Da Drive in alla Makeover Television. Modelli di femminilità e di rapporto fra i sessi nella TV...

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3 STUDI CULTURALI - ANNO IX, N. 1, APRILE 2012 Da «Drive in» alla «Makeover Television» Modelli femminili e di rapporto fra i sessi nella TV berlusconiana (e non) di Elisa Giomi SAGGI 1. Introduzione Riflettere sulle forme di presenza delle donne e del femminile nel sistema antro- pologico e di potere riconosciuto come «Berlusconismo» significa confrontarsi con la difficoltà di dire qualcosa se non proprio di innovativo, perlomeno di non ripetitivo. È infatti ormai ampia e prodotta entro cornici disciplinari diverse la letteratura dedita ad esplorare il fenomeno nei suoi contorni generali (Chiurco 2001; Dei 2011; Ginsborg et al. 2011) 1 e a documentare il peculiare nesso tra sesso e politica che lo caratterizzano (Gomez et al. 2009; Mauri 2009; Ceccarelli 2010; Sannino 2010; Colaprico 2011); non mancano i contributi incentrati, più specificamente, sul rapporto tra Berlusconi e le donne, sulla sua concezione del femminile, sulla sua sessualità (Bernini 2011; Cavalieri 2011; Guaraldo 2011; Signorelli 2011; Straniero 2012). Si aggiungano infine i testi che analizzano diffu- samente le discriminazioni di genere, il maschilismo e il sessismo della società e della cultura italiana (Lipperini 2007; 2010; Marzano 2010; Soffici 2010; Bersani 2011; Simone 2012). In questo articolato panorama, la televisione generalista è forse l’ambito meno analizzato. Esistono, naturalmente, studi che hanno illustrato, anche in tempi recenti, il ruolo del mezzo nella diffusione di una temperie culturale (Panarari 2010), di un’ideologia, di un universo valoriale e di atteggiamenti verso la sfera pubblica complessivamente funzionali al sistema di potere berlusconiano (Gozzini 2011), senza contare la produzione scientifica che a più riprese ha evidenziato «le patologiche caratteristiche assunte dal binomio TV-politica» (Crapis 2006, 9) nel nostro Paese (Menduni 2002; Ginsborg 2003; Mazzoleni et al. 2009). È tuttavia interessante notare come la crescente attenzione per la cosiddetta «questione femminile», entro le analisi della fenomenologia e del successo del Berlusconismo, raramente si accompagni ad un’attenzione per gli stereotipi e i modelli di relazione 1 Rimando in particolare a Dei (2011) per una più completa ricognizione di questa letteratura.

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STUDI CULTURALI - ANNO IX, N. 1, APRILE 2012

Da «Drive in» alla «Makeover Television»

Modelli femminili e di rapporto fra i sessi nella TV berlusconiana (e non)

di Elisa Giomi

saggi

1. Introduzione

Riflettere sulle forme di presenza delle donne e del femminile nel sistema antro-pologico e di potere riconosciuto come «Berlusconismo» significa confrontarsi con la difficoltà di dire qualcosa se non proprio di innovativo, perlomeno di non ripetitivo. È infatti ormai ampia e prodotta entro cornici disciplinari diverse la letteratura dedita ad esplorare il fenomeno nei suoi contorni generali (Chiurco 2001; Dei 2011; Ginsborg et al. 2011)1 e a documentare il peculiare nesso tra sesso e politica che lo caratterizzano (Gomez et al. 2009; Mauri 2009; Ceccarelli 2010; Sannino 2010; Colaprico 2011); non mancano i contributi incentrati, più specificamente, sul rapporto tra Berlusconi e le donne, sulla sua concezione del femminile, sulla sua sessualità (Bernini 2011; Cavalieri 2011; Guaraldo 2011; Signorelli 2011; Straniero 2012). Si aggiungano infine i testi che analizzano diffu-samente le discriminazioni di genere, il maschilismo e il sessismo della società e della cultura italiana (Lipperini 2007; 2010; Marzano 2010; Soffici 2010; Bersani 2011; Simone 2012).

In questo articolato panorama, la televisione generalista è forse l’ambito meno analizzato. Esistono, naturalmente, studi che hanno illustrato, anche in tempi recenti, il ruolo del mezzo nella diffusione di una temperie culturale (Panarari 2010), di un’ideologia, di un universo valoriale e di atteggiamenti verso la sfera pubblica complessivamente funzionali al sistema di potere berlusconiano (Gozzini 2011), senza contare la produzione scientifica che a più riprese ha evidenziato «le patologiche caratteristiche assunte dal binomio TV-politica» (Crapis 2006, 9) nel nostro Paese (Menduni 2002; Ginsborg 2003; Mazzoleni et al. 2009). È tuttavia interessante notare come la crescente attenzione per la cosiddetta «questione femminile», entro le analisi della fenomenologia e del successo del Berlusconismo, raramente si accompagni ad un’attenzione per gli stereotipi e i modelli di relazione

1 Rimando in particolare a Dei (2011) per una più completa ricognizione di questa letteratura.

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di genere promossi attraverso i programmi della televisione generalista e attraverso quella di Mediaset in particolare. Quando giungono al nesso tra piccolo scher-mo e corpo delle donne, ad esempio, le esegesi del berlusconismo rimandano frequentemente all’omonimo documentario, Il corpo delle donne (Zanardo et al. 2009), e al film Videocracy. Basta apparire (Gandini 2009): contributi sicuramente apprezzabili ma frutto di un’operazione metalinguistica, ovvero prodotti con lo stesso linguaggio del mezzo che analizzano, l’audiovisivo.

Suppongo che tale carenza sia da mettere in relazione, più a monte, a quel-la di studi organici sull’immaginario di genere diffuso dalla televisione italiana; colpisce peraltro la (relativa) marginalità degli «addetti ai lavori», ovvero gli stu-diosi di comunicazione2, tra coloro che, in tempi recenti, hanno ripreso questa direzione di ricerca3. Senza pretendere di ricostruire l’intera evoluzione della rappresentazione delle donne in televisione né di illustrare in modo esauriente i tratti che essa ha assunto nella programmazione Mediaset, vorrei tuttavia dare un piccolo contributo su entrambi i fronti. Non è solo per inevitabili esigenze di sintesi se assumerò come punto di osservazione due fasi precise: l’esordio delle TV privata e le attuali tendenze della TV generalista, identificate dalla cosiddetta makeover television. Questi due poli a mio parere rappresentano emblematica-mente i trent’anni che li separano e condensano i tratti maschilisti, consumisti e neoliberisti dispiegati dalla tradizione televisiva che è andata costituendosi. Sono, inoltre, «zone» in cui più si rende evidente la coerenza, per logiche e risultati, tra l’attività di produzione simbolica realizzata dai programmi televisivi e quella messa in atto dall’apparato propagandistico di Berlusconi.

Nell’analisi, la mia attenzione va al piano visivo e, più in genere, a quello valoriale e culturale. Più precisamente, nel paragrafo seguente, dedicato ai primi anni della TV privata, intendo valutare se e in che misura i programmi dell’al-lora Fininvest introdussero delle novità nell’estetica dei corpi e nelle forme di presenza del femminile in televisione; secondariamente, assumerò come caso di studio specifico il programma Drive in e ne rileggerò il funzionamento alla luce delle analisi che individuano essenziali dispositivi di potere del Berlusconismo

2 Le uniche indagini sistematiche, a quanto mi risulta, risalgono alla fine degli anni novanta e inizio duemila, come Bolla et. al. (1999) e Cornero (2002). Tra i lavori più recenti, prodotti nell’ambito dei me-dia studies, si veda Capecchi (2009); per la fiction televisiva si vedano i monitoraggi stagionali realizzati dall’Osservatorio sulla Fiction Italiana e curati da Milly Buonanno, che dedicano spazio al ruolo delle donne (in particolare l’ultimo: Buonanno 2010), e Giomi (2012). Si vedano inoltre le ricerche condotte dall’Osservatorio di Pavia, che da alcuni anni affronta l’analisi del rapporto tra donne e media, con parti-colare riferimento alla televisione.

3 Si veda il lavoro dell’antropologa Puccini (2009) che, analizzando la cultura mediale popolare contemporanea, dedica particolare spazio ai modelli di genere veicolati da varietà, fiction, reality show e altri generi televisivi; il sessismo della TV italiana viene inoltre ben evidenziato da Rangeri (2007), in par-ticolare nei capitoli 1, Il peep show del varietà e 2, Un reality al giorno toglie la realtà di torno. Le forme della rappresentazione del femminile sulla scena mediale, più in genere, sono affrontate nel bel numero della rivista «DWF» (AA.VV. 2010) e nel testo di Campani (2009) che le analizza in relazione all’esistenza di un «backlash» (il contrattacco al movimento e alle conquiste femministe degli anni settanta) italiano.

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nei modelli di genere e di rapporto fra i sessi pubblicamente promossi da Silvio Berlusconi, e/o praticati entro le sue relazioni intime (non sempre i due piani sono allineati): vorrei mostrare come la parabola pubblica e privata dell’ex-Primo Ministro – ricostruita in dettaglio solo in seguito ai numerosi scandali sessuali che lo hanno coinvolto – sia stata anticipata, quasi didascalicamente, dalla dramma-turgia di Drive in e dalle posizioni soggettive che essa ha definito e canonizzato per il maschile e il femminile.

