Badii_ I topolini di Art. Note su Maus_Nuova Secondaria 2013

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Nuova Secondaria POSTE ITALIANE S.p.A. Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/04 n. 46) art. 1, comma 1 - DCB BRESCIA Editirice La Scuola 25121 Brescia - Expédition en abonnement postal taxe perçue tassa riscossa - ISSN 1828-4582 EDITRICE LA SCUOLA Le emozioni vissute in rete. Il “caso” tristezza. 5 gennaio 2013 anno XXX Imparare la filosofia dalle metafore L’Inquiry Based Science Education La Shoah nelle arti visive. Tra fotografia, pittura, cinema e graphics novels

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EDITRICE LA SCUOLA

Le emozioni vissute in rete.Il “caso” tristezza.

5gennaio 2013anno XXX

Imparare la filosofia dalle metafore

L’Inquiry Based

Science Education

La Shoah nelle arti visive. Tra fotografia,

pittura, cinema e graphics novels

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42EDITORIALE

Giovanni Gobber Ma il Ministero conosce la scuola? 5

NUOVA SECONDARIA RICERCAhttp://nuovasecondaria.lascuolaconvoi.it

Sandra Chistolini Il contraddittorio sinusoidale delle competenze nella professione docente

Elio Damiano L’eroe romantico. Le competenze come strumento euristico?

FATTI E OPINIONI

Il fattoGiovanni Cominelli Scuola e Stato. La malattia mortale del neo-centralismo 7

Pensieri del tempoGiuseppe Acone Ultime notizie dal pianeta scuola 8

Fabula docetGraziano Martignoni Quando muore l’imperatore 8

Asterischi di Kappa Orari di insegnamento Ue e Ocse 9

Il vangelo e la vitaPaola Bignardi Credo. Aiutami nella mia incredulità! 10

La lanterna di DiogeneFabio Minazzi A proposito della pedagogia del bastone e della carota 10

Il futuro alle spalleCarla Xodo Dalla parte dei giovani 11

Asterischi di Kappa Europa: le chiese diventano moschee 11

Risposta a domanda Contestazione di addebito per voti bassi? 12

Asterischi di Kappa I regali della burocrazia 21

PROBLEMI PEDAGOGICIE DIDATTICI

Barbara Bruschi Una rete di emozioni 14

Giuseppe Spadafora L’università e la formazione degli insegnanti 19

Claudio Melacarne La scuola come comunità di narrazione 22

Luciano Amatucci L’integrazione equilibrata degli immigrati 25

Maria Annita Baffa Lingua e comunità: una questione storica 29

Nuova Secondaria n. 5

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STUDI

La Shoah nelle arti visive a cura di Massimo Giuliani 33

Liliana Picciotto Le fotografie della Shoah italiana 34

Mino Chamla Cinema e “rappresentazione” della Shoah 38

Daniele Liberanome La Shoah nella pittura contemporanea 42

Renata Badii I topolini di Art. Note su Maus di Art Spiegelman 44

PERCORSI DIDATTICI

Giuseppe Leonelli Per i cento anni di Elsa Morante 50

Fabio Minazzi Il lavoro come realizzazione sociale: Hegel 54

Stefano Cazzato Imparare la filosofia dalle metafore 57

Cinzia Bearzot Le donne della casa reale di Macedonia 60

Paolo A. Tuci Demagogia, corruzione e manipolazione

nell’Atene del V sec. a.C. 64

Carlo Lottieri LIBERALI E NO

Montesquieu e la virtù delle relazioni civili 67Rousseau e la coercizione sentimentale 70

Carmelo Di Stefano Alla scoperta dei Poliedri – I parte 74

Carla Simonetti Contributi di Bombelli alla nascita della Geometria analitica 80

Erasmo Recami Matematica e Fisica 84

Francesco Paparella Il vangelo secondo Higgs 86

Fausto Bersani Greggio, Fare chiarezza: elettrizzazione ed effetto Corrado Bernabè fotoelettrico 88

Ledo Stefanini Una ferrovia pneumatica 93

Maria Angela Fontechiari Inquiry Based Science Education: una didattica innovativa per le scienze 94

Gian Battista Vai Non fidarsi delle apparenze: una lezione dal terremoto emiliano 99

Gianluca Lapini Galileo Ferraris e i primordi dell’elettrotecnica italiana 104

LINGUE, CULTURE E LETTERATURE a cura di Giovanni Gobber

Luigi Beneduci Risorse in internet per la storia della lingua 108

Francesca Costa Defamiliarising Input Presentation Strategies in CLIL.What do Students Think? 112

Giovanni Gobber Alla ricerca delle domande implicite nei dialoghi.Proposte per un esercizio di analisi 115

LIBRI

a cura di Luigi Tonoli e Lucia Degiovanni 119

@DIDATTICA CON LE SLIDEhttp://nuovasecondaria.lascuolaconvoi.it

Franca ZanettiIl testo argomentativo

Riccardo MerlanteLa letteratura e la luna

Anselmo Grotti Fausto MorianiRorty

Paolo A. TuciVoci critiche sulla democrazia: un confronto tra le fonti

Stefano ZappoliLa cultura europea nella seconda metà del XIX secolo

Lucia DegiovanniLe origini della lingua greca

Marta FerrariOscar Wilde. The development of individualism.

Alfredo MarzocchiFrazioni algebriche

Luca Lussardi Logica e algebrizzazione di Boole

Francesco AbbonaCristallografia fisica

Ledo StefaniniRelatività galileiana

Ersilia ConteAcqua: la classificazione delle acque

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Progetto grafico: Fabio Paris Editions

su un’ idea originale di

(Laura Stefanutti, Tea Pinoni, Sonia Brambilla)

Coordinamento: Prof. Claudio Gobbi

Mensile di cultura, orientamenti educativi, problemididattico-istituzionali per le Scuole del secondo ciclodi istruzione e di formazioneFondatore e direttore emerito: Evandro AgazziAnno XXX - ISSN 1828-4582

Direzione, Redazione e Amministrazione: EDITRICE LASCUOLA, Via Gramsci, 26, 25121 Brescia - fax 030.2993.299 - Tel.centr. 030.2993.1 - Sito Internet: www.lascuola.it - Direttore re-sponsabile: Giuseppe Bertagna - Autorizzazione del Tribunale diBrescia n. 7 del 25-2-83 - P oste Italiane S.p.A. - Sped. in A.P.-D.L.353/2003 (conv. in L. 27/02/04 n. 46) art. 1, comma 1 - DCB Brescia- Editrice La Scuola - 25121 Brescia - Stampa Vincenzo Bona 1777Spa, Torino - Ufficio marketing: Editrice La Scuola, Via Gramsci 26,- 25121 Brescia - tel. 030 2993.290 - fax 030 2993.299 - e-mail:[email protected] – Ufficio Abbonamenti : tel. 030 2993.286(con operatore dal lunedì al venerdì negli orari 8,30-12,30 e 13,30-17,30; con segreteria telefonica in altri giorni e or ari )- fax 0302993.299 - e-mail: [email protected].

Abbonamento annuo 2012-2013: Italia: € 69,00 - Europa e Ba-cino mediterraneo: € 114,00 - Paesi extraeuropei: € 138,00 - Ilpresente fascicolo € 7,00. Conto corrente postale n.11353257(N.B. riportare nella causale il riferimento Cliente). L’editore si ri-serva di rendere disponibili i fascicoli arretrati della rivista in for-mato PDF. I diritti di tr aduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasimezzo (compresi i microfilm), sono riservati per tutti i Paesi. Foto-copie per uso personale del lettore possono essere effettuate neilimiti del 15% di ciascun fascicolo di periodico dietro pagamentoalla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5 dellalegge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalitàdi carattere professionale, economico o commerciale o comun-que per uso diverso da quello personale possono esser e effet-tuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO,corso di P orta Romana n. 108, Milano 20122, [email protected] e sito web www.aidro.org.

Per eventuali omissioni delle f onti iconografiche, l’editore si di-chiara a disposizione degli aventi diritto.Sito della rivista http://nuovasecondaria.lascuolaconvoi.it

DIRETTORE

Giuseppe Bertagna - Università di Bergamo

COMITATO DIRETTIVO

Cinzia Susanna Bearzot - Università Cattolica, Milano

Edoardo Bressan - Università di Macerata

Alfredo Canavero - Università Statale, Milano

Giorgio Chiosso - Università di Torino

Luciano Corradini - Università Roma Tre

Lodovico Galleni - Università di Pisa

Pietro Gibellini - Università Ca’ Foscari, Venezia

Giovanni Gobber - Università Cattolica, Milano

Angelo Maffeis - Facoltà Teologicadell’Italia Settentrionale, Milano

Mario Marchi - Università Cattolica, Brescia

Luciano Pazzaglia - Università Cattolica, Milano

Giovanni Maria Prosperi - Università Statale, Milano

Pier Cesare Rivoltella - Università Cattolica, Milano

Stefano Zamagni - Università di Bologna

Redazione

RedazioneLuigi Tonoli, Lucia Degiovanni, Annalisa Ballini

([email protected])

Collaboratori redazionaliAndrea Potestio, Don Fabio Togni

Curatela Settore ScientificoFrancesca Baresi ([email protected])

ImpaginazioneFabio Paris Editions

Segreteria di RedazioneAnnalisa Ballini ([email protected])

Supporto tecnico area [email protected]

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Gli articoli della Rivista sono sottoposti a referee doppio cieco (double blind). La documentazione rimane agli atti.Per consulenze più specifiche i coordinatori potranno avvalersi anche di professori non inseriti in questo elenco.

Salvatore Silvano NigroIULM

Maria Pia PattoniUniversità Cattolica, Brescia

Massimo PauriFisica teorica, Modelli matematici,

Università di ParmaJerzy Pelc

Semiotica, Università di VarsaviaSilvia Pianta

Geometria, Università Cattolica, BresciaFabio Pierangeli

Letteratura italiana, Università di Roma Tor VergataPierluigi Pizzamiglio

Storia della scienza, Università Cattolica, BresciaSimonetta Polenghi

Storia della pedagogia, Università Cattolica, MilanoLuisa Prandi

Storia greca, Università di VeronaErasmo Recami

Fisica, Università di BergamoEnrico Reggiani

Letteratura inglese, Università Cattolica, MilanoFilippo Rossi

Patologia generale, Università di VeronaGiuseppe Sermonti

Genetica, Università di PerugiaLedo Stefanini

Fisica, Università di MantovaFerdinando Tagliavini

Storia della musica, Università di FriburgoGuido Tartara

Teoria dei sistemi di comunicazione,Università di Milano

Filippo TempiaNeurofisiologia, Università di Torino

Marco Claudio TrainiFisica nucleare e subnucleare,

Università di TrentoPiero Ugliengo

Chimica, Università di TorinoLourdes Velazquez

Bioetica e Filosofia del Messico,Universidad Anáhuac, Northe Mexico

Marisa VernaLingua e letteratura francese,Università Cattolica, Milano

Claudia VillaLetteratura italiana, Università di Bergamo

Giovanni VillaniChimica, CNR, Pisa

Carla XodoPedagogia, Università di Padova

Pierantonio ZanghìFisica, Università di Genova

Vincenzo FanoLogica e filosofia della scienza,

Università di UrbinoRuggero Ferro

Logica matematica, Università di VeronaSaverio Forestiero

Biologia, Università Tor Vergata, RomaArrigo Frisiani

Calcolatori elettronici, Università di GenovaAlessandro Ghisalberti

Filosofia teoretica, Università Cattolica, MilanoValeria Giannantonio

Letteratura italiana, Università di Chieti - PescaraMassimo Giuliani

Pensiero ebraico, Università di TrentoAdriana Gnudi

Matematica generale, Università di BergamoGiuseppe Langella

Letteratura italiana contemporanea,Università Cattolica, Milano

Giulio LanzavecchiaBiologia, Università dell’Insubria

Erwin LaszloTeoria dei sistemi, Università di New York

Giuseppe LeonelliLetteratura italiana, Università Roma Tre

Carlo LottieriFilosofia del diritto, Università di Siena

Gian Enrico ManzoniLatino, Università Cattolica, Brescia

Emilio ManzottiLinguistica italiana, Università di Ginevra

Alfredo MarzocchiMatematica, Università Cattolica, Brescia

Vittorio MathieuFilosofia morale, Università di Torino

Fabio MinazziFilosofia teoretica, Università dell’Insubria

Alessandro MinelliZoologia, Università di Padova

Enrico MinelliEconomia politica, Università di Brescia

Luisa MontecuccoFilosofia, Università di Genova

Moreno MoraniGlottologia, Università di Genova

Gianfranco MorraSociologia della conoscenza, Università di Bologna

Maria Teresa MoscatoPedagogia, Università di Bologna

Alessandro MusestiMatematica, Università Cattolica, Brescia

Seyyed Hossein NasrFilosofia della scienza, Università di Philadelphia

Francesco AbbonaMineralogia, Università di Torino

Giuseppe AconePedagogia, Università di SalernoEmanuela Andreoni Fontecedro

Lingua e letteratura latina, Università di Roma Tre

Dario AntiseriFilosofia della scienza, Collegio S. Carlo, Modena

Gabriele ArchettiStoria Medioevale, Università Cattolica, Milano

Andrea BalboLatino, Università degli studi di Torino

Giorgio Barberi SquarottiLetteratura italiana, Università di Torino

Raffaella BertazzoliLetterature comparate, Università di Verona

Fernando BertoliniIstituzioni di Analisi Superiore, Università di Parma

Gianfranco BettetiniTeoria e tecniche delle comunicazioni,

Università Cattolica, MilanoMaria Bocci

Storia contemporanea, Università Cattolica, MilanoCristina Bosisio

Glottodidattica, Università Cattolica, MilanoMarco Buzzoni

Logica e filosofia della scienza, Università di Macerata

Luigi CaimiBiochimica e biologia molecolare, Università di Bre-

sciaLuisa Camaiora

Linguistica inglese, Università Cattolica, MilanoRenato Camodeca

Economia aziendale, Università di BresciaFranco Cardini

Storia medievale, ISU, Università di FirenzeMaria Bianca Cita Sironi

Geologia, Università di MilanoMichele Corsi

Pedagogia, Università di MacerataVincenzo Costa

Filosofia teoretica, Università di CampobassoGiovannella Cresci

Storia romana, Università di VeneziaLuigi Dadda

Elettrotecnica, Università di MilanoLuigi D’Alonzo

Pedagogia speciale, Università Cattolica, MilanoCecilia De Carli

Storia dell’arte contemporanea,Università Cattolica, Milano

Bernard D’EspagnatFisica, Università di Parigi

CONSIGLIO PER LA VALUTAZIONE SCIENTIFICA DEGLI ARTICOLI

Coordinatori del Consiglio:Luigi Caimi e Carla Xodo

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Ma il Ministero conosce la scuola?Giovanni Gobber

EDITORIALE

5Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX

Suscita apprensione l’uso burocratico del termine reclutamento, applicato agli insegnanti.È infatti parente della voce spagnola recluta, che a sua volta rinvia al francese recrue (darecroître ‘accrescere’): indicava, propriamente, un ‘arruolamento’ di nuovi soldati, per integrare

la truppa decimata dalle battaglie. Se il destino è di perire al fronte, c’è poco da stare allegri; ma incompenso, si porta a casa un po’ di denaro. Il docente non rischia la pelle ed è forse per questo cheviene retribuito poveramente.

Quanto lavora un insegnante? Chi ha proposto di aumentare le ore di insegnamento, senzacambiare la retribuzione, si basa sul tempo che egli o ella trascorre in aula. È un criterio come tanti.Anche un usciere der ministero sarebbe d’accordo. Il lavoro è interpretato come “ore passate sul postodi lavoro”. E siccome l’insegnante insegna (come direbbe Totò), deve insegnare di più, perché diciottoore alla settimana sono poche, se confrontate con le quaranta delle operaie d’antan. Del resto, lastampa quotidiana ed eziandio i rotocalchi settimanali ad usum tonsoris sono usi a lamentare iprivilegi del corpo docente: laddove italiane e italiani si vedrebbero costretti a ore di veglia negli uffici,nei negozi, financo nelle cantine, tutti in attesa che scocchi l’ora del rompete le righe, gli “operatoridella conoscenza” limiterebbero gli sforzi al minimo e, usciti dall’aula, si recherebbero freschi erilassati a zonzo, o a fare un altro mestiere ben retribuito.

Queste opinioni guardano alla quantità delle ore di lezione. Non tengono conto delle ore dedicate acorreggere compiti, fare programmi, discutere in riunioni etc. Soprattutto, non considerano l’intensitàdell’impegno e la concentrazione richiesta a un buon insegnante, il quale, come ogni professionista,deve affrontare situazioni sempre diverse e trovare soluzioni – non vi è monotonia nella scuola, che èluogo dell’imprevedibile. Insegnare non è “interagire” con macchine umane. Un’ora di lezione ben fattacosta più energie di una mattinata trascorsa “sul” posto di lavoro. I presunti privilegi della professionedocente esistono nelle opinioni e nelle dicerie degli untori della scuola. Basterebbe invece considerareche, nelle statistiche, la categoria degli insegnanti risulta fra le più colpite da stress psico-fisico.

Chi insegni e legga queste righe sorriderà amaramente: quante volte avrà udito parole aspre (nondiciamo “critiche”, perché la critica comporta capacità di giudicare), in bocca a personaggi cui serve unpomeriggio per sbrigare una pratichina, fare due calcoli, redigere mezza paginetta in una prosastentata. Tutti, poi, si ritengono capaci di insegnare, così come si considerano ottimi selezionatori dellaNazionale di calcio e ugualmente in gamba nel disegnare riforme elettorali. Fra cotanti tuttologi, gliesperti sono pochi. A ben vedere, non ci si improvvisa insegnanti: la professione richiede capacità epreparazione. Quest’ultima si può acquisire negli anni. Ma la capacità non viene da sola; è unapredisposizione della persona, che è disposta a coinvolgersi nell’impresa educativa. È, questa,un’avventura che logora e non sempre gratifica perché gli allievi fanno fatica a riconoscersi in debitoverso chi li ha formati – tanto più se le famiglie si sentono incaricate di proteggere i pargoli da presuntifannulloni capaci solo di dare voti negativi. Secondo un’opinione diffusa, la scuola è tenuta apreparare giovani esperti (i “tecnici” da inglese informatica impresa); deve però far loro apprendere

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX6

EDITORIALE

senza imporre una disciplina di studio e di comportamento – si ritiene che basti “andare su internet”(più wikipedia per tutti) e il gioco è fatto: allo stesso tempo, infatti, la scuola è considerata anzituttocome un luogo di socializzazione, una specie di oratorio (“laico”, beninteso).

Sarebbe ingeneroso pensare che i nostri governanti condividano simile coacervo di opinionicontraddittorie, di idées reçues messe in circolo anche dai mass media. Tuttavia, se si propone diaumentare le ore di lezione, vuol dire che ar ministero non si conosce la scuola. Questo nostrosospettaccio è alimentato pure dalle vicende recenti del TFA e dei bandi di concorso a cattedra.

Per accedere al tirocinio formativo attivo, si son dovuti superare tre esami scritti e uno in formaorale. Tutto questo si è svolto senza che sia stato indicato un programma, anche solo generico.Al candidato sono richieste conoscenze enciclopediche. D’altro canto, avviene pure che la verifica dellecompetenze in lingua straniera riveli lacune “drammatiche” (come usa dire oggi, per influsso inglese)e pure la matematica sembra mal messa. Un bell’esame è dunque necessario. Ma perché esigerel’enciclopedia? È facile ricorrervi, quando si ha il coltello dalla parte del manico. Gli stessi esaminatoriche chiedono la data di fondazione dell’Arcadia potrebbero cadere facilmente su una domandaintorno al sistema di versificazione di Metastasio – e non vi è dubbio che più di un giovane laureatosarebbe in grado di ridurre al silenzio più di un commissario.

È peraltro vero che molti si laureano con lacune simili a crateri lunari. Ne è prova il semplice fattoche a tentare le prove di accesso al TFA vi siano pure individui assolutamente impreparati – e sonoautentiche minacce per l’istituzione scolastica. È probabile che, anni prima, questi ultimi siano filtratitra le maglie larghette di qualche esaminatore all’università: qui bisogna ammettere che è mancata,non di rado, una valutazione coscienziosa. Anche per queste carenze e disattenzioni dell’accademia,l’avventura dei TFA sembra avviarsi con qualche difficoltà.

Sia poi consentito esprimere una riserva sul percorso previsto per la formazione: il tirocinio vero eproprio ha durata troppo breve. È invece notevole – nella durata del TFA – il carico dei corsi e deiseminari che si svolgeranno nelle Università: in proporzione, per queste attività è previsto il doppio deicrediti dati dal tirocinio nelle scuole. Al riguardo, è auspicabile che si eviti di riprodurre un aspettodavvero poco apprezzato dell’antica SSIS: la ripetizione di contenuti già previsti nei programmi deicorsi per i quali si è conseguita in precedenza la laurea. È inoltre lecito ritenere che non basti qualchesettimana di “osservazione” per decretare un’idoneità perenne. Non si attribuisce una patente senzaverifica periodica; del pari, non appare ingiustificata l’idea di vincolare il mantenimento in servizio alsuperamento di seri esami in itinere. Vanno inoltre previste verifiche del merito, tali che, per imigliori, sia garantito un riconoscimento ai fini professionale e retributivo. In molte realtà europee taliverifiche sono consuetudine. In Italia questo tarda a venire accettato perché il merito, nei fatti, non èriconosciuto (todos caballeros, ma con omologazione verso il basso).

Un argomento contro la verifica basata sul merito è: come si può stabilire la competenza di chi devegiudicare? È lecito ritenere che, per lo più, si tratti di un pretesto per sottrarsi a un giudizio. La scuolapubblica (statale o paritaria) ha l’interesse e il dovere di valutare i propri insegnanti. Tra l’altro, questoè un modo per certificare nella sostanza i titoli di studio rilasciati. Quanto più elevato è il prestigio delcorpo insegnante, tanto maggiore sarà il peso attribuito dalla società allo studio conseguito.

Contro la verifica del merito si pone, forse, un’altra ragione, cui è sensibile chi ci governa: i docentimigliori meritano un trattamento economico più elevato; ma non ci sono le risorse disponibili – e sitratta di un argomento povero: quando c’è la volontà politica, le risorse si trovano sempre. Se bisognarisparmiare, si può cominciare da tutto il resto, salvando la scuola e l’università.

Giovanni Gobber

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 7

FATTI E OPINIONI

Il fattodi Giovanni Cominelli

Scuola e Stato. La malattia mortale del neo-centralismoCome ogni inizio d’anno, anche quello del 2013 è stato accom-

pagnato, inevitabilmente, dalla retorica della speranza.

Tuttavia, per quanto riguarda le politiche di riforma delle isti-

tuzioni educative del Paese, ci troviamo pur sempre nella con-

dizione descritta nell’or acolo di Isaia, quando «una v oce

risuona da Seir in Edom» e si rivolge ad una scolta idumea: «Sen-

tinella! Quanto durerà ancora la notte? E la sentinella risponde:

Verrà il mattino, ma è ancora notte. Se volete domandare, tor-

nate un’altra volta». Alla vigilia di una campagna elettorale, tra

le più incerte del secondo dopoguerra, non ci attarderemo qui

a stilare l’ennesimo enciclopedico cahier delle domande senza

risposta relative a un sistema che pare aver scontentato tutti,

ma che vede pressoché tutti immobili nella soppor tazione.

Che cosa domandare? Forse è necessario partire dalle fonda-

menta dell’edificio, visto che “le ristrutturazioni” non hanno fer-

mato il declino. Giacché una cosa è certa: le piccole riforme non

servono che ad allungare l’agonia di un sist ema al collasso.

Muoversi dalle questioni di fondo non è una fuga utopistica

in avanti, come viceversa sostengono i sedicenti realisti o gli

scettici. Il punto di partenza è la constatazione che l’architettura

del modello, che lega da qualche secolo a questa parte Scuola,

Società, Stato, è deflagrata. Questi tre soggetti appaiono nei loro

rapporti reciproci come i tre lati sconnessi di un triangolo.

L’istituzione scolastica sembra vivere in un mondo a parte ri-

spetto alla società, che pure entra ogni mattina nei nostri edifici

scolastici sulle gambe dei r agazzi. Lo Stato, a sua v olta,

avvolge e imprigiona nella sua robusta rete amministrativa

l’universo dell’istruzione/educazione, contribuendo fortemente

all’isolamento dell’istituzione scolastica. Ciò che è saltata, tut-

tavia, è la base del triangolo, quella che collegava reciproca-

mente la Società e lo Stato. Dalla fine degli anni ’60, per quanto

riguarda l’Italia, lo Stato nazionale, politico e amministrativo

non è più la sintesi e il dominus della società civile. Nello schema

pessimistico di Hobbes e in quello più ottimistico di Hegel, gli

individui e la società sono il luogo del caos . Tocca allo Stato

– sia esso il risultato di un pacifico processo di contrattazione

tra le parti o l’esito di un’incarnazione violenta dell’Assoluto

nella Storia – pacificare, fare sintesi, impedire che la società im-

ploda nel conflitto dell’homo homini lupus.

I sistemi educativi furono pertanto fondati quali longa manus

dello Stato, come continuazione dello Stato con altri mezzi,

come luogo e canale di civilizzazione della società e dei suoi

conflitti.

L’hegelismo dei fratelli Spaventa nella seconda metà dell’Ot-

tocento e di Croce e Gentile dei primi del Novecento afferma

con grande coerenza: «Tale lo Stato, tale la Scuola». Questa cor-

relazione viene riproposta ancora oggi dal liberalismo centra-

lista, di fronte alla crisi del sistema. Quel che è certo è che i mu-

tamenti socio-culturali e antropologici hanno disconnesso quel

legame, che qualche nostalgico ha tentato illusoriamente in

questi ultimi anni di ripristinare nella scuola, all’insegna del

“Dio, Patria, Famiglia”, delle regole severe, della disciplina, delle

bocciature. E poiché si trattava di pura propaganda ideologica,

la realtà è andata in direzione del tutto opposta.

La ricostruzione del triangolo entro cui si svolge il processo

educativo è necessaria, se non si voglia approdare involonta-

riamente, ma tragicamente alla rottura del filo tra le generazioni.

Quale Stato? Questa è la domanda! Giacchè dietro l’afferma-

zione indubitabile che “tale è lo Stato, tale è la Scuola” si legge

in filigrana già un’idea di Stato. La pressione della crisi

finanziaria e del debito pubblico nonché la bancarotta e la cor-

ruzione dei centri di spesa sul territorio – Comuni, Province,

Regioni e, talora, scuole – stanno facendo rinascere l’illusione

di un neo-centralismo taumaturgico. Questa deriva è già in-

cominciata nel sistema di istruzione, in cui l’autonomia sco-

lastica, nata rachitica quale solo decentramento funzionale,

è stata gradualmente azzerata. Il ri-accentramento e l’impri-

gionamento sul letto di Procuste, per via di catene burocratiche

e amministrative, separa e al iena la scuola dalla società.

Perciò il tempo di apprendimento non è vissuto dai ragazzi

come tempo di vita. È un tempo alienato. Alienato per i ragazzi

e per i loro insegnanti. Così la scuola, che già deve sopportare

la delega educativa sempre più pesante delle famiglie e la pres-

sione del disagio sociale est erno, si tr ova a sua v olta a

generare disagio in proprio: nei ragazzi, sotto forma di noia,

depressione, aggressività, non-senso, e negli insegnanti, sotto

forma di demotivazione e di burn out crescenti.

Il tempo dello Stato educatore è finito. Questo era il messaggio

del nuovo Titolo V e dell’ipotesi federalista. Ma è evidente che

la politica e la società civile in Italia sono “ammalate di stato”.

Si tratta di una malattia mortale.

Giovanni Cominelli esperto di sistemi educativi

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX8

FATTI E OPINIONI

Fabula docet

Quando muore l’imperatore

Per questa Fabula vi racconto una storia che sembra giun-gere da lontano e subito si smarrisce in quella lontananzaproprio mentre si proietta come un’iridescente luce nelnostro futuro. Una favola da ultimo giorno. Il giorno dellamorte dell’imperatore Hirohito, il giorno in cui il Giapponeanche solo per un attimo si è fermato. È mai possibile fer-mare il mondo? La morte richiama il bisogno umanissimo,oggi così disatteso e banalizzato, di una liturgia. E la litur-gia, civile o religiosa, in qualsiasi modo la si prenda e la sipratichi, è infatti una grande e potente macchina simboli-ca capace per un momento di fermare il tempo, di con-templare l’attimo, di aprirlo all’infinito e all’eterno. Cosìnella lontananza che il mondo giapponese evoca, si spe-gne la figura ieratica di Hirohito, che un bellissimo film diSukurov, Il sole, ha raccontato proprio nei giorni dellasconfitta militare. Alla sconfitta ha fatto seguito la famosadichiarazione radiofonica in cui dichiarava di non esserepiù un dio. Hirohito, nel gennaio del 1946, pronunciò viaradio alla nazione il Tenno no ningen sengen (Dichiarazionedella natura umana dell’imperatore), con cui il sovrano di-

chiarava formalmente di non essere di natura divina, ne-gando di conseguenza la superiorità dei giapponesi neiconfronti delle altre nazioni del mondo. All’annuncio dellasua morte il 7 gennaio del 1989, molti, anche in Occidente,hanno avuto la percezione che stesse morendo non uneroe, non un gigante del secolo, ma un simbolo di qualco-sa che ci sfuggiva senza lasciarci indifferenti. In quell’ago-nia e poi nella sua morte, infatti, si sentiva vagamente lafine di un tempo, la cancellazione ultima di un enigma,dell’ultimo dimenticato segno di un tempo sacro. Un simbolo può vivere o morirema non sopravvivere, pena la suaobsolescenza e il suo oblio. Maperché questa fabula lontana einattuale? Che cosa lega la mortedell’imperatore con i temi cheagitano anche la nostra quoti-dianità, appena la guardiamosotto traccia? Forse una rispostaparziale la troviamo in una sor-prendente pagina di Elias Canet-ti Il diario da Hiroshima del dottorHachiya. In essa si racconta di un medicogiapponese di cultura occidenta-

Pensieri del tempodi Giuseppe Acone

Ultime notizie dal pianeta-scuola

Leggo sul Supplemento domenicale del Corriere della Sera (La Lettura del 7 Ottobre 2012),

quanto segue: «Il vero disastro è l’istruzione professionale da sempre considerata un ghetto,

diventato un tunnel senza speranza per gli studenti e un campo di battaglia per gli inse-

gnanti, che devono andare a lavorare con l’elmetto».

È l’estratto della dichiarazione di un bravissimo professore della scuola italiana, Gianfranco

Giovannone, autore del libro Perché non sarò mai un insegnante (Longanesi, Milano 2005),

dichiarazione fatta nel contesto di un’intervista assai equilibrata e con tratti di grande pene-

trazione pedagogica. Il professor Giovannone scrive con efficace e suggestiva lucidità.

Egli appartiene all’élite della docenza di questo povero Paese. Così accade che ci conforta

constatare che nella disastrata scuola italiana ci siano professori di tale levatura e compe-

tenza. Capaci di un loro umile eroismo in mezzo alle macerie. Ci crea dolore, invece, che tali

professori (i migliori) non possano nascondere un identikit del campo di battaglia in cui

operano, non possano fare da schermo ad una situazione insostenibile. Quanto emerge dal-

la dichiarazione del professor Giovannone al Corriere della Sera lascia comprendere che egli

continua ad operare in prima linea nonostante tutto.

Senza retorica, al prof. Giovannone e a tutti gli insegnati che operano sull’estrema frontiera

dell’istruzione professionale in Italia (in certi contesti ambientali si tratta di piccoli Bronx)

giunga, da questo piccolo pianerottolo della Rivista, il mio sincero sentimento di solidarietà.

Giuseppe Acone - Università di Salerno

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX9

FATTI E OPINIONI

le ricoverato dopo l’esplosione ad Hiroshima nell’ospeda-le che prima dirigeva e del suo disperato bisogno di trova-re un testimone per poter continuare a vivere da soprav-vissuto a quella immane catastrofe. Si racconta dell’illimi-tata gioia quando dentro quell’ospedale in rovine, tra itanti morti, venne ritrovato il ritratto dell’imperatore.

Ma l’imperatore esisteva sempre – scrive Canetti –, la continuitàdella vita dipendeva da quella di lui: anche durante la catastrofeche colpì la città il suo ritratto venne salvato. In mezzo alla folladegli agonizzanti e dei feriti gravi della città, poche ore dopol’esplosione della bomba atomica, il ritratto dell’imperatore vieneportato al fiume. I moribondi fanno posto: il ritratto dell’impe-ratore! il ritratto dell’imperatore! Bruciano ancora a migliaia dopoche il ritratto dell’imperatore è stato tratto in salvo e portato viada un battello.

Ma il dottor Hachiya non si dà pace dopo questo primoracconto:

egli va in cerca di ulteriori testimoni, in particolare di quelli chepresero parte all’impresa […] Si avverte – commenta Canetti –che di tutto quanto è successo, questo è per lui il fatto più riccodi speranza: suona come se fosse la sopravvivenza dell’impe-ratore.

Che cosa dunque cercava così perdutamente, là dove tut-to era morte e distruzione e il mondo sembrava non esse-re più, il dottor Hachiya? Non la sua vita o la sua individua-

le sopravvivenza, ma il ritratto dell’imperatore, che era lasopravvivenza stessa, il segno di una vita che poteva con-tinuare, l’ultima testimonianza di un mondo e di una uma-nità mortalmente ferita. Solo allora il medico giapponeseavrebbe potuto morire senza temere di essere con quellamorte del suo corpo biologico e storico anche annullatonel grande nulla della catastrofe, che cancella con la vitaanche il senso della sua esistenza.E se nella fine di Hirohito non abitasse lontanamente an-che per noi, l’ultima silenziosa agonia di un possibile testi-mone, tragica metafora, da cui poter dipanare un estremosenso alla vita? «Nous sommes au bord du désastre sansque nous puissions le situer dans l’avenir – scrive MauriceBlanchot – il est plutot toujours déjà passé et pourtantnous sommes au bord et sous sa menace». È su questo bordo, infatti, là dove “il ritratto dell’imperato-re” sembra smarrito e inesorabilmente dissolto dal tempo,che si alimenta necessariamente il nostro frenetico e an-goscioso commercio delle fotocopie per fermare la possi-bile e temuta nostra dissoluzione nell’oblio. «Una favola –diceva Goethe – che riporterà alla mente tutto e nulla». A noi scegliere. In questione, finalmente, non è poi la mor-te, ma la vita stessa.

Graziano Martignoni - Università di Friborgo (Svizzera)

Orari di insegnamento Ue e Ocse

I docenti italiani della scuola primaria svolgono 757 oredi insegnamento all’anno. La media oraria nei Paesidell’Unione è di 778 ore e quella dei Paesi dell’Ocse di779 ore, con una differenza rispettivamente di 21 e 22ore sotto la media (pari a -2,7%).I docenti italiani della scuola secondaria di primo gradosvolgono 619 ore di insegnamento all’anno. La mediaoraria nei Paesi dell’Unione è di 670 ore e quella deiPaesi dell’Ocse di 701 ore, con una differenza sotto lamedia rispettivamente di 51 (-7,6%) e 82 ore (-11,7%).I docenti italiani della scuola secondaria di secondogrado svolgono anch’essi 619 ore di insegnamentoall’anno. La media oraria nei Paesi dell’Unione è di 634 ore equella dei Paesi dell’Ocse di 656 ore, con una differenzasotto la media rispettivamente di 15 (-2,4%) e 37 ore (-5,6%).

Asterischi di Kappa

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX10

FATTI E OPINIONI

La lanterna di Diogenedi Fabio Minazzi

A proposito della pedagogia del bastone e della carota

Recentemente il Ministro Francesco Profumo ha evocato la peda-

gogia del “bastone” e della “carota”. Così ha affermato: «Dobbiamo

usare un po’ il bastone e un po’ di carota. Qualche volta un po’ di

più il bastone e un po’ di meno la carota. In altri momenti più carote,

ma mai troppe». A parte la larvata simpatia che sembra emergere

a favore della pedagogia del bastone (mai troppe carote!), come

uomini di scuola non possiamo non rimanere profondamente tur-

bati da questa affermazione. Possibile che chi occupa i vertici della

scuola e della formazione in Italia possa riferirsi alla “pedagogia del

bastone e della carota”? Vogliamo forse tornare all’esaltazione del

“santo manganello”? Vogliamo ricordare la brutta pagina di un gran-

de filosofo come Gentile che invoca la “pedagogia del bastone” per

raddrizzare la testa (e i pensieri) di un filosof o antifascista come

Martinetti? Oppure vogliamo dire che il popolo italiano andrebbe

trattato come un tempo si solevano trattare gli animali? Un tempo,

perché oggi non è più possibile picchiare un nostro fratello animale

senza incorrere – giustamente – nei rigori della legge che vieta di

procurare dolore ad un animale. Ma questo ministro ha mai pensato

che occupa la Minerva senza possedere uno straccio di mandato

popolare? Oppure si sente un “unto del signore” che, avendo in tasca

la verità, si può permettere di guidare un popolo recalcitrante di

docenti e studenti sulla strada del vero a colpi di zuccherini e di

bastonate? Purtroppo, l’affermazione del Ministro Profumo non

è un lapsus, ma è rivelatrice di una mentalità: quella di chi crede

veramente di avere il dovere di guidare, con mano ruvida, ma sicura,

dei bambini-docenti e dei bambini-studenti, recalcitranti, sulle vie

del vero, del bello e del buono.

Fabio Minazzi Università dell’Insubria

Credo. Aiutami nella mia incredulità!

Sembrerebbe esprimere una contraddi-

zione la preghiera di questo papà: cre-

de o non crede? In effetti la sua è una

delle preghiere più belle che il Vangelo

ci consegna, sospesa com’è tra fede e

incredulità; parola di una fede umile e

consapevole di altezze vertiginose im-

possibili all’uomo.

La preghiera del padre protagonista

dell’episodio nasce dal bisogno di avere

da Gesù un gesto che liberi il figlio epi-

lettico dalla terribile malattia che lo tie-

ne schiavo. “Se puoi qualche cosa…

abbi pietà di noi!”. A Gesù sembra non

piacere questa preghiera, e rimprovera

il padre: tutto è possibile a chi crede!

Ma questo uomo tenace non si

arrende, mostrando al tempo

stesso di riconoscere la sua poca

fede e la sua fiducia in Gesù: «Cre-

do, aiutami nella mia increduli-

tà». Ora che si è reso conto di

quanto fragile sia la sua fede, può

affidarsi all’impossibile di Dio e

ottenere il miracolo.

Ed è come se Gesù avesse voluto

dirgli: tu mi hai chiesto la guari-

gione del figlio, ma io voglio darti di

più, voglio che tu impari a fidarti di Dio,

a credere che Lui non solo può guarirti

il figlio, ma può liberarti per sempre

dalla paura e darti la forza di coloro che

si affidano. Quella di questo padre è

una preghiera che interpreta intensa-

mente l’esperienza spirituale di coloro

che, credenti in Dio, sono consapevoli

che la fede può misurarsi solo con il

metro dell’infinito. E con questo metro,

è sempre povera, fragile, piccola.

Fede e incredulità vivono dentro la co-

scienza del credente, in una tensione

continua che permette alla fede di non

trasformarsi in tranquillo possesso, ma

di restare apertura a Dio, nell’attesa del-

la sua compassione e nella disponibilità

al suo imprevedibile mistero: all’impos-

sibile, appunto!

Solo chi è convinto di avere una fede

certa e incrollabile è così sicuro di sé da

non avvertire più il bisogno di affidarsi

a Dio; e allora si colloca veramente nel

numero degli increduli.

Paola BignardiPubblicista, già presidente nazionale

dell’Azione Cattolica Italiana

Il Vangeloe la vitadi Paola Bignardi

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 11

FATTI E OPINIONI

Asterischi di Kappa

Il futuro alle spalledi Carla Xodo

Dalla parte dei giovani

La storia o la fortuna delle parole riesce qualche volta a darti lo spaccato di

un momento della società rispetto al quale lunghe e dotte dissertazioni po-

trebbero sembrare periferiche. Il termine che aleggia sopra le nostre teste,

carico di quella suggestione che provoca il mistero – così suppongo sia per

gran parte dell’opinione pubblica – è choosy. Pur derivando da un verbo

molto comune, to choose che significa scegliere, ha una connotazione infor-

male, allude a una caratteristica giovanile. L’aggettivo veleggia col vento in

poppa perché è stato pronunciato da una figura istituzionale di grande po-

polarità e visibilità come il ministro Fornero. Tradotto magnificamente con

l’italiano “schizzinoso”, nelle intenzioni del ministro era/è inteso a qualificare,

o squalificare, l’irresponsabilità di molti giovani che “fanno i difficili” quando

viene loro offerta una chance di lavoro. Detto terra terra: i giovani, o almeno

parte di essi, si fanno male da soli, sono irresponsabili, dovrebbero farsi su le

maniche e accettare tutto quanto viene proposto, all’insegna dell’adagio

meglio un uovo oggi che una gallina domani. Ma c’è un ma.

Quel “ma” è rappresentato da un tratto intollerabile di parte della società.

Fu Mario Monti a stigmatizzarlo quando era commissario europeo. Son

passati quasi dieci anni da allora, ma nulla è mutato: resta aperta, anzi

apertissima, la questione giovanile, con la crisi e prima della crisi. Monti

parlava esplicitamente di “egoismo” degli adulti e da cos’altro dovrebbe

derivare la condizione di chi – la maggioranza – affronta il futuro senza fu-

turo, costretto per lo più a pagare per scelte di chi è venuto prima, preoc-

cupato solo del suo “particolare”, del suo oggi?

Il ministro Fornero la conosce di sicuro, ma vale la pena ricordare comun-

que la sofferenza di chi, dopo aver speso parte di giovinezza e risorse familia-

ri per conseguire una laurea, trova tutte le porte sbarrate. Prendiamo un cor-

so di laurea “difficile” come ingegneria: costoso, non fosse altro perché com-

porta un tempo mediamente lungo per il suo completamento, ma appetibile

perché dovrebbe garantire un accesso rapido al lavoro. Capita non di rado

che in colloqui per un posto di lavoro ci si senta chiedere di dar conto del-

l’esperienza maturata. Ma se trovi le porte chiuse e hai problemi economici

in famiglia, come avviene di frequente, ti devi adattare con la tua laurea a

svolgere lavoretti precari, come consegnare pizze a domicilio o fare il came-

riere in una birreria. In questo caso non saresti “choosy”, come dice la ministra

Fornero, ma che ne è del tuo “curricolo”? Rimarrai sempre al palo. Ma allora la

ministra dovrebbe completare così: «Non siate “choosy”, ma pensateci bene

prima di andare all’università, perché vi costa tempo e denaro e non vi dà

quasi nulla di ciò che vi promette». Ma questo sarebbe troppo per quello che

è ed è stata l’università. Forse per sistemare il motore sociale il cacciavite non

serve proprio più, non sarebbe più in grado di rimettere in sesto le cose.

Carla Xodo Università di Padova

Europa: le chiese diventanomoschee

L’oriente è pieno di chiese trasformate inmoschee, come la Omayyade di Damasco, laIbn Tulun del Cairo e la cattedrale di SantaSofia a Istanbul. Anni fa una profezia delloscrittore franco-romeno Emil Cioran gettòuna luce sinistra anche sull’Europa: «Ifrancesi non si sveglieranno fino a che NotreDame non sarà diventata una moschea». Si è tornati a citare Cioran ora che la chiesadi Saint-Eloi a Vierzon, fra la Loira e laBorgogna, diventerà un luogo di cultoislamico. La diocesi di Bourges, in mancanzadi fondi e fedeli, l’ha messa in vendita el’offerta più significativa, oltre a quella diaziende e commercianti, è arrivatadall’Association des Marocains. Il quotidiano Berry Républicain rivela chesono stati i fedeli, in accordo con la diocesi diBourges, ad appoggiare la scelta ditrasformarla in moschea. Recentemente sonousciti i dati sul cosiddetto “sorpasso islamicoin Francia”, dove si costruiscono più moschee,e più di frequente, di chiese cattoliche, e cisono più praticanti musulmani che cattolici.Il più noto leader islamico, Dalil Boubakeur,rettore della gran moschea di Parigi, haipotizzato che il numero delle moschee dovràraddoppiare, fino a quattromila, persoddisfare la domanda. Da anni gruppimusulmani stanno chiedendo ai cattolici ilpermesso di usare le chiese vuote, anche senzaacquisirle, per risolvere i problemi di trafficoprovocati da migliaia di musulmani chepregano in strada. Un fenomeno, quello dellaconversione delle chiese in moschee, comune atutto il centro e nord d’Europa. In Olanda250 edifici dove per oltre un secolo hannopregato cattolici, luterani e calvinisti hannocambiato di mano. In Germania quattrocentochiese cattoliche e cento protestanti sonostate chiuse. La Scandinavia vive lo stessofenomeno. In Inghilterra diecimila chiesesono state chiuse dal 1960 e per il 2020 siprevede la dismissione di altre quattromila. (da G. Meotti, «Il foglio», 18 ottobre 2012).

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX12

FATTI E OPINIONI

Risposta a domanda

Contestazione di addebito per votibassi?

Un lettore chiede se il Dirigente Scolastico, sulla base di lamen-

tele ricevute nei confronti di un insegnante, possa avviare pro-

cedimenti disciplinari, contestando al doc ente l’addebito,

senza averlo prima consultato. Abbiamo chiesto il parere a tre

esperti.

Spett. Nuova Secondaria,pongo la seguente domanda. Può il Dirigente Sc olasticoavviare procedimenti disciplinari sulla base di presunte lamen-tele verbali o scritte contro qualche docente, il quale si ritrovala lettera protocollo riservato tra capo e collo, con tanto di “con-testazioni di addebito ”… senza av erne nemmeno saputauna parola prima? Così, il suddetto “inquisito”, convocato a ri-spondere formalmente (cito il caso di un collega a me noto),si è giustificato puntualmente a voce e per iscritto, motivandoi “voti bassi” di quella certa verifica (l’oggetto del contenzioso)i quali gli erano stati imputati come una colpa: ha ricordatoil suo metodo di lavoro, funzionale alle “conoscenze” e alle “com-petenze” tanto reclamizzate nel POF e richiamate nei Piani diLavoro, la condivisione coi colleghi dei criteri di valutazione, laprogrammazione della prova, fatta per tempo e accompagnan-do la scolaresca con spiegazioni chiare e “sondaggi” (verificaformativa). Ha anche fatto presenti le difficoltà incontrate (pres-soché da tutti i colleghi) a lavorare in quella certa classe, mai suoi argomenti sono stati giudicati “non pertinenti”. […] Anzi,pure la beffa. Si aggiunge che non si son visti “segni di ravve-dimento” nelle sue parole.

Lettera firmata

Nel merito delle questioni proposte due sono gli aspetti

che richiedono un approfondimento, l’uno di contenuto, l’altro

di carattere procedurale o di metodo.

Quanto alla domanda se sia legittima o meno la contestazione

di addebito, «senza averne nemmeno saputa una parola pri-

ma» e «solo sulla base di pr esunte lamentele verbali o

scritte», la risposta è chiara. L’operato del dirigente scolastico

è formalmente corretto:

«Il responsabile, con qualifica dirigenziale, della struttura in cuiil dipendente lavora... quando ha notizia di comportamenti pu-nibili con taluna delle sanzioni disciplinari di cui al comma 1, primoperiodo, senza indugio e comunque non oltre venti giorni con-testa per iscritt o l’addebito al dipendente medesimo e loconvoca per il contraddittorio a sua difesa» [D.lgvo 150/2009,art. 69, cma 2].

Tuttavia… si tratta davvero di una decisione giusta e inop-

pugnabile? Lo sarebbe a queste condizioni: il dirigente sco-

lastico a) ha ritenuto che l’attribuire «‘voti bassi’ in quella certa

verifica (l’oggetto del contenzioso)» fosse comportamento

punibile; b) ha ritenuto trattarsi di «infrazione di minore gra-

vità», per la quale è prevista l’irrogazione di sanzioni superiori

al semplice «rimprovero verbale».

Ora, attribuire un ‘voto basso’ in una verifica è davvero un com-

portamento punibile? A quale dovere professionale sarebbe

venuto meno il docente? In questo caso, si potrebbe far rife-

rimento a mancanze lievi ai doveri inerenti alla funzione do-

cente o i doveri di ufficio (art. 492 D.Lgs.297/94), per le quali

è previsto il «rimprovero scritto», o a mancanze non gravi (art.

493 D.Lgs.297/94), per le quali è prevista la «censura». Ma a

che condizioni si può affermare che l’attribuire un voto basso

può essere considerato mancanza liev e o non gr ave? A

condizione che si provi e si documenti, oltre ogni possibile dub-

bio e alla luce del dispositivo di valutazione (criteri, procedure,

strumenti e metodi) deliberato a livello di Istituto alla luce degli

ordinamenti, che il docente manifesti «inefficienza ed incom-

petenza professionale»; ossia che non sappia verificare e va-

lutare.

Il punto è che, se non ricorrono queste condizioni, in modo

inequivocabile, il il comportamento del dirigente scolastico

risulterebbe lesivo della libertà di insegnamento del docente,

salvaguardata dalla norma costituzionale.

E ancora, posto che il dirigente sia in grado di provare e do-

cumentare l’incompetenza valutativa del docente, resta da ca-

pire perché abbia esperito la via del procedimento disciplinare

e non altre modalità di intervento, quali ad esempio l’esercizio

del ruolo di guida cultur ale, pedagogica e didattica dei

docenti che pure gli appartiene; oppure il semplice colloquio

chiarificatore o, al limite, il rimprovero verbale. Il fatto che abbia

deciso per una linea rigidamente censoria lascia pensare che,

nel caso in esame, si sia trovato di fronte a incompetenza va-

lutativa, oltre che documentata anche reiterata, per la quale

le misure già esperite si siano dimostrate inefficaci. Se così non

fosse (come il docente afferma), il comportamento del diri-

gente desterebbe molte perplessità, anche per quanto con-

cerne il metodo.

Ermanno PuricelliDirigente scolastico

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 13

FATTI E OPINIONI

La questione sollevata è generale e merita qualche riflessione:

è giusto che i dirigenti dispongano di margini di discrezionalità?

Sul piano giuridico, la risposta è nota a tutti quelli che si oc-

cupano di gestione del personale e di pubblica amministra-

zione: la discrezionalità di chi deve decidere è non solo neces-

saria, ma perfino utile – in via generale – a chi è oggetto di de-

cisione. Il libero convincimento è garanzia che il giudizio non

si trasformi in un automatismo disumano e che tutte le circo-

stanze possano essere pesate in modo equo e conforme a giu-

stizia e non solo a diritto. Son convinto che la domanda accorata

del docente vada più correttamente riferita non ai margini di

discrezionalità, ma all’utilizzo che nel caso concreto ne è stato

fatto. Utilizzo che – se le cose sono effettivamente andate come

riferito – appare effettivamente abnorme. Certo, occorrerebbe

chiedersi se non ci fossero altre circostanze che non emergono:

per esempio, se vi f ossero precedenti; se la sev erità del

giudizio si fosse accompagnata con argomentate motivazioni

o fosse stata espressa in modi apodittici e forse umilianti, come

purtroppo accade.

Ma qui si inserisce la seconda riflessione che l’episodio suscita

e che sembra più rilevante: comunque siano andate le cose, bi-

sogna saper tenere distinti i piani, professionale e disciplinare.

La questione della severità del docente, che fosse eccessiva o solo

giusta, era chiaramente di natura professionale. Questo tipo di

problemi va gestito con strumenti diversi, in primo luogo attra-

verso un colloquio. Qui non è in gioco la competenza relativa a

una specifica materia: sono in causa aspetti docimologici, peda-

gogici e relazionali sui quali tutti coloro che operano o hanno

operato in classe dovrebbero parlare un linguaggio comune, fatto

di esperienza ma anche di riflessione e di studio teorici.

Per dialogare, naturalmente, bisogna essere in due: e qui tor-

niamo alla difficoltà iniziale di attribuire torti e ragioni in una

vicenda della quale siamo tutti informati solo in via indiretta.

Se il dialogo sia mancato perché il dirigente abbia preferito im-

boccare impropriamente una scorciatoia disciplinare o perché

il docente si sia arroccato nell’intangibilità della propria auto-

nomia valutativa, non lo sappiamo e potr ebbero dirlo solo i

diretti interessati. Di certo quando sono in gioco i ragazzi, tutti

gli attori dovrebbero prima cercare di comprendere e di com-

prendersi, piuttosto che troncare le vie del dialogo.

Giorgio RembadoPresidente dell’Anp (Associazione nazionale dirigenti

e alte professionalità della scuola)

La procedura seguita dal Dirigente è corretta sul piano

formale se sono state espletate tutte le fasi. Vanno considerate,

infatti, le novità introdotte in materia disciplinare e cautelare

per il personale della Scuola con il D.Lgs. n.150/2009 meglio

noto come Decreto Brunetta emanato in applicazione della

delega ex Legge n. 15/2009, che innova profondamente le

norme sulla responsabilità disciplinare dei dipendenti pub-

blici.

Le nuove norme sul Codice disciplinare che la Legge citata con-

tiene modificano l’art. 55 del D. L.vo 165/2001, con l’introdu-

zione di altri sett e articoli fino al 55 octies, con nuove

procedure. Sostanzialmente cosa cambia per i docenti? Avver-

timento scritto, censura e sospensione senza retribuzione fino

a dieci giorni sono ora di competenza del dirigente scolastico,

con le modalità e i termini indicati dalle nuove norme.

L’avvio del procedimento disciplinare avviene quando il di-

rigente «ha notizia di comportamenti punibili con taluna delle

sanzioni disciplinari di cui al comma 1, primo periodo (dal rim-

provero verbale alla sospensione dal servizio, senza retribu-

zione, fino a dieci giorni)» e «senza indugio e comunque non

oltre venti giorni contesta per iscritto l’addebito».

Per sanzioni superiori al rimprovero verbale è necessaria, quindi,

la contestazione dell’addebito, che deve contenere l’esposi-

zione degli aspetti essenziali del fatto contestato e deve essere

preceduta dall’accertamento del fatto mediante testimonianze,

raccolta di documentazione, eventuale audizione del dipen-

dente, senza però instaurazione di un contraddittorio. Succes-

sivamente alla contestazione d’addebito, il dirigente scolastico

deve convocare il docente «per il contraddittorio a sua difesa

[…] con un preavviso di almeno dieci giorni». Il dipendente

può avvalersi dell’eventuale assistenza di un avvocato o di un

sindacalista (non entrambi).

Fin qui le norme, va da sè che il caso, come descritto dal do-

cente, meriterebbe un ulteriore approfondimento. Comunque

il buon senso avrebbe voluto che il primo approccio al pro-

blema, che sembra riguardare esclusivamente le modalità di-

dattiche e valutative, il dirigente lo avesse prima delegato a

pacati e chiarificatori colloqui con il docente.

Paola TonnaPresidente dell’Apef

(Associazione per educatori e formatori)

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Una rete di emozioni Barbara Bruschi

SIAMO PER FORTUNA CONSAPEVOLI DEI LIMITI DI UNA TV CHE SPETTACOLARIZZA LE EMOZIONI, MA FORSE

NON CI RENDIAMO ANCORA BENE CONTO DI COME QUESTO FENOMENO SIA PRESENTE ANCHE NELLA RETE, CON MECCANISMI PIÙ SOTTILI MA ALTRETTANTO CONDIZIONANTI. QUANTO PERDE IN PROFONDITÀ UN’EMOZIONE VISSUTA COSÌ? IL CASO, AD ESEMPIO, DELLA TRISTEZZA.

Forza ragazzi! questo gruppo si sostiene

da sé... non servono link con frasi fatte,

qui ognuno racconta la propria storia e

insieme si possono superare momenti

difficili... (da Facebook)

Spesso è possibile ricondurre le di-

verse epoche ai simboli che le

hanno caratterizzate. Volendo in-

dividuare gli aspetti che potr ebbero

connotare la nostra epoca, potremmo fa-

cilmente scegliere la mediazione e la con-

divisione.

Il contestoLe analisi sociologiche e demografiche,

da diversi anni, riportano il fatto che la

maggior parte delle persone possiede

numerose tecnologie per la mediazione

e ne fa un ampio impiego per interagire

con i pari, ma anche per esplorare le realtà

attorno a sé. La comunicazione diretta,

quella basata sulla sincronia e sulla con-

divisione di un medesimo luogo non

sembra più così frequente, al punto che,

in alcuni casi, ad essa si preferisce quella

mediata1. Non possiamo negar e che le

tecnologie ci hanno reso difficile accet-

tare le criticità connesse alla distanza: dif-

ficilmente, oggi, potremmo tollerare di

non sentire un nostr o caro per mesi,

solo perché si è trasferito dall’altra parte

del mondo o di non avere notizie di un

amico per intere giornate in quanto re-

sidente in una città distant e qualche

centinaio di chilometri dalla nostra. Sa-

remmo egualmente infastiditi dal non

poter comunicare, in tempo reale e più

volte al giorno, con chiunque ri entri

nella sfera dei nostri affetti. Abbiamo ne-

cessità di essere connessi e poco distanti

a prescindere dallo spazio e dal tempo

in cui viviamo. Il nostro contatto con l’al-

tro, oltre ad essere immediato, deve ri-

spondere ai criteri di rapidità e dinami-

cità tipici, in par ticolare, delle nuo ve

tecnologie e dei servizi messi a disposi-

zione da queste. Un cellulare spento o la

mancata risposta ad un sms sono in gra-

do di alterare il tono dell’umore della

gran parte della popolazione del mondo

occidentale.

Questo fenomeno trae origine in diversi

fattori tra cui spicca, soprattutto attual-

mente, la necessità di condividere. Infatti,

i nuovi prodotti mediali quali i social net-

work nascono e si diffondono sul prin-

cipio della condivisione. Da Facebook a

Twitter, passando attr averso qualche

decina di altre applicazioni, l’imperativo

categorico è: mettere in c omune. In

questi contesti siamo ciò che diamo

agli altri, ciò che lasciamo sul nostro pro-

filo affinché gli altri si costruiscano una

rappresentazione della nostra identità.

