Cinema, storia e terrorismi in Europa

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Transcript of Cinema, storia e terrorismi in Europa

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Immagini di piomboCinema, storia e terrorismi in Europa

a cura di Luca Peretti e Vanessa Roghi

© 2014 Postmedia Srl, Milano

www.postmediabooks.itISBN 978-88-7490-109-8

Immagini di piomboCinema, storia e terrorismi in Europa

a cura di Luca Peretti e Vanessa Roghi

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Introduzione di Luca Peretti e Vanessa Roghi

Inquadrature InIzIalI

Terrorismo: ciò che il cinema ci insegna di Pierre Sorlin

Piombo sugli anni di piombo di Roberto Silvestri

la dIffIcIle relazIone del cInema ItalIano con Il terrorIsmo

Moro e dintorni. Suggestioni e rimozioni storico-cinematografiche di Paolo Varvaro

Intellettuali e casalinghe in Colpire al cuore (Gianni Amelio, 1982) di Alan O’Leary

Segreti e segrete. La rappresentazione degli anni di piombo nel cinema italiano di Vito Zagarrio

Cinema e anni di piombo: tra storia e memorie di Gino Nocera

Lo stragismo al cinema: tra cortometraggi, film mancati e rappresentazioni inadatte di Cinzia Venturoli

Compromessi e difficoltà. Note a proposito di alcuni film non fatti sugli anni di piombo di Luca Peretti

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altrI orIzzontI PolItIca armata In euroPa

Ritorno all’autunno tedesco. Cinema e terrorismo in Germania di Guido Vitiello

Cinema e terrorismo tra Germania e Italia: spettacolo, metalinguaggio, autorialità di Christian Uva

Irlanda del Nord: dal cinema dei troubles al cinema del Peace Process di Susanna Pellis

Sesso e violenza. Rappresentazioni cinematografiche di gender e ETA di María Pilar Rodríguez e Rob Stone

Nessuno può uccidere il Giullare di Corte: il delitto Van Gogh e il caso di Submission Part I di Maria Carla Zizolfi

I ferrI del mestIere

Intervista a Gianfranco Pannone, autore de Il sol dell’avvenire. A cura di Luca Peretti

Parole non fatti di Maricla Tagliaferri e Paolo Fantini

Curatori e autori

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Introduzione

di Luca Peretti e Vanessa Roghi

Come sono stati rappresentati il terrorismo, la lotta armata e la violenza politica al cinema? Come i cineasti hanno trasformato memorie divise in narrazioni visive? Quanti sono i film che si possono analizzare per rispondere a tali quesiti? A partire da queste domande si è svolto, all’interno del Saturno Film Festival, nel novembre del 2009 nella cittadina ciociara di Alatri il convengo Cinema, storia e terrorismi in Europa, i cui interventi costituiscono il nucleo centrale di questo volume. Quello che pubblichiamo però non sono gli atti di quell’incontro, quanto un libro che prende le mosse dalle discussioni scaturite in quella sede a cui si sono aggiunti poi una serie di contributi che ci sembravano adatti per sviluppare altri discorsi, colmare lacune, discutere meglio determinate vicende.

La bibliografia su cinema e terrorismo è ancora relativamente povera in Italia. Una delle ragioni di questa carenza di studi è il pregiudizio su una presunta scarsità di film e documentari che riguardano gli anni di piombo, alimentato da più parti e in diversi periodi. E se è vero certamente che questo corpus di film non rappresenta ancora un volume considerevole se paragonato ad altri periodi storici italiani, ci sono comunque molti film e prodotti audiovisivi su cui si può – ed in un certo senso si deve – lavorare. In questo senso una spinta fondamentale è arrivata negli ultimi anni da alcune nuove opere, in particolare quelle di Christian Uva e Alan O’Leary, rispettivamente Schermi di piombo (Rubettino 2007) e Tragedia all’italiana (Angelica, 2007, uscito nel 2011 anche in versione inglese, aggiornato e ampliato). A loro va anche il merito di aver ampliato il corpus di film da analizzare su terrorismo e lotta armata ragionando sulle opere coeve, in particolar modo i film di genere. Una bibliografia ancora scarna, ma indubbiamente in crescita, dato che il tema riceve a livello accademico e non un sempre maggiore interesse, alimentato proprio in corrispondenza del convegno del 2009 dall’uscita del film La Prima Linea (regia di Renato De Maria, 2009) con il suo ampio strascico di polemiche, e più recentemente da un film come Romanzo di una strage (regia di Marco Tullio Giordana, 2012). Interventi di studiosi di varie scuole, generazioni e nazionalità sono dunque il cuore di questa raccolta di ricerche.

