Etruschi, Veneti e Celti. Relazioni culturali e mobilità individuale, in Mobilità geografica e...

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MOBILITÀ GEOGRAFICA E MERCENARIATO NELL’ITALIA PREROMANA Atti del XX Convegno Internazionale di Studi sulla Storia e l’Archeologia dell’Etruria a cura di Giuseppe M. Della Fina estratto

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Mobilità geografica e Mercenariato nell’italia PreroMana

atti del XX convegno internazionale di Studi sulla Storia e l’archeologia dell’etruria

a cura di giuseppe M. Della fina

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iSbn 978-88-7140-534-6

© roma 2013 - edizioni Quasar di Severino tognon srlvia ajaccio 41-43 - 00198 romatel. 0685358444, fax 0685833591www.edizioniquasar.it

Finito di stampare nel mese di novembre 2013 presso Arti Grafiche La Moderna - Roma

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a n n a l iD e l l a f o n D a z i o n e

P e r i l M u S e o « c l a u D i o f a i n a »

voluMe XX

orvietonella SeDe Della fonDazione

eDizioni QuaSar2013

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Ho accettato con molto piacere l’invito della fondazione faina e dell’amico giuseppe della fina a partecipare a questo convegno sulla mobilità anche se sarò costretto a ripetere cose già dette al convegno in onore di giulia fogolari tenutosi ad adria ed este nel mese di apri-le di quest’anno (gli atti sono in corso di stampa).

la circostanza di riproporre all’attenzione dei colleghi quanto ho avuto occasione di dire in quella sede e di mettere a confronto alcu-ne mie considerazioni di allora con altri contributi sulla mobilità era troppo ghiotta per lasciarmela sfuggire. anche se debbo ovviamente scusarmi con quanti erano presenti al convegno fogolari per il fatto che riascolteranno cose già sentite. Ma, ripeto, la possibilità di con-frontarmi su un tema così importante e delicato come quello della mobilità, per di più in uno spettro molto ampio di temi e di aree, ha contribuito molto nel farmi vincere ogni resistenza al riguardo.

Sono ben note a tutti noi le relazioni culturali e commerciali tra etruschi di area padana e celti di golasecca da un lato e tra etru-schi di area padana e antichi veneti dall’altro. all’interno di questi rapporti che toccano gli scambi commerciali e le relazioni culturali nel senso più ampio del termine si è fatta strada in questi ultimi anni una particolare attenzione ad episodi molto significativi di mobilità individuale. i rapporti culturali e commerciali tra questi diversi am-biti dell’italia settentrionale diventano per così dire meno aleatori se si intravede che dietro di essi ci sono individui che si spostano la-sciando una traccia concreta del loro passaggio e forse anche del loro soggiorno stabile, individui ai quali si deve l’arrivo nelle diverse aree interessate non solo di merci, di materie prime e di manufatti, ma anche di tecnologie, di modelli culturali e di idee.

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etruScHi, veneti e celti. relazioni culturali e Mobilità inDiviDuale

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Sotto questo profilo la stessa documentazione archeologica può dare un contributo importante. Diversi anni fa ho portato l’attenzione su alcune tombe del sepolcreto certosa nel cui corredo erano presenti materiali del tutto speciali. nella tomba 329, una lunga fossa con inumato, l’unico oggetto del corredo era un vasetto atestino trovato ancora verticale in prossimità della testa del defunto1. nella tomba 57 dello stesso sepolcreto, una piccola fossa con scheletro di bambino, l’unico oggetto del corredo era un bicchiere golasecchiano2. È molto improbabile che queste ceramiche siano arrivate a bologna a seguito di semplici contatti commerciali. al contrario, sia per la loro intrinse-ca modestia che per le loro caratteristiche (sono ceramiche peculiari e per così dire identitarie delle culture di este e golasecca), per il loro isolamento (sono gli unici oggetti del corredo) e per la loro collocazio-ne speciale all’interno della tomba (almeno in un caso presso la testa del defunto), queste ceramiche sembrano documentare la presenza fisica nella Bologna di V secolo di individui provenienti da Este e da golasecca che in questo modo hanno inteso sottolineare al momento della sepoltura la loro appartenenza ai due mondi transpadani da cui provenivano. Probabilmente lo stesso discorso si può fare per un vaso situliforme decorato con borchie di bronzo di sicura provenienza ate-stina, deposto in una tomba di verucchio3. il vaso è infatti di un tipo frequente ad este in tombe generalmente femminili che si segnalano per la loro ricchezza; e in questo caso potrebbe essere interpretato come un prezioso “dono straniero” o forse anche l’indizio di una donna veneta presente a verucchio molto probabilmente a seguito di legami matrimoniali.

Considerazioni analoghe si possono fare per le fibule tardo-hal-lstattiane occidentali o per i ganci di cintura traforati e gli anelli con coppiglia mobile, presenti in notevole quantità sia in area etrusca che in area venetica4, probabilmente riferibili, oltre che a contatti com-merciali, anche allo spostamento di individui. Per i ganci di cintura traforati è stata fatta l’ipotesi di guerrieri celti di area transalpina o anche dell’area di golasecca in considerazione del fatto che tali ganci si ricollegano in modo puntuale ad un particolare tipo di armamento. Sotto questo profilo e in quest’ottica si tratta quindi di materiali del tutto speciali che consentono interpretazioni e letture che vanno bene

1 Sassatelli 1989, pp. 64-67, figg. 18-19. Si veda anche l’olla atestina della tomba certosa 388 (ibid., pp. 64-66) dove il vaso non era l’unico oggetto del corredo, ma era associato a ceramiche attiche di buona qualità per cui la sua eventuale “connotazi-one etnica” risultava quanto meno attuata.

2 Sassatelli 1989, pp. 64-67, figg. 16-17.3 ChieCo BianChi 1994; Sassatelli 1996, p. 267 con rimandi. il vaso proviene

dalla tomba 9 della necropoli “le Pegge”.4 Sassatelli 2003, pp. 233-234 con bibliografia sul problema.

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al di là delle semplici relazioni commerciali o dei semplici contatti culturali. Ma io credo che oggi possiamo andare oltre questo tipo di considerazione e sotto questo profilo è soprattutto la documentazione epigrafica ad offrire spunti interessanti sia pure a livelli diversificati. ne esce un quadro molto complesso di relazioni e di intrecci dai qua-li traspare un’ampia mobilità individuale e una larga permeabilità all’interno dei vari gruppi che accolgono ed assorbono con facilità in-dividui di altre aree i quali si integrano e si fondono all’interno delle comunità a cui approdano, pur mantenendo qualche traccia e qual-che segno della loro terra d’origine: etruschi tra celti di golasecca e veneti; celti di golasecca e celti d’oltralpe tra etruschi e veneti; veneti tra etruschi e così via.

ci sono in primo luogo iscrizioni che appartengono ad una lin-gua diversa e per così dire “straniera” rispetto alla lingua dell’ambito culturale ed etnico in cui sono state trovate. e questo è il caso più semplice e marcato di una mobilità individuale che non lascia dubbi al riguardo trattandosi di personaggi che anche in terra “straniera” mantengono i caratteri e le peculiarità della loro lingua d’origine.

ci sono poi iscrizioni con nomi che pur essendo perfettamente inseriti nella lingua e nell’onomastica delle comunità locali in cui si trovano, rimandano ai luoghi d’origine di chi ne è portatore, un feno-meno che va valutato con cautela sia perché potrebbe dipendere da mode e/o imitazioni o comunque da fatti non strettamente collegabili alla mobilità individuale; sia perché non è facile individuare esatta-mente i tempi di questa avvenuta integrazione che potrebbe anche essere molto più antica dei documenti che la testimoniano. Pur con queste cautele e con queste difficoltà il fenomeno va comunque consi-derato in tutte le sue forti potenzialità sul piano storico e sociale.

