Evoluzione tematica e stilistica nella narrativa di Niccolò Ammaniti

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SIENA DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE, SCIENZE UMANE E DELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE Corso di Laurea in Lettere Evoluzione tematica e stilistica nella narrativa di Niccolò Ammaniti Tesi di laurea di Nicola Brandini Relatrice: Prof. ssa Simona Micali Anno accademico 2012/2013

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SIENA

DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE, SCIENZE UMANE E DELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE

Corso di Laurea in Lettere

Evoluzione tematica e stilistica nella narrativa di Niccolò Ammaniti

Tesi di laurea di Nicola Brandini

Relatrice: Prof. ssa Simona Micali

Anno accademico 2012/2013

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Indice

Introduzione. Ammaniti: un modello letterario contemporaneo p. 7

Capitolo primo. Branchie: romanzo ‘contaminato’ 15

Capitolo secondo. Ti prendo e ti porto via: romanzo della maturazione 35

Riferimenti bibliografici 57

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Alla professoressa Simona Micali per il supporto,

ai miei genitori per la fiducia,

e ad Amanda, per tutto.

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Introduzione

Ammaniti: un modello letterario contemporaneo

La produzione letteraria contemporanea (o post-contemporanea, che dir si

voglia) è caratterizzata in primis dall’estrema accessibilità. La letteratura, negli

ultimi trent’anni, è diventata un bene ‘di uso e consumo’: non solo il lettore, ma

anche lo scrittore possono accedervi con grande facilità. Il fenomeno di

‘democratizzazione’ dell’opera letteraria, di per sé positivo, comporta tuttavia i rischi

di una degenerazione ‘anarchica’, dovuta alla crescita esponenziale delle

pubblicazioni e a un generale appiattimento qualitativo. Il pubblico, «il quale […]

non è più costituito, se non in minima parte, da persone dotate di una formazione

compiutamente umanistica, in grado di riconoscere la superiorità di una nuova opera

grazie a un confronto ampio con la tradizione più alta»1, non ha più un metro di

giudizio che gli permetta di capire quali sono le opere che hanno valore. Nel labirinto

della narrativa contemporanea rischiano di perdersi anche la critica e la storiografia,

le quali, manchevoli «di un canone condiviso, tale da indicare modelli con cui

confrontare le nuove opere»2, tendono a considerare il nuovo come qualcosa di

‘basso’, minore rispetto al classico, e perciò oggetto poco rilevante dal punto di vista

accademico. Per il mio lavoro di tesi, ho deciso dunque di raccogliere l’invito di

Alberto Casadei a «cercare linee forti, che impediscano di sottovalutare opere !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

1 A. CASADEI, Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, Società editrice il Mulino, Bologna 2007, pp. 7-8 2 Ivi, p. 27

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importanti, riconoscibili in primo luogo attraverso il loro rapporto non banale con la

tradizione e la loro cifra stilistica inconsueta»3 e, nel groviglio solo apparentemente

inestricabile della letteratura di oggi, individuare un modello narrativo ben

riconoscibile: quello di Niccolò Ammaniti.

La narrativa di Niccolò Ammaniti nasce nell’ambito della letteratura pulp4.

Parlare di pulp, in Italia, significa fare riferimento all’antologia Gioventù Cannibale.

La prima antologia italiana dell’orrore estremo, pubblicata nel 1996 da Einaudi

nella collana «Stile libero». Daniele Brolli, il curatore, riunisce i racconti di alcuni

giovani scrittori5 accomunati da un realismo crudo ed efferato, ma anche

dall’ibridazione tra generi letterari colti e popolari e da apporti di cultura pop.

Nell’introduzione alla sua antologia, Brolli li definisce così:

Una generazione di scrittori che rifiuta l’omologazione […] che si cimenta con le zone d’ombra della nostra vita quotidiana scoprendovi una lingua ancora in via di formazione che raccoglie senza falsi pudori le sue parole dai palinsesti televisivi, dalla cultura di strada, dal cinema di genere, dalla musica pop. […] Il risultato è una scrittura di laboratorio che mescola sostanze tra loro distanti […] goliardia scolastica, slogan pubblicitari, melodie popolari, prodotti di consumo… il tutto impastato con molto, molto sangue. […] La loro scrittura è vorace e, inesausta, fagocita tutto, inghiotte pure se stessa. […] È un linguaggio che si spinge costantemente oltre e che in questo «andare oltre» si libera del passato scoprendo nuovi territori che fanno piazza pulita degli ultimi avanzi di «letteratura».6

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!3 Ivi, p. 10 4 Il termine pulp, letteralmente ‘polpa, poltiglia’, sta ad indicare una letteratura di consumo che punta su temi come sesso, sangue, crimine, violenza. In Italia la sua diffusione è dovuta soprattutto al successo internazionale del film di Quentin Tarantino Pulp Fiction (1994). 5 Niccolò Ammaniti, Luisa Brancaccio, Alda Teodorani, Aldo Nove, Daniele Luttazzi, Andrea G. Pinketts, Massimiliano Governi, Matteo Curtoni, Matteo Galiazzo, Stefano Massaron, Paolo Caredda. A questi si aggiungono Enrico Brizzi e Tiziano Scarpa, che non hanno partecipato all’antologia e che, tuttavia, sono gli unici (insieme ad Ammaniti, Pinketts e Nove) ad essersi affermati. Inoltre, Niccolò Ammaniti e Tiziano Scarpa sono stati i vincitori del Premio Strega, uno dei riconoscimenti letterari più prestigiosi in Italia, rispettivamente nel 2006 con Come Dio comanda e nel 2009 con Stabat Mater. 6 D. BROLLI, Le favole cambiano, in BROLLI (a cura di), Gioventù Cannibale. La prima antologia italiana dell’orrore estremo (1996), Einaudi Stile Libero, Torino 2006, pp. VIII-IX.

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La generazione di scrittori presentata da Brolli introduce nella letteratura italiana un

nuovo modo di scrivere storie, sconosciuto fino a quel momento nella nostra

tradizione letteraria. I ‘cannibali’ denunciano l’assenza di valori e il vuoto della

società consumistica e massmediale, «riprodotto per quanto è possibile senza filtri, e

proprio perciò esibito con la massima evidenza nella sua pochezza e nel suo

squallore»7, tanto che la loro scrittura si presenta spesso come un «frullato di

spezzoni di linguaggi extraletterari montati in modo casuale»8. Il linguaggio che

utilizzano è tipico «dell’italiano letterario neostandard, non lontano dalla lingua dei

film e telefilm americani doppiati, delle fictions, dell’informazione televisiva»9 e la

sintassi è «narrativamente veloce e in perpetuo movimento, ma chiara e decisa a

risparmiare al lettore decodifiche troppo fastidiose»10. Dal punto di vista stilistico, la

narrativa cannibale segna un deciso ritorno al realismo, con un «sicuro primato della

descrizione oggettiva delle cose, azioni ed eventi, a scapito della loro narrazione.

Poca introspezione, molti oggetti; meno spazio (almeno all’apparenza) all’interiorità

[…] e sempre più attrazione per la superficie delle cose, descritta con minuzia e

seduzione iperrealista»11. Sul piano tematico è evidente l’influenza dei mass-media e

della cultura di massa (televisione, cinema, videoclips, fumetti, videogiochi). La

violenza esce dalle strutture profonde e si fa «tema esplicito, esibito più o meno

teatralmente»12, così come l’erotismo, che viene sostituito sempre più spesso dalla

pornografia. L’umorismo, procedimento narrativo privilegiato, riesce a concretizzare

un ideale condiviso da questa nuova generazione di scrittori: quello di «narrare senza

partecipazione»13 (ed è significativo che spesso, accanto allo sguardo dell’autore, si

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!7 L. MATT, Appunti sparsi sulla narrativa cosiddetta cannibale (o pulp), «Nuova corrente», LV, 2008, p.287 8 Ivi, p. 296 9 G. SIMONETTI, Sul romanzo italiano di oggi. Nuclei tematici e costanti figurali, in «Contemporanea», 4, 2006, p. 59 10 Ivi, pp. 58-59 11 Ivi, p. 66 12 Ivi, p. 58 13 Ivi, p. 67

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trovi «l’occhio di un obiettivo – cinepresa, videocamera o apparecchio fotografico»

così che «la prospettiva di chi narra arriva a confondersi con un occhio artificiale,

indifferente, che riproduce, desidera e non giudica»14).

Ammaniti partecipa all’antologia con Seratina, racconto in bilico tra l’horror

e l’ironico, scritto a quattro mani con Luisa Brancaccio. Il racconto è, in effetti, la

forma narrativa che permette all’autore di esprimere al meglio la propria vena pulp

(si veda, a proposito, la raccolta di racconti Fango, pubblicata nel 1996). Afferma il

critico Alberto Casadei:

Oggi possiamo affermare che il pulp italiano è stato un fenomeno bifronte: da un lato ha costituito una maniera sin troppo facile di esposizione del ‘marcio’ sociale e culturale in forma banalmente grottesca e velleitariamente trasgressiva; dall’altro ha rappresentato nei casi migliori un allontanamento dalla logica auto-riproduttiva della letteratura commerciale.15

Mentre per molti degli scrittori pulp la consapevole adesione alla tendenza

‘cannibale’ si è rivelata una forma di sperimentalismo fine a se stesso (e dunque,

come sostiene Casadei, quella ‘trasgressione’ è stata incanalata all’interno di un caso

editoriale ‘commerciale’), per Ammaniti è stata l’occasione per mostrare il proprio

talento e, in seguito, intraprendere un percorso di maturazione narrativa. Così lo

scrittore sul suo rapporto con i ‘cannibali’, in un’intervista rilasciata alla Società

Dante Alighieri:

Quando nacque questa faccenda dei cannibali, eravamo degli esordienti o poco più. I giornali volevano i cannibali, l'editoria pure, e noi ci siamo adeguati. Ma non ho mai temuto di rimanere cannibale a vita.16

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!14 Ivi, p. 69-70 15 A. CASADEI, Op. cit., p. 70 16 Cfr. Società Dante Alighieri Sezione di Lucerna: http://www.dantelucerna.ch/pdf/att20020225.pdf (ultima consultazione 09/02/2014)

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Branchie, il primo romanzo pubblicato da Ammaniti, è forse l’ultimo frutto della sua

esperienza ‘cannibale’. Nelle opere successive, al realismo crudo di matrice pulp si

mescolano i due elementi chiave dello ‘stile Ammaniti’: la comicità grottesca dei

personaggi ‘da commedia all’italiana’ e l’attenzione alle realtà sociali più marginali e

degradate (che ha portato Filippo La Porta a definire Ammaniti «il Dickens di

oggi»17). Al contrario della narrativa cannibale, nella quale «gli ambienti descritti

sono indistinguibili da quelli immortalati in certi film americani (che a loro volta

descrivono scenari adattabili ad ogni mercato)» e «non c’è alcun elemento che

rimandi alla specifica situazione italiana»18, Ammaniti mette in scena personaggi e

contesti tipici della società italiana contemporanea. Nell’intervista di Christian

Raimo, pubblicata sulla rivista «Rolling Stone» nel 2013, lo scrittore dichiara:

Coi generi io ci gioco e mi diverto, ma non sono classificabile come autore ‘di genere’, non possono dire “Ammaniti è uno scrittore di thriller, Ammaniti è uno scrittore di fantascienza o fantasy”. Le storie che racconto sono estremamente italiane, però partono da premesse che hanno a che fare con le cose che mi interessano. […] I personaggi sono personaggi tipicamente italiani nei quali i lettori, se pure non si riconoscono, almeno sanno di chi cazzo sto parlando, perché conoscono quel contesto.19

È proprio l’ibridazione tra modelli stranieri e ambientazioni specificamente italiane a

rendere difficile la collocazione delle opere di Ammaniti all’interno di un genere ben

definito. Il suo stile, così singolare, ha finito per definire un genere autonomo e ben

riconoscibile nel panorama letterario odierno.

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!17 L’articolo di La Porta, uscito sul mensile Repubblica XL nel 2006, è disponibile su http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2006/11/20/stroncature-doc-n-1-ammaniti-come-dio-comanda/ (ultima consultazione: 09/02/2014) 18 L. MATT, Op. cit., p. 297; l’americanizzazione e la genericità dell’ambientazione non sono difetti imputabili a tutti i cannibali – senz’altro non a Scarpa, Nove e Brizzi. 19 C. RAIMO, L’intervista lunga: Christian Raimo incontra Niccolò Ammaniti, in «Rolling Stone», 27/11/2013: http://www.rollingstonemagazine.it/cultura/interviste-cultura/christian-raimo-intervista-niccolo-ammaniti/ (ultima consultazione: 09/02/2014)

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Lo scopo del mio lavoro è mostrare il passaggio dalla forma rudimentale e

‘cannibale’ di Branchie (1997), romanzo d’esordio, al modello narrativo più maturo

ed elaborato presente in Ti prendo e ti porto via (1999), secondo romanzo pubblicato

dall’autore. Il primo capitolo è improntato sull’analisi stilistica e tematica di

Branchie, definito romanzo ‘contaminato’ in virtù dei numerosi influssi culturali che

ne condizionano la scrittura. Lo stesso autore definisce il suo primo lavoro «una

fusione di elementi assolutamente senza senso… che dipendeva da un mio personale

amore per la letteratura, per il cinema»20. Lo stile e i temi, infatti, sono ancora molto

legati alla letteratura cannibale: Branchie è un ‘frullato’ di elementi tipici

dell’immaginario pulp e della cultura pop, spinti fino alla macabra degenerazione. Le

avventure caotiche e surreali narrate in prima persona dal protagonista Marco Donati,

malato terminale di cancro, lo portano a somigliare a un player, personaggio-

giocatore impegnato a superare prove come all’interno di un videogioco. Tuttavia,

Branchie è un romanzo privo della funzione formativa tipica del Bildungsroman: il

protagonista, trascinato dagli eventi, agisce senza mai raggiungere una piena

consapevolezza di sé e delle proprie azioni. Anche in Branchie, come nei racconti

‘cannibali’ che lo avevano preceduto, Ammaniti «non propone catarsi» e « non porta

a una maggiore comprensione della realtà»21 i suoi personaggi. Nel secondo capitolo

del mio lavoro prendo in esame Ti prendo e ti porto via, romanzo che segna la

maturazione narrativa dell’autore e l’allontanamento dai canoni della letteratura

cannibale. Dal punto di vista tecnico e stilistico, Ammaniti dimostra di aver acquisito

le capacità narrative di un vero romanziere. La struttura e la trama sono più

complesse e razionali rispetto a quelle di Branchie e così la tipologia di voce

narrante, non più autodiegetica (caratteristica comune alla maggior parte delle opere

cannibali) bensì eterodiegetica e capace di mantenere contemporaneamente più punti

di osservazione (quello dell’autore implicito e quello di ogni personaggio, sempre

espressi attraverso le terza persona). L’evoluzione narrativa interessa anche i temi. In