In apertura abbiamo scelto di posizionare due saggi che in qualche modo cercano di inquadrare il problema: Pierre Sorlin traccia una breve storia del rapporto tra cinema e terrorismi di vario genere, includendo anche titoli atipici e che propongono un altro tipo di sguardo rispetto agli studi classici sull’argomento; Roberto Silvestri invece propone una visione internazionalista mettendo in relazione documentari di diversi paesi con la vittoria di Barack Obama, la stagione dei Weathermen, il passato traumatico della Germania.

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8 Dopo questa apertura, dal taglio metodologico, ci addentriamo nella difficile relazione del cinema italiano col terrorismo, senza pretesa di fornire un’interpretazione completa ma cercando di approfondire alcuni aspetti. Così Paolo Varvaro si focalizza sul rapporto fra il cinema e il caso Moro, prendendo in esame non solo i film sul rapimento e l’uccisione del segretario della Democrazia Cristiana ma anche quelli che in qualche modo possono servire a inquadrare storicamente la questione. Alan O’Leary si concentra invece su un solo film, Colpire al cuore, indubbiamente uno dei più significativi e riusciti sull’argomento, per questo ci sembrava valesse la pena affrontarlo singolarmente. L’analisi di Vito Zagarrio è invece incentrata sul cinema d’autore e l’amara conclusione è che gli autori italiani abbiano sempre indossato “un filtro, un obiettivo mediatore” per leggere la stagione in questione. Gino Nocera affronta la più recente produzione filmica sugli anni di piombo, cercando di smontare alcuni luoghi comuni su questi film – ad esempio la rappresentazione dei terroristi come elementi border line. La relazione tra stragismo e cinema è un argomento che poche volte trova spazio, anche in ambito accademico: il saggio di Cinzia Venturoli aiuta in questo senso a riordinare le idee e i pochi film che trattino direttamente di stragi in Italia, indagando anche appunto perché c’è una tale scarsità. C’è del resto un sommerso di film non fatti (sceneggiature, soggetti, progetti mai realizzati) che vale la pena analizzare: Luca Peretti ha cominciato prendendo in esame un piccolo nucleo di potenziali film mai portati a termine.

Allargando lo sguardo fuori dall’Italia abbiamo naturalmente pensato alla Germania, che in un certo senso ebbe un percorso molto simile rispetto al nostro paese. Due gli interventi dedicati direttamente al cinema e al terrorismo tedesco: quello di Guido Vitiello, un’introduzione precisa e completa al tema, tra documentari, film passati e recenti, e quello di Christian Uva, dove vengono poste in risalto proprio le somiglianze che si diceva tra Germania e Italia, il tutto sotto la lente dell’autorialità. Impossibile non pensare anche a un’analisi a volo d’uccello di com’è stato rappresentato l’Irish Republican Army (IRA), sia nel cinema irlandese sia soprattutto in quello americano, analisi che abbiamo affidato a Susanna Pellis. María Pilar Rodríguez e Rob Stone compiono una simile analisi, questa volta dell’ETA basca, partendo anche qui da questioni di genere. Con il saggio di Maria Carla Zizolfi siamo nel campo del recente terrorismo religioso, ed è l’unico contributo in questo senso in tutto il volume: ci sembrava comunque importante segnalare l’esistenza di altri tipi di terrorismi, più moderni e per i quali servono in parte diversi strumenti di studio.