I due paragrafi successivi sono dedicati alla makeover television, una delle ultime e più seguite varianti del filone dei reality show, che ha trovato nelle reti Mediaset il principale veicolo di diffusione. In primo luogo, metterò in luce le analogie tra l’ideologia sottesa a questi programmi e quella promossa dal Berlu-sconismo, così come l’affinità tra la loro azione, normalizzante e mitopoietica al tempo stesso, e le «pratiche carismatiche» (Dei 2011, 471) che, negli anni, hanno contraddistinto il leader del Popolo della Libertà. Al centro della mia analisi si collocano il corpo e il rapporto con il corpo in genere, perché le trasformazioni introdotte dalla makeover television riguardano tanto le donne quanto gli uomini: quello che viene proposto è infatti un modello unico e egemonico, di cui Ber-lusconi stesso costituisce il più popolare e completo interprete. Tuttavia, come spiegherò, le novità più rilevanti di questa fase televisiva investono specificamente il corpo, lo sguardo e la soggettività delle donne.

Nel paragrafo finale prenderò in esame alcuni casi tratti dalla comunicazione mediatica, pubblicitaria, politica prodotta da soggetti diversi dal proprietario di Mediaset e ex-capo del governo, prima e dopo la sua uscita di scena. Mi chiederò se il modello di femminilità, di virilità e di rapporto fra i sessi che le etiche e le estetiche del Berlusconismo hanno contribuito a plasmare, supportate in ciò dalla TV commerciale, costituiscano effettivamente non solo uno specifico ma anche un unicum. Il che equivale a chiedersi se la fine di Berlusconi sia anche la fine del Berlusconismo, qui inteso come «il più maschilista dei poteri» (Chiurco 2011, 4), e quindi l’instaurarsi di un nuovo e più equilibrato ordine delle relazioni di genere.

Quanto agli strumenti, oltre alle chiavi di lettura fornite dalle analisi – cul-turali, filosofiche, storiche – su Berlusconi e sul Berlusconismo, utilizzerò per la mia indagine alcuni dei modelli interpretativi prodotti recentemente nell’ambito dei Cultural Media Studies e della Critica mediale femminista (in particolare Gill 2004; McRobbie 2004; Tasker et al. 2007; Gill et al. 2011).

2. In principio fu «Drive in», alla fine lo stesso. Come Silvio Berlusconi precipitò dentro la sua TV

Per cominciare, bisognerà ammettere che l’esibizione della nudità femminile e la produzione di uno sguardo erotico sulla stessa non è, ovviamente, un’invenzione

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della TV berlusconiana. Nel 1978 va in onda su Rete 2 il varietà televisivo Stryx: innovativo e sperimentale, anche da un punto di vista dei linguaggi, assieme a una ventata di libertà e estro creativo, introduce per la prima volta nella storia della TV italiana delle ballerine a seno nudo. La cornice ironicamente satanista del programma, in cui si rappresentano allegoricamente riti orgiastici mescolati a parodie di maghi e fattucchiere e suggestioni medievali, offre l’occasione per esibire la nudità – spesso tutt’altro che velata – di fanciulle ingabbiate, streghe, sacerdotesse. I corpi sono longilinei, quasi androgini, in linea con i canoni degli anni settanta, e appartengono, tra le altre, alle ospiti fisse del programma (Anna Oxa, Mia Martini, Grace Jones, Patty Pravo). Il regista, Enzo Trapani, dopo la so-spensione del programma per le ripetute proteste, firmerà anche C’era due volte (1980, Rete 2) che mostra le performance canore di una giovanissima Ilona Staller – conduttrice – avvolta da atmosfere fiabesche e camiciole trasparenti mentre si muove con languida sensualità tra gnomi, alberi e laghetti.

Qualche anno dopo, nel 1983, arriva su Raidue Il cappello sulle 23, varietà che ricrea le atmosfere dei night club e in cui si alternano cantanti, ballerini, imitatori, mentre le soubrette si muovono e danzano tra il pubblico, nello stile dei locali notturni, appunto, coinvolgendolo negli spettacoli. La trasmissione offre qualcosa di più di «discreti suggerimenti di erotismo», come è stato notato (Grasso 2002, voce «Il cappello sulle ventitré»): conta su spogliarelliste professioniste quali Rosa Fumetto del Crazy Horse di Parigi, celebre night club, e su icone sexy (Pamela Prati e Serena Grandi) che si esibiscono in striptease fino al nudo integrale, con scenografie decisamente osé anche per i canoni attuali.

Anche fuori dalla TV di Stato, nel frattempo, si facevano strada ammic-camenti e spogliarelli catodici, benché meno artistici e più caserecci di quelli della Rai. In quello stesso 1978 che vedeva l’esordio del discusso Stryx, le piccole emittenti locali e private erano già 400 in tutta Italia: attraverso di loro, la TV si faceva medium di un’Italia minore, dialettale, esclusa fino ad allora dal campo visivo e dall’afflato nazionalista, linguisticamente unificante e con ambizioni pedagogiche del servizio pubblico; medium, inoltre della modernità e dell’abbondanza, invaso da tappeti persiani, quadri, orologi, aspirapolveri e creme contro la cellulite: come se, «a contatto con i feticci del consumo la TV rivelasse la sua vera natura» (Menduni 2002, 103), portando in scena una provincia strapaesana, grassa, un po’ peccaminosa alla Tinto Brass, e senza dubbio seguace delle commodities e del consumo vistoso. Da questo momento in poi, il corpo e il ruolo delle donne in TV va allineandosi alla forma culturale della «neotelevisione»: si assiste a una netta virata in direzione del «femminile ornamentale», utilizzato per promuovere trasmissioni, servizi, beni di consumo e l’atto stesso del consumare.

Il progressivo accumulo di carne e lustrini delle reti private locali esploderà nella trasmissione da tutti ricordata come inizio di una nuova era televisiva e di

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una nuova forma di presenza delle donne in TV, il Drive in (Italia 1, 1983-1988). La novità è rappresentata in primis dal fatto che il corpo femminile come feticcio sessuale non è più associato a nessuna percezione di trasgressione: abbandona la seconda serata del palinsesto, dove erano collocati i programmi Rai, o la semi-clandestinità degli spettacolini notturni delle TV locali, per radicarsi con piena legittimità nell’intrattenimento familiare nazionale di prime time.

Cambia, naturalmente, anche il tipo di seduzione di cui sono protago-niste le donne: i programmi Rai usavano il nudo ma lo mantenevano sul re-gistro dell’erotismo, rarefatto e vagamente esotico nelle atmosfere visionarie di Stryx e in quelle naïf e sognanti di C’era due volte, oppure più esplicito e conturbante nella cornice chic del Cappello sulle 23; il Drive in, senza nep-pure arrivare al nudo, riesce comunque a attestarsi su un’estetica molto più patinata e pornografica, «caricaturale», sì, ma più negli involontari effetti che non nelle rivendicate intenzioni degli autori. La fisicità delle ragazze fast food è prorompente, il loro sex-appeal «maggiorato» quanto lo è la TV italiana adesso che il monopolio Rai non c’è più e si può godere di una pluralità di canali; posticcio come i tappeti persiani e quadri d’autore delle televendite. Nei seni rifatti, nella loro fittizietà iperbolica, tutta l’essenza di un sistema economico che celebra l’abbondanza proprio nel momento in cui inizia un processo di declino, tutta l’arroganza e la bulimia della coda ultima del «Secolo breve». E, naturalmente, tutto l’imperativo edonista e neoliberista del godimento indi-viduale, tipico degli anni ottanta.

Il Drive in ben testimonia della profonda omogeneità tra la materia narrativa e immaginativa della TV berlusconiana e il più generale modello culturale di cui l’ex-primo ministro è promotore e praticante, soprattutto per quanto riguarda la concezione del femminile. Esaminiamo, in primo luogo, i ruoli delle donne: Susy Blady compare in veste di aspirante ragazza fast food, Margherita Fumero è la moglie lagnosa e ingioiellata del personaggio interpretato da Enrico Beruschi; le ragazze fast food – normalmente mute – e la cassiera del drive in (Carmen Rus-so, poi Lory del Santo e Tinì Cansino) si esibiscono in brevi sketch; per il resto, il ruolo di comici è affidato esclusivamente agli uomini: le donne sono spalle, oggetto o strumento di comicità, in funzione cioè della loro avvenenza e delle facili battute che essa suggerisce ai maschi furbetti o delle occasioni che questi vi trovano per ridicolizzare i meno fortunati, esclusi dalla possibilità di godere di tale avvenenza.

La macchina parodistica del programma, ordita da autori maschi4 e interpre-tata da comici maschi, che si serve delle donne per schernire l’uomo medio, in

4 Drive in è ideato da Antonio Ricci, gli autori sono Lorenzo Beccati, Michele Mozzati, Aldo Rami, Gino Vignali, Max Greggio, Gennaro Ventimiglia, Franco Mercuri, Matteo Molinari; la regia di Giancarlo Nicotra nella prima edizione e di Beppe Recchia nelle seguenti.

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realtà ne rende accettabili tutte le debolezze e perversioni. Un ruolo importante in questo senso è svolto dalla struttura narrativa stessa di Drive in, in genere poco analizzata perché messa in ombra, comprensibilmente, da altri elementi (l’allineamento ai moduli dell’intrattenimento TV americano, la rivisitazione del format del varietà, il rapporto con la società e cultura italiana dell’epoca, ecc.): almeno nelle prime tre stagioni, i diversissimi sketch e performances sono in-castonati nel racconto seriale delle manovre messe in atto dal proprietario del drive in (Gianfranco D’Angelo) per ingannare un cliente sprovveduto e goffo (Enrico Beruschi). Questi vi si reca perché attirato, più che dallo spettacolo ci-nematografico, dalle forme generose della sua cassiera, promessa di evasione dalla routine quotidiana e dalla opprimente vita matrimoniale con una moglie dispotica e poco avvenente.