Proverò a trattare questo tema proprio su questi due livelli: da un lato iscrizioni “straniere” rispetto all’ambito culturale ed etnico in cui si trovano; e dall’altro individui che pur non essendo “stranieri”, cioè pur essendo perfettamente inseriti sul piano sociale ed onoma-stico nell’ambito in cui si trovano, recano nel nome tracce di una loro più o meno lontana e antica origine straniera. e lo farò partendo da bologna e dagli etruschi di area padana, valutando in primo luogo la loro capacità di attirare “stranieri”; e successivamente la loro capaci-tà di espandersi e di abitare stabilmente nelle vicine aree dell’italia settentrionale.

comincio da bologna dove abbiamo ora un nuovo e importante documento epigrafico estremamente significativo proprio in rappor-to ai temi della mobilità di cui abbiamo discusso in questi giorni. a bologna nell’area dei sepolcreti occidentali e più precisamente nel sepolcreto battistini (fig. 1), nel maggio del 1895 fu scoperta una

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tomba a fossa quadrata, larga circa un metro, all’interno della quale era collocata una cista a cordoni di bronzo che conteneva solo le ceneri del defunto (fig. 2)5. La cista ha due maniglie orizzontali e fisse, di di-mensione e di foggia differenti (una a sezione quadrangolare e l’altra a sezione circolare) fissate al corpo per mezzo di attacchi rettangolari con ribattini. la differenza dei manici è sicuramente da imputarsi ad un restauro antico. La cista era coperta da una tegola fittile (un uso del tutto insolito dato che normalmente tale funzione era espletata da una lastra di pietra, generalmente arenaria) per di più di dimensio-ni anomale, tanto da legittimare l’ipotesi di una tegola confezionata appositamente per questo uso funerario. in tutti i sepolcreti di fase certosa conosciamo solo un’altra tomba (certosa t. 65), a pozzetto e con cratere, che utilizzava questo tipo di copertura, assieme però ad una sfaldatura di arenaria. la nostra cista è alta cm 34,5 ed ha un diametro di cm 37. È costituita da due lamine sovrapposte e unite ai bordi, con due file di chiodini. Il corpo è articolato in 14 cordoni sbal-zati ed ha un orlo superiore rovesciato in fuori attorno ad un’anima di ferro. La cista rientra nel “Gruppo Certosa” della classificazione Stjernquist6 la cui produzione è stata più volte riferita ad una officina bolognese7, attiva tra la fine del VI secolo e gli inizi del IV. Se da un lato non è possibile pervenire ad una cronologia più puntuale, dall’al-tro è altrettanto vero che assai difficilmente questo tipo di vaso può risalire verso l’alto oltre la fine del VI secolo (e già questo è un dato molto importante). va inoltre sottolineato che si registra a bologna una sua relativa concentrazione nella seconda metà del v secolo.

Sotto il profilo del rituale funerario a Bologna la cista a cordoni viene sempre utilizzata come cinerario. e da questo punto di vista an-dranno indagate le analogie/diversità tra cista di bronzo e cratere atti-co, entrambi usati come cinerari, con una scelta molto diversa e per così dire contrapposta che potrebbe avere la sua origine in un differente modo di consumare il vino anche perché non mancano testimonianze di ciste a cordoni inserite in corredi “principeschi” dove fanno parte della utensileria bronzea di carattere simposiaco8. cratere attico e cista a

5 Sul sepolcreto è stata appena discussa una tesi della Scuola di Specializza-zione in beni archeologici condotta da giulia Morpurgo la quale ha raccolto e siste-mato l’intera documentazione del sepolcreto che di fatto è inedito. Per alcune scarne notizie sul sepolcreto e sulla tomba Montanari 1950-1951, p. 306; Stjernquist 1967, p. 26, n. 3, tavv. X, 3, e XXXiv, 3.

6 Stjernquist 1967, pp. 47-56.7 oltre al catalogo della Stjernquist sopra ricordato mi limito a citare i lavori

più recenti su questo aspetto del problema: bouloumié 1976; Martelli 1982; de Mari-nis 2000; MaCellari 2002, pp. 183, 237-238, 395-396 con ampia discussione sul tema; MiCozzi 2003; Pizzirani 2009, pp. 53-54, 129 e 153 con altri riferimenti sul problema.

8 Martelli 1982.

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cordoni di bronzo hanno insomma un destino parallelo e contrapposto al quale bisognerà prestare molta attenzione, sia per quanto riguarda il richiamo al simposio sia per quanto riguarda il loro utilizzo come cinerari. non è questa la sede per affrontare un problema così vasto e complesso che richiederebbe una riflessione approfondita e “dedicata”. Può tuttavia essere utile richiamare alcuni dati sull’uso della cista e sul suo significato in ambito funerario, oltre che sulla sua diffusione. in primo luogo si tratta di un tipo di vaso che ha una lunghissima tra-dizione in area padana e in italia settentrionale oltre che nell’europa transalpina9. La sua produzione comincia tra la fine dell’VIII e gli inizi del vii secolo e si esaurisce nel corso del iv. la Stjernquist propone una classificazione tipologica che distingue fondamentalmente ciste ad ansa fissa e ciste ad ansa mobile. Se osserviamo la diffusione di entrambi i tipi senza tener conto di questa distinzione (che non è solo tipologica, ma nasconde una profonda diversità sul piano funzionale e ideologico) abbiamo l’idea di una diffusione per così dire indifferenziata e senza particolari addensamenti, in un’area che abbraccia l’etruria Padana, l’italia settentrionale e l’europa transalpina. Se invece consi-deriamo la diffusione delle ciste distinguendo i due tipi le cose sono ben diverse. Per il tipo ad ansa fissa su un totale di 76 esemplari, 20 pro-vengono da aree esterne all’italia, mentre ben 55 provengono dall’ita-lia settentrionale e di questi ben 45 provengono da bologna e dal suo territorio; nessun esemplare è documentato in etruria tirrenica e uno solo è presente in italia meridionale10.

le situle a manico mobile presentano invece una diffusione spe-culare e per così dire invertita. Su un totale di 178 esemplari, 98 pro-vengono da aree esterne all’italia; 35 sono presenti in italia setten-trionale (e di queste solo 4 a bologna); 2 nell’etruria tirrenica; 12 in italia meridionale e 31 nelle Marche e in umbria con una concentra-zione che probabilmente va considerata a sé e va isolata dal resto.

È evidente che sulla base della semplice diffusione difficilmente si può pensare ad un tipo di vaso di marcata e schietta tradizione etrusca dato che il tipo a manici fissi è del tutto assente in Etruria e per il tipo a manici mobili su 178 esemplari ben 98 provengono da aree esterne all’italia, 35 dall’italia settentrionale e tra questi ultimi solo 4 da bologna e dal suo territorio. Ma è anche vero che il tipo a manici fissi ha una sorprendente concentrazione proprio a Bologna dato che su 76 esemplari ben 45 provengono da questa città e dal suo territorio11.

9 Stjernquist 1967, pp. 47-56.10 È l’esemplare di cuma studiato da M. Martelli (Martelli 1982). 11 Per tutte queste considerazioni e per tutti questi problemi rimando ai lavori

citati alle note 6 e 7.

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in buona sostanza la cista sembra essere un tipo di vaso con una lunga e radicata tradizione nell’italia settentrionale e nell’europa transalpina. e all’interno di questa radicata tradizione bologna forse introduce un elemento distintivo che è la cista a manici fissi più vici-na, per funzione e per uso, al grande vaso attico per il vino e come tale diversa dalla cista a manici mobili più vicina al secchio e quindi più generica nella funzione e meno connotata sul piano ideologico.

Sembra insomma che bologna all’interno di una radicata tradi-zione settentrionale si faccia promotrice di una rifunzionalizzazione o quanto meno di una più forte connotazione ideologica di questo tipo di vaso, sia per quanto riguarda il simposio e il consumo del vino, che per quanto riguarda il suo utilizzo come cinerario. l’impressione è proprio quella del recupero tutto bolognese di una tradizione set-tentrionale e italica (o forse anche transalpina) fortemente virata in senso etrusco ad esprimere i valori del simposio e la ritualità della cremazione, con un tipo di vaso molto particolare per il quale è lecito ipotizzare una sorta di relazione/contrapposizione con i grandi vasi attici, anch’essi usati oltre che per contenere e preparare il vino an-che per accogliere le ceneri del defunto12.

Subito sotto l’orlo della nostra cista (fig. 3), in posizione voluta-mente simmetrica e centrale rispetto alle due anse, quasi a volerne enfatizzare la posizione e facilitarne la lettura, anche in caso di pre-sa e di spostamento, corre una iscrizione (figg. 4-5). le lettere sono disturbate dalla presenza di 5 chiodi posti a distanza molto regolare l’uno dall’altro, probabilmente con la funzione di rinforzo per la lami-na rispetto a un qualche supporto interno da riferire ad un restauro “moderno”. va osservato che, in apparenza (ma solo in apparenza), mentre 4 dei 5 chiodi regolarmente disposti sono stati messi dopo l’iscrizione dato che interrompono brutalmente i tratti delle lettere (iota, pi e sigma finale), il quinto, in corrispondenza del primo alpha, all’apparenza sembra essere invece precedente all’iscrizione dato che la barra trasversale della lettera è chiaramente incisa sopra la cuppella del chiodo. in un primo momento avevo pensato che questa presunta diversità di realizzazione potesse ricollegarsi all’uso antico del vaso e alla sua “storia” con conseguenze importanti relativamente ai tempi di realizzazione sia del vaso che dell’iscrizione, dato che il segno di lettera inciso sul chiodo sembrava indicare che l’iscrizione fosse successiva all’inserimento dei chiodi creando non pochi proble-mi sulla sequenza delle operazioni che hanno interessato il vaso. in realtà le cose stanno ben diversamente. ad una osservazione più at-

12 Per tutti questi problemi ricollegati alla ritualità funeraria si rimanda a govi 2009 con discussione del problema e con altri riferimenti bibliografici.