Ti prendo e ti porto via, Ammaniti introduce alcuni tòpoi che saranno ricorrenti nelle

opere successive: l’adolescenza, il mondo degli adulti ‘disorientati’ e il contesto !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

20 Ibidem 21 A. CASADEI, Op. cit., p. 72

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socio-culturale degradato della periferia italiana. Le esperienze che l’autore fa vivere

a Pietro, il protagonista adolescente del romanzo, costituiscono le fasi di un percorso

di maturazione; da questo punto di vista Ti prendo e ti porto via si avvicina al

romanzo di formazione. Più in generale, nella sua seconda opera, Ammaniti recupera

alcuni temi tradizionali (amicizia, amore, vendetta, tradimento), assenti nella prima

fase della sua produzione. È anche attraverso il recupero della tradizione che

Ammaniti abbandona lo sterile sperimentalismo che ha caratterizzato la parentesi

cannibale, rendendosi autonomo e sviluppando la fisionomia narrativa che

caratterizza il suo stile originale. Sono d’accordo con Casadei e con la sua idea

riguardo l’influenza della tradizione sul romanzo contemporaneo, che ritengo

applicabile all’esperienza letteraria di Ammaniti:

Per uno scrittore è possibile se non necessario reinterpretare la tradizione letteraria, intesa in primo luogo come eredità da riconquistare. Nel suo insieme, il patrimonio comune che possiamo definire tradizione, più ancora che limitare l’individualismo […], se accolto criticamente e attivamente può oggi ridare profondità storica al fare letterario, inteso come elaborazione autonoma ma non solipsistica. Proprio il confronto con le grandi forme tradizionali […] rigenera la possibilità di uno stile, che diventa non tanto un’espressione individuale di retorica condivisa […] bensì l’acquisizione […] di una fisionomia riconoscibile.22

Ad oggi, Niccolò Ammaniti ha pubblicato altri quattro romanzi (Io non ho

paura [2001], Come Dio comanda [2006], Che la festa cominci [2009], Io e te

[2010]), che, nelle linee tematiche e nello stile, riprendono il modello narrativo

proposto in Ti prendo e ti porto via. Inoltre, i suoi soggetti hanno colpito

l’immaginario di registi quali Marco Risi, Francesco Ranieri Martinotti, Gabriele

Salvatores e Bernardo Bertolucci23. La maturazione narrativa e le trasposizioni

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!22 A. CASADEI, Op. cit., p. 11 23! Il film di Marco Risi L’ultimo capodanno (1998) è tratto da L’ultimo capodanno dell’umanità, racconto inserito nella raccolta Fango; il film Branchie (1999), tratto dall’omonimo romanzo, è di Francesco Ranieri Martinotti; a Gabriele Salvatores si devono le trasposizioni cinematografiche di Io non ho paura (2003) e Come Dio comanda (2008) e a Bernardo Bertolucci quella di Io e te (2012).!

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cinematografiche dei suoi romanzi hanno reso Ammaniti uno degli scrittori più

conosciuti ed apprezzati degli ultimi anni. Il passaggio da Branchie a Ti prendo e ti

porto via segna, infatti, una svolta anche nel profilo del lettore-tipo delle sue opere:

da un pubblico ‘di nicchia’, cultore del genere pulp degli esordi, si passa a un

pubblico più ampio e meno specializzato. L’apertura al grande pubblico non significa

tuttavia un ‘tradimento’ delle origini, bensì un arricchimento: lo stile di Ammaniti è

così amato perché riesce a coniugare il linguaggio comune e i riferimenti alla cultura

di massa (già presenti nel periodo ‘cannibale’) a una costruzione narrativa solida.

Inoltre, l’assegnazione del Premio Strega per Come Dio comanda, nel 2007,

evidenzia il giudizio positivo della critica, che ha riconosciuto nella prosa matura di

Ammaniti un modello letterario di qualità.

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

Capitolo primo

Branchie: romanzo ‘contaminato’

Un’analisi approfondita dell’opera di Niccolò Ammaniti non può prescindere

da Branchie, il romanzo d’esordio. Il modello narrativo dello scrittore, di cui

osserveremo l’evoluzione nel prossimo capitolo, si presenta qui nella sua forma più

rudimentale. La genesi di Branchie, della quale ci informa Ammaniti nella lettera di

introduzione al romanzo (Ai miei lettori), è tanto bizzarra quanto importante per

capire molti elementi del racconto stesso: il romanzo è nato «come un tumore

(maligno?) di una tesi in biologia»1, il testo, infatti, ha preso vita durante

l’elaborazione della tesi di laurea in biologia dell’autore (mai portata a termine). Il

romanzo, scritto nel 1993 e pubblicato per la prima volta dalla casa editrice Ediesse,

«uscì in sordina»2 con il titolo branchie! (1994) . L’edizione di cui mi occupo è però

quella «interamente rivista»3 dall’autore, pubblicata da Einaudi tre anni più tardi, con

il titolo definitivo Branchie: le modifiche apportate hanno trasformato il romanzo

originale, definito dallo scrittore un «Club Sandwich a sei strati», in un «tramezzino

ripieno di baccalà, broccoli, maionese e cipolle al curry»4. La definizione di

Ammaniti lascia intendere che, nonostante la revisione ‘politically correct’ operata

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!1 N. AMMANITI, Ai miei lettori, in Branchie (1997), Einaudi Stile Libero, Torino 2006, p. V 2 Ibidem 3 Ivi, p. VI 4 Ibidem

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nel passaggio alla versione definitiva5, l’opera resta il frutto di uno stile eterogeneo e

centrifugato; in Branchie, infatti, si possono scorgere contaminazioni di generi molto

diversi tra loro: romanzo di denuncia, fumetto, videogioco, fiaba. Per questo motivo,

il romanzo d’esordio può essere ancora accostato alla letteratura cannibale.

In Branchie, lo svolgersi della trama va di pari passo con il modificarsi

dell’impostazione tematico-narrativa del racconto. Perciò, per riuscire ad analizzare

il romanzo cogliendone i vari temi e significati, dobbiamo innanzitutto avere

presente la sua struttura. La storia, che ha per protagonista Marco Donati, è suddivisa

da Ammaniti in tre parti (Roma, Nuova Delhi, Il Castello) che costituiscono la spina

dorsale del racconto. A queste si aggiunge un elenco dei personaggi stilato

dall’autore, che precede l’inizio del racconto (Personaggi principali), e una breve

conclusione del protagonista-narratore (Due parole di conclusione). Di particolare

rilevanza sono le due epigrafi che aprono il romanzo, nelle quali si fa

contemporaneamente riferimento a Dino Buzzati e Iggy Pop6. Se l’epigrafe è per

definizione la citazione di un passo di autore o di opera illustre posta in testa a uno

scritto per confermare con parole autorevoli quanto si sta per dire, in Branchie, le

parole di Buzzati e Iggy Pop anticipano perfettamente quanto seguirà. Il brano dello

scrittore bellunese descrive metaforicamente il sentimento di disprezzo per la vita

che Marco prova nella prima parte del romanzo (Roma), mentre la frase «il pesce non

pensa, perché il pesce sa» (p. 1), tratta dalla canzone di Iggy Pop, definisce

l’atteggiamento del protagonista che, nella seconda e terza parte (Nuova Delhi e Il

Castello), agisce senza mai pensare.

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!5 Così presuppongo, poiché la prima edizione (branchie!) è oggi irreperibile (ebbe una piccolissima tiratura, circa trecento copie) e non viene mai menzionata dalla critica. 6 La citazione di Dino Buzzati è tratta da In quel preciso momento (1950), raccolta di prose brevi dello scrittore bellunese: «La ragazza disse: “A me piace la vita, sa?” / “Come? Come ha detto?” / “La vita mi piace, ho detto.” / “Ah sì? Mi spieghi, mi spieghi bene.” / “A me piace, ecco, e andarmene mi rincrescerebbe moltissimo.” / “Signorina, ci spieghi, è terribilmente interessante… Su, voi, di là, venite anche voi a sentire, la signorina qui dice che la vita le piace!”». L’aforisma di Iggy Pop è presente nella canzone This Is a Film scritta nel 1992 con Goran Bregovic.

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Roma, la prima parte del romanzo, è in effetti tutta incentrata sui pensieri del

protagonista Marco, voce narrante di tipo autodiegetico a focalizzazione interna

fissa7: il narratore si muove autonomamente all’interno della storia senza l’intervento

o l’aiuto dell’autore e non assume una posizione di livello superiore rispetto al

personaggio, si identifica dunque con il personaggio stesso e la sua visione

soggettiva del mondo. Nelle prime pagine, il protagonista si presenta attraverso una

confessione-sfogo con i lettori, che sembrano essere le uniche persone alle quali

possa confidare apertamente i suoi problemi; il primo è quello con l’alcool, che

Marco, «proprietario di un negozio di acquari a Roma»8, confessa attraverso una

curiosa contrapposizione con le salamandre:

Le salamandre sono capaci di tornare nella loro tana con una precisione sorprendente. Se le prendi e le porti oltre una montagna, quelle se ne tornano a casa. Io no. Io mi perdo. Soprattutto quando bevo. (Roma, p. 7)

L’autoanalisi sull’abuso di alcool continua e subito dopo il narratore si rivolge per la

prima volta ai lettori in modo molto informale, come se stesse parlando a degli amici:

Da un paio di mesi ho cominciato a sfondarmi sul serio. Prima me ne stavo a casa. Non me frega un cazzo, un bar vale l'altro. Ho fatto fuori tutti quelli del mio quartiere poi mi sono spostato, calando come un ragnone sopra quelli del centro. Sto tessendo una tela. I punti in cui la ancoro sono i locali dove vado a bere. Voglio imprigionarla tutta quanta questa cazzo di città. Vi sembrerà una stronzata ma secondo me la disposizione dei locali non è casuale, ha un senso profondo, una logica nascosta. Qualcuno, non so chi, li ha disposti così. Con una strategia che non capisco. Mi fermo poco. Uno, due bicchieri al massimo, poi riparto. Quando rimango di più mi prende la frenesia e allora sento la sedia scaldarsi sotto il culo, le gambe che mi spingono fuori, di nuovo in strada, alla ricerca di altri locali. (Roma, p.9)

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!7 Cfr. G. GENETTE, Figure III (1972), Giulio Einaudi Editore, Torino 2006, p. 237 8 N. AMMANITI, Branchie (1997), cit., p. 3. È questa l’edizione da cui citerò il testo di qui in avanti.

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Il secondo problema, dichiarato in modo così diretto da sembrare crudele, è

sdrammatizzato attraverso le similitudini con il cane, il frigorifero e la bicicletta:

Ho un tumore ai polmoni. Non ditelo a nessuno. Un dolore sordo mi accompagna tutto il giorno, come un cane. Tranquilli, comunque, ho imparato a conviverci. È un rumore di fondo, un po' come i ronzii e le vibrazioni dei frigoriferi consumati. […] Mi stacco dai piaceri. […] Immagino me stesso come una bicicletta superaccessoriata. All'inizio levo gli specchietti e un po' mi dispiace. Poi levo il cambio, il sellino e tutto il resto fino ad arrivare a un telaio, due ruote e una catena. Quanto basta a definire il concetto di bicicletta. (Roma, p. 10)

Ne consegue la volontà di rifiutare i «rapporti sociali e familiari e sentimentali», che

per Marco sono «piombo» (p. 12):

Mia madre la evito come posso. Gli amici, mai avuti. Maria, la mia fidanzata, è forse il peso più difficile da scrollarsi. Mi inchioda quella ragazza. Non le ho detto nulla. Le ho tenuto tutto nascosto: le visite, le attese degli esami istologici, i pacchi di medicinali. (Roma, p. 12)

In questa presentazione di se stesso, si denota nel protagonista l’incapacità di

affrontare i problemi e riuscire a superarli. Il personaggio di Ammaniti è un giovane

ragazzo che vive a Roma negli anni Novanta, malato terminale, appassionato di pesci

e proprietario di un negozio di acquari che definisce «un’estensione silenziosa del

mio corpo» (p. 22). Marco è un personaggio incapace di prendere in mano il proprio

destino, preferisce guardarsi morire, arrendevole e svogliato di fronte alla vita che gli

sta sfuggendo. L’incapacità di affrontare le difficoltà e la voglia di rinchiudersi in se

stesso, fino al punto di autoeliminarsi, è esemplificata nella sua volontà di chiudere

definitivamente il negozio al pubblico:

Una volta, questo era un negozio ben avviato. Forse il migliore di Roma. L'ho chiuso perché non mi reggeva più di vendere, di spiegare a una massa di incompetenti come si fa a far sopravvivere i pesci. È stata la prima importante mossa del programma di autoeliminazione. Niente più lavoro, chi se ne frega! Via così, alla grande! Giù in discesa, a uovo, verso il fondo. (Roma, p. 22)

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Il negozio diventa la «tana» (p. 8), un rifugio lontano da tutti in cui Marco decide di

vivere e da cui non vorrebbe mai uscire se non fosse per Maria, la sua fidanzata,

unico legame affettivo che il protagonista non riesce a spezzare definitivamente:

Sono in macchina sulla Cassia, diretto al festone, e già non vedo l'ora di tornare a casa. Maria guida. […] Non ce la posso fare a dirle che sto alla frutta, che sto per schiodare, che non la voglio più vedere, che non voglio più vedere nessuno, che un mostro orrendo mi sta disorganizzando e che sono un ubriacone. (Roma, pp. 25-26)

L’inaspettato arrivo di una lettera da parte di «un’anziana signora inglese» (p. 37),

che invita Marco in India per costruire «l’acquario più grande di Delhi» (p. 38), è

l’occasione per sfuggire da una realtà claustrofobica divenuta asfissiante:

Ci vado. Ho deciso. Parto. Vado in India. Vado a costruire l'acquario più grande di Delhi. Io, sconosciuto venditore romano di pesci, ho la più grande occasione a pochi minuti dalla fine del secondo tempo. Incredibile. Ragazzi, ci vado. Che ficata! Abbandono la cuccia. All'inizio ho pensato che la lettera poteva essere benissimo uno scherzo. Qualche imbecille che conosceva la mia immobilità, la mia incapacità congenita a smuovere il culo, il terrore atavico, da uomo di Neanderthal, che mi prende quando abbandono la tana. […] Ma ora mi muovo. […] Ragazzi, sto partendo per una grande avventura. L'ultima avventura. […] Nascondetevi, fatemi largo che è meglio, il vecchio Marco Donati è entrato in campo per giocare l'ultima partita. (Roma, pp. 38-39)