Drive in presenta insomma una trama fondata sulla «bulimia sessuale», come l’ha definita Panarari (2010, 26), che addebita il successo del programma alla sua capacità di soddisfare il voyeurismo represso dell’italiano medio, deluso da una rivoluzione sessuale incompiuta. Ma quella compiuta da Drive in è, a mio giudizio, un’operazione ideologica ancor più connotata: si legittima infatti l’idea, densa di implicazioni sul piano delle relazioni di genere e della loro codificazione sociale, che un uomo di mezza età, regolarmente coniugato, sia completamente stregato dall’appeal sessuale di giovani e procaci fanciulle e tenti continuamente approcci con loro, salvo ostentare devozione e obbedienza ogniqualvolta la moglie («Mar-gherituccia») irrompe sulla scena per redarguirlo. Date le caratteristiche fisiche e caratteriali della moglie, la sessualità di servizio praticabile entro il matrimonio non può certo offrire risposta a quello che, per converso, appare il naturale manifestarsi del desiderio del marito; le «scappatelle» così normalizzate non si consumano, e lo spettatore è rassicurato perché il sacro vincolo del matrimonio è fatto salvo, ma allo stesso tempo si vede strizzare l’occhio e blandire l’autostima: se ciò non avviene non è certo perché Beruschi non voglia, ma perché è goffo e bruttarello, il che contribuisce a renderlo ulteriormente oggetto di una benevola e condiscendente simpatia.

Al contrario, ragazze fast food e cassiere rispondono alle attenzioni del proprietario del drive in e di altri maschi, non certo più avvenenti o giovani di Beruschi, e accettano il gioco degli ammiccamenti sessuali da loro proposto. In questo senso Drive in completa e radicalizza, collocandola a pieno diritto nell’intrattenimento generalista, la tradizione iniziata dal filone cinematografico comico-erotico trasmesso in seconda serata anche dalle reti Fininvest: tra i prota-gonisti, una schiera di ometti dalla fisicità sgraziata e mediocre (Lino Banfi, Renato Pozzetto, Alvaro Vitali) ma più fortunati di Beruschi, giacché hanno accesso ai giovani corpi di Edwige Fenech o di Nadia Cassini. Secondo Olivia Guaraldo, «ciò che appare perfettamente normale, nell’immaginario collettivo “popolare” forgiatosi nelle innocenti pellicole della commedia all’italiana, non è altro che lo

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sguardo erotico maschile sul corpo della donna» e soprattutto l’idea che questo giovane corpo «sia sempre lì, a disposizione dei maschi di qualsiasi età e dimen-sione» (Guaraldo 2011, 100).

A distanza di anni, commentando il fenomeno Berlusconi, molti avrebbero concordato sul carattere paradigmatico della sua concezione del rapporto fra i ses-si. Essa tende a diventare «modello nazionale» con importanti effetti performativi, perché coerente con alcuni tra i tratti più radicati e arcaici della cultura italiana: un mix di «maschilismo tradizionale e logiche imprenditoriali» tale per cui alle donne è applicata la stessa visione mercantile che contrassegna tutte le forme del suo stare al mondo (Signorelli 2011, 211). Ma se questo exemplum funziona è proprio perché non si pone come tale: sul solco di Drive in, Berlusconi non offre «una norma a cui gli altri uomini dovrebbero guardare; al contrario asseconda il corso normale della realtà sociale, facendosi interprete della deriva etica in atto» (Bernini 2011, 36). Berlusconi – lodato dai suoi seguaci al grido di «Bravo Silvio scopale tutte!»5 – fa quello che farebbe chiunque altro, insomma: diviene una versione più grottesca, estrema e tragicamente reale di Beruschi o di «Pierino», di loro non più bello ma più potente; scivola dentro la più vieta e stereotipata sceneggiatura dei suoi avanspettacoli televisivi, offre un doppio extra-televisivo e decisamente più «operativo» ai maschi attempati e gigioneggianti sotto la cui regia o conduzione si agitano i corpi acerbi delle ragazzine in programmi come Non è la Rai (Canale 5, 1991-1995)6, Striscia la notizia (Canale 5, 1988)7, Veline (Canale 5, 2002)8. Spet-tacoli targati Mediaset e in fondo epigoni di Drive in, in cui erano già contenuti tutti gli sviluppi narrativi e le intrinseche contraddizioni dell’immagine pubblica del Premier, fondata su «una comunicazione paradossale in cui i valori familiari tradizionali vengono contemporaneamente affermati e trasgrediti» (Bernini 2011, 35). Da un lato la propaganda familista dei «bonus bebé» (2008), del Family day (12.05.2007), delle crociate contro coppie di fatto e dell’uomo che si «vergogna a girar per strada con i figli per via della prostituzione» e dei «perizoma in mostra

5 Firmato «sexpistola» il 18.07.09 in calce a un post dal titolo Il calendario di Cristina del GF: enormi tette che raccontano un Paese, http://www.daw-blog.com/2009/07/17/il-calendario-di-cristina-del-gf-enormi-tette-che-raccontano-un-paese/#comment-13054 (09/01/2012). Sullo stesso tono, interessante sequenza di commenti a un articolo apparso su Vanity Fair.it il 15/09/11, Tutte le donne del Presidente, che pubblica le foto delle ragazze coinvolte nell’inchiesta della Procura di Bari sulle feste del Premier. Sandro: «sapete cosa deduco... silvio hai fatto una gran cosa se l’hai trombate tutte…non so cosa avrei dato per essere un tuo invitato... ci saremo (sic) divertiti alla grande…»; Lallo: «meglio la destra coi troioni che la sinistra coi travoni!»; Pippo: «Tutti moralisti? [...] A me, sinceramente, non dispiacerebbe affatto avere e fare tutto quello che il signor Berlusconi ha e fa»; Gian: «[...] Chi ha votato Berlusconi ha già accettato la persona e le sue debolezze e quindi non è giusto pretendere di cambiare ciò che una maggioranza ha deciso», http://www.vanityfair.it/news/italia/2011/09/15/il-fascicolo-dei-pm#?refresh=ce (09/01/2012).

6 Ideato da Gianni Boncompagni e Irene Gergo, condotto da Enrica Bonaccorti e poi Paolo Bo-nolis.

7 Ideato da Antonio Ricci e condotto da uno stuolo di coppie maschili. In ben 23 anni, le donne sono state solo tre: Emma Coriandoli (1991-94); Alba Parietti (una sola stagione, 1993-94) e Michelle Hunziker (2004-2012).

8 Ideato da Antonio Ricci e condotto da Teo Mammuccari, poi Ezio Greggio, poi Enzo Iacchetti.

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dappertutto, senza ritegno»9, nonché il tentativo di rappresentarsi come padre e sposo devoto (videomessaggi con la prole stretta attorno, opuscoli quali Una storia italiana, pubbliche dichiarazioni di amore alla moglie10); dall’altro lato, le escort e i festini, le indiscrezioni e gli scandali sul suo vero volto di «utilizzatore finale», anfitrione di riti orgiastici e libidinoso consumatore di carne fresca.

In ultima analisi, se tra la parabola, privata e pubblica, dell’uomo e le nar-rative del suo intrattenimento televisivo c’è una profonda coerenza – quella del marito desideroso o incline a scappatelle con donne molto più giovani – è perché le une e le altre si reggono sul più elementare dispositivo del sistema di potere maschile, e infatti massimamente visibile nelle istituzioni che più traducono il patriarcato: chiesa, potere militare, in fondo anche famiglia. Ciascuna di queste istituzioni spesso segretamente include ciò che pubblicamente e «per contratto» nega: pedofilia, nonnismo, prostituzione, i loro «doppi osceni»11. L’intrattenimento familiare di massa, nella sua versione commerciale, popolaresca e intrinseca-mente maschile e maschilista non si sottrae a questo principio del rovesciamento carnevalesco, in cui, apparentemente infrangendole, si attira il consumatore e si riaffermano le regole.

3. La «makeover television» e l’ideologia berlusconiana: ragioni di un’af-finità elettiva

Quindici anni dopo il Drive in debutta su Italia 1 il Brutto anatroccolo (1998-2001), condotto da Marco Balestri e Amanda Lear. Uomini e donne che si percepiscono brutti, sgraziati, poco alla moda sono affidati alle cure di parrucchieri, truccatori, costumisti. Divengono così protagonisti di una metamorfosi che potranno ap-prezzare in diretta, posizionati davanti a uno specchio, assieme al pubblico da casa. Il programma può essere ritenuto tra i primi esponenti italiani di un filone che ultimamente sta registrando grandi successi, benché ancora scarsamente documentato dalla nostra letteratura di settore: la makeover television.

9 Lo dichiarò in un’intervista a «Libero» il 04/01/02. Fonte: Prostituzione per strada. Quando il mo-ralista era Silvio, http://www.unita.it/italia/prostitute-per-strada-br-quando-il-moralista-era-silvio-1.272508 (09/01/12).

