CRISTIANI NELLA TERRA DEI MAGI

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Il cristianesimo nella terra dei Magi di Furio Cappelli Nel 1623 un illustre cinese di fede cristiana, Li Chih-tsao (noto ai Gesuiti dell’epoca con il nome di Dottor Leone), fece una sensazionale scoperta. Alla periferia della città di Xi’an, laddove sorgeva Chang’an, antica capitale del Celeste impero, riportò alla luce una stele di pietra alta più di due metri, con un lunghissimo testo articolato in 1773 ideogrammi cinesi. L’opera era stata realizzata nel 781 d.C., sotto il regno dell’imperatore Dezong (779-805) della celebre dinastia Tang (681-906). Di primo acchito poteva sembrare una di quelle tipiche stele monumentali che venivano erette in gran numero per celebrare personaggi ed eventi della storia dell’antica Cina. Il museo che proprio a Xi’an conserva questa e le altre stele superstiti, insieme a sculture di vario genere, ha una collezione così ampia (circa 3 mila pezzi) da meritare il nome di Foresta di Stele. Ma quella scoperta dal Dottor Leone aveva due particolarità che le altre non avevano affatto. I draghi che si avviluppano alla sommità, in perfetta simmetria, avvinghiati a una perla infuocata centrale, rientrano fra le consuetudini iconografiche e decorative più radicate della cultura dell’estremo Oriente: basti pensare ai draghi che si contrappongono ai lati del famoso stendardo funebre di Mawangdui (II sec. a.C.). E proprio nel mezzo di quei favolosi esseri, al di sotto della perla, si insinua una croce, incisa in modo quasi sfuggente tra le poderose spire a rilievo dei draghi. E nel campo dell’iscrizione, specialmente in basso, si insinuano alcune righe di corredo incise in siriaco, con le lettere dell’alfabeto aramaico: si tratta di singoli paragrafi e di una lista di oltre 70 nomi. Le lettere in uso tra le popolazioni di un lontano paese “occidentale” (tale è la Siria nell’ottica della Cina) e l’inconfondibile croce cristiana, sembrano davvero fuori luogo, a prima vista. Ma poi, leggendo il testo della stele, si comprende perfettamente il loro senso. Essa, infatti, parla di cristiani in terra cinese. Ne racconta in dettaglio le vicende e le convinzioni. Il cristianesimo è definito nel titolo «la religione della pura luce». Il redattore, missionario, prete-monaco e «papa» dei cristiani cinesi, viene dalla Persia e si presenta sotto una duplice veste. Il suo nome di battesimo è Adam, come attesta la dicitura in siriaco, ma i cinesi lo chiamano Ching-ching. Traccia un profilo sintetico della sua dottrina, e, quando giunge a trattare dell’Incarnazione, ricorda che una stella annunciò la nascita del Salvatore, così come è attestato nel celebre passo del Vangelo di Matteo (2, 1-12). I Persiani, scorgendo lo splendore dell’astro, capirono cosa stesse a significare e vollero rendere omaggio al Signore recandogli dei doni. Matteo parla in modo generico di “magi” venuti dall’Oriente, nell’intento di registrare una immediata risonanza universale dell’evento, ma Adam/Ching-ching parla in modo determinato di “Persia”, e sembra quasi intendere che l’autorità sovrana di quel Paese predispose un’ambasceria ufficiale. La visita al Bambino di Betlemme non sarebbe stata frutto dell’iniziativa individuale di sapienti conoscitori del divino, ma sarebbe scaturita dalle alte sfere della casta sacerdotale dell’impero, l’unica che poteva esprimersi in materia religiosa in nome della Persia e del suo sovrano. La “Persia” a cui il redattore della stele si riferisce, sia essa la Persia partica (erano i Parti a reggere l’Eranshar, il regno iranico, all’epoca della nascita di Cristo), o piuttosto la Persia sasanide, aveva come religione dominante il mazdeismo, di cui Zarathustra (o Zoroastro) era il profeta. Divenuta religione di Stato sotto i Sasanidi, la dottrina mazdea aveva in comune con il cristianesimo la credenza in un Salvatore dell’umanità che sarebbe comparso sulla scena alla fine dei tempi. Come evidenzia Antonio Panaino, anche il Salvatore persiano sarebbe stato messo al mondo da una vergine, e, con la rinascita dei defunti e la rigenerazione dell’universo, avrebbe decretato la vittoria finale del dio supremo Ahura Mazda sulle tenebre. Non c’è allora da stupirsi se il Vangelo arabo dell’Infanzia, un apocrifo elaborato in Siria alla metà del VI secolo, riconosca esplicitamente in Cristo il Salvatore profetizzato da Zarathustra. Dal canto suo, Adam/Ching-ching, suggestionato da un simile sincretismo di idee e di immagini religiose, era convinto che la “sua” Persia avesse riconosciuto in Cristo il proprio Salvatore. Quando passa a illustrare la Redenzione, il prete persiano evoca il trionfo del Cristo-sole luminoso sulle potenze delle tenebre, al modo in cui un fedele mazdeo rappresenterebbe lo scontro finale tra Ahura Mazda e il malefico Ahreman.

