Di mano donnesca. Donne artiste dal XVI al XX secolo

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Di mano donnesca Donne artiste dal XVI al XX secolo Consuelo Lollobrigida Palazzo Venezia Roma 4 - 14 ottobre 2012

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Di mano donnesca Donne artiste dal XVI al XX secolo

Consuelo Lollobrigida

Palazzo VeneziaRoma

4 - 14 ottobre 2012

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Tra il XV e il XVII secolo si attua in Europa un radicale cambiamento dello status della donna che coinvolse gli aspetti della vita economica e sociale. Tale trasformazione può essere analizzata e compresa anche attraverso la partecipazione delle donne alla profes-sione artistica, andata crescendo dagli albori dell’età moderna alla fine del XIX secolo.Negli anni Settanta del secolo scorso le ricerche sulle donne artiste di Ann Sutherland Harris e Linda Nochlin hanno aperto una nuova visione critica e filologica, contri-buendo allo sviluppo degli studi di genere, ora frequentati con maggiore disinvoltura dagli storici dell’arte e valutati con doveroso rispetto anche dal mondo del mercato dell’arte antica1.L’Italia si accorge dell’esistenza delle donne artiste nel secondo dopoguerra, quando Anna Banti/Lucia Lopresti dà alle stampe il suo Artemisia: è il 1947. La scrittrice, in un romanzo ancora oggi “icona di quel femminismo fatto di singole storie di rivalsa e non di lotte”, stimola la curiosità nei confronti di un mondo che già Marco Minghetti in Le donne italiane nelle Belle Arti al secolo XV e XVII (1877) aveva iniziato a esplorare. Il maggior sforzo critico perseguito nella seconda metà del XX secolo è stato il superamento di una concezione storiografica basata sull’utilizzo delle fonti letterarie classiche il cui schema critico era stato formalizzato da Plinio nelle sue biografie di uomini illustri. Al pari dei racconti celebrativi dello storico romano, si era infatti definita una produzione letteraria di donne famose che ebbero la definitiva co-dificazione nel De claribus mulierubus, di Boccaccio. Durante l’ancien regime l’educazione femminile ruotava su tre principali insegnamenti: una religione intrisa di morale; i rudimenti del saper leggere, scrivere e far di conto; il tenere in mano ago e filo. A partire dal Rinascimento i fautori dell’istruzione femmi-nile oppongono i loro principi a quanti la ritengono impossibile, inutile o addirittura la temono; alle giovani donne è concesso solo un sapere incompiuto e rigidamente controllato. Nella Firenze del Quattrocento, patria e officina del Rinascimento, l’orga-nizzazione sociale ed artistica della città era tale da non lasciar spazio all’affermazione di eventuali pittrici.

1 - A. Sutherland Harris-L. Nochlin, Women Artists: 1550-1950, Los Angeles 1976

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Leon Battista Alberti nel trattato De Familia indica nella “modestia” e nella “nectezza” i “laudatissimi costumi” di ogni fanciulla e, pur non dichiarando apertamente che le donne non possono diventare artiste, codifica le regole di accesso alla professione che per qualunque donna, indipendentemente dalla classe sociale d’appartenenza, sarebbe stato impossibile seguire. Quando nel De Pictura teorizza il concetto di historia, divide implicitamente l’arte in categorie. La pittura di storia, per il suo valore didattico, è al primo posto, seguita da ritratti, temi tratti dalla vita quotidiana, paesaggi e nature morte. Il tirocinio per un artista ambizioso e rigoroso, che avesse voluto occuparsi di historia, comprendeva lo studio del corpo umano, dapprima sui cadaveri, poi sui modelli vestiti, quindi sempre più sul modello maschile nudo; una serie di viaggi nei centri artistici più importanti per conoscere le opere dei rivali e dei maggiori artisti di un paio di genera-zioni precedenti. Le donne venivano automaticamente relegate ai livelli più bassi della professione. Questo iter infatti non poteva essere percorso: non era considerato deco-roso per una donna studiare un corpo maschile nudo, vivo o morto che fosse; le donne non potevano viaggiare sole; era considerato minaccioso l’atteggiamento formale e so-stanziale di una donna che intendesse affrancarsi dal ruolo nel quale era stata relegata da secoli. Una volta entrate in una bottega – molto più spesso apprendevano l’arte in casa, dal padre o dal fratello -, potevano seguire solo i primi gradi dello studio, ovvero limitarsi alla copia di dipinti, di statue antiche, di stampe o modelli in creta; quando erano pronte per frequentare la lezione dal vero, venivano lasciate indietro. L’esercizio della copiatura era il terreno comune nel quale si muovevano sia le donne che gli uomini. Il livello successivo, ovvero il disegno dal vero, che prevedeva anche nudi maschili, alle donne era proibito. In questo modo alle donne era quasi del tutto negato l’ingresso alla pittura di storia che, secondo quanto espresso dall’Alberti, era l’unica in grado di evocare la dignitas della historia antiqua2, affidando loro la sola pro-duzione dei generi minori. Si spiega in questo modo perché le donne godessero la fama di ritrattiste, naturamor-tiste o miniatrici. Artemisia Gentileschi “ebbe un altro ben talento, che fu di ritrarre al naturale meravigliosamente ogni sorta di frutti”; Anna Angelica Allegrini fu accreditata nell’arte del miniare” e Maddalena Corvini “miniatrice eccellente”3.La letteratura dedicata al ruolo delle donne nella società mette in evidenza le para-lizzanti limitazioni che si frapponevano alla maturazione di qualsiasi dote artistica e intellettuale da loro posseduta. Fino alla metà del XVI secolo le donne che appartene-vano alle classi meno privilegiate, pur godendo di una maggiore libertà di movimento e di azione, erano sempre ostacolate dalle fatiche e dai pericoli fisici delle maternità a catena e dal duro e incessante lavoro indispensabile per fornire alla famiglia le necessità elementari della vita. Dalla seconda metà del secolo, la donna artista inizia un lento

