguenza o cessare

l’attività, oppure trasferirla in zone lontane. Il problema è che fino a qualche

anno fa pagavano quote irrisorie di affitto per il fondo della bottega, magari 50

mila lire al mese; quote che sono salite oggi a cifre che possono arrivare fino ai

3 milioni al momento del rinnovo del contratto. Molti artigiani mantengono qui

la residenza, ma hanno il laboratorio in campagna.

Da parte dell’amministrazione non esiste una volontà seria di affrontare questo

problema. Il comune organizza corsi di formazione professionale all’artigianato

che sono solo un mezzo per ottenere finanziamenti, perché non insegnano nulla

a nessuno. L’amministrazione dovrebbe invece comprare i fondi al piano terra e

darli agli artigiani con affitti agevolati, considerando anche che l’Oltrarno è

pieno di strutture pubbliche abbandonate”.

“Un’altra caratteristica del quartiere di Santo Spirito, quella di essere stato nel

passato il più povero e popolare di Firenze, ha forse creato le condizioni per la

permanenza di una cultura della solidarietà e dell’accoglienza che ancora oggi è

percepibile nella vita della piazza.

Piazza Santo Spirito è sempre stata il luogo centrale del quartiere. Il mercatino

rionale che troviamo oggi ogni mattina è uno dei più antichi della città, e risale

al 1400.

Esiste però il problema del cosiddetto degrado, che ha origini complesse.

Innanzitutto bisogna considerare che ci troviamo in quello che era il quartiere

più povero e più popolare di Firenze, dove situazioni di microcriminalità sono in

qualche modo sempre esistite. Era anche il quartiere più comunista e più anar-

chico della città. Basti pensare a personaggi storici come il prete del quartiere,

soprannominato “il Cuba”, che è sempre stato il prete delle carceri e ha aiutato

molte persone della zona, perché questo era anche un quartiere di carcerati o

comunque di gente che, come succede in ogni situazione di estrema povertà,

aveva problemi con la legge”.

“Fino a qualche decennio fa la situazione di microcriminalità era circoscritta a

livello locale, tutti si conoscevano nel quartiere e la convivenza era sempre

stata tranquilla. I problemi veri sono cominciati dalla fine degli anni ‘60, quan-

do è arrivata l’eroina che si fa strada tra le fasce più povere della popolazione.

Qui gli spacciatori trovarono una situazione favorevole per i loro commerci: in

breve tempo Santo Spirito era diventato il quartiere dei tossicodipendenti; e da

qui nasce anche la fama della piazza come simbolo dello spaccio. Molti giovani

della zona sono stati falcidiati dall’eroina. Posseggo ancora una foto scattata

negli anni ‘70, durante un controllo di polizia sulla scalinata della chiesa, affol-

lata di ragazzi del quartiere: i giovani ritratti nella foto sono tutti morti di eroi-

na.

Ma anche durante gli anni ‘70 e fino all’inizio degli ‘80 la situazione, benché

molto grave, era in qualche modo sotto controllo, perché sempre di scala loca-

le. Ora non si capisce più nulla.

E non è tanto il problema della delinquenza portata dagli immigrati, come

27

1 l’ingresso principale (lato Borgo Tegolaio)

2 il sagrato della chiesa con gli scalini

3 il lato del sagrato

4 il lato Cabiria-Caffè Ricchi

5 l’angolo di Palazzo Guadagni con la seduta in

pietra, detto il molo

6 l’ingresso dal fondo e la parte di piazza dove

c’è il monumento su via S. Agostino

7 l’angolo dell’edicola e il lato dell’Osteria S. Spirito

e del Pop Caffè

8 l’angolo della caserma

9 la fontana, le panchine e gli alberi al centro della piazza

12

3

9

8

5

7

6

sostengono in molti. La presenza di extracomunitari nel quartiere non ha mai

rappresentato un problema, perché qui gli immigrati ci sono sempre stati: si

stava tra poveri.

Magari succedeva qualche lite tra noi, qualche piccolo “regolamento di conti”

che finiva al massimo con un bagno nella fontana, ma niente di più. Ricordo che

nelle sere d’estate si mangiava in piazza, si portavano fuori dalle case il cibo, i

tavoli e le sedie, si faceva il fuoco e si stava tutti insieme a cena. E spesso chi

passava per caso si sedeva a mangiare con noi”.

Ed è ancora più significativo il fatto che l’eroina, elemento di disgregazione e

polverizzazione sociale, non sia riuscita, come è successo nelle piazze di molte

città, a cancellare le reti di amicizia e solidarietà che ancora oggi caratteriz-

zano i rapporti tra i frequentatori più assidui.

Oggi Santo Spirito è una piazza urbana, di quartiere e di zona, che si anima di

varie geografie nelle diverse ore della giornata, effetto dell’intreccio tra le

trame socializzanti e i luoghi.

La configurazione spaziale e temporale della piazza è molto complessa, frut-

to dell’intersezione di almeno nove luoghi interni, che vivono situazioni diver-

se nell’arco della giornata.