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Verso la Cina, a bordo di una nuvola Nella stele di Xi’an, Adam/Ching-ching rievoca dettagliatamente la storia della missione cristiana in Cina. Il punto di partenza è dato dalla venuta del persiano Aluopen nell’anno 635. Sceso da una nuvola risplendente, fu ricevuto a corte con un carico di ricchi doni in omaggio all’imperatore Taizong (626-649), che lo accolse con grande onore. Tre anni dopo, il sovrano emise un decreto, riportato per intero nella stele, proprio in onore di Aluoben, in seguito Gran Signore della Legge e Guardiano del Regno. Dopo la traduzione in cinese, gli fu concesso di depositare nella biblioteca imperiale i libri sacri che aveva con sé. Ebbe il permesso di costruire un quartiere e un monastero per i propri correligionarii proprio nella capitale Chang’an, nello spazio occidentale fittamente frequentato dai mercanti, dai diplomatici e dai viaggiatori che giungevano alla città della “pace eterna”, al capo estremo delle piste carovaniere che attraversavano le oasi dell’Asia centrale. In quello spazio la stessa stele faceva bella mostra di sé, e lì sorgeva il “mercato occidentale” cinto da proprie mura, specializzato nei prodotti di importazione dalla Persia, dalla Sogdiana, dall’India o dal sud-est asiatico, mentre il simmetrico “mercato orientale” era dedicato alle produzioni locali. Si ritiene che lo stesso Aluoben fosse in origine un mercante, e, quel che è certo, l’editto imperiale del 638 gli riconosce alte conoscenze dottrinarie e linguistiche, grazie alle quali svolse attivamente la sua funzione di missionario, rimanendo in Cina in pianta stabile. Lo stesso editto conferma che Aluoben aveva una qualifica di ambasciatore ufficiale. Come quei Persiani che andarono a rendere omaggio al Salvatore, egli si fece interprete e propagatore del messaggio divino, in modo che il sovrano cinese divenisse depositario della luce della Rivelazione. I Gesuiti, che nutrivano grandi propositi di evangelizzazione dell’estremo Oriente, sull’onda della missione intrapresa a Canton da padre Matteo Ricci nel 1583, accolsero con grande giubilo la notizia della scoperta della stele di Xi’an. Essi però sorvolarono su un fatto essenziale. Quei cristiani giunti in Cina non erano missionari dell’ortodossia, erano eretici. Se li avessero avuti davanti agli occhi, li avrebbero guardati con fredda supponenza. Quei cristiani della Persia erano infatti nestoriani o, per essere più precisi, duofisiti. Non aderivano alle conclusioni del concilio di Calcedonia (451), preferendo riconnettersi ai dettami della scuola siriaca di Antiochia, con particolare riguardo al pensiero del suo «capo» Teodoro di Mopsuestia. Non erano quindi per nulla convinti della consustanzialità di Cristo, del fatto cioè che in lui l’elemento divino e l’elemento umano fossero fusi nel profondo del suo essere. Per i duofisiti, come indica lo stesso termine che li designa, due erano le nature di Cristo, unite sì ma in un senso morale, essenzialmente distinte. La divinità si era unita all’uomo per un atto di compiacenza nei suoi riguardi. E i duofisiti si erano arroccati su questa interpretazione anche per rivendicare un’autonomia e un’autorità propria, sin dal 486. La loro fu l’unica voce del cristianesimo in estremo Oriente per almeno sette secoli, finché, all’epoca di Marco Polo, non si fecero strada le prime missioni degli ordini mendicanti. Ma qual era l’origine di questa Chiesa persiana, così dinamica e intraprendente, e per tanti versi a noi ignota? Le informazioni al riguardo derivano per lo più da racconti elaborati in epoca tardiva, per ricollegare gli episcopati del mondo iranico alle fonti stesse del messaggio cristiano. Era d’altronde piuttosto credibile che le terre a est della Palestina fossero tra le prime a conoscere la Rivelazione. Si creavano così liste di katholikoi (i vescovi-patriarchi della capitale Ctesifonte, dal V secolo rappresentanti della «Chiesa siriaca d’Oriente») i cui primi nomi si riconnettevano alla predicazione di san Tommaso, l’apostolo dell’India. Erano in lista anche parenti di Gesù, oppure apostoli dell’illustre sede siriaca di Edessa o i loro più antichi discepoli. Le Scritture stesse erano chiare su due punti. Come risulta dagli Atti degli Apostoli (2, 9-11), la buona novella si diffuse anche presso «Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia». E mentre gli scribi e i sapienti del Tempio ebraico di Gerusalemme si rifiutavano di riconoscere l’avvento del Messia, proprio dalla Persia erano giunti i magi evocati da Matteo. Quel che è certo, il primo vescovo attestato a Ctesifonte è Papa bar Aggai, morto intorno al 325, successore di quel Mari che, formatosi alla predetta scuola di Edessa, era partito alla volta della Persia e aveva evangelizzato molte città, finendo per essere annoverato tra i diretti seguaci di san Tommaso.

