Eredi di Laura Bassi. Docenti e ricercatrici in Italia tra età moderna e presente, a cura di Marta...

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28,00 (U) FrancoAngeli La passione per le conoscenze 249.2.5 M. CAVAZZA, P. GOVONI, T. PIRONI (A CURA DI) EREDI DI LAURA BASSI EREDI DI LAURA BASSI Docenti e ricercatrici in Italia tra età moderna e presente FrancoAngeli PEDAGOGIA SOCIALE STORIA DELL’EDUCAZIONE E LETTERATURA PER L’INFANZIA A cura di Marta Cavazza, Paola Govoni, Tiziana Pironi Quando inizia in Occidente la storia delle donne insegnanti? La sempre più accentua- ta femminilizzazione della docenza – un fenomeno che interessa tutta l’Europa ma è particolarmente evidente nelle scuole italiane – è una risorsa o un problema? Quali sono i costi, per le università e per il Paese, delle discriminazioni che tuttora penalizzano le ri- cercatrici e le docenti universitarie nell’accesso al top della carriera? Questo libro si pro- pone di affrontare domande simili a queste, adottando una prospettiva interdisciplinare utile a raggiungere un pubblico diversificato di esperti, docenti e studenti medi e uni- versitari. La prima parte del volume affronta i rapporti tra donne e docenza nel tempo. Anche se si parla di donne intellettuali riconosciute come ‘maestre’ fin dai tempi di Socrate e di Platone, solo nel 1732, a Bologna, una donna fu per la prima volta incaricata di un inse- gnamento universitario: l’esperta di fisica newtoniana Laura Bassi (1711-1778). Nell’am- bito delle celebrazioni per il terzo centenario della sua nascita, il convegno da cui questo libro trae origine ha offerto l’occasione per ridiscutere la figura di una ‘Maestra’ univer- salmente stimata come Bassi e per ripensare la storia delle donne docenti nel lungo pe- riodo. Dalle monache maestre nei conventi della prima età moderna, alle insegnanti nel- la scuola primaria e secondaria dall’Ottocento fino al presente, il libro offre squarci su una storia controversa e poco conosciuta. La riflessione sulle tematiche di genere in ambito scolastico, condotta attraverso gli strumenti della sociologia, della pedagogia e della psicologia, si focalizza nella seconda parte sul tema delle possibili ricadute, in termini formativi, degli squilibri di genere nella composizione del corpo docente. Si discute, infine, nella terza parte, di pari opportunità e di merito nell’università ita- liana e in particolare in quella di Bologna: qual è la situazione delle docenti e delle ricer- catrici nell’Ateneo più antico, quello che per primo al mondo offrì una cattedra a una studiosa? Marta Cavazza ha insegnato Storia del pensiero scientifico e Teorie della differenza sessuale nella Facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Bologna. Paola Govoni è ricercatrice di Storia della scienza presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna. Tiziana Pironi è docente di Storia della pedagogia presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna. 249.2.5 13-05-2014 15:50 Pagina 1

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€ 28,00 (U)

FrancoAngeliLa passione per le conoscenze

249.2.5M

. CAVAZZA, P. GOVONI, T. PIRONI(A CURA DI)EREDI DI LAURA BASSI

EREDIDI LAURA BASSIDocenti e ricercatrici in Italiatra età moderna e presente

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A cura di Marta Cavazza,Paola Govoni, Tiziana Pironi

Quando inizia in Occidente la storia delle donne insegnanti? La sempre più accentua-ta femminilizzazione della docenza – un fenomeno che interessa tutta l’Europa ma èparticolarmente evidente nelle scuole italiane – è una risorsa o un problema? Quali sonoi costi, per le università e per il Paese, delle discriminazioni che tuttora penalizzano le ri-cercatrici e le docenti universitarie nell’accesso al top della carriera? Questo libro si pro-pone di affrontare domande simili a queste, adottando una prospettiva interdisciplinareutile a raggiungere un pubblico diversificato di esperti, docenti e studenti medi e uni-versitari.

La prima parte del volume affronta i rapporti tra donne e docenza nel tempo. Anchese si parla di donne intellettuali riconosciute come ‘maestre’ fin dai tempi di Socrate e diPlatone, solo nel 1732, a Bologna, una donna fu per la prima volta incaricata di un inse-gnamento universitario: l’esperta di fisica newtoniana Laura Bassi (1711-1778). Nell’am-bito delle celebrazioni per il terzo centenario della sua nascita, il convegno da cui questolibro trae origine ha offerto l’occasione per ridiscutere la figura di una ‘Maestra’ univer-salmente stimata come Bassi e per ripensare la storia delle donne docenti nel lungo pe-riodo. Dalle monache maestre nei conventi della prima età moderna, alle insegnanti nel-la scuola primaria e secondaria dall’Ottocento fino al presente, il libro offre squarci suuna storia controversa e poco conosciuta.

La riflessione sulle tematiche di genere in ambito scolastico, condotta attraverso glistrumenti della sociologia, della pedagogia e della psicologia, si focalizza nella secondaparte sul tema delle possibili ricadute, in termini formativi, degli squilibri di genere nellacomposizione del corpo docente.

Si discute, infine, nella terza parte, di pari opportunità e di merito nell’università ita-liana e in particolare in quella di Bologna: qual è la situazione delle docenti e delle ricer-catrici nell’Ateneo più antico, quello che per primo al mondo offrì una cattedra a unastudiosa?

Marta Cavazza ha insegnato Storia del pensiero scientifico e Teorie della differenzasessuale nella Facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Bologna.

Paola Govoni è ricercatrice di Storia della scienza presso il Dipartimento di Scienzedell’Educazione dell’Università di Bologna.

Tiziana Pironi è docente di Storia della pedagogia presso il Dipartimento di Scienzedell’Educazione dell’Università di Bologna.

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FrancoAngeli

EREDIDI LAURA BASSIDocenti e ricercatrici in Italiatra età moderna e presente

A cura di Marta Cavazza,Paola Govoni, Tiziana Pironi

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A Franca Serafini Cessi, scienziata, maestra, amica.

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Indice

Introduzione. Docenti e ricercatrici in Italia tra età moderna e presente, di Marta Cavazza, Paola Govoni e Tiziana Pironi

Parte I - Donne nella scuola, ieri

Le monache insegnanti e l’educazione conventuale delle giovani, di Gabriella Zarri

La Maestra di Bologna. Laura Bassi, una donna del Settecento in cattedra, di Paula Findlen

Essere maestre in Italia fra Otto e Novecento, di Carmela Covato

Diventare maestre nella Scuola Normale ‘Laura Bassi’ di Bolo-gna dopo l’Unità, di Mirella D’Ascenzo

Parte II - Donne nella scuola, oggi

Il professorato nella scuola secondaria in Francia: un trampolino di lancio o una «semi-relegazione» per le donne?, di Marlaine Cacouault-Bitaud

L’insegnamento: una professione femminile?, di Alessandro Cavalli

Donne docenti: genere, pedagogie e modelli educativi, di Silvia Leonelli

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In cattedra contro gli stereotipi: insegnanti donne e contrasto agli squilibri di genere nelle materie tecnico-scientifiche, di Carlo Tomasetto

Parte III - Donne e ricerca nell’università, in Italia e a Bologna

Ricercatrici e docenti nell’Alma Mater Studiorum, Università di Bologna: situazione e prospettive, di Rosella Rettaroli

Studiose e scienziate dell’Università di Bologna, di Dario Braga

«Mettere il genere in agenda». Donne, diritti e università, di Carla Faralli

Studi di genere fuori e dentro l’università italiana: un paese in ritardo, di Annamaria Tagliavini

Investimenti a perdere: le italiane istruite, di Monica D’Ascenzo

Autori e autrici

Indice dei nomi

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Docenti e ricercatrici in Italia tra età moderna e presente

di Marta Cavazza, Paola Govoni e Tiziana Pironi

Donne docenti: memoria e riflessione sul presente1

Nella storia della civiltà occidentale si parla di donne intellettuali ri-conosciute come ‘maestre’ fin dai tempi di Socrate e di Platone, i qua-li nell’Atene tra V e IV secolo a.C. assegnarono tale ruolo a Diotima di Mantinea e Aspasia di Mileto. Poco più di 800 anni dopo, una vera e pro-pria ‘professoressa’ fu Ipazia, una giovane donna che nei primi decenni del V secolo d.C. insegnò pubblicamente filosofia, matematica e astronomia nel Museo di Alessandria. Occorrerà aspettare altri 700 anni per assiste-re all’emergere di una ‘maestra’ cristiana: la monaca tedesca Ildegarda di Bingen (1098-1179), mistica, filosofa naturale autrice di trattati enciclopedi-ci su varie materie, predicatrice e consigliera di potenti, che solo nel 2012 è stata proclamata Dottore della Chiesa da papa Benedetto XVI, assieme a Caterina da Siena. Con Teresa d’Avila, Dottore dal 1970 per volontà di Paolo VI, sono ora tre le donne alle quali la chiesa cattolica ha riconosciuto, ol-tre la qualità di studiose e intellettuali, anche quella di ‘maestre’. Osservan-do le date, è quasi ovvio riconoscere in queste tardive decisioni pontificie un effetto dell’influenza culturale nel mondo cattolico del movimento fem-minista che, com’è noto, ha avuto tra le sue protagoniste anche molte teolo-ghe, laiche o appartenenti a ordini religiosi.

Nel mondo civile e politico occidentale, il riconoscimento del diritto femminile ad accedere agli studi superiori, e conseguentemente alle profes-sioni intellettuali, tra cui l’insegnamento, è arrivato prima, ma non poi tan-to. Laura Bassi, che nel 1732 ottenne una laurea e una cattedra (onoraria) in filosofia nell’Università di Bologna, non solo rappresentò una quasi asso-luta eccezione nel suo secolo, ma dovette accettare numerosi limiti all’eser-

1. Questo paragrafo è stato scritto da Marta Cavazza.

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cizio effettivo dell’insegnamento pubblico della sua disciplina, la fisica. Il secolo dei Lumi vide in Europa un crescente numero di donne impegnate a vari livelli in attività culturali, in campo sia letterario sia scientifico, ma solo pochissime di loro ricevettero riconoscimenti pubblici del loro sapere. L’Italia fu sotto quest’aspetto il paese più generoso, come testimoniato dai contemporanei e dagli storici.

Si trattava comunque sempre di eccezioni, rese possibili dall’appartenen-za a uno strato sociale elevato e/o dall’intervento di padri, mariti e tutori ambiziosi, uomini colti desiderosi di plasmare culturalmente ragazze o gio-vani donne particolarmente dotate. Nel mondo occidentale, l’idea del diritto universale all’istruzione di base e la conseguente coscienza della necessità di formare il più rapidamente possibile un numero d’insegnanti sufficiente si affermerà solo nel XIX secolo e in Italia solo nella seconda metà, dopo l’u-nificazione nazionale, quando diventerà urgente l’esigenza di ridurre l’anal-fabetismo. Anche per ragioni economiche, una parte sempre più consistente del costituendo corpo insegnante sarà composta di donne. Più lungo e con-trastato il cammino che porterà all’ammissione delle ragazze alla scuola se-condaria, in particolare ai licei, e all’università, e più lento ancora quello per la formazione di docenti donne per questi ordini di scuola.

Nel secondo dopoguerra, e specialmente dopo l’istituzione della scuo-la media unificata (31/12/1962) che rende effettivo l’obbligo scolastico fi-no a quattordici anni stabilito dalla Costituzione repubblicana, in Italia co-mincia a verificarsi il fenomeno della cosiddetta ‘femminilizzazione’ del corpo insegnante, particolarmente vistoso nella scuola elementare e me-dia inferiore. Nella media superiore la presenza maschile si mantiene inve-ce consistente, presumibilmente per ragioni economiche e di prestigio so-ciale che, in quest’ordine di scuola, rendono la professione docente ancora attraente per gli uomini. Nell’università i tempi e le proporzioni del variare della composizione di genere del corpo docente sono diversi, anche perché più direttamente (anche se problematicamente) connessi a quelli della con-sistenza della componente femminile del corpo studentesco. Com’è noto, il numero delle laureate è andato progressivamente aumentando negli ulti-mi decenni del secolo scorso fino a superare nel 1990-91 quello dei laurea-ti. Ciononostante il processo di riequilibrio dei generi nel corpo docente è stato ed è tuttora molto lento, specialmente nella fascia più alta (professori ordinari) e negli incarichi direttivi (direttore di dipartimento, presidente di scuola, rettore). Questa sproporzione si riflette inevitabilmente nelle minori possibilità, per le docenti universitarie, di accedere a progetti di ricerca ita-liani o europei e ai relativi fondi.

Nell’Università di Bologna la coscienza della necessità di porre rime-dio a questa situazione è da tempo ampiamente diffusa tra le docenti, so-prattutto quelle attive in gruppi, movimenti, cariche istituzionali: Associa-

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zione delle Donne Docenti (AdDU), Comitato Pari Opportunità, Centro di studi sul genere e l’educazione (CSGE) del Dipartimento di Scienze dell’e-ducazione, Centro interdipartimentale Ricerca Educazione (CIRE). A que-ste occorre aggiungere le numerose docenti attive nell’Associazione Orlan-do, esterna all’Università. La ricorrenza del trecentesimo anniversario della nascita di Laura Bassi (29 ottobre 1711), prima donna docente universita-ria, ha fornito lo stimolo e l’occasione per una serie di iniziative celebrati-ve che dalla fine di settembre agli inizi di novembre 2011 hanno coinvol-to, oltre all’Università (dal Rettore alla Facoltà di Scienze della formazione, dal Museo di Palazzo Poggi al Museo degli Studenti e al Collegium Mu-sicae), il Comune di Bologna, la Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, la Fondazione Carisbo, la Fondazione del Monte, Legacoop. Tra gli even-ti programmati dal comitato organizzativo, coordinato, su incarico del Ret-tore, da Susi Pelotti, presidente del Comitato Pari Opportunità d’Ateneo, i più importanti, in ordine cronologico, furono: la proiezione in anteprima, alla Cineteca di Bologna, del documentario Laura Bassi, una vita straordi-naria, diretto da Enza Negroni e prodotto da Valeria Consolo (27/9/11); la mostra Laura Bassi e le altre filosofesse di Bologna, a cura di Marta Ca-vazza (Casa Saraceni e Museo di Palazzo Poggi, dal 29/9 al 13/11); il con-certo inaugurale dell’Accademia degli Astrusi, nella chiesa di S. Cristi-na (29/9); la presentazione, nella Biblioteca d’arte e storia di S. Giorgio in Poggiale, del libro Laura Bassi, Minerva bolognese, a cura di Tiziana Ro-versi e Claudia Alvisi, con testi di Marta Franceschini e Marta Cavazza e illustrazioni di Alessandro Battara (26/10); il concerto per voci e organo del coro femminile del Collegium musicum dell’Alma Mater, nel Santua-rio del Corpus Domini, dove è sepolta Laura Bassi (29/10). A queste ini-ziative sono da aggiungere quattro conferenze su temi connessi a Bassi (nel Liceo “Laura Bassi”, nell’aula dello Stabat Mater dell’Archiginnasio, nel-la sede della Società Medico-chirurgica e nell’Oratorio San Filippo Neri) e una Lettura di testi di e su Laura Bassi nel Teatro Guardassoni, a cura del Gruppo di lettura S. Vitale.

Come si può evincere da questo elenco di eventi (che hanno avuto una notevole eco nella stampa locale), le organizzatrici delle celebrazioni si so-no proposte il fine di riaccendere a Bologna l’interesse per un personaggio femminile che ha onorato la città e la sua università. La mostra (visitata da numerose classi), il film, il libro e le conferenze miravano a diffondere, so-prattutto tra i giovani, la conoscenza della vita di Laura Bassi e del conte-sto sociale, culturale e di genere in cui operò e la consapevolezza del si-gnificato pionieristico della sua ‘carriera’ di studiosa e docente di fisica in un periodo in cui le istituzioni dell’alta cultura (collegi, università e acca-demie) erano chiuse alle donne, non solo in Italia e Europa, ma in tutto il mondo.

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Si è trattato, in fin dei conti, di un riuscito esperimento di divulgazione storica e scientifica, reso possibile anche dal ragguardevole numero di stu-di su Bassi e sull’evoluzione degli equilibri di genere nell’Europa e nell’Ita-lia dell’età dei Lumi pubblicati negli ultimi decenni in Italia e all’estero2. Se è vero che una commemorazione rappresenta «un atto di memoria collettiva» nel quale «storia e memoria dovrebbero intrecciarsi e nutrirsi vicendevolmen-te», il nutrito programma di eventi in onore di una donna scienziata e docente proposto a Bologna rientra perfettamente nel panorama delle «pratiche com-memorative nella scienza» descritto da Pnina Abir-Am e Clark A. Elliot, cu-ratori di un volume della rivista Osiris dedicato a questo tema. Come osser-va Abir-Am, solo nei casi (pochi) in cui la «grande mente» da celebrare è una donna, un aspetto sociale, il genere, diventa un «attributo politico chiave», al punto da mettere in ombra i suoi contributi strettamente scientifici3. Ne-gli omaggi tributati nel 2011 a Laura Bassi, il riferimento critico all’inciden-za sulla sua educazione e sulla sua ‘carriera’ di docente e studiosa di un dato sociale come la sua appartenenza di genere è stato in effetti costante. I limi-ti imposti alle sue scelte di vita e alla sua attività di studiosa e di docente dal-le norme sociali e dagli stereotipi di genere vigenti al tempo hanno costituito, assieme alle strategie da lei messe in atto per superarli, un leitmotiv delle rap-presentazioni proposte al pubblico per sollecitarne, attraverso mezzi di comu-nicazione di natura diversa, la partecipazione intellettuale ed emotiva.

La forza simbolica della figura di Laura Bassi, archetipo delle future ‘maestre’, sarebbe rimasta tuttavia sterile se la commemorazione non fos-se stata anche proiettata a ripensare la storia della presenza femminile nel campo educativo dal XVIII secolo ai giorni nostri, in Italia e in Europa. Per questo si è deciso di chiudere il programma delle celebrazioni con il conve-gno internazionale Donne docenti: l’eredità di Laura Bassi, ideato e coor-dinato, per il CSGE, da chi scrive e da Paola Govoni, con la collaborazio-ne del Comitato Pari Opportunità, dell’AdDU, del CIRE e dell’Associazione Orlando. Il convegno, sponsorizzato dalla Facoltà di Scienze della formazio-ne (ora Dipartimento di Scienze dell’Educazione “Giovanni Maria Bertin”) e dal suo preside, Luigi Guerra, e inaugurato da Rossella Ghigi, responsabile scientifico del CSGE, e dal rettore dell’Alma Mater, Ivano Dionigi, si è svol-to nell’aula magna della stessa facoltà (28-29/10/2011).

L’iniziativa nasceva anche dal desiderio di riflettere, in una prospettiva pluridisciplinare, sul lungo percorso che ha trasformato, non solo in Italia, la scuola in ogni suo grado da luogo esclusivamente maschile, qual era ai

2. Per un elenco completo degli scritti su Laura Bassi, v. il saggio di P. Findlen in que-sto volume.

3. Commemorative Practices in Science: Historical Perspectives on the Politics of Col-lective Memory, ed. by Pnina G. Abir-Am and Clark A. Elliott, Osiris, 14 (1999).

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tempi di Laura Bassi, a luogo in cui la presenza femminile è predominan-te o  comunque in fortissima crescita. Proprio per riflettere sul tema degli effetti educativi di questo processo nella scuola attuale è stata inserita nel programma del convegno una tavola rotonda intitolata «La femminilizza-zione dell’insegnamento: problema o risorsa?» alla quale hanno partecipato pedagogisti e psicologi. La sessione conclusiva, ideata e coordinata da Paola Govoni, è stata invece dedicata a una discussione articolata su ragioni, costi e possibili soluzioni del gender gap nella ricerca accademica italiana e bo-lognese, alla quale hanno partecipato docenti e studiosi impegnati a diversi livelli nel governo dell’Alma Mater. L’interesse dei temi trattati ha convinto il CIRE, grazie in primo luogo alla sensibilità di Barbara Pecori, a ospitare i saggi tratti dagli interventi presentati nel corso del convegno in una delle collane pubblicate sotto la sua egida dalla casa editrice FrancoAngeli.

Fin dal 1732, anno del conseguimento della laurea e della cattedra, il ca-so Laura Bassi ebbe una risonanza europea. Importanti giornali letterari le dedicarono articoli pieni di stupore e ammirazione e i colti viaggiatori del Grand Tour facevano tappa a Bologna anche per conoscerla. La valenza in-ternazionale della sua figura è stata confermata nei decenni passati dal no-tevole numero di studi a lei dedicati da studiose e studiosi provenienti, ol-tre che dall’Italia, da Spagna, Germania, Stati Uniti e Canada. Anche per questo a inaugurare il convegno è stata invitata un’esponente autorevole di questa specie di ‘scuola bassiana’ transnazionale, Paula Findlen, docen-te di Storia italiana all’Università di Stanford e autrice di una serie d’in-novativi saggi su Bassi e su altre donne dotte del Settecento italiano. Al-la sua intermediazione dobbiamo, tra l’altro, l’attuale possibilità di accesso libero ai documenti più importanti relativi a Bassi, grazie alla digitalizza-zione e pubblicazione sul web dei materiali del fondo Laura Bassi e fami-glia Veratti della Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, resa possibile da un accordo di quest’ultima con la Stanford University Library4. Si tratta di un definitivo riconoscimento pubblico dell’importanza internazionale del-la figura di Laura Bassi, la prima donna moderna a svolgere e a interpretare un ruolo docente a livello universitario, guadagnandosi con la sua autorevo-lezza il titolo più alto, quello di ‘Maestra’. L’insistenza sul rilievo simboli-co e storico della conquista di un tale ruolo da parte di una donna è il lei-tmotiv del saggio di Findlen che apre questo volume. All’inizio il caso Bassi rappresentò per i suoi contemporanei il rinnovarsi di una tradizione risalen-te al Medioevo di donne addottorate e docenti nell’Università di Bologna, una tradizione tuttavia scarsamente documentata, più vicina al mito che al-la concretezza storica. Nel 1732, quando le autorità civili e religiose di Bo-

4. http://bassiveratti.stanford.edu (data dell’ultimo accesso a questo e agli altri siti cita-ti nel capitolo, 10/12/2013).

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logna concessero alla ventenne Bassi una laurea e una cattedra onoraria in filosofia, miravano probabilmente a rinverdire quel mito solo a fini retorici, d’immagine, tanto è vero che posero limiti pesanti all’esercizio effettivo, da parte sua, dell’insegnamento pubblico nell’università. Ciononostante la dot-toressa Bassi «nei 46 anni successivi trasformò in realtà il mito della don-na professore». La disciplina da lei insegnata era la fisica, che allora rien-trava nell’ambito della filosofia. Divenne una Maestra in questo campo, non solo per il suo status di professore alla fine riconosciuto, ma anche per la sua «notevole reputazione come sperimentatrice e ricercatrice», per la «na-tura innovatrice della sua esperienza», per la stima di cui godeva nella Re-pubblica delle Lettere, testimoniata dalla sua corrispondenza con letterati e scienziati italiani e stranieri, infine per le sue straordinarie doti pedago-giche e didattiche, riconosciute da molti ex allievi, tra i quali scienziati fa-mosi, come Lazzaro Spallanzani, che «dedicava particolari lodi al suo me-todo pedagogico, scrivendo che neminam fortasse superiorem habere».

Come rileva Findlen, la decisione di conferire alla giovane Bassi titoli e incarichi universitari non era assolutamente tesa «a stabilire un precedente che potesse incoraggiare altre donne a seguire le sue orme». Tuttavia, «un ideale di parità emerse nel contesto di grande eccezionalità che giustificò il successivo passaggio di Bassi da laureata a professore». Il suo «ruolo ben documentato e altamente pubblico […] indica fuori di ogni dubbio come avesse stabilito un nuovo precedente, che accreditava e al contempo trasformava le precedenti tradizioni».

Tra gli allievi di Bassi non si ricordano ragazze. È vero che alla fine del Settecento il suo esempio fu imitato a Bologna da altre due donne, Clotil-de Tambroni e Maria Dalle Donne, ma si trattò ancora di casi eccezionali. Solo nella seconda metà dell’Ottocento, con l’istituzione di Scuole Norma-li femminili, oltre che maschili, e con l’apertura alle donne dell’università, sia pure con molti limiti, ebbe inizio in Italia un moderno sistema di for-mazione degli insegnanti, rivolto alle donne oltre che agli uomini. A Bolo-gna, la Scuola Normale femminile, istituita nel gennaio 1860, due mesi pri-ma della proclamazione del Regno d’Italia, sarà nel 1891 significativamente intitolata a Laura Bassi. Mirella D’Ascenzo, ricostruendo con minuziosa cura la nascita e l’evoluzione di questa istituzione, ricorda che, secondo il decreto istitutivo, la scuola doveva essere capace di «somministrare Mae-stre bene addottrinate» al fine di diffondere «nella generazione crescente i germi del sapere e della rettitudine». Alle maestre era assegnata una mis-sione ritenuta fondamentale, in quanto, «per educare l’umana famiglia im-porta innanzitutto educare la donna». In realtà, come sostiene D’Ascenzo, la scelta di incoraggiare la formazione di maestre piuttosto che di maestri nasceva, più prosaicamente, dal minor costo del personale educativo fem-minile. La visione della maestra come figura materna portava inoltre a pri-

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vilegiare nella formazione delle future insegnanti il controllo della morali-tà sulla preparazione culturale. Quello inizialmente imposto nella scuola e nell’annesso convitto era «un modello femminile di semplicità, di rigore e di austerità» simboleggiato dall’obbligo di vestire «un abito uniforme di la-na scuro» per l’inverno, e uno «di lana bigio» in estate. Secondo D’Ascen-zo, un tale modello richiama l’idea «di un’identità magistrale omologata a quella della monaca devota alla sua vocazione, vera educatrice virtuosa, semplice e austera». Nei decenni successivi, in seguito al diffondersi del-la pedagogia positivista e dell’idea dell’educazione come scienza, e grazie anche all’affermarsi di organizzazioni come la Società degli insegnanti, in cui erano attive molte donne, il modello monacale sarà sostituito da un’im-magine più libera e autorevole del ruolo delle donne docenti. In ciò, con-clude D’Ascenzo, quelle maestre di fine Ottocento «seguivano il modello di Laura Bassi» un modello di donna colta e combattiva, anche se non rivo-luzionaria, e diventavano coscienti dell’importanza e della dignità del loro ruolo di educatrici delle nuove italiane e dei nuovi italiani.

Il richiamo (implicito) all’educazione conventuale come modello vali-do nella formazione delle insegnanti della scuola pubblica di uno stato che nasceva sulla premessa della sua separazione dalla chiesa, si può spiegare storicamente con il fatto che per secoli i monasteri e i conventi femmini-li erano stati in Italia l’unica istituzione in cui delle donne erano incarica-te di formare spiritualmente, e talvolta anche di istruire, bambine e ragaz-ze a loro affidate. Gabriella Zarri, storica nota a livello internazionale per i suoi studi pionieristici sui monasteri femminili, propone nel suo contribu-to al volume un quadro dell’evoluzione dei modelli seguiti nell’educazione delle novizie e più tardi anche delle «putte per educazione» affidate ai con-venti. Sulla formazione delle novizie e sul «rapporto di discepolato tra no-vizia e maestra» esiste una tradizione che risale addirittura al VII seco-lo. Santa Chiara d’Assisi, fondatrice delle clarisse, è la prima religiosa che detta personalmente, nel XIII secolo, le regole della propria comunità. Tra queste troviamo l’obbligo per la badessa di provvedere «con sollecitudine una maestra, scelta tra le sorelle di maggior discernimento», con il com-pito di formare le novizie «a una santa condotta di vita». L’accento posto sul perfezionamento della vita spirituale sarà una costante per secoli, an-che dopo le disposizioni sull’educazione delle novizie emanate dal Concilio di Trento. Questo non toglie che, soprattutto nei monasteri delle città mer-cantili, esistesse anche «una tradizione d’istruzione femminile ispirata a un indirizzo più pratico, quasi professionalizzante»: lavori donneschi e utili ai quali dovevano essere preparate le ragazze, in monastero come in famiglia. Nel monastero, però, si aggiungeva a tale addestramento anche «l’apprendi-mento della lettura anch’essa finalizzata alla professione religiosa». Per le novizie, come per le «putte secolari» affidate temporaneamente al conven-

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to, si trattava in genere di «un insegnamento di tipo individuale», da par-te di «singole maestre», per lo più loro parenti. Allo scopo di disciplinare la vita dei monasteri e contrastare l’influenza dei gruppi parentali, il Con-cilio di Trento impose «l’istituzione di un educandato separato dall’abita-zione delle professe». A Bologna, il cardinal Paleotti dispose nel 1579 che le «putte in educazione» avessero «una sola maestra», ma nel 1737 il car-dinal Lambertini constatò che il suo auspicio non si era realizzato. Dal-la metà del Seicento in poi i monasteri ebbero concorrenti esterne, come le Orsoline, «vergini che si dedicavano nella propria casa all’educazione del-le fanciulle». Nel Settecento fiorirono altri istituti religiosi: oltre ai conven-ti di «terziarie», i «conservatori» per ragazze orfane, in realtà di origine cinquecentesca, nei quali le giovani erano costrette a una dura vita di la-voro in ambienti insalubri, una vita di clausura senza aver preso i voti, co-me lo stesso Lambertini denunciò nel 1737. Erano comunque pochi i con-venti dove si provvedeva anche a una formazione intellettuale o artistica (musica, poesia, pittura) per le novizie e le educande. Nel Settecento si svi-luppò una nuova sensibilità, attenta all’aspetto affettivo. Le «maestre del-le zitelle che stanno in educazione ne’ monasteri» debbono ricordare che «stanno in luogo delle loro madri», raccomandava nel 1716 A.M. Affaitati nel suo Memoriale catechistico esposto alle religiose claustrali, nel quale mancano invece «informazioni relative all’istruzione delle novizie e delle educande e al loro curriculum di studi». Zarri afferma che «una ratio stu-diorum per i monasteri femminili comincerà ad apparire nel corso del Set-tecento in alcuni istituti particolarmente dediti all’istruzione, come i mona-steri delle Visitandine». Sorti in Francia, per opera di Francesco di Sales e di Jeanne Chantal, i monasteri della Visitazione proponevano alle fanciulle delle classi elevate un percorso educativo ispirato ai principi morali e peda-gogici di François Fénelon e un organico corso di studi modellato su quel-lo dei collegi gesuitici riservati ai ragazzi, con l’aggiunta dell’immancabile addestramento ai lavori donneschi e delle nozioni utili al governo della ca-sa. In Italia, i monasteri delle Visitandine si diffusero lentamente, concen-trandosi nell’area piemontese, lombarda e toscana. A Bologna, il loro meto-do penetrerà solo nel primo Ottocento, grazie alle suore Salesiane chiamate in città dopo la Restaurazione. Un regolamento manoscritto citato da Zar-ri permette di ricostruire gli obiettivi educativi dell’educandato del mona-stero bolognese e l’articolata organizzazione dell’insegnamento, disposto su tre anni e suddiviso tra lezioni disciplinari (che spaziavano da dottrina cri-stiana e storia sacra a grammatica italiana e francese, storia universale, geo-grafia e aritmetica) e attività manuali e artistiche. Zarri rileva che le edu-cande bolognesi, come quelle degli altri monasteri retti dalle Visitandine, dovevano condurre una vita semi-claustrale, sottoposta a un rigido control-lo da parte delle suore insegnanti. Ci si potrebbe chiedere se le quasi mo-

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nacali regole del convitto della laica Scuola Normale, rievocate da Mirella D’Ascenzo, non fossero state ispirate proprio da quelle di questa istituzione religiosa che era in fin dei conti l’esempio più avanzato di educazione fem-minile istituzionale allora esistente nella città.

La forte incidenza dell’appartenenza di genere sulla configurazione isti-tuzionale del ruolo insegnante e sulle possibilità di carriera di donne e uo-mini è un dato comune a tutti i sistemi educativi europei. La differenza dei percorsi è storicamente molto accentuata in Francia, dove fin dalla se-conda metà del XIX secolo furono organizzate scuole preparatorie distin-te, volte a formare insegnanti donne per le scuole secondarie inferiori e per i licei femminili e insegnanti uomini per i licei maschili. Il concorso dell’agrégation fu istituito per le donne già nel 1883. Grazie ad esso, fu of-ferta loro «l’opportunità di ottenere una qualifica in un campo specializza-to e di svolgere una professione intellettuale», la prima che le donne fran-cesi hanno potuto esercitare. Per loro, il professorato femminile avrebbe potuto funzionare come «un trampolino di lancio». La volontà di stabili-re una gerarchia tra professorato maschile e femminile era tuttavia eviden-te fin dalla diversa denominazione della scuola per le donne (École norma-le secondaire), e di quella per gli uomini (École normale supérieure). Le carriere rimasero distinte per sesso fino al 1976, quando s’impose l’unifica-zione dei concorsi, essendo tutti gli istituti scolastici diventati misti nell’an-no precedente. Tutto questo è raccontato da Marlaine Cacouault-Bitaud, so-ciologa e storica delle professioni docenti, nel suo interessantissimo saggio che ricostruisce da una prospettiva di genere la complessa storia del pro-fessorato femminile in Francia. L’autrice mette a fuoco non soltanto il qua-dro burocratico-istituzionale ma anche, attraverso una serie di casi indivi-duali, i percorsi di carriera di donne insegnanti di diverse generazioni che hanno sperimentato direttamente, facendo scelte diverse, una contradditto-ria situazione, caratterizzata dalle possibilità di mobilità verso l’alto offer-te dai concorsi, da un lato, e, dall’altro, dal freno rappresentato dai compi-ti familiari. Anche dopo che il sistema unificato dei concorsi (a più riprese riveduto e corretto) si è affermato, le effettive possibilità di avanzamenti di carriera, fino a passare dal liceo all’università, sono rimaste minori per le donne. La tesi di Cacouault-Bitaud è che, per le laureate, «il professora-to nella scuola secondaria ha rappresentato e rappresenta tutt’oggi, nel con-tempo o alternativamente, un trampolino di lancio e una semi-relegazio-ne». Può essere il primo passo verso una carriera prestigiosa, oppure una situazione di blocco, temporaneo o definitivo, al gradino più basso, quasi sempre per la difficoltà di conciliare insegnamento, studio e vita familiare. La diffusione della scelta, a volte temporanea, di privilegiare quest’ultima, scelta resa possibile da provvedimenti come il lavoro part-time o la con-cessione di congedi per assistere figli e anziani, ha contribuito «a costruire

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un’immagine dell’insegnante donna meno impegnata nel lavoro che in fa-miglia». Cacouault-Bitaud discute questi temi nella seconda parte del suo saggio, dedicata alla cosiddetta femminilizzazione dell’insegnamento, un processo che in Francia si è significativamente accentuato negli ultimi de-cenni. L’argomento è affrontato anche in altri contributi al volume.

Alessandro Cavalli, sociologo di notorietà internazionale, forte anche del-la sua esperienza come coordinatore delle indagini periodiche dell’Istitu-to IARD sulle condizioni di vita e di lavoro nella scuola italiana (Bologna, il Mulino, 1992, 2000, 2010), propone nel suo saggio un quadro problemati-co dei diversi aspetti del fenomeno della femminilizzazione del corpo inse-gnante, presente in tutti i paesi dell’OCSE, ma particolarmente accentuato in Italia. Gli studi di cui si avvale per impostare un discorso su fenomenologia, cause ed effetti di questo processo, sono tratti per lo più da una letteratura internazionale, vista la scarsità di ricerche italiane. Questo vale in particola-re per uno degli aspetti più delicati della situazione di squilibrio nella com-posizione di genere del corpo insegnante, cioè l’interrogazione sugli even-tuali effetti negativi sui processi educativi. La scarsa presenza, o addirittura l’assenza, d’insegnanti uomini, che effetto potrà avere sugli allievi, in parti-colare sugli adolescenti maschi? Pur richiamandosi alla tematica dell’assenza dei padri nella società post-moderna, paventata già nel 1963 dallo psicanali-sta Alexander Mitscherlich, citazione a cui potremmo aggiungere quella dei recenti libri di un altro psicanalista, Massimo Recalcati5, Cavalli saggiamen-te conclude che, anche se sarebbe certamente auspicabile uno squilibrio me-no accentuato, «per i giovani è importante incontrare dei buoni insegnanti, indipendentemente se dello stesso o dell’altro sesso».

Sul tema della femminilizzazione della scuola riflette anche Silvia Le-onelli, mettendo in discussione l’alternativa proposta nel titolo della ta-vola rotonda ad esso dedicata nel convegno: «risorsa o problema?». Que-sta domanda potrebbe infatti avere risposte diverse, a seconda dei periodi storici considerati e soprattutto a seconda dei diversi approcci al femmi-nismo che si sono succeduti in Italia, influenzando in modi differen-ziati la pratica didattica e la riflessione pedagogica delle insegnanti. La domanda che si pone Leonelli diventa allora: quanto ha contribuito la mag-gioritaria presenza delle donne nelle scuole e, sia pure in misura mino-re, nelle università, a modificare la cultura sessista prevalente in Italia? L’a-nalisi dei significati della femminilizzazione nella scuola italiana è quindi da lei condotta «esaminando il modo in cui i contributi femministi sono

5. A. Mitscherlich, Verso una società senza padri, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1970; M. Recalcati, Cosa resta del padre. La paternità in epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano, 2011; Id., Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano, 2013.

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stati recepiti dalle teorie pedagogiche e trasformati in linee-guida per la successiva azione educativa». Negli anni Settanta, caratterizzati dalla spinta verso l’emancipazione e l’uguaglianza dei diritti formativi, la crescente femminilizzazione poteva apparire come un «esito felice del processo di emancipazione che ha permesso alle donne di accedere a una professione intellettuale». Gli anni Ottanta e Novanta hanno visto l’affermarsi della pedagogia della differenza, applicazione al campo educativo della teoria della differenza sessuale elaborata da femministe francesi e italiane. Leonelli svolge un’analisi acuta e articolata delle proposte teoriche e degli esiti pratici di questo movimento che ha avuto in Italia una notevole influenza. Secondo l’autrice, in questa fase la femminilizzazione ha mostrato aspetti positivi, in quanto «la massiccia presenza di docenti donna» ha favorito la diffusione della pedagogia della differenza, dando impulso a «un periodo fecondo, di orgoglio, di esplorazione intellettuale sul/del femminile che ha convolto al-meno due generazioni di studentesse». Leonelli mette però in evidenza an-che gli aspetti di questa impostazione teorica che hanno contribuito alla sua perdita d’influenza, in primo luogo la visione essenzialistica del femminile, con la conseguente teorizzazione e pratica del separatismo di genere e quindi di un rapporto privilegiato tra docenti donne e allieve.

Nei due periodi e nelle due prospettive finora considerate, la femminiliz-zazione della scuola non era avvertita come un potenziale problema. Secondo Leonelli questo potrebbe avvenire grazie ai nuovi scenari aperti dalla diffu-sione anche in Italia dei gender studies e dalla straordinaria fecondità erme-neutica e pratica dell’adozione della categoria di genere in campo pedagogi-co, psicologico, sociologico e antropologico. L’accento posto sulla relazione tra i generi piuttosto che sulle distinte identità ha portato in primo piano la rifles-sione sul ‘maschile’ e sul ruolo della scuola nel contrastare la perpetuazione di modelli identitari stereotipici che possono rendere drammaticamente difficile il rapporto dei giovani maschi non solo con il ‘femminile’ ma anche con altre declinazioni dell’identità sessuale e di genere. In questa nuova prospettiva, un migliore equilibrio nella composizione di genere del corpo docente potrebbe diventare un «valore aggiunto», senza però dimenticare, conclude Leonelli, la saggezza del monito di Cavalli a privilegiare sempre la competenza e la sen-sibilità come qualità essenziali del buon insegnante, a prescindere dal genere6.

Laura Bassi ai suoi tempi fu riconosciuta come Maestra dai suoi allievi (maschi) proprio per la sua competenza nella fisica moderna e la sua sensi-bilità nel rapporto con loro. Sono qualità che anche ai nostri giorni posso-no evidentemente appartenere in egual misura a maestre e a maestri (senza la m maiuscola!), così come a professori e professoresse.

6. Alla tavola rotonda, oltre a Silvia Leonelli e Carlo Tomasetto, parteciparono Roberto Farné, Federica Tarabusi e Paola Villano che qui ringraziamo.

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Un’identità controversa: donne insegnanti nella scuola italiana7

Dalla seconda metà dell’Ottocento a oggi, la femminilizzazione dell’in-segnamento ha rappresentato un fenomeno che ha contraddistinto in mo-do marcato la società italiana, anche rispetto al resto del mondo occidenta-le. Come mostrano i dati presentati da Alessandro Cavalli, attualmente, il tasso di docenti donne si attesta in Italia «al 95,9% nella scuola primaria, al 77% nella secondaria inferiore e al 63% nella secondaria superiore»; nei paesi dell’OCSE raggiunge, invece, «l’82% nella scuola primaria, il 68,1% nella scuola secondaria di primo grado e il 63% nella secondaria di secon-do grado».

Molteplici sono le ragioni, in termini sociali, culturali, economici, che rimandano alla necessità di comprendere storicamente quei processi che hanno favorito, in Italia più che altrove, l’affermarsi – come sostiene Car-mela Covato – dell’«equazione tra donne ed educazione», rendendo così dominante la figura della maestra elementare anche rispetto a quella della professoressa.

Covato ci mostra infatti attraverso quali strategie – all’indomani dell’U-nità – con la nascita della scuola elementare pubblica e dell’obbligo scola-stico, la donna sia stata subito considerata «dal ceto dirigente di allora il soggetto naturalmente destinato all’educazione più che all’istruzione dei ceti popolari, in una prospettiva di salvaguardia dell’ordine morale e delle gerarchie sociali».

Da ricordare che i problemi relativi al rapporto tra i sessi ed alla con-seguente formazione dell’identità di genere si sono rivelati, negli ultimi trent’anni, questioni centrali per l’indagine storico-educativa, al fine di te-ner conto della complessa interazione tra natura e cultura, non più qua-le oggetto di ambiti scientifici distinti e separati, ma finalmente frutto di un approccio di tipo interdisciplinare. Da parte di diverse studiose, tra cui la stessa Covato, oltre a Rosella Frasca, Angela Giallongo, Simonetta Sol-dani e Simonetta Ulivieri – per citarne solo alcune – è stato infatti avviato un lavoro storiografico sull’educazione e sull’istruzione, per individuare in che modo le asimmetrie di genere abbiano ridisegnato di continuo gli sce-nari formativi: è stata perciò rivisitata la storia ufficiale, cercando di indi-viduare le ragioni dell’assenza delle donne e anche le modalità con cui si è espressa la loro presenza8.

7. Questo paragrafo è stato scritto da Tiziana Pironi.8. Rimandiamo a titolo esemplificativo ai seguenti contributi di S. Ulivieri, Essere

donne insegnanti. Storia, professionalità e cultura di genere, Rosenberg & Sellier, 1996 e di Ead., Educare al femminile. Una storia da scoprire, Guerini e Associati, Milano, 2008.

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In questa direzione, l’indagine storiografica si è ultimamente arricchita di nuovi approcci sul piano metodologico e interpretativo, facendo riferimento a nuove fonti, ancora per certi versi inesplorate (da quelle letterarie, autobiogra-fiche alle testimonianze orali), per focalizzare l’attenzione sulla soggettività di chi ha formato generazioni di alunne e di alunni, oltre che sulla costruzio-ne dell’immaginario relativo al ruolo professionale esercitato9. Di qui la ne-cessità – come del resto hanno mostrato i lavori del Convegno da cui ha ori-gine questo libro – di far convergere i diversi e molteplici sguardi disciplinari per poter cogliere la complessità della questione, sviluppatasi nel corso del tempo, tenendo conto dei rapporti di forza, dei cambiamenti sociali e cultu-rali, ma anche delle pratiche sottese e spesso invisibili dell’essere insegnanti.

I contributi qui presentati affrontano infatti con sensibilità pedagogica i problemi relativi alla costruzione dei modelli della docente donna, dal pas-sato alla contemporaneità, cercando di far luce su quell’intricato intreccio di mentalità, condizionamenti e bisogni sociali, spesso latenti e non codi-ficati, che hanno contribuito alla formazione di precisi e ben radicati abiti comportamentali.

Come ci mostra Covato, se consideriamo la storia della maestra elemen-tare, dobbiamo rilevare che con la legge Casati (1859), l’istituzione della Scuola normale, distinta in maschile e femminile, per differenziare tra loro i curriculi formativi dei maestri e delle maestre, diventa ben presto il per-corso per eccellenza dell’istruzione femminile: un canale scolastico prefe-renziale per le figlie dei ceti medi e piccolo-borghesi, espressione della loro richiesta di mobilità sociale e, al tempo stesso, un percorso obbligato per quelle giovani che intendono proseguire gli studi, viste le difficoltà che in-contrano quelle poche intenzionate a intraprendere studi di tipo tecnico o liceale. Sappiamo come in questo caso la partecipazione delle donne fos-se altamente scoraggiata, nella convinzione che assiomi scientifici e cogni-zioni speculative non si adattassero alla specifica natura femminile, e per-ciò temendo che la loro presenza favorisse la dequalificazione culturale e il decadimento dei costumi.

L’alta affluenza femminile alla professione magistrale, che si verifica tra Otto e Novecento, trova perciò giustificazione nell’idea della ‘naturale’ congenialità femminile al rapporto con i bambini, come conferma una del-le norme di ammissione alla Scuola normale: mentre gli aspiranti di sesso maschile dovevano aver compiuto i sedici anni, le aspiranti di sesso fem-minile potevano essere ammesse a quindici anni.

L’enfasi mostrata dalle classi dirigenti di allora sul significato vocazio-nale di una professione, intesa quale proseguimento del ruolo materno, ap-

9. In questa direzione si veda, in particolare, E. Becchi e M. Ferrari, a cura di, Forma-re alle professioni. Sacerdoti, principi, educatori, FrancoAngeli, Milano, 2009.

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pare stridente con la triste realtà dei fatti: le maestre sono pagate un terzo di meno rispetto ai colleghi maschi, e per giunta costrette a ricoprire le se-di più disagiate, dove spesso sono duramente osteggiate dalla popolazione; per di più – sottolinea Covato – nonostante questa persistente identificazio-ne tra professione e maternità, la condizione più frequente dell’insegnan-te elementare è rappresentata dal nubilato, non essendo concepibile per la donna borghese la conciliazione del suo ruolo di moglie e di madre con quello di un lavoro extradomestico.

Tuttavia – com’è noto – ragioni economiche spingono i Comuni ad assu-mere preferibilmente le maestre anche per le classi maschili, dando avvio a tutta una serie di discussioni, in merito alle capacità della donna di educare i bambini maschi ai cosiddetti valori virili del futuro cittadino, come la la-boriosità e il culto della patria.

La questione nodale al centro del dibattito è, infatti, quella relativa a una presunta natura femminile, totalmente altra rispetto a quella maschile, da considerare alla base di un precisa ed inevitabile destinazione sociale, che rimanda di conseguenza a un differenziato approccio educativo. D’altron-de, la prestazione richiesta alla maestra elementare dal nuovo Stato unita-rio non è tanto quella di trasmettere conoscenze, bensì quella di impartire valori e regole morali. Da osservare che, non a caso, nel 1861 si assiste ad una riduzione del programma di scienze nella Scuola normale femminile, in quanto – come scriveva Lambruschini – le scienze esatte «abbuiano l’in-telletto delle più fra le ragazze o – e non è male minore – rendono pedanti le pochissime che intendono o credono di intendere»10.

Di qui l’enfatizzazione sulla figura di educatrice virtuosa, conferman-do la tendenza a contenere la dimensione culturale, nell’ottica di favorire le connotazioni morali del lavoro formativo. Del resto, indispensabile prero-gativa per l’assunzione delle insegnanti da parte dei Comuni è l’attestato di moralità: la loro vita privata è soggetta a un forte controllo, trattandosi in gran parte di donne nubili che per non dar adito a maldicenze devono dar prova di una condotta irreprensibile e austera.

Il modello di riferimento è quello della maestra morigerata, in posses-so di poche cognizioni chiare e semplici, in grado di trasmettere, insieme all’alfabeto e al far di conto, precise regole comportamentali. D’altra parte, negli stessi convitti, annessi alle scuole, si esercitava una rigida sorveglian-za, come mostra l’indagine di Mirella D’Ascenzo sulla Scuola normale di Bologna nel periodo postunitario: si evidenzia un controllo ossessivo nella vita delle allieve, soggette «a una vita pressoché monacale, erede del mo-

10. R. Lambruschini, Lettera al ministro della P.I. Matteucci, Firenze, 1862, cit. in A. Gambaro, La pedagogia italiana nell’età del Risorgimento, in Questioni di storia della pe-dagogia, La Scuola, Brescia, 1963, p. 667.

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dello dell’educandato e della vita claustrale». Rileva infatti D’Ascenzo che «la preferenza per i colori scuri, l’ostilità alla frivola seta e ai fiori erano l’espressione palese di un’identità magistrale omologata a quella della mo-naca devota alla sua vocazione, vera educatrice virtuosa, semplice e auste-ra»: un’identità che troverà durante il fascismo un’ulteriore radicalizzazione simbolica rappresentata dal caratteristico grembiule nero11.

Proprio lo studio di caso che ci propone Mirella D’Ascenzo ci fa coglie-re lo scarto spesso esistente tra le normative vigenti e la loro applicazione a livello locale. Con l’avvento del positivismo, poi, la Scuola normale femmi-nile di Bologna «compì un deciso salto di qualità nella proposta culturale e didattica, testimoniato anche dalla scelta dei libri di testo e della biblioteca scolastica». Tra continuità e mutamento, nel far fronte ai cambiamenti cultu-rali emergenti, ma anche a mentalità sedimentate, le maestre si fanno sem-pre più spesso interpreti inquiete del loro ruolo difficile e contraddittorio.

Nel periodo giolittiano – in anni cruciali caratterizzati da nuove istanze di cambiamento – molte insegnanti elementari prendono coscienza della lo-ro condizione, distaccandosi da quell’immagine tutta giocata in precedenza sulla passività e sull’obbedienza.

Agli albori del Novecento emerge una nuova consapevolezza da parte di quella folta schiera di «madri sociali della popolazione crescente»12. Co-strette a vivere sulla loro pelle la difficile mediazione tra ceti medi e pro-letariato, tra poteri centrali e periferici, diventano sempre più consapevo-li delle profonde ingiustizie di cui sono spesso vittime. Acquistano ampia visibilità nelle prime forme dell’associazionismo di categoria, lottando per ottenere le stesse condizioni dei maestri in merito a preparazione, recluta-mento, stipendio; per questo, esse condividono, in molti casi, la doppia mi-litanza nelle file dei movimenti emancipazionisti, ben sapendo che lo Stato che sono chiamate quotidianamente a rappresentare, creando il consen-so delle nuove generazioni, non è disposto a riconoscerle come cittadine13. Non sorprende perciò che nel 1906, in diverse città d’Italia, siano in gran parte le insegnanti ad iscriversi nelle liste elettorali, raccogliendo l’appello di Maria Montessori: «Donne tutte sorgete! Il vostro primo dovere in que-sto momento è chiedere il voto politico»14.

11. C. Covato, Un’identità divisa. Diventare maestra in Italia fra Otto e Novecento, Ar-chivio Guido Izzi, Roma, 1996, p. 117.

12. Voce “Maestra”, in A. Martinazzoli e L. Credaro, Dizionario illustrato di pedago-gia, vol. II, Vallardi, Milano, 1899, p. 291.

13. A. Cagnolati e T. Pironi, Cambiare gli occhi al mondo intero. Donne nuove ed edu-cazione nelle pagine dell’Alleanza (1906-1911), Unicopli, Milano, 2006.

14. S. Soldani, Le donne, l’alfabeto, lo stato. Considerazioni su scolarità e cittadinan-za, in D. Galliani e M. Salviati, a cura di, La sfera pubblica femminile, Clueb, Bologna, 1992, pp. 134-135.

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Del resto, l’età giolittiana vede il primo affacciarsi delle professoresse al mondo della scuola, il cui percorso si rivela comunque particolarmente acci-dentato. Le poche donne laureate intraprendono in stragrande maggioranza la strada dell’insegnamento, ma possono aspirare solamente alle cattedre delle classi femminili. Sono proprio i movimenti femministi a insorgere contro la normativa esistente che sancisce la ghettizzazione dei posti d’insegnamento in scuole distinte per sesso. Si tratta comunque di proteste che cadono nel vuo-to, scarsamente recepite anche all’interno della Federazione degli insegnanti (FNISM), trattandosi di un problema che coinvolge un’esigua minoranza, pa-ventando pure qualche timore per l’eventuale concorrenza femminile.

L’accesso delle docenti all’insegnamento secondario aveva aperto un di-battito nell’ultimo trentennio dell’Ottocento, portando a canalizzare tale ri-chiesta negli Istituti Superiori Femminili di Magistero, sorti a Roma e a Firenze, nel 1882, al fine di preparare le future professoresse di Pedagogia, Materie letterarie e Lingue straniere nelle scuole complementari e norma-li femminili; nel 1905 verrà poi aggiunto un ulteriore corso in Scienze fisi-che e naturali. La figura della professoressa nasce quindi come una sorta di identificazione con la maestra specializzata, trovando, a differenza del pro-fessore, notevoli difficoltà ad imporsi quale professionista competente nella trasmissione del sapere intellettuale15.

Nonostante il mutato quadro culturale tra Otto-Novecento assecondi le richieste di una ristretta schiera di donne – peraltro in costante aumento –per una formazione universitaria di tipo scientifico16, permane il carattere segregante delle carriere femminili, nella convinzione diffusa che ad una natura diversa, sul piano biologico ed ontologico, debba corrispondere una destinazione sociale diversa.

Da ricordare che contro questa consolidata opinione sulla suddivisione tra sfera emozionale femminile e sfera logico-intellettiva maschile si era le-vata la voce coraggiosa di Maria Montessori, al fine di confutare le tesi di derivazione lombrosiana, facendo così valere le sue competenze di donna-scienziato. Unendo ricerca e impegno femminista, la famosa pedagogista, agli inizi del Novecento, si era fatta promotrice di una campagna divulgati-va per convincere le donne ad intraprendere lo studio delle scienze per far-ne uno strumento di autonomia e di autodeterminazione17.

15. G. di Bello, Le professioni educative: dall’Istituto Superiore di Magistero femmini-le alla Facoltà di Scienze della Formazione, in L’Università degli Studi di Firenze 1924-2004, Leo S. Olschki, Firenze, 2004, tomo II, pp. 545-615.

16. Al riguardo, anche per individuare i cambiamenti sul lungo periodo, si riman-da all’approfondito studio di P. Govoni, “Donne in un mondo senza donne’. Le studentes-se delle facoltà scientifiche in Italia (1877-2005)”, in Quaderni storici, 1, 2009, pp. 213-39.

17. V. Babini, L. Lama, “Una donna nuova”. Il femminismo scientifico di Maria Mon-tessori, FrancoAngeli, Milano, 2000. Da segnalare che Maria Montessori rappresenta il

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La Grande Guerra, con il richiamo degli uomini al fronte, rappresenta quella situazione di emergenza che apre, in via eccezionale, alle professo-resse l’insegnamento in ogni ordine e grado scolastico. Come ci ricorda an-cora Carmela Covato nel suo saggio, esse subiranno nuove e ancor più dra-stiche esclusioni durante il fascismo, ritenute incapaci di educare i maschi alla virilità e soprattutto non in grado per natura di aspirare alle vette in-tellettuali del sapere.

Soltanto con la nascita della Repubblica, la parità tra uomo e donna, sancita dalla Costituzione, avrà come conseguenza, sul piano legislativo, l’eliminazione delle precedenti norme discriminanti. Tuttavia, il retaggio storico relativo al complesso rapporto tra donne e scienza non mancherà di far sentire i suoi effetti, visto che nel secondo dopoguerra le insegnan-ti coprono in maggioranza le cattedre di materie letterarie; ancora, alle so-glie del 2000, le discipline umanistiche attraggono oltre l’80% delle docen-ti, mentre quelle scientifico-tecnologiche si attestano sul 50%18.

A questo proposito alla luce degli studi di psicologia sociale, ci sembra si-gnificativo quanto viene evidenziato da Carlo Tomasetto nel mostrare l’im-portanza assunta dal contesto culturale, soprattutto facendo particolare atten-zione ai meccanismi impliciti: un ambiente sociale che promuova l’equità di genere, assunta come valore, offrendo esempi di donne che ottengono suc-cessi in campo tecnico-scientifico, sembra favorire la riuscita delle ragazze in questi ambiti. Di conseguenza, laddove sono più forti gli stereotipi sulle disuguaglianze di genere, le donne mostrano minore propensione ad intra-prendere percorsi scientifici. Ragion per cui – sostiene Tomasetto – avere un’ottima docente donna in matematica può rivelarsi insufficiente a suscitare interesse e coinvolgimento da parte delle allieve, se i media e il contesto so-ciale più allargato veicolano solo lo stereotipo dello scienziato maschio.

Del resto, la preponderante presenza femminile nell’insegnamento non pare abbia favorito più di tanto un cambiamento della mentalità sessista del nostro Paese, non potendo sfidare la forza, ben più incisiva, della cul-tura mediatica che permea a livello diffuso e in maniera radicata il con-testo sociale. Oltretutto – come ci ricorda Silvia Leonelli – la svolta fem-

caso più noto di donna-scienziato, impegnata nella diffusione del sapere scientifico alle donne. Ci preme ricordare due figure meno famose, ma altresì importanti, per il loro inse-gnamento delle scienze presso il Magistero femminile di Roma: Evangelina Bottero e Caro-lina Magistrelli. Su queste prime laureate in scienze in Italia, autrici di volumi di successo e sulla loro carriera, si vedano: P. Govoni, “Studiose e scrittrici di scienza tra età liberale e fascismo. Il caso Bottero e Magistrelli”, in Genesi, VI/1, 2007, pp. 65-89; Ead., “The Power of Weak Competitors: Women Scholars, ‘Popular Science’ and the Building of a Scientific Community in Italy, 1860s-1930s”, in Science in Context, 26 (3), (2013), pp. 405-36.

18. A. Giallongo, Frammenti di genere. Tra storia ed educazione, Guerini scientifica, Milano, 2008, p. 137.

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minista, fattasi interprete di istanze di cambiamento in numerosi ambiti sociali e culturali, ha coinvolto solo una minoranza di docenti italiane, nel farsi promotrici di una cultura di genere nelle aule scolastiche. Dalle ana-lisi condotte da Leonelli emerge che non va comunque trascurato il si-gnificativo contributo del femminismo alla teorizzazione pedagogica, re-cepita sul piano operativo, sulla base di alcune linee-guida fondamentali: «incoraggiamento delle potenzialità delle bambine/ragazze per portarle a transitare dalla passività intellettuale alla creatività; dall’essere oggetti di enunciazione a divenire soggetti creanti sapere; promozione della cono-scenza di donne dimenticate dalla storia, ma che invece avevano dato con-tributi importanti in letteratura, nel pensiero filosofico, pedagogico, psico-logico e scientifico; autopromozione, in qualità di insegnanti, come modelli intellettuali autorevoli per le giovani generazioni di ragazze».

Si è trattato senza dubbio di un periodo fecondo per l’esplorazione in-tellettuale sul/del femminile – osserva Leonelli – che però ha scarsamen-te coinvolto i docenti maschi nella riflessione sulle pari opportunità e sulle discriminazioni di genere, col rischio di riproporre – in alcuni casi – l’idea di un femminile, inteso «come essenza originaria», e perciò naturalmente orientato alla cultura del materno. Di conseguenza, la mancanza di model-li positivi riferiti a un’immagine del maschile, dedito alle relazioni di cura, ha reso scarsamente appetibili le professioni educative per i giovani, scelte, invece, ancora in maggioranza dalle giovani.

Per concludere, creare maggiori opportunità per promuovere una cultu-ra di genere, a livello scolastico, dovrebbe rappresentare per studenti e stu-dentesse un’occasione in più per comprendere che le identità sono sempre storicamente costruite e perciò tendenzialmente aperte al cambiamento19. Di qui l’importanza di offrire nelle aule scolastiche e universitarie percorsi di riflessione sulle relazioni di potere trai sessi anche in rapporto ai diversi ambiti disciplinari, avviando una decostruzione degli stereotipi più consoli-dati e diffusi (dai libri di testo ai media).

La sfida della qualità per le pari opportunità nella ricerca20

Come illustrato nelle pagine precedenti, questo libro nasce dal dialogo tra studiose e studiosi di Paesi e ambiti disciplinari diversi iniziato duran-te un convegno che intendeva evidenziare le eredità positive, così come di-scutere gli aspetti controversi, dei rapporti tra donne e docenza. Dopo gli interventi storici, che hanno offerto sul tema spunti utili per risalire ad al-

19. R.W. Connell, Questioni di genere, il Mulino, Bologna, 2006, p. 132.20. Questo paragrafo è stato scritto da Paola Govoni.

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cune delle radici del presente, si è proseguito mettendo a confronto i punti di vista della sociologia, della pedagogia e della psicologia, come ricostrui-to qui da Marta Cavazza e Tiziana Pironi. Anche per la tavola rotonda che chiuse il convegno con una discussione su un caso particolare, quello dei rapporti tra donne e ricerca presso l’Università di Bologna, e di cui si dirà in queste pagine, si privilegiò l’approccio multidisciplinare.

Il dibattitto aveva preso il via durante un seminario dal titolo «Quali-tà della ricerca ed equilibri di genere. Come riportare l’Università di Bo-logna nelle classifiche internazionali», organizzato qualche mese prima dal CSGE, il Centro di studi sul genere e l’educazione del Dipartimento di scienze dell’educazione21. Lo scarto che le docenti e le ricercatrici vivo-no tra la dimensione locale e quella sovranazionale del proprio mestiere era emerso in quell’occasione come interessante per comprendere il permane-re di disuguaglianze di opportunità tra donne e uomini nella ricerca. Il te-ma fu ripreso come punto di partenza per la tavola rotonda dal titolo «Dal ‘soffitto di cristallo’ alla ‘rete invisibile’. Equilibri di genere nella ricerca», che chiuse il convegno su «Donne docenti».

Studiosi e studiose di tutti i settori vivono evidentemente la loro vita professionale in uno scambio continuo tra dimensioni molto diverse tra lo-ro. Parte di quella vita, infatti, si gioca in un ambito ideale e sovranazio-nale dove il dialogo è alla pari tra esperti ed esperte che condividono stan-dard di qualità, valori e alcune regole, oltre che una lingua comune. Ai tempi di Laura Bassi si parlava di Repubblica delle Lettere, un network che, com’è ovvio, si è allargato e complicato enormemente nel corso del tempo. Eppure, oggi come ai tempi di Bassi, nelle istituzioni di ricerca e nei laboratori del mondo, elementi sovranazionali e locali si mescolano di continuo tra loro.

Per quanto concerne la creatività e la produzione di sapere, quelle ten-sioni (che non sono la sintesi tra locale e sovranazionale, ma qualche co-sa di nuovo) sono all’origine di quei processi che chiamiamo di innovazio-ne, in campo scientifico e tecnologico, così come in ogni altro settore della cultura. Circa l’organizzazione della ricerca e delle sue istituzioni, invece, quelle tensioni possono creare non pochi problemi. Certamente li hanno creati in passato e li creano ancora oggi alle studiose. Donne che, nella lo-ro veste di ricercatrici e docenti dialogano alla pari con la comunità sopra-nazionale degli esperti fin dai tempi di Bassi. Come docenti e funzionarie di istituzioni locali hanno invece a che fare con contesti che, in Italia più che in altri Paesi, non riconoscono il loro lavoro in rapporto alla qualità ri-

21. Per il programma dell’incontro, tenutosi l’8 marzo del 2011 e organizzato da Gio-vanna Guerzoni e da chi scrive, si veda all’indirizzo www.csge.unibo.it/public/documen-ti/8_marzo_2011.pdf.

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spetto a quanto accade ai colleghi. In occasione della tavola rotonda di cui qui si parla, il tema fu affrontato a partire dai concetti di soffitto di cristal-lo e di rete invisibile.

L’espressione ‘soffitto di cristallo’ – dall’inglese glass ceiling – si riferisce, è noto, a quella trasparente, ma non per questo meno efficace, barriera che, a parità di bravura e di impegno con gli uomini, si frappone tra le donne e i vertici della carriera nelle professioni qualificate. Se l’espressione è entrata nell’uso quotidiano anche in lingua italiana, lo stesso forse non si può an-cora dire per rete invisibile, da invisible web. Mentre nel 2011 si svolgeva-no le celebrazioni per il terzo centenario della nascita di Laura Bassi, all’e-spressione dava un’eco internazionale il settimanale Nature22. Presentando i dati di una ricerca pubblicata sui Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America (PNAS), Nature ne avvallava le conclusioni: dati alla mano, non parrebbe più possibile attribuire le diffi-coltà delle donne a fare carriera nella scienza, in particolare nei settori tec-nico matematici (difficoltà monitorate e quantificate da agenzie di qua e di là dell’Atlantico23), a pregiudizi in azione al momento della scelta dei pa-per per la pubblicazione, dell’attribuzione dei finanziamenti e del recluta-mento24. Le ragioni delle diseguaglianze rimarrebbero nascoste in una ‘rete invisibile’ i cui snodi vanno cercati nei contesti sociali e familiari dove si svolge la vita quotidiana delle scienziate. Si tratta di un intreccio di ragio-ni personali e sociali che fa sì che le donne, soprattutto se madri, investano nella famiglia – spesso inconsapevolmente o per libera scelta – una quan-tità di tempo ed energie maggiore rispetto a quella investita dai colleghi, con ripercussioni in campo professionale a breve e medio periodo. Anche in contesti in cui il merito è solitamente il criterio che guida le scelte, con-testi in cui da tempo si applicano le cosiddette azioni positive (da non con-fondersi con le ‘quote’, di cui si parla invece più spesso in Europa e negli ultimi tempi anche in Italia), le scienziate e gli scienziati partono e resta-no alla pari solo nelle prime fasi della carriera. Con il passare del tempo, la carriera delle donne subisce dei rallentamenti che non sarebbero più im-putabili, secondo alcuni, a ragioni istituzionali e professionali, quanto piut-

22. G. Dickey Zakaib, “Science Gender Gap Probed”, in Nature 470, 153 (2011), Publi-shed online 7 February 2011, doi: 10.1038/470153a.

23. American Association of University Women, Why so Few? Women in Science, Technology, Engineering, and Mathematics, 2010, disponibile all’indirizzo www.aauw.org/learn/research/whysofew.cfm; EC-DGR, European Commission, Directorate-General for Research, She Figures 2012, Statistics and Indicators on Gender Equality in Science, Brus-sels: European Communities, disponibile all’indirizzo http://ec.europa.eu/research/science-society/document_library/pdf_06/she-figures-2012_en.pdf.

24. S.J. Ceci and W.M. Williams, “Understanding Current Causes of Women’s Underre-presentation in Science”, PNAS, vol. 108 no. 8, (2011), 3157-62, doi: 10.1073/pnas.1014871108.

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tosto a quella ‘rete invisibile’ (sociale e familiare) in cui le scienziate stesse sarebbero agenti attivi, sebbene riluttanti, quando non inconsapevoli.

I risultati di ricerche come quella pubblicata su PNAS aiutano coloro che lavorano nelle università ad allargare l’orizzonte della discussione su donne e ricerca in un’area trascurata: quella dell’educazione dei e delle giovani alle pari opportunità, ma anche ai pari doveri tra donne e uomini. Un’educazione che raramente o mai l’accademia italiana dichiara come prioritaria: è eviden-te che, delle molte ‘differenze’ (biologiche, sociali e culturali) che caratteriz-zano gli umani, quella tra donne e uomini è la prima. Educare i e le giova-ni a gestire con maggiore consapevolezza quelle differenze dovrebbe essere uno degli obiettivi principali degli educatori. Come anticipato da Cavazza e Pironi, il tema dei rapporti tra genere e educazione nella scuola è affronta-to qui nei saggi di Silvia Leonelli e di Carlo Tomasetto. Se la scuola e i suoi docenti si trovano in una posizione privilegiata per innescare processi inno-vativi in merito alla relazione tra saperi e generi, tra donne e uomini nella società e nella famiglia, l’università deve proseguire in quella direzione.

A più di quattro decenni dall’introduzione delle azioni positive nelle università americane (1972) e, più di recente, in alcune europee25, appa-re evidente la necessità di allargare la discussione in merito a donne e ri-cerca oltre alcuni temi divenuti classici. Mantenendo salda l’attenzione al-le pari opportunità in ogni momento della carriera di donne e uomini, sembrerebbe giunto il momento di andare oltre le azioni positive all’inter-no delle istituzioni (che, è noto, allo stesso tempo hanno favorito fenomeni di cosiddetto backlash, cioè contraccolpi negativi nei confronti di donne e minoranze etniche, vissute dai colleghi come ‘ingiustamente privilegia-te’); oltre il cosiddetto empowerment delle giovani scienziate e tecnolo-ghe; oltre il tema dell’offerta di servizi in sostegno alla famiglia, poiché il problema per le scienziate permane per esempio anche in quelle aree pri-vilegiate e riccamente dotate di asili, scuole e così via26. Le questioni che riguardano i comportamenti dei singoli e delle coppie, quindi delle fami-glie e poi delle istituzioni e della comunità, necessitano di letture prove-nienti da approcci differenziati. Probabilmente, letture anche meno ideolo-giche e autoreferenziali e che includano più spesso di quanto solitamente non si faccia il punto di vista degli uomini. Uomini “illuminati”, va da sé, come avrebbe detto Laura Bassi. “Allenare” le e i giovani studenti univer-sitari a decostruire comportamenti e saperi (umanistici, scientifici o delle

25. Pnina G. Abir-Am, “Gender & Technoscience: A Historical Perspective”, Journal of Technology Management & Innovation, 5 (2010), 152-65.

26. Molto interessanti sono in questi ambiti le diverse iniziative, legate a progetti di ri-cerca, condotte dal Michelle R. Clayman Institute for Gender Research presso la Stanford University. Si veda all’indirizzo http://gender.stanford.edu/programs.

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scienze sociali), in un’ottica di genere è un obiettivo che gli atenei italia-ni dovrebbero porsi con decisione per la formazione di cittadini consape-voli dell’esistenza – e dunque della capacità di dominare – le ‘reti invisi-bili’. Soprattutto, sarebbe un approccio utile alla formazione di scienziati e scienziate consapevoli che la scienza è una cultura e che, come ogni al-tra cultura, costruendosi anche socialmente, è condizionata dalla vita del-le esperte e degli esperti, incluse le loro culture di genere, oggi così come ai tempi dei Lombroso.

I quesiti dai quali si partì per discutere di donne e ricerca durante la ta-vola rotonda furono: il mancato riconoscimento del merito in generale, e della qualità del lavoro delle donne in particolare, ha un impatto sulle per-formance complessive delle università italiane? Che responsabilità hanno le donne nell’università in Italia circa l’assenza di cattedre o dipartimenti di studi di genere, numerosi invece in altri Paesi? Quanto costa, al Paese e al sistema universitario, formare ricercatrici che non fanno carriera o che ad-dirittura lasciano l’accademia?

Per discutere in termini concreti questioni di portata così ampia, si deci-se di concentrare la discussione su un caso particolare, quello dell’Univer-sità di Bologna. Fu a Bologna, sede dell’ateneo più antico in occidente, che prese il via con Bassi la straordinaria, ma non progressiva, storia delle don-ne nel mondo della ricerca. Una storia che in Italia (come altrove) possia-mo definire ‘straordinaria’ perché, dopo secoli di esclusione, nella secon-da metà del Novecento il successo delle donne nella formazione superiore è stato travolgente: all’inizio degli anni Novanta le laureate hanno supera-to i laureati e in seguito raggiunto la parità di presenze anche nel dottora-to di ricerca, un trend positivo che non accenna a fermarsi. Una storia che, tuttavia, in Italia come altrove, non è progressiva27. All’Università di Bolo-gna, dopo Bassi e per tutto l’Ottocento, soltanto la grecista Clotilde Tam-broni (1758-1817) e la patologa Giuseppina Cattani (1859-1914) avrebbero avuto un posto stabile.

A discutere del caso bolognese a confronto con il contesto nazionale e internazionale furono invitati esperti di ambiti disciplinari diversi, con ruoli istituzionali di responsabilità e che condividono un forte interesse per le questioni di genere e le mancate pari opportunità nella ricerca. Al-cuni di loro accettarono in seguito l’invito a scrivere un saggio per que-sto libro; si tratta di Rosella Rettaroli, demografa, membro del comitato che ha steso il nuovo Statuto di Ateneo e direttore di dipartimento; Dario Braga, chimico e Prorettore alla ricerca; Carla Faralli, giurista e membro

27. Su questo tema, affrontato nel lungo periodo, è ormai un classico D.F. Noble, Un mondo senza donne. La cultura maschile della chiesa e la scienza occidentale, Bollati Boringhieri, Torino, 1994 (ed. or. 1993).

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del Senato accademico; Annamaria Tagliavini, direttrice della Bibliote-ca delle donne di Bologna. A Monica D’Ascenzo, scrittrice e giornalista esperta di economia, fu affidato il compito di mostrare, dati alla mano, i costi che la mancata relazione tra qualità del lavoro delle donne e loro progressione di carriera nelle professioni qualificate e nella ricerca hanno per l’economia del Paese28.