Passionari, tristi, solari o malinconici, i no-

stri “post” rappresentano gli ingredienti

per la configurazione e riconfigurazione

perenne del nostro io mediato. Nel mo-

mento stesso in cui pubblichiamo in rete

una fotografia o una frase noi siamo ciò

che quella fotografia o quella frase signi-

ficano, a prescindere da tutto il resto, dal-

la nostra storia precedente, dalla nostra

realtà, dal nostro essere un istante dopo.

Queste caratteristiche delle r elazioni

attuali interessano in particolare chi, a di-

verso titolo, si occupa di adolesc enti.

Come noto, i contesti mediati della co-

municazione sono, per la gran parte

degli adolescenti, un terreno molto fre-

quentato che ha assunto un valore so-

ciale decisamente importante. In parti-

colare, il nostro interesse di insegnanti

ed educatori è dato da una serie di ele-

menti che parrebbero ben sintetizzare

alcuni aspetti r elativi all’impiego dei

social network da parte dei più giovani.

Essi sono:

• l’estemporaneità delle emozioni;

• l’effimero emotivo;

• il virale emozionale;

• la spettacolarizzazione delle

emozioni;

• il Caos emotivo.

Di seguito illustreremo ciascuno di

questi fattori con una declinazione par-

ticolare rispetto alla tristezza. Tale scelta

è determinata dal fatto che questa emo-

zione, forse più di altr e, richiama un

tipo di intimità particolare che, general-

mente, tendiamo ad esibire con una cer-

1. Si pensi all’impiego degli sms e dei social network so-prattutto tra i più giovani.

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

14 Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX

ta cautela anche quando essa viene

resa pubblica. Inoltre, la tristezza può es-

sere associata ad ev enti anche gr avi

che ci si aspetterebbe venissero affron-

tati con una delicatezza e un rispetto par-

ticolari, assai differenti dai toni e dagli

spazi che qualsiasi social network può as-

segnare loro. La realtà dei fatti ci dimostra

una certa presenza di questa emozione,

nell’ambito delle discussioni online, af-

frontata, spesso, con una leggerezza e

una semplicità che inducono alla rifles-

sione.

Quanto dura un’emozioneCominciamo affrontando il primo aspet-

to che riteniamo meriti una certa atten-

zione: l’estemporaneità delle emozioni. La

scrittura all’interno dei canali del web 2.0

è spesso improvvisata. Si scrive, appunto,

sull’onda delle emozioni o in risposta a

qualcosa che ha suscitato il nostro inte-

resse o ancor più un moto di empatia. Si

scrive per condividere ovvero per met-

tere i nostri “amici” a parte di quanto ci

sta accadendo. I messaggi che ne risul-

tano sono assai lontani dalla riflessione

che ha per lungo tempo caratterizzato

la comunicazione scritta.

La stesura di una lettera, spesso, richie-

deva tempo, quello necessario per sce-

gliere con cura le parole giuste, la forma

più appropriata al contenuto da trasmet-

tere e più adatta al nostro interlocutore.

I post non rispettano nessuna di queste

condizioni: si digitano le lettere sulla ta-

stiera e si preme invio; in pochi attimi si

genera e si consegna al pubblico qualun-

que nostro pensiero, qualsiasi conside-

razione, qualsiasi emozione. Non importa

se l’espressione risulterà esagerata, pe-

ricolosa, offensiva.

Ciò che interessa è esserci e dimostrare

di essere non solo pr esenti, ma anche

pensanti ed emotivamente attivi. Coloro

che frequentano abitualmente i social

network non si limitano a c ondividere

considerazioni su argomenti generali o

di interesse comune. Quel che caratte-

rizza questi contesti relazionali e comu-

nicativi è proprio il fatto di oltrepassare

qualsiasi confine tra pubblico e privato

e di puntare dritto alla sfera più intima

delle persone ovvero quella affettiva ed

emotiva. Prendiamo ad esempio uno dei

tanti post in cu i ci si può imbatt ere

esplorando le comunità di Facebook: «È

il blog personale, vorrei condividerlo con

voi del gruppo! Pur esponendomi diret-

tamente, infondo (sic) non c'è niente da

celare di se stessi, raccontarsi crea unio-

ne».

Appare immediatamente evidente non

solo l’annullamento pressoché radicale

di un confine tra pubblico e privato, ma

l’intento di creare comunità sulla base

dell’esternazione totale dei propri sen-

timenti, della propria emotività. In fun-

zione di questo non distinguo ciò che

può essere detto a tutti da ciò che

merita di essere trattato con maggior ri-

serbo e nemmeno scelgo piani differenti

di comunicazione. La relazione si trasfor-

ma in un fiume che, a seconda delle si-

tuazioni, potrà essere calmo e scorrere

tranquillo, ma che assai rapidamente po-

trà agitarsi ed esondare lasciando dietro

di sé detriti e segni talvolta indelebili del

proprio passaggio. Infatti, come tutto ciò

che non è scelto, preparato, calibrato e

selezionato, i messaggi lasciati all’interno

dei social network generano memorie in-

delebili capaci di fare ritorno nei momenti

più impensati. Parimenti, ciò che è estem-

poraneo appare in qualche modo privo

di radici: si prova un’emozione, si pubblica

un post e poi si v a avanti, magari cam-

biando completamente argomento, lin-

guaggio, registro comunicativo.

Gli esempi sono molt eplici, ma uno

tratto dall’attualità degli ultimi mesi ci

pare particolarmente rilevante. Nel mese

di aprile è deceduto in campo un giova-

ne calciatore: Morosini. È naturale che

questo lutto abbia avuto risonanza non

solo in ambit o calcistico. Questo caso

però, forse per la prima volta, ha avuto

dimensioni e caratteristiche differenti da

quanto si era potuto vedere in preceden-

za. In questa occasione il lutto è stato co-

struito, diffuso e fatto vivere all’interno

dei social network. Si è assistito a una sor-

ta di gara di velocità a chi twittava per

primo un c ommento alla tr agedia, a

chi, sul proprio profilo Facebook, riusciva

ad esprimere con le parole più toccanti

la propria tristezza in una sorta di rituale

per la celebrazione, non solo del c om-

pianto calciatore, ma della trist ezza in

quanto tale.

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

15

NS5 14-32 problemi:Layout 1 15-11-2012 15:10 Pagina 15

deo e brani dai quotidiani per incremen-

tare il pathos e rendere la notizia adegua-

ta, salvo cambiare completamente tono

e contenuto 30 secondi dopo, ovvero in

occasione del post successivo.

Si genera così ciò che abbiamo definito

l’effimero emotivo. Un’emotività veloce e

potente, ma che dura pochi istanti, che

non ammette il tempo del silenzio e della

riflessione, perché nei social network il si-

lenzio non è ammesso in quanto sinoni-

mo di assenza: nella grande rete della

condivisione, non è possibile essere as-

senti se si vuole continuare ad esistere.

Ciò che induce a riflettere non è tanto la

velocità di obsolescenza delle emozioni,

cui, probabilmente, ci aveva già in parte

abituati la televisione, quanto il rapporto

che questi vissuti dell’intimità hanno

con la vita fuori dai social network. In pra-

tica ci chiediamo se il Juk ebox delle

emozioni, che si applica nei social net-

work, non induca, soprattutto nei più gio-

vani, una sorta di bulimia emotiva che po-

tenzierebbe la tipica ricerca di emozioni

forti degli adolescenti e accrescerebbe

quel desiderio di distruzione dei legami

individuato da Pietropolli Charmet (2008).

La velocità e la potenza dei messaggi, ap-

pena menzionate, sono associate alla co-

municazione virale tipica dei social net-

work. Un messaggio può diffondersi ad

altissima velocità e coinvolgere una po-

polazione difficilmente raggiungibile

con altri mezzi e, in particolare, nello stes-

so arco temporale.

ContagioOvviamente, questo aspetto riguarda

anche la diffusione delle emozioni che dà

luogo ad un virale emozionale: una sorta

di turbinio di emozioni che rapidamente

passano nei profili di centinaia di persone

che a loro volta, senza troppo rifletterci e

spinti più dall’istinto che da una v era e

propria condivisione di sentimenti, con-

tribuiscono a mandare in circolo. Con po-

chi clic un’intera popolazione di amici o

presunti tali si troverà a condividere il me-

desimo stato d’animo o ad esprimersi in

merito con qualche considerazione altret-

tanto rapida ed estemporanea. Non si trat-

ta di un fenomeno di per sé critico, anzi,

in alcuni casi questa capacità del web può

essere anche utile. Ciò che tende a lasciare

perplesso, chi non si è ancora completa-

mente adeguato a questi trend, sono l’an-

sia, dimostrata dai più, di farsi coinvolgere

in vissuti emotivi che, sino a quel momen-

to, erano loro assolutamente estranei.

Estranei in quanto non appartenenti al

campo delle esperienze personali. A chi

è cresciuto in un contesto relazionale ba-

sato sul principio della presenza, della co-

noscenza diretta (Granieri, 2009, p. 117) e

sulla netta distinzione tr a pubblico e

privato può risultate difficile comprendere,

e accettare come sinceri, certi moti del-

l’animo che proprio in quanto tali sem-

brano entrare in collisione con un approc-

cio esibizionista e spettacolare.

2. «Nella società dei consumi della modernità liquida iltempo non è né ciclico né lineare, come normalmenteera nelle altre società della storia moderna e postmo-derna. Intendo mostrare che esso è invece puntillistico,ossia frammentato in una moltitudine di par ticelle se-parate, ciascuna ridotta a un punt o che sempre più siavvicina all’idealizzazione geometrica dell’assenza di di-mensione».

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

16 Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX

Al centro del vortice di messaggi che par-

lavano della sua morte non c’era la tri-

stezza per il giovane strappato alla vita,

c’era la necessità di esserci nel momento

in cui si andava costruendo il dolore con-

diviso. A essere importante non era il ri-

cordo della persona, ma il dimostrare di

partecipare, attraverso il proprio post o

il proprio twit, a un lutto dalla potenza

incredibile. Incredibile quanto la velocità

con cui, con un altro post, si cambia ar-

gomento. Ciò perché la pagina di Face-

book o di qualsiasi altro social network,

non è fatta per ospitare la continuità, l’ap-

profondimento, ma per surfare tra emo-

zioni, sentimenti e messaggi in un

tempo che Bauman definisce puntillistico

(Bauman, 2009, p. 56)2.

In questo modo, riferendoci ad un altro

esempio, accanto alla fotografia che ri-

trae la propria nonna che, sotto choc, la-

scia il suo paese terremotato, troveranno

eguale cittadinanza la fotografia di un

gatto che dorme in una posizione biz-

zarra, il video con l’ultimo clip di Adèle

e la ricetta per cucinare bellissime torte

con i Marshmellows. Ciascuno di questi

post avrà i suoi commenti: gli amici

spenderanno parole tristi per la povera

nonna, eventualmente recuperando vi-

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L’emozione fa spettacoloLa mia tristezza o la mia rabbia diventano

la strada più breve per avere il proprio

momento di c elebrità. Ritorniamo al-

l’esempio della nonna terremotata citato

poc'anzi. Postando la sua immagine e al-

cune parole di accompagnamento, riesco

ad attirare su di me l’attenzione del po-

polo dei miei amici che, in virtù del mi-

racolo della condivisione, si sentiranno

immediatamente nel dovere di parteci-

pare alla mia sofferenza e costruire attor-

no ad essa un momento celebrativo di di-

mensioni impensabili nelle realtà fisiche

al di fuori della r ete. In uno sc enario di

questo tipo viene naturale chiedersi se

l’ansia di condivisione non corrisponda

a una necessità insoddisfatta di gratifica-

zione. Come alcuni osser vatori hanno

avuto modo di sostenere, si ha netta la

sensazione che molti di coloro che ten-

dono a consegnare i propri vissuti più in-

timi o quantomeno il proprio bagaglio

emotivo ai post dei social network, in

qualche modo stiano c ercando di c o-

struirsi un profilo esistenziale (Walther J.

B. et al, 2008) differente da quello che la

realtà fisica dispone per loro quotidiana-

mente. In questo contesto non si può di-

menticare che nella rete siamo ciò che di-

ciamo ancor più che nella realtà. Attraver-

so i nostri post e i nostri twit costruiamo

giorno dopo giorno l’immagine che gli

altri hanno e avranno di noi. Un’immagine

che, a differenza della realtà fisica, può es-

sere studiata a ta volino, progettata e

implementata sulla base dei nostri desi-

deri espressi o latenti.

Dal quadro sin qui delineato emerge una

sorta di caos emotivo che caratterizzereb-

be i contesti comunicativi e relazionali del

web. Sembra molto difficile distinguere

l’intensità delle emozioni così come la

loro autenticità. L’impressione è di assi-

stere a una grande messa in scena in cui

ciascuno sgomita per avere la sua parte

e per dimostrare di contare qualcosa. Al

contempo si cede al dubbio circa la ca-

pacità che il popolo dei social network,

in particolare quello più giovane, dovrà

dimostrare, di gestire la propria affettività

nel modo più equilibrato possibile. Che

ne è di c olui che fuori dal w eb vive le

emozioni nella f orma e nell’int ensità

comune a tutti e che in quant o tali ri-

schiano di essere assolutamente ignora-

te? Cosa accade a Nar ciso (Pietropolli

Charmet, 2008) quando fuori dal suo pro-

filo scopre di non essere così particolare

e degno di celebrazione alcuna?

Che cosa può fare la scuola?A questo punto è naturale chiedersi se la

scuola debba avere un ruolo in quest o

contesto e, in caso aff ermativo, in che

cosa possa e debba consistere.

La risposta è, senza dubbio, affermativa:

non solo la scuola ha un ruolo, ma essa rap-

presenta una delle poche agenzie su cui

è possibile contare affinché le nuove ge-

nerazioni acquisiscano quelle competenze

indispensabili per gestire efficacemente

l’esistenza nelle realtà attuali. Il primo ri-

ferimento è alle competenze digitali (Cal-

vani, Fini, Ranieri, 2010) che nec essaria-

mente dovranno essere parte integrante

delle nuove forme di alfabetizzazione.

In particolare, risulterà importante insi-

stere sulla componente etica attraverso

la quale i soggetti potranno acquisire le

conoscenze e le competenze necessarie

a definire ambienti relazionali adeguati,

fondati sul rispetto e la libertà3.

A nostro avviso, pur nella logica del

cambiamento, riteniamo difficile im-

maginare che un sistema sociale basato

sull’estemporaneità, sulla c onfusione

dei ruoli e delle situazioni possa realmen-

te procedere verso una direzione positiva

e costruttiva. Il rischio che si intr avede

all’orizzonte è quello di andare verso un

sistema sociale in cui i Narcisi combat-

tono per ottenere il loro momento o la

loro posizione di prestigio, incuranti di

quanto li circonda. Non dimentichiamo

che, sullo sfondo di questo contesto te-

lematico, è presente e prospera l’ideo-

logia del consumo che continua a pro-

3. «(…) una formazione alla competenza digitale vaconcepita soprattutto come sviluppo di una forma men-tis, di particolari attitudini cognitive e culturali in strettoaccordo con altre competenze di base che valorizzanocapacità critica, metacognizione e riflessività; la fr e-quentazione tecnologica di per sé non può allora essereconsiderata garanzia sufficiente di una r eale compe-tenza digitale; al di sopra di una certa soglia essa puòanche essere inutile o addirittura dispersiva o contro-producente» (Calvani, Fini, Ranieri, 2010, p. 46).

17Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX

NS5 14-32 problemi:Layout 1 15-11-2012 15:10 Pagina 17

porre il suo modello basato sull’inutilità

e sulla fragilità. Inutilità della maggior

parte delle merci proposte e fragilità dei

comportamenti del c onsumatore che

solo nell’atto stesso del possedere sem-

brerebbe trovare, per un istante fugace,

il proprio equilibrio.

In questo scenario ben si acc oglie il

principio della comunità (i social network

come comunità, come spazio della con-

divisione), ma di una c omunità che in

quanto tale valorizza gli elementi che la

compongono per ciò che sono in grado

di dare, a prescindere dal loro valore este-

riore, e, soprattutto, per la capacità di

pensiero che sono in grado di dimostrare

(Silverstone, 2009, p. 62)4.

Quindi di una c omunità che tende a

prendere le distanze dalla superficialità

dell’emozione pubblicata, dove la tristez-

za non diventa l’icona da coltivare, ma

un’emozione che, come le altre, ha una

dimensione di profondità inalienabile. In

quanto tale, essa non è c oltivata o

ridotta a prodotto dell’estetica verbale,

ma affrontata con l’intimità e il riserbo

che si dedicano alle questioni importanti.

Alla scuola e ai docenti si chiede di tra-

smettere alle generazioni di net surfer il

senso di responsabilità che ciascun sog-

getto dovrebbe manifestare nei compor-

tamenti individuali e collettivi (Jenkins,

2010).

Responsabilità intesa come la consape-

volezza che ciascuna azione da noi com-

piuta ha un significat o e delle c onse-

guenze e che, in funzione di ciò, occorre

seguire modelli di comportamenti ade-

guati alle diverse circostanze e al valore

nonché al peso delle diverse situazioni.

Il motore dell’azione non deve essere il

presenzialismo, ma la riflessione, il pen-

siero che portano alla partecipazione au-

tentica ovvero quella che non si esaurisce

nell’atto stesso del partecipare, ma che

tende al cambiamento, al generare una

forma di intervento per modificare un cer-

to stato di cose. In questo modo si ritorna

al concetto di partecipazione attiva, e di

solidarietà civile ovvero di forme di con-

divisione in cui il senso è dat o dalla

misura in cui, attraverso la partecipazione

di tutti, si riesce a intervenire su una situa-

zione ritenuta inadeguata, dolorosa o in

qualche modo poco apprezzabile. Clicca-

re “mi piace” accanto al post della fotogra-

fia della nonna terremotata rappresenta

un atto di una leggerezza e di una facilità

estrema che ha però il pregio – del tutto

relativo – di farci sentire partecipi. Nel mo-

mento stesso in cui pr emo il tasto del

mouse sulla formula magica, sento di aver

preso parte a qualcosa di grande, di im-

portante, di a ver fatto il mio do vere.

Così, soddisfatto posso volgere lo sguardo

ad altro e rinnovare il mio impegno, ali-

mentando Narciso con l’illusione di con-

tare qualcosa.

Agli educatori è richiesto un intervento

atto a rinnovare il significato originale del-

l’impegno civile e della cittadinanza

intesa come l’insieme dei diritti e dei do-

veri. Pertanto, ben venga l’impegno nel

predisporre spazi per la libertà di espres-

sione e la parola democratica; al contem-

po è però necessario che in questi con-

testi vi sia posto anche per il dovere in-

teso come l’agire concreto, volto a pro-

durre cambiamento. Inoltre, occorre fa-

vorire il principio per cui nel moment o

in cui mi rendo conto di non poter agire,

lascio spazio alla riflessione, al pensiero

e all’ascolto. Ascolto non del rumore di

fondo, ma dei messaggi che contano ve-

ramente ovvero di quelli che, al di là di

ogni esibizionismo e di ogni superficialità,

nascono per lasciare un segno.

Barbara BruschiUniversità di Torino

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

BIBLIOGRAFIA

J. Bauman, Vite di corsa. Come salvarsi dalla tirannia dell’effimero, Il Mulino, Bologna 2009.G. Granieri, Umanità accresciuta. Come la tecnologia ci sta cambiando, Laterza, Roma-Bari 2009.A. Calvani, A. Fini, M. Ranieri, La competenza digitale nella scuola: modelli e strumenti per valutarla e svilupparla, Erickson, Trento2010.H. Jenkins, P. Marinelli, A. Purushotma, Culture partecipative e competenze digitali: media education per il 21° secolo, Guerini stu-dio, Milano 2010.Pietropolli Charmet G., Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi, Laterza, Roma-Bari 2008.R. Silverstone, Mediapolis: la responsabilità dei media nella civiltà globale, V&P, Milano 2009.M. Thelwall, D. Wilkinson & S. Uppal, Data mining emotion in social network communication: Gender differences in MySpace, «Jour-nal of the American Society for Information Science and Technology», 61(1), 190-199, 2010.J.B. Walther, B. Van Der Heide, S.Y. Kim, D. Westerman, S.T. Tong, The Role of Friends’ Appearance and Behavior on Evaluations ofIndividuals on Facebook: Are We Known by the Company We Keep? , «Human Communication Research», Vol. 34, No. 1, pp. 28-4, 2008.

4. «Pensare, parlare, ascoltare e agire sono le compo-nenti fondamentali del nostro stare al mondo, costitui-scono le premesse all’essere pubblico. Secondo Arendt,lo spazio dell’apparire ha senso solo quando gli esseriumani pensano, parlano, ascoltano e agiscono gli unicon gli altri, gli uni gli altri, gli uni per gli altri» (Silv er-stone R., 2009, p. 62).

18 Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX

NS5 14-32 problemi:Layout 1 15-11-2012 15:10 Pagina 18

L’università e la formazione degli insegnantiGiuseppe Spadafora

L’IDEA DI UNA SCUOLA AUTONOMA, DEMOCRATICA E MERITOCRATICA, PUÒ ESSERE IL LUOGO

IN CUI I SOSTENITORI DEI SAPERI DISCIPLINARI E I CULTORI DELLE SCIENZE DELL’EDUCAZIONE

POSSONO TROVARE UN PUNTO D’INCONTRO E FARNE IL CENTRO DELLA FORMAZIONE UNIVERSITARIA

DEGLI INSEGNANTI.

Il processo di globalizzazione del capi-

talismo finanziario è un evento talmen-

te egemone che, di fatto, ci potrebbe

indurre a pensare preliminarmente che

il problema della formazione universitaria

degli insegnanti, e della formazione in ge-

nere, sia del tutto insignificante o addi-

rittura pleonastico in un simile contesto.

Tanto più che la strategia di Lisbona del

2000, la quale ipotizzava che nel giro di

dieci anni, proprio grazie allo sviluppo del

capitale umano, l’Europa sarebbe diven-

tata l’economia della c onoscenza più

competitiva del pianeta, sembrerebbe ir-

reversibilmente fallita. Ritengo, invece, che

i princìpi culturali della formazione uni-

versitaria degli insegnanti, che attualmen-

te si svolge nelle strutture previste dalla

normativa - il corso di laurea quinquen-

nale a ciclo unico di Scienze della Forma-

zione Primaria per gli insegnanti della

scuola dell’infanzia e della scuola primaria

e il Tirocinio Formativo Attivo per gli in-

segnanti della scuola secondaria di primo

e secondo grado - debbano essere appro-

fonditi per migliorare la qualità del siste-

ma scolastico italiano del futuro.

Il tutto nasce, a mio avviso, dal dibattito

che da diversi anni si sta svolgendo nel

nostro paese, ma non solo, sulla serietà

della scuola, sulla possibilità che essa sia

autenticamente meritocratica e non

“bocciata” dalle indagini specifiche in

campo internazionale, ma anche dal

confronto tra Nord e Sud

del nostro paese (il proget-

to PISA, acronimo del Pro-

gramme for International

Student Assessment, rivolto

ai quindicenni è stato signi-

ficativo al riguar do e ha

generato i test dell’INVALSI,

Istituto Nazionale per il Si-

stema Educativo di Istruzio-

ne e della F ormazione, su

cui si vorrebbe costruire il

futuro sistema di v aluta-

zione scolastica e universi-

taria). Un punto di partenza

può essere l’intervento mol-

to tranchant, e discutibile, di

Francesco Alberoni (“Corrie-

re della Sera“, 2 novembre

2009) replicato in modo

più articolato e molto me-

glio documentato da diversi altri studiosi,

noti e meno noti, e da persone interessate

al problema. Il sociologo affermava che

la scuola deve essere una erogatrice di co-

noscenze chiare, cronologicamente de-

finite, e non di metodi (la colpa in questo

senso sarebbe dei pedagogisti che avreb-

bero copiato la pedagogia statunitense

senza radici storiche) e che l’arretratezza

della scuola italiana, rispetto a quella degli

altri paesi, sarebbe determinata proprio

da una mancanza di rigor e culturale,

con riferimento in particolare alla insuf-

ficiente acquisizione da parte degli stu-

denti delle conoscenze specifiche disci-

plinari. Si tratta, per quanto concerne il

dibattito culturale attuale nell’università,

della polemica tra “disciplinaristi” e “me-

todologi” o, meglio, tra cultori delle di-

scipline ed esperti delle scienze dell’edu-

cazione. Per cercare di fare chiarezza sulla

questione, anche per i non specialisti,

tenterò, nell’ambito di uno spazio limi-

tato, di riportare la questione nei confini

del dibattito culturale e non delle pole-

miche scarsamente documentate.

John Dewey (1859-1952).

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

19Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX

NS5 14-32 problemi:Layout 1 15-11-2012 15:10 Pagina 19

Nell’ambito della specifica storia cultu-

rale italiana, poco affrontata nel dibattito

culturale internazionale, il rif erimento

centrale è Giovanni Gentile, filosofo an-

che sotto questo profilo “bestemmiato

e pianto”, non adeguatamente cono-

sciuto, ma molto citato. Nel 1901 il gio-

vane filosofo siciliano (aveva allora 26

anni) pubblica l’articolo Il concetto scien-

tifico della pedagogia. Egli sostiene che

la pedagogia, per essere scienza, si “risol-

ve” nella filosofia, che egli considera, da

buon idealista, la formazione dell’atto

mentale e della soggettività della perso-

na; proprio per questo, egli teorizza che

il mestiere dell’insegnante è quello del-

l’uomo colto che deve trasmettere le co-

noscenze, per cui “chi sa, sa anche inse-

gnare”. Nello stesso tempo il mestiere del

discente consiste nel riconoscimento del-

l’autorità (autorevolezza) del docente,

giacché la libertà dell’allievo sta nella rea-

lizzazione di un atto spirituale unico, una

“sintesi a priori ” intersoggettiva con

l’autorità culturale e il rigore etico del do-

cente. Su questi princìpi G entile co-

struisce l’idea di scuola meritocratica che

svilupperà nella sua riforma del 1923,

quando approfondirà e organizzerà il di-

segno del sistema scolastico, già avviato

dal precedente ministro Benedetto Cro-

ce. La scuola deve selezionare - e lo farà

con il famoso e difficile “esame di stato”-

poiché essa deve formare la classe diri-

gente e, quindi, deve scegliere, sulla

base delle innumer evoli conoscenze

trasmesse, gli studenti migliori. “Poche

scuole, ma buone”, dunque. Una scuola

che ha nel liceo classico e nella forma-

zione umanistica il suo asse por tante;

nell’istituto tecnico professionale la sua

“valvola di sfogo” per chi, spesso prove-

niente da famiglie meno abbienti, non

è in gr ado di c ompletare gli studi e

quindi deve essere avviato al la voro

tecnico-professionale; l’istituto magi-

strale per i maestri, “amorevoli” inse-

gnanti del popolo.

La scuola di Gentile, come è noto, non si

sarebbe mai pienamente realizzata. “Ri-

toccata” dal 1923 al 1929, “fascistizzata”

fino al drammatico epilogo della secon-

da guerra mondiale, costituì, però, un

esempio organico e c onsequenziale

alla sua filosofia c omplessiva, sicura-

mente l’unico originale progetto cultu-

rale nella st oria della scuola italiana,

nonché il riferimento costante per l’im-

maginario collettivo che invoca la serietà

e il merito nella scuola.

Nel secondo dopoguerra, dai princìpi co-

stituzionali del 1948 sull’istruzione e

formazione del cittadino (in particolare

gli artt. 3,33,34) fino agli anni ’90, dopo

la fine della guerra fredda, si è sviluppato

un continuo e contrastato tentativo di

costruire una scuola democratica aperta

a tutti, che potesse garantire il diritto allo

studio di ogni cittadino della Repubblica

italiana. Dall’istituzione della scuola me-

dia unica (L. 31.12.1962, n. 1859), alla con-

testazione studentesca del 1968 e alla

conseguente - “politicamente emotiva”

in seguito agli eventi della contestazione

- liberalizzazione degli accessi universi-

tari, fino alla normativa delegata degli

anni ’70 sulla scuola democratica come

“comunità scolastica” aperta anche ai

contributi gestionali delle famiglie e

delle istituzioni esterne, non si è riusciti

a realizzare, segnatamente per lo scontro

tra cultura politica cattolica e cultura lai-

co-marxista, un progetto di sistema com-

plessivo, tant’è che alla fine degli anni ’80

si parlò del “mito della grande riforma”.

Il dibattito sulla figura dell’insegnante,

specialmente dagli anni ’50 in poi, assu-

me un significato completamente diver-

so. L’insegnante non è considerato solo

un trasmettitore di conoscenze ma an-

che un conoscitore della didattica, dei

metodi e delle scienze dell’educazione,

che derivano dalla diffusione nel nostro

paese di un t esto di John D ewey, The

Sources of a Scienc e of Educ ation (Le

fonti di una scienza dell’educazione), del

2009. Sconosciuto negli Stati Uniti e in

gran parte della cultura europea, esso di-

venta il paradigma di riferimento per la

trasformazione della figur a dell’inse-

gnante, nella scuo la democratica, da

semplice trasmettitore di conoscenze a

professionista dell’insegnamento. Se-

condo tale prospettiva, lo studente della

scuola democratica non doveva essere

solo un “vaso da riempire”, una testa “ben

piena”, ma soprattutto una testa “ben fat-

ta”.

La scuola democratica avrebbe dovuto

valorizzare i talenti (non sempre l’ha fatto

o ci è riuscita), ma anche recuperare e in-

tegrare gli studenti deboli, che manife-

stano disagio negli apprendimenti, che

sono disabili, che non possono per mo-

tivi economico-sociali completare la

propria formazione scolastica. L’inse-

gnante della scuola democratica avreb-

be dovuto, dunque, riconoscere il merito

e favorire il recupero degli studenti in dif-

ficoltà e, proprio per quest o, essere

esperto delle conoscenze disciplinari e

al tempo stesso conoscitore dei metodi

e delle scienze dell’educazione. Al riguar-

do fu usata, specialmente da Aldo Visal-

berghi, la metaf ora dell’insegnante

come medico che applica in modo inter-

disciplinare le sue c onoscenze diffe-

renziate per operare la diagnosi e l’even-

tuale cura del malato.

Negli ultimi due decenni la scuola italia-

na, unitamente al sistema universitario,

nel contesto del disegno formativo eu-

ropeo, è stata “travolta” da numerose ri-

forme di sistema, da Berlinguer alla Mo-

ratti, da Fioroni alla Gelmini, riforme

complessive ispirate prevalentemente

dalle politiche dell’istruzione e della

formazione europee. In I talia la legge

sull’autonomia scolastica del 1997-1999

e la riforma del titolo V della Costituzione

del 2001 hanno tentato di disegnare una

struttura di scuola autonoma, non ancora

bene definita, incentrata sulla meritocra-

zia, considerata fondamentale in pr o-

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

20 Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX

NS5 14-32 problemi:Layout 1 15-11-2012 15:10 Pagina 20

spettiva futura. È questo, a mio avviso, il

luogo in cui i “disciplinaristi” e i cultori del-

le scienze dell’educazione possono tro-

vare un punto d’incontro, che può essere

proposto all’interno della f ormazione

universitaria degli insegnanti per un ri-

lancio di un modello di scuola meritocra-

tica e democratica al tempo stesso.

È ormai acclarato da div erse ricerche

compiute negli ultimi anni che la prepa-

razione degli studenti nella scuola secon-

daria presenta “vuoti” notevoli, ma il pro-

blema cruciale per migliorare la situazione

rimane, a mio avviso, la formazione ini-

ziale e in servizio degli insegnanti.

È una formazione che deve essere ripen-

sata nell’università e nei sistemi istituzio-

nali preposti dalla normativa e che deve

partire dall’assunto che l’in segnante

conosca il suo ambito disciplinare (com-

petenza disciplinare), sappia insegnare

(competenza didattico-metodologica) e,

soprattutto, sappia valutare formando e

orientando il progetto di vita unico e ir-

ripetibile di ogni singolo studente nella

classe (competenza delle scienze del-

l’educazione). Queste tre competenze

determinano, inevitabilmente, un ripen-

samento dell’offerta formativa dell’uni-

versità all’interno dell’attuale quadr o

istituzionale per la formazione dell’inse-

gnante che, necessariamente, deve tener

conto dell’equilibrio dinamico tra le

competenze disciplinari e quelle delle

scienze dell’educazione.

La finalità complessiva è quella del recu-

pero del sistema-scuola in Italia, puntan-

do sulla rimotivazione della professiona-

lità docente (retributiva ovviamente,

ma soprattutto ideale, che trovi il suo hu-

mus nel significato della mission culturale

ed etica del docente, fondamentale per

lo sviluppo sociale), per la costruzione di

una scuola sì meritocratica, ma democra-

tica, che offra uguali opportunità a tutti.

Il “capitale umano” di cui l’Europa ha bi-

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

21Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX

I regali della burocrazia

L'Italia morirà soffocata da burocrazie mortifere, inventatesolo per mantenere gli uffici che le scrivono. Un esempio.Partono i PON Asse II Obiettivo C, destinati a incrementarela qualità delle infrastrutture scolastiche siciliane. Si trattadi un gran numero di progetti e di risorse pubblicheeconomiche per centinaia di milioni di euro. I dirigentiscolastici sono chiamati a sottoscrivere un accordo (ex art.15, legge 1 agosto 1990, n. 241) con il Comune e laProvincia, che attribuisce al Responsabile Unico delProcedimento l’onere della gestione, senza però conferirvistrumenti, poteri e procedure snelle. L’accordo consta di 10pagine di grande complessità e crea organismi che nonhanno nulla a che vedere con la gestione di una garad’appalto. È inventata una “cabina di regia” con funzioni disovrintendere le attività, una commissione di gara nominatadal consiglio d’istituto tra i propri funzionari apicali (ma

quali sarebbero?), un RUP designato dall’Istituzionescolastica (?) nell’ambito del proprio organico. In più ilpersonale dell’ufficio tecnico dell’ente locale dovrebbepredisporre i progetti esecutivi, la direzione dei lavori, ilcoordinamento della sicurezza e i collaudi. Ma quale ufficiotecnico di ente locale è in grado di assicurare questi obblighi?L’accordo tra Istituzione Scolastica ed Ente Locale chedovrebbe essere stipulato, inoltre, non tiene conto dei ruolinecessari nella gestione dell’appalto: il finanziatore, ilcommittente, il progettista e direttore dei lavori, ilcollaudatore e l’utilizzatore. Ovvio che alla fine si porrannodue alternative: o si violeranno le norme (e allora sarà giustogridare al malaffare ed invocare l'intervento taumaturgicodei soliti magistrati) oppure non si farà niente e ci silamenterà dei soldi Ue non spesi.

Asterischi di Kappa

sogno nasce anche dalla “difficile scom-

messa” per il rilancio di una nuova qualità

nella formazione degli insegnanti.

Non si può pensare che la crisi economica

ed etica, in tempo di globalizzazione fi-

nanziaria, si possa super are senza una

scuola di tutti e per tutti, fondata sui temi

della democrazia e della cittadinanza

attiva, meritocratica e democratica, che

formi ogni persona nella sua specificità

e particolarità e offra a ogni studente la

possibilità di esercitare pienamente il di-

ritto allo studio e di realizzare le poten-

zialità inespresse di cittadinanza demo-

cratica, ancora da maturare nella nostra

società italiana e meridionale, al di là della

facile retorica.

Giuseppe Spadafora Università della Calabria

NS5 14-32 problemi:Layout 1 15-11-2012 15:10 Pagina 21

Sempre più si risc ontra un’ampia

convergenza di studi che conside-

rano la conoscenza e l’apprendi-

mento come le risorse principali su cui

investire per innalzare la qualità del la-

voro dentro le or ganizzazioni, siano

queste orientate a produrre beni mate-

riali o immateriali. Qualsiasi organizzazio-

ne può essere letta come una knowledge

based company, come un contesto nel

quale viene generata conoscenza.

I contesti scolastici non sono estranei a

questa lettura, anche se in questi am-

bienti è c onsuetudine pensare che i

processi di generazione di conoscenza

e di appr endimento si r ealizzino so-

prattutto all’interno dei c onfini della

classe o scaturiscano solo dalle attività

svolte dagli studenti. Ciò che in vece

molti studi confermano è che nei con-

testi scolastici, così come in gran parte

delle organizzazioni, i processi di gene-

razione della conoscenza coinvolgono

direttamente il lavoro dei professionisti

che vi operano.

L’insegnante produce una conoscenza

su un particolare evento che andrà a se-

dimentarsi nella propria storia di forma-

zione, nei suoi repertori di azione. Quan-

do incontra un ev ento problematico,

quando tenta di risolvere una situazione

contraddittoria all’interno della propria

classe, si trova a dover gestire situazioni

complesse che lo spingono a mettersi in

discussione, a creare nuove soluzioni, a

riflettere sulla plausibilità delle teorie uti-

lizzate fino a quel momento. Per questo

motivo si annota che «all’interno del con-

testo scolastico l’insegnante è a un tem-

po professionista “formante” e professio-

nista “in formazione” e dunque un sog-

getto che vive una condizione di conti-

nuo apprendistato»1. Per esempio, quan-

do l’insegnante progetta un percorso o

un’unità didattica, solo parzialmente fa

ricorso a procedure apprese durante il

suo percorso di studio. Egli costruisce

strategie circostanziate in grado di co-

niugare tempi, spazi, organizzazione

dei contenuti disciplinari e interessi/po-

tenzialità degli studenti.

La scuola come comunità di narrazioneClaudio Melacarne

PERCHÉ RACCONTARSI? L’INSEGNANTE CHE COMUNICA LA PROPRIA ESPERIENZA PROFESSIONALE NE EVIDENZIA

VALORE E CRITICITÀ, COSTRUENDO UNA COMUNITÀ DI SAPERI IN CUI È LA PRATICA A RISCRIVERE, LEGITTIMARE E TRASFORMARE LE STORIE PROFESSIONALI.

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX

NS5 14-32 problemi:Layout 1 15-11-2012 15:10 Pagina 22

Apprendere con le storiePiù che uno spazio burocratico, gover-

nato solo da norme e ruoli, la scuola sem-

bra assomigliare ad un c ontesto nel

quale sono l’informalità e la fluidità

delle decisioni a fare da volano dei pro-

cessi di inno vazione e c ostruzione di

nuova conoscenza.

Il costrutto di “comunità di pratica”2 ha

fornito una lente interessante con cui in-

terpretare la scuola come un’aggregazio-

ne informale di professionisti nella quale

un ruolo determinante è svolto dalla rete

di relazioni che si stabiliscono fra coloro

che condividono la stessa attività pratica.

Costruire una strategia per insegnare al-

l’interno di un contesto classe, condivi-

derla con dei colleghi, scambiarsi infor-

mazioni e opinioni su come gestire alcu-

ni eventi critici si configurano occasioni

vitali per la scuola per produrre e far cir-

colare la conoscenza professionale.

La produzione di sapere professionale

può essere descritta come un processo

di costruzione sociale di c onoscenza

che si genera attraverso la partecipazio-

ne a esperienze di scambio, negoziazio-

ne, realizzazione congiunta di pratiche

professionali. Le occasioni formali e in-

formali di confronto, le riunioni, lo scam-

bio di idee nei tempi morti, si configu-

rano tutte come esperienze dove il sa-

pere del singolo professionista può di-

ventare patrimonio collettivo. Il lavoro

dell’insegnante si svolge all’interno di

una comunità sociale e relazionale in cui

si generano saperi e conoscenze attra-

verso la costruzione di storie condivise

di apprendimento.

Le storie professionali sono il tramite at-

traverso il quale la conoscenza del sin-

golo può essere resa esplicita, può pas-

sare dal dominio individuale alla valida-

zione sociale tramite il confronto con i

colleghi. Le storie «consentono a elemen-

ti sparsi, comportamenti inspiegabili e

problemi ambigui di collocarsi dentro un

ordine che prende la forma di una storia.

1. B. Rossi, Intelligenze per educare. Sull’identità professio-nale dell’insegnante, Guerini e Associati, Milano 2005, p.225.2. E. Wenger, R. McDermott, W.M. Snyder, Coltivare comu-nità di pratica. Prospettive ed esperienze di gestione dellaconoscenza, Guerini e Associati, Milano 2007.3. K.E. Weick, Senso e significato nell’organizzazione, Cor-tina Raffaello, Milano 1997, p. 138.4. D.J. Clandinin, F.M. Connelly (eds), Teachers’ Professio-nal Knowledge Landscapes, Teachers College Press, NewYork 1995, p. 11.

L’ordine e la chiarezza raggiunte in una

piccola area vengono socializzate e pos-

sono essere estese ad ar ee adiacenti

meno ordinate. In ambito professionale

le storie sono una sorta di testo costruito

attraverso conversazioni collettive sem-

pre aperto a nuove interpretazioni»3.

All’interno della scuola le storie si fondo-

no dando vita a delle storie organizzative

più ampie, si trasformano, suggeriscono

finali diversi al proprio agire, generano

un curriculum narrativo. Per Clandinin e

Connelly «la capacità di riuscire a com-

prendere le ragioni del perché “siamo

quelli che siamo”, “facciamo quello che

facciamo” e “dove, in quali occasioni

scegliamo di fare una cosa piuttosto che

un’altra” è la miglior e strada per tr a-

sformare il curriculum»4 , cioè le modalità

con cui organizziamo l’esperienza didat-

tica.

L’insegnante che racconta a un collega

una propria esperienza pr ofessionale

ne evidenzia le criticità, trasforma

un’esperienza individuale in una narra-

zione che può essere di interesse a molti

di coloro che vivono un’esperienza ana-

loga. Da questo punto di vista una storia

si fonda su “conversazioni” che l’autore,

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

23Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX

NS5 14-32 problemi:Layout 1 15-11-2012 15:10 Pagina 23

l’insegnante, intraprende con una si -

tuazione, con un pr oblema che ha di

fronte e che in qualche modo lo spiazza.

Successivamente, questa narrazione può

illuminare ad altri la strada da percorrere

per ridurre la complessità di un evento.

In altri termini, le conversazioni si trasfor-

mano in racconti condivisi, acquistano si-

gnificato e sedimentano gli appr endi-

menti individuali.

Disapprendere con le storieTuttavia non tutte le storie che circolano

dentro i contesti scolastici si configurano

come occasione di apprendimento. Que-

ste possono cogliere aspetti marginali ri-

spetto alle emergenze sociali, possono

non esplicitare quelle conoscenze che in-

vece sono necessarie alla scuola per ri-

spondere efficacemente alle turbolenze

esterne e interne. Si può in molti casi di-

sapprendere delle buone pratiche di la-

voro se le st orie che cir colano nella

nostra organizzazione non sono state in

qualche misura educate. Alcuni studi

sulle pratiche professionali hanno evi-

denziato che «se è vero che una comu-

nità include l’apprendimento come fatto

scontato nella storia della sua pratica, che

l’apprendimento appartiene al mondo

dell’esperienza e della pratica e segue la

negoziazione dei significati e si sviluppa

con le sue r egole, ovvero si determina

ovunque, con o senza la formazione, è al-

trettanto vero che appr endere nella

pratica non significa affermare che tutto

ciò che si muove dentro una comunità

di pratica è apprendimento. Le comunità

di pratiche hanno bisogno anche di di-

sapprendere, trasformarsi, evolvere»5.

Storie significativeLe comunità professionali di insegnanti

devono essere sostenute nella elabora-

zione di storie narrate in modo tale che

la pratica di insegnamento possa diven-

tare una pratica trasferibile e che all’in-

terno del racconto sia resa evidente la

poliedricità dell’esperienza: chi vi ha

preso parte, quali sono i vincoli all’interno

dei quali si è realizzata, quali i momenti

critici e le potenzialità, quali le risorse im-

piegate.

Se «ciascun attore organizzativo per la

personale esperienza di vita, per la sua

biografia professionale, per le proprie

pratiche sociali e culturali offre delle pos-

sibilità di conoscenza ad una comunità»6,

la formazione rivolta agli insegnanti e alle

altre professionalità della scuola può of-

frire setting, contesti e occasioni di ac-

compagnamento in grado di favorire la

costruzione di una comunità narrativa in

cui è la pratica a riscrivere, legittimare e

trasformare le storie professionali.

Pur potendo fare affidamento sui proces-

si naturali di generazione di conoscenza

professionale, la scuola necessita sempre

più di entrare in formazione, di trovare

spazi per entrare dentro la complessità

del lavoro di insegnamento e imparare

a descriverlo, incentivare lo scambio di

buone pratiche, dubitare delle prassi con-

solidate e agevolare la sperimentazione

di nuove pratiche di lavoro, allargare le

occasioni di confronto con altre comu-

nità professionali che condividono le me-

desime pratiche di lavoro.

Claudio MelacarneUniversità di Siena

5. L. Fabbri, Nuove narrative professionali. La svolta rifles-siva, in L. Fabbri, M. Striano, C. Melacarne, L’insegnante ri-flessivo. Coltivazione e tr asformazione delle pr aticheprofessionali, FrancoAngeli, Milano 2008, p. 42.6. B. Rossi, Pedagogia delle organizzazioni. Il lavoro comeformazione, Guerini e Associati, Milano 2008, p. 254.

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX

NS5 14-32 problemi:Layout 1 15-11-2012 15:10 Pagina 24

L’integrazione equilibrata degli immigrati Luciano Amatucci

IN MOLTI PAESI, NEL PRESENTE E NEL PASSATO, SONO STATI SPERIMENTATI MODELLI DIVERSI PER L’INSERIMENTO

DEI MIGRANTI NELLE SOCIETÀ NAZIONALI, CON RILEVANTE INCIDENZA SUI SISTEMI SCOLASTICI.

In questi ultimi anni nel nostro Paese

è venuto frequentemente alla ribalta

il problema dell’inserimento dei

migranti nella società nazionale , in

presenza di ripetut e manifestazioni

di intolleranza e dei conseguenti dibat-

titi, che hanno investito le politiche ge-

nerali sull’immigrazione e, in partico-

lare, le politiche sc olastiche nei con-

fronti dei figli dei lavoratori migranti. In

via preliminare si è proposto più volte

il tema dei possibili limiti agli accessi

dei migranti nel nostro Paese. Al riguar-

do è necessario procedere con cautela,

tenendo conto delle obiezioni di quanti

temono i rischi e i dann i di politiche

troppo permissive. Sembra dunque

opportuno accettare il c ondiziona-

mento degli ingressi all’effettiva dispo-

nibilità di posti di lavoro, di regola limi-

tati anche per gli aspir anti italiani, al

fine di evitare lo sviluppo di figure di

disperati, privi di mezzi di sussistenza,

alla ricerca di occasioni di lavoro anche

illegali pur di assicurare la propria so-

pravvivenza, che possono giungere a

percepire la società ospitante come ne-

mica e c ome possibile oggett o di

azioni di contrasto, anche violente. Si-

milmente, nel caso del naufragio di una

nave, si possono accogliere i naufraghi

nella scialuppa di salvataggio disponi-

bile soltanto nei limiti della sua capien-

za, per non andare a fondo tutti insie-

me. Una volta stabilita e acquisita que-

sta premessa, occorre definire le forme

e le modalità di accoglienza di coloro

che entrano nel P aese nel rispett o

degli equilibri. L’esempio di altri Paesi

dimostra l’esistenza di vari modelli, at-

tuali o operanti nel recente passato, per

l’inserimento dei migranti nelle società

nazionali, con incidenza anche sui siste-

mi scolastici1.

AssimilareIl modello di assimilazione (detto “fran-

cese”, per la fortuna avuta in Francia)

comporta la sostanziale omologazione

degli immigrati alla cultura del Paese di

accoglienza, con la perdita dei tratti del-

la loro identità originaria. Nelle scuole

viene facilitato l’apprendimento della

lingua nazionale e sono anche previste

“classi di accoglienza” per soli immigrati,

come opportuno strumento di transi-

zione didattica e anc ora, secondo un

lettura critica, come “sale di attesa”, de-

stinate a trattenere l’appartenente ad

una minoranza fino al suo pieno ade-

guamento, anche linguistico, alla socie-

tà ospitante.

SeparareDi contro, il modello di separazione, af-

fermatosi in Germania, comporta una

distinta collocazione degli appartenenti

a culture diverse nella vita s ociale,

nella scuola e, addirittura, nelle sedi abi-

tative. Questo modello cerca una giu-

stificazione nel convincimento che è

opportuno che le culture crescano su

se stesse, senza commistioni che ne

snaturino le caratteristiche. In Germania

è valsa anche la considerazione che il

lavoratore immigrato è un gastarbeiter

(un “lavoratore ospite”) destinato a

rientrare a t empo debito nel P aese

d’origine, così da richiedere, piuttosto

che l’integrazione sociale, l’inserimento

lavorativo2.

A ben vedere, sia il modello di assimi-

lazione che quello di separazione risul-

tano espressioni di nazionalismo, inclu-

sivo nel primo caso, ed esclusivo nel se-

condo3. Non soccorre nemmeno, per il

superamento di questo limite, il ricorso

al modello egalitario del melting pot

(cioè “crogiolo”, inteso come fusione di

più culture, di pari dignità, in una

entità nuova e distinta), sostanzial-

mente in crisi negli U.S.A., dove la pro-

clamazione teorica è risultata spesso

contraddetta dai c omportamenti di

fatto.

1. Cfr. L. Amatucci, Minoranze e immigrati nella società enella scuola, «Affari sociali internazionali», n. 2 (1996).2. Cfr. V. Zincone, Un freno all’accesso, un’accelerata allacittadinanza, in AA.VV., Immigrazioni e diritti di cittadi-nanza, Editalia, Roma 1991.3. Cfr. G. Favaro, I protagonisti dell’integrazione e la nor-mativa italiana, in D. Demetrio - G. Favaro, Immigrazionee pedagogia interculturale, La Nuova Italia, Firenze 1992;O. Fitzinger, L’accoglienza in Europa. Modelli e prospettive,in O. Fitzinger - M. Traversi (a cura di), Gli alunni stranierie il successo scolastico, Carocci, Roma 2006.

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

25Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX

NS5 14-32 problemi:Layout 1 15-11-2012 15:10 Pagina 25

IntegrareTra gli estr emi dell’assimilazione e

della separazione, nella Comunità eu-

ropea si è proposta una formula bilan-

ciata, usualmente riportata alla nozione

di integrazione, che ha contemperato,

per la scolarizzazione dei figli dei lavo-

ratori stranieri comunitari, l’inserimento

nella lingua e nella cultur a del Paese

ospitante con la tutela della propria lin-

gua e cultura di origine, secondo un

modello coerente con la vicinanza cul-

turale tra i lavoratori dei diversi Paesi

europei in ‘mobilità’ all’interno della Co-

munità stessa4. Alla luce di questa for-

mula si può considerare la condizione

dei nostri emigrati negli Stati Uniti, che

hanno mantenuto i legami con le tra-

dizioni nazionali, coltivate addirittura

in associazioni a ba se regionale, e si

sono ad un tempo inseriti nella vita del

Paese di accoglienza, fino a conseguire

importanti cariche elettiv e nelle sue

amministrazioni locali. La formula della

integrazione è poi stata diffusamente

adottata come riferimento per le poli-

tiche di inserimento degli extracomu-

nitari, per i quali, in verità, risulta ridut-

tiva e inadeguata la mera integrazione,

se intesa, come talora avviene, quale si-

nonimo di assimilazione, cioè di fago-

citazione nella cultura del Paese ospi-

tante. A questo punto si è addirittura

invocato, per i rapporti tra autoctoni e

immigrati, un modello di integrazione-

interazione, in quant o la r eciproca

apertura, conseguente all’accoglienza

bilanciata, assicura la fecondità dello

scambio culturale, fermo restando il ne-

cessario rispetto da parte di tutti dei va-

lori postulati c ome universali5. Tali

sono i valori sottesi alla Dichiarazione

universale dei diritti dell’uomo proclama-

ta dall’Assemblea generale delle Nazio-

ni Unite nel 1948 e precisati dall’O.N.U.

nel settembre 2000, con una Dichiara-

zione per il millennio, che è pervenuta

alla formulazione diretta dei valori as-

sunti a fondamento della sua azione: li-

bertà, uguaglianza, solidarietà, tolle-

ranza, rispetto per la natura, responsa-

bilità condivisa6.

In materia sono illuminanti le par ole

pronunciate da Benedetto XVI in un in-

tervento svolto nel 2008 in occasione

del sessantesimo anniversario della

Dichiarazione O.N.U:

«Da sempre la Chiesa ribadisce che i di-

ritti fondamentali, al di là della differen-

te formulazione e del diverso peso

che possono rivestire nell’ambito delle

varie culture, sono un dato universale,

perché insito nella stessa natura del-

l’uomo. La legge naturale, scritta da Dio

nella coscienza umana, è un denomi-

natore comune a tutti gli uomini e a

tutti i popoli; è una guida universale che

tutti possono conoscere e sulla quale

tutti possono intendersi»7.

Integrare e interagireNel nostro Paese già la legge 30 dicem-

bre 1986, n. 943, coniugava un’ampia

concessione di diritti ai lavoratori ex-

tracomunitari con la tutela della loro

identità culturale:

4. Direttiva C.E.E. n. 486 del 1977.5. Cfr. A. Papisca, Cittadinanza e cittadinanze, ad omnesincludendos: la via dei diritti umani , in M. Mascia (a curadi), Dialogo interculturale, diritti umani e cittadinanza plu-rale, Marsilio, Venezia 2007.6. Cfr. L. Amatucci - A. Augenti - F. Matarazzo, Lo spazioeuropeo dell’educazione, Anicia, Roma 2005.7. Discorso di Benedetto XVI tenuto nell’Aula Nervi delVaticano, riferito dalla stampa dell’11 dicembre 2008.

26 Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX

NS5 14-32 problemi:Layout 1 15-11-2012 15:10 Pagina 26

«La Repubblica italiana … garantisce a

tutti i lavoratori extracomunitari le-

galmente residenti nel suo territorio e

alle loro famiglie parità di trattamento

e piena uguaglianza di diritti rispetto ai

lavoratori italiani. La Repubblica italiana

garantisce inoltre i diritti relativi all’uso

dei servizi sociali e sanitari [...], al man-

tenimento dell’identità cultur ale, alla

scuola e alla disponibilità dell’abitazio-

ne, nell’ambito delle norme che ne di-

sciplinano l’esercizio».

La successiva evoluzione normativa

ha trovato, per gli aspetti sc olastici,

uno sbocco nell’art. 38 del Testo unico

25.7.1998, n. 286 delle disposizioni

concernenti la disciplina dell’immigra-

zione e norme sulla c ondizione dello

straniero:

«La comunità scolastica accoglie le dif-

ferenze linguistiche e culturali come va-

lore da porre a fondamento del rispetto

reciproco, dello scambio tra culture e

della tolleranza: a tal fine promuove e

favorisce iniziative volte all’accoglienza,

alla tutela della cultur a e della lingua

d’origine e alla realizzazione di attività

interculturali comuni».

L’impegno della nostr a Amministra-

zione scolastica ha finora privilegiato, a

favore degli ex tracomunitari, l’inse-

gnamento della lingua italiana, inteso

come mezzo per un pieno ingr esso

nella nostra società. Resta ferma l’esi-

genza di una adeguata organizzazione

scolastica e di un opportuno dosaggio

delle presenze straniere nelle classi, in

vista di questo apprendimento e della

tutela della lingua e cultura d’origine.

L’editoria ha già fornito alcuni contributi

per agevolare l’insegnamento della

lingua italiana agli stranieri8 e per pro-

muovere la conoscenza delle nostre isti-

tuzioni presso gli alunni stranieri9.

Ai nostri giorni sembra preferibile invo-

care una integrazione equilibrata degli

immigrati, intendendo per tale non

solo il c ontemperamento dell’inseri-

mento nella lingua e nella cultur a del

Paese ospitante con la tutela della lin-

gua e cultura d’origine, ma anche e so-

prattutto la facilitazione dell’acquisto del-

la cittadinanza del Paese di accoglienza

come compensazione della pr etesa,

che si rinnova nei confronti degli immi-

grati stessi, di riconoscere pienamente

le regole e i modi di vita degli ospitanti

e di concorrere con loro alla costruzione

di una società coesa, in vista di un co-

mune destino.

Si tratta, in sostanza, di dare giusta rile-

vanza al c. d. ius soli (diritto del territorio),

cioè al diritto di acquisto della cittadi-

nanza in base alla nascita in un deter-

minato territorio.

Al momento, invece, il c. d. ius sanguinis

(diritto del sangue) cioè il diritto di ac-

quisto della cittadinanza sulla base

della discendenza da cittadini assume

nel nostro ordinamento rilievo preva-

lente.

La cittadinanza pluralistaSussistono, invero, delle perplessità in

merito alla concessione automatica e in-

condizionata della cittadinanza ai figli

di stranieri in ba se al solo r equisito

8. Cfr. G. Favaro, Insegnare l’italiano ai bambini stranieri,La Nuova Italia, Firenze 2002; P. Affronte - A.L. Burci - E.Pischedda, Kit ‘Impariamo l’italiano!’ (per alunni stra-nieri), Erickson, Gardolo (TN) 2009.9. Cfr. G. Bettinelli - P. Russomando, Passaporto per l’Ita-lia. Educazione alla cittadinanza e alla C ostituzione perragazzi stranieri, Vannini, Gussago (BS) 2011.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX28

della nascita in Italia. Il discorso si spo-

sta, allora, sulle condizioni da porre in

materia e si individua come essenziale

al riguardo, per lo straniero, la scolariz-

zazione avvenuta in Italia a un primo

livello, in grado di assicurare la cono-

scenza della nostra lingua e del nostro

ordinamento. In tal senso si è pronun-

ciato in più occasioni il nostro Presiden-

te della Repubblica10. È poi da conside-

rare che già la presenza nelle famiglie

di immigrati di giovani nati e scolariz-

zati in Italia, quali potenziali cittadini ita-

liani, potrebbe di per sé avere il benefico

effetto di intr odurre nelle famiglie

stesse una visione aperta dei rapporti

tra culture11. In attesa dell’acquisizione,

con la cittadinanza, del voto nelle ele-

zioni politiche, potrebbe valere, per gli

stranieri, l’attribuzione del diritto di

voto nelle elezioni amministr ative. In

questa materia sono depositati presso

le Camere o pr eannunciati appositi

progetti di legge.