10 Accadde in seguito alla lettera di Veronica Lario pubblicata da «Repubblica» il 31/01/07, in cui l’allora First Lady chiedeva che il marito le porgesse «pubbliche scuse» per le battute rivolte alle ospiti della cena di gala seguita alla consegna dei «Telegatti». Si veda Veronica Lario, lettera a «Repubblica»: Mio marito mi deve pubbliche scuse, http://www.repubblica.it/2007/01/sezioni/politica/lettera-veronica/lettera-veronica/lettera-veronica.html (09/01/12).

11 Rubo il riferimento alle istituzioni e ai loro «doppi osceni» a Bernini (2011, 35), che in questo passaggio applica le parole di Slavoj Žižek (Il godimento come fattore politico, 2001) sul ruolo della tra-sgressione nella produzione del legame sociale all’analisi del regime berlusconiano. Mi pare importante aggiungere che le istituzioni citate sono appunto massima espressione del patriarcato.

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Scelgo di assumere questa fase della TV generalista come secondo punto di osservazione non solo perché si tratta di un’esperienza recente, ma anche per-ché costituisce polo distante e tuttavia coerente, direi speculare, rispetto alla TV commerciale degli esordi che ho scelto di raccontare a partire da Drive in. Con la makeover television la TV innalza le sue ambizioni rispetto alla reality television, di cui è sottogenere: «non più, semplicemente, tentare di catturare la realtà ma intervenire in essa e cambiarla» (Heller 2007, 3). La makeover television comprende programmi che assistono persone comuni nel loro percorso verso un cambiamento di status, ad esempio da individui anonimi a star (gli innumerevoli talent show che seguono le selezioni e gli sforzi di ragazzi e ragazze per divenire cantanti, attori, ballerini ecc: American Idol negli Stati Uniti, i molti adattamenti italiani di format stranieri, come Popstars, Italia 1, Operazione trionfo, Italia 1, Amici di Maria dei Filippi, Canale 5, X-factor, Raidue); si racconta anche il passaggio inverso, ov-vero da star a persone comuni (i reality show sulla vita ordinaria delle celebrità, come The Osbournes, trasmesso anche in Italia da MTV, sulla famiglia dell’icona heavy metal). Il cambiamento può inoltre riguardare: la propria abitazione (molto celebre negli Usa Extreme Makeover. Home Edition in cui famiglie poco abbienti si vedono demolire e ricostruire gratuitamente la casa da un team di progettisti, oppure, come nell’italiano Cerco casa… disperatamente, sul canale digitale ter-restre Real Time, sono assistite nella ricerca dell’abitazione «dei loro sogni»); la linea pedagogica da seguire con i figli (S.O.S. Tata di La7, simile all’americano Nanny 911 e agli inglesi Little Angels e Supernanny: coppie incapaci di disci-plinare la prole vengono seguite e assistite per una settimana da una esperta di psicologia infantile): oggetto del miglioramento promesso, infine, possono essere la relazione sessuale con il proprio/la propria partner (Sex therapy, Cielo) o le tecniche di seduzione (La pupa e il secchione, Italia 1, adattamento dello statu-nitense Beauty and the Geek, in cui maschi «nerd» dovrebbero migliorare le loro capacità relazionali e conquistare le attenzioni di splendide fanciulle stupidotte, le quali per converso dovrebbero apprendere da loro nozioni in varie materie).

Dal momento che, in linea con l’estetica e la poetica dei reality show, il percorso compiuto dai protagonisti è raccontato con abbondante utilizzo di un registro intimistico – esibizione dell’interiorità e continui monitoraggi delle loro paure, speranze, difficoltà – e corredato da consigli e interventi degli esperti o dei conduttori, molti di questi programmi finiscono per assumere un sapore «mai-eutico»: la trasformazione esteriore diviene prova di una metamorfosi spirituale. Si enfatizza, cioè, l’idea che «il cambiamento fisico o le acquisizioni materiali costituiscano la strada per l’espressione dell’interiorità, della verità e della natura migliore di una persona» (Heller 2007, 2). Dal canto suo, con questi show la tele-visione mira ad attestarsi definitivamente come grande agenzia di trasformazione sociale, proseguendo il progetto demiurgico che, in fondo, in Italia era iniziato nel 1955 con Lascia o raddoppia?.

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Vorrei ora concentrarmi sul filone della makeover television dedicato alle trasformazioni dell’aspetto fisico, del corpo o semplicemente del look. Nell’ame-ricano Plane Jane. La nuova me, da quest’anno anche su MTV Italia, un’affasci-nante esperta di moda aiuta impacciate ragazzine a cambiare abbigliamento e posture per poter acquisire la sicurezza necessaria a dichiararsi al ragazzo dei loro sogni. Tra gli esponenti più significativi, inoltre, Ma come ti vesti?!, adattamento del format americano What not to wear, trasmesso da Real Time e arrivato alla quinta edizione, in cui il guardaroba di ragazze e donne (solo due uomini fino a ora), dopo la segnalazione dei loro amici, viene impietosamente scrutinato da due esperti di moda: con malcelato sussiego piuttosto che con il piglio dissacrante e autoironico cui aspirerebbero, i due assistono l’interessata durante lo shopping e il tentativo di cambiare look. A pagare, ci pensa l’emittente. Segue Shopping night, altro format italiano trasmesso da Real Time, in cui gli stessi fashion expert – nel frattempo talmente calatisi nella parte da divenire caricatura di se stessi – presie-dono alla competizione tra ragioniere dell’hinterland brianzolo e madri frustrate, lasciate a piede libero dentro il fashion store «più cool di Milano». È aperto solo per loro, purché riescano a interpretare il tema di volta in volta assegnato (il look per una serata di gala in crociera, per la festa anni trenta, per il vernissage, ecc.). Se vincono hanno diritto a tenersi gli abiti scelti, ma attenzione, perché «gli accessori dicono molto di una persona, e se li combini male possono dire cose assai brutte»12.

Ampio assortimento di programmi, infine, sulla extreme makeover, «che insiste sulla trasformazione repentina dei connotati mediante l’applicazione di pratiche di cosmesi radicale e la massificazione delle tecniche chirurgiche» (Ciuffoli 2007, 9): Teenagers in crisi di peso. I used to be fat (trasmesso dal 2011 su MTV) vede ragazze e ragazzi obesi decisi a raggiungere il loro peso-forma in una sola estate, prima di iscriversi al college, grazie alla dieta e agli esercizi impartiti da un personal trainer. Versione militaresca per i malcapitati partecipanti di Adolescenti XXL, in sovrappeso ma «non troppo giovani per decidere di cambiare vita» (Real Time, dal 2012).

Benché lo spettacolo delle masse adipose e sudate dei partecipanti, spesso inquadrati in biancheria intima, non sia edificante, non è niente in confronto alla tipologia makeover centrata sulla chirurgia plastica, detta surgereality. Mediaset è stata pioniera anche di questa variante con Bisturi! Nessuno è perfetto, in onda dal 2004 al 2007 su Italia 1 per la conduzione di Irene Pivetti e Platinette, poi di Daria Bignardi: il programma mutua dal Brutto anatroccolo il meccanismo dello specchio rivelatore dell’avvenuta trasformazione, e mostra clip dell’operazione subita dai partecipanti (per la maggioranza donne). Non vengono risparmiati i filmati degli interventi neppure nelle varianti successive: Celebrity Bisturi, ancora

12 Puntate del 09/01/12.

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su Italia 1 dal 2009, affida a Elisabetta Gregoraci (così evidentemente ricompen-sata per il suo coinvolgimento negli scandali vallettopoleschi) il racconto delle molteplici «plastiche» di Brigitte Nielsen; il canale tematico Discovery Real Time (Sky) nel 2010 propone Diario di un chirurgo (ora in onda sul Real Time digitale terrestre), centrato sulla vita lavorativa del professor Roy De Vita – già nello staff di Bisturi! – e della sua equipe. Infine, nell’aprile 2011, sbarca su Italia 1 Plastik. Ultrabellezza, ispirato all’americano The Wild e condotto da Elena Santarelli (prodotta da L’isola dei famosi, Raidue, e opportunamente riadattata, anche chi-rurgicamente, per l’occasione): trasmette storie acquistate all’estero e altre girate in Italia, corredandole con il commento di chirurghi estetici italiani. Accanto a casi in linea con i precedenti (ragazze che desiderano un seno nuovo o una li-posuzione), altri, centrati sulla chirurgia ricostruttiva, sospingono il voyeurismo connaturato a questi programmi in una pericolosa zona di curiosità morbosa e patologica: vere e proprie deformazioni/menomazioni, congenite o prodotte da traumi, ci vengono mostrate in tutta la loro crudezza. A stemperare i toni con-corrono puntate del tutto distopiche – accomunate solo dall’utopia dell’aspetto perfetto=vita perfetta – sui matrimoni reali, abiti e silhouette delle spose.

Tento la mia interpretazione del fenomeno makeover e propongo un’ipotesi secondo cui l’universo valoriale che lo caratterizza è perfettamente in sintonia con quello del Berlusconismo e della sua propaganda, in uno schema in cui la TV e il potere politico dell’ex Premier si alimentano reciprocamente. Come operazione preliminare, è necessario chiarire il ruolo svolto del network Mediaset nell’affer-mazione di questo genere. Il canale Real Time ne costituisce al momento una vera e propria «nicchia»13, ma si tratta appunto di canale tematico, con seguito ben più esiguo rispetto alle reti generaliste. Limitando a queste la nostra osservazione, è evidente che Mediaset si distingue nettamente non solo in quanto pioniera del genere ma anche per le proprie politiche di programmazione: persino Roy De Vita rifiuta di partecipare ai suoi show, ritenendoli troppo «trash». La Rai, che certo non si esime da tale esercizio, nel 2002 provò a trasmettere su Raidue uno dei capostipiti del filone, l’americano Extreme Makeover, ma dovette presto ripensarci a causa delle ripetute proteste. Quanto a MTV, benché, naturalmente, la spetta-colarizzazione del corpo, eccedente e poi normato, non manchi, Teenagers in crisi di peso partecipa dello stesso sguardo che contraddistingue gli altri reality trasmessi dall’emittente – di tipo makeover e non – con protagoniste adolescenti (Plain Jane, Teen mom, Ginnaste): è uno sguardo complessivamente tenero e solidale, rivelato da inquadrature più sobrie, «documentali» e non estetizzanti, che non indugiano su primi piani e dettagli feticisti.

