Dal grano al gesso. Forme del lavoro tradizionale a Sutera - Attività estrattive

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SUTERARr,rrcrosrrA popoLARE E r-AvoRo rRADrzroNALE

a cura di Ignazio E. Buttitta

Forrsruolo Parpnuo

Regione SicilianaAssessorato dei Beni Culturali,Ambientali e della Pubblica Istruzione

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CITTÀ. DI SUTERA

@ 2006 Associazione Folkstudio di PalermoVia A. Pasculli 12 - 90138 Palermo

Progetto grafico di Antonio Saporito

Sutera : religiosità popolare e lavoro tradiziotale / a cura dt Ignazio E. Buttitta. -Palermo : Folkstudio, 20061. Sutera, I. Buttitta, Ignazio Emanuele <1965->945.8212 CCD-2L SBN PaI0206471

CIP - Biblioteca centrale della Regione Siciliana "Alberto Bombace'

Questo volume è stato stampato con il contributo dell'Assessorato Regionale dei Beni Culturali,Ambientali e della Pubblica Istruzione

INorcr

On. Nicola Leanza,Assessore Regionale dei Beni Culturali, Ambientali e della Pubblica Istruzione

Prof.ssa Rosalba Panvini.Soprintendente per i Beni Culturali e Ambientali di Caltanissetta

Sig. Gero Difrancesco,Sindaco di Sutera

Prof. Ignazio E. Buttitta,Presidente del Folkstudio di Palermo

P,rnrn I. Sronra socruE E pATRrMoMo CULTURALE

1. BENI CULTURALI E IDENTITA LOCALI. LA DIFFICILE VIAALLO SVLUPPO SOSTENIBILE

di Alessandro Pagano

2. UNA sroRrA EsEl,rplane. SocrprÀ E ECoNoMTA A SUTERA DAL '900 AI GIORNI NosrRIdi Gero Difrancesco

3. FESTA E LAVoRo Nsrr,q. Srcrlr,q. oeL cntNodi Ignazio E. Buttitta

PARTE II. Clr-nNoamo CERTMoNIALE E LAvoRo TRADIZT0NALE

I. DA SANT,ANToNIO A NATALE. IL CAIENDARIo CERIMoNIALE A SUTERAdi Emanuela Caravello e Alessandro Romano

2. DAL GRANo AL GEsso. FoRME DEL LAvoRo rRADIZIoN,c.Ls e SursRAdi Manuela Greco, Silvia Vizzini e Emanuela Caravello

3. SureRA. UN PAESE ANTrco E MoDERNodi Ignazio E. Buttitta

IMMdctNt Dt FESTA

di Giacomo Bordonaro

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2-I 5 ATTIVITÀ ESTRATTIVE

Le caratteristiche pedologiche del territorio suterese hanno reso per secoli l'attività estrattiva uno tra i princi

pali cardini dell'economia del paese. La presenza di depositi solfiferi incoraggiò, nel XIX secolo, l'edificazione di

miniere per lo sfruttarnento di questa risorsa. Il numero degli impianti estrattivi era tuttavia ridotto e di conseguenza

era esiguo anche quello degli addetti ai lavori che prestavano opera all'intemo o all'estemo delle miniere. Un utiliz-

zo improprio dei criteri di estrazione comportò nel 1905 una disastrosa frana che segnò la fine di questa attività, già

compromessa, come nel resto dell'Isola, dalla competitività dei nuovi ptodotti extranazionali immessi sul mercato.

Di maggior peso per l'economia del paese fu lo sfruttamento di un'altra materia prima estesamente presente

nel territorio: il gesso. Nel 1890 il medico e storico Antonino Vaccaro pubblicava il resoconto della sua indagine ige-

nico-sanitaria nel volume Sutera e la sua geografia frsica sotto I'aspetto igienico. "La città di Sutera", ivi scriveva,

"è fondata in massima parte sui calcari silici, magnesiaci, tripoli, eccettuate poche contrade le quali poggiano sulle

marne azzure e sulle sabbie ed arenarie mioceniche; il suolo del suo territorio, supposto tolto lo strato di humus per

la vegetazione, consta principalmente di argille, arenarie, gessi e calcari" (Vaccaro 1890:.23-24). La diffirsa e abbon-

dante disponibilità di pietra da gesso era all'origine del suo vasto impiego nell'edilizia. Notava ancora Vaccaro: "in

Sutera in generale tutte le costruzioni sono fatte con pietrame di gesso e malta o cemento di gesso disidratato, sco-

noscendosi fino a oggi I'uso della calce". Sino alla seconda metà del secolo scorso l'utilizzo del gesso costituiva,

pefianto, una cospicua risorsa economica. Numerosi lavoranti erano impiegati con diverse mansioni nella catena

operativa che conduceva dalla materia prima grezza, alla sua manipolazione e successivo impiego. Di competenza

dei pitralora era l'estrazione e frantumazione del minerale gessoso, degli sciccara il trasporto sino al luogo di lavo-

razione, degli rssara la cottura e macinazione, dei muratura il successivo impiego nell'edilizia.