2 - L. B. Alberti, De Pictura, 14353 - F. Baldinucci, Delle notizie de’ professori del disegno da Cimabue in qua, 1728, vol. XII, p. 11, e vol. XIX, p. 165

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cammino di emancipazione che la colloca nella posizione di vera e propria “socia” nell’attività artistica del marito o del padre, come Diana Ghisi, Anna Maria Vaiani o Virginia dal Vezzo; in pieno XVII secolo Artemisia Gentileschi, Giovanna Garzoni o Plautilla Bricci condussero una vita indipendente ed emancipata. Progressi irreversibili dell’alfabetizzazione femminile si notano timidamente tra il XVII e il XVIII secolo, quando il tema dell’educazione si inserisce in un quadro più am-pio, strettamente connesso all’organizzazione dello Stato moderno. Come asserito dalla Sonnet agli albori dell’età moderna «di fronte alla nuova esigenza di approntare i quadri per lo Stato e la Chiesa si rende evidente la distinzione tra i due sessi, dal momen-to che non si è ancora ammessa l’uguaglianza fra intelligenze e funzioni maschili e femminili»4. Vengono così a crearsi due modelli uno proiettato verso l’esterno – quello maschile – e uno verso l’interno – quello femminile, tanto che la diversificazione ses-suale delle pratiche educative tende a prendere il sopravvento sulle differenze sociali. Agli inizi del XVI secolo sono due i testi fondamentali che affrontano per la prima volta compiutamente il problema di una educazione femminile allargata. Alla triade pregare-leggere-far di conto, si aggiungono nuove “discipline” che trovano un’accurata prassi didattica nei conventi, nelle scuole di carità o, ancora, ma con rinnovato vigore e finalità, nella famiglia di origine.Nel 1523 Jean-Louis Vivés pubblica De l’institution de la femme chrétienne, perfetta-mente consapevole di svolgere «un argomento non ancora trattato». Lo spagnolo infatti si professa favorevole all’educazione femminile, tanto delle giovani donne sposate che delle vedove, pur affermando la priorità dei lavori domestici rispetto alla scrittura e alla lettura.Baldassarre Castiglione ne Il Libro del Cortegiano5 dedica un intero capitolo alla donna ideale, affermando che tutte le doti e le arti indispensabili al cortigiano sono appropria-te alla donna: un’istruzione di alto livello; il saper dipingere, suonare e cantare; scrivere poesie; saper tenere una conversazione arguta e intelligente6. La diffusione dell’opera, scritta alla corte di Urbino nel 1528, e stampata a Venezia e a Firenze, ebbe il merito di diffondere tali principi in tutti gli stati europei, contribuendo all’emancipazione della donna dalla schiavitù dell’analfabetismo e dell’istruzione minima per lo meno fino alla Rivoluzione Francese7. L’influenza del pensiero del Castiglione si può rilevare anche sui successivi trattati d’arte: da Vasari in poi quasi tutti i critici si occupano di donne artiste, non tralasciando mai di evidenziare la triade grazia/bellezza/maniera, attributi irrinunciabili di una donna virtuosa. Si può a ragione parlare di un vero e proprio topos

4 - M. Sonnet, L’educazione di una giovane, in Storia delle donne. Dal Rinascimento all’età moderna a cura di N. Ze-mon Davis e A. Farge, Roma-Bari 1991, pp. 119-1555 - B. Castiglione, Il Libro del Cortegiano, Venezia 15286 - Castiglione, “[…] voglio che questa donna abbia notizie di lettere, di musica, di pittura e sappia danzar e festeggiar”, Libro terzo, 1528, p. 2727 - Un argomento a parte è il tema dell’alfabetizzazione negli Stati che aderirono alla Riforma protestante. Erasmo nei “Colloqui” difende l’educazione delle giovani donne in nome della buona intesa nella coppia e nella società. Lutero auspica che tutti, uomini e donne, sappiano leggere per poter utilizzare le Sacre Scritture

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letterario, la cui genesi è individuabile nell’elogio che il Castiglione porge a Eleonora Gonzaga, duchessa di Urbino, donna che “se mai in un colpo solo furono congiunti sa-pere, grazia, bellezza, ingegno, manere accorte, umanità ed ogni altro gentil costume, in questa tanto sono uniti, che ne risulta una catena, che ogni suo movimento di tutte queste condizioni insieme compone ed adorna”8. L’autore del Cortegiano nel configurare il profi-lo della perfetta donna di corte, crea, involontariamente, anche il modello della donna artista: la serietà, l’onestà e la grazia sono gli attributi e le virtù presenti in tutte le bio-grafie delle artiste perlomeno fino alla fine del XVIII secolo.è su questo schema che Vasari realizza le sue Vite, dove riserva un posto “d’onore” alla scultrice emiliana Properzia de’ Rossi - “giovane virtuosa, non solamente nelle cose di casa” - e vi associa “le donne [che] hanno grandissima fama […] né si sono vergognate, quasi per torci il vanto della superiorità, di mettersi con le tenere e bianchissime mani nelle cose

8 - Castiglione, Libro IV, p. 365

Fig. 1 - Sofonisba Anguissola Cremona 1535 circa – Palermo 1625Ritratto di quatto bambiniOlio su tela, cm 103x102Provenienza: collezione della casa Reale di Hannover, Schloss MarienburgCollezione privataBibliografia: inedito