13 Copre ogni ambito, dalla moda alla casa al giardinaggio, e presenta un’ampia offerta nel comparto della surgereality: oltre agli show citati, trasmette Extreme Makeover – Weight Loss Edition e Chirurgia XXL, in cui si racconta prima la dieta e poi l’intervento chirurgico per eliminare la pelle in eccesso. Si vedano anche – ma sarebbe meglio evitare – Malattie imbarazzanti e Malattie misteriose.

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Al contrario, una sorta di pornografia dell’orrore va progressivamente costruendosi da Bisturi! a Plastik, che espongono carne, sangue e tessuti molli dalla provenienza anatomica più diversa, adipe strizzato nelle mani del medico o enormi natiche su cui si delinea con un pennarello l’area da asportare, ventri flaccidi e seni cadenti accuratamente ispezionati dall’occhio clinico e asettico del chirurgo, con un effetto persino peggiore di quanto accadrebbe se dietro vi fosse, invece che uno sguardo inquisitore, uno sguardo desiderante: il cor-po, così vivisezionato e esposto, non è più feticcio – perlomeno erotico – ma cessa di essere anche corpo «senziente», per divenire pura carne da macello televisivo. All’estetica della surgereality in quanto, appunto, pornografica, si possono applicare anche più didascalicamente e propriamente le parole usate da Gianluca Solla per descrivere la pornografia «classica» come essenza stessa della televisione italiana: «i corpi femminili che offrono il corredo di cui Ubu (Berlusconi, ndr) ama circondarsi non sono convocati come presenze sessua-te», l’unica presenza loro consentita è una presenza pornografica, ovvero «una presenza disincarnata, e la disincarnazione stessa del sesso. È un’espropriazione stessa della realtà di quei corpi attuata proprio mediante l’evidenza eccessiva e l’eccesso di evidenze che sono i principi costitutivi dell’Osceno» (Solla 2011, 144-145, corsivi miei).

Un confronto con l’estetica di altri programmi Mediaset può aiutare a co-gliere le caratteristiche della surgereality. La pupa e il secchione o Ciao Darwin (Canale 5, 2007), corredati da immagini molto meno scabrose, sono tuttavia altrettanto osceni. Producono intorno al corpo delle belle donne l’iconografia più mercificante/espropriante possibile (inquadrature dal basso di fondoschiena che danzano e salgono scale, primissimi piani su parti anatomiche al punto che a volte si fa fatica a identificarle perché non si capisce dove stia la testa, e non è una battuta); viceversa, questi programmi sottopongono a sistematici rituali di degradazione le donne e gli uomini che non si conformano ai canoni di bellezza dominanti. Le miserie fisiche dei nerd protagonisti di La pupa e il secchione o dei concorrenti di Ciao Darwin sono impietosamente esposte e additate all’irrisione del pubblico con un atteggiamento che, in pieno stile Paolo Bonolis, vorrebbe essere goliardico ma risulta invece addirittura feroce. La differenza secondo me sta proprio qui: la grammatica del corpo costruita in Bisturi e Plastik, benché molto più estrema quanto a immagini e zoom anatomici, può risultare pornografica, oscena, persino feroce negli effetti, ma non lo è nelle intenzioni. Le clip delle operazioni chirurgiche così come dei preliminari accertamenti dei medici sono «normalizzate», perché incastonate nella cornice rassicurante del reality show, pro-dotte come certificazione del (bio)potere terapeutico e demiurgico della chirurgia plastica e infine cosparse dall’afflato purificatore della tensione al miglioramento di sé che tutto giustifica: questi show hanno un’ispirazione, sembrerà paradossale, apologetica. Anzi, mitopoietica.

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Non è un caso se sono arrivati in Italia attraverso Mediaset, che, peraltro, ha sempre dedicato particolare attenzione alla chirurgia estetica, ora con i toni apparentemente dissacranti della rubrica «Fatti e rifatti» di Striscia la notizia, ora sotto le mentite spoglie dell’informazione televisiva di Studio Aperto, dove spes-so trovano spazio indiscrezioni sugli ultimi ritocchi delle star. La prima ragione risiede nella contiguità tra l’iconografia prodotta da questi spettacoli e quella prodotta dalla comunicazione pubblica di e su Berlusconi: il «metacorpo»14 che si costruisce, si canonizza sullo schermo televisivo attraverso l’infinita panoplia di capelli tinti, occhi truccati, addomi finalmente asciugati, seni ridotti o aumentati, occhiaie eliminate, nasi rivisti e labbra gonfiate è estremamente coerente con il corpo berlusconiano, corretto da tacchi interni, cerone, lampade abbronzanti, impianti di capelli e di meccanismi idraulici che consentono l’erezione.

Federico Boni, che ha a lungo esaminato «il corpo mediale del leader», come dal titolo di un suo testo, ancor prima di aver visto Plastik e i molti altri show che abbiamo citato introduceva il lifting di Berlusconi del 2004 con queste parole: «nel pieno rispetto delle logiche dei media, e in un periodo in cui l’offerta televisiva si stava aprendo alla “bellezza interiore” della chirurgia plastica (dal reality – Bisturi – alla fiction – Nip/Tuck) anche il corpo naturale – anzi, il corpo mediale – del corpo politico per eccellenza, quello di Berlusconi, si è prestato all’estetica del “giovane per sempre”, dando volto – letteralmente – all’antico motto secondo cui le Roi ne meurt jamais» (Boni 2008, 105). Molto è stato scritto sull’argomento in seguito: se ne è parlato come di un corpo protesico e chirurgico, un corpo femminile/femminilizzato, nel senso che Berlusconi avrebbe appreso dalle donne l’importanza e l’arte di curarlo, e in particolare dalle pin up la strategicità della seduzione e dell’eccitazione (Belpoliti 2009, 64); un corpo che è «causa e assie-me effetto di quella catastrofe della virilità di cui il fascismo italiano è stato una premessa» (Bernini 2011, 45); un corpo disincarnato, che diviene pura immagine, e un’immagine «che assurge al rango di feticcio, parte integrante dell’economia dei segni, a cui il suo corpo è stato ridotto» (Solla 2011, 144).

Quel che è certo, per parte mia, è che i programmi della makeover tele-vision hanno contribuito a rendere accettabile, socialmente desiderabile, quel tipo di corpo – manipolato così da rispondere agli ideali di sempiterna bellezza e giovinezza – e viceversa Berlusconi, offrendo un esempio in prima persona, ha contribuito alla legittimazione e alla fortuna degli show che ne rendevano possibile l’incarnazione (o disincarnazione, secondo i critici).

Alcune cose sono cambiate da quando Gore Vidal, sicuro dell’effetto comico, poteva scrivere «prima di tutto (Edna) vuole perdere cinque chili e, a oggi, questi

14 Questa espressione mi pare adatta a descrivere l’operare della makeover television e l’effetto di s-corporazione generato dalla sua: a) estetica vivisezionatrice; b) operazione di accumulazione retorica = ripetizione ossessiva di parti di corpo; c) successivo riassemblare le stesse in un «supercorpo», appunto, che appartiene a tutte/i e a nessuna/a e che comunque definisce il canone.

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cinque chili stanno ancora attaccati come una cozza alla sua esile figura» (Vidal 2007, 38-39). I protagonisti della makeover television descrivono oggi in tutta se-rietà la motivazione che li induce a sottoporsi a una dieta, affrontare un intervento di liposuzione o una plastica facciale attraverso una narrativa di dimorfismo, per così dire, facendo cioè riferimento a un corpo che non riconoscono (anche se ci hanno vissuto tutta la vita dentro!) perché non rispondente all’esile figura della loro autoimmagine, parassitato come è da difetti e imperfezioni fisiche. Ma le cose sono cambiate anche da quando era legittimo osservare come nelle storie della surgereality (al tempo in Italia solo Bisturi!) «la donna avrebbe un corpo che non possiede, un corpo talmente sfuggente al controllo da possedere la donna stessa» (D’Amico 2007, 59). Con il proliferare della makeover television nelle sue diverse varianti si è infatti assistito a una femminilizzazione dell’esperienza del corpo, o almeno della sua affabulazione televisiva, giacché il discorso di espro-priazione un tempo tipico solo delle donne è oggi assunto anche dagli uomini: tutte e tutti rivendicando il bisogno di ritrovare un io ingabbiato, celato, oppresso da difetti e imperfezioni fisiche o addirittura «posseduto», appunto, dagli stessi. Sarà l’esorcismo di nutrizionisti, make-up experts e chirurghi a farlo esplodere in tutto il suo fulgore.