La piazza, essendo priva di portici o altre strutture che possano facilitarne la

fruizione anche nei mesi invernali, assume caratteristiche diverse nei vari

periodi dell’anno. Durante la primavera, e soprattutto in estate, è sempre

molto frequentata da persone provenienti da ogni parte della città, sia di gior-

no che di notte, mentre in inverno diventa luogo d’incontro per chi abita nel

quartiere.

4

28

UN GIORNO D’ESTATE. I TEMPI E I LUOGHI DELLA PIAZZA

La piazza si anima presto lamattina, con gli ambulanti che montano il mercatino (nella parte che affaccia su via S. Agostino), la gente

che compra il giornale e fa colazione nei bar. Al mattino è una piazza di quartiere, dove si trovano le signore a fare la spesa e gli anzia-

ni a chiacchierare. I luoghi più vissuti in questa fascia oraria sono il fondo della piazza, dove viene fatto il mercato, e la zona centrale

della fontana: anziani sulle panchine, nipotini a giocare, persone che conversano.

Dal primo pomeriggio la piazza, che ha un’ottima esposizione, assume una connotazione più urbana: qualche turista si ferma a man-

giare un panino sul sagrato o alla fontana, qualcuno si riposa sulle panchine sotto gli alberi, altri leggono un libro o prendono il sole. Sulla

seduta in pietra di Palazzo Guadagni c’è sempre qualcuno: gente del quartiere, frequentatori “storici” della piazza, ospiti dell’Albergo

Popolare, homeless.

Dal tardo pomeriggio comincia ad arrivare la gente di piazza, i frequentatori più assidui che siedono di solito sul fondo del sagrato o

sui gradini della chiesa.

Al tramonto la piazza si popola di persone che rimangono fino all’ora di cena.

Alcuni sugli scalini della chiesa, molti al bar Cabiria, dentro e fuori, seduti ai tavoli o sui gradini del marciapiede; qualcuno al Caffè Ricchi,

altri al “bar del centro”, quello dell’Associazione Santo Spirito, bar estivo all’aperto che occupa lo spazio adiacente alla fontana.

29

Alle otto i carabinieri, che presidiano sempre lo spazio, si danno il cambio e certe volte la piazza rimane scoperta per un po’, fino all’ar-

rivo della pattuglia successiva.

All’ora di cenasono pieni sia i tavoli del Cabiria (aperitivo lungo con spuntino), che quelli del Borgo Antico (trattoria e pizzeria); sono pieni

anche quelli del Caffé Ricchi, che ha aperto da poco un nuovo ristorante “solo pesce” (il più caro in assoluto della piazza) e dell’Osteria

Santo Spirito (piuttosto cara anche questa). Sugli scalini rimangono poche persone.

Alle dieci comincia lo spettacolo delle notti di Santo Spirito, sul palco posto a margine della zona centrale della fontana. Il palco ha un

doppio affaccio: alcuni spettacoli sono rivolti verso “l’esterno”, verso la facciata della chiesa, altri verso il centro della piazza. Il pub-

blico, sempre numeroso, è composto in maggioranza da persone del quartiere (anziani, famiglie con bambini, giovani coppie, ecc.).

Gli spettacoli finiscono alle undici ed è l’ora in cui la piazza comincia a riempirsi di gente (molti ci passano la serata, altri passano “a

vedere chi c’è” e bere qualcosa).

A questo punto è difficile trovare un posto a sedere sulle scale. Anche il sagrato è affollato di persone, sedute in cerchio; qualcuno gioca,

qualcuno suona, qualcuno vende birre fresche a poco prezzo; ogni tanto arriva Roberto, il mangiafuoco più conosciuto in città, che, se ne

ha voglia, improvvisa qualche spettacolo.

Molta gente è in piedi tra la chiesa e la fontana, e si addensa in prossimità dei bar. L’angolo più tranquillo è quello del Pop Caffè, a cui è

vietato servire da bere ai tavoli esterni.

Durante le sere d’estate Santo Spirito, frequentata da molta gente di tutti i tipi, diventa uno dei luoghi di incontro e di aggregazione più

significativi della città.

Una delle caratteristiche distintive della piazza è quella di avere sempre funzionato come luogo dove le persone si conoscono, si incon-

trano, scambiano idee; questo ha generato talvolta gruppi di affinità di varia natura. Citiamo solo due esempi: negli anni ‘70 il primo

nucleo fiorentino di Lotta Continua nacque per iniziativa di alcune persone che si trovavano a Santo Spirito, e così accade oggi per alcu-

ni gruppi di espressione artistica, come il MAC.

Intorno alle due la piazza si svuota, ma rimangono sempre gruppi di persone, più o meno numerosi, che trascorrono la notte continuan-

do a parlare, bere birra e suonare, incrociandosi tra loro. Da varie parti della piazza coloro che rimangono confluiscono a poco a poco

nella zona centrale della fontana, quella più lontana dalle abitazioni, per disturbare il meno possibile i residenti.

30

ESTATE 2000Sembrava una giornata come tante...

Tutto filava liscio fino a mezzanotte e mezzo, l’una, quando, d’improvviso, un

presunto problema di ordine pubblico si trasformò in questione di igiene urba-

na.