Con la decisione di partire per un viaggio tanto assurdo quanto affascinante,

termina la prima parte, quella romana. La seconda parte (Nuova Delhi) si apre con

una notevole ellissi temporale, che porta il lettore direttamente sull’aereo in volo per

l’India. Marco descrive subito una situazione un po’ bizzarra creatasi intorno a lui

all’interno del «Jumbo» (p. 51):

Un gruppo di arancioni occupa tutte le poltrone intorno. Saranno una ventina. Tutti rapati, con un codino sulla nuca e grandi pantaloni di cotone leggero. Dagli zainetti tirano fuori panini

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incartati nella stagnola. Accendono l'incenso e cominciano a mangiare. (Nuova Delhi, p. 51)

In Nuova Delhi, la narrazione «si abitua alla velocità, alla frammentarietà, alla

performatività» rinunciando spesso alla riflessività (che caratterizzava la parte prima

del romanzo) e «alla esposizione lineare e tradizionalmente narrativa degli eventi,

per approdare a esiti centrifughi, ellittici, a volte trans-testuali»9. Il tempo della storia

prende il sopravvento sul tempo del racconto, e il protagonista sembra essersi

trasformato in un player, un personaggio-giocatore impegnato a superare varie prove

come all’interno di un videogioco. Con un netto primato dell’azione, «si restringe in

primo luogo lo spazio eminentemente romanzesco dell’introspezione psicologica;

[…] persino descrivere sembra una perdita di tempo»10. Questo costante «sforzo di

accelerazione […] dipende soprattutto da modelli non nazionali, e non letterari, ma

[…] eminentemente cinematografici, televisivi, giornalistici, fumettistici,

canzonettistici, o persino videoludici»11. Il tentativo di rapire il protagonista da parte

dello strano gruppo comandato da Franco, «il capo degli arancioni» (p. 52), è senza

dubbio il primo ostacolo ‘da videogioco’ che il protagonista si trova a dover

superare. Dopo aver passato «tutto il viaggio in una specie di coma» (p. 52), causato

dal sonnifero all’interno del panino offerto dagli ‘arancioni’, Marco viene portato

con la forza all’interno del bagno dell’aereo per essere ‘trasformato’ in un arancione

(siamo di fronte alla classica situazione da videogioco in cui il giocatore deve

sfuggire ai nemici per non essere trasformato in uno di loro):

Mi tirano su e mi trasportano al bagno. Non sento le gambe e non vedo bene. Davanti a me vedo due aerei. E continuo a sorridere come un idiota. Mi attacco alla poltrona di un signore immerso nella visione di Una sirena a Manhattan. I due mi staccano e mi infilano nella toilette. Nel bagno siamo un po' strettini tutti e tre. - A che volete giocare ? A chi ce l'ha più lungo ? Franco mi molla un

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!9! G. SIMONETTI, I nuovi assetti della narrativa italiana (1996-2006), in «Allegoria», Gen/Giu 2008, p. 95.!10 Ivi, p. 104 11 Ivi, p. 98

! 21!

cazzottone sul grugno. Mi accascio a terra. L'altro, di cui ancora non conosco il nome, mi prende a calci. Mi spogliano. Aiuto! Mi vogliono violentare. No, fortunatamente mi denudano e basta, poi mi infilano un pigiama arancione, di quelli con gli elastici alle estremità. Mi afferrano la testa e si divertono ad ammaccarci il lavandino. Poi tirano fuori una macchinetta tosacapelli e si improvvisano barbieri. E' troppo, mi vogliono trasformare in un arancione, io che non ho fatto nemmeno la comunione. Mi agito come un'anguilla e per risposta i miei amici continuano a sporcare la tappezzeria del cesso con il mio sangue. Meno male che svengo. (Nuova Delhi, pp. 53-54)

Con un’altra ellissi temporale, causata dal temporaneo svenimento del protagonista,

Ammaniti fa catapultare il lettore direttamente all’interno di un «pulmino pieno di

arancioni» (p. 54), dove Marco si ritrova «legato come un salame» (p. 54) al suo

risveglio. Il modo in cui il protagonista, attraverso varie peripezie e «una mossa di

wrestling, imparata alla televisione» (p. 56), riesce a sfuggire agli ‘arancioni’ è

significativo, se consideriamo la velocità («una delle categorie più utili per

descrivere il romanzo contemporaneo»12) con cui viene riportato:

Le chiudo la testa tra le cosce, in un tipico laccio californiano - mossa di wrestling, imparata alla televisione. Stringo come un disperato. La ragazza urla. Mollo la presa e le do una ginocchiata in faccia. La stronza mi addenta l'uccello. Io, intanto, continuo a prenderla a cazzotti sulla testa. Finalmente molla la presa. Tiro un respiro di sollievo. Le mollo un'altra ginocchiata sul naso. Crolla a terra. Mi tiro su. Saltello attraverso il pulmino. Arrivo al portello quando due artigli mi afferrano. No! E' Franco, l'arancione dell'aereo! Il maledetto, la Punizione di Dio, che mi molla un manrovescio sulla bocca. […] Finisco steso a lato dell'autista. Mi tirano per i piedi. Mi attacco ai pantaloni dell'autista con i denti. Comincio a essere stanco di questa situazione, nelle ultime ore ho preso troppe botte. Non fa bene. Il guidatore mi colpisce in testa con una statuetta portafortuna piuttosto pesante. Ma io non mollo lo stesso. […] Il pulmino sbanda a destra e a sinistra. Ma non mollo. Anzi gli addento il polpaccio e scalcio. Perde il controllo, il pulmino si avvita su se stesso. Vengo sbattuto contro la portiera che si apre. Finisco di sotto, nella polvere, legato come un salame. Mi fa un male cane scivolare sulla strada piena di sassolini e buche. Vedo in lontananza il pulmino superare con un salto l'argine

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!12 Ivi, p. 96

! 22!

della strada, spiccare un volo maldestro e scomparire in basso, nel fossato. Un boato e una vampata. Sistemati. (Nuova Delhi, pp. 56-57)

Un’altra ellissi temporale (la terza da quando Marco è in viaggio) separa questa

scena concitata dall’ennesimo risveglio del protagonista che sembra non avere il

tempo di pensare, ma solo la capacità di agire. Marco si ritrova «in una baracca» (p.

57), incapace di muoversi e con dolori ovunque, causati dalla precedente caduta dal

«pulmino» (p. 54). La baracca si scoprirà poi essere la casa di un «vecchio indiano,

curvo e pieno di rughe» (p. 57) che lo aiuta a ‘recuperare la vita’ persa nell’incidente

(proprio come accade nei videogiochi), offrendogli da bere «un’intera bottiglietta di

un liquido verde» (p. 57); questa «pozione miracolosa» (p. 57) aiuta il protagonista a

riprendere le forze per continuare il viaggio alla ricerca di Margaret Damien (autrice

della lettera che lo invitava in India per la costruzione dell’acquario più grande di

Delhi). «Dopo una mezz’ora di cammino forzato sotto il solleone» (p. 58)

nell’«immenso mercato» (p. 58) che è Nuova Delhi, Marco riesce ad arrivare alla

casa della signora Damien. L’immancabile tocco d’irrealtà è dato da Ammaniti

facendo trovare al protagonista, tra «case diroccate», «strade intasate di motorette,

cani e altri animali, carretti e biciclette» (p. 58), un «elenco telefonico» (p. 58) (con il

quale riuscirà a trovare l’indirizzo della casa). Dopo un dialogo «essenziale, ridotto

all’osso»13 attraverso il citofono con un ignoto inquilino, Marco viene informato

della morte della signora Damien:

Suono al citofono. Aspetto a lungo. Finalmente. - Chi è? - Salve, sono Marco Donati. - Che cosa vuole? - Sono il tecnico degli acquari. Devo costruire l'acquario più grande di Delhi. - E allora? - Mi può aprire, per favore? - Non abbiamo bisogno di nessun acquario. - Posso parlare con la signora Damien? - Credo che si sbagli. Mi sto innervosendo. - Mi può passare la signora Damien, per favore? - La signora Damien non c'è più. - E dov'è? - E' morta. Non ho sentito. Non ho sentito nulla. Domando di nuovo: - Mi può passare la signora Damien, per favore? - E' morta. Ma che non ci senti? - Come morta!? Nel senso che ha smesso di vivere? Che il suo cuore non batte più? Che è stirata? - Bravo. Complimenti, ci

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!13 Ivi, p. 110

! 23!

sei arrivato. - Mi scusi, ma non è possibile... […] - E quando è morta? - Da più di un anno. La casa è stata ricomprata e ora ci vive altra gente. - E chi sono? - Che cazzo te ne frega ? - Me ne frega. Me ne frega. Cafone che non sei altro! (Nuova Delhi, p. 59)

Il protagonista si rende conto di essere stato ingannato e che «la lettera è stata scritta

da qualcun altro» (p. 60), ma sembra non avere né tempo né voglia di pensarci e

finisce per addormentarsi per strada, scambiato dalla gente «per un santone» (p. 61):

Che devo fare? Tornare in Italia? Andare di corsa all'ambasciata e farmi rimpatriare con il foglio di via, o restare e svelare l'orrendo mistero che ha stravolto la mia vita? Quante domande! […] Arriva la sera e ancora sono indeciso sul da farsi […]. Mi sdraio a lato del marciapiede. E succede un fatto singolare. Vedendomi ridotto in questo stato mi scambiano per un santone. Mi portano da mangiare. Chi un po' di verdura, chi un pezzo di pane, chi lenticchie. Sono proprio persone a modo questi indiani. Mi addormento con la pancia piena di legumi e la testa piena di foschi presagi. (Nuova Delhi, p. 61)

Il giorno seguente, i pensieri e le paure di Marco sembrano «svanite come d’incanto»

(p. 61), così che decide di fare una passeggiata in città. L’influsso dei videogiochi è

evidente anche nel modo in cui Marco incontra la Banda dell’Ascolto Profondo («un

gruppo d’avanguardia» impegnato a suonare «sempre sottoterra, di solito nelle fogne,

a volte nelle cisterne vuote o nelle caverne» [p. 63] della città). L’incontro avviene

proprio sottoterra, dove Marco precipita in seguito a un’improvvisa caduta dentro a

«un buco» (p. 61) trovato per strada:

Mentre cerco di orientarmi sento un suono che sembra nascere dalle viscere della terra. Non capisco da dove proviene, fa vibrare tutte le case e scappare i corvi che banchettano nell'immondizia. E' un suono strano. Continuo, indefinibile e familiare nello stesso tempo. Sembra musica ma manca il ritmo. Più l'ascolto e più mi sembra bello. Da dove verrà? Scruto l'aria in cerca del punto di origine. Non mi accorgo di un buco per terra e ci cado dentro. Volo per parecchi metri nel buio. Mi schianto a terra. Svengo. (Nuova Delhi, p. 62)

! 24!

Lo svenimento e la conseguente perdita di coscienza del protagonista, due costanti

all’interno del romanzo, fanno sì che il racconto mantenga un ritmo serrato nel quale

le azioni di Marco si susseguono prive di raccordi narrativi che le uniscano tra loro.

In una «dimensione narrativa tutta incentrata sul fare», anche i sentimenti

sembrano essere ‘scaricati’, automatici; i personaggi sono mossi «al risparmio di

motivazioni psicologiche e razionali […] da forze che non controllano e che non

capiscono; […] tutto accade di colpo, senza conseguenze drammatiche e senza troppi

perché»14. All’interno della fogna in cui Marco era precipitato avviene l’incontro con

il gruppo della Banda dell’Ascolto Profondo, composto da Livia, Osvald e Sarwar,

rispettivamente una «suonatrice belga di fisarmonica», un «suonatore tedesco di

trombone» e un «suonatore indiano di sitar» (p. 3). Marco racconta le proprie

disavventure ai suoi nuovi amici che, vedendolo in difficoltà, lo invitano a casa loro

e gli propongono di entrare nel gruppo come suonatore di didgeridoo:

Per chi non lo sapesse il didgeridoo è lo strumento degli aborigeni australiani, funziona in parte come tromba in parte come megafono. Consiste in un ramo di eucalipto lungo un metro e mezzo, e largo una decina di centimetri, scavato all'interno dalle termiti. La vibrazione delle labbra genera, come nella tromba, il suono fondamentale a cui si sovrappone l'emissione di vocalizzi dentro il tubo; modificando la conformazione del cavo orale, il suonatore seleziona i parziali superiori dei suoni prodotti con la bocca, provocando cosi una temporanea variabilità nell'altezza e nel timbro dei suoni stessi. (Nuova Delhi, p. 67)

Quello del didgeridoo è un esempio di come il sapere di Marco sia «conseguito in un

attimo, passivamente e senza sforzo apparente» e sembri «‘scaricato’ e istantaneo

[…] come quello dell’eroe di Matrix, uomo qualunque che in pochi secondi collega il

suo cervello alla rete e diventa un maestro di kung fu»15.

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!14 Ivi, p. 104 15 Ivi, p. 105

! 25!