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Nel tentativo di far riconoscere al suo episcopato la qualifica di sede egemone della Persia, come diretta emanazione della Chiesa siriaca, Papa bar Aggai aveva incontrato tenaci resistenze. Nel corso di un sinodo piuttosto animato, prese la parola chiamando a testimone il Vangelo, e proprio in quel mentre, per la gioia dei suoi oppositori, fu colto da una paralisi. Dopo i marosi della persecuzione ordita tra il 339 e il 379 dal tremendo re Shapur II (309-379), nel 410 si posero le fondamenta identitarie e organizzative della Chiesa della «Siria orientale», grazie al sinodo indetto a Seleucia Nuova, di fianco a Ctesifonte, alla presenza del sovrano Yazdgard I (399-421), che fungeva da presidente dell’assemblea. Gli organizzatori erano il presule locale Isacco e il suo collega romano Maruta, che presiedeva Martyropolis (corrispondente alla città turco-orientale di Silvan), importante diocesi di confine. Lo stesso Maruta, a quanto pare, si era guadagnato le simpatie del re grazie alle sue arti mediche. Lo aveva guarito da una grave malattia. E non è il solo cristiano che fece breccia nell’animo dei sovrani sasanidi grazie a brillanti competenze in fatto di medicina o di profezie. L’abate Jérôme Labourt, il grande storico della Chiesa persiana, ha paragonato il sinodo del 410 al ben più celebre concilio di Nicea (325), presieduto da quel Costantino Magno che aveva giocato un ruolo di apertura e di distensione nei riguardi del cristianesimo, in modalità simili a quelle messe in atto da Yazdgard nella capitale del suo impero. D’altronde le risoluzioni di Nicea furono richiamate di continuo nel corso dei lavori, e fu evidente un’opera di ricongiungimento con i «Padri occidentali». Come l’Impero romano, dopo la Grande persecuzione di Diocleziano, anche la Persia usciva da lunghe fasi di ostilità nei riguardi dei cristiani, e le parole del re acquisite agli atti della solenne assemblea, laddove egli assicura la cessazione di ogni ostilità, la restituzione di ogni bene e il restauro degli edifici cristiani danneggiati dallo Stato, possono suggerire un parallelo con l’editto di Milano del 313. Di sicuro il sovrano della Persia era stato in buoni rapporti con l’imperatore romano d’Oriente Arcadio (395-408), di cui aveva adottato il figlio Teodosio (che salirà al trono come Teodosio II), e l’affermarsi di una Chiesa della Persia aveva anche un’implicazione politica, poiché serviva ad arginare la fascinazione del mondo romano su ampie fasce della popolazione. I cristiani infatti guardavano con invidia i confratelli che di là del confine dell’impero potevano liberamente professare la fede, divenuta per giunta, con Teodosio I, religione di Stato (380). Yazdgard voleva guadagnarsi le loro simpatie, e cercava di allinearli ai dogmi e ai modelli organizzativi della Chiesa «cesaropapista» di Roma, in modo da acquisire un ruolo di leader della cristianità, in chiara competizione con l’Impero romano d’Oriente. Il disegno di Yazdgard era però destinato a fallire su tutti i fronti. Il clero mazdeo guardava con orrore l’opera avventata di questo «eretico» e «peccatore», che si era messo al servizio di una fede che disconosceva i fondamenti religiosi dell’autorità dello Stato. Come se non bastasse, aveva anche sposato un’ebrea, il che trasgrediva la buona regola che imponeva ai sovrani e ai nobili di contrarre matrimonio solo con donne di fede mazdea. Ma anche i cristiani erano insoddisfatti. Proprio ora che la loro posizione era legittimata dallo Stato, fomentarono discordie interne e dettero luogo a temerari gesti plateali contro i simboli della fede nemica. Di fatto, come già ai tempi di Papa bar Aggai, non tutti i vescovi accettavano che il presule di Seleucia-Ctesifonte, insediato presso la residenza invernale del re, si ergesse a loro capo indiscusso. Vi erano anche posizioni ostili al ricongiungimento con la Chiesa romana, con le imposizioni che questo comportava sul fronte dottrinale, tant’è che nel 424 si giunse a una