Domenica 2 luglio- Compare sui giornali un articolo di cronaca (prima pagina

de La Nazionedi Firenze) in cui si descrive il degrado sociale e igienico della

piazza, “frequentata da gente sporca e poco raccomandabile fino all’alba”.

Il sindaco emette un’ordinanza che impone la pulizia di Santo Spirito ogni sera

alle 0.30.

Lunedì 3 luglio - Ore 0.30: arrivano in piazza due grandi camion del

Quadrifoglio, società che ha in appalto dal comune di Firenze il lavoro di rac-

colta dei rifiuti e di pulizia delle strade. Arrivano anche due pattuglie di vigi-

li e un furgone di carabinieri (nel caso che le forze dell’ordine che presidiano

sempre la piazza non fossero sufficienti a placare le eventuali proteste).

I carabinieri cominciano, a partire dal lato della caserma, a invitare le perso-

ne a spostarsi dal sagrato e dalle scale. La gente si sposta, malvolentieri ma

in silenzio, e si avvicina al lato del marciapiede (angolo Cabiria).

Una volta liberato il campo (un’operazione che non richiede più di dieci minu-

ti) un addetto del Quadrifoglio, con una tuta da marziano, comincia a lavare il

sagrato con l’idrante mentre i due camion cominciano a passare avanti e

indietro spruzzando acqua mista a sapone e disinfettante.

La gente borbotta ma, dopo essere rimasta per un po’ in piedi, se ne va dalla

piazza. E questo è lo scopo reale dell’”Operazione Igiene Pubblica”: creare

una situazione di estremo disagio. I camion del Quadrifoglio, che riempiono

l’aria di gas di scarico, i mezzi dei vigili e delle forze dell’ordine occupano

quasi tutto lo spazio libero della piazza. Marciapiedi, gradini e sagrato della

chiesa vengono spruzzati e bagnati. Il tutto genera molto rumore e lascia

nell’aria un nauseante odore di Lysoform.

Rimangono i frequentatori più assidui, quelli che in piazza ci stanno di solito

dal pomeriggio fino a tardi la notte (le solite 20-30 facce che vedi tutti i gior-

ni, più qualcun altro), ad aspettare che finisca il “teatrino delle pulizie”, per

poi rioccupare il loro spazio di sempre. E ci si risiede quasi subito, non impor-

ta se le pietre dei gradini sono bagnate, ma ormai la piazza è vuota, è solo

l’una e mezza e sembrano le quattro di notte.

Per una settimana, ogni sera, la scena si ripete. Per le persone che frequen-

tano la piazza la tendenza ad abituarsi al fatto che “all’una ci sono le pulizie”

entra in conflitto con la coscienza del significato reale dell’ordinanza del sin-

daco: scoraggiare la fruizione dello spazio pubblico di Santo Spirito, e dare un

segnale della presenza dell’autorità cittadina: si può stare in piazza fino

all’una di notte, ora di chiusura dei locali.

Venerdi 7 luglio- Ore 1.00. La piazza è piena di persone, ovunque.

Solita procedura: arrivano i camion, i vigili e i carabinieri, che fanno sfollare

la gente. Oggi ci vuole più tempo del solito, la piazza è veramente affollata.

Arrivati a metà del sagrato, i carabinieri cominciano a incontrare un po’ di

resistenza, nel senso che le persone sedute, impegnate nel fare i fatti propri,

non si alzano né spontaneamente, né alla prima sollecitazione delle forze del-

l’ordine. Qualcuno chiede a un carabiniere (sono in quattro) chi ha avuto que-

sta “bella idea” delle pulizie; lui risponde, sorridente, che è stato il comune,

perché vuole mandare via la gente dalla piazza. Anche chiedendo a vigili e

operatori del Quadrifoglio la ragione reale di quest’ordinanza, la risposta che

si ottiene è sempre la solita: “Non abbiamo deciso noi, è un ordine del comu-

ne, a cui non piace che questa piazza sia così frequentata per tutta la notte”.

A un certo punto, dal lato del sagrato vola una bottiglia verso l’angolo ester-

no; dopo pochi minuti una seconda, poi un’altra ancora. I carabinieri sono

rimasti fermi, parlano tra loro, e uno dice: “Se rimaniamo qui tra poco ci bec-

chiamo una bottigliata in testa”. Gli altri sembrano essere d’accordo. Tornano

indietro e si mettono accanto ai camion a parlare con gli uomini del

Quadrifoglio. Dopo qualche minuto i camion fanno inversione e se ne vanno dal

fondo della piazza, mentre i carabinieri escono dall’ingresso principale. La

gente crea un corridoio silenzioso che lascia passare il furgone. A un tratto,

arrivati all’altezza del marciapiede del Cabiria, una ragazza sale sulla scalet-

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ta che c’è sul retro del furgone e improvvisa una danza che dura fino all’in-

crocio con via Maggio. La gente applaude lo spettacolo, mentre i carabinieri

fanno finta di nulla, e vanno via. Per stasera niente pulizie.

Sabato 8 luglio- Riprendono regolarmente le pulizie, con una scorta più con-

sistente di forze dell’ordine. Tutti si rendono conto dell’assurdità della cosa,

ma che fare?