L’influenza che ha su Branchie la cultura pop (quella delle canzoni, della

televisione, dei fumetti e dei videogiochi) e il gusto per il pulp, spinto fino al

macabro disgusto per il lettore, è ben visibile nella scena in cui Marco e la Banda

dell’Ascolto Profondo provano a suonare «in un grosso buco, molto profondo […]

buio e sinistro» (p. 70):

Avevamo appena cominciato a provare un adagio barocco quando è successo l'irreparabile. Prima è salito il livello dello scolo, poi un rumore cupo ha riempito l'ambiente, crescendo piano piano. […] Io lo dicevo che quel BBBBHHHHHEEEERRRRREHHRRRR non mi convinceva per niente e continuavo a insistere che secondo me era il caso di risalire. […] a un tratto, dal canale è uscito un rigurgito denso e pestilenziale. Tonnellate di merda sciolta e immondizia si sono riversate su di noi, seppellendoci. In apnea sono risalito in alto. Con poche bracciate sono giunto in superficie. Sarwar, con il sitar in mano, è sbucato poco dopo seguito da Livia. Abbiamo aspettato un po' ma Osvald non riemergeva dalla merda. […] Ho preso aria, iperventilando, e con un tuffo carpiato mi sono incuneato negli escrementi. La visibilità era ridotta, per non dire nulla. Sono giunto sul fondo e ho provato a cercare. […] Credevo di essere uno dei Bee Gees, non so se avete presente quello piccoletto e stempiato, e ho cominciato a cantare Tragedy in falsetto. […] Sul fondo ho trovato Osvald svenuto, attorcigliato ai cavi del microfono. L'ho liberato e l'ho afferrato per il collo tentando di risalire in superficie. […] Credevo di essere Faccia di Cocker, il mio lottatore di wrestling preferito. Ho eseguito su Osvald prima una frusta svedese poi il laccio californiano. Finalmente mi sono riavuto e siamo emersi. […] Ero stremato. Il mio livello di salute era sceso di almeno un paio di tacche, ma ho subito recuperato mangiandomi un paio di panini con il ciauscolo e le sottilette. (Nuova Delhi, pp. 70-71)

La scena è tanto disgustosa quanto importante per capire come Ammaniti non faccia

nulla «per nascondere i suoi prelievi dal repertorio […] della cultura di massa»16. Il

suono onomatopeico, usato da Marco per descrivere il rumore proveniente dalle

fogne circostanti, è un evidente prestito dal genere fumettistico; di provenienza pop è

la citazione di Tragedy, forse la canzone più famosa dei Bee Gees (band di origine

inglese che raggiunse l’apice del successo negli anni ’70). La terza citazione riguarda

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!16 Ivi, p. 104

! 26!

il mondo televisivo, nello specifico il wrestling: Marco esegue su Osvald la «frusta

svedese» e il «laccio californiano», le abituali mosse di un wrestler visto in

televisione. Immancabile, anche in questo caso, l’influenza dei videogiochi (forse

addirittura quella dei telefonini in riferimento alle ‘tacche’ di batteria), quando il

protagonista, per ‘ricaricare’ «il livello di salute […] sceso almeno due tacche»,

mangia «un paio di panini con il ciauscolo e le sottilette» (p. 71). Questi apporti di

cultura pop sono inseriti da Ammaniti all’interno di una scena macabra e disgustosa,

figlia di un genere pulp degenerato. Tuttavia, leggendo la scena in senso metaforico,

possiamo vedere al suo interno una forte critica dell’autore alla cultura popolare

(ormai ‘massmediale’), citata dal protagonista proprio nel momento in cui è sepolto

da un’ondata di escrementi. Quel sapere sembra essere considerato alla pari della

spazzatura.

In occasione del compleanno di Mila, la figlia di Wall Oberton, «uno dei più

potenti industriali indiani» (p. 72), la Banda dell’Ascolto Profondo viene invitata a

suonare per «il primo concerto in pubblico» (p. 72) che si terrà in un «vecchio

palazzo di un maragià» (p. 72). Descrivendo Oberton e il suo lavoro, Marco (e

dunque Ammaniti) critica, non troppo velatamente, anche il movimento sub culturale

della new-age, molto di moda negli anni Novanta:

Arrivato dall'Oregon negli anni Settanta ha cominciato come produttore di colossal porno con migliaia di comparse, cammelli ed elefanti. Poi è passato nel campo della sanità. E' diventato miliardario costruendo ospedali privati in tutta l'India. Credo si tratti di case di cura per turisti ricchi. Li fanno dimagrire chiudendoli in celle e riempiendoli di cazzate new-age. (Nuova Delhi, p. 72)

Subito dopo, attraverso le parole di Marco, Ammaniti introduce un altro personaggio

frequente nella narrativa italiana degli anni Novanta: il serial killer17, che in Branchie

è incarnato dall’«orrendo Subotnik» (anche se in questo caso sembra più un incrocio

tra lo stereotipo del serial killer e quello dello scienziato pazzo):

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!17 Per approfondire cfr. G. SIMONETTI, I nuovi assetti, cit., p.105

! 27!

La costruzione di questo impero è stata possibile grazie alla collaborazione di un chirurgo del Turkmenistan, una regione compresa tra l'Afghanistan e la Persia. E' un losco individuo, pronto a tutto. E' lui che ha posto le basi filosofiche e ideologiche su cui si fonda tutta l'organizzazione. Lo chiamano Djivan Subotnik. E' stato più volte incriminato per violenza su vacche sacre e per abusi sessuali su animali morti, reato molto grave in India. Ogni volta Oberton ha corrotto le autorità e rimesso in libertà il chirurgo. (Nuova Delhi, pp. 72-73)

Ammaniti aggiunge al romanzo un altro tema particolarmente caro alla narrativa

cannibale: il sesso e la «sostituzione dell’erotismo con la pornografia – agevolata dal

costituirsi di quest’ultima come vera e propria estetica di massa»18. Marco conosce

Mila alla festa di compleanno e alcuni giorni dopo decide di invitarla a cena fuori;

durante la cena in un ristorante fatiscente vicino a una «palude» (p. 91), Mila

confessa a Marco di essere malata di ninfomania cronica:

Se qualcuno mi piace non sono contenta finché non riesco ad averlo. Mi hanno troppo viziata da piccola e sono affetta da una grave forma di ninfomania cronica. Hanno tentato di curarmi, ma è stato tutto inutile. […] Non sono riusciti a cambiarmi, a guarirmi da questa deliziosa patologia. Di solito me li scopavo subito alla prima seduta, se invece non mi piacevano, mi limitavo a raccontargli le mie fantasie sessuali. Rimanevano così turbati che mi imploravano, in lacrime, di andarmene. L'unica persona che mi ha aiutata è stato Djivan Subotnik. […] E' uno scienziato e mi ha spiegato che non sono malata ma ho ricevuto un dono dagli dèi. Ha detto che una personalità perversa come la mia, capace di fare agli altri quello che non vuole sia fatto a sé, ha come controparte la bellezza necessaria per creare la perfezione. Ha plasmato le più oscure e torbide pulsioni che regnavano confuse nella mia anima e le ha rese coscienti. Mi ha iniziata a pratiche che non puoi immaginare, al piacere della carne ai ferri, al sesso non ortodosso. (Nuova Delhi, pp. 94-95)

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!18 G. SIMONETTI, Sul romanzo italiano, cit., p. 68

! 28!

L’appuntamento degenera nello stupro del protagonista (con successivo rapimento).

Alla confessione di Mila, segue una scena in cui i due si tuffano nella «broda calda e

accogliente» (p. 96) della palude per una nuotata; Marco, però, rimane

improvvisamente paralizzato e nel momento in cui la ragazza lo aiuta a uscire, la

situazione degenera:

Mila mi prende per i capelli trascinandomi come un sacco di patate. - C'è uno squalo. Uno squalo enorme! - mugugno. Mi trascina sulla spiaggia tirandomi per i capelli e si siede nuda sulla mia faccia. Non riesco a respirare, tento di prendere aria ma inalo solo l'odore agrodolce dei suoi umori. - Ti piace la fica, eh? Muorici sotto, stronzo ! - Ride e vibra di piacere. - Che mi hai fatt... o, eh... m... succed... psshhessss ? - riesco a biascicare nonostante l'inquietante presenza della sua clitoride tra le mie labbra. - Nel piatto che hai mangiato c'era un aroma in più: la neurotossina RR2. Ti sta bloccando tutti i centri nervosi, centrali e periferici, inchiodandoti come uno stoccafisso. […] Che bello! Ti stai indurendo tutto, anche il tuo coso. Ci affonda sopra e comincia a scoparmi come un'invasata ma io non provo alcun piacere, contratto come sono. […] Dalla porta del ristorante esce un gruppo di persone, ne sento i passi sul selciato. - Forza. . avete. . preso la bombola, mi pareeeee... Che... ha gli spasmi di chi se ne sta andando... al... Creatore. Sì. Sì. Mi piace Ahhhaaahhh - mugola Mila raggiungendo l'orgasmo. (Nuova Delhi, pp. 97-98)

Il ritmo sale e «all’incremento del ritmo corrisponde quello della violenza,

ingrediente ovviamente molto diffuso in questa letteratura alla continua ricerca di

traumi»19. Mila, aiutata dagli arancioni, percuote violentemente Marco nel tentativo

di riuscire ad aprirgli la bocca paralizzata per farlo respirare. Tuttavia, «la violenza,

anche quando è efferata, punta all’effetto umoristico, se non propriamente comico»20,

come in questo caso:

[…] - Franco, sei un perfetto idiota, non sai fare un cazzo. Così lo farai stirare. Levati di mezzo, incompetente, fai fare a me! - Mila mi si siede sullo sterno e comincia anche lei a tirare come una pazza. […] - Vuoi aprire i denti, stronzo ? Se non li apri muori

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!19 G. SIMONETTI, I nuovi assetti, cit., p. 102 20 Ivi, p. 103

! 29!

peggio di un cane. Non capisci niente! […] E' infuriata, prende un sasso bello grosso e mi percuote la dentiera. […] Il rumore del sanpietrino sui denti è veramente sgradevole. Mila non ha tecnica e riesce solo a massacrarmi. Mi viene un'idea. Comincio a mugugnare provando a comunicare. - Ggggghhhhhheeeeee. Mila continua a martellare come un'invasata. La bocca mi si è riempita di sangue. - Che cazzo vuoi? - mi chiede. - Gggghhhhheeeeee. Giro gli occhi verso la barca che sta ormeggiata a riva. Cerco di attirare il suo sguardo in quella direzione. - Forse vuole comunicarci qualcosa ? - dice Franco, più perspicace di quanto appaia a prima vista. - Che c'è? - mi domanda Mila. - Parla! - Ggggghhhhheeeeeee. - Non si capisce niente. Cerca di esprimerti con proprietà. Probabilmente sta solo lamentandosi, - si rivolge a Franco e riprende a colpire. - Gggghhhhhhhhhhhheeeeeeeeeeeee. Sputo sangue a fiotti. - Sembra che indichi la barca. Continua a guardare in quella direzione, - dice Franco. E' un genio quest'uomo. - Vuoi fare un giretto in barca? Non mi sembra il momento adatto... - fa Mila. - Sì, indica proprio la barca. Continua a guardare di là. Che c'è? - dice Franco avvicinandosi alla barca. Mila lo guarda come se fosse un idiota, ma non lo è per niente, ha capito che è lì la chiave dei nostri problemi. - Vuoi l'ancora? - dice sollevandola. - Ggggghhhhhhhhoooo. - Mi sembra che lo possiamo interpretare come un no, - dice Mila. - Vuoi il timone ? - Ggghhhhhooooooooo. - Ho capito, vuoi la fiocina. Vuoi la fiocina, così ti ammazziamo e non ti lasciamo soffrire. - Ggggghhhhhssiìììì, - dico con uno sforzo sovrumano. Non hanno capito niente mannaggia, volevo solo dirgli di usare l'arpione per fare leva tra i denti e infilare così il cannello dell'ossigeno. - Mi dispiace un sacco. Non ti posso uccidere, ci servi vivo. Però posso metterti la fiocina tra i denti, fare leva e infilarti il cannello dell'ossigeno. Sono un genio, vero? - mi dice Mila. (Nuova Delhi, pp. 99-100)

Questa delirante scena, con successivo rapimento del protagonista da parte degli

arancioni (i tirapiedi di Mila, in accordo con il chirurgo Subotnik) chiude la seconda

parte del romanzo. L’ennesima perdita di coscienza (e una forte ellissi temporale nel

tempo della storia), portano il protagonista, e quindi il lettore, alla terza parte (Il

Castello); la «tendenza a saltare i passaggi superflui, ricorrendo a tagli profondi,

indifferenti ai nessi temporali e causali»21 è una costante in Branchie, come in gran

parte della narrativa italiana degli anni Novanta.

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

21 Ivi, p. 108

! 30!

Se consideriamo Marco un ‘personaggio da videogioco’, è facile individuare

nella tripartizione del romanzo una «struttura teleologica e progressiva, a

“quadri”»22, tipica, appunto, dei videogames, nei quali per raggiungere lo scopo

finale è necessario superare una serie di livelli di difficoltà. Il terzo “quadro” di

Branchie si apre all’interno di una stanza «con i muri di pietra e una finestra che dà

sul blu del cielo» (p. 106), dove Marco si ritrova in uno stato di semi-incoscienza. È

la madre Adele, inizialmente irriconoscibile agli occhi del figlio (a causa di «qualche

intervento di ricostruzione estetica globale» [p. 107]), a risvegliare il protagonista.

Per l’ennesima volta, la cultura pop e la televisione (più specificatamente i telequiz),

influenzano Ammaniti e quindi lo stesso Marco in questa paradossale “prova di

riconoscimento”, alla quale Adele è sottoposta:

Qual è il mio piatto preferito? - le domando. - Linguine alle vongole. Con una spruzzatina di rosso. - Chi è il mio scrittore preferito? - Richard Mateson. - La mia attrice preferita? - Sophia Loren. - Il mio regista? - Peter Jackson. Cazzo. E' veramente ben informata. Incalzo. - Il mio medico curante? - Virgilio Vagoni. - Dove ha una voglia? - Sulla natica destra. - Come ha fatto a vederla? - E' stato il mio amante. - Qual è la parte delle donne che mi piace di più? - Le tette. - La marca della vodka che bevo? - Absolut. Che treno! Come va! Gli faccio il domandone da trecento punti. La uno, la due o la tre? Si concentra. Chiede di entrare in cabina. Se risponde è fatta. - La cosa che mi piace di più nella vita? - Avere 37,3 di febbre e mangiare il panettone con la crema gialla avvolto in una coperta su un divano davanti a un film di arti marziali. - Mamma! - Figlio mio! (Il Castello, pp. 108-109)

Adele confessa di essere stata l’autrice della lettera che ha convito Marco a partire

per l’India, dove il figlio avrebbe curato il tumore grazie al chirurgo Subotnik (suo

amante), rivelando anche di essere la mandante degli arancioni e di Mila (che

avevano il compito di rapirlo). Adele cerca di convincere Marco a sottoporsi a un

intervento chirurgico ‘non ortodosso’ che sostituisce le parti del corpo malate (in

questo caso il polmone del protagonista) con quelle sane dei «corpi degli indiani» (p.

110), usati come cavie da Sobotnik. È evidente, nella reazione disgustata di Marco di !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

22 Ivi, p. 103

! 31!

fronte a queste barbarie perpetuate dall’«orrendo Subotnik» (p. 110), come il

romanzo di Ammaniti voglia denunciare non solo i danni causati da una chirurgia

estetica estrema, ma anche l’efferato dominio dell’intera società occidentale, che

«usa come materiale per le sue creazioni i corpi degli indiani» (p. 110), sui paesi

ancora in via di sviluppo. Inoltre, è interessante come «la funzione tradizionale

dell’ospedale» venga «paradossalmente ribaltata» da Ammaniti, che rappresenta il

castello/ospedale di Subotnik come la «anticlinica per eccellenza, in cui i malati si

sottopongono volontariamente alle cure, mentre i sani vengono ridotti a pezzi»23.