10. Si veda, ad esempio, l’intervento di Giorgio Napoli-tano riportato dalla stampa quotidiana del 22 no vem-bre 2011.11. Cfr. A. Granata, Sono qui da una vita. Dialogo apertocon le seconde generazioni, Carocci, Roma 2011; D. Zo-letto, L’intercultura… fra le generazioni, «Mondialità», n. 6,giugno-luglio 2011.12. Cfr. L. Amatucci, Società multiculturale e cittadinanza

pluralista, in L’educazione interculturale, Erickson, Gar-dolo (TN) 2010, p. 1; L. Amatucci, Educare alla cittadi-nanza nella società multicultur ale. Gli sviluppidell’intercultura, Anicia, Roma 2011.13. Consiglio d’Europa, Consiglio di cooperazione cul-turale, Dichiarazione del 1993 relativa al progetto De-mocrazia, diritti umani, minoranze. Aspetti educ ativi eculturali.

14. Cfr. L. Corradini (a cura di), Cittadinanza e Costitu-zione. Disciplinarità e trasversalità alla prova della speri-mentazione nazionale. Una guida teorico-pratica perdocenti, Tecnodid, Napoli 2009.15. Cfr. Amatucci, Società multiculturale, cit.; Educare allacittadinanza, cit.

Risulta comunque utile, già nella situa-

zione attuale, il concetto di cittadinanza

pluralista, che esprime la conciliabilità

di più appartenenze in uno stesso indi-

viduo12. In questo senso si è chiaramen-

te pronunciato il C onsiglio d’Europa:

«La nozione di cittadinanza nelle società

democratiche diviene più complessa e,

pertanto, la realtà di una cittadinanza

pluralista deve essere riconosciuta. Ciò

significa che ciascun individuo può

desiderare di vedere i suoi problemi e

aspirazioni trattati in una par ticolare

sede politica, che in alcuni casi può es-

sere essenzialmente territoriale ed in al-

tri più chiaramente culturale, senza che

la partecipazione e l’esser membro di una

sede sia considerato subordinato o in al-

ternativa alle altre appartenenze»13.

Un’occasione per r endere concreta-

mente operante il disegno fin qui illu-

strato è offerto dall’applicazione della

legge 30 ottobre 2008, n. 169, che ha in-

trodotto nel nostro ordinamento sco-

lastico l’insegnamento di Cittadinanza

e Costituzione14, aprendo la strada al re-

cupero dell’educazione interculturale,

intesa come educazione al pluralismo,

anche con riferimento al concetto di cit-

tadinanza pluralista15.

In quest’ordine di idee, una circolare del

M.I.U.R. del 27.10.2010, n. 86, sul tema

Cittadinanza e Costituzione, ha indivi-

duato come fine dell’educazione alla cit-

tadinanza la formazione di mentalità

aperte ad una visione multi prospettica

e plurale della realtà.

Luciano Amatuccigià dirigente superiore Miur

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 29

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

Lingua e comunità: una questione storicaMaria Annita Baffa

LE POLITICHE SCOLASTICHE ITALIANE CALATE DALL’ALTO HANNO SEMPRE AVUTO COME SCOPO IL RAGGIUNGIMENTO

DI UN MONOLINGUISMO CHE DOVEVA ELIMINARE I DIALETTI E LE LINGUE DI MINORANZA STORICA, COSÌ COME OGGI

SI CERCA DI INTEGRARE GLI ALUNNI STRANIERI RENDENDOLI SIMILI A NOI CON L’ITALIANO LINGUA VEICOLARE

E DUE LINGUE STRANIERE OBBLIGATORIE. LANGUAGE LOSS?

Lingua alta e linguesubalterneLa dicotomia lingua alta/lingua subalter-

na precede, in ordine di tempo, la nascita

degli studi linguistici e antropologici. Già

Marc Bloch, storico ucciso dai nazisti nel

1944, aveva intuito che le società posso-

no praticare un “bilinguismo gerarchi-

co”1. La forza assimilatrice della lingua

alta nei confronti di quella con meno po-

tere, alla quale «si vogliono riconoscere

solo gli aspetti più pittoreschi, in musei

polverosi»2, è così forte negli stati mo-

derni da essere in grado di distruggere

la memoria storica dei popoli. La tenden-

za assimilatrice è dovuta al fatto che la

lingua è l’aspetto immediatamente visi-

bile di ogni cultura, per cui il disconosci-

mento della lingua coincide con il ten-

tativo di cancellare la cultura di cui essa

è il primo veicolo. Un esempio noto è il

caso degli indiani d’America: sono stati

spesi milioni di dollari per dissotterrare

i “tesori”, ma nulla si è speso per salvarli

dall’estinzione.

In situazioni di dislivello di potere, la sto-

ria insegna, prevale sempre la lingua (e

cultura) alta. Menocchio, il mugnaio

friulano bruciato vivo dal Santo Uffizio3,

non preoccupava per la sua visione del

mondo, quanto per l’insieme di valori che

attestavano l’esistenza di una religiosità

insofferente ai dogmi. Bisognava elimina-

re l’esempio di un contadino che, pur par-

lando solo dialetto, opponeva resistenza

al condizionamento dimostrando di ave-

re una mente capace di ragionare.

Allo stesso modo, e sempre per impulso

del Santo Uffizio, a Guardia Piemontese

(Calabria), ottantasei valdesi furono scor-

ticati vivi e fenduti in due parti. «Le terre

spossessate agli er etici contribuivano

ad allargare i possedimenti dei baroni e

la cosa assumeva il suo pieno v alore

pedagogico: stai nell’etica imperante,

non deviare dalla norma e ti troverai ricco

e felice di stare intero con la tua brava pel-

le indosso»4.

Nel secolo a noi vicino, invece, le repres-

sioni linguistiche sono diventate un fatto

legale: in epoca fascista l’italianizzazione

di cognomi, l’esclusione delle minoranze

dai censimenti e, più tardi, i programmi

ministeriali che imponevano agli inse-

gnanti l’esclusivo uso della lingua nazio-

nale, giustificata dal fatto che bisognava

traghettare gli alunni dai dialetti all’ita-

liano5. A nulla servirono, allora, gli inse-

gnamenti dei sociolinguisti, secondo i

quali «le comunità in cui si parla una ed

una sola lingua sono piuttosto l’eccezio-

ne che la norma»6. Solo quando i dialetti

italiani erano già in abbandono i pr o-

grammi ministeriali li riconobbero come

patrimonio culturale dell’alunno. Erano

anni di diffusione di libri-denuncia e

del revival delle culture popolari che dagli

Stati Uniti si era diffuso in tutta Europa.

Il riconoscimento, però, è avvenuto nello

stesso periodo in cui in Italia «il dialetto

è regredito, mentre ha guadagnato spazi

una realtà intermedia: il mistilinguismo,

cioè l’uso alternato o incrociato di italiano

e dialetto»7.

L’obsolescenza delle linguesubalterne è un destino?Ancora oggi, che si tr atti di minoranze

storiche o di lingue di immigr ati, la

logica che accompagna l’emarginazione

è la st essa. Nell’ambito della scuola

l’emarginazione si “dilata” e include svan-

taggiati e stranieri negli stessi percorsi di-

dattici. Bernardi sosteneva che alla pratica

1. M. Bloch, Apologia della Storia, Einaudi, Torino 1988, p. 121.2. U. Bernardi, Le Mille Culture. Comunità locali e partecipa-zione politica, Coines Edizioni, Roma 1976, p. 7.3. Cfr. C. Ginzburg, Il Formaggio e i v ermi, Einaudi, Torino1976.4. Bernardi, cit., p. 89.

5. T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza,Bari 1963.6. A. Mioni, La situazione sociolinguistica italiana: pro-blemi di classificazione e di educazione linguistica, inAA.VV., L’educazione linguistica, Atti della giornata di stu-dio GISCEL, Padova 17 settembr e 1975, Cleup, Padova

1975, p. 29.7. A. Sobrero, Lingue, varietà e dialetti nei documenti mi-nisteriali e nella realtà, in I. Tempesta - M. Maggio (a curadi), Lingue in contatto a scuola. Tra italiano, dialetto e ita-liano L2, G.I.S.C.E.L, Franco Angeli, Milano 2006, pp. 151-161: 153.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX30

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

della fenditura si sono sostituite le «esem-

plificazioni pedagogiche, facenti capo

all’autoemarginazione, cioè al senso di col-

pa che nasc e da un c omportamento

non corrispondente ai modelli proposti

dalle agenzie di socializzazione . Per far

morire una comunità culturale basta es-

sere convinti che tutto ciò che le genera-

zioni hanno prodotto in quei luoghi è in-

degno di un vivere civile. Saranno gli stessi

portatori della cultura minoritaria a sba-

razzarsene, saranno loro a fendersi»8.

Anche Cardona9 sosteneva nel 1975 che

l’obsolescenza della lingua in posizione

di subalternità dipende da fatti accultu-

rativi che portano i parlanti a scegliere di

adeguarsi alla lingua considerata alta (o

fatta passare per tale) e a rifiutar e la

propria. «Così agli str anieri si insegna

l’italiano al fine di una più rapida integra-

zione e due lingue str aniere (diverse

dalle materne). Il percorso scolastico è se-

gnato a monte.

Sembra che la scuola cerchi di cancellare

ogni esperienza linguistica pr ecedente

adottando sistemi che producono esclu-

sione. Insegnare l’italiano agli stranieri, in

una sorta di corsa contro il tempo, giusti-

ficabile al fine di una rapida integrazione,

evidenzia anche il carattere autoreferen-

ziale del punto di vista che la governa: gli

“altri” devono diventare come noi, impa-

rare la nostra lingua, perché siamo convinti

che tutto tornerà come prima, convinti di

una “provvisorietà del momento”.

Un destino non inevitabileTra le tante minoranze storiche la cui lin-

gua era a rischio di obsolescenza ci sono

anche quelle che hanno cercato d’inter-

venire attraverso «la rivitalizzazione (quan-

do esistano ancora parlanti nativi) o il re-

vival (quando non vi siano più parlanti na-

tivi)»10. Con il “revival” si cerca di incenti-

vare l’uso della lingua creando una situa-

zione di diglossia. Quando, invece, ci

sono ancora parlanti nativi, sia pure in una

condizione di “semi speakers”, si cerca, at-

traverso la rivitalizzazione e una pianifi-

cazione di recupero dello status della lin-

gua minacciata, di ampliarne gli usi nei

vari domini sociali come in un normale

svolgersi dell’esistenza, cioè la lingua

che si int ende rivitalizzare andrebbe

usata contemporaneamente sia nei do-

mini bassi sia in quelli alti.

Alcune esperienze di questo genere sono

state realizzate in Sardegna, coinvolgendo

le famiglie; e ancora, un progetto condotto

a Galway (Irlanda) con l’intento di pro-

muovere l’uso del gaelico, non è stato pro-

posto alla popolazione in termini espliciti

ma come un’operazione economica, che

avrebbe provocato vantaggi concreti al-

l’intera cittadina11. Anche le c omunità

ladine e friulane oltre alla didattica della

lingua, hanno cercato di coinvolgere la po-

polazione. Nelle min oranze arbëreshë

del sud d’Italia, invece, ciò che ha sempre

rallentato il processo di educazione bilin-

gue è stata la divisione tra i sostenitori di

una Dachsprache, mancando nell’arbëresh

una koiné, e i sostenitori di un insegna-

mento di tutte le varietà.

Mi piace ricordare l’impegno di Pier Paolo

Pasolini per le comunità arbëreshë. Egli

partecipò anche a corsi di aggiornamento

organizzati in Puglia nel 1975. Erano gli

anni in cui anche gli studi linguistici ab-

bandonano l’ideologia unitaria, rivalutan-

do il patrimonio linguistico legato alla di-

versità considerata una ricchezza12.

Ma nemmeno la legge 482 del 1999 ha

spinto gli arbëreshë a trovare unitarietà

di intenti pedagogici.

In Italia le minoranze più favorite sono

quelle dell’Alto Adige, del Friuli, della

Valle d’Aosta – la cui tutela non deriva solo

dall’articolo 6 della Costituzione (che

abbraccia tutte le minoranze), ma anche

da provvedimenti precedenti e seguenti

la Costituzione.

Ma la fortuna non sempre segue le sorti

dei popoli, se questi persev erano nelle

scelte scolastiche sbagliate. Così è acca-

duto che in Valle d’Aosta l’insegnamento

bilingue si può considerare sulla via del

successo perché gli insegnanti realizzano

un curricolo unitario in cui si possono ri-

conoscere parti e funzioni specifiche ,

non una somma di più parti: un curricolo

di educazione linguistica, all’interno del

quale funzioni in parte simili e in parte di-

verse sono attribuite all’insegnamento e

all’uso dell’italiano e del fr ancese. Le

scuole sono uniche e il bilinguismo è stato

inteso non come possesso di competenza

nei due codici paragonabili a quelle di

due nativi (= equilinguismo) ma come ge-

stione di un r epertorio in cui le due

lingue sono possedute in modo differen-

ziato a seconda dei loro domini d’uso e

delle funzioni che esse assolvono nella

vita del parlante13. Tuttavia, dobbiamo

considerare parziale il successo valdosta-

no, dal momento che rimangono perples-

sità sulla scelta utilitarista di puntare sul

francese mentre nulla si è fatto per tute-

lare il patois, che è la L1 degli alunni val-

dostani.

In Alto Adige/Südtirol il sistema scolastico

è costituito da 3 scuole separate e il bilin-

guismo diffuso non è stato raggiunto14.

8. Bernardi, cit., p. 90.9. G.R. Cardona, Introduzione all’etnolinguistica, De Ago-stini, Novara 2006 (prima edizione 1976).10. Dal Negro - Guerini, cit., pp. 146-147.11. A. Marra, Plurilinguismo e lingue minoritarie. Una ri-flessione sul ruolo educativo, in A. Dettori (a cura di), Lin-gue e culture in contatto, Carocci, Roma 2005.

12. De Mauro, cit.13. M. Cavalli, Aspetti curricolari di un’educazione bi-/plu-rilingue:esperienze, riflessioni e prospettive in Valle d’Ao-sta, in T. Barbero/A. Fiore (a cur a di), Insegnare eapprendere in più lingue:una scommessa per l’Europa, Attidel Convegno, Torino, 13 dicembre 2001, IRRE Piemonte,2002.

14. L. Portesi, Crescere in più lingue in Alto Adige-Süd Tirol:esperienze di educazione plurilingue in provincia di Bol-zano, in T. Barbero/A. Fiore (a cura di), Insegnare e ap-prendere in più lingue:una scommessa per l’Europa, Attidel Convegno, Torino, 13 dicembre 2001, IRRE Piemonte,2002.

NS5 14-32 problemi:Layout 1 15-11-2012 15:10 Pagina 30

Secondo Baur15 le ragioni stori-

che e le loro conseguenze psicologiche

non hanno permesso alle due comunità

principali (italiana, tedesca) di incontrarsi

e la divisione, strumentalizzata anche a

livello politico, ha contribuito a rafforzare

il senso di appar tenenza ad una sola di

esse.

Un’indagine di Abel, Vettori e F orer16,

mette in luce come i fattori non linguistici

contribuiscono all’apprendimento o meno

dell’altra lingua. La ric erca, però, non

tiene conto dei bisogni linguistici indivi-

duali nel senso di scelte personali. Proba-

bilmente chi non si a vvicina all’altra

lingua non ne sente la necessità. Bisogne-

rebbe indagare di più sulle motiv azioni

personali e capir e come la diffusione

dell’inglese e l’idea che questa sia la

lingua franca d’Europa abbia sicuramente

contribuito a dividere ulteriormente le due

comunità in Alto Adige. Sarebbe interes-

sante conoscere quanti dei c osiddetti

monolingui italiani o tedeschi in realtà co-

noscono l’inglese come seconda lingua.

L’arrivo dei nuo vi migranti potrebbe

suggerire modelli dinamici, in continuo

adattamento alle esigenze personali. La

comunità deve offrire, il singolo deve poter

scegliere.

La scuola e la lingua delleminoranzeGli studi condotti sui “modelli” utilizzati

dalle scuole italiane (e non) nei confronti

delle “nuove minoranze”

costituite dagli alunni immi-

grati mostrano come, «nono-

stante le grandi differenze esistenti tra le

politiche migratorie dei diversi Paesi,

emergono

delle sorprendenti somiglianze nelle po-

litiche educative e scolastiche»17. Favaro

individua un modello che adotta classi

preparatorie o di accoglienza (provvisorie,

ma in realtà la permanenza in tali classi

dura poi anni), in attesa di inserimento nei

corsi comuni e per età anagrafica, model-

lo basato su misure di sostegno (lingui-

stico) durante le ore di altre discipline. E

le classi bilingui (cioè strutture parallele

e separate dal “sistema comune”). Anche

queste dovrebbero essere provvisorie

perché vi si insegna la lingua materna as-

sieme a quella del paese ospite, chiuden-

do ogni possibilità alla scelta individuale.

Svantaggi: durano tutta la scuola dell’ob-

bligo, mancano materiali didattici, non c’è

preparazione adeguata per gli insegnanti,

e inoltre, sotto la parola immigrati o mi-

granti, si cela una vasta gamma di diver-

sità linguistiche e culturali che rischiano

di essere appiattite e tenute separate dal-

la comunità ospitante.

Tutti gli interventi hanno al centro della

preoccupazione la lingua di arrivo (L2)

e/o le lingue che si insegnano nel sistema

scolastico ospite. Quella materna viene

ignorata. Anche F iltzinger ritiene che

«insegnare la lingua del paese d ’acco-

glienza e i comportamenti sociali del luo-

go per facilitare una futura integrazione

nella società di accoglimento è un con-

cetto di pedagogia per gli stranieri com-

15. S. Baur, Le Insidie della Vicinanza. Comunicazione e coo-perazione in situazioni di Maggioranza/minoranza, titolooriginale: Die Tücken der Nähe. Kommunikation und koo-peration in Merhheits/Minderheitssituationen. Kontextstu-die am Beispiel Südtirol, Edizioni Alfa & Beta, Meran 2000.16. A. Abel, C. Vettori, D. Forer, Learning the Neighbour’s

Language: the Many Challenges in A chieving a Real Multi-lingual Society. The Case of Second Language Acquisition inthe Minority-Majority Context of South Tyrol. In: EuropeanCentre for minority issues (ed.): European Yearbook of Mi-nority Issues, Vol. 9, 2011, p. 16.17. G. Favaro, I protagonisti dell’integrazione e la normativa

italiana, in D. Demetrio/G. Favaro, Immigrazione e Pedago-gia interculturale, La Nuova Italia, Firenze, 1992, pp. 68-72.18. O. Filtzinger, L’accoglienza in Europa: modelli e prospet-tive, in FILTZINGER, O. (a cura di) / TRAVERSI, M., La Scuoladell’accoglienza. Gli alunni stranieri e il successo scolastico,Carocci-Faber, Roma, 2006, p. 110.

31Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX32

PROBLEMI PEDAGOGICI E DIDATTICI

Invece, nel 2009 il Parlamento europeo

ha riconosciuto come lingue madri sia

quelle autoctone che quelle straniere, per

le quali prevede una «offerta didattica

non obbligatoria e aperta a tutti». Questi

documenti hanno il merito di richiamarsi

non solo ai principi di eguaglianza ma an-

che ai risultati della glottodidattica sul-

l’utilità dello studio di L1. Sembra anzi che

la consapevolezza dei legislatori migliori

in funzione della percezione dell’urgenza

di intervenire, di fronte al regredire sia

delle lingue storiche che delle lingue de-

gli immigrati.

Tuttavia, ancora oggi, i punti poco chiari

rimangono. Non si pr ecisa quale do-

vrebbe essere quando si parla di L3 da

apprendere oltre alla mat erna (L1) e

alla L2 (del paese ospitante). C’è un solo

riferimento: la t erza lingua do vrebbe

essere franca. Tutte le scuole superiori in-

tendono come lingua franca l’inglese, ma

forse sarebbe più giusto affermare che

la lingua franca deve essere la lingua 2, cioè

quella del paese ospitante, la quale per-

mette a tutti, autoctoni e stranieri, di com-

prendersi. E lasciare libera scelta per la

terza.

Un secondo problema è costituito dal fat-

to che si tratta di documenti con valore

indicativo per cui i governi delegano a

enti locali (o perfino alle singole scuole)

l’intera responsabilità delle sc elte di-

dattiche. E le iniziativ e, oltre che di

diversa qualità, risultano anche frammen-

tarie. Per esempio in Calabria si è intro-

dotto l’arbëresh, nelle scuole delle mino-

ranze storiche, con progetti di sole venti

ore annue (!) e lasciati all’iniziativa di sin-

goli insegnanti. Nell’ambiente scolastico

si dice “meglio che niente”. Fishman af-

fermava che tali iniziative sono peggio

dell’aspirina data ai malati t erminali21.

Un altro caso è costituito dalle sperimen-

tazioni CLIL che assumono il principio

della corrispondenza tra una lingua e una

disciplina, in parallelo ad altre lingue e al-

tre discipline (al contrario di quel che si

fa nell’esperienza della Valle d’Aosta).

E poiché ciò avviene in lingue europee

che per gli studenti stranieri non sono

materne, il messaggio che viene tr a-

smesso è che le lingue europee sono più

importanti delle altre.

Mentre le sperimentazioni sc olastiche

condotte a B olzano, richiamandosi a

teorie linguistiche affermatesi dagli anni

‘70 (Cummins e van Ek) che descrivono

i modi e i gradi di apprendimento pluri-

lingue in scenari di immigrazione nella

prospettiva di coinvolgere tutti gli ambiti

d’uso delle lingue), vengono condotte

solo su tedesco e italiano, non tenendo

conto che lo scenario linguistico locale

è cambiato e che i tanti immigr ati ora

sono parte costitutiva della reale co-

munità linguistica locale e che la lingua

madre è ora protetta dall’UNESCO come

diritto degli individui non del territorio.

Si sperimenta come se il contesto fosse

un contesto ideale (che fu) di una comu-

nità di italiani, tedeschi e ladini, contro il

contesto reale (che è) di una c omunità

composta da italiani, tedeschi, ladini e tut-

ti gli altri con le stesse identiche nostre

esigenze. Nell’insegnamento occorre te-

nere sempre presenti i bisogni linguistici

individuali, per garantire il diritto alla dif-

ferenza. La scuola può solo tentare un dia-

logo su valori comuni a tutti.

E «se riesce a creare un movimento di

simpatia e tolleranza, ha svolto la sua fun-

zione più importante»22.

Maria Annita Baffa Università di Bolzano

pensatoria e assistenziale e parte dalla

premessa irreale di una provvisorietà del

momento, cioè che la società di acc o-

glienza diventi di nuovo un paese mono-

culturale e monoetnico»18.

E forse sono proprio queste false credenze

culturali che spingono alcuni ad atteggia-

menti razzistici che classificano le lingue

così come le persone. Una ricerca svolta

in Francia ha messo in luce come gli in-

segnanti francesi applichino il termine “bi-

linguismo” solo in casi di padronanza di

una prima lingua prestigiosa; nel caso de-

gli alunni immigrati, la loro competenza

nella lingua wolof, araba o por toghese

non viene presa in considerazione come

facente parte di un sistema di bilingui-

smo19. Anche De Angelis, Cortinovis e Dal

Negro20 mostrano come gli studenti

immigrati a Bolzano facciano propria la

tesi che “non è il numero di lingue cono-

sciute che conta ma quali lingue uno co-

nosce”. Il modello trentino permette la so-

stituzione di una delle lingue straniere cur-

ricolari con la lingua madre degli studenti.

Ma le scuole attivano solo corsi di spagno-

lo e/o di francese, in alternativa all’inglese

e/o al tedesco, perché lo spagnolo e il fran-

cese, che sono le lingue dei colonizzatori

dei paesi di provenienza di molti immi-

grati, risultano quelle “più rappresentate”

nelle scuole. E tutte le altre lingue?

Indicazioni internazionali e applicazioni localiL’UNESCO, nell’Education Position Paper

del 2003, introduce due nuovi obiettivi:

(a) una educazione di qualità per tutti e per

tutta la vita; (b) la promozione del mul-

tilinguismo a partire dalla lingua madre.

Nel 2007, ha sostenuto che per plurilin-

guismo si deve intendere l’insegnamento

della lingua materna, più quella nazionale

e una straniera, attraverso un approccio

composito e in uno spazio armonic o

aperto a tutte le lingue: il che lascerebbe

intendere tutte quelle pr esenti in un

dato spazio e in un dato tempo.

19. Favaro, cit.20. G. De Angelis, (a cura di), 2009, WP8a, In search of multi-competence: exploring language use and language valuesamong multilingual immigrant students in England, Italyand Austria, Research Report, nel sito www.linee.info Linee(Languages In a Network of European Excellence, Projectno. CIT4-2006-28388 Sixth Framework Programme, p. 41.21. Fishman, cit.22. A. Mioni, Bilinguismo intra e intercomunitario in AltoAdige/Süd Tirol, in F. Lanthaler, Mehr als eine Sprache,Alpha Beta Verlag, Merano 1990, p. 31.

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33

This collection of essays on the

Holocaust focuses on its representation

through visual arts such as movies,

graphic novels, and paintings, media

by which the major tragedy of the modern Jewish people was received, perceived, and elaborated. An essay on the

photography during the Holocaust opens the collection: the photos of and in such an e vent are unique and precious

historical documents, that are able to confute those who negate the Holocaust itself and help the collective memory to

remember and better understand what happened, and how, and maybe why it has happened. The “art” produced during

and after the Holocaust was, and still is, mainly a symbolic representation and therefore it is in need o f a continuous

interpretation and critique; but precisely in such e xpressions of creativity the Holocaust conveys its most ar duous

interrogations on evil and the human condition.

La Shoah nelle arti visivea cura di Massimo Giuliani

Il dossier sulla Shoah di quest’anno si focalizza sulle arti visive – pittura, cinema e graphic novels

– e, in continuazione di quello dello scorso anno, esplora alcune particolari modalità con le quali

è stata recepita ed elaborata la più grande tragedia dell’ebraismo europeo moderno, simbolo della

disumanizzazione dell’uomo durante la s econda guerra mondiale. Apre però il dossier una

riflessione su quell’arte-medium, divenuta così quotidiana da farci dimenticare la sua dirompente

funzione, che è la fotografia. Arte loro malgrado, le fotografie della/nella Shoah (al pari di alcuni

cortometraggi sulle vittime e sui car nefici e su alcuni massac ri) sono oggi documenti storici di

eccezionale valore, che parlano più incisivamente di lunghi saggi e che possono, da sole, confutare

i negazionisti e aiutare la memoria collettiva, farcendoci ricordare ciò che è stato, come è stato e,

forse, perché è stato. I testimoni muoiono – lo scorso settembre se ne è andato anche Shlomo

Venezia, il solo sopravvissuto italiano ad essere stato parte di un Sonderkommando – ma le foto

restano e si s colpiscono nelle menti. In modo diverso operano pittura, arte cinematografica e

fumetto, uniti dall’essere “arte” e

dunque già interpretazione dell’evento,

ma in quanto r appresentazioni

simboliche esigono a loro volta di essere

‘lette critica- mente’ e ‘interpretate’:

anche in esse la Shoah riverbera come la

più grande interrogazione sul male

subìto e commess o dall’uomo cont ro

l’uomo, nel cuore del Novecento e nel

cuore dell’Europa (Massimo Giuliani).

Stu

diST

UD

I

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Le fotografie della Shoah italianaLiliana Picciotto

Sulla Shoah esistono migliaia di immagini che potrem-

mo suddividere in a) immagini prodotte dai persecu-

tori, b) immagini prodotte dai perseguitati, c) immagini

prodotte dai testimoni, d) immagini prodotte dagli alleati

all’indomani della liberazione dei campi di concentramento

e di sterminio.

Per quanto riguarda l’Italia, a nostra conoscenza, disponiamo

soltanto di una serie di immagini del tipo a): un album fo-

tografico di un soldato di frontiera tedesco di stanza a Varese,

desideroso di spedire a casa sua istantanee sulle amenità che

aveva ritratto sul lago. L’album consta di parecchie decine di

scatti e comprende anche una serie a dir poco inquietante.

Si tratta di 11 fotografie che riguardano una intera sequenza

di un’azione di polizia antiebraica: concentramento in un giar-

dino di una villa di un gruppo di una ventina di persone (tre

fotografie), carico su camion da par te della polizia tedesca

del gruppo (sei fotografie), ritratti del gruppo di soldati im-

palati a seguire con lo sguardo il camion che se ne va (due

fotografie). L’autore di questi scatti è sconosciuto, così come

la provenienza del diario fotografico conservato oggi presso

il Museo del Risorgimento-Museo di storia contemporanea

di Milano. Il documento è così importante che richiederebbe

uno studio accurato per poterlo interpretare: come sono vestiti

i prigionieri, che divise portano i soldati o i poliziotti, che mese

dell’anno poteva essere, dove poteva essere questa villa, che

visi mostravano i prigionieri, come e in che epoca l’album

è arrivato al Museo del Risorgimento e molto altro. Ma da

dove emerge la Shoah in queste 11 foto? La si vede attraverso

l’atteggiamento dimesso e spaventato degli ebrei raccolti da-

vanti ai soldati tedeschi prima messi in fila poi fatti salire a

forza su un camion. Dall’atteggiamento dei due gruppi emerge

tutta la violenza dell’episodio: da una parte tranquille

persone vestite in abito borghese, dignitosissime, alcune con

barba, alcune con cappello e cappotto, riunite come un gregge

e dall’altra soldati con il mitra spianato. Le foto hanno una

forza intrinseca e, come molte immagini della Shoah,

parlano da sé. Non si vedono cadaveri non si vedono degra-

dazioni umane, ma noi guardando quelle foto siamo ancora

più spaventati: sapendo che cosa è successo a questa gente,

facilmente, ci possiamo mettere al loro posto e pensare che

avremmo potuto essere noi quegli anziani, quei bambini quelle

donne colte sulla frontiera italo-svizzera mentre credevano

di poter sfuggire al loro destino.

Per l’Italia non ci sono altre fotografie, Yad Vashem conserva

due scatti che ritraggono il quartiere ebraico di Roma e hanno

come didascalia “azione antiebraica”. Ma i personaggi che si

scorgono sul fondo della strada sono talmente piccoli da essere

impercettibili all’occhio, in pratica non si vede niente.

Chi l’ha visto?Non ci sono dunque molte immagini della Shoah italiana, ma

disponiamo per fortuna di parecchie immagini che rimandano

alla Shoah.

Mi riferisco all’importantissimo fondo documentario donato

dal Colonnello Massimo Adolfo Vitale al Centro di Documen-

tazione Ebraica Contemporanea nel 1957. Sono le fotografie

degli scomparsi da lui raccolte nell’ambito delle sue funzioni

di Presidente del Comitato Ricerche Deportati Ebrei (CRDE),

sorto in seno all’Unione delle Comunità Israelitiche, all’in-

domani della liberazione di Roma. Scopo del Comitato era

la raccolta di informazioni utili al ritrovamento dei deportati;

ottenere aiuti dalle autorità civili, militari, politiche e private;

fornire assistenza morale e mat eriale alle famig lie dei

deportati. Il CRDE fu il luogo in cui famigliari e conoscenti

potevano portare notizie, documenti, immagini dei loro cari

scomparsi, chiedendo aiuto per il loro rintraccio.

L’obiettivo di tale comitato consisteva nella ricerca appunto

degli scomparsi, in un ’atmosfera di t otale ingenuità e

ignoranza dei termini e della radicalità della Shoah. Roma era

appena stata liberata, ma il resto di Europa, per non parlare

dell’Ungheria, era ancora in preda alla follia omicida dei nazisti

e dei loro collaboratori, le frontiere ancora chiuse, il “terribile

segreto” non ancora svelato. Per gli ebrei di Roma lo shock

arrivò solo quando l’ambasciatore d’Italia a Varsavia, interes-

sandosi per sapere quanti e quali erano gli ebrei italiani liberati

ad Auschwitz, ricevette nella primavera del 1945 dalla Dele-

gazione per la Polonia della Croce Rossa italiana uno scarno

elenco di 45 persone. Dall’Italia, ma da Roma soprattutto, era-

no state strappate alle loro case migliaia di persone: dove erano

dunque finite? Non si poteva credere che tutte fossero morte.

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STUDI

La terribile verità si fece però a poco a poco strada. Lo stesso,

le speranze non morirono, i parenti giungevano al comitato

e portavano le fotografie dei loro cari in un disperato gioco

di “chi l’ha visto?”.

La stessa cosa successe in tutte le capitali europee liberate. Im-

magini simili tappezzarono il centro di raccolta e di informa-

zione a Parigi dell’hotel Lutaetia, quartier generale per le ri-

cerche degli scomparsi e per i soccorsi e i primi aiuti a chi rien-

trava dalla deportazione.

Il colonnello Vitale, oltre alla raccolta delle fotografie, operò

per stilare un elenco romano prima, nazionale poi, degli scom-

parsi per poterlo mandare a tutti i comitati di soccorso che

si moltiplicavano nell’Europa liberata e sconquassata.

A Roma le persone portavano le fotografie, che venivano prese

in consegna e graffate su cartoncini azzurri a linguetta, ognuna

con una lettera dell’alfabeto, in modo da poter essere riposte

in un cassetto da schedario e la loro ricerca fosse rapida; sulle

schede fu scritto a mano un cognome e un nome.

Dal primitivo scopo di ricercare gli scomparsi, persa ogni spe-

ranza di ritrovarli vivi, il CRDE si r iconvertì dopo qualche

anno, in un ente che raccoglieva i segni della Shoah: furono

interrogati i pochi reduci che cominciarono a rientrare nel

giugno del 1945 perché raccontassero che cosa avevano visto

durante la loro deportazione, furono raccolte lettere dalle pri-

gioni e dal campo di Fossoli, furono ricercate e ritrovate alcune

delle liste nominative di trasporto che accompagnavano i con-

vogli dei deportati, furono raccolti bigliettini gettati dal treno

dai deportati ritrovati da ferrovieri o poliziotti italiani e fatti

avere alle famiglie destinatarie. Sembrava a tutti che portare

al Comitato queste tracce servisse a rinfocolare il sottile filo

di speranza. Questa st raordinaria raccolta divenne una

raccolta documentaria importantissima e costituì il primo nu-

cleo dell’archivio del CDEC, diretto dal tra il 1955 e il 1958

da Roby Bassi, studente di medicina a Venezia e membro della

Federazione Giovanile Ebraica d’Italia.

Le foto raccolte allora furono qualche centinaio, custodite

amorevolmente dal CDEC ultimamente sono state affidate

a una ditta di restauro perché se ne prolungasse nel tempo

la conservazione. Il progetto, che comprese il salvataggio e la

duplicazione in digitale delle fotografie, è stato finanziato dalla

The Conference of Jewish Material Claims Against Germany con

sede a New York, dalla Soprintendenza ai Beni Archivistici della

Lombardia, dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali. L’in-

tervento fu altamente qualificato: le foto furono ripulite dalla

loro patina di sporco e dalle macchie di umidità, i punti me-

tallici, risalenti a ormai più di cinquant’anni, che producevano

ruggine furono rimossi e negli otto buchi provocati dalla cu-

citrice ai lati delle foto, fu passato un filo di poliestere che li

fissasse, senza danno e in maniera non invasiva, ai cartoncini

originali che si presentavano ancora sani. Il restauro fu lungo

e laborioso, ma il lavoro risultò ottimo. Ora il fondo docu-

mentario è salvo e conservato presso l’archivio fotografico del

CDEC.

L’evocazione dei destiniQuanto al contenuto delle fotografie in oggetto, occorre dire

che gli sguardi di coloro che hanno scattato le fotografie sono

molteplici ed emergono chiaramente dal modo stesso in cui

i soggetti sono stati ritratti. Queste immagini non rispondono

alla domanda che ci si pone sulle fotografie dello sterminio:

è possibile narrare o raffigurare l’inenarrabile violenza?

Nello sguardo delle persone ritratte non c’è nessuna idea, nes-

suna premonizione di ciò che accadrà loro, sono fotografie

di circostanza scattate in qualc he gita, talvolta al mar e,

spesso sono foto tessera. Sono ritratti di vite normali, salvo

alcune, quasi nessuna può essere definita una bella foto nel

senso estetico, sociale o artistico che si da a questa definizione.

In questa c ollezione, manca un element o fondamentale

della fotografia, il rapporto diretto ed esclusivo tra l’opera e

l’artista che con il suo scatto vuole dire qualcosa, che sta in-

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX36

STUDI

terpretando la realtà. Esiste, solitamente, una responsabilità

del soggetto creativo che qui manca totalmente.

L’unica domanda che è lecito porsi davanti a queste immagini

è: “a che cosa servono queste foto a noi qui e adesso?”. Servono

a ricordarci che queste persone mancano all’appello dei vivi,

che tutta una generazione è sparita, che di loro è stato fatto

scempio e che noi abbiamo il dovere della memoria. Non sono

le foto prese ad una a una che parlano, ma lo spazio che esse

occupano, il loro essere tutte insieme. La collezione in sé induce

emozione e senso di responsabilità. Chi guarda è portato na-

turalmente a cercare di capire a chi appartengono quei volti,

dove è nata una tal persona, che fine ha fatto, assieme a chi

è stata deportata, e molto altro.

È una specie di movente a posteriori generato dopo che lo

sguardo si è posato sulla fotografia. La coscienza civile è tra-

sferita dallo sguardo di chi scatta allo sguardo di chi fruisce

di queste immagini.

Esporle oggi per uno scopo diverso di quello per le quali sono

state raccolte costituisce una trasfigurazione del senso (la terza,

rispetto allo scatto originale) di queste immagini, risponde

al cosiddetto effetto di prossimità ricercato da tutti i musei

della Shoah in tutto il mondo: provocare l’emozione del vi-

sitatore tramite una evocazione individuale dei destini per-

sonali. Non sono ormai rari i monumenti della Shoah fatti

di fotografie: la torre dei volti all’United States Holocaust Me-

morial Museum di Washington (17 metri di altezza, gremiti

di fotografie famigliari), così

come la cupola delle fotogra-

fie a Yad Vashem, o il muro

delle fotografie al Memorial

de la Shoah di Parigi non ser-

vono a far conoscere le per-

sone ritratte ma servono a far

capire lo scandalo della loro

scomparsa. Come dice Cle-

ment Chéroux nel suo saggio

su Fotografia e Shoah pubbli-

cato nel 2006, ciò che colpi-

sce nelle fotografie scattate

prima che il massacr o ini-

ziasse «è il potere di evocare

un qualcosa che ancora non

è avvenuto nel momento in

cui l’immagine è stata scattata, ma che è irrimediabilmente

accaduto invece all’epoca di chi le osserva». E, dice Barthes

nel suo saggio La camera chiara: «Io leggo nell o stesso

tempo: “questo sarà” e “questo è stato”; osservo con orrore

un futuro anteriore di cui la morte è la posta in gioco». Con-

templando le fotografie del Fondo Vitale, riferendoci ancora

ad un concetto espresso da Barthes a commento delle foto fa-

migliari che precedettero la Shoah, si ha una sconvolgente

compressione della successione temporale, sensazione che vie-

ne moltiplicata dall’opposizione di ciò che si vede con ciò che

si sa di loro.

Non occorre scandagliare il nostro repertorio dell’immaginario

per capirle, dobbiamo guardarle così come sono, la loro forza

sta nell’ispirare serenità, nel non essere significative prese una

a una. Non c’è un solo autore, né un punto di vista univoco,

ma tanti punti di vista. I ritratti maschili sono in generale foto

tessera fatte fare da un fotografo professionale per ottenere

documenti, in un certo senso, sono foto costruite: le persone

sono molto in ordine, con camicia cravatta giacca, sedute, in

posa. Per questo, non si percepisce differenza sociale tra i sog-

getti ritratti, cosa che sarebbe stata normale visto che gli scatti

risalgono perlopiù agli Anni Trenta, epoca in cui le macchine

fotografiche erano un genere di lusso. Nessuno delle persone

ritratte poteva mai pensare che le loro immagini, rimaste nei

cassetti dei parenti sarebbero diventate, dopo la guerra, foto

segnaletiche per il loro rintraccio.

Una scena del filmSchindler’s Listdi Spielberg (1993).

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STUDI

Le immagini femminiliCi si accorge che sono isolate spesso da fotografie di gruppo.

Talvolta la fotografia è ritagliata malamente, si riconosce la

mano dell’impiegato che ha creato la scheda di “chi l’ha visto”,

probabilmente la mano pietosa di qualche volontario del CRDE

o di Massimo Adolfo Vitale stesso che raccoglieva notizie e im-

magini per poi divulgarle per le ricerche.

Poi ci sono i bambini. Tra di essi Fiorella Anticoli di due anni,

diventata quasi un’icona dopo che il suo bel visino con capelli

avvolti da nastri bianchi è stata pubblicata su Il libro della me-

moria. Gli ebrei deportati dall’Italia 1943-1945.

Intere famiglie furono distrutte durante la Shoah e talvolta

solo alcune immagini ora di uno ora dell’altro famigliare si

sono salvate. Prendiamo la foto delle sorelline Calò, Graziella

e Rina. La loro famiglia era in verità composta da un altro fra-

tellino, Marco nato l’1.1.1933, dalla mamma Silvia Di Veroli,

e dal papà Romolo Calò, tutti deportati e scomparsi. È evidente

che i parenti, come in questo caso, non sono stati in grado,

dopo la guerra, di trovare le immagini di tutti i famig liari

scomparsi e hanno portato alla sede del Comitato quello che

hanno potuto mettere insieme. Nel caso delle foto di bambini

dobbiamo tenere presente che essi non sono quasi mai de-

portati da soli ma con la loro famiglia.

Spillate sui cartellini ci sono anche foto di anziani: per esempio

Emma Luzzatto in Michaelstedter nata nel 1854, o Ida Trevi

in Ascoli del 1860. Come è possibile che qualcuno, consegnan-

do le foto al Comitato, potesse credere che fossero vive? Che

i nazisti avrebbero rispettato la vecchiaia? Eppure la Shoah

era ancora troppo vicina, i particolari e la radicalità del mas-

sacro erano ancora poco noti.

Ci troviamo di fronte a classiche foto qualsiasi che sono però

mute se non interpretate. Si è dovuto fare un lungo lavoro per

rintracciare le persone, talvolta una donna era segnalata con

il solo nome da sposata, talvolta vi è un solo deportato all’in-

terno di una fot o di g ruppo, talvolta la fot o ritrae un

neonato ma il nome corrisponde ad un giovane adulto. Il ri-

sultato, la pubblicazione del Fondo Vitale su web, costituisce

una risposta necessaria al crimine nazista che tendeva a ri-

muovere la materialità e perfino il ricordo di quegli individui

dalla nostra coscienza. Metterle a disposizione del pubblico

è stato un piccolo gesto di resurrezione.

Liliana Picciotto Cdec (Centro Documentazione Ebraica Contemporanea) - Milano

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE (in italiano quando tradotta)

S. Milton, Images of the Holocaust, in «Holocaust and Genocide Studies», 1,1 (1986), pp. 27-61 e 1,2 (1986), pp.193-216.L. Picciotto [Fargion], L’attività del Comitato ricerche deportati ebrei. Storia di un lavoro pionieristico (1944-1953), in Una storia ditutti. Prigionieri, internati, deportati italiani nella seconda guerra mondiale, a cura dell’Istituto Storico della Resistenza in Piemonte,Franco Angeli, Milano 1989, pp. 75-98.C. Chéroux (a cura di), Memoria dei campi. Fotografie dai campi di concentramento e di sterminio nazisti (1933-1999), Contrasto, Mi-lano 2001.R. Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino 2003.S. Sontag, Sulla fotografia, Einaudi, Torino 2004.R. Raskin, A Child at Gunpoint. A Case Study in the Life of a Photo, Aarthus University Press, Aarthus 2004.J.Struk, Photographing the Holocaust. Interpretation of the Evidence, I.B.Tauris, London-New York 2004.G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, R. Cortina, Milano 2005.C. Chéroux, Fotografia e Shoah, in Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo, vol.IV,UTET, Torino 2006.M. G. De Bonis, L’immagine della memoria. La Shoah tra cinema e fotografia, Onyx Edizioni, Roma 2007.An. Gilardi, Lo specchio della memoria. Fotografia spontanea dalla Shoah a You Tube, Bruno Mondadori, Milano 2008.F. Rousseau, Il bambino di Varsavia. Storia di una fotografia, Laterza, Bari Roma 2011.

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STUDI

Il cinema della Shoah ha, innanzitutto e come ogni cosa, una

storia. Ed è una storia ben scandita nel tempo1. Restringiamo

subito il campo di osservazione. Per cinema della Shoah si

intenderà qui quanto, in termini di documentario e finzione,

qualche volta intrecciati, viene prodotto dopo l’Evento, con l’in-

tento di offrirne in qualche modo una interpretazione e riela-

borazione.

Ci sono degli antefatti che meriterebbero da soli un’analisi estesa

e puntuale, ma che in questa sede possono essere soltanto som-

mariamente indicati: i film pre-, come quelli antisemiti della

Germania nazista; i film durante, come i più celebri Il grande

dittatore di Chaplin e Vogliamo vivere! di Lubitsch; le riprese

realizzate dagli stessi nazisti, con finalità diverse, tra “documen-

tazione” e propaganda; ed infine, e soprattutto, quanto viene

filmato dagli Alleati, in presa diretta, alla liberazione dei campi,

pellicole che comunque dovranno aspettare diverse decadi per

essere proposte al grande pubblico nella loro maggiore o minore

integralità. Il vero e proprio “cinema della Shoah”, nell’accezione

che si è detta più sopra, inizia forse con un curioso esempio

di docufiction, come si direbbe oggi, e cioè il film Ostatni etap

(L’ultima tappa, 1947), di Wanda Jakubowska, una vera ex-de-

portata polacca (ancorché non ebrea), poi regista affermata nel

suo paese, che lo realizza in parte ad Auschwitz, con la colla-

borazione di altri sopravvissuti.

C’è un evidente parallelo con la prima ondata, in quelli stessi

anni dell’immediato dopoguerra, di diari e testimonianze della

persecuzione e della prigionia, l’ondata, cioè, di Primo Levi e

di tanti altri che, per certi versi, allora, nessuno volle davvero ascol-

tare. Ed è un parallelo che si rafforza pensando al fatto che poi,

per parecchio tempo, fino forse ai primi anni settanta, il tema

della distruzione degli Ebrei durante la Sec onda Guerra

Mondiale sarà affrontato perlopiù, nel cinema di finzione eu-

ropeo e americano, con maggiore o minore coraggio, ma co-

munque sempre di lato, come ingrediente narrativo tra altri,

spesso come mero elemento di spettacolarizzazione, e comun-

que mai colto nella sua specificità.

Ci sono, naturalmente, eccezioni che confermano la regola, o

meglio passaggi che testimoniano la difficoltà e la complessità

di un percorso. Se è fondamentale, anche per la sua immediata

diffusione e per il successo mediatico nel tempo, un film di mon-

taggio come il br eve ed int enso Notte e nebbia di Alain

Resnais (1956)2, sono comunque significativi anche gli exploit

di film come Il diario di Anna Frank (George Stevens, 1959)

e L’uomo del banco dei pegni (Sidney Lumet, 1965). Se il primo

è ricollegabile, com’è ovvio, al successo planetario del libro da

cui era tratto (via un’altrettanto celebre piéce teatrale), il secondo

è significativo per il modo in cui la Shoah v iene tematizzata

più come memoria ineludibile del protagonista che come evento

di cui tentare una almeno parziale ricostruzione narrativa. Ma,

già allora: è poi possibile rappresentare o raccontare con im-

magini in movimento una realtà così, per definizione, irrap-

presentabile, e di cui per giunta non si è forse ancora colta la

reale portata storica e metastorica e la specificità ebraica, ben

oltre le generiche atrocità della guerra e la malvagità inumana

e senza limiti dei nazisti?

Nel frattempo altri film osano di più, come Kapò di Gillo Pon-

tecorvo (1960), e soprattutto alcune straordinarie opere rea-

lizzate nell’Europa Orientale, come La passeggera di Andrzej

Munk (Polonia, 1963)3 e Il negozio al corso di Jan Kadár e Elmar

Klos (Cecoslovacchia, 1965); ed è degno di nota il fatto che nel

1. Per una rassegna più estesa dell’argomento e più ricca di informazioni specifiche enotazioni critiche sui singoli film, anche se ferma a qualche anno fa, ci permettiamodi rinviare al nostro: Il cinema della Shoah e la memoria, in: Memoria della Shoah. Dopo«i testimoni», a cura di Saul M eghnagi, Donzelli, Roma 2007, pp. 143-154, anche on-line: http://www.ucei.it/giornodellamemoria/?cat=9&pag=11. Qualche piccola osser-vazione iniziale. Si sono richiamati, per chiarezza e brevità, i titoli italiani e non quellioriginali di pressoché tutti i film citati. Inoltre, non si è ritenuto necessario specificare,in ogni occasione, quando si trattasse di storie originali e quando in vece (in realtà,nella stragrande maggioranza dei casi) tratte da testi preesistenti, siano essi memoria-listica, ricostruzione storica o letteratura di finzione. 2. Ma Nuit et brouillard non è già più soltanto montaggio, con scene a colori, sui luoghi

Cinema e “rappresentazione” della ShoahMino Chamla

coinvolti, che si alternano a quelle di repertorio in bianco e nero. In altre parole: si co-mincia a decifrare il senso per l’oggi, si tenta di dare un’interpretazione, ben oltrequel che si vede. 3. È un film straordinario e leggendario, non completato per la morte dell’autore, eperciò montato da un collaboratore con un ricorso abbondante a singoli foto-grammi fissi. In realtà, i protagonisti non sono ebrei, ma una deportata politica po-lacca e la sua aguzzina. Questo non impedisce al regista (tra l’altro, “anche” di origineebraica) di ritrarre la realtà del campo (Auschwitz) come nessuno aveva mai fattoprima, mostrando ad esempio in modo molto esplicito e preciso, e sia pure sempredall’esterno, la procedura di messa a morte col gas nella sua fase più evoluta e per-fezionata.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 39

cinema, all’Est, il discorso sulla persecuzione e lo stermino

del popolo ebraico durante la Seconda Guerra Mondiale è

molto più esplicito che nelle parallele celebrazioni ufficiali

degli stessi anni negli stessi paesi, quando gli Ebrei in quanto

tali spariscono e divengono soltanto vittime, come tutte le altre,

della “barbarie nazifascista”.

Raccontare per testimoniareL’atmosfera cambia, anche per il cinema, nella seconda metà

degli anni settanta4. Anche per il cinema: poiché in realtà è

tutta la discussione pubblica sulla Shoah c he cambia, in

quest’epoca, e ancor più cambierà nei decenni successivi. Si

entra, intanto, nell’era del testimone: i sopravvissuti parlano

e raccontano, finalmente, perché sentono che c’è reale in-

teresse per quello c he hanno da r accontare5. Si coglie

sempre di più la specifica portata ebraica della vicenda, quale

apice di un fenomeno, l’antisemitismo, che ha a che fare con

gli strati più profondi e anzi le viscere della coscienza europea

e occidentale (ma non solo) in genere. La gestione della Me-

moria diventa preoccupazione condivisa. Mentre gli storici

approfondiscono come non mai le loro ricerche; i filosofi cer-

cano di “pensare Auschwitz”; gli artisti di tutti i tipi tentano

di trovare le forme adeguate e le giuste strategie per narrare

e rappresentare…

Il cinema non è da meno di tutto il resto. Anzi: proprio l’in-

trinseca popolarità del mezzo – il suo impatto, in apparenza,

immediato sugli spettatori, anche quando è “cinema (più) dif-

ficile” – lo mette spesso al centro delle dinamiche più pubbli-

camente rilevanti. Inizia così l’epoca dei film-evento. Curio-

samente, ad aprire la pista non è un film per il cinema ma uno

sceneggiato televisivo molto hollywoodiano, nelle intenzioni

e nell’impianto, e cioè Holocaust (Marvin Chomsky, 1978). La

tradizionalissima narrazione non de ve ingannare. Per la

prima volta, attraverso le vicende esemplari della famiglia ebrai-

co-tedesca che ne è protagonista, ad essere tematizzato è ap-

punto l’Olocausto del titolo, in quanto tale; non a caso la messa

in onda in Ger mania sconvolgerà gli spettatori tedeschi.

Mentre Shoah di Claude Lanzmann, qualche anno d opo

(1985), è l’oper a fondativa per eccellenza di un matur o

“cinema della Shoah”. Anche qui il titolo (fondamentale, tra l’al-

tro, per la diffusione su scala globale del termine ebraico a de-

finire l’Evento) è già significativo di per sé, nella sua vaghezza

(gli eventi) e insieme nella sua puntualità (l’Evento nel suo essere

unitario e particolare). Attraverso le sue nove ore e mezzo di

interviste ai sopravvissuti (ma anche ad aguzzini e “spettatori”),

rigorosamente senza filmati di repertorio, Lanzmann ricrea la

Shoah con la testimonianza, ed anzi dà a quest’ultima un nuovo

e definitivo significato, senza alcun intento meramente docu-

mentario o di “rappresentazione”, ma piuttosto compiendo

un’azione che è, insieme, nominazione delle vittime, narrazione

straziante senza consolazione finale, e vero e proprio “pensiero

della Memoria”. Shoah non è, beninteso, un film popolare, ma

costituisce comunque un archetipo ineludibile, un punto di ri-

ferimento per tutto il cinema che verrà dopo e che vorrà parlare

di questo6. E poi c’è Schindler’s List, che è davvero il film-evento

e spartiacque – seguito, in questo, e al suo stesso livello, soltanto

da La vita è bella di Benigni, forse da Train de vie di Mihaileanu,

4. Ma va almeno ricordato Mr. Klein (Losey, 1976), per il suo valore metaforico ed anti-cipatore, nel narrare dell’identificazione progressiva di un gentile francese con il suodoppio ebreo, fino a condividerne la deportazione.5. In realtà, un antefatto importante di tutto questo era già stato il Processo Eichmanndel 1961, appunto per il nuovo ruolo ch’era stato attribuito ai sopravvissuti-testimoniin quell’occasione.

6. E non si parla soltanto del “cinema dei testimoni”, che si è tutto collocato, dichiara-tamente, nella scia di Shoah – si veda, al riguardo, soltanto a modo di esempio, il “con-solatorio” (ma non per questo disprezzabile) The Last Days di James Moll (1998); e lamemoria testimoniata, certo molto consapevole della lezione di Lanzmann, negli ita-liani Memoria (Gabbai, 1997) e Volevo solo vivere (Calopresti, 2006).

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STUDI

e sicuramente da Il pianista di Polanski. Il fatto è che Spielberg

porta a maturazione, nel suo film, un discorso sulla rappresen-

tazione cinematografica della Shoah che è quasi paradossale:

non si può rappresentare la Shoah in quanto tale, ma si può

soltanto narrarne uno scorcio, e questa narrazione è, prima di

tutto, interpretazione e “pensiero”, nel senso di interrogazione

sull’Evento.

Può apparire strano parlare in questo modo di un film di così

evidente e magistrale spettacolarità, e così, in apparenza, per-

fettamente hollywoodiano. Ma la vicenda stessa scelta del regista

(per un film che è, tra l’altro, dichiaratamente e programma-

ticamente, dall’inizio alla fine , ebraico-identitario), quella

appunto del “salvatore di ebrei” Oskar Schindler, che non riesce

a salvarne che un numero comunque limitato (soprattutto ri-

spetto a quello dei sommersi) è forse metaforica di altro, e cioè

appunto l’impotenza finale della rappresentazione, la piena con-

sapevolezza dell’impossibilità, estetica ed etica al contempo, di

una immagine che sia davvero riproduzione anche solo sostan-

ziale della cosa.

La rappresentazione impossibileOvviamente, ogni film-evento, tra quelli nominati, merite-

rebbe, al di là di una puntuale ricognizione critica, una di-

scussione approfondita che ne mettesse in evidenza appunto

le contraddizioni sempre latenti tra spettacolo e messaggio

più profondo, o tra consapevolezza ebraica e significato uni-

versalmente umano, o tra realismo più esasperato e metafo-

rizzazione più o meno spinta, etc. Ma quella traccia della rap-

presentazione impossibile pare, a chi scrive, la più interessante,

anche per andare oltre i film-evento7, ad indagare e individuare

percorsi in quella che è ormai una produzione vasta e disse-

minata, fino a ritrovare echi della Shoah anche in film dove

davvero non ci aspetteremmo di trovarli.

Certo è ac caduto quanto era largamente prevedibile: la

Shoah è diventata sempre più, negli ultimi anni, pretesto e ar-

tificio, un modo per nobilitare a poco prezzo la narrazione

cinematografica e renderla in qualche modo più alta e

solenne, oltreché comunque appetibile al grande pubblico8.

Mentre intanto sempre più forte si fa quell’impressione, quel

fastidioso ronzio nella pancia e nella testa (che sempre, in re-

altà, sullo sfondo, magari insieme ad altre suggestioni di segno

contrario, ha accompagnato molti di noi, e sicuramente l’au-

tore di questa nota): davvero lo sterminio non è soltanto ir-

rappresentabile, ma è pure osceno tentare di narrare qualcosa

al riguardo, non appena si faccia la più piccola deviazione dal

rigore assoluto di Lanzmann nel suo capolavoro archetipico

e quindi, proprio per questo, letteralmente e attualmente ini-

mitabile e ineguagliabile.

In particolare, è la Shoah nel suo farsi compiuto a risultare,

di fatto e di diritto, non rappresentabile e neppure “lavorabile”,

attraverso l’immagine filmica, come se davvero il punto di

vista di chi non si è salvato fosse inattingibile (e non solo, be-

ninteso, con il linguaggio del cinema). Non è un caso che la

camera a gas resti un tabù non aggirabile, anche e soprattutto

quando sembra che ci si voglia spingere vicinissimo a raccon-

tarla in modo compiuto9. Ma anche l’Aktion nazista, la morte

perpetrata “sul luogo”, in modo più o meno sistematico10, ri-

mane inaffrontabile, in tutta la sua crudezza, per il cinema

– mentre è semmai il memoir letterario, ed anche quella tipica

manifestazione della “memoria delle generazioni successive”

che è appunto il memoir romanzato o comunque ricostruito

(vedi Ogni cosa è illuminata di Jonathan Safran Foer,

compreso il film che ne è stato tratto e che pare rispettarne

tutte le int enzioni – Sc hreiber, 2005 –, ma anc he un

capolavoro assoluto quale Gli scomparsi di Daniel Mendel-

sohn), a tentare di recuperare in ogni modo anche, e soprat-

tutto, quelle vicende estreme e ancor più rimosse di altre (pro-

prio perché è più difficile ricordare una morte ch’è, se è pos-

sibile, ancora più nasc osta, nelle pieg he della st oria, di

quella, o di quelle, nei Lager).