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meccaniche e fra la ruvidezza de’ marmi e l’asprezza del ferro, per conseguire il desiderio loro e riportarsene fama”9. Si deve riflettere sulla novità apportata dal Vasari. L’eco del Castiglione è presente non solo nell’assunto teoretico, ma anche nel modello letterario. Come l’autore del Cortegiano, Vasari mette a confronto le donne contemporanee con le grandi eroine del passato, sottolineando che “in tutte quelle virtù et in tutti quelli eserci-zii ne’ quali, in qualunque tempo, hanno voluto le donne intromettersi con qualche studio, elle siano sempre riuscite eccellentissime e più che famose”, anche se “nessun’altra età s’è ciò meglio potuto conoscere che nella nostra; dove le donne hanno acquistato grandissima fama, non solamente nello studio delle lettere […] ma eziandio in tutte l’altre facoltà”.Per Malvasia, Lavinia Fontana “non s’insuperbì”10; mentre per Baldinucci, “aveva gua-dagnato gran credito, parte per la maraviglia che portaron con seco le sue Pitture per uscire di mano donnesca”11. Anche Elisabetta Sirani ebbe “una virtù non ordinaria, umiltà im-pareggiabile, modestia indicibile, bontà inimitabile”12. Un giudizio, quindi, non lontano dal topos rinascimentale, sebbene la Sirani avesse uno studio personale e una scuola per donne pittrici, dimostrando di godere sicura – e nuova – indipendenza. La donna ideale descritta nei trattati rinascimentali corrisponde per molti versi al tipo della santa, dotata quasi sempre di bellezza e di castità. L’unico modo per una ragazza di dedicarsi all’arte era quello di non sposarsi e di dedicare il tempo all’apprendistato; prerogativa questa di giovani figlie di famiglie ricche e nobili.Sofonisba Anguissola (Cremona, 1535 circa – Palermo 1625) incarna tra le prime que-sto modello virtuoso e rappresenta alla perfezione la categoria delle ragazze della pic-cola nobiltà i cui orizzonti culturali si allargarono per merito del Castiglione13. Figlia di Amilcare Anguissola, membro del Concilio dei Decurioni di Cremona e attivo sia nel mondo dell’imprenditoria locale che della diplomazia e di Bianca Ponzoni, espo-nente di un’importante famiglia aristocratica cremonese, Sofonisba apprese, assieme alle sorelle, la musica e il latino oltre che la pittura per la quale fu inviata, tra il 1546 e il 1549, insieme alla sorella Elena presso la bottega di Bernardino Campi. Negli anni immediatamente successivi Sofonisba perfezionò i suoi studi di pittura viaggiando tra Mantova e Parma, contribuendo a diffondere la fama di raffinata ritrattista. Chiamata alla corte di Filippo II di Spagna nel 1559 per le rare doti psicologiche che riusciva ad attribuire ai personaggi da lei ritratti, L’Anguissola fu la prima donna artista a godere di fama internazionale e ad essere ricercata per la grazia e la raffinata cultura, con cui seppe gestire i suoi numerosi committenti e gli intellettuali che amavano frequentarla. La sensibilità femminile, unita a una indiscussa capacità tecnica e pittorica le offrì la possibilità di superare i freddi stilemi codificati dal manierismo. Attraverso l’indagine

9 - G. Vasari, Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze 1568, p. 72110 - C. C. Malvasia, Felsina pittrice, 2 voll., Bologna (ed. Bologna 1841), vol. 1, p. 153 11 - Baldinucci, 1728, vol. IX, p. 215. Per un approfondimento dell’argomento si veda C. Lollobrigida, La donnesca mano. Critica fonti e documenti per una storia dell’arte al femminile nella Roma barocca, in «Rolsa», 8/200812 - Malvasia, p. 23113 - F. Caroli, Sofonisba Anguissola e le sue sorelle, Milano 1987

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naturalistica e sui moti umani, Sofonisba dimostrò nel corso della sua carriera di aver assimilato e rielaborato sia le ricerche di Leonardo che il retaggio della sua educazione lombardo-cremonese. Tale sintesi è ben espressa nel Ritratto di quattro bambini (olio su tela, cm 103 x 102), proveniente dalle collezioni della casa Reale di Hannover [fig. 1]. I tre fanciulli e una fanciulla, rappresentati quasi a figura intera, guardano lo spettatore, manifestando, con un accennato sorriso di ricordo leonardesco, tra il furbo e l’enigma-tico, un’atmosfera di spontanea familiarità. La freschezza e la spontaneità con cui sono ritratti i bambini – quasi sicuramente quattro dei sei fratelli dell’artista – infatti riman-

Fig. 2 - Barbara Longhi Ravenna, 1552-1638Matrimonio mistico di santa CaterinaOlio su onice, cm 22x22,5Roma, collezione privataBibliografia: inedito