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tenta del pezzo è risultato infatti che i chiodi sono tutti sicuramente attribuibili ad un restauro moderno, eseguito probabilmente attorno agli anni sessanta del secolo scorso, e che il segno di lettera ribattuto sul chiodo è dovuto al restauratore moderno evidentemente impres-sionato e colpito dal danno arrecato alla lettera dal suo stesso restau-ro. oltre ai 5 chiodi disposti a distanza regolare l’uno dall’altro, c’è poi un sesto chiodo più piccolo, sicuramente aggiunto dopo in occasione di un secondo restauro, che non solo rompe la simmetria degli altri, ma che ha anche fortemente disturbato la lettera che gli è vicina, forse un ypsilon, creando in questo caso qualche problema nella lettura dell’iscrizione.

le lettere sono incise molto bene e con tratto profondo, visibile anche all’interno del vaso. i tratti rettilinei sono realizzati con l’unico colpo secco di uno strumento a taglio; mentre i tratti ricurvi sono rea-lizzati con colpi ravvicinati e successivi dei quali si vedono nettamen-te le tacche. in alcune lettere i tratti sono ripetuti. complessivamen-te l’iscrizione è di buona qualità tenendo conto anche delle difficoltà dell’incisione sia per il materiale, una lamina di bronzo molto sottile, che per la posizione difficile, essendo essa collocata subito sotto l’orlo del vaso.

tralascio per ragioni di tempo ogni ulteriore considerazione rela-tiva alle singole lettere, sulle quali mi limiterò più avanti a qualche riflessione di carattere generale relativamente al luogo e all’autore dell’iscrizione. la lettura, tranne che per la lettera disturbata dal chiodo anomalo al quale ho fatto cenno, non pone alcun problema

Ego tigvalei buliioi ekvopetaris.Prima di procedere all’analisi del testo credo sia opportuna qual-

che considerazione cronologica ed epigrafica, anche perché le due cose sono molto collegate, specie per il venetico visto che si tratta, come è chiaro, di una iscrizione venetica.

Sul piano cronologico la tipologia del vaso, la sua collocazione all’interno del sepolcreto battistini che ha prevalentemente tombe di V secolo, le stesse caratteristiche epigrafiche (come si vedrà tra poco) consentono una cronologia orientativa tra la fine del VI e gli inizi del v secolo. uso volutamente il termine orientativo perché mancano materiali dirimenti da questo punto di vista non essendoci oggetti di corredo, oltre al cinerario, per cui ci dobbiamo forzatamente basare sulla concomitanza di diversi elementi come il tipo di vaso, la tomba, la sua collocazione all’interno del sepolcreto e le stesse caratteristiche epigrafiche.

Relativamente all’epigrafia va osservato che l’iscrizione sembra essere priva di puntuazione sillabica. Ma se così fosse essa dovrebbe essere riferita alla i fase scrittoria del venetico, che è anteriore alla

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metà o quanto meno al terzo quarto del vi secolo13. in realtà credo che sotto questo profilo le cose stiano un po’ diversamente almeno per due ragioni. in primo luogo il sigma finale presenta due piccoli tratti che potrebbero anche essere riferiti ad una puntuazione o costituire quanto meno un richiamo ad essa. Il che significa che l’iscrizione sembra essere stata incisa quando questa modalità di scrittura era già nota. in secondo luogo va sottolineato il fatto che in ambito non venetico (nell’ipotesi molto probabile che l’iscrizione sia stata redatta a bologna), la notazione completa e rigorosa della puntuazione silla-bica forse non aveva molto senso dato che in una città etrusca come Bologna difficilmente se ne potevano cogliere ragione e significato. che questa stessa modalità di scrittura sia limitata solo all’ultima lettera e non sia regolarmente utilizzata per il resto dell’iscrizione non ci deve quindi sorprendere più di tanto. ci troviamo in ambiente etrusco e, relativamente alla realizzazione dell’iscrizione, possiamo fare due ipotesi: chi ha realizzato l’iscrizione poteva essere un etru-sco, cioè qualcuno che per conoscenza e per consuetudine scrittoria non aveva grande dimestichezza con la puntazione sillabica; oppure poteva essere un “veneto” al seguito del personaggio di rango a cui essa è collegata, ma proprio perché ci troviamo in un ambiente lon-tano e straniero tale modalità di scrittura poteva anche non avere grande importanza. in buona sostanza chi ha commissionato l’iscri-zione si è probabilmente accontentato di questo flebile riferimento alla puntazione ammesso che così vadano interpretati i due piccoli tratti ai lati del sigma finale; oppure chi l’ha realizzata non aveva gli strumenti per adeguarsi fedelmente a una moda scrittoria a lui del tutto estranea (se era un etrusco) o forse non aveva la volontà di uniformarsi a una moda scrittoria affatto sconosciuta all’ambito etrusco in cui essa viene praticata (se era un veneto che però scriveva a bologna).

l’iscrizione va pertanto collocata nella fase ii della scrittura ve-netica, sia pure in un momento relativamente antico. essa va inoltre sicuramente ricondotta all’ambito atestino, quanto meno per la rea-lizzazione della dentale col segno a croce e non col theta puntato come a Padova, oltre che per alcuni aspetti del formulario e in particolare per l’uso di ekvopetaris come vedremo tra poco14.

13 Sul problema, ormai molto ben chiaro in tutti i suoi aspetti, si vedano in par-ticolare ProsdoCimi 1983; ProsdoCimi 1988, pp. 328-342; ProsdoCimi 1989, pp. 1365-1366; Marinetti 1992, pp. 161-164; Marinetti 1998, p. 76.

14 anche questo aspetto della scrittura venetica è ormai molto ben chiaro e definito specie in relazione ad alcune scoperte e acquisizioni relativamente recenti. Per una sintesi del problema si veda in particolare ProsdoCimi 1988, pp. 328-334, 342-346, 348-349; Marinetti 1992, pp. 161-164.

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Mi pare utile ora fare qualche confronto paleografico tenendo ben presente però la particolare circostanza di una iscrizione venetica, molto probabilmente redatta in ambiente etrusco, a prescindere da chi l’abbia di fatto realizzata (un etrusco? un veneto?). Per quanto riguarda l’ambito venetico vanno sottolineate alcune analogie tra la nostra iscrizione e quella, più antica, del calice di lozzo atestino15: sono molto simili l’alpha, l’epsilon, il kappa, il lambda col vertice in basso, l’omicron più piccolo delle altre lettere e, almeno in un caso, non completamente chiuso.

così come non mancano somiglianze con l’iscrizione del ciottolo di cartura16: alpha, epsilon e segno a croce dello stesso tipo e con analoga posizione.

analogie strette si riscontrano anche con l’iscrizione di una stele di este (este 1)17 ancora di fase prepuntuazione e quindi relativamen-te antica: epsylon, chi, omicron e lambda sono infatti molto simili.

Ma tenuto conto del fatto che si tratta di una iscrizione venetica realizzata molto probabilmente in ambiente etrusco (e magari anche da un etrusco) forse bisogna guardare anche alle iscrizioni di bologna e dell’area padana. e qui effettivamente non mancano somiglianze in epigrafi della prima metà del V secolo con particolare riguardo ad alcune lettere come alpha, epsylon e digamma e nello specifico rela-tivamente ai tratti generali delle stesse lettere, assai più larghe e tondeggianti di quelle solitamente usate in ambito venetico in questo stesso periodo18.