Come confermano i dati forniti da Rettaroli e Braga, i risultati conse-guiti dalle donne nella formazione e nei primi livelli di carriera nella ri-cerca presso l’Università di Bologna sono in linea con quanto accade a li-vello internazionale: a quei livelli si può affermare che le pari opportunità siano ormai garantite. Buona la situazione anche per quanto concerne l’ac-cesso ai fondi riservati ai e alle giovani: i dati illustrati da Braga mostra-no per esempio che i progetti per accedere ai fondi FIRB (Fondo per gli investimenti della ricerca di base) sono presentati da donne e uomini so-stanzialmente in pari numero, così come in seguito i fondi sono distribui-ti in modo equo. Per quanto concerne invece le docenti di prima e secon-da fascia, i dati forniti da Rettaroli fotografano, in linea con l’andamento nazionale, una situazione che conferma lo svantaggio delle donne rispet-to agli uomini, in particolare nei settori scientifici, ambiti strategici per lo sviluppo delle società in cui viviamo29. Diverso di conseguenza è l’acces-so di donne e uomini ai Progetti di rilevante interesse nazionale (PRIN), di cui Braga fornisce qui i dati relativi agli ultimi anni. Trattandosi nel caso dei PRIN di progetti presentati da professori ordinari, sono molto più spes-so gli uomini a presentare progetti e a ottenere fondi. Sembra di poter dire che, nonostante gli enormi cambiamenti demografici che negli ultimi de-cenni hanno coinvolto la popolazione delle e dei laureati, dei dottori e del-le dottoresse di ricerca, dei ricercatori e delle ricercatrici, il controllo delle risorse resta in mano agli uomini, che sono la maggior parte dei professori di prima e di seconda fascia.

L’aumento del numero delle donne professori di prima e di seconda fa-scia avvenuto negli ultimi decenni presso l’Università di Bologna, come mo-stra Rettaroli, non è proporzionale ai successi conseguiti dalle donne nell’alta formazione, nemmeno nelle fasce più giovani, quelle della generazione cre-sciuta in età di “sorpasso”. Come evidenzia Braga, si tratta di un intoppo non da poco nel funzionamento della macchina universitaria, che ha costi (in ter-mini di creatività e risorse sprecate) per l’intera comunità accademica.

28. All’incontro parteciparono anche Eugenia Lodini, pedagogista e membro della com-missione di valutazione di Ateneo, e Susi Pelotti, anatomopatologa e presidente del Co-mitato pari opportunità, che qui si ringraziano. Un ringraziamento particolare va a Paola Monari, per il contributo dato alla discussione.

29. Per i dati più recenti si veda il già citato rapporto EC-DGR, She Figures 2012.

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Circa questi sprechi, Monica D’Ascenzo offre nel suo saggio dati sinteti-ci, ma molto interessanti e utili per inquadrare il problema nella sua concre-tezza. Per quanto concerne la possibilità di raggiungere il top della carriera, per esempio, D’Ascenzo riporta le conclusioni di una ricerca che ha indaga-to in un campione di 24mila società, quotate in Borsa e non. Le conclusioni della ricerca non sembrano lasciare spazio a dubbi: le aziende con una mag-giore presenza femminile nei consigli di amministrazione (CDA), in me-dia, offrono performance migliori di quelle a più bassa presenza di donne. Il punto in questione non è, com’è ovvio, avere un maggior numero di don-ne in assoluto nei CDA, ma garantire processi di selezione che favoriscano la qualità, a prescindere dal sesso. Più donne ci sono nei CDA, più è proba-bile che la selezione abbia favorito il merito rispetto alle pressioni dei pari.

Non è questo il luogo per discutere un argomento controverso qual è quel-lo delle classifiche internazionali delle università, tuttavia, è innegabile che le università italiane fatichino tutte, inclusa quella di Bologna, a piazzarsi in gra-duatoria in posizioni adeguate a un Paese che dagli anni Settanta è tra i sette o otto economicamente più avanzati. E, come ci dicono gli analisti, il proble-ma non è solo nelle risorse economiche destinate alla ricerca, ma forse so-prattutto nella organizzazione e gestione di quelle risorse. Se le mancate pa-ri opportunità hanno per le aziende dei costi economici quantificabili, come ci ricorda Monica D’Ascenzo, a fronte dei dati qui presentati da Rosella Retta-roli e da Dario Braga è lecito dedurre che ne abbiano anche per le università.

Le università si comportano come aziende: aziende anomale, senza dub-bio, ma certamente tali. Sebbene i “prodotti” delle università non siano merci rivendibili nell’immediato, da secoli i “prodotti” degli atenei diffondono ric-chezza materiale e sociale, attraverso l’educazione delle giovani generazioni, attraverso l’innovazione e la produzione di nuovo sapere. Dai brevetti ai nuo-vi sistemi di organizzazione sociale e politica, dall’innovazione pedagogica a quella artistica, mediatica o letteraria, è evidente che le università producono una ricchezza enorme, anche nel breve periodo. Da un punto di vista stori-co, è almeno dall’età moderna che le società cosiddette occidentali evolvono grazie a quella sinergia virtuosa che s’innesca tra ricerca, diffusione dell’edu-cazione e sviluppo e che ha trovato nelle università, in alcuni contesti cultu-rali meglio che in altri, incubatori straordinari e sempre ricettivi. Se gli eco-nomisti ci dicono che le aziende migliori sono quelle che impiegano donne e uomini nel rispetto di pari opportunità in relazione al merito, forse anche le università italiane, inclusa quella bolognese, possono sperare di migliorare le loro performance vigilando maggiormente su quelle variabili. Che cosa acca-de a questo proposito negli organi direttivi dell’Università di Bologna?

Nel suo saggio, Rettaroli riporta i dati sulla presenza femminile negli or-gani direttivi; per quanto concerne la direzione dei dipartimenti pre e post riforma, la presenza femminile, ora come in passato, è molto bassa. Pres-

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so l’Università di Bologna ci sono trentatré dipartimenti di cui tre diretti da donne. Un dato (9%) che non è proporzionale alla presenza di donne nel-la prima fascia della docenza: le donne professore ordinario, in linea con i dati nazionali, sono il 21% dei docenti dell’Ateneo bolognese. Se si esami-na la composizione dei due principali organi di governo dell’Ateneo, il Se-nato accademico e il Consiglio di amministrazione, osserva ancora Retta-roli, la situazione non cambia, nonostante il nuovo Statuto abbia introdotto dei vincoli alla rappresentanza di donne e uomini30. Ma, come osservano sia Rettaroli sia Braga, vi è un altro elemento, spesso sottostimato ma impor-tante, che caratterizza le relazioni tra donne e uomini nell’università: il rap-porto tra personale tecnico e amministrativo, a larga maggioranza femmini-le, e quello dirigenziale o docente di prima e seconda fascia, a dominanza maschile. Anche in questo caso, la «asimmetria inversa» nella composizio-ne di genere, come la definisce Braga, non può non essere fonte di problemi che finiscono per influire sul funzionamento dell’università.

Le “asimmetrie” messe in luce dai dati di Braga e di Rettaroli rimandano a una realtà che ha evidentemente ripercussioni anche in ambito educativo. Un Ateneo dove donne e uomini rispecchiano ruoli di genere non paritari e che non cambiano nel corso del tempo in relazione ai cambiamenti sociali, non gioca a favore delle nuove generazioni e, conseguentemente, del Paese.

Nel corso del Novecento l’Università di Bologna, in alcuni campi più di altri, ha saputo mantenere un ruolo di primo piano a livello nazionale e tal-volta dignitoso su quello internazionale. Questo non è avvenuto negli stu-di di genere, che invece hanno dimostrato altrove il loro potere innovativo, nelle scienze sociali e umanistiche, così come in ambito scientifico e tec-nologico31. Come ricordano Carla Faralli e Annamaria Tagliavini nei lo-ro saggi, nell’ambito delle pari opportunità e degli studi di genere pres-so l’Università di Bologna vi sono ora e vi sono stati in passato esempi di eccellenza; ma si è trattato spesso di casi legati a singole docenti o picco-li gruppi di ricercatrici. L’Ateneo non ha adottato azioni positive, né istitu-ito dipartimenti dedicati agli studi di genere, né investito in piani educativi

30. Nel nuovo Statuto di Ateneo, entrato in vigore nel dicembre del 2011, nel punto che regolamenta la composizione di genere nel Senato si legge: “Nel caso di espressione di due preferenze, una di esse dovrà necessariamente riguardare una candidata di genere femmi-nile e l’altra un candidato di genere maschile, pena l’annullamento della seconda preferen-za” (si veda lo Statuto all’indirizzo www.normateneo.unibo.it/NR/rdonlyres/C6FA3C6A-B5F6-49B2-849C-CDB01BFC7588/234900/StatutodiAteneo.pdf).

31. Punti di partenza per un’esplorazione del tema, divenuto oggetto di programmi im-portanti sia delle Nazione Unite sia della Comunità Europea, sono L. Schiebinger (ed.), Gendered Innovations in Science and Engineering, Stanford University Press, Stanford, 2008 e Ead. e Ineke Klinge (eds.), Gendered Innovations: How Gender Analysis Contri-butes to Research, Luxembourg: Publications Office of the European Union), disponibile all’indirizzo www.stanford.edu/dept/HPS/2012.4808_Gendered%20Innovations_web2.pdf.

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ad hoc, interdisciplinari e stabili nel tempo. Eppure, da Laura Bassi, pri-ma donna ad avere avuto una cattedra nel mondo occidentale, a Gina Fa-soli (1905-1992), medievista d’impatto internazionale e prima donna con una cattedra in storia in Italia, l’Ateneo di Bologna vanta una tradizio-ne interessante anche nella storia dei rapporti tra donne e ricerca. In nome di quella storia, l’Ateneo più antico al mondo potrebbe proporsi oggi co-me apripista a livello nazionale per quanto concerne l’educazione di gene-re e alle pari opportunità (che, evidentemente, non significa solo maggiore attenzione alle donne). Dai saggi di Carla Faralli e Annamaria Tagliavi-ni si evince che le risorse non mancano, né in Ateneo né in città. Entrambe le autrici spiegano in chiave storica i temi che affrontano, anche con spunti polemici interessanti, come nel caso di Tagliavini che apre a futuri appro-fondimenti a proposito dei rapporti tra femminismo e università in Italia.

Su quest’ultimo punto, certamente semplificando molto, si può forse dire che le reazioni delle donne nella ricerca dal dopoguerra in poi siano state sostanzialmente di tre tipi. Una prima reazione, su cui si sofferma Taglia-vini, è stata quella delle studiose che, per varie ragioni, spesso di natu-ra ideologica, hanno portato gli studi di genere e le lotte per le pari oppor-tunità in istituzioni esterne agli atenei. A parere di Tagliavini è a causa di quelle scelte se nelle università italiane non ci sono oggi dipartimenti dedi-cati agli studi di genere, mentre anche singoli corsi e percorsi di ricerca co-erenti faticano ancora a trovare spazi riconosciuti.

Un secondo tipo di reazione, diffusa ovunque, non solo in Italia, è stata quella delle studiose che hanno preferito ignorare di appartenere a un grup-po sociale di recente ingresso nella ricerca e dunque sottoposto alle discri-minazioni tipiche messe in atto nei confronti dell’ultimo competitor entrato nell’arena. Avendo in mente soprattutto la qualità della ricerca, per quelle professioniste le battaglie condotte in nome di una intera categoria rischia-vano di mettere in secondo piano il merito rispetto ad altri criteri di scelta per la progressione di carriera.

Una terza reazione, infine, è stata quella di molte studiose dei paesi del nord America e di alcuni europei. In quei casi si è mantenuto il conflit-to alto e all’interno delle università e dei laboratori. Quelle tensioni – per-sonali e professionali – che tra donne e uomini si venivano a creare ogni volta che, a parità di qualità di lavoro prodotto, non si offrivano pari op-portunità di carriera, sono all’origine, per esempio negli Stati Uniti, di le-gislazioni che dal 1972 hanno favorito nelle università l’introduzione delle cosiddette azioni positive: questa ormai è storia e abbiamo importanti rico-struzioni del fenomeno e dei suoi effetti nel tempo32.

32. Margaret W. Rossiter, Women Scientists in America: Before Affirmative Action, 1940-1972, Johns Hopkins University Press, Baltimore, 1995 e Ead., Women Scientists in Ameri-ca: Forging a New World since 1972, Johns Hopkins University Press, Baltimore, 2012.

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Questi aspetti antropologici, oltre che sociali e politici del problema, possono aiutarci ora a trovare soluzioni efficaci. Essi rimandano a quella dimensione di lungo periodo, sovranazionale e insieme locale dell’impresa intellettuale cui si è accennato prima e che ritroviamo nel saggio di Carla Faralli. Giurista con interessi storici, Faralli si riferisce qui ad alcune tap-pe importanti nella storia dei diritti delle donne nella formazione superiore e nelle professioni. L’obiettivo di Faralli è però soprattutto il presente delle mancate pari opportunità tra donne e uomini, un problema a molte dimen-sioni che, a suo parere, è difficile affrontare con interventi soltanto legisla-tivi. Per Faralli è l’educazione dei giovani a giocare un ruolo cruciale per il cambiamento. Carla Faralli organizza da anni, insieme con il Centro Or-lando di Bologna cui afferisce anche Tagliavini, un corso interdisciplinare per gli studenti (purtroppo, quasi sempre solo studentesse) dell’Università di Bologna su genere e temi di volta in volta filosofici, etici, antropologi-ci, politici. Un prossimo passo interessante sarebbe forse la piena istituzio-nalizzazione di quel corso, allargandolo a tutti gli altri ambiti della ricerca, inclusi quelli scientifici e tecnologici.

Dalla lettura dei saggi qui brevemente presentati, sembra di poter dedur-re che un cambiamento in meglio in tema di pari opportunità potrebbe es-sere favorito se, contemporaneamente, si producessero cambiamenti dal basso e dall’alto. I e le docenti di discipline scientifiche, umanistiche e del-le scienze sociali dovrebbero più spesso di quanto non fanno ora inserire i temi dell’educazione di genere nei loro corsi, come invitano a fare Carla Faralli e Annamaria Tagliavini. Mentre i dati offerti da Dario Braga, Mo-nica D’Ascenzo e Rosella Rettaroli non lasciano dubbi sul fatto che è al-trettanto importante vigilare a livello degli organi che gestiscono gli atenei con politiche ad hoc.

Come per le altre due sezioni del volume, anche le autrici e l’autore di questa terza sezione offrono i punti di vista di ambiti della ricerca diver-si tra loro. Il confronto tra discipline diverse è stato nel corso del Novecen-to un criterio raramente praticato dagli esperti. Negli ultimi decenni, inve-ce, sono pervenuti segnali che vanno in direzione contraria. Credo si possa dire che è stato in particolare dal mondo della scienza che sono venuti gli esempi più interessanti relativi all’importanza della collaborazione tra set-tori diversi della cultura. Si pensi al Progetto Genoma, che coinvolse gene-tisti e microbiologi, fisici e chimici, matematici, informatici e tecnologi, in-sieme a manager e comunicatori scientifici che curarono i rapporti con i media e le agenzie governative. Oppure si pensi al mondo dell’informatica, in continua evoluzione tra ingegneria e fisica, linguistica e neuroscienze, matematica e statistica. La dimensione tecnologica è ormai così intreccia-ta a quella sociale e naturale della nostra vita che, se vogliamo comprende-re il mondo che ci circonda con occhi il più possibile liberi da pregiudizi

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(e non solo di genere), dobbiamo fare uno sforzo per mettere in discussione l’esistenza di confini rigidi tra i saperi.

In quel network fatto di natura, società e tecnologie in cui la cosiddet-ta rete invisibile costituisce ancora un ostacolo alla libertà (e conseguente-mente alla felicità) dei singoli, l’elemento che può giocare un ruolo decisivo per raggiungere in tempi ragionevoli pari opportunità tra donne e uomi-ni è l’educazione: educazione che, con la ricerca, è obiettivo prioritario del-le università.

L’università italiana sta vivendo una fase complicata in cui le conseguen-ze di scelte sbagliate di lungo periodo e gli effetti di più di una riforma s’intrecciano con una crisi economica che è, insieme, locale e sovranazio-nale. Nell’Università di Bologna (come altrove) quelle difficoltà si tradu-cono in un aumento inquietante dell’età del corpo docente e in una bas-sa possibilità d’ingresso di giovani, donne e uomini, come evidenziato qui da Rettaroli. Ne consegue che un’intera generazione di studiosi, donne e uomini, sta soffrendo da un punto di vista professionale, con conseguen-ze gravi per la ricerca. Per lo storico, questa crisi non è certamente peggio-re di altre superate con successo dall’università italiana nella sua vita quasi millenaria. Le crisi sono anche per le istituzioni occasioni di cambiamento; un cambiamento che va pensato e non lasciato a se stesso, anche in ambito di pari opportunità in relazione al merito nella ricerca.

La storia sembra indicare che in questi ambiti non conviene lasciare che le cose seguano ‘naturalmente’ il loro corso. In Italia le laureate nel setto-re umanistico hanno superato i laureati negli anni quaranta del Novecento, ma a livello del top della docenza universitaria in quei settori siamo lontani dalla parità. Evidentemente, aspettare non basta.

Franca Serafini Cessi

Franca Serafini Cessi (Pesaro 1931-Bologna 2013) è stata una scienzia-ta di livello internazionale e una protagonista della vita culturale e sociale di Bologna, dove si è laureata in Medicina e chirurgia (1955) e si è poi de-dicata alla ricerca e all’insegnamento nel campo della patologia generale. Formatasi alla scuola di Giovanni Favilli, nel 1978 diventa Professore inca-ricato, nel 1983 Associato e nel 1986 Ordinario di Patologia generale. Gra-zie alle sue ricerche pionieristiche in glicobiologia, pubblicate sulle riviste internazionali più prestigiose, diventa presto una protagonista di primo pia-no degli studi in questo ambito. Un altro campo nel quale ha raggiunto ri-sultati importanti è la ricerca sul ruolo della proteina di Tamm-Horsfall in diverse patologie, condotta da sola e nell’ambito di un più ampio progetto con colleghi e allievi del Dipartimento di Patologia sperimentale (ora Di-

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partimento di Medicina specialistica, diagnostica e sperimentale) che tutto-ra continuano a esplorare il percorso di ricerca da lei inaugurato.

Negli anni in cui Franca ha svolto la sua attività di docente e ricercatri-ce non era facile né comune, per una donna, fare carriera fino al ruolo ac-cademico più alto, specialmente nella Facoltà di Medicina. A maggior ra-gione per una donna come Franca che, sposata a un collega, Carlo Cessi, e con due figli, ha sperimentato di persona, con l’energia e la creatività che le erano proprie, la difficoltà di conciliare la cura della famiglia con le esi-genze della ricerca e i doveri dell’insegnamento. La consapevolezza del-la valenza, non individuale, ma sociale e ‘politica’ di questi problemi l’ha portata a impegnarsi nell’associazione Orlando, sorta alla fine degli anni Settanta e formalmente costituita all’inizio degli Ottanta. Questa associa-zione, alla quale si deve la realizzazione del Centro di documentazione, ri-cerche e iniziative delle donne, della Biblioteca Nazionale delle donne e di altri progetti miranti a potenziare la libertà femminile, rappresenta tuttora un punto di riferimento per le donne di Bologna, e non solo, e più in gene-rale per la vita culturale e civile della città. Franca Serafini era nel gruppo delle fondatrici e ne è stata la prima presidente. In questa attività ha profu-so lo stesso spirito di generoso impegno civile e di intransigente moralità pubblica che ha contraddistinto la sua vita di scienziata, docente e donna. In particolare va ricordato il suo contributo alle discussioni sulla medicina per le donne, una tematica che solo due decenni dopo diventerà la medici-na di genere. Come ricordato in occasione della cerimonia d’addio tenutasi il 14 febbraio 2013 nella Cappella dei Bulgari dell’Archiginnasio di Bolo-gna33, la personalità di questa donna complessa e affascinante aveva molte-plici e inaspettate sfaccettature, tra cui la sua straordinaria passione e com-petenza per il cinema.

Per molti aspetti, la sua figura richiama quella, altrettanto versatile, di Laura Bassi: docente e scienziata, moglie e madre, padrona di lingue anti-che e moderne, esperta matematica e autrice di poesie arcadiche. Ma men-tre di Bassi come persona sappiamo molto poco, di Franca possiamo testi-moniare circa la sua ironia e il suo spiazzante senso pratico, il rigore e la gioia per la conoscenza, il suo sorriso e il suo amore per i gatti.

33. Vedi www.magazine.unibo.it/NR/rdonlyres/B064BD0C-5D1F-4CA4-B940-5A2B4CE024E4/265228/RicordodiFrancaSerafini.pdf (sito visitato il 23/3/14).

Parte I

Donne nella scuola, ieri

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Le monache insegnanti e l’educazione conventuale delle giovani

di Gabriella Zarri

Le bambine in convento e l’educazione monastica

L’educazione conventuale ha una tradizione molto antica, principalmen-te orientata alla formazione delle novizie. Fin dalle prime regole indiriz-zate alle monache compaiono speciali disposizioni per l’accettazione delle giovani e per la loro formazione. Significativa al proposito è soprattutto la Regula cuiusdam patris, del VII secolo, attribuita a Valdeberto di Luxeu-il, discepolo di Colombano. L’ultimo capitolo del testo, dedicato alla educa-zione delle bambine, contiene norme e avvertimenti ancora praticati nella prima età moderna:

Devono essere allevate con tutto l’affetto, la bontà e la fermezza, affinché nella lo-ro tenera età non siano macchiate dal vizio della pigrizia o della leggerezza e poi non possono affatto, o solo difficilmente, essere corrette. Si abbia nei loro con-fronti una cura tanto grande che non restino mai senza un’anziana, che impedisca loro di deviare da una parte o dall’altra, ma, sempre trattenute dalla sua fermez-za ed educate nell’insegnamento del timore e dell’amore di Dio, siano preparate all’osservanza della vita religiosa. Si esercitino nella lettura per apprendere in gio-vane età quello che sarà loro necessario una volta divenute adulte. In refettorio ab-biano una tavola a parte, accanto a quella delle anziane. Due o più anziane, tutta-via, fidate per il loro spirito, siedano con loro affinché, avendo sempre il timore davanti agli occhi, siano allevate nel timore delle anziane1.

Emergono da queste disposizioni due elementi fondamentali per giustificare e qualificare la presenza delle bambine nei monasteri: l’aspetto educativo, che

1. L. Cremaschi, a cura di, Regole monastiche femminili, introduzione di E. Bianchi, Ei-naudi, Torino, 2003, p. 168. Nei due primi paragrafi di questo saggio riprendo quanto ho scritto in una rivista portoghese: G. Zarri, “Novizie ed educande nei monasteri italiani post-tridentini”, Via Spiritus, 18, 2011, pp. 7-23, numero dedicato al tema: “A educação feminina nos séculos XVI-XIX: entre a aia e a mestra de noviças”.

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appare tanto più efficace quanto più è impartito in giovane età, e l’atteggia-mento affettivo che regola la vita interna del convento, basata sul rispetto delle giovani verso le anziane. La presenza di fanciulle nei monasteri e il rapporto di discepolato tra novizia e maestra sono elementi di lunga durata che subisco-no scarsi mutamenti nel corso dei secoli. Ciò che varia invece è la pratica edu-cativa e l’estendersi di tale pratica ad un numero maggiore di giovani donne.

Un punto importante della normativa sul noviziato e l’educazione delle giovani è rappresentato dalla presenza o meno di uno spazio riservato al-le fanciulle all’interno del monastero e dalla presenza di una maestra del-le novizie. Nella regola di Valdeberto di Luxeuil si accenna ad una separa-zione delle bambine nel refettorio e alla assistenza ai pasti di due anziane, ma non appare formalizzata la necessità di educare le fanciulle in un luo-go diverso da quello abitato dalle monache. Neppure nelle successive rego-le benedettine si fa menzione di un noviziato, né di una maestra incarica-ta dell’educazione delle novizie. Quest’ultimo punto è invece ben definito nella regola di santa Chiara, la prima religiosa che scrive personalmente il modus vivendi della propria comunità:

E sia ad esse che alle altre novizie la badessa provveda con sollecitudine una mae-stra, scelta tra le sorelle dotate di maggior discernimento di tutto il monastero che le formi diligentemente a un santo modo di vivere e a una santa condotta di vita secondo la forma della nostra professione2.

L’applicazione della normativa relativa all’istituzione di un noviziato e di una maestra incaricata di istruire le giovani postulanti è assai difficile da verificare per l’estrema varietà degli enti monastici, ma per quanto riguarda le clarisse italiane abbiamo almeno un esempio ampiamente documentabile nel caso di Caterina de’ Vigri3. Educata alla corte estense nella prima me-tà del Quattrocento, la giovane Caterina fu tra le fondatrici del monastero del Corpus Christi di Ferrara di clarisse osservanti. Qui esercitò l’ufficio di maestra delle novizie per molti anni. Testimonianza del suo insegnamento è rappresentata dal Libro devoto da lei composto e fatto stampare dalle con-sorelle dopo la sua morte. In questo libro, più tardi designato con il titolo di Le sette armi spirituali, sono racchiuse le indicazioni, frutto di esperienza personale, impartite alle novizie per progredire nella vita spirituale e per vi-vere santamente secondo la disciplina monastica4. Nel monastero del Cor-

2. Regole monastiche femminili, p. 400.3. Da ultimo v. M. Bartoli, Caterina, la Santa di Bologna, EDB, Bologna, 2003; C. Leo-

nardi, a cura di, Caterina Vigri: la santa e la città. Atti del Convegno, Bologna, 13-15 no-vembre 2002, SISMEL Edizioni del Galluzzo, Firenze, 2004.

4. Edizioni critiche del Libro devoto: Santa Caterina Vigri, Le sette armi spirituali, a cura di C. Foletti, Antenore, Padova, 1985; C. Vigri, Le sette armi spirituali, edizione cri-tica a cura di A. Degl’Innocenti, SISMEL Edizioni del Galluzzo, Firenze, 2000.

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pus Domini di Bologna, da lei fondato nel 1456, sono inoltre visibili anco-ra oggi le testimonianze della sua cultura, riscontrabili nei libri manoscritti e miniati da lei prodotti e nella viola con cui accompagnava le laudi che si cantavano in monastero durante la preghiera o il lavoro manuale5.

La cultura di Caterina de’ Vigri, iscrivibile nel contesto privilegiato del-la vita di corte dove trascorse la prima giovinezza in qualità di damigella di Margherita d’Este, non è forse eccezionale al suo tempo, ma rappresenta pur sempre un apice nella vita religiosa femminile del secolo XV. Esempi analoghi possiamo riscontrare nei monasteri delle clarisse dell’Italia cen-trale6, e in modo particolare possiamo ricordare Camilla Battista da Vara-no, figlia naturale del signore di Camerino, e non certo seconda per cultu-ra rispetto alla Vigri7. Nel complesso delle istituzioni monastiche tuttavia gli esempi menzionati costituiscono casi eccezionali, rapportabili alla pre-senza di una corte e all’ingresso nei monasteri di clarisse di donne apparte-nenti al ceto aristocratico e alle famiglie dominanti.

Diverso si presenta il carattere degli istituti monastici nelle città mercanti-li come Venezia e Firenze, dove non manca una tradizione di istruzione fem-minile, ispirata tuttavia a un indirizzo più pratico, direi quasi professionaliz-zante. Ne abbiamo un esempio nell’ampia analisi dei monasteri fiorentini del Quattrocento compiuta recentemente da Sharon Strocchia8, da cui emerge un quadro di corporazioni femminili estremamente operose, che contribuisco-no attivamente all’incremento economico dei loro conventi e dell’intera città.

Quale fosse la funzione dei monasteri nella mentalità di un mercan-te fiorentino del secolo XV possiamo dedurlo dal Libro di buoni costumi, composto da Paolo da Certaldo intorno al 1360. In un passo molto famoso il mercante di Certaldo esprime in sintesi alcuni degli aspetti che caratte-rizzano l’educazione femminile almeno fino alla fine del secolo XVI e che perdurano, sia pure con notevoli varianti relative alla crescita della doman-da sociale di istruzione, per tutto il periodo dell’ancien régime.

5. Cfr. V. Fortunati, a cura di, Vita artistica nel monastero femminile: exempla, Editri-ce Compositori, Bologna, 2002.

6. P. Messa, A.E. Scandella, a cura di, Uno sguardo oltre: donne, letterate e sante nel movimento dell’Osservanza francescana. Atti della Ia Giornata di studio sull’Osservanza francescana al femminile, 11 novembre 2006, Monastero Clarisse S. Lucia, Foligno, Edi-zioni Porziuncola, Santa Maria degli Angeli, Assisi, 2007.

7. G. Zarri, L’autobiografia religiosa negli scritti di Camilla Battista da Varano: “La vita spirituale” (1491) e le “Istruzioni al discepolo” (1501), in F. Bruni, a cura di, “In quella parte del libro de la mia memoria”. Verità e finzioni dell’“io” autobiografico, Mar-silio, Venezia, Fondazione Giorgio Cini, 2003, pp. 133-158; P. Messa, M. Reschilian, a cu-ra di, Un desiderio senza misura. Santa Battista da Varano e i suoi scritti, Clarisse di Ca-merino, Edizioni Porziuncola, Assisi, 2010.

8. S.T. Strocchia, Nuns and Nunneries in Renaissance Florence, Johns Hopkins Uni-versity Press, Baltimore, 2009.

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E s’ell’è fanciulla femina, polla a cuscire, e none a leggere, se già no la volessi fa-re monaca. Se la vuoli fare monaca, mettila nel munistero anzi ch’abbia la malizia di conoscere le vanità del mondo e là entro imparerà a leggere… È ’nsegnale fare tutti i fatti de la masserizia di casa, cioè il pane, lavare il cappone, abburattare e cuocere e far bucato, e fare il letto, e filare, e tessere borse francesche o recamare seta con ago, e tagliare panni lini e lani e rimpedulare le calze, e tutte simili cose, sì che quando la mariti non paia una decima e non sia detto che venga del bosco. E non sarai bestemmiata tu che l’avrai allevata9.

Come si desume dal passo citato, nel periodo rinascimentale e nella pri-ma età moderna l’educazione delle fanciulle si iscrive nel quadro rigido del-la condizione femminile, rinchiusa tra famiglia e chiostro, e richiede quasi esclusivamente un addestramento tecnico-pratico di tipo professionale. L’e-ducazione della futura sposa e massaia della famiglia mercantile e borghese è affidata alla madre e alle donne di casa nell’ambito privato della famiglia, mentre il monastero viene identificato come il luogo privilegiato per l’ap-prendimento della lettura, anche essa finalizzata alla professione religiosa.

Custodia dell’onore e governo della casa sono elementi che caratterizza-no l’educazione delle fanciulle appartenenti ai ceti mercantili e borghesi, ma costituiscono anche un aspetto imprescindibile dell’educazione nobilia-re, come ha ormai dimostrato una amplissima letteratura che non occorre citare; d’altra parte l’educazione religiosa e i “lavori donneschi” sono disci-pline presenti fino al secolo XVIII nei programmi scolastici di educandati e collegi femminili.

Come si è visto, l’uso di inviare le fanciulle in monastero ancora bambine è assai antico. L’educazione conventuale era dapprima finalizzata esclusivamen-te alla professione monastica, in progressione di tempo s’impose l’uso di isti-tuire educandati per l’istruzione delle fanciulle appartenenti ai ceti aristocra-tico e patrizio e in funzione anche del reclutamento delle nuove professe. Ma vi era anche una parallela e importante funzione rivestita dalle scuole mona-stiche: quella della “serbanza”, ossia della custodia delle fanciulle fin dalla più tenera età al fine di preservarne l’onore e la verginità. Per diversi secoli in Ita-lia i termini “putte per educazione” o “putte in serbanza” vennero usati come sinonimi e in numerosi casi alle novizie che si preparavano alla professione si affiancarono altre giovani donne destinate dalla famiglia al matrimonio.

Volgiamo quindi brevemente lo sguardo all’educazione conventuale, te-nendo presente che l’ingresso in religione richiedeva almeno l’apprendi-mento della lettura, ma era per lo più accompagnato dall’abilità scrittoria. Il primo insegnamento impartito dalle monache era quello relativo alla let-tura e successivamente alla scrittura e all’abaco.

9. P. da Certaldo, Libro di buoni costumi, in Mercanti scrittori: ricordi nella Firenze tra Medioevo e Rinascimento, a cura di V. Branca, Rusconi, Milano, 1986.

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Per quanto riguarda l’organizzazione dell’insegnamento, sappiamo che per più secoli prevalse la consuetudine di un insegnamento di tipo indivi-duale, trasmesso all’interno delle celle da zie e parenti della “putta secola-re”. Tra XV e XVI secolo, nonostante si cominciasse a diffondere il novi-ziato, l’usanza di affidare le «putte per educazione» a singole maestre, per lo più parenti, era assai diffusa in ogni città e rispondeva ad una organiz-zazione del monastero dove raramente veniva praticata la vita comune pre-scritta dalle regole10.

Scarse testimonianze ci sono pervenute sui contenuti e gli esiti, evidente-mente diversi a seconda delle «maestre», di questa educazione. Sappiamo in-vece che le disposizioni del Concilio di Trento (1545-1563) e le ordinazioni ecclesiastiche posteriori, che miravano a disciplinare la vita interna dei mo-nasteri diminuendo il potere dei gruppi familiari, imposero l’istituzione di un educandato separato dall’abitazione delle professe e la designazione di una maestra delle “secolari” incaricata di impartire lezioni di gruppo.

Le “secolari” in convento: l’esempio bolognese

I decreti tridentini trovarono applicazione nelle ordinanze dei Vescovi e nelle deliberazioni della Sacra Congregazione per i Vescovi e Regolari, che dettarono ordini severi circa la condotta delle educande. Per evitare che le «putte» venissero inviate in convento ancora infanti o vi fossero lascia-te dalla famiglia oltre il termine in cui una «zitella» poteva acquisire una propria collocazione sociale, si determinò la fascia d’età secondo cui una giovane era legittimamente considerata «putta per educazione», cioè dal settimo al diciottesimo anno; si concedeva tuttavia di restare «in serbanza» fino a 25 anni, età in cui la giovane doveva necessariamente tornare in fa-miglia11. Si regolamentarono gli accessi delle putte al monastero stabilen-do tassativamente la retta mensile da pagare e prefiggendo il numero mas-simo di educande che ogni monastero poteva accogliere. Una volta entrate nel monastero le secolari dovevano osservare la clausura e potevano usci-re soltanto al termine della loro formazione, oppure quando i genitori lo ri-chiedessero per destinarle al matrimonio o al convento. Anche il loro abito e abbigliamento veniva regolamentato, come si legge nelle ordinazioni del 1579 dettate dal Cardinale Gabriele Paleotti Arcivescovo di Bologna:

10. Cfr. di chi scrive Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, il Mulino, Bologna, 2000, cap. I.

11. Archivio Generale Arcivescovile di Bologna (d’ora in poi AGAB): Qualità che si ri-cercano acciocché le Zitelle possano essere ammesse nei monasteri ad educarsi. Stampa-te d’ordine della Congregazione dei Regolari, in Roma, 1587.

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L’educanda vada per l’avvenire vestita di rascia o saja bianca di sopra senz’altro colore e senza coda né stia con ricci o con altri ornamenti alla testa all’orecchie o al collo, ancora nel tempo del Carnovale ma tutto l’abito sia semplice, modesto e conveniente al luogo12.

Nella stessa ordinazione il Paleotti prescriveva che nei complessi mo-nastici più ampi fosse destinato all’educandato un luogo apposito, separa-to da quello abitato dalle professe e novizie. Negli istituti in cui non era possibile, per ragioni di spazio, istituire un educandato dove le putte vives-sero e imparassero sotto la guida di una sola maestra, era concesso che si praticasse un insegnamento individualizzato; venivano tuttavia impartite dall’arcivescovo alcune importanti avvertenze circa le monache educatrici, che dovevano scegliersi tra le professe più mature e più ferventi:

Negli altri monisteri dove non è tanta quantità di luoghi, siano date in gover-no non a ciascuna Suora che le dimanda, ma solo a suore mature che si faccia-no temere e siano piene di religione, finattanto che il monistero sia accomodato di stanze e che tutte possano stare sotto una maestra. E in ciaschedun caso sappiano che non potranno tenere serve alcune per loro bisogno13.

L’auspicio del Cardinal Paleotti di giungere in breve tempo alla istituzio-ne di educandati separati dal rispettivo complesso monastico non ebbe ef-fetto, come doveva constatare più tardi il Cardinale Prospero Lambertini, poi Benedetto XIV. Nella Notificazione IX del 29 aprile 1734, con cui si ri-volgeva ai monasteri femminili in occasione della visita pastorale che stava per iniziare, l’Arcivescovo bolognese attribuiva alle cattive condizioni eco-nomiche degli enti l’inosservanza dell’ordinazione paleottiana e del dettato tridentino. Fatto si è che ancora nel Settecento le secolari venivano educate da singole monache e, nonostante le cattive condizioni economiche di mol-te famiglie, vestivano troppo pomposamente14.

Uno sguardo al numero dei monasteri che erano soliti tenere “putte in educazione” può rendere ragione dell’importanza attribuita a questo tipo di istituto nella prima età moderna. Occorre anzitutto premettere che non tut-te le comunità religiose usavano o potevano tenere putte in educazione. Nel 1597 su 25 monasteri bolognesi soltanto 14 erano autorizzati ad accettar-ne. Il numero massimo delle putte era di 16 in 10 monasteri e di 20 nei re-stanti 4. Nella città di Bologna potevano quindi essere educate entro le mu-

12. Citato da Raccolta di alcune notificazioni, editti, ed istruzioni, pubblicate pel buon governo della sua diocesi dall’eminentissimo… Prospero Lambertini… ora Benedetto 14. sommo pontefice. Tomo II, In Venezia, appresso Francesco Pitteri, 1740, p. 53.

13. Ibidem, p. 54.14. Ibidem, pp. 54-55.

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ra dei chiostri complessivamente 240 fanciulle: un numero assai limitato in rapporto alla popolazione femminile ed anche alla popolazione monastica, che in quegli anni raggiunge circa le duemila unità. Una condizione non molto variata in relazione al numero complessivo delle «putte» si riscontra nel 1633, anno in cui si contano 264 «zitelle» in educazione; è però sinto-matico un forte incremento numerico delle istituzioni monastiche che assu-mono la funzione educativa: su 29 monasteri di clausura (nei primi tre de-cenni del Seicento si registrano nella città quattro nuove fondazioni) ben 23 tengono educande15.

La pratica generalizzata nel Seicento di tenere educandati per fanciulle ri-sponde forse a istanze di reclutamento monastico, ma è anche indice di una più forte domanda di istruzione. Se nel 1597 i monasteri bolognesi autoriz-zati a tenere “putte in educazione” erano soltanto 14, nel 1633 i monaste-ri con educande risultavano essere 23 e nel 1690 il loro numero saliva a 26, anche se ciascun istituto presentava un numero inferiore di secolari rispetto al periodo precedente. Tale contrazione numerica corrisponde in realtà a una complessiva diminuzione degli effettivi nei monasteri bolognesi: nel secon-do Seicento diminuiscono infatti sia le professe che le “putte in serbanza”. Occorre tuttavia prendere atto che la diminuzione delle monache nel perio-do considerato è compensata da un aumento delle terziarie che, nonostante il divieto tridentino, ottengono facoltà di potersi riunire in comunità.

Alla metà del secolo XVII cessa dunque l’espansione dei monasteri di clausura, ma si fondano diverse comunità di terziarie (nel 1666 sono 10), alcune delle quali abilitate all’insegnamento. Esiste inoltre l’istituto del-le Orsoline, vergini che vivono nelle loro case dedicandosi all’insegnamen-to della dottrina cristiana e all’educazione delle fanciulle. La diminuzione di circa 650 monache tra il 1633 e il 1690 è da mettersi pertanto in rappor-to con la nuova presenza di terziarie e orsoline, stimate nel 1666 rispettiva-mente in 200 e 15016.

Nella città di Bologna gli educandati monastici sono affiancati nel cor-so del secolo XVIII da altri istituti, di diversa importanza e qualità, cui è affidata l’educazione femminile. Oltre ai conventi di terziarie ora citati, ri-volti all’istruzione di fanciulle del ceto civile, persistono i più antichi “con-servatori”, come quelli cinquecenteschi del Baraccano e di Santa Marta, destinati alle ragazze orfane o povere. Nei conservatori le fanciulle pratica-vano lavori manuali per costituirsi la dote. Si trattava di istituti retti da De-

15. Cfr. Zarri, Recinti, pp. 174-175.16. I dati sono tratti dai registri delle visite pastorali dei Cardinali Giacomo Colonna

(Biblioteca Universitaria Bologna (d’ora in poi BUB), ms. 206/II, ff. 1-137); Giacomo Bon-compagni (AGAB, Visita alle monache, 1690); Prospero Lambertini (AGAB, Visita alle monache, 1734-37).

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putati laici che presiedevano al governo delle case, regolavano gli ingressi nell’istituto e gli orari della giornata, fornendo anche il lavoro da eseguirsi. L’attività di questi istituti era incentrata sulla lavorazione della seta o su fa-si specifiche della produzione dei veli di seta, manifattura per cui la città di Bologna era nota in Europa17. I Deputati che reggevano i conservatori era-no mercanti di seta e, come si deduce dalla fonte sotto citata, costringeva-no le ragazze a un lavoro intensissimo.

Nella Notificazione del 16 marzo 1737, rivolta “alli Signori Assunti dei Conservatori delle Esposte, o siano Bastarde, e delle altre oneste Zitelle del Baracano, di Santa Marta, di Santa Croce, di San Giuseppe della città di Bologna”18, il Cardinale Prospero Lambertini attesta di aver visitato gli Isti-tuti, di averli trovati ben governati dal punto di vista temporale ed ammini-strativo, ma di non aver trovato sufficiente attenzione alla formazione spiri-tuale e alla salute corporale delle zitelle in educazione. Rivolge dunque un pressante invito a destinare alcune ore domenicali all’insegnamento della Dottrina cristiana e a diminuire le ore di lavoro facendo prendere aria alle fanciulle che vivevano al modo delle claustrali senza esserlo:

Vivono le monache in perpetua clausura avendone fatto il voto. Vivono in clausu-ra senza voto le educande, ma le educande non fanno certamente la vita che fanno le Zitelle nei conservatori, che giornalmente lavorano. Le clausure dei monaste-ri sono ampie, e grandi e non v’è monastero di Monache in cui non vi sia un luo-go d’aria apertissima, ed un giardino da potersi muovere, quali comodi certamen-te mancano o in tutto o in parte nei Conservatori delle Zitelle. In sequela degli accennati comodi vediamo per lo più godersi dalle monache buona salute e molto più dalle educande, che anche ne mostrano i contrassegni della buona ciera. Co-me vada la cosa nelle zittelle de’ conservatori, quando la ciera sia contrassegno di buona sanità, diremo che va male; dal che deriva ancora la difficoltà che s’incon-tra di maritarle e di farle religiose19.

Il Cardinal Lambertini consiglia perciò che gli Assonti facciano fare del-le passeggiate alle Zitelle secondo l’uso di Roma. Esse possono uscire, sen-za timore di essere riprovate, nelle giornate belle, “nelle ore in cui si può credere non esser grande il concorso delle Genti per le strade, ed andando le Zittelle insieme a due a due coll’assistenza del loro Governante…”20. Infatti, continua Lambertini, perfino le Terziarie, che hanno fatto la professione re-ligiosa, escono dal convento per recarsi in chiesa e agli uffici divini, men-tre le zitelle dei conservatori, che non hanno fatto alcun voto, sono costret-

17. Cfr. Arte e pietà: i patrimoni culturali delle Opere di pietà, a cura dell’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, Clueb, Bologna, 1980.

18. Raccolta di alcune notificazioni, tomo III, pp. 122-125.19. Ibidem, p. 124.20. Ibidem, p. 125.

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te a vivere in clausura. Conclude infine esortando gli Assunti a fare uscire le giovani donne “senza minimo pregiudizio della loro onestà e decoro”21.

Sulla vita delle fanciulle nel chiostro e sul livello di istruzione che veni-va impartito nei monasteri bolognesi sappiamo quanto trapela da ordini e visite pastorali.

Continua una prassi educativa differenziata e individuale. In un solo mo-nastero della città, quello di santa Maria degli Angeli, fondato negli anni del Concilio di Trento, esiste un educandato ove alle fanciulle sono riservate celle singole, poste in luogo separato dalla comunità monastica. Le “putte” possono inoltre usufruire di numerosi servizi assenti in tutti gli altri istituti. Il monastero dispone infatti di «libraria» e stanze per la «scuola della gram-matica, del scrivere, del canto e della pittura». Anche in questo caso tuttavia non esiste un’unica maestra, ma ogni educanda ne ha una propria22.

Nella città di Bologna, pur in presenza di numerosi istituti che impartisco-no l’educazione alle fanciulle, non esistono collegi di istruzione più specia-lizzati, come quelli delle Montalve a Firenze o delle Guastalline a Milano.

L’educazione impartita prevede la formazione religiosa e l’istruzione nei “lavori donneschi”, a cui si aggiungono le nozioni relative all’insegnamen-to di lettura, scrittura, abaco, pittura, musica e canto. Conosciamo il livel-lo di istruzione delle monache attraverso le scritture diversificate che pos-siamo ancora trovare negli archivi dei conventi: dalle cronache e libri di amministrazione, alle lettere e poesie, fino ad alcune opere composte dal-le monache stesse e date alle stampe. Molto è stato studiato in relazione al-la pratica della poesia e del canto nei monasteri bolognesi23. Anche l’arte fi-gurativa ha una sua rilevanza nell’educazione monastica, come si deduce dalla descrizione del monastero di Santa Maria degli Angeli con una stan-za destinata alla “scuola di pittura”. Su tutte queste attività prevalgono tut-tavia i lavori di tipo manuale e le manifatture artigianali.

All’inizio del Settecento l’anonimo autore di una raccolta pittorica destinata a far conoscere i lavori delle monache bolognesi descriveva in versi le loro spe-cialità: vi erano confezioni di buon livello e altre dozzinali; vi erano prodotti farmaceutici e di pasticceria, manifatture ornamentali di fiori e piante finte che i diversi monasteri facevano distribuire e vendere all’esterno dalle loro serve24.

21. Ibidem.22. BUB, ms. 206/II, Visita Colonna, Santa Maria degli Angeli, ff. 2-5.23. Tra i molti studi di Elisabetta Graziosi sulla poesia delle monache, v. Arcipelago

sommerso: le rime delle monache tra obbedienza e trasgressione, in G. Pomata e G. Zar-ri, a cura di, I monasteri femminili come centri di cultura tra Rinascimento e Barocco. At-ti del convegno storico internazionale, Bologna 8-10 dicembre 2000, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2005, pp. 145-174. Per la musica v. più avanti, note 31-33.

24. Abiti e lavori delle monache di Bologna in una serie di disegni del secolo 18, pre-sentazione di M. Fanti, Tamari, Bologna, 1972.

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Se così varie erano le “operazioni” delle monache bolognesi, un secondo anonimo esecutore di disegni acquerellati ci documenta le diverse speciali-tà di religiose di altre città: le monache della Misericordia di Reggio Emi-lia erano famose per le “galanterie di cannellata”, quelle della Torre di Forlì per le “corone di colla di pesce”, quelle del Corpus Domini di Ravenna per le confetture in forma di pigna. Unica è poi la specialità delle monache di Bobbio: “Non fan lavori singolari, ma in cuocer le lumache non han pari”25.

Normativa tridentina sull’educazione conventuale: la trattatistica seicentesca

Come testi campione della normativa post-tridentina su monache e no-vizie assumeremo due note operette composte nella Milano del primo Sei-cento durante l’episcopato di Federico Borromeo. Gli autori sono stretti collaboratori del Cardinale nel governo delle monache e conoscono quindi assai bene l’ambiente cui i loro scritti sono destinati. Il primo testo è di ca-rattere normativo e riassume in modo estremamente sintetico i doveri del-le religiose e la gravità delle mancanze connesse con l’inosservanza del-la norma statutaria. È un testo che potremmo definire a metà tra la regola monastica e il manuale in preparazione della confessione, particolarmen-te pensato per istruire le monache sugli impegni connessi con la professio-ne religiosa e per formare le loro coscienze, rendendole avvertite dei pos-sibili peccati. Si tratta del volumetto dal titolo Specchio religioso per le monache, composto nel 1609 dal mantovano Giovan Pietro Barco su ri-chiesta dello stesso Borromeo, che giudicava necessaria un’opera indirizza-ta “al ben vivere delle Monache” a completamento “de gli avvertimenti et della disciplina” della chiesa milanese26. Il secondo testo è invece di carat-tere spirituale, ma comprende anche una chiara componente etico-compor-tamentale che lo avvicina al genere della letteratura ad status. L’opera si chiama, infatti, La monaca perfetta, ritratta dalla Scrittura Sacra con au-torità et essempii de’ Santi Padri ed è composto nel 1624 dall’oblato mila-nese Carlo Andrea Basso27. Nessuna di queste opere è una vera e propria

25. Le collezioni d’arte della Cassa di Risparmio in Bologna. I disegni: dal Cinque-cento al Neoclassico, a cura di A. Emiliani. Repertorio delle opere e appendice di F. Vari-gnana, vol. I, Edizioni Alfa, Bologna, 1973, pp. 223-233.

26. G.P. Barco, Specchio religioso per le monache, Luigi Pizzamiglio, Stampatore Ar-chiepiscopale, s.a. Milano e Torino, (edizione da cui si cita). Le citazioni sono tratte dalla lettera dedicatoria al Card. Federico Borromeo, Arcivescovo di Milano.

27. C.A. Basso, La monaca perfetta, ritratta dalla Scrittura Sacra con auttorità et es-sempii de’ Santi Padri, Pezzana, Venezia, 1674 (edizione da cui si cita, dedicata dallo stam-patore alla nobile Marina Giustiniani, del monastero di San Lorenzo in Venezia).

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guida spirituale o educativa, ma entrambe contengono un capitolo sulle no-vizie e il secondo dedica molto spazio alle letture consigliate in convento e riserva più di una pagina al rapporto tra monache e novizie.

Se partiamo dallo Specchio del Barco, dobbiamo notare che l’autore si attiene ad un modello di monastero osservante in cui la vita comunita-ria appare preminente rispetto a quella personale delle singole monache. Ne abbiamo un esempio a proposito della preghiera. Sebbene nel primo Seicento nei monasteri italiani si sia già affermata la pratica dell’orazio-ne mentale, che deve essere svolta individualmente e anche al di fuori del-la chiesa del monastero, l’operetta non prevede la devozione personale tra i doveri delle monache. Poiché il testo è finalizzato a mostrare i peccati ine-renti la inadempienza o la trasgressione monastica, esso segue il percorso delle regole antiche, che identificavano la preghiera nell’azione comunita-ria della liturgia delle ore. Ne ricaviamo un vivace ritratto delle norme sul-la preghiera corale e dei modi della loro inosservanza, con un intero capi-tolo dedicato alla musica.

Dopo circa quarant’anni dalla chiusura del Concilio tridentino, il sacer-dote Giovan Pietro Barco è ben consapevole della continuazione delle mo-nacazioni forzate e della superficialità con cui alcune postulanti ricercano l’ingresso in monastero.

Dopo aver esortato le giovani a riflettere bene sui motivi che le spingono a farsi monache, il Barco dedica il Capitolo II della sua opera al Novizia-to, enumerando le forme e i modi in cui le professe possono peccare in re-lazione a questo momento cruciale della vita monastica. Dapprima prende in considerazione la Superiora e la Maestra delle novizie e ricorda loro che commettono peccato se consentono l’ingresso di una fanciulla priva dei re-quisiti necessari, perché inferma o spinta dai parenti alla monacazione; op-pure se accettano in noviziato una giovane che non ha il consenso dei tre quarti del capitolo. Peccano anche se non preparano con diligenza la giova-ne alla professione monastica. È in colpa e deve essere punita, fino alla pri-vazione della voce attiva e passiva in capitolo, anche l’eventuale professa del monastero che “usurpa l’officio dell’insegnare o d’ammaestrar le Novi-tie non essendo stata destinata a questo”28.

Dopo aver enumerato le colpe delle officiali, Giovan Pietro Barco si vol-ge alle novizie ed illustra i modi in cui esse stesse possono peccare: durante l’anno di probazione non debbono contrarre cattive abitudini circa le trasgres-sioni alla regola; non debbono “praticare” con le professe, ma vivere separate e a contatto soltanto con la Maestra; non debbono raccontare vanità o “inna-moramenti del secolo”29 nel parlare con le altre fanciulle in probazione.

28. Ibidem, pp. 24-25.29. Ibidem, p. 27.

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L’immagine del noviziato che emerge dall’operetta di Giovan Pietro Bar-co è quella che viene tracciata dalla legislazione borromaica della chie-sa milanese, ma lascia intendere nello stesso tempo che quelle disposizioni sono lontane dall’essere osservate. Anche dove esiste uno spazio apposi-to destinato alla formazione delle probande, e dove è stato istituito l’uffi-cio di Maestra delle novizie, le interferenze con le professe sembrano mol-to frequenti. Questa situazione appare del resto inevitabile considerando che le probande erano quasi sempre parenti di monache più anziane che ne volevano sorvegliare i costumi e pretendevano di istruirle personalmen-te. È vero che le normative tridentine e milanesi erano dirette a corregge-re le deviazioni introdotte nella vita monastica dall’influenza dei gruppi pa-rentali che causavano disordini nei conventi costituendo fazioni e partiti, ciò nonostante la vita comune non veniva attuata e i monasteri continuava-no ad essere organizzati “per celle”. L’ampliamento dei conventi nel Cinque e Seicento avveniva in gran parte attraverso l’acquisto di una cella da par-te di una famiglia, che acquisiva il diritto di riservare un posto per un altro membro della famiglia stessa. Continuava così e si consolidava l’influenza dei gruppi parentali all’interno dei conventi; gruppi che sarebbero stati tan-to più forti quanto maggiore era il numero di sorelle e nipoti presenti nel capitolo delle professe.

Per concludere l’analisi del testo di Giovan Pietro Barco, non sarà inuti-le osservare che l’autore stigmatizza come peccato connesso all’istruzione delle novizie un frequente errore compiuto dalle Maestre: quello di dedica-re maggior tempo all’insegnamento del canto figurato che non all’esercizio della orazione30.

Non mi attarderò a descrivere gli abusi e gli inconvenienti connessi con la musica e il canto dei monasteri, ben noti a chi conosca gli studi di Craig Monson31 e di Robert Kendrik32, rispettivamente per Bologna e per Milano33,

30. Ibidem, p. 29.31. C.A. Monson, Disembodied Voices: Music and Culture in an Early Modern Italian

convent, University of California Press, Berkeley [ecc.], 1995 (trad. it. Voci incorporee: mu-sica e cultura in un convento italiano della prima età moderna; traduzione di R.J. Vargiu, Bononia University Press, Bologna, 2009); Idem, Nuns Behaving Badly: Tales of Music, Magic, Art, and Arson in the Convents of Italy, University of Chicago Press, Chicago, 2010.

32. R.L. Kendrick, Celestial Sirens: Nuns and their Music in Early Modern Milan, Cla-rendon Press, Oxford, 1996.

33. Ai saggi citati sopra si possono aggiungere: M. Belardini, Musica dietro le grate. Vita e processo di Maria Vittoria Frescobaldi, “monaca cantatrice” del Seicento fiorenti-no, in G. Pomata e G. Zarri a cura di, I monasteri femminili come centri di cultura tra Ri-nascimento e Barocco, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2005, pp. 45-72; C. Baa-de, Music and Misgiving: Attitudes Towards Nuns’ Music in Early Modern Spain, in C. van Wyhe ed., Female Monasticism in Early Modern Europe. An Interdisciplinary View, Ashgate, Aldershot-Burlington, 2008, pp. 81-95.

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vorrei tuttavia rimarcare l’importanza che la musica ricopriva nella forma-zione delle giovani che venivano istruite nelle comunità monastiche, abili-tà ritenuta particolarmente rilevante anche per l’educazione delle educande di ceto nobiliare.

Il secondo trattato seicentesco che prendiamo in considerazione, il già citato La monaca perfetta, è di diverso impianto e struttura ed è e fina-lizzato a costruire e proporre il modello ideale di religiosa, come recita il titolo.

Intento a disegnare il ritratto della monaca osservante, l’Oblato Carlo Andrea Basso compone un’opera di carattere spirituale prendendo a mo-dello l’insegnamento della Sacra Scrittura e l’esempio dei santi. La sua operetta non ha dunque carattere normativo, né si riferisce alle ordinazio-ni del Concilio tridentino o della chiesa milanese, che sono soltanto pre-supposte. L’autore si propone invece di illustrare i doveri della religiosa a partire dall’esposizione del significato del termine “monaca”, che significa “solitaria”34, e strutturando conseguentemente il suo scritto in 14 trattati, o capitoli, che tengono conto del carattere di separatezza che deve qualifica-re la vita monastica.

Il trattato sulle novizie è l’ultimo del volume ed è sviluppato nella pro-spettiva dei doveri della professa verso le giovani postulanti. Ad integra-zione di questo capitolo, il XV, l’autore rinvia ad un testo più specifico composto dal teologo Luigi Bossi nell’ambito delle diverse iniziative borro-maiche per l’introduzione della disciplina tridentina nella chiesa milanese: il Catechismo ad uso delle figliuole desiderose di farsi monache35.

Rinunciando dunque a rivolgersi direttamente alle novizie, Carlo Andrea Bosso inserisce il suo discorso nella parte relativa ai doveri della profes-sa e mostra la responsabilità di ogni singola monaca nell’esprimere il voto di accettazione delle postulanti e di ammissione alla professione. Enumera poi gli obblighi della Maestra delle novizie che – a detta dell’autore – pos-sono riassumersi in pochi, dovendo ella insegnare più con l’esempio che con le parole:

Deve ammaestrarle più con l’essempio che con le parole et far a punto come so-gliono quelli ch’insegnano a scrivere: non si contentano di dar i precetti conve-nienti dell’arte et di proporre al figliolo un esemplare di lettere ben formate, ma pigliano ancora la mano dello scolare, et movendola pian piano gl’insegnano a formare bene i caratteri. L’essempio è un ottimo et eccellente modo d’insegnare36.

34. Basso, La monaca perfetta, p. 3.35. Catechismo ad vso delle figliuole desiderose di farsi monache. Composto da Alui-

gi Bosso…, in Milano, per l’herede di Pacifico Pontio, & Gio. Battista Piccaglia stampato-ri archiepiscopali, 1621.

36. Basso, La monaca perfetta, p. 372.

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In secondo luogo la Maestra delle novizie deve amare le sue discepo-le con spirito di servizio, come richiede il suo ufficio, e non deve mostra-re parzialità se non vuole introdurre discordia tra le postulanti. La virtù più importante per le Maestre sarà quella della discrezione, che suggerirà loro di avviare le giovani alla vita di perfezione senza imporre esercizi o morti-ficazioni eccessive, tenendo conto che esse debbono avviarsi gradualmente a intraprendere una vita nuova, diversa da quella del secolo.

Dopo aver sintetizzato in pochi punti gli obblighi della Maestra, l’auto-re del trattato conclude affermando che gli obblighi della novizia discendo-no da questi: le giovani debbono amare, riverire, obbedire le loro officiali e debbono dedicarsi con ogni impegno al proprio profitto spirituale e all’ac-quisto delle virtù.

Come le Maestre delle novizie debbono insegnare con l’esempio, co-sì tutte le professe debbono essere di buon esempio alle giovani ogni volta che hanno occasione di incontrarsi, ossia in coro e in refettorio.

Il richiamo di Carlo Andrea Bosso ai luoghi istituzionalmente deputati al-la “vita in comune”, il coro e il parlatorio, sembra attestare che in tutti i mona-steri milanesi esistano noviziati separati dagli spazi destinati alle professe. Egli approva pienamente questa disposizione ecclesiastica, che rispecchia la voca-zione della monaca alla solitudine, e suggerisce scherzosamente un modo per conversare tra monache e professe: il modo sopra accennato del buon esempio.

Non mi dilungherò ulteriormente nell’analisi dei due trattati seicente-schi. Mi limiterò a ricordare che essi sono espressione dell’intensa attività pastorale relativa alla applicazione dei decreti del Concilio di Trento con-dotta da Carlo e Federico Borromeo nella diocesi milanese. Insieme ad al-tre opere meno note essi hanno contribuito ampiamente a trasmettere pre-cetti e modelli per la vita monastica a tutti gli istituti religiosi italiani. Il numero imponente di ristampe dei due trattati indica che essi costituirono una specie di vademecum per le singole monache italiane e per intere co-munità lungo tutto il secolo XVII.

Direttive della Sacra congregazione dei vescovi e regolari per le Maestre delle novizie e delle educande nell’opera di Antonio Ma-ria Affaitati d’Albogasio (secolo XVIII)

Meno nota delle precedenti è l’opera dal titolo Memoriale catechisti-co esposto alle religiose claustrali di qualunque ordine stampato a Mila-no nel 171637. Autore del libro, lodato come opera erudita dal Giornale de’

37. A.M. Affaitati D’Albogasio, Memoriale catechistico esposto alle religiose claustra-li di qualunque ordine, in Milano, nella stamperia di Giuseppe Pandolfo Malatesta, 1716.

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letterati d’Italia, è il cappuccino Antonio Maria Affaitati d’Albogasio, na-to in Valsolda e vissuto tra il 1660 e il 1721. Affiliatosi ai Cappuccini del-la Provincia di Milano nel 1676, l’Affaitati pubblicò diverse opere di ca-rattere storico ed erudito. Nel 1719 ricopriva l’incarico di assistente della Conforteria dei condannati a morte di Milano e compose un manuale per i confortatori38.

Non conosciamo in modo approfondito l’attività del religioso, né sappia-mo se avesse mai avuto compiti di cura delle monache del proprio ordi-ne. Nella breve dedicatoria “Alle religiose di qualunque ordine”, che apre il corposo Memoriale, l’Affaitati dichiara di aver composto il testo per esor-tazione e commissione dei “Padri spirituali” delle monache stesse. L’ope-ra si presenta come erudita sintesi della normativa conciliare e dell’attivi-tà giurisdizionale della Sacra Congregazione sopra i Vescovi e Regolari riguardante la disciplina delle monache e delle terziarie ed ha lo scopo di istruire circa gli obblighi della professione monastica. Diretto tanto ai Con-fessori e padri spirituali quanto alle claustrali, il Memoriale catechetico deve fornire materiale per la preparazione alla confessione, illustrando ade-guatamente gli obblighi cui le religiose sono tenute per obbedienza alla re-gola e alle disposizioni dei concili e della corte romana; lo scritto si propo-ne al tempo stesso di istruire ed esortare senza incutere timore e scrupoli di coscienza.

Il carattere di istruzione piuttosto che di semplice preparazione alla con-fessione è dato dal ricco apparato di testi e documenti compulsati e citati e dal tono esortatorio con cui il cappuccino si rivolge ai suoi lettori e alle sue lettrici. Finalità principale dell’opera è quella di illustrare con chiarezza gli obblighi derivanti dalla professione dei voti monastici così da circoscrivere le eventuali mancanze e da prevenire le conseguenti punizioni. Gli obblighi si estendono anche ai doveri e compiti delle “Officiali” che hanno particola-ri mansioni all’interno della comunità. Per quanto riguarda l’aspetto educa-tivo, le indicazioni contenute nelle regole monastiche si riferiscono in par-ticolare, come negli altri due testi esaminati, ai compiti della Maestra delle novizie e della Maestra delle educande secolari. Ciò che caratterizza l’ope-ra dell’Affaitati in relazione agli scritti seicenteschi di ambito borromaico è l’accentuazione dell’importanza riservata all’orazione mentale nell’educazio-ne delle novizie e delle educande e nella lettura di libri spirituali.

Il ruolo ormai centrale che l’orazione mentale ha acquisito nella vita re-ligiosa presuppone una alfabetizzazione molto estesa e una capacità di let-tura che si accompagna all’acquisizione del metodo gesuitico della com-

38. G. Mazzuchelli, Gli scrittori d’Italia cioè Notizie storiche, e critiche intorno al-le vite, e agli scritti dei letterati italiani, Volume 1. Parte 1, in Brescia, presso Giambatista Bossini, 1753-1763, p. 165.

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posizione di tempo e di luogo e della effusione di sentimenti affettivi e di propositi pertinenti l’oggetto della meditazione. L’esercizio dell’orazione mentale praticato individualmente in momenti diversi della giornata è dive-nuto così uno dei mezzi più efficaci di educazione al sentimento e alla vir-tù, alla scoperta e al dominio delle emozioni, alla conoscenza di se stessi e delle proprie pulsioni interiori. Questo processo, importante in particola-re per le novizie che debbono esplorare fino in fondo la propria predispo-sizione alla vita claustrale, allontanando tutti i motivi esteriori che possono indurle a fare la professione senza convinzione o consapevolezza della re-gola, è altrettanto importante per le secolari che in convento debbono ac-quisire comportamenti ispirati a modestia e moderazione.

Il metodo educativo deve essere improntato alla comprensione e alla cu-ra materna, pur non rifuggendo dalla correzione:

Le Maestre delle Zitelle secolari che stanno in educazione ne’ Monasteri… stanno in luogo delle loro Madri e perciò corre loro obbligo di coscienza di ben’educarle, ed indirizzarle nel santo timore di Dio e buoni costumi; compatendole, aiutando-le, e correggendole discretamente de’ mancamenti e leggerezze di quella età pue-rile. Sicché le sopportino con pazienza; le precedano con la maturità e buon’esem-pio; le consolino nelle loro tribolazioni, infermità e tentazioni, le esercitino nella frequenza de’ Sacramenti, nell’orazione e lettura di libri spirituali, e finalmente nell’acquisto di ogni cristiana virtù e principalmente nella modestia nel vestire e nel conversare39.

Le istruzioni dell’Affaitati circa il metodo educativo che le Maestre deb-bono seguire nel loro insegnamento sono poi seguite da una serie di divie-ti da imporre alle educande. Per favorire l’acquisizione di comportamenti disciplinati le educande non debbono vagare liberamente per il monaste-ro né praticare o tenere corrispondenza con monache particolari o novizie; non debbono dormire con altre persone a meno che non siano sorelle; non possono fare rappresentazioni profane, né vestirsi da uomo; non debbono intrattenersi in parlatorio con giovani non parenti senza licenza dei supe-riori; non possono infine scrivere o ricevere lettere nascostamente e debbo-no “osservare le leggi della Clausura e de’ Parlatori come si usa con le al-tre Monache”40.

L’educazione claustrale doveva favorire l’acquisizione di una istruzio-ne sufficiente a introdurre le giovani nobili e cittadine a sostenere una conversazione con interlocutori del proprio ceto e ad acquisire quelle abilità domestiche che erano richieste ad una padrona di casa secondo l’an-tico modello profilato da Leon Battista Alberti nell’età rinascimentale; al-

39. Ibidem, pp. 313-314.40. Ibidem, p. 314.

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la istruzione si doveva soprattutto affiancare il conseguimento di compor-tamenti modesti e l’abitudine ad una vita ritirata da trascorrere tra le mura domestiche.

Il manuale dell’Affaitati, diligente summa dei decreti e dei precetti post-tridentini rivolti alle monache, non sembra prendere atto del mutamento dei costumi che incomincia ad affermarsi in famiglia nel secolo XVIII41. In questo testo, come negli altri precedentemente esaminati, non si trovano informazioni relative all’istruzione delle novizie e delle educande e al loro curriculum di studi. D’altra parte non possiamo dimenticare che una ratio studiorum per i monasteri femminili comincerà ad apparire nel corso del Settecento solo in alcuni istituti particolarmente dediti all’istruzione, come i monasteri delle Visitandine, e che fino alla fine dell’Ancien Régime l’in-segnamento morale e l’avviamento alla vita spirituale avrà preminenza ri-spetto all’insegnamento di altre discipline letterarie o scientifiche42.

Il curriculum di studi nei monasteri delle Visitandine

I trattati sei e settecenteschi destinati alla formazione delle novizie e del-le educande non forniscono indicazioni sull’insegnamento monastico inte-so come istruzione, ma hanno la finalità specifica di presentare indirizzi ge-nerali e proposte metodologiche per conseguire le virtù morali e le abitudini comportamentali proprie delle religiose o delle giovani donne di ceto nobi-liare e civile destinate al matrimonio. L’insegnamento vero e proprio si ba-sava su una pratica che aveva avuto scarse variazioni nel corso dei secoli. Eppure nella società ed anche all’interno dei conventi non era mancato un dibattito strettamente connesso al discorso dell’istruzione femminile.

Premesso che neppure nel movimento illuminista vi fu unanimità nell’approvare l’ormai ampio accesso delle donne alla lettura e alla scrit-tura – basti ricordare le crude invettive del rivoluzionario ammiratore di Rousseau Sylvain Maréchal, autore di un Progetto di legge per vietare al-le donne di imparare a leggere43 – occorre ricordare che la discussione sul-la capacità e sul diritto all’istruzione di entrambi i sessi si era sviluppa-ta all’interno della secolare Querelle des femmes nata nelle corti europee nel secolo XV. Uscita dal ristretto ambiente aristocratico, nel secolo XVI la

41. Cfr. R. Bizzocchi, Cicisbei: morale privata e identità nazionale in Italia, Laterza, Roma-Bari, 2008.

42. Gli studi sull’educazione femminile e sugli istituti educativi per donne non sono an-cora molto numerosi in Italia. Per un orientamento v. il fascicolo dedicato a questo tema nel-la rivista Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche, 14, 2007 (Brescia).

43. S. Maréchal, Progetto di legge per vietare alle donne di imparare a leggere, a cura di E. Badellino, Archinto, Milano, 2007.

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querelle aveva interessato anche noti filosofi come Cornelio Agrippa e don-ne erudite come Lucrezia Marinella, per approdare nel Seicento nel mona-stero veneziano di Sant’Anna, dimora obbligata della benedettina Arcan-gela Tarabotti. Qui la monaca italiana più dotata dal punto di vista della scrittura polemica ed epistolare prese parte attiva al dibattito, rispondendo al misogino Francesco Boninsegni autore di una satira sul lusso femminile. Considerata dalla critica una protofemminista, Arcangela Tarabotti prece-de e conclude un dibattito che dall’Italia si sposterà alla Francia, dove nel corso del secolo XVII si alzeranno voci autorevoli in difesa dell’uguaglian-za e dell’istruzione femminile. Mentre il sacerdote (poi convertito al cal-vinismo) Poulain de la Barre applica il metodo cartesiano alla discussione sull’uguaglianza dei sessi e legittima l’educazione delle dame44, la sua al-lieva Gabrielle Suchon chiede e ottiene di uscire dal convento per dedicarsi agli studi e all’insegnamento e scrive un trattato in difesa del celibato e del diritto delle donne di vivere senza “engagement”45.

Una lenta e progressiva trasformazione dell’insegnamento monastico av-viene nell’ambito dei monasteri francesi della Visitazione, grazie all’Istituto religioso femminile fondato ad Annecy da Francesco di Sales e Jeanne de Chantal nel 1611 e approvato dalla Santa Sede nel 1618 dopo essere dive-nuto istituto di stretta clausura. Poiché era sorto con l’intento di promuove-re l’istruzione delle ragazze, le religiose si dedicarono alla vita contempla-tiva, ma non rinunciarono all’insegnamento. Se in Francia ottennero subito un grande successo aprendo un numero notevole di monasteri46, in Italia la diffusione avvenne più lentamente, concentrandosi nell’area piemontese, lombarda e toscana e specializzandosi nell’educazione delle fanciulle di ce-to aristocratico.

Le madri della Visitazione basavano i loro principi educativi sulle idee di François Fénelon, contenute nel trattato De l’éducation des filles47, che tratteggiava un profilo di donna previdente, laboriosa e buona madre di fa-

44. Su François Poulain (o Poullain) de la Barre, autore di De l’égalité des deux sexes, discours physique et moral où l’on voit l’importance de se défaire des préjugez (1673) e De l’education des Dames… (1673), cfr. G. Leduc, De la “belle question” à la démarche car-tesienne de l’Egalité des deux sexes: la spécificité novatrice des idées préféministes de Pou-lain de la Barre, de leur publication incomprise (1673) à leur retour Incognito d’Angleter-re (1749-1751), in Revisiter la «querelle des femmes»: discours sur l’égalité/inégalité des sexes. De 1600 à 1750, sous la direction de D. Haase-Dubosc et M.E. Henneau, Université de Saint-Étienne, Saint-Étienne, 2013.

45. G. Suchon, Du célibat volontaire ou la vie sans engagement (1700), éd. par S. Auf-fret, Indigo et Côté femmes, Paris, 1994.

46. Visitation et Visitandines aux 17. et 18. Siècles, études réunies et présentées par B. Dompnier et D. Julia, Publications de l’Université de Saint-Etienne, Saint-Etienne, 2001.

47. F. de Salignac de La Mothe Fénelon, Traité de l’éducation des filles, introduction B. Jolibert, Klincksieck, Paris, 1994.

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miglia. Nella convinzione che le cause maggiori dei mali sociali fossero di tipo morale, egli proponeva alle giovani generazioni una istruzione in gra-do di far acquisire capacità razionali e principi adatti a poter affrontare la vita quotidiana48.

Per quanto riguarda l’istruzione impartita alle fanciulle nei monaste-ri della Visitazione italiani, possiamo citare l’esempio dell’Istituto di San-ta Sofia in Milano, fondato nel 1713. Nel Prospetto dell’educazione in uso in quell’istituto49 sono espressi chiaramente tanto i principi educativi quan-to i contenuti disciplinari dell’insegnamento. Si esplicita inoltre l’orario ti-po della giornata delle educande.

Rilievo peculiare è dato all’insegnamento della lingua francese, giustifi-cato dalle religiose con la necessità di leggere e intendere le opere e la cor-rispondenza di Francesco di Sales e della fondatrice dell’ordine Jeanne de Chantal, ma consono anche alla necessità di fornire alle fanciulle del ceto nobiliare una educazione “alla moda” come quella che veniva dalla Fran-cia. Notevole è anche il tempo dedicato allo studio della lingua italiana, dell’aritmetica e delle scienze storiche e geografiche.

La ricezione dei principi della ratio studiorum gesuitica si evince dalla divisione dell’insegnamento in tre classi, con successivo approfondimento delle materie di studio e dall’importanza data alle discipline musicali, alla danza, al teatro e al canto.

Nei monasteri della Visitazione il ciclo educativo iniziava a sette anni e si concludeva a diciannove. Le giovani erano tenute a condurre vita semi-claustrale, pur potendo ricevere visite in parlatorio. Erano vietati rappor-ti con i domestici di casa, frequentemente incaricati di portare lettere o do-ni, mentre era consentita l’abituale corrispondenza con amici e parenti che però doveva essere sottoposta alla visione della madre superiora. La lettura dei libri doveva essere autorizzata dalla Maestra delle educande. La giorna-ta-tipo prevedeva una preghiera comune dopo la sveglia mattutina, seguita dalla colazione e dalla Santa Messa. A questo punto le educande si divide-vano in due gruppi: le più giovani si recavano nelle aule per iniziare le loro lezioni e le più grandi andavano in cappella per recitare l’ufficio della Ma-donna, al termine del quale cominciavano le lezioni.