Nell’ultima parte, “I ferri del mestiere”, abbiamo pensato di far parlare direttamente alcuni protagonisti. Con Gianfranco Pannone abbiamo discusso del suo Il sol dell’avvenire per toccare poi una serie di tematiche che in generale raccontano della complessa relazione tra anni di piombo e industria culturale italiana. Col contributo di Maricla Tagliaferri e Paolo Fantini recuperiamo un radicale cortometraggio d’epoca, Tutti insieme eversivamente, che si è visto pochissimo ma che invece varrebbe la pena di riproporre in festival e rassegne.

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Terrorismo: ciò che il cinema ci insegna

di Pierre Sorlin

L’immagine in movimento nacque durante l’ultima fase degli attentati anarchici contro capi di stato e politici che, dopo aver agitato la fine dell’Ottocento in Europa e in America, si concluse con la morte di Umberto I. L’Europa entrava in un periodo d’instabilità diplomatica, segnata dalle Guerre balcaniche, dalla Guerra italo-turca, dalle crisi a ripetizione che sarebbero approdate al primo conflitto mondiale. In questo contesto l’opinione pubblica si preoccupava certamente più dello scacchiere internazionale che del terrorismo. I venti anni che separarono le due guerre furono fertili di attentati – 120 nella sola Repubblica di Weimar – ma le difficoltà economiche, insieme alla politica aggressiva della Germania e del Giappone, eclissarono gli altri problemi. Durante il secondo conflitto mondiale bombe, deragliamenti, assassinii di soldati e di collaboratori da parte dei partigiani furono vissuti come un aspetto della lotta contro il totalitarismo.

Il cInema e Il terrorIsmo nel doPoguerra

Se si mettono da parte i film che, indirettamente, alludono all’azione dell’Ira, l’Irish Republican Army irlandese, come Il traditore (The Informer, John Ford, usa 1935), Fuggiasco (Odd Man Out, Carol Reed, Gran Bretagna 1947), il terrorismo fu assente dal cinema fino agli anni Sessanta. Nel 1963 Il terrorista di Gianfranco de Bosio destò scalpore perché, non accontentandosi di rappresentare una clamorosa operazione partigiana, soggetto prediletto dei film sulla resistenza, interrogava apertamente la giustificazione e le conseguenze del terrorismo ma, all’epoca, gli attentati sembravano un problema del passato, non una preoccupazione per un mondo occidentale in pieno sviluppo economico. In piena prosperità farsi vagamente paura era un piacere: orrore e catastrofismo trionfarono

negli anni Sessanta e Settanta e dai cataclismi naturali (Lo squalo, Steven Spielberg, USA 1975; La torre infernale, John Guillermin, USA 1974) si passò a numerosi drammi causati da diverse tipologie di “cattivi”.

Prima che attentati spettacolari come quello di Oklahoma City sconvolgessero gli Stati Uniti, il terrorismo era diventato un tema ricorrente, sfruttato da tutti gli studi cinematografici in America, poi in Europa: soltanto in Spagna più di quaranta film sono stati dedicati alle attività sovversive dell’eta basca in tre decenni.

Il terrorista, 1963

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10 Il terrorIsmo, ParanoIa morbosa Rappresentare fatti eversivi sembra attuale e adatto alle preoccupazioni del pubblico,

soprattutto dopo l’11 settembre. Al medesimo tempo, consente di girare scene sbalorditive con inseguimenti, sparatorie, esplosioni. Una tale valanga di bombe e di morti serve per riflettere sul fenomeno terrorista, le sue radici, le ondate di violenza che turbarono l’Europa negli anni Settanta, le nuove forme di violenza apparse alla fine del Novecento? O si tratta di uno specchietto per le allodole come, anteriormente, la moda del catastrofico?