Sul piano linguistico e morfologico l’iscrizione è genuinamente venetica e si rifà al modello della “iscrizione parlante” nella quale è l’oggetto, supporto dell’iscrizione, a parlare in prima persona, in questo caso anche attraverso l’esplicitazione del pronome personale “ego”. Segue il nome della persona al dativo in una canonica formula onomastica bimembre, costituita da prenome e da appositivo (tigvalei buliioi). Sulla lettura dell’appositivo resta qualche incertezza dovu-ta al fatto che la seconda lettera è stata fortemente disturbata da un chiodo anomalo e di essa resta solo un piccolo tratto obliquo; e per essa penso a un ypsilon non avendo trovato alternative migliori e quindi di fatto per esclusione. l’ultimo termine è il ben noto ekupeta-ris, qui nella versione ekvopetaris, tipica di este. l’iscrizione pertanto va così tradotta “io sono il monumento funebre [di rango equestre] per

15 Mi limito a ricordare la sua prima edizione da parte di a.l. Prosdocimi (Pros-doCimi 1968-69).

16 ProsdoCimi 1972a.17 Pellegrini - ProsdoCimi 1967, pp. 51-54.18 Si veda a titolo puramente esemplificativo sassatelli 1994, pp. 199-202, figg.

15-16.

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tigval bulio”. il prenome tigval, sicuramente una variante di tival, così come ekvopetaris è variante di ekupetaris, viene solitamente con-siderato di morfologia non venetica e viene riferito ad uno straniero, probabilmente di area celtica dato che il suffisso -al(i/e) si riallaccia al formante -alo dell’onomastica leponzia/celtica. nel nostro caso però esso risulta, almeno a livello onomastico, pienamente venetizzato come dimostra il regolare appositivo in -io, e di conseguenza anche pienamente inserito nel gruppo sociale al quale era approdato. cosa ben diversa dal Tivalei Bellenei (dativo) di una iscrizione di Padova dove l’assenza di derivazione in -io nell’appositivo non consente di pensare ad un normale patronimico19. Del resto anche il beta iniziale del nostro appositivo sarebbe secondo i più un indizio di “non vene-ticità20”. ci troviamo così di fronte a un nome con molti elementi di estraneità rispetto al mondo venetico a cui pure apparteneva, ma an-che con molti segnali di un suo pieno inserimento nella comunità che lo aveva accolto, sia a livello onomastico (la regolare presenza di nome individuale + appositivo in -io) che, ovviamente, a livello sociale.

e ora qualche breve considerazione su ekvopetaris, un termine sul quale in questi ultimi anni si è concentrata l’attenzione degli studiosi, con modifiche sostanziali rispetto alle prime interpretazioni e soprat-tutto con alcune importanti acquisizioni sul piano storico e sociale21. il termine è attestato 14 volte (ora con l’iscrizione di bologna le atte-stazioni sono 15) su supporti di diversa natura (9 stele, 2 ciottoloni, 3 bronzi). la maggior parte delle iscrizioni proviene da Padova, ma non mancano attestazioni anche da este. il termine si usa sia per le donne che per gli uomini. la varietà delle forme (ekvopetaris, equpetaris, eppetaris) non sembra porre problemi e si tende oggi a considerar-le unitariamente rispetto a cronologia e significato: ekvo ed eku non sono in sequenza cronologica, ma sono due realizzazioni morfologiche potenzialmente coeve anche se al momento sembrerebbero tipiche l’una di este (ekvopetaris) e l’altra di Padova (ekupetaris). e questo è un altro elemento che ci fa propendere per un legame con este da parte del nostro personaggio. la sequenza delle scoperte rispetto alle attestazioni degli anni ’70 del secolo scorso e in particolare le novità e l’eterogeneità dei supporti hanno consentito di modificare in modo sostanziale le prime interpretazioni del termine che è all’evidenza un

19 Sul problema ormai debitamente trattato e approfondito sia nei suoi risvolti linguistici che nei suoi aspetti onomastici e sociali rimando ai numerosi lavori citati a nota 13 e 14.

20 ProsdoCimi 1987, p. 576.21 la trattazione più completa è al momento Marinetti 2003, ma si vedano

anche ProsdoCimi 1972b, pp. 198-232; ProsdoCimi 1988, pp. 296-299; Marinetti 1992, pp. 150-153; Marinetti - ProsdoCimi 1994, pp. 173-174, 182-188; ProsdoCimi 2001, pp. 8-11; Marinetti - ProsdoCimi 2005, pp. 33-37.

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composto al nominativo. esso compare infatti sempre associato ad un dativo (antroponimo) e molto spesso assieme al pronome personale “ego”. chiarito che non si tratta di un riferimento al defunto, ma di un riferimento al monumento funebre che parla in prima persona, si era pensato a proposte etimologiche diverse: eku (cavallo) + petaris/pet (volare) “cavallo volante”; oppure eku (neku - greco) + petaris (petra - greco) e quindi “pietra del morto”; oppure ancora “pietra del cavallo” giustificata dal fatto che sulle stele con questo tipo di iscrizione c’era-no raffigurazioni di cavalli. Ma da un lato le nuove scoperte (ciotto-loni e soprattutto bronzi) hanno dimostrato che il legame diretto tra iscrizione e cavallo non è costante; e dall’altro il suffisso pet- anziché a “pietra” può essere ricondotto a “signore” per cui ekupet/ekvopet va interpretato come “signore del cavallo” e il termine va inteso come una indicazione di rango, con riferimento a un gruppo o a una “classe sociale” (equites), non a una persona che ha banalmente a che fare con i cavalli. tra l’altro il collegamento anche a personaggi di sesso femminile esclude una interpretazione di questo genere. Ekupeta non significa propriamente eques, ma individuo appartenente alla “clas-se degli equites”, esattamente come accade in fase villanoviana per i morsi da cavallo usati sia da uomini che da donne anche se queste ultime non “guidavano” direttamente il cavallo.

Per tornare alla nostra iscrizione di bologna è evidente che ci tro-viamo di fronte non solo a un veneto perfettamente inserito a livello onomastico e quindi anche sociale nella sua comunità di partenza, probabilmente este, come dimostrano la formula bimembre del suo nome e le desinenze; ma anche a un veneto che apparteneva ad un gruppo sociale elevato e che, per ragioni che ci sfuggono, ma che non è difficile immaginare, visti i rapporti molto stretti tra queste due aree, si trasferì a bologna dove alla sua morte si fece seppellire tra gli etru-schi di quella città. e in quella circostanza scelse come contenitore per le sue ceneri un vaso il quale oltre ad essere largamente diffuso in questa città, gli era familiare anche nella sua terra d’origine, con-siderato che, indipendentemente dal loro luogo di produzione, a este sono presenti ciste cordonate in bronzo molto simili alla nostra come, ad esempio quella della tomba capodaglio 34 e quella della tomba candeo 307, assai più antica, dove il vaso fungeva da ossuario22. a Padova abbiamo poi una bellissima imitazione in argilla di questo

22 Devo la segnalazione della prima alla cortesia di loredana capuis e di anna Maria chieco bianchi che ringrazio; e della seconda a Mariolina gamba alla quale sono ugualmente molto grato. Sempre ad este sono documentate ciste cordonate a anse mo-bili e più piccole della nostra non usate come cinerario, ma riconducibili al vasellame di accompagno per le quali si veda chieCo bianChi - caPuis 1985, p. 328; caPuis - chieCo bianChi 2006, pp. 333-339, tavv. 188-190 (l’ossuario in questo caso era una situla).

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stesso tipo di cista cordonata23 a dimostrazione del fatto che il vaso era ben radicato nella tradizione locale oltre che molto apprezzato vi-sto che ne veniva fatta addirittura un’imitazione in terracotta. Ma il nostro personaggio scelse questo vaso in una versione caratteristica e peculiare di bologna, la città che lo aveva accolto e nella quale aveva abitato stabilmente. con questa scelta egli sembra voler mantenere da un lato il legame con una tradizione profondamente settentrio-nale (la cista) che lui stesso aveva conosciuto anche nel suo paese d’origine; e dall’altro sembra voler aderire ad un costume funerario tipico della Bologna etrusca (la cista a manici fissi) nell’ambito del quale il consumo del vino e il rito della cremazione sono accostati dal ricorso a vasi del tutto speciali come il cratere attico o la cista a cordoni, entrambi largamente utilizzati come cinerario nella bologna etrusca di v secolo per individui di spicco all’interno della comunità cittadina. Questa ritualità mostra in un caso (vaso attico) un tratto palesemente ellenizzante; nell’altro (cista cordonata) una forte conno-tazione culturale che sottolinea il legame con una tradizione etrusca spiccatamente felsinea e settentrionale. l’iscrizione venetica posta in bella evidenza sulla cista non poteva che rimarcare ed enfatizzare tutti questi aspetti nella fiorente Bologna etrusca del V secolo, stra-ordinariamente aperta non solo agli scambi commerciali, ma anche agli “stranieri”, per di più di rango elevato (nel nostro caso si potrebbe dire addirittura di “rango equestre”).