Perché l’esorcismo riesca, è necessaria l’obbedienza incondizionata e en-tusiastica degli interessati. «Mi sento bella – dice Terra, protagonista di un episo-dio di Teenagers in crisi di peso15 – non solo per il mio corpo, ma anche per il lavoro che ho fatto fino a ora». Questa dichiarazione ben testimonia un’ulteriore ragione delle affinità tra l’operazione mitopoietica della makeover television e quella dell’apparato propagandistico di Berlusconi: nell’uno e nell’altro caso, tale operazione ha per oggetto non solo il risultato finale – il corpo – ma anche il processo necessario al suo raggiungimento, ovvero il «lavoro» sul corpo. Un lavoro che tanto nelle narrative dei reality show quanto nella (ampia) pubblicizzazione degli interventi subiti da Berlusconi16 è «incontrovertibilmente» documentato, in una mimesi del discorso scientifico, attraverso il dispositivo drammaturgico del raffronto prima/dopo, debitamente corredato da accostamenti ossessivi di im-magini delle due fasi; un lavoro, infine, che Berlusconi e il suo staff non hanno mai negato, facendone anzi oggetto di battute. Perché era evidente, ma anche perché era in linea con il nucleo concettuale e valoriale dell’intera cultura mediale popolare dei nostri giorni, iperbolicamente espresso dalla surgereality: la trasfor-mazione fisica, l’incessante costruzione e ricostruzione del corpo sotto la spinta dell’imperativo al miglioramento sono la legittima, anzi, doverosa espressione e

15 Trasmesso il 09/01/12.16 Si vedano gli articoli della stampa quotidiana analizzati in Boni (2011), in particolare pp. 125-

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unica evidenza della capacità autotrasformative dell’io, del «progetto del sé» tutto tipico della modernizzazione riflessiva (Beck et al. 1994).

Le diete e le continue misurazioni del giro-vita, gli estenuanti allenamenti e i responsi della bilancia, puntualmente testimoniati dalla telecamera, le visite del chirurgo, i lifting, le liposuzioni, i trapianti, le pubbliche ovazioni di amici, parenti, pubblico in studio e pubblico da casa davanti all’immagine dei protagonisti in commossa contemplazione del difetto – e quindi dell’io – finalmente corretto dise-gnano un percorso che, in fondo, traduce visivamente il mito, la grande narrativa berlusconiana del self-made man, l’uomo che si è fatto – e rifatto – da sé.

Sotto la superficie accattivante della makeover television si scorgono così non solo le insidie della modernizzazione riflessiva ma, più specificamente, tutte le contraddizioni intrinseche all’ideologia neoliberista: gli individui sono autorizzati e invitati a essere performing self, interamente responsabili della loro autobiografia, da costruire e ricostruire con l’ausilio di self-help book, personal trainer, life style coach, suggerimenti di esperti, diari personali e piani di sviluppo della carriera: questi gli «strumenti culturali attraverso cui l’individualizzazione opera come progetto sociale» (McRobbie 2004, 260)17; ma inevitabilmente l’im-perativo della scelta individuale, l’offerta di opzioni potenzialmente infinite tra cui si chiede di saper scegliere, le continue pratiche di automonitoraggio utili a verificare la bontà della scelta e la ferrea disciplina del sé necessaria a metterla in pratica rovesciano la promessa della libertà nella soggezione a un nuovo regime di controllo e potere.

Il soggetto neoliberista, imprenditore di sé e quindi anche interamente responsabile dei propri, eventuali fallimenti, si affida con gratitudine all’azione prescrittiva e al miracoloso intervento trasformatore della makeover television. Essa offre gratuitamente l’assistenza di arredatori, nutrizionisti, chirurghi plastici, mette a disposizione il budget per un nuovo guardaroba o addirittura un nuovo appartamento: si qualifica definitivamente come emissaria, in ogni casa, della società di mercato, fruitore ultimo dell’intero processo. Mettendone in opera il potere a beneficio di pochi fortunati e celebrandolo agli occhi di tutti, le narrative demiurgiche della makeover divengono, secondo l’espressione di Bratick, le più grandi «favole consumistiche dei nostri tempi» (2007, 8).

È forse questo che, ancor più a monte, contribuisce a spiegare perché i makeover shows abbiano trovato nelle reti Mediaset incubatore e terreno di di-spiegamento particolarmente fertile. È abbastanza evidente come tanto la favola consumistica quanto il neoliberismo – con le sue contraddizioni tra retorica della libera scelta individuale da un lato e regime di disciplina e controllo dall’altro – non

17 In questo passaggio McRobbie evidenzia come sia Giddens che Beck non prestino attenzione alle dimensioni regolative del discorso popolare della scelta personale e dell’automiglioramento: «la scelta è sicuramente, nella lifestyle culture, una forma di costrizione» (McRobbie 2004, 261).

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rappresentino solo gli ingredienti essenziali della specifica «makeover morality» (Redden 2007), ma anche dell’intera «poetica» del Cavaliere. Si trovano nel modello culturale e valoriale espresso dalla sua biografia come nelle politiche promosse dal suo governo: una personale declinazione del mito della ricchezza che gli per-mette di acquistare un corpo eternamente giovane e il controllo, politico e non, su altri e altre; la condotta libertina in privato e la faccia da guardiano della morale in pubblico; una visione dello Stato e della burocrazia come apparati bizantini che imbrigliano la legittima imprenditorialità individuale, combinata a interventi di stampo securitario e repressivo (significativa, tra tutte, la contraddizione tra il rifiuto delle intercettazioni telefoniche in nome dei diritti della persona e anche l’installazione di telecamere di sorveglianza sull’intero territorio nazionale…).

4. Le «vere donne» della «makeover television»: paradossi della sogget-tività femminile tra neoliberismo e postfemminsimo

Torniamo allo specifico della rappresentazione delle donne, per analizzare la costruzione dapprima della soggettività, poi del corpo e dello sguardo femminile identificativa della makeover television e avanzare un’interpretazione dei cam-biamenti occorsi dai tempi di Drive in. Una riflessione del genere è necessaria, perché le donne costituiscono le principali protagoniste di questi programmi, la gran parte del pubblico in studio e a casa, e naturalmente il target preferenzia-le18. Al punto che Real Time, attualmente nicchia della makeover, si definisce un «canale dedicato all’intrattenimento femminile che mette al centro della propria programmazione la vita reale delle donne».

Benché, come ho sostenuto, nella makeover television vi sia una femminiliz-zazione dell’autobiografia e dell’esperienza del corpo restituita dai protagonisti di ambo i sessi, a fronte della visione di circa cinquanta programmi, ho notato nette differenze. Il corpo perfetto è ambizione di tutte e tutti, il processo necessario a ottenerlo è valorizzato come trasformazione e miglioramento del sé per tutte e tutti – Berlusconi incluso – ma la motivazione ultima è gender sensitive, per così dire, e viene descritta in termini diversi a seconda del sesso. Che si tratti di cambiare solo il guardaroba o piuttosto la fisionomia del setto nasale e la distri-buzione dell’adipe, quando il soggetto è donna – nella maggioranza dei casi – il

18 Vi è, naturalmente, differenza fra il lettore implicito/modello e il lettore empirico di un testo, e niente può essere sostenuto a proposito dei percorsi interpretativi e della effettiva lettura sviluppata dal secondo – in questo caso le spettatrici della makeover television – in mancanza di un’analisi della ricezione o di un’etnografia del pubblico. Tuttavia, richiamando il fondamentale insegnamento di Stuart Hall in Encoding and Decoding in Television Discorse (1973), giacché la polisemia – caratteristica di tutti i testi – è diversa dal pluralismo, «la percezione raramente è così personale e privata» (Moores 1998, 37): vale dunque la pena di esplorare le «letture preferite», privilegiate dal testo e codificate in base all’ordine culturale dominante.

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suo obiettivo viene descritto dal presentatore o dal chirurgo in questi termini: «per sentirsi donna»; e d’altronde, l’interessata così consegna la sua percezione del risultato: «questo intervento mi ha restituito la mia femminilità»19. Degli uomini si dice invece che vogliono «sentirsi normali», se l’intervento è di tipo ricostruttivo, oppure «più sicuri di sé», se è un intervento estetico o una dieta: in nessun caso si dice che «vogliono sentirsi uomini». La virilità non è mai in discussione, la femmi-nilità al contrario non è mai scontata, e deve essere perennemente (ri)conquistata e ribadita attraverso il lavoro del e sul corpo. L’esperienza «empowering» di un io autentico, finalmente liberato da difetti fisici e relative oppressioni psicologiche, così comune nelle narrative di tutti i protagonisti della makeover, per le donne si riduce alla percezione di appartenere finalmente (!) alla «categoria sociale imposta al loro corpo sessuato»20. In altri termini, l’identità che si vuole riconquistare e in cui si vuol essere riconosciute dagli altri è soprattutto l’identità di genere.

A questo proposito, le elaborazioni prodotte nell’ambito dei Cultural Media Studies inglesi hanno da tempo messo in evidenza una relazione a mio giudizio illuminante: la costruzione di genere realizzata nei programmi della makeover television (ma evidente anche nella cosiddetta «chick lit» e nelle serie TV e film che ne sono trasposizione)21 rivela la profonda coerenza tra e neoliberismo e postfemminismo, accomunati dall’enfasi sulla libera scelta individuale da un lato e sulla (auto)disciplina dall’altro22. Le ambivalenze della retorica della makeover divengono infatti nel caso delle donne addirittura paradossali. In una rivisitazio-ne del principio dell’autodeterminazione in chiave del tutto postfemminista, le donne sono celebrate come soggetti autonomi e liberi di scegliere: di eliminare gli inestetismi della cellulite, le disfunzioni emotive dalla relazione con partner e figli, gli abiti out dal guardaroba, unica strada per potersi «riprendere la propria vita». E divenire finalmente una madre, una padrona di casa, una donna perfetta, o, semplicemente una vera donna.