Terrorizzare: creare un sentimento di forte sgomento e d’impotenza di fronte a un pericolo tanto più spaventoso quanto indefinito. Le grandi stragi, come l’11 settembre, enfatizzate dai mezzi di comunicazione, circondate da un rituale politico-religioso, occultano il carattere ordinario, quasi quotidiano, del terrorismo. Siete su una strada strettissima, a forte pendenza, con una serie di tornanti, e guidate prudentemente a quaranta all’ora. Bruscamente un’altra macchina si trova dietro la vostra, l’autista sembra sempre più nervoso, lampeggia, suona il clacson, il paraurti è quasi contro il vostro, vuole costringervi a correre più rapidamente. Siete infastidito, poi impaurito, non volete accelerare ma l’inseguitore rischia di farvi slittare nella forra. L’episodio è banale, fatti del genere succedono continuamente e svelano l’essenza del terrorismo: in presenza di un ostacolo, di un disagio, di un’opposizione, si usa la violenza per rimuovere la difficoltà.

Duel, film americano diretto da Steven Spielberg nel 1971, traduce il carattere agghiacciante, anonimo e arbitrario del terrorismo ordinario: un viaggiatore, al volante della sua macchina, è bloccato sulla strada da un’autocisterna che non cede il passo; dopo una fermata, si trova inseguito dall’autocisterna che non lo lascia; non riesce a vedere l’autista, non saprà mai né chi era, né perché l’aveva tallonato.

Chiamiamo terrorista la persona che ci sottopone a violenza fisica o morale, ma l’autista che ci sta addosso non si ritiene minaccioso, pensa di essere dalla parte della ragione – la sua ragione. I terroristi sono sempre convinti di agire a buon diritto. La pretesa, usuale, è particolarmente urtante nel caso del terrorismo di stato che si ammanta di legalità. Quando, nella primavera del 1937, in una rappresaglia dopo un attentato, il generale Rodolfo Graziani, secondo le sue precise parole, fece giustiziare a Debra Libanos (Etiopia) duemila persone, tra cui trecento monaci, e bruciare la chiesa di San Giorgio, affermò che aveva operato “nell’interesse dell’ordine pubblico” – in realtà lo fece perché non veniva a capo di una resistenza che l’esasperava. Per gli italiani, gli etiopici erano terroristi e viceversa. Ho preso l’esempio dell’Italia ma tutti i paesi coloniali (Francia, Giappone, Gran Bretagna, Olanda, Portogallo, Russia, Spagna, Stati Uniti) sono stati ugualmente terroristi. Il cinema l’ha mostrato da molto tempo. La battaglia di Algeri (Gillo Pontecorvo, Italia-Algeria 1966) si riferiva all’uso della tortura da parte dell’esercito francese ma lo faceva a posteriori, quando l’Algeria

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aveva conquistato l’indipendenza. Invece Stato d’assedio (état de siège, Costa Gavras, Francia 1972) denunciava i metodi illegali usati, in America Latina, da governi reazionari, con l’aiuto attivo degli statunitensi. Il protagonista era direttamente ispirato a un agente americano, Dan Anthony Mutrione, specialista della tortura, organizzatore di “squadroni della morte”, ucciso dai Tupamaros uruguaiani. Per evitare l’effetto suspense, il film cominciava con il seppellimento dell’agente, poi descriveva il suo ruolo nell’addestramento della polizia locale e nella liquidazione delle forze popolari, mostrando come, sottomano, intimidazione, sevizie e omicidio sovvertivano la legalità.

Terrorismo e contro-terrorismo si rispondono e usano procedimenti paragonabili, ognuno con la certezza che la sua causa, essendo legittima, giustifica l’uso di mezzi illeciti. Per gli attentatori dell’11 settembre, i terroristi erano gli americani che accaparravano gran parte delle ricchezze mondiali, facevano i carabinieri universali a scapito dell’indipendenza dei popoli e, nella prima guerra in Iraq (1991), avevano combattuto l’Islam. Un cuore forte (A Mighty Heart, Michael Winterbottom, USA 2007) mette in luce questa logica implacabile. Nel 2002, un giornalista del Wall Street Journal, catturato da ribelli pakistani, fu detenuto parecchie settimane e infine ucciso. L’uomo non si occupava di politica, faceva un’inchiesta sull’Islam in Pakistan, ma era americano, dunque colpevole.