Giovedì 13 luglio- Ormai la scena si ripete da dieci giorni, e la dinamica è sem-

pre la solita: le persone che decidono di rimanere, un numero maggiore

rispetto ai primi giorni, si spostano verso il centro della piazza o all’angolo

del Cabiria, aspettano che la pulizia finisca per poi tornare a sedersi. Stasera

ci sono dei ragazzi che, ironizzando sull’ordinanza, distribuiscono fogli di

giornale da mettere sui gradini bagnati.

Andati via i camion, le scale sono cosparse di giornali e la gente rimasta si

siede.

Seconda metà di luglio, primi di agosto. La piazza è sempre meno frequenta-

ta, la gente sta partendo per le vacanze, c’è la Festa dell’Unità alla Fortezza

da Basso dove si trovano i bar e le discoteche più alla moda della città: i prez-

zi sono ovunque altissimi, però i concerti sono gratis. Ma quello che più sco-

raggia le persone a frequentare la piazza è senza dubbio l’operazione di puli-

zia notturna, che costringe a spostarsi o ad andarsene ogni sera alla stessa

ora, come una sorta di chiusura della funzione pubblica dello spazio. È curio-

so notare che la pulizia viene fatta anche se ha piovuto tutto il giorno, e

quindi la piazza è già pulita e non c’è stato nessuno. Già nei primi giorni di

agosto si nota che la popolazione della piazza è sottoposta a una selezione

progressiva. Le persone che rimangono, e che incontri tutte le sere, sono

quelle che non hanno i soldi per andare in vacanza e che non si fanno sot-

trarre gli spazi dalle ordinanze del sindaco.

Agosto.A parte lo spopolamento della piazza, qualcosa si muove e in un certo

senso si rinnova.

Ogni notte qualche musicista di strada si ferma in piazza a suonare e nel giro

di pochi giorni si crea una band improvvisata che arriva verso le 2 di notte, si

unisce al gruppo dei frequentatori assidui e suona (chitarra, contrabbasso,

percussioni, sax, voce). Questo trasforma la geografia notturna della fre-

quentazione e della sosta: per fare in modo che la musica non disturbi gli abi-

tanti non si sta più sul marciapiede all’angolo del Cabiria, e quindi ci si sposta

sul palco nella parte centrale della piazza, la più lontana dalle abitazioni. Di

solito i carabinieri vanno via verso le 2, e intorno alle 4/5 della notte passa-

no sempre un paio di pattuglie di polizia a dare un’occhiata; non sono mai

arroganti, e spesso si fermano a fare due chiacchiere: la città è veramente

vuota, tutti sono in vacanza, e forse anche i poliziotti si annoiano e vengono

in piazza a sentire un po’ di musica...

Settembre.La gente è tornata dalle ferie, ma la piazza non è più affollata

come nelle serate di luglio. L’operazione di pulizia ha avuto l’effetto deside-

rato, le persone preferiscono andare in altri posti piuttosto che avere l’ap-

puntamento fisso con i camion del Quadrifoglio. Rimane comunque il gruppo

dei frequentatori assidui che, mescolandosi con gli abitanti del quartiere,

continua in qualche modo a mantenere in vita la dimensione pubblica della

piazza, anche nelle ore notturne. Le situazioni di incontro e di sosta si adden-

sano in corrispondenza dei bar e dei ristoranti, che con i grandi ombrelli a

coprire i tavoli esterni simulano per certi versi la funzione dei loggiati,

offrendo ripari anche quando il tempo comincia a essere non più favorevole

agli incontri negli spazi aperti. Altri luoghi interni alla piazza sempre fre-

quentati sono i gradini della chiesa, la fontana e il molo.

Ottobre.Finita la bella stagione, la piazza, che continua a essere molto fre-

quentata solo nei pomeriggi assolati, torna a una dimensione di quartiere.

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“... aumentano i senza casa e gli sfrattati, e paradossalmente aumentano

anche le case sfitte. Aumentano gli affitti ma i salari restano, per tanti, sala-

ri da fame. In questo quadro desolante l’amministrazione comunale pare

scomparsa, pronta ad avallare solo progetti che rendono denari, come nel

caso delle Murate, una speculazione che porterà alberghi e negozi, dopo che

per anni avevano parlato di alloggi in edilizia residenziale pubblica, di ripo-

polamento del centro cittadino, di strutture sociali e sanitarie per il quartie-

re di Santa Croce.

TUTTO CANCELLATO, I BISOGNI DEGLI ABITANTI NON SONO NIENTE DAVANTI ALLA

POSSIBILITÀ DI INCAMERARE RICCHEZZA...

sabato 25 novembre in Santa Croce contro lo stillicidio di sfratti esecutivi nei

confronti degli abitanti e contro la truffa delle Murate appuntamento alle ore

9,30 nel giardino di via dell’Agnolo."