L’elemento di critica geopolitica è a prima vista sorprendente in un romanzo che pare

puntare solo al divertimento narrativo; questo tipo di critica è però estremamente

diffuso nell’immaginario delle nuove generazioni di scrittori, che tuttavia lo fanno

proprio in maniera per molti versi qualunquistica, senza un reale approfondimento.

Nel rocambolesco finale del romanzo, la Banda dell’Ascolto Profondo aiuta

Marco a scappare dal castello e sconfiggere Subotnik, liberando gli indiani

imprigionati, destinati a essere sacrificati «per consentire a corpi in disfacimento una

seconda giovinezza»24. Il romanzo di Ammaniti si rivela a questo punto una fiaba

postmoderna in cui «tutti i personaggi principali, anche quelli malvagi vengono

riscattati»25, in un finale in cui le «opposizioni binarie tradizionali (bene/male,

giusto/ingiusto, ricchezza/povertà)»26 non sono più ben definite. Sarà lo stesso Marco

a dirlo, riferendosi ai lettori:

Questo non è uno di quei romanzi che finiscono male, che uno chiude con il magone in gola e il fazzoletto zuppo di lacrime. Anzi, credo che rimarrete soddisfatti di come sono andate a finire le cose. Dopo lo scoppio del castello, chi in un modo, chi in un altro siamo tutti riusciti a scamparla. Un po' acciaccati ma in sostanza ancora in forma. Solo gli ospiti paganti della clinica, i ricconi, sono morti arrostiti in quell'inferno di fiamme. Pace all'anima loro. (Due parole di conclusione, p. 179)

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

23 V. FERME, Note su Niccolò Ammaniti e il fango di fine millennio, in «Narrativa», 20/21, 2001, pp. 324-325 24 Ivi, p. 325 25 Ivi, p. 327 26 Ivi, p. 326

! 32!

L’happy-ending è paradossale quanto surreale: Marco informa i lettori di essere stato

curato da Subotnik, l’orrendo chirurgo divenuto buono. Il dottore, infatti, ha

sostituito i polmoni malati con delle branchie artificiali che permettono al

protagonista di continuare a vivere «in un’enorme vasca, nell’acquario municipale di

Berlino» (p. 184):

L'orrendo Subotnik mi ha ripulito di tutto il cancro. Mi ha levato i polmoni ormai massacrati dalle metastasi ed è intervenuto sul sistema circolatorio: ha deviato, modificato, ricostruito e mi ha salvato. Ora vivo in un'enorme vasca, nell'acquario municipale di Berlino. Ho delle bellissime branchie filiformi intorno alla testa che mi permettono di respirare sott'acqua. (Due parole di conclusione, p. 184)

Branchie può essere definito un romanzo postmoderno a tutti gli effetti. Se la

condizione postmoderna consiste nella «negazione della Bildung romanzesca»27, e

quindi della funzione formativa del racconto, il modello narrativo che propone

Ammaniti manca di un ingrediente classico del romanzo di formazione, cioè «il

tempo per trasformarsi»28. La Bildung è sostituita dalla chirurgia plastica, che

«permette al protagonista di salvarsi la vita, rimpiazzando i polmoni malati con delle

branchie ittiche perfettamente efficienti»29. Il protagonista Marco è trascinato da

eventi surreali a una nuova condizione fisica, ma non mentale. Lo dimostra il passo

con cui si chiude la narrazione, nel quale Marco ha lo stesso atteggiamento di rifiuto

nei confronti degli umani che aveva durante la sua vita a Roma. Se prima si rifugiava

nel negozio di acquari, adesso che l’acquario stesso è diventato il suo habitat,

continua a rifiutare il ‘contatto’ con l’umanità che lo circonda:

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!27 R. DONNARUMMA, Postmoderno italiano: qualche ipotesi, in «Allegoria», XV, 43, 2003, p. 72 28 G. SIMONETTI, I nuovi assetti, cit., p. 105 29 Ibidem

! 33!

Alle volte mi sembra di essere davanti alla televisione, quando vedo i bambini, le mamme, i vecchi che mi guardano da fuori con i loro occhi enormi e distorti, quando poggiano il naso sul vetro. Allora, incerto e turbato, mi nascondo nella mia tana, tra gli scogli, a riposare. (Due parole di conclusione, p. 185)

! 34!

Capitolo secondo

Ti prendo e ti porto via: romanzo della maturazione

Ti prendo e ti porto via1, il secondo romanzo pubblicato da Niccolò Ammaniti,

costituisce lo snodo fondamentale del mio percorso di analisi. Il romanzo, pubblicato

nel 1999, a due anni di distanza da Branchie¸ ha infatti caratteristiche ben diverse

rispetto al romanzo d’esordio e segna un evidente progresso nelle capacità narrative

dell’autore. Con Ti prendo e ti porto via, Ammaniti riesce a «scrollarsi di dosso

l’etichetta prima che diventi tatuaggio»2: se fino a quel momento era stato

considerato dalla critica uno scrittore cannibale, con il nuovo romanzo dimostra

invece di essere «un narratore cui non manca nulla, per niente limitato a certi eccessi

visionari che gli sono stati imputati che apparterrebbero a certi generi letterari un po’

secondari, un po’ facili, come l’horror, lo splatter, la narrativa estrema»3. Ammaniti è

maturato e con lui il suo stile, che si è fatto più raffinato e complesso. Il «tramezzino

ripieno di baccalà, broccoli, maionese e cipolle al curry»4 è diventato un pasto

completo, grazie a un’«accorta e complessa strutturazione narrativa, fatta di abili

intramature fabulistiche e perfetti incastri delle parti»5. Nonostante l’evidente

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!1 N. AMMANITI, Ti prendo e ti porto via (1999), Piccola Biblioteca Oscar Mondadori, Milano 2000. Citerò d’ora in poi da questa edizione. 2 A. BIANCHI, L’autenticità dell’immagine. Lo specchio catodico di Niccolò Ammaniti, in «Narrativa», 20/21, 2001, p. 337 3 La citazione è tratta da un saggio di Tiziano Scarpa (pubblicato sul sito Caffè letterario, non più disponibile online) ed è riportata in A.BIANCHI, Op. cit., p. 337 4 N. AMMANITI, Ai miei lettori, in Branchie (1997), cit., p. VI. 5 A. BIANCHI, Op. cit., p. 337

! 36!

allontanamento dal modello narrativo del romanzo d’esordio, in Ti prendo e ti porto

via sono presenti alcuni inevitabili punti di contatto con Branchie. Osserviamo, a

questo proposito, le epigrafi che Ammaniti sceglie come introduzione al romanzo6: il

brano tratto dalla canzone di Loredana Berté, il canto tradizionale napoletano di

Rodolfo Falvo e il riferimento alla canzone latino-americana La macarena

rimandano a quella cultura pop che già in Branchie faceva da substrato al racconto (e

che in Ti prendo e ti porto via è utilizzata in maniera così bizzarra da risultare trash).

L’originalità dello stile di Ammaniti, così come si viene costituendo a partire da

questo secondo romanzo, sta proprio nell’attingere agli elementi della cultura

contemporanea con ironia e leggerezza, al contrario degli scrittori cannibali che ne

esasperavano l’utilizzo: La citazione, il riutilizzo, che si vuole tipico del postmoderno letterario, in Ammaniti non è mai compiaciuto e compiacente sfoggio di buone letture, ma procedimento ironico e parodico, grado Xerox della cultura contemporanea in cui elementi “alti” convivono in pari dignità con trivialità “basse” e nazional-popolari, fino alla saggezza grossolana dei luoghi comuni.7

Mentre Branchie è un romanzo breve (185 pagine), simile a un racconto (in

continuità con le produzioni dei cannibali che prediligevano storie brevi), Ti prendo e

ti porto via è un romanzo lungo (452 pagine) dalla struttura complessa. Ammaniti

passa dalla tripartizione lineare della storia di Marco Donati a un’organizzazione del

discorso narrativo eterogenea e non lineare. Anche questo aspetto dimostra la

maturazione stilistica dell’autore, capace di costruire un impianto razionale e

meticoloso, in grado di rispecchiare il contenuto narrativo con grande abilità. La

prima parte della storia, intitolata 18 giugno 199…, è composta da un breve capitolo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

6 La prima citazione è tratta dalla canzone Sei bellissima di Loredana Berté: «…e ripensavo ai primi tempi, quando ero innocente, a quando avevo nei capelli la luce rossa dei coralli, quando ambiziosa come nessuna, mi specchiavo nella luna e l’obbligavo a dirmi sempre sei bellissima.»; la seconda è un estratto del canto popolare Guapparia: «Pecché nun va cchiù a tiempo ‘o mandolino? Pecché ‘a chitarra nun se fa sentì?»; la terza e ultima citazione è «Alegria es cosa buena» da La macarena. 7 A. BIANCHI, Op. cit., p. 343

! 37!

nel quale si narra l’episodio cardine del racconto, la scena in cui il protagonista

Pietro Moroni scopre di essere stato bocciato:

Avanza e si ritrova a pochi centimetri dalla bacheca, pressato da quelli che arrivano dopo di lui. Leggi. Cerca la sua sezione. B! Dove!? B? La sezione B? Prima B, seconda B. Eccola! È l’ultima a destra. Abate. Altieri. Bart... Comincia a scorrere con lo sguardo l’elenco dall’alto in basso. Un nome è scritto in rosso. C’è un bocciato. Più o meno a metà colonna. Roba di M, N, O, P. Hanno bocciato Pierini. Moroni. Strizza gli occhi e quando li riapre intorno tutto è sfocato e ondeggia. Rilegge il nome. MORONI PIETRO NON AMMESSO. Rilegge. MORONI PIETRO NON AMMESSO. Non sai leggere? Rilegge di nuovo. M-O-R-O-N-I. MORONI. Moroni. Mor... M... Una voce gli rimbomba nel cervello. Come ti chiami tu? (Eh, che c’è?) Come ti chiami? (Chi? Io...?Io mi chiamo... Pietro. Moroni. Moroni Pietro.). E lì c’è scritto Moroni Pietro. E proprio accanto, in rosso, in stampatello, grosso come una casa, NON AMMESSO. (pp. 12-13)

Ammaniti interrompe il capitolo-scena e chiude la prima parte con lo sguardo di

Gloria, la migliore amica di Pietro:

E Pietro Moroni si rende conto che tutti lo fissano e gli stanno addosso, che lui là in mezzo è il giullare, la pecora nera (rossa) e che anche Gloria è dall’altra parte, insieme a tutti gli altri e non importa niente, assolutamente niente, che lo stia guardando con quegli occhi da Bambi. (p. 15)

La seconda parte (Sei mesi prima…) costituisce il corpo centrale del romanzo

ed è formata da una lunga analessi in cui sono raccontati piuttosto dettagliatamente i

fatti accaduti sei mesi prima dell’episodio della bocciatura, nei giorni 9, 10 e 11

dicembre. L’articolazione del romanzo in parti e capitoli coincide con la suddivisione

temporale della storia. La durata totale della storia è di sei mesi, ma il tempo del

racconto coincide con i soli cinque giorni (9, 10, 11 dicembre e 18, 19 giugno) di cui

si raccontano le vicende. Tempo del racconto e tempo della storia si equivalgono

nelle numerose scene che descrivono i diversi momenti della giornata (e dunque del

capitolo). Ai capitoli si aggiunge un’ulteriore divisione interna in brevi paragrafi

! 38!

numerati, che permette l’alternanza delle vicende di Pietro a quelle di Graziano,

l’altro protagonista del romanzo. Nel primo capitolo (9 dicembre) Graziano, logoro

playboy di mezza età, torna a Ischiano Scalo, il suo paese, dopo due anni di assenza.

Per capire i motivi del ritorno a casa del «Biglia» (p. 62) Ammaniti interrompe la

narrazione e riporta un aneddoto esplicativo, intitolato L’albatros e la cubista, un

lungo flashback nel quale racconta la storia d’amore tormentata tra Graziano e Erica

Trettel, una cubista conosciuta in discoteca a Riccione. Dopo una breve convivenza a

Roma, Graziano decide di tornare a Ischiano (mentre lei tenta l’ennesimo provino da

attrice) con l’intenzione di aprire una ‘jeanseria’ e sposare Erica. Graziano passa tutta

la giornata ad aspettare invano l’arrivo della fidanzata con cui troncherà il rapporto

dopo averla vista fare la valletta in televisione al «Gran Galà di Canale Cinque». La

sera stessa, Pietro viene convinto da tre compagni di scuola (Pierini, Bacci e Ronca)

a legare il cancello della scuola con una catena, per impedire il regolare svolgimento

delle lezioni il giorno seguente. I tre ragazzi trascinano con la forza Pietro all’interno

dell’edificio e Pierini compie gravi atti di vandalismo rompendo alcune attrezzature e

imbrattando i muri con delle scritte offensive rivolte ai professori. I quattro,

nonostante un goffo intervento del bidello Italo Miele, riescono a scappare senza

essere riconosciuti:

Pietro salì la scaletta del letto trattenendo il fiato e cercando di non farla scricchiolare. Si mise il pigiama e s’infilò sotto le coperte. Come stava bene. Sotto le coperte la tremenda avventura che aveva appena passato gli sembrò lontana. Ora che aveva davanti tutta una notte per dormirci sopra, quella storia gli apparve più piccola, meno importante, non così grave. Certo che se il bidello lo avesse scoperto, allora sì... Ma non era successo. Era riuscito a scappare e Italo non poteva averlo riconosciuto. Primo, non aveva gli occhiali. Secondo, era troppo lontano. Nessuno lo avrebbe mai scoperto. (p. 159)

Il secondo capitolo (10 dicembre) si apre con la telefonata del preside alla

professoressa Flora Palmieri per informarla degli atti di vandalismo compiuti dentro

la scuola:

! 39!