7. Anzi, si può dire che già l’epoca in cui un film-evento poteva incidere con prepo-tenza nel dibattito pubblico relativo alla “memoria della Shoah” sia passata per sem-pre, alle nostre spalle. Ancora una volta, è evidente il collegamento con il moodgenerale relativo alla gestione pubblica della Memoria e con le sue trasformazioninel tempo (oltre al fatto che non tutti i registi, comunque, sono Spielberg o Polan-ski). 8. Mentre comunque la fiction televisiva, e soprattutto quella italiana, porta spesso al-l’estremo, fino alla caduta nel ridicolo, le mancanze e i pericoli insiti nel “cinema dellaShoah”.9. Molto forte in tal senso è, per esempio, Amen, di Costa-Gavras (2002).10. Non soltanto, dunque, le fucilazioni di massa in Russia, Ucraina o Lituania, maanche quello che tante testimonianze ci raccontano, la caccia all’ebreo nel cuore dellecittà est-europee, con il sangue che letteralmente scorre e cola giù dai marciapiedi;quel che spesso e v olentieri accompagnava la vera e propria deportazione verso icampi.

11. Vento di primavera è, in realtà e soprattutto, il primo racconto cinematograficocompiuto della “retata del Velodromo d’Inverno” (16 e 17 luglio 1942), pagina neris-sima del collaborazionismo francese. In tal senso, può essere interessante incrociarlocol già citato Mr. Klein ed il recente, proiettato sull’oggi, La chiave di Sara (Paquet-Brenner, 2010).12. Ai confini di questa tematica, e di quella dei complessi rapporti tra giovanissimied adulti coinvolti con e per loro, si devono ricordare almeno due film più “vecchi”quali Arrivederci ragazzi (Malle, 1997) e soprattutto Dottor Korczak (Wajda, 1990), cheè anche, tra l’altro, un affresco forte sul Ghetto di Varsavia nella sua fase finale. 13. Mentre un film interessante, e pour cause recente, sulla resistenza armata ebraicatra Polonia e Bielorussia è Defiance – I giorni del coraggio (Zwick, 2008). 14. Alla Zona grigia si può ricollegare un film antesignano del 1989, Oltre la vittoria,di Robert M. Young, girato in parte ad Auschwitz, e che nel raccontare la vicenda di so-pravvivenza del pugile ebreo greco Salamo Arouch già si distingueva per realismo ebrutalità della rappresentazione.

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STUDI

Non a caso, la strategia narrativa cui si ricorre di più, nel ci-

nema recente (ma anche, in qualche caso, in quello pre-Schin-

dler’s List) è quella dell’evidenziazione del punto di vista, un

chiaro escamotage per raccontare il non altrimenti raccontabile.

Si veda, in tal senso, tutto il filone dello sguardo infantile e/o

adolescenziale, dei bambini e ad olescenti, appunto, che

vedono, vivono, raccontano e soprattutto interpretano, più

o meno guidati dag li adulti, la Shoah: il r emotissimo

Andremo in città (N. Risi,1966), Jonah che visse nella balena

(Faenza, 1993), lo stesso La vita è bella, L’isola di Via degli Uc-

celli (Kragh-Jacobsen, 1997), L'ultimo treno (Bogayevicz, 2001),

Senza destino (Koltai, 2005), Il bambino col pigiama a righe

(Herman, 2008), per certi aspetti Vento di primavera (Bosch,

2010)11 e sono, non a caso, quasi tutte vicende vere e di sal-

vezza, con la significativa eccezione del recente, a ragione molto

controverso film di Mark Herman, che spinge la sua narra-

zione metaforica fino al punto di far entrare nella camera a

gas, con l’amichetto ebreo, il figlio del comandante nazista

del campo, nel nome appunto di un comune e innocente

sguardo infantile sulla realtà12.

Anche un film poco noto e poco visto come La zona grigia

(Blake Nelson, 2001) sc eglie la st rada della prospettiva,

quello davvero radicale dei Sonderkommando di Auschwitz

nell’occasione della loro rivolta del 7 ottobre 194413, per rap-

presentare appunto, il più possibile, l’estremo. Ma neppure

così l’estremo può essere attinto fino in fondo, e sia pure in

un film che certo non difetta di crudo realismo (è in gran parte

ambientato negli e intorno agli edifici dei crematori) e che

si candida in modo dichiarato al ruolo dell’Anti-Schindler

e Anti-Spielberg14.

Soprattutto, la questione del punto di vista si fa trasparente

dove si ricorre alla creazione di realtà alternative (Train de

vie, 1998; Jakob il bugiardo, Kassovitz, 1999). Fino alla devia-

zione più radicale, la reinvenzione della storia e il totale ca-

povolgimento di prospettiva negli Inglorious Bastards di Ta-

rantino (2009). In effetti, al di là di tutte le riserve etiche e

storiche che si possono sollevare al riguardo di quel film, va

comunque notato che si tratta appunto di un rovesciamento

della realtà che proprio in ragione della sua inverosimiglianza

ci rimanda al nod o cruciale della questione, e cioè la

dichiarata e alla fine saggia impotenza del mezzo cinemato-

grafico nel parlare dell’evento Shoah.

Un detour è necessario, talvolta, o forse sempre, per poter (non)

rappresentare la Shoah.

Mino Chamla - Liceo Ebraico - Milano

BIBLIOGRAFIA

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STUDI

Se è vero, come è vero, che la traccia lasciata dalla Shoah

sulla cultura europea e occidentale è indelebile, il tema

“arte e Shoah” rischia di essere affrontato in modo ridut-

tivo. Non è sufficient e soffermarsi sugli artisti che hanno

vissuto direttamente quella grande tragedia1; bisogna gettare uno

sguardo su altri, più contemporanei, che l’hanno trattata o che

ne sono stati influenzati.

L’argomento è tanto ampio da andare ben al di là dei limiti di

questo articolo, per cui ci soffermeremo solo su alcuni artisti,

evidenzieremo solo alcune modalità con cui la Shoah ha influen-

zato lo sviluppo delle arti visive del dopoguerra.

In effetti ha imposto un balzo in avanti nella creatività, e non

poteva essere altrimenti: per affrontare il tema della Shoah, in

cui la realtà aveva superato ogni immaginazione, era necessario

stravolgere il mondo iconografico esistente, inventarne uno to-

talmente nuovo, oppure eliminare ogni riferimento concreto2.

Marc ChagallUn primo tentativo in questo senso lo si deve a Marc Chagall

(1887-1985), e in relazione a eventi precedenti alla Shoah, ossia

all’ondata di antisemitismo culminata nella Notte dei Cristalli

del 1938. Quel che allora colpì l’artista, non furono solo gli eccidi

e le distruzioni, ma il fatto che nessun paese si schierasse in modo

convinto a difesa degli ebrei tedeschi. Chagall dipinse allora la

sua Crocefissione Bianca, in cui campeggia la figura di Gesù sulla

croce, con il bacino avvolto in un tallit – uno scialle di

preghiera ebraico –, e sullo sfondo è rappresentata la distruzione

di un ambiente tipicamente ebraico. Chagall, come Picasso, aveva

ripreso una tipica rappresentazione cristiana e l’aveva spogliata

di ogni valenza religiosa, per farne un’icona di dolore universale;

il suo passo ulteriore, rivoluzionario, fu di utilizzare l’immagine

di Gesù per rappresentare le sofferenze del popolo ebraico, che

tradizionalmente veniva incolpato della sua morte. L’obiettivo

era certo di scioccare il pubblico e creare un dibattito attorno

alla condizione degli ebrei nel Terzo Reich, ma la scelta di Chagall

derivava dalla sostanziale impossibilità di trasmettere in modo

diverso, con strumenti abituali, il senso di quel che accadeva.

Chagall tornò a utilizzare questa simbologia nel bel mezzo della

Shoah, nella sua Crocefissione Gialla, simile alla precedente ma

ancor più v iolenta, e poi anc ora in di verse altre opere3,

avvicinata ad altri simboli di matrice chiaramente ebraica (capra,

violinista ...). Iniziò cioè a utilizzarla secondo il suo abituale sche-

ma di lavoro, basato sull’accostamento di simboli divenuti dei

Marc Chagall, Crocefissione Bianca(1938). Chicago, Art Institute.

1. Questi artisti sono ben analizzati in S.Feinstein: Dall’ossequio alla trasgressione: l’artee l’Olocausto in M. Cataruzza et alii (ed.), Storia della Shoah (Torino, 2006), pp. 186-237,che riporta anche un’ampia bibliografia in merito; interessante e vasta è poi la colle-zione del museo Yad Vashem di Gerusalemme. Fra gli artisti che hanno vissuto la Shoà,spicca la figura di Felix Nussbaum, espressionista tedesco, che continuò a dipingerefino alla sua deportazione ad Auschwitz e che ci ha lasciato opere fondamentali (comeAutoritratto con Carta d’Identità o Danza della Mor te) per c omprendere lo stat od’animo di chi fuggiva senza reale speranza di sopravvivenza. 2. Anche nel dopoguerra e fino a t empi recentissimi c’è chi ha prodotto arte docu-mentativa sulla Shoah, riproducendo quanto avvenuto o quanto è rimasto, come adesempio Deborah Howard con i suoi disegni di sopravvissuti; ma è un percorso chesi sovrappone con i numerosi film, le fotografie, i testi a disposizione e quindi è pocoseguito.3. Si guardi Sacrificio di Isacco nella sua serie sul Messaggio Biblico (anni ‘50-‘60), in cuiun Gesù che porta la croce fa parte di un gruppo di uomini a lutto; o Esodo del 1952-66, in cui Mosè conduce verso Israele anche le vittime dell’Olocausto fra cui campeg-gia la figura di un Gesù in croce; oppure nelle vetrate della Cattedrale Fraumuster diZurigo.

La Shoah nella pittura contemporaneaDaniele Liberanome

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termini di un suo proprio vo-

cabolario, per cui le sue opere

possono essere lette come

una sorta di rebus, compren-

sibile attribuendo il corretto

significato a quei simboli.

L’astrattismoLa Shoah ha c osì radical-

mente influenzato tutto il

lavoro di Chagall, ma attra-

verso la laicizzazione della fi-

gura di Gesù, anche il percorso di un gran numero di artisti suc-

cessivi4, svolgendo un ruolo fondamentale nello sv iluppo di

un’arte figurativa non documentativa legata alla Shoah.

Altri artisti, come gran parte degli esponenti del fondamentale

movimento americano degli “Espressionisti astratti”5, trovarono

impossibile rappresentare la realtà dopo l’Olocausto; si

sentirono obbligati a spostarsi verso l’astrattismo, trascinando

con sé buona parte dell’arte occidentale. Uno dei più noti fra

loro, Mark Rothko (1903-1970), in gioventù dipingeva scene

di vita urbana.

Nel 1941, però, non appena si diffuser o le notizie sulla

Soluzione Finale, cambiò improvvisamente soggetto passando

a trattare miti greci e romani, – distanti da una realtà che mal

sopportava –, oppure scene religiose cristiane, seguendo il mo-

dello di Chagall. Qualche anno dopo, sentì di dover completare

questo processo di distacco dalla figurazione dipingendo i suoi

celebri quadri “color-field”, losanghe di colore diverso che pos-

sono ricordare le fosse comuni allineate che si vedevano nelle

fotografie provenienti dall’Europa nazista6.

Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX

4. Barnett Newman, ad esempio, nella The Stations of the Cross, tracciò una linea ver-ticale su un fondo monocromo bianco aggiungendo le ultime par ole di Gesù sullacroce riportate dai Vangeli, Lama sabachtani. Si guardi anche Redeemer of Auschwitzdi Mathias Goeritz, e anche le opere di Mané Katz (del 1945), di Marcel Janko, di YankelAdler, fra gli altri.5. Lo stesso percorso di distacco progressivo dalla figurazione per effetto delle im-magini di mutilazione e di tr agedia della Shoah, è stato esplicitamente seguito daaltri espressionisti astratti come Barnett Newman, che nel 1945 distrusse tutti i suoiprecedenti lavori figurativi.

6. In alcuni suoi lavori, i riferimenti all’Olocausto paiono fondersi con il senso di scon-forto che precede il suicidio. Le opere della serie Black on Maroon del 1958, concepitaper il Seagram Building di New York (una tela si trova alla Tate Gallery di Londra), pa-iono vere “porte dell’inferno” con le losanghe in verticale che paiono colonne di fumoo di fuoco. Quei lavori colpirono i collezionisti John and Dominique de Menu, che necommissionarono di simili per la loro cappella privata di Houston (Texas) – conside-rata da Rothko come il suo capolavoro.

Le installazioniA partire dagli anni ’60-’70, quando si era placato il dolore acuto

per quanto era accaduto ed era possibile riflettervi meglio, alcuni

artisti hanno ripreso a raffigurare il tema della Shoah utilizzando

un’iconografia del tutto nuova, senza seguire l’impostazione di

Chagall.

Alcuni di loro, hanno riutilizzato oggetti o immagini oramai

irrimediabilmente riconducibili alla Shoah grazie alla diffusione

di film e documenti in genere, trasferendoli in un contesto di-

verso e creando opere dal forte potere evocativo.

Dani Karavan (1930), ha creato una serie di installazioni tra-

sferendo in piazze e musei alcuni metri di binario di treno evi-

dentemente non nuovo, completo di traversine e di massicciato.

I binari terminano contro un muro su cui ha scritto il numero

dell’ultimo detenuto uscito da Auschwitz. Ha poi introdotto al-

cune varianti alla sua opera, eliminando quel numero, sisteman-

do il binario anche sul muro perpendicolare a terra o aggiun-

gendo televisori che trasmettono video di un uomo che cam-

mina. La sostanza, però, non cambia. I binari, così sistemati, evo-

Marc Chagall, Solitudine(1933). Museodi Tel Aviv.

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cano potentemente la Shoah, Auschwitz, l’assenza di ogni spe-

ranza di ritorno dalle deportazioni, la disperazione di coloro

che viaggiavano sui treni della morte, con un notevole impatto

emotivo.

Jenny Stolzenberg (1947) ha invece creato copie in ceramica di

alcune scarpe di deportati, prese dalle cataste che sono state tro-

vate nei lager liberati, oppure prestate da sopravvissuti. L’ap-

proccio della Stolzenberg è diverso rispetto a Karavan, perché

la scarpa si ricollega alla storia personale di una vittima, tende

a trasmettere più la dimensione personale della t ragedia,

meno quella collettiva. Christian Boltanski (1944), ha utilizzato

invece montagne di vestiti: nell’installazione “No man’s land”

che ha presentato all’Armory Show del 2010, il pubblico si trova

di fronte ad un muro massiccio sessantasei metri di lunghezza

costruito da scatole impilate di biscotti ossidati, attorno al quale

si sviluppa un paesaggio di indumenti smessi. Gli stessi indu-

menti che si trovano in “Reserve” del 1989, per riempire le stanze

e i corridoi del Museum Gegenwartskunst di Basilea7.

Il ritorno al figurativoLa potenza evocativa delle icone della Sho-

ah è stata utilizzata anche in lavori che ri-

flettono sui nodi sociali della società del

dopoguerra, e che dimostrano l’impatto

duraturo della Shoah sull’arte del dopo-

guerra.

Philip Guston (1913-1980), nato in Ca-

nada da una famig lia di ebr ei fuggiti

dall’Ucraina, esponente dei spicco del-

l’Espressionismo Astratto americano, è

noto anche per le sue opere della maturità,

in cui tornò a creare opere figurative. La

sua fonte di ispirazione è il surrealismo;

nelle sue tele rappresenta quindi i pensieri,

l’inconscio, e non di r ado ritroviamo

simboli della Shoah che si riferiscono a

sensazioni vissute nella realtà quotidiana.

Si consideri, ad esempio, Dipingendo, fu-

mando, mangiando del 1973, un olio su

tela esposto allo Stedelijk Museum di Am-

sterdam; in in primo piano è dipinta una

figura con una sigaretta in bocca – vero-

similmente l’artista stesso – e in secondo piano gli oggetti che

rappresentano il suo pensiero, fra cui una montagna di scarpe,

che, al di là della Shoah, indica le angosce e le paure più profonde.

Michal Rovner (1957), mostra immagini riferibili alla Shoah,

ma rimuove i contrassegni che ancorano quelle immagini a un

momento storico preciso e ben individuato, in modo che al-

ludano non solo e non tanto alle sofferenze di un popolo par-

ticolare in un determinato momento storico, ma al tema del-

l’oppressione in genere.

In particolare, nel video all’ingresso della sua mostra “Against

Order? Against disorder?” alla Biennale di Venezia del 2003, poi

riproposto nel Museo di Tel Aviv nel 2011, sembra riprendere

da lontano un gruppo di persone che camminano in circolo,

obbligati a seguire un percorso ben definito; apparentemente

7. Stesso genere di lavoro è 6 millon + di Antonia Stowe, che ha raccolto da paesi di-versi, oltre 6 milioni di bottoni diversi e li ha stesi sui pavimenti di grandi spazi oppureall’interno di teche cilindriche in plexiglass. L’installazione, è stata presentata in variegallerie e luoghi pubblici inglesi.

Marc Chagall, Il rabbino di Vitebsk (1914-1922). Ca’ Pesaro, GalleriaInternazionale d’ArteModerna.

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si trovano quindi in un luogo di prigionia. Lo sfondo è di un

bianco accecante, che sembra neve, e gli uomini indossano lunghi

pastrani, come i chassidim dell’Europa orientale, tutti elementi

che fanno ricordare le marce della morte. Talvolta qualche figura

si allontana dal percorso e allora scompare, si spegne, come mor-

ta. Il percorso si chiude in alte colonne d’ombra, – forse il fumo

dei forni crematori, forse alcuni cipressi.

Il lavoro Foglie Morte di di Menashé Kadishman (1932) per certi

versi appare fortemente legato a quello della Rovner, per altri

se ne distanzia decisamente. È stato concepito per il Museo ebrai-

co di Berlino (dove è esposto permanentemente), ma poi ripro-

posto in altre mostre, come “Omanut: Israele Arte e Vita” tenutasi

al Palazzo Reale di Milano nel 2006. In una stanza o in uno spazio

abbastanza ampio, a forma irregolare, Kadishman sistema più

strati di oggetti piatti ovoidali di metallo. Si direbbero foglie, pen-

sando al titolo, ma a guardare bene sono facce, tutte diverse, tutte

terrorizzate, tutte cadute e morte. Ricordano il gran numero di

persone, ciascuna con la sua storia, tutte degne di vita e indegne

della fine fatta. In questo senso, il riferimento alla foglia è frutto

di una v isione positiva, sionista: l’albero che ha gener ato

quelle persone continua a essere vivo. Una lettura poetica con

mille sfaccettature della Shoah, in cui da un lato si riprende il

tema dell’universalismo dell’Olocausto che troviamo in Rovner,

dall’altro i riferimenti agli aspetti tragici sono assai più evidenti.

Di più difficile lettura, ma certo non meno significative, sono

le opere che trattano il tema dell’Olocausto senza usare icone

a tutti note, o segni particolari, ma inserendosi come parte in-

tegrante del lavoro degli artisti, come uno dei vari temi trattati

all’interno del loro percorso.

Anselm Kiefer (1945), conoscitore della spiritualità ebraica, con-

duce da tempo un’analisi sul ruolo del suo popolo – tedesco –

nella Shoah. Ne è testimonianza la serie di pitture Todesfuge (o

Fuga della Morte), iniziata nel 1981 e ispirata dall’omonima e

celebre poesia di Paul Celan, che rilegge i rapporti fra la vecchia

Germania, – simboleggiata dalla Margharete del Faust di

Goethe – e il popolo ebraico – rappresentato dalla Shulamith

del Cantico dei Cantici8. Nella Shoah, scrive Celan, le due figure

seguono un percorso opposto, inconciliabile, testimoniato dalla

contrapposizione fra i capelli d’oro di Margarethe e i capelli di

cenere di Shulamith. Kiefer riprese questa metafora in tele come

Margarethe della collezione Saatchi, in cui i capelli biondi, rea-

lizzati in paglia, terminano con delle fiammelle, quasi accen-

dessero il fuoco dei forni crematori; oppure in Dein goldenes haar

Margarethe della collezione Sanders, in cui quei capelli sono si-

stemati ad arco attraverso cui passano delle linee, che fanno pen-

sare a dei binar i, e su llo sfondo è dipint o un l uminoso

paesaggio rurale, come lo si vedrebbe da un treno in movimento.

Al contrario, una delle tele dal titolo Shulamith, anch’essa parte

della collezione Saatchi, è una pittura d’interno dalle tonalità

scure, o meglio, la riproduzione fedele di un progetto pensato

dall’architetto nazista Wilhelm Kreis come cappella mortuaria

dei soldati tedeschi. In altre Shulamith, il volto della donna è to-

talmente coperto, quasi annullato, dai capelli-cenere, mentre

sullo sfondo sono dipinti dei grattaceli scuri, simbolo della mo-

dernità, che terminano a forma di camino.

Kiefer inserisce quindi la Shoah all’interno di un percorso che

ha radici nel lontano passato, ricco di spunti di riflessioni, di

messaggi, che però richiedono un’attenta lettura per essere com-

preso appieno. D’altro canto, il mancato utilizzo delle icone per-

mette di sviluppare una riflessione originale sulla Shoah che non

si poggia sull’impatto emotivo, sempre più limitato e difficile,

dato dalla visione di documentari, film e fotografie.

Daniele Liberanome Milano

8. Kiefer è autore anche di una serie di oper e sulla Shoah con un utilizzo le tipicheicone, come “Iron Path” (1986) o Lot’s Wife (1989), con i binari in primo piano.

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I topolini di ArtNote su Maus di Art Spiegelman

Renata Badii

In questo contributo vorrei provare ad affrontare il com-

plesso tema della rappresentazione della Shoah nel vasto

mondo dei fumetti e delle arti grafiche muovendo da uno

specifico esempio, Maus di Art Spiegelman: un romanzo gra-

fico che ha avuto un’eccezionale ricezione internazionale e

ha fatto parlare di sé non soltanto la stampa specializzata in

comics, ma anche e soprattutto la letteratura della Shoah.

Divenuto un vero e proprio caso di studio1, Maus è spesso in-

dicato come un importante compendio didattico per la Ho-

locaust Education: la promozione dello studio della Shoah nelle

scuole come strumento di educazione civica alla tolleranza

e di prevenzione del razzismo. Le ragioni addotte sono almeno

due. In primo luogo, la semplicità della forma narrativa del

fumetto per degli adolescenti, il cui rapporto con la realtà oggi

è mediato – ancor più che per gli adulti – da una cultura es-

senzialmente visuale. In secondo luogo, la capacità di questo

fumetto di problematizzare la questione stessa della rappre-

sentabilità della Shoah, facendo emergere i problemi di natura

etica ed estetica relativi alla possibilità di rappresentare – nar-

rativamente e graficamente – un orrore “indicibile” e “inim-

maginabile” come la Shoah. Insomma, una lettura semplice,

ma non semplificatoria.

Nato a Stoccolma nel 1948 da Vladek e Anja Spiegelman, ebrei

polacchi sopravvissuti a Auschwitz, Art è cresciuto a New York.

Attivo nel mondo del fumetto underground fin dagli anni Ses-

santa, negli anni Ottanta dirige insieme alla moglie Françoise

Mouly due importanti antologie di fumetti, Arcade e Raw,

dove la storia di Maus comincerà ad essere pubblicata a pun-

tate. Maus uscirà poi in due volumi, pubblicati da Pantheon

Books rispettivamente nel 1986 e nel 1991.

Nel 1992 Spiegelman è stato insignito del prestigioso Premio

Pulitzer per il suo fumetto. A venticinque anni dalla pubbli-

cazione di Maus, l’autore è tornato a parlare del suo libro in

MetaMaus (la cui traduzione italiana è in uscita per Einaudi):

un cofanetto formato da un libro e da un dvd che raccoglie

le interviste a suo padre, i materiali preparatori, e dove Spie-

gelman cerca soprattutto di rispondere alle tre domande che

si è sentito rivolgere più spesso in questi anni rispetto al suo

lavoro: perché un fumetto? perché i topi? perché l’Olocausto?

Queste tre domande costituiscono anche il filo conduttore delle

note che seguono.

In realtà, la storia narrata in Maus è innanzitutto la storia della

relazione tra un padr e e un fig lio. La nar razione inizia

infatti nel 1978 a Rego Park (Queens, New York), quando Art

chiede a Vladek di pot erlo intervistare perché da anni

vorrebbe scrivere un fumetto su di lui e la sua “storia”. L’idea

originaria di Spiegelman non è quella di parlare dell’“Olocau-

sto”; Maus nasce piuttosto dal desiderio di un figlio di cono-

scere suo padre e il passat o che si cela dietro quel numero

175113, tatuato “da sempre” sull’avambraccio dell’uomo.

Il rapporto tra Art e Vladek, come emerge nel corso del rac-

conto, non è mai stato facile. Emblematiche le prime vignette

di Maus: siamo a Rego Park nel 1958, e un Art Spiegelman

bambino torna a casa piangendo, perché i suoi amici non lo

hanno aspettato mentre pattinavano nel parco. Al racconto

del figlio, Vladek risponde seccamente nel suo maldestro in-

glese: «Amici? Tuoi amici? Se chiudi loro insieme in stanza

senza cibo per una settimana, allora tu vedi cosa è amici!»2.

Non è facile essere il figlio di due persone scampate allo ster-

minio nazifascista. L’orrore vissuto non si può dimenticare,

il trauma subito rimane per sempre.

Rispetto alle testimonianze prodotte dalla generazione dei so-

pravvissuti, la storia narrata da Spiegelman cerca però di far

emergere anche il punto di vista della seconda generazione,

quella dei figli dei sopravvissuti, raccontando anche i loro trau-

mi. Maus non narra soltanto la storia di Vladek, ma anche il

tentativo di suo figlio Art di appropriarsi di una memoria fa-

miliare a lungo taciuta dai genitori, e che pure ha inciso dra-

sticamente sulla sua vita. A cominciare dal fatto che Art non

ha mai conosciuto Richieu, il primogenito degli Spiegelman,

1. Per una visione d’insieme degli studi su Maus, prevalentemente di lingua inglese,cfr. Park 2011.2. Nelle citazioni farò riferimento alla traduzione italiana, cfr. Spiegelman 2000.

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STUDI

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 47

STUDI

morto nel ghetto di Zawiercie

a sei anni: un «fratello fanta-

sma» (così lo chiama Art in

una vignetta che lo r itrae

mentre conversa con la mo-

glie) di cui i genitori non par-

lavano mai quand o lui era

bambino, ma la cui foto appe-

sa nella loro camera da letto

«era come un r improvero»

per il piccolo Art – la rappre-

sentazione di un «bambino

ideale» con cui non poteva

competere (171). «Non mi

sono mai sentito in colpa per

Richieu, ma avevo gli incubi

sulle SS… » (172).

Art proverà invece un enorme

senso di c olpa per la mor te

della madre, suicidatasi nel

1968, quando l’autore ha ap-

pena vent’anni. Nel primo li-

bro di Maus, Spiegelman ri-

produce le tavole del fumetto

che aveva disegnato dopo la

morte di Anja: in Prigioniero

del Pianeta Inferno (questo il

titolo del fumetto, il cui stile

psichedelico contrasta netta-

mente con la sobrietà grafica

di Maus), il giovane Spiegel-

man aveva raffigurato se stesso

con indosso l’uniforme a stri-

sce, caratteristica degli inter-

nati dei lager ; le v ignette lo

mostrano mentre, del tutto in-

capace di condividere il pro-

prio dolore con quello del padre, viene sopraffatto dai sensi

di colpa, che si materializzano in una vera e propria prigione.

Le immagini che rappresentano i suoi pensieri mostrano il

corpo senza vita della madre accanto a una montagna di ca-

daveri sovrastati da una svastica, mentre Art si chiede inces-

santemente di chi sia la colpa: della depressione, di Hitler, o

di un figlio incapace di amare sua madre?

A distanza di anni da quelle v ignette, Maus è il tentativo di

costruire un ponte tra le esperienze di due diverse generazioni

e di mettere in comunicazione i rispettivi traumi. Il libro è così,

al tempo stesso, il racconto di un sopravvissuto alla Shoah,

come recita il suo sottotitolo, ma anche un esempio di “post-

memoria” tra generazioni (Hirsch 2008), che permette di evi-

denziare agli studenti molte questioni: la trasmissione della

memoria, l’onerosità del ricordo, la pluralità delle memorie

relative a un qualsiasi evento traumatico, come dimostra il caso

emblematico della Shoah.

La narrazione di Maus intreccia dunque costantemente due

diversi piani temporali: da un lato il presente, in cui Art con-

versa con Vladek e lavora a quel fumetto che i lettori stanno

leggendo, dall’altro lato il passato che prende forma dal rac-

conto di suo padre, trasportandoci in un altro luogo e un altro

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX48

tempo. Sosnowiec, Polonia, metà degli anni Trenta: l’incontro

di Vladek e Anja Zylberberg, il matrimonio, la nascita di Ri-

chieu, una fiorente attività commerciale. Poi, nel settembre

1939, l’evento che cambia la vita degli Spiegelman e di tutti

gli ebrei d’Europa: l’invasione tedesca della Polonia e l’inizio

della Seconda guerra mondiale. Nel corso dei loro incontri,

Vladek racconta al fig lio l’esperienza della guer ra come

militare dell’esercito polacco, la prigionia, e poi l’orrore di fron-

te alla nuova condizione degli ebrei: la legislazione razziale,

la confisca delle aziende di famiglia, l’umiliazione del ghetto,

l’uccisione dei propri familiari e amici, e infine il disperato

tentativo di nascondersi insieme ad Anja fingendosi polacchi,

per evitare la deportazione nei lager.

Scoperti dalla Gestapo , i c oniugi

Spiegelman saranno deportati ad

Auschwitz nel marzo del 1944. En-

trambi si salveranno dal lager e dalle

“marce della mor te”, e nell’estat e

del 1945 riusciranno finalmente a ri-

congiungersi a Sosno wiec – una

città che non ha più nulla da offrire

agli ebrei, tanto da spingere gli Spie-

gelman a trasferirsi in Svezia e poi

negli Stati Uniti.

Oltre alle immagini, Spiegelman si

affida a una scelta semplice, tipica del

fumetto, per rappresentare la cesura

– irriducibile – t ra il pr ima e il

dopo nella vita di suo padre: la lin-

gua. Il Vladek del presente si esprime

in un ing lese elementare, spesso

sgrammaticato, che ricalca le strut-

ture sintattiche del polacco. Il lin-

guaggio dei ricordi di Vladek, invece,

è spigliato, scaltro, deciso: il Vladek

del passato è un ottimo or atore,

dotato di una grande prontezza lin-

guistica, e la sua buona conoscenza

del tedesco e dell’inglese gli salverà

la vita in molte occasioni.

Vignetta dopo vignetta, i lettori non

apprendono soltanto il racconto co-

rale che prende forma dai ricordi di

Vladek, ma anche i dilemmi – estetici

ed etici – che assillano Art nel corso

della creazione di Maus.

Il macro-problema è quello di tro-

vare un modo efficace per rappresen-

tare graficamente la “questione ebraica”. La soluzione indivi-

duata da Spiegelman è nota: disegnare i protagonisti umani

come figure antropomorfe dalle sembianze animali, scegliendo

uno specifico animale per ciascuna “nazionalità”. Una scelta

che è stata anche criticata, perché sembra paradossalmente

confermare l’ideologia razziale e razzista del nazionalsocia-

lismo. Tuttavia, la tipizzazione di Maus permette immedia-

tamente di spiegare agli studenti che, per capire come si sia

giunti ad Auschwitz, è necessario comprendere in primo luogo

l’immagine del mond o tipica del nazionalsocialismo , il

modo in cui la propaganda del Terzo Reich rappresentava gli

ebrei, e come questa immagine finì per essere considerata la

STUDI

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 49

STUDI

realtà sia dai non ebrei che dagli stessi ebrei, i quali, con l’acuir-

si della persecuzione, dovettero necessariamente accettare ciò

che il nazismo imponeva loro, e cioè che l’essere ebrei fosse

solo una questione di sangue. Necessariamente, allora, gli ebrei

dovranno essere raffigurati come dei topi, perché è così che

li rappresentava il regime: ratti, parassiti che attentano alla

salute razziale della Volksgemeinschaft tedesca e de vono

essere “liquidati” come la peggiore delle pestilenze.

Coerentemente, i tedeschi non potranno che essere rappre-

sentati come gatti, gli eterni nemici dei topi, instancabili nel

dar loro la caccia. Le altre “nazionalità” sono parimenti rap-

presentate da animali: i polacchi sono maiali (così li appel-

lavano i nazisti), gli americani cani, i francesi rane, i rom far-

falle. Le fattezze animali dei protagonisti di Maus permettono

di attutire la violenza o l’oscenità delle immagini che

raccontano i ricordi di Vladek. Ma soprattutto, questa tipiz-

zazione permette di discutere con gli studenti la seguente do-

manda: che cosa vuol dire, in realtà, “essere ebreo”? Anche ri-

fiutando la visione razziale imposta dal nazionalsocialismo, è

comunque possibile pensare l’ebraismo solo in termini di na-

zionalità o di etnia? E più in generale: possiamo davvero ridurre

l’identità di una qualsiasi persona ad una, e una sola, caratte-

ristica – qualunque essa sia?

Nel corso della narrazione, infatti, Spiegelman è il primo a

mostrare i limiti della sua tipizzaz ione, mandandola in

crisi. Ad esempio, alcune vignette visualizzano i dubbi di Art

rispetto a come rappresentare sua moglie, una donna di na-

zionalità francese convertitasi al giudaismo: dunque, Françoise

è una rana o un topo? In molte occasioni, i protagonisti ebrei

riescono a farsi passare per polacchi, indossando delle ma-

schere da maiali: ma cosa simboleggia esattamente quella ma-

schera? In un’altra pagina, Vladek ricorda il caso di un inter-

nato ad Auschwitz che supplicava continuamente le guardie

di liberarlo, affermando di essere un tedesco. Nella vignetta

successiva, Art chiede al padre se quell’uomo fosse “realmente”

tedesco, e alle spalle dei due topolini l’immagine del detenuto,

che nella vignetta precedente era ovviamente rappresentato

come un topo, si trasforma in quella di un gatto con indosso

l’uniforme a strisce: «Chi sa… », risponde Vladek, «Ma per

tedeschi quello era ebreo» (206). Con una semplice sequenza,

Spiegelman rivela la violenza e la paradossalità dei meccanismi

di identificazione tipici di qualsiasi razzismo (non soltanto

dell’antisemitismo nazifascista), mostrandoci che la comples-

sità di una v ita umana non può esser e ridotta ad una

“etichetta” – ebreo, tedesco, omosessuale, musulmano, clan-

destino...

L’altro problema che affiora dalle pagine di Maus riguarda il

crescente senso di inadeguatezza avvertito da Art rispetto al

suo progetto. Il racconto di suo padre «sanguina storia»: la

narrazione della vicenda personale di Vladek diviene lenta-

mente la narrazione dello sterminio degli ebrei d’Europa. Ma

è possibile – si chiede Art – rappresentare l’inferno senza averlo

vissuto? Chi è lui per parlare della Shoah? Come può «dare

un senso ad Auschwitz» se non riesce nemmeno a instaurare

un rapporto decente con suo padre (170-2)? La sensazione che

prova fin da bambino – sentirsi in colpa rispetto ai genitori

per non essere in grado di comprendere la loro esperienza e

per aver avuto una vita più facile – si trasformerà in

depressione dopo la morte di Vladek (1982) e l’inatteso suc-

cesso del primo volume di Maus, quando le lusinghe dello

“Shoah business” sono in agguato (197 ss.).

Nel 1991 Spiegelman ultimerà il suo fumetto: non perché sia

riuscito ad individuare una risposta al senso di inadeguatezza

suscitato dal tentativo di rappresentare la storia di Vladek e

di tutte le alt re vittime del nazifascismo , ma per ché la

volontà di conoscere e trasmettere la memoria di suo padre

si è comunque imposta, nonostante i tanti dilemmi. Nei tredici

anni occorsi per creare Maus, Art ha continuato a confidare

nella potenza della semplicità per parlare dell’orrore indicibile

di Auschwitz. E il racconto dei suoi topolini ci aiuta non sol-

tanto a comprendere quanto accaduto, ma anche a riflettere,

senza alcuna retorica, sul significato che lo studio della Shoah

e la t rasmissione delle memo rie delle v ittime dell’odio

razziale possono rappresentare oggi per noi.

Renata Badii

Gonzaga University in Florence

BIBLIOGRAFIA

M. Hirsh, The Generation of Postmemory, «Poetics Today», 29, 1 (2008), pp. 103-28.H.S. Park, Art Spiegelman’s Maus: A Survivor’s Tale. A Bibliographic Essay, «Shofar. An Interdisciplinary Journal of Jewish Studies», 29,2 (2011), pp. 146-64.A. Spiegelman, (2000) Maus. Racconto di un sopravvissuto, Einaudi, Torino 2000 (tr. it. di Maus I, Maus II, Pantheon Books, New York, 1986,1991). - Id., MetaMaus. A Look Inside a Modern Classic, Maus, edited by Hillary Chute, Viking Press, New York 2011.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX50

PERCORSI DIDATTICI

Per i cento anni di Elsa MoranteGiuseppe Leonelli

L’ARTICOLO INTRODUCE ALL’OPERA DI ELSA MORANTE SEGUENDONE

LE INTERNE RELAZIONI TEMATICHE E STILISTICHE. NE DELINEA I TRATTI SALIENTI DELLA SCRITTURA TRA «ROMANZO,MEMORIALE, BALLETTO, TRAGEDIA, COMMEDIA».

Elsa Morante nacque a Roma, il 18

agosto 1912, da madre ebrea, mo-

denese d’origine e padre siciliano.

Sono passati, da allora, cento anni e per

quella che fu definita da György Lukács

uno dei massimi scrittori a sua conoscen-

za, l'anno appena terminato avrebbe do-

vuto essere occasione di celebrazioni e

convegni, per la verità, meno fervide le

une e meno numerosi gli altri di quanto

ci si sarebbe aspettato.

Menzogna e sortilegioIl romanzo che la rivelò, Menzogna e sor-

tilegio, fu pubblicat o nel 1948, dopo

quattro anni di gestazione e un numero

cospicuo di racconti pubblicati fin da

giovanissima, parte dei quali confluiti nel

1941 nella raccolta Il gioco segreto. Men-

zogna e sortilegio uscì in anni in cui si po-

nevano i termini di quella che sarebbe

stata definita in seguito da Salinari1 «la

questione del realismo» e si combatteva,

con Muscetta2, il «controrealismo». Il ro-

manzo, a parte qualche lettura d’eccezio-

ne, suscitò più perplessità che interesse.

Non assomigliava a nessun altro del se-

colo in corso e meno che mai a quelli che

maturavano nella stagione immediata-

mente post-bellica, afflitti da problemi

di temi, di struttura e di linguaggio.

In questo contesto, Menzogna e sortilegio

si presentava in splendida, ancorché

contrastata, solitudine. Le vicende rac-

contate costituiscono un grosso romanzo

familiare, in buona parte d’ispirazione

autobiografica, che si svolge attraverso

tre generazioni. Al momento in cui en-

triamo nella narrazione, tutto è compiu-

to ed Elisa, la voce narrante, si presenta.

È l’unica superstite della sua famiglia, ora

che anche la madre adottiva, un’antica

fidanzata di suo padre, dalla «vita sver-

gognata», ma generosa nel prendersi cura

di lei, è morta e lei è rimasta completa-

mente sola in una casa da cui non esce

mai e in cui non riceve nessuno. Da al-

lora, il suo rapporto con la realtà si è pro-

gressivamente allentato, fino a trasfor-

marsi in una perenne coabitazione con

quella che definisce la menzogna, ovvero

un surplus d’immaginario che invade la

sua mente e dissolve la realtà in fantasmi,

ectoplasmi che attraversano ogni ora del-

la sua vita quotidiana, mentre le favole

si trasformano in una sorta di Rivela-

zione.

Dal momento della morte della sua be-

nefattrice, però, le favole e i sogni hanno

subito un’ulteriore metamorfosi, trasfor-

mandosi in memoria, la nuova compagna

che ha assorbito e strutturato l’antica

menzogna. La menz ogna-memoria si

tramuta, senza cessare di essere tale, in

sortilegio, un atto di magia: risorgono le

persone, che, evocate, si radunano intor-

no ad Elisa e pretendono di rivivere, di

rimpastarsi dalle loro ceneri e assumere

una nuova forma; chiedono, ormai dis-

solte le loro vite, di diventare personaggi,

ectoplasmi di parole, parvenze ubique in

cui ognuno potrà incarnare se stesso, ri-

confermare la propria dolorosa identità

terrena, ma aprirsi anche alla nuova vita

che i lett ori insuffleranno in lor o. In

mezzo a quei morti, quattro, soprattutto,

«giganteggiano fra gli altri, come statue

fra minuscoli passeggeri»3. La prima è

Anna, la madre vera; la seconda è Rosa-

ria, la madre adottiva; il terzo è il padre,

Francesco, detto Il butterato. Il quarto è

Edoardo, ovvero Il Cugino, vero colpe-

vole, inventore «di tutta la nostra vicen-

da, e subdolo tessitore d’ogni nostro in-

trigo»4.

1. C. Salinari, La questione del realismo, in Id., Preludio efine del realismo in Italia, Morano, Napoli 1967.2. C. Muscetta, Realismo, neorealismo, controrealismo,Garzanti, Milano 1976. 3. E. Morante, Menzogna e sortilegio, in Id., Opere, I, Mon-dadori, Milano 1988, p. 32.4. Ibi, p.33.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 51

PERCORSI DIDATTICI

Elisa è colei che racconta la storia e ne

costituisce il punto di vista, prima di es-

servi assorbita anche come personaggio

ed entrarvi, infine, a circa due terzi dello

sviluppo dell’opera, in for ma di se

stessa bambina. Uno dei problemi che

i critici si sono posti è quale sia il rap-

porto fra Elisa ed Elsa, fra la narratrice

e l’autrice. La Morante sceglie un per-

sonaggio-narratore, che entra nel ro-

manzo in una prima persona che in re-

altà corrisponde a una terza. Ne risulta

un’onniscienza dissimulata e resa critica

dal fatto che si fa portatrice del punto

di vista dei morti, se è vero che sono essi

stessi a dettare le vicende che vengono

raccontate. Ma essere una narratrice me-

dium non vuol dir e scomparire in

quanto individualità. Non è un caso che

il nome della ragazza, Elisa, riproduca

quasi letteralmente quello di Elsa. Se il

linguaggio di Elisa non fosse quello di

Elsa, anche il rapporto di Elsa con la nar-

razione sarebbe profondamente diverso.

La sovrapposizione, in realtà, è quasi to-

tale, ma se non ci fosse Elisa, Elsa sareb-

be un deus ex machina invisibile. Pro-

iettando un’immagine di sé in forma di

personaggio, Elsa attiva una funzione

che le consente di vedersi al centro del

racconto.

Ne risulta che tutto il multiforme, va-

stissimo mondo poetico morantiano

prende senso e unità in una sorta di io

narrante, che soprassiede all’articolazio-

ne e alla caratterizzazione della materia

narrata, ma costituisce anche uno spec-

chio, un punto di fuga c he riconduce

l’autrice a se stessa. Attraverso Elisa, la

Morante partecipa alla narrazione e ne

garantisce direttamente il senso, os-

servando da una posizione lievemente

arretrata. Entrare nel personaggio di Eli-

sa e attraverso di lei in tutti gli altri si-

gnifica donare se stessa all’altro, come

fanno gli attori sul palc oscenico. In

questo senso Menzogna e sortilegio è ro-

manzo supremamente teatrale, come è

stato più volte rilevato, per lo più senza

spiegarne se non genericamente il senso,

che è assai più specifico di quanto non

si possa pensare.

Questo modo narrativo in cui dominano

i giochi di specchio di una continua mise

en abîme dell’autrice, sorta di fantasma

tra i fantasmi che s’aggira per un vissuto

sigillato dalla morte e ora riproposto a

un altro tipo di vita, si esprime soprat-

tutto nell’uso intenso e rigoglioso del-

l’aggettivazione, gli «splendidi aggettivi»,

per dirla con Mengaldo, «che spesso si

ammassano sulla pagina… molto meno

per horror vacui decorativo che per ric-

chezza, tensione di pathos»5. L’aggettivo

è, in Menzogna e sortilegio, assai più che

un’espansione linguistica funzionale

per la descrizione della realtà. È cuore e

anima della realtà, un punto di vista sul

mondo che continuamente lo nutre e

rinnova a se stesso: in questo senso, come

in Manzoni, l’aggettivo è una cosa seris-

sima, che va soppesata e calibrata; ma,

mentre in Manzoni la conseguenza è un

uso moderato, nella Morante l’aggettivo

è profuso con abbondanza, anche se mai

sperperato. Esso si presenta come uno

strumento attraverso cui prendere co-

scienza delle infinite articolazioni della

realtà, ha una valenza caleidoscopica il

cui effetto si trasmette al lettore, susci-

tando in lui la percezione che chi raccon-

ta esprime prima di tutto il senso di una

felicità narrativa che ha pochi eguali (la

Recherche di Proust, Cent’anni di solitu-

dine di Garcia Marquez?) nel romanzo

contemporaneo. È qui, forse, una delle

accezioni principali, se non la principale,

del secondo membro del dittico che dà

titolo al romanzo, la parola, e conseguen-

temente la nozione, di sortilegio. Il mon-

do esiste allorché viene nominato e

certo questo procedimento interessa e

implica in tutta l’opera della Morante,

e soprattutto nel primo dei suoi romanzi,

una facoltà creativa magica, la capacità

di vedere con occhi incontaminati tutto

quello che gli altri non vedono. Elisa-Elsa

guarda con occhi di bambina, appartiene

già agli F.P., i Felici Pochi che incontria-

mo vent’anni dopo nel Mondo salvato

dai ragazzini: quelli che sono pochi, ma

si possono inc ontrare dappertutto, e

sono sempre poveri, anche se nascono

ricchi, e «pure quando siano volgarmen-

te intesi brutti/in REALTÀ sono belli»,

perché «la REALTÀ /è di rado visibile

alla gente»6. A tal punto poco visibile, che

per vederla ci vuole un sortilegio. Ecco

cos’è, dunque, la realtà: Menzogna e sor-

tilegio, menzogna per molti, sortilegio

per pochi. Menzogna è l’irreale che la

maggior parte degli uomini crede essere

il reale, sortilegio l’irrealtà che solo

pochi riconoscono come realtà. Ma c’è

forse un livello, che riguarda strettamen-

te l’arte, in cui la menzogna, lungi dal-

l’essere «incanto e vizio, follia e illusio-

ne… mezzo per raggiungere un falso pa-

radiso, droga che proietta l’anima in una

stupefazione fantastica»7, come i più in-

terpretano, è una condizione del sorti-

legio.

L’isola di ArturoPassano gli anni, la Morante pubblica nel

1957 L’isola di Arturo, cominciato nel

1952. A differenza del primo, il secondo

romanzo, cui viene conferito il premio

Strega, riscuote grande successo presso

i lettori. Protagonista è Arturo, un ragaz-

zo di quattordici anni, che vive dalla na-

scita nell’isola di Procida. Il suo nome

è esemplato su quello della stella più lu-

minosa della costellazione di Boote,

ma rinvia segretamente almeno a due al-

tri referenti. Uno, lo ha fatto notare il De-

5. P.V. Mengaldo, Spunti per un’analisi linguistica dei ro-manzi di Elsa Morante, in Id., La tradizione del novecento.Quarta serie, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 151-152.6. E. Morante, La canzone degli F.P. e degli I.M., parte I, In-troduzione esplicativa, vv. 15-17, in Ead. , Il mondo sal-vato dai ragazzini, Einaudi, Torino 2012, p. 131.7. Cfr., fra gli altri, C. Sgorlon, Invito alla lettura di Elsa Mo-rante, Mursia, Milano 2005, pp. 46-47.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX52

PERCORSI DIDATTICI

benedetti in un suo g rande saggio8, è

Artù, il r e del ciclo br etone; l’altro,

Arthur Rimbaud, il ragazzo «dalle suole

di vento», come lo definì Verlaine, per la

Morante «ragazzetto…senza corte né fa-

miglia»9, il più caro, il più amato degli

F. P., i Felici Pochi, nella Canzone a loro

dedicata. Ed effettivamente troviamo Ar-

turo, all’inizio del romanzo, vivere nella

sua isola praticamente solo dalla nascita,

che ha provocato la morte della madre,

da lui sempre rimpianta e di cui gli resta

solo una sbiadita fot ografia. Unico

affetto è un padr e mezzo tedesco e

mezzo italiano, di nome Wilhelm, per lo

più assente, sempre impegnato in miste-

riosi viaggi, assurto, nella fantasia del fi-

glio, quasi a figura divina. Arturo narra

anch’egli, come Elisa, in prima persona:

il primo capitolo del romanzo, Re e

stella del cielo, è una veloce ricapitolazio-

ne degli anni trascorsi sull’isola. Arturo

si presenta al lettore come un piccolo Ro-

binson, immerso in un’esistenza in cui

non sembra scorrere il tempo e «un idil-

lio solitario e supremo lo affratella alle

meraviglie del mondo»10. Tutto questo

dura fino a che non arriva, all’inizio del

secondo capitolo, un pomeriggio d’in-

verno, annebbiato, contro le consuetu-

dini climatiche dell’isola, da un piovasco

freddo, immagine simbolica d’un turbi-

ne esistenziale incipiente. Vediamo il ra-

gazzo nel porto di Procida, «combattuto

fra l’impazienza e la ripugnanza»11: sta

aspettando l’arrivo del piroscafo delle tre,

che gli porterà una nuova madre, la don-

na con la quale suo padre si è appena ri-

sposato.

Si può dir e che, con questa pr ecisa

scansione del giorno e dell’ora dell’arrivo,

il tempo entri per la prima volta nella vita

d’Arturo: è come se il ragazzo uscisse im-

provvisamente dalla dimensione solitaria

e immobile del mito; la sua vita, fra poco,

diventerà simile a quella di tutti. Il fan-

ciullo divino sta per affac ciarsi alla

realtà, al funebre apparir del vero della

Silvia leopardiana, cui la maggior parte

dei personaggi di Menzogna e sortilegio,

a partire da Elisa, la narratrice, si sottrag-

gono, prima o poi, chi con la morte, chi

con la pazzia, chi con la menzogna o con

sogni e favole. Il primo scrollo tellurico

che la realtà arreca al reame immaginario

del piccolo re è la scoperta dell’amore,

che pian piano s’insinua nella sua vita,

prima insospettato, poi esorcizzato con

una sorta di sc ontrosa alterigia, per

colei che dovrebbe essere solo sua madre.

Quasi contemporaneamente, la figura

paterna si sgretola, da idolo si trasforma

in parodia del se stesso di prima: Arturo

scopre che i suoi viaggi epici in realtà non

superano il territorio della circumvesu-

viana e sono motivati da sordidi, mise-

rabili affari. Il r agazzo conosce anche

l’umiliazione di vedersi preferito, negli

affetti paterni, dall’amore per un piccolo

malvivente detenuto nel penitenziario di

Procida. La situazione si fa insostenibile:

Arturo decide di partire per sempre, pro-

prio nel momento in cui sc oppia una

guerra che si rivelerà terribile e in cui an-

che lui, con tutta probabilità, sarà invi-

schiato. Nel momento in cui la nave si

stacca dal molo, è come se un cordone

ombelicale psichico venisse definitiva-

mente lacerato.

Ma è una nascita o è una morte? A mano

a mano che la nave si allontana da Pro-

cida, l’isola si trasforma in un paradiso

«altissimo e confuso», per dirla con i ver-

si di Penna in epigrafe, che, possiamo

completare con quel che segue e risulta

omesso nella citazione, «ci porta a bere

la cicuta», ossia a morire.

Il viaggio dell’eroe verso il vasto mondo

non porterà a nessuna iniziazione e

non prelude, come accade nei miti, al ri-

torno, ormai completato il ciclo della

crescita che trasforma il ragazzo in

uomo.

L’abbandono dell’isola, l’immagine ar-

chetipica dell’utero, è un esilio definitivo

da se stesso. Appaiono, a chiusura di li-

bro, nella pienezza del loro significato,

i versi della bellissima poesia Dedica pre-

messa al romanzo, soprattutto i primi

due e l’ultimo: «Quello, che tu credevi

un piccolo punto sulla terra/, fu tutto»

e «fuori del limbo non c’è eliso». Una

volta entrato in mezzo agli altri uomini

il ragazzo scomparirà, non sapr emo

più niente di lui. Lo ritroveremo, in li-

mine ad un altro libro, reincarnato nel

ragazzo morto protagonista di Addio, la

stupenda poesia che apre Il Mondo sal-

vato dai ragazzini, uscito in prima edi-

zione nel 1968. Ecco le sue par ole,

rivolte alla donna che lo cerca dapper-

tutto, proprio come Nunziatina cercava

Arturo, senza trovarlo, nell’ultimo capi-

tolo, intitolato Addio, del romanzo: «Tu

lo sapevi che le fanciullezz e sulla

terra/sono un passaggio di barbari divi-

ni/col marchio carcerario della fine già

segnata./Lo sapevi. Eppure volevi farmi

vivere/quando io non volevo più vivere».

8. G. Debenedetti, L’Isola della Morante, in Id., Intermezzo,Mondadori, Milano 1962, p. 107: «Il suo è un nome dibattesimo come quello di tutti i cristiani, ma contienedue allusioni: una mitico astrologica, in quanto è il nomedi una stella; e una epic o-leggendaria, in quanto è ilnome del re del ciclo bretone».9. E. Morante, La canzone, cit., vv. 37-38, p. 124. 10. C. Garboli, L’isola di Arturo, in Id., Il gioco segreto. Noveimmagini di Elsa Morante, Adelphi, Milano 1995, p. 71.11. Cfr. Opere, I, cit, p. 1026.

Carlo Levi, ritratto diElsa Morante.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 53

Il «marchio carcerario della fine già se-

gnata»: lo t roviamo dunque, questo

marchio, che prima di Arturo affligge

Elisa e si stampa sul tessuto di Menzogna

e sortilegio, anche nel Mondo salvato dai

ragazzini, che in questo senso ha ben

poco a che fare con la festa del puer del

Sessantotto, cui il libro, che non si sa pre-

cisamente che cosa sia, stando alla sua

autrice12, è stato incautamente connesso.

Nella sua natura composita, e affastellata

di temi che attraversano e n utrono

tutta l’opera della Morante, Il Mondo sal-

vato dai ragazzini partecipa di quello che

è il vero, grande tema della scrittrice: la

sacralità della v ita che persiste anche

quando sembrerebbe rifiutare se stessa,

raccontata con una meravigliosa capa-

cità di rappresentazione.

Chi ha parlato, e non sono pochi, per la

sua opera narrativa, di romanzo-saggio

è completamente fuori strada. Nessuno

come lei sa vedere e quindi raccontare13,

tradotti in eventi e personaggi, il bene,

il male, il dolore, la felicità, il loro incro-

ciarsi, impastarsi, respingersi, ma anche

darsi la mano e addir ittura inseguirsi,

raggiungersi e scambiarsi di posto.

La sua lingua magica stimola e rigenera

continuamente la realtà da se st essa,

confinando in una zona oscura, impro-

nunciabile, solo una cosa: il potere. Lo

sentiamo, ma non lo v ediamo mai: il

potere, nella sua pura essenza, è irrap-

presentabile, perché, per la M orante,

esso in sé non esiste, sta sempre al posto

di qualcos’altro, sicché noi possiamo

solo vedere i suoi effetti sul mondo.

La StoriaNel 1974 esce il terzo grande romanzo,

La Storia: accolto, cosa che oggi pare in-

credibile, da una vera e propria levata di

scudi da gran parte della cultura lette-

raria italiana. Non piace quasi a nessuno,

neppure al più caro degli amici della

Morante, Pier Paolo Pasolini, quasi ca-

tafratto nell’incomprensione. Moravia,

l’ex marito del-

la scrittrice,

tace, non si sa

se perplesso o

indispettito o

semplicemente

se ritenga op-

portuno aste-

nersi dal giudi-

zio. Calvino,

chissà perché,

a m m o n i s c e

sentenziosa-

mente che è le-

cito, in un’ope-

ra d’arte, far ri-

dere, non far

piangere.

Un’intellettuale

del «Manife-

sto», Rossana

Rossanda, so-

spetta la scr it-

trice di v oler

vendere disperazione, obbiettando che,

in questo caso, sarebbe meglio vendere

patate. In realtà la Storia non ha nulla a

che fare con la disperazione e neppure

Aracoeli, l’ultimo, dolentissimo, ma non

disperato romanzo, con il quale si con-

clude l’opera e quasi la vita della Moran-

te.

Quel che si esprime nella Morante non

è la disperazione, ma il dolore (sono le

lacrimae rerum virgiliane, ma anche il

dolore «eterno», che «ha una voce e non

varia» di Saba). Esso assume, come in

tutti i grandi scrittori, un’aura di cosmi-

cità che lo trasforma in un complesso ac-

cordo musicale, le cui componenti ar-

moniche possono suscitare vibrazioni di

fortissima, vitale intensità.

Nella Storia, per fare un unico esempio,

proprio ad apertura di romanzo, ci tro-

viamo di fronte a una violenza sessuale

che assurge in seguito al senso di una mi-

steriosa incarnazione, perché il frutto del

ventre di Ida, profanato dal soldato te-

desco dagli occhi azzurro-cupo, sarà

Useppe, che erediterà quegli occhi ed

esprimerà attraverso di essi la sua natura

inerme, e a suo modo salvifica, di agnus

dei nel cuore stesso del macello che af-

fligge il mondo.

Giuseppe Leonelli

Università Roma Tre

12. Si legge nella quarta di copertina del volume, ano-nima ma composta, come di consueto, dall’autrice: «Unromanzo. Un memoriale. Un balletto, Una tragedia. Unacommedia. Un madrigale. Un documentario a colori. Unfumetto. Una chiave magica». Potrebbe stare benissimoper una definizione della vita.13. Garboli accenna, a proposito della Storia, al «suonoromanzesco della Morante… prodotto da un passo si-curo, spedito, potente, indaffarato, senza nervosismo,senza fretta, il passo di chi è occupato a narrare» e nonha testa per pensare ad altro» (C. Garboli, La storia, in Id.,Il gioco segreto, cit., p. 155).