frattura definitiva. L’ostilità verso la fede mazdea derivava sia dalle ferite ancora aperte delle persecuzioni patite, allorché il clero mazdeo aveva agito da braccio armato del sovrano, sia dal fatto che proprio ora che i cristiani non erano più una minoranza bistrattata, volevano giocare lo stesso ruolo dei confratelli romani. Se questi ultimi erano tenuti in pianta di mano in ogni settore della società, avendo per giunta ottenuto la definitiva messa al bando degli dei «falsi e bugiardi», perché mai in Persia i fuochi sacri del «paganesimo» ardevano ancora indisturbati? Si poneva questa domanda, ad esempio, il prete Hashu della città di Hormizd-Ardashir, nell’antica Susiana (Iran occidentale). Nel 420, forse su istigazione e comunque con il consenso del vescovo locale Abda, egli distrusse il pireo ossia il tempio mazdeo che racchiudeva il fuoco sacro, reo di sorgere troppo vicino alla cattedrale. Il grave atto «vandalico», denunciato a gran voce dai magi della città, determinò l’arresto dell’esecutore materiale, del vescovo e di alcuni loro parenti e correligionari, che furono poi deportati a Ctesifonte, al cospetto del re. Trattandosi di un tempio della religione di Stato, le accuse mosse agli inquisiti erano molto gravi, poiché il sacrilegio aveva comportato la distruzione di una

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proprietà sovrana e un affronto alla persona del re. Il vescovo negò ogni coinvolgimento e prese le distanze, ma il prete Hashu con particolare veemenza si mostrò fiero dell’atto compiuto e si lasciò andare a giudizi oltraggiosi sulla fede mazdea. Non abbiamo un rendiconto completo del processo, ma sappiamo che nella fase finale fu chiesto al vescovo Abda di ricostruire il tempio, ma egli rifiutò sdegnosamente. A quel punto il re Yazdgard lo fece condannare a morte. Accanto a questi atti plateali del clero cristiano vi erano segnali non meno preoccupanti da parte della nobiltà persiana. Si diffondeva sempre più la tendenza ad abbandonare la fede mazdea a favore del cristianesimo, nonostante il fatto che l’apostasia di un nobile mazdeo era punita con la morte. Un caso esemplare è dato dalla vicenda che ha per protagonista il prete Shapur («figlio di re», nome tipicamente iranico). Egli convinse il nobile Adhufarnabagh a convertirsi al cristianesimo, e lo convinse anche a cedergli un terreno dove costruì una chiesa. Lo scandalo fu subito di dominio pubblico, ma il re volle evitare un arresto immediato dell’apostata. Grazie all’intervento del «capo dei magi», il mobadh Adhurboze, il nobile ritornò alla fede mazdea e richiese indietro il titolo di proprietà del terreno al prete Shapur. Istigato da un altro prete cristiano di nome Narsete, Shapur si rifiutò di restituire l’atto di cessione, e si allontanò senza lasciar traccia. La chiesa edificata sul terreno dell’apostata pentito, frattanto, fu convertita in un pireo. Ma un bel giorno il prete Narsete, come se nulla fosse, entra nell’ex chiesa, estingue il fuoco sacro, ammucchia in un angolo le suppellettili «pagane», e riallestisce l’altare cristiano celebrandovi messa. Viene subito arrestato e imprigionato. Visto il reiterato rifiuto di rimettere tutto a posto, viene condannato a morte. Messo di fronte al moltiplicarsi di simili situazioni, Yazdgard fu costretto a cambiare bruscamente rotta rispetto alla sua precedente strategia di distensione e di tolleranza. Fu così che ingaggiò il gran sacerdote Mihr-Narseh, nemico giurato dei cristiani, per contenere le loro intemperanze. Di nobile e potente famiglia, ricco al punto da poter vantare il soprannome onorifico di Hazarbandagh («colui che possiede mille schiavi»), Mihr-Narseh si riteneva discendente del semileggendario sovrano Ishtasp, il protettore del profeta Zarathustra, e svolse il suo ruolo di spauracchio dei cristiani con uno zelo indiscutibile, rimanendo a fianco dei due successori di Yazdgard I, il figlio Bahram V (421-439) e il nipote Yazdgard II (439-457). In particolare, Mihr-Narseh condusse di persona la guerra