(dal volantino a firma “L’assemblea del movimento di lotta per la casa”, “Di

nuovo in piazza contro i padroni della città” diffuso in occasione delle tre

manifestazioni di zona tenute fra novembre e dicembre 2000)

MOVIMENTO DI LOTTA PER LA CASAMANIFESTAZIONE S. CROCE 25/11/2000 Marvi Maggio

Il Movimento di Lotta per la Casa nasce a Firenze nel 1990, in concomitanza

con l’acutizzarsi e l’estendersi di processi di valorizzazione fondiaria ed

immobiliare che rendono la questione abitativa sempre più pressante. Il suo

scopo è garantire il diritto alla casa attraverso l’azione diretta, l’auto-orga-

nizzazione e l’autogestione. La pratica delle occupazioni di immobili inutiliz-

zati e della difesa degli inquilini dagli sfratti, si inscrive in una lotta com-

plessiva contro i responsabili del problema abitativo: proprietari fondiari,

imprese immobiliari ed istituzioni.

All’amministrazione ed allo Stato il movimento chiede di requisire le case sfit-

te, sanzionare gli affitti in nero ed allargare l’offerta di edilizia popolare. Lo

sforzo è quello di inserire la costruzione di strutture autonome, esterne alla

logica del mercato e del profitto, come le occupazioni, all’interno di una lotta

in grado di “aggredire” i meccanismi ed i termini complessivi delle contraddi-

zioni sociali, in modo da trovare soluzioni collettive e condivise invece che

individuali e selettive.

Le occupazioni sono quindi affiancate da manifestazioni, presidi, occupazioni

simboliche di luoghi come il duomo, il consiglio comunale e piazza della

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Giardino di via dell’Agnolo angolo via Borgo

Allegri. 25 novembre 2000 ore 10,

Manifestazione del Movimento di lotta per

la casa e del Comitato Santa Croce. Ci sono

già un po’ di persone davanti al giardino:

italiani, maghrebini, cinesi, rumeni, polacchi,

eritrei, di tutte le età. Appoggiato al cancel-

lo di ingresso c’è il pannello suddiviso in

quadri che illustra la vicenda delle Murate,

dalle promesse di un intervento di edilizia

sovvenzionata e di servizi per i residenti

del centro storico, alla resa alla logica spe-

culativa, che verrà raccontata dalla bandi-

trice un po’ di volte lungo il percorso.

Signoria, da accuse e proteste nei confronti delle immobiliari, da rappresen-

tazioni teatrali di strada che mettono in scena tematiche legate al diritto alla

casa. È un modo per imporre all’attenzione dell’intera città i propri obiettivi e

le proprie pratiche, alla ricerca di solidarietà e dell’allargamento della lotta

per il diritto alla città.

Il Movimento fra il novembre e il dicembre 2000 indice tre manifestazioni di

zona “contro i padroni della città” nei quartieri di Campo di Marte, Santa

Croce e Castello, individuati in relazione alla presenza di occupazioni o per

l’elevato numero di sfratti. L’obiettivo è creare vincoli di solidarietà fra gli

occupanti, gli sfrattati, i senza casa e gli altri abitanti della città, e far cre-

scere la consapevolezza delle cause che stanno alla base del problema abita-

tivo. Il corteo che si snoda per Santa Croce assume un significato particolare:

questo quartiere, popolare e proletario fino agli anni Settanta, ha progressi-

vamente perso il suo carattere ed ora si trova allo stadio finale di un proces-

so di espulsione della popolazione e delle attività che non sono in grado di

sostenere i prezzi imposti dal mercato fondiario ed immobiliare.

È il luogo dove è nato il Movimento di lotta per la casa e dove sono state

attuate la maggior parte delle prime occupazioni. Con questa manifestazione

attraversiamo i luoghi della memoria storica della sinistra rivoluzionaria fio-

rentina, e contemporaneamente assistiamo ad una protesta che rende visibi

li i propri valori: la solidarietà, l’uguaglianza nella diversità e la socialità

senza discriminazioni, ed esplicita ancora una volta i propri obiettivi: contra-

stare gli effetti della logica del profitto e della rendita sul territorio e riaf-

fermare il diritto alla casa ed allo spazio per tutti.

Il Movimento di Lotta per la casa, nel 2001 comprende circa 350 persone ed

autogestisce dodici occupazioni cinque delle quali in immobili di proprietà pri-

vata: si tratta di fabbriche, alloggi, un ex manicomio, un ex ospedale psichia-

trico infantile, un ex asilo nido vuoti da tempo. Delle dieci occupazioni pre-

senti nel 1993 solo quattro hanno resistito fino ad oggi; molti altri edifici sono

stati occupati, molti sono stati sgomberati. Le prime occupazioni nate nel

periodo dello scoppio del movimento degli studenti della Pantera e nel perio-

do ascendente della diffusione dei centri sociali, vedevano una grossa parte-

cipazione di giovani e studenti, cui si sono aggiunte le famiglie dei quartieri

popolari e successivamente, dopo il 1994, gli immigrati.