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX54

PERCORSI DIDATTICI

Il carattere spirituale dellavoro e la dialetticadell’autocoscienzaHegel ha saputo indagare, con indubbia

perspicacia critica, i differ enti aspetti

qualificanti del lavoro umano. Per com-

prendere la sua disamina, che ci consente

di enucleare il sottile gioco dei molteplici

riflessi che si pongono in essere entro la

prassi sociale del lavoro, sarà opportuno

tener presente anche la profonda analisi

del lavoro che si può evincere dal primo

capolavoro hegeliano, la Fenomenologia

dello spirito (1807). Se si tengono presenti

le complesse pagine hegeliane consacrate

ad una analisi dell’autocoscienza si può

meglio penetrare, fenomenologicamente

e concettualmente, la pr ecisa natura

della prassi sociale del lavoro.

Per Hegel della Fenomenologia l’autoco-

scienza costituisce un momento dialet-

tico assai complesso, quello mediante il

quale si può comprendere il preciso pas-

saggio dalla Begierde (dall’appetire, de-

siderare sensibilmente) allo scontro tra

le differenti autocoscienze. Configu-

randosi come autocoscienza la coscienza

si volge, da un lato, proprio attraverso il

suo appetire, ad un determinato oggetto

che, tuttavia, risulta essere un mero fe-

nomeno, giacché la sua essenza coincide

col suo stesso dileguare; dall’altro lato,

si volge verso se stessa perché il proprio

oggetto è appunto se stessa che, inizial-

mente, si configura solo in antagonismo

con l’oggetto appetito. In tal mod o

l’autocoscienza costituisce un appetito

che cerca se stesso senza saperlo, è il pro-

prio appetire stesso che si rende conto

di questa sua asc esa all’autocoscienza

solo nella misura in cui individuerà altre

autocoscienze. Ma occorre anche avver-

tire come per H egel l’autocoscienza

esista sempre come potenza eminente-

mente negativa: accanto alla realtà po-

sitiva dell’autocoscienza, che si c on-

trappone a quanto la oltrepassa, esiste

anche ciò che si nega e vuole pr oprio

mantenersi in tale negazione. Il c he

coincide con la concretezza della v ita

umana entro la quale il singolo uomo

«non è mai ciò che egli è», proprio per-

ché oltrepassa sempre se stesso, è sempre

al di là di sé, si proietta costantemente

nel futuro e si sottrae quindi ad un per-

manere che non sia un per manere del

suo stesso appetito cosciente di essere un

appetito. Per questa ragione, come ha ri-

levato Jean Hyppolite, «la Begierde uma-

na si trova solo quando ne vede un’altra,

o meglio quando si dirige su un’altra e

diviene appetito di essere riconosciuta

e dunque di riconoscere se stessa»1. La

vocazione umana si attua proprio in

questa socialità instaurantesi tra le dif-

ferenti autocoscienze, dove l’essere cui

aspira ogni autocoscienza non è mai l’es-

sere della natura, bensì quello della Be-

gierde, dell’appetito, l’inquietudine del

Sé che non può mai configurarsi come

una cosa, un essere o un esserci, proprio

perché l’autocoscienza si qualifica, sem-

mai, come negazione del suo stesso es-

serci, come una realtà sempre diveniente

che, proprio per questo, si sottrae, peren-

nemente, all’essere, anche se poi questo

suo continuo sottrarsi all’essere deve poi

manifestarsi proprio nell’essere. Il che

rinvia precisamente alla dialettica dell’Al-

tro e del Sé. Di fronte alla positività della

vita il Sé costituisce, pertanto, l’unità ri-

flessa trasformatasi in mera negatività:

il Sé emerge solo nel c ontrasto con

l’Altro. Per Hegel il concetto dello spirito

si costruisce attraverso questa duplica-

zione dell’autocoscienza, proprio perché

la duplicità e l’alterità, la lotta del Sé con

l’Altro, rappresentano l’esserci della

vita stessa. Anzi, nel rapporto conflittuale

tra il Sé e l’Altro ci si trova di fronte a un

susseguirsi continuo e mobile di doppi

sensi: l’Altro appare come il Sé, mentre

il Sé, a sua v olta, appare come l’Altro.

Il lavoro come realizzazione sociale:HegelFabio Minazzi

HEGEL È IL PENSATORE CHE È RIUSCITO AD ANALIZZARE, IN PROFONDITÀ, GLI ASPETTI QUALIFICANTI DEL LAVORO UMANO. L’INTERVENTO ESAMINA LE COMPLESSE PAGINE DELLA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO

PER METTERE IN EVIDENZA GLI ASPETTI SOCIALI E RELAZIONALI INTERNI ALLA PRASSI LAVORATIVA

1. Jean Hyppolite, Genesi e struttura della «Fenomenolo-gia dello spirito» di Hegel, Presentazione di Mario Dal Pra,trad. it. di Gian Antonio De Toni, La Nuova Italia Editrice,Firenze 1972, p. 203.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 55

PERCORSI DIDATTICI

Di fronte all’Altro il Sé perde se stesso,

per poi perdere anche l’Altro perché in

lui sorge il Sé. In altre parole la negazione

dell’Altro, connessa con la Begierde, con

l’appetito, costituisce anche un’auto-

negazione, proprio perché sono in gioco,

in lotta, due autocoscienze con un terzo

elemento: quello dell’alt erità, poiché

l’essere per l’altro non è ancora l’essere

per sé. L’essere della vita quale alterità co-

stituisce un terzo elemento che spiega al-

lora la dialettica specifica che si instaura

tra il Sé e l’Altro, il che consente anche,

infine, di meg lio intendere proprio la

precisa natura del lavoro. Se infatti si so-

stiene che nella lotta dialettica tra le au-

tocoscienze l’Altro si manifesta come il

Sé e il Sé, a sua volta, si manifesta come

l’Altro, allora, proprio per il porsi dell’Io

della Fenomenologia hegeliana, la media-

zione tra questi due momenti risulta es-

sere sempre essenziale e c ostitutiva.

Scrive infatti Hegel: «nell’autocoscienza

immediata l’Io semplice è l’oggetto as-

soluto, che peraltro per noi o in sé è l’as-

soluta mediazione, e ha per momento es-

senziale l’indipendenza sussistente»2.

Nella positività concreta e mobile dell’es-

sere vitale l’autocoscienza si innalza

così al di sopra della vita stessa: se la vita

rappresenta una schiavitù, l’uomo si li-

bera proprio da questa dimensione che,

tuttavia, costituisce sempre la condizione

positiva del suo stesso emergere.

Esattamente entro questa singolare ten-

sione dialettica si delinea il rapporto tra

signoria e servitù nel quale Hegel richia-

ma proprio, in mod o eminentemente

strategico, il ruolo specifico del lavoro

quale anima più vera e profonda di tale

reciproca tensione, eminentemente dia-

lettica. Se di primo acchito il signore si

configura immediatamente, agli occhi

del servo, come quella liberazione e si-

gnoria che egli non ha saputo attuare,

quindi come umiliazione e r iconosci-

mento della propria dipendenza dal si-

gnore, tuttavia nella sua v ita servile

sono comunque presenti anche due

altri momenti che lo aiutano a prendere

progressivamente coscienza di sé quale

autocoscienza. In primo luogo, il mo-

mento della paura, dell’angoscia totaliz-

zante di fronte alla morte, esperienza me-

diante la quale il servo è per la prima vol-

ta fuoriuscito dalla sua vita, priva di spi-

ritualità, sperimentando l’assoluta nega-

tività dell’autocoscienza. Avendo avuto

paura della morte il servo ha provato

l’esperienza spirituale dell’autocoscienza

che è in grado di fluidificare ogni ele-

mento della vita, facendo percepire l’as-

soluta negatività, il che gli ha consentito

di percepire una totalità che nella vita or-

ganica ordinaria è al di là di ogni espe-

rienza possibile. In secondo luogo, me-

diante il servire il servo vive e fa sua una

disciplina lavorativa che progressiva-

mente lo distacca dall’esserci naturale.

Proprio su questo terreno interviene poi

il lavoro a trasformare la servitù del servo

in autentica padronanza. Il servo infatti,

nella sua stessa continua dipendenza la-

vorativa ha costante esperienza dell’in-

dipendenza dell’essere che deve trasfor-

mare onde poterlo rendere adeguato al-

l’appetito del signore. Il signore, grazie

al lavoro del servo, riesce infatti a godere

del mondo, soddisfacendo i propri ap-

petiti attraverso la negazione completa

delle cose predisposte dal la voro del

servo. Ma proprio lavorando il servo for-

ma e c oltiva se st esso nel moment o

stesso in cui dà for ma alle c ose del

mondo attraverso la pr opria autoco-

scienza e per questa ragione può poi ri-

trovare se stesso nelle sue stesse opere.

Lavorando, in mod o apparentemente

inessenziale, il servo attribuisce la carat-

teristica del permanere e sussistere del-

l’essere-in-sé al suo stesso essere-per-sé.

Proprio attraverso il proprio lavoro ser-

vile il servo giunge così a comprendere

e contemplare la propria indipendenza

dal padrone. Proprio grazie al lavoro l’au-

tocoscienza del servo si innalza alla per-

cezione di se stessa come presente nel-

l’essere: quella cosalità che inizialmente

si contrapponeva negativamente al ser-

vo, proprio attraverso la mediazione del

lavoro si configura ora come il puro es-

sere-per-sé della coscienza del servo. In

tal modo l’essere-per-sé della coscienza

e l’essere-in-sé della vita non sono più

separati, proprio perché il lavoro ha at-

tuato una mediazione critica fondamen-

tale mediante la quale l’autocoscienza si

innalza alla propria percezione nell’es-

sere. Questo risultato costituisce, dun-

que, il frutto specifico del lavoro. Occor-

re quindi ripercorrere analiticamente la

disamina hegeliana del pr ocesso del

lavoro. Come si è visto l’appetito del si-

gnore si riserva un rapporto di pura ne-

gazione dell’oggetto in grado di soddi-

sfarlo. Tuttavia, rileva Hegel, tale appa-

gamento del sig nore costituisce, in

realtà, un «dileguare, perché gli manca

il lato oggettivo o il sussistere» dell’oggetto

stesso quale fr utto della mediazione

innescata dal lavoro servile.

Hegel: il lavoro qualedileguare trattenutoBen diverso è invece il rapporto del servo

con l’oggetto in grado di soddisfare l’ap-

petito del sig nore, proprio perché in

questo caso il rapporto con la cosa è me-

diato dal lavoro servile:

il lavoro, invece, è appetito tenuto a freno,è un dileguare trattenuto; ovvero: il lavoroforma. Il rapporto negativo verso l’oggettodiventa forma dell’oggetto stesso, diventaqualcosa che permane; e ciò perché proprioa chi lavora l’oggetto ha indipendenza. Talemedio negativo o l’operare formativo co-stituiscono in pari tempo la singolarità oil puro essere-per-sé della coscienza che ora,nel lavoro, esce fuori di sé nell’elemento delpermanere; così, quindi, la coscienza che

2. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. it. di En-rico De Negri, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1963, 2voll., vol. I, p. 158, mentre le citazioni che seguono neltesto sono tratte da pp. 162-3 e p. 163.

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lavora giunge all’intuizione dell’essere in-dipendente come di se stessa.

Attraverso il lavoro l’oggetto del mondo

assume una propria forma particolare,

diventa in grado di soddisfare un deter-

minato appetito. Mentre per il signore

l’appetito è un puro dileguare negativo,

il lavoro del servo costituisce un «dile-

guare trattenuto», ed è trattenuto proprio

perché attraverso il suo lavoro il servo

forma l’oggetto, trasformandolo in qual-

cosa che permane. Ma tale «operare for-

mativo» costituisce «il puro essere-per-

sé della coscienza» che proprio grazie al

lavoro fuoriesce da sé installandosi nel

mondo sotto la forma del permanere. Ri-

sultato: solo attraverso il lavoro la co-

scienza giunge infine «all’intuizione

dell’essere indipendente come di se stes-

sa». In tal modo il servo si emancipa dalla

dipendenza dal signore e lo stesso rap-

porto servo/padrone giunge al suo ribal-

tamento dialettico, perché non è certa-

mente più il servo a dipendere dal padro-

ne, bensì il padrone a dipendere dal la-

voro del servo. Il servo, proprio lavoran-

do, mantiene il padrone, mentre il pa-

drone, costringendo il servo al lavoro ser-

vile, ne dipende totalmente.

D’altra parte per Hegel il lavoro servile

non ha comunque solo questo significato

positivo, ponendo «la coscienza servile

come puro essere-per-sé» che diventa «a

sé l’essente», ma possiede anche, al con-

tempo, un suo altrettanto preciso signi-

ficato negativo nei confronti dell’assoluta

negatività dell’autocoscienza, ovvero

quel sentimento dell’«assoluto fluidifi-

carsi» delle cose percepito dal servo at-

traverso la paura, angosciosa, che ha pro-

vata di fronte alla morte.

Infatti, nel formare la cosa, la negativitàpropria di quella coscienza, il suo essere-per-sé, le diventa un oggetto, sol perché essa to-glie l’essente forma opposta. Ma tale nega-tivo oggettivo è appunto l’essenza estranea,dinanzi alla quale la cos cienza servile ha

tremato. Ora peraltro essa distrugge questonegativo, che le è est raneo; pone sé, comeun tale negativo, nell’elemento del perma-nere e diviene così per se stessa un qualcosache è per sé. Alla coscienza servile l’esser-per-sé che sta nel signore è un esser-per-sédiverso, ossia è solo per lei; nella paura l’es-ser-per-sé è in lei stessa; nel formare l’es-ser-per-sé diviene il suo proprio per lei, edessa giunge alla consapevolezza di essere essastessa in sé e per sé.

In altri termini potremmo allora dire che

proprio attraverso il lavoro emerge

infine il pensier o. Se infatti si sca va

proprio in questo significato negativo del

lavoro servile si evince che il servo riesce

a trasformare la cosa naturale in un de-

terminato oggetto adatto all’appetito

del signore, proprio perché rimuove

dalla cosa quella «forma opposta», il «ne-

gativo oggettivo», «l’essenza estranea» di-

nanzi alla quale aveva precedentemente

tremato per la paura della morte. Ma po-

nendo sé come tale negativo nell’ambito

del permanere oggettivo, la coscienza

«diviene così per se stessa un qualcosa che

è per sé». In tal modo formando, attra-

verso il lavoro, l’oggetto dell’appetito, la

coscienza servile giunge infine «alla

consapevolezza di essere essa stessa in sé

e per sé», giunge cioè alle soglie del pen-

siero. Infatti l’essere-per-sé presente nel

signore costituisce un essere-per-sé di-

verso, che risulta essere tale solo per lei

che rappresenta il servo di quel padrone;

di contro nell’esperienza della paur a

angosciosa la coscienza percepisce un es-

sere-per-sé che è presente unicamente,

per quanto radicalmente, in lei stessa. In-

vece solo lavorando «l’essere-per-sé di-

viene il suo proprio per lei». Esterioriz-

zandosi la coscienza servile non si costi-

tuisce come un «Altro da lei», proprio

perché in questo caso la «forma» costi-

tuisce «il suo puro esser-per-sé che quivi

alla coscienza servile si fa verità». Proprio

nel lavoro, che sembrava impoverirla ed

estraniarla da sé, la coscienza servile ri-

trova infine se stessa. E ritrova se stessa,

scoprendosi e conoscendosi quale auten-

tico pensiero. Il pensiero, quindi, nasce

essenzialmente dal lavoro perché solo la-

vorando si prende piena consapevolezza

di se stessi, proprio perché il lavoro ci

pone a contatto continuo con una realtà

esterna che resiste e si oppone alla

nostra azione e che proprio nel suo re-

sistere e nel suo opporsi pone continua-

mente dei problemi che possiamo cer-

care di superare solo ricorrendo alla no-

stra intelligenza e alla nostra determina-

zione, insomma al cervello e alla volontà.

Aggiunge ancora Hegel: «senza la disci-

plina del ser vizio e dell’obbedienza la

paura resta al lato formale e non si river-

sa sulla consaputa effettualità dell’esisten-

za». La paura, proprio nella misura in cui

ha rivelato «l’essenza semplice dell’au-

tocoscienza», il suo assoluto fluidificarsi,

che scopre un «puro e universale movi-

mento», ci rivela la potenza dell’autoco-

scienza: ma questa potenza può realiz-

zarsi solo ed unicament e attraverso il

«dileguare trattenuto» rappresentato

dal lavoro, perlomeno nella misura in cui

il lavoro è effettivamente in grado di for-

mare, proprio perché «senza il formare

la paura resta interiore e muta, e la co-

scienza non diviene coscienza per lei stes-

sa». La libertà del pensiero, proprio per

non essere irretita entro i limiti della

schiavitù, deve insomma vivere un’espe-

rienza radicale che le fornisca «la con-

sapevolezza di sé come essenza». Proprio

questa radicalità – ben espressa nella pa-

gina hegeliana dall’esperienza dell’ango-

scia di fronte alla morte che vanifica ra-

dicalmente ogni determinazione consue-

tudinaria della vita ordinaria –indica la

capacità del pensiero di elevarsi, infine,

all’universale e, per H egel, allo st esso

concetto assoluto.

Fabio Minazzi Università dell’Insubria

Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX56

PERCORSI DIDATTICI

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 57

PERCORSI DIDATTICI

Jerome Bruner sosteneva che tutto

può essere insegnato a tutti, ma in

forme adeguate all’età, al livello di

sviluppo, alle capacità e agli interessi degli

alunni1. Una delle pr incipali difficoltà

nell’insegnamento della filosofia è il po-

tente livello di astrazione del suo apparato

concettuale che rischia di essere banaliz-

zato per un eccesso di semplificazione e

di schematismo, soprattutto quando in

questione ci sono orientamenti filosofici

altamente riflessivi e sistematici dove il

concetto sembra avere una vita propria,

quasi indifferente alla realtà che rappre-

senta. Ad esempio, la filosofia hegeliana

può essere una vera e propria insidia per

quei docenti costretti a parlare di dialet-

tica, spirito, verità, coscienza, razionalità, ad

alunni imprigionati, come gli schiavi

nella caverna platonica, nelle maglie di un

pensiero concreto e sensibile. Che fare?

Ci sono molti metodi per avvicinarsi allo

studio della filosofia (e di quella hegeliana

in particolare) tra cui non è da sottova-

lutare quello retorico che si serve delle

metafore per arrivare ai concetti 2.

Nella prefazione alla Fenomenologia dello

spirito, incuneate all’interno di un’argo-

mentazione che già dalle prime righe si

preannuncia stringente, troviamo dieci

metafore3. Può sembrare strano che He-

gel, il filosofo del concetto, usi un espe-

diente retorico. Ed ancora più strano che

usi la metafora non solo per il suo valore

persuasivo ma come formazione precon-

cettuale o paraconcettuale. Come cerche-

rò di mostrare, infatti, le metafore hege-

liane non sono solo strumenti del dire ma

anche strumenti del pensare. Consideria-

mole in ordine di presentazione.

Le metafore hegeliane1. Il boccio dispare nella fioritura, e si po-

trebbe dire che quello vien confutato

da questa; similmente, all’apparire del

frutto, il fior e vien dichiarato una

falsa esistenza della pianta, e il frutto

subentra al posto del fiore come sua ve-

rità.

2. Lo spirito si mostra così povero, che

sembra impetrare, per un po’ di ristoro,

il magro sentimento del divino, simile

al viandante che nel deserto brama una

sola goccia d’acqua.

3. Ma quel modo che nella creatura, dopo

lungo placido nutrimento, il primo re-

spiro interrompe quel lento processo

di solo accrescimento quantitativo, e

il bambino è nato; così lo spirito che si

forma, matura lento e placido verso la

sua nuova figura e dissolve brano a

brano l’edificio del suo mondo prece-

dente.

4. Quanto poco un edificio è compiuto

quando le sue fondamenta sono state

gettate, tanto poco il concetto dell’in-

tiero, che è stato raggiunto, è l’intiero

stesso.

5. Quando noi desideriamo vedere una

quercia nella robustezza del suo tronco,

nell’intreccio dei suoi rami e nel rigo-

glio delle sue fronde, non siamo sod-

disfatti se al suo posto ci venga mostra-

ta una ghianda; similmente la scienza,

corona del mondo dello spirito, non è

compiuta al suo inizio.

6, 7. Ma questa è verità, non come se l’ine-

guaglianza fosse stata eliminata, a

quel modo c he dal metallo pur o è

espulsa la scoria; e neppure è essa ve-

rità, come dalla botte or ora costruita

si è rimosso l’arnese; anzi l’ineguaglian-

za stessa è ancora immediatamente

presente nel vero come tale, è presente

come il negativo.

8. Così, mentre ciascuno, pur possedendo

occhi e dita, se gli si mettano a dispo-

sizione cuoio e arnesi è poi incapace di

fare delle scar pe, – par e invece che,

quanto alla filosofia, domini ora il pre-

giudizio che ciascuno sappia immedia-

tamente filosofare e giudicare di filo-

sofia, possedendo egli nella sua ragione

naturale la misur a a ciò adatta: –

come se ciascuno non possedesse, simil-

mente, nel suo piede la misur a di

una scarpa.

9. Quanto alla filosofia genuina, noi ve-

diamo come l’immediata rivelazione

Imparare la filosofia dalle metaforeStefano Cazzato

PER NON COMUNICARE IL PENSIERO FILOSOFICO COME FOSSE UNA SEQUENZA DI CONCETTI DISTANTI

DALLA REALTÀ, NON È DA SOTTOVALUTARE L’EFFICACIA DELLA METAFORA, UN APPROCCIO AGLI ARGOMENTI

COINVOLGENTE E RIGOROSO NELLO STESSO TEMPO.

1. J. Bruner, Verso una teoria dell’istruzione , Armando,Roma 1967.2. Per uno studio generale sulla metafora si veda B.M.Garavelli, Le figure retoriche. Effetti speciali della lingua,Bompiani, Milano 1993.3. G.W.F.Hegel, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Ita-lia, Firenze 1996.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX58

PERCORSI DIDATTICI

del divino e il buon senso, che non si

è mai curato di coltivarsi né con la fi-

losofia né con altra forma del sapere,

si considerino senz’altro quale perfetto

equivalente e ottimo surrogato della

lunga via della cultura, di quel ricco e

profondo movimento per cui lo spirito

giunge al sapere, quasi come si decanta

la cicoria quale surrogato del caffè.

10. Questa via ordinaria si fa in maniche

di camicia; il sentimento eccelso del-

l’Eterno, del Sacro, dell’Infinito, percor-

re invece in paramenti sacerdotali un

cammino che è piuttosto esso stesso

l’immediato essere nel centro.

Analisi Consideriamo le metafore 1, 3, 4 che fan-

no essenzialmente riferimento ai concetti

hegeliani della maturazione, del supera-

mento e della totalità. La parte (il boccio,

la creatura, le fondamenta) è destinata ad

essere superata in v ista di quel tutt o

(l’intero) che rappresenta la sua piena rea-

lizzazione, la sua verità (il frutto, il bam-

bino, l’edificio). È q uesto il pr ocesso

lento e graduale, ma necessario e ineso-

rabile, di formazione dello spirito che –

come le metafore ci illustrano – non con-

siste solo nell’accrescimento quantitativo

del pre-esistente ma anche nella sua dif-

ferenziazione qualitativa. Anzi, di tale por-

tata e intensità è questo accrescimento che

il risultato del processo sembra dissolvere,

negare, falsificare i suoi inizi. Eppure que-

gli inizi, quel mondo precedente, quelle

origini, sono nobili e importanti.

Consideriamo, a tal proposito, le metafore

6 e 7 che fanno riferimento al concetto di

conservazione del negativo, forse il con-

cetto hegeliano più importante. Il proces-

so della verità, mediante il quale lo spirito

diviene ciò che deve divenire, non è solo

superamento e diversificazione, ma anche

memoria e conservazione dialettica del

superato e del differente. Diversamente

da un metallo puro, dal quale sono state

eliminate le scorie, l’ineguaglianza è im-

mediatamente presente come negativo

nella verità e ne è parte integrante e ar-

ricchente. I passaggi intermedi e le diffe-

renze interne fanno la verità totale dello

spirito come il boccio e il fiore fanno la

verità compiuta del frutto. La verità di una

botte è anche il processo sintetico della sua

costruzione, compresi i materiali e gli ar-

nesi necessari per costruirla. È singolare

che Hegel sostenga che la verità non è

l’astratto ma il concreto dove concreto è

ciò che con-cresce (cresce insieme), si svi-

luppa e si completa nel tempo anche per

mezzo delle differenze, delle contraddi-

zioni e delle variazioni. Che cos’è allora

il concreto, se non la storia stessa?

Se la verità è lo sviluppo dello spirito sino

al momento della sua autocomprensione,

il compito della filosofia è di essere la co-

scienza riflessiva, la comprensione razio-

nale, di questo sviluppo, dai suoi inizi al

suo compimento. È questo il punto in cui

in Hegel storia e filosofia si saldano con

la conseguenza che la filosofia non può

non essere una filosofia della storia. Del

resto, uno dei modi di int endere la

celebre identità hegeliana di razionale e

reale è la fedeltà con cui la filosofia segue

(o dovrebbe seguire) passo dopo passo il

cammino dello spirito, cioè la storia,

tormentata e faticosa, del suo intero iti-

nerare. Questo compito della filosofia è

chiarito dalle metafore 2, 5 e 9. Più pre-

cisamente: la metafora 2 chiarisce un er-

rore abituale del filosofo che, mosso

dalla sete della verità, rischia di acconten-

tarsi di una parte della verità come il vian-

dante nel deserto trova un po’ di ristoro

in una goccia d’acqua; la metafora 5 dice

che chi desidera il tutto non può essere

appagato da una soddisfazione parziale

perché sarebbe deluso come quell’uomo

che, desiderando vedere una quercia ro-

busta, intricata e rigogliosa, debba accon-

tentarsi di vedere una ghianda. La meta-

fora 9 va oltre il rapporto tra il tutto e la

parte e introduce quello tra l’apparenza

e la realtà. Spesso, lamenta Hegel, l’errore

dei filosofi non è quello di scambiare la

parte con il tutto ma quello, più clamo-

roso e pericoloso, di scambiare la verità

con il suo sur rogato (il buon senso)

come qualcuno sconsideratamente scam-

bia la cicoria, di cui decanta le lodi, per

caffè. Le metafore 2 e 5 fanno riferimento

a un errore di prospettiva proprio di quei

filosofi che, incapaci di uno sguar do

globale e sistematico, si incagliano nel par-

ticolare, lo assolutizzano e, assolutiz-

zandolo, lo astraggono dalla storia della

quale è parte. E invece di considerare il

cammino dello spirito nella sua totalità

si fermano a una delle sue stazioni, fosse

pure per impetrare un po’ di ristoro. La

metafora 9 fa riferimento, invece, a un er-

rore di profondità, tipico di quei filosofi

che, incapaci di uno sguardo radicale e fe-

nomenologico, si fermano alla superficie

disordinata e caotica degli eventi storici

invece di penetrarne l’essenza intimamen-

te razionale.

Chi siano questi filosofi r isulta, infine,

chiaro dalle metafore 8 e 10 nelle quali

Hegel polemizza contro il dilettantismo

filosofico, contro i profani che fanno fi-

losofia “in maniche di camicia” mentre lo

spirito procede in “paramenti sacerdotali”,

contro il pr egiudizio che basti a vere

occhi e dita e cuoio e arnesi per fare delle

scarpe: cioè la ragione e un po’ di stru-

menti filosofici per v enire a capo della

questione della verità. Una questione

così eccelsa che non può essere lasciata in

mani comuni e ordinarie. La filosofia –

conclude Hegel sulla scia dei grandi clas-

sici – è una missione sacra e non un me-

stiere.

Fonti di esperienza econoscenzaDalle dieci metafore si potrebbero svilup-

pare molti concetti ma quelli considerati

costituiscono già una valida introduzione

al pensiero di Hegel la cui mossa retorica

originale non è tanto quella di utilizzare

le metafore ma di collocarle nella prefa-

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 59

zione come un avvio, un assaggio del suo

complesso sistema filosofico.

L’esperienza didattica qui pr oposta è

solo l’esemplificazione di un metodo di

lavoro, di un approccio al pensiero che

vuole essere coinvolgente e rigoroso nello

stesso tempo. Insisto sul rigore di un’ana-

lisi metaforica visto che molti non riten-

gono la metafora (e neppure gli esempi,

le similitudini, le allegorie) come una chia-

ve di accesso credibile allo studio della fi-

losofia e preferiscono considerarla come

una figura retorica, negandone il valore

concettuale e conoscitivo4. Ma la lettera-

tura filosofica di ogni epoca è ricchissima

di metafore. Platone paragona la cono-

scenza sensibile al buio in cui si trovano

gli uomini nella caverna. Seneca paragona

il presente al mo vimento senza sosta

delle stelle. Cartesio considera l’opinione

come una vecchia casa da abbandonare

non prima, però, di aver posto le fonda-

menta della nuova. Per Bacone un indi-

viduo di intelligenza mediocre (lo zoppo),

posto sulla retta via, arriva alla verità più

rapidamente di un uomo di fine intelli-

genza (un esperto corridore), posto sulla

strada sbagliata. Per Kant il mondo è un

abisso sbadigliante. Condillac ricorre a

una statua di marmo per mostrare che la

conoscenza nasce dal sentire e, per restare

sul terreno gnoseologico, Locke si inventa

la celebre metafora della tabula rasa per

confutare l’innatismo. Montesquieu,

piuttosto arditamente per il suo tempo,

conia l’immagine di una natura a lungo

vergine, che rinuncia di fronte alla scienza

al suo pudor e e per de, in un unic o

istante, la propria innocenza. Nietzsche

ricorda che il mondo non è una mela

d’oro tenera e vellutata ma un mostro di

forze. Di grande efficacia contro l’idea di

conoscenze eterne è l’esempio, fatto da

Simmel, di tante ex verità che scendono

dalla scala di servizio mentre altrettante

verità salgono dalla scala principale. Lu-

kács afferma che la teoria nietzscheana

della razza si distingue da quella di Ro-

senberg come un diavolo

giallo si distingue da un

diavolo azzurro. Wittgen-

stein parla di certe propo-

sizioni come di rotaie di

un treno. L’Angelus novus

di Benjamin è una stu-

penda metafora della mo-

dernità5. Rosenzweig pa-

ragona l’identità di pen-

siero ed essere, caratteri-

stica dell’intera filosofia

occidentale dagli ionici a

Hegel, a una par ete dipinta ad affr esco

mentre la parete su cui sono appesi dei

quadri rimuovibili rappresenterebbe la

fine di quell’identità.

Hans Blumenberg ha scritto un intero li-

bro sulla metafora del naufragio, mo-

strando come essa innervi tutta la filosofia

occidentale da Lucrezio a Jaspers6. Ed è

stato proprio Blumenberg a fondare la

metaforologia, la scienza delle metafore

filosofiche in quanto strumenti del pen-

siero. Egli sostiene che «la metafora crea

esperienza senza derivare dall’esperienza»

poiché mostra con l’immediatezza del di-

scorso analogico quanto il discorso logico

è costretto a dimostrare attraverso una se-

rie di passaggi intermedi7. Quei passaggi

che sono sicuramente indispensabili per

la formazione di un pensiero astratto e lo-

gicamente evoluto ma – riconosciamolo

– sono anche impervi, faticosi e noiosi per

molti studenti. Al contrario, secondo

Blumenberg, la metafora rende presente,

fa vedere, mette sotto gli occhi gli “oggetti”

della filosofia e crea delle stimolanti oc-

casioni di conoscenza. Sta all’abilità del

docente fare il salto dall’analogia alla lo-

gica perché la metafora non sostituisce il

concetto, ma prepara alla conoscenza del

concetto. Ne costituisce l’anticipazione,

la prefazione e la t raduzione. E non

sempre è vero, come le dieci metafore he-

geliane dimostrano, che tradurre è tradire.

Inoltre non è da sottovalutare, come re-

centi studi ormai hanno chiarito, che l’in-

terlocutore è più disposto all’attenzione

se ad essere coinvolto nel processo cogni-

tivo non è solo il suo pensiero ma anche

la sua sensibilità, le sue emozioni, la sua

esperienza8. Per Vico, un hegeliano ante

litteram, era fondamentale c olpire la

fantasia per arrivare alla ragione. Era fon-

damentale cioè movere e delectare se si vo-

leva docere. Ed è innegabile che le meta-

fore svolgano perfettamente questa fun-

zione, anche perché sono più facili da ca-

pire e da memorizzare dei concetti in sen-

so stretto.

Stefano CazzatoLiceo linguistico «Carducci», Roma

4. Sul valore conoscitivo di esempi e paragoni si veda S.Cazzato, Ragionare per esempi, «Nuova secondaria», 8, 15Aprile 2003, pp. 63-65.5.W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1982.6.H. Blumenberg, Naufragio con spettatore, il Mulino, Bo-logna 1985.7.H. Blumenberg, Paradigmi di una metaforologia, il Mu-lino, Bologna 1969.8.D. Goleman, Intelligenza emotiva, Rizzoli, Milano 1997.

Paul Klee, Angelus Novus.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX60

PERCORSI DIDATTICI

La questione della posizione della

donna in G recia è spesso s tata

trattata da un punto di vista ate-

nocentrico, data la sproporzione tra le

nostre conoscenze sul contesto ateniese

e quelle su altre zone del mondo greco;

solo con l’epoca ellenistica si è a vuto

qualche ampliamento di prospettiva, co-

munque settoriale (l’Egitto tolemaico,

con il suo pat rimonio papiraceo, e

l’Asia seleucidica, con le attestazioni epi-

grafiche, hanno permesso di considerare

in parte anche situazioni sociali e giu-

ridiche diverse). Ma negli anni più re-

centi lo sviluppo degli studi sulla Ma-

cedonia, dovuto anche all’aumento

della documentazione disponibile, ci ha

offerto un quadro più soddisfacente del-

la società macedone, il che ci consente

di porre il problema delle donne mace-

doni, seppure soprattutto riguardo alle

donne della casa reale.

La Macedonia era uno stato federale ar-

ticolato in diversi cantoni, guidati da

capi guerrieri; era stato unificato dai

Macedoni, di probabile ascendenza do-

rica, nel VII secolo. La dinastia degli Ar-

geadi esercitava sui Macedoni una mo-

narchia di tipo arcaico, dallo stile di vita

“omerico”. Il re Alessandro I, detto “Fi-

lelleno”, riuscì a farsi riconoscere come

greco attraverso l’ammissione ai Giochi

Olimpici e realizzò una sensibile espan-

sione della M acedonia verso oriente,

fino al fiume Strimone, e verso il sud,

fino al monte Olimpo. Spesso in diffi-

coltà per la pressione dei barbari inse-

diati lungo i confini (Illiri e Traci) e per

le frequenti crisi dinastiche (il re era un

primus inter pares, la cui ascesa al trono

doveva essere ratificata dall’assemblea

del popolo in ar mi), la M acedonia

restò a lungo ai margini della storia gre-

ca, cercando, attraverso legami di alle-

anza con le diverse potenze greche, di

mantenere la propria unità e indipen-

denza. Solo con Filippo II e il figlio Ales-

sandro III il Grande la Macedonia di-

venne una grande potenza, dalla quale,

con la fine dell’impero di Alessandro,

nacquero le grandi monarchie ellenisti-

che.

In età classica, la collocazione periferica

della Macedonia sul piano geografico e

culturale e la estrema scarsità di docu-

mentazione epigrafica, dovuta con ogni

probabilità al diffuso analfabetismo ,

hanno reso impossibile farsi un ’idea

chiara della condizione femminile, sia

per le donne dell’élite, sia, a maggior ra-

gione, per quelle comuni. In generale,

si può dire che la donna macedone as-

somigliava a quella omerica o a quella

delle antiche aristocrazie, più che alla

donna greca contemporanea. Fino alla

fine del IV secolo i corredi delle tombe

mostrano che le donne sono associate

alla casa e ai compiti familiari, soprat-

tutto religiosi: la donna trova dunque

il suo spazio di espressione nella fami-

glia e il suo compito è prima di tutto

quello di generare figli. Sulla situazione

giuridica, che ad Atene ci è nota soprat-

tutto dall’oratoria, non siamo informati

a sufficienza: sembra che le donne, so-

prattutto se vedove, potessero svolgere

transazioni legate alla proprietà terriera,

come accadeva in altre società doriche.

Ma fino all’epoca di Filippo II il livello

di vita restò complessivamente piutto-

sto basso e ciò influì in modo non po-

sitivo sulla condizione femminile, che

restò relativamente modesta sul piano

giuridico e culturale.

In età classica e poi nel corso dell’elle-

nismo, sono le donne della famiglia rea-

le macedone, quella deg li Argeadi, a

darci qualche informazione, settoriale

ma interessante, sulla condizione fem-

minile. Due sono gli aspetti che meri-

tano di essere considerati: la pratica del-

la poligamia e il r uolo delle donne

come strumento di alleanza politica.

MogliLa pratica della poligamia ebbe conse-

guenze notevoli su una casa reale nel-

l’ambito della quale, a quanto sembra,

ogni maschio della famig lia poteva

Le donne della casa reale di MacedoniaCinzia Bearzot

NON SOLO ATENE CI FA CONOSCERE LA CONDIZIONE DELLA DONNA IN GRECIA: LA MACEDONIA, ANCHE SE PERIFERICA DA UN PUNTO DI VISTA CULTURALE, OFFRE PROFILI FEMMINILI FORTI, COME QUELLI DELLE DONNE DI POTERE.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX

ambire alla successione. Il sovrano con-

cludeva matrimoni con donne diverse,

a scopi spesso diplomatici: Filippo II

ebbe sette mogli/concubine diverse, di

origine greca (la tessala Filinna), mace-

done (l’ultima mog lie, Cleopatra) o

straniera (l’illirica Audata, la getica

Meda, l’epirota Olimpiade, la madre di

Alessandro). I figli di queste unioni ave-

vano una posizione incerta rispetto

alla successione, che non era garantita

da criteri ben definiti come, per esempio,

la primogenitura. Erano, in realtà, i figli

della moglie più “autorevole” ad essere

nella posizione migliore per la successio-

ne: è il caso di Alessandro, che non era

il primogenito di Filippo ma era il figlio

della “first lady”, Olimpiade, la sola mo-

glie cui Filippo aveva dato anche un ruo-

lo pubblico. La posizione di “first lady”,

però, non poteva dirsi acquisita una volta

per tutte; la regina poteva cadere in di-

sgrazia a favore di nuove spose, come ac-

cadde appunto ad Olimpiade quando Fi-

lippo volle convolare a n uove nozze

con la giovane macedone Cleopatra.

Questa situazione creava grande incer-

tezza a corte e costringeva le donne della

casa reale a lottare per garantire a se stes-

se un ruolo preponderante e ai fig li la

successione: gli scontri, che vedevano la

corte dividersi in fazioni, si giocavano su

temi diversi, come il ruolo di prima mo-

glie, l’origine etnica, la capacità di eser-

citare la maggiore influenza sul re. La

moglie caduta in disgrazia non esitava,

talora, a promuovere congiure contro il

marito, se vedeva a rischio la propria po-

sizione e la successione dei figli: l’epirota

Olimpiade, messa da parte per la mace-

done Cleopatra, umiliata dalla prospet-

tiva di perdere il proprio ruolo di regina

madre e di v edere il fig lio Alessandro

scalzato dalla posizione di erede, avrebbe

organizzato l’assassinio di Filippo. Vera

o falsa che sia, la storia – una delle tante

del genere – è significativa del clima che

si respirava alla corte argeade.

BasilisseL’uso della donna per la creazione di al-

leanze matrimoniali era tradizionale nel-

le aristocrazie greche. La monarchia ma-

cedone, con la sua ispirazione “omerica”,

continuò a praticare questo uso, per mo-

tivi politici e diplomatici. I matrimoni

delle donne della famiglia del re erano

un prezioso strumento per intessere re-

lazioni diplomatiche, porre fine a guerre,

sancire alleanze; ma la loro posizione a

corte poteva cambiare, qualora quelle re-

lazioni si rompessero o diventassero di

secondaria importanza. In questo caso

l’origine straniera della regina la metteva

in difficoltà e si riverberava sui figli, con-

siderati bastardi sul piano et nico e

quindi deboli in t ema di successione.

Nonostante ciò i matrimoni dinastici di-

vennero una delle cifre dell’ellenismo,

non solo in Macedonia ma anche nelle

altre monarchie.

Studi recenti

hanno eviden-

ziato che le don-

ne ebbero un ruolo

molto importante

nell’immagine della

monarchia macedone

e, in generale, elleni-

stica, a causa del suo

carattere familiare e

dinastico. Esse ot-

tennero, attraverso il

matrimonio e la ma-

ternità, un ruolo pub-

blico spesso ampia-

mente enfatizzato.

Come la donna citta-

dina greca aveva la

funzione di gene-

rare cittadini liberi, così le donne di casa

reale avevano il compito di assicurare la

successione. Esse furono quindi centrali

nell’ideologia dinastica: il loro ruolo è

celebrato nei monumenti a carattere fa-

miliare, come il Philippeion dedicato da

Filippo II ad Olimpia, che comprendeva

statue della madre e della moglie di Fi-

lippo.

Per queste donne l’oikos, la casa, era la

corte reale, in cui svolgevano compiti di

gestione e amministrazione, ma anche

funzioni religiose; avevano a disposizio-

ne molto denaro, come rivelano le loro

attività evergetiche, le offerte votive, le

dediche celebrative. Molte esercitarono,

o tentarono di eser citare, un r eale

potere; e alcune di loro, come Olimpia-

de, Cinnane, figlia di Filippo e moglie

di Aminta IV, ed Euridice, moglie di Fi-

lippo Arrideo, non disdeg narono di

Stele funeraria(ca. 420 a.C).

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX

PERCORSI DIDATTICI

mettersi alla testa di eserciti. L’importan-

za assunta da alcune figure femminili è

sottolineata dalle ricostruzioni propa-

gandistiche che le r iguardano, dalla

leggenda nera di Euridice e di Olimpiade

alla santificazione di Fila, figlia di An-

tipatro e sor ella di Cassandr o, poi

moglie di Demetrio Poliorcete.

Proprio a partire da Fila è attestato l’uso

del termine ufficiale di basilissa, “regina”:

un titolo che interessa tutte le donne del-

la famiglia, comprese le figlie nubili. Si

tratta, evidentemente, di uno strumento

per valorizzare il r uolo delle donne

della casa reale sul piano individuale e

nell’ambito della dinastia; mentre il

culto dinastico, praticato in Egitto e in

Siria, non è att estato in Macedonia,

dove i sovrani sono considerati uomini

come gli altri. È presente invece anche

in Macedonia l’uso di dare nomi delle

donne della famiglia reale alle fondazio-

ni coloniali: Tessalonica prese il nome

dalla moglie di Cassandro, figlia di Fi-

lippo II, che ebbe un ruolo fondamen-

tale nella legittimazione delle pretese del

marito sul trono macedone.

È difficile valutare il ruolo delle donne di

casa reale nell’evoluzione della condizio-

ne giuridica e culturale delle donne ma-

cedoni, ma la loro immagine pubblica

potrebbe aver influenzato i miglioramenti

che sembrano potersi desumere dalle

fonti, soprattutto epigrafiche. Migliora-

menti che interessarono la condi-

zione delle stesse regine e

principesse, la cui impor-

tanza cresce di pari passo

con l’abbandono progressi-

vo della poligamia.

Un caso significativoÈ quello di Euridice, principessa

di sangue illirico andata sposa nel

392 ca. ad Aminta III di Mace-

donia e madre dei suoi figli

Alessandro (II), Perdicca

(III) e Filippo (II). La

tradizione la pr e-

senta in mod o

duplice. Secondo

alcuni, sarebbe

stata respon-

sabile della

c o n g i u r a

contro il

m a r i t o

Aminta, in

favore del

genero ed amante Tolemeo di Aloro; per-

donata da Aminta, avrebbe organizzato

l’assassinio dei figli Alessandro e Perdicca

e avrebbe poi sposato Tolemeo, divenuto

reggente (Giustino VII, 4-6; scolio ad

Eschine II, 29). Secondo altri, la sovrana

era moglie e madre devota, preoccupata

di tutelare i figli nel suo difficile ruolo

di regina-vedova e perciò assai attiva sul

piano politico (Eschine II, 26-29).

È probabile che abbia ragione Eschine.

L’oratore, nel discorso Sull’ambasceria

del 343, dichiara di aver rievocato in pre-

cedenza, di fronte a Filippo, un episodio

che avrebbe visto la regina madre rivol-

gersi allo stratego ateniese Ificrate, per

essere aiutata, dopo la morte di Alessan-

dro II (368), a garantire ai figli superstiti

la salvezza e la suc cessione. Anche se

l’episodio è fittizio , quanto Eschine

dice attesta che nel 343 i rapporti fra Fi-

lippo e la madre erano ritenuti ottimi

dall’opinione pubblica greca. Che, del

resto, la reputazione di Euridice sia ri-

masta intatta nel tempo anche nel con-

testo macedone lo conferma il fatto che

Filippo dedicò nel 338 una statua della

madre nel Philippeion di Olimpia, insie-

me alla propria e a quelle del padre

Aminta, della moglie Olimpiade e del fi-

glio Alessandro (Pausania V, 20, 9-10).

La tradizione ostile sembr a dunque

inattendibile, ma testimonia come una

regina potesse essere coinvolta in torbide

vicende dinastiche, fino ad essere rite-

nuta responsabile delle peggiori nefan-

dezze verso il marito e i figli. Euridice

era certo sfavorita dal fatto di essere di

origine straniera: Plutarco (De liberis

educandis, 14 b) la definisce “illirica e tre

volte barbara (tribarbaros)”. È probabile

che questa origine barbarica abbia fa-

vorito la nascita della leggenda nera ap-

prodata a Giustino, nata nell’ambito del-

la corte per screditare la regina come

barbara e fedifraga e quindi, indiretta-

mente, la sua prole, a vantaggio di altri

aspiranti al trono: in particolare Arche-Statua di Musa.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 63

PERCORSI DIDATTICI

lao, Arrideo e Menelao, figli di Gigea,

prima moglie di Aminta III, che era ma-

cedone e che apparteneva alla casa ar-

geade (portava il nome della sorella di

Alessandro I Filelleno).

Nello stesso passo in cui la definisce tri-

barbaros, Plutarco aggiunge un ele-

mento interessante per il t ema della

condizione femminile in Macedonia,

anche a livelli sociali elevati. Egli dice

che Euridice si mise a studiar e in età

avanzata, per seguire i figli nello studio,

e dedicò un epigramma alle Muse così

concepito: “Euridice figlia di Sirra, cit-

tadina, consacrò questa offer ta alle

Muse, colto nell’anima il desiderio di sa-

pere. Già madr e di fig li fiorenti, si

sforzò d’imparare le lettere, che serbano

delle parole il ricordo”. Euridice sembra

autorappresentarsi come madre orgo-

gliosa della prole e persona sensibile

all’esigenza di una crescita culturale. La

testimonianza, oltre a gettar luce sulla

personalità di E uridice, mostra che

una regina macedone poteva essere

del tutto analfabeta.

Euridice è dunque una personalità che

esemplifica bene ruolo, funzioni, diffi-

coltà delle donne della casa reale ma-

cedone. Sposata per motivi diplomatici,

ella era divenuta la “first lady” di Ma-

cedonia, preferita da Aminta alla prima

moglie macedone Gigea, e madre del-

l’erede al t rono, nonostante Aminta

avesse avuto da Gigea altri figli. Rimasta

vedova e coinvolta nella crisi dinastica

che seguì alla morte di Aminta, seppe

reagire politicamente e culturalmente,

contrastando con successo la “leggenda

nera” costruita intorno alla sua persona.

Proprio nell’ambito della politica auto-

promozionale svolta da Euridice nel dif-

ficile arco d’anni compreso tra la morte

di Aminta e la stabilizzazione della suc-

cessione di Filippo vanno inserite, con

ogni probabilità, le testimonianze epi-

grafiche che la riguardano. Oltre all’iscri-

zione conservata per tradizione letteraria

da Plutarco, si tratta di tre documenti

epigrafici, tre basi di statua ritrovate a

Vergina: due dediche a Eukleia e una

base di statua con la dicitura “Euridice

figlia di Sirra”. In queste iscrizioni Eu-

ridice si presenta in piena autonomia ri-

spetto agli Argeadi, marito e figli, sot-

tolineando quasi con orgoglio, come “fi-

glia di Sirra”, anche la propria origine

straniera, e definendosi “cittadina”. Tut-

tavia, le dediche ad Eukleia mostrano il

suo inserimento nel culto familiare di

Artemide Eukleia, e sempre al contesto

familiare riporta la sua orgogliosa au-

todefinizione di “madre di figli fiorenti”.

Non sembra quindi infondato cogliere

qui l’espressione di una consapevole e

sistematica reazione alle accuse di bar-

barie, di adulterio, di cospirazione dina-

stica, di omicidio dei due figli maggiori

rivoltele nel corso di una campagna di

denigrazione scatenata a fini evidente-

mente dinastici.

La cronologia delle iscrizioni dedicate

da Euridice è stata molto discussa, ma

una adeguata c ollocazione sembra la

fine degli anni ’50, all’altezza della ten-

tata usurpazione di Archelao e dell’at-

tacco alla figura di Euridice promosso

dai figli di Gigea. Esse fanno probabil-

mente parte di una campagna autopro-

mozionale che intendeva reagire alle ca-

lunnie e accreditare, presso l’opinione

pubblica macedone, l’immagine di Eu-

ridice come donna indipendente e vo-

litiva, capace di forti iniziative politiche

autonome, ma devota alla famiglia e ma-

dre amorevole, impegnata a tutelare i di-

ritti dei figli. E anche, si può aggiungere,

consapevole dell’importanza, per la

propria immagine pubblica, dell’alfabe-

tizzazione e della promozione culturale,

espressamente celebrate in una dedica

alle Muse: un aspett o che potrebbe

aver influenzato l’opinione pubblica

in tema di condizione femminile.

Cinzia Bearzot Università Cattolica del Sacro Cuore,

sede di Milano

BIBLIOGRAFIA

In generale, per un aggiornamento sulle monarchie ellenistiche si rimanda a F. Landucci, L’ellenismo, Bologna 2010; per gli aspetti familiarie dinastici, cfr. in particolare 43-48. Sulle donne nella monarchia macedone E.D. Carney, Women and Monarchy in Macedonia, Norman,Okla. 2000; sempre della C arney, si v eda il più r ecente articolo Macedonian Women, in J. Roisman, I. Worthington (eds.), ACompanion to Ancient Macedonia, Chichester; Malden, MA 2010, 409-427, che tiene conto, per quanto possibile, anche delle donneestranee alla casa reale. Inoltre, I. Savalli-Lestrade, Il ruolo pubblico delle regine ellenistiche, in S. Alessandrì (ed.), Historie. Studi Nenci,Lecce 1994, 415-432.Ulteriore bibliografia, insieme ad una analisi del caso di Euridice, si troverà in C. Bearzot, Donne di potere nel mondo antico: Euridice,moglie di Aminta III di Macedonia, "NS Ricerca" n. 3, novembre 2012 (pubblicato sul sito).

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX64

PERCORSI DIDATTICI

Il tema del funzionamento della de-

mocrazia e delle sue istituzioni è di

stringente attualità, soprattutto per

i casi di degenerazione a cui esso può

esporsi. Si proporrà dunque un breve

percorso didattico che, partendo da

un testo, permetterà di riflettere sulle

modalità attraverso le quali la volontà

popolare poteva essere manipolata

nell’Atene del V secolo a.C. Potranno

servirsi di tale percorso non solo i do-

centi di Greco del triennio superiore del

Liceo classico, ma anche quelli di Storia

del biennio di qualsiasi ordine di scuola

secondaria superiore. Le discipline coin-

volte sono molt eplici: la st oria, per

l’approfondimento nella conoscenza

della realtà ateniese; l’educazione civica,

per la riflessione di carattere politico-

istituzionale e per i problemi relativi alla

manipolazione della volontà popolare;

la letteratura greca, per la conoscenza del

teatro di Aristofane, dal cui testo si par-

tirà per affrontare la tematica in esame.

In primo luogo, è necessario definire

cosa si intenda per manipolazione della

volontà popolare: essa consiste nel ten-

tativo di or ientamento dell’opinione

pubblica tramite il ricorso non solo a

strumenti di persuasione che rasentano

o valicano i limiti della correttezza, ma

anche all’intimidazione, alla corruzione

e a una sottile violazione delle istituzioni,

che peraltro apparentemente continua-

no a funzionare regolarmente.

Con tutta evidenza, si tratta di un tema

cruciale per lo studio del funzionamento

(e del malfunzionamento) di ogni de-

mocrazia, compresa quella ateniese.

In quanto tale, dunque, esso mer ita

particolare attenzione attraverso l’inda-

gine svolta direttamente su episodi spe-

cifici e su passi tratti dalla produzione

teatrale, segnatamente di genere comico,

che costituiscano in qualche modo uno

specchio della realtà quotidiana.

Ci si occuperà qui della parodia di una

seduta del Consiglio dei Cinquecento (la

boulé) inscenata in un passo di una com-

media di Aristofane presentata nel 424,

i Cavalieri. Tale testimonianza, pur non

riferendosi a un episodio storicamente

avvenuto, riveste grande importanza,

perché, per quanto deformata dagli in-

tenti parodistici, fornisce un’idea di

come potesse svolgersi una riunione del-

la boulé e di quali tentativi potessero es-

sere messi in atto per accattivarsi il

favore popolare.

La pagina di Aristofane, inoltre, è incen-

trata sulla figura di Paflagone, sotto la cui

maschera si può facilmente riconoscere

Cleone, il famoso demagogo, bersaglio

del resto privilegiato nella produzione del

commediografo. Nei Cavalieri, Demo

(il popolo di Atene) appare del tutto as-

servito a Paflagone-Cleone; i due schiavi

di Demo (i noti st rateghi Demostene e

Nicia) decidono allora di contrapporre a

costui, secondo le parole di un oracolo,

il Salsicciaio Agoracrito, un altro dema-

gogo ribaldo e disonesto, che avrà l’ap-

poggio del coro dei cavalieri. L’amara con-

clusione della commedia vede l’allonta-

namento dall’agorà di Paflagone-Cleone

e la vittoria del Salsicciaio, il quale ha la

meglio sull’avversario paradossalmente

solo perché è un mascalzone ancor più

spregiudicato di lui.

La parodia di Aristofane di unaseduta del Consiglio di AteneDopo un violento scontro con il Salsic-

ciaio, Paflagone decide di recarsi nella

boulé nella quale si tiene una riunione

che viene dettagliatamente raccontata in

un ampio monologo dal Salsicciaio.

Si darà conto di seguito delle tecniche

impiegate dai due demagoghi per accat-

tivarsi il favore popolare.

Demagogia, corruzione e manipolazione nell’Atene del V secolo a.C.Paolo A. Tuci

LA MANIPOLAZIONE DELLA VOLONTÀ POPOLARE NON È UN MECCANISMO INVENTATO DALLE DEMOCRAZIE MODERNE;ANCHE L’ATENE CLASSICA, CHE FA DEL SUO GOVERNO DEMOCRATICO UN VANTO, LA CONOSCE E LA USA. SU "NS RICERCA" N. 3, NOVEMBRE 2012 (PUBBLICATO SUL SITO), UN SAGGIO SCIENTIFICO INDAGA IL FENOMENO

ATTRAVERSO LA PRODUZIONE TEATRALE, SOPRATTUTTO COMICA, CHE COSTITUISCE IN QUALCHE MODO UNO SPECCHIO

DELLA VITA REALE. QUI UNA SINTESI DEL SAGGIO AD USO DIDATTICO.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 65

PERCORSI DIDATTICI

1) Intimidazione: Paflagone afferma

che i cavalieri hanno ordito una congiura

ai danni della cittadinanza.[v. 624] Sì, vale la pena di ascoltare i fatti.Subito di qui mi lanciai al suo inseguimen-to; e là dentro rimbombavano le sue parolequasi fossero tuoni; e scagliava mostruosemenzogne contro i cavalieri: parole grandicome montagne; ed affermava in manieradel tutto persuasiva che sono dei congiurati.E tutta la boulé, ascoltandolo, fu piena dellesue menzogne – quasi fossero malerba –,impallidì, fece lo sguardo truce, aggrottò lafronte. E quando mi accorsi che la boulédava credito alle sue parole e si lasciava in-gannare dai suoi raggiri: «Suvvia, Scitalie Fenaci, – dissi – Berescheti, Cobali e Mo-toni, ed Agorà, nella quale ragazzino fuieducato, datemi ora audacia, lingua prontae voce impudente». […]

2) Ricorso a comunicazioni gradite al-

l’uditorio: il Salsicciaio tenta di distrarre

i Consiglieri dal timore della congiura

annunciando la vendita a costi contenuti

di un cibo assai popolare come le alici.[v. 641] Ruppi la porta della cancellata emi misi ad urlare a squarciagola: «Membridella boulé, porto buone notizie; voglio an-nunziarle a voi per pr imi: da quando èscoppiata la guerra non ho mai visto aliciad un prezzo più conveniente». E subito iloro volti si rasserenarono: volevano darmiuna corona per la buona notizia. Ed io liconsigliai, in gran segreto, di confiscare i vasiai fabbricanti: così avrebbero potuto com-prare, per un obolo, una grande quantitàdi alici. Quelli scoppiarono in un applauso:mi guardavano a bocca aperta.

3) Ricorso a pr oposte demagogiche:

Paflagone sfrutta la sensibilità religiosa

dei buleuti, invitandoli a compiere un sa-

crificio (che tra l’altro, si ricordi, implica

la distribuzione gratuita delle carni of-

ferte) per ringraziare gli dei del basso co-

sto delle alici.[v. 651] Lui, il Paflagone, si fa furbo; sa qua-li discorsi piacciono moltissimo ai buleuti,e fa questa proposta: “Signori, alla luce deifelici avvenimenti ora annunziati, ritengoche si debbano immolare cento buoi alla deaper questa buona notizia”. La boulé tornòa dargli il suo assenso.