Al contempo, la soggettività, forse addirittura la condizione femminile, è rappresentata come «luogo» dell’insicurezza, perennemente a rischio di fallimento in ogni sua area, persino sul piano dell’identità di genere. Lo schema narrativo

19 La prima è una dichiarazione della chirurga Fiorella Donati in Plastik, puntata del 06/06/12; la seconda proviene dal promo di Diario di un chirurgo, http://www.realtimeTV.it/blog/2011/01/06/diario-di-un-chirurgo/ (09/01/12).

20 Così Joan Scott ha definito la nozione di genere (1996, 314).21 La «chicken literature» definisce la contemporanea letteratura per ragazze, rappresentata da romanzi

come Bridget Jones di Helen Fielding, I love shopping di Sophie kinsella, Sex and the city di Candace Bushnell (e relativi sequel da milioni di copie). In Giomi (2012) ho analizzato questi prodotti, mostrando come alcuni degli elementi della sensibilità postfemminista che in essi trovano espressione caratterizzino anche le serie televisive di tipo poliziesco diffuse in Italia.

22 «Il soggetto autonomo, calcolatore, self-regulating del neoliberismo presenta una forte somi-glianza con il soggetto attivo, che sceglie liberamente e si reinventa del postfemminismo» (Gill 2007, 164). Rosalind Gill, che qui individua per la prima volta questa affinità, metterà definitivamente a punto la sua esplorazione dell’intima relazione tra soggettività femminile, per come è costruita nel discorso della cultura mediale postfemminista, e le relazioni sociali del neoliberismo (in Gill et al. 2011).

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normalmente adottato negli show è emblematico: dapprima le donne vengono assecondate nella loro percezione di inadeguatezza o messe in allarme (per non dire in ridicolo, come accade in alcune trasmissioni) circa il proprio guardaroba, stile pedagogico, igiene e aspetto della casa, modello di relazione con il part-ner, e, naturalmente aspetto fisico; quindi vengono «rieducate» a intervenire su ciascuno di questi aspetti e seguite nel percorso che le porterà ad una versione maggiormente di successo di se stesse; in alcuni casi, infine, sono lasciate libere di «camminare con le loro gambe», sotto l’occhio vigile della telecamera e quello giudicante degli esperti, che le osservano alle prese con lo shopping, un appun-tamento romantico o la passeggiata al parco con i figli… pronti a intervenire e stigmatizzare ogni passo falso.

Questi programmi veicolano dunque modelli femminili estremamente tra-dizionali, ma soprattutto richiedono e producono soggetti docili e disciplinati23. L’azione disciplinatoria si rende massimamente visibile sul piano del corpo, e, se non risparmia gli uomini, al femminile si declina in forme molto più angoscianti: affrancate dai divieti del veterofemminismo, le donne sono «libere di essere belle», ma al contempo il loro corpo non è mai stato sottoposto ad un regime di continuo monitoraggio e ostile sorveglianza come adesso. Una «norma dell’esposizione», secondo Annalisa Verza, che «richiede che il femminile si esponga, e soprattutto che sappia di doversi sottoporre, allo sguardo e al giudizio altrui» (2009, 65). Come in qualsiasi progetto pedagogico, anche in questo caso, è l’interiorizzazione della norma a decretarne il successo. Sono infatti il proprio sguardo e il proprio giudizio che le donne imparano a esercitare continuamente su di sé, inconsape-voli o dimentiche che quello sguardo, come la norma sociale, è eteroprodotto. Gill – che analizza questo passaggio nelle forme della sessualizzazione femmi-nile come emblematico della «sensibilità postfemminista» espressa in molta parte della cultura mediale contemporanea – nota come esso corrisponda a un cam-biamento delle forme in cui opera il potere: «dallo sguardo maschile, giudicante e esterno, a uno sguardo narcisistico e di auto-regolamentazione (self-policing) […]. Ragazze e donne sono dotate di agency a condizione che questa sia usata per costruirsi come soggetti che rispecchiano la fantasia maschile eterosessuale della pornografia» (Gill 2007, 152). Con la conseguente costituzione di un nuovo regime disciplinare e di una «continua censura – per citare ancora Verza – del corpo naturale (il corpo «fatto da donne») in favore degli standard cosmetici e chirurgici del corpo «fatto da uomini» (2009, 66).

Dagli anni ottanta in poi, la costruzione del femminile in televisione ha seguito un’evoluzione intrinsecamente coerente. Se Drive in normalizzava la

23 Per un’interessante applicazione delle categorie, elaborate da Foucault in Surveiller et punir. Naissance de la prison (1975) alla makeover television, si veda Heyes (2007), che analizza il programma Extreme Makeover come contemporanea manifestazione del processo di «normalizzazione».

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sguardo erotico maschile sulle donne e ne inaugurava la riduzione a feticcio sessuale, i casting dei programmi successivi – da Non è la rai, Veline, La pupa e il secchione fino ai makeover show – restituiscono il senso della trasformazione compiutasi nel frattempo, gremiti come sono da donne e ragazzine che hanno definitivamente interiorizzato tale sguardo e sono ansiose di divenire feticcio. Tutte loro aderiscono completamente al modello, senza, cioè, neppure quel residuo di ironia e consapevolezza della performance che ogni tanto affiorava nelle movenze volutamente esagerate e caricaturali delle ragazze fast-food. E, paradossalmente, sono pronte a rivendicare tale adesione come espressione della libertà di scelta. È anche per questa via che il femminismo ha finito per svuotarsi di senso e divenire discorso egemonico (postfemminsimo, appunto) perfettamente integrato alle esigenze di mercato (Power 2009), e che la televisione ha costituito, perlomeno in Italia, il veicolo essenziale del contrattacco alle sue conquiste e istanze originali (Campani 2009, 83).

5. Il corpo delle donne «prima/dopo» la fine di Berlusconi

Drive in, naturalmente, non è nato dal nulla; anzi, si è innestato, radicalizzandone i tratti, sull’iconografia inaugurata dalla TV privata locale. Nemmeno i programmi della makeover television, benché arrivata in Italia soprattutto grazie alle politiche editoriali del network Mediaset, sono da considerarsi «prodotti tipici» e esclusivi di quelle reti: costituiscono declinazione locale di format globali, prevalentemente prodotti in USA e in Uk ma ampiamente radicati nei palinsesti delle TV e nelle abitudini di consumo del pubblico di tutto il mondo. Anche in Italia, la quota di makeover television è infatti significativa nella programmazione di tutti i canali televisivi domestici, generalisti e non.

Allo stesso modo, non sarà difficile notare come il modello femminile e di rapporto fra i sessi fino a ora discusso sia circolato ben oltre il dominio te-levisivo. Prendendo rapidamente in esame altri comparti della scena mediale, ora che il regime berlusconiano è caduto, non si ha la sensazione che «il vento sia cambiato»: questo era lo slogan scelto dalla federazione romana del PD nel giugno 2011 per promuovere la festa dell’Unità, che così preconizzava la rin-novata temperie culturale e politica promessa dai tentennamenti del governo Berlusconi, travolto da scandali sessuali. Il manifesto ritraeva una gonna tutta rosa alzata dal vento e trattenuta con gesto pudico ma non sufficiente a impedire la vista di due gambe femminili: con involontaria ironia antifrastica, mostrava che non troppo stava cambiando, in realtà, perché usava lo stesso espedien-te – benché declinato in forma sicuramente meno volgare e più «cult» – delle pubblicità di crociere, mutui o junk food. Tutti invariabilmente sponsorizzati da pezzi di corpo femminile.

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Ad impegnarsi particolarmente nella documentazione e denuncia del sessismo dei messaggi promozionali è «La réclame», video rubrica settimanale ospitata dal sito di «L’Unità»24. Si tratta dello stesso quotidiano che descriveva la sua nuova linea editoriale – inaugurata dalla direzione di Concita De Gregorio – con aggettivi quali «libera», «intraprendente», «bella», «indipendente», «impegnata», «forte»… purché in possesso di un sedere giovane da valorizzare adeguatamente con minigonna jeans, come quello che campeggiava sotto le scritte in questione nei manifesti della campagna pubblicitaria. Praticamente, lo stesso messaggio finto-emancipazionista o postfemminista di Sex and the city: sei libera di sce-gliere, hai le stesse opportunità di formazione, carriera e reddito degli uomini, ma devi essere giovane, bianca, abbiente e soprattutto, diciamolo, «gnocca»: «se sei racchia e fai schifo te ne devi stare a casa», verrebbe da concludere, citando l’escort Terry De Nicolò, lanciata in un’apologia del valore della bellezza e della filosofia berlusconiana. Quando la trasmissione televisiva L’ultima parola (Rai-due) intervistava Terry De Nicolò era il 16 settembre 2011 e quel video avrebbe raggiunto quasi un milione di visualizzazioni su youtube25.