fallimentare che Bahram dichiarò nel 421 all’imperatore Teodosio II (lo stesso che il padre Yazdgard avava adottato), allorché il sovrano romano si era rifiutato di estradare un gran numero di cristiani della Persia – tra cui un consistente gruppo di preziosi minatori armeni – che erano emigrati in massa, grazie anche alla complicità degli arabi cristiani che militavano lungo la frontiera. Figlio di un’ebrea e di un protettore dei cristiani in pace con Roma, amico degli sceicchi lakhmidi che erano alleati della Persia e seguaci di Cristo, Bahram (il semileggendario Bahram Gur, «l’Asino selvatico») aveva agito per ragion di stato, esattamente come fu costretto a fare suo padre per esigenze di «ordine pubblico», e dovette essere ben lieto di intavolare le trattative di pace del 422, con la riconferma della pace verso i cristiani stipulata dal suo stesso padre nel 410. Il gran sacerdote Mihr-Narseh, tornato all’attacco dei cristiani, guadagnò poi una vittoria sotto Yazdgard II, nel 451, al culmine di una poderosa campagna di conversione forzata degli Armeni, in maggioranza cristiani e per giunta filobizantini. Il mazdeismo non ebbe però facile vita in quella terra aspra e orgogliosa. La Persia fu sconfitta nello scontro finale contro la guerriglia condotta abilmente dal fiero Vahan Mamikonean, che sfoggiò un’intransigenza esemplare nel trattato di pace del 484: non solo il mazdeismo veniva rifiutato come religione di Stato, ma veniva bandito dall’Armenia come dottrina fuori legge, e tutti i pirei furono di conseguenza abbattuti. In tal modo i cristiani adottarono gli stessi atteggiamenti oltranzisti che rimproveravano ai propri persecutori. A parte comunque questi episodi di virulenza, legati peraltro a contingenze prettamente politiche, il cristianesimo si era ormai definitivamente inserito in seno alla Persia, e le pene capitali a carico dei cristiani non arrivarono mai a cifre paragonabili a quelle della persecuzione di Shapur II, che mieté, nell’arco di quarant’anni (339-379), 35 mila vittime. Lo scrittore e teologo cristiano Afraate, detto “il Sapiente persiano”, morto intorno al 345, ha paragonato Shapur a Diocleziano, il grande persecutore dei cristiani dell’antica Roma, e lo ha contrapposto a Costantino, «strumento della prosperità divina». Di fronte agli scenari di guerra che

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contrapponevano nel 337 la Persia e la stessa Roma, aveva vaticinato la vittoria di quest’ultima, anche perché Cristo era un cittadino romano, e avrebbe quindi determinato la sconfitta del tronfio sovrano iranico: «l’Impero (romano) non sarà conquistato, perché l’eroe il cui nome è Gesù sta venendo con il suo potere e il suo segno proteggerà l’intera armata dell’Impero». Una così dura contrapposizione frontale tra il re e i cristiani della Persia scaturiva da una precisa congiuntura. Costantino ha scritto una lettera a Shapur, tramandata da Eusebio di Cesarea, forse mai giunta a destinazione, in cui si raccomanda al sovrano della Persia di proteggere i suoi sudditi cristiani, e lo stesso Costantino scatena poi una «guerra santa» proprio contro Shapur, poco prima di morire (336), allorché lo shahanshah («il Re dei Re») mosse l’esercito contro il limes della Mesopotamia e contro l’Armenia. Lo scoppio della persecuzione si inserisce perfettamente nel quadro di questo conflitto. Shapur vedeva nei cristiani altrettanti paladini del suo nemico, e pretese in modo vessatorio una prova tangibile della loro lealtà alla corona. Quando le ostilità ripresero, con l’intervento di Costanzo II (337-361), figlio di Costantino, il re persiano si trovò in cattive acque per l’esiguità dei fondi che aveva a disposizione. Era l’occasione giusta per mettere in atto le sue ritorsioni. Convocò dunque il vescovo di Seleucia-Ctesifonte, Simon Barsabba’e («figlio di tintori»), e gli ingiunse di avallare l’imposizione ai suoi fedeli di una tassa speciale a loro riservata, una doppia «capitazione», pari al doppio dell’imposta che ogni abitante (ogni