Ma ci sono sempre a Bologna altri documenti epigrafici dai quali esce ulteriormente confermata questa sua capacità di attirare “stra-nieri”.

la stele di tombarelle (fig. 6) nella pianura bolognese, abba-stanza insolita anche per forma e decorazione24, quest’ultima per così dire quasi settentrionale e nordica, reca un’iscrizione Reiqvi Keisnas costituita da un prenome femminile a cui si accompagna un gentilizio maschile, probabilmente un gamonimico: Reiqvi moglie di Keisna. il nome Reiqvi, attraverso una trafila Reitu/Reitui/Reiqvi, si riferisce a una donna, sicuramente di rango elevato (il segnaco-lo ne è una prova) pienamente inserita nella comunità etrusca di bologna (come prova il gentilizio Keisnas) la quale però conserva sul piano onomastico la traccia, sia pure tenue e forse allentata nel tempo, di un’origine retica, sua o della sua famiglia, per cui viene identificata come “la retica” e più precisamente “la retica” [moglie] di Keisna. ricordo che anche ad adria, sia pure in età assai più

23 Padova preromana 1976, pp. 283-287, n. 57, tav. 71 (tomba 8 di via tiepolo dove il vaso era usato come cinerario).

24 Sassatelli 2003, p. 242 con altri riferimenti.

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recente, è documentato un prenome reiqu che forse può essere inter-pretato allo stesso modo25.

Sempre a bologna e nel suo vasto territorio padano sono poi docu-mentati alcuni nomi personali che pur essendo perfettamente inseriti nell’onomastica etrusca di questa area rimandano ai luoghi d’origine di chi ne era portatore. come già anticipato si tratta di un fenomeno che va valutato con cautela sia perché potrebbe dipendere da mode o imitazioni o comunque da fatti non strettamente o non direttamente collegabili alla mobilità individuale; sia perché non è facile individua-re esattamente i tempi di questa avvenuta integrazione. Si tratta di un fenomeno che va valutato con cautela, ma che va comunque consi-derato in tutte le sue forti potenzialità sul piano storico.

la Kuvei Puleisnai, moglie dello Zilaq di uno dei due cippi di rubiera ha un nome alla cui base c’è qualcosa di celtico (Kuve, Covas, Covius) come è già stato osservato26.

E infine l’iscrizione mi uva graffita sotto il piede di una cup-sky-phos attica del sepolcreto arnoaldi di bologna (fig. 7) nella quale la base tematica del nome Uva è la stessa del nome personale uvamoko-zis della pietra di Prestino27 con un preciso rimando, ancora una volta all’ambito leponzio di area golasecchiana. il nome forse può essere accostato anche al nome uve di una stele della lunigiana28.

a questo stesso tipo di testimonianza va in qualche modo accosta-ta l’iscrizione larisal kraikalus di Marzabotto nella quale si riconosce il nome di un etrusco indicato nella città come il figlio o il discendente di un kraike, il “greco”29. A questa documentazione epigrafica, per così dire ormai consolidata nei nostri studi, si aggiungono ora le novità archeologiche che ci ha presentato in questa sede Daniela locatelli (vedi pp. 361-396 nel presente volume) e in particolare le tombe di Piazza viii agosto a bologna con ceramiche a fasce di produzione ve-neta e con un sistema di copertura (un’unica lastra che copre e unisce due tombe) che rimandano in modo puntuale al mondo veneto. analo-gamente alla tomba 329 del sepolcreto certosa, ricordata sopra, esse vanno pertanto considerate come una ulteriore prova della presenza fisica a Bologna di Veneti che si fanno seppellire tra gli Etruschi di questa città, ma con materiali e con una ritualità che costituiscono un richiamo chiaro ed inequivocabile al loro paese d’origine30.

25 gauCCi 2008, pp. 89-90, n. 29, fig. 7, e pp. 100-103 (tomba 46 della necropoli di via Spolverin, il cui corredo è datato attorno alla metà del ii secolo).

26 De Simone 1992, pp. 11-12; Sassatelli 2003, p. 242.27 MaCellari 1994; Sassatelli 2003, pp. 242-243.28 menotti - maras 2012, p. 883. 29 sassatelli 1994, p. 59, n. 69, tav. iX a-b, n. 69.30 Meno perentorio, anche se ugualmente significativo, è il caso delle tombe

della Manifattura tabacchi (sempre a bologna) dove la presenza di ceramica a fasce

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Dopo aver considerato gli etruschi di area padana e in partico-lare di bologna come fortemente attrattivi nei confronti delle vicine aree settentrionale (leponzio-golasecchiana e venetica) resta ora da esaminare la loro volontà e capacità di emigrare e di stanziarsi in modo stabile in queste due aree.

Sulla straordinaria mobilità degli etruschi in ambito Mediter-raneo, testimoniata non solo da materiali, ma anche da documen-ti epigrafici, è stata portata di recente l’attenzione sulla base delle iscrizioni di egina e Perachora31. non so se sia etrusca l’iscrizione qve apposta su un dolio del Piceno che colonna ricollega alla produ-zione del vino32, ma se lo fosse rientrerebbe perfettamente in questo dossier.

Di certo, per tornare all’italia settentrionale abbiamo un buon numero di iscrizioni etrusche in area golasecchiana e qualche impor-tante testimonianza anche nell’area nord-orientale.

Per l’area golasecchiana va ricordato in primo luogo l’iscrizione della stele di busca in Piemonte33 che conteneva il nome del titola-re della tomba con un formulario canonico mi suqi larqial muqikus dove larq è nome individuale e muqiku è gentilizio, il primo genu-inamente etrusco, il secondo avvicinabile a nomi gallici come Mot-tius/Mottus/Motucus. Si è giustamente pensato a un indigeno che non solo ha etruschizzato il proprio nome, ma ha voluto accostarvi un prenome squisitamente etrusco. Di lontana origine celtica, il nostro personaggio potrebbe aver etruschizzato il proprio nome in etruria settentrionale o forse anche, perché no, in etruria Padana visto che la disposizione della iscrizione entro rotaia arcuata si può accostare ad una stele di bologna34 oltre che a quelle dell’etruria settentrionale (fig. 8). Di qui, con un itinerario analogo a quello del faber elvezio He-lico, il nostro personaggio sarebbe poi tornato alla sua terra d’origine dove sarebbe rimasto fino alla morte in occasione della quale, accanto alla sua origine “leponzia” intese esibire anche la sua acquisita etru-schizzazione.

Qualcosa di analogo può essere accaduto con la stele di Momba-siglio (sempre in Piemonte) dove non solo l’iscrizione sembra essere

del tipo atestino sembra essere meno isolata e per così dire meno identitaria. Si veda anche per questo la relazione di Daniela locatelli in questo volume.

31 colonna 2009 con altri riferimenti per entrambe; si veda anche cristofani 1994.

32 colonna 1984.33 gamBari - colonna 1988, p. 154; colonna 1998a; colonna 1998b con trat-

tazione completa del problema. Si veda anche Sassatelli 1999, pp. 471-472; Sassatelli 2003, pp. 244-245.

34 Sassatelli 1989, pp. 67-69.

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etrusca, ma anche la raffigurazione del banchetto sembra ispirarsi al mondo etrusco35.

La stessa cosa vale per le più modeste, ma non meno significa-tive, iscrizioni su ceramica da castelletto ticino e da Sesto calende. espunta l’iscrizione iunqanaka, sicuramente leponzia e non etrusca, restano comunque ancora in campo alcuni graffiti etruschi da Villa del foro36 e soprattutto l’iscrizione su bicchiere globulare dalla loca-lità Presualdo di Sesto calende (figg. 9-10) dove accanto ad un testo di difficile lettura, ma sicuramente leponzio, si trova la parola etrusca Zicu nella quale, pur non escludendo l’ipotesi di una indicazione ono-mastica, avevo ipotizzato di riconoscere una voce verbale quasi a voler sottolineare l’azione dello scrivere in sé37. Più di recente è stato pro-posto, credo correttamente, di riconoscere in zicu un nomen agentis sempre sulla base verbale zic e come tale da tradurre molto probabil-mente come “scriptor”, cioè scriba38, ancora una volta e comunque con un rimando assai significativo sul piano storico e culturale all’azione dello scrivente. nell’uno e nell’altro caso è infatti palese il legame con la scrittura e più nello specifico con il termine etrusco che ha a che fare con questa pratica per la quale è ben noto il ruolo degli etruschi nella sua diffusione e nel suo insegnamento in area golasecchiana. Ma ancora più significativo, sempre all’interno del nostro discorso, è l’ipotesi molto convincente di ricondurre il vaso e le sue due iscrizioni alle iscrizioni simposiache ospitali nelle quali è frequente il rapporto tra un personaggio locale e uno straniero39. Se uniamo queste due circostanze ne risulta uno straordinario connubio tra un personaggio dell’aristocrazia locale e un etrusco, non solo stabilmente presente in questo territorio, ma forse anche impegnato in quello straordinario fenomeno che fu la diffusione e la pratica della scrittura oltre che il suo insegnamento, in un’area che ancora non la conosceva40. Si tratta

35 colonna 1998a e colonna 1998b, figg. 249-250. Si veda anche Sassatelli 2003, p. 245, fig. 15.