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“La nostra storia nasce nel 1990 in relazione ad un bisogno casa che all’epo-

ca era particolarmente sentito tra le persone: le coppie, i giovani e alcune

famiglie italiane. Molti erano studenti, altre erano famiglie dei quartieri che

non riuscivano a soddisfare il proprio bisogno abitativo. Ci furono un insieme

di incontri alla sede che all’epoca era dell’Unione Inquilini. Non c’era ancora il

costituendo movimento di lotta per la casa. In queste prime riunioni fu deli-

neato un primo programma che partì da uno stabile abbandonato in via di

Mezzo al numero 39: c’era stata una grossa speculazione, una storia di tan-

genti di Cragnotti, e qui i lavori non erano mai cominciati. Occuparono una

famiglia del quartiere e alcuni ragazzi studenti universitari. Erano due allog-

gi. E in più si fece una prima sede del movimento... subito dopo siamo riusci-

ti ad organizzare un’occupazione di uno stabile in via del Giglio, che è stata

abbastanza famosa, perché entrò in questa contraddizione sul diritto all’abi-

tazione, in un momento in cui esplodeva anche il fenomeno dei centri sociali

e la questione studentesca legata alla Pantera. Per cui veniva portata questa

contraddizione sul diritto all’abitare nella città, in particolare in quel momen-

to, nel centro cittadino. Questa occupazione di via del Giglio era mista: com-

prendeva famiglie, tantissimi giovani, coppie. Non c’era ancora in questa

prima fase del movimento questo fenomeno migratorio di famiglie immigra

te. Questo è legato agli anni successivi. C’era un bisogno degli studenti e di

famiglie italiane, anche dei quartieri popolari, che non riuscivano a soddisfa-

re il proprio bisogno abitativo. Poi voi pensate al contesto, affitti sempre più

cari, una speculazione che cominciava a macinare denari su denari, nessuno

riusciva a rispondere a questo bisogno casa”.

“...nello stesso anno alcune famiglie autonomamente, collegandosi al movi-

mento di lotta per la casa, occuparono sei alloggi in via Manni, angolo via

Gelli. Vennero a parlarne con noi. Si costituirono anche loro con il Movimento

di Lotta per la Casa. Erano tutte famiglie di Coverciano che abitavano con i

genitori o nelle case popolari però con una forma di sfratto... In quel momen-

to diventò determinante l’occupazione di via Manni perché dava una dimen-

sione popolare ad una questione che stava esplodendo...Subito dopo se ne

organizzò altre sei. Sempre case in edilizia pubblica. L’Unione Inquilini dava il

sostegno, esterno, però c’era, per lo meno in tutti i primi mesi del movimen-

to...si occuparono anche alcuni alloggi in via Ghibellina e in via delle Casine,

tre alloggi”.

Il corteo parte, percorre Borgo Allegri,

attraversa il vicino mercato di S. Ambrogio,

passa dalle Murate e piazza Santa Croce. In

quest’area negli anni ‘70 erano concentrate

le sedi storiche dell’estrema sinistra. Nei

primi anni ‘80 in via di Mezzo 46, già sede di

Lotta Continua per il Comunismo, si forma il

Centro di Comunicazione Antagonista, dal

quale hanno avuto origine il Movimento di

Lotta per la Casa, il centro sociale ex-

Emerson, la Camera del Lavoro Sociale, il

mensile Comunicazione Antagonista.

Lì vicino si trova il Quadrilatero con via di

Mezzo 39, la prima occupazione del

Movimento di lotta per la casa.

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“Il primo moto repressivo fu a giugno luglio del 90. Sgomberarono lo stabile

di via del Giglio e contemporaneamente quello di via Ghibellina, che erano

alloggi, con un livello di pesantezza dell’ordine pubblico enorme...In modo

spontaneo fu rioccupato la sera stessa lo stabile di via Aldini, dagli occupan-

ti di via del Giglio e da alcuni di via Ghibellina, non tutti... Il giorno dopo si

riuscì a sentire i poliziotti che parlavano di sgomberare le case di via

Manni...si riuscì ad organizzare l’occupazione la sera stessa, e la difesa alle

sei di mattina dell’occupazione di via Manni... L’anno dopo ci sono stati altri

sgomberi in via di Mezzo, però siamo riusciti in quei due, tre anni a ricostrui-

re un minimo di lavoro serio sui senza casa e sulla questione degli sfratti che

stava venendo fuori in modo prepotente nella città”.

“Questo è stato un po’ l’inizio. Poi ci sono stati degli anni di costruzione di

alcuni percorsi, alcuni sono riusciti, altri sono falliti. Ci sono state nuove occu-

pazioni, sono state sgomberate alcune case e ne sono state rioccupate altre.

Diciamo che c’è stato un periodo transitorio che è durato più o meno fino al

‘94. Nel ‘94 il movimento sceglie di cominciare a fare occupare anche famiglie

immigrate, perché riconosce i diritti delle persone che venivano anche da

altre terre e vivevano e lavoravano in questa città... Diciamo così: non è faci

le. Facciamo questo passo con l’occupazione di via del Romito... e con l’occu-

pazione di via Primo Maggio a Sesto Fiorentino, dove occupano sia famiglie

italiane, sia famiglie immigrate. Non è stato tutto rose e fiori, no anzi, però

poi piano piano... diciamo che i problemi non sono nati sulla questione del-

l’immigrazione, ma quando ci sono stati comportamenti che sono propri di

tutti i tessuti sociali che vivono situazioni di disagio”.