testa) doveva versare alla corona. Se i cristiani non avessero fatto ciò, veniva confermata la loro natura di «amici di Cesare», e dovevano essere dunque perseguitati come nemici dello Stato, e le loro proprietà dovevano essere confiscate. Il presule, con cui Shapur aveva un conto personale in sospeso perché aveva convertito sua madre, si rifiutò di cedere al ricatto e fu quindi perseguito per lesa maestà. Mentre veniva condotto in catene per le vie della città, supplicò le guardie affinché gli evitassero lo strazio di passare di fronte alla sua cattedrale. Essa era stata infatti convertita in sinagoga, visto che gli Ebrei, ostili alla politica filocristiana di Costantino, si erano guadagnati le simpatie del Re dei Re. Di fronte al sovrano che gli rimproverava di adorare un dio che si era fatto uccidere su una croce, Simon ribatté che il sole adorato da Shapur era un’entità priva di intelligenza. Per convincere il vescovo a desistere e a convertirsi, Shapur fece una retata di circa cento religiosi cristiani e, un po’ alla volta, inducendoli senza successo all’apostasia, li mandò a morte. Ma Simon, definito dai magi «capo degli stregoni», non si piegò. E prima di essere ucciso dichiarò di non meritare affatto la punizione in qualità di suddito persiano, perché non aveva in alcun modo tradito il re. A ragione, egli sostenne che la sua sorte era solo determinata dal fatto di essere cristiano. Il che significava agli occhi di Shapur, non a torto, parteggiare per Roma, fino a invocare la sua invasione della Persia nel segno trionfale di Cristo, come si è visto in Afraate, che non esitava a paragonare i Persiani alla bestia dell’Apocalisse. Lo stesso Simon, d’altronde, era in rapporti di amicizia con Costante I (337-350), il figlio di Costantino che regnava sull’Italia e sull’Africa. Due decreti previdero la chiusura o la demolizione delle chiese, e si procedette a spron battuto contro un numero ingente di religiosi, costretti a scegliere tra l’apostasia e una morte crudele. Leggendo i racconti degli agiografi siriaci, fra processi, torture, condanne e supplizi, emergono figure eroiche di alti funzionari dello Stato e, addirittura, di sacerdoti mazdei, che non esitano a condividere il martirio con i cristiani, contagiati dalla loro inflessibile rettitudine. Non mancano d’altronde preti che si improvvisano carnefici per avere in cambio la libertà e la restituzione dei propri beni. La morte dell’Apostata Un grande risalto ebbe da subito la notizia della morte in Mesopotamia del grande imperatore Giuliano l’Apostata (360-363), proprio durante il regno di Shapur. Non si seppe con certezza se il giavellotto che ne causò la scomparsa fu lanciato da un soldato persiano o da un cristiano nelle fila dello stesso esercito romano, ma molti uomini di chiesa che avevano in odio l’«amico dei pagani» espressero un grande giubilo senza alcun ritegno. In tal modo essi gioirono della morte di un sovrano che in realtà non era affatto intollerante verso i cristiani, e videro nel suo uccisore lo strumento della volontà divina. È questa ad esempio la posizione dello storico Sozomene (prima metà del V secolo), che era anche ben informato sui martiri della Persia. Poco importava se Dio avesse eventualmente agito per mano di un soldato nemico, agli ordini di uno spietato persecutore dei seguaci di Cristo.

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Quando ormai le persecuzioni erano un lontano ricordo, la Persia divenne addirittura rifugio degli stessi cristiani. A seguito della chiusura della celebre scuola duofisita di Edessa, per decisione dell’imperatore Zenone (474-491), paladino dell’ortodossia, molti «eretici» valicarono il limes e dettero man forte alla nuova scuola di Nisibi (l’odierna Nusaybin, nella Turchia sud-orientale), che divenne una punta di diamante nel campo della teologia e dell’esegesi biblica. Altri centri di cultura nacquero sotto l’impulso dei duofisiti espulsi da Bisanzio, e quello di Gundeshapur si segnalò nel settore prettamente scientifico, sviluppando