Il terrorismo è una forma di paranoia. Chiuso in se stesso, il terrorista sogna l’eliminazione totale di tutto ciò che gli dà fastidio. L’autista che vi insegue vorrebbe che la strada fosse totalmente libera, pienamente sua, non pensa a voi, desidera far sparire l’ostacolo in qualsiasi modo. L’attentatore ignora l’altro, che sia individuo o società, e questo è, al medesimo tempo, la sua forza e la sua debolezza. La forza, poiché non esita mai dato che non può, neanche per un attimo, mettersi al posto della vittima, e la debolezza, poiché non misura né l’energia, né la capacità di resistenza dell’altro. Incapace di rappresentarsi l’avversario, colpisce ripetutamente, senza chiedersi se può ottenere un risultato. Il terrorismo, fautore di danni drammatici, è raramente efficace.

l’ImPossIbIle racconto

I terroristi, qualunque sia il loro obiettivo, creano un profondo panico. Negli anni di piombo le possibilità, per un italiano, di morire a causa di una sciagura stradale o di un incidente domestico erano ottanta volte più forti del rischio di perire in un attentato, ma erano le bombe che facevano paura, non le macchine o gli scalei. Lo shock che seguì l’11 settembre fu talmente forte che il Congresso votò frettolosamente e senza delibera il Patriot Act che rinforzava i poteri civili e militari del presidente a scapito delle libertà individuali e dell’informazione. Quattro anni dopo, alla vigilia dell’elezione presidenziale, quando nessun atto sovversivo si era prodotto in America, si formò un gruppo di “mamme di sicurezza” (security mums) che promettevano il loro voto al candidato più impegnato nella difesa dei bambini contro il terrorismo.

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12 Tale paura, prolungata nell’arco di parecchi anni, è irrazionale ma i fenomeni di spavento collettivo sono frequenti. Periodicamente insorgono nuovi motivi di terrore: nell’ultimo mezzo secolo il mondo ha conosciuto il rischio atomico, la guerra fredda, l’aIds, le api micidiali del Messico, il virus Ebola, la febbre aviaria, la rivoluzione climatica, il virus suino e, in più, ogni paese ha avuto i propri motivi per non sentirsi al sicuro, come terremoti, incendi forestali dell’estate, allagamenti, tutti pericoli misteriosi, sovrastanti, contro cui non si può lottare, che destano scalpore per un certo tempo, poi vengono dimenticati. Gli atti terroristici non provocano tutti le stesse reazioni: l’effetto del dramma di New York, particolarmente forte e duraturo, permette di analizzare le reazioni dell’opinione pubblica, a patto di notare una differenza importante tra gli attentati. Certi sono un mezzo con lo scopo di raggiungere un obiettivo preciso: l’Ira, dopo aver ottenuto l’indipendenza dell’Irlanda, si è dato come bersaglio l’entrata dell’Ulster nella Repubblica irlandese, l’eta rivendica l’indipendenza del Paese basco, le organizzazioni palestinesi vorrebbero distruggere Israele. Altre imprese sono meno definite: l’ondata di crimini anarchici propagata in Europa e in America negli ultimi decenni dell’Ottocento era un ammonimento dato genericamente ai potenti, senza scopo chiaramente definito e gli attentati moltiplicati, dopo la fine del Novecento, in Europa, in America e nel Vicino Oriente, testimoniano un odio implacabile contro l’Occidente e l’illusione che basta colpire per far crollare il nemico.