Dopo esperienze di occupazioni monoetniche che tendevano a mettere in atto

processi di esclusione, ora si cerca di realizzare in ogni occupazione un mix di

diversi gruppi di provenienza. In un primo tempo il rapporto fra italiani e

immigrati era equilibrato, ora la presenza di stranieri è sempre più prepon-

derante. La maggior parte degli occupanti oggi sono immigrati, oltre che

famiglie italiane a basso reddito e studenti fuori sede. La convivenza fra per-

sone differenti per cultura e valori talvolta è difficile, crea conflitti ma anche

crescita, per quanto faticosa. Impone di mettersi in discussione, ma anche di

escludere chi ha atteggiamenti discriminatori che contrastano fortemente

con le prospettive sociali e politiche del movimento.

Un problema particolare è costituito dal ruolo delle donne che, nelle culture di

alcuni gruppi di immigrati, è particolarmente subordinato: quelle “di una

Il corteo si conclude in piazza San Pierino.

La stessa piazza dove il 15 dicembre 1990,

una festa popolare contro l’eroina e per

rivendicare più spazi in città, organizzata

dall’Emerson e dal Circolo Sportivo autoge-

stito Spartaco, era finita con l’intervento

della polizia e con l’arresto di due compagni

per resistenza e lesioni a pubblico ufficiale.

In piazza San Pierino c’è il sole, si fa festa e

si balla, con l’arco in controluce e l’infilata

di via Palmieri, dove si trova la nuova sede

del Movimento...

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QUADRO 1Potete qui vedere il triste carcere delle Murate

Dove sono stati a marcire di giorno e di notte,

tra scarafaggi, topi e botte:

ladri, barboni, occupanti di case,

truffatori e puttane,

morti di fame,

sindacalisti,

ubriaconi, anarchici e comunisti.

QUADRO 3Passano i giorni, i mesi, gli anni

ma non succede niente,

di discorsi se ne fanno ancora

ma le Murate vanno in malora.

Solo d’estate c’è un locale nel cortile:

una birra 10.000 lire.

QUADRO 2Ma nell’anno 19.. ecco il nuovo carcere di

Sollicciano (un pò fuori mano)

le Murate restano vuote e sole

e inizia il tempo delle belle parole.

Si chiamano architetti,

si fanno grandi progetti

si organizzano convegni,

si prendono impegni:

si faranno alloggi popolari

botteghe artigiane e servizi sociali.

occupazione non vanno alle assemblee perché non le fanno uscire”. Non sono questioni facili da affrontare e il

Movimento di lotta per la Casa cerca di farlo “con la pazienza e con la discussione, fin quando si può”. In casi estremi

il movimento ha sempre preso provvedimenti prontamente, fino ad espellere chi aveva comportamenti inaccettabili.

Invece le situazioni meno eclatanti, ma più diffuse, di discriminazione e violenza nei confronti delle donne, risultano più

difficili da trattare e da risolvere, malgrado i tentativi non solo del Movimento, ma anche delle donne del centro socia-

le ex Emerson e di alcune occupanti. C’è da fare ancora un lungo lavoro, ma la convivenza crea i presupposti per supe-

rare gli stereotipi ed affrontare i problemi collettivamente, costruendo una alternativa reale fondata sull’accettazione

dell’altro e sul rispetto reciproco.

Per il movimento di lotta per la casa andare con le famiglie di immigrati occupanti nei quartieri popolari a difendere gli

inquilini dagli sfratti è un modo per favorire la creazione di reti di solidarietà e di conoscenza reciproca.

Abitare in una casa occupata implica un impegno nelle iniziative del movimento e un lavoro di sensibilizzazione nel quar-

tiere in cui ci si trova. In ogni edificio occupato c’è una stanza per le assemblee settimanali che vertono sulla gestione

della casa e sulle iniziative da prendere. Al lunedì invece si tiene l’assemblea del Movimento di lotta per la casa, che

coordina le attività e mette in discussione le proposte.

Nella sede esiste uno sportello sull’emergenza casa e sugli sfratti al quale si rivolge chi ha problemi abitativi: si trova

assistenza legale e si discute insieme agli attivisti del movimento sulle soluzioni possibili. Chi vuole occupare deve tene-

re conto anche degli oneri che questa scelta comporta: rischio di sgomberi con la polizia in assetto di guerra, denuncie

e processi, impegno a difendere gli inquilini dagli sfratti che avvengono in città e tutte le occupazioni del movimento.

Gli occupanti hanno tutti un reddito basso e alcuni sono disoccupati o sottoccupati. L’offerta pubblica è insufficiente

rispetto al loro bisogno. Molti non sono ammessi alle liste per l’accesso all’edilizia popolare, per esempio i singoli. Fra

gli occupanti c’è chi ha coscienza politica e chi ha semplicemente bisogno di una casa e questo è l’unico modo per otte-

nerla. Il movimento si impegna da sempre nella difesa degli sfrattati e negli ultimi anni contro i centri di “permanenza

temporanea” per gli immigrati e in favore del diritto al permesso di soggiorno per tutti.