Per la presenza di a{Iioramenti gessosi la località Rocca Spaccata e Ia collina di San Marco erano le sedi prin-

cipali deputate alla cavatura del materiale, entrambe in prossimità del centro abitato. In questi spazi il petraloru indi-

viduava anzitutto il punto in cui praticare il foro per inserire la mina e distaccare la roccia. Dal momento che il mine-

rale gessoso era piuttosto tenero il procedimento che prevedev a l'tìlizzo dell'esplosivo non necessitava del ricorso

a due operatori, consentendo pertanto un minor dispendio di forza lavoro e un aumento notevole della produttività.

Lo strumento utilizzato manualmente per la realizzazione del pirtusu (foro) era la paramina, un paìo di ferro lungo

circa 200 cm con un diametro di 3-4 cm e con una delle estremità forgiate a scalpello. Un solo operatore agendo sem-

pre su un punto della parete gessosa e mantenendo costante I'inclinazione lanciava il palo imprimendogli colpo dopo

colpo piccole rotazioni. Negli anni Cinquanta questa fase del processo produttivo conobbe l'itroduzione di perfora-

trici ad aria compressa o elettriche che soppiantarono Ia paramina accelerando e semplificando l'operazione di rea-

lizzazione dei pirtasl. Per ammorbidire la roccia e rimuovere la polvere che si produceva scavando si versava nel foro

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dell'acqua. L'impasto che ne risultava era eliminato per mezzo della spazzetla, un palo di ferro alla cui estremiri : -

legato uno straccio. Nei fori, praticati ad una certa distanza l'uno dall'altro, si inseriva l'esplosivo per produrre l',:-battimento di una porzione del frontc roccioso. La polverc era una miscela di carbone, zolfo e salnitro di potassio. -dotare di una miccia a lenta combustionett. Per segnalarc la deflagrazione i petralora si valevano della voce. ct::.richiama alla memoria Raimondo Pardi (1935): "si.facevorut i buchi di un metro, un metro e cinquanta. Allora. ù, '

ricordo ero bambino, c'erano i Cassendi che erano tre o cinque, poi c'erono gli Anlinoro nantri cinclt, i Zu.llui

all'urtdici e mezza così di mattina facevano i buchi per le mine; poi pqravano con il tritolo, la miccia, le cose, ull :

dici e mezza dodici meno un quarto a.ffacciava uno che erano già tutti pt'onti, ora c'è il telefonino, prina si pas',; . -

no: ult pronti semu? Si Non appena era o tulli pronti acchianava unu ncapu un cuzzu là i Scappuccini e grid;. -

abbruuucia! E allora le persone che cercavano di passare si alJrellavano perché aviano a sparare 1...), all'undi.. .

mezza l'undici meno un quarlo, ma non lutti i gionti, a seconda di quando ci.fìnivano le petre. E accuntinciavanu ,.

adduma tu prima e sparava ZalJuto cinque o sei mine, poi Antinorc, poi-.. e vidìa tu petre ntì l'aria 1...1: putùn pu::

e si sparava l. . .1. U zù P«ulinu Cassendi [dava il comando] una volla lo dava ZalIuto, a seconda cu era piti 1tn ,

dava. E poi si sentiva cu li mazzi... unu i cca banna e unu i dda banna". Per ridurre in pietrarre i massi staccatj c- '

l'esplosione i pelrzlora si servivano di mozza e cugna e operando in due scandivano i colpi asincroni per mezzo de -

voce: "si usava di /àre ah - ah, erano due che marlellavano il gesso e un colpo dava uno e un colpo dava l'altro. tt,- .

ilfabbro quutdo batteva il ferro" (Rosario Maniscalco - 1928; cfr. Bonanzinga 2002: 109 - lll,146 - 149).