4) Nuovo ricorso a proposte dema-

gogiche: il Salsicciaio rilancia

sul numero degli animali

da sacrificare (aumentan-

do dunque la mole della

carne a disposizione

per la distribuzione

gratuita).[v. 658] E io ,quando miaccorsi di es-sere battuto,sopraffattod a l l a …merda divacca, ri-lanciai ad u e c e n t obuoi, e li consi-gliai di promet-tere in voto allaCacciatrice, per ilgiorno dopo, millecapre, se le sar dinefossero costate ce ntoun obolo. La boulé sivolse di nuovo dalla miaparte. A sentire questeproposte, lui perse le staffe,cominciò a dar di matto: al-lora, i pritani e gli arcieri lotrascinarono via; e i buleuti, inpiedi, facevano chiasso per le alici.

5) Tentativo di ampliare la base del

proprio consenso: Paflagone si guadagna

il favore di c oloro che al demagogo

erano tradizionalmente ostili, cioè i

fautori della pace con Sparta.[v. 667] Lui li pregava di aspettare un mo-mento: «così sapr ete – dice va – qualinotizie porta l’araldo da Sparta: è venutoper la tregua”. E loro tutti insieme ad unavoce: “la tregua, ora? Si capisce, carino: han-no saputo che abbiamo le alici a buon mer-cato. Non abbiamo bisogno della tregua:continui la guerra!». E urlavano ai pritanidi sciogliere la seduta; e, da ogni parte, sal-tavano la cancellata.

6) Ricorso alla corruzione: il Salsicciaio

conquista definitivamente il favore dei

buleuti donando ai suoi concittadini ci-

polle e coriandolo.

[v. 676] Ed io me la svignai e comprai tuttoil coriandolo e le cipolle che c’erano al mer-cato; e poi li ho distribuiti gratis a loro, chene erano sprovvisti: perché condissero le ali-ci. Così sono entrato nelle lor o grazie.Tutti si lasciavano andare a lodi straordi-narie nei miei confronti, a grida di appro-vazione: e così, con un obolo di coriandolo,mi sono conquistato tutta la boulé. Ed ora,eccomi qua [v. 682].

La presentazione dei Consiglieri e dei demagoghiI cinquecento Consiglieri appaiono

come personaggi facilmente manipola-

bili, proni ad accordare il proprio favore

a colui che presentasse le offerte più van-

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX66

PERCORSI DIDATTICI

taggiose e demagogiche. Aristofane do-

veva averne una considerazione piuttosto

bassa; del resto, lo stesso Paflagone in

precedenza aveva esclamato esplicita-

mente che il Popolo (Demo) se ne sta se-

duto nella sala del Consiglio (bouleute-

rion) «con la sua fac cia da ebete» (Eq.

395-396). Pur non dimenticando il con-

testo parodistico in cui il brano è inserito,

è innegabile che il commediografo for-

nisca una presentazione assai desolante

dell’avvedutezza e della dirittura morale

dei Cinquecento. Essi sono considerati

come personaggi: a) di scarsa affidabilità

per la gestione della cosa pubblica, in

quanto interessati più a pr ocacciarsi

facilmente il cibo (le alici, la carne dei sa-

crifici, cipolle e coriandolo come condi-

mento), che ad amministrare con cor-

rettezza gli affari cittadini; b) di infima

levatura morale, pronti a farsi comprare

persino da un «obolo di coriandolo»; c)

di scarsa perspicacia ed int elligenza,

perché non in g rado di accorgersi che

non uno solo, bensì tutti e sei gli inter-

venti dei demagoghi erano volti a raggi-

rarli con ogni forma d’inganno mirante

a guadagnare il loro favore. Se è naturale

che i buleuti, cittadini comuni scelti at-

traverso il sorteggio, fossero particolar-

mente interessati al proprio sostentamen-

to quotidiano, ben più allarmante appare

che essi non siano capaci di rendersi con-

to dei tentativi di manipolazione di cui

erano oggetto: questo giudizio, per quan-

to da attenuarsi perché deliberatamente

deformato dagli intenti comici dell’au-

tore, deve essere opportunamente con-

siderato quando si studino episodi storici

della manipolazione nella boulé del V sec.

Naturalmente, per ottenere un tale effet-

to sugli sprovveduti buleuti doveva ri-

vestire eccezionale importanza non solo

ciò che veniva detto dai demagoghi nei

dibattiti, ma anc he come ciò v eniva

detto. Le fonti in nostro possesso, da Tu-

cidide (III, 36, 6) alla Costituzione degli

Ateniesi di Aristotele (XXVIII, 3), a Plu-

tarco (Nicia VIII, 6) descrivono il Cleone

storico molto vicino al Paflagone aristo-

faneo, anche nello «stile oratorio». Tale

conferma che esse forniscono alla pre-

sentazione aristofanea dello stile oratorio

di Cleone induce a domandarsi se e in

quale misura possa esser e ravvisata

un’analoga corrispondenza tra la parodia

e la realtà storica anche nelle modalità

adottate da Paflagone e da Cleone per

circuire il proprio uditorio. È nota alme-

no una misur a attuata da Cleone c he

può ben adattarsi al quadro del Paflago-

ne autore di proposte demagogiche di-

pinto dal commediografo: Cleone avreb-

be elevato da due a tre oboli l’indennità

giornaliera per i giudici del tribunale, ri-

scuotendo così il favore dei cittadini ate-

niesi, i quali erano, nella loro totalità, i

diretti beneficiari di tale innovazione. Tra

l’altro Cleone fu anche aperto alla cor-

ruzione se, come ricorda Teopompo

(FGrHist 115 F 94b), «prese cinque ta-

lenti dagli isolani per persuadere gli Ate-

niesi ad alleggerire il tributo» che essi pa-

gavano annualmente. Del resto, il dema-

gogo, che fu st ratego nel 424/3, ebbe

molto probabilmente a che fare con la

boulé, della quale peraltro fu forse anche

membro. Non si può dunque escludere

la possibilità, anzi, considerato l’abituale

modus operandi del demagogo, si può

giungere a ipotizzare come probabile che

Cleone abbia usato la sua impudenza, ef-

ficacemente parodiata da Aristofane,

per circuire i buleuti.

Oltre la parodiaLa parodia aristofanea di questa riunione

buleutica fornisce indicazioni importanti

su come poteva esser messo in atto un

tentativo di manipolazione e sugli effetti

che esso doveva provocare. Ma, si badi,

tali notizie non sono solo vuote suggestio-

ni provenienti da qualche isolata rappre-

sentazione parodistica, bensì probabili de-

duzioni che derivano dal confronto tra ciò

che della realtà storica ci è noto (il tipo

di oratoria di Cleone, il suo provvedimen-

to con cui fu innalzato il compenso per

gli eliasti, l’episodio di corruzione in re-

lazione alla tassa degli alleati) e le allusioni

che provengono dalla commedia, con-

fronto che depone tutto a favore dell’af-

fidabilità di questa: del resto, la parodia

di Aristofane colpisce i mezzi della ma-

nipolazione, enfatizzandoli iper bolica-

mente tanto da suscitare il riso, ma non

nega, anzi conferma il ricorso a tali me-

todi nella prassi quotidiana. Da un lato,

Cleone, che «sa quali discorsi piacciono

moltissimo ai buleuti», e forse anche gli

altri demagoghi che usciranno dalla sua

“scuola”, è in grado di adulare i suoi ascol-

tatori con lusinghe e proposte demago-

giche, per circuirli ed ottenerne il favore;

dall’altro, i buleuti non sembrano capaci

di accorgersi di tali forme di raggiro e di

piaggeria, rimanendo così involontaria-

mente manipolati ed ingannati.

Paolo A. TuciUniversità Europea di Roma

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Il presente testo costituisce una sintesicon taglio divulgativo del mio studio in-titolato Tecniche di manipolazione dellavolontà popolare in una seduta buleuticaparodiata da Aristofane (Eq. 624-682),pubblicato sul n. 3 di NS Ricerca, al qualesi rimanda per ogni approfondimentobibliografico.Mi limito a segnalare il più recente inter-vento a me noto sulla figura di Cleonenella commedia: M.G. Fileni, Commediae oratoria politica: Cleone nel teatro di Ari-stofane, in F. Perusino - M. Colantonio, Lacommedia greca e la storia. Atti del semi-nario di studio. Università di Urbino, 18-20maggio 2010, Pisa 2012, pp. 79-128.La traduzione impiegata nel testo è diG. Mastromarco, in Aristofane, Comme-die, I, Torino 1983, pp. 263-267.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 67

PERCORSI DIDATTICILIBERALI E NO

Spirito delle leggi, in cui è compendiata

una visione attenta alla c oncretezza

delle diverse vicende, all’insegna di un

razionalismo nutrito di osser vazioni

empiriche e verifiche sul campo. Come

ha rilevato Judith N. Shklar, «se è assur-

do sostenere che Montesquieu fu sul se-

rio uno scienziato naturale, è vero che

egli apprese dai biologi, e specialmente

dai testi di medicina, ciò che gli era ne-

cessario conoscere per sviluppare una

scienza dell’uomo come essere sociale»1.

Morirà a P arigi nel 1755, lasciando

una vasta opera che includeva anche un

Traité des devoirs (del 1725, purtroppo

andato perduto) e i Pensieri, redatti nel

corso degli anni e in cui sono riconosci-

bili alcuni dei tratti migliori dell’intel-

ligenza di questo studioso.

Tra pluralismo e relativismoLe Lettere persiane sono un testo di dif-

ficile classificazione. Redatto nella forma

di una conversazione epistolare tra due

viaggiatori iraniani, Uzbek e Rica, il

volume rappresenta una sapida critica

dei costumi francesi, specialmente no-

biliari. La scoperta di mondi estranei al

paradigma europeo, che aveva caratte-

rizzato l’esperienza di quanti avevano at-

traversato l’Atlantico per colonizzare le

Americhe, viene qui riproposta attraver-

so le ironie e i sarcasmi di un paio di stra-

nieri che descrivono la Francia settecen-

tesca mettendo in evidenza le innume-

revoli contraddizioni che caratterizzano

quell’universo sociale.

Lo spirito dei Lumi emerge a più riprese:

nelle critiche all’assolutismo, ai dogmi

della Chiesa cattolica, alle tradizioni.

Quella che viene proposta è una razio-

nalità duttile, venata di sc etticismo,

consapevole della necessità delle conven-

zioni e al t empo stesso indisposta a

considerarle come assoluti2.

LIBERALI E NOCarlo Lottieri

Montesquieu e la virtùdelle relazioni civili

NOTO SOPRATTUTTO PER LA TEORIA DELLA DIVISIONE DEI POTERI,MONTESQUIEU È AUTORE CHE SI CARATTERIZZA PER UNA VISIONE

ASSAI RAFFINATA DEL RAPPORTO TRA SOCIETÀ E ISTITUZIONI, TRA CULTURA E COSTUMI, SUPERANDO IL RAZIONALISMO

GIURIDICO E APRENDO A UNA VISIONE PLURALISTA, LIBERALE

E TOLLERANTE DELLE RELAZIONI TRA GLI UOMINI.

Charles Sécondat, barone di Mon-

tesquieu, è stato uno degli inter-

preti più raffinati di quell’Illumi-

nismo francese (e filo-britannico) che

all’inizio del XVIII secolo cercò di rifor-

mulare in senso liberale le istituzioni po-

litiche dell’assolutismo e tentò di realiz-

zare, con gli strumenti della ragione, un

ripensamento generale della cultura del

tempo.

Nato nel 1689 a La Brède, poco distante

da Bordeaux, e indir izzato verso lo

studio del diritto, diventa magistrato nel-

la sua città e figura eminente di una no-

biltà della toga molto solida economica-

mente, in quanto attiva nella coltivazione

della vite e nel commercio del vino. Nel

1721 manda alle stampe in forma ano-

nima le Lettere persiane, che gli conferi-

scono presto una notevole fama inter-

nazionale (tutti riconobbero in lui l’au-

tore di quelle pagine) e che rappresen-

tano una straordinaria testimonianza dei

fermenti dell’epoca.

Il suo lavoro maggiore, ad ogni modo,

vedrà la luce solo nel 1748: si tratta dello

1. J.N. Shklar, Montesquieu (1987), il Mulino, Bologna1990.2. Rappresentativo di un atteggiamento equilibrato difronte alla religione è questo pensiero, che testimoniauna sensibilità non riconducibile all’ateismo libertino:«Cosa vuol dire essere moderati nei propi principi! InFrancia passo per avere poca religiosità, in Inghilterraper averne troppa» (Montesquieu, Pensées diverses, inOeuvres complètes, Firmin Didot, Paris 1854, p. 625).

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L’idea di fondo è che bisogna saper va-

lorizzare quella creatività capace di far

interagire in termini positivi il rigore del

pensiero e la complessità del reale.

Nelle Lettere è cruciale l’affermazione di

una prospettiva relativista. In fondo, i

francesi appaiono strani agli occhi dei

persiani esattamente come i secondi lo

sono agli occhi dei pr imi. L’idea che

quello europeo sia il canone della civiltà

(politica, religiosa, civile ecc.) esce mal-

concio dalle analisi di questo scritto, se-

gnato da un’ironia corrosiva, sebbene ci

sia molto di occidentale (si pensi allo

stoicismo e poi soprattutto al cristiane-

simo) in questa for te affermazione di

una prospettiva universalista. In qualche

modo, la messa in discussione dell’eu-

rocentrismo è la pr emessa per quel-

l’aprirsi all’altro che può portare, lungo

percorsi inaspettati, a riscoprire alcuni

dei tratti più originari della stessa espe-

rienza europea.

L’universalismo si sposa con una forte

idea della naturale socialità degli uomi-

ni: contro ogni filosofia politica piegata

a proteggere le ragioni del potere statale.

Sono così di straordinario interesse le

pagine dedicate alla reinvenzione del

mito dei Trogloditi. Nelle lettere XI-XIV

Montesquieu rovescia il paradigma

hobbesiano nel momento in cui raccon-

ta la vicenda di questo popolo, che se-

condo Erodoto abitava l’Etiopia. A

lungo dominato da insocie volezza e

spirito aggressivo, per la sua incapacità

di riconoscere regole e limiti alla propria

azione, quel popolo africano si era pro-

gressivamente esaurito. La sua rinascita,

quando ormai non sopravvivevano che

pochi esemplari di tale etnia, si dovrà

all’azione di due uomini giusti, i quali

pongono le premesse per una vita civile

basata sulla saggezza, sul rispetto dell’al-

tro, su una certa forma di generosità. La

conclusione del racconto è particolar-

mente interessante, dato che venne il

giorno in cui «i Trogloditi credettero op-

portuno scegliersi un re; stabilirono che

si conferisse la corona a colui che era il

più giusto, e tutti posero gli occhi su un

vecchio venerabile per età e per antica

virtù». Questi però reagì mostrando sof-

ferenza, convinto che una società civile

non potesse essere dominata da un so-

vrano, e che le virtù e le buone relazioni

sociali possano molto di più del potere

e dell’autorità politica.

Nella condizione in cui vi trovate, senza un

capo, dovete essere virtuosi vostro malgra-

do; altrimenti non potreste sopravvivere

e cadreste nella sciagura dei vostri primi

padri. Ma questo giogo vi pare troppo

duro: preferite essere soggetti a un principe

e obbedire alle sue leggi, meno rigide dei

vostri costumi3.

La tesi cruciale è che la giustizia è assai

più il frutto delle virtù liberamente

adottate che delle legg i imposte dal

potere. L’insocievolezza del punto di

partenza hobbesiano non può essere su-

perata da un potere dispotico, ma solo

dallo svilupparsi di buoni c ostumi;

egualmente bisogna attendersi che an-

che questo tipo di società difficilmente

potrà durare a lungo, dato che gli uo-

mini sono spesso desiderosi di avere un

padrone e perdere la libertà.

A ben guardare, in Montesquieu appare

evidente una netta contraddizione tra

questo forte senso della realtà sociale –

che lo por ta a valor izzare il dir itto

quale prodotto spontaneo delle intera-

zioni umane – e, all’opposto, un certo

razionalismo che a più riprese si mani-

festa in taluni scritti.

Basti pensare a quella celebre formula

che vorrebbe il giudice quale bouche

de la loi (bocca della legge),4 nell’illu-

sione di superare ogni arbitrio e sog-

gettività grazie a un pr ocesso di de-

personalizzazione del magistrato che

lo porti ad essere un semplice esecu-

tore di quanto il sistema normativo

racchiude in sé.

Limitare il potere, costituzionalizzare la monarchiaQuando nel dibattito giuridico e politico

contemporaneo ci si riferisce allo studio-

so francese il più delle volte lo si ricorda

per la teoria della divisione dei poteri: per

quella sistematizzazione concettuale

che distingue tra esecutivo (il governo),

legislativo (le camere incaricate di redi-

gere le leggi) e giudiziario (il sistema dei

tribunali che sono incaricati di ammi-

nistrare la giustizia).

Questa sua tesi – che nello Spirito delle

leggi è illustrata in uno spazio molto li-

mitato – non è del tutto originale. In fon-

do, il francese recupera la tripartizione

che già era stato formulata da Locke, so-

stituendo al potere federativo (concer-

nente le relazioni internazionali) il

potere giudiziario. In Montesquieu l’idea

centrale è che debba esservi un sistema

di “pesi e contrappesi” o, in altre parole,

un meccanismo di controllo grazie al

quale ciascuno dei tre rami del sistema

istituzionale sia chiamato a esercitare una

limitazione degli altri due.

Si tratta, insomma, d’immaginare una

tecnologia volta a impedire l’assolutismo

e ad evitare il trionfo indiscusso e poten-

zialmente distruttivo per la vita sociale

di una volontà arbitraria. Quando a metà

del ventesimo secolo Hayek attaccherà

ciò che in Dicey viene definito il «potere

senza legge», è chiaro come lo studioso

austriaco si rifaccia soprattutto a Mon-

tesquieu: e non a caso egli sottolinea che

lo «scopo del movimento contro il po-

tere arbitrario era, fin dall’inizio, stabilire

il governo della legge»5.

Divisione dei poteri e principio di lega-

lità, fin dall’inizio, sono quindi stretta-

Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX68

PERCORSI DIDATTICI

3. Montesquieu, Lettere persiane, XIV. Il passo mostra unaqualche assonanza con quello della Bibbia in cui Dio re-siste, mostrando sofferenza, di fronte alla richiesta degliIsraeliti di avere un re (1 Samuele, 8).4. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, libro XI, cap.5.5. F.A. von Hayek, La società libera (1960), Seam, Formello1996, p. 258.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 69

mente connessi, e certamente nello Spi-

rito delle le ggi abbiamo in embr ione

quell’elaborazione concettuale che poi si

definirà nella teoria dello Stato di diritto

e, ancor meglio, nella teoria dello Stato

costituzionale di diritto6.

Ovviamente è impor tante evidenziare

come vi sia molto di irreale e perfino di

“ideologico” (in senso mar xiano) non

soltanto nell’idea della separ azione dei

poteri, ma ancor più nell’idea di un po-

tere che si autolimita. In merito al primo

punto Locke era stato molto chiaro

quando aveva affermato che una vera se-

parazione tra esecutivo e federativo era

nei fatti impossibile7. La stessa storia in-

glese – ma non diversa è la situazione in

altri contesti – non ha mai visto un ese-

cutivo autenticamente distinto dal legi-

slativo8 (per non parlare delle continue

interferenze tra esecutivo e legislativo, da

un lato, e giudiziario, dall’altro).

In termini più r igorosi va poi pr ecisato

come la scelta di restare all’interno del qua-

dro della sovranità statuale renda impos-

sibile quel plur alismo che il gener oso

progetto dello studioso di Bordeaux avreb-

be voluto salvaguardare. La sovranità è

strutturalmente unitaria – monolitica,

accentrata, verticistica – e non può certo

bastare una tripartizionale funzionale tra

gli organi in cui si articola lo Stato stesso

a creare un autentico ordine di libertà.

Di questo fu forse in parte consapevole lo

stesso Montesquieu, se si considera che

alla fine egli investì non molto sulla di-

visione dei poteri, mentre fu sempre un

deciso difensore delle autonomie locali:

a partire dalle libertà e dai privilegi della

sua Bordeaux, centro tradizionalmente le-

gato ai commerci e, grazie anche alle rotte

marine, alle città inglesi.

Sviluppare i commerci per favorire la paceNella principale opera dello studioso

francese, la riflessione sulla società e sul

rapporto che essa int rattiene con le

istituzioni si orienta in molte direzioni,

esaminando l’influenza del clima, della

religione, dei costumi e via dicendo. Al

centro dell’analisi vi è quell’esprit général

che può essere afferrato grazie a una let-

tura di quei rapporti effettivi, culturali

e socialmente situati grazie a cui una so-

cietà prende realmente forma. Contro

l’astratto razionalismo di tanti suoi

contemporanei, e seguendo un percorso

assai diverso rispetto a quello di Giam-

battista Vico, Montesquieu rigetta la mo-

dellistica del diritto ideale e, assunto l’uo-

mo quale è, cerca di cogliere la società

nel suo farsi effettivo.

È questa c oncretezza che lo por ta a

sviluppare importanti considerazioni sul

rapporto tra pace e commercio che sa-

ranno destinate a influenzare in profon-

dità la storia delle idee. Per Montesquieu

«l’effetto naturale del commercio è por-

tare la pace. Due nazioni che negoziano

tra di loro diventano reciprocamente di-

pendenti, se l’una ha un int eresse nel

comprare e l’altra nel vendere. E tutte le

unioni sono basate sui bisogni recipro-

ci»9. Mentre l’assolutismo spinge verso

politiche mercantiliste e di fatto autar-

chiche, egli auspica una crescente inte-

grazione economica tra le diverse realtà

e crede che tale processo possa allonta-

nare ogni ipotesi di conflitto.

La pace delle nazioni, ad ogni modo, è

solo una conseguenza di quello spirito

cooperativo che cresce con l’estendersi

delle relazioni di mercato. Nella stessa

parabola dei Trogloditi uno dei pr imi

passaggi che porta al disastro sociale sarà

la scelta di produrre unicamente per il

proprio consumo10. La chiusura econo-

mica è una componente cruciale dell’in-

socievolezza e dello spirito militaresco.

Neppure si deve scordare che l’intera ri-

flessione dello studioso francese poggiava

sulla tesi che «dove vi è il commercio, là

i costumi si addolciscono»11, rilevando

che l’intreccio di rapporti e interessi che

si trova al cuor e dell’universo degli

scambi favorisce lo sviluppo di interazio-

ni e accresce la cooperazione.

Uomo che aveva molto viaggiato, deci-

samente anglofilo (era anche vissuto in

Inghilterra), pronto a dialogare e aperto

al confronto con chiunque, Montesquieu

è l’interprete di un Illuminismo non an-

cora totalmente prigioniero del proprio

razionalismo ed è l’espr essione di una

Francia periferica, lontana dalle logiche

di corte e dai fasti parigini.

6. Su tali temi si veda: P. Costa - D. Zolo (a cura di), Lo statodi diritto. Storia, teoria, critica, Feltrinelli, Milano 2006.7. «Sebbene, come ho detto, il potere esecutivo e il po-tere federativo di ogni comunità siano realmente di-stinti in se st essi, tuttavia essi possono difficilment eessere separati, e collocati, nello stesso tempo, nellemani di persone distinte. Infatti entrambi, nel loro eser-cizio, richiedono la forza della società, ed è quasi prati-

camente impossibile collocare la forza della comunitàpolitica in mani distinte e non subordinate l’una all’altra,o collocare il potere esecutivo e quello f ederativo inpersone che possono agir e separatamente, sicchè laforza del pubblico sarebbe collocata sotto comandi di-versi; il che potrebbe condurre un giorno o l’altro a cau-sare disordine e rovina» (J. Locke, Secondo trattato delgoverno civile, § 148).

8. Basti pensare, oggi, alla pratica dei decreti legge.9. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, libro XX, cap.2.10. «Lavorerò il mio campo solo per chè mi rifornisca ilgrano necessario a nutrirmi; una quantità maggiore misarebbe inutile; non mi affaticherò certo invano» (Letterepersiane, XI). Un passo che dimostr a la volontà di rinun-ciare, al tempo stesso, alla generosità e allo scambio.11. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, libro XX, cap.1.

Montesquieu, Lettres persanes -frontespizio della prima edizione (1721).

LIBERALI E NO

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX70

PERCORSI DIDATTICI

Rousseau e la coercizionesentimentale

NEL CONTRATTO SOCIALE JEAN-JACQUES ROUSSEAU RIGETTA LA CIVILTÀ, LA TEORIA LIBERALE QUALE LIMITAZIONE DEL POTERE, L’ECONOMIA DI MERCATO.ALL’INDIVIDUALISMO EGLI CONTRAPPONE UNA RELIGIONE CIVILE

CHE SAPPIA ESSERE IL COLLANTE DI UNA COMUNITÀ DEMOCRATICA

CHE ASSORBE IN SÉ OGNI COSA E COSTRUISCE L’UOMO NUOVO.

Difficilmente si potrebbe soprav-

valutare il ruolo storico di Jean-

Jacques Rousseau, che non sol-

tanto ha influenzato in profondità larga

parte del pensiero politico successivo – da

Kant a Marx – ma che pure ha imposto

un nuovo modo di concepire la società e

le istituzioni.

Romanziere e musicista oltre che filosofo

e pedagogista, Rousseau nasce il 28 giugno

1712 a Ginevra, dove ha un’infanzia piut-

tosto triste. La madre decede pochi giorni

dopo averlo messo al mondo e lo stesso pa-

dre, che muore quando Jean-Jacques ha

solo dieci anni, manifesterà nei suoi riguar-

di un’attenzione molto limitata. Dopo es-

sere stato valletto, segretario e insegnante

di musica12, nel 1755 dà inizio a una car-

riera intellettuale di straordinario successo,

vincendo il concorso indetto dall’accade-

mia di Digione con il Discorso sulle scienze

e sulle arti. Da quel momento entra in con-

tatto con i migliori ingegni del tempo: da

d’Alembert a David Hume.

A quello scritto fanno seguito il Discorso

sull’origine e sui fondamenti della disegua-

glianza tra gli uomini (1754), il Contratto

sociale e Emilio (entrambi del 1762), le

Confessioni, che inizia a scrivere nel 1764

e che usciranno (postume, in due tomi)

solo nel 1782 e nel 1789. Nel 1761 pub-

blica anche un romanzo, La nuova Eloisa,

che conosce un notevole successo.

Come ha scritto Romain Rolland, nella

Francia della seconda metà del diciotte-

simo secolo Rousseau «è l’annunciatore

della Repubblica. A lui si appella la Rivo-

luzione francese. La sua apot eosi ebbe

luogo durante l’apogeo della Convenzio-

ne. E fu Robespierre a decretare il trasfe-

rimento delle sue ceneri al Pantheon»13.

Dopo una serie di difficoltà – causate dal

radicalismo delle sue tesi – che lo portano

a lasciare la Francia e a prendere rifugio

pure in Svizzera, nel 1778 si r itira nella

campagna parigina, a Er menonville,

dove muore il 2 luglio.

Stato di natura e società civile Nel Discorso del 1750 che per la pr ima

volta lo impone all’attenzione generale,

Rousseau annuncia alcune tesi importan-

ti, che in qualche modo era già presenti

in qualche scritto precedente: a partire

dall’opposizione tra la felicità innocente

dello stato di natura e la civiltà moderna,

dominata da egoismo, insincerità, ano-

mia. La ci vilizzazione non ha quindi

aiutato l’uomo, dato che il cosiddetto pro-

gresso è – nella sua essenza – un fattore

di estraniazione dell’uomo dalla sua

vera natura.

Questi argomenti saranno ripresi e svilup-

pati nel secondo Discorso, del 1754, in cui

s’afferma che la causa cruciale del decadi-

mento è da riconoscere nella nascita della

proprietà privata. L’integrazione economica

che discende dalla divisione del lavoro fa

venir meno la natur ale socialità deg li

ordini comunitari primitivi. Per Rousseau

nella condizione originaria che precede la

proprietà, lo scambio e la divisione del la-

voro, la dispar ità delle condizioni «è

appena sensibile e la sua influenza è quasi

nulla»14. Solo in società gli uomini iniziano

a differire in profondità.

Il peccato originario “laico” che caratte-

rizza la cultura collettivista moderna

inaugurata dal Ginevrino consiste dun-

que nel dare vita a relazioni di mercato.

Ai suoi occhi, la proprietà è una creazione

artificiosa e illegittima, che muta l’animo

stesso dell’uomo. Mentre Montesquieu ri-

teneva che la società degli scambi favo-

risse una disponibilità a interagire con il

prossimo, a giudizio di Rousseau con l’av-

vento degli scambi gli uomini divennero

«avari, ambiziosi e cattivi»15. Lo stesso di-

ritto nasce solo a protezione dei possiden-

ti, allo scopo di congelare un ordine di di-

LIBERALI E NO

12. Maurras utilizzerà anche il fatto che Rousseau siastato costretto a fare molti mestieri per attaccarlo c onferocia: «Capace di tutti i mestieri, compresi i più disgu-stosi, di volta in volta lacchè e favorito, maestro di mu-

sica, parassita, mantenuto, si è istruito praticamente dasolo» (Ch. Maurras, Romantisme et révolution, NouvelleLibrairire nationale, Paris 1922).13. R. Rolland, Rousseau, Mondadori, Milano 1950, p. 7.

14. J.J. Rousseau, Discorso sull’origine e sui fondamentidella diseguaglianza tra gli uomini, parte I.15. Ibi, parte II.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 71

PERCORSI DIDATTICI

seguaglianza e negare la libertà naturale.

Alcune delle tesi fondamentali del socia-

lismo ottocentesco, a partire dalla con-

danna dell’occupazione originaria della

terra, sono già chiaramente formulate in

questo scritto:

Il primo che, avendo recintato un terreno,

ebbe l’idea di dire “questo è mio”, e trovò

persone abbastanza semplici per crederlo,

fu il v ero fondatore della società ci vile.

Quanti delitti, guerre, assassinii, quante

miserie e quanti orrori non avrebbe rispar-

miato al genere umano chi, strappando i

pioli e colmando il fossato, avesse gridato ai

suoi simili: “Guardatevi dall’ascoltare tale

impostore: siete perduti se dimenticate che

i frutti sono di tutti e che la terra non è di

nessuno.

Nella sua difesa delle comunità organiche

del passato e nel suo rigetto dell’individuo

indipendente, Rousseau inaugura logiche

collettiviste destinate – dopo di lui – a fare

molto strada.

Egli vede nello sviluppo della civiltà e dei

commerci una minaccia per le comunità

semplici e oneste. Nelle due lettere sulla

Svizzera che scrive nel 1763 quando è a

Neuchâtel – dove si è rifugiato per sfug-

gire alle persecuzioni suc cessive alla

pubblicazione dell’Émile – la tesi cruciale

è che le popolazione dei cantoni stanno

perdendo virtù e innocenza perché «han-

no cominciato a comunicare con le altre

nazioni, hanno pr eso il gust o a quel

modo di vivere e hanno voluto imitarlo;

si sono persuasi c he il denaro era una

buona cosa e hanno voluto averne»16.

È l’imporsi del mercato e delle libertà che

esso veicola a minare la felicità di quei

montanari. Come sottolinea Frédéric S. Ei-

geldinger, gli svizzeri «che Rousseau ha co-

nosciuto durante la sua g iovinezza non

sono più oggi questo popolo felice che vive

in autarchia: l’introduzione delle industrie

da parte dei rifugiati ugonotti ha creato la

divisione del lavoro»17.

Ad ogni modo, egli non avversa soltanto

la proprietà e il mercato, ma anche l’as-

solutismo monarchico difeso dai teorici

dell’origine divina del potere e, soprat-

tutto, da un autore come Hobbes. La sua

impresa dovrà quindi consistere nel di-

fendere in termini del tutto nuovi la so-

vranità, portandosi in terreni mai prima

esplorati.

La volontà generale e la “nuova democrazia”Per molti aspetti, Rousseau può essere con-

siderato all’origine del socialismo come

della democrazia e in quest o senso il

testo fondamentale è il Contratto sociale.

In quest’opera il Ginevrino non si pro-

pone affatto di riportare l’uomo ai tempi

del “buon selvaggio”, ma recupera un’idea

molto classica della politica – quella che

Constant battezzerà la libertà degli antichi

– per dare vita a istituzioni democratiche

destinate a porre al centro il cittadino18.

In questo senso, l’uomo della democrazia

prefigurata da Rousseau è davvero l’an-

titesi del borghese moderno, che si realizza

essenzialmente nelle pr oprie relazioni

familiari, sociali e lavorative.

L’obiettivo della nuova comunità politica

progettata dal Contratto sociale consiste

dunque nel restaurare un’umanità per-

duta a causa della civiltà e del progresso,

aiutando gli uomini a recuperare quella

condizione originaria che smarrirono

quando la proprietà privata venne a se-

parare i destini dei singoli e quand o la

logica dell’interesse privato si fece strada

all’interno delle r elazioni umane. At-

traverso il contratto sociale e l’ordine de-

mocratico che ne deriva, l’uomo ricon-

quista valori che aveva perduto:

ciò che l’uomo perde con il contratto sociale

è la sua libertà naturale e un diritto illimitato

a ciò che lo tenta e che egli può raggiungere;

ciò che guadagna è la libertà civile e la pro-

prietà di tutto ciò che possiede19.

La nozione cruciale, che permette a

Rousseau di garantire ordine e libertà (so-

vranità e autogoverno), è quella della vo-

lontà generale. In una società democratica

il destino non è stabilito da un re o da un

gruppo di governanti, e neppure da quel-

l’assommarsi delle singole volontà private

ed egoistiche che possono esprimersi nel

gioco elettorale dei sistemi rappresentativi.

Nella dinamica della democrazia emerge

infatti una volontà che trascende gli indi-

vidui e c he, per R ousseau, «è sempr e

retta» e di conseguenza infallibile.

Obbedire alla so vranità democratica

non comporta alcuna perdita di autono-

mia e per questo non ha senso pensare a

una limitazione del potere20.

Anche nella circostanza in cui si trovi a

“subire” una decisione che non si vorreb-

be, il contrasto è tra una volontà singola

fittizia (distorta) e quell’autentica volontà

che si esprime, appunto, nella volonté gé-

nérale21.

Se le cose stanno così, non c’è alcuna ra-

gione di delimitare l’area della sovranità

o della legislazione, dato che «la libertà

è obbedienza alla legge c he ci siamo

prescritta»22.

In un regime politico basato sul popolo

«ciascuno, dandosi a tutti, non si dà a nes-

suno» e quindi l’area d’intervento del po-

tere può crescere a dismisura senza che

LIBERALI E NO

16. J.J. Rousseau, Lettres sur la Suisse (1763), a cura di F.S.Eigldinger, Slatkine, Paris 1997, p. 31.17. F.S. Eigldinger “Introduction” a J.J. Rousseau, Lettressur la Suisse, cit., p. 11.18. Nelle Confessioni egli afferma di avere imparato aleggere grazie alle Vite degli uomini illustri di Plutarco,che l’avrebbero iniziato alla grandezza della religione

civile degli Antichi.19. J.J. Rousseau, Contratto sociale, I, § 8.20. D’altra parte mentre Montesquieu è anglofilo, Rous-seau avversa l’ordine costituzionale britannico: «Il po-polo inglese pensa di essere libero, si sbaglia fortemente,lo è solo durante l’elezione dei membri del Parlamento:non appena sono eletti, esso è schiavo, non è niente. Nei

bei momenti di libertà, l’uso che ne fa gli fa meritare diperderla!» (Ibi, III, § 15).21. La sua tesi è che quando «l’opinione c ontraria allamia prevale, ciò non prova altro se non che mi ero sba-gliato, e che quello che reputavo essere la volontà ge-nerale non lo era» (Ibi, IV, § 2).22. Ibi, I, § 8.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX72

PERCORSI DIDATTICI

alcuno possa sentirsi meno liber o23.

Non è un caso, in questo senso, che i gia-

cobini abbiamo trovato proprio in Rous-

seau la propria principale fonte d’ispira-

zione.

A giudizio di Galvano Della Volpe, lo stes-

so debito del marxismo-leninismo nei ri-

guardi del Ginevrino è rilevante, dato che

gli argomenti di Rousseau in favore del-

l’uguaglianza «sono da annoverare tra le

essenziali premesse storiche e ideali del

concetto-modello dell’abolizione delle

classi in una società di liberi»24.

Non solo. Per la sua enfasi sulla comunità

egli ha in larga misura posto le basi del

Romanticismo politico e dei suoi esiti na-

zionalisti. Affermando il primato dell’or-

ganismo sociale nei riguardi dei singoli

individui, egli è poi un autore di riferi-

mento della tradizione comunitarista e

di quella repubblicana, per non parlare

del debito che una certa parte del pensie-

ro ecologista ha verso uno studioso che,

scandalizzando enciclopedisti e illumini-

sti, ha anteposto l’idillio del buon selvag-

gio all’artificiosa e gretta esistenza dell’uo-

mo moderno che si vuole civile.

Gli educatori della cittadinanzaCome è facile avvertire, la volontà generale

è una nozione che può essere afferrata solo

all’interno di un quadr o metafisico e,

verrebbe da dire, grazie alla guida della

fede. La stessa nozione di religione civile,

va detto, fu formulata proprio da Rous-

seau, il quale era persuaso che fosse neces-

sario mettersi sulle tracce dei Greci e dei

Romani, ridando una connotazione sacra-

le alle istituzioni politiche.

In Rousseau, l’importanza della pedagogia

ai fini della costruzione della filosofia po-

litica non può allora essere sottostimata.

Se la democrazia ha il compito di salvare

l’umanità dall’egoismo e dalla civiltà mo-

derna, quello che si prospetta è un compito

di ridefinizione della società che sia capace

di sottrarla alla pr opria imperfezione.

Per il Ginevrino, la nuova sovranità deve

proporsi di dar vita a un uomo nuovo, sen-

za porre limiti al proprio agire.

Colui che osa intraprendere l’istituzione di

un popolo deve sentirsi in grado di cambiare,

per così dire, la natura umana, di trasformare

ogni individuo che, per se stesso, è un tutto

perfetto e solitario, in una parte di un tutto

più grande, da cui questo individuo riceva

in qualche modo la sua vita e il suo essere25.

È sulla base di queste tesi che i rivoluzio-

nari francesi costruiranno la Repubblica

del Terrore e del la Dea Rag ione, ma

quella lezione seguiterà a essere molto in-

fluente anche in seguito. Nella Francia del-

la Terza Repubblica, le riforme del sistema

educativo introdotte da Jules Ferry sono

molto debitrici della lezione del Contratto

sociale e dell’Emilio, e non è certo sorpren-

dete che una tale impostazione abbia ge-

nerato un duro contrasto tra lo Stato fran-

cese e la Chiesa cattolica.

Come ha scritto Mona Ozouf, la scuola

di Stato costruita attorno al civismo dei

valori laici «insegna la Repubblica come

una forma che non si può mettere in di-

scussione, e quasi naturale, del politico.

(…) Il suo obiettivo e la sua vera funzione

sono quelli d’impregnare di valori repub-

blicani la coscienza del bambino»26.

In tutto ciò è proprio evidente l’eco delle

tesi di R ousseau, che arrivò a scr ivere:

«Aprendo gli occhi, un bambino deve ve-

dere la patria e fino alla morte non deve ve-

dere altro che lei. Ogni vero repubblicano

succhiò con il latte della madre l’amore del-

la patria, cioè delle leggi e della libertà. Il

suo essere è tutto in questo amore»27.

In un recente volume Kenneth Minogue

ha giustamente attribuito a Rousseau la

paternità del sentimentalismo, ricordando

– non senza una qualche ironia – come nel

ginevrino fosse for te la propensione «a

scoppiare in lacrime di fronte ai mali del

mondo»28. Ma vivere in termini emozio-

nali di fronte a categorie astratte conduce

a sacrificare la realtà concreta e questo, nei

fatti, apre agli esiti più nefasti.

In tal senso se Jean-Jacques Chevallier ha

parlato di assolutismo in rapporto alla vo-

lontà generale e ha evidenziato il forte le-

game con i fondat ori della so vranità,

Jacob L. Talom a sua volta ha evidenziato

come quel pensiero si diriga verso prospet-

tive tanto antiliberali da giustificare gli esiti

più inquietanti29. Non si può certo impu-

tare a un intellettuale morto dieci anni pri-

ma della Rivoluzione francese la ferocia del-

la ghigliottina o (addirittura) l’orrore dei

campi di sterminio del ventesimo secolo,

ma è pur vero che la progressiva erosione

dei principi liberali e il lungo processo di

discredito che essi conosceranno presso gli

intellettuali europei non sarebbe neppure

pensabile senza il fondamentale contributo

dell’autore del Contrat social.

Carlo Lottieri

Università di Siena

LIBERALI E NO

23. Ibi, I, § 6. D’altra parte, l’atto di associazione politica«produce un corpo morale e collettivo composto datanti membri quant e sono le v oci dell’assemblea, ilquale riceve da tale atto la sua unità, il suo io comune,la sua vita e la sua volontà» (Ibidem).24. G. della Volpe, Rousseau e Marx (1957), con la prefa-zione di Nicolao Merker, Riuniti, Roma 1997, p. 122.25. J.J. Rousseau, Contratto sociale, II, § 7.26. M. Ozouf, L’Ecole, l’Eglise et la République, Cana, Paris,p. 12. Un’eco delle tesi di Rousseau è evidente in Dur-kheim, secondo cui se lo Stato non operasse una strettavigilanza sull’azione pedagogica «la grande anima della

patria si dividerebbe e si comporterebbe in una molti-tudine incoerente di piccole anime frammentarie inconflitto tra loro» (É. Durkheim, Éducation et sociologie,Puf, Paris 1989, p. 59).27. J.J. Rousseau, Considérations sur le gouvernement dePologne (1770-71) in Œuvres complètes, tomo terzo, Gal-limard, Paris 1964, p. 966. Una traccia di questa enfasisui sentimenti si ritrova anche nelle teorie di Rousseauin materia musicale, che in opposizione a Jean-PhilippeRameau esalta il carattere “naturale” della melodia ac-compagnata e anticipa lo stile neoclassic o, abbando-nando la complessità dello stile bar occo. Sul tema si

veda ad esempio: Y. Nairo, “L’unité de mélodie de Jean-Jacques Russeau”, The Bullettin of Kansai University So-ciety for the Study of French Language and Literature, 38(2012), pp. 117-141.28. K. Minogue, The Servile Mind. How Democracy Erodesthe Moral Life, Eincounter Books, New York 2010, p. 96.29. J.L. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria(1952), il Mulino, Bologna 1967. Per una pr ospettivaassai avversa alle tesi di Talmon, si veda: L. Dulmont, Es-sais sur l’individualisme. Une perspective anthropologiquesur l’idéologie moderne, Seuil, Paris 1983.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX74

PERCORSI DIDATTICI

Alla scoperta dei Poliedri (I parte)Carmelo Di Stefano

LA GEOMETRIA DELLO SPAZIO VIENE AFFRONTATA RARAMENTE NEI CURRICOLA DELLA SCUOLA SECONDARIA

SUPERIORE. IN QUESTO LAVORO, USANDO IL SOFTWARE CABRI 3D®, PROPORREMO VARIE

ATTIVITÀ DIDATTICHE DI RICERCA CHE CI PERMETTANO DI SCOPRIRE I POLIEDRI. IN QUESTA PRIMA PARTE PARLEREMO DEI POLIEDRI IN GENERALE E DELLA COSIDDETTA FORMULA DI EULERO.

Iquesiti relativi ad argomenti di geo-

metria dello spazio si rivelano i meno

risolti e addirittura i meno tentati nei

test di ammissione alle U niversità, nei

quesiti di gare matematiche e in generale

in attività di diverso accertamento (In-

valsi, OCSE-PISA, …). Ciò è dovuto cer-

tamente alla loro intrinseca difficoltà,

poiché se è vero che viviamo in uno spa-

zio almeno tridimensionale è altrettanto

vero che la nostra immaginazione spa-

ziale è soprattutto bidimensionale. Non

è un caso che si è dovuto aspettare fino

al Rinascimento perché la prospettiva

potesse fornire un modo di rappresen-

tare lo spazio 3D su un supporto 2D. An-

cora oggi, in una società a t ecnologia

«fortemente invasiva» i tradizionali sup-

porti 2D di scrittura (quaderni, lavagne,

…) sono stati sostituiti con supporti più

evoluti ma ancora 2D (monitor, lavagne

multimediali, …).

Non vogliamo entrare in questioni psi-

cologiche o sociologiche che esulano dal-

le nostre competenze, ci limitiamo a os-

servare che la geometria tridimensionale

è difficile. Aggiungiamo che non voglia-

mo parteggiare per alcuna delle due pos-

sibili opzioni: la geometria tridimensio-

nale è difficile perché non è adeguata-

mente trattata nei diversi curricoli sco-

lastici o non è trattata perché è difficile?

Premettiamo che l’interesse primario

dell’articolo non è quello di una tratta-

zione rigorosa, tipica dei libri di testo, che

possa essere seguita da uno sparuto nu-

mero di studenti di alcuni li velli di

studio (licei Scientifici per intenderci),

quanto piuttosto quello di proporre al-

cuni suggerimenti che possano coinvol-

gere la maggioranza degli studenti di una

classe di un qualsiasi indirizzo, che tratti

o meno la cosiddetta «matematica forte».

Sarà perciò privilegiato un approccio in-

tuitivo e di scoperta e le costruzioni pro-

poste non saranno eccessivamente labo-

riose. Ciò significa che le «definizioni»

proposte avranno l’obiettivo di far com-

prendere di cosa stiamo parlando, non

certo quello di presentare gli oggetti con

il massimo rigore matematico. Il che vuol

dire che esse possono essere sicuramente

occasione di contestazione da parte del

lettore che predilige il rigore matematico.

Le attività presentate in questo lavoro,

nello stesso spirito di un precedente la-

voro sui tetraedri1, sono da effettuarsi

con l’ausilio di un ben noto software di

geometria dinamica: Cabri 3D®.

Tutte le costruzioni proposte negli arti-

coli possono scar icarsi come files Ca-

bri3d dal sito http://matdidattica.alter-

vista.org/Cabri3D.htm

Definizione di poliedroLa prima questione che deve risolversi è

cosa si intenda per poliedro. Procederemo

per analogia, partendo quindi dal corri-

spondente argomento di poligono affron-

tato nella più nota geometria bidimen-

sionale. Il poli gono rappresenta una

parte di piano delimitata da seg menti a

due a due consecutivi ma non adiacenti.

Il numero minimo di segmenti è tre e il

poligono così determinato viene detto

triangolo. Il poliedro sarà quindi una parte

di spazio delimitata da poligoni a due a

due con un lat o in c omune ma non

complanari. Tre poligoni non sono suf-

ficienti a racchiudere una parte di spazio,

ma ne necessitano quattro, tutti triangoli,

ottenendo così il poliedro formato dal nu-

mero minimo di poligoni, cioè il tetraedro,

di cui forniamo un esempio (ovviamente

costruito con Cabri 3D) in Figura 1.

1. Di Stefano C., Dal triangolo al tetraedro, «Nuova Se-condaria» numeri di Aprile, Maggio, Giugno 2010 e Gen-naio 2011. Figura 1

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 75

In ogni caso nei poliedri possiamo di-

stinguere i poligoni che li hanno deter-

minati, che chiamiamo facce, poi i lati

delle facce, che chiamiamo spigoli, e in-

fine i vertici delle facce, che chiamiamo

appunto vertici. Come per i poligoni an-

che per i poliedri possiamo distinguere

quelli convessi dai concavi. Un poliedro

è convesso se il piano che contiene una

faccia lascia tutte le altre facce nello stesso

semispazio. Per esempio il poliedro di Fi-

gura 2 non è convesso, perché il piano

che contiene il triangolo ABC «attraver-

sa» il poliedro.

Cominciamo ad osservare alcuni fatti,

validi per ogni poliedro convesso.

1. Ogni vertice è incontro di non meno

di tre facce e di non meno di tre spi-

goli.

2. In ogni vertice si possono incontrare

poligoni tali che la somma degli angoli

interni che hanno quel tale vertice in

comune sia inferiore a 360°.

Il tetraedro ci suggerisce un modo per

ottenere facilmente poliedri convessi

che, in linea teorica, hanno un numero

di facce a piacere. Basta tracciare un po-

ligono convesso di n lati sul piano ed

unire i suoi n vertici con un punto a pia-

cere esterno al detto piano. La figura ot-

tenuta si chiama piramide.

In effetti v i è anc he un alt ro modo

ugualmente semplice, sempre a partire

da un poligono convesso tracciato su un

piano, basta condurre da uno dei vertici

una retta a piacere che incontra un

piano parallelo al dato. Quindi tracciamo

le parallele a tali rette per gli altri vertici,

determinando così sull’altro piano un

poligono congruente al dato. Il poliedro

convesso che ha per vertici quelli di que-

sti due poligoni si chiama prisma.

Nei successivi paragrafi chiariremo altre

questioni.

La formula di EuleroConsiderando una generica piramide co-

struita su un poligono di n vertici, osser-

viamo che essa ha n+1 vertici (quelli del-

la base e quello est erno che a questi si

unisce), n+1 facce (la base e gli n trian-

goli ottenuti unendo il ver-

tice esterno con i v ertici

della base) e 2n spigoli (gli

n della base e g li n che

uniscono i detti vertici con

il vertice esterno). Osser-

viamo che

(n + 1) + (n + 1) – 2n = 2

Allo stesso modo osser -

viamo che per un generico

prisma costruito su due

poligoni di n vertici ciascuno, ha 2n ver-

tici (quelli delle basi), n + 2 facce (le due

basi e gli n parallelogrammi ottenuti

unendo i vertici corrispondenti dei po-

ligoni di base congruenti) e 3n spigoli (n

per ogni base e n che uniscono i vertici

corrispondenti). Stavolta avremo:

2n + (n + 2) – 3n = 2

La verifica effettuata su altri poliedri ci

suggerisce di ipotizzare, per ogni polie-

dro convesso, la validità della seguente

relazione:

V + F – S = 2.

Essa è nota come formula di Eulero, ed

è effettivamente vera per tutti i poliedri

convessi. La sua dimostrazione più nota

è dovuta a Cauchy, ma mette in gioco ar-

gomenti non svolti nei tradizionali corsi

di matematica delle secondarie superiori,

quindi preferiamo non presentarla.

Figura 2 Figura 3

Figura 4

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX76

PERCORSI DIDATTICI

Vogliamo vedere invece se essa valga an-

che per poliedri non convessi. Prima ri-

solviamo la questione della costruzione

di tali poliedri.

Pensiamo che l’unione non disgiunta di

due poliedri convessi conduca in gene-

rale a un poliedro non convesso. Con il

precedente termine intendiamo il fatto

che i due poliedri convessi abbiano al-

meno un punto in comune.

Per comodità di linguaggio nel seguito

chiameremo caratteristica di Eulero di un

poliedro la quantità V + F – S, i poliedri

euleriani hanno caratteristica di Eulero

uguale a 2; ogni altro poliedro ha ovvia-

mente caratteristica intera.

Poiché vogliamo stabilire se queste

nuove figure verificano la formula di Eu-

lero, ci int eressa risolvere la seguent e

questione: possiamo unire due poliedri

in modo che la caratteristica del poliedro

unione sia somma delle due caratteristi-

che dei poliedri unione? La risposta è po-

sitiva nel caso proposto dalla Figura 5,

in cui due tetraedri hanno in comune un

punto che è vertice di uno solo dei due.

La caratteristica di E ulero di quest o

poliedro è perciò

2 × 4 + 2 × 4 – 2 × 6 = 4.

Quindi abbiamo già un esempio di po-

liedro non convesso e non euleriano.

Vediamo altri esempi usando quel par-

ticolare prisma le cui facce sono tutti ret-

tangoli e che chiamiamo parallelepipedo

rettangolo. Adesso uniamo due paralle-

lepipedi in modo che non vi siano so-

vrapposizioni né di spigoli, né di vertici,

ma con una faccia di uno che è sovrap-

posta a par te di una fac cia dell’altro,

come mostrato in Figura 6.

Quanto vale la caratteristica di Eulero in

questo caso? I vertici e gli spigoli vengo-

no semplicemente a sommarsi, mentre

si viene a perdere una delle facce, quella

che «produce» la faccia non convessa del

poliedro unione. Ciò significa che la

quantità V + F – S verrà ad aumentare

di un’unità. Infatti nel nostro caso avre-

mo

(8 + 8) + (6 + 5) – (12 + 12) = 3

Pertanto abbiamo trovato un esempio di

poliedro non convesso per cui si ha

V + F – S = 3.

Se ripetiamo la precedente costruzione

con più parallelepipedi rettangoli, riu-

sciamo a ottenere qualsiasi numero in-

tero maggiore di 2. Per esempio il polie-

dro di Figura 7 ha caratteristica

4 (3 × 8 + 6 + 2 × 5 – 3 × 12).

Figura 5 Figura 6

Figura 7 Figura 8

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 77

PERCORSI DIDATTICI

Un altro modo di c ostruire poliedri

non convessi consiste nel far coincidere

solo un vertice, come mostrato nella Fi-

gura 8.

Nasce una prima interessante questione.

AC deve considerarsi un unico spigolo

o l’unione dei due spigoli AB e BC? Que-

sto è importante per calcolare la carat-

teristica di Eulero del poliedro.

Abbiamo detto che uno spigolo è un lato

di una faccia, dato che AB e BC appar-

tengono a facce diverse, possiamo con-

siderarli distinti, quindi in questo caso

nell’unione veniamo a perdere un ver-

tice, dato che B è comune a entrambi i

poliedri unione.

Quindi diminuiamo di 1 unità solamen-

te il numero dei vertici, e perciò avremo

ancora un poliedro di caratteristica 3

Figura 10A Figura 10B

Figura 11A Figura 11B Figura 11C

(2 × 8 – 1 + 2 × 6 – 2 × 12).

Possiamo invece fare coincidere un solo

spigolo, come mostrato in Figura 9.

Anche in questo caso AB e BC, così come

DE ed EF sono da considerarsi spigoli di-

stinti. Quindi in totale abbiamo perso 2

vertici (quelli che coincidono in B ed E)

e uno spigolo (BE). Ancora una volta la

caratteristica è perciò

3: (2 × 8 – 2 + 2 × 6 – (2 × 12 – 1)).

Consideriamo adesso il caso in cui uno

spigolo è sovrapposto ad un altro, senza

però che vi sia coincidenza fra gli spigoli,

con due possibilità come mostrato nelle

due Figure 10A e 10B. Con un vertice in

comune o senza vertici in comune.

Ancora una volta abbiamo qualche pro-

blema con gli spigoli. Stavolta BC è o no

uno spigolo? In entrambi i casi possiamo

considerarlo lato di una fac cia? No, è

parte della faccia superiore nella Figura

10A, quindi nel primo poliedro dobbia-

mo considerare lo spigolo AB, ma anche

lo spigolo AC come lato della faccia del

poliedro a destra; nel poliedro di Figura

10B invece avremo lo spigolo AB e lo

spigolo CD. In ogni caso nell’unione

non abbiamo «perdita» di spigoli, ma

solo di un vertice nel primo poliedro e

addirittura di niente nel secondo. Per-

tanto il primo poliedro ha caratteristica

3 e il secondo è invece euleriano. Possia-

mo poi considerare le varianti dei casi

precedenti con una faccia sovrapposta,

come mostrato nelle figure 11. Abbiamo

evidenziato alcune fac ce che devono

considerarsi nel computo. Pertanto in

Figura 11A, AB e BD non sono da con-

Figura 9

Figura 12A Figura 12B Figura 12C

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX78

PERCORSI DIDATTICI

siderarsi spigoli, perché non sono lati di

alcuna faccia, mentre GA, AC, CD e DF

sono spigoli. Lo stesso accade per il po-

liedro di Figura 11B, con AC e BD che

non sono spigoli e per il poliedro di Fi-

gura 11C, in cui AB non è spigolo.

Riproduciamo le figure precedenti can-

cellando appunto questi «non spigoli».

In conclusione in Figura 12A, perdiamo

il vertice B, 3 delle 6 facce del parallele-

pipedo più piccolo e 2 spigoli (AB e BD),

quindi nel complesso la somma delle due

caratteristiche dei poliedri: 2 + 2, diventa

4 – (1 + 3 – 2) = 2.

In Figura 12B, perdiamo i vertici A e B,

4 facce e 4 spigoli (AC, BD e AB due volte

perché in comune) perciò

V + F – S = 4 – (2 + 4 – 4) = 2. Infine in

Figura 12C, non perdiamo vertici, né spi-

goli, perché la perdita di AB è compensata

dal fatto che lo spigolo CD è sostituito da-

gli spigoli AC e BD. Perdiamo solo 2 facce,

quindi V + F – S = 4 – 2 = 2.

Quindi in ogni caso i poliedri così otte-

nuti sono euleriani.

Sovrapponiamo adesso un t etraedro

in modo che si possa avere in comune

un vertice senza avere per forza uno spi-

golo o una parte in comune.

In figura 13A, perdiamo una fac cia,

ma aumenta uno spigolo, CD si «sdop-

pia» in AC e AD, quindi

V + F – S = 4 – 1 = 3.

In Figura 13B, perdiamo 1 vertice e 1 fac-

Figura 13A Figura 13B

Figura 14A Figura 14B

Figura 13C

cia: V + F – S = 4 – (1 + 1) = 2.

Infine in Figura 13C, perdiamo 2 vertici,

1 faccia e 1 spigolo . ACBED non è

un’unica faccia, perché ACD e CDBE ap-

partengono a piani diversi. Perciò

V + F – S = 4 – (2 + 1 – 1) = 2.

Quindi a parte il primo caso che tutto

sommato coincide con quello già visto

per i parallelepipedi, gli altri poliedri

sono euleriani.

Perciò possiamo dire che aumenteremo

la caratteristica di un poliedro euleriano

solo sovrapponendone due in modo che

non abbiano vertici, spigoli o facce in co-

mune.

Come possiamo in vece diminuire la

caratteristica euleriana? Intuitivamente

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 79

PERCORSI DIDATTICI

pensiamo di effettuare un procedimento

inverso alla so vrapposizione, ossia la

creazione di una cavità. Vediamo se que-

sta sensazione corrisponde a realtà.

Nel primo caso il buco elimina solo una

faccia, nel secondo invece, «trapassando»

il poliedro, ne elimina 2. Non vi sono

perdite né di spigoli, né di v ertici,

quindi avremo rispettivamente una ca-

ratteristica di 4 – 1 = 3 e di 4 – 2 = 2.