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dano al segreto mondo familiare fatto di sguardi complici e di semplici gesti quotidiani.Disegnava molto bene e coloriva “con assai buona grazia e maniera” Barbara Longhi (Ra-venna, 1552-1638) figlia di “maestro Luca, uomo di natura buono, quieto e studioso”14. Caso isolato nella cultura artistica romagnola, dalla quale le donne erano regolarmente escluse, la pittrice dedicò la sua vita alla pittura, vivendo, senza sposarsi, nella casa e nella bottega paterna. Iniziò a dipingere sin da piccola, dedicandosi a piccoli quadri di soggetto per lo più religioso, destinati probabilmente alla devozione privata dei piccoli notabili del luogo. La carenza di documenti riguardanti la vita e le opere, inoltre, ren-de difficile la datazione della sua produzione che, soprattutto in età giovanile, sembra dipendere dagli originali paterni e, più tardi, dalla ricca produzione emiliana contem-poranea. Questa piccola tavoletta in onice [fig. 2] raffigurante il Matrimonio mistico di santa Caterina (cm 22x22,5) che rappresenta un’importante aggiunta allo scarno ca-talogo, finora restituito all’artista ravennate, pare derivare dal dipinto dello stesso sog-getto di Correggio, conservato al Museo di Capodimonte di Napoli. I modelli correg-geschi erano molto diffusi nella Ravenna della seconda metà del XVI secolo, richiesti dalla piccola aristocrazia locale che non aveva probabilmente la possibilità di acquisire gli originali del maestro. La bottega dei Longhi era una delle più attive del periodo e il padre Luca con i figli Luca e Barbara, aiutati da numerosi assistenti, riproducevano varie interpretazioni dai modelli dell’artista emiliano. Questo inedito, delizioso Matri-monio mistico ha in sé una delicata vena intimistica, tipica delle opere della pittrice che amava ambientare le figure all’interno di in uno spazio familiare, definito dalle caratte-ristiche pennellate dense, utili a formare le ombre che costruiscono le tipiche rotondità dei visi e delle mani.Alla fine del XVI secolo l’ingresso delle donne nella professione era pieno di impedi-menti e la maggior parte delle artiste conduceva ancora una vita modesta da un punto di vista economico e sociale, che affondava le proprie radici nell’organizzazione me-dievale del lavoro. Primo ostacolo alla carriera artistica femminile era il ruolo di madri e mogli che la società aveva loro ritagliato e una conseguente mentalità di matrimo-nio, inteso come contratto economico che non lasciava spazio all’autonomia artistica e intellettuale. In secondo luogo, sia le botteghe che le accademie erano strutturate in modo da non consentire alle donne il completamento del curriculum formativo. Eppure l’Accademia di San Luca di Roma nel 1607 si dota di uno statuto atto a riceve-re le “le donne insigni nell’arte, ma non abbiano luogo in seduta” e, al pari di “chiunque assunto a dignità Accademica”, erano tenute ad offrire “all’Accademia un dono dell’arte sua”. Il fatto che le donne non potessero partecipare alle sedute esecutive dell’Accade-mia era il naturale corollario alla pratica che relegava la loro partecipazione fino ai pri-mi, elementari livelli della didattica. Dal Libro del Camerlengo, dell’Accademia di San Luca, si viene a conoscenza che le donne prendevano parte attivamente a tutte le altre attività istituzionali dell’Accademia. Sappiamo per esempio che “al dì 19 ottobre festa di

14 - Vasari, p. 853

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S. Luca [sic] dal Bacile” del 1638 la signora Caterina Ginnasi ha versato 60 giuli; sedici anni dopo la signora ”Garzona” dà 10 giuli per la “festa del Santo”. Nel 1668 Caterina Catani, “doratrice dell’Accademia”, lascia “scudi 10 per uso della Sacrestia e riscossi al Monte di Pietà”; la stessa somma verrà riscossa l’anno seguente, e per un anno intero, quale legato lasciato dalla Caterina. Isabella Moroni, per “l’elemosina per l’esposizione del Ss.mo” e Giovanna Garzoni nel 1659 propone di fabbricare una “habitatione durante la sua vita naturale solamente”, accanto alla chiesa di Santa Martina, da “lasciar libera dopo la sua morte detta fabrica et habitatione alla nostra Accademia”15. Aver ritenuto per lungo tempo che le donne non potessero attendere le accademie, le ha spesso associate al solo genere della natura morta, genere nel quale divennero famose e nel quale se ne contano in gran numero sia negli Stati italiani che europei. Divenuta famosa, ancora giovane, come copista, disegnatrice e ritrattista, Fede Galizia (Milano? circa 1574 - circa 1630) era figlia di Nunzio, miniaturista originario di Trento ma at-tivo a Milano, dove probabilmente nacque Fede. La prima opera nota della pittrice è il Ritratto del gesuita Paolo Morigia (Pinacoteca Ambrosiana, Milano), che nel 1595 ne

15 - Archivio della Accademia Nazionale di San Luca (ASL), Libro del Camerlengo, ff.27-122, anni 1638-1706

Fig. 3 - Fede Galizia Milano ? circa 1574-1630 circaNatura morta con fruttiera, prugne, fichi e due fiori di gelsomini su un tavoloOlio su tavola, cm 31,5x40Torino, collezione privataBibliografia: Bottari, 1965, 124, pp. 309-318; Salerno, 1984, p. 60, n. 15.4; Caroli, 1989, p. 93, n. 55.

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La nobiltà di Milano tesse le sue lodi di «eccellente ritrattista». La critica moderna si è maggiormente dedicata alle sue nature morte, di cui è considerata un’antesignana. La Natura morta con fruttiera, prugne, fichi e due fiori di gelsomini su un tavolo (olio su tavola, cm 31,5x40) [fig. 3] è stata pubblicata da Salerno nel 1984, quando, recupe-rando un fondamentale contributo di Bottari16, ha ipotizzato un collegamento e una reciproca influenza tra la cultura dei bodegones spagnoli e quella italiana17, attraverso le opere della Galizia. Tale considerazione è stata in seguito ripresa da Caroli nella sua mo-nografia della pittrice18 che colloca quest’opera in una fase avanzata del percorso artisti-co della Galizia, considerata il primo pittore ad assegnare piena autonomia iconografica al genere, staccato dalla funzione subordinata che aveva avuto nell’età manierista. Teodora Maddalena Caccia (Moncalvo, 1596-1676) è nota come Orsola, nome scelto a ventiquattro anni quando entra nel convento delle orsoline di Bianzé presso Vercelli, dove altre quattro sorelle avevano in precedenza già preso i voti19. Figlia del pittore pie-