Per tutte le classi l’insegnamento prevedeva 10 ore settimanali di lezio-ni diversamente suddivise. Nel Corso I le ore di insegnamento era riparti-te come segue: 2 ore di letteratura e ortografia; 3 ore di calligrafia; 2 ore di

48. Cfr. F. Terraccia, In attesa di una scelta: destini femminili ed educandati monastici nella Diocesi di Milano, Viella, Roma, 2012; C. Pancera, Il pensiero educativo di Fénelon, La Nuova Italia, Scandicci, 1991.

49. F. Terraccia, “La diffusione dell’Ordine della Visitazione in Italia e l’educazione fem-minile”, Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche, 14, 2007: 95-118.

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storia; 2 ore di sfera (cioè di astronomia) ed elementi di geografia: 1 ora di catechismo. Nel Corso II si tenevano 1 ora di calligrafia; 3 ore di aritme-tica; 2 ore di storia; 2 ore di geografia; 2 ore di lingua italiana. Nel Corso III infine comparivano discipline più specialistiche: 3 ore di lingua france-se; 2 ore di stile epistolare; 2 ore di storia; 1 ora di storia naturale; 2 ore di geografia. Insieme alle discipline qui ricordate veniva impartito l’insegna-mento del lavoro manuale, i cosiddetti “lavori donneschi”, che comprende-vano cucito, rammendo, ricamo a cui si aggiungevano lavori più creativi e alla moda, come confezionare “reti in molte maniere, borse di ogni quali-tà, cordoni, fiocchi di orologio, e altri particolari lavori di gusto personale”, secondo il dettato del Prospetto sopra citato50. Anche per quanto riguar-da i lavori manuali l’insegnamento era graduale e progressivo, come spe-cifica un Regolamento delle Salesiane di Bologna stilato nei primi decen-ni dell’Ottocento.

La città di Bologna non aveva beneficiato della prima espansione delle Visitandine in Italia. Assenti nel novero degli istituti religiosi femminili del secolo XVII, le Salesiane vennero chiamate a Bologna nel periodo della Restaurazione. Dopo la soppressione dei numerosi conventi di clausura che erano forniti di educandato, il Cardinale Carlo Oppizzoni si fece promo-tore della venuta in città dell’istituto religioso, che era presente nel Ducato di Modena fin dal secolo XVII. Furono le religiose modenesi che nel 1819 fondarono a Bologna il monastero delle salesiane dedicato a Santa Maria in alcuni locali precedentemente occupati dal monastero di San Giovanni Battista in Sant’Isaia. Nell’agosto 1823 venne riaperta la chiesa e restaurata con l’approvazione e l’aiuto del Cardinale stesso51.

Il regolamento manoscritto che ci è pervenuto, in quattro carte, reca una scrittura dell’inizio del secolo XIX e denuncia, per la sua prossimità con il Prospetto milanese precedentemente citato, la continuità di una tradizione educativa molto vicina nel tempo. Possiamo quindi dedurre che il mano-scritto conservato tra le carte di un erudito raccoglitore bolognese sia il re-golamento primitivo destinato a definire l’istruzione delle educande52.

Il Regolamento per l’educandato del monastero della Visitazione San-ta Maria di Bologna registra al momento della stesura la presenza di trentasei “putte” in educazione suddivise in tre classi. La prima classe comprende le educande dai 6 ai 9 anni, la seconda dai 7 anni agli 11; la

50. Terraccia, In attesa di una scelta, p. 242.51. G. Guidicini, Cose notabili della città di Bologna ossia Storia cronologica de’ suoi

stabili sacri, pubblici e privati, Tipografia delle Scienze di Giuseppe Vitali, Bologna, 1868-1873, II, p. 299.

52. Biblioteca Comunale Archiginnasio Bologna, Manoscritti Mezzofanti, Cartone LXXVII, n. 17.

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terza dai 14 ai 18. La responsabilità dell’insegnamento spetta alla Diret-trice, ossia maestra delle fanciulle. A ogni classe sono assegnate due maestre e una servente.

Come nel Prospetto milanese sopra ricordato, l’insegnamento è suddivi-so tra lezioni disciplinari e attività manuali, tuttavia nel regolamento bolo-gnese emerge con maggior chiarezza la gradualità dell’insegnamento. Ri-porto la parte centrale del documento, di chiara efficacia descrittiva:

Le fanciulle della prima classe si occuperanno nel leggere, formare il caratte-re, imparare la Dottrina Cristiana, il ristretto della Storia Sacra e la geografia ele-mentare. I lavori poi saranno cucire, far merletti e piccioli ricami in bianco, oltre a qualche altra opera di mano di divertimento.Le fanciulle della seconda classe, oltre le surriferite occupazioni, si applicheranno agli elementi grammaticali delle due lingue italiana e francese, all’aritmetica e ai principi di musica e disegno, sempre che esse trovinsi capaci di tali esercizi onde sperarne profitto. In quanto ai lavori, questi consisteranno in ricamo d’ogni sorta, oltre alla continuazione di quelli più sopra descritti.Le fanciulle della terza classe dovranno perfezionarsi in tutto ciò che hanno ap-preso nelle due antecedenti classi, sia in ordine agli studii come ai lavori. Però gli studii affissi precipuamente alla terza classe sono la storia universale e le ultime operazioni dell’aritmetica. Per rapporto ai lavori, oltre ai già indicati, si aggiunge-ranno negli ultimi due anni di educandato, che termina ai 18 anni, tutti quei lavori di ornamento che convengono a fanciulle ben educate53.

Per quanto si possa considerare il miglior esempio di educazione con-ventuale, o almeno il più organizzato, l’istituto salesiano non era il so-lo che corrispondeva alle aspettative della nobiltà italiana settecentesca, anche colta e illuminata. Basta pensare alla testimonianza di Pietro Ver-ri, così soddisfatto dell’educazione che la prima moglie Maria Castiglio-ni aveva ricevuto in un monastero di Milano da scegliere come secon-da moglie una nobile fanciulla posta nello stesso luogo per essere istruita. La figlia Teresa, nata da Maria, venne invece istruita in casa sotto l’oc-chio vigile del padre che per lei aveva anche studiato principi pedagogi-ci innovativi54.

Nonostante le salesiane non fossero presenti in Bologna nel secolo XVIII, certamente non mancavano monasteri che potevano impartire un’e-ducazione adeguata e tradizionale alle ragazze dell’aristocrazia locale. Tut-

53. Ibidem.54. Terraccia, In attesa di una scelta, pp. 208-235. Sui limiti del modello femminile

prospettato da Pietro Verri nei suoi Ricordi a mia figlia (in Illuministi settentrionali, a cu-ra di S. Romagnoli, Rizzoli, Milano, 1962, pp. 149-211), v. M. Cavazza, Between Mode-sty and Spectacle: Women and Science in Eighteenth-Century Italy, in P. Findlen, W. Wa-ssyng Roworth, and C.M. Sama eds., Italy’s Eighteenth-Century: Gender and Culture in the Age of the Grand Tour, Stanford University Press, Stanford, 2009, pp. 275-302.

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tavia Laura Bassi (1711-1778) fu istruita da precettori privati, e non secon-do un modello ‘femminile’ ma secondo quello ‘maschile’ dei Collegi e dell’Università. Questo le permetterà di raggiungere un grado di compe-tenza nella fisica sperimentale all’altezza della tradizione della scuola bo-lognese in questo campo. Il riconoscimento della sua preparazione da parte delle autorità cittadine, che nel 1732 le conferirono una laurea e una catte-dra onoraria in filosofia, le consentirà di intraprendere la carriera innovati-va dell’insegnamento universitario, in anticipo di quasi due secoli rispetto alle successive donne laureate55.

55. Sulla bibliografia relativa a Laura Bassi e sulla sua pionieristica carriera di docente universitaria, vedi il contributo di Paula Findlen nel presente volume.

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La Maestra di Bologna. Laura Bassi, una donna del Settecento in cattedra*

di Paula Findlen

Il 12 maggio 1732 la giovane figlia di un avvocato bolognese conseguì la laurea in Filosofia presso l’Università di Bologna, con grande plauso di pubblico. “Noi abbiamo qui una Dottoressa, che non ha più di 20 anni…” scrisse il poeta e pittore Giampietro Zanotti, che presenziò a quest’even-to straordinario con forte curiosità e crescente ammirazione per la donna che ne era protagonista. “Ha nome Laura Maria Cattarina Bassi e sostiene le sue conclusioni quanto possa farsi da alcun buon Maestro”1. Il diploma universitario che Laura Bassi ottenne nel 1732 rappresentò effettivamen-te il primo scalino della sua lunga e rinomata carriera come la più celebre donna docente di Bologna. Dal 1732 fino alla sua morte nel 1778, Bassi in-segnò filosofia, e soprattutto fisica sperimentale, nelle principali istituzioni educative della città così come a casa propria. Era ampiamente conosciu-ta in tutta l’Italia, anzi nell’Europa intera, come uno dei migliori docenti di fisica della sua generazione. I filosofi sperimentali delle più giovani gene-

* Un sentito ringraziamento va a Marta Cavazza, mia interlocutrice per anni nella no-stra comune infatuazione per Laura Bassi, per aver organizzato, nel 2011, una così nume-rosa serie di eventi in celebrazione del trecentesimo compleanno di Bassi, tra cui questo convegno, e per aver generosamente condiviso la sua competenza e la sua preparazione. Una simile pubblicazione in ricorrenza dell’anniversario è una buona occasione per ricor-dare l’altrettanto importante lavoro di Patrizia Busi, Beate Ceranski, Alberto Elena e del-la compianta Gabriella Berti Logan, che, a partire dagli anni Novanta hanno tracciato un percorso nello studio di questi documenti, facendo della scuola storiografica Bassiana un progetto davvero fecondo, nonché internazionale in quanto esteso in cinque paesi. Siamo tuttavia tutti indebitati con le precedenti generazioni di studiosi bolognesi, tra cui soprat-tutto Giusto Cenerelli, Giovanni Battista Comelli, Elio Melli, Gian Ludovico Masetti Zan-nini, e prima di loro Giovanni Fantuzzi, biografo di Bassi del diciottesimo secolo, e il suo immediato successore dell’inizio del diciannovesimo, Antonio Magnani, che aprirono la via. Infine, un sentito ringraziamento va anche a Bianca Facchini, che ha tradotto in italia-no il mio testo.

1. Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, Bologna (d’ora in poi BCAB), B. 382, lett. 34 (Giampietro Zanotti al Padre Giampietro Riva, Bologna, 22 giugno 1732).

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razioni che studiarono sotto la sua guida, tra cui il suo illustre cugino Laz-zaro Spallanzani, erano soliti fare riferimento a Bassi con l’appellativo di “venerata Maestra”, manifestando così la loro ammirazione per la grande competenza con cui l’insegnante padroneggiava la propria disciplina e per le sue notevoli abilità pedagogiche nello spiegare e nel dimostrare le leggi della fisica2.

Il ruolo inusuale rivestito da Bassi nella Bologna del diciottesimo secolo rappresentò l’esito di una lunga tradizione di dotte donne associate all’uni-versità, inaugurata dalla leggendaria Bitisia Gozzadini che, a quanto si tra-manda, ottenne una laurea in diritto canonico e nel 1236 una cattedra nel-la stessa materia. Stando a una versione ampiamente posteriore al fatto, al momento della sua morte, nel 1261, il suo corpo fu esposto nella basilica di San Petronio (iniziata però solo nel 1390!) alla vista di tutti i cittadini di Bologna, rivestito della toga, della mantella e dell’anello dottorali per in-dicare che ella era realmente una magistra et doctrix3. Gozzadini rappre-sentò l’antenata mitica di Laura Bassi, che sarebbe sempre stata vista come la personificazione vivente dell’evoluzione della tradizione medievale delle dotte donne docenti, e celebrata “con lode non inferiore a quella, con che ne’ tempi antichi professarono legge altre nostre gloriose cittadine”4.

La figura di Bitisia Gozzadini è all’origine di una tradizione che include varie altre donne bolognesi vissute tra il quattordicesimo secolo e gli inizi del quindicesimo: Novella d’Andrea, una delle due colte figlie del famoso giurista Giovanni, che all’inizio del quattordicesimo secolo pare insegnas-se diritto canonico ai suoi studenti stando dietro una tenda per preservare la propria modestia; Alessandra Giliani da Persiceto, che si dice assistesse alle dissezioni del famoso anatomista medievale Mondino de’ Liuzzi; Mad-

2. Vedi in particolare M. Cavazza, “Laura Bassi,‘maestra’ di Spallanzani”, in W. Ber-nardi e P. Manzini, a cura di, Il cerchio della vita, Olschki, Firenze, 1999, pp. 185-202. Come Spallanzani, anche Rocco Bovi avrebbe chiamato Bassi mia venerata Maestra; vedi A. Minasi, O.P., Dissertatione seconda su’ de’ timpanetti dell’udito scoverti nel Granchio Paguro e sulla bizzarra di lui vita, Napoli, 1775, dedica di R. Bovi (10 settembre 1775), pp. non num.

3. Per un’influente biografia di Gozzadini, vedi le aggiunte cinquecentesche a G. Boc-caccio, Libro di M. Giovanni Boccaccio delle Donne Illustri. Tradotto di Latino in Vol-gare per M. Giuseppe Betusi, con una giunta fatta dal medesimo d’altre Donne Famose. E un’altra nuova giunta fatta per M. Francesco Serdonati, d’altre Donne Illustri Antiche e Moderne, Firenze, 1596, pp. 544-46. La più ampia storia delle donne laureate e docenti dell’Università di Bologna è discussa in L. Toschi Traversi, “Verso l’inserimento delle don-ne nel mondo accademico”, in Alma mater studiorum. La presenza femminile dal XVIII al XX secolo, Clueb, Bologna, 1988, pp. 15-37; M. Cavazza, “Dottrici e lettrici nell’Universi-tà di Bologna nel Settecento”, Annali di Storia dell’Università 1, 1997: 109-125.

4. La citazione è tratta dal necrologio di Bassi negli Avvisi di Bologna (25 febbraio 1778), riportato anche in Elisabetta Caminer Turra, “Morte di donna celebre”, Giornale enciclope-dico (marzo 1778): 39.

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dalena Buonsignori, che sembra succedesse a Bitisia nell’insegnamento del diritto canonico, e Dorotea Bocchi, figlia di un professore di medicina, che sembra guadagnasse 100 scudi insegnando medicina dal 1390 al 14365. Quando, nel 1596, Francesco Serdonati pubblicò le sue aggiunte al De mu-lieribus claris di Boccaccio, lodò particolarmente Bologna per aver “pro-dotto in diversi tempi donne dottissime in ogni sorta di lettere”. L’idea che Bologna fosse una città di erudite e docenti era stata rafforzata dall’uscita, nello stesso anno, del primo volume della Historia di Bologna di Cherubi-no Ghirardacci6.

All’altezza del diciottesimo secolo questi antichi racconti di donne do-centi erano ormai divenuti materiale da leggenda. La mancanza di docu-mentazione istituzionale a prova della loro esistenza e attività rendeva l’in-tera storia alquanto sospetta. Una disputa su questo argomento esplose all’epoca dell’infanzia di Laura Bassi. Nel 1722 ella fu testimone dei vani sforzi intentati dal nobiluomo bolognese Alfonso Delfini Dosi perché la fi-glia Maria Vittoria ricevesse una laurea in legge. La sedicenne Maria Vit-toria fu esaminata su diverse tesi legali in una solenne cerimonia pubblica tenutasi al Collegio di Spagna, ma non ottenne né una laurea né una catte-dra7. Il Collegio dei dottori di Giurisprudenza rifiutò di partecipare, addu-cendo ad argomento la mancanza di attestazioni a supporto dell’esistenza della Gozzadini, della quale non rimaneva alcuna testimonianza negli ar-chivi. Poiché fino al 1351 l’Università di Bologna non usava serbar traccia dei suoi professori, né, in epoca anteriore al quindicesimo secolo, era solita

5. Boccaccio, Libro di M. Giovanni Boccaccio delle Donne Illustri, p. 578; G.N. Alido-si Pasquali, Catalogo di tutti i Dottori Collegiati in Filosofia e Medicina, Bologna, 1664, p. 16. Per una discussione critica volta a stabilire se le sorelle d’Andrea insegnassero davvero a Bologna e Padova, vedi G. Rossi, “Contributi alla biografia del canonista Giovanni d’An-drea: l’insegnamento di Novella e Bettina, sue figlie, ed i presunti responsa di Milancia, sua moglie”, Rivista trimestale di diritto e procedura civile 11 (1957): pp. 1451-1502, ristampato in Rossi, Studi di storia giuridica medievale, Milano, 1997, pp. 389-456. Ringrazio Robert Fredona per avermi fornito questo riferimento bibliografico. Cf. N. Wandruszka, Novella und Christine. Zur Historizität gelehrter Frauen an der Universität Bologna (www.wandru-szka-genealogie.eu/Literatur/Novella%20und%20Christine%202013.pdf (6/10/2013); S. Kel-ly Wray, “Law Faculty Wives of Trecento Bologna”, in G.M. Anselmi, A. De Benedictis, and N. Terpstra, eds., Bologna. Cultural Crossroads from Medieval to Baroque: Recent An-glo-American Scholarship, Bononia University Press, Bologna, 2013, pp. 45-56.

6. Boccaccio, Libro di M. Giovanni Boccaccio delle Donne Illustri, p. 544; e Cherubi-no Ghirardacci, Della historia di Bologna, 3 voll. (1596-1657)

7. E. Orioli, “Una cultrice di diritto a Bologna nel XVIII secolo”, L’Archiginnasio 6 (1911): 25-31; Toschi Traversi, “Verso l’inserimento delle donne”; D. García Cueto, “La ce-lebracion de la sabiduria. Maria Vittoria Delfini Dosi y la presentación pública de sus con-clusiones académicas en Bologna (1722)”, in Felipe Serrano Estrella et. al., Docta Miner-va. Homenaje a la profesora Luz de Ulierte Vázquez (Universidad de Jaén, Servicio de Publicaciones y Intercambio Scientifico, Jaén, 2011), pp. 405-414.

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registrare le lauree conferite, tra memoria storica e prove archivistiche era venuto a crearsi un notevole iato8. L’unica laureata donna di documentata esistenza era la veneziana Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, che nel 1678 ricevette una laurea in Filosofia dall’Università di Padova, dopo essersi pe-raltro vista rifiutare quella in Teologia a motivo del fatto che un simile ri-conoscimento avrebbe violato il decreto paolino che interdiva alle donne di discutere pubblicamente di materie sacre e, tanto più, di essere qualificate per insegnare teologia9.

La completa assenza di effettiva documentazione relativa alla medieva-le Gozzadini metteva in dubbio l’intera tradizione bolognese delle donne dotte e docenti. I sostenitori della laurea di Delfini Dosi assemblarono per conto proprio qualche dubbia testimonianza dell’esistenza di Bitisia Gozza-dini. Essi sostenevano con convinzione che al centro della famosa imma-gine di Bononia Mater Studiorum c’era l’idea della Maestra10. Una delle principali obiezioni alla laurea in legge a Delfini Dosi, nel 1722, riguarda-va l’idea stessa di una donna professore. I contrari affermavano che gli stu-denti maschi sarebbero accorsi in massa alle sue lezioni per pura curiosità, privando quindi i suoi colleghi maschi degli introiti supplementari deri-vanti dall’insegnamento. Essi erano inoltre dell’avviso che, “dovendo leg-gere una Dama su le Scuole pubbliche, sarebbe necessario dare a Cotesta un Nobile Onorario, che privarebbe li Dottori, che non gli fosse accresciu-to il loro”11. Alla fine la visione conservatrice prevalse, per quanto non sen-za aperte obiezioni da parte di quanti ritenevano che i tempi fossero maturi per ridefinire la tradizione medievale del dottorato femminile. L’università non concesse a Delfini Dosi né una laurea né una cattedra, e non avrebbe licenziato donne giuriste per almeno due secoli, fino a quando, nel 1907, Carolina Pigorini si laureò a Bologna12.

8. Per una panoramica aggiornata su quest’argomento, vedi C. Dolcini, “Lo Studium fi-no al XIII secolo”, G. Mazzanti, “Lo Studium nel XIV secolo”; A. Padovani, “Lo Studium nel XV secolo”, in R. Zangheri, Direttore, Storia di Bologna, vol. 2. Bologna nel Medioe-vo, a cura di O. Capitani, Bononia University Press, Bologna, 2007, pp. 477-498, 951-975, 1017-1041.

9. F.L. Maschietto, Elena Lucrezia Cornaro Piscopia (1646-1684) prima donna laurea-ta nel mondo, Editrice Antenore, Padova, 1978.

10. Biblioteca Universitaria, Bologna (d’ora in poi BUB), ms. 775, c. 29. L’attestazio-ne più dubbia è costituita dal libro Bitisia Gozzadini seu de mulierum doctoratu (Bologna, 1722), scritto da Alessandro Macchiavelli e pubblicato a nome del fratello di lui, Carlo Antonio. Questo affascinante tentativo di fabbricare prove a favore del dottorato femmini-le era ben conosciuto e ampiamente dibattuto a Bologna nel corso del decennio prima che Bassi si laureasse e diventasse una docente. Vedi la biografia di M. Cavazza in DBI, s.v. “Macchiavelli, Alessandro”.

11. BCAB, B. 942, cc. 603-604.12. B. Dalla Casa, F. Tarozzi, “Da ‘studentinnen’ a ‘dottoresse’: la difficile conqui-

sta dell’istruzione universitaria tra ’800 e ’900”, in Alma Mater Studiorum, p. 172. La pri-

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Gli eventi del 1732 sfidarono, o per meglio dire capovolsero, la decisione di dieci anni prima, sebbene in un ambito completamente diverso. Nei qua-rantasei anni successivi, Laura Bassi trasformò in realtà il mito della don-na professore, e questo non nel campo della giurisprudenza, ma in quello della fisica, che rientrava allora nell’antica disciplina della filosofia. Rispet-to a giurisprudenza e medicina, la filosofia aveva implicazioni professio-nali molto meno definite quanto a ciò che un laureato della facoltà di Arti avrebbe potuto fare con un simile diploma in mano. Di conseguenza, Bas-si divenne un professore senza una professione che si estendesse al di là dell’università13. La natura innovatrice della sua esperienza era definita dal suo status di insegnante, anche se si sarebbe guadagnata una notevole re-putazione anche come sperimentatrice e ricercatrice. Nel corso della sua carriera, Bassi si batté strenuamente per affermare il proprio diritto a met-tere in atto questo aspetto della sua identità accademica. Agì in questo sen-so praticamente ad ogni livello della società cui apparteneva: dagli studenti che componevano la sua classe, ai visitatori della città, al più vasto mon-do esterno che ebbe notizia della sua fama. Bassi avrebbe dato origine a una concreta discendenza – rintracciabile nel corso del diciottesimo secolo e all’inizio del diciannovesimo – di professori donne e di studenti maschi che onoravano l’idea della Maestra, trasformando così il fantasma della donna docente medievale in un retaggio produttivo per le proprie attività. Il suo prestigio di esperta insegnante fu dovuto, in primo luogo, al ricono-scimento dei professori che la formarono con successo e derivò in seguito dalla sua versatilità nel creare un luogo per il suo insegnamento e, infine, dalla sua abilità nell’educare studenti e colleghi più giovani nel campo del-la matematica e, soprattutto, della fisica sperimentale. A volte i miti diven-tano realtà.

ma donna moderna a ottenere una laurea in legge in Italia fu Lidia Poët, a Torino nel 1881, che succedeva alla precedente laureata in legge Maria Pellegrina Amoretti (Pavia 1777), che a sua volta trasse ispirazione dalle storie medievali di donne studentesse e professores-se studiose di diritto e dalla più concreta realtà data dalla presenza di Laura Bassi a Bolo-gna. Né Amoretti né Poët esercitarono mai nel campo giuridico: G. Zaffignani, L’universi-tà e la ragazza. La verità sulla prima laurea in Legge ottenuta in Europa da una donna: Maria Pellegrina Amoretti, Pavia, 1777, Buonanno, Acireale e Roma, 2010.

13. Sulle ansie relative all’identità professionale si sono rivelati illuminanti: D. Biow, Doctors, Ambassadors, Secretaries: Humanism and Professions in Renaissance Italy, University of Chicago Press, Chicago, 2002; G.W. McClure, The Culture of Profession in Renaissance Italy, University of Toronto Press, Toronto, 2004. Sull’identità intellettuale e professionale dei professori universitari della prima età moderna, vedi W. Clark, Aca-demic Charisma and the Origins of the Research University, University of Chicago Press, Chicago, 2006.

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La formazione di una Maestra

Nel 1732 la laurea e la cattedra di Laura Bassi risolsero la sempre viva controversia volta a determinare se ci fossero mai state o dovessero esser-ci donne professore. Come tutte le donne colte di Bologna, Bassi fu inizial-mente istruita a casa, dove poteva contare su una biblioteca piena dei libri legati agli studi legali e umanistici di suo padre Giuseppe (il quale, quan-do la precoce Laura aveva undici anni, assistette in maniera indubbiamen-te simpatetica al fallimento della laurea della giovane Delfini Dosi). Lo-renzo Stegani, un cugino sacerdote di Bassi, la aiutò a incrementare le sue capacità linguistiche in latino e francese. Al primo esplodere della celebri-tà della cugina, egli rivendicò orgogliosamente il merito di aver inaugura-to la sua educazione: “mi scelsi di somministrarvi quei primi necessari ru-dimenti, ond’altri poi instruire vi potesse in quelle scienze, per cui tanto il vostro nome a quest’ora suona per tutta Italia…”14. Don Stegani ricordava con appassionato affetto il suo grande piacere nell’ascoltare la giovane cu-gina raccontare quello che aveva appreso dal medico di famiglia Gaetano Tacconi. Nel curare Maria Rosa Cesari, madre di Laura, Tacconi rimase colpito dall’intelligenza vivace e dalla facilità d’apprendimento della fan-ciulla e ottenne dal padre Giuseppe il permesso di istruirla in logica, filo-sofia e metafisica. Novello Pigmalione desideroso di fare della Bassi la sua Galatea, egli completò il suo esperimento componendo un’orazione in ono-re delle donne studiose di filosofia, De philosophicorum studiorum utilitate in mulieribus desiderabilium, che purtroppo è andata perduta. Anni dopo, quando aveva da tempo perduto ogni confidenza con la sua celebre alun-na, Tacconi ricorderà al Senato di Bologna di aver reso un servizio alla cit-tà scoprendo e coltivando il talento della giovane Bassi, che in adolescenza era stata da lui formata e “addottrinata p[er] lo spazio di sette e più anni”15.

Altri furono più colpiti dall’alunna che dal “suo Maestro”16. Per quan-to non si astenesse dal dispensare mordaci commenti su quanto Bassi aves-se potuto apprendere da Tacconi, che non era certo una mente originale,

14. L. Stegani, a cura di, Rime in lode della Signora Laura Bassi, Bologna, 1732, dedi-ca “Alla dotta, ed erudita giovane Signora Laura Maria Cattarina Bassi”, pp. 1-3.

15. Archivio di Stato, Bologna (d’ora in poi ASB), Assunteria di Studio, Requisiti dei Lettori, vol. 27, n. 3 (Gaetano Tacconi, 26 novembre 1743). Sull’istruzione di Bassi da par-te di Tacconi, vedi M. Medici, Elogio di Gaetano Tacconi (1849), pp. 213-214. Il periodo di formazione di Bassi è ben discusso anche in B. Ceranski, Und sie fürchtet sich vor nieman-dem”: Die Physikerin Laura Bassi (1711-1778), Campus Verlag, Frankfurt, 1996, pp. 21-78.

16. Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, Bologna (d’ora in poi BCAB), B, 163, lett. 213 (Giampietro Zanotti a Eustachio Manfredi, Bologna, 9 luglio 1732), lett. 223 (19 no-vembre 1732), con citazione dalla seconda lettera. Vedi anche Biblioteca Gambalunga, Ri-mini (d’ora in poi BGR, Lettere autografe (Bianchi a Leprotti, Rimini, 9 febbraio 1733).

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la stragrande maggioranza della comunità accademica bolognese cionono-stante avvertiva che ella meritava un certo grado di riconoscimento per i suoi risultati. Il problema diventò se la città avrebbe finalmente superato la sua riluttanza a reinventare l’idea della donna professore. “Povera Ragazza ma più povero Paese se non dà alcun premio a questa fanciulla dotta e ra-ra!” esclamò, nell’agosto 1732, Giampietro Zanotti. “Staremo a vedere”17. Nei mesi successivi, si formò l’opinione condivisa che la sua bravura fos-se almeno pari a quella di molti professori. Questo, in breve, divenne il punto cruciale della questione. Se la giovane Bassi dimostrava competen-za “per le medesime cose nella medesima maniera”, perché le doveva es-sere rifiutata una cattedra?18 Simili commenti rivelano un mutamento d’at-titudine quanto alle circostanze in cui le donne possono essere considerate degne di un riconoscimento per i loro meriti intellettuali, mutamento che portò la città a ritenere che fosse infine tempo di riconoscere il valore del-le donne dotte.

Un ideale di parità emerse nel contesto di grande eccezionalità che giu-stificò il successivo passaggio di Bassi da laureata a professore. Una simi-le decisione non fu tesa a stabilire un precedente che potesse incoraggiare altre donne a seguire le sue orme. All’epoca, fatta eccezione per l’aristo-cratica Laura Bentivoglio Davia, che inizialmente percepì la cultura della Bassi come una minaccia al suo personale prestigio di donna intellettuale più colta della città,19 i bolognesi non prendevano nemmeno in considera-zione l’ipotesi che altre potessero aspirare a emulare la loro (recentemen-te consacrata) donna professore. Nella città vi era un certo numero di altre donne colte, ma a nessuna di esse era stato offerto un simile riconoscimen-to, per quanto fossero state invitate, ovvero in pratica obbligate, a festeg-giare quanto Bologna aveva fatto per Bassi. È ugualmente improbabile che quest’ultima si considerasse in alcun senso un modello. La sua posizione trasformò un mitico passato medievale, avvolto nella leggenda e pervaso d’ambiguità, in una concreta e accertabile realtà della prima età moderna. I bolognesi destinarono parte del loro bilancio cittadino, alquanto limitato anche nei tempi migliori, a far posto a un nuovo docente, per il fatto che si trattava di una donna. Laura Bassi riscattò il fallimento della laurea di Del-fini Dosi, rinnovò la tradizione, iniziata, stando alla leggenda, con Gozza-dini, di donne eccezionali docenti nell’Università di Bologna, e offrì alla propria città natale un grandioso rituale pubblico incentrato sul sapere fem-

17. BCAB, B, 163, lett. 219 (30 agosto 1732). 18. BGR, Lettere autografe (Bianchi a Leprotti, Rimini, 9 febbraio 1733). 19. P. Findlen, “Women on the Verge of Science: Aristocratic Women and Knowled-

ge in Early Eighteenth-Century Italy”, in S. Knott, B. Taylor, eds., Women, Gender and Enlightenment, Palgrave Macmillan, New York, 2005, pp. 265-287.

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minile, che superava perfino la laurea in filosofia di Elena Cornaro Pisco-pia nel 1678. Bassi era profondamente consapevole di questo fatto.

Il ruolo ben documentato e altamente pubblico di Bassi indica fuori di ogni dubbio come avesse stabilito un nuovo precedente, che accreditava e al contempo trasformava le precedenti tradizioni. Il 29 ottobre 1732 fu no-minata lettrice di ‘filosofia universale’ nello Studio con uno stipendio di 500 lire20. Quell’autunno, mentre Bassi si preparava “per la prima lezio-ne a l’apertura de’ studii”21, tutti a Bologna erano consapevoli di stare per assistere a un evento storico. Il 18 dicembre 1732 Bassi tenne la sua prima lezione pubblica. Che io sappia, si tratta della prima donna professore di qualunque materia e di qualunque università la cui attività risulta accerta-bile tramite documenti di natura istituzionale prima del diciannovesimo se-colo. Tra il 1732 e il 1778 Bassi ricoprì tre cattedre in tre diverse istituzioni della città di Bologna: l’Università (1732-78), il Collegio Montalto (1766-78) e l’Istituto delle Scienze (1776-78)22. In una prima fase leggeva ex cattedra in latino rivolgendosi a un’ampia udienza pubblica in occasione di impor-tanti eventi cerimoniali del calendario accademico e s’impegnava nei di-battiti di rito su vari argomenti nell’ambito dell’annuale Anatomia pubbli-ca che si teneva durante il Carnevale nel teatro anatomico. A casa propria, invece, insegnava fisica sperimentale e filosofia naturale a studenti e visi-tatori – in italiano e, all’occasione, in francese, per raggiungere un pubbli-co più cosmopolita23. Donna pienamente immersa nella cultura istituziona-

20. ASB, Senato, Partiti, n. 35 (1731-37), f. 50r (29 ottobre 1732); BCAB, Fondo Bassi-Veratti, 5.3, p. 105; Avvisi di Bologna, n. 45 (4 novembre 1732).

21. BUB, ms. 225, Antonio Barilli, Giornale, vol. 6, f. 73v (9 settembre 1732). 22. Il resoconto più esaustivo della vita e delle opere di Bassi rimane Ceranski, “Und

sie fürchtet sich vor niemandem”. Per una più completa disamina della sua carriera di in-segnante, vedi Findlen, “Science as a Career in Enlightenment Italy: The Strategies of Laura Bassi (1711-78)”, Isis 84 (1993): 441-469; G. Berti Logan, “The Desire to Contri-bute: An Eighteenth-Century Italian Woman of Science”, American Historical Review 99 (1994): 785-812; Cavazza, “Dottrici e lettrici”; idem, “Laura Bassi, ‘maestra’ di Spallan-zani”; Findlen, “Tra uomini: Laura Bassi all’Istituto delle Scienze di Bologna (1732-78)” e Cavazza, “Il laboratorio di casa Bassi Veratti”, in L. Cifarelli e R. Simili, a cura di, Lau-ra Bassi. Emblema e primato nella scienza del Settecento, Editrice Compositori, Bologna, 2012, pp. 71-88, 103-119. Il ruolo di Bassi nel Collegio Montalto è stato assai meno discus-so delle sue attività nell’università e nell’accademia, ma vedi G. Cagni, “Il Pontificio Col-legio ‘Montalto’ in Bologna (1585-1797)”, Studi Barnabiti 5 (1988): 1-194.

23. Per una lista completa degli interventi di Bassi in occasione dell’anatomia pubbli-ca che si teneva ogni inverno durante il Carnevale, prima della Quaresima, vedi ASB, As-sunteria di Studio. Diversorum 91, n. 2 (9); il più ampio contesto è discusso in G. Ferrari, “Public Anatomy Lessons and the Carnival: The Anatomy Theater of Bologna”, Past and Present 117 (1987): 50-106; sulla partecipazione di Bassi, vedi anche Cavazza, “Aspetti dell’insegnamento dell’anatomia a Bologna tra Seicento e Settecento”, in Anatome. Sezio-ne, scomposizione, raffigurazione del corpo nell’età moderna, a cura di G. Olmi, C. Pan-cino, Bononia University Press, Bologna, 2012, pp. 59-75. Sul laboratorio di famiglia, vedi

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le del diciottesimo secolo, Bassi fu il prodotto di una fase inconsueta della città che si gloriava di ospitare l’università più antica del mondo.

Nel diciottesimo secolo Bologna era una città di medie dimensioni piut-tosto fiorente che, con i suoi sessantamila abitanti, rappresentava il secondo centro dello Stato Pontificio. Il ritorno di Prospero Lambertini come arci-vescovo di Bologna nel 1731 giocò un ruolo cruciale nella nomina a pro-fessore di Laura Bassi. Lambertini aveva una grande ammirazione per il talento ed era un uomo desideroso di sperimentare nuovi modi di raggiun-gere gli scopi che si era prefisso. Amava profondamente Bologna e sognava di riportarla alla sua antica gloria24. L’idea di una donna professore diven-ne parte del suo piano. Dopo aver messo alla prova le capacità di Bassi in discussioni private, Lambertini orchestrò abilmente gli eventi che portaro-no a concederle la laurea, rendendo ampiamente noto come egli non voles-se assistere a un ripetersi del fiasco della giovane Delfini Dosi25. Ben presto in città tutti parlavano del desiderio dell’arcivescovo di far diventare la gio-vane Bassi una “pubblica Maestra, ò sia Lettrice”26.

Nemmeno l’appoggio dell’arcivescovo bastò a dissuadere gli scettici dal contestare un simile progetto. Molti lamentavano che Bassi venisse preferi-ta a “tanti giovani Dottori che anno addomandata la lettura anzi quelli che sono stati anni che insegnano gratis”27. Osservavano come ella non aves-se ancora venticinque anni, l’età minima richiesta per la nomina a letto-re. Non era nemmeno abbastanza anziana da richiedere la licenza per ac-cedere ai libri proibiti, cioè messi all’Indice, circostanza che limitava le opere che poteva leggere e sulle quali poteva, di conseguenza, insegnare. Tali osservazioni non erano del tutto infondate. Per mettere a tacere le cri-tiche che colpivano Bassi come persona che “inutilmente gode et usurpa un emolumento che è stato assegnato da Pontefici a’ Maestri”, Lambertini esortò il Senato bolognese ad assegnarle la posizione di “Lettrice Onora-

Cavazza, “Laura Bassi e il suo gabinetto di fisica sperimentale: realtà e mito”, Nuncius 10 (1995): 715-753; idem, “Laura Bassi and Giuseppe Veratti: An Electric Couple during the Enlightenment”, Contributions to Science 5 (2009): 115-128; idem, “Il laboratorio di casa Bassi Veratti”, pp. 103-119.

24. Su Lambertini come arcivescovo di Bologna, vedi M. Fanti, “Il ‘pastorale governo’ del cardinale Lambertini”, Strenna storica bolognese 9 (1959): 61-119, e i vari saggi in Be-nedetto XIV (Prospero Lambertini), Centro Studi Girolamo Baruffaldi, Cento, 1982, 2 voll., in particolare Fanti, “Prospero Lambertini arcivescovo di Bologna (1731-40)”, pp. 165-233.

25. ASB, Assunteria di Studio. Collegi di Medicina e d’Arti. Libri segreti di filosofia (1712-80), ff. 37r, 38r-v.

26. BCAB, Bassi-Veratti 6.1.4, c. 6r.27. BCAB, B 517, G.G. Amadei, Libro delle cose che vanno accadendo in Bologna,

1732-41, cc. 4v-5r. Per un’ulteriore discussione delle critiche rivolte in particolare a Bassi dall’aristocratica bella cartesiana Laura Bentivoglio Davia, vedi Findlen, “Women on the Verge of Science”.

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ria”, istituendo un settantatreesimo posto di docenza oltre alle settantadue cattedre di norma previste28. In questo modo poté chiaramente dimostrare che la decisione di nominare professore una donna non aveva comportato l’usurpazione di alcun incarico regolare.

Molto più serie, tuttavia, erano le perplessità sull’appropriatezza, per una Femina onesta, di insegnare a studenti maschi29. Il fatto che Bassi, per dir-la con le parole di uno dei suoi primi biografi, fosse “costretta à dare qua-si un continuo Spettacolo di se stessa alla Città”, la rendeva moralmente ambigua30. Si sussurrava che il cardinale Davia l’avesse paragonata a Ipa-zia, l’antica donna filosofa, matematica e docente di Alessandria lapida-ta a morte dai cristiani31. I sostenitori di Bassi si rassicuravano ripetendosi che il cardinale non avrebbe scagliato di persona la prima pietra, ma si-mili insinuazioni fungevano da monito nel ricordare come la decisione di Lambertini non fosse certo incontrastata. Per tutti questi motivi, il Sena-to delimitò con cura gli obblighi di insegnamento di Bassi, ratione sexus. Avrebbe insegnato solo quando le fosse stato esplicitamente richiesto, in primo luogo per importanti eventi pubblici: “non doversi portare a leggere su le pubbliche scuole se non quando fosse comandata, dall’e[ccellentissi]mo legato o dall’ill[ustrissi]mo sig[no]r confaloniere”32. La natura altamente cerimoniale del suo ruolo accademico fu così definita sull’onda della pre-occupazione che ella potesse travalicare i confini della convenienza. Lo stipendio che Bassi percepiva rese ufficiale la sua posizione – un incarico accademico certificato a riconoscimento della sua preparazione –, ma le re-strizioni poste alla sua attività non le consentivano di esercitare liberamen-te il suo diritto a insegnare.

Poco prima della sua lezione inaugurale come professore universitario, la famiglia di Bassi diffuse inviti per “la prima di lei lezione sulle pubbli-che scuole”33. Quando, il 18 dicembre 1732, Bassi ascese alla cattedra non desiderava più parlare di se stessa, dal momento che ogni dettaglio del-la sua vita e dei suoi studi era stato pubblicamente sezionato nel corso dei

28. BGR, Lettere autografe di Giovanni Bianchi a Monsignor Antonio Leprotti (1733-45), f. 21r (Rimini, 2 aprile 1733).

29. BCAB, Fondo Mondini, cartone 2, n. 19. L’espressione “Femina onesta” ricorre in questa relazione delle critiche rivolte da Bentivoglio Davia alla proposta di fare di Bassi una laureata e una docente universitaria, ruolo che non si addiceva a una donna colta e ri-spettabile.

30. BCAB, Bassi-Veratti, 6.1.1 (Eustachio Manfredi, Bologna, 5 febbraio 1737).31. BGR, Lettere autografe, f. 16r (Bianchi to Leprotti, Rimini, 12 marzo 1733). 32. ASB, Vacchettoni del Senato (1731-32), f. 203r (25 agosto 1732). L’espressione ra-

tione sexus si ritrova in molti documenti ufficiali, es. ASB, Senato, Partiti, n. 35 (1731-37), f. 50r (29 ottobre 1732). Vedi anche BCAB, Bassi-Veratti, 6.1.1, c. 2v.

33. BCAB, Gozz. 337, c. 91. Questo documento è la stampa di una trascrizione della le-zione inaugurale tenuta da Bassi nel dicembre 1732.

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mesi precedenti. Ringraziando il Senato (e, ovviamente, il cardinale Lam-bertini) per averle concesso l’“altissima dignità di parlare in pubblico”, pre-se piuttosto a trattare di che cosa desiderava trasmettere ai suoi ascoltatori “all’inizio stesso del mio insegnamento”34. Bassi scelse saggiamente di di-scutere la necessità di moderazione e modestia nello studio della filosofia. Fornendo una definizione empiristica della conoscenza come ciò che è ap-preso in seguito all’esperienza – segno di come non fosse affatto cartesia-na, ma già lettrice di Locke e Newton – mise in guardia dalle tentazioni dell’arroganza e della vanità umane, portate a trarre conclusioni oltre i li-miti delle proprie capacità. Mentre discuteva in termini generali della co-noscenza, Bassi stava naturalmente anche parlando di se stessa, una Femi-na onesta che era anche filosofa e docente.

Che cosa pensava la gente degli albori della carriera della maestra Bassi? Di certo, stabilì un ascoltatore ben disposto nel febbraio 1733, non era “il miglior Filosofo dell’età nostra, come alcuni che non se n’inten-dono vanno dicendo. Ma io dico che essa può stare al pari di quegli altri lettori di Filosofia, che colà con il maggior applauso e frequenza leggo-no”. Il medico Giovanni Bianchi, che era giunto fin da Rimini per ascol-tare le sue lezioni, era dell’opinione che Bassi meritasse la sua posizione per la stessa ragione per cui altri avevano ottenuto dall’università lo stes-so riconoscimento. A suo parere, non aveva bisogno di essere migliore dei suoi colleghi maschi, ma solamente altrettanto brava. Bianchi ritene-va che Bassi avesse senza dubbio dimostrato di rispondere a questi requi-siti e si augurava d’altronde che potesse ottenere risultati ancora migliori, se maggiormente sostenuta e incoraggiata. “Ella un giorno giunga a meri-tarsi una vera lode assoluta, che ora non ha che relativa”, concluse35. Que-sti commenti lasciano intravedere la persona che Bassi sarebbe diventata: non solamente una giovane donna bene educata ed eloquente che non te-meva di parlare in pubblico, ma un’insegnante autenticamente colta e ca-pace di ispirare passione. Nel frattempo, tuttavia, la sua azione risulta-va fortemente limitata dalle restrizioni imposte al suo ruolo accademico. Il 15 giugno 1733 partecipò alla discussione in cui lo studente Giuseppe Azzoguidi difese le proprie conclusioni filosofiche, ma generalmente non le fu richiesto di esaminare altri laureandi o di impartire un insegnamen-to regolare36.

34. L. Bassi, Oratio (18 dicembre 1732), in L.C. Cavazzuti, Nuovi testi sull’attività scientifica e filosofica di Laura Bassi, tesi di laurea, Università di Bologna, a.a. 1964-65, p. 75; Antonio Garelli, “Biografia”, in G. Cenerelli, a cura di, Lettere inedite alla celebre Laura Bassi, scritte da illustri italiani e stranieri, con biografia, Tipografia di G. Cenerel-li, Bologna, 1885, pp. 20-21.

35. BGR, Lettere autografe, f. 13r (Rimini, 9 febbraio 1733). 36. BCAB, B. 1330, p. 438 (15 giugno 1733).

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Negli anni trenta del diciottesimo secolo, dopo aver iniziato il suo man-dato accademico, Laura Bassi perfezionò la sua conoscenza della matema-tica e della fisica sperimentale, studiando con “bravi maestri” per diventare il tipo di insegnante che Bianchi sperava un giorno sarebbe stata, per quan-to egli l’avesse inizialmente scoraggiata dall’affrontare le materie più dif-ficili, quali greco e algebra, nelle quali, sosteneva, raggiungere un livello alto di competenza avrebbe richiesto troppo tempo37. L’istruzione imparti-ta da Tacconi era incentrata sulla dimensione qualitativa e storica della fi-losofia, con particolare riguardo all’etica aristotelica e alla filosofia natura-le cartesiana. Bassi era consapevole del fatto che, agli occhi di molti suoi contemporanei, il taglio di questa preparazione riduceva notevolmente il valore del suo bagaglio culturale. La sua formazione non era abbastanza aggiornata da permetterle di prendere parte ai dibattiti scientifici contem-poranei o di formarsi delle opinioni proprie tramite il calcolo e la speri-mentazione, come ogni bravo filosofo naturale newtoniano avrebbe dovuto fare. A rischio di incorrere nella disapprovazione di Tacconi, dopo la lau-rea Bassi cercò attivamente di ampliare il raggio della propria educazione. Come osservò acutamente un contemporaneo, testimone dello zelo paterna-listico con cui, nel novembre 1732, Tacconi cercò di difenderla in una pub-blica disputa, diede ripetutamente prova della sua capacità, “di farlo da sé e senza alcuna assistenza”38. L’alunna stava davvero superando il maestro: cosa che, tutt’altro che sorprendentemente, divenne una prevedibile fonte di tensione e incomprensione nella loro relazione.

La capacità di Bassi di prendere da sé le sue decisioni si estendeva ora anche alla scelta delle sue guide intellettuali. Invece di continuare gli stu-di con Tacconi, cercò nuovi maestri che la aiutassero a implementare le sue abilità in specifici settori di competenza scientifica, così da distinguersi dai molti professori di vecchia generazione educati in un genere di filosofia na-turale che, come fondamento del curriculum universitario, appariva sem-pre più antiquata. Rispetto a questi, l’obiettivo di Bassi era piuttosto quello di combinare la sua padronanza degli aspetti qualitativi e storici della filo-sofia naturale con la comprensione profonda dei metodi quantitativi e spe-rimentali che stavano alla base della nuova fisica di metà Settecento. Nel 1739 Bassi avrebbe orgogliosamente rammentato i suoi numerosi anni di studio post-laurea sotto la guida del matematico Gabriele Manfredi, “per meglio perfezionarsi nella sua professione”, come uno dei fattori in gra-do di giustificare la sua richiesta di un aumento. Due anni prima, lo stesso Manfredi aveva richiesto un aumento, anch’egli in parte sulla base del suo

37. BGR, Lettere autografe, f. 14r (Rimini, 9 febbraio 1733). 38. BCAB, B. 198, lett. 114 (Eustachio Manfredi a Giampietro Zanotti, Roma, 29 no-

vembre 1732).

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servizio di “Compagno di Studio nelle Materie Algebraiche della dottis-sima Sig.a Laura Bassi”39. In sostanza, chiunque avesse contribuito al for-marsi della reputazione di Bassi come la “Minerva di Bologna” sperava in qualche modo di trarre vantaggio dalla sua fama, spinto anche dai bassi stipendi universitari, stagnanti da decenni. Come ulteriore articolazione del suo poliedrico profilo di insegnante, Bassi menzionò anche la propria pa-dronanza della fisica newtoniana, che l’aveva, in particolare, abilitata a of-frire “il Corso delle sperienze del Newton intorno alla luce e ai colori”40. Con ogni probabilità, il suo principale insegnante in questa materia era sta-to il medico e chimico Jacopo Bartolomeo Beccari, per quanto pare che anche Manfredi l’avesse istruita nella fisica newtoniana41. Membro della Royal Society, Beccari non solo deteneva l’insegnamento di chimica all’U-niversità da quando, nel 1737, era stato inaugurato, ma era stato anche pro-fessore di chimica e di fisica sperimentale nell’Istituto delle Scienze, non-ché principale mentore di Giuseppe Veratti, futuro marito di Laura. Dopo la morte di Beccari nel gennaio 1766, Bassi pianse la perdita di quello che chiamava il suo “dottiss[im]o maestro”42.

Mentre proseguiva la sua formazione, Bassi tentava anche di capire fi-no a che punto il Senato di Bologna sarebbe stato disposto a conceder-le di ampliare e ridefinire l’ambito del suo insegnamento. Nell’ottobre 1733 il Senato discusse la possibilità che ella tenesse lezione “ogni Terzaria” per mostrare più spesso il suo talento in pubblico, ma non ne uscì nulla di concreto43. Bassi riuscì a diventare una regolare e ben visibile partecipan-te di uno degli eventi più attesi in città: le annuali dissezioni di Carneva-le, in cui i professori di anatomia tenevano lezione, sezionavano cadaveri e dibattevano fra loro all’interno del celebre teatro anatomico di Bologna, per un pubblico che includeva nobili, stranieri e semplici curiosi così co-me professori e studenti44. L’agire istituzionale di Bassi era tuttavia defi-

39. ASB, Assunteria di Studio. Requisiti dei Lettori, vol. 2, n. 21 (Laura Bassi, 1739), pubblicato anche in E. Melli, “Epistolario di Laura Bassi Veratti”, in Studi e inediti per il primo centenario dell’Istituto Magistrale Laura Bassi, STEB, Bologna, 1960 p. 87; ASB, Assunteria di Studio; ibid., vol. 16, n. 27 (Gabriele Manfredi, 19 dicembre 1737).

40. Ibidem.41. BCAB, Bassi-Veratti 6.1.1, c. 3r. 42. Biblioteca Apostolica Vaticana, Aut. Patetta, cart. 45 (L. Bassi a G. Beccaria, n. d.).

Questa lettera fu scritta poco dopo la morte di Beccari, avvenuta il 18 gennaio 1766. Sul-la carriera di Beccari, vedi W. Tega, a cura di, Anatomie accademiche. Vol. 2. L’enciclope-dia scientifica dell’Accademia delle Scienze di Bologna, il Mulino, Bologna, 1987, passim; M. Zini, Jacopo Bartolomeo Beccari e la prima cattedra di chimica nel contesto dell’Isti-tuto delle Scienze, Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna - Classe di Scienze Fi-siche, Bologna, 1987.

43. ASB, Assunteria di Studio. Atti (1707-34), vol. 22 (9 ottobre 1733). 44. Ferrari, “Public Anatomy Lessons and Carnival”.

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nito da forti limiti. Quando, nel settembre 1739, Charles de Brosses visi-tò la città, i due s’incontrarono. “Aussi en porte-t-elle la robe et l’hermine quand ella va faire des leçons publiques; ce qui n’arrive que rarement et à certain jours solennels seulement, parce qu’on n’a pas jugé qu’il fût decent qu’une femme montrât ainsi chaque jour, à tout venant, les choses cachées de la nature”45. Questa era, per lo meno, l’interpretazione con cui de Bros-ses commentava i limiti posti all’insegnamento della dottoressa bolognese. Laura Bassi e i suoi sostenitori non tolleravano l’idea che la laurea e la cat-tedra a lei attribuite si fossero dimostrate nient’altro che “vani titoli”. Esse-re professore solo di nome, confessò Bassi a Bianchi, era un onore che né voleva né meritava46. Nel dicembre 1739 il Senato riconsiderò la sua richie-sta di rimuovere “l’impedimento che fu interposto perché la dottoressa non leggesse sul pubblico Studio”47. Tuttavia, se fu rapidamente esaminata la possibilità di allentare alcune restrizioni, la discussione non si tradusse poi in effettiva azione.

La fondazione di una scuola

Nel febbraio 1738, il matrimonio di Laura Bassi con un professore suo collega, il medico e sperimentatore Giuseppe Veratti, inaugurò una nuo-va fase nella sua attività di docente universitaria. Oltre ad avere otto figli, cinque dei quali sopravvissuti fino all’età adulta, i coniugi Veratti costrui-rono anche un laboratorio domestico che sarebbe divenuto sede della più famosa scuola di fisica sperimentale di Bologna48. Questo non si realiz-zò facilmente o velocemente. Sembra che Veratti avesse fondato una scuo-la per conto suo già attorno al 1747, più o meno in coincidenza dell’inizio dei suoi esperimenti con l’elettricità. Bassi aprì la sua scuola di fisica spe-rimentale nel 1749. Nel febbraio dello stesso anno invitò nuovamente il Senato a considerare la sua richiesta di tenere “una lezione pub[bli]ca” co-me parte integrante dell’esercizio dei suoi doveri di professore universita-

45. Charles de Brosses, Lettres familières écrites d’Italie, éd. par F. d’Agay, Mercure de France, Paris, 1986, vol. 1, p. 268 (15 settembre 1739).

46. BGR, Lettere autografe, f. 15r (Bianchi a Leprotti, Rimini, 12 marzo 1733): “Se queste non sono cose per Lei che di puro nome e senza alcun Profitto?”.

47. ASB, Assunteria di Studio. Atti (1735-43), vol. 23 (5 dicembre 1739); vedi anche la successiva discussione dell’11 dicembre.

48. Sull’insegnamento di Bassi come una collaborazione accademica con suo marito, e insieme un’impresa economica familiare, vedi Ceranski, Und sie fürchtet sich vor nieman-dem, in part. pp. 89-100, 162-175; Cavazza, “Laura Bassi and Giuseppe Veratti”; idem, “Il laboratorio di casa Bassi-Veratti”.

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rio; i senatori non accettarono la proposta, ma la sua scuola di fisica speri-mentale continuò a fiorire49.

Nel corso dei ventotto anni successivi Bassi insegnò giornalmente que-sta materia per otto mesi l’anno, provvedendo col marito a dotare la lo-ro casa dei migliori strumenti necessari per l’insegnamento della moder-na fisica sperimentale. La scuola fioriva. “So che codesta scuola di Fisica è numerosa”, osservò Leopoldo Marc’Antonio Caldani che, quando nel 1766 scrisse questa lettera, era ormai professore all’Università di Pado-va50. Nel periodo trascorso all’Università di Bologna, Caldani era sta-to uno dei giovani docenti che ammiravano il metodo d’insegnamento di Bassi, che introduceva gli studenti prima alla teoria e quindi alla prati-ca della fisica. Mentre il curriculum universitario tradizionale si basava su un approccio storico e filosofico alla fisica, che introduceva gli udito-ri a un insieme di nozioni che cominciavano con Aristotele e non arriva-vano esattamente al presente, Bassi era una sostenitrice convinta dell’im-portanza della filosofia matematica newtoniana e sperimentale. I titolari dell’omologa cattedra di fisica sperimentale all’Istituto delle Scienze era-no assai meno competenti di lei in entrambi i settori, dal momento che tra il 1734 e il 1770 questa posizione fu occupata da medici, assistiti da più giovani colleghi, sempre medici. Ogni giovedì essi si dedicavano per due ore a pubbliche dimostrazioni di esperimenti, viste più come eccezio-nali esibizioni che come parte integrante di un più ampio curriculum, co-me accadeva invece a casa Bassi, dove le lezioni giornaliere – “otto mesi di lezioni quotidiane accompagnate da sperimenti” – offrivano ampia op-portunità di ripetere, analizzare e criticare specifici esperimenti e di col-legare questo ramo della fisica alle sue componenti più teoriche51. I mag-giori professori di fisica sperimentale, in Italia e all’estero, avevano tutti i buoni motivi per considerarla un’importante collega, socia docente e at-tenta sperimentatrice.

49. ASB, Assunteria di Studio. Atti (1749-53), vol. 24 (7 febbraio 1749). Sui tentativi fallimentari per permettere a Bassi di insegnare pubblicamente negli anni quaranta del di-ciottesimo secolo, vedi G. Berti Logan, Italian Women of Science from the Renaissance to the Nineteenth Century, Ph.D. diss., University of Ottawa, 1999, p. 526.

50. BCAB, Coll. Aut. XII, 3668 (Caldani to Veratti, Padova, 7 febbraio 1766). 51. Melli, “Epistolario”, p. 149 (Bassi a Scarselli, Bologna, 14 giugno 1755); Berti Lo-

gan, Italian Women of Science, p. 527. La migliore rassegna dell’insegnamento della fisica sperimentale nell’Istituto delle Scienze è M. Cavazza, “L’insegnamento delle scienze spe-rimentali nell’Istituto delle scienze di Bologna/The Teaching of the Experimental Scien-ces at the Institute of the Sciences in Bologna”, in G. Pancaldi, a cura di, Le università e le scienze. Prospettive storiche e attuali/Universities and the Sciences. Historical and Con-temporary Perspectives, CIS, Università di Bologna, Bologna, 1993, pp. 155-179; e idem, “Fisica generale e fisica sperimentale nelle istituzioni scientifiche emiliane del Settecento”, Studi settecenteschi, 18 (1998), pp. 321-342.

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Nel 1750 Bassi informò il Senato di Bologna che, in seguito alla mor-te dei professori più anziani, il suo insegnamento della fisica era diventa-to più che mai importante. Inoltre prese a citare sempre più frequentemente il successo della sua scuola privata e le spese per equipaggiare il suo labo-ratorio domestico come ragioni per un aumento52. Il Senato non sottovalu-tava quanto stava facendo, ma la sua capacità di compensare come merita-vano i membri più apprezzati della facoltà era alquanto limitata; a Bologna gli stipendi universitari languivano ben sotto il livello delle paghe offerte in stati più prosperi quali la Toscana e la Lombardia53. L’arcivescovo Lam-bertini era ora papa Benedetto XIV (1740-58) e si trovava nella posizione di fare più ampi investimenti per trasformare Bologna in una città di scien-za. Ancora una volta, Bassi divenne parte di un piano più esteso – un fatto che utilizzò a proprio vantaggio nel richiedere ulteriori risorse e maggiore riconoscimento. “E pure la Fisica Sperimentale è divenuta a’ giorni nostri una scienza cotanto utile e necessaria – ricordò a uno dei suoi maggiori so-stenitori nel luglio 1755 – e noi che siamo stati i primi in Italia a riceverla e coltivarla allorché si aprì l”Instituto, ora dobbiamo vedere con nostro ros-sore ed anche con discapito della nostra Università che nell’altre tutte più che qui s’insegni con metodo e con quella estensione che si ricerca al pro-fitto della gioventù, dandone interi corsi annui in più luoghi”54.

Bassi lamentava giustamente il declino dell’insegnamento della fisica nell’università e nell’Istituto, additando, a contrasto con lo stato della materia nel curriculum ufficiale, il successo della sua scuola domestica. Al contem-po, Bassi comprendeva molto bene come questo fatto le offrisse l’opportuni-tà di ritagliarsi un suo spazio all’interno di una disciplina che contava molto. Il suo sistematico investimento sull’insegnamento della fisica diede numerosi frutti: un aumento di stipendio (all’esplicita condizione che portasse avanti la scuola domestica55), un crescente numero di studenti a testimoniare il suo ta-lento di docente di fisica, e infine due cattedre di fisica sperimentale, prima, nel 1766, al Collegio Montalto, riservato a giovani provenienti dalle Marche avviati alla carriera ecclesiastica ai quali era richiesto di prendere una laurea in filosofia, e quindi, nel 1776, all’Istituto delle Scienze56.

52. ASB, Assunteria di Studio. Atti (1749-53), vol. 24 (10 aprile 1750); Assunteria di Studio. Requisiti dei lettori, vol. 2, n. 21 (Laura Bassi, 1750). Il secondo documento è pub-blicato anche in Melli, “Epistolario”, p. 144.

53. Berti Logan, Italian Women of Science, pp. 527-528. 54. Melli, “Epistolario”, p. 151 (Bassi a Scarselli, Bologna, 16 luglio 1755).55. Veratti continuò a definire il corso come “una Scuola domestica”, osservando di

averlo lui stesso portato avanti anche dopo la morte della moglie nel 1778; ASB, Assunte-ria di Studio. Requisiti dei lettori, vol. 28, n. 24 (Giuseppe Veratti, 1780).

56. Sulla storia del Collegio Montalto, vedi Ch. Carlsmith, “Mens sana in corpore sa-no: Health in the Montalto College of Bologna”, Annali di storia delle università italiane 13 (2009): 306-316.

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La reputazione acquisita da Bassi come eccellente insegnante di fisi-ca sperimentale fu ulteriormente accresciuta dalle Lettres sur l’electricité di Jean-Antoine Nollet. La prima edizione di questo libro di successo ap-parve nel 1753, solo pochi anni dopo la celebre visita dell’autore a Bologna, nel 1749. Il principale intento delle lettere aveva a che fare con i clamoro-si dissapori tra Nollet e Benjamin Franklin quanto alla natura dell’elettri-cità57. Nell’edizione del 1767, tuttavia, se da un lato Nollet attaccava anco-ra Franklin e i suoi seguaci per il loro sostegno a una teoria della carica elettrica da lui avversata, dall’altro lodava la frankliniana Bassi come in-segnante di fisica sperimentale. Nollet aggiunse una lettera indirizzata a quest’ultima e riguardante “quelques curiosités philosophiques, dont vous pourrez faire part aux Auditeurs qui fréquentent votre Ecole de Physique expérimentale”. In questo scritto Nollet esprimeva apertamente la propria ammirazione per la sua bravura nell’istruire gli “amateurs de la Physique” e condivideva con la collega di Bologna alcuni degli aspetti più divertenti delle proprie dimostrazioni58. Nessun altro professore di fisica sperimentale ricevette da lui una simile dimostrazione pubblica di stima.

In seguito, un altro eminente membro dell’Académie Royale des Sciences, l’astronomo Jérôme de Lalande, che visitò Bologna nel 1765-66, rilevò la persistente importanza dell’accademia domestica di Bassi: “ac-tuellement encore Madame Laura Bassi depuis 1733, y remplit avec dis-tinction une place de Professeur; cette sçavante fait chez elle des cours de Physique expérimentale, & j’ai eu le plaisir d’assister à ses experiences”59. Egli fu uno dei tanti visitatori testimoni della versatilità con cui Bas-si discuteva un’ampia gamma di argomenti, cominciando da esperimen-ti basilari riguardanti la natura della luce emessa dal famoso fosforo co-munemente chiamato “pietra di Bologna”, e dalla replica dei famosi esperimenti newtoniani col prisma per arrivare a più sofisticate dimostra-

57. Su come lo studio dell’elettricità divenne una delle più importanti scienze del seco-lo, vedi J.L. Heilbron, Electricity in the 17th and 18th Centuries: A Study of Early Modern Physics, University of California Press, Berkeley, 1979 (trad. it. Alle origini della fisica moderna. Il caso dell’elettricità, il Mulino, Bologna, 1984).

58. J.A. Nollet, Lettres sur l’eléctricité, Paris, 1767, Part III, pp. 274-295, in part. pp. 274-275. Sul primo incontro di Nollet con Bassi e la sua stima per lei come collega, vedi P. Bertucci, Viaggio nel paese delle meraviglie. Scienza e curiosità nell’Italia del Settecen-to, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, in part. pp. 148, 164-166, 204-211; Nollet, Journal du voyage du Piémont et d’Italie en 1749, (Bibliothèque Municipale, Soisson, MS 150), ff. 110 (10 agosto 1749), 111A (11 agosto 1749), 116-117A (16 agosto 1749). Sulla pedagogia di Nollet, vedi L. Pyenson e J.-F. Gauvin, eds., The Art of Teaching Physics: The Eighteenth Century Demonstration Apparatus of Jean Antoine Nollet, Septentrion, Sillery, Québec, 2002).

59. J. de Lalande, Voyage d’un françois en Italie: fait dans les années 1765 et 1766 (Venezia, 1769), vol. 2, p. 117.

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zioni delle proprietà dell’elettricità, realizzate utilizzando le macchine ac-quistate da lei e dal marito60.

Nel 1757 José Ortega comunicò a Bassi da Madrid che stava per manda-re suo nipote Casimiro Gómez Ortega a studiare fisica, medicina e storia naturale a Bologna. “[C]on questo intenderà V. S. Ill.ma il mio giusto mo-tivo di raccomandarlo alla saggia direzzione di V. S. Ill.ma e mi permette-rà pregarla di volerlo acogliere con quella benevolenza d’un suo Discepo-lo, che desira profittare di suoi lumi, e della di Lei dottrina per rendersi un meritevole professore, e degno della Scola Bolognese”. Ortega le domanda-va in particolare di “prender cura di questo Giovene”, dicendosi sicuro che suo nipote sarebbe stato in buone mani61. Il giovane Gómez Ortega diven-terà nel 1771 il primo direttore del Giardino Botanico Reale di Madrid e nel 1777 sarà eletto membro della Royal Society62. Tra i numerosi studen-ti che trassero giovamento dalla tutela di Laura Bassi, si annoverano an-che i suoi figli. Nel 1797 il più giovane, Paolo Veratti, fece presente al Se-nato di Bologna come egli fosse ben qualificato per una cattedra perché “ha studiata tutta la Filosofia sotto alla di lui Madre”. Il collegio dei dotto-ri di filosofia confermò che Paolo era “molto esercitato nella pratica delle sperienze Fisiche, servendo alla Scuola di Fisica Sperimentale, che teneva quasi tutto l’anno in propria Casa la di lei Madre preparando l’esperienze, ed eseguendole”63. Non aveva solamente imparato da sua madre, ma l’aveva attivamente assistita. Il fatto che avesse imparato anche da suo padre appa-riva assai meno interessante e degno di nota.

Nella corrispondenza di Bassi troviamo traccia di padri, zii e altre figure maschili che dimostrano di ritenere con sicurezza che la filosofessa di Bo-

60. Per una discussione approfondita sui vari generi di dimostrazione che la Bassi offri-va ai visitatori, vedi J. Morgan, The Journal of Dr. John Morgan of Philadelphia from Ro-me to London 1764, J.B. Lippincott, Philadelphia, 1907, pp. 98-99 (20 luglio 1764). Vedi anche Ch. Burney, An Eighteenth-Century Musical Tour in France and Italy, Oxford Uni-versity Press, Oxford, 1959, pp. 159-160

61. BCAB, B. 2024, f. 63 (José Ortega a Laura Bassi, Madrid, 22 ottobre 1757). 62. Gómez Ortega studiò a Bologna tra il 1758 e il 1762, conseguendo una laurea in

medicina prima di tornare a Madrid, dove lavorò in campo farmacologico prima di accet-tare la cattedra che accompagnò l’apertura del Giardino Botanico Reale. Egli era cono-sciuto anche per le sue traduzioni di opere di Linneo e contribuì a organizzare e finanzia-re spedizioni botaniche in Perù, Cile, Nuova Spagna e nelle Filippine. Vedi D. Bleichmar, Visible Empire: Botanical Expeditions and Visual Culture in the Hispanic Enlightenment, University of Chicago Press, Chicago, 2012. Sul periodo bolognese, vedi M. Cavazza, “From Tournefort to Linnaeus: The Slow Conversion of the Institute of Sciences of Bolo-gna”, in M. Beretta e A. Tosi, eds., Linnaeus in Italy: The Spread of a Revolution in Scien-ce, Science History Publications/USA, Sagamore Beach, 2007, pp. 233-252.

63. BCAB, Bassi-Veratti, 9.10.2/2 (= Fondo Paolo Veratti, Cart. III, n. 99) (Requisiti dei lettori, 23 maggio 1797) e 9.10.2/3 (= Cart. III, n. 108) (certificato di Sebastiano Can-terzani, 25 aprile 1789).

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logna fosse un’eccezionale educatrice di giovani uomini. Nel 1774, da Fer-rara, Giuseppe Testa affidò alla scuola di Bassi il figlio di diciotto anni, Antonio: “Ascriverò tra i più fortunati incontri, che possa avere mio Figlio, se V.S. Ill.ma vorrà degnarsi… d’averlo nel numero de’ suoi Uditori…”64 Giuseppe Antonio Testa divenne in seguito un rinomato professore di me-dicina clinica all’Università di Ferrara65. Un anno dopo il dottor Pio Fanto-ni, un vecchio amico di Bassi, le scrisse per presentarle il figlio di un suo amico romano, il quale aveva intenzione di studiare a Bologna. “A chi dun-que rispetto al primo deesi meglio diriggere che a V.S. Ill.ma così illustre in quella parte, e tanto superiore ad ogni altro?” Egli si augurava che Bas-si avrebbe accettato il giovane studente romano “per suo discepolo” in fisi-ca sperimentale66.

Se le fonti non ci permettono di stabilire il numero totale di studenti ai quali Bassi insegnò, né la lista completa dei loro nomi, l’impressione che si ricava dalla documentazione superstite è nondimeno straordinaria. I bio-grafi contemporanei menzionano in particolare studenti greci, tedeschi e polacchi che partecipavano alle sue lezioni e dei quali tuttavia non ci re-stano lettere, a differenza degli alunni veneti napoletani e spagnoli e degli studenti più giovani che, provenienti dalle Marche, soggiornavano nel Col-legio Montalto e frequentavano le sue lezioni di fisica di carattere più gene-rale e introduttivo67. Ho trovato un certificato di frequenza di uno dei suoi studenti, risalente al gennaio 1768, in cui la Bassi dichiarava in latino che Agostino Fantini aveva studiato con lei fisica sperimentale per un anno68. L’anno successivo la giornalista veneziana Elisabetta Caminer Turra scris-se uno speciale elogio in cui lodava la Bassi per avere “fra’ suoi discepo-li molti de’ più rinominati Professori usciti della sua Scuola per ispargersi nelle Accademia più illustri d’Italia”69.

64. Cenerelli, a cura di, Lettere inedite, p. 147 (Testa a Bassi, 21 gennaio 1774). 65. G. Tommasini, Elogio del celebre professore di medicina Antonio Testa Ferrare-

se, Pesaro, 1825; F. Raspadori, “Antonio Giuseppe Testa: dal commento degli Aforismi di Ippocrate alla cardiologia”, Atti dell’Accademia delle Scienze di Ferrara 62-63 (1984-86): 61-69; Marco Bresadola, “‘O che Parigi’: Lettere di viaggio di un medico ferrarese del Set-tecento”, I Castelli di Yale 5, 2002, pp. 141-149. Testa si laureò all’Università di Ferrara nel 1777, lì insegnando e dirigendo l’ospedale militare prima di tornare a Bologna come pro-fessore di clinica medica nel 1802. Nel 1803-04 ricoprirà il ruolo di Rettore nell’Università di Bologna; vedi François Gasnault, La cattedra, l’altare, la nazione: carriere universita-rie nell’ateneo di Bologna 1803-1859, Clueb, Bologna, 2001.

66. BCAB, B. 2024, f. 53 (Fantoni a Bassi, Rome, 22 ottobre 1775). 67. Giovanni Fantuzzi, Elogio della dottoressa Laura Maria Caterina Bassi Veratti

Stamperia di S. Tommaso d’Aquino, i, Bologna, 1778, p. 21, nota 11. 68. Biblioteca Comunale, Forlì, Autografi Piancastelli (Laura Bassi, certificato per

Agostino Fantini, gennaio 1768). 69. E. Caminer Turra, “Dictionnaire Historique ecc. Dizionario Storico portatile delle

Donne celebri”, Europa Letteraria, tomo 2, parte I (novembre 1769), p. 90.

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Molto più convincenti dei numeri sono, credo, le testimonianze dei sin-goli studenti che, preparati dalla Bassi, ebbero poi carriere brillanti. Dob-biamo naturalmente cominciare da suo cugino Lazzaro Spallanzani, il cui rapporto con Bassi è stato eccellentemente discusso da Marta Cavaz-za in un suo importante articolo70. Spallanzani fu uno dei primi studen-ti di Bassi, poiché l’inizio dei suoi studi coincise con l’inaugurazione della sua scuola, nel 1749. Diversi anni di lezioni di fisica convinsero Spallanza-ni che non sarebbe mai diventato un avvocato. Pur senza conseguire alcuna laurea, almeno all’Università di Bologna, Spallanzani iniziò negli anni suc-cessivi la sua brillante carriera prima di professore di fisica, a Reggio Emi-lia e a Modena, poi di storia naturale a Pavia. Una delle poche volte in cui la dottoressa Bassi lasciò Bologna fu, nel 1758, per partecipare alla discus-sione delle tesi filosofiche degli studenti del cugino al termine del primo anno di insegnamento di quest’ultimo a Reggio Emilia. Il giovane Spallan-zani era davvero orgoglioso di essere studente della celebre Bassi.