Quindi la sensazione non era corretta.

In effetti per diminuire la caratteristica

di Eulero dobbiamo fare sì che V + F –

S complessivamente diminuisca più di

2 unità. L’idea è dovuta a Simon Lhuilier

(1750-1840)2, ed è il poliedro di Figura

15 che lo st esso Lakatos nell’opera

citata chiama portafotografie.

Infatti questo poliedro ha 16 vertici, 16

facce e 32 spigoli, quindi

V + F – S = 32 – 32 = 0.

Per la costruzione con Cabri 3D basta

creare un cubo e poi un cubo a esso in-

terno, nascondere quest'ultimo e c o-

struire perciò i tronchi di piramide, cia-

scuno dei quali rappresenta un «bordo»

del portafotografie, unendo i vertici dei

due cubi.

«Attaccando» due portafotografie co-

struiamo un poliedro a caratteristica ne-

gativa, – 2, come mostrato in Figura 16.

Non è difficile capire che l’aggiunta di

ulteriori «buchi» diminuisce di due

unità per buco la caratteristica euleriana.

Non approfondiamo ulteriormente la

questione, lasciando alla fantasia del do-

cente e dei suoi studenti la costruzione

di poliedri di caratteristica qualsiasi.

Nella prossima parte considereremo

particolari poliedri convessi, i cosiddetti

poliedri platonici o regolari.

Carmelo Di StefanoLiceo Scientifico «E. Vittorini», Gela (CL)

Figura 15 Figura 16

BIBLIOGRAFIA

L. Brusotti, Poligoni e poliedri, in «Enciclopedia delle matematiche elementari e complementi», a cura di L. Berzolari, G. Vivanti, D. Gigli,Volume II, parte I, Hoepli, Milano 1979T. Heat, A history of Greek Mathematics, Vol. II, Form Aristarchus to Diophantus, Dover, New York 1981.

2. Lakatos I., Proofs and refutations, Cambridge Univer-sity Press, 1976, p.19.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX80

PERCORSI DIDATTICI

Contributi di Bombelli alla nascita della Geometria analitica Carla Simonetti

IL MERITO E LE ORIGINI DELLA GEOMETRIA ANALITICA TROPPO SPESSO VENGONO FATTI

COINCIDERE IN MODO SUPERFICIALE E SBRIGATIVO CON IL MERO CONTRIBUTO DI CARTESIO. QUESTO SCRITTO CI PORTA E TROVARE LE TRACCE DELL’ITALIANO BOMBELLI

NELLA COSTRUZIONE DI QUESTA PARTE IMPORTANTE DELLA MATEMATICA.

Le poche notizie che si hanno sulla

vita di Rafael Bombelli (1526?-

1574?) sono dedotte dalle afferma-

zioni che lui stesso fa nel suo libro Alge-

bra in cui si definisce «cittadino bologne-

se» ed in effetti si è potuto accertare che

la famiglia Bombelli apparteneva alla no-

biltà del contado bolognese. Egli ci co-

munica inoltre di essersi occupato della

bonifica della Val di Chiana e di avere

composto la sua opera in un periodo di

sosta di questi lavori mentre era ospite

alla Rufina nella villa del vescovo di Melfi

che tale bonifica aveva ordinato.

Nel 1572 Bombelli pubblica i primi tre

libri della sua opera che trattano esclu-

sivamente di algebra. Nella prefazione

esprime il suo intento di rivalutare l’al-

gebra, fino ad allora non trattata come

vera scienza e le cui argomentazioni era-

no considerate valide solo se dimostrate

per via geometrica. Afferma: «ne meno

parmi necessario sia che si sforzi di far co-

noscere che la parte maggiore dell’Aritme-

tica (hoggi dal vulgo Algebra detta) tenghi

ella sola tra queste [le discipline matema-

tiche] il primato, perché di lei tutte l’altre

bisogna che si prevagliano, né già potriano

così l’Aritmetico come il Geometra senza

quella sciogliere i Problemi suoi e provare

le sue dimostrazioni1» e aggiunge: «mi son

posto nell’animo di voler e a per fetto

ordine ridurla, e dirne quanto dagli altri

è stato taciuto in questa mia presente ope-

ra, la quale, sì perché questa bella scientia

sii conosciuta, come per giovar a tutti, mi

son dato a comporre2». Con questa nuova

impostazione degli studi Bombelli apre

la porta a quel ramo della matematica

che sarà chiamato Geometria Analitica.

I numeri immaginariBombelli espone regole specifiche per ef-

fettuare operazioni con numeri negativi

e dà significato anche alle radici quadrate

di questi introducendo così i numeri che

noi chiamiamo immaginari. Chiama

più di meno l’unità immaginaria che noi

indichiamo con i, e meno di meno il suo

opposto -i e dà esplicitamente, anche per

questi nuovi enti, le regole per lo svol-

gimento delle operazioni:

«Più di meno via più di meno, fa meno

[ i . i = -1]

Più di meno via men di meno, fa più

[ i . (-i) = 1]

meno di meno via più di meno, fa più

[ -i . i = 1]

Meno di meno via men di meno, fa meno»3.

[ -i . (-i) = -1]

Lo storico della Matematica Bortolotti

scrive: «Qui, per la prima volta, si consi-

derano come enti aritmetici numeri im-

maginari, si rappresentano questi con sim-

bolismo opportuno al lor calcolo, e le leggi

di questo calcolo vengono effettivamente

poste, ...».4

Bombelli si muove in questo insieme nu-

merico ampliato con disinvoltura e ar-

riva a trattare i numeri che noi chiamia-

mo complessi.

Nel risolvere l’equazione di sec ondo

grado x2 + 20 = 8x trova la radice qua-

drata di 16-20 = - 4 e scrive: «4 + di - 2

over 4 - di – 2, e ciascuna di queste quan-

tità da sé sarà la valuta del Tanto»5.

Di fronte a somme tra numeri reali e ra-

dici quadrate di numeri negativi Bom-

belli si trova principalmente nel corso

della risoluzione di equazioni di t erzo

grado applicando la relativa formula sco-

perta da Scipione Del Ferro e utilizzata

da Cardano e Tartaglia. In tale formula

è presente la somma tra un numero reale

e un r adicale quadratico, ma pr oprio

quando l’equazione ha tre radici reali, il

1. R. Bombelli, L’algebra, Opera di Rafael Bombelli da Bo-logna, prima edizione integrale, Prefazione di E. Borto-lotti e U. Forti, Feltrinelli, Milano 1966, p. 7.2. Ibi, p. 8.3. Ibi, p. 133.4. Ibi, p. XXIX.5. Ibi, p. 201.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 81

radicale ha r adicando negativo; ciò

aveva messo in difficoltà i matematici

che avevano chiamato questo «caso ir-

riducibile».

Bombelli supera brillantemente lo sco-

glio e per compiere operazioni tra nu-

meri di questo tipo utilizza le regole pre-

cedentemente da l ui esplicitamente

esposte a proposito di «numeri composti,

come se fossero binomi» intendendo per

binomio «una quantità composta di dui

nomi aggionti insieme dissimili» e porta

ad esempio: «si dirà 6 + R.q.5 [6 + √5],

e questo si chiama Binomio, per essere un

composto di due quantità dissimili, essen-

do il numero R.q.5 di diversa natur a»6.

Le regole per operare con numeri di que-

sto tipo vengono chiarite con esempi e

possono essere applicate anche quando

il radicando è negativo.

Dare significato alle radici quadrate di

numeri negativi era una intuizione che

possiamo considerare estremamente

ardita se pensiamo che in quel momento

storico i numeri negativi in Europa ve-

nivano scartati sia c ome coefficienti

che come risultati delle equazioni ed era-

no chiamati numeri assurdi.

I libri geometriciIl manoscritto dei libri quarto e quinto,

libri geometrici che avrebbero dovuto

accompagnare i tre algebrici, sarà ritro-

vato nel 1923 presso l’Archiginnasio di

Bologna dallo storico della matematica

Bortolotti che pubblicherà l’opera com-

pleta; questi afferma che essi segnano «il

distacco tra l’algebra geometrica degli an-

tichi e la moderna Geometria Analitica»7.

In questi due libr i Bombelli espone

una geometria che si evolve adottando

tecniche algebriche e che chiama «alge-

bra linearia» in quanto si esprime attra-

verso segmenti. Egli procede nella riso-

luzione di problemi geometrici facendo

riferimento alla precedente trattazione

algebrica e «traducendo» nel linguaggio

geometrico i singoli passaggi seguiti in

ambiente algebrico.

I due rami della matematica assumono

pari dignità, operano secondo un reci-

proco sostegno, e c ostituiscono una

sorta di società di mutuo soccorso; at-

teggiamento questo che sarà alla base

della geometria analitica. Nella prefazio-

ne all’opera del Bombelli ristampata nel

1966, Forti scive: «...la validità della co-

struzione geometrica risulta dallo svolgi-

mento algebrico (e perciò logico) di cui essa

è la visibile interpretazione»8.

A chiusura del terzo libro Bombelli af-

ferma che Aritmetica e Geometria sono

l’una «la prova dell’altra» e l’altra «la di-

mostrazione dell’una» e che questo sarà

chiaro quando «l’una e l’altra mia opera

avranno veduta, ma perché non è ancora

ridutta a quella perfezione che la eccellen-

tia di questa disciplina ricerca, mi son ri-

soluto di volerla prima meglio considerare,

avanti che la mandi nel cospetto degli huo-

mini»9.

Bombelli muore poco dopo la pubbli-

cazione del suo libro, nulla sappiamo re-

lativamente a come avrebbe voluto ope-

rare sulla parte geometrica, ma già così

come ci è g iunta essa segna «quasi un

punto di passaggio, e talvolta una vera an-

ticipazione, della geometria analitica di

Cartesio».(Forti)10

Per realizzare una sorta di connubio tra

algebra e geometria, è necessario dispor-

re di una modalità di traduzione dei ri-

spettivi linguaggi. Bombelli pone le

basi per questo «dizionario».

Operazioni tra numeri -Operazioni tra segmentiNel capitolo primo del libro quarto

Bombelli, esprimendo attraverso proce-

dimenti geometrici le operazioni alge-

briche, introduce alcuni concetti che sa-

ranno basilari per la geometria analitica.

Egli espone come procedere per: Som-

mare di linee – Sotrare di linee – Molti-

plicare di linee – Partire di linee.

Introduzione del segno per i segmenti

Libro quarto – Capitolo primo

«Sotrare di linee. Il sotrare di linee non

è altro, che tagliare della maggiore una

parte pari alla minore, quando la minore

si ha da cavare della maggiore, et quello

che resta fuora del taglio sarà il restante;

ma se si harà a cavare la maggiore della

minore si farà il medesimo et quello che

resta sarà meno»11.

In questo modo Bombelli int roduce i

segmenti negativi. Dare il segno anche

ai segmenti è un passo che non sarà

compiuto neanche da Cartesio ma che

giustamente è proposto da chi in campo

algebrico aveva ampliato l’insieme nu-

merico dando significato alle radici

quadrate dei numeri negativi.

Introduzione del se gmento unitario

(Bombelli utilizza lettere minuscole per

indicare sia i punti che i segmenti)

Libro quarto – Capitolo primo

«Partire di linee. Il partire di linee non

si può fare se non è dato una comune mi-

sura; come sarebbe se si avesse a partire la

linea .a.e. per la .a.c., et non dicendo altro

non si possono partire, ma se si darà la .f.

per comune misura, ...»12.

6. Ibi, p. 65.7. Ibi, p. XXV.8. Ibi, p. XXII.9. Ibi, p. 476.10. Ibi, p. XXII.11. Ibi, p. 486.12. Ibi, p. 487.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX82

PERCORSI DIDATTICI

Bombelli stabilisce un segmento, che in-

dica con f, come unità di misura; traccia

i segmenti ae (dividendo) ed ac (diviso-

re) con il punto a in comune, prolunga

ac di un tratto cb uguale ad f. La parallela

a ce condotta per b incontra il prolun-

gamento di ae in g.

Per il teorema di Talete il rapporto tra ae

ed ac è il segmento eg.

Il segmento unità è usato dal Bombelli

anche nella parte algebrica della sua ope-

ra nel corso delle giustificazioni geome-

triche per le risoluzioni delle equazioni

di terzo grado.

Radice quadrata

Libro quarto – Capitolo primo

«A trovare il creatore in linee [creatore

radice quadrata]... il quale creatore

non patisce le difficoltà che pate nel nu-

mero; perché sempre si troverà il creatore

di ogni preposta linea, essendo nota la co-

mune misura,come per esempio sia la li-

nea .b.d. la quale sia 7 cioè sette volte la

linea .g. et che si detta linea se ne voglia

il creatore»13.

Sceglie un segmento come unità di mi-

sura e procede geometricamente appli-

cando i t eoremi che noi c hiamiamo

primo e secondo di Euclide.

Questo procedimento era già stato espo-

sto nel libro primo dove il segmento uni-

tario è stato introdotto: «Sia la linea .a.

una misura data per la unità, come sareb-

be palmo, piedi, braccia, o simili,...»14.

Potenze

Libro quarto – Capitolo primo

In questa proposizione Bombelli, prece-

dendo Cartesio, rappresenta con seg-

menti anche le potenze. Si tratta di un

passaggio fondamentale per tradurre in

forma geometrica le espressioni aritme-

tiche superando la loro rigida interpre-

tazione geometrica che portava, tra l’al-

tro, i matematici solo a trattare potenze

con esponenti inferiore a quattro e ad

esprimere solo somme t ra termini di

ugual grado.

Già nel libro secondo dei tre pubblicati

per la giustificazione del procedimento

di risoluzione di equazioni di terzo gra-

do, Bombelli aveva rappresentato il bi-

nomio x ( x2 + p ) con un rettangolo con

i lati aventi come lunghezza uno x e l’al-

tro la somma di due seg menti di lun-

ghezza rispettivamente x2 e p.

L’Algebra di Bombelli godrà di grande no-

torietà in tutta Europa, Leibniz affermerà

di avere basato proprio su questa opera

la sua preparazione matematica ed è pro-

babile che anche Cartesio la conoscesse.

Scrive Bortolotti: «non è quindi lecito che

a quest’ultimo [Cartesio] sia attribuito quel

passo che al dir degli storici costituisce così

essenziale progresso nella rappresentazione

analitica delle grandezze geometriche»15.

Dimostrazione della lunghezza delle di-

gnità essendo nota la cosa

Viene proposta la costruzione geometrica

delle successive potenze (dignità) di un

numero espresso attraverso un segmento:

«Essendo noto la valuta della Cosa rispet-

tiva a una misura data si può trovare in

lunghezza tutte l’altre dignità»16.

Bombelli indica il seguent e procedi-

mento.

Sia A il segmento unitario e α il segmento

di cui si vogliono determinare le potenze.

Si tracciano due r ette perpendicolari

mk ed no che si incontrano in un punto

a.

Si procede attraverso successive applica-

zioni del secondo teorema di Euclide.

In riferimento alla figura sia ab=A e ac

=α, si traccia il semicerchio che passa per

b e per c ed ha il c entro su mk, si

individua così il punto d su mk. Il seg-

mento ad è «la valuta del censo» (quadra-

to).

Si traccia il semicerchio passante per c e

d e avente il centro su no, si individua il

punto e su no, ae è il «cubo». Si procede

analogamente, si traccia il semicerchio

fed, af è il «Censo Censo» (quarta poten-

za), e così via.

ad Censo (α2)

af Censo Censo (α4)

ae Cubo (α3)

ag Censo Cubo (α5)

I Bourbaki scrivono: «Una volta scelta

l’unità di lunghezza, esiste una corrispon-

denza biunivoca fra le lunghezze ed i rap-

porti di grandezze, egli [Bombelli] defi-

nisce, sulle lunghezze, le diverse operazioni

algebriche (supponendo, si intende, fissata

l’unità) e, rappresentando i numeri con

13. Ibi, p. 488.14. Ibi, p. 41.15. E. Bortolotti, Lezioni di geometria analitica, Vol.I, Ed.Zanichelli 1923, p. XXXVII.16. R. Bombelli, L’algebra, cit., p.491.17. N. Bourbaki, Elementi di storia della matematica, Fel-trinelli, Milano 1963, p.153.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 83

PERCORSI DIDATTICI

le lunghezze, ottiene la definizione geome-

trica del corpo dei numeri reali (punto di

vista di cui spesso si attribuisce il merito

a Descartes) e dà così alla sua ‘Algebra’

una solida base geometrica»17.

Nelle Indicazioni nazionali per gli obiettivi

specifici di apprendimento per le Supe-

riori della n uova riforma, alla v oce

Aritmetica e algebra, tra le «competenze

attese a conclusione dell’obbligo di istru-

zione» troviamo: «utilizzare le tecniche e

le procedure del calcolo aritmetico e alge-

brico rappresentandole anche sotto forma

grafica».

Da Bombelli, come abbiamo visto, può

venire qualche interessante suggerimento

in tal senso.

Prima e dopo BombelliDobbiamo ricordare che la parte pub-

blicata dal Bombelli della sua o pera

era solo quella algebr ica nella quale,

come già osservato, sono però presenti

alcune di quelle intuizioni che saranno

alla base della geometria analitica e che

successivamente nei due libri geometrici

avrebbero trovato la loro specifica col-

locazione ed esposizione.

Manca, da parte del matematico bolo-

gnese, l’introduzione degli assi di riferi-

mento, che caratterizzeranno la geome-

tria di Cartesio (1596, 1650); questi, in

linea con il greco Apollonio (262?, 190?,

BIBLIOGRAFIA

G. Loria, Storia delle Matematiche, Hoepli, Milano 1950.S. Maracchia, Storia dell’algebra, Liguori Editore, Napoli 2005.

a.C.), riferirà ciascuna curva analizzata

ad una semiretta (ascisse), opportuna-

mente individuata per og ni specifico

caso, ai cui punti sono «ordinatamente

applicati» segmenti paralleli tra loro

(ordinate). Ciò permetterà a Cartesio di

esprimere attraverso equazioni algebri-

che le proprietà delle varie curve.

Ma il filosofo e matematico francese, al

contrario di Bombelli, non apre all’idea

di dare un segno anche ai segmenti e

tratta solo c oordinate positive. Sarà

Eulero, nel 1748 nella sua opera Intro-

ductio in Analiysin Infinitorum, ad assu-

mere come assi coordinati due rette in-

cidenti non dipendenti dal particolare

problema trattato e a cui si riferiscono

tutti i punti del piano alle coordinate dei

quali viene così assegnato il segno.

Carla Simonetti Mathesis Firenze

R.Bombelli, Algebra, Bologna 1579.

NS5 74-107 percorsi scienze:Layout 1 15-11-2012 16:53 Pagina 83

Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX84

PERCORSI DIDATTICI

La fisica – come e più di ogni altra

scienza – ha bisogno, lo di sa,

della matematica per esprimere

in forma precisa e compatta le conclusio-

ni teoriche cui via via perviene. È fin trop-

po noto che già Leonardo da Vinci avver-

tiva che «nissuna umana investigazione si

pò dimandare vera scienzia s’essa non pas-

sa per le matematiche dimostrazioni».

Necessità della matematicaAnche solo per esprimere ed applicare le

leggi elementari della Meccanica, la fisica

ebbe bisogno del calcolo infinitesimale,

la cui costruzione cominciò con la Scuola

di Galileo («calcolo delle flussioni») e

continuò con Newton e Leibniz. Da

allora le equazioni differ enziali (ma

anche quelle alle differenze finite) non

hanno più lasciato la fisica. Lo stesso si

può dire per il calcolo vettoriale e tenso-

riale, tanto in fisica classica che in Rela-

tività Speciale e in T eoria dei campi

quantizzati. Ed è noto che l’algebra ten-

soriale, insieme con le geometrie non eu-

clidee, ha poi trovato un ambiente ideale

nella Relatività Generale. Non dimenti-

chiamo inoltre che il calcolo variazionale

(con il formalismo lagrangiano e hamil-

toniano) ha in un certo senso permesso

il passaggio dalla meccanica classica alla

Meccanica Quantistica; mentre la Teoria

dei Gruppi ha svolto e svolge un ruolo da

regina, per esempio, in fisica delle par-

ticelle fondamentali (nel 1929 Ettore Ma-

jorana scriveva all’amico Giovannino

Gentile: «...studio la teoria dei gruppi con

la ferma intenzione di impararla, simile

in questo a quell’eroe di Dostoievski che

un bel giorno cominciò a mettere da par-

te qualche spicciolo, con la persuasione

di diventare presto ricco quanto Ro-

thschild»). Naturalmente anche altre

algebre, come quelle di Clifford, hanno

svolto e svolgono una funzione fonda-

mentale.

Nella fisica di oggi trovano applicazione

quasi tutti i rami delle matematiche, dallo

studio degli Spazi fibrati alla Topologia:

e la fisica non può farne a meno. Senza

dimenticare che una par te notevole

delle attuali ricerche in fisica e nei rami

della scienza ad essa collegati non potreb-

bero procedere senza le tecniche di com-

putazione numerica e algebrica. I calco-

latori elettronici sono essenziali per ese-

guire complicati calcoli algebrici (ad

esempio in Fisica delle particelle elemen-

tari e in Relatività Generale), ed ancor più

per analizzare masse enormi di compli-

cati dati sper imentali o per r isolvere

equazioni e sistemi di equazioni non trat-

tabili con l’Analisi; su questo versante

sono essenziali l’Analisi Numerica, l’Ot-

timizzazione, e in generale tutte le tec-

niche informatiche.

A questo punto sarebbe interessante

considerare alcuni casi in cui la matema-

tica stessa, attraverso le sue soluzioni, ha

suggerito e suggerisce l’esistenza di nuovi

campi di indagine naturale. È infatti de-

gno di nota, anche dal punto di vista fi-

losofico, che le varie soluzioni fornite dal-

la matematica (spesso sovrabbondanti ri-

spetto a quelle previste dal fisico) corri-

spondono quasi sempre a realtà esistenti

in natura! Qui ricorderemo solo che al-

cuni «doppi segni» (più e meno) presenti

nelle soluzioni fornite dalla matematica

in vari problemi, e apparentemente ba-

nali, hanno in realtà: (a) suggerito, in

Meccanica Quantistica, l’esistenza di

fermioni e bosoni; (b) mostrato come la

Relatività Speciale già dal 1905 prevedeva

l’esistenza dell’antimateria, oltre che

della materia; (c) suggerito che la stessa

Relatività Speciale possa essere estesa ad

includere onde ed oggetti più v eloci

della luce... Dopo questo breve elenco,

preferiamo passare a considerazioni più

generali su fisica e matematica.

1.Work partially supported by INFN and CAPES: the au-thor is presently visiting as PVE the DMO/FEEC/UNI-CAMP and acknowledges H.E.Hernandez-Figueroa andC.Castro’s hospitality. He also thanks G.Battistoni, E.Gian-netto, G.Maccarini, G.Marmo, S.Paleari, P.Pizzochero,P.Riva for stimulating discussions and kind interest; andis grateful to G.Bertagna, M.G.Pesci and F.Baresi for invi-ting this paper.2. [email protected] ; www.unibg.it/recami

Matematica e FisicaErasmo Recami 2

LA MATEMATICA, PRODOTTO INTERNO DEL CERVELLO UMANO, CI PERMETTE DI DESCRIVERE E MEGLIO COMPRENDERE LA NATURA FISICA ESTERNA A NOI. DALLA TEORIA DELLA RELATIVITÀ ALLE STRAORDINARIE COINCIDENZE NUMERICHE

GIÀ NOTATE DA WEYL, EDDIGTON E DIRAC.

1

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 85

PERCORSI DIDATTICI

Se ripensiamo alla struttura dell’universo

materiale, e alla vertiginosità delle sue

dimensioni, sia nella dir ezione del

macro sia nella direzione del micro, dob-

biamo riconoscere che la realtà ha su-

perato come sempre la fantasia; il rap-

porto tra il raggio del cosmo e il raggio

di un protone (uno dei numeri fonda-

mentali più grandi che si incontrino in

natura) risulta per esempio di circa

1040: un uno seguito da quaranta zeri.

E tale uni verso fisico, a par tire dal

mondo subatomico e su, attraverso la

complessità degli organismi v iventi,

fino agli ammassi di galassie dispiega

non solo un’incredibile varietà di forme,

ma anche un mirabile ordine. Einstein

ha lasciato scritto: «II fatto che la totalità

delle nostre esperienze sensoriali sia tale

che mediante il pensiero essa può venire

ordinata, ci lascia pieni di stupore...

L’eterno mistero del mond o è la sua

comprensibilità».

Quasi non ci si meraviglia più della stra-

ordinaria eleganza delle leggi fisiche che

soprintendono alla materia, man mano

che esse vengono scoperte e precisate,

soltanto perché ci si è abituati a trovare

la natura sempre regolata da principi

matematici reconditi, sì, ma semplici.

Già se ne erano avveduti Keplero, Galileo

e Bruno, i quali condividevano con gli

antichi pitagorici la convinzione che il

cosmo fosse ordinato secondo le più alte

e perfette leggi razionali matematiche. La

stessa matematica va costruendo con le

sue architetture logiche un g randioso

universo razionale che si sviluppa paral-

lelamente a quello che viene rivelandosi

all’indagine naturale. E ciò non è dovuto

solo al fatto che le teorie matematiche,

come ha chiarito Göedel, si evolvono in

modo simile a quello delle teorie fisiche...

Di fronte al mondo naturale, che sembra

presentare una inesauribile serie di sca-

tole cinesi sia all’ingiù, verso il microsco-

pico, sia all’insù, verso il macrocosmo, ci

si chiede se tali serie incontrino dei

limiti; analogamente, la matematica ha

sempre lottato col problema dell’infini-

tamente piccolo e dell’infinitament e

grande: da Zenone di Elea a C avalieri,

Torricelli, Galileo, Newton e Leibniz, da

Archimede a Peano, Cantor, Russell e Co-

lien. Si può anzi dire che la matematica

è per gran parte scienza dell’infinito, suo

fine precipuo essendo la comprensione

simbolica dell’infinito con strumenti

umani, vale a dire finiti.

D’altronde la scoperta del cosiddetto «in-

finito potenziale», che come diceva Lucio

Lombardo Radice è una delle meraviglio-

se conquiste intellettuali che facciamo

spontaneamente nell’infanzia, la fac-

ciamo sia a livello propriamente mate-

matico, pensando di aggiungere sempre

«uno» nel contare, sia meditando sulla

realtà: per esempio , la diffic oltà di

pensare una fine dello spazio, una bar-

riera dopo la quale non ci sia nuovo spa-

zio, è una delle vie naturali che condu-

cono alla conquista della specifica cate-

goria mentale di infinito potenziale.

Caratteristiche esclusive dell’arte mate-

matica sono il suo rigore razionale e la

sua certezza logica. Già Platone diceva

esistere nella matematica qualcosa di ne-

cessario e, se non er ro, di nec essità

divina.

Gli fa eco, più esplicitamente, Russell: la

contemplazione di ciò che non è umano,

la scoperta che la nostra mente è capace

di analizzare ciò che è fuori di noi, la per-

cezione che la bellezza appartiene tanto

al mondo esteriore quanto a quello in-

teriore, sono mezzi potenti per superare

il senso di debolezza ed esilio in mezzo

alla quasi onnipotenza delle forze ester-

ne. «Ma», aggiunge Russell, «la matema-

tica ci porta nella regione della necessità

assoluta, alla quale deve conformarsi non

solo il mondo reale, ma ogni mondo pos-

sibile […].

Per la maggior parte degli uomini la vita

effettiva è una l unga mediocrità, un

perpetuo compromesso tra l’ideale e il

possibile; ma il mondo della pura ragione

non conosce compromessi, né limitazioni

pratiche, né barriere all’attività creativa

Foto di gruppo dei fisici più famosie importanti di inizioNovecento alla Conferenza di Solvaysulla Meccanica Quantistica (1911).

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX86

PERCORSI DIDATTICI

che realizza nei suoi splendidi edifici l’ap-

passionata aspirazione al perfetto dalla

quale sorgono tutte le grandi opere».

Interrogativi apertiCiò vuole dire che tutto della natura ci

è cristallinamente chiaro, dalle particelle

subnucleari ai modelli c osmologici?

Non è certo così. Come amava asserire

il grande fisico-matematico Hermann

Weyl, tutta la scienza, e in primo luogo

la fisica e la matematica, ci fanno apparire

il creato sempre più come un mondo

aperto: «La scienza non può fare altro che

mostrarci un or izzonte aperto...». O,

per citare ora la frase di uno scr ittore,

Franz Werfel, «Il mondo non è solo

questo mondo». La stessa vitalità di un

settore della fisica si misur a più dai

problemi nuovi che sa porre, che non dai

problemi vecchi che risolve. E l’argomen-

to del micro e del macro, su cui abbiamo

fissato la nostra attenzione, spalanca le

porte a molti interrogativi. L’uomo ha

pensato dapprima che l’«universo» fosse

la sua vallata, poi l’intera Terra, poi il Si-

stema Solare, poi la Via Lattea. È or a

un’analoga ingenuità credere che il

nostro cosmo esaurisca l’universo del-

l’esistente? E se così è, esistono per caso

delle simmetrie per cui i car atteri del

creato si possono leggere in ogni suo

frammento? La c ostante presenza di

questi interrogativi al nost ro animo

spiega perché abbia avuto a suo tempo

tanto successo tra il pubblico l’appros-

simativo modello che assimilava ogni

atomo al sistema solare.

Il vangelo secondo Higgs

Ora che gli entusiasmi e il clamore per il bosone di Higgs si

sono calmati è forse possibile fare una riflessione più distesa sul

significato di questa scoperta e, in particolare, sulla sua valenza

«teologica»-filosofica, sintetizzata dalla definizione con cui i me-

dia hanno presentato il bosone st esso, ovvero la «particella di

Dio».

Insomma: c’è un qualche rapporto tra il bosone di Higgs e il di-

vino? È una scoperta che avvicina l’uomo alla contemplazione

di Dio?

Basterebbe sapere da dove nasce il nome «particella di Dio» per

ridimensionare gli entusiasmi dei credenti riguardo la scoperta,

presentata al Cern di Ginevra intorno al bosone di Higgs. L’appel-

lativo, come ormai è noto, deriva da una efficace scelta editoriale:

quando Leon Lederman presentò alla casa editrice, la Dell Publi-

shing, il manoscritto in cui raccontava la sua ricerca fisica e le dif-

ficoltà di trovare sperimentalmente la par ticella teorizzata da

Higgs, voleva chiamare quel bosone the Goddamn Particle, ov-

vero la «particella maledetta» (proprio perché non era possibile

dimostrarne l’esistenza). L’editore propose il più suggestivo

«particella di Dio», e quel nome rimase, diventando la definizione

più nota al grande pubblico del bosone in questione. Il tutto

sembra nascere da un (voluto) equivoco linguistico. In realtà se

prendiamo l’icastica dicitura «particella di Dio» come metafora

per indicare l’importanza che il bosone di Higgs ha per la teoria

fisica sulla materia e l’universo, la scelta della Dell Publishing si

rivela, per uno di quei casi di s erendipità di cui la st oria della

scienza è ricca, abbastanza corretta.

La verifica sperimentale dell’esistenza della particella che Higgs

teorizzò, infatti, permette di confermare un aspetto centrale del

Modello Standard, la teoria fisica unificata sulle particelle ele-

mentari le cui basi furono gettate circa 50 anni fa. Il bosone di

Higgs spiega l’esistenza della materia e quindi il comportamento

della realtà nell’universo osservabile. Ma proprio questa sua im-

portanza e questa sua natur a quasi «divina» (spiega nascita e

leggi del mondo fisic o) ribadiscono, paradossalmente, quanto

poco la teoria di Higgs avesse e abbia tuttora a che fare con l’am-

bito del sacro.

Per spiegare questo paradosso bisogna ricordare quanto diceva

Aristotele. Nella sua indagine sulle cause del movimento e della

sostanza il filosofo di Stagira distingueva tra causa materiale, fi-

nale, formale ed effic iente. La causa efficient e può essere de-

scritta come la forza che produce un cambiamento nella realtà,

quella materiale la realtà sulla quale tale forza agisce, quella

formale la forma che l’azione efficiente produce sulla materia e

Queste domande hanno via via acquista-

to una veste scientifica, specialmente da

quando Weyl, Eddington, Dirac e altri

hanno cominciato a rilevare importanti

coincidenze numeriche, note come «re-

lazioni tra i grandi numeri», che sembra-

no proprio correlare i microcosmi sub-

nucleari (cioè le particelle dette adroni)

all’intero nostro cosmo. Ricordiamo che,

mentre il cosmo è governato dall’intera-

zione gravitazionale, i protoni, i neutroni

e le alt re particelle costituite da quark

sono invece governati dalla cosiddetta

«interazione forte». L’interazione gravi-

tazionale è sbalorditivamente più debole

di quella forte; quest’ultima è circa 1040

volte più «intensa» della prima. La coin-

cidenza numero uno è c he tale valore,

dieci elevato alla quarantesima potenza,

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 87

PERCORSI DIDATTICI

quella finale lo scopo al quale l’intero processo tende; nell’esem-

pio classico uno scultore è la causa efficiente che si esercita sul

marmo come

sua materia comunicando a quest’ultimo una forma con lo

scopo di creare un oggetto bello o di conseguire fama per

mezzo dell’opera d’arte (ma nell’ambito dei processi naturali

forma e fine spesso coincidono).

Le scienze «dure», come la fisica, si occupano unicamente delle

questioni relative alla causa materiale ed efficiente e non dicono

nulla, in quant o scienze, sull’aspetto finale e f ormale dell’esi-

stente; la moderna fisica, con Galilei e Newton, nasce proprio

come rifiuto di quelle ricerca sullo scopo e la natura intrinseca

del reale che caratterizzava la precedente analisi della filosofia

della natura. Le questioni formali-finalistiche rappresentano il

campo di indagine della filosofia e della religione; metodologi-

camente il compito dell’indagine sul sacro e la forza della rive-

lazione divina (per coloro che vi credono) sta nel fornire risposte

(spesso aporetiche e spiazianti) sulle questioni dello scopo e

della natura intrinseca delle cose, prima fra tutte l’uomo. Un’ana-

loga distinzione tra campi di indagine e metodologie di ricerca

è proposta da Kant, il quale distinguendo int elletto e ragione,

pone la differenza tra l’indagine scientifica sul mondo (legata

all’ambito empirico e retta dalle categorie dell’intelletto) e la ri-

cerca di dottrine universali che possano fornire all’uomo una sin-

tesi ultima, una visione c omplessiva, appunto le idee della r a-

gione (anima, mondo e Dio). La v oce più lucida nel ’900 c he

ribadisce tale distinzione di campi di studio e questioni su cui in-

dagare è quella di Ludwig Wittgenstein. Wittgenstein osservava

dolorosamente che il mondo dei fatti, collegati tra loro in modo

casuale e capace di decidere della verità delle proposizioni lin-

guistiche, non ospita né valori né verità ultime; purtroppo pro-

prio di queste cose, le più importanti, l’uomo è quindi costretto

a tacere, in quanto sottratte alla costruzione di un sapere logico-

empirico, verificabile.

Ecco che il paradosso sul bosone di Higgs è spiegato. Se la sco-

perta del Cern rappresenta una conquista teorica veramente così

importante, in quanto verità scientifica, essa, proprio nella sua

epocalità, non ha e non può a vere a che far e nulla con Dio, in

quanto ci parla solo di causa efficiente e di materia, di intuizioni

empiriche e categorie dell’intelletto, di stati di fatti e proposizioni

del linguaggio. Dio se ne sta altrove, nascosto oltre i fatti o tra di

essi, ma mai cosa tra le altre cose del mondo.

Francesco PaparellaIULM Milano

è uguale - come ricorderemo - al rappor-

to tra raggio del cosmo e raggio degli

adroni (di un pr otone, ad esempio).

Coincidenza numero due: la durata ca-

ratteristica della vita del nostro macro-

cosmo gravitazionale è multipla di quella

degli adroni secondo il medesimo rap-

porto! Coincidenza numero tre: la massa

del cosmo è circa 1080 volte (cioè 1040,

al quadrato) quella di un protone. E così

via. Tutto ciò non è spiegato dalla Rela-

tività Generale: esula dalle teorie esisten-

ti.

Queste coincidenze numeriche suggeri-

scono invece che cosmo e adroni siano

oggetti finiti e simili. Tutte queste «rela-

zioni fra grandi numeri» si possono

spiegare se si assu me che gli adroni

siano grosso modo ottenibili contraendo

un intero cosmo come il nostro proprio

di un fattore 1040. Protoni e neutroni sa-

rebbero, per intenderci, dei micro-uni-

versi...

E dunque, anche il nostro universo è una

particella di qualche super-universo?

Qui siamo ai confini della scienza attuale,

che non può rispondere; anche se già si

comincia a parlare delle proprietà del co-

smo come di un tutto unico.

È necessario, a questo punto, fermarsi.

Siamo tentati però di concludere ricor-

dando ancora le par ole di H ermann

Weyl: «Molta gente pensa che la scienza

oggi sia lontana da Dio . A me pare, al

contrario, che per una persona colta sia

molto più difficile avvicinarsi a Dio a par-

tire dalla storia e dal lato spirituale del

mondo; qui, infatti, sperimentiamo la

presenza della sofferenza e del male, ed

è difficile armonizzarla con un Dio mi-

sericordioso e onnipotente... Ma nella no-

stra conoscenza dei fenomeni fisici, i pro-

gressi sono stati tali che ne possiamo ot-

tenere la visione di una perfetta armonia.

Qui non esistono né sofferenza né male,

ma solo per fezione. Nulla impedisce

che noi, in quanto uomini di scienza,

prendiamo parte all’adorazione cosmica

che trovò espressioni così potenti nel più

illustre fra i poemi in lingua t edesca, il

canto degli arcangeli all’inizio del Faust

di Goethe.»

Erasmo RecamiINFN - Sezione di Milano,

Università degli Studi di Bergamo

NS5 74-107 percorsi scienze:Layout 1 15-11-2012 16:53 Pagina 87

Parte I: l’effetto fotoelettricoCome è noto materiali quali l’ambra, il

vetro, la plastica, la ceralacca, l’ebanite,

ecc., se st rofinati con un panno di

lana, acquistano la proprietà di attrarre

corpi leggeri come piccoli pezzetti di

carta. Si dice che nello st rofinio una

bacchetta composta da uno dei mate-

riali sopra elencati è stata elettrizzata o

caricata di elettricità.

Le evidenze sperimentali mostrano

l’esistenza di due distinti stati di carica

elettrica. Seguendo la t radizione, la

stragande maggioranza dei manuali

utilizzati nelle scuole li chiamano elet-

tricità positiva ed elettricità negativa:

più specificatamente vengono definiti

carichi di elettricità positiva i corpi che

si comportano come il vetro e carichi

di elettricità negativa quelli che si

comportano come la plastica. Tuttavia

è doveroso specificare che i termini po-

sitivo e negativo in realtà sono assolu-

tamente convenzionali. Se ai fini dello

studio delle interazioni elettriche non

fa alcuna differenza definire i due stati

di carica con due termini distinti, quali

essi siano, la differenza non è assoluta-

mente irrilevante nel momento in cui

diventa determinante conoscere esatta-

mente il segno delle cariche elettriche

coinvolte in un esperimento.

Supponiamo, ad esempio, di voler stu-

Fare chiarezza: elettrizzazione ed effetto fotoelettricoFausto Bersani Greggio, Corrado Bernabè

LA DISCRASIA PRESENTE IN MOLTI TESTI TRA TEORIA E LABORATORIO È ASSAI MARCATA, CONTRAVVENENDO

GRAVEMENTE ALLO SPIRITO DELLA FISICA CHE, PER DEFINIZIONE, È UNA SCIENZA SPERIMENTALE. IN QUESTO ARTICOLO SI CERCA DI FARE CHIAREZZA SUL TEMA DELL’ELETTRIZZAZIONE UTILIZZANDO, OLTRE AGLI STRUMENTI CLASSICI, UNA VERSIONE QUALITATIVA DELL’EFFETTO FOTOELETTRICO ARRIVANDO

POI A MISURARE LA CARICA DELL’ELETTRONE CON UN METODO VELOCE, SUFFICIENTEMENTE PRECISO

E FACILMENTE REALIZZABILE, SENZA DOVER INCORRERE NEI GRAVOSI COSTI, SPESSO SOVRASTIMATI, DELLE ATTREZZATURE DIDATTICHE PER LABORATORI.

diare, da un punto di vista qualitativo,

l’effetto fotoelettrico, ossia l’emissione

di fotoelettroni da una lamina metallica

investita da luce UV. Ciò è possibile far-

lo utilizzando materiali poveri, facil-

mente reperibili. Innanzi tutto è neces-

sario procurarsi una lampada a vapori

di mercurio.

Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX88

PERCORSI DIDATTICI

Figura 1

NS5 74-107 percorsi scienze:Layout 1 15-11-2012 16:53 Pagina 88

Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 89

PERCORSI DIDATTICI

In essa sono presenti due bulbi: quello

interno in quarzo, di alcuni millimetri

di diametro, contiene vapori di mercu-

rio ad alta pressione i quali, scaldandosi

al passaggio della corrente, emettono

radiazioni, prevalentemente UV (λ ≈253,7 nm), riconvertite in radiazioni vi-

sibili dai fosfori depositati sulla parete

interna del bulbo esterno.

Tali fosfori, pertanto, fungono da veri

e propri trasduttori di frequenza. Inol-

tre il v etro esterno svolge anche le

funzioni di protezione del bulbo inter-

no e di cust odia dei c ontatti degli

elettrodi principali e di quelli di innesco

(v. fig.1).

Ricordiamo che l’effetto fotoelettrico

è un effetto a soglia per quanto riguar-

da la frequenza: per ciascun materiale

esiste una frequenza di soglia fo che, nel

caso dello zinco, si colloca nella banda

ultravioletta (1,02·1015 Hz).

Per frequenze inferiori ad fo l’effetto

scompare, qualunque sia l’intensità

di illuminazione.

È evidente quindi che per liberare fo-

toelettroni dallo zinco bisogna disporre

di radiazione UV. Poiché il normale ve-

tro è impermeabile a tali frequenze, è

necessario rompere con cautela l’invo-

lucro esterno della lampada lasciando

in evidenza solo il bulbo interno in ve-

tro al quarzo, il quale invece risulta per-

meabile alla luce UV (v. fig.2)1.

A questo punto elettrizziamo una bac-

chetta di vetro strofinandola con un

panno di lana e, successivamente, tra-

sferiamo, per c ontatto, la car ica su

una lamina di zinco posta sulla parte

superiore di un elettrometro (v. fig.3).

Si raccomanda di ripulire, in via pre-

liminare, la piastrina di zinco con un

detergente e di passarla legger mente

con carta vetrata fine per eliminare

eventuali tracce di grasso ed impurità

che potrebbero ostacolare l’interazione

diretta tra i fotoni UV e g li elettroni

dello zinco.

L’ago mobile devierà dalla sua posizione

verticale con un angolo proporzionale

alla carica trasferita tramite la bacchetta.

La successiva accensione della lampada

ad UV det ermina un r apida discesa

dell’indice evidenziando una progres-

siva neutralizzazione dell’elettrometro

(v. figg. 4A e 4B).

Poichè la scarica dell’elettrometro è in-

terpretabile sulla base dell’effetto fotoe-

lettrico, ossia in termini di emissione

di fotoelettroni, tale esperienza dimo-

stra che la carica ceduta inizialmente

dal vetro alla superficie di zinco doveva

necessariamente essere negativa.

Quando, al contrario, l’elettrometro è

carico positamente si produce una

scarica del tutto trascurabile. In realtà,

anche in quest o caso, la r adiazione

UV libera elettroni dalla lastra, ma que-

sti vengono nuovamente attirati dalla

carica positiva della stessa. Per verificar-

lo provvediamo a caricare per strofinio

una bacchetta di plexiglass con un

panno di lana, trasferendo poi, sempre

per contatto, la carica sulla lamina di

zinco. In tal caso osserveremo che la

luce UV non produce alcun effetto dal

momento che l’ago metallico rimane

nella sua posizione originale (v. figg. 5A

e 5B). Pertanto ciò dimostra che la ca-

rica posseduta dalla bacchetta di plexi-

glass era positiva.

Al fine di verificare in modo inequivo-

cabile che gli eventi descritti sono im-

putabili unicamente all’effetto fotoelet-

trico, e non ad altre cause, ci rimettiamo

nelle stesse condizioni della fig.3, inter-

ponendo questa volta, tra la lampada

UV e la lastra di zinco carica negativa-

mente, un filtro di vetro comune che,

come ho già premesso, risulta imper-

meabile alle radiazioni UV.

In tal caso la scarica cessa immediata-

mente e l’indice dell’elettrometro rima-

ne immobile anche se intensifichiamo

l’illuminazione avvicinando la lampada,

per quanto possibile, alla superficie di

zinco (v. fig.6).

Figura 2 Figura 3

1. A titolo cautelativo, per evitare esposizioni a radia-zioni UV, è opportuno tenere gli studenti a debita di-stanza dall’apparato durante la prova dell’effettofotoelettrico, magari con l’inserimento di una capsulaprotettiva di forma cilindrica posta att orno alla lam-pada utilizzata. Tale capsula può essere realizzata conmateriale opaco e su di essa dovrà essere praticato unforo in corrispondenza della posizione della lamina dizinco in modo tale che la radiazione UV colpisca in ma-niera direzionale solo la piastra metallica.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX90

PERCORSI DIDATTICI

Parte II: la misura dellacarica dell’elettroneDopo aver chiarito il segno della carica

del vetro e del plexiglass una v olta

elettrizzati per strofinio con un panno

di lana, ed alcuni aspetti qualitativi le-

gati all’effetto fotoelettrico, un naturale

completamento di questa sezione didat-

tica può essere costituito dalla misura-

zione della carica dell’elettrone attra-

verso un procedimento elettrolitico.

L’attrezzatura specificatamente richiesta

per effettuare la nota eperienza di Mil-

likan, in genere, presenta costi proibitivi

per i bilanci di un istituto. L’elettrolisi,

argomento di confine tra fisica e chimi-

ca, per c ontro offre il vantagg io di

utilizzare in modo versatile strumenta-

zione che, di norma, in un laboratorio

di media levatura è già preesistente e

che può esser e impiegata anc he in

molti altri esperimenti.

Il circuito elettrico di cui ci siamo

serviti è piuttosto semplice (v. fig. 7A):

viene sfruttata l’elletrolisi del solfato di

rame (soluzione al 5%) in una cella con

elettrodi di rame. Anche in quest o

caso è opportuno inizialmente sgrassare

in modo accurato gli elettrodi per ri-

durre eventuali isolamenti elettrici.

Gli ioni SO4- - che giungono sull’anodo

fanno andare in soluzione ioni di rame

postivi (Cu++), mentre gli ioni di

rame positivi provenienti dalla soluzio-

ne si depositano sul catodo. Ogni ione

trasporta in ogni caso due cariche ele-

mentari (positive o negative).

Il problema fondamentale consiste nel

misurare la variazione di massa deg li

elettrodi. Misurare l’aumento di massa

del catodo, o la rispettiva diminuzione

dell’anodo, sono due operazioni teori-

camente equivalenti. Tuttavia dal punto

di vista pratico la misura fatta sul catodo

risulta alquanto più difficile poic hè

l’elettrodo si ricopre di un deposito

polveroso che, alla minima vibrazione,

tende a depositarsi sul fondo della cella.

Al contrario l’anodo rimane compatto

e facilmente manipolabile. La sua dimi-

nuzione di massa può esser e misurata

con una bilancia avente la sensibilità del

millesimo di grammo (v. fig.8).

È necessario inoltre disporre di un ge-

neratore di t ensione variabile (o in

caso contrario di un reostato) per re-

golare l’intensità di corrente, monito-

rata tramite un amperometro, la quale

potrebbe non mantenersi costante du-

rante l’intero esperimento2.

Inoltre abbiamo inserito una resistenza

di protezione pari a 22 Ω.

Se indichiamo con t la durata della pro-

va, con δMCu la diminuzione di massa

dell’anodo3, essendo I l’intesità di cor-

rente misurata dall’amperometro4,

avremo che la carica totale fluita nel cir-

cuito è

Q = I · t

Figura 4A

Figura 4B

2. In fig. 7B compare anche un voltmetro per il controllodella tensione ai capi del generatore. In realtà l’utilizzodi tale strumento non è necessario ai fini dell’esperi-mento.3. La massa di un at omo di rame corrisponde a MCu =63,546 u.m.a.·1,66*10-27 kg/u.m.a. = 1,05·10-25 kg. Si os-servi che possiamo ragionevolmente ammettere che laperdita di due elettroni da parte di un atomo di rameappartenente all’anodo lascia invariata la massa totaledell’atomo stesso. Infatti tale perdita corrisponde ad unamassa di circa 1,82·10-30 kg, ossia lo 0,0017% di MCu.4. L’incertezza sulla misur a dell’intensità di c orrente,sulla base delle indicazioni fornite dal manuale dell’am-perometro utilizzato, era pari al 2% della lettura + 10 di-gits.

NS5 74-107 percorsi scienze:Layout 1 15-11-2012 16:53 Pagina 90

Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 91

PERCORSI DIDATTICI

Il numero degli ioni di rame provenienti

dall’anodo, e passati in soluzione, sarà

mentre il numero di elettroni trasferiti

è dato da

Pertanto la carica elettrica di un elettro-

ne corrisponderà al rapporto

L’errore relativo associato a tale misura,

sulla base dei dati a nostra disposizione,

utilizzando le regole di propagazione

degli errori, sarà dato da

Evidentemente per diminuire l’incertez-

za si può aumentare la durata del pas-

saggio della corrente e/o aumentare l’in-

tensità di c orrente incrementando la

f.e.m. erogata del generatore.

Inoltre si potrebbe sviluppare un’inte-

ressante analisi statistica dei r isultati

coinvolgendo più classi, magari conser-

vando le misur e ottenute, eventual-

mente in anni successivi.

Un esempio da noi condotto in labora-

torio ha fornito i seguenti risultati:

MCu (iniziale) = (3,617 ± 0,001)g

MCu (finale) = (3,557 ± 0,001)g

δMCu = (0,060 ± 0,002)g

I = (0,190 ± 0,014)A

t = (900 ± 1)sec

da cui segue che

con

Pertanto otteniamo:

un valore assolutamente accettabile

non solo dal punto di vista dell’ordine

di grandezza, ma coerente anche con il

valore teoricamente atteso di 1,6·10-19

C, da cui si discosta di un 6%.

Visti i risultati ottenuti e la relativa sem-

plicità dell’apparato sperimentale uti-

lizzato possiamo tranquillamente affer-

mare che tale approccio laboratoriale ri-

sulta competitivo con strumentazioni

aventi lo stesso obiettivo, ma assai più

onerose.

ConclusioniLa nostra proposta didattica consiste

nell’accostamento di due argomenti, tra

loro trasversali, che possono esser e

trattati sperimentalmente in parallelo,

in modo semplice e chiaro nella stessa

unità didattica, mettendo in evidenza la

Figura 5A

Figura 5B

Figura 6

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX92

PERCORSI DIDATTICI

possibilità di attuare operazioni di sin-

tesi concettuale ed ottenere eccellenti ri-

sultati strumentali rispettando anche la

logica del risparmio. Ciò oggi si rende

possibile grazie anche alla facile repe-

ribilità sul mercato di componenti che

qualche anno fa risultavano non par-

ticolarmente diffusi e c omunque più

costosi di quelli attuali, come ad esem-

pio una semplice lampada a vapori di

mercurio per generare raggi UV acqui-

stabile in un qualunque nego zio di

materiale elettrico.

Questi semplici esperimenti sono in ge-

nere facilmente eseguibili in un labo-

ratorio di Fisica a livello liceale e rite-

niamo forniscano spunti di discussione

estremamente utili non solo per gli stu-

denti. Infatti tali argomenti, unitamente

ad altri legati alla Fisica Moderna, sono

stati oggetto anche di un corso di aggior-

namento che abbiamo tenuto presso il

Liceo Scientifico A. Volta (Riccione) il

quale ha generato un confronto profes-

sionale virtuoso fra i doc enti da cui

sono nate interessanti proposte di lavo-

ro.

Da alcuni anni stiamo sempr e più

orientando, anche attraverso corsi di

potenziamento e valorizzazione delle

eccellenze presenti nelle nostre classi, i

programmi curriculari verso temi legati

alla fisica del ‘900.

La crescita culturale legata a questo tipo

di percorso, tuttavia, non sempre trova

adeguato riscontro nel mondo della

scuola, un mondo nel quale la frattura

tra l’attualità scientifica ed il mond o

della didattica, accompagnata spesso da

una perdita della visione d’insieme

dell’Universo fisico, rappresentano uno

scenario tutt’altro che occasionale.

Fausto Bersani Greggio, A.T. Corrado Bernabè

Liceo Scientifico «A. Volta» (Riccione)

BIBLIOGRAFIAPSSC, Fisica, Zanichelli, Bologna 1963.E.H. Wichmann, La fisica di Berk eley. 4: fisica quantistica,Zanichelli, Bologna 1973.R. Sexl - I. Raab - E. Streeruwitz, Elementi di fisica, Zanichelli, Bo-logna 1986.J.B. Marion, La fisica e l’univ erso fisico, Zanichelli, Bologna1975.R. Sexl - I. Raab - E. Streeruwitz, Elementi di fisica, Zanichelli, Bo-logna 1986.

Figura 8

Figura 7A

Figura 7B

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 93

PERCORSI DIDATTICI

Furono i fratelli Jacob e Joseph Sa-

muda, inglesi, a registrare il pri-

mo brevetto di una ferroviaatmo-

sferica nel 1838. Nel 1841 Joseph Samu-

da espose le sue idee circa la possibilità

di realizzareuna ferrovia a propulsione

pneumatica in un libretto che suscitò

grande interesse: A Treatise on the

Adaptation of Atmospheric Pressure to

the Purposes of Locomotion on Railways,

ma fu solo nel1844 che venne inaugu-

rata la pr ima tratta della Dublin and

Kingstown Railway, che rimase inservi-

zio per dieci anni.

Il treno correva su due normali rotaie al

centro delle quali era steso un tubo d’ac-

ciaio entro il quale correva un pistone

azionato da una differenza di pressione.

Il pistone era collegato al treno attraverso

una lama che scorreva in una fessura ta-

gliata longitudinalmente nel tubo.

Naturalmente, a mantenere la differenza

di pressione provvedevano pompe aspi-

ranti dislocate lungo il tragitto ad alcuni

chilometri di distanza.

Con un tubo di 15 pollici (38 cm) di dia-

metro si raggiunsero velocità intorno a

100 km/h.

Ma è più divertente se facciamo alcuni

calcoli. Ipotizzata una sezione di 0,2 m2,

ed una velocità di 20 m/s, chiediamoci

in quanto tempo la vogliamo raggiun-

gere. Se prevediamo un minuto, l’acce-

lerazione sarà

Una massa plausibile per un treno è 10

tonnellate (104 kg) e quindi la forza agen-

te sul pistone dev’essere

Se, come abbiamo ipotizzato, la sezione

del tubo è 0,2 m2, la differenza di pres-

sione sulle due facce del pistone dovrà

essere

Questa differenza di pressione va man-

tenuta nel tubo nonostant e il pistone

avanzi alla velocità di 20 m/s. Per la legge

dei gas sarà

dove x è la distanza dal termine del tubo

e la pressione p si deve mantenere di 1/6

inferiore all’atmosferica. Ma, se il pistone

scorre con velocità V, la legge prende la

forma

e quindi

che fornisce il numero delle moli d’aria

che devono venire espulse dal tubo nel-

l’unità di tempo, Inserendo in questa i

valori ipotizzati si ottiene

Al termine della t ratta bisogna predi-

sporre pompe in g rado di estrarre dal

tubo almeno 3 m3/s.

Ledo Stefanini Università di Mantova-Pavia

Una ferrovia pneumaticaLedo Stefanini

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX94

PERCORSI DIDATTICI

Secondo il Rappor to Rocard

(Fig.1), la ragione dello scarso in-

teresse dei g iovani per g li studi

scientifici è essenzialmente connessa al

modo in cui le scienze vengono insegna-

te a scuola.

In particolare, vengono evidenziati come

aspetti problematici l’approccio didattico

tradizionalmente trasmissivo, finalizzato

alla semplice memorizzazione dei con-

tenuti, e l’impostazione prevalentemente

teorica e astratta di stampo deduttivo.

In relazione a quest’ultimi aspetti, anche

nei casi più favorevoli in cui le atti vità

sperimentali sono incluse nella prassi di-

dattica ordinaria, spesso assol vono a

una funzione «dimostrativa» dei concetti

precedentemente trasmessi dall’inse-

gnante o trattati dal manuale. In questi

casi, il compito richiesto agli studenti

consiste spesso nella mera esecuzione di

procedure predefinite, di cui è facile pre-

vedere i risultati. Sul piano formativo

non si tratta quindi di esperienze di ri-

cerca autentica, ma piuttosto di attività

finalizzate a richiamare e consolidare no-

zioni teoriche o, al più, utili allo sviluppo

di semplici abilità procedurali. Inoltre,

secondo una prospettiva più generale,

connessa a fattori di natura epistemolo-

gica, tali esperienze possono fornire

agli studenti una v isione della scienza

non del tutto adeguata e coerente all’idea

contemporanea.

Inquiry Based Science Education: una didattica innovativa per le scienzeMaria Angela Fontechiari

IN QUESTI ULTIMI ANNI SI È REGISTRATO UN CRESCENTE INTERESSE VERSO

L’INQUIRY BASED SCIENCE EDUCATION (IBSE), INDICATA DAI DOCUMENTI UFFICIALI EUROPEI

COME UN APPROCCIO DIDATTICO EFFICACE PER CONTRASTARE GLI EFFETTI DELLA CRISI

DELL’EDUCAZIONE SCIENTIFICA, CHE POTREBBERO SERIAMENTE COMPROMETTERE IL FUTURO DELL’EUROPA. ECCONE UNA PRESENTAZIONE.

La rilevanzaL’impegno europeo per la diffusione

dell’IBSE nei paesi dell’unione si basa

sulla costatazione dei suoi effetti positivi

sull’interesse e sui risultati di apprendi-

mento, emersi nella r ealizzazione di

progetti basati sulla sua implementazio-

ne.