L’11 settembre fu preparato con una minuziosità e un’intelligenza prodigiose, durante mesi interi gli estremisti studiarono gli orari e gli itinerari dei voli, seguirono corsi di volo, impararono come aggirare i controlli dell’aeroporto di Boston. L’impresa era stata perfettamente cronometrata, in pochi minuti quattro aerei dirottati erano lanciati contro il World Trade Center, il Pentagono e un posto in Pennsylvania. La sorpresa fu totale e lasciò il mondo sbalordito. Dopo, ci furono gli attentati di Madrid (marzo 2004) e di Londra (luglio 2005), meno sofisticati, e dei quali non sappiamo se ebbero la medesima origine. Gli aerei negli Stati Uniti e le bombe in Europa hanno fatto un numero notevole di vittime – ma, al di là delle tragedie individuali, il significato delle tre operazioni rimane misterioso. I “geniali” terroristi dell’11 settembre, come i loro seguaci degli anni successivi, non avevano nessuna strategia, il contrasto tra la loro capacità organizzativa e la loro nullità politica è stupefacente. Creare panico e non trarne profitto è un segno d’impotenza – a parte il danno causato a un certo numero di persone. Che si tratti del pirata della strada, di Graziani, dei terroristi italiani e tedeschi degli anni di piombo o degli attentatori dell’11 settembre, l’azione, violenta e spettacolare, ha gli stessi limiti, fa impressione ma non provoca un cambiamento della situazione.

Un certo terrorismo interviene nell’istante, in mancanza di una riflessione sui mezzi da utilizzare e le tappe da percorrere per raggiungere un obiettivo di lungo periodo.

Per questo, provoca una paura improvvisa e difficilmente superabile che possiamo comprendere tenendo conto della costruzione e della circolazione delle notizie in una

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società. Quando comunichiamo un fatto privato (la cugina che si è rotta una gamba) o pubblico (le decisioni prese alla conferenza sul clima) usiamo, nella maggioranza dei casi, racconti, brevi o lunghi. Prima di arrivare all’evento finale, del quale vogliamo dare conoscenza, ne esponiamo l’origine e aggiungiamo dettagli intermedi che riteniamo importanti. Due condizioni sono necessarie per rendere la narrazione intelligibile: che i termini siano chiaramente identificati (Quale cugina? Quale conferenza?) e che la concatenazione degli episodi riferiti sia logica.

Precisamente tali requisiti difettano nel caso degli attentati. In innumerevoli occasioni durante gli anni di piombo, le reti televisive mostrarono la carcassa di una macchina carbonizzata o le rovine di un edificio con un laconico commento: “È avvenuto alle due di notte”. Manca, nel caso delle aggressioni terroristiche non mirate a un obiettivo dichiarato, la materia indispensabile per costruire un racconto: i mass media, ignorando chi ha operato, per quali motivazioni, in quale maniera, sono ridotti a ripetere indefinitamente la cronologia dell’accaduto, che non spiega niente, e a diffondere gli scarsi dettagli relativi agli attentatori.

Agli occhi degli statunitensi, gli attacchi dell’11 settembre non potevano essere un termine in sé, dovevano precedere una proclamazione, un progetto, una minaccia, qualcuno doveva presentarsi come il fautore della strage, altrimenti, al di fuori del dolore delle famiglie, l’operazione non aveva senso, non c’era nessuna possibilità di caratterizzarla. Gli esecutori, individui qualsiasi, sconosciuti, senza rilievo, avevano agito per conto loro? E perché? O erano sotto gli ordini di un altro personaggio? Chi (ricordiamo che la responsabilità di Bin Laden non è mai stata dimostrata; lui stesso aspettò due mesi prima di rivendicarla)? Qual era il punto di partenza? Quale la finalità?