Spallanzani espresse pubblicamente la sua gratitudine verso la donna che chiamava mia venerata Maestra nella dedica di una delle sue prime pubblicazioni, De lapidibus ab aqua resilientibus Dissertatio (1765). Nel descrivere il ruolo esercitato dalla Mulier doctissima nel corso dei propri studi di gioventù, Spallanzani elogiava Bassi per il suo insegnamento ispi-ratore, il suo saggio consiglio ed eccellente giudizio, quando aveva ormai da tempo cessato di essere la sua Maestra. Egli ricordava la brillante per-formance con cui l’insegnante l’aveva assistito nella discussione delle te-si dei suoi studenti a Reggio, e la maniera in cui aveva fatto della propria casa un “tempio di dottrina e sapienza”, più che una semplice “dimora privata”. Spallanzani dedicava particolari lodi al suo metodo pedagogico, scrivendo che neminam fortasse superiorem habere71. Bassi era la perso-nificazione delle virtù che caratterizzavano il miglior tipo di docente pos-sibile in quell’età illuminata. Spallanzani proseguiva raccomandandola ad altri giovani desiderosi di ricevere “lezioni Fisiche” a Bologna, anche se questi non sempre seguivano i suoi corsi con la profonda attenzione e de-vozione che portò lui a diventare un insigne naturalista e filosofo speri-mentale72.

70. Cavazza, “Laura Bassi,‘maestra’ di Spallanzani”. La presente sezione attinge a ma-teriali discussi più in dettaglio nel suo importante articolo.

71. L. Spallanzani, De lapidibus ab aqua resilientibus Dissertatio (Modena, 1765), pp. non num.

72. Biblioteca Estense, Modena, Autografi Campori (Laura Bassi Veratti) (Bassi a Spal-lanzani, Bologna, 2 agosto 1768); Cenerelli, Lettere inedite, p. 141 (Spallanzani a Bassi, Pavia, 21 dicembre 1775). Su Spallanzani come professore a Reggio e a Modena, vedi Ca-vazza, “Spallanzani professore di fisica newtoniana”, in W. Bernardi e M. Stefani, a cura di, La sfida della modernità, Olschki, Firenze, 2000, pp. 95-109.

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L’anno successivo, il 1766, Bassi iniziò a insegnare fisica, sempre nel suo laboratorio domestico, agli studenti di origine marchigiana del Colle-gio Montalto. Quella primavera un altro suo ex-studente, l’abate Giamma-ria Ortes, le scrisse da Venezia, comunicandole l’intenzione di inviarle i prismi che erano appartenuti al filosofo veneziano Antonio Conti73. Il ta-lentuoso e versatile Ortes, monaco camaldolese che era al contempo ma-tematico, filosofo, compositore e uno dei principali economisti della sua generazione, offrì a Bassi il massimo omaggio per un docente di fisica spe-rimentale. Ortes le offrì questo dono perché riteneva che l’eccellenza di lei fosse pari a quella di Conti, il quale aveva conosciuto personalmente New-ton: “io mi trovo molto coerente, che tenendo questi prismi dalla mano di un eccellente Maestro li rimetto ora in quella di una non meno insigne ed eccellente maestra”74. Ci si chiede che cosa abbia fatto Bassi di tale do-no, dato che, se Conti manifestò ammirazione per le donne colte e aristo-cratiche che conobbe a Londra tra il 1715 e il 1718, in un suo scritto si era nondimeno dimostrato molto scettico quanto alle capacità di apprendimen-to delle donne e giudicava sfavorevolmente le italiane rispetto alle inglesi. Sosteneva che le donne, per ragioni fisiologiche, non erano pari agli uomi-ni, in particolare “in quelle scienze altamente astratte che richiedono gran-de profondità, grande sottigliezza e grande sofisticazione mentale”75. Scrit-ta in francese nel 1721, la lettera di Conti fu pubblicata a Venezia nel 1756 e infine tradotta in italiano nel 177376. Accettare il dono di un newtoniano misogino della generazione precedente implicava senz’altro una certa dose di squisita ironia.

Come suggeriscono gli esempi finora forniti, la scuola di fisica spe-rimentale di Bassi produsse numerose generazioni di allievi che ebbe-ro poi carriere illustri, trasformando la sua eredità intellettuale in qual-cosa di più che in un semplice effetto della sua reputazione di “signora professore”. Studiare con Laura Bassi e con suo marito Veratti era un’e-sperienza di grande valore: il loro laboratorio domestico, se non era me-glio equipaggiato del gabinetto di fisica sperimentale dell’Istituto del-le Scienze, poteva contare su una docente più abile a illustrare l’uso dei vari strumenti e a collegare gli esperimenti alle discussioni teoriche e ai calcoli matematici. Dopo la morte, nel 1761, di Giovanni Poleni, il prin-

73. N. Badaloni, Antonio Conti. Un abate libero pensatore fra Newton e Voltaire, Feltrinel-li, Milano, 1968; A. Conti, Scritti filosofici, a cura di Nicola Badaloni, F. Rossi, Napoli, 1972 .

74. Biblioteca del Museo Correr, Venezia, Cod. Cicogna 2658, lett. 122 (Ortes a Bassi, Venezia, 16 aprile 1766).

75. Conti, Scritti filosofici, p. 404 (Conti ad Antonio Vallisneri, 21 gennaio 1727). 76. R. Messbarger, The Century of Women: Representations of Women in Eighteenth-

Century Italian Public Discourse, University of Toronto Press, Toronto, 2002, pp. 49-68, in part. pp. 51-52.

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cipale studioso di fisica di Padova, Caldani scrisse a Veratti per incorag-giare lui e la moglie a candidarsi per le posizioni vacanti in matematica, fisica sperimentale e scienza nautica che Poleni aveva occupato. “Mi so-no lasciato fuggir di poco che tali cattedre, almeno le due prime, dovreb-bero esser rimpiazzate da Lei, e dalla Signora Laura. Se ho fatto male mi perdoni”77. Nel 1679, in seguito al clamore provocato dalla laurea in filo-sofia concessa un anno prima a Elena Cornaro Piscopia, l’Università di Padova dichiarò un’ufficiale moratoria per le lauree femminili78. Non sta-bilì, tuttavia, se questo precludesse o meno la possibilità di un professore donna. Poiché Bassi non perseguì una simile opportunità, non sappiamo se avrebbe potuto stabilire un nuovo precedente in quest’altra istituzio-ne, nella quale Cristina Roccati, una giovane donna originaria di Rovi-go, aveva studiato per un anno fisica con Poleni, dopo essersi laureata a Bologna nel Maggio 1751 ed esser stata nominata docente di fisica speri-mentale nell’Accademia dei Concordi a Rovigo79. È in ogni caso indica-tivo che, nel suo invito a Bassi, Caldani non prendesse in considerazione tale problema.

Spallanzani, Ortega, Ortes, Caldani e Felice Fontana – che, in qualità di fisico di corte presso il Granduca di Toscana, non solo condusse nume-rosi esperimenti e sviluppò il Gabinetto di fisica sperimentale di Firenze, ma fondò anche il suo museo scientifico80 – provenivano tutti dalla scuola di Laura Bassi. Lo stesso Caldani, pur non avendo frequentato i suoi cor-

77. Cenerelli, Lettere inedite, pp. 205-206 (Caldani a Veratti, Padova, 13 Novembre 1761). Caldani ottenne la laurea nel 1750 e fu lettore di medicina pratica all’Università di Bologna (1755-60), prima di trasferirsi a Padova, dove divenne il successore di Giovan-ni Battista Morgagni. È stato studiato meno a fondo di Spallanzani e di Felice Fontana, ma vedi Cavazza, “La recezione della teoria halleriana nell’Accademia delle Scienze di Bolo-gna”, Nuncius 12 (1997): 359-377 e idem, “Vis irritabilis e spiriti animali. Una disputa set-tecentesca sul moto muscolare” in M. Piccolino, a cura di, Neuroscienze controverse. Da Aristotele alla moderna scienza del linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, pp. 49-74. Caldani voleva presumibilmente proporre Bassi per la cattedra di matematica e Veratti per quella di fisica sperimentale, dato che quest’ultimo non sarebbe stato qualificato per la prima. Sull’insegnamento di Poleni a Padova, vedi B. Dooley, “Science Teaching as a Ca-reer at Padua in the Early Eighteenth Century: The Case of Giovanni Poleni”, History of Universities, 4, 1984: 115-141.

78. Maschietto, Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, p. 134. 79. Findlen, “A Forgotten Newtonian: Women and Science in the Italian Provinces”, in

W. Clark, J. Golinski, S. Schaffer, eds., The Sciences in Enlightened Europe, University of Chicago Press, Chicago, 1999, pp. 313-349.

80. Dal 1755 al 1757 Fontana studiò a Bologna, dove fu partecipe della cultura speri-mentale del laboratorio di Bassi e Veratti. In seguito divenne uno dei corrispondenti più re-golari di Bassi; BCAB, Coll. Aut. XXIX, 7992-8054. P.K. Knoefel, Felice Fontana: Li-fe and Works, Società di Studi Trentini di Scienze Storiche, Trento, 1984; S. Contardi, La Casa di Salomone a Firenze. L’Imperiale e Reale Museo di Fisica e Storia Naturale (1755-1801), Olschki, Firenze, 2002.

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si, riteneva di avere imparato molto da lei, in qualità di giovane collega fre-quentatore del suo laboratorio.

Quando le opportunità, l’ambizione, gli obblighi di famiglia o le riva-lità li allontanarono da Bologna, gli studenti della Bassi crearono un va-sto e influente network e continuarono a considerare la loro relazione con la maestra un importante punto di riferimento per i primi sviluppi delle ri-spettive carriere scientifiche81. Tutti loro riconoscevano l’importante ruo-lo che essa aveva giocato nella loro formazione intellettuale e le erano par-ticolarmente grati per averli introdotti allo studio della fisica sperimentale. Su scala più locale, Luigi Galvani, che si iscrisse come studente all’Univer-sità di Bologna attorno al 1755 e si laureò in medicina il 5 luglio 1759, è da considerarsi un altro beneficiario della tutela di Bassi, oltre che di Veratti. Da studente e da giovane professore, Galvani ebbe numerose opportunità di acquisire familiarità con le attività di casa Bassi-Veratti, traendo vantag-gio dalla combinazione delle competenze dei due nelle sue specifiche aree d’interesse, medicina e sperimentazione elettrica. Nel 1790 Galvani avreb-be testimoniato di conoscere Paolo, il figlio più giovane della coppia, fin dai suoi tempi di studente all’università82 .

Anche quanti non studiarono direttamente con Bassi tennero in grande considerazione il suo giudizio sul loro lavoro, per non parlare della possibi-lità di accedere al laboratorio di casa Bassi-Veratti. Questo secondo grup-po includeva alcuni dei più insigni studiosi dei fenomeni elettrici dell’Italia settecentesca, tra cui Giambattista Beccaria, di Torino, e Alessandro Vol-ta, di Como. Dopo un soggiorno a Bologna, Beccaria lodò l’acume speri-mentale di Bassi nella sua influente pubblicazione Elettricismo atmosferi-co, uscita a Bologna nel 1758. Nel 1770 Beccaria le chiese di presentare tre suoi studi sull’aurora boreale ai colleghi dell’Accademia delle Scienze, af-fermando che non avrebbe potuto pensare a qualcuno di più qualificato per illustrare il suo lavoro agli accademici. Ciò che più gli premeva era il pare-re di lei sulla propria interpretazione frankliniana della “proprietà del fuo-

81. Sul concetto di carriera scientifica in questo periodo, vedi Findlen, “Science as a Career” e G. Pancaldi, Volta: Science and Culture in the Age of Enlightenment, Princeton University Press, Princeton, 2005. Sui rapporti di Bassi con la Repubblica delle Lettere, vedi Cavazza, Una donna nella repubblica degli scienziati: Laura Bassi e i suoi colleghi, in R. Simili, a cura di, Scienza a due voci, Olschki, Firenze, 2006, pp. 61-85.

82. M. Pera, La Rana ambigua. La controversia sull’elettricità tra Galvani e Volta, Ei-naudi, Torino, 1986; M. Piccolino, M. Bresadola, Rane, torpedini e scintille. Galvani, Vol-ta e l’elettricità animale, Bollati-Boringhieri, Torino, 2003, pp. 58-71, 116-126; Bresado-la, Luigi Galvani: Devozione, scienza e rivoluzione, Editrice Compositori, Bologna, 2011. La testimonianza di Galvani sulla sua esperienza in casa Bassi-Veratti si può trovare in BCAB, Bassi-Veratti, 9.5.2 (= Fondo Paolo Veratti, cart. III, n. 143) (Processus Civilita-tis… Pauli Veratti, 27 settembre 1790).

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co elettrico, e de’ Fenomeni, che si osservano nelle aurore boreali”83. Bec-caria si premurò di spiegare perché teneva tanto in considerazione il parere di Bassi, ricordando l’esperienza delle discussioni avute con lei nella sua casa. “Voi Chiarissima Signora, che anche nella famigliare conversazione vostra, eccitate altrui a maraviglia colla giustezza e profondità ed elegan-za di ragionamento, onde i fenomeni, che all’occhio del volgo appaiono di-strattissimi maravigliosamente reunite, e veracemente”84. La possibilità di discutere idee e dimostrare esperimenti insieme con lei era un’altra compo-nente del metodo pedagogico di Bassi. All’inizio della sua carriera, anche il giovane Volta sarebbe stato incoraggiato da Spallanzani a presentarsi a Bassi e a inviarle nel 1771 le sue prime pubblicazioni per avere un suo pa-rere sul proprio lavoro pionieristico sull’elettricità e sui gas85.

Nel 1776 Bassi diventò professore di fisica sperimentale nell’Istituto del-le Scienze. Suo marito Veratti ebbe il posto di assistente, in una giostra di eventi che, non solo mise in evidenza le rivalità esistenti tra gli accademi-ci dell’Istituto che si trovavano a competere per le scarse risorse disponi-bili, ma rivelò anche come i decenni di insegnamento domestico di Bas-si avevano comportato una reale trasformazione del suo status di docente. I membri dell’Assunteria d’Istituto che concordavano con la proposta del Se-nato di assegnarle questa nuova cattedra, creata dopo che, nel 1776, l’ori-ginaria cattedra di Fisica era stata divisa in due distinte posizioni, ricorda-vano come ella non avesse alcun diritto di essere professore nell’Istituto86. Questo fu, tuttavia, esattamente ciò che essi decisero dovesse essere. Sem-plicemente, in città non c’era nessun altro studioso altrettanto qualificato e famoso nella materia in questione. Bassi aveva finalmente realizzato ciò di cui Giovanni Bianchi aveva avuto sentore dopo aver ascoltato le sue prime lezioni nel 1733. Era diventata davvero autorevole nella sua disciplina.

Nel gennaio 1776, Rocco Bovi, un altro ex studente divenuto professore di trigonometria, fece sapere, da Napoli, di aver dedicato una recente pub-blicazione a Laura Bassi, “mia venerata Maestra”. Si trattava di un opu-scolo di storia naturale scritto da un suo cugino, Antonio Minasi, edito nel 1775, che recava un’affettuosa dedica a Bassi come “Maestra delle cose Fi-siche nell’Accademia di Bologna”. Come Spallanzani e molti altri, Bovi ri-cordava con calore i giorni trascorsi a Bologna come studente di Bassi e di

83. G. Beccaria, Dell’elettricismo. Lettere a G.B. Beccari, All’insegna dell’Iride, Col-le Ameno in Bologna, 1758, p. 29; American Philosophical Society, Philadelphia, B B385 (Beccaria Papers), n. 38, f. 1r; n. 39, f. 10r.

84. American Philosophical Society, Philadelphia, B B385 (Beccaria Papers), n. 39, f. 27r. 85. Cenerelli, a cura di, Lettere inedite, pp. 157-159 (Volta a Bassi, Como, 15 luglio

1771 e 15 giugno 1777); A. Volta, Epistolario, a cura di F. Massardi, Zanichelli, Bologna, 1949-55, vol. I, p. 187 (Bassi a Volta, Bologna, 20 settembre 1777).

86. Findlen, “Tra uomini”.

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Veratti, ma ci teneva a commemorare specialmente il suo legame con la prima. “È certo che sarei ingratis[sim]o discepolo se da lontano non avessi e conservassi la memoria ed obligazione che ho p[er] lei”87. Per i suoi allie-vi più insigni, Bassi fu una guida davvero indimenticabile. Essi ne davano dimostrazione esprimendo pubblicamente i propri sentimenti di gratitudi-ne, affetto e ammirazione a riconoscimento del ruolo fondamentale che la comune maestra aveva giocato nella loro formazione intellettuale, sapen-do tutti fin troppo bene come studiare con lei a Bologna avesse costituito un’opportunità unica.

L’eredità della Maestra

Laura Bassi occupa una posizione unica, essendo uno dei docenti più co-nosciuti e ampiamente citati della sua generazione. Questo è in parte dovu-to all’eccezionalità del suo caso, ma non solo, in quanto era nota anche per essere un’insegnante di grande talento e dedizione. Per quasi cinquant’an-ni la città di Bologna valutò le qualità pedagogiche di Bassi. Lei rispose insi-stendo perché il Senato trovasse soluzioni ragionevoli per permetterle di giu-stificare il suo stipendio, senza mai abbandonare l’idea che avrebbe dovuto insegnare pubblicamente, mentre al contempo espandeva il concetto di inse-gnamento privato. Quando i problemi relativi al suo status di docente e alle modalità del suo insegnamento furono risolti, la vasta maggioranza dei cit-tadini bolognesi si convinse di avere tra di loro la donna professore più fa-mosa del mondo. Disseminati per la città e, come abbiamo visto, ben oltre le sue mura, vi erano diverse generazioni di uomini che potevano dire che es-si o i loro figli avevano studiato con lei. “Sono andato a Scuola dalla Sig[no]ra Do[t]toressa Laura Bassi”, testimoniò orgogliosamente il medico Girolamo Marchesini nel Settembre 179088. Tra i molti alunni c’erano anche i quattro figli di Bassi e Veratti che raggiunsero l’età adulta, Giovanni, Ciro, Giaco-mo e Paolo. Giovanni insegnò in seguito teologia morale e divenne proretto-re del Collegio Montalto, dove la madre insegnò fisica. Paolo divenne profes-sore di medicina e infine succedette alla madre e al padre nella cattedra di fisica sperimentale al Collegio Montalto e all’Istituto delle Scienze. Entram-bi affermarono di avere appreso la filosofia e la fisica sperimentale a casa89.

87. A. Minasi, Dissertatione seconda, n.p. (dedica di R. Bovi, 10 settembre 1775); BCAB, Coll. Aut. X, 3016 (Rocco Bovi a Laura Bassi, Napoli, 2 gennaio 1776).

88. BCAB, Bassi-Veratti, 9.5.2 (= Fondo Paolo Veratti, cart. III, n. 143) (Processus Ci-vilitatis… Pauli Veratti, 27 settembre 1790), f. 151r.

89. ASB, Assunteria di Studio. 57, Requisiti dei Lettori, vol. 28, n. 25 (Giovanni Verat-ti, ca. 1769?); e n. 26 (Paolo Veratti, 28 giugno 1790).

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Che cosa dire, però, delle donne? Non possediamo la benché minima te-stimonianza di studentesse. Questa mancanza appare quanto mai sorpren-dente alla luce dell’enorme attenzione prestata all’identità di genere di Bas-si. In fin dei conti, Minerva rappresentava la prole più intellettuale di Giove e il suo destino s’incentrava sulla sua capacità di impersonare la sapienza e di stimolare la futura progenie degli uomini a perseguire la conoscenza. Figlie accademiche non erano previste; di conseguenza, esse apparvero di-scendenti accidentali e in qualche modo illegittime, la cui presenza non po-teva essere facilmente gestita. Roccati, nata nell’annus mirabilis 1732, fu iscritta per quattro anni all’Università di Bologna come studentessa di fi-losofia e rappresentò così la prima donna a frequentare davvero l’univer-sità e a completare per intero il percorso di studi stabilito dalla facoltà di Arti. Roccati non affermò mai di aver studiato con Bassi, che nondimeno presenziò alla sua cerimonia di laurea nel 1751, il che prova che le due si conoscevano di certo. Il posto in seguito ottenuto da Roccati come docen-te di fisica sperimentale all’Accademia dei Concordi a Rovigo andò a ri-specchiare la ben più luminosa carriera di Bassi a Bologna, e tuttavia que-sta “altra Laura”, come alcuni contemporanei la chiamavano, non era una sua discepola90.

La matematica milanese Maria Gaetana Agnesi (1718-1799) era nata troppo tardi per studiare con Bassi, della quale era una poco più giovane contemporanea che mai abbandonò i dintorni di Milano. Divenne tuttavia il doppelgänger di Bassi quando, nel 1750, sulla scorta della vasta popola-rità delle sue Instituzioni analitiche ad uso della gioventù italiana (1748), Prospero Lambertini, asceso al papato come Benedetto XIV, la fece nomi-nare professore onorario di matematica all’Università di Bologna, facen-do specifico riferimento ai precedenti antichi e moderni alla base della sua decisione di creare una seconda cattedra onoraria per una donna nota per i suoi meriti scientifici91. Così scriveva il Papa al Senato Bolognese:

Noi che siamo pienamente informati, e per gli esempi antichi, e per li recenti, non esser contra il costume dell’Università di qualificare anche le donne col det-to rimarchevole fregio quando arrivano a quell’eminente grado di Sapere, a cui è arrivata l’Agnesi, con ogni maggior premura raccomandiamo loro l’istanza del-la predetta92.

Diversi professori incoraggiarono Agnesi ad accettare di persona l’in-carico sostenendo che Bologna aveva una tradizione di docenti donne

90. Findlen, “A Forgotten Newtonian”.91. BUB, ms. 279, n. 32 (Benedict XIV al Senato di Bologna, Roma, 24 giugno 1750). 92. Ambr. O. 201 sup., c. 46v (Beccari ad Agnesi, Bologna, 8 luglio 1750).

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che era ora suo onore e dovere mantenere in vita. Agnesi avrebbe dete-nuto la titolarità di questa cattedra immaginaria fino al 1797, ma non si recò mai a Bologna, né contemplò seriamente la possibilità di diventa-re una maestra sul modello di Bassi93. Del resto, anche quelle che ci pro-varono videro le proprie ambizioni frustrate. Per esempio, Maria Dalle Donne, una giovane di povera famiglia contadina del contado bologne-se, nata nel 1778, l’anno della morte di Bassi. La sua laurea in medicina, la licenza di insegnare da lei ottenuta e lo stato di socia all’Accademia dell’Istituto delle Scienze nel 1800 fecero sì che i contemporanei la con-siderassero una miracolosa reincarnazione di Laura Bassi94. Tuttavia, le restrizioni poste al suo insegnamento si rivelarono molto più consisten-ti di quelle sperimentate da Bassi alcuni decenni prima; il culmine del-la carriera di Dalle Donne fu diventare una insegnante di ostetricia nel-la scuola per la formazione delle levatrici e non una docente di studenti universitari maschi. Nemmeno lei fu in grado di replicare il successo go-duto da Bassi.

E che dire delle vere figlie di Bassi? Lei e Veratti ebbero tre bambine, tutte e tre chiamate Caterina: indice di devozione alla dotta Santa Ca-terina da Bologna, questo nome finì per acquisire una connotazione do-lorosa, dal momento che le prime due morirono, una dopo l’altra, in età infantile. La più giovane Caterina visse fino all’età di ventidue anni e nel 1757 fu sepolta nel convento del Corpus Domini, dove si stava pre-parando a ricevere i voti religiosi95. Apprese dalla madre qualche nozio-ne di fisica sperimentale, alla pari dei suoi fratelli? La documentazione storica è oltremodo silente quanto all’istruzione dell’unica figlia di Bas-si che visse fino all’età adulta, ma sappiamo con certezza che non fu in-coraggiata dai genitori a diventare l’erede della fama accademica della madre. Com’è comprensibile, Bassi pianse la perdita dell’unica figlia so-

93. M. Mazzotti, The World of Maria Gaetana Agnesi, Mathematician of God, Balti-more, John Hopkins University Press, 2007. Questo importante lavoro su Agnesi è discus-so in Findlen, “Calculations of Faith: Mathematics, Philosophy, and Sanctity in Eighte-enth-Century Italy (New Work on Maria Gaetana Agnesi)”, Historia mathematica, 38, 2011, pp. 248-291.

94. O. Sanlorenzo, “Maria Dalle Donne e la Scuola di Ostetricia nel secolo XIX”, in Alma mater studiorum, pp. 147-156; Berti Logan, “Women and the Practice and Teaching of Medicine in Bologna in the Eighteenth and Early Nineteenth Centuries”, Bulletin of the History of Medicine, 2003, 77, pp. 506-535.

95. La prima menzione di Caterina si trova nello status animarum dell’Archivio Arci-vescovile, Bologna, Parrocchie di Bologna soppresse 4/6. Parrocchia di S. Barbaziano. Stati d’anime (1745); BCAB, B. 704 (Baldassare Carrati, Alberi genealogici delle famiglie di Bologna, vol. 8), n. 111 (Verati); BCAB, B. 917 (Baldassare Carrati, Li morti si nobili che civili e di famiglie antiche della città di Bologna, 1763-89), p. 212 (morte di Caterina Maria Teresa Veratti, 26 settembre 1767).

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pravvissuta, e chiese di essere sepolta vicino a Caterina nella chiesa del Corpus Domini96.

Cosa pensava di Laura Bassi il resto del mondo? Fuori dall’Italia, es-sa era, in effetti, vista come esempio di qualcosa che si sarebbe potuto ve-rificare più spesso, se fosse cambiata la mentalità. Nel 1739 a Londra fece la sua comparsa un trattato anonimo intitolato Women Not Inferior to Men. L’autrice, nascosta sotto lo pseudonimo “Sophia”, era probabilmente la no-ta letterata inglese Lady Mary Wortley Montagu. “Se non appariamo su cattedre universitarie”, scriveva, “ciò non può essere attribuito alla nostra mancanza della capacità di occuparle…” Wortley Montagu citava esplicita-mente “quella giovane signora straniera” come “prova vivente che noi sia-mo altrettanto capaci di qualunque uomo dei più alti primati nella sfera del sapere, visto che l’abbiamo appena fatto…”97. Nessuna donna inglese ri-cevette però una laurea o una cattedra nel corso dell’intero diciottesimo secolo. Wortley Montagu affermò in seguito di aver lasciato l’Inghilter-ra per l’Italia perché quest’ultima rappresentava un ambiente più favorevo-le per una giovane donna colta e ambiziosa della sua generazione. “Il per-sonaggio della donna istruita è lungi dall’essere ridicolo in questo paese”, scrisse a sua figlia nel 1753, “essendo le più grandi famiglie orgogliose di aver generato donne scrittrici, ed essendo al momento una Signora milane-se professore di matematica nella Università di Bologna”98. Fu sicuramen-te la novità costituita da Agnesi – la seconda donna a essere insignita di una cattedra nella Bologna del diciottesimo secolo – a ricordare a Wortley Montagu che l’Italia aveva tali attrazioni da quando era diventata consape-vole delle attività di Bassi.

Negli anni del suo soggiorno in Italia, Wortley Montagu probabilmente conobbe Bassi, ma non lasciò testimonianza di alcun incontro. Altre don-ne inglesi impegnate nel Grand Tour si sentirono in obbligo di visitare Bo-logna per saziare la loro curiosità sulla donna professore della città, so-prattutto dopo che Elizabeth Carter aveva chiarito ai lettori inglesi che la filosofessa di Bologna tanto profusamente lodata nelle pagine iniziali del Newtonianismo per le dame (1737) di Francesco Algarotti altri non era che Bassi. Nel giugno 1741 Henrietta Louisa, Contessa di Pomfret, descrisse la sconcertante esperienza di sentire Bassi discutere sulla natura della luce in latino, una lingua che non comprendeva, e il successivo piacere provato

96. BCAB, B. 917, B. Carrati, Li morti si nobili che civili e di famiglie antiche della città di Bologna, 1763-89, p. 213 (morte di Laura Bassi, 20 febbraio 1778): “Fù sep[ol]ta alla Santa con onore il di seg[uent]e”.

97. Sophia, Women Not Inferior to Men, London, 1739, pp. 40, 46. 98. M. Wortley Montagu, Selected Letters, ed. Isobel Grundy, London, Penguin, 1997,

pp. 392-393 (Wortley Montagu a Lady Bute, 10 ottobre 1753).

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nell’udirla argomentare vivacemente in italiano – lingua che invece capiva – sulla questione se la legge della gravitazione universale di Newton aves-se reso il sole più importante della luna. La sua amica Frances, Contessa di Hartford, che segnalò all’attenzione di Lady Pomfret la nota di Carter su Bassi nella sua traduzione in inglese dell’opera di Algarotti, rispose con ca-lore che avrebbe desiderato “visitare la signora Laura Bassi. I suoi successi onorano davvero il nostro sesso”99.

La notizia, ben pubblicizzata, della cattedra conferita a Bassi raggiun-se anche la Francia, la Germania, la Spagna, e perfino le colonie del Nord America dove le novità provenienti dall’Inghilterra erano regolarmente let-te con avidità. In Francia, il fatto provocò una certa infatuazione per Bas-si, vista come l’incarnazione vivente della curiosa abitudine italiana di promuovere le donne istruite tramite l’affiliazione a istituzioni di cultura. Tuttavia, nemmeno l’ammissione di tre donne francesi – Émilie du Châte-let, Anne Marie du Boccage e Marguerite Le Comte100 – all’Accademia dell’Istituto delle Scienze spinse qualche istituzione francese a emulare la passione italiana per le donne docenti. Nel 1790 Condorcet avrebbe ricor-dato ai suoi compatrioti che l’Italia, emblema della società di Ancien Régi-me, aveva ciononostante permesso alle donne di diventare “professori nelle discipline più elevate senza causare il minimo inconveniente o incontra-re la minima opposizione – senza nemmeno essere bersaglio di battute scherzose”101. In ogni modo, una simile visione, piuttosto ottimistica, della professoressa italiana come incarnazione del femminismo illuminista non destò alcuna scintilla di rivoluzione nelle istituzioni francesi di alta cultura.

Nondimeno, le eccezioni possono produrre ulteriori istanze di eccezio-nalità. In Germania la notizia della laurea di Bassi ispirò Dorothea Leporin Erxleben a chiedere il permesso di studiare medicina e ottenere la laurea. Essa si sarebbe graduata all’Università di Halle solo nel 1754, a riconosci-

99. Correspondence between Frances, Countess of Hartford, (afterwards Duchess of Somerset) and Henrietta Louisa, Countess of Pomfret, between the years 1738 and 1741, 2nd ed., London, T. Gillet, 1806, vol. 1, p. 136 (Pomfret a Hartford, Siena, 28 luglio N.S. 1739); p. 147 (Hartford a Pomfret, Marlborough, 20 agosto, O.S., 1739); vol. 3, pp. 90-91 (Pomfret a Hartford, 29 maggio 1741); vol. 3, pp. 228-229 (Hartford a Pomfret, 18 giugno O.S. 1741) [citazione a pp. 228-229].

100. Sulle donne ammesse all’Accademia delle scienze dell’Istituto, vedi Cavazza, “Les femmes à l’Académie: le cas de Bologne”, in D.-O. Hurel, G. Laudin, éds., Académies et sociétés savantes en Europe (1650-1800), Honoré Champion, Paris, 2000, pp. 161-175; Mazzotti, “Mme Du Châtelet académicienne de Bologne”, in O. Courcelle et U. Kölving, dir., Émilie Du Châtelet, éclairages et documents nouveaux, Centre international d’études du XVIIIe siècle, Ferney-Voltaire, 2008, pp. 121-126; e Findlen, “Tra uomini”.

101. Condorcet [Jean-Antoine de Caritat, marchese di], Selected Writings, ed. Keith Michael Baker, Indianapolis, Bobbs-Merrill, 1976, p. 137 (disponibile online). Ringrazio Keith Baker per avermi fornito questo riferimento bibliografico.

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mento della sua pratica medica di lunga durata. Erxleben rivendicò aperta-mente, sulla base del precedente bolognese, il diritto delle donne all’educa-zione universitaria. Il rinnovato interesse per la vita e l’opera di Bassi dopo la sua morte nel 1778 ispirò probabilmente anche un professore tedesco a istruire la figlia, Dorothea Schlözer, incoraggiandola a conseguire una lau-rea in filosofia a Göttingen nel 1787102. Nonostante il rilievo dato da Johann Jakob Brucker alla biografia di Bassi nella sua Pinacotheca scriptorum no-stra aetate literis illustrium (1741-55), nessuna donna tedesca dotta diven-tò professore in quel secolo. Neppure alla colta e aristocratica María Isidra Quintina de Guzman y de la Cerda, ammessa alla Real Academia Españo-la nel 1784 e in seguito autorizzata per decreto reale a ricevere una lau-rea dall’Università di Alcalá nel 1785, fu offerta una cattedra. Durante la sua cerimonia di laurea il rettore dell’Università invitò Guzman y la Cerda a difendere in latino il diritto delle donne all’insegnamento pubblico. Ella citò ovviamente i precedenti bolognesi, ma questi non furono sufficienti a convincere i suoi ascoltatori a fare il passo definitivo, facendo di lei la Lau-ra Bassi spagnola103.

Alla fine del diciottesimo secolo il significato della cattedra conquistata da Bassi era ormai diventato parte della memoria storica dei successi fem-minili. Il suo ricordo andò a inscriversi entro una più ampia e ragionata di-scussione sui diritti delle donne, che avrebbe alla fine prodotto l’opera ri-voluzionaria di figure come Olympe de Gouges e Mary Wollstonecraft. In questo clima di cambiamento, l’eccezionalità di Bassi non sembrava più un criterio di merito.

Al contrario, essa era spia dei limiti del desiderio dell’Ancien Régi-me di celebrare una donna eccezionale negando al contempo la possibili-tà che essa potesse stabilire un precedente per un più ampio cambiamen-to sociale che potesse davvero aprire l’università a molte donne, non solo a poche. Esattamente un anno prima della sua morte, Bassi accolse con calma la notizia che l’Università di Pavia aveva deciso di conferire una

102. L. Schiebinger, The Mind Has No Sex? Women in the Origins of Modern Science, Harvard University Press, Cambridge, MA, 1989, pp. 250-60; B. Kern e H. Kern, Madam Doctorin Schlözer. Ein Frauenleben in den Widersprüchen der Aufklärung, C.H. Beck, Munich, 1988; E. Brinkschulte, E. Labouvie, hgg., Dorothea Christiana Erxleben: Weibli-che Gelehrsamkeit und medizinische Profession seit dem 18. Jahrhundert, Mitteldeuscher Verlag, Halle, 2006; K.S.G. Markau, Dorothea Christiana Erxleben (1715-1762): Die er-ste promovierte Ärztin Deutschlands. Eine Analyse ihrer lateinischen Promotionsschrift sowie der ersten deutschen Übersetzung, (tesi di dottorato in medicina, Facoltà di Medici-na), Martin-Luther-Universität Halle-Wittenberg, 2006.

103. T.A. Smith, New Visibility: Women and the Public Sphere in Eighteenth-Century Spain, Ph.D. diss., University of California, San Diego, 1999, pp. 59-65; idem, The Emer-ging Female Citizen: Gender and Enlightenment in Spain, University of California Press, Berkeley, 2006, p. 254.

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laurea in legge a Maria Pellegrina Amoretti. “Sento che si prepara una solenne laurea femminile, ma tutta legale; aspettaremo le nuove”, scris-se a Spallanzani nell’Aprile 1777. Bassi non indicò al più giovane cugino, allora professore a Pavia, se considerasse l’evento qualcosa di più della prosecuzione della stessa tendenza che quarantacinque anni prima aveva condotto lei alla celebrità104.

Queste due contraddittorie visioni del significato della cattedra univer-sitaria di Laura Bassi confluirono nel 1785, quando, con scandalo gene-rale, Hester Thrale Piozzi, vedova di un produttore di birra inglese, si ri-sposò con un musicista italiano e quindi, capace di comprendere aspetti di entrambe le società, giunse a Bologna. Nel visitare l’Istituto delle Scien-ze, parlò con il custode, che aveva conosciuto bene Bassi. Questi ricordò che “non molti anni fa, la Dottoressa Laura Bassi faceva lezione in questo preciso luogo… finché divenne molto vecchia e inferma, ma i suoi allievi la aiutavano sempre con molto rispetto a salire e a scendere dalla cattedra. Che brava donnetta ch’era! esclamò il gentiluomo che mi mostrava l’ac-cademia”. Contemplarono insieme il suo busto funerario e l’iscrizione po-sta sopra la porta, che spinse la guida italiana di Thrale Piozzi a commen-tare tra le lacrime: “tutti muoiono”105. Per quanto curiosa riguardo a Bassi, Thrale Piozzi era meno incline agli umori nostalgici. Osservò infatti acu-tamente che la tradizione italiana di educare le eccezioni, non aveva fatto nulla per promuovere la causa delle donne comuni.

All’epoca della sua morte, nel febbraio 1778, si disse che Laura Bas-si aveva insegnato “sino all’ultimo giorno in sua casa”. La gente ricordava i “numerosi Scolari d’ogni Paese” accorsi a studiare con lei, e i famosi ita-liani tra cui “i celebri Fontana e Spallanzani”106. Il 5 giugno 1778, il Colle-gio Montalto, dove suo figlio Giovanni era prorettore, inscenò un elabora-to elogio “in lode della defunta loro precettrice Laura Bassi”, nella chiesa di Sant’Antonio Abate, per compiangere “la irreparabile perdita”. Si disse che la fama di Bologna come “Madre degli Studi” era stata drasticamen-te ridotta dalla perdita di uno dei suoi “più belli e decorosi ornamenti”107. Anche gli ammiratori più lontani piansero la sua assenza. Solo pochi gior-

104. L. Spallanzani, Edizione Nazionale delle Opere di Lazzaro Spallanzani, a cura di P. Di Pietro. Part I. Carteggi, vol. 1, Mucchi Editore, Modena, 1984, p. 193 (Bassi a Spal-lanzani, Bologna, 22 aprile 1777).

105. H. Lynch Piozzi, Observations (1789), p. 132 (Padova, 10 aprile 1785). 106. Dal necrologio di Bassi negli Avvisi di Bologna (25 febbraio 1778), riprodotto in

Caminer Turra, “Morte di donna celebre”, p. 41. Vedi anche BCAB, Bassi-Veratti, Cart. I, Fasc. 1(a): “Per ventotto anni continui sino all’ultimo giorno di sua vita ha insegnato nella propria Casa la Fisica Sperimentale…”.

107. BCAB, B. 2727, ff. 4-5; vedi f. 17 per il giudizio sul valore della “scuola di Fisica sperimentale e in sua Casa, e nell’Instituto”.

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ni dopo la morte di Bassi, Pio Fantoni scrisse al figlio maggiore, Giovan-ni, per metterlo a parte della sua profonda ammirazione per il ruolo fon-damentale giocato dalla defunta nella formazione della fama di Bologna come città del sapere e definì la sua scomparsa un terribile colpo: “Com-piango solo il mio Paese, che non riparerà certam[ent]e cotesto colpo, e compiango un Reggimento, il qual non comprende i Danni, che soffre la nostra Università”108. Fantoni considerava Laura Bassi insostituibile. Nono-stante i successivi sforzi per presentare la classicista Clotilde Tambroni e Maria Dalle Donne, dottore in medicina e ostetricia, come le sue degne eredi, aveva ragione: replicare il successo di Bassi era impossibile poiché le circostanze erano mutate109. Se, infatti, gli ammiratori di Bassi non smise-ro mai di lodarla, verso la fine della sua vita ci fu almeno uno studioso bo-lognese fuori dal coro, il medico Petronio Zecchini, che si sentì in dove-re di sostenere, pur senza fare esplicitamente il suo nome, che la presenza di “impazzite professoresse” era fonte d’imbarazzo per l’università e, come tale, andava evitata. Condivideva l’idea di Conti che, per natura, le donne non potevano essere abbastanza colte da istruire gli uomini110.

Coloro che avevano personalmente conosciuto Bassi e studiato con lei erano di diverso avviso. Spallanzani lo disse meglio di tutti, quando, scri-vendo a Giuseppe Veratti da Pavia, nell’aprile 1782, si congratulò con lui per aver riaperto la scuola di fisica sperimentale, “continuando così l’eser-cizio della Signora Dottoressa, già carissima sua moglie, e mia venerata Maestra, di cui sarò sempre ricordevole finché avrò spirito e vita, dire po-tendo con verità che quel pochissimo ch’io so, lo debbo in origine ai savi insegnamenti di Lei”111. Nei decenni immediatamente successivi, ricorda-re l’esperienza unica di essere stati educati dalla più illustre donna profes-sore d’Italia rappresentò un motivo di vanto per molti uomini che giunsero all’età adulta nella Bologna di metà settecento. Col tempo, tuttavia, anche Spallanzani smise di riconoscere pubblicamente il ruolo un tempo eserci-tato dalla sua insegnante: questo sicuramente non a motivo di un calo d’af-

108. BCAB, Bassi-Veratti, 7.8.1 (= Fondo Paolo Veratti, Cart. III, n. 69) (Pio Fantoni a Giovanni Veratti, Roma, 28 febbraio 1778).

109. R. Tosi, “Clotilde Tambroni e il Classicismo tra Parma e Bologna alla fine del XVIII secolo;” Sanlorenzo, “Maria Dalle Donne”, in Alma mater studiorum, pp. 119-134, 147-156.

110. P. Zecchini, Dì geniali. Della dialettica delle donne ridotta al suo vero principio, Bologna, 1771, p. 56. Su questo dibattito sulla mente femminile, vedi Cavazza, “Women’s Dialectics, or the Thinking Uterus: An Eighteenth-Century Controversy on Gender and Education”, in L. Daston and G. Pomata, eds., The Faces of Nature in Enlightenment Euro-pe, Berlin, Berliner Wissenschafts-Verlag, 2003, pp. 237-257.

111. Cenerelli, a cura di, Lettere inedite, p. 218 (Spallanzani a Veratti, 30 aprile 1782), pubblicato anche in Spallanzani, Edizione Nazionale delle Opere di Lazzaro Spallanza-ni, a cura di Di Pietro, vol. 11, p. 71. Vedi Cavazza, “Laura Bassi, ‘maestra’ di Spallanza-ni”, p. 187.

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fetto, quanto, più probabilmente, perché quando lei non fu più lì ad inco-raggiarlo e sostenerlo, cessò anche di essere un utile punto di riferimento per la sua carriera.

Il figlio più giovane di Bassi, Paolo, mantenne invece viva la memo-ria della madre, per devozione filiale e per necessità economica. Man ma-no che, a metà degli anni ottanta del Settecento, la salute del padre prese a peggiorare, Paolo assunse sempre più il ruolo di suo sostituto, oltre a quel-lo di assistente dell’altro professore di fisica, Sebastiano Canterzani, ma, con i proventi di questi incarichi e quelli di medico praticante, non riusciva a guadagnare abbastanza da sostenere la famiglia112. Ereditò anche la cat-tedra di fisica sperimentale, appartenuta alla madre, al Collegio Montal-to, dove suo fratello Giovanni godeva di grande fama per le sue qualità di educatore religioso113. La mancanza di nuovi posti all’università e la sop-pressione del Collegio Montalto nel 1797 costrinsero Paolo a cercare nuo-vi modi di incrementare le sue entrate in calo. Nel 1809 ottenne, da Mila-no, il permesso del Direttore Generale d’Istruzione Pubblica ad aprire una scuola di fisica sperimentale nella propria casa, in Via Cartoleria Nuova 611114. Dato che né l’insegnante né i suoi strumenti antiquati erano all’altez-za dei progressi della scienza contemporanea, Veratti pubblicizzò le sue le-zioni come Scuola Elementare di Fisica, intesa a preparare gli studenti per i corsi universitari. Era un inizio piuttosto che un completamento di quanto era necessario sapere in questo campo. Paolo propose il suo corso introdut-tivo di fisica con gli strumenti della madre e del padre fino al 1818, quando il restringersi delle sue possibilità economiche lo costrinse a vendere il pre-zioso patrimonio scientifico di famiglia115. Ciononostante non smise mai di ricordare ai suoi concittadini di Bologna che era figlio e discepolo della un tempo famosa Laura Bassi.

112. Vedi i vari documenti in BCAB, Bassi-Veratti, 10.2.3, 10.3, and 10.4.2-5; 11.3. 113. Nell’Aprile 1797, con la soppressione del Collegio Montalto, gli amministratori in-

caricati di sciogliere l’istituto fecero una lista di tutti i suoi professori, tra cui il canonico Giovanni Veratti, di sessanta anni, che aveva insegnato teologia morale per ventotto anni oltre a svolgere mansioni di prorettore, e il dottore “Giuseppe Veratti”, quarantasette an-ni, che aveva insegnato fisica sperimentale per diciotto anni. Si tratta ovviamente di Paolo; ASB, Demaniale. Collegio Montalto 100/7321 (7 aprile 1797). Sullo stile di Giovanni Ve-ratti come educatore e come maestro del futuro Pio VIII (Francesco Saverio Castiglioni), vedi Cagni, “Il Pontificio Collegio Montalto”, pp. 102-105, 137.

114. BCAB, Bassi-Veratti, 9.9.7 (= Fondo Paolo Veratti, n. 109 and n. 110). 115. ASB, Archivio Aldrovandi Marescotti, b. 430 (Bologna, agosto 1818). Cavazza, “Lau-

ra Bassi e il suo gabinetto di fisica sperimentale”; idem, “Il laboratorio di casa Bassi-Veratti”.

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Essere maestre in Italia fra Otto e Novecento

di Carmela Covato

Un’identità magistrale

Dalle pagine della letteratura specialistica del settore, il problema è ora-mai approdato sulle pagine dei quotidiani.

Su “La Repubblica” del 4 settembre 2012 vengono pubblicati alcuni ar-ticoli centrati su un dato che viene presentato come allarmante: la presen-za femminile nel mondo degli insegnanti della scuola italiana ha raggiunto l’88%1. Comprendere storicamente i percorsi che hanno favorito nella scuo-la italiana un progressivo incremento della presenza femminile è indispen-sabile per cercare di comprendere le ragioni e le cause di questo processo.

Nell’Italia post-unitaria, come in altre realtà del mondo occidentale, dal secondo Ottocento si afferma una sorta di ineluttabile destino educativo per quelle ragazze, ancora una minoranza, che desideravano proseguire gli studi dopo la scuola elementare. Quelle giovani erano spinte sia dalla vo-lontà di conquistare un’inedita emancipazione culturale e sociale, sia co-strette a dotarsi di un’autonomia economica resasi necessaria dopo il decli-no della famiglia patriarcale, dalla condizione di vedovanza o di nubilato2.

Si è consolidata così proprio in quegli anni una equazione fra donne ed educazione, che, dato ancora più sorprendente, come si è appena detto, è an-

1. Gli articoli sono di M. Veladiano Le donne in cattedra, C. Pasolini, Sono allenatore, confidente, guida, di S. Intravaia, Record alle elementari: solo un uomo su venti (pp. 27, 28, 29). Su questo tema vedi A. Giallongo, La difficile vita delle insegnanti, in A. Cagno-lati, a cura di, Biografia e formazione. Il vissuto delle donne, Simplicissimum book farm Srl, 2012, pp. 97-108 e S. Ulivieri, Educare al femminile, ETS, Pisa, 1995; C. Ghizzoni, S. Polenghi, a cura di, L’altra metà della scuola. Educazione e lavoro delle donne fra otto e Novecento, SEI, Torino, 2008.

2. A. Santoni Rugiu, Maestre e maestri. La difficile storia degli insegnanti elementa-ri, Carocci, Roma, 2006. Cfr. anche J. Bowen, Storia dell’educazione occidentale, trad. it. Mondadori, Milano, 1983.

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cora per molti versi attuale3. Il fenomeno, connesso ad una realtà scolasti-ca ancora fortemente gerarchica, evidenzia la presenza di discriminazioni di classe e di genere, nonostante gli enormi sforzi compiuti dai ceti dirigenti di allora nei confronti dell’alfabetizzazione popolare sia maschile sia femminile4.

Com’è noto, l’indagine storiografica relativa all’istruzione e all’educazio-ne viene, oggi, ripensata alla luce di nuove metodologie e di approcci inter-pretativi ancora per molti aspetti inesplorati. Alla base di questo possibile rinnovamento, c’è, innanzitutto, l’esigenza di non ricadere in quella discuti-bile frantumazione conoscitiva, che tendeva a porre in ambiti distinti l’ana-lisi dello sviluppo storico-politico delle istituzioni scolastiche, il ruolo delle teorie pedagogiche e la storia dell’educazione come fenomeno inscritto nel-la sfera dell’etica, del costume, dei comportamenti privati individuali e col-lettivi. Occorre, invece, ricostruire i nessi fra queste diverse dimensioni.

Che la questione della femminilizzazione dell’insegnamento vada oltre i confini dei singoli Stati nazionali e si ponga – seppure con sfumature di-verse – come tendenza costante nei paesi interessati da una industrializza-zione crescente (Stati Uniti e nazioni europee) è un fenomeno estremamen-te significativo da molti punti di vista.

A partire da esso, infatti, è possibile sviluppare un’indagine sull’insieme di fattori che hanno determinato la fisionomia educativa di una istituzione scolastica, nella quale convergono questioni legate allo sviluppo dell’istru-zione popolare e risposte sociali relative ai modelli di comportamento da destinare al genere femminile, in un mondo che si avviava a divenire post-patriarcale e sempre più dominato dai valori del ceto medio borghese.

II problema della diffusione delle scuole elementari nell’Italia post-uni-taria va collegato all’atteggiamento assunto dai gruppi dirigenti nei con-fronti della questione della formazione di una classe magistrale, che avreb-be dovuto contribuire a rendere effettivamente operante l’obbligo scolastico e a sviluppare l’alfabetizzazione dei ceti popolari.

L’entità del fenomeno dell’analfabetismo, che in Italia registrava un livel-lo più alto rispetto agli altri paesi europei (se si esclude la Spagna e l’Im-pero russo in cui si sfiorava un tasso del 90-95%), si poneva, dunque, come uno dei nodi principali ai fini di una reale unificazione culturale e politica del nuovo Stato. Nel 1861 si registra un tasso di analfabetismo maschile del 72% e femminile dell’84%.

3. Donne che hanno fatto l’Italia. Le educatrici, num. monografico a cura di C. Cova-to, L. Di Mauro, Leggendaria, XV, 2011, n. 87, pp. 3-41.

4. Su questo tema, cfr., fra gli altri, S. Soldani, G. Turi, a cura di, Fare gli italiani. Sto-ria e cultura nell’Italia contemporanea, 2 voll., il Mulino, Bologna, 1993; S. Ulivieri, a cura di, Essere donne insegnanti. Storia, professionalità e cultura di genere, Rosenberg & Sellier, Torino, 1996; M. Dei, Colletto bianco, grembiule nero, il Mulino, Bologna, 1994; C. Ghizzoni, S. Polenghi, a cura di, L’altra metà della scuola, SEI, Torino, 2008.

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Le cifre, per quanto allarmanti, risultano, per certi aspetti ottimistiche, se si considera il tipo di rilevazione adottato, cioè la dichiarazione dell’in-teressato di essere illetterato. Molti, infatti, anche in buona fede aveva-no dichiarato di non essere analfabeti perché in grado di scarabocchiare la propria firma o di decifrare qualche semplice scritta avuta sempre sot-to gli occhi.

All’indomani dell’Unità, quando la nascita della scuola elementare pub-blica e l’istituzione dell’obbligo scolastico resero necessaria e urgente la formazione di una nuova classe magistrale, il suo incremento numerico e culturale, la «donna» apparve subito al ceto dirigente di allora, e agli in-tellettuali attenti alle questioni scolastiche, il soggetto naturalmente desti-natario di una missione rivolta all’alfabetizzazione dei ceti popolari, in una prospettiva di salvaguardia dell’ordine morale e delle gerarchie sociali. La vocazione magistrale venne descritta con grande enfasi e le fu attribuita la stessa sacralità del ruolo materno.

La retorica ufficiale, tuttavia, contrastava con le condizioni reali di vi-ta delle maestre di allora, pioniere e artefici della prima educazione na-zionale.

Dalla legge Casati del 1859, che fissava i minimi salariali per maestri e maestre, fino ai primi anni del Novecento il loro stipendio era decurtato di 1/3 rispetto a quello dei colleghi uomini; ed esso si riduceva ulteriormente se l’insegnamento avveniva nelle scuole rurali, dove a insegnare erano so-prattutto le maestre; il loro comportamento era vincolato al rispetto di rigi-de regole morali, pena il mancato rilascio dell’attestato di moralità, neces-sario per insegnare, da parte del Sindaco. Della loro capacità di insegnare ai bambini maschi, soprattutto nel corso elementare superiore, si discusse a lungo in un dibattito in cui si intrecciavano preoccupazioni occupazionali maschili ad argomentazioni tendenti a dimostrare l’inadeguatezza femmi-nile nella trasmissione di valori virili, come il patriottismo e l’attaccamento al lavoro produttivo. Tuttavia, nonostante questi limiti, la figura della mae-stra era socialmente tollerata, mentre l’aspirazione femminile nei confron-ti di professioni culturalmente più elevate veniva duramente stigmatizzata. Allorquando l’assurdo suicidio della maestra Italia Donati (1886)5, ingiu-stamente accusata di essere l’amante del Sindaco di Lamporecchio, il pae-se in cui insegnava, destò nell’opinione pubblica sconcerto e compassione, la sentenza della Corte di Cassazione (1884) che negava a Lydia Pöet, pri-ma laureata in Giurisprudenza, l’iscrizione all’Ordine degli avvocati, pro-prio per il suo essere donna, fu accolta da molti con favore perché perce-

5. Sulla figura di Italia Donati, vedi E. Catarsi, L’educazione del popolo. Momenti e fi-gure dell’istruzione popolare nell’Italia liberale, Juvenilia, Bergamo, 1985; E. Gianini Be-lotti, Prima della quiete. Storia di Italia Donati, Rizzoli, Milano, 2005.

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pita come un argine nei confronti di una “pretesa” femminile considerata eccessiva6.

Contestualmente, negli stessi anni, i percorsi dell’identità femminile si muovono all’interno di un clima culturale che, pur non proteggendo, sul piano sociale ed economico, le cosiddette professioni oblative, le celebra a livello morale e le considerava naturalmente adatte alle donne.

Evidente è il contrasto fra l’enfasi retorica con la quale la cultura uffi-ciale sostiene la donna educatrice e una realtà che, fino al 1877, ne consi-derava la ‘parola’ non degna di fede e le proibisce di testimoniare negli atti pubblici; è noto che fino al 1919 la donna in Italia è stata soggetta all’auto-rità maritale e fino al 1945 non ha avuto il diritto al voto.

Come ha osservato Simonetta Soldani:

Le centinaia di migliaia di bambine che – che nonostante gli alti (e spesso altis-simi) tassi di evasione dall’obbligo – riuscivano ad impadronirsi non solo dell’al-fabeto ma anche dell’idea che il mondo poteva cambiare, così come le decine di migliaia di maestre (62.643 nel 1901) “inventate” nell’arco di poco più di una ge-nerazione e presenti fino nei più remoti angoli della penisola, erano la testimo-nianza vivente di una remota cesura epocale, destinata proprio per questo ad inci-dere a fondo nell’immaginario collettivo, oltre che nella vita quotidiana, nei suoi ritmi e nelle sue aspettative7.

È necessario, tuttavia, sottolineare come il diverso valore attribuito ai singoli gradi dell’insegnamento ed ai docenti ad essi destinati si traducesse

in una sequenza che esplicitava la minore importanza attribuita alle scuole rurali, ai centri meno popolosi, alle classi inferiori e a quelle femminili, e che, dunque, prevedeva nel punto più basso la donna chiamata ad insegnare in una scuola infe-riore femminile di campagna e, in quello più alto l’uomo insediato in una scuola superiore maschile di città. In ogni caso, impiegare una donna permetteva ai mu-nicipi, afflitti da una perenne penuria di bilancio e pervasi da una diffusa indispo-nibilità a spendere per l’istruzione popolare, di risparmiare soldi e di garantirsi ampi margini di discrezionalità nell’adempiere agli obblighi contratti8.

La maggiore presenza delle donne nell’insegnamento elementare pren-de le mosse dal numero delle iscritte alle scuole normali, nelle quali, da un iniziale svantaggio numerico femminile, si registrò già negli ultimi anni dell’Ottocento un sorpasso delle allieve rispetto agli allievi.

6. Ho trattato questo tema in C. Covato, Un’identità divisa. Diventare maestra in Italia fra Otto e Novecento, Archivio Guido Izzi, Roma, 1996.

7. S. Soldani, Premessa, in S. Soldani, a cura di, L’educazione delle donne. Scuola e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, FrancoAngeli, Milano, 1989, p. XVI.

8. S. Soldani, Nascita della maestra elementare, in S. Soldani, G. Turi, a cura di, Fare gli italiani, cit., vol. 1, p. 84.

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Nell’anno 1881-1882, nelle scuole normali, pareggiate e non, erano iscrit-te solo 4.901 alunne, divenute 5.274 nell’anno 1884-1885, ma nel 1890-91 le alunne erano più di 12.000. A parere di Soldani, il fatto che le famiglie spingessero le ragazze a iscriversi alle scuole normali non era legato tan-to al desiderio di conseguire la patente di abilitazione, quanto al fatto che “non si [potesse] aspirare al miglioramento morale e civile, a snebbiare dalla superstizione, ad accostumare a temperanza e a fortezza, ad ordine, a libertà senza il concorso della donna educata”9.

Reali e immaginarie

Anche nelle ricostruzioni letterarie dalla scrittura dolorosa, che pure fanno spesso riferimento a casi drammatici realmente accaduti, si può co-gliere – dato da non trascurare – come l’avventura magistrale e il ruolo di educatrice abbiano rappresentato per molte donne italiane, appartenenti in prevalenza alla piccola borghesia o ai ceti popolari più elevati, sia la pri-ma occasione di proseguire gli studi oltre la scuola elementare sia l’espe-rienza nuova dell’accesso ad una professione, socialmente fragile, ma al limite della trasgressione nella vita di ragazze disposte, per insegnare, a lasciare la famiglia e a vivere da sole, alla ricerca di un’autonomia econo-mica e culturale10.

Alcune rappresentazioni letterarie (si pensi a Edmondo De Amicis, El-vira Mancuso, Luigi Pirandello, Matilde Serao, Ada Negri) hanno messo in luce la complessità di questa esperienza e hanno sottolineato la presen-za, oscurata da astratte idealizzazioni, di una diffusa diffidenza nei con-fronti di figure femminili, simbolicamente esaltate ma, nei fatti, giudicate ancora atipiche e sconcertanti. Indagini recenti, arricchite da un ricorso a fonti documentarie di vario tipo (da quelle archivistiche a quelle letterarie, dalla stampa periodica alla memorialistica e alle testimonianze orali) han-no avviato un importante lavoro di indagine che restituisce al tema l’op-portuno rilievo storico, offuscato in passato da una discutibile marginali-tà storiografica11.

9. Ibidem.10. R. Certini, Bambini e scolari nelle memorie e nei diari di maestri e maestre: tra

biografia e racconto, in C. Covato, S. Ulivieri, a cura di, Itinerari nella storia dell’infan-zia. Bambini e bambine, modelli pedagogici e stili di vita, Unicopli, Milano, 2001, pp. 197-30.

11. S. Ulivieri, Essere donne insegnanti, cit.; P. Pittalis, Voci di maestre, in L. Forti-ni, P. Pittalis, Isolitudine, Iacobelli, Roma, 2010, pp. 17-52; per una aggiornata bibliogra-fia sull’argomento, vedi R. Nigrisoli, La mia scuola, a cura di F. Borruso, Unicopli, Mila-no, 2011, pp. 181-188.

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L’accesso delle donne all’insegnamento, e, contestualmente, ad altre pro-fessioni fortemente segnate da una connotazione oblativa e caritatevole, racchiude in sé, da una parte, il fenomeno nuovo dell’approdo a quella sog-gettività sociale che scaturisce dall’esercizio di una professione, dall’altra, il tentativo perpetrato dalla cultura dominante di allora, di ricondurre que-sto fenomeno, secondo gli ideali borghesi, in una dimensione sociale mo-dellata sulle caratteristiche e i ruoli della vita familiare. La storia della ra-pida femminilizzazione della professione docente si colloca in questo clima culturale e sociale.

Alcune tracce di questo percorso sono presenti nelle numerose rappresen-tazioni letterarie di quegli anni, nelle quali compare come protagonista una donna, spesso interprete inquieta di mutamenti vissuti in modo contradditto-rio e sofferto. Particolarmente interessanti, ai fini del nostro discorso, sono i racconti o i romanzi nei quali la donna protagonista è proprio una maestra, le cui vicende esistenziali sono descritte spesso con crudo realismo e diven-tano, per questo, ancora più significative quando sono narrate da una don-na che, in qualche misura, racconta se stessa, le sue speranze e le sue paure. L’aspirazione a nuovi destini e a nuove libertà, dall’esito spesso non felice, viene affidato, infatti, in questo tipo di letteratura, alla possibilità da parte delle donne di diventare insegnanti, in particolare maestre12.

In generale, però, il loro desiderio di autonomia, di impegno intellettua-le e professionale, sembra ineluttabilmente condannato ad essere duramen-te punito con la maldicenza, la malattia, la solitudine; sebbene le difficoltà, anche le più aspre, non attenuassero l’invincibile forza della speranza, che animava le protagoniste delle vicende narrate. Ma qual era il contenuto di queste speranze?

Come scriveva Elvira Mancuso nel 1906, la grande speranza

che infondeva coraggio alla madre e alla figlia, era la stessa: cioè che Annuzza potesse diventare maestra, e così – pensavano loro – mettersi in grado di guada-gnare lautamente, senza star soggette, come le serve, e senza sfacchinare come le operaie. […] Del resto, nessuna delle due era certa che quella speranza si sarebbe avverata; perché nel paese non vi erano altre scuole che le elementari, e per poter concorrere ad un posto gratuito nel convitto magistrale del capo provincia, ci vo-levano raccomandazioni e denari13.

Il crescente numero di allieve normaliste e di maestre è un fenomeno che riguarda, in modo specifico, la fisionomia e le vicende di due istituzio-

12. G. Bini, La maestra nella letteratura: uno specchio della realtà, in S. Soldani, a cura di, L’educazione delle donne. Scuola e modelli femminili nell’Italia dell’Ottocento, FrancoAngeli, Milano, 1989, pp. 331-362.

13. E. Mancuso, Vecchia storia… inverosimile, Sellerio, Palermo, 1990, p. 13.

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ni scolastiche strettamente interrelate da finalità comuni e, cioè, la scuo-la elementare e popolare e la scuola normale. Esso è stato favorito da un insieme di circostanze maturate soprattutto in ambito economico e politi-co ed ha avuto, allo stesso tempo, ricadute estremamente significative nel campo della vita privata e delle vicende esistenziali di giovani donne che si avventuravano, sulla base di un’esperienza concreta, nella elaborazione di una identità femminile, enfatizzata dal pensiero pedagogico in una versio-ne edulcorata e astratta, ma di fatto resa ardua dal permanere di numerosi pregiudizi e pesanti forme di ostruzionismo.

Proprio nel 1886, Matilde Serao pubblica un racconto fortemente auto-biografico Scuola normale femminile14. La scrittrice, che aveva frequen-tato la scuola normale, non divenne mai maestra, ma lavorò per un bre-ve periodo come impiegata ai telegrafi dello Stato. Il racconto, in cui viene evidenziata con crudo realismo la povertà materiale e culturale della scuo-la normale, contiene una triste ma realistica elencazione dei destini a cui le fanciulle sarebbero approdate dopo la fine degli studi: maestre rurali dece-dute per stenti, per fatica didattica, maestre impegnate e innovatrici, ma-estre mancate e costrette a scelte di vita alternative, fra le quali prevale quella di telegrafiste.

Anche Ada Negri, nel 1917, pubblica, nell’ambito di una raccolta di no-velle dal titolo Le solitarie15, un racconto Anima bianca, in cui viene ripro-posta la rappresentazione della difficile condizione esistenziale di una ma-estra rurale, entusiasta del suo lavoro e molto affezionata agli allievi. Ma, dopo essere stata violentata in un bosco da uno sconosciuto, la giovane ma-estra non si riprenderà più, deperirà e si consumerà fino alla morte.

Nella letteratura verista di ispirazione positivista, dove si narrano le vi-cende di donne, che in un modo o nell’altro osano sfidare il destino, in-seguendo un desiderio di libertà, sono molti i casi che si risolvono con la morte, dovuta alla malattia, alla quale si affida simbolicamente il compi-to di “eseguire” un pesante verdetto sociale. Per quel che riguarda in par-ticolare le maestre, in effetti, il caso letterario è molto vicino alla real-tà. L’esempio più noto, al quale si è già fatto riferimento, è il suicidio della maestra Italia Donati, perseguitata dalle calunnie degli abitanti del paese in cui insegnava e accusata di essere l’amante del sindaco. Il caso impres-sionò fortemente l’opinione pubblica di allora. Come si legge in un articolo comparso nel 1886 sulla rivista «La Margherita. Giornale per signore», dal titolo Le maestre comunali, la Donati

14. M. Serao, Scuola normale femminile, ora in Id., Il romanzo della fanciulla, a cura di F. Bruni, Liguori, Napoli, 1985, pp. 146-185.

15. A. Negri, Le solitarie, ora in Id. Prose, a cura di B. Scalfi, E. Bianchetti, Mondado-ri, Milano, 1966.

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costretta a lottare contro la più infame calunnia, quante lagrime non dovè versa-re! quanti insulti, quanti sorrisi ironici, ella buona e fiera, non fu dannata a vedere negli sguardi di quei villani maligni! – Buon Dio era questo, dunque, il compen-so all’improbo lavoro, cui era addetta per lucrare un tozzo di pane, che non basta-va a sfamarla? Era questo l’avvenire sognato, lì, nelle scuole normali, quando, pri-ma degli ultimi esami, un professore le aveva parlato del “nobile compito” che a lei spettava16.

La reazione di sofferta solidarietà nei confronti della triste vicenda di Italia Donati non si verifica nel caso di Lydia Pöet, prima laureata in Giu-risprudenza, alla quale nel 1884 la Corte di Cassazione rifiutò l’iscrizione all’Ordine degli avvocati con una sentenza che dichiarava l’impossibilità di conciliare la fragile natura femminile con una professione che avrebbe ri-chiesto una forza fisica e morale, tipica del carattere maschile. Infatti, sem-pre sulla rivista «La Margherita…», viene pubblicato un articolo di Carlo Guici L’avvocata, in cui si condanna duramente e con aspra ironia la prete-sa della Poèt, ridenominata Sig.ra Ciarlieri, di svolgere una professione così maschile. Nella descrizione di un immaginario processo, l’avvocata si sen-te spesso male, sviene, non è all’altezza del suo compito:

Dopo un tale accidente, colpita dal ridicolo, la Ciarlieri ha rinunciato all’avvocatu-ra e non potendo ottenere un posto di maestra, dacché non fece gli studi necessa-ri ad avere la patente, consacra la penna a tenere i conti di un negoziante di grana-glie all’ingrosso. Sic transit gloria mundi!17.

Una professione diversa da quella di maestra elementare veniva percepi-ta, dunque, come una provocazione all’ordine naturale e sociale.

Le maestre, particolarmente all’inizio della loro carriera, erano costrette ad affrontare situazioni dure e faticose non soltanto dal punto di vista ma-teriale, ma anche psicologico. A diciassette o diciott’anni, dopo aver fre-quentato la scuola normale, le giovani maestre cominciavano ad insegnare in villaggi molto isolati di montagna o in campagna, lontane dalle loro fa-miglie, che avevano costituito, fino ad allora, con la sola eccezione dell’e-sperienza scolastica, l’unico vissuto affettivo e umano.

Sebbene l’enfatizzazione pedagogica della missione di maestra fosse le-gata proprio al costante tentativo di ricondurre questa professione al carat-tere di una missione simile a quella materna, il matrimonio, dunque l’esse-re sposa e madre, proprio a causa dei problemi fin qui menzionati, non era frequente. Più frequente era, come si è visto, la condizione di solitudine e di nubilato. L’accesso delle donne alle professioni, con il conseguente pe-

16. Pierod, “Le maestre comunali”, La Margerita. Giornale per signore, IV, 16, 1886, p. 3.17. C. Guici, L’avvocata, in Ibidem, IV, 9, p. 7.

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ricolo di un loro coinvolgimento nella vita politica e sociale, rappresenta-va un elemento di rottura nei confronti di una idea della famiglia, eretta, in quegli anni, a simbolo della difesa dell’ordine morale borghese, e conside-rata da molti intellettuali moderati cattolici il più potente baluardo contro il dilagante laicismo di uno Stato incamminato verso una modernità corrotta. Favorire il nubilato delle donne, avviatesi a una professione, poteva costi-tuire una difesa nei confronti dei caratteri dell’istituto familiare borghese e dell’insostituibile ruolo svolto, in esso, dalla madre, che si voleva, appunto, esclusivamente dedita alla funzione materna.

Per alcune professioni come l’insegnamento o la cura dei malati, il nu-bilato era spesso considerato un requisito indispensabile, non solo perché queste professioni erano di fatto molto impegnative e rendevano comples-so il problema di conciliarle con lo svolgimento dei doveri familiari «ma perché questi tipi di lavoro venivano considerati come vocazioni in gra-do di soddisfare pienamente le aspirazioni, anche quelle materne, della donna»18.

In riferimento alla realtà italiana dei primi decenni post-unitari, le in-dagini storiografiche più recenti hanno messo in rilievo soprattutto fatto-ri di carattere politico-economico (la necessità da parte dello Stato di fron-teggiare l’inadeguatezza numerica della classe magistrale), e motivazioni di carattere religioso; quest’ultime avallate, ad esempio, dalla maggiore affi-dabilità delle donne come custodi della morale cattolica.

Com’è noto, la legge Casati del 1859 affidava ai Comuni l’istruzione ele-mentare, fino alla legge Daneo-Credaro del 1911 che sancisce l’avocazione allo Stato delle scuole elementari.

Al problema del superamento del forte tasso di analfabetismo popolare, a cui lo Stato rispondeva con l’istituzione dell’obbligo scolastico per bam-bini e bambine, circoscritto tuttavia al corso inferiore, e cioè ai primi due anni, si collega quello della necessità di formare una classe magistrale, un corpo insegnante, allora quasi del tutto inesistente, in grado di rendere una realtà effettiva la diffusione dell’istruzione popolare, nel difficile tentativo fra l’altro di sottrarre alla Chiesa cattolica il monopolio dell’istruzione.

La cultura religiosa, pedagogica, filosofica e scientifica, al di là delle dif-ferenze ideologiche, ha contribuito fortemente al consolidarsi di apparati simbolici che collocavano irrevocabilmente l’uomo nella vita pubblica e la donna nel privato, con compiti di accudimento coniugale e materno.

In questo clima culturale, l’enfatizzazione della funzione di educatri-ce “virtuosa”, come estensione della missione materna, rappresenta sia la formidabile copertura ideologica di una svalutazione sociale dell’istruzio-

18. G. Bini, La maestra nella letteratura, cit. p. 342.

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ne popolare, sia la volontà di consolidare un modello educativo fortemen-te sessuofobico, che rendeva adatte le donne a educare soprattutto le bam-bine e, per quel che riguarda i bambini, solo quelli del corso elementare inferiore.

Nuove educatrici

Il numero progressivamente decrescente dei maestri, dovuto allo scarso prestigio sociale e economico della professione, pone il problema dell’im-piego delle maestre nel corso elementare superiore maschile. Sul tema si accende una forte discussione. Si tratta di una questione molto rilevante ai fini del contraddittorio affermarsi di una nuova rappresentazione sociale della soggettività femminile. Se il carattere “materno” della donna veniva dato per scontato e, di conseguenza, era pienamente accettato che una ma-estra potesse insegnare nei primi due anni della scuola elementare anche ai bambini, al contrario per il corso superiore veniva considerata da molti as-solutamente disadatta.

A questo proposito, è molto significativa una polemica che si svolge sul «Bollettino dell’Associazione pedagogica nazionale, fra gli insegnanti del-le scuole normali», nel 1902. Nel giugno di quell’anno il periodico pubblica un articolo dal titolo La suggestione e la donna nell’educazione, nel quale vengono riassunti i pregiudizi allora più diffusi, riproposti nel contesto del-la abusata tesi della fragilità femminile come ostacolo all’insegnamento in generale e nelle classi maschili in particolare:

Tutte le manifestazioni dell’energia della volontà, che sono tante e varie, abbiamo cercato di dimostrarlo, valgono dunque per suggestione a formarsi dalla prima età una volontà energica. Se la genesi della moralità è nella genesi del volere, nessuno può dubitare che nel rinforzamento della volontà è il principio di quella padronan-za di sé che costituisce il coronamento dell’educazione, come nemmeno nessuno può dubitare che a produrre questo rinforzamento concorre la frequenza, il contat-to continuo di persone energiche. La donna non mi pare fatta proprio per costitui-re questo rinforzamento della volontà19.

Giulia Stajano Buccheri replica, in modo fermo e veemente, a queste considerazioni, contestando innanzitutto che la fragilità femminile debba essere assunta come dato intrinseco alla natura stessa delle donne: «Non presumo che non ci saranno donne piagnucolose, isteriche, nervose, pigre e

19. G. Genuardi, “La suggestione della donna in educazione”, in Bollettino dell’asso-ciazione pedagogica nazionale, V, 1902, p. 177.

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indolenti, ma credo benissimo che ci saranno uomini paurosi, nervosi, de-boli, snervati: il mondo è stato sempre così»20.

Nel contestare la tesi di Genuardi, l’autrice mette in rilievo soprattutto il cammino compiuto dalle donne nell’acquisizione di una nuova identità.

Lo vedo, sì, lo vedono tutti o molti riconoscono che la donna può e sa raggiunge-re parecchie cose; ma preferiscono vederla fra le pareti domestiche solamente. Le condizioni economiche e sociali e lo spostamento hanno prodotto un guaio serio ed è che le donne, in generale, hanno acquistato la consapevolezza della propria intelligenza e della tenacità della volontà propria e hanno capito di poter riuscire in molti rami che erano loro interdetti prima, e nella gara, o meglio nella lotta per l’esistenza, si fanno avanti, s’incamminano per tutte le vie senza scandagliare se stesse, senza esaminare se siano o no chiamate a far la maestra o la dottoressa, o l’ostetrica; e così quando ci si trovano vogliono continuare21.

È una testimonianza particolarmente interessante in anni in cui l’ideologia dominante tende a rafforzare il carattere esclusivamente mater-no delle professioni femminili.