16 - S. Bottari, Fede Galizia, in «Arte Antica e Moderna», 1965, 124, pp. 309-31817 - L. Salerno, La natura morta italiana, Roma 1984, p. 60, n. 15.418 - F. Caroli, Fede Galizia, Torino 1989, p. 93, n. 5519 - A. Chiodo, Orsola Maddalena Caccia. Note in margine alla vita e all’opera di una monaca pittrice, in “Archivi e Storia” 21-22 (2003), pp. 153-202

Fig. 4 - Orsola Maddalena CacciaMoncalvo, 1596-1676Alzata con frutta e pernice rossaOlio su tela, cm 41,5x51,5Milano, collezione privataBibliografia: Godi, 2000, p. 42, fig. 7

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montese Guglielmo Caccia (1568-1625) detto Il Moncalvo, nel 1521 Orsola Maddale-na e le altre sorelle, si ritrasferirono a Moncalvo, dove il padre morto qualche mese più tardi, aveva fondato un monastero per poter dare alle figlie la residenza in una località più sicura di Bianzé, a quel tempo teatro di guerra nella contesa tra il duca di Mantova e Monferrato e il duca di Savoia. Orsola Maddalena Caccia si servì per tutta la sua vita di disegni, cartoni e altri strumenti lasciati dal padre per permetterle di continuare la sua attività artistica, dove fu abile nella realizzazione di dipinti religiosi, di pale d’alta-re e di nature morte. Pubblicata in occasione della mostra “Fasto e Rigore. La natura morta nell’Italia settentrionale dal XVI al XVIII secolo”20, questa Alzata con frutta e pernice rossa (olio su tela, cm 41,5x51,5) [fig. 4] mostra nella marcata verticalità del piano d’appoggio e dell’alzata il tratto peculiare dell’artista, cui si uniscono tratti che rimandano direttamente alle modalità caravaggesche. Il dipinto tra l’altro colpisce per la sua forte originalità iconografica e per le indubbie valenze allegoriche di marca cristologica: la per-

20 - G. Godi (a cura di), Fasto e Rigore. La natura morta nell’Italia settentrionale dal XVI al XVIII secolo, Milano 2000, p. 42, fig. 7

Fig. 5 - Giovanna Garzoni Ascoli Piceno, 1600 – Roma, 1670Vanitas VanitatumTempera su pergamena, cm 41x47,5Roma, collezione privataPerizia: Maurizio MariniBibliografia: inedito

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nice rossa rappresenterebbe Gesù che, beccando un frutto, sconfigge il peccato originale; i restanti frutti, le prugne e i fichi, alludono al Sacrificio e alla Passione di Cristo.Al tema della morte e della contaminatio del peccato allude anche la Vanitas Vanitatum (tempera su pergamena, cm 41x47,5) [fig. 5], attribuita a Giovanna Garzoni (Ascoli Pi-ceno, 1600 - Roma, 1670)21 da Maurizio Marini. La Garzoni, al pari della Anguissola e della Gentileschi, svolse la propria attività presso diverse corti internazionali, da quella medicea fiorentina (ante 1630) a quella di Napoli (1630-1631), per spostarsi quindi a Torino e infine a Roma, dove fu eletta accademica di San Luca. Secondo Marini la tem-pera in esame rielabora una Vanitas di Guercino (1618 circa), nota attraverso incisioni, da cui la Garzoni potrebbe aver ripreso il soggetto, visto che il teschio è in controparte rispetto alla tela.Nell’opera sono presenti elementi iconografici caratteristici del tema della vanitas: il cranio, la mosca, il libro aperto e la salamandra. In particolare questi ultimi hanno una valenza resurrezionale che, uniti alla farfalla (dal greco psyché: anima), confermano la complicata lettura dell’opera. La farfalla inoltre è anche un’allegoria cristologica: nel-le tre fasi – “bruco-criselide-farfalla” equivale a “vita-morte-resurrezione”. Alla vanitas alludano anche i dadi, cui si affida la propria sorte, ma sono anche un attributo della Passione di Cristo, le cui vesti furono giocate ai dadi dai soldati romani di guardia al Calvario. La clessidra è il simbolo del tempo che si riduce, mentre la caraffa riempita d’acqua, ma con in fiori recisi, ribadisce la caducità della vita.Il naturalismo lombardo della Anguissola o le ricerche sulla natura morta della Galizia si incarnano, rielaborate e reinterpretate, nella rivoluzione naturalista e realista di Cara-vaggio. Il Ragazzo punto da un ramarro (Fondazione Longhi) del Merisi ha nel Ragazzo punto da un granchio (Gabinetto Disegni e Stampe, Museo di Capodimonte) della pittrice cremonese un significante precedente. Allo stesso modo le icastiche rappresen-tazioni di Fede Galizia non possono non rimandare alle interpretazioni borromaiche della Canestra di Frutta della Ambrosiana di Caravaggio. Nelle contaminazione cultu-rali che aprono il XVII secolo la pittura di Artemisia Gentileschi (Roma 1593 - Napoli 1654 ?) gioca il ruolo di donna artista e di seguace di Caravaggio, incarnandone al femminile la sua lezione attraverso l’eredità del padre Orazio22. Ma la forza della Gen-tileschi sta nell’aver saputo estrarre in piena autonomia la violenza e la crudeltà delle sue eroine e nell’aver saputo spostare l’attenzione dalla bellezza all’azione. Ed è questa poetica che accompagna l’artista nel suo percorso professionale, sia che si tratti di Giu-ditta, Cleopatra, Susanna, Giaele o delle semplici sante. Ogni rappresentazione, sacra o profana, costituisce l’occasione per coglierne il divenire, per annunciare l’arrivo della tragedia. Nella poetica barocca, il giovane Bernini, a servizio dei Borghese, esprime la stessa drammaticità nella sua Proserpina o nella sua Dafne, eroine colte un attimo prima che il destino si compia. Così Artemisia che declina questa visione della vita e dell’arte in tutte le sue opere. Anche in questo Ritratto di dama con diadema e breviario