Mentre scriviamo, da allora sono passati quattro mesi. Nel frattempo Berlu-sconi è uscito di scena, ma tutto prosegue come sempre: sulla colonna di destra di Repubblica.it, ad esempio – uno dei quotidiani più impegnati nella crociata contro il Cavaliere, nonché fautore di petizioni in difesa della dignità delle donne come quella «Contro il machismo di Berlusconi»26 – continua indisturbata la solita passerella di volti femminili perfetti, calendari di star e seni, preferibilmente (e orgogliosamente) «siliconati»; su «L’Espresso» a vendere beni di lusso sono anco-ra bocche femminili semiaperte e fanciulle ammiccanti e anoressiche, mentre sugli schermi di Che tempo che fa (Raitre), adusi alla stigmatizzazione della TV berlusconiana, Filippa Lagerback oggi come ieri rimane sostanzialmente muta. Però è ancora bella e snella. Al contrario, fuori da Velone (Canale 5) e fuori dal travestitismo di Platinette, in televisione una signora in carne e attempata non si è mai vista, tanto meno nell’ambito del giornalismo, dove invece il pur non esile Ferrara ha (giustamente, da questo punto di vista) pieno diritto di cittadinanza: le giornaliste che appaiono in video su tutti i canali, inclusi quelli di servizio pubblico, continuano a essere significativamente più belle e giovani dei loro colleghi maschi.

Dopo Berlusconi arriva Monti: sulla scia della manifestazione del 13 febb-braio 2011 e del «risveglio» delle donne indignate27, editoria e opinione pubblica

24 http://www.unita.it/donne/i-la-reclame-i-caccia-br-alle-pubblicita-sessiste-1.270090 (13/01/12).

25 Al 09/01/12.26 Così si intitolava quella lanciata da Marzano, Spinelli e Urbinati in seguito all’appellativo di «più

bella che intelligente» attribuito da Berlusconi a Rosy Bindi nell’ottobre 2010.27 Faccio riferimento alla manifestazione «Se non ora, quando?», che ha portato in piazza un milione

di donne, e alle successive iniziative promosse dal movimento così costituitosi.

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di sinistra, quando il governo non è ancora costituito, gridano in coro «ma come, una sola donna!». Le donne si rivelano invece tre, numero statisticamente suffi-ciente, evidentemente, per tirare conclusioni sulla nuova immagine femminile in politica. A costituire motivo di scontento o di apprezzamento delle ministre è anche il loro look, che stampa e opinione pubblica vagliano attentamente, come se si trattasse di incoronare la regina di Shopping Night: tacchi (bassi), tailleurs (impeccabili) e persino accessori (fili di perle) divengono argomentazioni a fa-vore o contro le tre, alternativamente – e con un effetto in ogni caso normativo – lodate perché opportunamente «sobrie»28, secondo le convenzioni del decoro borghese, oppure accusate di «abbandonare tutti gli elementi che potrebbero esaltare la loro femminilità»29 e quindi dipinte come «vecchie zie»30, a omaggio dell’equazione giovinezza=bellezza evidentemente diffusa ben oltre i confini dei reality shows. Lo è anche la «norma dell’esposizione» di cui parlavamo: l’abitudine allo sguardo giudicante sul femminile non distingue tra destra e sinistra ma senza dubbio appare interiorizzata dalla donne, cui si devono la maggior parte di questi commenti. Nessun interesse, invece, per cravatte e calzature degli uomini del Governo Monti (tolto Berlusconi, pochi anche su quelli del suo, a differenza delle meticolose osservazioni cui erano sottoposte ministre e parlamentari).

Un ultimo esempio, di questa carrellata che non ha naturalmente nessun valore statistico ma solo provocatorio, riguarda il sistema di scambio sesso-politica che – questo sì – ha senza dubbio costituito uno dei tratti specifici del regime berlusconiano. Esaminiamo i termini usati per definire tale sistema: «puttanopoli» (nel sottotitolo del volume di Peter Gomez et al. 2009), i numerosi «vallettopoli» e «velinopoli» abbondantemente circolati sulla stampa di sinistra (da «Repubblica» a «L’Espresso», a «il Fatto Quotidiano», ecc.), persino «mignottocrazia», titolo del libro di Paolo Guzzanti (2010). Alcuni di questi termini sono completamente privi di un referente empirico (non esiste, evidentemente, nessun «governo delle mignot-te») e in ogni caso tutti rivelano quanto sia mistificatoria la concettualizzazione del sistema cui si riferiscono: dire «puttanopoli», come dire «mignottocrazia», così come dire Rubygate, Noemigate, Patriziagate significa infatti spostare l’attenzione dall’utilizzatore finale all’oggetto – perché tale è – dell’utilizzo. Significa compiere la stessa operazione delle recenti ordinanze amministrative e decreti legislativi

28 Così Mario Ajello, Al Colle la festa low profile della squadra dei professori. Moavero va via a piedi, signore in tailleur e tacchi bassi, in «Il Messaggero», 17/11/11; così anche l’articolo apparso sul sito Arcidonna, Tacchi bassi e profili alti. Congratulazioni a Anna Maria Cancellieri, Paola Severino e Elsa Fornero, http://www.arcidonna.org/index.php/donne/donne/tacchi-bassi-e-profili-alti-congratulazioni-a-annamaria-cancellieri-paola-severino-e-elsa-fornero.html (09/01/12).

29 Redazione, La misoginia dei poteri forti che piace tanto alla sinistra, in Il corriere.it, 14/11/11, http://www.ilgiornale.it/interni/la_misoginia_poteri_forti_che_piace_tanto_sinistra/14-11-2011/articolo-id=556822-page=0-comments=1 (09/01/12).

30 Si veda l’articolo di Annalena Benini, Il governo dei tacchi bassi. Con i tecnocrati al potere, un pesante sipario di velluto verde scende sulla frivolezza di Palazzo, in Il foglio.it, 21/11/11, http://www.ilfoglio.it/soloqui/11261 (09/01/12).

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con cui si multano e dunque si criminalizzano31 non solo i clienti ma anche – nel caso di queste definizioni unicamente – le prostitute.

Non sto sostenendo che le veline, vallette o mignotte in questione siano vittime, si badi bene: notoriamente, molte delle escort coinvolte negli scandali sessuali hanno rivendicato questa professione come scelta consapevole, ma certo il potere contrattuale connesso alla loro posizione – che la si voglia interpretare come espressione di quel diritto di autodeterminazione promosso dal femminismo o che la si concepisca al contrario come illusione emancipazionista nata da una malinterpretazione delle sue istanze – è ben ridotto rispetto a chi detiene le fila del sistema di potere erroneamente chiamato, appunto, mignottocrazia e a chi manovra le leva dell’intero business politico-mediatico-economico etichettato come puttanopoli. A irritarmi è soprattutto il fatto che a usare questi termini, dettati da una prospettiva complessivamente maschiocentrica – se non vogliamo dire maschilista – al pari di quella del regime che si propongono di analizzare e criticare, siano e siano stati intellettuali, opinionisti, e giornalisti di sinistra (in genere uomini) oppure neo-detrattori di Berlusconi. Come Guzzanti, che apre il suo libro con un messaggio di amore alla figlia Sabina appena nata e a cui pro-mette «un mondo migliore dove si rispetti la donna».

Senza nulla togliere all’importanza di disamine e indagini sul peculiare in-treccio tra sesso e potere di cui Berlusconi è stato massimo interprete, mi preme ricordare che, se le verità messe a nudo da questo intreccio non sono «affari pri-vati» – posizione invece condivisa anche da parte dell’opposizione32 – nemmeno il declino del Berlusconismo è un «affare di donne» (Chiurco 2011, 11). Concepire in questi termini – in fondo partecipi della stessa logica sottostante a puttanopoli e mingottocrazia – il suo sistema di potere, al fine di screditarlo, significa in realtà riprodurne il funzionamento: come Berlusconi e la sua corte usano le donne, con il loro consenso, nei modi ormai noti, ugualmente i suoi detrattori usano il corpo e la sessualità femminile come dispositivo di potere da agitare contro quel singolo individuo e contro quel singolo regime. Dimenticando che le mignot-te, da sempre, esistono perché esistono i mignottari, e impigliando lo sguardo nell’epifenomeno, sotto cui continuano a giacere irrisolte le sue cause profonde, legate alla sessualità, all’identità maschile e al rapporto del maschile con il potere; legate, insomma, alle strutture simboliche e materiali del patriarcato.

Scriveva Carla Lonzi nel 1970: «qualcuno conta sull’entusiasmo neofita delle donne per far rientrare la crisi della società maschile: si concede loro di riempire quei medesimi ruoli e si fa apparire questa manovra come il risarcimento dovuto alla loro esclusione da sempre, una vittoria del movimento femminista» (2010, 29).

31 Un’analisi di questi provvedimenti in Simone (2010, 70-72).32 Si vedano su questo I. Dominianni, Tecniche di eliminazione di una donna, in «il manifesto»,

08/05/09 e Il fantasma dell’impotenza, in «Alias», 05/02/11.

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Il Berlusconismo sarà anche stato il più maschilista dei poteri, ma se a essere in crisi è un’intera società, e se lo è perché è una società pensata e gestita dagli uomini, immagino che l’uscita di scena di Silvio Berlusconi non significherà l’avvento di un diverso e più equilibrato ordine delle relazioni di genere; né ci salverà una politica delle pari opportunità, se parallelamente non vi è una riflessione delle donne sulle donne, mirata a decostruire lo sguardo eteroprodotto che esse hanno interiorizzato, le forme in cui si è plasmata la loro soggettività e le logiche attraverso cui erano e sono cooptate entro la rappresentazione televisiva come entro i ruoli di potere. Per parte loro gli uomini forse dovrebbero smettere di preoccuparsi del rapporto tra Berlusconi e le donne e iniziare a interrogarsi invece su quello tra (post)Berlusconi e gli uomini. Anch’essi, come le donne, partendo da sé.

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