Le pietre in tal modo frantumatc erano riposte dagli sciccara all'interno di nache (per Ie pietre più pesant: .

cascr'(per il pietrame di piccole dimensioni). sospesi in coppia ai lati dcl basto per il trasporto in prossirnità del : :

di edificazione della calcara. "Sciccara li chiamaramo nanlrl Li sciccara avivano trc o quatlro scecchi, asini si ini. - -

de, attaccavano le pietre sopra li scecchi e li trasportava e anche il gesso lo trosporlovano co.ri [...]. Per le pi,"attaccate 1.. .) facevano una specie di naca la chiamavano iddi. Era una naca che .faceva quattro ghiacchi, clu, -

una lato e due dall'altro, e mettevano wla pietra per ogni ghiacca, quattro pietre per ogni asino f. . .). La naca . .

precisamente quella dove attaccovano le pietre l -..). Chiddi piccoli cu li casci, erano casci Jittti in legno che cr,;=

Iegati con Ia corda sentpre messi sul mulo, sull'asino". Meno frequente era I'utilizzo del carretto per la scarsa pre:i -

za di strade percorribili su ruota.

La fase successiva di lavorazione del gcsso si realizzava dunque lontano dalla cava, spesso in vicinanza c:

luogo dove esso trovava impiego come materiale da costruzione. In questo spazio gli rssara prowedevano alla ci:'

tura, frantumazione e macinatura del gesso. La struttura eretta pcr la cottura, dcnorninata carc.r?, era costmita in l.'-

c demolita al termine del processo. Essa aveva pianta circolarc e colmo a cupola ed era dotata di due lastrc di ge..

Qtulera) che ne lormavano l'apertura per l'alimcntazione della combustione. Il basamento era costituito da una lbli:

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denominata cassara, destinata ad accogliere la paglia e le stoppie da bruciare. Sulla camera di cotfura, alta circa 2,5 m

: t'ornita di imboccatura, si disponevano pietre di gesso di svariate dimensioni sino a raggiungere complessivamente

.-irca 5 m di altezza. Queste pietre, da cuocere con il calore della combustione, costituivano la struthlra della costru-

zione che restringendosi verso l'estremità culminava nella corona (cruna r'a carcara) al centro della quale era posta

ia chiave di volta, denominata petra ri cugnu. All'inttemo della calcara il fuoco era alimentato da paglia o stoppie

, risttrccie)t'1, aggiunti con frequenza costante dagli issara per mezzo della ciappa sino a completata cott:uta'. "man

owno che appena aumentava la cenere dda dintra si dava di ciappa; la ciappa era un piezzu di jìeto di quattro metri

to una cosa tagliata a metà cosi e saldala e incominciaya tàn e dava tàn in capu a ddù fierru e iddu spalmava luttu

t l'ocu chi si nni iva a calore dentro ddù cosu, e si iva cucennu, era bello" (Raimondo Pardi - 1935). ll tempo neces-

sario a concludere il processo dipendeva evidentemente dalla grandezza della struttura in relazione alla quantità di

gesso che si intendeva ricavare (7 ore circa per quaranta salme). Per l'occhio espefto dello r:sarz una precisa colora-

zione della pietra corrispondeva alla temperatura di circa 700 gradi, raggiunta la quale si procedeva alla demolizione

della camera di cothrra. "Chiddi esperti già u capivanu quannu era d'allavancari 1...1. Loro lo capivano dal colore

Jel gessol...l. Poi si demoliva con paletti difeto si demoliva di qua, di qua, di qua e... e si lasciava cadere sulfuoco.

Supevano quando si arrivava a circa settecento gradi: il colore all'interno du fomu, di dda paglia praticamente u

iupianu ca diventa bianco, mentre questo quq diventava un pochino come se .fosse d'oro, il colore dell'oro all'inter-

no. L'indomani, perché unn'è c'u putivanu fari subitu sennò s'abbntciavano, lo levavano" (Rosario Maniscalco -

1928). Un'ulteriore metodo di verifica del raggiungimento della temperatura era la lesione della pietra con un furca-