Anche le vicende degli Istituti Superiori di Magistero femminile di Fi-renze e di Roma, nati, com’è noto, con lo scopo di preparare le insegnanti per la scuola normale, confermano il prevalere di una tendenza a contene-re la dimensione culturale e a favorire, al contrario, le connotazioni mora-li del lavoro formativo. Il fatto che a queste scuole venisse a lungo negato il “grado” universitario è una conferma di questa tendenza.

Il problema dell’accesso delle donne all’insegnamento secondario, in questo difficile contesto, decolla solo nei primi anni del secolo.

Ne è un esempio Elvira Mancuso, l’autrice qui già citata di Vecchia sto-ria… inverosimile, che diviene, in quegli anni, professoressa negli istituti tecnici. La sua storia è emblematica del cammino percorso da un ristretto gruppo di donne che aspirano a coniugare l’impegno intellettuale all’eser-cizio di una professione. Nubile, decisa ed emancipata aveva cominciato a scrivere, nei primi anni del secolo, ricorrendo a vari pseudonimi, su alcu-ne riviste femminili. Pur avendo dovuto affrontare molti ostacoli nell’affer-marsi come scrittrice, la sua opera narrativa rappresenta una testimonianza significativa del tentativo di alcune donne scrittrici di allora di auto-rap-presentare se stesse, ridefinendo una nuova identità femminile. La scrittri-ce incontrò molte difficoltà nello stabilire un rapporto diretto con Capua-na, che disattese in varie occasioni il desiderio di lei di conoscere il critico “tremendo” e “unico” per la sua particolare sensibilità nei confronti della

20. G. Stajano Buccheri, La maestra nelle scuole elementari maschili, in V, 1902, 11, Ibidem, p. 319.

21. Ibidem, p. 318.

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produzione letteraria femminile. Tuttavia nel 1907, Capuana recensì il ro-manzo della Mancuso sulla «Nuova Antologia», nell’ambito di una rasse-gna dedicata alle donne scrittrici, come Madide Serao o Grazia Deledda.

Durante gli anni del fascismo, la Mancuso si chiuse in un totale silenzio, dedicandosi esclusivamente all’insegnamento e rinunciando alle sue attivi-tà letterarie.

L’accesso delle donne laureate all’insegnamento secondario è stato parti-colarmente accidentato. La legge Sonnino-Boselli del 1906, che aveva isti-tuito il nuovo stato giuridico dell’insegnamento secondario, con il regola-mento per il pubblico concorso e la laurea come requisito preferenziale, faceva, infatti, riferimento a un soggetto di genere “maschile”. Ne derivò una ambiguità, oggetto di accese discussioni, sulla possibilità delle donne di accedere all’insegnamento nelle classi maschili.

Con i regolamenti del 1908 e del 1910, di fatto, le possibilità di insegna-mento delle “professoresse” vengono ristrette perché ad esse si vieta di in-segnare nelle scuole miste.

Come ha osservato Marino Raicich,

la situazione era particolarmente ingiusta perché anche se le laureate otteneva-no ottimi risultati potevano però essere assunte solo in classi femminili, le quali in quegli anni tendevano a diminuire, nonostante la crescente scolarizzazione del-le ragazze, a causa della nuova tendenza da parte delle autorità scolastiche peri-feriche e centrali, di privilegiare, sia nei ginnasi sia nelle scuole tecniche, le clas-si miste22.

Ma in seguito, durante la guerra 1915-18, eventi più grandi di queste po-lemiche posero fine alla ghettizzazione delle professoresse nelle scuole femminili. La grande guerra strappò alle cattedre e gettò

nelle trincee molti professori e parecchi di loro non tornarono più. Furono chia-mate a sostituirli, nel clima di mobilitazione generale, e non più per brevi sup-plenze, donne laureate. L’analisi del variare della situazione del corpo docente in vari istituti nel corso di quegli anni conferma l’ampiezza del fenomeno23.

Le prime professoresse della scuola italiana sono accomunate da una analoga condizione sociale: appartengono, cioè, a famiglie di ceto medio o alto-borghese, in generale molto colte, animate dunque da forti interes-si intellettuali, ma ora anche da preoccupazioni economiche, prima sco-nosciute.

22. M. Raicich, Liceo, università e professioni. Un percorso difficile, in S. Soldani, a cura di, L’educazione delle donne, cit., p. 170.

23. Ibidem.

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Le ragazze accedevano all’insegnamento secondario dopo aver conse-guito la laurea ottenuta nell’ambito di studi di tipo umanistico, per loro quasi un destino naturale, sebbene si trattasse

di un destino assai privilegiato se lo paragoniamo a quello di altre donne a loro contemporanee. Questa scelta era per lo più influenzata, come abbiamo visto, dal-le condizioni finanziarie della famiglia ed anche, in misura minore dalla volontà e dalla capacità della ragazza in questione di assumersi le responsabilità inerenti ad un ruolo pubblico.

La prima donna a insegnare in un liceo ad Asti a partire dal 1910, co-me “straordinaria” di letteratura italiana è Sara Treves, prima vincitrice di concorso nei licei. A Torino, nel 1912, si registra il livello probabilmen-te più alto di professionalità femminile: quaranta professoresse, nove donne medico, tre donne ingegnere, due donne avvocato24.

È indubbio che una distanza di classe separa le figlie dei ceti medi pro-fessionali dalla folta schiera delle normaliste. Solo alle prime è consentito l’accesso all’università; spesso sono animate da una ferma determinazione individuale e, nel caso delle figlie di famiglia piccolo-borghese, da un luci-do desiderio di ascesa sociale. Rispetto alle maestre, le professoresse per-cepiscono stipendi più elevati, non sono costrette a trasferirsi in località di-sagiate e sono in contatto con una realtà sociale più elevata.

Tuttavia, anche le professoresse sono costrette ad affrontare una condi-zione difficile, in quegli anni, per una donna. Poco più che ventenni, per le esigenze della carriera devono viaggiare, allontanarsi da casa, vivere da sole.

Alcune sono accompagnate dalla madre, altre viaggiano da sole, emu-le di Paolina Tacchi, «una delle prime professoresse italiane: prima laurea-ta (nel 1895) alla Normale Superiore di Pisa, promossa ordinaria agli inizi del secolo, trasferita a Petralia Sottana un paese delle Madonie, poi a Lec-ce, infine a Livorno»25. Nell’anno scolastico 1920-21, su un totale di 20.742 professori di scuola media superiore, le donne sono 7.133.

Al vertice della camera – nei licei – l’avanzata è lentissima: su 136 professoresse di liceo (i maschi sono 1.076) soltanto nove sono ordinarie (le altre hanno la qua-lifica di “straordinario” o “incaricato”, ma soprattutto sono insediate nelle catte-dre come supplenti dei richiamati). Sessantadue insegnano nei ginnasi (rispetto ai 1.948 insegnanti di sesso maschile); le donne hanno invece l’assoluta supremazia nelle scuole femminili normali (829 contro 426), come nelle complementari altret-tanto femminilizzate (754 contro 230)26.

24. Ibidem, p. 172.25. Ibidem, p. 468.26. Ibidem, pp. 469-470.

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Da un punto di vista sociale e legislativo, l’avvento del fascismo rappre-senta un forte arretramento rispetto al difficile cammino compiuto, in que-sto campo, nel primo ventennio del secolo.

A partire dalla Riforma Gentile fino alla Carta della scuola di Bottai del 1939, si assiste ad un continuo e sistematico tentativo di ridimensionare la presenza delle donne nella scuola sia come allieve sia come insegnanti, e di riportarle nuovamente nel chiuso di una anacronistica cultura “femminile”, ritenuta, peraltro, qualitativamente inferiore a quella riservata ai maschi.

Con la Riforma Gentile del 1923, nasce l’istituto magistrale, destinato a prendere definitivamente il posto della scuola normale, nella formazio-ne dei maestri. La sua fisionomia istituzionale prevede una accentuazione in senso umanistico degli studi e una attenuazione dei contenuti scientifi-ci e metodologici.

Ormai tramontate le richieste di una maggiore professionalità, espres-se dai maestri nei primi anni del secolo, grazie soprattutto allo sviluppo dell’associazionismo magistrale e sindacale, è necessario fare i conti con una ideologia, quella del regime, che vuole trasformare il ruolo dei maestri in una sorta di apostolato laico finalizzato a formare le nuove generazioni allo spirito fascista.

In questo contesto, si cerca in tutti i modi di favorire i maestri maschi, al fine, come si diceva allora, di “virilizzare” l’insegnamento. Per incorag-giare gli uomini alla carriera magistrale vengono addirittura individuati particolari incentivi, come l’esonero dalle tasse scolastiche, le borse di stu-dio, i sussidi e le graduatorie concorsuali distinte per sesso, che favorivano quelle maschili.

Nonostante questo tentativo, il numero delle maestre, probabilmente a causa del permanere della precarietà salariale e sociale della professione, resta sensibilmente più alto. Infatti, «nonostante la propaganda fascista che tendeva a scoraggiare le donne e a incoraggiare invece gli uomini nei con-fronti dell’insegnamento elementare, questa era la proporzione dei sessi nel 1936-‘37: maestre 88.111, maestri 22.435»27.

Un regio decreto del 1926 aveva stabilito l’esclusione delle donne dai concorsi a cattedra di lettere, latino e greco, storia, filosofia, economia po-litica nei Licei e dai concorsi a cattedra di italiano e storia negli Istitu-ti tecnici, col pretesto che la donna non era in grado di «infondere negli allievi lo spirito della romanità». Inoltre, accanto ad una capillare propa-ganda che cercava in tutti i modi di scoraggiare le donne dall’intraprendere studi superiori, nel 1928 viene stabilito per legge che le studentesse iscritte

27. D. Dolza, Per un contributo allo studi delle classi medie in Piemonte nei primi de-cenni del secolo, in U. Levra, N. Tranfaglia, a cura di, Torino fra liberalismo e fascismo, FrancoAngeli, Milano, 1987, p. 112.

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alla scuola secondaria e all’Università debbano pagare il doppio delle tasse pagate dagli studenti28.

Con il Regio decreto del 28 settembre 1934, n. 1680, le donne vengo-no escluse dalla nomina a Preside e Direttore dei Regi istituti e delle Regie scuole d’istruzione media e tecnica.

L’articolo 6 prevede, infatti, che

I presidi e i direttori delle Regie scuole e dei Regi istituti d’istruzione tecnica so-no nominati dal ministro per l’educazione nazionale fra i professori ordinari del-le Regie scuole e dei Regi istituti di istruzione media tecnica appartenenti al Partito Nazionale Fascista […]. Dalla scelta sono escluse le donne, tranne che per le scuo-le professionali femminili e le scuole di magistero professionale per la donna […]29.

Inoltre, con la legge 1° luglio 1940, n. 899 sull’istituzione della scuola media si delibera, nell’art. 9, che «A capo di ogni Scuola media è un pre-side che osserva e fa osservare le leggi e gli ordini delle superiori autori-tà […]. Dall’ufficio di preside della Scuola media sono escluse le donne»30.

L’ostruzionismo nei confronti dell’impegno intellettuale e professiona-le delle donne si fa sempre più aspro. Non a caso, proprio nel 1935, si as-siste all’autoscioglimento della Federazione Italiana Laureate degli Istitu-ti Superiori (FILDIS), che, sulla scia dell’associazionismo femminile, nato fra Ottocento e Novecento, aveva svolto un ruolo significativo nella rivendi-cazione, da parte delle donne laureate, dell’importanza sociale di un lavoro femminile extra-domestico di carattere elevato31.

Gli anni in cui si registrano le più rilevanti restrizioni all’autonomia pro-fessionale delle donne sono gli stessi in cui Mussolini esalta la funzione edu-catrice, materna e oblativa della missione femminile, come valore portante del regime e tutela della salute morale e fisica delle nuove generazioni.

Un impegno importante si chiede con enfasi alle donne educatrici. Esso comporta però lo stare nell’ombra, in una subordinata ritiratezza che escluda qualsiasi forma di protagonismo, di assunzione di cariche direttive, di riven-dicazione dei diritti. Questo impegno comporta il silenzio, come quello cui dovette piegarsi, in quegli anni, insieme a tante altre, Elvira Mancuso32.

28. Ibidem, pp. 86-87.29. Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione nazionale per la realizzazione

delle pari opportunità fra uomo e donna, Donne e diritto, Istituto poligrafico dello Stato, Roma, 1988, II, p. 1462.

30. Ibidem, p. 1494.31. F. Taricone, Una tessera del mosaico. Storia della Federazione italiana laureate e

diplomate negli Istituti superiori, Antares, Pavia, 1992, pp. 26-27.32. Sui temi legati alla nascita di una nuova coscienza femminile nell’Italia del pri-

mo Novecento, cfr. A. Cagnolati, T. Pironi, a cura di, Cambiare gli occhi al mondo intero. Donne nuove ed educazione nelle pagine del “L’alleanza”, Unicopli, Milano, 2006.

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Diventare maestre nella Scuola Normale ‘Laura Bassi’ di Bologna dopo l’Unità

di Mirella D’Ascenzo

Una scuola per la città

A Bologna, nei mesi convulsi compresi tra la fine dello Stato ponti-ficio (12 giugno 1859) e la proclamazione del Regno d’Italia, il gover-natore dell’Emilia, Luigi Carlo Farini, “instancabile al bene di queste provincie”1, come disse Enrico Bottrigari, istituì con decreto del 25 gen-naio 1860 due scuole normali femminili, una a Parma e l’altra a Bologna. Nella delicata fase di avvio del Regno, infatti, si rendeva necessario istitui-re anche a Bologna una scuola capace di

somministrare Maestre bene addottrinate, le quali spargendosi per la Città, e pei Comuni diffondano nella generazione crescente i germi del sapere e della rettitu-dine (giacché, ed è il primo punto) per educare l’umana famiglia importa anzitut-to educare la donna; colla donna incolta crescono agevolmente incolte anche le popolazioni, mancando di quei primi impulsi che esercitano tanta influenza su tut-ta la vita2.

Una scuola, quella per maestre, che a Bologna non c’era, a differenza del Regno del Piemonte, dove era sorta nel 1858. Del resto, non c’era a Bolo-gna neppure una scuola per la preparazione dei maestri, quella scuola nor-male maschile che nacque in città nello stesso 1861, affidata alla Provincia.

Come noto, la Scuola normale, sia maschile sia femminile, era stata de-finita qualche mese prima del decreto Farini del 1860, cioè il 13 novembre 1859, data della legge Casati istitutiva del sistema scolastico piemontese-

1. E. Bottrigari, Cronaca di Bologna, a cura di A. Berselli, Zanichelli, Bologna, 1961, p. 13.

2. Archivio di Stato di Bologna, Provveditorato agli Studi di Bologna, I serie (d’ora in poi ASB, Provv.), b. 43, Fasc. 1860, Opuscolo Scuola Normale per le allieve maestre in Bologna, p. 1.

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lombardo, poi esteso – non senza difficoltà – a tutto il Regno. Per accedere alla Scuola normale era richiesta l’età di sedici anni per i maschi e quindici per le femmine, un attestato di moralità rilasciato dal Comune e uno di sa-na e robusta costituzione fisica. Numerose erano le materie previste: lingua e letteratura italiana, geografia, storia nazionale, aritmetica e contabilità, elementi di geometria, nozioni di storia naturale, fisica e chimica, norme di igiene, disegno lineare, calligrafia e, naturalmente, pedagogia. Nelle scuole femminili erano aggiunti i lavori donneschi, in quelle maschili un corso di agricoltura e di nozioni di diritti e doveri dei cittadini. La scuola durava al massimo tre anni ma, come indicato nel regolamento De Sanctis del 9 set-tembre 1861, al termine dei primi due anni si poteva accedere all’esame di patente dinanzi a una commissione definita dal consiglio provinciale. Ta-le patente era rilasciata dal provveditore per insegnare nei primi due anni di scuola elementare inferiore; invece la patente superiore serviva per inse-gnare nelle scuole elementari del corso superiore3.

Grande era, all’indomani dell’Unità, il bisogno di maestre per pote-re, come auspicato da Massimo d’Azeglio, ‘fare gli italiani’, e combattere la «dolorosa piaga degli analfabeti» e tale era avvertito anche dalle autori-tà statali e comunali preposte all’avvio del sistema scolastico a livello loca-le nella città di Bologna. La Regia Scuola normale femminile, tra le poche chiaramente normate da Farini, nacque in questo contesto nazionale e loca-le ancor prima del Regio Liceo, denominato poi ‘Galvani’. Come il Liceo essa era alle dirette dipendenze dello Stato, anche se al Comune spettava-no le spese dei locali e dell’eventuale annesso convitto per le allieve ester-ne, così come l’attivazione delle scuole elementari e l’assunzione e stipen-dio dei maestri e delle maestre.

Il Comune di Bologna favorì in ogni modo il decollo di questa Scuola, requisito necessario per l’avvio delle scuole elementari femminili comuna-

3. C. Covato, A.M. Sorge, a cura di, Fonti per la storia della scuola. I: L’istruzione nor-male dalla legge Casati all’età giolittiana, Ministero per i Beni culturali e ambientali, Ro-ma, 1994, pp. 42-43. Dal secondo anno era previsto il tirocinio presso una scuola elemen-tare. Le spese degli stipendi dei professori erano a carico dello Stato, mentre ai comuni spettavano quelle dei locali e degli arredi. Sulle Scuole normali e sulla formazione dei mae-stri rinvio almeno a R.S. Di Pol, Cultura pedagogica e professionalità del maestro italiano. Dal Risorgimento ai giorni nostri, Sintagma, Torino, 1998; G. Genovesi, P. Russo, a cura di, La formazione del maestro in Italia, Corbo, Ferrara, 1996; T. Bertilotti, “Tra offerta istitu-zionale e domanda sociale: le Scuole Normali dall’unità alla ‘crisi magistrale’”, Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche, 2, 1995, pp. 379-392 e Ead., Cenno sto-rico sulla malavventurata pratica dei libri di scolastici. Libri di testo perle Scuole Norma-li, politica scolastica e mercato editoriale, ivi, 4, 1997, pp. 231-250; Ead., Maestre a Lucca. Comuni e scuola pubblica nell’Italia liberale, La Scuola, Brescia, 2006; E. Becchi, M. Fer-rari, a cura di, Formare alle professioni. Sacerdoti, principi, educatori, FrancoAngeli, Mila-no, 2009, in particolare i contributi di G. Chiosso, S. Polenghi, C. Ghizzoni, M. Piseri.

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li: nel 1862 le maestre erano solo dodici a fronte di una popolazione di cir-ca 113 mila abitanti nel censimento del 18614. Ciò spinse il Comune a so-stenere la ricerca di locali adeguati alla nuova scuola e il successivo avvio del convitto annesso; contestualmente, dopo una prima proposta ventilata nel 1867 dal sindaco Gioachino Napoleone Pepoli, venne adottata dal 1874-75 la scelta di preferire le maestre anche per il corso popolare triennale maschile, ufficialmente perché

la donna ha l’istinto della educazione, e con la dolcezza del carattere, con la stes-sa gentilezza della persona e dei modi, esercita sopra i suoi alunni un amorevole impero: l’abitudine di vivere in mezzo ai fanciulli le agevola la conoscenza delle anime infantili, e le fa trovare più presto il segreto di cattivarsi da loro, per mezzo dell’affetto, l’attenzione e il rispetto5.

In realtà, è noto che le maestre erano preferite perché il loro stipendio era ridotto di un terzo rispetto a quello dei maestri. Questa scelta provocò anche a Bologna la progressiva “femminilizzazione dell’insegnamento ele-mentare”, col conseguente aumento delle iscritte nella Scuola normale fem-minile bolognese e il declino di quella maschile: nel 1889 su 160 docenti elementari, quarantanove erano maestri e ben 111 maestre6.

Un difficile decollo

La Scuola normale femminile di Bologna iniziò a funzionare nell’anno scolastico 1860-1861. Nei locali della prima sede di via Barberia 400, il pri-mo consiglio direttivo della Scuola si riunì il 12 dicembre 1860, costituito dalle autorità locali (il provveditore Neyrone, l’assessore Enrico Bertolazzi, Enrico Sassoli per la provincia, il Regio ispettore per le scuole primarie Ce-sare Cavara per lo Stato) e da Orazio Barbieri, primo direttore della Scuola. Furono contestualmente nominate le ispettrici che, in base alla legge Casati e al R.D. 24/6/1860, dovevano cooperare al mantenimento del rispetto della buona educazione e creanza, vigilando giornalmente a turno la Scuola stes-

4. ASB, Provv., b. 3, Fascicolo del 1862, ‘Nota dei Maestri, delle Maestre e dei sup-plenti nelle Scuole Pubbliche elementari della città e delle frazioni del Comune di Bolo-gna’, s.d. Sulla nascita e gli sviluppi della scuola elementare a Bologna, cfr. M. D’Ascenzo, La scuola elementare in età liberale. Il caso Bologna (1859-1911), Clueb, Bologna, 1997; Ead., Tra centro e periferia. La scuola elementare a Bologna dalla Daneo-Credaro all’a-vocazione statale (1911-1933), Clueb, Bologna, 2006.

5. A. Dallolio, Gli istituti di istruzione del comune di Bologna dal 1859 al 1889, Regia Tipografia, Bologna, 1892, p. 73.

6. Ibid., pp. 82-86.

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sa7. Esse furono individuate tra le nobildonne bolognesi con spiccato impe-gno risorgimentale e interessi educativi, come Augusta Tanari Malvezzi, Ca-rolina Pepoli Tattini e Teresa Gozzadini8. Barbieri, che era anche docente di pedagogia e morale, rimase in carica fino al 1870, seguito da Francesco Bertolini fino al 1872, da Antonio Quirino tra 1872 e 1876 e da diversi altri direttori; solo nel 1906 sarà nominata una direttrice, Laura Marani Argnani, per un solo anno, e poi Elvira Pierini tra 1923 e 1926.

Fin dall’inizio il consiglio direttivo dovette impegnarsi su più fronti: da un lato, il problema dei locali a carico del Comune, inizialmente posti in via Barberia e poi trasferiti in via Sant’Isaia, nell’ex convento di Sant’An-na, dove si trovano tuttora: una sede secolare, che ha attraversato tutte le stagioni, prima come Scuola normale, intitolata nel 1891 a Laura Bassi, poi come Istituto magistrale (1923-1997), quindi come Liceo delle scienze so-ciali nel 1998-99 ed ora come Liceo delle scienze umane con annesso Li-ceo musicale.

Altra difficoltà concerneva l’applicazione della serie di normative prove-nienti da Torino in merito al funzionamento della Scuola: definizione de-gli orari e dei minuziosi programmi scolastici, funzionamento degli organi preposti alla Scuola, organizzazione degli esami di ammissione delle aspi-ranti allieve che, alle indicazioni nazionali della legge Casati e del Regola-mento del 1860, aggiungevano un certificato d’immunità al vaiolo e il cer-tificato di superamento dell’esame di ammissione9.

Nei primi anni ci fu una scarsa affluenza d’iscrizioni. Secondo il diretto-re Barbieri, vari motivi, tra cui l’assenza del convitto e l’opposizione perva-siva «di un partito che aborre tutto ciò che tende a istruire e ad illuminare i cittadini, partito a cui non ripugna il mettere in essere ogni più artificio-sa insidia, si univano ad allontanare un ragguardevole numero di fanciulle che avrebbero potuto approfittare di una tanta benefica istituzione»10. Bar-

7. Sulla Scuola normale Femminile di Bologna cfr. Studi e inediti per il primo cen-tenario dell’Istituto Magistrale ‘Laura Bassi’, STEB, Bologna, 1960; M.G. Bertani, P. Franceschini, a cura di, Maestre (e maestri) d’Italia: i 150 anni del Liceo ‘Laura Bas-si’, BraDypUS, Bologna, 2011; M.G. Bertani, Primae litterae: abbicì, materie letterarie e missive nella Scuola Normale femminile di 150 anni fa, in 1860-2010. 150 anni del Li-ceo Laura Bassi. Emozioni, ricordi e riflessioni per un anniversario, Pendragon, Bologna, 2011, pp. 112-123.

8. Liceo ‘Laura Bassi’ di Bologna, Archivio della Scuola Normale femminile di Bolo-gna, Deliberazioni del Consiglio Direttivo, Verbale del 12 dicembre 1860. Sulle nobildon-ne bolognesi, educatrici in quanto patriote, rinvio agli scritti di E. Musiani in Educarsi, educare. Percorsi femminili dalla casa alla città, Aracne, Roma, 2012.

9. ASB, Provv., b. 43, Avviso dell’Intendente generale C. Mayr del 21/11/1860.10. ASB, Provv., b. 43, Scuole normali femminili, 1860-1867, Relazione dello sta-

to della Scuola normale femminile in Bologna Primo anno 1861, firmata Orazio Barbie-ri, 6/8/1861.

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bieri alludeva forse allo scontro politico con i cattolici dell’epoca, contrari alla fine del dominio temporale della Chiesa. In effetti, su trentasette iscrit-te all’esame di ammissione solo ventotto furono poi regolarmente immatri-colate, comprese sei uditrici11. Alcune abbandonarono presto e conseguiro-no una sorta di certificato abilitante grazie alla frequenza delle Conferenze Magistrali istituite in quegli anni per reclutare personale già in servizio op-pure in grado di insegnare. Tra loro Maria Atti12, Maria Finelli13, Teresa Mattioli14 e Albina Scandellari15, insegnanti presto in servizio nel Comu-ne di Bologna. Tra le iscritte uditrici si trovavano anche Cleonice e Ma-ria Bertolazzi, figlie di Enrico Bertolazzi, assessore delegato all’istruzione del Comune di Bologna, che inviava le proprie figlie a quella stessa Scuo-la normale a cui il Comune decideva di assegnare un ruolo strategico nel-la formazione delle insegnanti delle scuole elementari bolognesi16. Altri esempi illustri sono quelli di Lavinia Atti ed Elena Muzzi. La prima, fi-glia di Gaetano Atti, direttore delle Scuole elementari di Bologna dal 1862 al 1870 e poi docente di lettere italiane nel Ginnasio comunale, si iscris-se nel 1861 e fu in servizio per lungo tempo. La seconda era figlia di Pie-tro Muzzi, maestro di calligrafia, fratello di Salvatore Muzzi, scrittore e di-vulgatore della Bologna preunitaria, allora molto noto in città17. Le iscritte

11. ASB, Provv., b. 43, Scuole normali femminili, 1860-1867, Lettera del 30 agosto 1861 con tabella annessa.

12. Liceo ‘Laura Bassi’ di Bologna, Archivio della Scuola Normale Laura Bassi di Bo-logna, Registro delle iscrizioni e delle ammissioni, 1861, in cui compare la data di nascita errata da me rettificata dall’Anagrafe storico del Comune di Bologna in 2/5/1830 e morta il 29/5/1888; Atti “ottenne la patente delle Conferenze e lasciò la Scuola’ (ivi).

13. Liceo ‘Laura Bassi’ di Bologna, Archivio della Scuola Normale Laura Bassi di Bo-logna, Registro delle iscrizioni e delle ammissioni, 1861, da cui risulta che, nata a Bologna il 7/8/1833 da Finelli Geminiano e Ugolini Beatrice, e maritata con il muratore Bonetti Pao-lo, con tre figli, fu ammessa il 20/12/1860 e frequentò la Scuola per un solo anno.

14. Liceo ‘Laura Bassi’ di Bologna, Archivio della Scuola Normale femminile di Bolo-gna, Registro delle iscrizioni e delle ammissioni, 1861, da cui risulta che era nata a Bolo-gna l’8/8/1841 da Mattioli Felice e Perazzo Matilde, era nubile e «conseguì alle Conferen-ze la patente elementare e lasciò la Scuola. Negli esami ottenne la patente Normale».

15. Liceo ‘Laura Bassi’ di Bologna, Archivio della Scuola Normale femminile di Bolo-gna, Registro delle iscrizioni e delle ammissioni, anno 1860-61 è la prima iscritta! Si evin-ce che era nata a Bologna il 2/4/1832 da Scandellari Domenico e Masi Marianna, era nu-bile e «ottenne la patente di maestra elementare inferiore nelle Conferenze autunnali del 1860, e lasciò la Scuola».

16. Liceo ‘Laura Bassi’ di Bologna, Archivio della Scuola Normale femminile di Bolo-gna, Registro d’iscrizione e di ammissione, a. s. 1861, da cui si evince che Cleonice era nata a Bologna il 4 marzo 1847 dal dott. Enrico e Carolina Romagnoli, ammessa come uditrice il 7/1/1861; Maria era nata a Bologna il 24/12/1851 ed era uditrice nell’a.a. 1866-67.

17. G. Tortorelli, Salvatore Muzzi (1807-1884) un mediatore della cultura nella Bolo-gna dell’Ottocento, in Id., Il torchio e le torri. Editoria e cultura a Bologna dall’unità al secondo dopoguerra, Pendragon, Bologna, 2006, pp. 153-183.

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dei primi anni provenivano da ceti sociali diversificati. Tra i loro genito-ri c’erano assessori, maestri, impiegati, negozianti, commessi postali, do-mestici, barbieri, ma anche un medico, un veterinario, un farmacista: fin dall’inizio, la Scuola normale fu concepita come strumento di emancipa-zione del ceto medio, espressione di una richiesta di mobilità sociale an-che femminile18.

Nei primi anni, sulla cui ricostruzione mi soffermo in questo breve con-tributo, rinviando a ulteriori approfondimenti in altra sede, furono frequen-ti le lamentele non solo sullo scarso numero di iscritte, ma anche sulla lo-ro impreparazione, che aveva costretto ad abbassare il livello dell’esame di ammissione, in quanto

la maggior parte di esse non sapevano legger bene, nessuna forse sapeva scrive-re correttamente a dettatura, nessuna conosceva l’aritmetica razionale, pochissime conoscevano praticamente le prime quattro operazioni di quella scienza, qualcuna né meno sapeva formare le cifre arabiche…19

Anche i docenti non erano esenti da difficoltà. Molti di loro stentava-no nell’applicazione dei programmi del 186120, che erano svolti inizialmen-te in maniera «artigianale», ad esempio con la lettura dei Racconti di sto-ria sacra del canonico Cristoforo Schmid per la religione, insegnata dal canonico Giovanni Battista Bontà. Quanto alla pedagogia, essa rifletteva il modello piemontese di Rosmini, Gioberti e Rayneri, ma senza l’esplici-ta indicazione dei libri di testo adottati e con l’insistenza sulla morale, rea-lizzata tramite la dettatura di sunti redatti dallo stesso Barbieri su un testo non chiaro, dal generico titolo Dei doveri della donna, di cui non era nep-pure indicato l’autore21.

Una delle difficoltà salienti e costanti fu il controllo della moralità e quindi del comportamento delle aspiranti maestre, tanto che nel consiglio direttivo del 1863 si sottolineava la scarsa attendibilità del certificato di moralità rilasciato dal sindaco, fino a suggerire un controllo dell’illibatez-za, ritenuta pregio essenziale della donna futura “madre ed educatrice”, so-stenendo che

18. Cfr. al riguardo, Maestre (e maestri) d’Italia, cit., p. 35.19. ASB, Provv., b. 47 Scuole Tecniche e Normali 1862-1884, Programma di matemati-

ca e scienze naturali del 1862.20. Con l’eccezione di quelli del professore di lettere dal Ministero si segnalava che «i

programmi hanno una forma vaga e indefinita» in ASB, Provv., b. 43, Scuole normali fem-minili, 1860-1867, Lettera al Provveditore del 12 febbraio 1861.

21. ASB, Provv., b. 43, Scuole normali femminili, 1860-1867, Fasc. 1861, Relazione del-lo stato della Scuola normale femminile in Bologna Primo anno 1861, firmata da Orazio Barbieri il 6 agosto 1861; seguono le Relazioni dei singoli docenti della Scuola per l’a. a. 1860-1861.

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anche in ordine a moralità di condotta, il sig. Direttore opina che il certificato del Municipio, per le Allieve principalmente di Bologna, non offra sufficiente guaren-tigia, per cui invoca un temperamento atto a formarsene un criterio maggiormente esatto sulla condotta delle aspiranti. A ciò è guidato dall’aver potuto scoprire che i costumi di alcune Allieve, non offrono tutta quella illibatezza che è il più bel re-quisito della donna che si prepara ad essere Madre ed Educatrice22.

Tale preoccupazione era ancora più forte nei confronti della vita inter-na del convitto annesso alla Scuola. Esso decollò prima privatamente nei locali della direttrice Enrica Bignami, poi dal 1862 nei locali annessi al-la nuova sede della Scuola normale in via Sant’Isaia, sotto il controllo di una direttrice nominata dal Comune, tale Giovannina Costa: cambiamento che generò invidie e gelosie duramente stigmatizzate dal consiglio direttivo della Scuola nel 1863, composto, non dimentichiamo, da uomini23.

Vita grama nel convitto

Gli inizi della vita del convitto furono difficilissimi, animati da un clima di sospetti e pettegolezzi, espressione del controllo ossessivo esercitato sul-le alunne e sul personale docente, sia maschile sia femminile. Protagoni-sta maschile fu per ben due volte il professore di lettere Biagio Guadagni. Dapprima fu accusato da un’allieva di atteggiamenti eccessivamente con-fidenziali con la coadiutrice del convitto, Annunziata Utili, scatenando la gelosia della moglie del professore e l’ira del marito di lei, che «la richia-mò e la ritenne presso di sé, senza che essa si sia più allontanata»24. Fu poi nuovamente accusato due anni dopo di atteggiamenti troppo affettuo-si con la direttrice del convitto, Giovannina Costa, che fu immediatamente allontanata. Invece il professore rimase per qualche tempo ancora in servi-zio, sebbene sottoposto a doloroso procedimento disciplinare, che sancì poi il suo trasferimento e peregrinazione in numerose sedi scolastiche italiane, nonostante l’amicizia e il sostegno dell’amico Giosuè Carducci25. Non fu-

22. Liceo ‘Laura Bassi’ di Bologna, Archivio della Scuola Normale Laura Bassi di Bo-logna, Adunanza del Consiglio Direttivo della Scuola del 28 marzo 1863.

23. Liceo ‘Laura Bassi’ di Bologna, Archivio della Scuola Normale femminile di Bolo-gna, Verbali del Consiglio Direttivo della Scuola del 23 novembre 1863.

24. ASB, Provv., b. 47, Relazioni Scuole tecniche e normali 1862-1884, a.s. 1861-1862, Scuola Normale femminile di Bologna, Relazione sul Convitto annesso alla Scuola a. s. 1862-63. Si scoprì poi che l’alunna aveva mentito e fu espulsa.

25. Il professor Guadagni continuò a insegnare a Bologna fino al 1865, stimato anche dal provveditore sul piano didattico; «lasciando stare le tacche della vita privata, come professore, aveva credito e abilità grande», scriveva il provveditore al ministro in occasio-ne della necessaria sostituzione, in ASB, Provv., b. 47 Relazioni Scuole tecniche e normali

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rono però casi isolati legati a un singolo professore. Nel 1865 un uomo era visto aggirarsi di notte «sopra certi tetti interni del Convitto ed appressarsi alle finestre del dormitorio»26, scatenando la paura delle alunne e lo scan-dalo in città. Nel 1872 ci fu addirittura un duello tra un giovane e il padre adottivo – ex garibaldino – di un’allieva per la difesa dell’onore27.

Il controllo sulla moralità nella Scuola e nel convitto fu tentato anche tramite i regolamenti, che testimoniano il modello di donna devota, sog-getta a una vita pressoché monacale, erede del modello dell’educandato e della vita claustrale. Nel primo Regolamento del Convitto, approvato dal consiglio comunale di Bologna nel 1864, grande attenzione era prestata al controllo della direttrice e della sua vice, coadiuvate dalle assistenti, a tur-no scelte per un mese tra le alunne, con

l’obbligo d’invigilare con ogni diligenza: a) all’esatta osservanza dei regolamenti; b) al perfezionamento delle Alunne; c) all’applicazione loro allo studio; d) a far lo-ro acquistare l’abito di persona gentile, ed ammaestrarla nelle regole pratiche del buon governo della famiglia, come a tener i libri dei conti, a governar la masse-rizia e a praticare tutto ciò che è richiesto, dal vantaggio del vivere in comune28.

Tra i compiti delle alunne vi erano quelli di

1. Osservare attentamente l’Orario del Convitto e quello della Scuola, presentar-si alle lezioni col massimo raccoglimento, ascoltare, riflettere […] eseguire tutti i compiti […] amare lo studio di sincero affetto; 2. diportarsi per modo che il pette-golezzo, l’invida pretensione, la maldicenza non contaminino questo istruttivo ed educativo consorzio, nel quale l’acquisto della verità dev’essere stimolo potente al progressivo svolgimento del senso morale, ultimo e principale scopo delle future educatrici del popolo; 3. essere esemplari per la buona armonia tra di loro, pel vi-cendevole scambio di servigi, pel modesto contegno della persona, per la sempli-cità del vestire, per la mutua benevolenza, e pel dignitoso rispetto verso ogni ma-niera di superiori29.

Non mancavano casti divertimenti previsti dalla direttrice e approvati dal consiglio, tra cui la passeggiata quotidiana nel giardino e al giovedì e dome-

1862-1884, Trasmissione della relazione del direttore da parte del provveditore, 31/8/1865. Sulla vicenda rinvio anche a M.G. Bertani, Primae litterae, cit.

26. Liceo ‘Laura Bassi’ di Bologna, Archivio della Scuola Normale femminile, Verbali del Consiglio Direttivo, 26 aprile 1865.

27. Liceo ‘Laura Bassi’ di Bologna, Archivio della Scuola Normale femminile, Verbali del Consiglio Direttivo, 19 e 26 dicembre 1872.

28. ASB, Provv., b. 43 Scuola Normale Femminile (1860-1867), Regolamento interno, morale e disciplinare per il Convitto annesso alla regia Scuola Normale femminile di Bo-logna approvato da Consiglio Direttivo nella seduta del 1° dicembre 1863, art. 7.

29. Ibid., art. 9.

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nica anche fuori dall’Istituto «in compagnia della Direttrice o della Vice-Di-rettrice», la possibilità di uscita una volta ogni due settimane accompagna-te dai parenti, in giorni festivi, le visite dei genitori ed il ritorno in famiglia durante le vacanze pasquali (artt. 15-21). Assai rigorose erano soprattut-to le regole per le allieve: ogni lettera doveva essere controllata dalla di-rettrice, sia in entrata sia in uscita poiché era punito ogni «clandestino car-teggio»; inoltre era imposto il silenzio durante lo studio e durante la notte, mentre «in tempo di pranzo o di cena le Alunne hanno facoltà di parlare a voce moderata»30 e di leggere i libri approvati dal direttore se hanno «finiti i loro compiti»31. In sostanza si attingeva al modello di vita claustrale e degli educandati privati, anche se, tuttavia, l’organizzazione rigorosa non era sup-portata da un’adeguata dislocazione degli spazi interni, elemento che non fa-cilitava il controllo; tutto era inoltre soggetto alle istruzioni e agli ordini del direttore della Scuola normale, naturalmente sempre un uomo.

Nel Regolamento economico-finanziario approvato dalla giunta munici-pale il 28 gennaio 1864 erano aggiunti aspetti di tipo tecnico, a conferma di un’organizzazione simil-conventuale del convitto, ispirata alla più com-pleta semplicità, austerità, almeno nelle intenzioni «il Convitto offre alle allieve caffè e latte la mattina; una pietanza a mezzogiorno; minestra, les-so, pietanza, frutta, oppure formaggio, e vino in modica quantità al desina-re che si farà dopo le cinque pomeridiane. Somministra pure il letto in fer-ro col saccone trapuntato, la materassa e il guanciale»32.

Il corredo di ogni allieva, marcato con le iniziali e il numero d’ordi-ne d’entrata nel Convitto, era costituito da «4 Lenzuola. 4 Foderette. 6 Camicie. 8 Paia di calze. 12 Fazzoletti. 6 Sottane. 6 Paia di mutande. 6 Tovaglioli. 6 Asciugamani. 1. Coperta di lana ed imbottita. 2. Sopra-co-perte bianche da letto. Refe, cotone di vario colore e necessario per lavori donneschi»33. A questo corredo individuale era aggiunta anche l’indicazio-ne precisa di “un abito uniforme” da educanda, a sancire l’uniformità delle alunne e un modello femminile di semplicità, di rigore e di austerità, senza alcuna concessione alla frivolezza e al colore:

le alunne vestiranno un abito uniforme di lana scuro, con mantelletta dello stesso colore per l’inverno; un abito di lana bigio, con mantelletta eguale in estate, e per uso interno non potranno avere più di quattro abiti, e non mai di seta. / Il cappel-lino da inverno sarà bleu con nastro dello stesso colore senza fiori, e per l’estate

30. Ibid., artt. 22-26.31. Ibidem.32. ASB, Provv., b. 43, Scuola normale Femminile (1860-1867), Regolamento ammini-

strativo economico per il Convitto annesso alla Regia Scuola Normale femminile di Bolo-gna approvato dalla Giunta municipale nella tornata del 28 gennaio 1864, art. 13.

33. Ibid., art. 16.

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sarà di paglia con nastro bleu pure senza fiori. / Avranno Pettini, Spazzole da abiti e da scarpe, e le calzature occorrenti. Per quanto riguarda la qualità e la forma del vestiario sarà osservata la massima semplicità34.

La preferenza per i colori scuri, l’ostilità alla frivola seta e ai fiori erano l’espressione palese di un’identità magistrale omologata a quella della mo-naca devota alla sua vocazione, vera educatrice virtuosa, semplice e austera: un’identità che entrerà nell’immaginario collettivo della maestra col «colletto bianco e grembiule nero», con l’ulteriore «radicalizzazione dei tratti materni, oblativi e salvifici della professione di maestra»35 durante il regime fascista.

Il rigore richiesto anche dalle norme scritte, ripetute quasi ossessivamente, non può tuttavia non suggerire l’ipotesi di una scarsa loro osservanza da par-te dell’utenza del tempo, analogamente alle ‘grida’ del Manzoni. Tale difficol-tà diminuì probabilmente nel corso degli anni, considerato che nel 1866 una relazione della maestra assistente osservava che le convittrici erano, ormai, «assai pieghevoli, pronte e sommesse ad ogni ordine, facili ad ispirarsi a’ bei sentimenti, calde di vero e santo amor patrio»36, anche se non era possibile svolgere i lavori donneschi prescritti in maniera adeguata, a causa della man-canza di spazio e di tempo delle alunne, oberate dai lavori scolastici; infatti,

i lavori donneschi poi, ramo d’insegnamento che dovrebbe essere considerato di prima necessità, nel programma vi ha assegnato scarsissimo tempo; e non sola-mente le Allieve maestre non sapranno insegnare, ma non sapranno per sé, a me-no che non abbiano avuto precedentemente assiduo esercizio nella famiglia. Se l’Allieva non sa cucire all’ammissione della Scuola Normale, non si deve spera-re che quivi impari. Le ore dedicate a tale insegnamento sono troppo scarse e l’al-lieva fa ben poco calcolo di questa applicazione, aperta com’è ne’ molteplici studi e dalle straordinarie esigenze di programmi. La scuola è mancante di una stanza destinata al lavoro e disposta con comodi sedili e guancialetti su cui appuntare il cucito, con armadi ove riporvi i lavori terminata la lezione, e con una tavola ap-posita sulla quale stendere, misurare e tagliare biancheria; per gli accennati difet-ti, terminato il triennio non sanno neppure tagliare una camicia, giacché qui le al-lieve, devono lavorare sullo stesso tavolino sul quale da ben tre o quattro ore stan piegate pigliando appunti nelle varie lezioni, e non di rado ne consegue che la biancheria sia macchiata d’inchiostro, terminata la lezione poi devono far fardello del proprio lavoro e portarselo le esterne a casa, le convittrici in convitto37.

34. Ibidem.35. C. Covato, Un’identità divisa. Diventare maestra in Italia fra Otto e Novecento,

Archivio Guido Izzi, Roma, 1996, p. 117. 36. ASB, Provv., b. 46 Relazioni licei e ginnasi 1861-1872, Scuola normale femmini-

le, Relazione del Convitto annesso alla Scuola N.F. di Bologna, firmata dalla direttrice del convitto Teresa Rossi il 27 luglio 1866.

37. ASB, Provv., b. 46 Relazioni licei e ginnasi 1861-1872, Scuola normale femminile Relazione di Teresa Rossi, maestra assistente alla Scuola normale F. di Bologna del 27 lu-glio 1866.

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L’importanza dei lavori donneschi, rilevata dalla storiografia di gene-re, in realtà non appare confermata dalle reali modalità di svolgimento nel-la Scuola normale femminile di Bologna, almeno negli anni iniziali consi-derati. Ciò suggerisce ancor più la necessità di procedere verso una storia della scuola capace di penetrare maggiormente nella cultura scolastica re-almente prodotta ‘dal basso’.

Libri, didattica e maestre tra tradizione e cambiamento

Dopo le iniziali difficoltà di avvio organizzativo e didattico, dal pun-to di vista dei contenuti d’insegnamento un cambiamento si cominciò ad avvertire verso la fine degli anni Sessanta, in seguito ai nuovi Programmi del 1867 e al lento ingresso del positivismo in Italia. Intorno al 1869-70 la Scuola normale femminile di Bologna compì un deciso salto di qualità nel-la proposta culturale e didattica, testimoniato anche dalla scelta dei libri di testo e della biblioteca scolastica. Il consiglio dei professori nel 1870 pro-pose l’acquisto di una serie di testi per la biblioteca. In questo elenco erano certamente presenti i testi classici della pedagogia spiritualistica dell’Otto-cento (Lambruschini, Thouar, Rayneri, Carena, Tommaseo, Mayer, Apor-ti, Girard, Parravicini), ma anche un nuovo e più aggiornato gruppo di te-sti come l’Almanacco di Paolo Mantegazza, Il segreto dei grani di sabbia di Maria Pape Carpantier, l’abbonamento al Manuel de l’instruction pri-maire, poi apparso sotto la direzione di Buisson o il Manuel de l’enseigne-ment primaire di Eugene Rendu. Si trattava di testi chiaramente espressio-ne della pedagogia ‘nuova’ del positivismo e della ‘scienza dell’educazione’ nonché della didattica delle lezioni di cose del positivismo europeo, che en-trava così nella Biblioteca scolastica della Scuola normale femminile di Bologna, unitamente ai testi del ‘selfhelpismo’ d’oltralpe tradotti in italiano (Smiles, Chi si aiuta il ciel l’aiuta; Besso, Le grandi scoperte ed invenzio-ni; Lessona, Volere è potere), e ai classici dell’educazione femminile come Le avventure di Telemaco di Fénelon, L’educazione progressiva di Mme Necker De Saussure. Infine, l’opera più ‘moderna’ Dell’educazione mora-le della donna, della celebre scrittrice bolognese Caterina Franceschi Fer-rucci, esempio di educatrice patriottica, e quindi lettura degna di una bi-blioteca scolastica per future maestre38. Oltre che con queste scelte librarie, la Scuola normale femminile di Bologna s’inseriva nel grande circuito del

38. ASB, Provv. b. 44 Scuole normali femminili (1874-1879), Relazione del diretto-re sui corsi liberi, che riferisce contenuto anche dell’adunanza del consiglio dei professori della scuola del 5 marzo 1869, in cui compare indicazione dei libri da comperare per la bi-blioteca da istituire nella Scuola normale femminile di Bologna.

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rinnovamento pedagogico e didattico europeo del positivismo con ulterio-ri sperimentazioni, come l’introduzione della ginnastica attraverso la figura di Emilio Baumann39. Questo rinnovamento coincise, forse non casualmen-te, con la presenza del professor Francesco Bertolini, dapprima nel consi-glio dei professori della Scuola come insegnante di storia e geografia, poi, tra 1870 e 1872, come direttore. Docente presso vari licei italiani, intellet-tuale impegnato e professore di storia presso l’Università di Bologna, Ber-tolini fu uno degli autori di libri di testo di storia per le scuole di ogni or-dine e grado più prolifici del secondo Ottocento. La sua presenza fu molto significativa in questa fase di aggiornamento della Scuola normale femmi-nile di Bologna40. Tale rinnovamento si collocava peraltro nel quadro po-litico cittadino della giunta progressista guidata in quegli anni da Camillo Casarini, che avviava una riforma dell’istruzione elementare cittadina af-fidando di fatto ai maestri della Società degli insegnanti il compito di redi-gere nuovi programmi, nuovi libri di testo e nuovi strumenti della didattica, con una operazione culturale avallata in seguito dall’amministrazione muni-cipale e introdotta realmente nelle scuole. Furono proprio gli anni 1869-1872 che videro un aumento delle richieste di iscrizione delle aspiranti maestre al-la Scuola, parallelo alla maggiore necessità di maestre patentate da assumere nei Comuni della provincia e certamente in quello di Bologna, allora impe-gnato in un’operazione di espansione e razionalizzazione della rete scolastica elementare comunale. Bertolini stesso poteva così scrivere nel 1872 che

tutte le maestre comunali di Bologna, elette dietro pubblico concorso, sono uscite dalla Scuola Normale; ed allieve della nostra Scuola son pur in gran parte le ma-estre presenti nei Comuni di Modena, Ferrara, Ravenna e Forlì. So pure di alcu-ne che furono impiegate dai Municipii di Reggio d’Emilia, Mantova e Roma…41

Nell’impossibilità di ricostruire, per ora, il percorso professionale suc-cessivo delle maestre patentate dalla Scuola normale femminile di Bolo-

39. Liceo ‘Laura Bassi’ di Bologna, Archivio della Scuola Normale femminile di Bo-logna, Verbale del Consiglio direttivo del 5 novembre 1870. Su Baumann e l’introduzio-ne della ginnastica in Italia, si veda M. D’Ascenzo, Alle origini delle attività sportive nel-la scuola italiana: la ginnastica razionale di Emilio Baumann (1860-1884), in R. Farnè, a cura di, Sport e infanzia. Un’esperienza formativa tra gioco e impegno, FrancoAngeli, Mi-lano, 2010, pp. 194-215.

40. Su F. Bertolini (1836-1909), M. D’Ascenzo, ad vocem, Dizionario Biografico degli Educatori, a cura di G. Chiosso e R. Sani, in corso di stampa.

41. R. Scuola Normale femminile di Bologna. Relazione del Direttore Francesco Ber-tolini, Bologna, Regia Tipografia, 1872, p. 8. Sulla frequenza della Scuola Normale fem-minile di Bologna da parte delle maestre dei Comuni della provincia di Bologna rinvio ai dati emersi in M. D’Ascenzo, a cura di, Tutti a scuola? L’istruzione elementare nella pia-nura bolognese tra Otto e Novecento, Clueb, Bologna, 2013.

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gna, si può però notare come tra quelle iscritte quali socie alla Società de-gli insegnanti della provincia di Bologna negli anni Settanta si trovassero alcune ex alunne patentate proprio nella Scuola normale femminile bolo-gnese, come Luigia Benassi42 e le sorelle Ida43 e Imelde Reatti44. Esse fa-cevano parte delle commissioni interne alla Società incaricate di provvede-re alla revisione dei programmi didattici per le scuole elementari cittadine, dei libri di testo e dei musei didattici, come quello realizzato col profes-sor Luigi Bombicci negli anni Ottanta. Si trattava di un gruppo di maestre particolarmente attive, che siglava una presenza magistrale femminile sem-pre meno ‘monacale’ e sottomessa di quanto indicato dalla retorica uffi-ciale: un gruppo di donne docenti sempre più ampio, che giunse, nel 1888, a superare quasi la metà dei loro colleghi maschi nella Società degli inse-gnanti. Si contavano settantanove maestre su 192 iscritti complessivi, an-che se nessuna donna era nel consiglio direttivo della Società, segno di uno scarso potere decisionale effettivo e di una loro condizione forse ancora ‘sotto tutela’. Ciò fu verosimile almeno fino ai primi del Novecento, quan-do entrò in vigore lo statuto della Società degli insegnanti del 1900, dove si affermava che i soci e le socie avevano gli stessi diritti. Diventeranno in-fine tutti elettori ed eleggibili nelle cariche, con diritto di parola e di voto, nello Statuto della Società del 191045.

Ormai le maestre bolognesi avevano conquistato, in età giolittiana, dirit-to di parola e di voto ed erano diventate sempre più attive e combattive nei confronti dell’amministrazione comunale bolognese, con frequenti ricorsi e contrasti ufficiali, appoggiati dai loro colleghi maestri; erano maestre sem-pre più colte che frequentavano con successo la Scuola pedagogica di Bolo-gna per conseguire il diploma di direttrice didattica; erano maestre capaci

42. Detta anche ‘Luisa’, si veda Liceo ‘Laura Bassi’ di Bologna, Archivio della Scuola Normale femminile di Bologna, Registro delle iscrizioni e delle ammissioni, 1861, in cui compare che era nata a Bologna il 4/6/1846 da Valentino Benassi negoziante e Giuliana Amabilli; ammessa come uditrice con 29/30, «nel 63 ottenne la patente Normale di grado superiore. Compì il corso triennale».

43. Liceo ‘Laura Bassi’ di Bologna, Archivio della Scuola Normale Laura Bassi di Bo-logna, Registro delle iscrizioni e delle ammissioni, 1861, in cui compare che, nata a Bolo-gna il 12/4/1846, sorella di Imelde, ammessa il 28/12/1860, «ottenne la patente alle Con-ferenze. Nel 62 maestra Normale di grado inferiore, nel 63 di grado superiore. Compì il corso triennale».

44. Liceo ‘Laura Bassi’ di Bologna, Archivio della Scuola Normale Laura Bassi di Bo-logna, Registro d’iscrizione e di ammissione, a.s. 1861, posizione 12 da cui si evince nata a Bologna il 28/6/1844 da Reatti Giuseppe e Busi Clelia, ammessa il 28/12/1860 con 18/20. Nelle note si dice che «ebbe la patente alle Conferenze; nel 62 fu fatta maestra Normale di grado inferiore, nel 63 di grado superiore. Compì il corso triennale».

45. M. D’Ascenzo, Momenti e figure femminili dell’associazionismo magistrale bologne-se tra Otto e Novecento, in C. Ghizzoni, S. Polenghi, a cura di, L’altra metà della scuola. Educazione e lavoro delle donne tra Otto e Novecento, SEI, Torino, 2008, pp. 215-248.

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di ricoprire incarichi delicati nelle «istituzioni integrative e sussidiarie del-la scuola» nate in età giolittiana e dopo la Grande Guerra, come le colonie scolastiche, le scuole all’aperto, gli asili, gli educatori comunali. Erano ma-estre ormai capaci di guidare anche le sorti della Società degli insegnan-ti di Bologna nella delicata fase dell’ascesa del fascismo, fino alla soppres-sione della Società medesima nel 1926. L’ultima segretaria della Società degli insegnanti di Bologna era stata Enrichetta Gnudi, maestra diploma-ta nella Scuola normale femminile nel 1883, che aveva ricevuto l’incarico di cassiera-economa della Società fin dall’età giolittiana, partecipando alle vicende dell’associazionismo magistrale cittadino fino alla conclusione del 1926. Con questo sempre più folto gruppo di maestre dell’età giolittiana, di cui la Gnudi, né sottomessa né politicamente rivoluzionaria, ma laicamen-te colta ed emancipata, rappresenta l’esempio più significativo, l’immagi-ne della maestra elementare sottomessa e devota, soggetta a un rigore qua-si claustrale, appariva sempre più debole e anacronistica. Il regime fascista cercherà di ripristinare con forza l’antico modello ai fini di una restau-razione dell’ordine costituito, richiamando la tradizionale immagine del-la maestra-madre esemplare, devota alla Patria ma soggetta alla disciplina e all’autorità maschile46. I tempi però erano ormai mutati. Uscite dal ‘boz-zolo’ della Scuola normale ottocentesca e del vecchio cliché della maestra ‘monacale’, devota, sottomessa e silenziosa, quelle donne maestre erano via via diventate ‘farfalle’, più libere di volare. In ciò seguivano il modello di Laura Bassi, additato loro pubblicamente almeno dal 1891, anno dell’intito-lazione della Scuola normale femminile di Bologna alla celebre studiosa e docente del Settecento bolognese47: un modello di donna colta ma non ri-voluzionaria, se non nei fatti e nella prassi, che contribuì a formare in loro quel desiderio di costruire, con sempre maggiore autonomia, la fantastica avventura dell’essere ‘se stesse’, per poter educare in maniera nuova le ita-liane e gli italiani dopo l’Unità.

46. M. D’Ascenzo, Educare la nazione. Le maestre a Bologna tra Otto e Novecento, in F. Tarozzi, E. Betti, a cura di, Le italiane a Bologna. Percorsi al femminile in 150 anni di storia unitaria, Editrice Socialmente, Bologna, 2012, pp. 85-91.

47. M. Cavazza, Genealogie femminili nell’Italia pre-unitaria. Laura Bassi, Clotilde Tambroni, Maria Dalle Donne, in F. Tarozzi, E. Betti, a cura di, Le italiane a Bologna, cit., pp. 65-72. Su Laura Bassi, e la relativa bibliografia, rinvio al contributo di Paula Findlen in questo volume.

Parte II

Donne nella scuola, oggi

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Il professorato nella scuola secondaria in Francia: un trampolino di lancio o una «semi-relegazione» per le donne?

di Marlaine Cacouault-Bitaud

Introduzione

Il professorato nella scuola secondaria è considerato la prima profes-sione di tipo intellettuale che le donne hanno potuto svolgere. Costituisce, in questo senso, un notevole progresso in concomitanza con la possibili-tà per le ragazze di prolungare gli studi, giacché il diploma ottenuto in un liceo consente, su un periodo più o meno lungo, di intraprendere una for-mazione universitaria1. In Francia, il professorato nei licei pubblici è stato concepito fin dal XIX secolo come una professione altamente qualificata alla quale si accede per concorso. Il numero di posti disponibili è in ge-nere inferiore a quello dei candidati, e le donne o gli uomini che supera-no le prove subiscono una selezione rigorosa che consente agli uomini di avere un posto di ruolo come insegnanti nei licei maschili (a partire dal 1802), e alle donne nei licei femminili, istituiti con la Legge Camille Sée del 18802. Prima degli anni 1950, esisteva un solo concorso, l’agrégation, creato nel XVIII secolo. Dopo la seconda guerra mondiale, l’aumento del numero di alunni nella scuola secondaria costringe le autorità pubbliche a istituire un secondo concorso per l’insegnamento: il CAPES (certifica-to di abilitazione all’insegnamento nella scuola secondaria), anch’esso di alto livello, ma con criteri di selezione che variano a seconda della mate-ria e a seconda che si tratti di concorsi riservati alle donne o agli uomini (l’unificazione avviene nel 1976, in quanto gli istituti scolastici diventano

1. Un certo numero di donne ha ottenuto il diploma liceale (baccalauréat) già prima del 1924, quando divenne ufficialmente possibile prepararsi a esso nei licei femminili: nel 1914 le diplomate (bachelières) formano il 6% dell’insieme dei diplomati (bacheliers), nel 1920 il 12%. Si veda C. Christen-Lécuyer, “Les premières étudiantes de l’Université de Paris”, Travail, Genre et Sociétés, 4, 2000: 35-50.

2. Si veda F. Mayeur, L’enseignement secondaire des jeunes filles sous la Troisième République, Presses de la Fondation Nationale des Sciences Politiques, Paris, 1977.

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misti solo nel 1975)3. A prescindere dai singoli casi, la maggioranza del-le insegnanti assunte nella scuola secondaria tra le due guerre e durante il ventennio 1950-1970, periodo in cui la loro partecipazione è in costante progressione4, mostra di avere una buona e addirittura ottima preparazio-ne scolastica e universitaria: nel 1970, rappresentano circa il 55% dei ti-tolari di una agrégation e il 59% dei titolari di un CAPES, e una piccola percentuale ha frequentato le Écoles normales supérieures di Sèvres o di Fontenay. E, in genere, superano con successo i concorsi a un’età più pre-coce dei loro colleghi uomini.

Come mai, quindi, non hanno, almeno in una percentuale simile a quel-la degli uomini, ambito a un posto nell’insegnamento superiore o intrapre-so un’attività di ricerca? Nel 1946, le donne rappresentano solo il 6,5% de-gli universitari e occupano generalmente le cariche accademiche di livello inferiore. Vent’anni dopo, nelle facoltà di lettere e scienze umane, il 9% dei professori ordinari e dei professori associati e il 17% degli assistenti5 sono donne di età compresa tra i 40 e i 49 anni6. Nonostante i progressi, alle so-glie del XXI secolo la proporzione degli uomini resta più elevata: nel 2000 rappresentano il 71,4% dei docenti-ricercatori universitari e il 69,7% dei ri-cercatori del CNRS7.

Si tratta di una domanda assolutamente pertinente nel contesto france-se in cui esiste una correlazione, diversamente da altri paesi europei, tra li-velli secondario e superiore, sia dal punto di vista degli istituti (licei rino-mati, classi preparatorie alle Grandes Écoles) che della formazione degli insegnanti (la qualifica accademica è un criterio decisivo non solo per l’as-sunzione ma anche per l’avanzamento di carriera)8. Anche se il solo titolo di agrégé(e) non basta per presentare domanda per un posto di professore

3. Secondo J.-M. Chapoulie, Les professeurs de l’enseignement secondaire. Un métier de classe moyenne, Ed. MSH, Paris, 1987, p. 24, negli anni 1960 “la selezione è stata me-no forte nei concorsi maschili che negli omologhi concorsi femminili nelle discipline lette-rarie dove i candidati erano sempre sempre molto meno numerosi delle candidate”.

4. M. Cacouault-Bitaud, Professeurs… mais femmes. Carrières et vies privées des en-seignantes du secondaire au 20ème siècle, La Découverte, Paris, 2007.

5. Nel 2010, le donne sono il 19,9% dei professori universitari (ma il 14,8% nelle disci-pline scientifiche) e il 41,5% (ma il 32,1% in Scienze) dei maîtres de conférence (professori incaricati). Le categorie degli assistenti e degli assistenti incaricati (maîtres assistants) so-no state soppresse.

6. R. Pressat, “Professeurs et maîtres assistants de l’enseignement supérieur”, Population, 24, 1969, 3: 563-566.

7. M. Sonnet, “Combien de femmes au CNRS depuis 1939?”, Les femmes dans l’histoi-re du CNRS, Paris, Editions du CNRS, 2004, pp. 39-67; Cacouault-Bitaud, Professeurs… mais femmes, p. 306.

8. La qualifica accademica è importante per la riuscita nei concorsi ed è inoltre valoriz-zata dagli ispettori delle diverse discipline che controllano l’attività degli insegnanti del li-vello secondario.

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associato (è necessario un dottorato), può essere indispensabile per richie-dere un posto nelle discipline umanistiche (storia, lettere, filosofia). Per quanto riguarda la scuola secondaria, insegnare in un liceo è considera-to più prestigioso che insegnare in un collège (scuola media). Ebbene, a pa-ri grado, le donne insegnanti occupano nella maggioranza dei casi un posto in un collège, e sono raramente presenti nelle classi preparatorie, letterarie o scientifiche9.

È quindi evidente che, a pari livello di qualifica, gli uomini riescono a sfruttare meglio le opportunità di promozione legate all’organizzazione del sistema d’insegnamento in Francia. Allo stesso tempo – ed è questo l’aspetto che teniamo qui a sottolineare – questo approccio globale rischia di occultare il fatto che almeno una parte delle insegnanti, e soprattutto le titolari di una agrégation, ma anche alcune titolari del CAPES, hanno avu-to un’evoluzione di carriera, che siano passate o meno dall’insegnamento secondario a quello superiore. I concorsi per l’insegnamento, il cui princi-pio è stato di recente rimesso in discussione10, costituirebbero in definitiva una protezione, tenendo conto del fatto che la dinamica dei rapporti sociali tra i sessi nella sfera privata e nel campo professionale condiziona anche la realizzazione di progetti di promozione intellettuale e professionale. Per ri-assumere, desideriamo dimostrare che, per le donne laureate, il professora-to nella scuola secondaria ha rappresentato e rappresenta tutt’oggi, nel con-tempo o alternativamente, un trampolino di lancio e una semi-relegazione. A tale scopo, abbiamo adottato una prospettiva socio-storica, basandoci su indagini condotte presso insegnanti donne di diverse generazioni. Voglia-mo mettere in evidenza i fattori che hanno consentito ad alcune di loro di avanzare in carriera, paragonando gli itinerari di docenti donne che pre-sentano elementi comuni nei primi anni del percorso professionale e fami-liare, ma che si orientano successivamente in direzioni diverse.

Dopo aver precisato, in primo luogo, gli effetti a lungo termine delle di-sposizioni adottate al momento della creazione di un professorato “femmi-nile”, tratteremo, in seguito, del fenomeno della femminilizzazione della scuola secondaria e delle disparità di genere così come si presentano a par-tire dagli anni 1970 sino agli inizi del XXI secolo. Lungi dal limitarci ai da-

9. M. Cacouault-Bitaud, “Les enseignantes des classes préparatoires: l’atout du grade et de la discipline dans un secteur dominé par les hommes”, in Enseignement secondaire fémi-nin et identité féminine enseignante. Hommage à Françoise Mayeur, ouvrage coordonné par Y. Verneuil, IUFM Champagnes-Ardennes, Troyes, 2009, p. 137. Tra i professori aggre-gati «cattedre superiori» (agrégés «chaires supérieures») che insegnano unicamente nelle classi preparatorie alle Grandes Écoles (CPGE), la presenza femminile arriva al 31,1% nel 2008 mentre alla stessa data raggiunge il 51,2% tra gli agrégés.

10. Poiché gli insegnanti sono ormai reclutati al livello Master, i concorsi del CAPES potrebbero essere minacciati.

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ti statistici globali, concentreremo la nostra attenzione sulle differenze e sul-le evoluzioni più difficili da cogliere e che non sempre sono sfavorevoli al personale femminile. Una terza parte sarà dedicata agli itinerari, considera-ti nella loro diversità. Per concludere, metteremo l’accento sulle riforme re-lative alla formazione iniziale e al reclutamento degli insegnanti avviate nel 2009 e che potrebbero portare a una svalutazione del professorato (abbiamo sempre rifiutato l’idea che la “svalutazione” di una professione superiore sia legata a un’importante presenza delle donne11) e a una fuga dei candidati e delle candidate che hanno ottenuto i migliori risultati all’università.

La creazione del professorato femminile nel XIX secolo e il lungo cammino verso l’uguaglianza

I dibattiti sul diritto delle donne di accedere al sapere e le misure adotta-te in questo campo a partire dal XVIII secolo fino agli inizi del XX secolo in Francia rispecchiano le perplessità, se non addirittura le resistenze, della so-cietà di fronte all’eventualità di un’eguale partecipazione dei due sessi alla tra-smissione e all’elaborazione delle conoscenze. Durante la Rivoluzione, Con-dorcet è l’unico oratore che considera nel suo Rapporto, ispirato alle Memorie sull’istruzione pubblica12, da un lato, la possibilità per le donne di seguire gli studi dalla scuola elementare fino all’università, e dall’altro, di occupare im-pieghi pubblici quali quello di maestra o di insegnante in “concorrenza con gli uomini” e qualsiasi siano le tappe del ciclo di studi. Si mostra anche fa-vorevole alla loro presenza nei laboratori dove potranno condurre ricerche in modo efficace mettendo le loro scoperte al servizio, in particolare, dell’inse-gnamento pubblico. C’è voluto molto tempo per concretizzare, all’interno del-le istituzioni laiche create dallo Stato, questo progetto conforme ai principi re-pubblicani (le donne sono esseri razionali che hanno il diritto e il dovere di istruirsi, contribuiranno inoltre al progresso della scienza e dell’umanità).

Il concorso dell’agrégation è stato istituito per le donne nel 1883. Grazie ad esso, viene offerta loro l’opportunità di ottenere una qualifica in un campo specializzato e di svolgere una professione intellettuale. È l’idea del trampolino di lancio. Ma la volontà di distinguere due professorati, “maschile’ e “femminile”, e di stabilire una gerarchia, è evidente: la “Scuo-

11. M. Cacouault-Bitaud “La féminisation d’une profession signifie-t-elle une baisse de prestige?”, Travail, Genre et Sociétés, 5, 2001, 5: 93-115.

12. Rapporto e progetto di decreto sull’organizzazione generale dell’istruzione pubbli-ca, presentato all’Assemblée nationale, a nome del Comité d’Instruction publique, da Con-dorcet, deputato del dipartimento di Parigi, il 20 et il 21 aprile 1792, pubblicato da C. Hip-peau, L’instruction publique en France pendant la Révolution, Didier et Cie, Paris, 1881; nuova edizione, Klincksieck, Paris, 1991, introduzione di B. Jolivert.

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la” di Sèvres sarà chiamata agli inizi “École normale secondaire” e non “École normale supérieure” come quella degli uomini (l’ENS di Ulm vede la luce durante la Rivoluzione, viene poi chiusa e rifondata nel 1808). Le agrégations sono “femminili” (ci saranno concorsi separati fino agli an-ni 1970), ovvero più generiche (lettere/scienze) dei concorsi “maschili” ; le insegnanti donne sono destinate unicamente a insegnare nelle scuole me-die e nei licei femminili. Durante le guerre, entreranno nei licei maschili, ma ne usciranno alla fine delle ostilità13. Non fanno carriera nell’insegna-mento superiore, nel giornalismo e nella politica come alcuni normalisti, a eccezione di alcune donne dell’alta borghesia come Louise Weiss, paci-fista e femminista, che rinuncia a lasciare Parigi per occupare un posto di agrégée in provincia e, nel 1918, crea la rivista L’Europe nouvelle.

Il baccalauréat verrà preparato ufficialmente negli istituti femmini-li a partire dal 1924 e sostituirà il diplôme de fin d’études, senza valore sul mercato del lavoro. Ma a partire dalla guerra del 1914 le direttrici dei licei prendono iniziative per organizzare corsi di latino, materia indispensabile per sostenere il baccalauréat. Tuttavia, la strada delle libere professioni re-sta difficile, il professorato sembra l’unica attività qualificata accessibile al-le studentesse prima della seconda guerra mondiale. È presentato come la soluzione ideale per le donne che non si sposano e non hanno un patrimo-nio personale. Si vogliono scoraggiare le giovani “borghesi” che oserebbe-ro preferire il lavoro intellettuale alla maternità, o che considerano che le due attività siano compatibili. Ecco perché parlo di “semi-relegazione” o di “vicolo cieco” a proposito del professorato, così come ho parlato di tram-polino di lancio all’inizio del presente articolo.

Eppure, se si esaminano i percorsi di studentesse dell’École supérieure di Sèvres che sono diventate insegnanti di liceo nel periodo tra le due guerre, la nozione di trampolino di lancio si rivela nuovamente la più ap-propriata. In effetti, l’agrégation e l’ENS di Sèvres (o più raramente di Ulm)14 hanno permesso ad alcune pioniere nate verso il 1914 o negli an-ni 1920 di affermarsi nel campo della ricerca: Jacqueline de Romilly (nata nel 1913, studentessa a Ulm nel 1933, deceduta nel 2010), ellenista, profes-sore universitario alla Sorbona, dopo aver insegnato nei licei e nelle clas-si preparatorie; Madeleine Biardeau (1922-2010), studentessa a Sèvres e agrégée in filosofia, specialista delle religioni dell’India, diventata diret-trice di ricerca all’École Pratique des Hautes Etudes. Sono donne apparte-

13. Y. Verneuil, “Les pratiques professionnelles sont-elles sexuées? Les professeurs de l’enseignement secondaire, la coéducation et l’interchangeabilité des personnels entre les deux guerres”, in Enseignement secondaire féminin et identité féminine enseignante, pp. 117-131.

14. Alcune donne, specializzate in lettere classiche o in filosofia (discipline maschili nel periodo tra le due guerre) furono ammesse all’ENS di Ulm insieme con gli uomini.

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nenti alla piccola o media borghesia, che hanno potuto sfruttare il loro ta-lento frequentando una Grande École a Parigi e entrando a far parte di un ambiente intellettuale stimolante. Entrambe hanno dedicato la loro vita al-la ricerca e all’insegnamento e non hanno avuto una vita di famiglia tradi-zionale. Colette Audry, nata nel 1906, agrégée in lettere moderne a 22 anni, insegnò durante tutta la vita nella scuola secondaria, ma si consacrò con-temporanemente alla militanza politica e alla scrittura15. Ha collaborato a diverse riviste, tra cui Temps modernes, con i suoi amici Simone de Beau-voir e Jean-Paul Sartre. Al di fuori di questi casi eccezionali, lo studio dei fascicoli personali conservati negli Archivi nazionali di Parigi permette di osservare che altre insegnanti di licei femminili hanno cercato di approfon-dire le loro conoscenze preparando l’agrégation mentre insegnano, frequen-tando lezioni all’università, ottenendo borse di studio all’estero. Anche l’ac-cesso alla direzione di una scuola rappresenta una promozione importante, sia per l’amministrazione centrale sia per le donne che ne fanno domanda16.

Parallelamente, elementi contenuti nei fascicoli e testimonianze raccolte durante le interviste confermano la tesi secondo la quale l’esercizio del pro-fessorato è vissuto negativamente dalle donne che soffrono a metà carriera della monotonia tipica dell’insegnamento e hanno l’impressione di annoiar-si. Inoltre, le famiglie considerano le donne rimaste nubili come più disponi-bili per occuparsi dei genitori anziani o eseguire le faccende domestiche per i fratelli non ancora sposati. Nel 1935, il 63% dei professori donne dei licei so-no nubili. Nel 1954, il tasso di nubilato raggiunge il 46,8% tra le donne di età compresa tra i 45 e i 54 anni, e il 16,4% della totalità delle donne attive17.

Democratizzazione e femminilizzazione dell’insegnamento secon-dario: dagli anni 1960 al decennio 1990

Prima “democratizzazione” della scuola secondaria e apogeo della fem-minilizzazione: gli anni 1960 e 1970

A partire dagli anni 1960, gli studi secondari sono accessibili a un numero crescente di alunni. C’è bisogno di insegnanti e a candidar-

15. Si veda S. Liatard, Colette Audry 1906-1990. Engagements et identités d’une intel-lectuelle, Presses Universitaires de Rennes, 2010.