21 - G. Casale, Giovanna Garzoni. Insigne miniatrice 1600-1670, Milano 199122 - K. Christiansen - Judith W. Mann, I Gentileschi. Orazio e Artemisia, Milano 2002 (con bibliografia precedente)

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(olio su tela, cm 53,5x70) [fig. 6], attribuito alla pittrice da Riccardo Lattuada in un articolo del 200523, la profondità psicologica nello sguardo della giovane dama, è il pre-ludio all’affermazione di uno status sociale e di donna che si conclude nell’ostentazione

23 - R. Lattuada, New Documents and some Remarks on Artemisia’s Production in Naples and Elsewhere, in “Artemisia Gentileschi: Taking Stock”, a cura di Judith W. Mann, Brepols Publisher, 2005, pp. 79-81

Fig. 6 - Artemisia GentileschiRoma 1593 – Napoli 1654 ?Ritratto di dama, 1620-1630Olio su tela, cm 53,5x70Collezione privataBibliografia: Lattuada, 2005, pp. 79-81; L’Arte delle Donne …, 2007, p. 84

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non frivola del suo bellissimo abito, associabile alla moda fiorentina degli anni ’20 e ’30 del Seicento. Il dipinto mostra i segni di una esecuzione tormentata, in particolare, in corrispondenza delle maniche, dove era visibile, prima dell’intervento di restauro, la preparazione scura. Un calo di attenzione nella stesura delle pennellate è infine evidente nell’elegante decorazione a perle della stoffa damascata, soprattutto se messa a confron-to con la raffinata politezza del volto e delle mani. Giunto a Roma nel 1615, dove vi rimase per un decennio, Nicolas Regnier (Maubege, 1591 - Venezia, 1667) fu tra i primi artisti ad introdurre le novità caravaggesche nelle Fiandre24. Il soggiorno romano fu decisivo per il suo interesse verso il caravaggismo, ap-preso tramite Bartolomeo Manfredi, suo secondo maestro, unito ad elementi propri del classicismo bolognese. Molto probabilmente Manfredi introdusse l’artista nella cerchia dei pittori caravaggeschi protetti da Vincenzo Giustiniani, nella cui imponente colle-zione figuravano ben nove opere di Nicolas, tra le quali rimangono la Cena in Emmaus e il Bacco, oggi entrambe conservate a Postdam.Verso il 1626, il pittore si trasferì a Venezia, dove si sposò e rimase fino alla morte. Dal matri-monio nacquero quattro figlie: Angelica, Anna, Clorinda e Lucrezia, tutte pittrici ed attive nella bottega del padre. La Pandora (olio su tela, cm 105x132) [fig. 7], che qui si presenta, può essere attribuita alla figlia Clorinda, sulla base di un cogente confronto stilistico con una delle poche opere certe della pittrice. L’ampia pennellata che forma la figura di Pandora, l’uso del chiaroscuro, ripreso dal padre, e la modulazione cromatica sono i medesimi elementi tecnico-formali che si riscontrano nella Santa Caterina d’Alessandria delle Civiche Raccolte del Castello Sforzesco di Milano. Nicolas Regniér, che aveva trattato il tema di Pandora, potrebbe aver fornito i modelli alla figlia, di cui questa versione costituisce una variante del dipinto (oggi, Torino, Mu-seo Regio) originariamente collocato come sovrapporta nella Sala di Daniele di Palazzo Regio e datato al 1626.Pandora, lussuosamente abbigliata, si mostra seduta al centro della composizione. All’opulenza e alla ricchezza dei materiali fa da contrappunto lo sguardo ironico e di-vertito della fanciulla, che tiene sul grembo i simboli terreni della vanitas: la ricchezza, rappresentata dai gioielli; il potere, raffigurato dalla corona; la bellezza. Trasformatasi in Pandora, la vanitas lascia fuggire dal coperchio del pythos i mali che affliggono l’u-manità.Elisabetta Sirani (Bologna 1638-1665), Pittrice insigne della romana Accademia di San Luca, si presenta in questa rassegna con due opere di straordinaria qualità, degne della sua fama e del suo pennello25. Educata dal padre alla pittura, la pittrice mostrò già nelle primissime prove i modi raffinati e la delicatezza classica della cultura reniana. Ben presto si conquistò una vasta fama tra i committenti privati, per i quali realizzava dei ri-chiestissimi quadri da stanza. Ai primi anni Sessanta si ricollega lo Scherzo di putti (olio su tela, cm 95x75) [fig. 8], proveniente dalla casa Reale di Hannover. Il tema scherzoso

24 - A. Lemoine, Nicolas Régnier (alias Niccolo Renieri) ca. 1588-1667: peintre, collectionneur et marchand, Paris 200725 - J. Bentini, Elisabetta Sirani “pittrice eroina” 1638-1665, Bologna 2004

Fig. 7 - Clorinda Regnier Venezia, post 1628 - ?Pandora o VanitasOlio su tela, cm 105x132Roma, collezione privataBibliografia: inedito