/i che scalfendo con facilità la superfice confermava la cottura della massa sottostante. "Per sapere com'era cotto ilgesso, siccome la calcara la pielra diventava tutta nera col fumo, allora, quando capivano loro dopo quattro cinque

ore di darefuoco, prendevano un pezzo di legno a punta e tracciavano nelle pietra, nella corona si chiamava, a coro-

tÌd r'a carcara, la tracciavano di qua, di qua e di qua [...] e tiravano, tiravano una striscia di qua, di là di Ià, quat-

rro cinque strisce e dice cotta è e allora demolivano la calcara" (Raimondo Pardi - 1935). Si procedeva dunque all'ab-

battimento della fomace praticando dei fori per mezzo di uno spintuni a detrimento del suo equilibrio. "Una volta che

ero cotta prendevano un palo grosso e facevano dei buchi, a demolirla Ia corona, e cadeva di lì, un altro di qua un

ultrc di là e quando si capiva che perdeva I'equilibrio perché si capiva che la calcara era calda e cotta polrtfi e se

ne andava tutta lì dentro, dopo di che cadeva tutto a piano della corona della calcara e ci mettevafio tutte pietre di

gesso fine di sopra in modo che la calura non usciva fuori e quello si cuoceva pure e sifacevano quattro cinque salme

li gesso in più" (Raimondo Pardi - 1935). Il prodotto finale del processo di cottura, integmto dalla porzione che costi-

tuiva la struttura della carcara, era ricoperto con polvere di gesso, che insieme alla cenere serviva a preservare ed uti-

lizzare il calore residuo. Completata questa fase della lavorazione gli issara godevano di un compenso alle fatiche,

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che in alcuni casi si costituiva come previsto anticipo della retribuzione: "sempre c'era la lancedda cu lu vinu. S'a

purtavanu iddi, o ma sennò, per diri, putiva succidiri ca se tu ti facitu fari na carcara e li petri ca poi t'avianu a mura-

ri la casa per cosa ci purtavi tu na lancedda di vinu, che ci andava tre quattro litri di vino fresco, e ce lo portavi là,

qualche pezzo di fornaggio, qualche sarda salata, questo allora c'era, quattro oliva. Finivano di fare lu cosu, s'as-

sittavanu, si lavavano e poi c'era u padruni dici: ah a biviri! e dava da bere. Ma no cu lu bicchieri, ognunu affun-

ciari a la lancedda" (Raimondo Pardi - 1935).

Terminato il processo di cottura si lasciava raffreddare la pietra per procedere in seguito alla frantumazione o

macinatura. La prima operazione, attuata sino agli anni Quaranta, prevedeva I'utilizzo manuale di picconi Qticuna)

e piccole mazze (mazzotta) con c\i altemativamente due lssara colpivano le pietre (mazziavan o), scandendo il ritmo

con la voce. Dopo la frantumazione il gesso era setacciato per mezzo di un crivello ( crivu\ al fne di eliminare le pie-

truzze residue. Solo in seguito la lavorazione fu affidata a macine verlicali a trazione animale: "c'erano poi quelli

che avevano, che facevano inverno e eslate, avevano i mulini e a Sutera ce n'erano: uno era di Peppe Riali - Piazza,

Zaffuto, Wtellaro e Nolo a San Marco- Ce n'erano quattro e coll'asino al posto di dare colpi, quelli erano moderni

poi, lo macinavano coll'asino che girava come si macinavano le olive con le mole" (P:aimondo Pardi - 1935). Queste

macine furono soppiantate, nella seconda melà del secolo scorso, da mulini azionati da motori a combustione inter-

na. "È nato il mulino per macinare il gesso che tirava con un asino che faceva girarlo f. . .) era un maciniddu pra-

ticamente di cafè era, preciso, u maciniddu di cafè era piccolo e quello era granni. L'asino girava e faceva il gesso.

Poi dopo è nato il motore a scoppio e allora cominciarono ad usare anzicchè I'asino il motore e macinavano 1...1;

prima si faceva tutto a mano" (Rosario Maniscalco - 1928). Dopo la macinazione il gesso passava in un locale di

raccolta da cui era prelevato per essere insaccato e distribuito. La polvere di gesso, impastata con acqua, era utiliz-

zata come malta per legare le pietre da costruzione e come intonaco. "Si impastava e sifaceva la muratura. La mura-

tura fera) pietra di gesso sempre e gesso. E allora lo layoravamo con le mani, si impastava con le mani e si mette-

va il gesso e poi la pietra sopra alla svelta perché il gesso si induriva e ddlla mattina alla sera questo. E il fabbn-cato delle case di Sutera la maggior parte è di gesso, gesso e pietra di gesso. Poi all'interno si traversava, si lra-

versava all'interno e all'esterno, significava passare del gesso e portarlo dritto pelfettamente a piombo sia all'in-

terno che all'eslerno. Dopo che era fatto questo c'era di intonacare. Intonacando ai tempi lo chiamavamo noi pin-

niento accussì alla siciliana, era la pietra pendente che rimaneva sana all'interno di quella fornace che si raschia-

va, raschiandola si macinava, si batteva, c'era una crivella fine che si impastava stu coso con calce, calce e gesso

e si faceva I'intonaco. L'intonaco praticamente ora non si mette più la parte... c'è il gesso scagliola si impasta sola-

mente gesso e acqua. La manodopera dello stuccatore, dell'intonacatore è questo 1...). Lo facevamo noi con nantri

lo chiamavamo fracassu mafrattazzu s'avissi a chiamare, di acciaio- Si passava a porlarlo liscio perfetlamente sem-