“...si parla inizialmente di diritto alla casa, ma poi anche di avere occupazioni in diversi punti della città e di far vede-

re che rappresentano un modo di vivere fra di noi e di rispondere ai bisogni”.

“Abbiamo avuto un momentaccio nella nostra storia, che è stato fra il 95 e il 96, nel momento di maggior forza, che è

stato rappresentato dagli organi repressivi. Dopo l’occupazione del Duomo e del Consiglio Comunale c’è stata una onda-

ta repressiva fortissima, alimentata da una serie di figure di pentiti del movimento che ci hanno messo in difficoltà per

lo meno un anno e mezzo. Tutte le iniziative del movimento per un anno e mezzo sono state blindate dalle forze del-

l’ordine. È partita una inchiesta, che per fortuna non ha avuto conseguenze, per il reato di associazione per delinquere

per una decina di noi”.

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QUADRO 4Ma arriva una proposta ben più conveniente,

allettante,

convincente.

Chi se ne frega di sfratti,

case e servizi sociali,

i privati si occupano solo di affari e capitali.

Faranno un grande albergo

con parcheggio a tergo

e negozi per vendere e farci spendere.

QUADRO 5Il nostro sindaco è contento:

ma che bell’affare, se ne può parlare,

un bell’albergo!

Un bel centro commerciale!

Fare le case per la gente

si sa che non rende niente.

E’ il nuovo che avanza:

800.000 lire per una stanza.

Per l’occupazione del Consiglio Comunale del 6 novembre 1995 ci sono stati 17 rinvii a giudizio per interruzione di pub-

blico ufficio, violenza e minaccia a pubblico ufficiale, resistenza. Tre dei 17 inquisiti diventano collaboratori di giustizia

e consentono di montare un processo per il reato di “associazione per delinquere”. I tre collaboratori insieme ad altri

ex occupanti, in tutto quattro italiani e due immigrati, accusano gli attivisti del Movimento di essere “attestati su posi-

zioni ideologiche estremiste facendo della lotta per la casa unicamente uno strumento per contrapporsi allo Stato” (“Le

tappe del processo per l’occupazione del Consiglio Comunale”, Comunicazione Antagonista, n.11, dicembre 1998). La

magistratura e la polizia puntano a sostenere che il Movimento di lotta per la casa è un organismo in cui si sono “infil-

trati” esponenti della locale autonomia, che avrebbero formato una sorta di cupola che lo controlla, tenendo in ostag-

gio i senza casa per costringerli a contestazioni violente contro lo stato. L’accusa è stata archiviata, ammettendo che

gli scopi del movimento non sono altro che lottare per affermare il diritto alla casa.

“.. E quello è stato il momento più difficile... eravamo impossibilitati proprio a fare occupazioni. Ne avevamo fatta una

in una palazzina alle Cascine: è stata sgomberata dopo due mesi da 50 vigili e 200 poliziotti, con botte agli occupanti.

Le cocche le tirarono i vigili, furono i vigili che spaccarono le case, riempirono di botte gli occupanti. Insomma è stato il

periodo peggiore nella nostra storia”.

“Il primo momento di tregua è stato probabilmente quest’estate (1999) quando hanno accettato un insieme di proposte,

cioè un tavolo pubblico sull’autorecupero. Una soluzione non di ordine pubblico per due occupazioni...”

Per garantire agli occupanti la permanenza nelle loro case, dal 1993 il movimento propone al comune di “legalizzare”

l’autorecupero già in atto nelle occupazioni, come modello replicabile di soluzione alla questione abitativa, fondato sulla

partecipazione degli abitanti alla progettazione ed alla costruzione, sull’autogestione, sul recupero e quindi sul rici-

claggio di risorse altrimenti destinate all’abbattimento e al non utilizzo. Tuttavia fino al 1998 non ha ottenuto alcuna

attenzione da parte delle amministrazioni di diverso colore politico che si sono succedute nel corso del tempo.

L’autorecupero prevede la permanenza degli occupanti negli stabili occupati e la loro partecipazione alla costruzione

delle parti non strutturali, mentre il Comune si dovrebbe far carico delle altre. Via Aldini, l’ex Asilo Ritter, cui si è suc-

cessivamente aggiunta San Salvi, la prima di proprietà della ASL e le altre due del Comune, sono state proposte come

candidate di questa nuova pratica. Per il momento l’amministrazione ha accettato la sperimentazione solo sull’Asilo

Ritter, pretendendo la formazione di una cooperativa e mettendo in dubbio il diritto degli occupanti degli altri edifici a

rimanere nelle loro case.

“ora... siamo di nuovo con l’acqua alla gola sia sull’emergenza abitativa sia sulla questione degli sfratti, perché per la

questione degli sfratti le uniche soluzioni che ci propongono sono queste dei contributi. E di sfratti ne abbiamo tanti”.

(intervista a un attivista del Movimento di Lotta per la Casa)

L’obiettivo è “ un progetto più ampio di ricomposizione sociale tra tutti coloro che vivono il problema abitativo e che lo

vogliono collegare a tutte le battaglie contro questa forma di società”.

(“La nuova fase del Movimento di lotta per la casa”, Comunicazione Antagonista, n. 8, giugno 1998)