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e il gusto sentimentale, giocato sulle tenui tonalità dei rosa, sono caratteristiche spe-cifiche della Sirani che al tema degli amorini dedica una serie, a partire dal cosiddetto Amorino mediceo trionfante (Vignola, collezione privata), dipinto nel 1661 per la gran principessa Margherita. Il soggetto è uno dei più celebrati dalla pittrice che, recuperando motivi cari alla pittura emiliana, replicò più volte il motivo. Un amorino è il protagonista dello splendido Omnia Vincit Amor (olio su tela, cm 69x83) [fig. 9] che deve essere ri-conosciuto nel dipinto eseguito nel 1662 e che il Malvasia ricorda quale «amorino che sedendo sopra un panno rosso, gli fa il postergale, con la destra mano cenna ad alcuni

Fig. 8 - Elisabetta Sirani Bologna 1638-1665Scherzo di puttiOlio su tela, cm 95x75Provenienza: collezione della casa Reale di Hannover, Schloss MarienburgCollezione privataBibliografia: inedito

Fig. 9 - Elisabetta SiraniBologna, 1638-1665Omnia Vincit AmorOlio su tela, cm 69x83Collezione privataBibliografia: Cottino 2003, p. 86, pp. 210-211; Bentini; 2005, pp. 241-242;Modesti; 2005, p. 128

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libri, tenendo sulla sinistra scettro e corona di lauro per il Padre Inquisitore»26. La tela rappresenta l’Omnia Vincit Amor, ovvero l’amore sacro che vince le passioni carnali, intese qui come monito a non perseguire le vanità terrene, onori e fama, per lasciar incedere liberamente l’Amore divino. I diversi oggetti simbolici – libri, la corona d’al-loro – e le armi posate a terra – rinviano ai diversi ambiti di affermazione della gloria

26 - Malvasia, 1678, II, p. 397

Fig. 10 - Rosalba CarrieraVenezia, 1673-1757Ritratto di donnaPastello su carta, cm 54,5x44,8Milano, collezione privataBibliografia: inedito

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terrena, ovvero all’erudizione, all’arte e alla scienza militare.Adelina Modesti, che lo ha pubblicato nel 2001, avanza l’ipotesi di riconoscere in questo quadro l’esemplare conservato nel XVIII secolo nella raccolta bolognese di Fi-lippo Hercolani27. La descrizione fornita da Jacopo Alessandro Calvi nel 1780 sembra coincidere, infatti, con il soggetto presentato da questo amorino, ricco di significati al-legorici, appropriati alla vasta cultura del probabile destinatario, l’Inquisitore Generale di Bologna Padre Giovanni Vincenzo Paolini.Qualche anno dopo la morte della Sirani, nasce a Venezia una donna destinata a di-ventare l pastellista più famosa d’Europa nel XVIII secolo: Rosalba Carriera (Venezia, 1673-1757)28. Figlia di un piccolo notabile veneziano e di una merlettaia, per la quale da bambina disegna gli schemi, Rosalba Carriera iniziò la sua professione dipingendo piccolo scatole e piccoli ritratti sopra placchette d’avorio. Cognata di Gian Antonio Pellegrini, Rosalba nel 1720 arrivò insieme alla madre e la sorella a Parigi, dietro invito del ricco collezionista Pierre Crozat, che le fece attendere per circa un anno un corso di disegno. La visione leggera e festosa che la pittrice aveva dell’arte contribuì a formare un nuovo gusto che trovò entusiastico riscontro nella rinnovata classe politica. Grazie all’uso del pastello e alle sue duttili capacità di rendere le superfici leggiadre ed eleganti, nessuna donna artista ebbe più successo e più influenza della Carriera a Parigi in quegli anni. Come fossa giunta ad utilizzare il pastello non è ancora chiaro, anche se pare pro-

27 - A. Modesti, Alcune riflessioni sulle opere grafiche della pittrice Elisabetta Sirani nelle raccolte dell’Archiginnasio, in “L’Archiginnasio”, XCIV, 2001, pp. 151-21528 - B. Sani, Rosalba Carriera, Torino 1988

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Fig. 11a - Maria Luigia RaggiGenova, 1742-1813Capriccio con figure nei pressi di un fiume, rovine e una cascatellaTempera su carta incollata su tela, cm 58,7x73,4Roma, collezione VerdiniBibliografia: Lollobrigida, 2012, cat. 27a

Fig. 11b - Maria Luigia RaggiGenova, 1742-1813Capriccio con una baia di un porto mediterraneo con rovine e figure lungo un sentieroTempera su carta incollata su tela, cm 58,7x73,4Roma, collezione VerdiniBibliografia: Lollobrigida, 2012, cat. 27b

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babile che dei piccoli bastoncini di gesso le fossero stati inviati da un amico di famiglia in viaggio a Roma nei primi anni del secolo. Il cambiamento della tecnologia, che per-metteva di avere dei bastoncini solidi di gesso, offriva la possibilità agli artisti di avere una vasta gamma di colori a diposizione. Quello che è sicuro è che in Francia questa tecnica fu introdotta dalla Carriera e che proprio in virtù di questo fu all’unanimità eletta all’Académie Royale nell’ottobre del 1720. Negli anni in cui Rosalba si trovava a Parigi, le donne stavano preparando una rivoluzione culturale, che le avrebbe portate alle conquiste degli albori dell’età contemporanea. La nascita e la diffusione dei salons di donne – come quello di Julie de Lespinasse, Germaine Necker de Stael, Madame du Deffand, Madame de La Fayette, Madame de Sevigné, Madame de Chatelet e altri – divennero dei centri importanti per dibatti artistici, intellettuali e filosofici. Rosalba Carriera amava frequentare questi ambienti anche perché all’interno si annullavano le differenza di classe e le artiste potevano discorrere di arte senza il velo dell’appartenenza sociale. La sensibilità e la straordinaria novità del linguaggio della Carriera è ben esem-plato, in questa sede, dall’inedito Ritratto di donna (pastello su carta, cm 54,5x44,8) [fig. 10], dove l’eleganza del tratto e della resa coloristica fanno emergere i tratti di-stintivi della poetica della Carriera negli anni ’20 del secolo. Il virtuosismo tecnico del leggero pastello azzurro e ocra è qui il mezzo per ritrarre con sorprendete modernità questa donna che, serena e compiaciuta, sembra veramente salutare il nuovo mondo che sta per dischiudersi.