«Pronto, professoressa? Scusi l’ora... Sono Giovanni Cosenza.» Il preside! «L’ho svegliata?» domandò esitante. «Be’, sono le cinque e quaranta.» «Mi scusi. Non l’avrei chiamata ma è successa una cosa molto grave...» Flora cercò d’immaginare una cosa molto grave che avrebbe potuto autorizzare il preside a svegliarla a quell’ora, però non gliene venne in mente nessuna. «Cosa?» «Stanotte sono entrati nella scuola. Hanno spaccato tutto...» «Chi?» «I vandali.» «Come?» «Sì, sono entrati e hanno distrutto il televisore e il videoregistratore, hanno imbrattato i muri con la vernice, hanno chiuso con una catena il cancello della scuola. Italo ha tentato di fermarli ma è finito all’ospedale e qui c’è la polizia...» «Che è successo a Italo?» «Credo si sia rotto il naso e ferito le braccia.» «Ma chi erano?» «Non si sa. Ci sono delle scritte che farebbero pensare a degli alunni dell’istituto, non lo so... Ecco. Qui c’è la polizia, bisogna fare un sacco di cose, prendere delle decisioni e queste scritte...» «Che scritte?» Il preside esitò. «Brutte scritte...» «Come brutte?» «Brutte. Brutte. Bruttissime, professoressa.» (p. 204)

Il personaggio che unisce la storia di Pietro a quella di Graziano è proprio la

professoressa Palmieri: l’incontro casuale tra Flora e Graziano avviene all’interno

dello «Station Bar» (p. 225), dove la professoressa si ferma a fare colazione prima di

recarsi a scuola. Quando Graziano la vede, decide di parlarle e di tentare di

conquistarla. Con la scusa di aver bisogno d’aiuto per compilare un curriculum,

Graziano riesce a fissare un appuntamento con Flora:

È fatta. L’idea del curriculum aveva funzionato. La professoressa era molto timida e impaurita dagli uomini. Una giovane principiante. Quando le aveva toccato la mano, lei aveva fatto un salto di due metri. Sarebbe stata una preda impegnativa ma stimolante. Graziano non vedeva grandi difficoltà per portare a termine la missione. Pagò e uscì. Aveva cominciato a piovere. Tanto per cambiare, un’altra giornata orrenda. Se ne sarebbe tornato a casa, si sarebbe fatto un bel sonno e preparato per l’incontro. Si chiuse la giacca e si avviò a piedi. (pp. 235-236)

La mattina stessa, durante un colloquio con il preside, la vicepreside e Flora, Pietro

confessa di essere entrato nella scuola la sera precedente e viene punito con cinque

giorni di sospensione:

! 40!

Cinque giorni di sospensione. A Pierini. A Bacci. A Ronca. E a Moroni. E obbligo per i genitori di riaccompagnarli a scuola e conferire con preside e insegnanti. Così stabilì la vicepreside Gatta (e il preside Cosenza). L’aula di educazione tecnica fu ridipinta in fretta e furia. I resti del televisore e del videoregistratore buttati. Fu richiesto al consiglio d’istituto il permesso di prelevare dei fondi dalla cassa della scuola per comprare la nuova apparecchiatura video didattica. Moroni aveva confessato. Bacci aveva confessato. Ronca aveva confessato. Pierini aveva confessato. Uno dopo l’altro erano stati chiamati in presidenza e avevano confessato. Una mattinata di confessioni. (p. 279)

L’appuntamento di Graziano e Flora, fissato per la sera, degenera. L’uomo, infatti, fa

bere alla professoressa un bicchiere di whisky contenente extasy. A questo punto,

Graziano riesce facilmente a convincere Flora (completamente fuori di sé) ad andare

alle terme di Saturnia insieme a lui e ottenere quello che desidera: un rapporto

sessuale.

Nel terzo capitolo (11 dicembre) avviene l’incontro tra i due protagonisti.

Tornando a casa (dopo la notte passata a casa di Flora), Graziano si ferma ad aiutare

un ragazzino in difficoltà: è Pietro, il quale, reo di aver confessato l’intrusione nella

scuola ai professori, è stato aggredito dal «Fiamma» [p. 348] e da Pierini:

Era apparso dal nulla. Come il buono di un western o l’uomo che venne dall’Est o, ancora meglio, come Mad Max. Lo sportello della macchina nera si era spalancato e il giustiziere era sceso vestito di nero e con gli occhiali da sole e con le falde del cappotto mosse dal vento e la camicia di seta rossa e a quelli gli aveva rotto il culo. Un paio di mosse di karate e Pierini e il Fiamma erano sistemati. Pietro sapeva chi era. Il Biglia. […] Si avvicinò zoppicando al suo eroe che stava in mezzo al prato e cercava di ripulirsi con la mano gli stivali infangati. «Grazie, signore.» Pietro gli tese la mano. «Non è niente. Mi sono solo sporcato gli stivali» fece il Biglia stringendogliela. «Ti hanno fatto male?» «Un po’. Ma già mi ero fatto male quando sono caduto dalla bicicletta.» In realtà il fianco dove lo avevano preso a calci gli doleva molto e aveva la sensazione che nelle prossime ore sarebbe peggiorato. «Perché ti stavano menando?» Pietro strinse la bocca e cercò di trovare una risposta che avrebbe potuto impressionare positivamente il suo salvatore. Ma non gliene venne neanche una e fu costretto ad ammettere: «Ho fatto la spia». «Come, hai fatto la spia?» «Sì... A scuola. Ma mi ha obbligato la vicepreside, sennò mi bocciava. Ho fatto un casino, ma io non volevo.» «Ho capito.» Biglia controllò

! 41!

se il cappotto si era sporcato. In realtà non sembrava aver capito granché né che gl’interessasse molto saperne di più. Pietro ne fu sollevato. Era una storia lunga e brutta. (pp. 363-364)

Il capitolo si chiude con l’incontro tra Flora e Pietro all’interno della «Cooperativa»

(p. 380). La professoressa, vedendo il ragazzino preoccupato, gli promette che non

verrà bocciato:

Passò accanto al lungo congelatore e prese una vaschetta di gelato e si stava avviando verso la cassa quando vide apparirle davanti Pietro Moroni. Zoppicava leggermente e appena la vide le sorrise. «Pietro, che succede?» «Volevo parlarle, professoressa...» Pietro tirò un sospiro di sollievo. […] «Perché zoppichi, ti sei fatto male?» gli chiese lei preoccupata. «Sono caduto dalla bicicletta, ma non è niente di grave» minimizzò Pietro. «Che succede?» […] I miei genitori non verranno a scuola a parlare con la vicepreside e nemmeno mio fratello, credo.» «Ah, e perché?» Come glielo dico? «Mia madre è malata e non può uscire di casa, mio padre... mio padre...» Diglielo. Dille la verità. «Mio padre ha detto che sono affari miei, che il casino l’ho fatto io, non lui, e quindi non ci viene. Mio fratello... be’, mio fratello è un cretino.» Le si avvicinò e le domandò con il cuore in mano: «Professoressa, mi bocceranno?». «No, che non ti bocceranno.» Flora si abbassò all’altezza di Pietro. «Certo che non ti bocceranno. Tu sei bravo, te l’ho già detto. Perché dovrebbero?» «Ma... se i miei genitori non vengono, la vicepreside...?» «Stai tranquillo. Ci parlo io con la vicepreside.» «Sicuro?» «Sicuro.» Flora si baciò gli indici. «Te lo giuro.» «E non verranno i... cosi?» «I cosi?» «I cosi sociali.» «Gli assistenti sociali?» Flora fece di no con la testa. «Ci puoi giurare, che non verranno.» «Grazie» sbuffò Pietro liberandosi di un peso più grande di lui. (pp. 383-385)

La terza parte del romanzo (Sei mesi dopo...) è costituita da due capitoli, che

corrispondono ai giorni 18 e 19 giugno. La narrazione si riallaccia all’episodio

iniziale e si mostrano le convulse vicende del periodo immediatamente successivo

alla bocciatura di Pietro. Dopo il lungo flashback, il narratore ricompatta il tempo

della storia e all’inizio del capitolo 18 giugno riprende la narrazione a partire dalla

scena che era stata interrotta:

! 42!

Gloria ci provava a tirarlo su. Ma Pietro non collaborava. Se ne stava in ginocchio, in mezzo all’atrio della scuola con le mani sulla faccia. «Mi hanno bocciato» ripeteva. «Mi hanno bocciato. Me lo aveva giurato. Me lo aveva giurato. Perché? Perché?» «Pietro, dài, tirati su. Usciamo.» «Tu lasciami stare» l’allontanò con un gesto brusco, ma poi si mise in piedi e si asciugò le lacrime con le mani. […] «Andiamo?» lo implorò Gloria. Pietro si avviò verso l’uscita. «Sì, voglio andare via. Fa troppo caldo qua dentro.» […] Pietro scese le scale, uscì dal cancello e, senza guardare in faccia nessuno, montò sulla bicicletta e se ne andò. (pp. 389-390)

Pietro scappa in bicicletta fino a raggiungere quello che lui chiama «il posto», una

«microscopica isoletta circondata per metà dalle canne e per metà dalle acque

marroni della laguna» (p. 394) all’interno di una riserva naturale vicino a Ischiano

Scalo. Gloria raggiunge l’amico e lo convince a organizzare uno scherzo ai danni

della professoressa Palmieri, colpevole di averlo bocciato:

«E ̀ la più grande stronza che ho mai conosciuto in tutta la mia vita. Nessuno è peggio di lei. Ti ha fatto bocciare. Non è giusto. Deve pagarla.» Si mise in ginocchio accanto a Pietro. «Dobbiamo fargliela pagare. Dobbiamo fargliela pagare cara.» Pietro non rispondeva e guardava i cormorani infilarsi come fusi neri nelle acque argentate della laguna. «Che dici? Gliela facciamo pagare?» ripeté lei. «Non mi frega niente, oramai...» fece Pietro scoraggiato, tirando su con il naso. «Sei il solito... Non puoi accettare sempre tutto. Bisogna che reagisci. Bisogna farlo, Pietro.» Gloria ora era inferocita. Avrebbe voluto dirgli anche che era per questo che lo avevano bocciato, perché non aveva le palle, se avesse avuto le palle non sarebbe entrato nella scuola insieme a quella banda d’idioti, ma si trattenne. Pietro la guardò. «E come gliela faresti pagare, sentiamo? Che le fai?» «Non lo so.» Gloria cominciò a girare per l’isoletta cercando di farsi venire un’idea. «Ecco, dovremmo farle prendere paura, farla cacare sotto... Che potremmo fare?» A un tratto s’inchiodò e alzò gli occhi al cielo come se fosse stata posseduta dalla verità. «Sono un genio! Sono un grande genio.» Afferrò con due dita il retino con la biscia e lo sollevò in aria. «Le infiliamo questo simpatico animaletto nel lettino. Così, quando se ne va a nanna, le piglia un bell’infarto. Che ne dici, non sono un genio?» Pietro scosse la testa dispiaciuto. «Poveretta.» «Come poveretta? È una stronza. Ti ha bocciato...?» «No, dico poveretta la biscia. Morirà.» «Morirà? E chi se ne frega! Questa schifosa palude è piena di schifosi serpenti. Se ne muore uno non succede proprio niente, sai quanti ne muoiono sulla strada sotto le macchine? E tra l’altro non è detto che debba morire. Non succede

! 43!

proprio un cavolo.» E tanto fece e tanto disse che Pietro, alla fine, tirò fuori un sì. (pp. 397-398)

Pietro, aiutato da Gloria, riesce a intrufolarsi nella casa entrando dalla finestra del

bagno: Flora si trova proprio lì, nella vasca da bagno, in uno stato di profonda

depressione dovuto all’improvvisa rottura con Graziano. La professoressa, in un

momento di lucida follia, confessa a Pietro il motivo per cui è stato bocciato:

Ora tu vuoi sapere perché ti hanno bocciato. Te lo spiego. Perché sei immaturo e infantile. […] Un ragazzo con seri problemi caratteriali e con una famiglia problematica e difficoltà d’inserimento nel gruppo scolastico. In altre parole, perché non reagisci. Sei timido. Non ti integri. Non sai essere come gli altri. Perché tuo padre è un alcolizzato violento e tua madre una malata di nervi imbottita di medicine e tuo fratello un povero idiota bocciato tre volte. Diventerai come loro. E ti dico una cosa, togliti dalla testa il liceo, togliti dalla testa l’università. Prima capisci chi sei, prima starai meglio. Non hai spina dorsale. Ti hanno bocciato perché permetti agli altri di farti fare cose che non vuoi fare. (p. 412)

Di fronte a queste dure parole, Pietro ha una reazione di rabbia incontrollata e con il

piede spinge il «registratore» (p. 413) della professoressa dentro la vasca colma

d’acqua. Flora, «convinta di rimanere folgorata» (p. 413), si alza di scatto e scivola

all’indietro sbattendo la testa contro uno spigolo:

L’interruttore dell’elettricità, accanto al contatore, scattò con un rumore secco. Nel bagno calò il buio. Flora si sollevò urlando, forse convinta di rimanere folgorata, forse solo per istinto, fatto sta che si sollevò, rimase un secondo in bilico su un piede, ancora uno e un altro in cui si rese conto che sarebbe scivolata e scivolò indietro e, allargando le braccia, ricadde nel buio. Toc. Sentì un colpo terribile alla base della nuca. Un colpo secco che le fece vibrare la mascella e il resto del cranio. Lo spigolo. (pp. 413-414)

Con la morte della professoressa Palmieri termina il capitolo (18 giugno). Nel

capitolo seguente (19 giugno), Pietro confessa a Gloria di essere innamorato di lei e i

due ragazzini fanno l’amore per la prima volta. Graziano, che aveva lasciato Flora

senza spiegazioni ed era scappato in Giamaica, torna a Ischiano Scalo e scopre che la

! 44!

professoressa è morta. Pietro confessa ai compagni (Pierini, Bacci e Ronca) di aver

ucciso la professoressa Palmieri e, la sera stessa, nell’ultima scena del romanzo, gli

assistenti sociali arrivano a casa sua per portarlo in riformatorio:

Pietro stava insieme a suo padre e a Mimmo nel cortile a inchiodare assi sul tetto della casetta di Zagor quando arrivarono le macchine. Quei due, sulla loro Peugeot 205 verde targata Roma, insieme a una volante della polizia. Mario Moroni sollevò la testa. «E ora questi che cazzo vogliono?» «Sono venuti per me» disse Pietro appoggiando il martello a terra. (p. 445)

La lettera indirizzata a Gloria, scritta da Pietro in riformatorio due mesi prima

della sua liberazione, costituisce la parte conclusiva del romanzo (Sei anni dopo…).

Pietro, ormai maggiorenne, confessa all’amica i suoi sogni e i suoi rimpianti. La

lettera (d’amore) termina con un post scriptum in cui si ritrovano le parole utilizzate

da Ammaniti nel titolo del romanzo:

PS. Preparati, perché quando passo da Bologna ti prendo e ti porto via.