16. M. Cacouault-Bitaud, La direction des collèges et des lycées: une affaire d’hom-mes? Genre et inégalités dans l’Education nationale, L’Harmattan, Paris, 2008.

17. M. Cacouault-Bitaud, “Diplôme et célibat: les femmes professeurs de lycée entre les deux guerres”, in Madame ou mademoiselle? Itinéraires de la solitude féminine 18ème-20ème siècle, textes rassemblés par Arlette Farge et Christiane Klapisch-Zuber, Arthaud-Montalba, Paris, 1984, pp. 177-203; Ead., Professeurs… mais femmes, cit.

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si sono soprattutto le donne. Tra il 1950 e il 1974, il tasso di fem-minilizzazione dei professori agrégés è passato dal 41,4% al 56,3% e quello dei professori titolari di un CAPES dal 45,9% al 61,2%. Il ministero dell’istruzione pubblica, che avrebbe preferito che gli uomini continuassero a essere in superiorità numerica soprattutto tra gli agrégés, si rassegna suo malgrado ad «ammettere un aumento della femminilizzazione»18. Ma poiché gli uomini che hanno ottimi risultati nelle discipline scientifiche disdegnano l’insegnamento, non resta che fa-re affidamento sulle donne per mantenere elevato il livello negli indiriz-zi più selettivi, in cui le materie scientifiche sono messe sempre più in va-lore, e nelle classi preparatorie alle Grandes Écoles. Insomma, si offre a malincuore alle donne un trampolino di lancio. L’infatuazione nei con-fronti del professorato conferma l’attrazione delle donne per gli studi e per i vantaggi offerti da un lavoro remunerato e un posto di ruolo. Ben-ché lo stipendio non sia molto elevato, non si discosta di molto dalla re-munerazione delle donne “quadro”, considerate le disuguaglianze esistenti tra uomini e donne in tutti i settori di attività19. In caso di divorzio, assi-cura un’autonomia e una forza di trattativa non trascurabili. Nell’insegna-mento, predominano ormai le donne sposate e con figli. Le aspettative e gli obblighi familiari fanno quindi sorgere il rischio di una semi-relega-zione: può mancare il tempo per preparare un concorso che garantisce una promozione (passare di ruolo quando si è ancora supplenti, diventare titolare di un agrégation quando si possiede il CAPES), si può scegliere il part-time per conciliare vita professionale e familiare, con conseguen-te riduzione dei redditi, dipendenza dal coniuge e un minore impegno al lavoro. Circa il 60% dei mariti svolge una professione superiore20. Si può ottenere un congedo per seguire il coniuge, per prendersi cura di un bam-bino o di un familiare malato, o per accudire un figlio al di sotto degli 8 anni. Questo genere di misure (o il genere di queste misure!) contribuisce a costruire un’immagine dell’insegnante donna meno impegnata nel lavo-ro che in famiglia. Tutti gli ambienti sociali, o quasi, sono favorevoli al-la scelta dell’insegnamento per le donne, con tutte le ambiguità che ciò comporta.

18. Norvez Alain, Le corps enseignant et l’évolution démographique. Effectifs des en-seignants du second degré et besoins futurs, INED-PUF, Paris, 1977, p. 140.

19. Più si sale nella gerarchia degli impieghi, più si approfondiscono le differenze di re-munerazione tra uomini e donne, a detrimento di queste ultime.

20. Insegnanti nel livello secondario e superiore, ingegneri e quadri d’impresa, membri di una professione liberale.

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La seconda democratizzazione: diminuzione e stabilizzazione degli effetti-vi femminili dal 1980 agli anni 2000

Negli anni 1980, il numero delle donne insegnanti cessa di aumenta-re, registrando addirittura una diminuzione. Si stabilizza durante gli anni 1990 e 2000, in cui si assiste all’accelerazione del processo di “democratiz-zazione” della scuola secondaria. La Riforma del 1975 che ha eliminato gli indirizzi nella scuola media21 e la parola d’ordine del ministro dell’Istru-zione, Jean-Pierre Chevènement “l’80% di una classe di età deve arriva-re al baccalauréat”22, producono effetti concreti.  La diminuzione del tas-so di femminilizzazione è più significativa tra gli agrégés, nelle discipline scientifiche e nei licei: tra gli agrégés, la parità è raggiunta negli anni 1990 e 2000; nei licei, le donne titolari di un’agrégation in matematica rappre-sentano il 56% della categoria nel 1975, percentuale che scende al 46% nel 1981. Come nelle altre professioni femminilizzate, gli uomini ambiscono ai posti più prestigiosi: a pari grado e anzianità, sono più numerosi tra i pro-fessori delle classi preparatorie (le donne rappresentano appena il 35%), nei licei e tra i presidi. Nel 2010, il tasso di femminilizzazione degli insegnan-ti di scuola media è del 64%, a fronte del 53% nei licei. Nel 2010, le inse-gnanti di filosofia rappresentano solo il 38,7% (in fisica sono il 42,5%), le insegnanti di lettere il 78% e le insegnanti di lingue vive l’80%. Per rias-sumere, sono soprattutto le insegnanti titolari del CAPES che “fanno anda-re avanti” le scuole medie, dove gli alunni sono più giovani e la professione più difficile da svolgere.

Per spiegare queste evoluzioni, occorre prendere in considerazione due elementi. Innanzitutto, la disoccupazione dei quadri ha provocato un rela-tivo ritorno nell’insegnamento secondario degli uomini che, come vedremo nella terza parte, aspettano meno a lungo delle loro colleghe per richiedere un posto in un liceo, in una classe di baccalauréat o in una classe prepara-toria anche quando i loro risultati universitari non sono eccellenti. Inoltre, le studentesse più brillanti iniziano a diversificare le loro scelte professio-nali. Si assiste così alla femminilizzazione della magistratura come delle professioni di avvocato e di medico23.

21. Prima del 1975 c’erano tre indirizzi nei collegi d’insegnamento secondario (CES); solo gli allievi dell’indirizzo 1 erano preparati per intraprendere gli studi secondari, cioè superiori. I professori certifiés e agrégés insegnavano in questo indirizzo.

22. Il ministro Jean-Pierre Chevènement fissa nel 1985 l’obiettivo del raggiungimento del livello del baccalauréat per l’80% di une classe d’età. Contemporaneamente sono crea-ti i bacs professionali preparati nei Licei professionali. Si veda S. Beaud, 80% au bac… et après? Les enfants de la démocratisation scolaire, La Découverte, Paris, 2002.

23. Nel 2010 il tasso di femminilizzazione dei magistrati è del 57,8% (60% nel 2012). Tra i medici, le donne rappresentano nel 2004 il 37,2% degli effettivi (42% nel 2012); il

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Occorre sottolineare tuttavia l’effetto trampolino di lancio delle misu-re adottate dopo il 1980 e l’arrivo al potere di un governo di sinistra: so-no stati creati i concorsi interni24, che hanno offerto una seconda opportu-nità alle donne che, a causa degli impegni familiari e del carico di lavoro ad inizio di carriera, non avevano preparato il CAPES o l’agrégation subi-to dopo la fine degli studi. In effetti, sulle insegnanti incombe il compito di occuparsi contemporaneamente del percorso scolastico dei loro alunni e di quello dei loro figli in un contesto sociale sempre più teso, in cui la disoc-cupazione giovanile è diventata un “problema sociale”. In più, la tenden-za a “psicologizzare” le questioni legate all’istruzione rafforza la pressione esercitata sulle madri25. Tuttavia, anche se l’insegnamento a tempo parzia-le è sempre più praticato dalle donne, esso riguarda solo una minoranza di professori (il 9,8% nel 2010). Inoltre, esso non significa necessariamen-te una volontà di rinchiudersi tra le mura domestiche. Di certo, consente di conciliare vita professionale e familiare, ma ha anche l’obiettivo di facili-tare la preparazione di un concorso o di una tesi di dottorato, nonché l’ac-cesso alla formazione continua e l’elaborazione di una didattica innovativa.

Per riassumere, le opportunità che si aprono, da un lato, e i limiti impo-sti, dall’altro, all’interno di configurazioni complesse di cui abbiamo chia-rito alcuni aspetti, danno vita a profili e percorsi diversificati. Puntando la nostra attenzione su percorsi femminili, dimostreremo come le dinamiche operanti nell’ambiente professionale e familiare (“trampolino di lancio” e “semi-relegazione”, a seconda delle categorie proposte per spiegarle), agi-scono in modo specifico in funzione di una combinazione di fattori la cui natura, articolazione e effetti variano da un’insegnante all’altra.

Passaggio di ruolo e promozione nella scuola secondaria e supe-riore: a quali condizioni?

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Basandoci su interviste biografiche condotte negli anni 1990 e 2000, confronteremo le carriere di professori donne, o di professori uomini e donne, per dimostrare come le possibilità di promozione sono state sfrut-

tasso di femminilizzazione raggiungerà il 50% nel 2020, tenuto conto del numero di ra-gazze che seguono studi di medicina.

24. Questi concorsi sono riservati a chi ha almeno cinque anni di anzianità come inse-gnante e prevedono una prova professionale oltre alle classiche prove disciplinari.

25. S. Garcia, Mères sous influence. De la cause des femmes à la cause des enfants, La Découverte, Paris, 2011.

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tate, o meno, dalle persone intervistate. Metteremo l’accento sulle diffe-renze esistenti tra le donne stesse e sul modo in cui gli uomini sfruttano i vantaggi a loro offerti da una società in cui i rapporti di genere sono im-prontati alla disuguaglianza.

Il rapporto al sapere appare come un elemento fondamentale nel percor-so delle donne che hanno fatto carriera: dichiarano di essere “appassiona-te” alla loro materia e che il desiderio di comunicare questa passione ha determinato la scelta dell’insegnamento come professione. Questa dispo-sizione, come abbiamo già detto, si concilia perfettamente con le modali-tà di formazione e di reclutamento degli insegnanti in Francia. Tuttavia, il passaggio di ruolo non avviene per tutte allo stesso modo (lo status di sup-plente è più o meno diffuso a seconda dei periodi) e varia l’atteggiamento rispetto alla preparazione dell’agrégation, tra coloro che hanno già ottenuto il CAPES: il possedere tale titolo è per alcune un traguardo, mentre per al-tre rappresenta uno stadio da superare.

In altri termini, il contrasto tra professorato come «trampolino di lancio» o come «semi-relegazione», è percepibile a tutti gli stadi della carriera. L’af-fermarsi di una logica rispetto a un’altra dipende da una moltitudine di fat-tori. Negli anni 1960, ad esempio, la signora T., nata nel 1943, compie studi brillanti al liceo e accede con successo alle classi preparatorie ad indiriz-zo scientifico delle Grandes Ecoles. Ma rinuncia a presentarsi una secon-da volta al concorso dell’Ecole normale supérieure di Sèvres, per frequen-tare l’università nella città in cui il suo fidanzato sta compiendo gli studi di ingegneria. Perde così l’opportunità di preparare l’agrégation in matemati-ca in condizioni ottimali e di far valere il titolo di normalista per richiede-re un posto di insegnante in una classe di ultimo anno di scuola superiore o in una classe preparatoria (è indispensabile il parere favorevole dell’ispetto-re specializzato nella disciplina). La nascita di un figlio e i contrasti tra i co-niugi riguardo alle attività da svolgere durante il tempo trascorso in casa (la signora T. preferisce preparare le lezioni piuttosto che cucinare e occuparsi dei figli, suo marito si infuria quando a casa lei si apparta per lavorare) por-tano la nostra intervistata a rinunciare al concorso per l’agrégation. Dopo il divorzio, prova a trovare compensazione nell’attività didattica per gli alun-ni del ciclo secondario superiore (non le piace insegnare nelle classi di scuo-la media) e nel sostegno agli adolescenti con difficoltà psicologiche e socia-li. Una delle sue colleghe, di ceto sociale più alto (i genitori della signora T. erano insegnanti di scuola elementare, il padre della signora S. era un inge-gnere nato in una famiglia borghese e parigina come la madre) ha un per-corso simile al suo, con la differenza che la signora S. ha frequentato l’ENS di Fontenay dal 1972 al 1975 e ha ottenuto l’agrégation in fisica prima di sposarsi. Anche lei divorziata e madre di tre figli, di cui condivide l’educa-zione con il marito, ha cercato di lasciare l’insegnamento dopo dieci anni di

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servizio per ricoprire un impiego nel settore industriale. Nonostante i cor-si di formazione e gli stages effettuati (agli insegnanti sono stati concessi i «congedi per la formazione »), questo progetto è fallito. Alla fine degli anni 1990, occupa un posto di insegnante a Parigi, in un liceo noto per le scarse prestazioni dei suoi studenti nelle materie scientifiche. Nonostante le delu-sioni provate, intraprende un lavoro di riflessione sulla didattica delle scien-ze fisiche che approderà a delle pubblicazioni. Nel caso della signora T. e della signora S., un progetto contemporaneamente professionale e coniugale ha dettato le modalità di ingresso in carriera, piuttosto a discapito della don-na insegnante e a vantaggio del coniuge ingegnere.

Si osserva un cambiamento studiando il caso di docenti nate tra il 1964 e il 1970 che presentano caratteristiche molto simili a quelle della signora S., in quanto anche loro normaliste (a Sèvres o a Fontenay) e specializzate in fisica. Benché si siano sposate giovani, le signore D. e G., non sono sta-te frenate nelle loro ambizioni, avendo ricevuto la nomina nelle classi pre-paratorie alle Grandes Écoles a indirizzo scientifico. Hanno ottenuto il po-sto a 25 anni, senza aver insegnato nella scuola secondaria, o molto poco. A differenza delle loro colleghe più anziane, le due giovani donne consi-derano la loro prima esperienza lavorativa come una scelta individuale, in-dipendente dal percorso del loro coniuge. Se uno dei due coniugi lavora in una città lontana dal luogo di residenza familiare, l’obbligo di viaggiare di frequente è considerato come il prezzo da pagare per consentire all’altro di fare carriera. Benché gli accordi possano cambiare con il tempo, que-ste docenti hanno le armi necessarie, in termini di prestigio e di remune-razione, per poter trattare con l’amministrazione scolastica e con il coniuge (essendoci anche più carenza di docenti nelle materie scientifiche che nelle materie letterarie). Tuttavia, se si esamina il loro percorso in una prospet-tiva comparativa di genere, il loro successo sembra essere nuovamente de-clinato al femminile: in particolare, la signora G., alla quale era stato pro-posto di lavorare in un laboratorio di ricerca, ha rifiutato questa proposta e non ha neppure cercato di diventare docente-ricercatrice all’università. Ab-biamo motivo di credere che un uomo con le stesse doti (la signora ave-va superato diversi concorsi di Grandes Écoles) non avrebbe scelto di in-segnare in una classe preparatoria, ma avrebbe preferito intraprendere una carriera di ricercatore o dirigenziale nel settore privato. Tali orientamen-ti di genere contribuiscono a spiegare i tassi di femminilizzazione piutto-sto bassi al CNRS e tra i direttori di ricerca26. Al contrario, il signor D., il

26. Nel 2000, le donne sono il 30,3% dei ricercatori del CNRS e il 12,9% dei diret-tori di ricerca di prima classe; si veda Les femmes dans l’histoire du CNRS, Editions du CNRS, Paris, 2004. Nel 2005, sono donne il 25% dei direttori di ricerca di seconda classe, il 12% dei direttori di prima classe e il 12% dei direttori di classe eccezionale.

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cui percorso universitario è meno straordinario di quello delle sue colleghe donne (ha compiuto studi scientifici all’università e ha superato l’agréga-tion più tardi) non ha esitato a far valere le sue competenze presso le au-torità scolastiche e il suo desiderio di abbandonare la scuola secondaria di secondo grado per insegnare nelle classi preparatorie.

Secondo quanto detto nelle interviste, le signore D. e G. hanno l’impres-sione di trovare “un equilibrio” tra, da un lato, i loro risultati negli ambi-ti prettamente “maschili” e, dall’altro, la loro passione per la pedagogia che implica il relazionarsi all’altro e suppone uno sforzo per capire le difficol-tà degli alunni nelle classi dove la competizione è più dura. Rimproverano ai loro colleghi uomini di non tenere sufficientemente conto di queste dif-ficoltà. Anche l’esperienza della maternità è presentata come un fattore di equilibrio, anche se avere più responsabilità genera situazioni alle quali le nostre intervistate non riescono a far fronte senza un aiuto esterno, quello delle loro madri o di una persona remunerata.

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Alcune insegnanti specializzate in materie letterarie (storia, inglese, let-tere moderne) hanno avuto degli inizi difficili avendo iniziato la loro car-riera come supplenti. In Francia, negli anni 1970, i professori non di ruolo rappresentavano il 25% degli insegnanti di scuola media e di liceo. Duran-te gli anni 1980 e 1990, è stato adottato un piano per l’assorbimento in ruo-lo dei supplenti, ma l’esigenza di supplenze regolari rendeva tuttavia ne-cessario l’impiego di questi lavoratori flessibili. Come ho già dimostrato in un’opera già citata, nel caso delle donne questa flessibilità è stata, a vol-te, utilizzata per rispondere alle esigenze della sfera privata pur continuan-do a svolgere un’attività retribuita. Le signore F. e L. che sono state en-trambe casalinghe e supplenti esprimono sentimenti contrastanti rispetto ai loro primi anni d’insegnamento: da un lato, hanno vissuto come umi-liante la condizione di supplente, dall’altro, insegnare significava uscire di casa e valorizzare gli studi in una disciplina che le appassionava. Il pro-fessorato era quindi, contemporaneamente, una “semi-relegazione” e un “trampolino” in questa prima fase della loro carriera. In seguito, sarà l’ef-fetto trampolino di lancio ad affermarsi: l’una e l’altra preparano il concor-so del CAPES, poi quello dell’agrégation agli inizi degli anni 1980 e pre-stano servizio come insegnanti di ruolo prima in una scuola media e poi in un liceo. La signora F., sposata con un professore e madre di un solo figlio, s’iscrive all’università per preparare una tesi di dottorato in storia. Otter-rà un posto in un’università di provincia nel 1990. La signora L., madre di

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tre bambini, insegnante d’inglese, non intende lasciare l’hinterland parigino dove risiede, né spostarsi di frequente. Rifiuta un posto di ispettrice nell’in-segnamento secondario (il tasso di femminilizzazione tra gli ispettori non supera il 39%) e preferisce fare qualche ora di lezione in una classe prepa-ratoria all’istituto HEC (Hautes études commerciales), oltre a continuare a insegnare nella scuola secondaria superiore. Queste insegnanti sono rima-ste sposate, e il loro coniuge, che aveva ricevuto il loro sostegno quando ha iniziato la carriera come professore agrégé o come ingegnere, consente loro di poter effettuare un avanzamento di carriera dopo i trent’anni, quando i fi-gli hanno già una certa autonomia e nella misura in cui la nuova situazione professionale “si concili” con la vita di famiglia. Inoltre, man mano che le mentalità si evolvono, i quadri aziendali sono abbastanza contenti di avere una moglie insegnante; se poi è laureata in lingue, è considerata anche come la compagna ideale per ricevere colleghi stranieri o per viaggiare.

Quanto abbiamo sottolineato a proposito delle giovani specializzate in discipline scientifiche vale anche per le giovani specializzate in discipline letterarie nate tra il 1960 e il 1975: se hanno ottenuto ottimi risultati nella scuola secondaria e all’università, si presentano ai concorsi “sotto la spin-ta degli studi” e proseguono la loro formazione sostenendo una tesi di dot-torato prima dei trent’anni. Hanno allora la possibilità di candidarsi per un posto di professore associato all’università. Inoltre, l’università recluta pro-fessori titolari di un’agrégation o di un CAPES che hanno presentato una richiesta di distacco27. Si osserva che queste insegnanti non sono sposate e diventano, eventualmente, madri verso i 35 anni, diversamente dalle inse-gnanti della generazione precedente. Se, da un lato, una maggiore indipen-denza delle donne rispetto all’istituzione familiare spiega il desiderio di far valere i propri titoli al di fuori della scuola secondaria, dall’altro, occorre anche prendere in considerazione le difficoltà incontrate nelle scuole medie e nei licei per capire questo fenomeno. Sotto l’impulso del decentramento e dell’abbandono della “Carta scolastica”, istituita per assicurare una mag-giore eterogeneità sociale e scolastica, le disparità tra i diversi istituti si so-no aggravate, la violenza nelle scuole è aumentata, l’autonomia degli inse-gnanti è diminuita e il potere dei capi d’istituto si è accresciuto.

I professori, donne e uomini, che riescono a “passare” nell’insegnamen-to superiore rappresentano una minoranza rispetto a quelle e a quelli che svolgono tutta la loro carriera nello stesso ordine di scuola. Una piccola percentuale, soprattutto uomini, diventa capo d’istituto, una funzione che, negli ultimi vent’anni, è stata rivalutata in termini di remunerazione. An-che in questo caso, si osserva una differenza tra donne e uomini: le prime

27. Nel 2010 il 16% degli insegnanti del livello superiore è formato da insegnanti di-staccati all’università.

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sono più anziane dei loro colleghi maschi quando ottengono una prima no-mina (e se hanno figli, aspettano che questi ultimi siano indipendenti) e so-no più spesso nubili o divorziate28.

Conclusione: quale futuro per il professorato? Qual è la posta in gioco per le donne?

Dall’inizio dell’anno scolastico 2010-11, è entrata in vigore una riforma della formazione degli insegnanti. Devono preparare un Master di II livello e partecipare a un concorso per l’insegnamento nello stesso anno. Oltre al fatto che è difficile preparare contemporaneamente un concorso e una te-si di master, viene messa in discussione la formazione offerta dagli IUFM (Instituts universitaires de formation des maîtres): ai nuovi insegnanti vie-ne assegnato un posto a tempo pieno (ossia 18 ore a settimana in una scuo-la media o in un liceo), e contemporaneamente dovrebbero essere formati con l’assistenza di un tutore o di una tutrice ed effettuare dei tirocini. Al-la riapertura dell’anno scolastico 2011-2012, molti hanno dovuto affrontare delle classi difficili, senza esperienza e senza sostegno (a parte, eventual-mente, quello dei dirigenti scolastici). Di conseguenza, le iscrizioni ai con-corsi sono diminuite di un terzo tra il 2010 e il 2011, il tasso di selettivi-tà dei CAPES di alcune discipline è diminuito e, nel 2012, molti posti sono rimasti vacanti.

Dietro le intenzioni dichiarate (innalzare il livello di reclutamento, ra-zionalizzare le spese), si nasconde la volontà di trasformare le condizioni di esercizio della professione e gli habitus dei professori, avendo come ri-ferimento il “modello inglese”: come i loro colleghi d’oltremanica, gli in-segnanti della scuola secondaria francese dovrebbero trascorrere più tem-po nel loro istituto, collaborare di più con i loro colleghi, occuparsi della sorveglianza degli alunni, compito che in Francia è generalmente svolto da un’altra categoria di personale (sorveglianti, educatori). Certo, con la cre-scente democratizzazione, le pratiche sono cambiate (il tempo di presenza nell’istituto si è accresciuto così come la collaborazione tra gli insegnanti), ma la specializzazione nelle discipline (una conquista, per le donne, come abbiamo visto), viene ancora oggi rivendicata come un elemento fondamen-tale dell’identità. Tuttavia, per mantenere il livello dei saperi, è necessario disporre di tempo “libero” da dedicare allo studio e alla preparazione del-le lezioni. Oltretutto, la formazione pedagogica non è concepita come un apprendimento “sul campo” avulso dalla riflessione critica e dagli scambi

28. Cacouault-Bitaud, La direction des collèges et des lycées: une affaire d’hommes?, cit.

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con i colleghi. In questo senso, è considerata da molti insegnanti quale par-te integrante delle competenze intellettuali.

Lungi da noi l’idea che gli uomini non siano interessati da questi cam-biamenti. Anche per loro la riduzione dello statuto e delle remunerazioni (i redditi degli insegnanti sono diminuiti negli anni 1990 e 2000 rispetto ai decenni precedenti), e le crescenti difficoltà connesse all’esercizio del-la professione, hanno un effetto negativo. Tuttavia, come abbia dimostra-to nel corso del presente articolo, la posta in gioco è ancora più importante per le donne, considerata la loro numerosa presenza nei livelli medi della scala gerarchica e gli impegni che pesano su di loro nella sfera familiare. In altri termini, se l’insegnamento perdesse le caratteristiche che fanno del-la professione un “trampolino” (non solo in termini di carriera, ma anche per la soddisfazione provata a progredire nell’acquisizione e nella trasmis-sione delle conoscenze), si affermerebbero le caratteristiche che la rendo-no simile a una “semi-relegazione”: oberate da compiti diversi e costrette a essere polivalenti (l’insegnante di francese può sostituire quella di storia in caso di assenza), le insegnanti donne non potrebbero più avvalersi del loro statuto e delle loro qualifiche per resistere alle esigenze della sfera privata. Questa situazione avrebbe conseguenze negative per gli alunni e per i pro-fessori; le insegnanti che si dedicano con molto impegno agli alunni cul-turalmente più svantaggiati si sentono pervase da un senso di logoramento quando i loro sforzi non sono abbastanza apprezzati. Il cambiamento di go-verno dopo le elezioni di maggio e giugno 2012, cambia i dati del proble-ma, in quanto il nuovo ministro dell’istruzione si è impegnato a reagire di fronte alla “crisi delle vocazioni”, creando un sistema di pre-assunzioni a partire dal secondo anno di università per gli studenti borsisti che desidera-no diventare insegnanti29. Si parla anche di riattivare i tirocini da effettuare prima del reclutamento e che accompagnano i primi passi nell’insegnamen-to. Pertanto, se le autorità pubbliche desiderano ricorrere alle donne per ar-ginare la penuria di professori, in particolare in matematica e in inglese, dovranno integrare una prospettiva di genere nella riflessione. In effetti, la professione smetterà di essere attrattiva se le tensioni nelle scuole si ag-gravano, mentre i compiti domestici non diminuiscono a causa della scarsa partecipazione degli uomini30.

29. Questa misura fa parte dei progetti del nuovo governo subentrato nel 2012. 30. Nel 2010, secondo l’INSEE, le donne dedicavano in media 4 ore e 1 minuto al gior-

no agli impegni domestici, gli uomini 2 ore e 13 minuti.

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L’insegnamento: una professione femminile?

di Alessandro Cavalli

Le cifre del fenomeno

Che la scuola, insieme alla sanità, sia sempre più diventata un setto-re dove l’occupazione femminile si è largamente affermata, superando in misura cospicua quella maschile, è un dato di fatto di dominio comune. Con l’eccezione delle aree di forte presenza islamica (Egitto, India, Paki-stan, Marocco, Tunisia) dove la quota di insegnanti donne oscilla tra 1/3 e 1/2 dell’intero corpo docente, in moltissimi paesi la presenza femmini-le è del tutto preponderante nella scuola dell’infanzia e nella scuola pri-maria e si riduce soltanto, ma non di molto, nella scuola secondaria. Nei paesi dell’OCSE il tasso di femminilizzazione raggiunge l’82% nella scuo-la primaria, il 68,1% nella scuola secondaria di primo grado e il 63% nel-la secondaria di secondo grado. In Italia il fenomeno risulta ancor più accentuato, arrivando al 95,9% nella scuola primaria, al 77% nella secon-daria inferiore e al 63% nella secondaria superiore1.

Negli ultimi vent’anni il tasso di femminilizzazione è salito in Italia per tutti gli ordini di scuola dal 64,5% nel 1990 all’attuale 78,2%. Questo dato è tuttavia in sintonia con un generale incremento della partecipazione fem-minile al mercato del lavoro in tutti i settori, soprattutto del pubblico im-piego (sanità, forze di polizia, magistratura, università e così via), anche se i tassi di attività femminili nel nostro Paese e negli altri paesi del Sud Eu-ropa, ancorché in crescita, restano notevolmente al di sotto della media eu-ropea2. L’occupazione femminile cresce sia nei settori dove era tradizio-nalmente elevata, sia nei settori dove era, e resta, molto bassa. La scuola è

1. I dati più recenti si possono trovare in: www.oecd.org/education/preschoolandschool/educationataglance2011oecdindicators.htm (14/10/2013).

2. Nel 2011 il tasso di occupazione nell’insieme dei paesi OCSE era del 56,7%, mentre in Italia non raggiungeva il 46,5%.

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stata storicamente il primo settore che ha dato spazio all’occupazione fem-minile. Fin dai primi decenni dopo l’Unità la scuola elementare ha funziona-to come un importante canale di mobilità sociale reclutando molte giovani, spesso di origine operaia, che trovavano nel compito di “creare gli italia-ni” una via di emancipazione personale e nello stesso tempo l’opportunità di servire la meta collettiva del riscatto nazionale3. Allora, tuttavia, la quota di “maestri”, sia pure minoritaria, era ancora consistente, mentre i “professori” superavano decisamente come numero le “professoresse”. Attualmente, l’in-segnamento sembra diventato sempre meno attraente per i giovani laureati di genere maschile. Nella scuola primaria per ogni maestro vi sono circa venti maestre, nella scuola secondaria di primo grado il rapporto passa a 3,6 pro-fessoresse per ogni professore, nei licei il rapporto è di 2,3 a 1, mentre negli istituti tecnici e professionali si riduce ulteriormente a 1,4, cioè, grosso mo-do, ogni due insegnanti uomini vi sono tre docenti donne.

Le ipotesi di spiegazione

Come si spiega, in generale, il fenomeno della femminilizzazione del-le professioni educative e la particolare accentuazione che il fenomeno mo-stra nel caso italiano? Le spiegazioni che sono state avanzate possono ve-nir raggruppate, semplificando, in due categorie: da un lato si sostiene che le donne sono “ naturalmente più adatte” ad un mestiere che richiede, ol-tre la messa in campo di competenze cognitive, anche doti relazionali che coinvolgono l’empatia e le emozioni, dall’altro lato vi sono invece coloro che fanno ricorso alla logica della scelta razionale per cui, a parità di tito-lo di studio, imboccare la strada dell’insegnamento sarebbe preferibile per una donna e non per un uomo. La prima fa riferimento a fattori cultura-li che agiscono sulla formazione di valori e atteggiamenti differenziati lun-go linee di genere, la seconda pone l’accento sulla dimensione economica e tiene conto dei vincoli che condizionano le scelte individuali. È facilmen-te comprensibile che le giovani donne mostrino una propensione all’inse-gnamento nella scuola dell’infanzia e primaria maggiore dei loro colleghi maschi, mentre questi casomai prevalgano nei percorsi superiori e, in par-ticolare, in quelli con una forte componente tecnica. Le due linee interpre-tative, tuttavia, non sono necessariamente alternative4.

3. Vedi, S. Soldani, Nascita della maestra elementare, in S. Soldani, G. Turi, a cura di, Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, il Mulino, Bologna, 1993, p. 67 e sgg.

4. Un’efficace sintesi della letteratura sull’argomento si trova in G.L. Argentin, “The Ma-le Routes to the Teaching Career: Motivations, Market Constraints and Gender Inequalities”, International Review of Sociology, 13, 2013.

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A ciò si aggiungono anche altri fattori che riguardano le scelte a mon-te del corso di studi universitari seguiti dove i livelli di segregazione per genere, sia pure meno accentuati che in passato, restano pur sempre assai consistenti. Scienze della formazione e Lettere, facoltà che aprono preva-lentemente sbocchi verso l’insegnamento, sono ancora frequentate in gran-de maggioranza dalle ragazze. Tra i docenti laureati in queste facoltà il rapporto donne/uomini è di cinque a uno. Ingegneria ed Economia e com-mercio, facoltà ancora prevalentemente maschili, raramente aprono la stra-da all’insegnamento. Nelle facoltà di scienze naturali la proporzione è più equilibrata, ma tra coloro che si laureano sono poi in maggioranza le don-ne a scegliere la strada dell’insegnamento. Infatti, tra i laureati di scienze naturali che ora insegnano per ogni professore ci sono 2,1 professoresse5.

A parte il fatto che le scelte a monte (titolo di studio) condizionano le scelte a valle (occupazione/professione), gli insiemi delle motivazioni che spingono a scegliere la professione di insegnante non sono gli stessi per i due generi. Dal punto di vista della situazione economico-famigliare, l’in-segnamento, soprattutto in Italia, difficilmente garantisce un reddito suf-ficiente al mantenimento di una famiglia nella quale il maschio-marito-padre sia l’unico breadwinner e non abbia altri redditi al di fuori del suo lavoro. L’insegnante maschio o vive da solo (caso non del tutto infrequen-te), oppure vive in una condizione dove anche la moglie lavora e spesso è anch’essa insegnante. Sommando insieme due stipendi da insegnante è pos-sibile condurre un’esistenza dignitosa. Per l’insegnante donna, se non vive da single (caso, anche questo, non infrequente) la situazione è spesso diver-sa: il suo diventa, sul piano economico, un contributo integrativo al reddi-to famigliare, mentre la componente principale è assicurata dal marito o da altri introiti non lavorativi.

La dimensione economica non è l’unico fattore, e neppure il più impor-tante, che permette di differenziare le diverse motivazioni con le quali ma-schi e femmine si accostano all’insegnamento. Come tutti sanno, l’orario di lavoro gioca anch’esso un ruolo affatto trascurabile. È indiscutibile che il lavoro dell’insegnante non si esaurisce nelle ore passate in classe davan-ti agli alunni. Se si aggiungono le ore di ricevimento, le ore della program-mazione, i consigli di classe, la preparazione delle lezioni, la preparazione e la correzione delle prove di valutazione e l’organizzazione di molte atti-vità parascolastiche, il tempo da dedicare all’insegnamento non si scosta molto dal normale tempo pieno di un lavoratore qualsiasi. Resta vero, pe-rò, che, almeno per una fase della loro vita, una quota di insegnanti mogli

5. Vedi, A. De Lillo, Insegnanti e disuguaglianze sociali, in A. Cavalli, G.L. Argentin, a cura di, Gli insegnanti italiani: come cambia il modo di fare scuola, il Mulino, Bologna, 2010, p. 20.

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e madri riesce a conciliare la cura della casa e dei figli con l’attività pro-fessionale. È un lavoro a tempo pieno che però all’occorrenza, sia pure con qualche forzatura, riesce a trasformarsi in lavoro a tempo parziale e che, in quanto tale, risulta compatibile con un’organizzazione famigliare fondata sulla “doppia presenza” come lavoratrice extra-domestica e donna di casa.

I fattori economici non sono gli unici fattori motivazionali che accom-pagnano o determinano la scelta professionale. Tutte le ricerche condot-te sulla popolazione dei docenti hanno identificato sostanzialmente tre ti-pi che definiscono modi diversi di porsi nei confronti della professione6. Il primo tipo caratterizza soprattutto gli atteggiamenti professionali della componente femminile. Nel secondo e nel terzo tipo è presente in posizio-ne minoritaria anche la componente maschile. Il primo tipo pone l’accento sulla dimensione vocazionale, sul valore di chi crea e trasmette cultura al-le giovani generazioni, sull’intrinseca bellezza del rapporto che s’instaura con chi sta affrontando il compito di crescere. In questa prospettiva, la sot-tolineatura della dimensione relazionale della cura sembra particolarmen-te coerente con i tratti culturalmente attribuiti alla femminilità, senza con questo escludere che l’interpretazione del proprio ruolo come “vocazione” possa esser fatta propria anche dagli insegnanti maschi. Il secondo tipo ve-de soprattutto gli aspetti strumentali della scelta: per una parte delle inse-gnanti, lo abbiamo appena notato, consente la conciliazione tra lavoro nella scuola e cura della famiglia, per gli insegnanti maschi, soprattutto se inse-gnano materie tecnico-professionali, consente l’esercizio di un secondo la-voro. Il terzo tipo, infine, riguarda gli insegnanti che hanno scelto la scuola in mancanza di alternative migliori per valorizzare gli studi compiuti. Non è un mistero che in Italia molti laureati, soprattutto, ma non solo, delle fa-coltà umanistiche, incontrano serie difficoltà a trovare un lavoro decente e adeguato alle proprie aspirazioni. Per costoro, in alcune fasi recenti della storia del Paese, la scuola ha rappresentato una soluzione di ripiego accet-tabile per un numero non piccolo di giovani laureati, sia maschi (in misura contenuta) che femmine (in misura più ampia). Retribuzioni ridotte e pre-stigio non elevato sono sempre meglio di una lunga permanenza tra le fila della disoccupazione.

Le considerazioni svolte ci aiutano a spiegare il crescente tasso di fem-minilizzazione della professione insegnante. Il fenomeno, lo accennavamo all’inizio, riguarda tutti i sistemi scolastici, con poche eccezioni. In Italia appare particolarmente consistente, sia per il livello retributivo contenu-to, che rende questa professione poco attraente per i laureati di genere ma-

6. Questa tipologia ricalca, con qualche semplificazione, quella proposta da L. Fischer, L’immagine della professione, in A. Cavalli, Gli insegnanti nella scuola che cambia, il Mulino, Bologna, 2000, p. 119 e sgg.

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schile che possono aspirare a posizioni lavorative più prestigiose e meglio retribuite, sia per il livello tradizionalmente molto basso del tasso di attivi-tà della popolazione femminile che fa sì che il mondo dell’istruzione e del-la formazione, insieme alla sanità, sia uno dei pochi dove le giovani laurea-te possono trovare sbocchi soddisfacenti.

Gli effetti sui processi educativi

Una volta identificati i fattori che hanno contribuito alla femminilizza-zione del corpo docente delle nostre scuole bisogna domandarsi quali ef-fetti questa tendenza ha avuto sui processi educativi in generale e, in par-ticolare, sui complessi meccanismi di identificazione e socializzazione e, infine, sugli insegnamenti e gli apprendimenti nelle diverse fasi della cre-scita di bambine e bambini, ragazze e ragazzi. In tema di effetti sugli ap-prendimenti sappiamo ben poco. In Italia non risulta siano state condot-te ricerche empiriche sull’argomento e la letteratura internazionale fornisce risultati contraddittori. Un’indagine condotta da Thomas Dee, docente di economia dell’educazione alla Stanford University, arriva alla conclusione che avere un insegnante dello stesso genere aumenta le prestazioni sia dei maschi sia delle femmine e che il divario di rendimento scolastico tra i due generi è almeno in parte imputabile al fatto che gli studenti maschi hanno lo svantaggio di avere prevalentemente insegnanti donne7. Altre ricerche, invece, non hanno rilevato nessun effetto significativo della corrisponden-za o meno del genere dell’insegnante con quello degli allievi8. Non possia-mo quindi affermare nulla su una solida base scientifica. Ciò vale a mag-gior ragione per l’Italia, dove la ricerca educativa su questi temi è ancora agli inizi. Possiamo però sviluppare una serie di riflessioni e di argomenta-zioni sulla base da un lato del buon senso e dall’altro di ipotesi teoriche sui processi di sviluppo e di socializzazione.

Che le maestre nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria svol-gano un ruolo che per certi aspetti costituisce un prolungamento del ruolo materno è un dato di fatto sostanzialmente accettato nella cultura italiana e non solo. Lo è probabilmente assai meno in quei paesi dove la divisione del lavoro tra padri e madri in tema di cura dei figli è meno accentuata che

7. Thomas S. Dee, Teachers and the Gender Gap in Student Achievement, National Bureau of Economic Research, Working Paper n. 11660, September 2005.

8. M. Neugebauer, M. Helbig, A. Landmann, “Unmasking the Myth of the Same-Sex Teacher Advantage”, European Sociological Review, 27, 2010, 5: 669-89. Vedi anche, G. Driessen, “The Feminization of Primary Education: Effects of Teacher’s Sex on Pupil Achievement, Attitudes and Behaviour”, Review of Education, 53, 2007: 183-203.

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non da noi e di fatto, in questi paesi, la presenza maschile nella scuola è sensibilmente più consistente. In Norvegia, ad esempio, nella scuola prima-ria, il 74% del corpo docente è composto da maestre, in Italia la percentua-le è del 94%. Fa certo la differenza se in una scuola primaria su quattro in-segnanti uno è un uomo, oppure se è un uomo solo un insegnante su venti. È certo singolare la situazione dei (pochi) insegnanti maschi che insegna-no in questi ordini di scuola e che prestano la loro opera in un ambiente di lavoro dominato dalla presenza femminile. Possiamo comunque presume-re che una presenza femminile così massiccia non abbia un impatto ingom-brante prima dell’adolescenza. Può darsi che il “mammismo” che viene at-tribuito ai bambini italiani risulti accentuato dalla presenza quasi esclusiva a scuola di maestre che in qualche modo assumono tratti “materni” nell’e-sercizio del loro ruolo professionale.

I problemi, se ve ne sono, si pongono con l’ingresso nella fase adole-scenziale nella quale, per crescere, sono importanti i modelli di identifi-cazione, le opportunità di interagire con persone che facciano nascere l’a-spirazione a diventare uguali a o diversi da. L’identità di genere è soltanto un aspetto dell’identità di una persona, neppure la più importante, ma cer-to non trascurabile. È possibile avanzare l’ipotesi che gli adolescenti ma-schi abbiano qualche difficoltà in più rispetto alle coetanee femmine di in-contrare e interagire con figure dello stesso genere capaci di porsi come modelli. Lo aveva già colto assai bene anni fa lo psicanalista Alexander Mitscherlich in uno scritto importante dal titolo significativo, Verso una società senza padre9, dove aveva colto il vuoto aperto dall’assenza dei pa-dri nella formazione dei figli in generale e dei figli maschi in particolare. Da allora alcune cose sono cambiate, soprattutto per effetto dei movimen-ti delle donne, e i padri (o almeno alcuni di essi) sono un po’ più partecipi di un tempo all’educazione dei loro figli. In Italia, tuttavia, questi cambia-menti sono partiti in ritardo e hanno proceduto con passo particolarmente lento: l’educazione dei figli è ancora largamente affidata alle madri, quando non delegata interamente alla scuola. Se non del tutto assenti, i padri so-no spesso inadeguati a funzionare da adulti di riferimento. Quando il ruo-lo professionale entra in competizione col ruolo paterno è spesso il primo a prendere il sopravvento; forse oggi con qualche punta di senso di colpa in più di quanto non succedesse un tempo.

Per gli adolescenti maschi la presenza di adulti significativi è franca-mente scarsa. Per coloro che praticano uno sport, gli allenatori delle squa-dre giovanili possono in parte supplire a questa assenza ma, da un lato, non tutti i giovani praticano uno sport in forme organizzate e, dall’altro la-

9. A. Mitscherlich, Auf dem Weg zu einer vaterlosen Gesellschaft, R. Piper, München, 1963 (trad. it. Verso una società senza padre, Feltrinelli, Milano, 1970).

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to, non tutti coloro che hanno scelto il ruolo di allenatore hanno gli atteg-giamenti e le competenze adeguate per funzionare come modelli validi di adulto. Se i rapporti con adulti sono scarsi, sporadici o superficiali è as-sai probabile che gli adolescenti e i giovani in formazione vengano totalita-riamente assorbiti nella vita del gruppo dei pari, spesso, in questa fase del-la vita, omogenei per genere. Il gruppo dei pari svolge certamente un ruolo decisivo nei processi di socializzazione; crescere con la solidarietà di co-loro che devono affrontare gli stessi problemi di formazione dell’identità nel quadro di rapporti non asimmetrici è sicuramente indispensabile. Ma a questi rapporti devono affiancarsi anche rapporti a-simmetrici in termini di età e di autorità e spesso gli adolescenti crescono senza potersi confronta-re con figure adulte, dotate di autorità con le quali potersi, sia pure parzial-mente, identificare.

Insomma, se nella scuola gli adolescenti maschi avessero la possibili-tà di incontrare qualche insegnante dello stesso genere in più credo non sa-rebbe un male. Con questo non ritengo che nelle scuole debba vigere una norma di pari opportunità e quindi che il rapporto tra insegnanti dei due generi debba essere del 50% maschi e del 50% femmine, ma soltanto che uno squilibrio meno accentuato sarebbe probabilmente auspicabile. E for-se lo sarebbe anche per le ragazze. Il problema non deve tuttavia essere so-vra enfatizzato. Per i giovani è importante incontrare dei buoni insegnanti, indipendentemente se dello stesso o dell’altro sesso, e comunque il proble-ma è probabilmente da affrontare a monte, riducendo la segregazione per genere nella scelta degli indirizzi di studio che danno sbocchi professiona-li nella docenza.

La femminilizzazione della dirigenza

Vi è un altro aspetto del processo di femminilizzazione nella scuola ita-liana sul quale merita soffermarsi: la crescente presenza delle donne nei ranghi della dirigenza scolastica10. In passato, la dirigenza era prerogati-va degli insegnanti maschi che avevano raggiunto un certo grado di anzia-nità. In una professione praticamente priva di possibilità di avanzamento il passaggio alla dirigenza finiva per essere l’unica opportunità di carrie-ra. Era anche la modalità che consentiva a insegnanti logorati dal rapporto quotidiano con gli studenti di sottrarsi alle frustrazioni dell’aula e dedicar-si a compiti forse non meno gravosi ma comunque diversi. Inoltre, il ruolo tradizionale del direttore didattico e del preside vedeva prevalere i compi-

10. Vedi, G. Sciotto, Chi sono i dirigenti, in A. Cavalli, L. Fischer, a cura di, Dirigere le scuole oggi, il Mulino, Bologna, 2012, p. 50.

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ti burocratici di raccordo con l’amministrazione centrale e periferica (mi-nistero e provveditorato) sui compiti di coordinamento didattico e di guida e sostegno del lavoro degli insegnanti. Del resto i concorsi per la dirigenza puntavano a valutare soprattutto le competenze in ambito giuridico-ammi-nistrativo. Nell’arco degli ultimi vent’anni il quadro è gradualmente e par-zialmente mutato, soprattutto da quando, seppure timidamente, si è inco-minciato a parlare di autonomia degli istituti scolastici. Nuovi compiti, sia di rapporti con l’esterno (il cosiddetto “territorio”), sia di gestione e organizza-zione interna si sono aggiunti, modificando non poco il ruolo del dirigente.

Questa trasformazione ha coinciso con un graduale incremento del nu-mero di donne in posizione dirigente. Non si tratta più per le nuove diri-genti di coronare una carriera con una esenzione dai compiti di insegna-mento, ma di mettere a frutto l’esperienza accumulata nell’insegnamento per creare condizioni più favorevoli al lavoro delle proprie colleghe e dei propri colleghi e per fare maturare un ambiente più favorevole alla speri-mentazione e alla innovazione didattica. Mentre la crescente femminiliz-zazione del corpo docente, come abbiamo accennato, può legittimamen-te suscitare perplessità, mi sembra di poter affermare che da un incremento della componente femminile nella dirigenza scolastica ci si possono aspet-tare effetti positivi. Qualcuno potrebbe sostenere che l’aumento del nume-ro di dirigenti donne potrebbe costituire un ulteriore incentivo per indurre i giovani laureati maschi a disertare l’insegnamento, nel senso che mostre-rebbero una certa resistenza ad operare in un’organizzazione dove le posi-zioni di comando sono ricoperte da donne. Avremmo bisogno di ricerche mirate su questi aspetti per poter avvalorare o confutare questa ipotesi. Si può però tranquillamente affermare che se la presenza di dirigenti donne fosse associata alla creazione di un clima organizzativo più dinamico, in-novativo e cooperativo all’interno della scuola, l’attrattività della professio-ne, anche per il genere maschile, non potrebbe che aumentare.

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Donne docenti: genere, pedagogie e modelli educativi

di Silvia Leonelli

«La scuola è donna» recitano i titoli giornalistici e testimoniano tutte le ricerche. La scuola è donna nella quasi totalità del mondo e soprattutto in Italia, come sottolinea Alessandro Cavalli nel suo saggio in questo libro, anche se il dato va sfumato a seconda degli ordini di scuola/università, del tipo di percorso formativo considerato, e in relazione alle posizioni dirigenziali. Le spiegazioni sociali, culturali, economiche di tale fenomeno sono molteplici, così pure le sue interpretazioni. Da un lato, si è detto con soddisfazione che la femminilizzazione della scuola italiana è l’esito feli-ce di un processo di emancipazione che ha permesso alle donne di conse-guire risultati importanti, come l’accesso a una professione intellettuale, un reddito stabile e dunque l’indipendenza economica, una certa mobilità so-ciale e geografica, e così via. Dall’altro lato, però, è stato notato con pre-occupazione che la femminilizzazione non pare aver portato a significati-ve trasformazioni nella mentalità collettiva, e non sembra avere inciso su una cultura che in Italia è tipicamente sessista1. Soprattutto è stato regi-strato lo scarto tra il «fuori scuola» e il «dentro la scuola»: fuori, negli ul-timi decenni, le donne si sono fatte interpreti di istanze di cambiamento in numerosi ambiti sociali e culturali, raggiungendo traguardi considere-voli; invece, dentro, le innovazioni sono state di portata più limitata e le docenti hanno spesso mostrato una sorta di inerzia che le ha portate a sot-tovalutare il loro stesso potenziale trasformativo nell’ambito delle questio-ni di genere2.

1. Il Global Gender Gap Report 2013, a cura del World Economic Forum, in tema di parità tra donne e uomini pone l’Italia al 71esimo posto nel mondo; si veda all’indiriz-zo www3.weforum.org/docs/WEF_GenderGap_Report_2013.pdf (ltimo accesso a questo e agli sito citati, in data 13/12/2013).

2. Sul fatto che la sempre più ampia femminilizzazione non abbia portato a scardinare antichi pregiudizi sessisti all’interno del mondo dell’istruzione, si vedano: S. Ulivieri, a cu-

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È evidente che non vi è una risposta netta e definitiva quando ci si chiede se l’aumento della presenza delle docenti nella scuola abbia avuto significati prevalentemente positivi o negativi, meglio soffermarsi ancora sulla questione, e ricercarne ulteriori articolazioni. Il presente saggio, che si pone in continuità con quello di Cavalli in questo libro, si propone di ag-giungere un altro step interpretativo. La femminilizzazione della scuola, si è detto, mostra un’accelerazione negli ultimi decenni, in contemporanea al-la diffusione, in Italia, delle istanze del secondo femminismo. È possibile che, dagli anni Sessanta e Settanta in poi, generazioni di insegnanti abbia-no ignorato le nuove sensibilità sul femminile (e sul genere) che agitava-no e trasformavano il «fuori scuola»? Ovviamente no: in modo più o meno esplicito il pensiero femminista è stato tenuto presente dalle docenti nella loro rappresentazione del ruolo professionale, anche se non necessariamen-te attraverso forme di consenso pubbliche. Ad esempio, e paradossalmente, è legittimo pensare che la cosiddetta «colpa storica delle donne» a scuola – l’essere cioè state a lungo riproduttrici della cultura patriarcale – sia deri-vata da quel loro rifiuto del femminismo, anche nei “gloriosi” anni Settan-ta. Comunque, il legame tra femminilizzazione della scuola e teorizzazioni femministe va indagato, perché non basta rilevare la crescita delle docen-ti nei luoghi dell’educazione formalizzata, bisogna altresì capire come es-se abbiano interpretato il loro essere donne nella scuola o meglio, direbbe Simone de Beauvoir, il loro essere diventate donne. È importante compren-dere, ad esempio, come le insegnanti abbiano espresso (o non espresso) nel tempo la loro responsabilità verso l’identità di genere, in costruzione, dei/lle giovani; come abbiano proposto ad alunne e alunni la questione del-le pari opportunità, dei ruoli e delle relazioni di genere; quale tipologia di progetti educativi abbiano utilizzato a tale proposito e con quali finalità, e così via. Tutti questi aspetti dipendono, anche, da come il dibattito cultura-le coevo a ogni generazione di docenti abbia considerato e proposto il ruo-lo del femminile nel processo educativo.

Il presente lavoro cerca allora di rispondere, dal coté pedagogico, alla consueta domanda – il progressivo aumento delle docenti ha costituito una risorsa educativa per le giovani generazioni e per il Paese oppure ha rap-presentato una criticità (o la può prefigurare per il futuro)? – sulla base di un’ipotesi: il significato della femminilizzazione della scuola italiana può

ra di, Educazione e ruolo femminile. La condizione delle donne in Italia dal secondo do-poguerra a oggi, La Nuova Italia, Firenze, 1992; Ead., a cura di, Essere donne insegnanti: storia, professionalità e cultura di genere, Rosenberg & Sellier, Torino, 1996; Ead., a cura di, Educazione al femminile. Una storia da scoprire, Guerini e Associati, Milano, 2007; R. Pace, Identità e diritti delle donne. Per una cittadinanza di genere nella formazione, Firenze university Press, Firenze, 2010; I. Biemmi, Genere e processi formativi. Sguardi maschili e femminili sulla professione di insegnante, ETS, Pisa, 2010.

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essere meglio compreso se la si considera attraverso la lente dei neo-fem-minismi (al plurale). La femminilizzazione va valutata dopo averla conte-stualizzata rispetto agli snodi del quadro teorico femminista: si vedrà così che essa, dal punto di vista educativo, non è un fenomeno unitario. Sen-za generalizzare, e senza voler estendere queste riflessioni alla totalità delle docenti, si osserverà che il loro “pensarsi-donne” nella scuola è cambiato, sulla base dei tre diversi approcci al femminismo e al genere che si sono succeduti in Italia dagli anni Settanta a oggi. Essi, infatti, hanno avuto echi o ricadute nel mondo scolastico (anche per opposizione, certo); con mag-giore o minore accentuazione, hanno influenzato il viversi-donne all’inter-no dell’istituzione scolastica e nella relazione con i/le giovani3.

Va notato che i neo-femminismi in ambito internazionale sono stati, e sono tuttora, molto variegati e talora compresenti e che, peraltro, manca un accordo generalizzato sulle loro periodizzazioni e sulle definizioni esatte. Qui privilegiamo solo le teorizzazioni che, seppur con sfumature difformi, sono entrate nel dibattito pedagogico italiano e nelle classi.

Preliminarmente a tale disquisizione, c’è una sorta di ricorsività virtuo-sa da sottolineare che riguarda, in modo più ampio, il sapere pedagogico. Ogni nuova costruzione di idee che si affaccia in un determinato periodo storico – sia essa di matrice filosofica, sociologica o psicologica – ha ine-vitabilmente delle ripercussioni nel settore dell’educazione. Dal punto di vista ideale, in una prima fase c’è una rilettura pedagogica, dunque più te-orica, dei nuovi paradigmi culturali; di seguito c’è la «traduzione opera-tiva» delle indicazioni teoriche, attraverso sperimentazioni che vengono condotte direttamente nelle scuole e nei contesti educativi. Ciò che defi-niamo teoria pedagogica si trasforma in uno o più modelli educativi che, solitamente, vengono sottoposti alla prova dei fatti, ripetuti, diffusi, fino a diventare sapere comune. Da rilevare poi – e qui compare la ricorsivi-tà – che l’applicazione concreta di un modello educativo genera un ripen-samento della teoria. Errori, incertezze, sopravvenuti cambiamenti socio-culturali: sono tutti aspetti che costringono i professionisti dell’educazione a riconsiderare il quadro teorico di riferimento. La trasformazione di una teoria (psicologica, sociologica) in teoria pedagogica, e di seguito in uno o più modelli educativi, è un processo lungo e complesso che può richiedere anni. Questa precisazione è importante perché, come vedremo, fino ad ora è intercorso circa un decennio tra le teorizzazioni neo-femministe e il lo-ro approdo nelle aule.

In queste pagine, l’analisi sui significati della femminilizzazione nella scuola italiana sarà condotta esaminando il modo in cui i contributi fem-

3. B. Mapelli, G. Seveso, a cura di, Una storia imprevista. Femminismi del Novecento e educazione, Guerini e Associati, Milano, 2003.

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ministi sono stati recepiti dalle teorie pedagogiche e trasformati in linee-guida per la successiva azione educativa “diretta”4.

Gli anni Settanta: femminilizzazione della scuola e spinta verso l’emancipazione e l’uguaglianza dei diritti formativi

In consonanza con la cosiddetta «rivoluzione culturale» del Ses-santotto, che aveva offerto alla scuola «un impulso antiautoritario e antidogmatico»5, tale fase fu la prima a trattare esplicitamente le questioni di genere nella scuola e nell’educazione, anche se, va detto, le iniziative fu-rono prevalentemente individuali (o in piccoli gruppi di docenti), e ad esse mancò sistematicità, diffusione capillare e soprattutto una robusta teorizza-zione pedagogica complessiva6.

La pubblicazione del volume di Elena Gianini Belotti, Dalla parte delle bambine7 – fotografia spietata dei condizionamenti sociali e culturali subi-ti dalle bambine dell’epoca – diede il via a una serie di riflessioni educati-ve. Tra il 1970 e il 1990 vennero così indagati aspetti in precedenza sol-tanto intuiti, legati al modo sottile, ma incisivo, mediante cui il messaggio dell’inferiorità delle bambine passa attraverso il processo educativo, di ge-nerazione in generazione. Grazie a studi ed esperienze pionieristiche, al-cune (purtroppo poche) insegnanti portarono dentro la scuola i temi della parità e dell’emancipazione femminile, dando luogo a un parziale cambia-mento di sensibilità a livello locale, piuttosto che nel sistema-scuola nazio-nale. Consapevoli delle problematiche di genere che angustiavano la so-cietà italiana del tempo, e della necessità di sviluppare cambiamenti nella mentalità, condivisero una parola d’ordine, uguaglianza: di diritti tra bam-bine e bambini, di accesso all’istruzione e alle esperienze di vita. Il concet-

4. Per riferimenti teorici esaustivi rispetto alle tre periodizzazioni qui proposte, e per la distinzione tra «pedagogia di genere» e «educazione di genere», vedi: S. Leonelli, Educare alla costruzione dell’identità di genere in adolescenza. Studi e ricerche nel con-testo italiano, in C. Albanesi, S. Lorenzini, a cura di, Femmine e maschi nei discorsi tra compagni di classe. Il focus group nella ricerca sul genere in adolescenza, Clueb, Bolo-gna, 2011, pp. 34-61.

5. B. Sandrucci, Pedagogia di genere e delle pari opportunità, in G. Franceschini, a cura di, La formazione consapevole. Studi di pedagogia e didattica per le scuole seconda-rie, ETS, Pisa, 2006, p. 126, dove si definisce l’incontro tra femminismo e pedagogia “una felice alleanza”.

6. Sul silenzio della pedagogia prima degli anni Settanta rispetto alla dimensione del ge-nere, vedi: F. Cambi, La scoperta del genere. Società italiana, cultura pedagogica e que-stione femminile, in S. Ulivieri, a cura di, Educazione e ruolo femminile, cit., pp. 31-63.

7. E. Gianini Belotti, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti so-ciali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Feltrinelli, Milano, 1973.

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to di uguaglianza tra i sessi, però, applicato al mondo culturale e scolastico si dimostrò insidioso quasi da subito, e i problemi furono due, qui curvati in chiave educativa:

-so il femminile e il maschile socialmente intesi, e l’incapacità delle do-centi di cogliere se stesse e i/le giovani come soggetti sessuati, aventi una storia permeata da condizionamenti di genere;

-mente sottinteso – dell’azione educativa rivolta a bambine e ragazze il «di-ventare uguali» agli uomini, l’assimilazione al maschile socialmente inte-so, quanto a logiche, scelte, comportamenti. Il rischio fu di non prestare attenzione ai libri di testo, al linguaggio, agli autori e ai contenuti scolasti-ci, proponendoli senza rilevarne l’epistemologia sessuata al maschile.Mentre nel «fuori scuola» si operava sulle ineguaglianze tra i sessi affron-

tandone le cause (anche) in modo “tecnico”, in particolare sul piano legislati-vo, “dentro” la scuola il lavoro da compiere si rivelò ben più complicato, an-che perché i pilastri che sostenevano le discriminazioni erano più resistenti, e le barriere erano sovente invisibili. Ad esempio, l’accesso ad alcuni percor-si formativi (e di conseguenza a determinati lavori e professioni) era ufficial-mente consentito alle ragazze: quello che mancava era la pensabilità di una scelta anticonformista rispetto al genere di appartenenza. In tale periodo, dunque, fu più evidente lo scarto segnalato tra il mondo scolastico, poco mo-dificato/modificabile sui temi di genere, e quanto stava accadendo fuori dalla scuola, dove le aperture sociali, i cambiamenti giuridici, la diffusione di pra-tiche originali tra le donne, producevano ben altri risultati.

Dagli anni Settanta agli anni Novanta la femminilizzazione della scuo-la ha comunque presentato aspetti positivi, percepibili soprattutto dal punto di vista quantitativo. Le ragazze sono entrate nelle scuole superiori in mo-do massiccio: se nell’anno scolastico 1948-1949 erano circa il 37% del tota-le degli iscritti, già nell’anno scolastico 1972-1973 erano circa il 42%, e nel 1983-1984 il 49,5%. Dunque, all’inizio degli anni Ottanta nelle scuole su-periori si è raggiunta la parità degli iscritti, mentre negli anni Novanta c’è stato il sorpasso delle studentesse sugli studenti8. Oggi in Italia, com’è no-to, la scolarizzazione femminile è maggiore di quella maschile, il rendi-mento delle ragazze è, in media, migliore e la dispersione scolastica col-pisce i maschi più delle femmine. Certamente questi risultati arrivano da lontano e sono frutto di un intreccio di processi sociali e familiari, cultu-rali ed economici, nonché relativi all’organizzazione della scuola, come per esempio l’istituzione della media unica. Inoltre, dagli anni Settanta in mol-

8. Dati tratti da Istat, Come cambia la vita delle donne, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 2004, passim.

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te scuole il tema della parità dei diritti tra i sessi è stato presente (seppur a macchia di leopardo, come si è detto), e numerose bambine e/o ragazze si sono sentite legittimate a investire nello studio anche per via della presen-za di modelli di donne adulte che facevano della professione intellettuale una via per l’emancipazione personale e interpretavano in modo nuovo, ri-spetto alla tradizione, il loro ruolo nella società.

La prima fase dell’ingresso delle questioni di genere nella scuola ha esaurito la propria spinta propulsiva verso la fine degli anni Ottanta. D’al-tra parte, già verso la metà degli anni Ottanta molte studiose avevano pro-posto un ripensamento del concetto di uguaglianza (e non solo). Esse mi-ravano ad arricchire le analisi in corso con un lavoro di decostruzione, e insieme di ricostruzione, del sistema simbolico-culturale che sostiene le di-scriminazioni tra i sessi, per reperire e valorizzare una via di espressione peculiare del femminile. L’obiettivo era di smascherare i processi che por-tavano le donne (le docenti) ad adeguarsi acriticamente – e in modo incon-sapevole – al simbolico dominante, cioè al maschile. La fase successiva di studi, e di elaborazione dei relativi modelli educativi, si aprì dunque sotto il segno della discontinuità.

Gli anni Ottanta e Novanta (e oltre): gli studi sulla differenza di-ventano pedagogia della differenza

Teorizzata dalle femministe francesi e italiane negli anni Ottanta, la co-siddetta teoria della differenza sessuale approdò nella scuola qualche anno dopo, con l’etichetta di pedagogia della differenza. Dopo la scoperta del-la “censura” del femminile nel linguaggio e nel sapere, si cercarono e at-tribuirono i significati a tale rimozione; si svelarono le caratteristiche di un “maschile” assunto a universale. In conseguenza di ciò, gli studi sulla dif-ferenza si ponevano due obiettivi: comprendere/valorizzare l’esistenza di un particolare modo di intendere il mondo «al femminile»; creare una sorta di controcultura delle donne, alternativa a quella dominante. Così, si studiò l’approccio alla conoscenza operato dalle donne, ribadendo la necessità di partire da sé, riconoscendo la soggettività dei ricercatori/trici nella costru-zione del sapere, e contrapponendosi alla convinzione che vi sia un’ogget-tività della conoscenza sganciata dalla soggettività che la crea e trasmette.

Come si manifestò a scuola la pedagogia della differenza? Contraria-mente alla fase precedente, essa ebbe il sostegno di teorizzazioni peda-gogiche che delinearono ambiti e modalità da percorrere per la proget-tazione di modelli educativi concreti. Le (questa volta molte) docenti che presero come punto di riferimento tale quadro teorico tentarono di espri-mere un simbolico femminile positivo, valorizzando la differenza a van-

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taggio di bambine e ragazze. I punti sviluppati dalle insegnanti furono, in particolare: a) l’incoraggiamento delle potenzialità delle bambine/ragazze per portarle a

transitare dalla passività intellettuale alla creatività; dall’essere oggetti di enunciazione a divenire soggetti creanti sapere;

b) la promozione della conoscenza di donne dimenticate dalla storia, ma che invece avevano dato contributi importanti in letteratura, nel pensiero filo-sofico, pedagogico, psicologico e scientifico (tra esse, la nostra Laura Bas-si), nonché la rilettura di figure simboliche o mitologiche al femminile;

c) la magistralità, il porsi, in qualità di insegnanti, come modelli intellet-tuali autorevoli per le giovani;

d) la creazione di momenti tutti al femminile dove si potesse esprimere uno sguardo “diverso” sul mondo: ad esempio, mediante seminari e laborato-ri aperti solo alle ragazze in orario pomeridiano, nei quali approfondire lo studio di letterate e filosofe. Le docenti coltivavano infatti l’idea della “so-rellanza”, prediligendo la relazione solidale con alunne e colleghe.I primi tre punti (a, b, c) rappresentano, ancora oggi, l’eredità migliore

che ci ha lasciato la pedagogia della differenza, un approccio che ha per-meato di sé i contesti educativi in modo più pervasivo ed esplicito di quan-to fatto nel periodo precedente. L’ultimo punto (d), invece, si è rivelato po-co produttivo: l’idea di una «separatezza femminile», di uno spazio protetto ancorché colto, non ha prodotto esiti in termini di cambiamento collettivo.

Durante questa fase la femminilizzazione della scuola ha avuto aspet-ti prevalentemente positivi: la massiccia presenza di docenti donne ha favo-rito la diffusione della pedagogia della differenza, che si presentava in mo-do unitario e lineare, dando impulso a un periodo fecondo, di orgoglio, di esplorazione intellettuale sul/del femminile che ha convolto almeno due ge-nerazioni di studentesse9. Una precisazione: certamente ci saranno stati docenti uomini che all’epoca conoscevano, e sviluppavano nelle classi, ciò che oggi definiremmo questioni di genere. Tuttavia, da un lato le riflessioni dei men’s studies erano ancora agli albori in Italia, almeno lo era il tenta-tivo di darne una rilettura educativa; dall’altro lato, la maggioranza dei do-centi maschi riteneva che si trattasse di «cose da donne». In effetti, a lungo si è parlato di women’s studies e questo non ha favorito un coinvolgimen-to dei docenti maschi nelle istanze delle pari opportunità e nello svelamen-to delle discriminazioni di genere.

Va segnalato come anche la fase della massima diffusione della peda-gogia della differenza abbia presentato tratti critici: alcune delle teorizza-

9. S. Ulivieri, Donne insegnanti, identità professionale e relazione educativa, in L. Santelli, S. Ulivieri, a cura di, Studium Educationis. Genere e educazione: numero mono-grafico, Cedam, Padova, n. 2, 2003, pp. 391-403.

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trici (anche pedagogiste) hanno fatto proprio un pensiero essenzialista che ha portato a un’irrealistica chiusura delle donne tra loro, e a una valoriz-zazione del soggetto-donna a prescindere. La teorizzazione filosofica di una pretesa eccellenza femminile, del primato delle donne nella cura ar-moniosa del mondo, la nozione di materno come paradigma della cura in generale, sono suggestioni che non si basano su dati oggettivi, ma su un desiderio di essere riconosciute nella propria specificità femminile10. Se però ci si interroga su quale possa essere il comune denominatore femmi-nile si rischia di cadere (di nuovo) nell’idea del corpo potenzialmente fer-tile. Ciò che accomunerebbe le donne, secondo tale interpretazione della differenza sessuale, sarebbe l’essere nate da una donna e il poter diventa-re madri: ma questo significa porre le questioni di genere ancora una vol-ta nel campo della biologia. Significa naturalizzare le differenze, ripo-sizionarle nel solo dualismo femmina/maschio, allontanando il discorso dall’unica evidenza documentabile: ciò che accomuna le donne è di ave-re ricevuto un’educazione diversa da quella degli uomini. I tratti sui qua-li tanto hanno insistito le teoriche della differenza sessuale – l’empatia, il prendersi cura dell’altro, il possedere saperi “pratici” (metis) – in realtà non sono una essenza originaria delle donne: vanno piuttosto spiegati co-me esiti di un processo di modellamento operato attraverso l’educazione. La pedagogia della differenza, in molte esperienze, ha finito per confinare (di nuovo) le donne come vestali esclusive della cura educativa, e non ha permesso a educatrici e insegnanti di sganciarsi dal pensiero del materno – ancorché simbolico – già di per sé dilagante in certi ambiti, quali il la-voro con l’infanzia.

La terza fase degli studi di genere prenderà le distanze dagli essenziali-smi del periodo precedente, per richiamare invece alcuni concetti della pri-ma, quella dell’eguaglianza, declinandoli però in forme nuove: pari oppor-tunità, da gender equality.

Dal 2000 a oggi. La femminilizzazione della scuola e i gender studies

Nei contesti educativi la terza fase si configura come un periodo prepa-ratorio al superamento della pedagogia della differenza (che tuttavia so-pravvive in alcuni contesti). È un momento di transizione – fluido e ancora in costruzione – durante il quale la sociologia e la filosofia, in particolare, stanno elaborando nuove teorizzazioni che però faticano a trovare una tra-duzione nel settore dell’educazione.

10. Per una lucida analisi che decostruisce il «culto della differenza», si veda C. Manci-na, Oltre il femminismo. Le donne nella società pluralista, il Mulino, Bologna, 2002.

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Forse ciò dipende dal fatto che, come si è ben percepito in merito al-le fasi precedenti, la teoria pedagogica ha tempistiche asincrone rispetto ai «femminismi di riferimento»: mettendo a confronto la periodizzazione del-le analisi pedagogiche con quelle sociologiche e filosofiche si evidenzia un ritardo di circa un decennio.

Probabilmente, ciò è dovuto invece a un moltiplicarsi degli orientamen-ti femministi a livello internazionale – femminismo radicale, postcolonia-le, poststrutturalista, della terza ondata, postgender e così via – sui qua-li, come si è detto sopra, non vi è consenso. Come per ogni «materia viva» le definizioni si incrociano, e nel sovrapporsi disegnano un quadro che an-cora resta da decifrare in modo completo da parte della pedagogia italia-na. L’ombrello semantico gender studies pare ancora utile per delineare, in modo forzatamente schematico, di che cosa stiamo parlando: superati gli approcci dei women’s studies e dei men’s studies, ci si interessa del fem-minile e del maschile in quanto costruzioni sociali e culturali interagen-ti. Nell’ultimo decennio è stato decentrato l’oggetto delle analisi: in pre-cedenza, la protagonista di elezione dei discorsi era una bambina/ragazza/donna occidentale, di buona o modesta estrazione sociale, che aveva biso-gno di prendere consapevolezza dei propri diritti (prima fase, quella sull’u-guaglianza-emancipazione) e rispetto alla propria eventuale specificità (se-conda fase, quella della differenza). Oggi compare un’attenzione nuova alla molteplicità insita nelle questioni di genere, accentuata dal confronto con fenomeni che aggiungono e stratificano differenze a differenze: orienta-menti sessuali, migrazioni, posizionamenti sociali, disagi sociali, disabili-tà e così via11. Soprattutto, vi è la necessità di ampliare lo sguardo, di plu-ralizzare i punti di osservazione e di riferirsi alle relazioni di genere. Non più (solo) «questioni di donne» o «questioni di uomini», e nemmeno (solo) questioni legate al binomio donna/uomo. La maggiore visibilità dell’inter-sessualità ha svelato l’artificiosità di un femminile e di un maschile com-plementari e autoescludenti, nonché l’inattendibilità del concetto di natura quando viene preso a fondamento delle differenze di genere12. Si è poi pa-lesata l’urgenza di un ripensamento e una decostruzione dell’idea di nor-malità nelle questioni di genere.

In Italia, tali indicazioni quale teoria pedagogica hanno generato? Og-gi si parla di genere facendo riferimento, anche, a omosessualità, interses-sualità, transgederismo e, nel contesto italiano, la domanda suona retori-

11. Ho proposto come concetti chiave per questo decennio “molteplicità” e «fase della complessificazione» in S. Leonelli, La Pedagogia di genere in Italia: dall’uguaglianza al-la complessificazione, in RPD-Ricerche di Pedagogia e Didattica, Dossier sulla Pedago-gia di genere, <rpd.cib.unibo.it>, vol. 6, n. 1, 2011.

12. D. Crocetti, L’invisibile intersex. Storie di corpi medicalizzati, ETS, Pisa, 2013.

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ca. Semplificando, si può dire che dal punto di vista teorico ancora non si è diffusa in Italia una pedagogia organica degli studi di genere13. Sempre che l’unitarietà teorica (che gli stessi studi sul genere rifiutano) sia oggi possi-bile o opportuna in campo pedagogico.

Si vanno invece diffondendo ricerche e sperimentazioni empiriche che preludono alla creazione di modelli educativi. In linea con le ultime acquisi-zioni teoriche, ci si pone oggi la finalità di decostruire gli stereotipi sessisti e di introdurre modifiche nelle rappresentazioni sociali sul genere, affinché di-ventino meno vincolanti e rigide. In particolare, si tratta di percorsi laborato-riali proposti agli e alle adolescenti e a chi opera con loro in campo educati-vo14. Nell’ultimo decennio stiamo assistendo a una fioritura di studi e ricerche pedagogiche in chiave di genere. Alcuni settori sono decisamente floridi, in particolare quello storico ma, per esigenza di sintesi, vengono ora menziona-ti solo quei filoni di analisi che sono chiaramente ispirati dai nuovi approcci al genere. Di particolare interesse, per la loro capacità di svelare la sovrappo-sizione di discriminazioni basate sul genere, sono i lavori centrati sulle fa-miglie omogenitoriali15; sul bullismo omofobico nelle scuole16; sul ruolo del maschile nelle relazioni educative17; sull’educazione alla maschilità come pre-venzione della violenza di genere18; sulla disabilità al femminile nei contesti educativi19; sull’esperienza della migrazione per bambine e ragazze20.