Fig. 12 - Maria Luigia RaggiGenova, 1742-1813Capriccio con rovine e figure in primo pianoTempera su carta, cm 19x28Firmata in basso a sinistra “L Raggi”Roma, collezione ZitoBibliografia: Guarino, 2003, p. 192 n. 54b; Gesino, 2006, fig. 11; Lollobrigida, 2012, p. 133

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Fig. 13a - Maria Luigia RaggiGenova, 1742-1813Capriccio con rovine e figure presso un fiumeTempera su carta, cm 20x29Firmata in basso a destra “Maria Luisa Raggi”Roma, collezione ZitoBibliografia: Guarino, 2003, p. 192 n. 54c; Gesino, 2006, fig. 9; Lollobrigida, 2012, p. 133

Fig. 13b - Maria Luigia Raggi Genova, 1742 - 1813)Capriccio con rovine e figureTempera su carta, cm 20x29Firmato in basso a destra “L. Raggi”Roma, collezione ZitoBibliografia: Guarino, 2003, p. 192 n. 54; Gesino, 2006, fig. 10; Lollobrigida, 2012, p. 133

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A combattere dall’interno di una clausura forzata, e dalla quale per un breve tempo scappò, gli schemi della rigida società ancien règime fu un’altra donna, artista e monaca, Maria Luigia Raggi (Genova, 1742-1813)29. Esponente di una delle famiglie più in vista dell’aristocrazia genovese, la Raggi fu una temprista raffinata e la prima donna ad occuparsi di vedute e paesaggi della storia dell’arte moderna. I suoi capricci [figg. 11a, 11b, 12, 13a, 13b], quasi sempre in pendant e in piccolo formato, raccontano un mondo in bilico tra le istanze illuministiche e un perduto paradiso arcadico. Leggera, ariosa e carica di luce, a volte ingenua, la sua pittura precorre alcune soluzioni proto-impressionistiche, come nel Capriccio con figure nei pressi di un fiume, rovine e una cascatella, opera firmata e datata 1796.Il 1796 è l’anno della Campagna d’Italia, sferrata da Napoleone per cercare di porre fine alla decaduta società di antico regime. Una nuova epoca, tra corsi e ricorsi storici, si stava affacciando sul mondo occidentale, portando le sue novità culturali inevitabil-mente nel mondo dell’arte. La rivoluzione impressionista e le avanguardie che si sareb-bero succedute offrirono agli artisti la possibilità di esprimere in assoluta libertà le pro-prie necessità intellettuali, sempre più contaminate da orientamenti filosofici e sociali. Ne sia esempio l’Adamo ed Eva [fig. 14], opera del 1922, il Ritratto di due fanciulli e i due Ritratti di vecchia della inedita Ernesta Oltremonti (Venezia, 1899 – Roma, 1982). Scarsissime sono le tracce biografiche di questa artista che partecipò a quattro Biennali, ad alcune mostre a Ca’ Pesaro a Venezia e a tre Quadriennali di Roma (1931, 1935, 1939)30. Allieva di Emilio Notte, verso la fine degli anni ’20 soggiornò per quasi due anni a Parigi, dove ebbe modo di perfezionare il linguaggio, studiando e assimilando le novità artistiche presenti nella della capitale francese. In particolare, la Oltremonti aveva avuto modo riflettere su Cezanne e Modigliani, le cui ricerche, una volta rientrata in Italia, e trasferitasi a Roma, nel 1935, seppe rielaborare in una sua visione poetica. Lo studio dei volumi di Cezanne – si vedano i tre ritratti qui presentati – e il lirismo di Modigliani -si ritrovano nelle sue opere, che negli anni ’20 mostrano gli esiti di un percorso formale iniziato anni prima con Emilio Notte, ideatore nel 1914 di quei ma-nichini che De Chirico seppe più tardi iconizzare con la Metafisica. Come non pensare infatti ai manichini dechirichiani nell’Adamo ed Eva della Oltremonti. Il breve racconto che abbiamo svelato non ha la pretesa, per ovvie ragioni, di essere esaustivo. Si prefigge l’obiettivo di contribuire al riesame storiografico di una parte della storia dell’arte italiana ed europea, ancora in gran parte da analizzare e studiare. La presenza della donnesca mano, in una tra le più importanti esposizioni d’antiquariato del mondo, è una chiara indicazione di un nuovo interesse tra studiosi e collezionisti. Possiamo immaginare che questo sia il primo passo verso un’esposizione di maggiore respiro che Roma vorrà dedicare alle artiste dell’età moderna.

29 - C. Lollobrigida, Maria Luigia Raggi. Il capriccio paesaggistico tra Arcadia e Grand Tour, Roma 201230 - Per una analisi approfondita della vita e delle opere della pittrice si rimanda allo studio di Patrizia Castagnoli, di prossima pubblicazione

Fig. 14 - Ernesta OltremontiVenezia, 1899 – Roma, 1982Adamo ed EvaFirmata e datata 1922 Olio su tela, cm 110x177Roma, collezione privataBibliografia: XIV Biennale di Venezia, 1924, p. 21; Dimore della mente…, 2002, p. 53

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Bibliografia

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Desidero ringraziare tutti i collezionisti che hanno cortesemente concesso le loro opere, in particolareFiorella e Giuseppe Resca e Michele Sesta.

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