In Ti prendo e ti porto via, oltre ai due personaggi principali, c’è un terzo

protagonista invisibile: il narratore. Definire il tipo di voce narrante che caratterizza

questo romanzo è tutt’altro che semplice: facendo riferimento al modello di Genette,

si può parlare di voce eterodiegetica con alternanza tra focalizzazione zero e

focalizzazione interna mobile8. Il narratore è esterno, racconta una storia di cui non

fa parte e la farcisce con interventi chiarificatori, giudizi, impressioni: «un narratore

esterno alle vicende […] è un testimone che si può collocare al di sopra degli eventi;

questo non significa che la soggettività del narratore sia sempre esclusa e bandita dal

tono della sua narrazione»9. In Branchie, come nella maggior parte dei romanzi pulp,

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!8 Cfr. G. GENETTE, Op. cit. 9 A. BERNARDELLI, R. CESERANI, Il testo narrativo. Istruzioni per la lettura e l’interpretazione, Società editrice il Mulino, Bologna 2005, p. 78

! 45!

il lettore faceva riferimento al solo punto di vista del protagonista-narratore, con Ti

prendo e ti porto via siamo invece in presenza di un romanzo ‘corale’: al punto di

vista del narratore si mescola l’ottica dei diversi personaggi. Ammaniti stesso parla

di una «‘terza persona mimetica’, ovvero una persona che segue i suoi personaggi

però allo stesso tempo non abbandona mai la terza persona del narratore»10. La prima

pagina del romanzo permette di illustrare questa particolare tipologia di meccanismo

narrativo: È finita. Vacanze. Vacanze. Vacanze. Per tre mesi. Come dire sempre. La spiaggia. I bagni. Le gite in bicicletta con Gloria. E i fiumiciattoli di acqua calda e salmastra, tra le canne, immerso fino alle ginocchia, alla ricerca di avannotti, girini, tritoni e larve d’insetti. (p. 9)

Dal punto di vista di Pietro si passa alla descrizione del personaggio, durante la quale

il narratore esprime un suo personale giudizio sull’aspetto fisico del ragazzino,

definendolo «più piccolo della sua età»:

Pietro Moroni appoggia la bici contro il muro e si guarda in giro. Ha dodici anni compiuti, ma sembra più piccolo della sua età. È magro. Abbronzato. Una bolla di zanzara in fronte. I capelli neri, tagliati corti, alla meno peggio, da sua madre. Un naso all’insù e due occhi, grandi, color nocciola. Indossa una maglietta bianca dei mondiali di calcio, un paio di pantaloncini jeans sfrangiati e i sandali di gomma trasparente, quelli che fanno la pappetta nera tra le dita.

Segue un pensiero di Pietro, che Ammaniti riporta scritto in corsivo:

Dov’è Gloria? Si chiede.

Infine il narratore esce dai pensieri di Pietro e torna a descrivere la scena:

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!10 Cfr. C. RAIMO, Op. cit.

! 46!

Passa tra i tavolini affollati del bar Segafredo. Ci sono tutti i suoi compagni. E tutti ad aspettare, a mangiare gelati, a cercarsi un pezzetto d’ombra. (p. 9)

L’autonomia di giudizio dell’«onnipresente ma discreta voce fuoricampo»11,

con la sua capacità di controllare «l’azione principale e il diramarsi di quelle

secondarie, di annodare le fila degli incontri tra personaggi di storie diverse»12, porta

il lettore a riconoscere nel narratore un complice13, individuo esterno alla storia ma

protagonista dell’atto del narrare, e dunque anche lui per molti aspetti un

protagonista, proprio come Pietro e Graziano. Questo narratore-protagonista

coincide, a ben vedere, con l’autore stesso: è Ammaniti che esce dal testo per

commentare con sarcasmo o aiutare i lettori nella comprensione di situazioni o

personaggi. La presenza dell’autore dietro alla voce narrante si vede bene nella

presentazione di Graziano, per introdurla Ammaniti blocca dichiaratamente il tempo

della storia:

Per capire perché Graziano Biglia decise di tornare proprio il 9 dicembre, dopo due anni d’assenza, a Ischiano Scalo, il luogo dove era nato, dobbiamo risalire un po’ indietro nel tempo. Non tanto. Sette mesi prima. E dobbiamo fare un salto, dall’altra parte dell’Italia, sulla costa orientale. E precisamente in quella zona chiamata riviera romagnola. (p. 20)

Per approfondire alcuni aspetti della storia, il narratore «può arrivare a rivolgersi

direttamente al lettore ignorando ogni steccato narratologico»14 e ponendo domande

introduttive (e retoriche):

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!11 A. BIANCHI, Op. cit., p. 340 12 Ibidem 13 Dichiara Ammaniti nell’intervista già citata di Christian Raimo: «è una sorta di memoria, come se io raccontassi a te in questo momento qualcosa che mi è successo». 14 A. BIANCHI, Op. cit., p. 342

! 47!

Quei due avevano l’affinità che c’è tra un paio di scarponi da sci e un’isola greca. Perché, allora, Erica gli diede delle speranze? (p. 32)

Perché la più bella del reame, la corteggiatissima Gloria, la disperazione dei ragazzi ischianesi, quella che nella classifica della supergnocca, incisa sulla porta del bagno dei maschi, non era mai scesa sotto la terza posizione, era la migliore amica del nostro Pietro, del perdente nato, dell’ultimo della fila, dello scricciolo senza amici? (pp. 50-51) Chi era e cosa ci faceva a Ischiano Scalo questa strana creatura chiamata Flora Palmieri? (p. 236) Ma cos’era successo a scuola dopo che Pietro e compagni erano scappati? (p. 242)

«Anche il narratore eterodiegetico – e spesso a maggior ragione in quanto superiore

ed estraneo alle vicende – mette in gioco il proprio giudizio, anche se in modo meno

palese ed evidente di un narratore coinvolto negli avvenimenti narrati»15; Ammaniti,

infatti, non si limita a interrompere la storia con alcune chiarificazioni, ma commenta

e giudica situazioni e personaggi (richiamando alla memoria parte dei tratti, degli

atteggiamenti e delle funzioni tipiche del narratore manzoniano):

Per intenderci, una sala operatoria del Policlinico era meno pulita della cucina della signora Gina. Neanche usando il microscopio elettronico si scovava un acaro o un granello di polvere. Sui pavimenti di casa Biglia ci si poteva mangiare e nel water tranquillamente bere. (p. 55) Il bidello della scuola Michelangelo Buonarroti era il classico tipo che, se non gli davi un piatto di bucatini ben conditi e non lo facevi andare a puttane, si spegneva come un cero. (p. 106) A prima vista la casa del Fico poteva essere scambiata per uno sfasciacarrozze o un robivecchi. A dare questa impressione era tutta la ferraglia accatastata intorno al casolare. (p. 152) Che la professoressa Palmieri avesse un gran bel fisico non c’erano dubbi. (p. 207)

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!15 A. BERNARDELLI, R. CESERANI, Op. cit., p. 78

! 48!

La famiglia Moroni assomigliava un po’ a quelle popolazioni delle isole dei mari del Sud che vivono in uno stato di perenne apprensione, pronte ad abbandonare il villaggio appena riconoscono in cielo i segni premonitori dell’uragano. Allora filano a rifugiarsi nelle grotte e lasciano che le forze della natura si scarichino. Sanno che il fortunale è violento ma di breve durata. Quando finisce, tornano alle loro capanne e con pazienza e filosofia rimettono in piedi quelle quattro assi che gli servono a coprirsi la testa. (p. 225) Il rumore che fa la cartilagine del setto nasale spezzata quando viene rimessa a posto assomiglia, per certi versi, a quello che fanno i denti quando affondano in un Magnum Algida. Scrooooskt. Più del dolore è quel rumore che ti fa esplodere i nervi, accelerare il battito e accapponare la pelle. (p. 252)

Nelle mani del narratore-regista Ammaniti i personaggi sembrano «traballanti

fantocci inconsapevoli»16. Quello che il narratore stesso definisce il «vero

protagonista» (p. 48) della storia, Pietro Moroni, è presentato attraverso una

‘panoramica’ vista e descritta da un immaginario viaggiatore «armato di binocolo»

(p. 45) a bordo di una mongolfiera. Il narratore «si colloca, rispetto alla fetta di

mondo nella quale sta per ambientare la sua storia, al di sopra di esso, per disegnare

la mappa e descrivere minutamente al lettore tutti gli elementi che la compongono»17

(per molti aspetti la presentazione di Ischiano Scalo è vicina al celebre incipit de I

Promessi Sposi, nel quale Manzoni descrive il paesaggio in cui è ambientata la

vicenda che sta per narrare). Come un regista cinematografico, Ammaniti sceglie le

inquadrature e crea una scenografia per introdurre il protagonista nel romanzo,

«come in certi film di oggi, che iniziano con una lunga zoomata, che presenta prima

un paesaggio visto dall’aereo, poi centrato su una città o un villaggio, poi con

progressivo avvicinamento un quartiere, una casa, un viottolo, un gruppo di

personaggi»18:

Un viaggiatore armato di binocolo che si trovasse a bordo di una mongolfiera potrebbe vedere meglio di chiunque altro lo scenario

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!16 Ivi, p. 343 17 A. BERNARDELLI, R. CESERANI, Op. cit., p. 139 18 Ibidem

! 49!

della nostra storia. Subito noterebbe una lunga cicatrice nera che taglia la pianura. È l’Aurelia, la statale che parte da Roma e arriva fino a Genova e oltre. Per quindici chilometri va dritta come una pista d’atterraggio, poi lentamente curva a sinistra e raggiunge la cittadina di Orbano, tutta affacciata sulla laguna. […] E se ora il nostro viaggiatore spostasse il binocolo a sinistra vedrebbe la spiaggia di Castrone. Il mare ci arriva dritto dritto contro e, quando ci sono le mareggiate, la sabbia si ammucchia sul bagnasciuga e per entrare in acqua bisogna scalare le dune. […] Se il nostro viaggiatore spostasse il binocolo a destra, vedrebbe una lunga laguna salmastra a forma di fagiolo, divisa dal mare da una strisciolina di terra. Si chiama laguna di Torcelli. […] Ed ecco finalmente, accanto alla laguna, Ischiano Scalo. […] Ora però il nostro viaggiatore dovrebbe scendere un po’ di quota, così potrebbe vedere meglio la costruzione moderna dietro quel capannone industriale. È la scuola media Michelangelo Buonarroti. Nel cortile c’è una classe che sta facendo ginnastica. Tutti giocano a pallavolo e a basket, tranne un gruppo di femmine sedute su un muretto, che chiacchierano di cose loro e un ragazzino che se ne sta in disparte, a gambe incrociate, in uno spicchio di sole, a leggere un libro. Quello è Pietro Moroni, il vero protagonista di questa storia. (pp. 45-48)

L’onniscienza assoluta autorizza la voce narrante ad entrare dentro alla psicologia del

personaggio, mostrandone pensieri, dubbi, opinioni. All’ottica del narratore si

sovrappone, per tutto il corso del racconto, quella dei personaggi, espressa

soprattutto attraverso il discorso indiretto libero; il narratore conosce talmente bene i

suoi personaggi da poterne riferire i pensieri con estrema precisione, come se fossero

loro a raccontare la propria storia, mantenendo però il filtro della terza persona:

«attraverso una serie di modalità linguistiche […] si riferiscono i pensieri e le parole

di un altro cercando di rappresentarli, di renderli in modo diretto e fedele, anche se

sono in realtà riferiti dal narratore»19. Osserviamo uno dei casi in cui al punto di vista

del narratore segue il discorso indiretto libero di Graziano20:

Questa era la vita di Graziano Biglia a quei tempi. Una vita al massimo, come direbbe un titolo di un film. Una vita fatta d’incontri, di felici imprevisti, di energie e flussi positivi. Una vita

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!19 Ivi, p. 230 20 Ammaniti sembra in effetti essersi particolarmente affezionato al «Biglia», tanto da coinvolgerlo nei ringraziamenti finali come se il personaggio avesse acquisito vita autonoma: «E ringrazio […] per aver sostenuto me e Graziano Biglia».

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sulle note di un merengue. Cosa c’è di più bello del sapore amaro della droga che t’intorpidisce la bocca e di un miliardo di molecoline che ti circolano nel cervello come un vento che infuria e non fa male? Di una lingua sconosciuta che ti accarezza l’uccello? Cosa? (p. 23)

Il narratore, attraverso la forma indiretta libera, si immedesima in tutti i suoi

personaggi, anche in quelli secondari:

Filava come una spada, il Cazzone. Aveva un bel fiato, niente da dire. Ma era fiato buttato. Perché prima o poi si sarebbe dovuto fermare. Dove devi andare? Il Cazzone aveva fatto la spia e doveva essere castigato. Pierini lo aveva avvertito, ma quello aveva fatto di testa sua, aveva spifferato e ora doveva subirne le atroci conseguenze. Semplice. (p. 346)

In questo passo si vede bene come, nonostante la narrazione sia in terza persona, il

narratore assuma l’ottica e il modo di esprimersi di Pierini, il bullo della scuola, con

un’accentuata mimesi linguistica. L’autore, inoltre, evidenzia graficamente con il

corsivo i pensieri più ‘diretti’, riproducendo il monologo interiore del personaggio

senza la «marca o clausola di contrassegno (per esempio: le virgolette) all’inizio e

alla fine del discorso»21. Ammaniti utilizza costantemente e intenzionalmente questo

procedimento (il pensiero del personaggio, così riportato, colpisce il lettore con

maggiore intensità rispetto alla forma tradizionale «X pensava: “…”»): Calmo. Stai calmo. Devi sembrare normale. Non far vedere che hai paura. E neanche che hai fretta, si ripeteva Pietro come un’Avemaria. Avanzava lentamente. Nonostante si fosse imposto di non chiederselo, continuava a tormentarsi sul perché quei tre ce l’avessero con lui. Era il loro giocattolo preferito. Il topolino su cui imparare a usare gli artigli. Che gli ho fatto di male? Lui non rompeva. Se ne stava per conto suo. Non parlava con nessuno. Li lasciava fare. Volete essere i capi, va bene. Siete i più duri della scuola, va bene. Allora perché non lo lasciavano in pace? (p. 90)

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!21 A. BERNARDELLI, R. CESERANI, Op. cit., p. 230

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E il sesso? Il sesso? È vero, ne faccio tanto, ma che ci posso fare se piaccio alle donne e se loro piacciono a me? (Gli uomini mi fanno schifo, sia chiaro.) Il sesso si fa in due. Il sesso è la cosa più bella del mondo se fatto in modo giusto, senza troppe pippe (Graziano non ha mai riflettuto molto sull’ovvietà di questa affermazione). E poi cosa piaceva a Graziano? La musica latina, suonare la chitarra nei locali (quando mi pagano!), abbrustolirsi su una spiaggia, cazzeggiare con gli amici davanti a un enorme sole arancione che muore in mare e... e basta. Non bisogna credere a quelli che ti dicono che, per apprezzare le cose della vita, bisogna farsi il culo. Non è vero. Ti vogliono fottere. Il piacere è una religione e il corpo è il suo tempio. (pp. 24-25)

I due brani permettono di osservare un altro aspetto relativo al narratore: gli

interventi della voce narrante («Nonostante si fosse imposto di non chiederselo,

continuava a tormentarsi sul perché quei tre ce l’avessero con lui. Era il loro

giocattolo preferito»; «Il sesso è la cosa più bella del mondo se fatto in modo giusto,

senza troppe pippe (Graziano non ha mai riflettuto molto sull’ovvietà di questa

affermazione)») fanno da controcanto ai pensieri del personaggio, limitandone gli

spazi di autonomia. Il narratore si allontana dall’ottica del personaggio e «la distanza

diviene anche psicologica e tratta la materia della narrazione con una buona dose di

ironia»22. L’atteggiamento del narratore assume, però, sfumature diverse in rapporto

ai due protagonisti: paternalistico nei confronti dell’adolescente Pietro, canzonatorio

nei confronti di Graziano.