36 g. colonna, in gamBari - colonna 1988, p. 154; colonna 1998b p. 263, fig. 247.

37 la prima notizia dell’iscrizione è in binaghi - roCCa 1999, pp. 437-447 dove però si tende a sminuire al livello di uno “pseudotesto” la straordinaria importanza e complessità di questa iscrizione (si arriva addirittura a parlare di un “modello pittorico sui modelli scrittori”). Sulla stessa iscrizione è intervenuto poi Sassatelli 2000 e ora de Marinis 2009, pp. 423-430 con sintesi del problema.

38 Maras 2013. 39 ronCalli 2008; colonna 2010; Maras 2013.40 come ha correttamente osservato D. Maras (Maras 2013), resta aperto il

problema del rapporto e/o della disparità sociale tra i due individui nel senso che la mancata designazione personale dello scriba in un contesto ospitale potrebbe da un lato indicare una sua inferiorità pur non mancando il riconoscimento esplicito alla professione dello scrivere; ma potrebbe anche essere un espediente, nemmeno troppo sottile, per indicare sia il possesso della scrittura sia soprattutto il rapporto con i suoi

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in buona sostanza di un documento di grande importanza dal quale si evince il rapporto tra un celta di rango aristocratico e un etrusco, lì immigrato e stabilizzato, rapporto maturato probabilmente nell’am-bito professionale di quest’ultimo, forse un maestro di scrittura sulle sponde del ticino. Solo così credo si possa adeguatamente spiegare questa piccola “bilingue” con un esplicito riferimento alla scrittura e con un significativo richiamo alla mobilità individuale. Siamo, infatti, ancora una volta in presenza di documenti che ci attestano la presen-za stabile di etruschi nel paese dei celti transpadani.

Meno intriganti da questo punto di vista sono le iscrizioni etru-sche di genova o quelle della Provenza tutte legate alla intensa at-tività commerciale esercitata dagli stessi etruschi tra genova e la foce del rodano e preziosa testimonianza della loro presenza stabile in queste terre lontane, chiaramente al seguito e a sostegno dei loro commerci marittimi41, presenza che si concretizza nell’uno e nell’altro caso in un vero e proprio fondaco abitato stabilmente da etruschi. Metterei comunque l’accento per genova sull’iscrizione mi nemeties, etrusca nella lingua e nel formulario, ma costituita ancora una volta da un nome indigeno etruschizzato, un celto-ligure che da nord si era trasferito a genova e qui si era integrato nella comunità etrusca che lo aveva accolto a tal punto da etruschizzare il proprio nome e da non fare più ritorno alla sua terra d’origine.

Meno consistenti e forse anche meno certe sono alcune presenze etrusche in area nord-orientale. Metterei al primo posto l’iscrizione su astragalo dal Monte ozol in val di non (fig. 11) nella quale ho proposto di leggere Perkna42 ricollegando questo nome di origine chiusino-corto-nese ad un itinerario commerciale che si snodava da sud verso nord e che coinvolgeva molte città dell’etruria Padana, da Marzabotto a Spina, città quest’ultima in cui il gentilizio perkna sembra esplodere nella fase recente (iv e iii secolo), ma dove non mancano attestazioni del tardo v secolo in sintonia cronologica con la nuova attestazione di Marzabotto senza dimenticare il fatto che il nome è attestato pure ad adria in una proiezione ancora più settentrionale che rende molto probabile la sua presenza anche in area retica. Per quanto riguarda l’astragalo del Mon-te ozol va detto però che non tutti sono d’accordo sulla mia lettura e soprattutto non tutti sono d’accordo sulla etruscità dell’iscrizione43.

“maestri etruschi” da parte di una élite aristocratica alla quale apparteneva il defunto della sepoltura.

41 Per genova mi riferisco in particolare al noto ciottolone con iscrizione Ne-meties per il quale si veda colonna 2004 dove sono rese note le iscrizioni etrusche di genova. Per la Provenza colonna 2006.

42 Sassatelli 1999.43 lunz - Morandi 2003, pp. 346-348.

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Mi sembra però lecito insistere sulla buona probabilità di questa lettura anche sul piano epigrafico. E a questo credo di poter aggiun-gere che il quadro generale dei rapporti tra l’eturia, e in particolare l’etruria padana e il mondo retico, rendono più che plausibile l’ipotesi di un etrusco presente in questa lontana area alpina il quale per di più utilizza per la sua iscrizione (in un probabile luogo di culto) un supporto (l’astragalo) di buona e radicata tradizione locale.

Più sicura, anche se molto più tarda, è l’iscrizione su pietra di feltre in lingua etrusca, anche se in caratteri retici, in cui sono ricor-date tre divinità (Ki aiser) tra le quali tiu/tiu[r] (luna?) e usil (sole) e soprattutto Tina44. Mentre per quanto riguarda il veneto va rimarcato il fatto che al momento sono totalmente assenti iscrizioni specificata-mente etrusche, un fenomeno che potrebbe essere ricondotto alla salda strutturazione politica e culturale dei centri indigeni del veneto aperti sì alle novità portate dagli “stranieri” e in particolare dagli etruschi (si pensi solo alla pratica della scrittura), ma al tempo stesso alieni dal concedere loro una libera stanzialità unita al mantenimento pieno della loro identità etnica o quanto meno dal concedere loro l’esibizione di tale identità a livello onomastico con un atteggiamento quindi di sostanziale chiusura nei confronti di questo tipo di mobilità. Si tratta di un fenomeno molto interessante sul quale si comincia solo ora a riflettere, ma che lascia intravedere interessanti sviluppi della ricerca sia sul piano linguistico e culturale che su quello storico e sociale.

Questo quadro sostanzialmente negativo non cambia anche se vi aggiungiamo la nuova iscrizione da gazzo veronese incisa su una delle monumentali statue trovate in questa località, iscrizione che è assai male conservata e che Anna Marinetti considera di grafia etru-sca, ma di incerta classificazione per quanto riguarda la lingua45. al di là dell’incertezza sulla sua classificazione, di grande peso rispetto al tema della mobilità, va inoltre osservato che il sito di gazzo vero-nese si trova ai margini del territorio veneto e proprio ai confini con l’area controllata dagli etruschi.

Sulla mobilità di etruschi verso il mondo venetico non mancano documenti del “secondo livello”, cioè iscrizioni e nomi perfettamente inseriti nella lingua e nell’onomastica venetica, ma che serbano la traccia di un loro legame con il mondo etrusco, di fatto un fenomeno di integrazione parziale o comunque meno marcato stando all’adatta-mento obbligato alla lingua della comunità che accoglie questi perso-naggi “stranieri”. forse si tratta di un altro tassello di quel fenomeno

44 colonna 1989, p. 17; colonna 1997, pp. 175-177, nota 12; Sassatelli 2005, p. 41.

45 Marinetti 2011.

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appena ricordato relativo alle comunità del veneto antico che non consentono agli “stranieri” di mantenere o di esibire a livello di scrit-tura la loro identità, ma li costringono per così dire a rientrare nei ranghi e nelle regole delle comunità locali.