avanzatissime conoscenze di medicina. La Chiesa persiana arrivò a stabilire un dialogo con i mazdei sul tema del celibato, uno degli aspetti del cristianesimo che i magi guardavano con orrore. Il sinodo indetto dal katholikos Acacio nel 486 stabilì in un canone che solo i religiosi che vivevano in clausura potevano rimanere senza moglie, altrimenti era ben opportuno che i preti si sposassero e avessero dei figli, anzi, quest’ultima era addirittura indicata come condizione preferenziale. Il vescovo Barsauma, fondatore della scuola di Nisibi e ispettore alle truppe, si sposò, come atto di lealtà verso il sovrano, e prese in moglie una monaca di nome Mamai o Mamowai. In modo fin troppo plateale, si apriva dunque la via anche al matrimonio dei prelati, ma rimaneva salvo il divieto verso la poligamia e la pratica dei matrimoni tra consanguinei, che erano invece molto diffusi tra i mazdei, compresi gli stessi convertiti al cristianesimo. Più di ogni sovrano sasanide, Cosroe I (531-579) dimostrò un grande spirito di tolleranza e una sana curiosità intellettuale. Sotto il suo regno la Persia fu ancora una volta rifugio dei cristiani. Moltissimi monofisiti la scelsero infatti come terra d’esilio, dopo essere finiti nel mirino dell’imperatore Giustino I (518-527), fermamente deciso a reprimere tutti coloro che non si adeguavano al credo emanato dal concilio di Calcedonia (451). Ogni tentativo messo in atto da Giustiniano per ricomporre la scissione, compresa la messa al bando dei nemici storici del monofisismo, i duofisiti (533), era destinato al fallimento. Con la pace di 50 anni stipulata con Cosroe nel 562, l’imperatore bizantino si preoccupava di vedere riconosciuta la libertà di culto ai cristiani di oltreconfine, ma, paradossalmente, proprio Cosroe offriva più garanzie di quante ne forniva il sovrano cristiano ai propri sudditi: duofisiti o monofisiti che fossero, i cristiani in Persia non ponevano e non subivano problemi ideologici e politici, mentre a Bisanzio, in qualità di eretici, i duofisiti erano fuori legge, e i monofisiti rappresentavano una presenza ingombrante e problematica. In definitiva, nonostante le tensioni che pure non mancarono, soprattutto in coincidenza con le campagne militari sferrate contro la Roma d’Oriente, sotto Cosroe I i cristiani furono assai rispettati ed ebbero anche modo di accedere a cariche pubbliche. Sembrò addirittura che in lui si fosse reincarnato il grande Ciro, l’intrepido e magnanimo sovrano achemenide celebrato dalle stesse Scritture. I monofisiti inizieranno presto ad alzare la testa e a ingaggiare una lotta di potere con i duofisiti all’epoca di Cosroe II (590-628). Dapprima la competizione era sul piano della visibilità: le due parti si combattevano a suon di scuole e di monasteri. Ma poi si arrivò a uno scontro aperto tra Gabriele, medico di corte, e Yazdin, ministro delle finanze, monofisita l’uno, duofisita l’altro. Gabriele riuscì a guadagnarsi le simpatie della regina cristiana Scirin, che riuscì a partorire grazie alle sue cure. Il medico di corte organizzò anche una sorta di disfida pubblica, alla presenza del sovrano, laddove le due fazioni dovevano confrontare le proprie dottrine, ma tutto si risolse in un bieco intrigo. Il campione duofisita Mihran Gushnasp era un funzionario di Stato che si era battezzato con il nome di Giorgio, e si era fatto monaco. Rassicurato dalla sorella, si era riavvicinato all’ambiente di corte, e Gabriele approfittò proprio dell’incontro pubblico per denunciarlo, destinandolo all’inevitabile condanna a morte. Imbestialito dalla riscossa del sovrano bizantino Eraclio, Cosroe iniziò a perseguitare un buon numero di funzionari convertiti. Fu così che cadde in disgrazia il ministro Yazdin. Il sovrano lo fece uccidere e fece anche torturare la moglie, affinché rivelasse il nascondiglio delle ricchezze che il funzionario aveva accumulato nel tempo con generosi “prelievi” sulle razzie di guerra. I figli di Yazdin parteciperanno poi all’intrigo di corte che mise fine allo stesso Cosroe.