L’evoluzione narrativa di Ammaniti coinvolge anche la sfera tematica.

Attraverso le storie dei due personaggi principali di Ti prendo e ti porto via, l’autore

si confronta con temi letterari tradizionali. L’amicizia, l’amore, il sesso, la vendetta e

i tradimenti sono analizzati da due punti di vista differenti: quello dell’adolescente

timido, irresoluto e sognatore che si trova ad affrontare situazioni difficili, e quello di

un playboy di mezza età, eterno ragazzino, che, dopo una vita di eccessi, cerca

(invano) di mettere la testa a posto e diventare un adulto. I due personaggi, «dalle

personalità diametralmente opposte»23, sono in realtà solo «apparentemente

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!22 Ivi, p. 139 23 A. BIANCHI, Op. cit., p. 340

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lontanissimi»24: entrambi, infatti, vivono un momento di transizione che dovrebbe

condurli alla maturità. Esemplare è il fatto che Graziano e Pietro condividano le

difficoltà dei rapporti d’amore, a cui guardano da prospettive diverse (perché diversa

è la loro età), ma ancora lontane dalla consapevolezza propria dell’amore ‘adulto’:

Corsero sulla spiaggia e si gettarono, uno vicino all’altra, dove la sabbia era ancora calda. Gloria cominciò a strofinarlo per asciugarlo, ma poi gli avvicinò la bocca all’orecchio e sospirò: «Mi dici una cosa?». «Cosa?» «Ma tu mi vuoi bene?» «... Sì» rispose Pietro. Il cuore aveva cominciato a marciargli sotto lo sterno. «Come mi vuoi bene?» «Tanto.» «No, voglio dire, tu...» Prese un respiro imbarazzata. «Mi ami?» Pausa. «Sì.» Pausa. «Veramente?» «Credo di sì.» «Come la Palmieri? Ti uccideresti per me?» «Se fossi in pericolo di vita...» «Allora facciamolo...» «Cosa?» «L’amore. Facciamo l’amore.» «Quando?» «Dopodomani. Quanto sei scemo! Ora, adesso. Io non l’ho mai fatto, tu... Tu non l’hai mai fatto...» fece una smorfia. «Non mi dire che l’hai fatto. Non è che, senza dirlo a nessuno, lo hai fatto con quel mostro della Marrese?» «L’avrai fatto tu con la Marrese...» protestò Pietro. «Sì, sono lesbica e non te l’ho mai detto. Amo la Marrese.» Cambiò tono, divenne seria. «Dobbiamo farlo adesso. Non sarà difficile?» «Non lo so. Ma come...?» Pausa. «Come cosa?» «Come incominciamo?» Gloria alzò gli occhi alla notte e poi, impacciata. «Be’, per esempio potresti baciarmi. Sono già tutta nuda.» (pp. 421-422) E qui Graziano sbagliò. […] come aveva sbagliato praticamente tutti i giorni da quarantaquattro anni a questa parte, e non è vero quello che dicono che sbagliando s’impara, non è assolutamente vero, esistono persone che sbagliando non imparano proprio niente, anzi, continuano a sbagliare convinte di essere nel giusto (o incoscienti di ciò che fanno) e con la gente così la vita, di solito, è cattiva, ma anche questo d’altronde non significa nulla, perché queste persone sopravvivono ai loro errori e vivono e crescono e amano e mettono al mondo altri esseri umani e invecchiano e continuano a sbagliare. Questo è il loro dannatissimo destino. E questo era il destino del nostro triste stallone. Chissà cosa gli girò nella testa, chissà cosa pensò e come se la organizzò nel cervello, quell’idea sciagurata. Graziano voleva di più. Voleva chiudere il cerchio, voleva la botte piena e la moglie ubriaca, voleva la luna nel pozzo, voleva colpire e affondare, voleva il manzo preso al laccio e marchiato, chissà cosa cazzo voleva, voleva sverginarla davanti e di dietro. Voleva il culo di Flora Palmieri. Le allargò le chiappe, ci sputò sopra e spinse il cazzo in quella stella contratta. (pp. 328-329)

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!24 Ibidem

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Ti prendo e ti porto via introduce due figure che saranno ricorrenti nelle opere

successive: l’adolescente e l’adulto ‘disorientato’. Ammaniti, da qui in poi, si fa

interprete del disagio delle nuove generazioni, scegliendo di raccontare le storie di

soggetti emarginati e problematici, ma ben riconoscibili nel panorama sociale

odierno25. Nell’intervista di Raimo, l’autore sottolinea che la sua è una scelta

consapevole: «è una scelta, sì: […] cercare di raccontare il cuore dell’Italia, quella

parte che in genere passa inosservata»26. Anche Marco Donati è un personaggio

emarginato, ma Branchie è caratterizzato da quell’aspetto surreale che fa somigliare

il protagonista a un eroe dei fumetti, rendendolo poco verosimile. I personaggi di

Ammaniti sono degli anti-eroi, perché la realtà in cui vivono esclude la possibilità

stessa dell’eroismo, e per questo motivo risultano «veri, autentici […] proprio in

virtù della loro inconsapevolezza, della mancanza di “movente” per le loro azioni

[…] e del vuoto che li circonda»27. La realtà socio-culturale in cui Ammaniti

ambienta il suo romanzo è tipica dell’Italia contemporanea: Ti prendo e ti porto via è il grande affresco di un’Italia burina, parvenue e un po’ becera, del Mulino Bianco e dell’abito firmato, un’Italia ossessionata dall’immagine, abbagliata dalla parvenza, ammaliata dalla sirena televisiva, un paese che è laboratorio privilegiato della civiltà della tecnica perché arricchito troppo in fretta, un paese che è passato da un semianalfabetismo diffuso alla cultura mass-mediatica avanzata.28

Di questa Italia, Ammaniti sembra prediligere la periferia urbana degradata29,

perfetta ambientazione per gli eventi eccezionali ma plausibili vissuti dai personaggi

(pensiamo all’omicidio della professoressa da parte del suo allievo, che potrebbe

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!25 «Si prenda la famiglia di Pietro. Il padre è alcolizzato, la madre è clinicamente depressa, il fratello Mimmo è un pastore, un pastorello metallaro con giacca borchiata anfibi e chitarra elettrica.» (A. BIANCHI, Op. cit., p. 341) 26 Cfr. C. RAIMO, Op. cit. 27 A. BIANCHI, Op. cit., p. 343 28 Ivi, p. 342 29 Ischiano Scalo, come Acqua Traverse in Io non ho paura e Varrano in Come Dio comanda, sono luoghi di fantasia, ma riconducibili al modello tipico del paese di provincia.

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essere un fatto di cronaca da telegiornale o fiction televisiva). Più che per l’effettivo

impegno di denuncia morale e civile, è possibile considerare Ammaniti uno ‘scrittore

sociale’ per la propensione a mettere in scena personaggi e situazioni tipiche di

contesti sociali marginali, come lui stesso dichiara:

È soprattutto la retorica dell’impegno a mettermi in difficoltà. […] Questo aspetto del mestiere di scrittore […] l’ho sempre trovato più come un accessorio, e come tale non indispensabile. Non era un mio problema, il mio problema era raccontare delle storie. Detto questo, sì, credo di essere uno scrittore sociale nel senso che mi è sempre interessata la vita ai margini.30

L’autore, abile burattinaio, nel mettere i suoi anti-eroi di fronte a imprevisti o

situazioni estreme (che, a ben vedere, sono provocate dal degrado sociale in cui è

ambientata la storia) più che denunciare sembra divertirsi, osservando le reazioni

tragicomiche dei suoi personaggi; afferma Ammaniti stesso: «i miei personaggi in

genere sono creature abbastanza semplici che, improvvisamente, si trovano in

circostanze diverse da quelle a loro abituali, e lì reagiscono come reagirebbe

chiunque di fronte all’imprevisto: tirando fuori il meglio e il peggio di sé»31. È

interessante osservare come l’autore descriva la genesi dei suoi personaggi, facendo

riferimento proprio a Graziano Biglia:

La mia idea è che – nella costruzione di un personaggio (apparentemente) stereotipato come potrebbe essere Graziano Biglia […] – è meglio essere chiari sin dall’inizio… Il mio personaggio ti viene consegnato nelle prime 10 pagine: è così, ha quel carattere, punto. […] È come se dicessi al lettore: “Okay, ora ti presento il personaggio, Graziano Biglia, eccolo”. Dopo poche pagine tu hai capito: io ti dico che quello suona la chitarra, si fa fare i pompini a Riccione, va a Ibiza e sembra Sandy Marton, e tu te lo vedi davanti questo personaggio, immediatamente. E puoi stare tranquillo – da lettore – che il personaggio non sarà diverso da così, che rimarrà fedele alla sua caratterizzazione. […] A un certo punto questo personaggio fa delle cose che sorprendono lui, sorprendono il lettore e sorprendono anche me, nel momento in cui costruisco una trama che mi permette – rispetto a quel personaggio

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!30 Cfr. C. RAIMO, Op. cit 31 Ibidem

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apparentemente definito – di mostrarne dei lati inattesi, persino una profondità che non era possibile intuire… In questo modo passa da una condizione di cartoon a una molto più umana. Ma è un effetto che puoi ottenere proprio perché il personaggio ti è stato dato così, circoscritto, sin dall’inizio: se si fosse sviluppato nel tempo, cioè nel corso delle pagine, questo effetto non l’avresti.32

Il diverso atteggiamento nei confronti dei due protagonisti, già sottolineato in

riferimento agli interventi della voce narrante, è in realtà una presa di posizione

‘ideologica’ dell’autore. La figura dell’adolescente è trattata con minor cinismo:

Ammaniti crede nella possibilità, per i ragazzini, di redimersi; per gli adulti, invece,

sembra non esserci più speranza di riscatto: l’autore costruisce personaggi

macchiettistici senza tuttavia condannarli, e anzi compatendoli, come se fosse

affezionato ai loro immutabili difetti (Ammaniti stesso parla di «sentimento di

misericordia: […] che ho sempre avuto nei confronti di tutti i miei personaggi, anche

dei peggiori»33). Graziano, infatti, è «ripetutamente trapassato da improvvise

incontenibili emozioni che subito svaporano in quella successiva»34 e non impara

niente dalle proprie azioni e dai propri errori; l’adolescente Pietro, invece, è

accompagnato da Ammaniti fino alla maturità:

Quando si diventa adulti non si cambia più, non ci sono più gli spazi per poter cambiare. Come adulto puoi solo esasperare i tuoi comportamenti: oppure puoi provare a cambiare, ma inevitabilmente verrai sopraffatto dalla tua stessa storia. L’adolescenza al contrario è un periodo di grande trasformazione, e dunque anche di speranza. […] Della speranza degli adulti invece non me ne frega niente: […] mi limito a provarne profonda pietà; penso al personaggio di Flora Palmieri, la professoressa, che è una poveraccia condannata a rimanere prigioniera del suo malessere.35

Per questo motivo, Ti prendo e ti porto via non nega la tradizionale funzione

formativa del racconto (la Bildung romanzesca a cui ho fatto riferimento nel primo

capitolo). Le prove estreme (ma reali, non da videogioco come accadeva in

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!32 Ibidem 33 Ibidem 34 A. BIANCHI, Op. cit., p. 345 35 Cfr. C. RAIMO, Op. cit.

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Branchie), che l’autore fa vivere al suo personaggio adolescente, rappresentano le

tappe di un percorso di formazione individuale, «Pietro in effetti è il solo che

acquista, alla fine del libro, un barlume di lucida coscienza di se stesso»36:

E credo veramente di aver cambiato il mio destino. Ora lo posso dire visto che ho passato sei anni in questo posto che chiamano istituto ma che per tanti aspetti è uguale a una galera e sono cresciuto, ho fatto il liceo e forse andrò anch’io all’università. Io non volevo finire come Mimmo che sta ancora là a combattere con mio padre (mi ha detto mia madre che ha cominciato a bere anche lui). Io non ci volevo più stare a Ischiano Scalo. No, io non volevo diventare come loro e tra poco avrò diciotto anni e sarò un uomo, pronto ad affrontare il mondo (si spera!) nel migliore dei modi. […] Rimarrò sempre un assassino, anche se avevo dodici anni non importa, non c’è modo per pagare una cosa così terribile, nemmeno la pena di morte. Ma col tempo s’impara a vivere lo stesso. (p.451)

!

Ho definito Ti prendo e ti porto via ‘romanzo della maturazione’ per un

duplice ordine di motivi: uno, interno alla trama, è il percorso di formazione che

intraprende Pietro; l’altro riguarda l’evoluzione tematica e stilistica di Ammaniti, che

in questo romanzo propone per la prima volta il modello narrativo che caratterizza la

sua produzione più matura. Il confronto tra il mondo adolescenziale e quello degli

adulti, nel contesto socio-culturale di un’Italia di provincia, diviene una costante

tematica (in specie nella ‘trilogia’ che comprende, oltre a Ti prendo e ti porto via, Io

non ho paura e Come Dio comanda, ma anche nell’ultimo romanzo pubblicato, Io e

te37). La maturazione narrativa di Ammaniti passa anche attraverso il recupero della

tradizione, sia nei temi che nello stile. Il ‘modello Ammaniti’ va caratterizzandosi

per l’impianto narrativo solido e razionale (che permette all’autore di intrecciare

storie con grande abilità), per il linguaggio medio-colloquiale e il frequente richiamo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

36 A. BIANCHI, Op. cit., p. 341 37 In Io e te il confronto-scontro tra l’adolescente problematico e l’adulto ‘disorientato’ è fondamentale, ma il contesto è urbano (la vicenda si svolge quasi per intero all’interno della cantina di un condominio di Roma, riproponendo, tra l’altro, l’ambientazione sotterranea già presente in Io non ho paura, ma non in Ti prendo e ti porto via).

! 57!

a elementi della cultura pop, declinati spesso in maniera comica (ad ottenere l’effetto

trash, evidente, ad esempio, in Che la festa cominci).

Riferimenti bibliografici

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