Mi riferisco alla iscrizione venetica ego Nercai Trostiaiai della tomba ricovero 23 di este46 dove la base del nome Trost- è stata acco-stata a Turst(o)- e considerata un diverso modo per venetizzare l’etru-sco «turs», inteso come il nome degli etruschi. Si tratterebbe quindi di una donna etrusca venetizzata che all’interno della comunità che l’aveva accolta veniva indicata con un nome nel quale erano palesi i riferimenti alla sua terra d’origine, espressi comunque nella lingua locale.

e a questa documentazione ormai consolidata negli studi del ve-neto vanno ora aggiunte le nuove iscrizioni di altino e in particolare quella di ]Volties Tursanis Patavnos do[na- con un riferimento all’et-nico etrusco di tipo greco (tursanis)47; e ora quella del cippo di altino di cui hanno parlato a.l. Prosdocimi e Margherita tirelli nel convegno in onore di giulia fogolari48, con il nome molto significativo di Kru-mio Turens che più che un ethnos starebbe ad indicare una generica provenienza geografica dall’Italia tirrenica sempre comunque molto significativa all’interno di questo problema. Va poi ricordato anche il Pupon Rakos della stele di camin che, come ha bene argomentato adriano Maggiani49, esibisce una formula onomastica bimembre dai tratti anomali e singolari al punto da far pensare che il personaggio fosse un individuo originariamente estraneo alla compagine patavi-na. il nome Rakos è stato ricondotto all’onomastica etrusca e più pre-cisamente a un Raku dal quale deriverebbe anche il gentilizio Rakalu ora documentato a Marzabotto50. in buona sostanza il Rakos della stele di camin sarebbe un etrusco meridionale (Raku è nome cereta-no) che arriva a Padova, venetizza (anche lui !) il proprio nome e forse potrebbe anche essere collegato alla introduzione di un nuovo modo di insegnare e di apprendere la scrittura, una sorta di “Demarato d’etruria” come lo ha chiamato lo stesso Maggiani.

Per concludere mi avvio a considerare, sia pure molto rapida-mente per ragioni di tempo, qualche altra testimonianza di mobilità e di intreccio tra gli etruschi di area padana e le popolazioni delle aree vicine e, forse, anche di area transalpina.

46 ProsdoCimi 1992, pp. 464-465; Marinetti 1992, pp. 160-161; Sassatelli 2003, p. 241.

47 Marinetti 2009, p. 88, n. 16, fig. 16 a-b.48 gli atti sono in corso di stampa.49 Maggiani 2000, pp. 93-95.50 Sassatelli 2010, pp. 315-318, n. 435 con bibliografia precedente.

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Per quanto riguarda adria c’è stato un forte ridimensionamento delle iscrizioni venetiche51, tutte molto tarde e quindi di fatto riferibili ad un riflusso di Veneti in quest’area adriatica, assai recente e quasi a ridosso della romanizzazione. Per di più adria è molto vicina al ter-ritorio veneto, anzi si può dire che ne fa parte, per cui è più prudente tenerla ai margini di questo fenomeno della mobilità individuale tra realtà etnicamente diverse.

va comunque osservato che, al momento, la quasi totalità delle iscrizioni di adria è etrusca. e se esisteva una compagine di parlan-ti venetico questi non hanno lasciato alcuna documentazione scritta. abbiamo solo alcune iscrizioni onomastiche redatte in etrusco, che evidentemente era la lingua ufficiale della città, le quali contengono nomi di origine venetica come usti/uzti da ricollegare a Ostios; mi la-ris fukiu che Maggiani ricollega a Vhugios, ma che forse si deve leg-gere in un altro modo e cioè mi laris fuliu. a questi nomi noti da tem-po, va probabilmente accostato il gentilizio muliu, forse derivato dal venetico molo (latino molo = macinare) di una importante famiglia di adria che aveva un recinto sepolcrale nella necropoli di via Spolverin (almeno 5 tombe vicine). Sempre ad adria sono inoltre documentate due iscrizioni etrusche, sempre molto tarde, con nomi di ascendenza celtica (aku e mi verkantus ripetuta quattro volte su quattro vasi di-versi) rinvenute in tombe che per rituale funerario e presenza di armi sembrano effettivamente ribadire e sottolineare l’ethnos di apparte-nenza del defunto52.

Più complessa è la situazione di Spina dove non mancano iscri-zioni realmente venetiche (fig. 12) anche se in numero molto inferio-re a quanto si ipotizzava fino a qualche anno fa. Se infatti si prescinde da alcuni frustuli di scarsa leggibilità, le iscrizioni riconosciute con certezza come venetiche sembrano essere 8, anche se solo tre conser-vano un nome personale per esteso: Opo, Piplo, Kaimo53, quest’ultimo al dativo (Kaimoi) con una grafia corretta e rigorosa che comprende anche la puntuazione sillabica, assente invece nelle altre, forse in ra-

51 ProsdoCimi 1988, pp. 324-325 con sintesi del problema e ulteriori riferimenti bibliografici.

52 Sul riconoscimento dell’etruscità della quasi totalità delle iscrizioni adriesi di periodo ellenistico (che costituiscono il nucleo epigrafico più abbondante conservato ad adria), si veda da ultimo gauCCi - Pozzi 2009, p. 58, nota 28 con riferimenti. Per i nomi di origine venetica, si veda maggiani 2002, p. 57, e gauCCi - Pozzi 2009, p. 58, nota 29, fig. 6 (per la lettura mi laris fuliu dell’iscrizione della tomba 327 della necropoli di canal bianco) e p. 62, nota 38 per altre attestazioni. Per il gentilizio muliu delle iscrizioni dei contesti funerari della necropoli di via Spolverin, si veda gauCCi 2008; gauCCi - Pozzi 2009, p. 60, nota 33, p. 62, figg. 4 e 6. Per le iscrizioni aku e mi verkantus e i loro contesti di riferimento, si veda sempre gauCCi - Pozzi 2009, p. 63, note 47-49, con precedenti riferimenti.

53 uggeri 1978, pp. 408-409.

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gione del fatto che l’ortografia canonica del Venetico non era così vin-colante in una terra “straniera” dove si usava una scrittura che non conosceva questa modalità (come accade probabilmente anche per la cista di bologna).

allo stesso fenomeno della mobilità individuale, sempre relativa-mente a Spina, può inoltre essere ricondotto un nome “parlante” come Keltie (fig. 13) da riferire a un individuo che all’interno della comunità etrusca della città adriatica si connotava come il “celta”, con un etnoni-mo complessivo e generale rispetto al suo ambito di provenienza54.

lo stesso accade per alcuni nomi di età più recente, documentati sempre a Spina come Mutalu, Pratalu, Rautialu la cui base onomasti-ca rimanda al leponzio e che testimonierebbero comunque una inte-grazione di celti nella comunità etrusca di Spina55 sia pure in un’età non precisabile. così come Treute, sempre da Spina, che rimanda a Drutos/Drouto, un altro nome celtico; oppure anche i nomi, sempre da Spina, che sono una realizzazione etrusca di nomi veneti: Usti dal venetico Ostios, Upu dal venetico Oppos, pitamn[--] e Fukiu dal ve-netico Vhugios. Ma Spina da questo punto di vista si caratterizza per una complessità che va ben oltre le relazioni e gli intrecci con l’ambito venetico e celtico. troviamo infatti a Spina una grande varietà di pre-senze straniere: greci in elevata percentuale e in prevalenza ateniesi come era lecito attendersi; apuli (Blatios); umbri (saksalu da Sakse/Sassinates); piceni, osci, falisci e più genericamente italici tutti docu-mentati da nomi etruschi che serbano una eco di questa loro lontana origine e provenienza. Per Spina vanno inoltre ricordate alcune im-portanti testimonianze archeologiche che sicuramente documentano la mobilità e la presenza di veneti nella città etrusca. Mi riferisco in particolare ad un fermaglio di cintura in bronzo di inconfondibile fog-gia e di sicura produzione atestina stando alla decorazione (cervo che insegue un leprotto) per il quale si è giustamente ipotizzato che ap-partenesse ad una donna veneta giunta a Spina e qui sepolta con un oggetto che ne sottolineava l’origine straniera (così come le ceramiche a fasce delle tombe di bologna)56.

in analogia con quanto ho appena osservato per Spina abbiamo a Mantova Eluveitie (fig. 13), un nome che racchiude un riferimento etnico, per così dire meno generico di Keltie dato che si riallaccia al

54 colonna 1993, p. 140; vitali 1996, p. 262; Sassatelli 2003, p. 240.55 colonna 1993, p. 140; vitali 1996; Sassatelli 2003, p. 243.56 Per la sepoltura con questo fermaglio di cintura si veda Baldoni 1993, pp.

113-123. Dalla stessa necropoli provengono altri fermagli di questo tipo che però non sono decorati e vengono giustamente attribuiti a una produzione locale, sia pure ispi-rata al mondo venetico, e non vanno quindi considerati come indicatori di una prove-nienza straniera anche perché non sono isolati all’interno della tomba, ma si mescolano a molti altri oggetti usuali nelle tombe etrusche di questa città.