Non è dato prevedere come la scuola accoglierà i nuovi approcci sul ge-nere, ed è difficile immaginare quale sarà l’esito di tali processi di “com-

13. Nota opportunamente M. Durst che la pedagogia di genere ha un robusto e collau-dato impianto teorico nel versante delle analisi storiche. Sono d’accordo, ma segnalo la mancanza di una teoria complessiva sul genere in educazione che riguardi la contempora-neità. M. Durst, Per una pedagogia di genere, in S. Ulivieri, F. Cambi, P. Orefice, a cura di, Cultura e professionalità educative nella società complessa, Firenze University Press, Firenze, 2010, pp. 78-86.

14. Vedi, in particolare: C. Gamberi, M.A. Maio, G. Selmi, a cura di, Educare al gene-re, Carocci, Roma, 2010.

15. A. Gigli, a cura di, Maestra, Sara ha due mamme?, Guerini e Associati, Milano, 2011.16. G. Burgio, Il maschile in adolescenza. Genere e orientamento sessuale in prospetti-

va educativa, in Gamberi, Maio, Selmi, Educare al genere, cit., pp. 55-70.17. R. Mantegazza, Per fare un uomo. Educazione del maschio e critica del maschili-

smo, ETS, Pisa, 2008; S. Bellassai, Dalla trasmissione alla relazione. La pedagogia del-la mascolinità come riposizionamento condiviso nella parzialità di genere, in Gamberi, Maio, Selmi, Educare al genere, cit., pp. 45-54; B. Mapelli, S. Ulivieri Stiozzi, Uomini in educazione, Stripes, Rho, 2012.

18. S. Deiana, M.M. Greco, a cura di, Trasformare il maschile nella cura nell’educa-zione e nelle relazioni, Cittadella Editrice, Assisi, 2012.

19. E. Malaguti, Donne e uomini con disabilità studi di genere, disability studies e nuovi intrecci contemporanei, in RPD-Ricerche di Pedagogia e didattica <rpd.cib.unibo.it>, n. 1, 2011, pp. 1-20.

20. F. Cambi, G. Campani, S. Ulivieri, a cura di, Donne migranti. Verso nuovi percor-si formativi, ETS, Pisa, 2003.

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plessificazione” (del soggetto e delle relazioni) che, appunto, deve ancora trovare teorizzazioni pedagogiche e trasposizioni sul campo se non unitarie almeno sistematizzate.

In questo quadro, dove per certi versi le esperienze educative stanno prevalendo sulla teoria pedagogica – o forse si muovono solo più veloce-mente – la rilevante femminilizzazione delle insegnanti quali significa-ti assume? In generale, è evidente che nella scuola italiana permangono problemi che trarrebbero beneficio da una più equilibrata presenza di do-centi donne e uomini, ma con il medesimo ammonimento di Cavalli: es-sere insegnanti, prima che donne o uomini, significa essere professionisti competenti, preparati, sensibili. O meglio: lavorare come docenti, signi-fica acquisire abilità sofisticate dal punto di vista culturale, relazionale e comunicativo durante un percorso formativo nel quale si auspica un in-contro anche con le tematiche di genere. Data per scontata la professio-nalità dei docenti, l’equilibrio di genere può diventare un valore aggiun-to per affrontare, e nel lungo periodo contribuire a risolvere, fenomeni complessi che hanno una loro spiegazione in chiave di genere. Tra que-sti, si segnala in particolare la mancanza di modelli identitari e soprattut-to di un’idea positiva di maschile, inclusivo e capace di cura nei confronti delle giovani generazioni; un maschile plurale21 che a scuola sappia porsi in modo anticonformista, alternativo alla tradizione, ma che sia anche at-tento a comprendere i processi (vecchi e nuovi) di costruzione dell’identi-tà di genere nei giovani maschi. Un altro tema cruciale, riguarda la (auto)segregazione formativa (sia di origine familiare sia sociale, come si evin-ce dal saggio di Carlo Tomasetto in questo libro) che continua a indiriz-zare le ragazze verso percorsi scolastici (tipicamente umanistici) diversi da quelli dei ragazzi (più spesso scientifici e tecnologici). L’immaginario di genere, orientando il percorso formativo dei e delle giovani, ne con-diziona evidentemente quello lavorativo e professionale: è stato così che, dall’Unità a oggi, le ragazze sono state spinte verso l’insegnamento e l’e-ducazione. La consapevolezza della necessità di prestare una maggiore attenzione agli equilibri di genere permetterebbe di ripensare alle attività di orientamento alla scelta del percorso formativo, talvolta espressione di stereotipi riproposti ai/lle giovani dai loro docenti. Da notare che, mentre si formulano progetti per indirizzare le ragazze verso gli studi scientifici e tecnologici, lo stesso non avviene ancora per i ragazzi, mai sollecitati a ipotizzare scelte di studi che aprano la strada a professioni di cura educa-tiva, di insegnamento, in altre parole, di responsabilità nei confronti del-le giovani generazioni.

21. Dal nome di un’associazione di studiosi che si occupano di educazione di genere, vedi: <http://maschileplurale.it>.

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Conclusioni

La domanda che ha guidato queste pagine – la femminilizzazione del-la scuola italiana negli ultimi decenni va intesa come una risorsa educativa o un potenziale problema? –, può sembrare impropria e a sua volta figlia di quel pensiero binario e semplificante che spesso ispira il modo in cui cer-chiamo di comprendere il mondo. Edgar Morin suggerirebbe di prestare at-tenzione alle logiche che permeano le nostre conoscenze, o che le “paras-sitano”; ammonirebbe a non formulare le domande in modo dicotomico, mediante criteri reciprocamente escludenti (positivo o negativo, giusto o sbagliato). Morin inviterebbe insomma a indagare i fenomeni tenendo pre-sente le loro molteplici dimensioni, utilizzando strumenti inter e multidi-sciplinari. Il contributo epistemologico di Morin è significativo anche negli studi di genere, così a rischio di tentazioni riduzionistiche e binarie (ma-schio o femmina, maschile o femminile, natura o cultura, logos o pathos, corpo o mente). D’altra parte, anche in questo volume è stato inevitabile mettere a confronto più saperi (storico, sociologico, psicologico, pedagogi-co, giuridico e scientifico) per affrontare temi complessi come la femmini-lizzazione della scuola e le mancate pari opportunità nella ricerca.

È evidente che qui ho usato quella formulazione, problema o risorsa, per delimitare il campo delle riflessioni, una restrizione di confini che mi per-mette ora di formulare qualche conclusione. La nostra interpretazione del-la femminilizzazione della scuola italiana negli ultimi decenni va articola-ta in base, anche, alla dinamica che conduce dalle teorizzazioni sul genere alla loro rilettura da parte dei/lle pedagogisti/e per approdare, infine, al-le prassi nei contesti educativi. Se è stata in passato soprattutto una risorsa (nelle due prime fasi storiche qui esaminate), è vero che potrebbe ora tra-sformarsi in un problema. Un esempio interessante proviene dai dati rela-tivi ai partecipanti al convegno «Fare e disfare il genere. Percorsi formati-vi e buone pratiche nella scuola», organizzato dal CSGE, il Centro di studi sul genere e l’educazione (Università di Bologna, 14 marzo 2014). Il con-vegno intendeva mappare i progetti e le esperienze di educazione di genere (dai servizi educativi 0-6 anni fino alle scuole secondarie superiori), e met-tere in rete gli/le insegnanti per evitare la parcellizzazione delle iniziative. Ebbene, a fronte di 235 iscritti, i docenti uomini erano solo sedici. Evidente-mente, le questioni di genere a scuola sono ancora in larga misura affidate alle insegnanti e i docenti maschi – forse anche a causa della loro esiguità numerica – non si sentono ancora interpellati a riflettere sulle disugua-glianze di genere presenti nell’educazione e nell’istruzione.

Starà comunque alla professionalità dei docenti, donne o uomini che sia-no, promuovere un’educazione paritaria e di volta in volta capace di rispon-dere alle esigenze delle nuove generazioni.

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In cattedra contro gli stereotipi: insegnanti donne e contrasto agli squilibri di genere nelle materie tecnico-scientifiche

di Carlo Tomasetto

Laura Bassi ha tenuto lezioni presso lo Studio bolognese e presso il suo la-boratorio privato di fisica sperimentale per circa trent’anni. In questo periodo ebbe un grande numero di allievi, alcuni a loro volta celebri scienziati, come Lazzaro Spallanzani, altri del tutto ignoti ai posteri: ma tutti, invariabilmen-te, uomini. Certo, si potrebbe obiettare che a molte potenziali allieve di Lau-ra Bassi era semplicemente preclusa la possibilità di frequentare lezioni e laboratori universitari, mentre oggi siamo tutti liberi, uomini e donne, di sce-gliere gli studi e la carriera che preferiamo. Eppure, pensare che il persiste-re di disparità nell’accesso alle carriere ad alto contenuto matematico sia un problema di libero arbitrio, e che siano dunque le donne le responsabili della propria auto-esclusione da ambiti che non corrispondono ai propri interessi e alle proprie aspirazioni, appare quantomeno riduttivo, se non ipocrita. In que-sto capitolo vedremo come la psicologia sociale negli ultimi anni abbia ten-tato di trovare risposte meno banali al problema attraverso esperimenti di la-boratorio e studi controllati sul campo. Vedremo emergere da questi lavori la dimostrazione che un ambiente sociale che promuove l’equità di genere come valore, e soprattutto offre validi esempi di donne di successo in campi tecni-co-scientifici, abbia effetti sorprendenti nel promuovere l’interesse, la motiva-zione e la riuscita delle ragazze e delle donne in ambiti tradizionalmente con-siderati di dominio maschile. E vedremo, in particolare, come avere brave insegnanti donne sia uno dei fattori cruciali che permettono alle ragazze di superare gli squilibri di genere nelle scelte dei percorsi di studio e di carriera.

Le differenze di genere nelle materie tecnico-scientifiche: il ruolo del contesto culturale

Il Global Gap Index (GGI) è una misura di equità di genere nella socie-tà calcolato ogni anno dal World Economic Forum sulla base di vari indi-

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catori: partecipazione economica e politica delle donne, salute e istruzio-ne1. Uno dei quattordici indicatori utilizzati per calcolare il GGI riguarda tra l’altro proprio il numero delle donne impiegate in professioni tecnico-scientifiche in ciascun Paese. Il punteggio del GGI va da zero (massima di-seguaglianza teoricamente possibile) a uno (totale parità di genere in tutti i settori considerati). Nella realtà, i punteggi reali nei 135 Paesi considera-ti variano da un minimo di .50, per lo Yemen, a un massimo di .86 per l’I-slanda. Nell’ultima rilevazione disponibile l’Italia occupa l’ottantesima po-sizione, in discesa di tre posizioni rispetto all’anno precedente, con un punteggio di GGI di .67.

Al di là dalle facili ironie, il dato è cruciale per gli scopi di questo capi-tolo perché l’equità di genere nella società ha riflessi importanti anche sul-le scelte di studio e di carriera di ciascuno di noi si è ritrovato a compiere. Uno studio internazionale al quale hanno preso parte quasi 300.000 citta-dini di trentaquattro nazioni diverse ha dimostrato che nei Paesi con più forti diseguaglianze di genere (ovvero con punteggi di GGI più bassi) era anche più consolidata la condivisione degli stereotipi tradizionali sulla ma-tematica e le scienze, ovvero la credenza che le donne sono naturalmen-te meno dotate degli uomini per queste discipline2. A loro volta, gli stere-otipi di genere, in particolare quelli impliciti (cioè attivati in modo del tutto automatico, non espressi verbalmente e spesso non riconosciuti come pro-prie convinzioni personali), predicono minore convinzione nelle proprie capacità matematiche, minor coinvolgimento nella disciplina, e minor pro-pensione a intraprendere studi e carriere che richiedano una solida prepara-zione in questo ambito da parte delle donne3.

In uno studio pubblicato su Science nel 2008, un gruppo di economisti italiani ha dimostrato che la disparità di genere misurata dal GGI non so-lo è associata a una maggiore condivisione degli stereotipi di genere tradi-zionali sulla matematica e le scienze, ma è anche un ottimo predittore del-le differenze tra ragazzi e ragazze nelle prestazioni in matematica4. Benché

1. World Economic Forum, The Global Gender Gap Report, 2012, disponibile all’indi-rizzo www.weforum.org/issues/global-gender-gap (14/10/2013).

2. B.A. Nosek et al., “National differences in gender-science stereotypes predict natio-nal sex differences in science and math achievement”, Proceedings of the National Aca-demy of Sciences, 106, 2009: 10593-597.

3. A.K. Kiefer, D. Sekaquaptewa, “Implicit stereotypes, gender identification, and math-re-lated outcomes: A prospective study of female college students”, Psychological Science, 18, 2007: 13-8; B.A. Nosek, M.R. Banaji, A.G. Greenwald, “Math = male, me = female, therefore math ≠ me”, Journal of Personality and Social Psychology, 83, 2002: 44-59; T. Schmader, M. Johns, M. Barquissau, “The costs of accepting gender differences: The role of stereotype en-dorsement in women’s experience in the math domain”, Sex Roles, 50, 2004: 835-50.

4. L. Guiso, F. Monte, P. Sapienza, L. Zingales, “Culture, gender, and math”, Science, 320, 2008: 1164-65.

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i dati più recenti indichino che la differenza di genere nelle prestazioni in matematica si è progressivamente ridotta negli ultimi anni5, le variazioni tra Paese e Paese nell’entità di questa differenza sono tuttora molto marcate. Come prevedibile, il divario tra i punteggi di ragazzi e ragazze in prove stan-dardizzate di matematica, quali ad esempio i test OCSE-PISA6 per studenti di quindici anni o le prove TIMMS7 per allievi tra gli otto e i dodici anni, è tanto più ampio quanto più è basso il punteggio del GGI. Il divario nelle pre-stazioni è invece molto più contenuto, fino ad annullarsi del tutto, nei Paesi con maggiore equilibrio di genere nella società, primi fra tutti i Paesi scandi-navi. In altre parole, se una società offre pochi esempi di donne di successo in ambiti professionali ad alto contenuto matematico, le ragazze che crescono e studiano in quel contesto si ritrovano davvero ad avere prestazioni matema-tiche peggiori rispetto ai maschi, il che rende a sua volta meno probabile che una ragazza, rispetto a un ragazzo, decida di proseguire i suoi studi in campi generalmente ritenuti difficili e particolarmente selettivi.

I dati italiani sembrano confermare pienamente il quadro delineato dai lavori appena descritti. Secondo le rilevazioni del MIUR8, il numero di don-ne iscritte ai corsi di laurea di ambito scientifico e di ingegneria è cresciuto di meno del 3% tra il 2000 e il 2010. Se è vero che le donne costituiscono la maggioranza degli iscritti in corsi di ambito scientifico a minore contenuto matematico, come quelli in ambito sanitario e in biologia, la loro presenza rimane ben al di sotto del 30% tra gli studenti di fisica, ingegneria e infor-matica. Eppure, per quanto il quadro possa apparire per certi versi sconfor-tante, la riproduzione degli stereotipi di genere in ambito scolastico e uni-versitario non è un fatto inevitabile. Molto può essere fatto per contrastare i fenomeni di auto-selezione di genere nei diversi ambiti di studio e di lavo-ro, anche attuando interventi relativamente semplici, ma non per questo me-no efficaci, mirati al miglioramento degli atteggiamenti delle ragazze e delle donne verso l’ambito matematico-scientifico9. Nel paragrafo successivo ve-dremo che a volte l’intervento educativo o psico-sociale può non essere in-dispensabile, se l’ambiente scolastico e l’ambiente sociale più ampio intorno

5. J.S. Hyde, S.M. Lindberg, M.C. Linn, A.B. Ellise C.C. Williams, “Gender similari-ties characterize math performance”, Science, 321, 2008: 494-95.

6. OECD, PISA 2009 Results: What Students Know and Can Do – Student Performance in Reading, Mathematics and Science (Volume I), Paris, 2010, testo disponibile all’indirizzo http://dx.doi. org/10.1787/9789264091450-en (14/10/2013).

7. I.V.S. Mullis, M.O. Martin, P. Foy, TIMSS 2007 International Mathematics Report, TIMSS & PIRLS International Study Center, Boston College, Chestnut Hill, MA, 2008.

8. MIUR, Indagine sull’Istruzione Universitaria, Ministero dell’Università e della Ricerca - Ufficio di Statistica, Roma, 2012, testo disponibile all’indirizzo http://statistica.miur.it/ustat/Statistiche/IU_home.asp (14/10/2013).

9. D.S. Yeager, G.M. Walton, “Social-psychological interventions in education: They’re not magic”, Review of Educational Research, 81, 2011: 267-30.

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a noi forniscono sufficienti esempi di donne e che ricoprono con successo ruoli diversi da quelli previsti dagli stereotipi tradizionali.

La trasmissione degli stereotipi di genere sulla matematica e le scienze: l’importanza dei modelli di ruolo

La trasmissione degli stereotipi sulle peculiari abilità degli uomini in campo scientifico e delle donne nelle aree umanistiche o nelle professioni di cura avviene molto di rado attraverso canali comunicativi espliciti. Anzi, sostenere apertamente posizioni sessiste o discriminatorie comporta spesso sanzioni sociali e morali piuttosto pesanti. Basti ricordare il caso del retto-re di Harvard Lawrence Summers, finito al centro di pesanti contestazioni dopo aver pubblicamente sostenuto la possibilità che la scarsa presenza di donne in professioni tecnico-scientifiche altamente specializzate potesse ri-flettere una effettiva differenza di genere nelle abilità e nelle attitudini per la matematica e le scienze10.

Considerare socialmente riprovevole l’espressione aperta di una posizio-ne poco egualitaria, purtroppo, non basta a evitare che uno stereotipo so-pravviva e si trasmetta attraverso canali più impliciti, ma altrettanto ef-ficaci. Gli adulti che si occupano della nostra socializzazione, in primis genitori e insegnanti, hanno più o meno consapevolmente aspettative di-verse sugli interessi, le attitudini e le probabilità di successo di bambi-ne e bambine nelle diverse materie scolastiche, ed è anche sulla base di ta-li aspettative che essi regolano i propri comportamenti educativi. Nel corso della socializzazione non sono però soltanto genitori e insegnanti a fornire informazioni a bambini e bambine, e poi a donne e uomini adulti, su quali siano i ruoli, gli interessi e gli ambiti di attività “giusti” per maschi e fem-mine. I modelli di ruolo sono quelle figure con le quali possiamo identifi-carci e alle quali vorremmo somigliare, anche coltivando gli stessi interessi e cercando di acquisire le stesse capacità che ammiriamo in loro.

Purtroppo accade spesso che i modelli proposti dai media come ideali di donne o di uomini popolari, ammirati e realizzati nella propria vita siano sistematicamente modellati su stereotipi di genere ben riconoscibili e anco-rati a valori tradizionali. È raro, ad esempio, che un personaggio femmini-le di uno spot pubblicitario ricopra il ruolo di una scienziata di successo, o di una studentessa particolarmente a proprio agio tra numeri e formule. Ma se queste rare eccezioni venissero proposte più spesso, potremmo davve-

10. D.F. Halpern, C.P. Benbow, D.C. Geary, R.C. Gur, J.S. Hyde, M.A. Gernsbache, “The science of sex differences in science and mathematics”, Psychological Science in the Public Interest, 8, 2007: 1-51.

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ro aspettarci un effetto positivo sulle ragazze e sulle donne alle quali questi spot commerciali sono rivolti? Insomma: un semplice spot televisivo può davvero contribuire a ridurre il gap di genere nelle materie scientifiche?

Una ricerca condotta da Davies e colleghi11 ha cercato di dare risposta a questa domanda, ingenua solo in apparenza. In tre studi successivi, i par-tecipanti – studenti e studentesse di diverse facoltà universitarie negli Sta-ti Uniti – sono stati invitati a vedere una serie di sei spot pubblicitari trat-ti dalla normale programmazione televisiva. Quattro dei sei spot erano di contenuto neutro, senza personaggi umani, e uguali per tutti i partecipan-ti. In una condizione sperimentale contro-stereotipica, due dei sei spot mo-stravano una protagonista femminile nel ruolo di biologa, e una nel ruolo di esperta di meccanica e di auto. In una seconda condizione stereotipica le protagoniste di due spot erano invece ragazze particolarmente raggian-ti per aver sperimentato un nuovo sapone o un nuovo mix di cereali. In tre studi successivi, le studentesse che avevano avuto l’opportunità di guarda-re gli spot contro-stereotipici, con i modelli di donna competente in biolo-gia e meccanica, hanno ottenuto risultati migliori in un test di matematica, hanno tentato di risolvere più problemi in un tempo limitato (dimostrando quindi un maggior impegno nella prova), e si sono dichiarate più interessa-te a proseguire gli studi di master in campi scientifici rispetto a quelle che avevano visto gli spot stereotipici. Tra l’altro, solo nella condizione stereo-tipica è emerso il tradizionale divario a sfavore delle ragazze rispetto agli studenti maschi, mentre nella condizione contro-stereotipica le differenze di genere nelle risposte sono state annullate.

Altri studi si sono occupati degli effetti non tanto dei modelli di ruolo presentati attraverso i media, quanto di quelli offerti direttamente dall’am-biente nel quale viviamo. Nel paragrafo precedente abbiamo sottolinea-to come la propensione delle donne a intraprendere percorsi di studio e di carriera in ambito scientifico, ma anche le loro performance in compiti ma-tematici, siano legate anche alla numerosità di donne che già occupano po-sizioni professionali in questo ambito nella società. Dunque, nei contesti nei quali è statisticamente più probabile incontrare donne in ruoli tecnico-scientifici, è più facile che altre donne abbiano successo e si impegnino a seguire percorsi avanzati di studio e di lavoro nello stesso settore.

Marx e Roman hanno offerto una dimostrazione sperimentale di come la possibilità di interagire (anche virtualmente) con donne competenti in am-bito scientifico sia un elemento chiave capace di proteggere e migliorare le

11. P.G. Davies, S.J. Spencer, D.M. Quinn, R. Gerhardstein, “Consuming images: How television commercials that elicit stereotype threat can restrain women academically and professionally”, Personality and Social Psychology Bulletin, 28, 2002: 1615-28.

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prestazioni matematiche di altre donne12. Nella loro ricerca è emerso come fosse sufficiente per le partecipanti (studentesse universitarie) interagire al-cuni minuti con una sperimentatrice che si presentava come l’autrice del test di matematica che avrebbero risolto di lì a poco per ottenere una prestazio-ne migliore rispetto a quando era uno sperimentatore uomo a presentarsi nel-la stessa veste (Studio 1). Lo stesso effetto è stato riscontrato anche quan-do le partecipanti non interagivano faccia-a-faccia con la sperimentatrice, ma apprendevano della sua esistenza semplicemente leggendo le istruzioni per svolgere il test al computer: sembra dunque essere la percezione di com-petenza, e non la possibilità di stabilire una relazione più o meno intensa, a spiegare l’effetto positivo dei modelli di ruolo in ambito scientifico.

Altri studi più recenti hanno permesso di generalizzare la conoscenza di questo processo, illustrandone anche i meccanismi di azione. In uno di questi lavori, a un gruppo di studentesse di college provenienti da corsi di biologia, chimica o ingegneria veniva chiesto di svolgere un test di mate-matica molto difficile13. Prima del compito le partecipanti dovevano com-pletare una serie di misure per rilevare i loro atteggiamenti verso la ma-tematica e le scienze, il grado di identificazione con questi ambiti e gli stereotipi di genere sulle materie tecnico-scientifiche. Le misure di atteg-giamento, identificazione e stereotipi erano raccolte attraverso strumen-ti espliciti, cioè questionari, ma anche attraverso tecniche implicite, in par-ticolare l’Implicit Association Task (IAT)14. Lo studio prevedeva però due condizioni sperimentali diverse: nel momento in cui le studentesse entra-vano nel laboratorio per partecipare alla ricerca, potevano essere accolte da un coetaneo oppure una coetanea che si presentavano come “studenti di matematica” prossimi alla laurea, interessati a sviluppare test di valutazio-ne nella loro materia. Per rendere ancora più saliente l’identificazione con la materia, lo sperimentatore o la sperimentatrice indossavano una t-shirt con l’equazione E = mc2 in bella evidenza.

I risultati sono stati molto chiari. In presenza di una sperimentatrice donna, le studentesse hanno mostrato maggiore identificazione con la ma-tematica e atteggiamenti più positivi verso la materia (Studio 1). Inoltre, in-teragendo con una sperimentatrice donna le studentesse hanno tentato di

12. D.M. Marx, J.S. Roman, “Female role models: Protecting women’s math test perfor-mance”, Personality and Social Psychology Bulletin, 28, 2002: 1183-93.

13. J.G. Stout, N. Dasgupta, M. Hunsinger, M. McManus, “STEMing the tide: Using in-group experts to inoculate women’s self-concept and professional goals in science, techno-logy, engineering, and mathematics (STEM)”, Journal of Personality and Social Psycho-logy, 100, 2011: 255-70.

14. A.G. Greenwald, D.E. McGhee, J.K.L. Schwartz, “Measuring individual differen-ces in implicit cognition: The Implicit Association Test”, Journal of Personality and So-cial Psychology, 74, 1998: 1464-80.

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svolgere più problemi di quelle accolte in laboratorio da un coetaneo ma-schio, mostrando in questo un maggiore impegno per riuscire bene nel compito. Occorre dire che i risultati effettivi, in termini di problemi risolti correttamente, sono stati comunque molto bassi in entrambe le condizioni, a causa dell’eccessiva difficoltà del test utilizzato. In un successivo esperi-mento (Studio 2) Stout e coll. hanno utilizzato una procedura leggermente modificata, che non prevedeva più l’interazione diretta con uno sperimen-tatore o una sperimentatrice. In questo caso alle partecipanti (tutte studen-tesse di ingegneria) veniva detto che avrebbero svolto un compito di cono-scenza della storia della loro disciplina. Prima di questo compito (fittizio), le studentesse dovevano leggere le biografie di cinque ingegneri donne, op-pure di cinque ingegneri uomini e poi completare la stessa batteria di test descritta nello Studio precedente, oltre a una misura della loro intenzio-ne di proseguire la carriera in ambito ingegneristico. Anche in questo ca-so, dai risultati è emerso che le ragazze che avevano letto le biografie di in-gegneri donne manifestavano atteggiamenti impliciti più favorevoli verso la matematica e dichiaravano una maggiore intenzione di proseguire i lo-ro studi in questo campo. In più, è emersa una relazione tra identificazio-ne con le donne descritte nelle biografie e intenzioni di carriera: più le stu-dentesse dichiaravano di sentirsi simili alle donne ingegnere loro descritte, maggiore era la loro auto-efficacia percepita in matematica, e più forte era la loro intenzione di proseguire studi e carriera nell’ambito dell’ingegneria.

Dunque il lavoro di Stout e collaboratori dimostra che la disponibilità di modelli di ruolo nell’ambito accademico e professionale è un fattore cru-ciale per promuovere la riuscita e l’interesse di altre donne verso gli stu-di e le carriere tecnico-scientifiche e dimostra anche che non è necessaria l’interazione faccia-a-faccia con questi modelli per ottenere risultati positi-vi. D’altra parte, sarebbe fuori luogo considerare la disponibilità di modelli di ruolo come un rimedio universalmente efficace per tutti e per tutte. Un altro studio recente mostra, in effetti, che in alcuni casi anche un modello femminile positivo può avere un effetto paradossalmente controproducente sulle ragazze15. È emerso infatti che studentesse di scuola media poco iden-tificate con la matematica e le scienze (ovvero quelle che ritengono queste materie un ambito molto lontano da sé) mostravano ancor meno interesse, percezione di abilità e aspettative di successo in matematica dopo aver in-teragito con una donna di successo nell’abito tecnico-scientifico. Una spie-gazione possibile è che le ragazze già poco identificate con la matematica e le scienze ritengano estremamente lontana da sé la figura di una donna che

15. D.E. Betz, D. Sekaquaptewa, “My Fair Physicist? Feminine Math and Science Role Models Demotivate Young Girls”, Social Psychological and Personality Science, 3, 2012: 6738-46.

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ha avuto successo in questa area disciplinare, e quindi, anziché percepir-la come un modello da seguire, la considerino di fatto come un esempio ir-raggiungibile e dunque poco rilevante per le proprie scelte. In questi casi è plausibile che senza un intervento psico-sociale ed educativo più specifico non sia possibile promuovere un sostanziale cambiamento negli atteggia-menti e nella percezione di sé così profondamente negativi che queste ra-gazze manifestano nei confronti della matematica.

Contrastare gli stereotipi di genere in classe: quando il modello di ruolo è una insegnante

Gli studi illustrati fin qui pongono probabilmente il lettore di fronte a un paradosso. Se è vero che le donne che hanno intrapreso con successo stu-di matematico-scientifici possono rappresentare un modello di ruolo positi-vo per le studentesse interessate alla stessa area disciplinare, la scuola do-vrebbe offrire a moltissime studentesse l’opportunità di interagire con tali modelli, dal momento che la femminilizzazione dei ruoli docenti ha fat-to sì che le donne siano in maggioranza anche tra gli insegnanti di materie scientifiche16. Eppure, il numero di studentesse che scelgono una carriera ad alto contenuto matematico non è cresciuto di pari passo con la presenza di insegnanti di materie scientifiche donne.

Purtroppo gli studi che hanno indagato l’effetto del genere dell’inse-gnante e delle sue caratteristiche sulle performance e sulle scelte delle stu-dentesse sono ancora pochi, ma non privi di risultati sorprendenti. Poiché la maggior parte dei lavori si è occupata delle performance e delle scel-te di carriera delle studentesse universitarie, ha fatto un certo scalpore un lavoro recente di Sian Beilock e del suo gruppo di collaboratori, nel qua-le è stata studiata la relazione tra l’ansia verso la matematica delle inse-gnanti di prima e seconda elementare e i risultati scolastici delle loro alun-ne17. In questo studio sono stati coinvolti gli alunni e le alunne di diciasette classi diverse, i quali hanno completato una serie di test di valutazione del-le loro abilità matematiche all’inizio e al termine dell’anno scolastico. In più, per ciascuna delle insegnanti coinvolte, sono stati rilevati attraverso test standardizzati il livello di preparazione matematica e il livello di an-sia per la matematica. I risultati dello studio parlano chiaro. Sebbene all’i-nizio dell’anno scolastico non fossero emerse differenze tra alunni maschi

16. I. Biemmi, Genere e processi educativi, ETS, Pisa, 2009.17. S.L. Beilock, E.A. Gunderson, G. Ramirez, S.C. Levine, “Female teachers’ math

anxiety affects girls’ math achievement”, Proceedings of the National Academy of Sciences, 107, 2010: 1060-63.

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e femmine nei test di matematica, al termine dell’anno le prestazioni del-le bambine, ma non quelle dei bambini, risultavano negativamente correla-te al livello di ansia per la matematica delle loro insegnanti. In altre parole, più l’insegnante donna di matematica si mostrava ansiosa verso la propria materia, peggio riuscivano le sue alunne nei test di valutazione di fine an-no. Non solo, ma le alunne con insegnanti più ansiose verso la matemati-ca manifestavano anche livelli più elevati di stereotipi verso questa mate-ria, ritenendo esse stesse che la matematica sia cosa da maschi più che da femmine. Un’analisi di mediazione ha confermato che proprio l’adozione dello stereotipo di genere da parte delle bambine spiegava il loro peggio-ramento di performance nelle classi con le maestre più ansiose. Un aspetto importante di questi risultati è che il livello di preparazione specifica del-le insegnanti non aveva alcun ruolo in questo processo e dunque l’effetto è da imputare totalmente al diverso comportamento tenuto – probabilmen-te in maniera del tutto inconsapevole – dalle insegnanti più ansiose rispetto a quelle meno ansiose nei confronti della matematica. È probabile che mo-strandosi meno sicure di sé durante le lezioni, le insegnanti più ansiose ab-biano veicolato l’idea che le donne non sono a loro agio in questa materia, rivelandosi quindi un modello di ruolo negativo molto precoce per le pro-prie alunne.

Altri studi si sono occupati dell’impatto che le docenti donne possono avere anche in un momento molto più avanzato del percorso di studi, ovve-ro durante i primi anni di università. Per quanto possa apparire contro-in-tuitivo, il fatto che una studentessa scelga al termine del liceo di iscriver-si a un corso di ambito tecnico-scientifico non è affatto una garanzia che il suo percorso di studi avanzati, di master oppure post-universitari, così co-me il suo percorso di carriera, continuino poi a svolgersi effettivamente in ambito scientifico. Di fatto, i primi anni di università si collocano in un momento della vita, definito generalmente come emerging adulthood18, che è cruciale per la formazione dell’identità adulta soprattutto in ambito acca-demico e professionale.

Nel lavoro di Stout e collaboratori citato in precedenza19, uno degli stu-di realizzati dagli autori ha voluto verificare in modo puntuale se avere un docente uomo o donna può cambiare atteggiamenti, aspettative, prestazio-ni e intenzioni future in studenti e studentesse al primo anno di una facol-tà scientifica (Studio 3). A questo scopo, gli Autori hanno selezionato poco meno di 100 studenti impegnati in un corso base di esercitazioni di calco-lo, che costituisce un prerequisito molto impegnativo per tutti i percorsi di

18. J.J. Arnett, “Emerging Adulthood: A theory of development from adolescence through midlife”, American Psychologist, 55, 2000: 469-80.

19. Stout et al., “STEMing the tide”.

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studio nell’ambito delle scienze fisiche e dell’ingegneria. I partecipanti so-no stati assegnati in modo casuale a sette docenti donne e otto docenti uo-mini, con esperienza e anzianità di insegnamento simili tra loro. All’inizio e poi alla fine del corso i partecipanti hanno completato una serie di misu-re, già descritte in precedenza, di atteggiamenti, stereotipi e identificazio-ne con l’ambito di studi prescelto e hanno espresso la loro aspettativa ri-spetto al voto che avrebbero voluto conseguire al termine del corso. In più, i ricercatori hanno condotto alcune sessioni di osservazione in aula regi-strando alcuni comportamenti chiave degli studenti, quali ad esempio il ri-spondere alle domande del docente durante le spiegazioni o avvicinarsi alla cattedra per chiedere chiarimenti al termine della lezione.

Come prevedibile, i risultati hanno confermato che avere una docente donna fa la differenza per le studentesse, annullando il gap negli atteggia-menti e nelle aspettative rispetto ai colleghi maschi. Mentre le studentes-se con un docente uomo presentano atteggiamenti impliciti più negativi e si sentono meno identificate con la matematica rispetto agli studenti maschi, questo divario viene completamente annullato quando le studentesse sono assegnate a una docente donna. L’effetto, tra l’altro, non è dovuto all’effet-tiva interazione con la docente durante i tre mesi di lezione, perché si ma-nifesta esattamente con la stessa intensità fin dall’inizio del corso: in al-tri termini, è sufficiente l’aspettativa di avere una docente di calcolo donna per mettere studenti e studentesse sullo stesso piano, almeno per quanto ri-guarda gli atteggiamenti e l’identificazione con la materia. Le studentesse con una docente donna mostravano anche maggiori aspettative di successo nel corso e questo effetto era mediato dal loro grado di identificazione con la docente: più si sentivano simili alla docente e la consideravano un mo-dello da seguire, più alte erano le loro aspettative. Effetti importanti sono anche emersi sulle dinamiche di aula. Quando la docente era una donna, al termine del corso quasi il 50% delle studentesse rispondeva a domande in aula, a fronte di meno del 10% osservato quando il docente era un uomo. Nel caso degli studenti maschi, invece, il sesso del docente non sembra aver provocato alcun effetto degno di nota, né in positivo né in negativo.

Uno studio ancor più ambizioso è stato condotto da Carrell, Page e West con l’obiettivo di studiare gli effetti del genere del docente di ma-terie scientifiche e tecniche sulle performance e sul proseguimento de-gli studi successivi di studenti e studentesse, coinvolgendo circa 9000 studenti dell’Accademia militare dell’aeronautica degli Stati Uniti (Uni-ted States Air Force Academy, USAFA) dal 2001 al 200820. L’USAFA è, a tutti gli effetti, un’università di élite con gli stessi percorsi di laurea of-

20. S.E. Carrell, M.P. Page, J.E. West, “Sex and science: How professor gender perpe-tuates the gender gap”, The Quarterly Journal of Economics, 125, 2010: 1101-44.

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ferti dalle altre università pubbliche o private del Paese, ed è molto selet-tiva: circa il 14% dei candidati viene ammesso ogni anno e i punteggi ai test di ammissione dei candidati selezionati si situano al di sopra dell’85° percentile nella graduatoria nazionale. La percentuale di donne che all’U-SAFA scelgono corsi scientifici e ingegneristici è in linea con i dati delle altre facoltà americane, cioè poco meno del 20%. In più, l’organizzazione del corso ha permesso ai ricercatori un controllo molto forte su potenziali variabili di disturbo per la validità dello studio. In primo luogo, studenti e studentesse vengono assegnati in modo casuale ai diversi docenti. In se-condo luogo, tutti i docenti dello stesso corso utilizzano le stesse dispen-se e gli stessi manuali, e svolgono esattamente lo stesso programma. An-che l’esame finale è unico, e i compiti vengono corretti anonimamente da docenti diversi.

Utilizzando modelli predittivi molto dettagliati, Carrell e coll. hanno potuto evidenziare in modo molto netto l’impatto del genere del docen-te sui risultati delle studentesse. Innanzi tutto, le studentesse ottengono risultati significativamente peggiori nei corsi introduttivi di matematica quando il loro docente è un uomo rispetto a quando è una donna. L’effet-to è ancor più evidente per le studentesse con più elevate abilità matema-tiche, cioè quelle con punteggi più elevati ai test di ammissione, rispetto a colleghi maschi di uguale abilità: quando sono assegnate a corsi tenuti da docenti donne, il gap rispetto agli studenti maschi si azzera. In modo ancor più sorprendente, le studentesse che hanno avuto una docente don-na nei loro corsi introduttivi ottengono risultati migliori anche ai corsi di matematica avanzata degli anni successivi, indipendentemente dal gene-re del docente di questi ulteriori corsi. Sembra dunque che l’impatto che una docente donna può esercitare durante i primi semestri dei corsi uni-versitari sia destinato a non esaurirsi al termine del proprio corso, proba-bilmente perché è durante i corsi di base che ogni studente cerca di farsi un’idea sui propri interessi e sulle proprie possibilità di riuscita nei diver-si ambiti disciplinari toccati nel percorso di studi prescelto. Non a caso, Carrell e coll. dimostrano anche che le studentesse assegnate a docenti donne per i corsi introduttivi di matematica scelgono con maggiore pro-babilità di inserire più corsi di matematica avanzata nei propri piani di studi successivi e decidono più frequentemente di laurearsi con una te-si in materie collegate. Ancora una volta, il genere del docente non sem-bra fare la differenza per gli studenti maschi, né in termini di performan-ce né per quanto riguarda le scelte di studio successive. In altre parole, essere un modello positivo per le proprie studentesse non significa affat-to, per una docente donna, allontanare i propri allievi maschi dalla mate-matica e dalle scienze.

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Conclusione

Abbiamo iniziato questo capitolo chiedendoci perché le donne, pur rag-giungendo ormai livelli d’istruzione più alti degli uomini e ottenendo risul-tati migliori a tutti i livelli di scolarità, continuino ad essere una ristretta minoranza nei campi di studio scientifico, ingegneristico e, in generale, a più forte contenuto matematico. Benché le spiegazioni possibili per questo gap siano molteplici, in questo capitolo abbiamo evidenziato in particolare il ruolo dell’ambiente sociale nell’orientare le scelte di studio e di carriera delle ragazze, evidenziando il ruolo fondamentale dei modelli proposti dai media, dai pari, ma anche della scuola.

Crescere in un ambiente che propone esempi di donne che capiscono la matematica e la scienza esattamente quanto gli uomini, hanno successo ne-gli studi scientifici e intraprendono carriere professionali in questo ambi-to è vitale per incoraggiare altre donne e altre ragazze a impegnarsi con convinzione anche in percorsi di studio tradizionalmente ritenuti di domi-nio maschile. Tanto le donne proposte dai media (in particolare dagli spot commerciali), quanto quelle incontrate nel ruolo di ricercatrici dai parte-cipanti a diversi studi si sono dimostrate un valido antidoto all’immagi-ne stereotipica della donna poco portata per la scienza e la tecnica. Diver-se ricerche hanno messo in luce la varietà di ambiti nei quali l’incontro con modelli positivi di donna-scienziato, di donna ingegnere, o più in generale di donna competente in matematica ha dimostrato la propria efficacia: dal-la performance in compiti matematici, all’interesse dichiarato per questo ti-po di studi, fino all’espressione di preferenze e orientamenti meno stereoti-pici per la propria carriera futura.

Sono diversi gli studi che dimostrano come l’incontro con donne e ra-gazze che possono essere assunte come modelli di ruolo positivi in am-bito scientifico si riveli efficace anche quando lo scambio resta molto su-perficiale, come nel contesto di un breve esperimento in laboratorio, o addirittura in assenza di vere interazioni faccia-a-faccia. Sorprende quindi che soltanto pochi studi si siano occupati degli effetti di relazioni molto più significative e prolungate, in primo luogo quelle che si instaurano in aula tra allieve e docenti donne di materie scientifiche o tecniche. I pochi lavori che hanno affrontato l’argomento hanno chiaramente dimostrato che tanto per le alunne delle scuole elementari quanto per le studentesse universitarie avere un’insegnante donna in matematica può fare la differenza: beninteso, sempre che l’insegnante stessa non veicoli messaggi negativi mostrando a esempio la propria ansia verso la materia21. In ogni caso, gli studi condot-

21. Beilock et al., “Female teachers’ math anxiety”.

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ti nell’ambito di corsi universitari di area ascientifica dimostrano che a pa-rità di condizioni le studentesse ottengono risultati migliori quando la loro insegnante è una donna e che questo effetto positivo si riverbera anche sui corsi successivi e sulle scelte dei percorsi post-laurea22. È importante sotto-lineare che gli studi citati escludono che questo effetto possa essere dovuto a un presunto favoritismo di genere verso le allieve dello stesso sesso, dal momento che le valutazioni di fine corso erano effettuate da docenti diversi dal titolare dell’insegnamento, o a modalità didattiche differenti rispetto ai docenti uomini, tanto che in nessun caso gli studenti maschi sono risultati svantaggiati dall’avere una docente donna.

Allora perché, in presenza di una femminilizzazione sempre più forte del corpo docente, e dunque di una disponibilità sempre crescente di do-centi donne come possibili modelli di ruolo positivi in ambito scientifico, il numero delle donne che intraprendono studi scientifici e tecnici di alto li-vello cresce così poco? I motivi possono essere diversi e sarebbe riduttivo cercarli solo nelle caratteristiche individuali che ipoteticamente potrebbero differenziare docenti uomini e docenti donne. L’insieme dei lavori descritti fin qui mette chiaramente in luce che molti e diversi sono i modelli ai quali una studentessa può fare riferimento per definire i propri interessi scolasti-ci e culturali. Dunque, anche avere un’ottima docente donna in matematica può rivelarsi insufficiente a suscitare interesse e coinvolgimento nelle allie-ve, se i media, i pari e l’ambiente sociale più ampio continuano a veicolare lo stereotipo dello scienziato sempre maschio. In una società che tollera e rende visibili iniquità di genere diffuse nel mondo accademico e delle pro-fessioni, anche la migliore e la più ammirata delle insegnanti potrebbe tro-varsi ad essere un modello troppo isolato per essere veramente efficace nei confronti delle proprie allieve. Del resto, in una società completamente de-clinata al maschile, nemmeno Laura Bassi si è posta l’obiettivo di coinvol-gere altre donne nello studio della fisica sperimentale.

22. Carrel et al., “Sex and science”; Stout et al., “STEMing the tide”.

Parte III

Donne e ricerca nell’università, in Italia e a Bologna

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Ricercatrici e docenti nell’Alma Mater Studiorum, Università di Bologna: situazione e prospettive

di Rosella Rettaroli

Introduzione

È noto, grazie ai dati dell’Istat e del Ministero dell’Università e della Ricerca che, fin dagli inizi degli anni Novanta, il numero di donne immatricolate negli atenei ha superato quello dei coetanei maschi1. I livel-li di immatricolazione delle ragazze sono rimasti costantemente superiori a quelli maschili tanto che già nell’anno accademico 2010/2011 rappresenta-no il 56,3% del complesso degli immatricolati a livello nazionale e il 55,6% nell’Ateneo di Bologna.

Il panorama universitario altro non è che la continuazione di una diffor-mità di partecipazione e di conseguimento del diploma nelle scuole supe-riori tutta a vantaggio delle ragazze.

I livelli d’inclusione premiano queste ultime anche in termini di conse-guimento del titolo di studio universitario: dall’anno accademico 1990-1991 il numero di laureate per 100 giovani di venticinque anni, è risultato siste-maticamente più alto di quello dei laureati, con scarti via via più consistenti. Nel 2010, il tasso femminile di conseguimento delle lauree di durata trien-nale e a ciclo unico è del 37,8% (contro il 25,5% degli uomini), mentre quel-lo concernente i percorsi “lunghi” è del 22,6% (contro il 15,1% maschile)2.

1. Istat, Istituto Nazionale di Statistica, Rapporto annuale 2102. La situazione del Paese, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2012 (in seguito indicato con Istat, 2012) disponibile all’in-dirizzo www.istat.it/it/archivio/61203 (2/11/2013). Più in generale su donne e università in Italia si vedano: R. Frattini, P. Rossi, “Report sulle donne nell’università italiana”, Me-no di zero, III, 2012, 8‐9; Istat, Donne all’Università, il Mulino, Bologna, 2001; M. Pezzo-ni, V. Sterzi and F. Lissoni (2009), Career progress in centralized academic systems: An analysis of French and Italian physicists, working paper, n. 26/2009, Università Commer-ciale L. Bocconi, Milano, 2009.

2. Nonostante i miglioramenti conseguiti, però, l’Istat rileva che “l’Italia risulta anco-ra molto lontana dall’obiettivo fissato dalla Strategia Europa 2020 di una quota del 40% di

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La componente femminile raggiunge inoltre performances migliori in termi-ni di votazioni medie conseguite sia negli esami sia nel voto finale di laurea.

Anche nell’ambito del terzo livello d’istruzione, quello del dottorato di ricerca, la supremazia femminile è in Italia una realtà che porta la quota delle dottoresse di ricerca al 52% del totale.

Va comunque sottolineata una persistenza, col passare del tempo me-no intensa, di una segregazione di tipo orizzontale per quel che riguarda le aree disciplinari scelte dalle ragazze in tutte le fasi del processo formativo, che sicuramente ha notevoli conseguenze in fase di accesso ad un mercato del lavoro nazionale di per sé non favorevole al genere femminile.

È noto inoltre in quali termini l’aumento dell’occupazione nel terziario in generale e nella pubblica amministrazione in particolare abbia avuto un ruolo primario nell’innalzamento dei livelli occupazionali delle donne, tanto che dalla seconda metà degli anni Novanta la componente femminile costituisce la maggioranza dei dipendenti pubblici (e più del 60% già nel 2006). Ciò nonostante, anche all’interno di questa composita categoria esistono differenze piuttosto marcate fra i comparti in cui gli occupati sono inseriti. Tra questi, l’università è tra i pochi in cui la proporzione di presenza femminile sul totale si assesta a circa il 44%3. La segregazione però è più forte se si considerano le posizioni apicali e dirigenziali4, a cui sono assimilabili anche le figure della docenza di prima fascia; tra queste la presenza femminile nel 2006 crolla al 16% e arriva al 21% nel 2011 su una presenza femminile totale del comparto pari al 46,6%.

L’università è quindi, per la componente femminile, ancora uno degli ambiti della formazione e del mercato del lavoro in cui è possibile osserva-re sia segregazione orizzontale in termini di scelte del percorso formativo da compiere, e quindi delle macro aree disciplinari in cui è possibile inse-rirsi dopo la laurea, sia segregazione verticale nelle opportunità di carriera.

Obiettivi e dati

In conseguenza alla premessa, in questo contributo si analizzeranno i principali dati relativi alla presenza femminile nell’Ateneo di Bologna e alla loro evoluzione nel tempo. Nonostante qualche accenno generale

giovani in età 30-34 anni che conseguono un titolo di terzo livello (laurea o titolo equiva-lente); nel 2010, infatti, tale quota risulta ancora al di sotto del 20% (19,8%)” (Istat, 2012).

3. M. Tibaldi, “L’occupazione femminile nella Pubblica amministrazione: un’analisi dei dati della Ragioneria Generale dello Stato”, Contributi Istat, 3, Istat, Roma, 2009.

4. Tra le posizioni apicali sono stati considerati i Dirigenti di prima fascia che corri-spondono ai dirigenti delle aree amministrative. I professori ordinari sono a essi assimilati.

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più ampio e di contesto, sarà la popolazione dei professori e dei ricerca-tori dell’Università di Bologna a costituire l’elemento specifico del lavo-ro, pur rilevando l’importanza di estendere lo studio a tutte le figure pre-senti in ateneo, senza il contributo delle quali difficilmente quest’ultimo opererebbe.

I dati esaminati si riferiscono in maggior parte agli anni successivi al 1997-1998, in funzione della disponibilità della base di dati di ateneo5, e di quelli ministeriali6. A questi anni, tra l’altro, risale la legge 210 che av-via il processo di reclutamento basato sull’autonomia delle sedi universi-tarie.

L’approccio utilizzato è quello dell’analisi trasversale dell’evoluzione de-gli indicatori utilizzati.

L’evoluzione delle presenze

L’andamento nel tempo del numero totale di professori e ricercatori nell’università italiana e del numero dei professori di prima fascia dal 1997, suddivisi per genere, è rappresentato dal grafico in Fig. 1. In essa si eviden-zia la chiara distanza che, in termini di presenza di uomini e donne, carat-terizza la situazione italiana.

L’aumento della docenza femminile è più veloce di quella maschile, tanto che la proporzione delle donne sul totale passa dal 28% del 1997 al 33% del 2005 al 35% del 2011, ma la distanza rimane estremamente am-pia e mostra la variazione più consistente dopo il 2008, quando, proba-bilmente a causa delle maggiori uscite per pensionamento, la curva re-lativa agli uomini flette verso una diminuzione più che proporzionale rispetto all’altra curva.

Per i professori di prima fascia la situazione non cambia: le proporzio-ni delle donne passano dall’11% al 20% in poco meno di un quindicennio a fronte di un livello del 45% già presente tra i ricercatori al 2011.

5. Per il periodo 1960-1997 i dati provengono da Paola Monari e Patrizia Agati, La pre-senza femminile nell’Ateneo di Bologna/Women at the University of Bologna: Reflecting on the decade, in Ricerca e didattica all’Università di Bologna. Dieci anni al femmini-le/Research and Teaching at the University of Bologna. Ten Years on the Feminine Side, a cura di/edited by Paola Rossi Pisa, Silvia Gaddoni, Fiorella Dallari, Bononia University Press, Bononia, 2005. Dal 1997 in poi la fonte per l’ateneo è costituita dal Dataware hou-se. Un sentitissimo ringraziamento va al dott. Vincenzo De Filippis per il fondamentale supporto fornito per il reperimento e l’elaborazione di base dei dati e per la professionalità, la competenza e la pazienza dimostrata per tutta la collaborazione.

6. Il riferimento è alla base di dati del Miur sul personale docente e ricercatore (si veda all’indirizzo http://statistica.miur.it/).

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Fig. 1 - Evoluzione numerica del corpo docente e dei professori di prima fascia in Italia per genere dal 1997 al 2011

Fonte: Miur

Tab. 1 - Personale tecnico-amministrativo a tempo indeterminato nel comparto Universi-tà in Italia e nell’Ateneo di Bologna. Proporzioni di donne occupate per area funzionale per 100 occupati in ciascuna area

Area funzionale   Italia     Bologna  

2002 2006 2011 2002 2006 2011Dirigenza amministrativa 24,2 29,8 36,1 75,0 75,0 46,2Amministrativa e amministrativa-gestionale

69,1 69,9 72,2 83,2 84,5 81,8

Biblioteche 67,1 69,0 69,6 74,2 76,4 77,0Servizi generali e tecnici 40,4 40,2 39,8 57,7 54,1 49,3Socio sanitaria, medico-odontoiatrica e socio-sanitaria

54,4 55,3 60,4 67,8 74,6 77,4

Tecnica, tecnico-scientifica ed elaborazione dati

31,1 34,4 36,9 26,0 36,8 40,7

Area non individuata 51,8 49,4 53,7      

Fonte: Miur

Un semplice accenno al personale tecnico amministrativo a tempo in-determinato basterà a evidenziare come, almeno a livello nazionale, la se-gregazione verticale sia tutt’ora presente. La proporzione di donne supera abbondantemente il 50% nelle aree amministrative-gestionali, delle biblio-teche e in quelle socio-sanitarie, ma cala visibilmente nel caso della diri-

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genza amministrativa. A Bologna la presenza è più forte su tutti i livelli e alcune aree sono decisamente femminilizzate, dirigenza compresa, che tor-na però appannaggio degli uomini nel 2011.

L’Alma Mater e i suoi docenti

Se si guarda al trend della presenza femminile nella docenza dalla me-tà degli anni Sessanta (Fig. 2) si nota come questa si riveli crescente al crescere della numerosità dei docenti nei vari ruoli. Le fluttuazioni negli indicatori che caratterizzano gli anni Settanta e Ottanta sono dovute proba-bilmente allo specifico periodo storico che vede il passaggio dall’università d’élite all’università di massa. È già stato correttamente sottolineato come l’ingresso numerosissimo dei giovani alla formazione universitaria degli anni Sessanta e Settanta abbia richiesto agli atenei italiani di incrementare la loro potenzialità di docenza per adeguarla alla copertura delle nuove esi-genze didattiche, che non potevano più essere soddisfatte con le tradiziona-li forme di reclutamento universitario. Questo risulta essere un periodo di facile accesso alla docenza anche per la componente femminile.

In dieci anni, dal 1966 al 1976, i docenti universitari a Bologna sono au-mentati di 1620 unità7. Successivamente, con il ritorno alla normalizzazio-

7. Di questi, 1361 erano professori incaricati e assistenti. Monari e Agati, La presenza femminile nell’Ateneo di Bologna, p. 24.

Fig. 2 - Proporzioni di donne nelle differenti fasce di docenza presso l’Università di Bolo-gna dalla metà degli anni 1960 al 2011 (F/(M+F)%)

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ne nell’accesso alla carriera universitaria, segnata dal DPR 382/90, si è tornati ad una forte selezione che ha fatto uscire dall’università tanti do-centi – soprattutto donne – entrati per fare didattica, ma mai davvero av-viati alla ricerca e alla carriera accademica.

Secondo quanto riportato da Paola Monari e Patrizia Agati, l’inciden-za della carriera femminile nella seconda fascia di docenza, dal 1976 al 1986, si è ridotta del 7,49%, mentre nella prima fascia è aumentata, ma so-lo dell’1,3% e, tra i ricercatori, di 8,3%8.

Dagli anni 1990, la situazione sembra normalizzarsi su una crescita in-dubbiamente lenta, ma continua. Inoltre, dal 2003-2004 la velocità d’incre-mento delle curve tende a diminuire, segnalando difficoltà crescenti che potrebbero essere legate sia al turnover, che rallenta sempre più pesante-mente, sia, di conseguenza, a maggiori difficoltà nei passaggi di carriera soprattutto per le donne.

Resta però immutata la distanza delle curve nel tempo segnalando una differenza netta di potenzialità di accesso passando dai ruoli più bassi a quelli più elevati. La distanza tra le curve dei ruoli anziché chiudersi au-menta fino agli anni 2000 per poi restare pressoché immutata fino ad oggi.

Quanto finora delineato è visibile anche dal grafico in Fig. 3 che riporta i tassi medi annui di crescita della proporzione di donne nelle tre fasce di docenza a partire dalla metà degli anni 1990.

Fig. 3 - Tassi di crescita annui della proporzione di donne docenti sul totale nelle varie fasce

8. Monari e Agati, La presenza femminile nell’Ateneo di Bologna, p. 24.

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Fig. 4 - Proporzioni di donne nelle fasce di docenza, F/(M+F), a Bologna e per il Paese

L’aumento della componente femminile sul totale è sostenuto soprattutto nelle due fasce del ruolo dei professori ed è tanto maggiore quanto più il di-sequilibrio iniziale è forte; gli incrementi maggiori si hanno infatti per i pro-fessori ordinari. Tra i ricercatori, in cui le donne rappresentano già il 45% del totale, i ritmi di crescita della rappresentanza femminile in realtà restano stabili e risultano più contenuti. Dal 2005 però è chiaro il rallentamento del-le velocità di crescita soprattutto per la prima e la seconda fascia che, seppu-re aumentando di peso costantemente, lo fanno con ritmi sempre minori.

La situazione dell’Ateneo bolognese non si distacca particolarmente da quella nazionale e può essere considerata rappresentativa del quadro italia-no (Fig. 4).

Per associati e ricercatori la presenza femminile è più consistente a livel-lo locale e, soprattutto tra questi ultimi, la proporzione delle donne sembra incrementarsi proprio negli anni più recenti.

Per le prime fasce al contrario l’Alma Mater non mostra differenze posi-tive e il dato bolognese rispecchia esattamente quello medio nazionale.

Le età e le fasce di docenza

Il rallentamento progressivo del turnover e la carenza di finanziamenti per il reclutamento hanno come effetto primario uno strisciante e preoccu-pante invecchiamento del corpo docente con ripercussioni gravi sulla capa-cità competitiva nella ricerca del Paese rispetto al resto del mondo.

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I dati a disposizione mostrano chiaramente questa tendenza: nel grafico in Fig. 5 vengono rappresentate le distribuzioni per classi di età e fascia di docenza nel 1997 e nel 2011.

Fig. 5 - Distribuzione (%) del personale docente per genere, intervalli d’età e ruolo

Sembra crescere, soprattutto per le donne, il peso delle classi di età più anziane sia per la seconda fascia sia per la prima. L’aumento relativo al sesso femminile sembra più spiccato di quello che interessa gli uomini e il fattore di maggiore preoccupazione risulta essere la quasi assenza di nuovi ingressi prima dei trenta anni di età.

Le piramidi delle età della popolazione docente (Fig. 6) sottolineano quanto finora evidenziato. Esse mostrano le intensità di frequenza delle va-rie classi di età per i due generi sulla popolazione totale (M+F).

Com’è possibile notare dalla Fig. 6, il maggiore rigonfiamento della pi-ramide è attorno ai cinquant’anni nel 1997 e ai settant’anni venti anni più tardi, corrispondenti alle generazioni nate negli anni 1950. Si allarga nel tempo la presenza dei ricercatori anche ad età “avanzate” a discapito delle altre fasce di docenza per le quali è visibile il processo progressivo di in-vecchiamento.

Altrettanto chiara risulta la situazione differenziale del genere femmini-le che non sembra mostrare particolari mutamenti tranne che per una mag-giore equità nella compagine dei ricercatori.

Le piramidi sono un chiaro segno delle difficoltà di nuovo reclutamen-to progressivamente vissute dall’università italiana, che hanno impedito una sostituzione continua delle generazioni nei vari ruoli e hanno causato un’immobilità di situazioni tuttora presente.

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Fig. 6 - Piramidi delle età del personale docente per ruolo

Un aspetto particolarmente importante per capire quale sarà l’evoluzio-ne della compagine dei professori e ricercatori è legato alle possibilità di passaggi verticali di carriera. Infatti, è dalla velocità con cui questi avven-gono, e quindi dalla possibilità di nuovo reclutamento e dalle uguali possi-bilità per i due generi di accedervi, che dipende sia il ringiovanimento del corpo docente sia il raggiungimento di pari opportunità tra i generi.

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L’analisi delle carriere richiede dati specifici e controllati a livello di bio-grafie professionali, insieme alla conoscenza di numerosi fattori e varabili di controllo, pur tuttavia, dai dati a disposizione è possibile ricavare un’in-dicazione di massima dello stato di fatto. Alcuni lavori presenti nella lette-ratura danno risultati differenti in proposito, ma mostrano come le progres-sioni di carriera siano fortemente influenzate da numerosi fattori legati alle specificità delle aree disciplinari, della produttività scientifica e delle reti relazionali9.

La discontinuità e le poche risorse dedicate al reclutamento nell’univer-sità italiana rendono molto difficile avere indicatori stabili nel tempo; que-sto aspetto si complica se l’analisi riguarda un singolo ateneo seppur nume-ricamente consistente come quello di Bologna.

Al fine di avere una minima informazione si è scelto di calcolare tas-si di passaggio rapportando le nuove nomine per una fascia in un interval-lo triennale ai presenti in servizio nella fascia più bassa nello stesso trien-nio. Seppure l’indicatore calcolato risulti molto approssimato, in quanto le quantità dovrebbero rapportare coloro che hanno con successo raggiun-to una progressione di carriera a tutti quelli che hanno concorso per quel-la posizione, da esso è possibile ricavare una prima indicazione della persi-stenza di segregazione se calcolato per genere.

In Fig. 7 è riportato il confronto tra i rapporti precedentemente descrit-ti, per uomini e donne e il valore medio totale. In condizioni di equilibrio e di pari propensione, il valore è pari all’unità.

Com’è possibile notare dal grafico in Fig. 7, i valori relativi agli uomi-ni sono tutti superiori all’unità e quelli relativi alle donne inferiori. Le di-stanze maggiori riguardano il passaggio a professore ordinario con una tendenza nel tempo pressoché immutata, Questi primi elementi suggeri-scono approfondimenti relativi ai percorsi professionali, che sono neces-sari per qualsiasi monitoraggio per politiche di pari opportunità di acces-so ai ruoli.

La presenza femminile nelle diverse aree disciplinari

Guardando ad un’altra delle dimensioni classiche della differenzialità, e cioè alla presenza di genere e di ruoli per aree disciplinari, è possibile sot-tolineare come in realtà il quadro d’insieme che ne emerge non si discosti molto da quanto già conosciuto.

9. G. Abramo, C. Andrea D’Angelo, A. Caprasecca, “Gender differences in research pro-ductivity: A bibliometric analysis of the Italian academic system”, Scientometrics, 79, 2009, 3: 517-39.

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Fig. 7 - Rapporti tra i tassi di passaggio per genere e il tasso di passaggio totale

La segregazione orizzontale continua a manifestarsi con la maggiore presenza di docenti di prima fascia nei settori umanistici. D’altronde, da-ta la scarsa dinamicità del ricambio generazionale già sottolineato, questo assetto è la risultante, per gran parte di un processo di invecchiamento nei ruoli, con scarsissimo ricambio, dovuto alle ancora più scarse possibilità di accesso alle progressioni di carriera.

Come risulta chiaramente leggibile dalla Fig. 8, l’area umanistica re-sta quella con una maggiore proporzione di docenti donne di prima fa-scia.

La presenza negli organi accademici

La difficoltà delle donne nel raggiungere livelli apicali nell’università ha un ultimo aspetto di sicuro interesse: quello della rappresentanza femmini-le negli organi di governo degli atenei.

In questo contributo, l’ultima attenzione va necessariamente rivol-ta alla presenza femminile negli organi politici, strategici e gestiona-li dell’Università di Bologna, sottolineando il fatto che l’introduzione e l’attuazione della legge 240 ha cambiato funzioni e composizioni de-gli organi accademici e ciò rende difficili molti dei riferimenti compa-rativi.

Dalle Tabb. 2 e 3, le tendenze e le configurazioni attuali restano comun-que chiaramente leggibili.

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Fig. 8 - Rapporto F/(M+F) % tra i professori di prima fascia per ex facoltà (pre L. 240/2010) nel 2005 e 2011

Tab. 2 - Proporzioni di donne per macroarea tra i direttori e i docenti di I Fascia

Direttori di dipartimento per macroarea pre L. 240 F M

Scienze matematiche, fisiche e chimiche 1 9 10,0Scienze biologiche, geologiche e agrarie 0 7 0,0Scienze ingegneristiche 0 7 0,0Scienze mediche e medico-veterinarie 1 17 5,6Scienze umanistiche 2 13 13,3Scienze giuridiche, Politiche economiche e statistiche 4 5 44,4Direttori di dipartimento per macroarea post L. 240 F M F/(M+F)%

Scientifica e tecnologica 1 13 7,1Medica 0 4 0,0Umanistica 1 8 11,1Sociale 1 5 16,7

NB: Le macroaree sono date da aggregazioni di dipartimenti pre e post riforma.

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Tab. 3 - Distribuzione dei generi nelle rappresentanze istituzionali d’ateneo: Senato acca-demico

Componenti Pre L. 240 Post L. 240  M F M F

Rettore 1   1  Pro-rettori (*) 5 1 8 2Presidi (*) 19 4    Direttori     8 2Rappres. d’area 8 4 8 7Rappres. studenti 4 1 4 2Rappres. personale T.A.     2 1

Nota: I confronti sono relativi ad assetti dettati da due diversi Statuti di ateneo e questo non rende del tutto confrontabili i due momenti poiché la composizione dell’Organo risulta differente.

Tab. 4 - Distribuzione dei generi nelle rappresentanze istituzionali d’ateneo: Senato acca-demico

Componenti pre L. 240 M FRettore 1  Rappres. enti locali 3 2Rappres. I fascia 3 1Rappres. II fascia 1 2Rappres. ricercat. 2 1Rappres. T.A. 2 2Rappres. studenti 4  Componenti post L. 240    Rettore 1  Componenti interni 4 1Componenti esterni 2 1Rappres. studenti 1 1

Se esaminamo i dipartimenti pre e post riforma, raggruppati per macro-aree disciplinari, anch’esse mutate, la presenza femminile tra i direttori del-le vecchie e nuove strutture risulta comunque molto sporadica (Tab. 2). Essa si riduce attualmente a tre donne su trentatre dipartimenti post-riforma. La proporzione del 9% che si ricava dal rapporto tra queste due quantità può essere confrontata con il 21% di presenza femminile tra le prime fasce di docenza al 2012, il 38% nelle seconde fasce e il 49% tra i ricercatori.

Considerando i due principali organi di governo dell’Ateneo, Senato ac-cademico e Consiglio di amministrazione, la situazione non si mostra par-ticolarmente differente. Nonostante il nuovo Statuto d’Ateneo introduca vincoli minimi di rappresentanza, le condizioni di una parità di presenza non risultano per ora rispettate per gran parte delle componenti.

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Considerazioni conclusive

Ciò che sembra emergere dall’analisi quantitativa è un processo che se-leziona progressivamente secondo il genere a sfavore delle donne: partendo dagli studenti e dai laureati, tra i quali ormai il sorpasso femminile è do-cumentato, la fase successiva comincia a mostrare una continua selezione a sfavore delle donne, quasi risolta nel post-laurea e a livello di dottorato di ricerca, ma più intensa nell’accesso alle posizioni accademiche nei va-ri ruoli di docenza e nelle rappresentatività istituzionali che da essi deriva-no. Persiste una differenzialità di presenza della componente femminile in tutti i ruoli della docenza. L’evoluzione nel tempo non mostra tendenze al ravvicinamento, anzi la velocità di crescita delle proporzioni della presenza femminile nei vari ruoli è calata negli anni 2000.

Il dato forse ancora più preoccupante che può essere dedotto da questa breve analisi è quello del livello di invecchiamento del corpo docente, pro-cesso che in alcuni casi è particolarmente evidente per le donne. È noto da tempo il costante aumento dell’età media dei docenti alla nomina, fenome-no macroscopico e di lungo periodo che, per quanto alla lunga insostenibi-le, non mostra a tutt’oggi alcun segnale di rallentamento.

Un’ultima considerazione va rivolta alla necessità di monitorare i pro-cessi in atto per l’accesso alle carriere. Perché ciò sia possibile è necessa-rio collezionare statistiche di genere a fini di indagine e di ricerca. Lo stu-dio delle differenzialità, infatti, va affrontato nei suoi aspetti dinamici e di coorte. È necessario capire se l’innalzamento delle età alla nomima è dif-ferenziale per genere, se esistono rallentamenti nei passaggi delle carriere per le donne e quali siano i principali fattori che li determinano.

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Studiose e scienziate dell’Università di Bologna

di Dario Braga

La ricerca scientifica è forse uno dei settori dove più fortemente si ma-nifestano le differenze di interessi e di possibilità tra uomini e donne, con fortissime ricadute anche sulla carriera universitaria, dall’accesso alla pro-gressione nei ruoli. È quindi utile, prima di affrontare una breve analisi della partecipazione di uomini e donne ai diversi schemi di ricerca presso l’Università di Bologna, analizzare la composizione di genere di docenti e personale dell’ateneo1.

Il confronto tra i dati sulla composizione di genere del personale dell’U-niversità di Bologna in un intervallo di alcuni anni (2006-2012) consen-te a mio parere alcune osservazioni interessanti. In percentuale, i profes-sori donna di prima fascia sono passati dal 18,9% del 2006 al 21,4% del 2012; negli stessi anni i professori donna di seconda fascia sono passati dal 35,1% al 37,2%; i ricercatori donne dal 47,3% del 2006 sono aumentati al 48,8% del 2012.

I dati dell’Università di Bologna confermano in tutta evidenza la mag-giore difficoltà delle donne rispetto agli uomini a procedere nella carriera accademica: da una sostanziale parità nel ruolo di partenza, a un rapporto prossimo a 1:4 nella fascia apicale. Si tratta di un fenomeno noto e presen-te in tutte le università italiane, il famoso “tetto di cristallo”, ma va anche notato che nel passare degli anni i differenziali si sono ridotti in manie-ra lenta ma costante. La “piramide” di genere andrà tenuta presente quan-do si analizzano sia i dati di accesso alla carriera sia la partecipazione del-la componente femminile ai programmi di ricerca.

Prima di procedere, vale la pena ricordare che nell’ambito del personale tecnico e amministrativo (PTA) i rapporti di genere sono ribaltati: nel 2012

1. Ringrazio lo staff di ARIC e in particolare le dott.sse Sara Gualandi, Sabrina Clò, Verdiana Bandini, Mara Caputo e le loro collaboratrici e collaboratori per l’aiuto nella rac-colta delle informazioni e per utili suggerimenti.

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il 66,3% del PTA era donna senza significative variazioni nell’arco di tem-po 2006-2012.

La “asimmetria inversa” nella composizione di genere del PTA e del personale docente, soprattutto rispetto ai professori di prima e seconda fa-scia è – ad avviso di chi scrive – un problema serio quasi quanto la man-canza di parità di genere nella docenza. Amministrazione e amministrati: due mondi – il primo, prettamente maschile, l’altro, prevalentemente fem-minile – che interagiscono nell’ambito di mansioni e strutture del lavoro diversissime. Questa differenza non può non generare problemi di comu-nicazione e di relazione tra personale docente e personale amministrativo influendo sul funzionamento della macchina amministrativa. Credo che si tratti di un aspetto che meriterebbe approfondimenti, ma non in questa se-de, dove mi concentrerò invece sulla ricerca.

Partendo dai livelli precedenti l’ingresso nella carriera accademica, la tabella 1 riporta i dati relativi al numero delle donne e degli uomini (D/U) dottorandi di ricerca dal XXIV al XXVIII ciclo. L’università di Bologna ha una popolazione media di circa 1800 dottorandi/anno. Sebbene il dottora-to di ricerca sia ormai, finalmente, anche in Italia accettato come terzo li-vello della formazione nell’ambito del cosiddetto Bologna Process, e quin-di non più una “anticamera” della carriera universitaria com’è stato negli anni passati, resta comunque il fatto che il titolo di dottore di ricerca è sempre più spesso un prerequisito per accedere ai concorsi di assegnista di ricerca e ora anche per quelli di ricercatore a tempo determinato; si tratta insomma di un prerequisito indispensabile per entrare nel percorso della ricerca accademica.

Tab. 1 - Dottorato di ricerca

Ciclo U D U con borsa D con borsa

XXIV 271 287 167 185XXV 307 297 171 147XXVI 267 283 141 153XXVII 286 295 153 155XXVIII 278 290 147 152

Come si vede nella Tab. 1, presso l’Università di Bologna le dottorande sono in numero pari ai dottorandi, con una leggerissima prevalenza D su U. Inoltre non si osservano variazioni significative al momento della as-segnazione delle borse, indicando una sostanziale pari opportunità rispet-to a questa risorsa. La distribuzione di genere nei diversi ambiti culturali

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non è, ovviamente, altrettanto paritetica: a fronte di una preponderanza di dottorande in area biomedica, c’è una sostanziale parità tra donne e uomi-ni in area umanistica e una minoranza di donne negli ambiti tecnici. Que-ste differenze meritano riflessioni che, tuttavia, sono al di là degli scopi di questo contributo.

Nella Tab. 2 sono a confronto i dati relativi a donne e uomini (D/U) as-segnisti di ricerca dell’Università di Bologna. Vista la diversa durata tem-porale degli assegni, il confronto migliore si ottiene osservando il rapporto D/U negli anni prendendo come riferimento la date al 31/12 di ciascun an-no, eccezion fatta per il 2012.

Tab. 2 - Assegnisti di ricerca

U DAssegnisti in servizio al 30/6/2012 642 678Assegnisti in servizio al 31/12/2011 562 613Assegnisti in servizio al 31/12/2010 522 520Assegnisti in servizio al 31/12/2009 536 506

Come si vede, il numero di assegnisti donna è circa lo stesso di quello degli assegnisti uomo e non si osservano variazioni significative nel tempo, semmai un leggero aumento del rapporto D/U.

Il numero dei ricercatori a tempo determinato (ex L. 240) è ancora trop-po ridotto e non consente considerazioni significative. Al momento (dicem-bre 2013) presso l’Università di Bologna si registrano sedici ricercatori e dodici ricercatrici “junior” assunti per tre anni. Poiché il numero dei ri-cercatori a tempo indeterminato tenderà a diminuire progressivamente per mancanza di turnover, sarà interessante vedere in che modo il progressivo svuotamento del ruolo potrà modificarne la composizione di genere.

Iniziamo ora ad analizzare come si pongono i docenti e ricercatori D/U dell’Università di Bologna rispetto ai diversi canali di finanziamen-to competitivi. L’occasione dei bandi 2012 e 2013 dei Progetti di rile-vante interesse nazionale (PRIN) e dei bandi Futuro in ricerca (FIR) del MIUR è utile.