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pre impastando con calce e gesso e lo impastavamo con calce e gesso per non indurire subito perché Ia calce lo

manteneva e allora avevamo il tempo di stirarlo e portarlo liscio per come volevamo" (Rosario Maniscalco - 1928).

Il gesso era :ulrlizza,to arìzih.rtto per la costruzione, l'ampliamento o la rifinitura dei dammusi, la principale

struttura abitativa presente a Sutera. I proprietari potevano occuparsi personalmente della cottura delle pietre e

richiedere dietro compenso agli issara la costruzione di ur,a carcara, o piuttosto incaricare loro di portare a termine

l'intero processo. "Per dire io contadino parlavo a uno ci dicevo: m'a prepari na carcara di quaranta salme che

debbo fare una casa sopra; il muratore ci diceva supperyiù quanto gesso ci voleva, ci diceva: per completarla un

quaranta salme ti bastano e allora quello andava e diceva: mi bisogna per il mese di maggio giugno una calcara di

quaranta salme e la preparavano, poi la cuocevano con la paglia, finivano e c'era la bevuta del vino per tradizio-

ze" (Raimondo Pardi - 1935). La prestazione d'opera degli rssara era richiesta solitamente per i mesi di maggio o

settembre, mai in concomitanza con i tempi della coltivazione e lavorazione del fiumento. "Si lavorava a maggio e

a settembre perché i contadini era il tempo che avevano a disposizione. L'inverno non avendo niente da fare si anda-

va a fare la pietra a la Rocca Spaccata" (Rosario Maniscalco - 1928). I ritmi di vita erano scanditi dai tempi del

ciclo agrario, come emerge dalla testimonianza di Raimondo Pardi (1935): "tutto attorno alla Rocca Spaccdta in

quei tempi che c'erano carenze di lavoro, non è come ora che i muratori inverno e estate hanno sempre lavoro, e

allora ognuno aveva la sua cava e nell'inverno manovali e muratori se ne andavano ognuno nella sua cava a pre-

parare pietre e facevqno parte le pietre lavorate per costruire i muri e parte quelli scartati venivano fatti gesso. Che

poi tempo d'estate qudndo finiva la raccolta a quei tempi i contadini che facevano? In base al raccolto c'era quel-

lo che fabbricava una casa sopra, c'era quello che faceva acconci, comunque, col gesso. E facevano questo. E allo-

ra mio padre era muratore pure e mio

nonno e avevdno la cava, avevano ilcliente, dice: preparatemi una calcara di

ottanta salme di gesso e ne preparavano

una di ottanta salme che poi Ia caricava-

no, la facevano coi fuochi, si faceva ilgesso e poi si usciva e coi picconi jino a

che diventava fine. Poi lo caricavano

cogli asini, quattro socchi ogni asino, e

lo portavano e le pietre e si fabbricava

la casa di gesso. Poi è uscito il cemento

dagli anni Cinquanta in poi e il gesso si

ra)

è cominciato a tralasciare. D'inverno ognuno aveva la sua cava atton o a uaa la Rocca Spaccata o a San Marco,

ognuno"t'.

All'inizio degli anni Sessanta cominciò a verificarsi ua riduzione dell'impiego di gesso causato dal progres-

sivo afermarsi sul mercato di nuovi materiali di costruzione, di derivazione industriale, competitivi sul piano del

costo e della messa in opera, che finirono per soppiantare definitivamente quelli locali, Il gesso h.rttavia rimase il ful-

cro di un universo culturale che si articola ancora oggi vividamente nella memoria dei suteresi, che si palesa quoti-

dianamente veicolo di identità, come dimostra inequivocabiblente I'epiteto testi di issu con cui i residenti dei comu-

ni limitrofi a Sutera ne appellano gli abitanti comparandone il carattere tenace, ostinato e caparbio alla consisterza

del minerale.

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