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nome degli elvezi, per cui nella Mantova etrusca questo individuo veniva indicato come l’“elvezio57”. e qui davvero non può mancare un riferimento all’elvezio Helico che nel v secolo aveva soggiornato a roma come fabbro e che poi se ne tornò nella sua terra d’origine con tutto il bagaglio delle conoscenze e delle esperienze tecnologiche acquisite nel cuore della penisola, con un percorso analogo a quello di Arrunte di Chiusi che col suo carico di fichi, olio e vino avrebbe provo-cato l’invasione gallica del iv secolo.

fenomeni simili toccano anche l’etruria propria se il nome Ruta-nie usato come gentilizio a bolsena (iii secolo) si può in qualche modo ricollegare ai Ruteni dislocati nel sud-est della gallia o al nome del fiume Rodano. Anche in questo caso il nome serviva ad indicare nella comunità etrusca di bolsena “l’uomo del rodano” o “il ruteno58”. la stessa cosa vale probabilmente per i numerosi Cale, etruschizzazione del latino Gallus, documentati in etruria in età tarda e comunque successiva alla discesa dei galli del iv secolo59.

Sempre per quanto riguarda Mantova abbiamo un interessante documento epigrafico che ci riporta alla mobilità dei Veneti per i quali i documenti relativi a mobilità individuale sono relativamente scarsi. eliminate, perché mai esistite, le iscrizioni venetiche della Pannonia60; ricondotte ad una mobilità di ben altro genere (connessa alla guerra so-ciale con i veneti alleati dei romani) le iscrizioni venetiche su arma da lancio trovate in abruzzo e nelle Marche61, non restano infatti che po-chissimi documenti a testimoniare la presenza di veneti fuori dal vene-to (oltre alla cista di bologna che a tale riguardo cambia radicalmente lo stato della documentazione). Mi riferisco all’iscrizione sekenei su un lingotto di bronzo da Bagnolo S. Vito (Mantova), la quale per grafia ol-tre che per lingua è chiaramente venetica, considerata la presenza della puntazione sillabica e il dativo in -ei62. il nome Seken più che al greco sekos (peso) come ritiene De Marinis è stato ricollegato a nomi celtici in Sego come Segovesus con un processo di integrazione analogo a quelli sopra ricordati. in venetico avremmo così un richiamo sia al Bellovesus (Bellenei) che al Segovesus (Sekenei) della tradizione liviana, entrambi di chiara origine celtica. va tuttavia rilevato che nel caso di Mantova ci troviamo di fronte a un oggetto destinato, per dimensioni e per funzioni, alla circolazione e agli scambi, riconducibile pertanto al carattere forte-mente emporico del sito del forcello assai vicino peraltro all’area veneta.

57 vitali 1996, pp. 262-265; vitali 2000; Sassatelli 2003, p. 240.58 vitali 2000; Sassatelli 2003, pp. 240-241.59 Sassatelli 2003, p. 241 con altri riferimenti.60 ProsdoCimi 1993; Marinetti - ProsdoCimi 1994, p. 171, nota 1.61 ProsdoCimi 1988, pp. 325-326; Marinetti 1999, pp. 397-398.62 de Marinis 1985; ProsdoCimi 1988, p. 325; Marinetti 1999, pp. 397-398.

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418 giuSePPe SaSSatelli

a questo corpus alquanto risicato dobbiamo ora aggiungere anche un’al-tra iscrizione venetica proveniente dal tirolo del nord (fig. 14) di cui ha parlato Marzatico63 sempre nel convegno in onore di giulia fogolari. Si tratta di una iscrizione incisa sulla testa di un cavallino che tra l’altro, anche sul piano formale e artistico, rimanda a cavallini analoghi proprio di area venetica e in particolare altinate.

Mi soffermo infine su alcuni esempi di mobilità che non riguarda-no gli etruschi di area padana, ma le aree a nord del Po.

Si tratta di un fenomeno molto bene individuato e illustrato da aldo luigi Prosdocimi64 sul quale non credo sia necessario soffermarsi più tanto. nel mondo venetico sono presenti nomi celtici o comunque di (lontana?) origine celtica che, con un procedimento analogo a quelli fino ad ora considerati, vengono adattati all’onomastica locale. Mi ri-ferisco in particolare ad alcune iscrizioni venetiche su ciottoloni come Tivalei Bellenei; Fugioi Tivaloi Andetioi ekupetaris ego; Voltigen(e)i Andetiaoi ekupetaris Fremaistoi (Kv)e Voltigeneioi; Fugiai Andetinai Fuginiai eppetaris. Si tratta di documenti notissimi che non richiedo-no alcun commento. Prosdocimi non solo ha individuato il capostipite di questa importante sequenza onomastica che è Tival- Bellen-, ma ne ha colto anche il suo essere “straniero” dato che il suo nome è sicura-mente estraneo all’onomastica veneta ed è invece ricollegabile ai nomi in Bello (come Bellovesus) che mostrano una significativa colleganza con il mondo celtico. così come la Fremai Boialnai Rebetonia, moglie di un Boialus/Boios, e come tale Boialna. Si tratta insomma di nomi di origine celtica che poi vengono progressivamente venetizzati sia sul piano linguistico che su quello sociale, senza tuttavia perdere le tracce della loro più o meno lunga storia pregressa.

Sono partito da un nuovo e importante documento epigrafico (la cista di bologna) e ho cercato di ricostruire attorno ad esso un qua-dro complessivo della mobilità individuale a nord dell’appennino, un fenomeno che effettivamente risulta impressionante per quantità e qualità della documentazione.

come dicevo all’inizio, in questo nuovo quadro le relazioni cultu-rali e commerciali che conosciamo molto bene risultano ora assai meno aleatorie dato che dietro di esse riusciamo a intravedere individui che si spostano da un ambito all’altro, individui ai quali si deve l’introdu-zione nelle diverse aree interessate non solo di merci, di materie prime e di manufatti, ma anche di tecnologie, di modelli culturali e di idee.

63 una prima notizia è in tomedi et alii 2006. Si veda anche tomedi 2009, pp. 279-280, fig. 10. E più di recente marzatiCo c.s.

64 ProsdoCimi 1984; ProsdoCimi 1986, pp. 84-86; ProsdoCimi 1987, pp. 575-577; ProsdoCimi 2001, pp. 9-10; calzavara caPuis - Martini chieCo bianChi - ProsdoCimi 1978; Sassatelli 2003, pp. 243-244; si veda anche Marinetti 1992, pp. 156-159.

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424 giuSePPe SaSSatelli

fig. 1 - Sepolcreti occidentali di bologna con indicazione del Sepolcre-to battistini da cui proviene la cista con iscrizione venetica.

fig. 2 - cista cordo-nata in bronzo dalla tomba 1 del sepolcre-to battistini.

fig. 3 - Disegno del-la cista cordonata in bronza dalla tomba 1 del sepolcreto bat-tistini con posiziona-mento dell’iscrizione.

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425etruScHi, veneti e celti

Fig. 4 - Sviluppo fotografico e complessivo dell’iscrizione (in alto) e dettagli di singoli segmenti (a-e).

Fig. 5 - Apografo e sviluppo fotografico dell’iscrizione.

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426 giuSePPe SaSSatelli

fig. 6 - Stele di tombarelle nel territorio di bologna con iscri-zione Reiqvi Keisnas (dettaglio dell’iscrizione).

fig. 7 - Cup-skyphos attica dal sepolcreto arnoaldi di bologna con iscrizione mi uva.

fig. 8 - Stele di busca in Piemonte (a), stele volterrane (b) e stele Ducati 137 da bologna (c), tutte con iscrizione entro rotaia arcuata.

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427etruScHi, veneti e celti

fig. 9 - Sesto calende (località Presualdo): bicchiere globulare con iscrizione (da de marinis 2009).

fig. 10 - Sesto calende (località Presualdo): apografo dell’iscrizio-ne (da de marinis 2009).

fig. 11 - Monte ozol (val di non): astragalo con iscrizione pre-sumibilmente etrusca (fotogra fia e apografo secondo la mia propo-sta di lettura).

Fig. 12 - Apografi di iscrizioni venetiche da Spina (da uggeri 1978).

fig. 13 - ciotola a v.n. da Spina con iscrizione Keltie e ciotola in ceramica grigia da Mantova con iscrizione Eluveitie.

fig. 14 - cavallino in bronzo dal tirolo del nord con iscrizione ve-netica.

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