Il bando FIR “Futuro in ricerca”, com’è noto, si rivolgeva ai giovani ricercatori e ricercatrici sia non strutturati (assegnisti e dottori di ricerca), sia strutturati (ricercatori) seppure con modalità diverse nei due cicli recen-ti. La tabella 3 riporta il confronto del numero di domande presentate da D e U divise per le “linee” previste dai bandi 2012 e 2013, separatamente. La Tab. 3 contiene anche i dati su “modelli B”, cioè su quanti ricercatori/postdoc hanno partecipato a progetti presentati presso altre sedi.

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Tab. 3 - Dati FIRB 2012 e FIR 2013*

Coord. nazionale* Coord. locale

U D U DLinea 1 non strutturati (max 33 anni) 4 5 21 20Linea 2 non strutturati (max 36 anni) 8 4 28 17Linea 3 strutturati (max 40 anni) 22 18 54 67Totale 34 27 103 104

Coord. nazionale* Coord. localeU D U D

Linea 1 “starting” 44 48 86 90Linea 2 “consolidator” 16 18 26 27Totale 60 66 112 117

(*) Nel 2012 il numero di domande era contingentato dal MIUR, mentre nel 2013, per via del cam-biamento di meccanismo di selezione, la partecipazione è stata libera.

Come si può vedere il dato complessivo dimostra una identica propen-sione alla produzione di progetti di ricerca competitivi riservati ai giova-ni, sia come coordinamento nazionale sia come coordinamento locale. Alla gara ci si presenta in sostanziale parità di genere. La preselezione previ-sta dal bando 2012 (quella 2013 è ancora in corso) ha portato a un risulta-to complessivamente omogeneo con questi dati, con nove progetti su sedi-ci a coordinamento femminile. Rispetto all’edizione precedente del bando FIRB, le domande presentate nella linea 3 da ricercatrici fu il 55% del to-tale, e nella linea 1 e 2, che si rivolge a non strutturati, fu del 56%.

Se prendiamo la partecipazione al bando FIRB come un “indice di in-traprendenza” è evidente che le ricercatrici cercano di accedere a fondi di ricerca autonomi su base competitiva in misura pari se non superiore ai colleghi uomini.

I dati PRIN del bando 2010-2012 (programmi di ricerca di interesse na-zionale) forniscono altri elementi di considerazione. Le domande presentate da unità operative dell’Università di Bologna sono state ca. 500, comprenden-do anche quelle dei coordinatori nazionali. Di queste il 66% è stato presenta-to da uomini mentre il 34% da donne, con un rapporto U/D di 1,9, rapporto che si abbassa leggermente a 1,8 se ci limitiamo a considerare i progetti coor-dinati extra-UniBo. Il rapporto U/D sale a 2,1 se si limita il confronto ai so-li progetti con coordinamento nazionale presentati da docenti dell’Università di Bologna (68% vs 32%). La differenza rispetto ai bandi riservati ai giovani (FIRB) riflette la diversa popolazione dei ruoli discussa in precedenza poiché i progetti PRIN sono presentati più di frequente da ordinari.

La distribuzione delle domande di finanziamento tra le aree riflette la asimmetria nella presenza di ricercatori U e D: il 58% dei progetti D sono

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di area umanista, mentre, tra i progetti U, la percentuale è invertita con il 62% dei progetti provenienti all’area tecnico scientifica.

Per quanto riguarda l’accesso ai programmi FP7, cioè il Settimo program-ma quadro dell’Unione Europea, la percentuale di domande (finanziate) di ricercatrici UniBo è il 19% del totale (49 vs 210). All’interno del FP7 c’è comunque una considerevole differenziazione U/D rispetto ai diversi tipi di programma (29% nel “Capacities”, 36% nel “People” vs 18% nel program-ma “Ideas” e 16% nel “Cooperation”). Nell’ambito del programma “Coope-ration” che, per l’Università di Bologna, è la maggiore voce di finanziamen-to dal FP7 (al settembre 2012, 53,2 su un totale di 70,1 milioni di euro), la partecipazione femminile è più marcata sulle linee di ‘social science and humanities’ (44%), anche se non manca una buona presenza di donne nei settori tecnologici, soprattutto trasporti e ambiente.

Un confronto tra tassi di partecipazione D/U ai bandi nazionali e a quel-li internazionali non è tuttavia direttamente possibile perché per questi ulti-mi possediamo informazioni solo sui risultati positivi della selezione e non sul numero di proposte presentate.

Un ultimo, utile confronto, è, a mio parere, fornito dal numero di inven-tori D o U di brevetti che vedono coinvolti ricercatori dell’Università di Bologna. Per i brevetti presentati nel periodo 2007-2011, il 28% degli in-ventori è donna. Il dato è interessante perché dimostra una marcata presen-za di ricercatrici anche nella ricerca applicata.

Le informazioni fin qui discusse consentono qualche considerazione fi-nale.

Si parla spesso di quel “soffitto di cristallo” attraverso il quale le don-ne vedono le posizioni apicali senza poterle raggiungere nonostante il me-rito. In genere, ci si riferisce alle posizioni di vertice nelle imprese, nelle banche, nei consigli di amministrazione, nelle grandi aziende pubbliche. In questo intervento ne abbiamo esaminato un altro aspetto. Esiste un soffitto di cristallo nella ricerca scientifica?

Analizzando la situazione dell’Università di Bologna – limitata sì, ma pur sempre rappresentativa per la sua natura di grande università generali-sta, per la sua collocazione geopolitica, e per la sua storia – si direbbe pro-prio di sì. Anche all’Università di Bologna lo sforzo iniziale tra donne e uomini è pari: sono pari le opportunità nel dottorato, pari gli accessi nel-la fase iniziali delle carriere. La differenziazione avviene nelle fasi succes-sive, ma non in egual misura, nelle diverse aree. All’Università di Bologna si parte “alla pari”, ma andando avanti nel percorso accademico in testa si pongono gli uomini e le donne arretrano e a volte si fermano.

Le ragioni sono molteplici e sarebbe forse troppo semplice associare la minore partecipazione delle ricercatrici ai bandi competitivi nazionali e in-ternazionali per l’accesso a finanziamenti di ricerca alla minore presenza

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nei ruoli avanzati. Le cause sono più complesse e più profonde che non la pura differenza di genere e vanno forse indagate nella struttura stessa del processo competitivo, sia a livello nazionale sia internazionale; soprattutto, quelle differenze vanno approfondite rispetto alle diverse aree del sapere. È indubbio che la maggior parte dei progetti FP7 sono in area scientifica e tecnologica, dove la piramide di genere si discosta anche in maniera molto significativa dai valori medi discussi fin qui. Da questo punto di vista meri-ta molta attenzione l’evoluzione del FP7 in Horizon 2020 (H2020), il nuo-vo schema di finanziamento della ricerca, che l’Unione Europea si accinge a finanziare con 80 miliardi di euro. Il paradigma di H2020 è «from bench to market» ed è quindi fortemente incentrato sulla ricerca orientata e appli-cata e sulla innovazione tecnologica alla quale dobbiamo cercare di attrar-re un numero crescente di ricercatrici. Non solum sed etiam. È importante impegnarsi perché i temi che entreranno nei diversi programmi riflettano anche interessi strategici dell’Italia, quali quelli che fanno riferimento agli studi classici che alimentano direttamente e indirettamente lo spazio dei beni culturali, storici, archeologici, turistici e così via, settori che per l’Ita-lia sono una risorsa primaria e nei quali è maggiore il contributo di ricer-catrici e studiose.

Vorrei chiudere con una considerazione generale. In un momento in cui c’è grande necessità di idee nuove e di nuovi modi di affrontare le grandi sfide, la componente femminile di studiose e scienziate rappresenta, a mio avviso, una risorsa inespressa. Le donne, all’Università di Bologna co-me negli altri atenei italiani, partono alla pari, ma restano indietro nel per-corso e riducono così la capacità di partecipare all’innovazione culturale e scientifica.

Occorre cambiare punto di vista e considerare la piramide di genere nel-la ricerca scientifica e tecnologica non tanto, o non esclusivamente, come un’ingiustizia, o una limitazione della capacità di espressione delle don-ne, o il risultato di pratiche opportunistiche. Si tratta, in realtà, di una seria “inefficienza” del sistema della ricerca. Inefficienza che va affrontata con l’obiettivo di liberare risorse umane e nuove idee e proposte non espresse appieno.

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«Mettere il genere in agenda». Donne, diritti e università

di Carla Faralli

Donne e diritti

Il lungo cammino delle donne per il riconoscimento dei propri diritti è cominciato nel Settecento, il secolo di Laura Bassi1.

In Francia Olympe de Gouges, scrittrice, drammaturga, protagonista di primo piano della rivoluzione, di cui finì vittima sulla ghigliottina (per «essersi dimenticata le virtù che convengono al suo sesso ed essersi im-mischiata nelle cose della repubblica»), nel 1791 riformula al femminile la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 con la Di-chiarazione dei diritti delle donne e delle cittadine. In essa dichiara che la donna nasce e rimane eguale all’uomo in quei diritti naturali che sono «la libertà, la proprietà, la sicurezza»; afferma il diritto delle donne al libero accesso a tutte le cariche e le funzioni politiche e sostiene, infine, la parità di doveri, compresa l’identica soggezione ai rigori della legge penale.

In area anglosassone nel 1792 Mary Wollstonecraft pubblica A Vindica-tion of the Rights of Woman, in cui, come Olympe de Gouges, difende la pa-rità tra i sessi e pone l’istruzione quale primo obiettivo cui le donne devono mirare: «la donna se non viene preparata dall’istruzione a diventare la com-pagna dell’uomo – ella scrive – fermerà il progresso del sapere e della virtù».

Nel corso dell’Ottocento i diritti proclamati nelle Dichiarazioni settecen-tesche vengono, per così dire, positivizzati nei codici e si precisano come prerogative civili e politiche dei cittadini. Alle proclamazioni universalisti-che di fine Settecento si contrappongono così normative che limitano la ti-

1. Per approfondimenti si vedano, in particolare: A.M. Galoppini, Il lungo viaggio delle donne verso la parità. I diritti civili e politici delle donne dall’unità ad oggi, Tacchi, Bo-logna, 1992; F. Restaino, A. Cavarero, Le filosofie femministe, Paravia, Torino, 1999; A. Facchi, Breve storia dei diritti umani, il Mulino, Bologna, 2007; E. Guerra, Storia e cultu-ra politica delle donne, Archetipolibri, Bologna, 2008.

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tolarità di tali diritti, in particolare delle donne, che continuano a far senti-re la loro voce, riproponendo le richieste avanzate da Olympe de Gouges e Mary Wollstenocraft qualche decennio prima.

Nel 1848 in una località degli Stati Uniti chiamata Seneca Falls si ten-ne un incontro dal quale scaturì una convenzione la cui prima parte consi-ste in una ricognizione degli abusi, delle offese e delle usurpazioni attivate dagli uomini nei confronti delle donne e la seconda in una dichiarazione di eguaglianza e di rivendicazione di ammissione a tutti i diritti civili e poli-tici, di parità di trattamento giuridico e di partecipazione alla vita politica.

A qualche anno più tardi risale la prima, importante esposizione teorica dei fondamenti del cosiddetto «femminismo della parità o dell’eguaglian-za» che, muovendo dall’interno del pensiero e della cultura liberale, riven-dica l’estensione alle donne delle stesse prerogative degli uomini: si trat-ta di The Subjection of Women (1869) di John Stuart Mill. Nell’opera, che sviluppa argomenti già presenti in altre opere sue e della moglie, Harriett Taylor, il grande teorico del liberalismo sostiene che il diritto non deve rendere disuguale ciò che la natura ha fatto uguale, non deve quindi por-si come ostacolo alla libertà delle donne e all’eguaglianza dei sessi. Ma la liberazione delle donne – sottolinea con grande modernità Mill – richiede una trasformazione culturale della società e riforme dirette a garantire l’ac-cesso all’istruzione, la libera scelta della maternità, il divorzio e l’elimina-zione di ogni forma di dipendenza dagli uomini.

Il riconoscimento dell’eguaglianza giuridico-formale, rivendicato nell’Ottocento, viene progressivamente realizzandosi nel corso del Nove-cento. Il passaggio essenziale verso la parità è la conquista del diritto di voto: la Gran Bretagna fu la prima ad ammettere le donne al voto per le amministrative a metà Ottocento, per le politiche nel 1918; in Italia Giolitti nel 1912 allargò il diritto di voto agli uomini maggiorenni, ma le donne ac-quisirono il diritto di voto solo nel 1946; la Svizzera, ultima in Europa, ha concesso il diritto di voto alle donne nel 1971.

Nel 1948 la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo vieta ogni for-ma di discriminazione sulla base del sesso e ribadisce uguali diritti tra uo-mini e donne; tutte le costituzioni novecentesche sanciscono l’eguaglian-za dei diritti tra i sessi. La costituzione italiana include all’art. 3 il sesso tra i caratteri che non devono dare adito a discriminazione e sancisce agli artt. 37, 48 e 51 rispettivamente la parità di trattamento nel lavoro e la tute-la della maternità, il diritto di voto e la parità di accesso agli uffici pubbli-ci e alle cariche elettive. La recente Carta dei diritti fondamentali dell’U-nione Europea (2000), ripresa dal Trattato di Lisbona (2008), ribadisce agli art. 21 e seguenti il divieto di «discriminazioni fondate, in particolare, sul sesso ecc.» e la parità di trattamento che «deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione»,

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ribadendo che «il principio della parità non osta al mantenimento o alla adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sot-torappresentato».

Di fatto, però, almeno in Italia, molti dei principi costituzionali so-no rimasti sulla carta fino in tempi recenti: basterà ricordare che l’acces-so delle donne alla magistratura risale al 1963 (legge n. 66); alle forze armate al 1999 (legge 20/10 n. 380); la parità di diritti dei coniugi è rico-nosciuta solo con la riforma del diritto di famiglia del 1975; nel 1981 so-no state abolite le norme riguardanti i delitti d’onore; la violenza sessuale fu definita solo nel 1996 «delitto contro la persona» e non più come «rea-to contro le morale».

Nonostante tutti i riconoscimenti di livello internazionale e nazionale, le donne hanno continuato a essere oggetto di discriminazione, tanto è vero che nel 1979 la Convenzione sull’eliminazione di ogni discriminazione ver-so le donne (Cedaw) prende atto che la realizzazione dei diritti delle donne non richiede solo l’estensione formale dei diritti esistenti e impegna gli sta-ti a prendere misure adeguate per garantire la parità dei diritti tra uomini e donne, eliminando di fatto le discriminazioni. L’accesso effettivo ai diritti è posto come un obiettivo per la cui realizzazione non bastano riforme giu-ridiche, ma sono necessarie trasformazioni economiche, sociali e cultura-li e, in particolare, una educazione ai diritti che comprende «l’eliminazione di pregiudizi e pratiche consuetudinarie basate sulla convinzione dell’infe-riorità o della superiorità dell’uno o dell’altro sesso».

Basta leggere i rapporti che ogni quattro anni gli stati che hanno ratifi-cato la Cedaw (l’Italia l’ha fatto con la legge n. 132 del 14 marzo 1985) so-no tenuti a presentare al Comitato per l’eliminazione delle discriminazioni sulle donne (l’Italia ha presentato l’ultimo rapporto nel 2010) per render-si conto di quanto cammino resti ancora da fare con riferimento, ad esem-pio, alla partecipazione alla vita politica delle donne (rappresentano cir-ca il 30% di deputati e senatori), al perdurare degli stereotipi di genere, al dilagare della violenza sulle donne, alle differenze salariali (in Europa le donne percepiscono in media una retribuzione inferiore del 17% rispetto a quella degli uomini) e altro ancora2.

Su questo sfondo, se prendiamo in considerazione la situazione dell’uni-versità, possiamo notare che anche qui il cammino delle donne è stato lun-go e che molto resta ancora da fare.

2. Rapporto del Governo Italiano 2010 al Comitato per l’eliminazione delle discrimina-zioni sulle donne, www2.ohchr.org/english/bodies/cedaw) e rapporto ombra italiano 2010 al Comitato per l’eliminazione delle discriminazioni sulle donne (www.retepariopportu-nita.it/Rete_Pari_Opportunita/UserFiles/ONU/RapportoOmbra_versioneitaliana.pdf (per questo e gli altri siti, l’ultimo accesso è stato in data 14/10/2013).

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Donne nelle università, in Italia e a Bologna

Laura Bassi è stata la seconda laureata nel 1732, dopo Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, laureatasi a Padova nel 1678, e la prima docente in un mondo senza donne com’era l’università del suo tempo. Causa sexus, tut-tavia, a Bassi non era permesso di tenere regolari corsi pubblici, tanto che nel corso della sua carriera condusse un’instancabile lotta per ottenere una condizione pari a quella degli uomini, ma dovette ripiegare su lezioni do-mestiche. D’altra parte, l’accesso delle donne alle cariche pubbliche non ri-guardava ai tempi di Bassi solo l’università.

Gli storici ricordano lo scalpore che aveva sollevato la prima donna lau-reata in giurisprudenza, Maria Pellegrina Amoretti da Oneglia, che nel Settecento aveva conseguito a Pavia la laurea in utroque iure (canonico ci-vile), una laurea che non le permetteva però l’attività professionale.

La prima laureata in legge dell’Italia unita, la piemontese Lidia Pöet, nel 1891, dovette sostenere una lunga lotta prima di vedersi riconosciu-ta la possibilità di iscriversi all’albo degli avvocati. Nella sentenza di di-niego della Corte d’appello la decisione viene motivata argomentando che «la facoltà di postulare è cosa contraria alla riservatezza e alla pu-dicizia conveniente al sesso. Sarebbe disdicevole e brutto vedere le don-ne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepitio dei pubblici giudici contaminate dagli abbigliamenti strani e bizzarri e dalle acconciature non meno bizzarre che le donne sono solite portare». Il testo inoltre appare colorito da varie “battute”, del tipo che i giudici potrebbe-ro far pendere la bilancia a favore di una “avvocatessa leggiadra”, oppu-re che le donne non devono pretendere di divenire uguali agli uomini an-ziché «preferire di rimanerne le compagne siccome la Provvidenza le ha destinate».

Nel 1913 Teresa Labriola, libera docente di filosofia del diritto, fu anch’essa esclusa dall’esercizio della professione; nel suo caso i giudici in-vocarono il parere di Ulpiano: «Foeminae ab omnibus officiis civilibus et publicis remotae sunt et ideo nec judices esse possunt nec magistratum ge-rere nec pro alio intervenire nec procuratores existere»3.

Dal punto di vista formale l’argomento portato era costituito dalla nor-mativa che vietava alle donne l’esercizio degli uffici pubblici, divieto ca-duto con la legge 1176 del 1919, che ridefinisce la capacità giuridica del-le donne e abolisce l’istituto dell’autorizzazione maritale, riconoscendo loro «a pari titolo degli uomini» la possibilità di esercitare tutte le professioni.

3. F. Tacchi, Le avvocate, in M. Malatesta, a cura di, Atlante delle professioni, Bononia University Press, Bologna, 2009, p. 257.

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Il problema non era solo italiano: nel 1849 un autore francese scrive-va che «una donna medico fa ripugnanza, una donna notaio fa ridere, una donna avvocato spaventa»; nel 1894 negli Stati Uniti la Corte suprema del-la Virginia negò a una donna il diritto di esercitare, sebbene la legge lo permettesse, a una “persona” con i suoi titoli, sentenziando che “persona” può soltanto significare uomo4.

Solo dalla fine degli anni Sessanta – particolarmente negli anni Settan-ta e Ottanta – per le donne si sono realmente aperte possibilità di accesso a tutte le professioni. Permane tuttavia tuttora una certa segregazione delle donne sia di tipo orizzontale sia, soprattutto, di tipo verticale, segregazione che appare oggi connessa non tanto a meccanismi formali o interni al mer-cato del lavoro, quanto al perdurare di fattori sociali e culturali che conti-nuano ad alimentare la divisione del lavoro su base sessuale.

Per quanto riguarda la docenza universitaria, alla femminilizzazione de-gli studenti non ha corrisposto una pari femminilizzazione della docenza.

Nel periodo 1877-1900 in tutta Italia solo 224 donne conseguirono la laurea e di queste 22 presso l’Università di Bologna. Oggi presso l’ateneo bolognese le laureate sono circa il 60% del totale dei laureati, con un mag-gior rendimento sia in relazione ai voti sia al tempo impiegato per conclu-dere gli studi, mentre le iscritte al dottorato sono il 51%. Eppure, quando si passa a considerare la situazione dei docenti, le donne presso l’Universi-tà di Bologna sono appena il 20% c. tra gli ordinari, il 35% tra gli associa-ti, il 49% tra i ricercatori.

Con riferimento alle cariche istituzionali, dopo la riforma cosiddet-ta Gelmini, solo tre donne sono direttrici di dipartimento su trentatre, nel-le undici Scuole cinque donne sono presidenti, in Consiglio di amministra-zione siede una sola donna docente; al senato accademico partecipano nove donne docenti su venticinque; le donne prorettori sono due su otto5.

Nel 2011 e nel 2012 a Bruxelles si è tenuto l’European Gender Summit, nel quale sono stati presentati i risultati di una consultazione che ha coin-volto quarantadue paesi attraverso università e istituzioni pubbliche di ri-cerca. Da tale indagine sono emersi alcuni temi importanti: la relazione tra parità di genere e qualità della ricerca è spesso interdipendente; il genere è una dimensione importante della creatività innovativa e deve essere inclu-so nei programmi di innovazione; le strutture devono realizzare politiche

4. S. Bellassai, La misogenia professionale, in Malatesta, a cura di, Atlante, p. 285 e sgg.

5. Alma Mater Studiorum, La presenza femminile dal XVIII al XX secolo. Ricerche sul rapporto donne/cultura universitaria nell’Ateneo bolognese, Bologna, 1988 e Ricerca e di-dattica all’Università di Bologna. 10 anni al femminile, Bologna, 2005. Per i dati più re-centi rinvio ai siti di AlmaLaurea, all’indirizzo www.almalaurea.it/, e del Csge, all’indiriz-zo www.csge.unibo.it/.

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di parità di genere per divenire più socialmente responsabili. Ne conse-gue la necessità di formare i ricercatori rispetto alla dimensione di genere, di includere tale dimensione in ogni ricerca, di assicurare la presenza del-le donne, anche attraverso lo strumento delle quote, a tutti i livelli decisio-nali della ricerca.

Il documento finale sottolinea ripetutamente che la questione di genere non è una questione solo femminile, ma della società, e che la promozione della parità di genere costituisce una priorità europea da perseguire attra-verso buone pratiche (ad esempio, rendere la dimensione di genere un re-quisito per ottenere fondi) e il riconoscimento di una quality label alle uni-versità e alle organizzazioni virtuose6.

Le università italiane sono largamente impreparate rispetto a ciò.Basta scorrere un interessante documento, frutto di una ricerca compiu-

ta a cura dell’Osservatorio di Ateneo di gender – women’s studies, Centro di documentazione dell’Università di Padova e che include i dati dall’a.a. 1999/2000 all’a.a. 2006/2007 concernenti gli insegnamenti e moduli – nei corsi di laurea del vecchio ordinamento, delle lauree triennali e specialisti-che del nuovo ordinamento, nei master, dottorati e corsi di perfezionamen-to – realizzati con una prospettiva di genere7.

Dal documento e dalle tabelle e grafici allegati emerge con chiarezza un’ampia disparità tra facoltà scientifiche e facoltà umanistiche: nelle pri-me i corsi dedicati ad un’ottica di genere sono pochissimi, se non inesi-stenti (fanalino di coda, insieme alle facoltà di Architettura, Agraria, Far-macia, Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali, risulta essere la facoltà di Ingegneria; la facoltà di Medicina offre insegnamenti legati all’ottica di ge-nere quasi esclusivamente in discipline quali ginecologia, ostetricia e me-dicina legale); tra le seconde la facoltà di Scienze Politiche è quella che raccoglie il maggior numero di insegnamenti dedicati al tema in oggetto, seguita da Lettere e Filosofia, Lingue e Letterature Straniere, Scienze della Formazione, Economia e Giurisprudenza. Nelle due ultime facoltà gli inse-gnamenti in un’ottica di genere riguardano prevalentemente la dimensione socio-lavorativa delle donne. I dati sono aggiornati al dicembre 2006, ma la situazione negli ultimi anni non sembra così cambiata da aver modifica-to sostanzialmente il quadro di fondo.

La ricerca dell’Università di Padova conferma quindi che, a differenza di quanto è successo in altri paesi, soprattutto di area anglosassone o nordica, dove i gender e women’s studies si sono radicati negli anni Settanta, in Ita-

6. Si veda all’indirizzo www.gender-summit.eu.7. S. Vincis, La situazione degli Womens studies nelle università italiane: i dati di un pri-

mo bilancio, pubblicata sull’Osservatorio dell’Università di Padova di Gender Women’s Stu-dies, all’indirizzo www.unipd.it/osservatoriogenere.

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lia poco si è fatto in quasi tutti i settori: pochi sono i corsi istituzionali, al più vi sono seminari o moduli all’interno dei corsi ufficiali, affidati all’ini-ziativa di singoli docenti.

L’Università di Bologna non fa eccezione, ma alcune esperienze sono particolarmente significative: la costituzione del CSGE, il Centro di Studi sul Genere e l’Educazione inaugurato nel 2009 presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione e dedicato alla ricerca interdisciplinare; il semi-nario transfacoltà e interdisciplinare su Etica e politica nella prospettiva degli studi di genere, organizzato dal 2006 insieme all’Associazione Or-lando, in cui sono messe a confronto la teoria e la pratica della società ci-vile, in un dialogo molto costruttivo tra cultura accademica e pratica civi-le; il corso Donne, politica, istituzioni, finanziato dal Ministero per le pari opportunità; la laurea magistrale Erasmus Mundus GEMMA (master’s de-gree in women’s and gender studies); il coordinamento del progetto euro-peo LEXOP (Gli operatori della legge insieme per le donne vittime di vio-lenza nelle relazioni di intimità), che integra i progetti Insieme contro la violenza di genere e In rete, coordinati dal Comune di Bologna. Data la frammentarietà di queste iniziative è stato costituito un sito denominato Alma Gender con lo scopo di dare ad esse maggiore visibilità, per favori-re una migliore comunicazione tra i docenti e una maggiore accessibilità agli studenti interessati.

La scarsa ricezione nella ricerca italiana degli women’s studies che, co-me sostiene Martha Nussbaum, «richiedono alla comunità scientifica di non arrendersi alla tirannia dell’abitudine»8, impedisce di riformulare in modo nuovo le varie discipline e, di conseguenza, limita la formazione dei giovani in tali ambiti, mentre solo dall’educazione più che dalle quote (che giudico, però, un «male necessario») potrà seguire quel cambiamento in grado di creare una cultura di parità capace di incidere nelle politiche e nelle scelte decisionali, cambiamento che rappresenta ancora oggi una del-le sfide del nostro tempo.

«Mettere il genere in agenda» – riprendo il titolo dell’ultimo evento che ha concluso le celebrazioni del tricentenario della nascita di Laura Bassi – rappresenta ancora una priorità.

8. M. Nussbaum, Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo, l’educazione con-temporanea, Carocci, Roma, 2006.

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Studi di genere fuori e dentro l’università italiana: un paese in ritardo

di Annamaria Tagliavini

Capitano spesso nel mio studio alla Biblioteca delle Donne di Bologna studentesse, più di rado studenti, appassionate alla ricerca di genere nei più diversi ambiti disciplinari. Si tratta di ricerche per tesi triennali o magistra-li svolte presso dipartimenti dell’Università di Bologna o di altre università italiane. Le difficoltà che spesso lamentano le studentesse sono di due tipi: il o la docente dichiara la propria incompetenza sull’argomento e richiede un supporto esterno; altre volte, la studentessa ha difficoltà a inserire il suo inte-resse per gli studi di genere in un curriculum di studi organico e strutturato che, tipicamente in Italia, non include quell’ambito della ricerca. Solitamente offro una consulenza bibliografica mirata, ma a volte consiglio la studentessa di indirizzare le proprie ricerche in qualche altra università europea, e ce ne sono parecchie, che offrono curricoli in gender e/o women’s studies1.

Negli ultimi anni, purtroppo, non è cambiato molto nelle università ita-liane, da sempre colpevolmente sorde nei confronti di questo settore degli studi: nessuna cattedra o dipartimento dedicati agli studi di genere, come altrove in Europa, per non dire negli Stati Uniti o in Canada. La realtà na-zionale è costituita da un centro interdipartimentale a Torino, il CIRSDE, e uno a Bicocca, un centro presso il Dipartimento di Sociologia alla Statale di Milano e più di recente a Tor Vergata, oltre ai corsi sulle pari opportu-nità finanziati dall’omonimo Ministero. Le ragioni di questa povertà di of-ferta non sono difficili da rintracciare in una società come quella italiana, profondamente permeata da una cultura misogina che prevale nella quasi totalità degli uomini e, ahimè, anche in non poche donne, anche apparte-nenti al ceto intellettuale e accademico.

L’Università di Bologna non si distingue in questo sconfortante panora-ma. A Bologna dal 2005 si svolge un Corso transdisciplinare studi di ge-

1. Un esaustivo repertorio dei programmi europei sugli studi di genere è consultabile all’indirizzo www.gender-studies.org.

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nere realizzato grazie alla collaborazione tra l’Associazione Orlando e la Facoltà, ora Scuola di giurisprudenza, sempre in un quadro istituziona-le borderline. Dal 2008 opera con efficacia il CSGE, il Centro di Studi sul Genere e l’Educazione nato per volontà di alcune giovani ricercatrici e do-centi del Dipartimento di Scienze dell’Educazione.

Nonostante singole e volonterose docenti già da un ventennio all’Universi-tà di Bologna abbiano prodotto ricerche e offerto corsi soprattutto in ambito letterario e storico, ciò è solitamente potuto accadere grazie a un’operazione di camoufflage all’interno di insegnamenti considerati “neutri”. Eppure, pro-prio a Bologna fu inaugurato nei primi anni Novanta, uno dei primi corsi di Storia delle donne grazie a un’importante studiosa come Anna Rossi Doria, corso in seguito assunto da un’altra storica di rango, Gianna Pomata.

È interessante notare che alla Rete Tematica Europea Athena, pensata per la promozione e lo sviluppo degli studi di genere e finanziata dal 1995 al 2010 nel Programma Quadro di Socrates, hanno aderito oltre 150 ate-nei. Nell’ambito di quel progetto la rappresentanza italiana è stata numero-sa e propositiva e ha visto Bologna in posizione di leadership grazie a una collaborazione tra Ateneo e Biblioteca Italiana delle Donne. Ciò ha con-sentito di organizzare, nel quadro delle iniziative di Bologna Capitale Eu-ropea della Cultura nel 2000, la IV Conferenza Europea di Ricerca Fem-minista che ha portato nell’Aula Magna di Santa Lucia oltre 800 studiose provenienti da tutta Europa che si sono confrontate sul futuro degli studi di genere2. Ma, ancora una volta, l’empowerment europeo non ha prodotto le ricadute sperate nell’ordinamento degli studi delle università italiane né, tanto meno, presso l’Università di Bologna.

Evidentemente, non tutte le responsabilità di questa situazione sono da ascrivere all’università e alla sua chiusura verso le istanze di quella che oramai da un paio di decenni è una comunità scientifica, non più solo fem-minile, sovranazionale e riconosciuta in tutti gli ambiti di ricerca.

Una componente non secondaria del femminismo più radicale italiano ha sempre contrastato apertamente la istituzionalizzazione degli studi di genere, motivando le proprie posizioni con il timore di una perdita di auto-nomia e di libertà della ricerca. Quella vocazione anti istituzionale guarda-va invece con favore alla nascita di iniziative informali, come ad esempio il seminario della Comunità Filosofica Diotima che da molti anni è atti-va presso l’Università di Verona per iniziativa di studiose importanti co-me Luisa Muraro e Chiara Zamboni3. Il timore che l’istituzione accademi-

2. Si veda R. Braidotti, A. Tagliavini, A report on the fourth European feminist re-search conference, in The making of European women studies, vol. II, Athena Publica-tions, Utrecht, 2000.

3. Per un’analisi sulla situazione italiana si veda D. Barazzetti, P. Di Cori, Studi delle donne in Italia, Carocci, Roma, 2001.

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ca potesse condizionare la libertà del sapere femminista, per sua vocazione interdisciplinare, è stato a lungo il tema dominante, se non egemone, nel cosiddetto dibattito, tutto circoscritto al contesto italiano, degli studi di ge-nere “dentro/fuori” l’università.

In una realtà che ha visto negli ultimi vent’anni fiorire molte iniziative indipendenti come i Centri di Documentazione, gli Archivi, le Biblioteche delle donne e importanti società scientifiche, come la SIS, la Società Italia-na delle Storiche, la SIL, la Società Italiana delle Letterate, o l’Associazio-ne nazionale Donne e Scienza, la mancata armonizzazione tra esperienze interne ed esterne all’università, con conseguente dispersione di energie e potenzialità, è ormai un fatto riconosciuto.

In Europa il panorama, com’è noto, è differente: nel 1984 all’Universi-tà di Utrecht, in Olanda, era istituita la prima cattedra europea di Women’s Studies affidata a Rosi Braidotti, una brillante filosofa, allora trentenne, ita-lo australiana. Da quella posizione istituzionale, Braidotti è riuscita in pochi anni a dar vita alla NOV, la Scuola nazionale olandese degli Women’s Stu-dies, e a convogliarvi ingenti risorse finanziarie provenienti dall’Unione Eu-ropea e destinate allo sviluppo e consolidamento di questo settore di studi grazie alla sapiente regia della Rete Tematica Athena4.

Nemmeno quei risultati importanti sembrano avere scalfito lo scettici-smo anti accademico di certo femminismo italiano radicale che ha conti-nuato a opporsi con forza a una strategia istituzionale altrove vincente sul piano accademico, ma anche sociale.

L’arretratezza del sistema universitario italiano in generale, e il persiste-re in particolare di un pregiudizio negativo nei confronti di questo ricco ambito di studi, da soli non spiegano la scarsa presenza di studi di genere, femministi o delle donne nell’ampia offerta formativa disponibile. Sordi-tà accademica generale, di uomini e donne che lavorano nell’università, e una sorta di miopia strategica di parte del femminismo italiano hanno de-terminato l’attuale stato delle cose e la frustrazione di molte studentesse e docenti che non trovano sbocchi in Italia ai loro interessi in un percorso di studi adeguato, sebbene volonterosamente supportate da biblioteche e ar-chivi specializzati che operano in contesti pubblici e che dovrebbero forse diventare accademicamente formalizzati.

4. Per le informazioni relative all’esperienza olandese si veda all’indirizzo www.graduate-genderstudies.nl.

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Investimenti a perdere: le italiane istruite

di Monica D’Ascenzo

Le donne fanno bene all’economia. Il concetto non potrebbe essere sem-plificato più di così, eppure nonostante tutti gli studi e le ricerche a sup-porto di questa affermazione, in Italia si continua a faticare a prendere coscienza del tema, salvo poi farne un punto dei programmi politici pre-elettorali solo per raccogliere i voti femminili. Che i propositi restino let-tera morta lo dimostra, se ce ne fosse bisogno, l’annuale classifica del Glo-bal Gender Gap stilata dal World Economic Forum (WEF). Nella classifica generale sulle pari opportunità l’Italia è al 71esimo posto (2013). Il miglior piazzamento mai registrato è stato quello del 2008, quando l’Italia si gua-dagnò il 65esimo posto della classifica generale. Da allora, evidentemente, gli altri Paesi si sono mossi per colmare il divario di genere, mentre l’Italia ha realizzato, nei fatti, poco o niente.

Il rapporto del WEF fotografa esattamente la situazione nel Paese in base a quattro diversi parametri. Il miglior voto per l’Italia è nell’accesso all’istru-zione, classifica in cui guadagna il 65esimo posto. Per la partecipazione po-litica (44°) e alla salute (72°) il Paese riesce a posizionarsi a metà classifica, il vero tallone d’Achille è rappresentato dalle pari opportunità nel campo economico e dalle differenze salariali. In quest’ultimo caso la bocciatura è evidente con l’Italia al 97esimo posto su 136 nazioni, subito dopo la Rus-sia e poco prima della Repubblica Slovacca. Nel calcolo del gap salariale, ad esempio, risulta che le italiane guadagnino annualmente meno della metà dei loro concittadini: 21.264 euro contro 44.430 euro. Il rapporto, poi, sottolinea come nelle posizioni di leadership le donne siano solo il 33%, nonostante la loro percentuale fra i professionisti e i lavoratori qualificati sia del 47%1.

È indubbio, comunque, che l’Italia resti il fanalino di coda in tema di parità di genere nel mondo del lavoro e non solo in ambito europeo.

1. World Economic Forum, Global Gender Gap Report 2013, diponibile all’indirizzo www3.weforum.org/docs/WEF_GenderGap_Report_2013.pdf (21/9/2013).

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Si prendano in considerazione i dati sull’occupazione, ad esempio: dal 2004 al 2008 il Paese ha vissuto un trend di crescita della percentuale di occupate fino a raggiungere il 47,7%. Un picco che però restava ben lontano sia dalla media europea (58%) sia dagli obiettivi di Lisbona, che indicavano per fine 2010 il raggiungimento di una percentuale del 60%. Obiettivo mancato e lontano ancora da raggiungere per l’Italia, che, per effetto della crisi economica, è tornata ai livelli della primavera 2006: 46,1% contro un’occupazione maschile al 67,7%. Di pari passo, naturalmente, i numeri della disoccupazione femminile, che ha raggiunto il 9,8%, e del tasso di inattività giunto al 48,6%, secondo i dati Istat del giugno 2012. La situazione, però, non è omogenea nel Paese. Se il Nord Italia viaggia a livelli di percentuali europee, infatti, nel Sud lavorano solo tre donne su dieci con un tasso di disoccupazione per le giovani che supera il 40%.

Molta strada è ancora da fare, quindi, soprattutto se si guarda al model-lo americano in cui per la prima volta nella storia a inizio 2010 la parteci-pazione femminile alla forza lavoro è arrivata ad equiparare quella maschi-le: 50-50. Un traguardo che in Italia è molto in là da venire. Nonostante il tema sia entrato a far parte dei programmi politici dei diversi partiti, di fat-to ancora non si è arrivati a investire con determinazione in questa direzio-ne. Eppure, non mancano studi che dimostrino come l’incremento dell’oc-cupazione femminile faccia bene al PIL. La Banca d’Italia, ad esempio, ha stimato che se la percentuale di donne occupate in Italia salisse al 60%, il prodotto interno lordo del Paese crescerebbe del 7%2. E ancora: se aumen-tasse di 1,7 milioni il numero di lavoratrici nel Sud Italia, il PIL avanze-rebbe di 4-6 punti percentuali, secondo le stime di Roberta Zizza di Banca d’Italia. Non solo. L’incremento di occupazione creerebbe un circolo vir-tuoso per cui ogni 100 nuove donne occupate si creerebbero altri quindici posti di lavoro. Le donne che lavorano fuori casa, infatti, devono essere so-stituite spesso nei loro ruoli di lavoro domestico, di cura dei bambini e di cura degli anziani.

Il lavoro femminile non fa bene solo al Paese, ma anche alle singole im-prese. Se poi le donne fanno carriera, ancora meglio. Uno studio del Cer-ved3, su un campione di 24mila società quotate in Borsa e non, ha eviden-ziato come le donne facciano bene anche ai conti delle aziende. Le imprese guidate dalle donne, secondo lo studio, hanno accresciuto più velocemente

2. Il contributo del lavoro femminile alla crescita economica, intervento di Roberta Zizza di Banca d’Italia al convegno del 5 giugno 2008 organizzato da Manageritalia, dal titolo Uguaglianza e merito per la crescita economica e globale.

3. Le donne al comando delle imprese, Cerved, marzo 2009, testo disponibile al sito www.cerved.com/xportal/web/@extsrc/@ita/@focus/donne_comando_imprese.pdf (21/9/2013).

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i ricavi, generato più margini lordi, chiuso più frequentemente l’esercizio in utile e non denotano un livello di rischiosità superiore rispetto a quello del-le aziende ‘maschili’. A livello internazionale, il trend è stato evidenziato dall’associazione canadese Catalyst, che ha curato il report The Bottom Li-ne: Corporate Governante and Women’s Representation on Boards, dove si analizzavano i risultati delle società dell’indice Fortune 5004. Il rapporto evidenzia come le imprese con una maggiore presenza femminile fra i con-siglieri abbiano, in media, performance migliori della media di società con la più bassa presenza di donne nei consigli di amministrazione (CDA). Non solo. I risultati sono notevolmente migliori nei CDA con tre o più donne, perché la “massa critica” consente di fare la differenza.

Il lavoro delle donne non fa solo bene alle imprese e al PIL, ma anche al cosiddetto Bil, benessere interno lordo. In Italia, infatti, il lavoro gratuito di cura è per l’80% a carico delle donne e secondo una stima della Fonda-zione Rodolfo De Benedetti ha un valore di circa 300 miliardi di euro l’an-no, pari a circa 23 punti percentuali del PIL. Mentre il lavoro delle don-ne fuori dalle mura domestiche porta generalmente a un cambiamento dei tempi e dei parametri del mondo del lavoro nella direzione di una maggio-re conciliazione vita-impiego, di cui giovano anche gli uomini.

Ma se è così, perché non si mettono in atto le misure necessarie per in-centivare l’occupazione femminile? Nel decreto legge sul lavoro del 2012, scritto dall’allora ministro del lavoro Elsa Fornero e approvato dal gover-no Monti, la parola “donne” compariva solo cinque volte in 80 pagine di testo5. A queste citazioni, poi, corrispondono misure ancora troppo blande. Tanto più che un maggior potere d’acquisto delle donne, possibile con un lavoro loro retribuito, contribuirebbe a rilanciare anche i consumi del Pae-se, visto che in Italia, secondo le stime di Boston Consulting Group6, circa 250 miliardi di euro di spese vengono gestiti dalle donne: le spese femmi-nili equivalgono a circa il 63% del totale dei consumi. In realtà, pare che le donne influenzino fino all’80% delle spese in Italia, intervenendo con il lo-ro parere anche negli acquisti del resto della famiglia. Questo avviene an-che in settori considerati abitualmente maschili, come la scelta dell’auto-mobile. Diversi studi di marketing hanno evidenziato come anche in questo caso il parere femminile abbia il suo peso e la pubblicità si è subito adatta-ta al trend. Ma se il parere femminile conta, perché non fare in modo che nei team che decidono le strategie aziendali e di prodotto non ci siano don-

4. Si veda all’indirizzo http://catalyst.org/knowledge/bottom-line-corporate-performan-ce-and-womens-representation-boards.

5. Riforma del lavoro del ministro Elsa Fornero, Legge 92 del 2012.6. What Women Want, 2011, disponibile al sito www.bcgperspectives.com/the_female_

economy (21/9/2013).

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ne che possano meglio interpretare e andare incontro alle esigenze delle consumatrici? I vertici aziendali restano invece maschili.

Eppure la materia prima non mancherebbe. Secondo i dati di Alma Lau-rea le ragazze oggi sono oltre il 60% dei laureati. Oltre a questo, finisco-no il corso di laurea in minor tempo (il 40,6% in corso contro il 37% dei ragazzi) e ottengono voti più alti (una media di 104,2 contro il 101,4 dei compagni di corso). Ma quali sono le ambizioni delle neo laureate? A cosa aspirano? Secondo uno studio internazionale della Grant Thornton7 la per-centuale di studentesse che puntano a guadagnare un ruolo di commando nel mondo del lavoro è pari al 78% in Cina, il 53% negli Stati Uniti e solo il 24% in Europa. Non è un caso che esista una correlazione tra queste per-centuali e il numero di donne ai vertici delle aziende: in Cina le donne nei board sono il 39%, negli Stati Uniti il 20% e in Europa il 12%. Risulta evi-dente che in mancanza di modelli di riferimento è difficile per le giovani porsi degli obiettivi ambiziosi. Una conferma viene da una ricerca fatta in diversi dipartimenti di economia del Nord Italia: alle studentesse che di-chiaravano di voler diventare imprenditrici è stato chiesto quale fosse il lo-ro modello di riferimento. I primi due nomi fatti dalle intervistate sono sta-ti di imprenditori e solo al terzo posto i consensi si sono concentrati su una donna, Emma Marcegaglia, più nota allora come presidente di Confindu-stria che non come imprenditrice8.

Diventa così fondamentale non solo sviluppare l’occupazione femminile, ma anche permettere alle tante donne preparate e competenti di raggiunge-re ruoli di vertice. Per questo in Italia nel luglio 2011 è stata approvata la legge di proposta bipartisan cosiddetta Golfo-Mosca, che punta nell’arco di nove anni a portare la presenza femminile nei CDA delle società pubbli-che e quotate dal 7% attuale al 30%. La legge, entrata in vigore nell’ago-sto 2012, ha già dato alcuni risultati, visto che molte aziende al rinnovo dei board hanno voluto iniziare ad anticipare i tempi inserendo professioniste di rilievo nelle stanze dei bottoni. Un’evoluzione che va inserita in un qua-dro europeo che si muove in questa direzione. Le quote di genere, infatti, sono già legge in Norvegia, Spagna e Francia, mentre esiste una proposta presentata al parlamento europeo per rendere obbligatorio il raggiungimen-to della percentuale del 40% in tutte le società quotate dei paesi UE.

Il merito del dibattito che ha accompagnato l’approvazione della legge in Italia è stato quello di porre il problema anche in altri ambiti, al di fuo-

7. Women in senior management: Still not enough, 2012, disponibile al sito www.grant-thornton.co.nz/Assets/documents/pubSeminars/IBR-2012-women-in-senior-management.pdf (21/9/2013).

8. Ricerca condotta dalla professoressa Giovanna Dossena dell’Università di Bergamo e non ancora pubblicata.

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ri di quello finanziario. E il mondo accademico non è stato esente da que-sto contagio. Degli 81 membri, che fanno parte della Conferenza dei rettori (Crui), solo cinque sono donne. A questo proposito l’allora direttrice del-la Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, Maria Chiara Carrozza, ha chiesto che il 30% delle poltrone accademiche venga garantito alle donne. E alcu-ni atenei si stanno adeguando al cambiamento. A partire dal Federico II di Napoli che nel suo statuto prevede la parità di genere con una quota di un terzo del CDA dedicato alle donne. Lo statuto dell’Università di Udine, in-vece, prevede meccanismi e sanzioni per portare la presenza femminile al 30% nel Senato accademico e nel CDA. D’altra parte anche nel mondo ac-cademico si ripropone la stessa situazione che si rileva nelle aziende: fra i ricercatori, secondo i dati del Comitato nazionale per la valutazione del si-stema universitario9, le donne sono circa il 45% del totale. Quando, però, si sale al livello dei professori ordinari la percentuale si riduce al 20%.

Il mondo delle professioniste non fa eccezione. Nell’avvocatura oltre il 50% di coloro che passano il concorso è donna, ma la “mortalità professio-nale” è pari al 25% in concomitanza con il primo figlio10. Questo riduce le prospettive di giovani che hanno impiegato anni a prepararsi per una pro-fessione, che poi si troveranno a non praticare.

In conclusione, le italiane sono in media più preparate dei loro coetanei dopo anni di studio. Eppure faticano a trovare un lavoro e ancor più a fare carriera, qualunque sia l’ambito in cui si cimentano. Tanto che una delle bat-tute che circola per la maggiore è che L’Italia abbia le casalinghe più prepa-rate d’Europa. Il punto vero, su cui ancora nessuno si è cimentato, è quel-lo di quantificare a quanto ammonti l’investimento a perdere nell’educazione delle giovani italiane, sul modello di quanto fatto in passato per i cosiddetti cervelli in fuga. Qualunque sia il risultato, comunque, è sempre troppo.

9. Undicesimo rapporto sullo stato del sistema universitario del Comitato Nazionale per la valorizzazione del sistema universitario del Ministero dell’istruzione, dell’universi-tà e della ricerca.

10. Rapporto Censis sull’avvocatura, 2010.

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Autori e autrici

Dario Braga è professore di chimica all’Università di Bologna. Ha pub-blicato oltre 400 articoli in riviste e libri internazionali ed è titolare di numerosi brevetti. Membro dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna, ha ricevuto riconoscimenti dalla Società Chimica Italiana, da Fe-derchimica e dalla AIC. È stato visiting professor in Brasile, Francia, Fin-landia, Svizzera e ha tenuto più di 130 conferenze e seminari in sedi inter-nazionali e nazionali. Dopo avere diretto il Collegio Superiore e l’Istituto di Studi Avanzati è attualmente Prorettore alla ricerca dell’Università di Bologna.

Marlaine Cacouault-Bitaud è professoressa di sociologia all’Universi-tà di Poitiers e membro del Laboratoire GRESCO. Fa parte del comitato di redazione della rivista Travail, genre et sociétés e del comitato scientifi-co dell’Istituto Emilie du Châtelet per lo sviluppo delle ricerche su donne, sesso e genere. I suoi lavori, improntati a un approccio socio-storico all’in-terno di una prospettiva di genere, vertono sulle e sugli insegnanti e sui quadri dell’Educazione nazionale, nonché su mascolinizzazione e femmini-lizzazione delle professioni. Su questi temi ha scritto numerosi saggi, solo in parte citati nelle note al suo contributo.

Alessandro Cavalli è stato professore di Sociologia presso l’Universi-tà di Pavia fino al 2003 e in seguito presso l’Institute for Adavanced Study (IUSS) nella stessa città. Ha collaborato come visiting professor e diretto-re di studi con numerose università italiane e straniere. È membro dell’Ac-cademia Nazionale dei Lincei, dalla quale nel 2010 ha ottenuto il premio A. Feltrinelli per il suo contributo alla ricerca sociologica, e di diverse altre istituzioni in Italia e all’estero. Tra i suoi campi di ricerca, sui quali ha pro-dotto un grande numero di pubblicazioni, occupa un posto rilevante la so-ciologia dell’adolescenza e dell’educazione.

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Marta Cavazza ha insegnato Storia del pensiero scientifico e Teorie del-la differenza sessuale nella Facoltà di Scienze della formazione dell’Uni-versità di Bologna ed è stata tra le fondatrici del Centro di studi sul gene-re e l’educazione (CSGE) del Dipartimento di Scienze dell’educazione. Tra i suoi temi di ricerca ha un posto rilevante il dibattito su genere, cultura e società nell’Europa illuminista. Tra le sue numerose pubblicazioni, diverse riguardano la figura di Laura Bassi.

Carmela Covato insegna Storia della pedagogia e Storia sociale dell’edu-cazione presso il Dipartimento di Scienze della formazione dell’Università degli Studi Roma Tre, dove dirige il Museo Storico della Didattica Mauro Laeng. La sua attività di ricerca riguarda la storia dell’infanzia, della scuo-la e dell’educazione di genere. Fra le sue pubblicazioni più recenti: Meta-morfosi dell’identità (2006); Memorie discordanti (2007); con M. Ida Ven-zo, L’istruzione secondaria (2010).

Mirella D’Ascenzo è professore associato di Storia dell’educazione e coor-dinatrice del Corso di studi in formazione e cooperazione presso il Dipar-timento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna. Fa parte del CSGE. Si occupa di storia della scuola e della professione docente. Le sue ricerche, attente alle questioni di genere, vertono su istituzioni educative scolastiche ed extrascolastiche di Bologna tra Otto e Novecento e sono ap-parse in monografie, saggi in volumi collettanei e riviste specializzate.

Monica D’Ascenzo è giornalista professionista e dopo le prime esperienze in Italia, si è trasferita a Londra per lavorare a BloombergTv. Dal 2001 lavora per il gruppo Il Sole 24 Ore. È autrice di Cinque anni di priva-te equity (2003), con Chiara Di Cristofaro, Sms (2006), con Giada Vercelli, Donne sull’orlo della crisi economica (2009) e di Fatti più in là. Donne al vertice delle aziende: le quote rosa nei CDA (2011).

Carla Faralli è docente di Filosofia del Diritto, Direttore del CIRSFID (Centro Interdipartimentale di Ricerca in Storia del diritto, Filosofia e So-ciologia del diritto e Informatica giuridica), membro del Comitato etico dell’Istituto Rizzoli e del Comitato di Bioetica dell’Ordine dei Medici e dell’Università di Bologna, nonché presidente della Società italiana di diritto e letteratura. È autrice di numerosi libri e saggi che spaziano dalla storia del pensiero giuridico alla bioetica, dall’analisi di concetti come stato, certez-za e fonti del diritto ai rapporti tra diritto e genere, tra diritto e letteratura.

Paula Findlen è professore di Italian History e direttore del Suppes Cen-ter for the History and Philosophy of Science and Technology presso l’U-niversità di Stanford. Le sue numerose pubblicazioni spaziano dalla storia del collezionismo nell’Europa dell’età moderna ai rapporti tra genere e cul-

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tura nell’Italia del Settecento, con particolare riferimento al ruolo di donne intellettuali come Clelia Borromeo, Maria Gaetana Agnesi, Cristina Roccati e soprattutto Laura Bassi, sulla quale sta per pubblicare una monografia. Su questi temi si segnala la cura del volume Italy’s Eighteenth Century. Gender and Culture in the Age of the Grand Tour (con W. Wassyng Roworth e C. Sama, 2009).

Paola Govoni è ricercatrice di Storia della scienza presso il Dipartimento di scienze dell’educazione dell’Università di Bologna, dove insegna Genere e culture della scienza. E stata tra le fondatrici del CSGE. Autrice di libri e articoli su scienza e società in età moderna e contemporanea, in numero-si saggi ha indagato nei rapporti tra donne, uomini e scienza dall’Ottocento al presente. Su questi temi ha pubblicato di recente Writing about Lives in Science: (Auto)Biography, Gender, and Genre, ed. by P. Govoni and Z.A. Franceschi (Göttingen, 2014).

Silvia Leonelli è ricercatrice in Pedagogia generale presso il Dipartimen-to di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna, dove insegna Teorie e modelli educativi delle differenze di genere. Si occupa di edu-cazione e di pedagogia di genere; di costruzione dell’identità di genere nei contesti educativi; di narrazione autobiografica delle donne. Fa parte del CSGE di cui è stata una delle fondatrici. È autrice di Dal singolare al plurale: Simone de Beauvoir e l’autobiografia al femminile come percor-so di formazione (2010) e ha co-curato, con Giulia Selmi, Genere, corpi e televisione (2013).

Tiziana Pironi è docente di Storia della pedagogia e coordinatrice del Corso di studi in Educatore nei servizi per l’infanzia presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna. È stata tra le fondatrici del CSGE. La sua attività di ricerca ha riguardato la storia della pedagogia e dell’educazione tra Otto e Novecento, soprattutto nella prospettiva di genere. La sua ultima pubblicazione su questi temi è Femminismo ed educazione in età giolittiana. Conflitti e sfide della modernità (2010).

Rosella Rettaroli insegna Demografia presso l’Università di Bologna ed è direttore del Dipartimento di Scienze statistiche “P. Fortunati”. I suoi interes-si di ricerca vertono sui temi della fecondità e delle disuguaglianze territo-riali in termini di comportamenti demografici e di corso di vita individuale.

Annamaria Tagliavini dirige la Biblioteca Italiana delle Donne di Bologna. Esperta nel campo dell’informazione e della documentazione di genere, fa parte di importanti reti femminili e femministe internazionali, come WINE, Women Information Network Europe, e Know How on the World of Women Information Conference Permanent Comittee.

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Carlo Tomasetto è ricercatore in Psicologia dello Sviluppo e dell’Educa-zione presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna. Si occupa di temi di sviluppo sociale e cognitivo, studiando in particolare gli effetti di stereotipi e pregiudizi in età evolutiva e i processi di trasmissione intergenerazionale degli stereotipi di genere in famiglia.

Gabriella Zarri è stata professore ordinario di Storia moderna nell’Uni-versità di Firenze fino al 2012. Fa parte del consiglio scientifico dell’Isti-tuto di Studi Umanistici di Firenze e della Scuola Internazionale di Al-ti Studi di Modena. È membro dell’Accademia Clementina di Bologna, dell’Accademia Fulginia di Foligno e dell’Associazione il Mulino di Bo-logna. Dirige la rivista internazionale Archivio italiano per la storia della pietà. I suoi campi d’indagine riguardano le istituzioni ecclesiastiche e la vita religiosa tra Quattrocento e Seicento, con particolare riferimento agli ordini religiosi femminili e maschili e allo studio della condizione femmi-nile e della santità.

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Indice dei nomi

Abir Am, Pnina G., 12, 29Abramo, Giovanni, 186nAffaitati d’Albogasio, Antonio Maria, 16,

54, 55Agati, Patrizia, 179n, 181n, 182 e nAgrippa, Cornelio, 58Albanesi, Cinzia, 153nAlidosi Pasquali, Giovanni Nicolò, 65nAmabilli, Giuliana, 123nAmadei, Giovanni Giacomo, 71n Amoretti, Maria Pellegrina, 67nAnselmi, Gian Mario, 65nAporti, Ferrante, 121Aspasia di Mileto, 9Atti, Gaetano, 115Atti, Lavinia, 115Atti, Maria, 115Audry, Colette, 132Auffret, Séverine, 58n

Baade, Colleen, 52nBabini, Valeria, 25nBadaloni, Nicola, 84nBaker, Keith Michael, 92n Banaij, Mahzarin, 163nBandini, Verdiana, 191nBarazzetti, Donatella, 205nBarbieri, Orazio, 113, 114, 116Barco, Giovan Pietro, 50-52Barilli, Antonio, 70nBassi, Laura Maria Caterina, 7, 9, 11-15, 19,

27-30, 34, 37, 62-70, 71-95, 111, 114-115, 117-118, 122-124, 137, 162-163, 168, 174, 182, 197, 200, 203, 214-215

Basso, Carlo Andrea, 50, 53 Battara, Alessandro, 11

Baumann, Emilio, 122Beaud, Stéphane, 134nBecchi, Egle, 112nBeilock, Sian, 169 e nBelardini, Manuela, 52n Bellassai, Sandro, 159n, 201nBenassi, Luigia (o Luisa), 123 Benedetto XIV, papa, 9, 46, 78, 88 Beretta, Marco, 80n Bernardi, Walter, 82n Berselli, Aldo, 111nBertani, Maria Giovanna, 114n, 118nBerti Logan, Gabriella, 63, 70n, 89n Bertilotti, Teresa, 112n Bertolazzi, Enrico, 113, 115 Bertolazzi, Cleonice, 115Bertolazzi, Maria, 115 Bertolini, Francesco, 114-115 Bertucci, Paola, 79nBesso, Beniamino, 121Betti, Eloisa, 124Bianchi, Enzo, 41nBianchi, Giovanni, 68, 69, 72-76, 86Biardeau, Madeleine, 131 Biemmi, Irene, 151n, 169nBignami, Enrica, 117Biow, Douglas, 67nBizzocchi, Roberto, 57nBleichmar, Daniela, 80nBoccaccio, Giovanni, 65nBombicci, Luigi, 123Boncompagni, Giacomo card., 47n Bonetti, Paolo, 115nBoninsegni, Francesco, 58 Bontà, Giovanni Battista, 116 Borromeo, Federico card., 50, 54

218

Bottero, Evangelina, 25Bottrigari, Enrico, 111Braga, Dario, 8, 30, 32-33, 35, 191, 213Braidotti, Rosi, 206Branca, Vittore, 144n Bresadola, Marco, 65n Breteuil, marchesa di, 91, 21Brucker, Johann Jacob, 92 Bruni, Francesco, 43n Buisson, Ferdinand, 121 Burgio, Giuseppe, 159nBurney, Charles, 80nBusi, Clelia, 123 Busi, Patrizia, 63

Cacouault-Bitaud, Marlène, 7, 17-18, 127-130, 132, 140, 213

Cagni, Giuseppe, 70n, 96 Cagnolati, Antonella, 23nCambi, Franco, 153n, 159nCampani, Giovanna, 159nCanterzani, Sebastiano, 95Capitani, Ovidio, 66nCaprasecca, Alessandro, 186nCaputo, Mara, 191nCarducci, Giosuè, 117Carena, Giacinto, 121Carlsmith, Christopher, 78nCarrati, Baldassarre, 90nCarrozza, Maria Chiara, 211Casarini, Camillo, 122Castiglioni, Francesco Saverio (v. Pio VIII,

papa)Castiglioni, Maria, 61Caterina da Siena, santa, 9Cattani, Giuseppina, 30Cavalli, Alessandro, 7, 18-20, 150-151, 160,

213Cavara, Cesare, 113Cavarero, Adriana, 197nCavazza, Marta, 7, 9, 11, 27, 29, 62n, 63n,

64n, 70n, 71n, 76n, 78n, 82, 84-85, 91n, 124n, 214

Cavazzuti, Luisa Caterina, 73nCeci, Stephen J., 28nCenerelli, Giusto, 63n, 74n, 82n, 84, 86n,

94nCeranski, Beate, 63n, 68n, 69n, 76nCessi, Carlo, 36Chapoulie, Jean-Michel, 128nChâtelet, Gabrielle-Émilie Le Tonnelier de,

91

Chevènement, Jean-Pierre, 134 Chiara d’Assisi, santa, 15, 42 Chiosso, Giorgio, 112n, 122n Christen-Lécuyer, Carole, 127n Cifarelli, Luisa, 70nClark, William, 68nClò, Sabrina, 191nColombano di Bobbio, santo, 41Colonna, Giacomo card., 47nComelli, Giovanni Battista, 63nCondorcet, Jean-Antoine Nicholas de, 91,

130Connell, Robert W., 26nConsolo, Valeria, 11 Contardi, Simone, 84n Cornaro Piscopia, Elena Lucrezia, 66, 70,

84, 200Costa, Giovannina, 117 Courcelle, Olivier, 91 Covato, Carmela, 7, 20-22, 23n, 25, 96,

100n, 112n, 120n, 214 Credaro, Luigi, 23n, 104, 113n Cremaschi, Lisa, 41nCrocetti, Daniela, 158n

D’Agay, Frédéric, 76n D’Andrea, Bettina, 65nD’Andrea, Giovanni, 65nD’Andrea, Milancia, 65nD’Andrea, Novella, 65nD’Angelo, Andrea Ciriaco, 186nD’Ascenzo, Mirella, 7, 15, 17, 22-23, 111,

113, 122, 124, 125n, 214 D’Ascenzo, Monica, 8, 31-32, 35, 207, 214 D’Azeglio, Massimo, 112 Da Certaldo, Paolo, 43-44 Da Varano, Camilla, 43n Dallari, Fiorella, 179nDalle Donne, Maria, 89 Dallolio, Alberto, 113n Daston, Lorraine, 110nDe Beauvoir, Simone, 151, 215De Benedictis, Angela, 65nDe Chantal, Jeanne, 16, 58-59De Filippis, Vincenzo, 179nDe Romilly, Jacqueline, 131 De’ Vigri, Caterina, santa, 42-43 Degl’Innocenti, Antonella, 42n Deiana, Salvatore, 159nDella Casa, Brunella, 66nDi Bello, Giulia, 24nDi Cori, Paola, 205n

219

Di Pietro, Pericle, 93n, 94nDickey Zakaib, Gwyneth, 28n Dionigi, Ivano, 12Diotima di Mantinea, 9 Dolcini, Carlo, 66nDomizio, Ulpiano, 200Dompnier, Bernard, 58n Dooley, Brendan, 84nDossena, Giovanna, 201nDu Boccage, Anne Marie, 91Durst, Margarethe, 159n

Elena, Alberto, 63 Elliott, Clark A., 12

Facchi, Alessandra, 197nFacchini, Bianca, 63nFanti, Mario, 49n, 71nFantuzzi, Giovanni, 63n, 81nFaralli, Carla, 30, 33-35, 197, 214Farini, Luigi Carlo, 111-112Farnè, Roberto, 19nFasoli, Gina, 34Favilli, Giovanni, 36Fénelon Salignac De la Mothe, François,

16, 58, 59n, 121Ferrari, Giovanna, 70n, 75nFerrari, Monica, 21nFindlen, Paula, 12-14, 61n, 62n, 63, 69n,

70n, 71n, 84n, 85n, 86n, 88n, 89n, 214Finelli, Geminiano, 115nFinelli, Maria, 115Foletti, Cecilia, 42nFornero, Elsa, 209 e 209nFortunati, Vera, 43nFranceschi Ferrucci, Caterina, 121Franceschini, Giuliano, 153nFranceschini, Marta, 11Franceschini, Patrizia, 114nFrancesco di Sales, santo, 16, 58-59Frasca, Rosella, 20Frattini, Romana, 177nFredona, Robert, 65nFrescobaldi, Maria Vittoria, 52n

Gaddoni, Silvia, 179 n. 5Galliani, Dianella, 23nGaloppini, Anna Maria, 197nGambaro, Angiolo, 22nGamberi, Cristina, 159nGarcía Cueto, David, 65nGarcia, Sandrin, 135n

Garelli, Antonio, 73n Gasnault, François, 81nGauvin, Jean-François, 79n Genovesi, Giovanni, 112n Ghigi, Rossella, 12Ghizzoni, Carla, 96n, 97n, 112n, 123n Giallongo, Angela, 20, 25n, 96n Gianini Belotti, Elena, 98n, 153, 153nGigli, Alessandra, 159nGioberti, Vincenzo, 116 Girard, Grégoire, 121 Giustiniani, Marina, 50n Gnudi, Enrichetta, 124Golinski, Jan, 84nGouges, Olympe de, 92, 197-198Govoni, Paola, 9, 12, 13, 24n, 25n, 26n,

215Gozzadini, Bitisia, 64, 66Gozzadini, Teresa, 65-66, 114Graziosi, Elisabetta, 49nGreco, Massimo, 159nGreenwald, Anthony, 163nGrillo Borromeo Arese, Clelia, 215Guadagni, Biagio, 117, 117nGualandi, Sara, 191nGuerra, Elda, 197nGuerra, Luigi, 12Guerzoni, Giovanna, 27nGuidicini, Giuseppe, 60nGuiso, Luigi, 163nGuzman y de la Cerda, Maria Isidra Quin-

tina, 9

Haase Dubosc, Danielle, 58 Heilbron, John L., 79 Henneau, Marie-Élisabeth, 58n Hippeau, Célestin, 130n

Ildegarda di Bingen, 9 Ipazia di Alessandria, 9

Jolivert, Bernardo, 130nJulia, Dominique, 58n

Kendrick, Robert L., 52Kern, Bärber, 92nKern, Horst, 92n Klinge, Ineke, 33nKnoefel, Peter K., 84n Knott, Sara, 69n Kölving, Ulla, 91n

220

Labriola, Teresa, 200Lalande Lefrançois, Joseph-Jérôme de, 79 Lama, Luisa, 24nLambertini, Prospero (v. Benedetto XIV,

papa) Lambruschini, Raffaello, 22, 121Le Comte, Marguerite, 91Leduc, Gregorine, 58nLeonardi, Claudio, 42nLeonelli, Silvia, 18-19, 25-26, 29, 150, 153n,

158n, 215 Leporin-Erxleben, Dorothea, 91 Leprotti, Antonio, 68n, 69n, 72n, 76nLessona, Michele, 121Liatard, Séverine, 132nLissoni, Francesco, 177nLodini, Eugenia, 31nLorenzini, Stefania, 153n

Macchiavelli, Alessandro, 66n Macchiavelli, Carlo Antonio, 66n Magistrelli, Carolina, 25Magnani, Antonio, 63n Maio, Maria Agnese, 159nMalaguti, Elena, 159nMalatesta, Maria, 200n, 201nMancina, Claudia, 157nManfredi, Eustachio, 68n, 72n, 74n Manfredi, Gabriele, 74, 75 e nMantegazza, Paolo, 121 Mantegazza, Raffaele, 159nManzini, Paola, 64nManzoni, Alessandro, 120Mapelli, Barbara, 152n, 159n Marani Argnani, Laura, 114 Marcegaglia, Emma, 201Maréchal, Sylvain, 57 e nMarinella, Lucrezia, 58Markau, Gabriela, 92nMartinazzoli, Antonio, 23n Maschietto, Francesco Ludovico, 66n, 84n Masetti Zannini, Gian Ludovico, 63n Masi, Marianna, 115nMatteucci, Carlo, 22nMattioli, Felice, 115nMattioli, Teresa, 115Mayer, Enrico, 121Mayeur, Françoise, 127n, 129n Mazzanti, Giuseppe, 66n Mazzotti, Massimo, 89n, 91n Mazzucchelli, Giammaria, 55n McClure, George W., 67n

Medici, Michele, 68nMelli, Elio, 63n, 75n, 77n, 78nMessa, Pietro, 43nMessbarger, Rebecca, 83n Mill, John Stuart, 198Mitscherlich, Alexandre, 18, 147 Monari, Paola, 31n, 179n, 181n, 182 e nMonson, Craig A., 52 Montessori, Maria, 23, 24 e n Morgagni, Giovanni Battista, 84n Morgan, John, 80nMorin, Edgar, 161Muraro, Luisa, 205Murgia, Gianluca, 186nMusiani, Elena, 114Muzzi, Elena, 115Muzzi, Pietro, 115

Necker De Saussure, Adrienne Albertina, 121 Negroni, Enza, 11Neyrone, Francesco, 113Noble, David F., 30nNosek, Brian, 163nNussbaum, Martha, 203 e n

Orefice, Paolo, 159n

Pace, Roberta, 151nPadovani, Andrea, 66nPaleotti, Gabriele, card., 16, 45,46Pancaldi, Giuliano, 77n, 85nPancera, Carlo, 59n,Pancino, Claudia, 70nPaolo VI, papa, 9Pape Carpantier, Maria, 121,Parravicini, Luigi Alessandro, 121Pecori, Barbara, 13Pelotti, Susi, 11, 31nPepoli Tattini, Carolina, 114Pepoli, Gioachino Napoleone, 113Pera, Marcello, 85nPerazzo, Matilde, 115Pezzoni, Michele, 177nPiccolino, Marco, 84n-85nPierini, Elvira, 114Pio VIII, papa, 95nPironi, Tiziana, 9, 20n, 23n, 27, 29, 110n, 215Piseri, Maurizio, 112nPlatone, 9Poët, Lidia, 67n, 98, 103, 200Polenghi, Simonetta, 96n, 97n, 112n, 123nPomata, Gianna, 49n, 52n, 94n, 205

221

Poullain de la Barre, François, 58nPozzi Thrale, Hester, 93Pressat, Roland, 128nPyenson, Lewis, 79n

Quirino, Antonio, 114

Rayneri, Giovanni Antonio, 116, 121Reatti, Giuseppe, 123nReatti, Ida, 123Reatti, Imelde, 123Recalcati, Massimo, 18, 18nRendu, Eugene, 121Reschilian, Massimo, 43nRestaino, Franco, 197nRettaroli, Rosella, 31, 32, 33, 35, 36, 177, 215Riva, Giampietro, 63nRomagnoli, Carolina, 115nRomagnoli, Sergio, 61n, 115nRosmini, Antonio, 116Rossi Doria, Anna, 205Rossi Pisa, Paola, 179nRossi, Guido, 65nRossi, Paolo, 177nRossi, Teresa, 120nRossiter, Margaret W., 34nRoversi, Tiziana, 11Russo, Paolo, 112n

Salviati, Mariuccia, 23Sama, Catherine M., 61n, 215Sandrucci, Barbara, 153nSani, Roberto, 122nSanlorenzo, Olimpia, 89n, 94nSapienza, Paola, 163nSartre, Jean-Paul, 132Sassoli, Enrico, 113Scandellari, Albina, 115, 115nScandellari, Domenico, 115nSchaffer, Simon, 84nSchiebinger, Londa, 33n, 92nSchlozer, Dorothea, 92, 92nSchmader, Toni, 163nSchmid, Cristoforo, 116See, Camille, 127Sekaquaptewa, Denise, 163nSelmi, Giulia, 159nSerafini Cessi, Franca, 5, 36-37, 37nSerrano Estrella, Felipe, 65nSeveso, Gabriella, 152nSimili, Raffaella, 70n, 85nSmiles, Samuel, 121

Smith, Teresa Ann, 92nSocrate, 9Soldani, Simonetta, 20, 23n, 97n, 99n, 100,

101n, 107n, 143nSonnet, Martine, 128nSorge, Anna Maria, 112nSpallanzani, Lazzaro, 162Stefani, Marta, 82Sterzi, Valerio, 177nStrocchia, Sharon T., 43 e 43nSuchon, Gabrielle, 58, 58nSummers, Lawrence, 165

Tacchi, Francesca, 200nTagliavini, Annamaria, 8, 31, 33, 34, 35,

204, 205n, 215Tambroni, Clotilde, 14, 30, 94, 94, 124nTanari Malvezzi, Augusta, 114Tarabotti, Arcangela, 58Tarabusi, Federica, 19Tarozzi, Fiorenza, 66n, 124nTaylor, Barbara, 198Taylor, Harriett, 198Tega, Walter, 75nTeresa d’Avila, santa, 9Terpstra, Nicholas, 65nTerraccia, Francesca, 59n, 60n, 61nThouar, Pietro, 121Tibaldi, Mauro, 178nTomasetto, Carlo, 8, 19n, 25, 29, 160, 162,

216Tommaseo, Niccolò, 121Tommasini, Giacomo, 81nTortorelli, Gianfranco, 115Toschi Traversi, Lucia, 64, 65Tosi, Alessandro, 80nTosi, Renzo, 94n

Ugolini, Beatrice, 115Ulivieri Stiozzi, Stefania, 159nUlivieri, Simonetta, 20, 20n, 96n, 97n,

100n, 150n, 153n, 156n, 159nUtili, Annunziata, 117

Valdelberto di Luxeuil, 41, 42Van Wyhe, Cordula, 52Verneuil, Yves, 129n, 131nVerri, Pietro, 61, 61nVerri, Teresa, 61nVillano, Paola, 19Vincis, Silvia, 202nWandruska, Nikolai, 65n

222

Wassyng Roworth, Wendy, 61n, 215Weiss, Louise, 131nWilliams, Caroline C., 164nWilliams, Wendy M., 28nWollstonecraft, Mary, 197-198Wortley Montagu, Mary, 90, 90nWray, Shona Kelly, 65n

Zaffignani, Giovanni, 67n

Zamboni, Chiara, 205Zangheri, Renato, 66nZanotti, Giampietro, 63, 68-69, 74Zarri, Gabriella, 7, 15, 16, 41n, 43n, 47n,

49n, 52nZecchini, Petronio, 94, 94nZingales, Luigi, 163nZini, Massimo, 75nZizza, Roberta, 208n