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Il figlio del mago Tra i martiri della Persia merita un particolare risalto sant’Anastasio, ucciso «all’ultimo minuto» sotto il regno di Cosroe II. Il suo nome era all’origine Mogundat («dato dai magi»). Suo padre Bav era mago e «maestro di sapere magico». Apparteneva ai moghan, la classe inferiore dei sacerdoti mazdei, e sognava per il figlio una carriera religiosa. Mogundat, però, preferì arruolarsi a Ctesifonte, e lì ebbe modo di vedere, affascinato, la Vera Croce trafugata a Gerusalemme (vedi «Medioevo» 2013, n. 200). Entrò poi nell’armata all’ordine del generale Shahin diretta verso Calcedonia (615). Quando le truppe ripiegarono verso l’Anatolia, Mogundat disertò. Giunto a Gerusalemme, si battezzò con il nome di Anastasio (da Anastasis, «resurrezione») in onore di Cristo e del Santo Sepolcro, e si ritirò in un vicino monastero, dove prese i voti intorno al 620. Sette anni dopo si avventurò fuori dalle mura del suo cenobio. Giunto a Cesarea di Palestina, vide alcuni sacerdoti mazdei intenti a compiere i loro riti di nascosto, all’interno di una casa. Non seppe trattenersi, piombò nel mezzo della cerimonia e cercò di riportare quegli uomini sulla retta via, invintandoli a seguire il suo esempio di mazdeo pentito. Ne nacque un diverbio che richiamò l’attenzione di un vicino drappello di soldati persiani, che arrestarono Anastasio ritenendolo una spia. Tradotto verso Ctesifonte e processato alla presenza di Cosroe, fu ucciso insieme a 70 altri cristiani il 22 gennaio 628. I figli del defunto ministro Yazdin, che avevano casa in quei pressi, si attivarono per recuperare il corpo, e dettero accoglienza a un confratello di Anastasio che lo aveva seguito passo passo per fornire una dettagliata cronaca del martirio al proprio abate. Lo stesso imperatore Eraclio che fu loro ospite conobbe la storia del santo martire, il primo febbraio. Pochi giorni dopo, il 28, giunse la notizia della morte di Cosroe. La testa di Anastasio fu ben presto traslata a Roma nel monastero «dei Cilici» (dei monaci bizantini che venivano dalla Cilicia) fondato da papa Onorio I (625-638) alle Tre Fontane, presso la basilica di S. Paolo fuori le mura. La chiesa del monastero risultò dedicata anche a san Vincenzo, martire spagnolo dell’epoca di Diocleziano. Era morto nello stesso giorno di Anastasio. Proprio per il fatto che appartenevano a luoghi e a epoche differenti, i due martiri manifestavano al meglio la vittoria del cristianesimo in qualunque luogo e in qualsiasi epoca. Era ormai iniziata l’inarrestabile decadenza dell’impero sasanide, e la Chiesa persiana diveniva più potente man mano che declinava il potere del Re dei Re. Lo stesso missionario Aluoben che giunse in Cina nel 635, secondo Antonino Forte, era un messo inviato dal re Yazdgard III (632-651) per partecipare ai solenni funerali del sovrano Gaozu, celebrati proprio in quell’anno. Sarebbe stata un’iniziativa perfettamente in linea con una forte tradizione di rapporti culturali tra la Cina e la Persia, con quelle formidabili ripercussioni sulla diffusione del cristianesimo che abbiamo visto all’inizio. Quando, dietro l’avanzata delle truppe islamiche, Yazdgard III si diresse verso il Khorasan in cerca di alleati per organizzare una riscossa, venne miseramente ucciso e derubato da un mugnaio nei pressi della città-oasi di Merv (Turkmenistan), nell’antica Margiana. In questo luogo topico della storia persiana, alle soglie dell’Asia centrale, dove Dario III inseguito da Alessandro Magno trovò la morte per mano del satrapo traditore Besso (330 a. C.), si consumò così l’ultimo scampolo dell’impero sasanide. Il funerale del sovrano, nipote della regina Scirin e marito di una cristiana, venne celebrato dal vescovo duofisita della città. La famiglia del re trovò rifugio in Cina. Il figlio di Yazdgard, Peroz III (ca. 630-678), si appoggiò alle rivendicazioni degli irrequieti territori di confine, sostenendo con il beneplacito del Celeste impero una serie di azioni offensive contro il califfato omayyade. I nobili proprietari terrieri del Tokharistan lo riconobbero come loro re nel 662, e questo valse a Peroz una sorta di investitura nominale a sovrano dell’impero perduto, ma nel 674 la dura reazione del califfato lo costrinse a ripiegare in Cina. Nel 677 chiese all’imperatore Gaozong di edificare una chiesa nella capitale Chang’an. Sconfitto l’impero sasanide e sconfitta la politica religiosa della dottrina mazdea, fu eliminato ogni contrasto ideologico tra Cristo e Zarathustra. Il cristianesimo aveva pienamente riconquistato i magi del racconto evangelico, tant’è che il katholikos Timoteo I (780-823), in carica nella Baghdad dei califfi abbasidi, all’epoca della stele di Xi’an, riconnetteva l’origine della sua Chiesa proprio al ritorno in patria di quei sapienti, che per primi avevano percepito il bagliore dell’avvento del Salvatore.

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Da leggere Jérôme Labourt, Le christianisme dans l’empire perse sous la dynastie sassanide (224-632), Parigi 1904 (reperibile on-line). Arthur Christensen, L’Iran sous les Sassanides, Copenaghen 1944 (reperibile on-line). Antonio Panaino, La Chiesa di Persia e l’Impero sasanide. Conflitto e integrazione, in Cristianità d’Occidente e cristianità d’Oriente (secoli VI-XI), Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto, 2004, pp. 765-863.