Il cinema testimonia la differenza tra un terrorismo politicamente orientato e un terrorismo “alla cieca”. Un numero rilevante di film dedicati all’Ira o l’eta descrivono dall’interno il mondo degli attentatori, lo scontro tra terroristi e contro-terroristi, il dolore e le sofferenze delle vittime, l’incatenamento infinito degli atti che provocano una risposta, senza che si possa dire chi ha cominciato. Il cinema spagnolo ha utilizzato la fiction per porre, attraverso il caso dell’eta, la questione della violenza come arma politica. Lo iato tra il fine e i mezzi appare chiaramente in La spiaggia dei levrieri (La playa de los galgos, Mario Camus, 2001). Un etarra, Pablo, sconvolto dopo aver ucciso un ingegnere (allusione a un crimine dell’eta contro l’impianto di una centrale nucleare nel Paese Basco), decide di rinunciare alla violenza ma sbatte contro tre realtà: il rancore dei suoi compagni, il rifiuto della fidanzata, anche lei etarra e risoluta a continuare la lotta armata, la vendetta della vedova che lo perseguita e lo uccide. Il rifiuto, comprensibile, di una “colonizzazione” economica del Paese basco induce un assassinio arbitrario, senza relazione con il progetto industriale e trascina Pablo in un circolo dal quale non può uscire. Il film aiuta a capire le motivazioni dei nazionalisti e la logica aberrante che si sviluppa all’interno di un gruppo clandestino, isolato dalla

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14 popolazione e chiuso in se stesso. Col passare del tempo, evocare il terrorismo spietato dei vari campi nelle lotte che accompagnarono l’indipendenza dell’Irlanda è meno arduo: Michael Collins (Neil Jordan, Gran Bretagna 1997), biografia romanzata di un leader dell’IRA, mostra tanto gli irlandesi che assassinano a sangue freddo gli agenti britannici, quanto i carri armati inglesi che massacrano la folla pacifica in uno stadio, Il vento che accarezza l’erba (The Wind That Shakes the Barley, Ken Loach, Gran Bretagna 2006) ricorda come, dopo aver subito insieme la repressione e le torture dei britannici, gli irlandesi si divisero e rivolsero la violenza contro loro stessi. L’eversione riferita in questi film è semplicemente un elemento della storia, nascosto a lungo, progressivamente sottratto all’oblio.

A differenza del terrorismo finalizzato a un obiettivo, il terrorismo cieco non è narrabile, si riduce alla preparazione ossessiva dell’atto più sanguinario possibile. Il carattere ermetico delle cellule terroriste è talmente forte che Un cuore forte non racconta direttamente il rapimento e l’uccisione del giornalista americano, l’unica soluzione è seguire la moglie alla ricerca del marito. I due film americani che parlano dell’11 settembre, ambedue usciti nel 2006, World Trade Center di Oliver Stone e United 93 di Paul Greengrass, nell’incapacità di coglierne il carattere politico, si sono concentrati sul comportamento di alcuni individui, riportando vicende raccontabili, con un inizio, alcune peripezie e una conclusione. I due protagonisti di World Trade Center, seppelliti sotto le macerie, confusi, ignari di quello che è successo, feriti ma vivi, lottano valorosamente per più di due ore per sopravvivere. Non comprendono niente, non più delle loro famiglie inchiodate davanti al televisore. Il film opera una curiosa traslazione, incapace di rendere conto dell’evento punta da una parte sull’effetto di paura e claustrofobia, dall’altra sull’eroismo dei personaggi che non si abbandonano alla disperazione. Lo United 93 era il quarto volo in partenza da Boston che fu dirottato, probabilmente per colpire un monumento pubblico (la Casa Bianca?), ma dopo uno strano percorso si schiantò in Pennsylvania. Le chiamate telefoniche di certi passeggeri fanno pensare che ci fu una ribellione contro i dirottatori che non riuscirono a portare a termine la loro missione. Su una trama di questo genere un buon sceneggiatore era in grado d’inventare cento episodi nei quali si manifestava il coraggio di cittadini disposti a morire per far fallire l’attentato.

Quattro giorni dopo l’attacco il New York Times cominciò la pubblicazione di una rubrica che durò fino a dicembre, Una nazione sfidata (A Challenged Nation). Il titolo sembrava promettere considerazioni sull’ostilità nei confronti degli Stati Uniti, sulle sue origini e sulle soluzioni per combatterla ma, in pratica, fu soltanto una serie di “ritratti di lutto” (portraits of grief), brevi biografie di tutte le vittime. Il ricordo di persone simpatiche, dedicate alla famiglia, agli amici e al lavoro, evitava di andare al cuore della

The Wind That Shakes the Barley, 2006