L’efficacia dell’IBSE è ampiamente con-

fermata anche dalla letteratura interna-

zionale, essenzialmente riferita a ricerche

svolte in contesti in cui l’applicazione di

tale approccio è da tempo consolidata e

prevista dalle linee guida istituzionali. In

particolare, è stato dimostrato l’impatto

positivo dell’IBSE sulla c omprensione

profonda dei concetti scientifici, sullo

sviluppo di c ompetenze specifiche e

trasversali, incluse quelle di livello ele-

vato, nel promuovere l’interesse e la mo-

tivazione e nel migliorare i risultati di ap-

prendimento. Tali effetti risultano per-

sistenti nel t empo e s i riferiscono a

tutti gli studenti, compresi quelli con sto-

rie di insuccesso scolastico o con diffi-

coltà di apprendimento, garantendo al

tempo stesso il raggiungimento di livelli

di eccellenza. Alcuni studi hanno inoltre

dimostrato la maggiore efficacia dell’IB-Figura 1

NS5 74-107 percorsi scienze:Layout 1 15-11-2012 16:53 Pagina 94

Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 95

PERCORSI DIDATTICI

SE a confronto con metodologie tradi-

zionali, anche nello sviluppo della lite-

racy scientifica. Nonostante questi dati

positivi e i numerosi sforzi per favorirne

l’implementazione, la diffusione dell’IB-

SE in Europa è ancora piuttosto limitata

e fino ad ora ha coinvolto prevalente-

mente la scuola primaria. Tale situazione

riguarda anche il caso specifico dell’Ita-

lia, dove a parte l’eccezione di alcune re-

altà locali coinvolte in progetti europei,

si registra ancora una scarsa conoscenza

di questo approccio innovativo.

Considerando i modesti risultati conse-

guiti dagli studenti italiani nelle prove

internazionali PISA, sia sul piano delle

competenze, sia su quello dell’interesse,

l’IBSE potrebbe essere un efficace stru-

mento da introdurre nella scuola secon-

daria di secondo grado per invertire tale

tendenza.

Istruzioni per l’usoL’‘IBSE è un approccio didattico indut-

tivo, di matrice costruttivista, orientato

al processo piuttosto che al prodotto. Si

caratterizza come strategia di apprendi-

mento attivo e cooperativo, centrata sul-

lo studente, con l’insegnante che svolge

il ruolo di facilitatore. Sono questi gli

aspetti fondamentali che consentono di

formulare una definizione generale del-

l’IBSE, utile a qualificare tale approccio

dal punto di vista pedagogico-didattico.

L’analisi della denominazione Inquiry

Based Science Education (Educazione

Scientifica Basata sull’Indagine) mette

in luce una significativa dicotomia, che

richiama in modo esplicito i settori della

ricerca e dell’educazione nello specifico

ambito scientifico.

In effetti il termine suggerisce la connes-

sione tra l’attività di indagine alla base

del processo che genera nuove cono-

scenze scientifiche e l’attività di appren-

dimento e di insegnamento delle scienze.

A tal r iguardo, la letteratura di riferi-

mento sottolinea come l’IBSE non sia

propriamente una singola e specifica me-

todologia didattica, ma rappresenti piut-

tosto un approccio multiforme e varie-

gato, che riunisce in sè alcuni elementi

chiave riconducibili alla dicotomia evo-

cata dalla sua denominazione.

Tali elementi costituiscono gli aspetti sa-

lienti di un processo di apprendimento

che simula l’indagine scientifica, fondato

sull’idea che gli studenti possano acqui-

sire conoscenze e competenze scientifi-

che utilizzando le modalità e i percorsi

che guidano gli scienziati nella compren-

sione del mondo naturale.

Nonostante la pluralità dei modi di con-

durre la ricerca scientifica sul piano in-

dividuale e la diversità di approcci che

caratterizzano la r icerca nei di versi

ambiti disciplinari, si possono indivi-

duare alcuni aspetti che solitamente ca-

ratterizzano il processo di ricerca scien-

tifica, assunti dall’IBSE come caratteri-

stiche chiave che qualificano in modo

specifico tale approccio (Fig.2), deline-

andone la seguente definizione opera-

tiva.

La domanda iniziale p er il coinvolgi-

mento degli studenti (engage)

L’IBSE è un processo che coinvolge gli

studenti in una sfida formulata sotto for-

ma di domanda, riferita a fatti e fenome-

ni della realtà naturale.

Tale domanda inziale deve essere scien-

tificamente orientata, cioè prevedere

risposte che derivano da indagini scien-

tifiche dirette o indirette, basate sulla rac-

colta di dati sperimentali; inoltre, non

deve prevedere una risposta univoca, ma

una pluralità di risposte alternative,

ugualmente legittime in quanto riferite

a paradigmi diversi. La «sfida» iniziale

deve essere significativa, riguardare cioè

questioni rilevanti e connesse a contesti

di vita reale e, al tempo stesso, prevedere

risposte «accessibili» agli studenti e ade-

guate al loro livello di sviluppo. Essa si

considera efficace nella misura in cui su-

scita negli studenti il bisogno di cono-

scere, attiva naturalmente il processo di

investigazione ed è in grado di generare

altre domande che alimentano e guidano

la ricerca di spiegazioni.

Figura 2

NS5 74-107 percorsi scienze:Layout 1 15-11-2012 16:53 Pagina 95

Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX96

PERCORSI DIDATTICI

La raccolta di prove (evidence)

La raccolta di e videnze sperimentali

rappresenta il mezzo fondamentale uti-

lizzato dagli studenti, per costruire spie-

gazioni che siano accettabili e significative

dal punto di vista scientifico. I dati spe-

rimentali possono derivare da esperienze

svolte direttamente in laboratorio o sul

campo, da fonti indirette e anche dall’ap-

plicazione di modelli. In tal senso l’IBSE

non comporta necessariamente lo svol-

gimento di attività sperimentali, qualora

questo non fosse possibile per ragioni di-

verse, mentre richiede come condizione

essenziale e irrinunciabile il r icorso a

«prove» per supportare le risposte e le

spiegazioni proposte, coerentemente al

carattere sperimentale della scienza.

La formulazione di spie gazioni (ex-

planation)

Gli studenti for mulano risposte alle

domande di ricerca a partire dalle evi-

denze sperimentali raccolte. La costru-

zione di spiegazioni coinvolge vari pro-

cessi cognitivi, alcuni dei quali pr opri

dell’indagine scientifica (classificar e,

analizzare, inferire, fare previsioni, ecc.),

altri più generali e trasversali (ragionare

in modo logico e pensare criticamente).

Tale attività, pur focalizzandosi sulla co-

struzione di spiegazioni logiche e coeren-

ti rispetto alle prove selezionate, coinvol-

ge anche la creatività e l’immaginazione

degli studenti, tiene conto del rispettivo

background individuale di esperienze e

conoscenze pregresse e include sia osser-

vazioni, sia inferenze, riproducendo in

tal modo la c omplessità del pr ocesso

scientifico.

La valutazione delle spiegazioni (eva-

luation)

Gli studenti val utano le spiegazioni

proposte mettendole in relazione con le

conoscenze scientifiche riguardanti le

questioni affrontate. Il processo prevede

il confronto delle idee messe in campo

dagli studenti, come risultato delle inda-

gini svolte, quelle proposte dall’insegnan-

te e quelle riportate nelle diverse fonti

consultate. Un’attenzione particolare

viene rivolta alle spiegazioni alternative,

che possono derivare dall’applicazione

di analoghe procedure o essere il risultato

di indagini intenzionalmente diversifi-

cate, riferite cioè a modi diversi di affron-

tare lo stesso problema e che proprio per

questo meritano di essere approfondite.

Gli strumenti fondamentali di questa

fase di revisione sono il dialogo e la di-

scussione, costantemente alimentati

dalle domande, il cui ruolo strategico è

finalizzato non solo ad avviare e dirigere

il processo di ricerca, ma anche a guidare

il controllo e la verifica dei risultati ot-

tenuti.

La comunicazione delle spie gazioni

(communication)

Gli studenti presentano gli esiti del loro

processo di ricerca comunicando e giu-

stificando i risultati ottenuti. Questa fase

di condivisione richiama il car attere

intersoggetivo della scienza, che prevede

la comunicazione dei risultati per garan-

tirne la replicazione, il relativo controllo

e l’eventuale utilizzo in nuove domande

di ricerca. La comunicazione degli stu-

denti deve essere chiara, rigorosa e com-

pleta; essa inoltre deve includere una ar-

gomentazione convincente del processo

svolto, mostrando in modo chiaro ed

esplicito la connessione tra le evidenze

sperimentali, le conoscenze scientifiche

esistenti e le spiegazioni proposte.

Oltre la definizione operativaE’ importante sottolineare come gli ele-

menti del processo descritto non siano

da interpretare come una rigida sequenza

di passaggi obbligati, ma piuttosto come

caratteristiche specifiche dell’IBSE che,

a seconda delle particolari condizioni di

contesto, è possibile implementare in va-

rio modo. Considerati globalmente,

questi elementi c hiave conducono gli

studenti a comprendere alcuni aspetti ri-

levanti della scienza, perseguendo il

duplice obiettivo della sperimentazione

e della conoscenza dei processi propri

dell’indagine scientifica.

Al di là della definizione o perativa,

l’aspetto che maggiormente qualifica la

pedagogia dell’IBSE, svelandone la sua

vera essenza, è la riflessione che caratte-

rizza l’intero processo di apprendimento.

Mentre gli studenti conducono le loro

indagini sono continuamente guidati a

riflettere sul processo in corso. Questa al-

ternanza tra il «fare» e il «r iflettere su

quello che si sta facendo», sul «come» e

sul «perchè», permette il raggiungimento

di obiettivi di vario livello: la compren-

sione dei concetti scientifici, lo sviluppo

di competenze e l’acquisizione di signi-

ficati, sviluppando al tempo stesso mo-

tivazione e interesse. In tale prospettiva,

l’IBSE si c onfigura sia c ome attività

pratica-laboratoriale, sia come processo

mentale, qualificandosi anche come at-

tività metacognitiva di livello superiore,

utile ed efficace per comunicare agli stu-

denti la natura della scienza.

In confronto ad altri approcci didattici,

gli elementi che scaturiscono dalla rifles-

sione sul processo rappresentano il va-

lore aggiunto dell’IBSE. In tal senso, ven-

gono ad esempio super ate le atti vità

hands-on o la metodologia dell’imparare

facendo, che pur presentando un indi-

scutibile valore pegadagogico-formativo,

si caratterizzano essenzialmente come at-

tività pratiche. Questa specifica conno-

tazione, se da un lato non esclude la ri-

flessione sulle esperienze, dall’altro non

ne prevede esplicitamente lo sv olgi-

mento, limitando così la possibilità di co-

municare agli studenti la natura della

scienza. In effetti, la ricerca in campo

educativo ha dimostrato che il semplice

coinvolgimento in attività sperimentali

che simulino il processo di ricerca scien-

tifica non è sufficient e a sviluppare in

NS5 74-107 percorsi scienze:Layout 1 15-11-2012 16:53 Pagina 96

Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 97

PERCORSI DIDATTICI

modo implicito l’idea di scienza. Il

raggiungimento di tale ambizioso obiet-

tivo richiede invece l’impegno in un’at-

tività mentale, da svolgere contempo-

raneamente a quella pratica, che prevede

come momento cruciale la riflessione

esplicita sul processo in corso. Dal mo-

mento che la comprensione della natura

della scienza viene indicata in letteratura

come una condizione particolarmente

favorevole allo sviluppo della literacy

scientifica, il valore formativo dell’IBSE

risulta particolarmente rilevante anche

in riferimento a tale possibile risultato.

I livelli dell’IBSENon tutte le «atti vità inquiry» sono

equivalenti: diversi autori descrivono un

continuum di differenti livelli, che oltre

a rappresentare un utile r iferimento

per riconoscere un’autentica «attività in-

quiry», permette anche di determinare

il «grado di inquiry» di una data espe-

rienza di apprendimento. A tal riguardo,

i tipi di tassonomia riportati in lettera-

tura propongono un numero variabile

di livelli di inquiry, ma sostanzialmente

convergono nel criterio di classificazione.

Esso si riferisce al diverso grado di re-

sponsabilità e di autonomia attribuito

agli studenti nel progettare e condurre

le loro indagini, connesso al livello di

«strutturazione» delle attività, predispo-

sto dall’insegnante (Fig.3). Sul piano

operativo risulta discriminante la quan-

tità di informazioni fornite agli studenti,

che si traduce in una variazione signi-

ficativa del grado di complessità delle at-

tività proposte (Fig. 4).

Il modello di classificazione più diffuso

descrive quattro diversi livelli, compresi

tra due estremi: l’ «inquiry confermativo»

e l’ «inquiry aperto».

Figura 3. I quattro diversi livelli di inquiry in relazione al grado di responsabilità degli studenti e/o al livello di guida fornitadall'insegnante (NRC, 2000).

Figura 4. I quattro diversi livelli di inquiry e le informazioni fornite agli studenti(Bell, Smentana & Binns, 2005; Bianchi & Bell, 2008).

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX98

PERCORSI DIDATTICI

Quest’ultimo rappresenta il li vello di

maggiore complessità in termini di ri-

chieste cognitive e gestione del processo.

Nell’ «inquiry aperto» l’insegnante deve

controllare un percorso imprevisto e im-

prevedibile, essendo completamente

aperto all’iniziativa degli studenti, i

quali scelgono la domanda di ricerca e

progettano e conducono le loro indagini

in ogni fase.

Nonostante l’elevato grado di autonomia

e di responsabilità affidato agli studenti,

rimane comunque cruciale il ruolo del-

l’insegnante, al quale si richiede di for-

nire un adeguato supporto per facilitare

il processo diretto dagli studenti. Per con-

tro, nell’inquiry di livello più basso la re-

sponsabilità del processo è completa-

mente affidata al docente, il quale dirige

ogni fase dell’attività, fornendo tutte le

informazioni necessarie in tal senso.

Nei livelli intermedi di «inquiry struttu-

rato» e «inquiry guidato» le attività pre-

sentano un grado di strutturazione pro-

gressivamente decrescente, nel senso

che nel primo caso è l’insegnante che for-

nisce sia la domanda di ricerca, sia la pro-

cedura per la sol uzione, lasciando agli

studenti il compito di formulare spiega-

zioni sulla base delle indicazioni fornite,

mentre nell’inquiry guidato sono g li

studenti a scegliere il procedimento per

formulare le risposte alla domanda di ri-

cerca, in questo caso posta dall’insegnan-

te.

Rispetto al possibile repertorio di attività

inquiry si dovrebbe dare agli studenti

l’opportunità di partecipare ad esperien-

ze riferite a ciascuno dei diversi livelli. In

effetti, il piano ideale per un’efficace im-

plementazione dell’IBSE pr evede un

percorso di graduale passaggio tra attività

con un crescente livello di complessità,

tenendo conto che lo sviluppo di abilità

inquiry richiede tempo sia per gli studen-

ti, sia per gli insegnanti. Ovviamente la

pianificazione di tale percorso è affidata

all’insegnante che deve valutarne i modi

e i tempi più opportuni, in base alle spe-

cifiche condizioni di contesto.

Talvolta l’approccio basato sull’inquiry

è classificato anche come «full o partial»

a seconda della presenza completa o par-

ziale dei cinque elementi chiave indicati

nella definizione operativa (engage, evi-

dence, explanation, evaluation, commu-

nication).

Tendenzialmente tutte le possibili varia-

zioni e gli eventuali adattamenti sono ac-

cettabili, purchè l’esperienza di appren-

dimento sia centrata su una domanda di

ricerca che prevede risposte basate su

evidenze sperimentali (non importa se

acquisite in modo diretto o indiretto),

e che le attività siano sempre accompa-

gnate da una significativa riflessione sul

processo svolto.

Maria Angela Fontechiari,Docente di Scienze Naturali, Parma

Scuola Internazionale di Dottorato, Universi-tà di Camerino

BIBLIOGRAFIA

R.L. Bell, L. Smentana, I. Binns, Simplifying Inquiry Instruction, in «The Science Teacher», 72 (7), 2005, pp. 30-34.P. Brickman, C. Gormally, N. Armstrong, B. Hallar, Effects of Inquiry-based Learning on Students' Science Literacy Skills and Confi-dence, in «International Journal for Scholarship of Teaching and Learning», 3 (2), 2009, pp. 1-22.W. Harlen, J. Allende, Report of the Working Group on Teacher Professional Development in Pre-Secondary IBSE. Fundacion para Estu-dios Biomedicos Avanzados, Facultad de Medicina, University of Chile, 2006.L.B. Flick, N.G. Lederman, Scientific Inquiry And Nature of Science, Dordrecht, The Netherlands: Springer, 2006.H.L. Gibson, C. Chase, Longitudinal Impact of an Inquiry-Based Science Program on Middle School Students' Attitude Toward Science,in «Wiley Periodicals», Inc. Sci Ed 89, 2002, pp.693-705.National Research Council, Inquiry and the National Science Education Standards: A Guide for Teaching and Learning, DC: NationalAcademic Press, Washington 2000.National Research Council, National Science Education Standards, DC: National Academic Press, Washington 1996.M. Rocard, et al. Science Education Now: A Renewed Pedagogy for the Future of Europe. EC Directorate for Research (Science, Eco-nomy and Society), Brussels 2007.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 99

PERCORSI DIDATTICI

Si è voluto far credere che la Pianura

Padana, per la sua apparente piat-

tezza, non fosse zona sismica. In

realtà, sepolta sotto la metà S delle allu-

vioni del Po c’è metà della catena appen-

ninica ancora in crescita. Geologi, geo-

fisici e storici fin dagli anni 1970 hanno

rinfrescato la memoria dei terremoti sto-

rici e cartografato le ragioni geologiche

di questa sismicità della pianura.

Peccato che i progettisti di opere civili,

segnatamente capannoni, le abbiano

ignorate. Ora bisogna investire in rico-

struzione, mitigazione pr eventiva, e

soprattutto educazione a una n uova

mentalità.

«Ma quella per noi non era una zona si-

smica!» è stato il ritornello uscito più vol-

te dalla bocca di personaggi chiave,

qualificati spesso dal titolo di ingegnere,

nei giorni caldi del terremoto e in quelli

della valutazione fredda e dur a dei

morti, dei danni e del disastro. «Ma quel-

la era zona dichiarata sismica solo dal

2003!». Questo ripeteva ancora a due

mesi dal sisma il responsabile regionale

di Confindustria, ingegnere.

Che l’Italia sia sempre stata dominata da

avvocati, valenti o azzeccagarbugli, sta-

tisti o capitani d’industria, lo sapevamo.

Ma che una classe potente e un ordine

professionale pigliatutto, come quello de-

gli Ingegneri, abbia buttato alle ortiche

la talare di una rigorosa scienza speri-

mentale e saggi principi costruttivi, pur

di galleggiare nella perpetua competizio- Fig. 1 – Mappa della pericolosità sismica d’Italia (da INGV 2004).

Non fidarsi delle apparenze: una lezione dal terremoto emilianoGian Battista Vai

IL TERREMOTO EMILIANO TRA GLI STUDI DEGLI ESPERTI E LA VOCE DEI MEZZI DI COMUNICAZIONE

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX100

PERCORSI DIDATTICI

ne coi legulei, il terremoto ha messo sot-

to gli occhi di tutti. Quei capannoni mo-

derni a semplice gravità, abbattuti come

fuscelli, in un paese come l’Italia che ha

la registrazione storica più completa al

mondo dei sismi deg li ultimi 2000

anni, sono uno scandalo. Come fu uno

scandalo che il n uovo governo pie-

montese dell’Italia unita 150 anni fa

abrogasse le legislazioni borbonica e pa-

palina già avanzate per quei tempi e ap-

plicate nella parte più sismica della pe-

nisola. Il Piemonte non ne disponeva,

per essere fortunatamente quasi immu-

ne da sismi, e l’Italia per legge veniva pri-

vata della memoria (Guidoboni & Va-

lensise 2011). Purtroppo, anche gli ita-

liani, villici o notabili non importa, per

natura e cultura non hanno coltivato

granché la memoria di quel passato do-

loroso, sublimandola di preferenza nella

poesia e nel folclore religioso.

Vediamo allora perché le giustificazioni

di cui sopra sono infondate e, per certi

aspetti, impudenti, come alcuni inge-

gneri hanno riconosciuto. Alle loro re-

sponsabilità, però, vanno r ichiamate

molte altre categorie, tecniche, politiche,

scolastiche, religiose, e noi tutti cittadini,

che soli in definitiva possiamo diventare

la matrice di una nuova mentalità: im-

parare a convivere con i terremoti, pre-

venendone gli effetti.

La classificazione sismica delterritorioNel 1570 il disast roso terremoto di

Ferrara induceva un eminente studioso,

Pirro Ligorio, a formulare le prime in-

dicazioni al mondo su come progettare

le città e le abitazioni per cautelarsi dal

ripetersi dei terremoti. Era nata la pre-

venzione sismica basata sull’osservazio-

ne che veniva storicizzata classificando

come sismica quella città. Stato della

Chiesa e Regno delle Due Sicilie fecero

tesoro di quell’esperienza, elaborarono

una normativa antisismica e dedicarono

risorse alla ricostruzione dopo i terremo-

ti che colpivano i loro territori. La legi-

slazione piemontese, trasferita all’Italia

con l’unità, non prevedeva norme anti-

sismiche. Da allora in Italia verranno

considerati sismici solo i comuni colpiti

da un evento disastroso a partire dai pri-

mi del Novecento (effetto del terremoto

di Messina/Reggio Calabria 1908). Per

farsi un’idea, in Emilia-Romagna prima

del 1981 i comuni classificati sismici era-

no 12, per salire a 89 dopo il 1981 (e es-

serlo tutti oggi).

Il punto di svolta fu il duplice terremoto

del Friuli del 1976 (M 6.6 e 6.1; intensità

max MCS X). Mille morti e ingenti dan-

ni in una regione allora depressa ma pie-

na di memorie della Grande Guerra fe-

rirono il Paese che era in pieno sviluppo.

L’Italia aveva riformato l’università, fi-

nanziato gli enti di ricerca, si era dotata

finalmente di una carta geologica di base

dell’intero Paese a un sec olo dalla sua

unità politica. Era nata una nuova classe

tecnica, i geologi (e i geofisici), compe-

titiva a livello internazionale e pronta a

integrare le competenze lacunose degli

ingegneri. Lo studio dei t erremoti del

Friuli e dell’Irpinia (1980, tremila morti,

M 6.7; intensità max X) comportarono

la costruzione di una rete di sorveglianza

dei terremoti in tempo reale estesa al

Paese e al Mediterraneo. Il patrimonio

di indagini geofisiche commerciali (in-

dustria petrolifera) e dedicate venne usa-

to per tracciare in pr ofondità nella

crosta le faglie generatrici dei terremoti

che i geologi individuano in superficie.

Gli enormi patrimoni degli archivi sto-

rici-artistici del Paese vennero sfruttati

per ricostruire pericolosità e ricorrenza

dei sismi italiani, fornendo agli studiosi

del mondo il più ricco e preciso catalogo

sismico di una regione chiave negli ul-

timi 2000 anni.

Il risultato pratico di quest o sforzo

scientifico-tecnologico, in cui sono stati

impegnati per un decennio alcune mi-

gliaia di giovani geologi, geofisici, e in-

gegneri, è stata la formulazione di carte

sintetiche di pericolosità sismica dell’in-

tero Paese. Su questa base, a partire dagli

Fig. 2 – Struttura geologica del nord Italia togliendo dalla Pianura Padana le allu-vioni quaternarie e i depositi marini del Pliocene e Pleistocene. Ne risalta la catenaappenninica sepolta a S del Po e la prominenza delle dorsali di Ferrara e Miran-dola (subito sotto il tondo nero di ancoraggio del plastico) (da Vai 2009, p. 111).

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 101

PERCORSI DIDATTICI

anni 1980, a var ie riprese, sono stat e

avanzate alle autorità competenti propo-

ste di classificazione sismica, per cui oggi

quasi l’intero Paese è classificato sismico

(con aree a diversa pericolosità), ad ec-

cezione della Sardegna, parti della Puglia,

e poche altre zone (Fig. 1) (INGV 2004).

Veniva dato avvio anche a studi di

micro zonazione sismica in cui valutare

localmente gli effetti del sito (tipo di ter-

reno e substrato, morfologia, ecc.) in ter-

mini di aggravanti o attenuanti della pe-

ricolosità regionale stimata.

Ma far prendere coscienza ad una popo-

lazione che deve adattarsi a pr ivazioni

perché ha dimenticato di essere in po-

tenziale pericolo non è opera agevole. E

tanto meno lo è farlo digerire a politici,

imprenditori, e dirigenti. La mia piccola

esperienza in quegli anni è stata penosa.

Blandizie, minacce, suppliche, diffidenza,

di tutto pur di ritardare un decreto o mi-

nimizzare parametri e valutazioni rela-

tive al rischio sismico di uno o più co-

muni. La r esistenza a pr endere atto

della «oggettività» scientifica ha avuto

certo effetti al ribasso sugli iter finali dei

vari stadi della classificazione. Questo at-

teggiamento chiarisce anche la ragione

dei tragici crolli di edifici recenti in co-

muni già classificati sismici da molto

tempo come l’Aquila. Su questo piano

l’Italia e gli italiani hanno evidentemente

un ritardo culturale e educativo dannoso

e tragico che solo la scuola, fin dalla pri-

ma infanzia, può colmare.

Classificazione e pericolositàLa pericolosità sismica di un sito dipende

dalle caratteristiche geologiche della re-

gione in cui si trova (soprattutto numero

e dimensioni delle faglie attive nel sot-

tosuolo) e da quelle litologiche e mor-

fologiche del sito stesso. Così la perico-

losità è descritta abbastanza bene (1) dal-

la magnitudo massima ammissib ile

(confrontata con quella st orica dei

sismi precedenti per avere un riscontro

sperimentale e stimare un tempo medio

di ricorrenza), e (2) dag li effetti sit o

(amplificazione o attenuazione). Non

tutti i parametri coinvolti si possono

misurare con alta preci-

sione. Alcuni possono es-

sere solo stimati o ap-

prossimati. Altri sono

solo probabilistici (1 ter-

remoto ogni 100 oppure

ogni 1000 anni). Ma

quando una comunità

scientifica nazionale o so-

vranazionale concorda

fino al punto di pubblica-

re carte di per icolosità,

tutti sono tenuti a ricono-

scere oggettività scientifi-

ca a queg li elaborati. La

classificazione formale

che ufficializza i risultati

degli studi e ne der iva

prescrizioni obbligatorie può

intervenire anche a distanza

di tempo, per ragioni varie

(inerzia, opportunità, rischio

calcolato). Questo però non esime il

pubblico e gli operatori dal prendere

coscienza dei r isultati, ben di vulgati,

della ricerca scientifica. Basti pensare

all’amianto. Se la sua pericolosità, de-

nunciata dalla buona scienza decenni

prima dell’adeguamento normativo,

fosse stata ammessa da imprenditori e

sindacati, si sarebbero evitati migliaia

di morti. Leggi e norme, quando for-

mulate, vanno seguite. Ma la loro man-

canza non è sinonimo di mancanza di

problemi e non autorizza a trascurare

le acquisizioni scientifiche.

Già negli anni 1980 i geologi concorda-

vano che l’Appennino Settentrionale e

la Pianura Padana a S del Po sui piani

storico e strutturale avessero sismicità

crescente da W (M 4.5–5.5) a E (M 5–

6) con picchi in Garfagnana, Mugello,

alto Forlivese, Riminese, Ferrarese

(Elmi & Zecchi 1984; Achilli et al.

1990; Boschi et al. 1997; Valensise &

Pantosti 2001) tutti giustificati da faglie

attive delle dimensioni fino a qualche

decina di km. Per la fascia ferrarese ve-

Fig. 3 – Carta di pericolosità sismica d’Italia (CNR 1981)e Numero di effetti di VIII grado risentiti in Italia (Boschi et al. 1996), particolari.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX102

PERCORSI DIDATTICI

niva prevista una intensità max MCS

fino al grado IX-X (si noti che l’inten-

sità max cumulata del recente terremo-

to emiliano è stata dell’ VIII grado

MCS). A S del Po e sotto le sue alluvio-

ni, infatti, si era scoperta una vera e pro-

pria catena montuosa sepolta, quasi la

metà dell’Appennino Settentrionale,

che mostrava segni di essere ancora in

crescita (Fig. 2). La pericolosità sismica

che ne derivava era però inferiore a

quella del Friuli e ancor minore di quel-

la dell’Appennino Meridionale, Cala-

bria e Sicilia orientale (Fig. 3). Di fatto

poi la z ona del t erremoto emiliano

dal 2003 era legalmente classificata. E

come tale era considerata da almeno 20

anni prima, come appare da pubblica-

zioni scientifiche (Fig. 4) e dalle relazio-

ni geologiche dei piani regolatori di co-

muni della zona. Chi si vuole trincerare

dietro la giustificazione normativa sa di

mentire, per non do ver confessare la

propria ignoranza o mancata conside-

razione dei risultati scientifici.

Pericolosità e vulnerabilitàDiversamente dalla gran parte dei ter-

remoti italiani recenti questo della pia-

nura emiliana è stretto parente di quelli

del Friuli 1976. Stesso il movimento oriz-

zontale avanti e indiet ro avvertito a

Bologna, secondo la direttrice NS, che è

la direttrice di moto delle strutture del-

l’Appennino e delle Alpi Friulane, con

spostamento a N del pr imo e a S delle

seconde. E’ questa la risposta lungo

l’asse di massima c ompressione NS,

originato dalla spinta dell’Africa contro

l’Eurasia. Il movimento è contrapposto

perché le faglie appenniniche immergo-

no verso S e quelle alpine verso N (Fig.

3b). Ciò è stato confermato dalla solu-

zione focale delle scosse maggiori, tutte

in compressione pura NS, come in

Friuli. L’unica differenza è stata la ma-

gnitudo, là assai maggiore per le faglie

più lunghe, pronte a liberare più energia

e a provocare 1000 mor ti contro i 27

dell’Emilia. Ma per sc osse di questa

magnitudo in California e in Giappone

non ci sarebbero state vittime e i danni

sarebbero stati minori. Perché? Qui su-

bentra il concetto di vulnerabilità che,

a parità di magnitudo e altre condizioni,

fa la differenza. Costruzioni antisismiche

(basse, a intelaiatura metallica, in mate-

riali leggeri, in buon cemento armato,

elastiche, su cuscinetti assorbenti, ecc.)

saranno poco vulnerabili. Abitati in

sasso e malta, centri storici, edifici mo-

numentali antichi privi di tiranti metal-

lici, sopraelevazioni, ecc., cioè la situa-

zione comune in Italia) saranno molto

vulnerabili. La vulnerabilità può essere

mitigata dalla Provvidenza o dalla buona

sorte. Se la prima scossa di Domenica 20

Maggio fosse avvenuta alle 10 del mat-

tino anziché alle 4 di nott e, con le

Prime Comunioni ci sar ebbero stati

centinaia di morti. Non si deve tentare

Dio. I milioni di italiani che vanno in

chiesa meritano di avere chiese sicure,

non solo quelle nuove, ma anche quelle

antiche e rurali, vero simbolo dell’iden-

tità delle popolazioni diffuse nel terri-

torio. Anche la precarietà sismica degli

altri edifici pubblici (scuole, ospedali,

municipi, ecc.) non è ammissibile. Si

sono investiti patrimoni nell’adegua-

mento alla normativa antincendio. Non

meno e con più urgenza andava e va fat-

to per un adeguament o antisismico

(con vantaggi assai maggiori).

È criminale invece quanto è avvenuto

con i capannoni indust riali. Nessun

ancoraggio fra pali e travi. Nessun ap-

poggio a incastro. Appoggio bruto,

piano e liscio, a semplice gravità. «La tra-

ve è tanto pesante che nessuno la spo-

sterà, neppure il vento», era il retro pen-

siero dei progettisti. Eppure il terremoto

ne ha spostate centinaia, facendole crol-

lare come castelli di carte, e provocando

la maggior parte dei morti. Qui la vul-

nerabilità e le vittime le hanno provocate

Fig. 4 – (a) Intensità MCS massima prevista in Emilia-Romagna (da Elmi & Zecchi1984) e (b) sezione geologica schematica attraverso l’area del terremoto emilianoe friulano (da Castellarin & Vai 1986). Si noti che metà degli accavallamenti ap-penninici sono sepolti dalle alluvioni della Pianura Padana a S del Po (sinistra).

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 103

PERCORSI DIDATTICI

i progettisti, assolutamente digiuni di

ogni cautela sismica, e anche carenti di

buone norme statiche e cinematiche del

costruire. Sarebbe come pretendere che

un ponteggio tubolare resti in piedi sen-

za dadi e senza flange. E’ bastata una

oscillazione orizzontale delle cime dei

pilastri per 20 cm a disar cionare le

travi e a farle crollare miseramente. Non

c’era neppure l’attrito a mitigar e lo

scorrimento fra le due superfici piane e

lisce al contatto. Speculazioni sulla sicu-

rezza, massicci ribassi d’asta, concorren-

za sleale, sete di guadagno, tutte concau-

se di una mentalità in cui il lavoro a re-

gola d’arte e l’affidabilità non sono più

obiettivi e tanto meno vanti. Mentalità

in cui solo costi e guadagni vengono

conteggiati, i rischi rimossi. Il tragico è

che di capannoni c ostruiti in quel

modo in Pianura Padana ce ne sono mi-

gliaia (compresi molti centri commer-

ciali). Rappresentano tutti bombe a

orologeria, pronte a crollare al prossimo

terremoto. E’ ovvio che dovranno essere

risanati e messi in sicurezza, anche con

il contributo e il lavoro delle imprese co-

struttrici e committenti, e con urgenza

seconda solo a quella della zona già col-

pita. Ma anche l’Ordine degli Ingegneri

e gli altri ordini tecnici interessati do-

vranno fare un serio esame di coscienza,

come autorevoli ingegneri hanno subito

sottolineato, a cominciare da una più at-

tenta e rispettosa considerazione dei la-

vori dei geologi e delle loro indicazioni,

rinunciando alla nef asta abitudine e

prassi di tanti ingegneri e architetti di

volersi sostituire in tutto e per tutto al

geologo.

Un salto di serietàQuesto dei capannoni sbriciolati non è

che uno dei troppi esempi di scarsa se-

rietà del Paese, frutto della «furbizia»ß

dei privati (committenti e esecutori) e

del controllo pubblico carente, e, quan-

do presente, inefficace perché burocra-

tico. Si pensi solo alla Casa dello Studen-

te all’Aquila, o alla scuola di S. Giuliano

di Puglia. Non se ne esce senza un’opera

di educazione sistematica e psicologi-

camente cruda ai rischi geologici, a co-

minciare da ogni ordine di scuola. Oc-

corre anche una pubblicità intelligente,

anche martellante, che promuova una

crescita scientifica del popolo, calibrata

sulle esigenze naturali del Paese.

Con tutto il rispetto per i cani, anche in

concomitanza di un terremoto che sta

avendo conseguenze drammatiche su

centinaia di mig liaia di uomini e la

perdita di 2 punti percentuali sul PIL del

Paese, in TV, di ogni sorta, si dedica più

spazio educativo agli amici dell’uomo

che agli uomini, terremotati in atto o in

potenza. Sempre in TV, la divulgazione

scientifica è per oltre il 90% dedicata a

medicina e salute. Che poi di terremoti,

eruzioni, frane si possa facilmente mo-

rire anzitempo, è trascurabile.

E così anche il Ferrarese diventa «area

non sismica», o, al massimo, «trascura-

bilmente sismica». Occorre cambiare re-

gistro e far e un salt o di ser ietà. Sono

molto curioso di vedere cosa capiterà in

Friuli, di cui si sta avvicinando il tempo

di ritorno sismico. È stato quello il mi-

glior esempio di ricostruzione in Italia

a seguito del terremoto del 1976, da tutti

i punti di vista (funzionale, economico,

storico, artistico e culturale). Se si dimo-

strerà anche efficace alla prova del ter-

remoto successivo, avremo finalmente

un caso esemplare di virtù italiche da

proporre e su cui fare scuola.

Gian Battista VaiMuseo Geologico Giovanni Capellini,

Alma Mater StudiorumUniversità di Bologna

BIBLIOGRAFIA

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«La comunità scientifica italiana, attornoalla metà dell’Ottocento, non era tra le piùimportanti del mondo , ...Tuttavia, purentro limiti complessivi angusti, gli studi dielettricità e magnetismo godettero da noi diuna particolare popolarità. All’inizio del se-colo vi era stata la celeberrima disputa traVolta e Galvani ….., e questa gloria patriaaveva orientato la maggior parte dei non nu-merosi cultori delle s cienze fisiche dellaPenisola verso i fenomeni elettrici e magne-tici».

Ci è sembrato interessante iniziare

questo breve scritto su Galileo

Ferraris, uno degli scienziati che

ha dato più lustro all’Italia nei primi cin-

quant’anni dopo l’unità, con questa ci-

tazione1 che ci pare definisca bene per

quali fortunate circostanze alcuni nomi

italiani (Volta, Galvani, Pacinotti, Ferra-

ris, Righi, Marconi) abbiano lasciato una

traccia tanto importante nella scienza

elettrica otto-novecentesca.

Quanta parte abbia avuto nella vicenda

di Ferraris il clima politico che fece se-

guito all’unità politica del paese non è

possibile analizzarlo in un breve articolo

come questo. Certamente la classe sociale

che sostenne il Risorgimento era media-

mente più sensibile ai temi della scienza,

in particolare della scienza applicata, e

dell’industria di quanto non lo fossero

stati i ceti prima dominanti. Un ruolo

importante ebbe la riforma dell’istruzio-

ne operata dalla Legge Casati (novembre

1859), la quale per la parte tecno-scien-

tifica prevedeva fra l’altro la formazione

a Torino di una Scuola d’Applicazione,

che doveva superare il precedente Regio

Istituto Tecnico. Questa scuola cominciò

a funzionare nel 1861 e ad essa si aggiun-

se l’anno successivo, sempre a Torino, il

Museo Industriale Italiano, nato per

l’iniziativa e con il sostegno degli ambien-

ti industriali torinesi. A dispetto del suo

nome si trattava anche in questo caso di

un istituto tecnico superiore, ispirato alla

esperienza del Kensington Museum di

Londra, che fra i suoi compiti aveva quel-

lo di impar tire agli allievi ingegneri

alcuni degli insegnamenti tecnologici

fondamentali del loro corso di studi2.

Galileo Ferraris si formò a Torino proprio

negli anni successivi a questa riforma, fre-

quentando prima il biennio propedeu-

tico presso la Regia Università e poi la

Scuola d’Applicazione, dove ebbe come

insegnante di fisica tecnica il lombardo

Giovanni Codazza, del quale seguì le

orme divenendo, subito dopo la laurea,

a soli 22 anni, assistente alla cattedra di

«fisica tecnologica» del Museo Industria-

le. L’interesse di Galileo F erraris per

l’energia elettrica nacque gradualmente,

ma già l’argomento della sua t esi di

laurea, che fu stampata come monografia

nel 1869, indicava una sua grande atten-

Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX104

PERCORSI DIDATTICI

1. Si veda lo scritto di Roberto Maiocchi citato in biblio-grafia, p.155.2. Una seconda Scuola di Applicazione venne fondata aMilano nel 1863. Il quadro delle prime facoltà di ingegne-ria del nuovo stato italiano venne completato dalla fon-dazione della Scuola Palermitana di Ingegneria e dallariorganizzazione di quella già esist ente a Napoli (en-trambe nel 1866). Nel 1870, nacquero poi le scuole di in-gegneria di Padova e di Roma. Nel frattempo in varie cittàsorsero anche numerosi istituti tecnici secondari (eranouna settantina al termine del primo decennio unitario).

La Scuola d’Applicazione e il Museo Industriale sar eb-bero confluite a formare, nel 1906, il Politecnico di Torino.3. Si trattava di sistemi basati sulla trasmissione, nel rag-gio di qualche chilometro, dell’energia meccanica, me-diante cavi di acciaio . Hirn a veva realizzato diversesignificative applicazioni della sua idea, in particolare allecascate del Reno a Sciaffusa. L’idea era stata presa in con-siderazione anche per azionare le perforatrici della galle-ria ferroviaria del Frejus, che fu realizzata fra il 1857 e il1871, ma poi gli era stato preferito il sistema ad aria com-pressa.

Galileo Ferraris e i primordi dell’elettrotecnica italianaGianluca Lapini

GLI ULTIMI DUE DECENNI DELL’OTTOCENTO VIDERO IL GIUNGERE

A MATURITÀ E L’AFFERMARSI A LIVELLO INDUSTRIALE

DELLA SCIENZA E DELLA TECNOLOGIA DEI FENOMENI ELETTRICI, CHE TANTO AVREBBERO CONTRIBUITO A RIVOLUZIONARE

IL MODO DI VIVERE, LAVORARE E DI PRODURRE DEL NOVECENTO. SUL FRONTE AVANZANTE DI QUESTA NUOVA TECNOLOGIA, IL PROFESSOR GALILEO FERRARIS, CON I SUOI STUDI

E CON LA SUA INVENZIONE DEL CAMPO MAGNETICO ROTANTE, FU UNA GUIDA ILLUSTRE E RICONOSCIUTA, NON SOLO IN ITALIA, MA ANCHE IN CAMPO INTERNAZIONALE.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 105

PERCORSI DIDATTICI

zione ai problemi pratici dell’industria e

della moderna società civile, in particolare

al problema del trasporto dell’energia, al

quale avrebbe in seguito dedicato molta

della sua attività di docente e ricercatore.

La tesi consisteva infatti in una accurata

analisi dei vantaggi e limiti, dei sistemi

di trasmissione telodinamica3 dell’ener-

gia sviluppati dall’ingegnere alsaziano

Ferdinand Hirn, che in quegli anni ave-

vano ricevuto notevole interesse da

parte del mondo tecno-scientifico. Tre

anni più tardi, quando divenne dottore

aggregato alla facoltà di scienze fisiche,

matematiche e naturali della Regia Uni-

versità di Torino, la sua dissertazione ini-

ziale fu una estesa monografia sulla

teoria matematica della propagazione

dell’elettricità nei solidi, ma poi per

quasi un decennio i suoi interessi scien-

tifici si rivolsero non solo all’elettrologia

(con un forte interesse alle applicazioni

pratiche al telefono), ma anche all’ottica

geometrica ed alla tecnologia del calore;

quest’ultimi argomenti erano in effetti

organici al ruolo di professore di fisica

tecnologica che egli ricoprì, a partire dal

1877, presso il Museo Industriale, suc-

cedendo al suo maestro G. Codazza. L’in-

teresse del prof. Ferraris per l’elettricità

crebbe notevolmente dopo che egli ebbe

l’occasione di partecipare, come delegato

ufficiale del governo italiano, alla prima

esposizione ed al primo congresso inter-

nazionale degli «elettricisti» (come allora

si chiamavano i cultori di questa mate-

ria), che si tenne a Parigi nella primavera

del 1881. I contatti internazionali che

ebbe modo di iniziare in quell’occasione

e di ampliare nei due anni successivi, par-

tecipando ad altri simili eventi ancora a

Parigi ed a Vienna, furono per lui pre-

ziosissimi per organizzar e la sezione

internazionale elettrica della Esposizione

Generale Italiana di Torino del 1884 (fu

quella che lasciò in eredità il parco del

Valentino e il suo «finto» castello medie-

vale). Ma soprattutto, in quei due-t re

anni, Ferraris cominciò ad orientare la

sua attività di ricercatore verso uno dei

problemi che avrebbe profondamente

condizionato lo sviluppo dell’elettrotec-

nica. In effetti mentre l’utilizzo civile ed

industriale dell’elettricità aveva in quegli

anni cominciato a dare le prime dimo-

strazioni di fattibilità, in particolare ad

opera di Thomas Edison (Edison realizzò

la sua prima centrale ed i suoi primi si-

stmei di illuminazione elettrica a New

York nel 1882; il prof. Giuseppe Colom-

bo avviò la prima centrale europea, si-

stema Edison, a Milano, nel 1883) non

avrebbe potuto fornire la soluzione più

efficiente al trasporto dell’energia elet-

trica a distanze significative. In questo

senso Ferraris aveva iniziato ad interes-

sarsi alle correnti alternate ed ai trasfor-

matori elettrici, che pareva potessero of-

frire una soluzione efficiente al trasporto

a distanza. I trasformatori, che inizial-

mente venivano chiamati «generatori se-

condari», erano peraltro una invenzione

recentissima, presentata per la prima vol-

ta all’esposizione di Parigi del 1881 dal

tecnico francese Lucien Gaulard, che si

era poi associat o con l’inglese John

Gibbs: sui loro principi di funzionamen-

to si conosceva ancora poco e per la loro

costruzione venivano usati metodi del

tutto empirici. Ferraris compì sui trasfor-

matori delle r icerche sistematiche, sia

teoriche che sperimentali, pubblicando

fra il 1885 e il 1887 alcune fra le prime

memorie scientifiche su quest o argo-

mento4, ma prima ancora di far ciò, die-

de un contributo fondamentale alla or-

ganizzazione di una dimost razione di

trasporto di energia elettrica a distanza,

basata sui trasformatori, proprio in

concomitanza della Esposizione di To-

rino, alla quale abbiamo sopra accennato.

In quell’occasione fu appositament e

stesa una linea elettrica, fra i padiglioni

dell’esposizione e la cittadina di Lanzo,

situata a una quarantina di km distanza

(in gran parte appoggiandosi ai pali te-

legrafici della ferrovia Torino-Lanzo).

Così fu possibile illuminare la stazione

di Lanzo, mediante due trasformatori

forniti da Galuard, utilizzando la corren-

te aternata monofase prodotta da un ge-

neratore azionato da una macchina a va-

pore, elvata di tensione a Torino, e poi

ritrasformata in bassa tensione a Lanzo.

Se i trasformatori furono lo spunto dal

quale Ferraris iniziò ad occuparsi di cor-

renti alternate, i suoi precedenti studi di

ottica furono lo spunto dal quale gli ba-

lenò l’idea, del «campo magnetico rotan-

te» e del motore elettrico asincrono, per

i quali ebbe in seguito fama mondiale e

imperitura. Dagli studi di ottica, ma an-

che dalla sua grande familiarità con le

equazioni di Maxwell che avevano acco-

munato i fenomeni ottici ed elettroma-

gnetici, gli era infatti not o come la

combinazione di due moti armonici

semplici e uguali (come due onde lumi-

Generatore secondario di Gaulard e Gibbs.

4. G. Ferraris, Ricerche teoriche e sperimentali sul generatoresecondario di Gaulard e Gibbs, in Memorie della Regia Ac-cademia delle Scienze di Torino, 11 gennaio 1885; G. Ferra-ris, Sulla differenza di fase delle c orrenti sul ritar dodell’induzione e sulla dissipazione di energia nei trasforma-tori, in Memorie della Regia Accademia delle Scienze di To-rino, 4 dicembre 1887.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX106

PERCORSI DIDATTICI

nose polarizzate), ma sfasate fra di loro

di un quarto di periodo, producesse un

moto circolare. Ebbe quindi l’idea, nel-

l’estate del 1885, che qualcosa di analogo

si potesse ottenere con due campi ma-

gnetici oscillanti, sfasati fra di loro.

Costruì dunque nel laboratorio del Mu-

seo Industriale un primissimo apparec-

chietto dimostrativo costituito da due

bobine elettromagnetiche poste a 90°

l’una dall’altra, che venivano alimentate

con due identic he correnti alternate

opportunamente sfasate fra di loro tra-

mite il passaggio in un trasformatore di

Gaulard; al centro di questo apparecchio

un cilindretto di rame, sospeso con un

filo si metteva in rotazione, come Ferraris

aveva intuito che sarebbe successo.

Era il primo rudimentale prototipo di al-

cuni piccoli motori, più perfezionati, che

egli realizzò nei mesi successivi, e sui qua-

li compì sistematici studi e misure, ca-

ratterizzandone il comportamento in ter-

mini di velocità, potenza e rendimento.

Si trattava di piccoli apparecchi da labo-

ratorio (a chi gli chiedeva quanti caval-

li-vapore di potenza avessero Ferraris ri-

spondeva scherzosamente che la potenza

era di «1/32 di coniglio vapore»), ma per-

fettamente in grado di dimostrare il prin-

cipio di funzionamento e le caratteristi-

che costruttive fondamentali del motore

asincrono a c orrente alternata, cioè

della macchina motrice di base che

allora ancora mancava, per far diventare

la produzione di corrente elettrica alter-

nata (con gli alternatori) e la sua trasmis-

sione a distanza (con i trasformatori) il

sistema vincente per la produzione e di-

stribuzione dell’energia elettrica5. Pur-

troppo, il Prof. Ferraris non pubblicò' su-

bito i risultati di questi suoi studi ed

esperimenti, che comparvero sotto for-

ma di memoria scientifica solamente nel

marzo del 1888 6. Questo ritardo nella

pubblicazione dei risultati del suo lavoro

fu all’origine di una polemica infinita

sulla progenitura dell’idea, che si sarebbe

in seguito scatenata con l’inventore Ni-

kola Tesla, di origini croate, ma trapian-

tato in America, il quale ottenne fra l’au-

tunno del 1887 e la primavera del 1888,

una serie di br evetti sui c oncetti di

campo magnetico rotante e su un mo-

tore asincrono molto simili a quelli

concepiti da Ferraris. Sarebbe troppo

lungo riferire sugli sviluppi di questa vi-

cenda7, dalla quale alcuni autori hanno

voluto trarre la conclusione che Ferraris

fosse una mente geniale, ma poco attenta

agli sviluppi pratici ed industriali della

scienza. In questo senso si trova spesso

citata una frase da lui scritta qualche

anno più tardi, quando la tecnologia del

trasporto a distanza della energia elet-

trica in corrente alternata ebbe una più

completa e convincente dimostrazione

durante l’esposizione c he si t enne a

Francoforte nell’agosto del 18918:

«… senza che io me ne sia occupato ho

visto a Francoforte che tutti attribuisco-

no a me la pr ima idea, il che mi basta.

Gli altri facciano pure i denari, a me ba-

sta quel che mi spetta: il nome».

In effetti non c ’è dubbio che nell’am-

biente tecno-scientifico nazionale e in-

ternazionale il professor Ferraris si fosse

creato una altissima reputazione.

Medaglia commemorativadella AEI nel cinquantenariodella fondazione. Sul recto ritratto di G. Ferraris in età matura; sul retro modello di motorea campo magnetico rotante.

5. Esisteva già, a quei tempi, il motore sincrono a correntealternata (in pratica un alternatore fatto funzionare alcontrario). Ma il fatto che questo motore non fosse auto-avviante e che necessitasse di un collettore lo rendevamolto meno adatto agli usi industriali, per i quali si dimo-strò invece ideale il motore asincrono, per la sua r obu-stezza e semplicità costruttiva.6. G. Ferraris, Rotazioni elettrodinamiche prodotte permezzo di correnti alternate, in Atti della Reale Accademiadelle Scienze di Torino, vol. XXIII, 1887-88.7. Una ricostruzione molto ben documentata degli eventi si

può trovare nell’articolo di G. Silva, citato nella bibliografia.8. Fu realizzata una linea di tr asmissione trifase a25.000 Volt, lunga 175 km, fra un impianto idroelettricosituato a Lauffen, sul fiume Neckar e la città di Franco-forte, trasmettendo una potenza di qualche centinaiodi kW c on perdite complessive dell’ordine del 25%.Due anni dopo la società americana Westinghose pre-sentò alla fiera di Chicago un perfezionamento di que-sto sistema, chiamato “sistema universale” che divennelo standard per il succ essivo sviluppo dei sist emi diproduzione, trasmissione ed utilizzo della corrente al-

ternata trifase, che nella sostanza sono tuttora in uso. 9. La fondazione della scuola elettrotecnica torinese fuquasi contemporanea a quella della analoga scuola dispecializzazione elettrotecnica milanese, che poté iniziaregrazie alla cospicua donazione dell’industriale chimicoCarlo Erba. A Milano, peraltro, già dal 1882-1883, era ini-ziato un corso di esercitazioni elettrotecniche per gli stu-denti di ingegneria industriale.10. Cfr. G. Lapini, Giuseppe Colombo, ingegnere, imprendi-tore e politico, «Nuova Secondaria», n. 3, novembre 2007,p. 94.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 107

PERCORSI DIDATTICI

Lo si vide in particolare al Congresso In-

ternazionale di Elettricità di Chicago del

1893, svoltosi in concomitanza con la

Esposizione Colombiana Mondiale, al

quale Ferraris partecipò come delegato

unico del governo italiano, venendo an-

che eletto come vice-presidente. Ma in

realtà in lui non mancò mai un forte in-

teresse ai risvolti pratici della scienza

elettrica, come dimostra il suo coinvol-

gimento professionale in tanti par eri,

consulenze e pr ogetti, in var ie parti

d’Italia, in anni in cui nacque una mi-

riade di iniziative civili e industriali, spe-

cie nel campo dell’illuminazione pub-

blica, che segnarono l’inizio della prima

elettrificazione del paese. Ferraris era

stato attento a ciò fin dagli inizi; scriveva

per esempio nella sua relazione al mi-

nistro Berti, dopo la sua partecipazione

alle esposizione di Parigi del 1881:

«Da questa mostra io riportai la convin-

zione che alcune delle applicazioni più

grandiose della corrente elettrica….pos-

sono divenire in un prossimo avvenire,

pratiche ed economiche…permettendo

a noi di sostituire in molti casi l’energia

dei nostri torrenti e delle nostre cascate

a quella del carbon fossile che ci viene

oggidì venduta a carissimo prezzo….a

quella convinzione va associata in me la

speranza di un guadagno grandissimo

per l’industria del nostro paese».

Questa consapevolezza si esprimeva

anche nel suo modo di insegnare, che

dalla testimonianza dei suoi allievi sap-

piamo era non solo rigoroso nella espli-

cazione matematica dei concetti, ma an-

che pieno di osservazioni sottili ed ar-

gute, atte a formare il buon senso degli

ingegneri.

A questo proposito, in campo didattico

non si può fare a meno di ricordare che

il suo contributo al consolidamento del-

la nascente tecnologia elettrica italiana,

si concretizzò nella fondazione della

Scuola Superiore di Elettrotecnica (To-

rino, 18869), né si può tralasciare un bre-

ve accenno al fatto che fu fondamentale

il suo contributo alla nascita, nel 1896,

della Associazione Elettrotecnica Italiana

(AEI), della quale fu il primo presiden-

te.

Certamente, il disinteresse per il guada-

gno personale c he Ferraris esprime

nella sua frase sopra citata, ci fanno

comprendere che ci troviamo di fronte

ad uno spirito meno «imprenditoriale»

di quanto non fosse, per esempio, il suo

contemporaneo milanese, prof. Giusep-

pe Colombo10. Essa peraltro ci aiuta a

comprendere che si trattava di uno di

quei personaggi di altissima le vatura

morale, dei quali il Risorg imento è

ricco. Ne furono dimostrazione non solo

l’abnegazione con la quale trattò sempre

familiari ed amici, ma anche l’impegno

civile e politico, che lo vide impegnato

dai ruoli di amministratore locale fino

a quelli di senatore.

Qui si aprirebbero delle altre interessan-

tissime finestre su questa vita eccezio-

nale, alle quali non abbiamo purtroppo

lo spazio per affacciarci.

Vita che fu per altro assai br eve, in

quanto Galileo Ferraris morì a Torino,

non ancora cinquantenne, il 5 febbraio

del 1897 (era nato il 30 ottobre 1847 a

Livorno Vercellese, in seguito ribattez-

zato Livorno Ferraris in suo onore), per

i postumi di una influenza, probabil-

mente trascurata per i suoi tanti impe-

gni, che degenerò in polmonite.

Gianluca LapiniCultore di Storia della Tecnologia

Politecnico di Milano

BIBLIOGRAFIA

R. Maiocchi, La Ricerca in campo elettrotecnico, in G. Mori (a cura di), Storia dell’industria elettrica in Italia. Le Origini, 1882- 1914, EditoriLaterza, Roma-Bari 1992.C. G. Lacaita, Cultura Politecnica e modernizzazione nell’Italia di fine Ottocento. Galileo Ferraris e la Scuola Superiore di Elettrotecnicadi Torino, Olschki Editore, Firenze, 1999 (estratto da Physys, Rivista Internazionale di Storia della Scienza, Vol. XXXV, fasc. 2, pagg.431-450). S. Leschiutta, Galileo Ferraris. Portare energia nelle case della gente, in «Emmeciquadro», n. 23, Aprile 2005, pp. 81-94.A. Silvestri (a cura di), Galileo Ferraris e L’AEI. Uomini e sodalizi della scienza elettrica (Atti del convegno e catalogo della mostra, Mi-lano-Livorno Ferraris, 1997), Edizioni All’insegna del pesce d’oro, Milano 1998.M. Schmidt (a cura di), Forza Motrice. Il trasporto dell’energia da sogno a realtà- Omaggio alla modernità di Galileo Ferraris (catalogodella omonima mostra), BieBi Editrice, Biella 1999.G. Silva, Galileo Ferraris, il campo magnetico rotante e il motore asisncrono, in «L’Elettrotecnica», vol. XXXIV, n. 9, settembre 1947, pp.346-378.G. Zannini, Galileo Ferraris. Una grande mente, un grande cuore, Piemme, Casale Monferrato 1997.G. Zannini, Adamo Ferraris. Il medico di Garibaldi, Venilia Editrice, Montemerlo 1999.

NS5 74-107 percorsi scienze:Layout 1 15-11-2012 16:54 Pagina 107

Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX108

LE PAROLE DI ORIGINE FRANCESE

ED INGLESE NELL’ITALIANO DEL

SETTECENTO CI RACCONTANO COME

I TERMINI, E QUINDI I CONCETTI,DELLA MODERNITÀ SONO GIUNTI A

NOI DALLE NAZIONI PIÙ PROGREDITE

IN AMBITO CIVILE, ECONOMICO E

SCIENTIFICO. SEGUIAMO QUESTO

PERCORSO ATTRAVERSO I SITI

INTERNET DEDICATI ALL’ETIMOLOGIA

E SCOPRIREMO CHE...

Gli strumenti: dai vocabolarietimologici ai siti internetGli strumenti a disposizione di chi si in-

teressa all’evoluzione della lingua si

sono oggi accresciuti tramite la tecno-

logia e la rete internet: è infatti possibile

ordinare on-line saggi, studi e vocabolari

etimologici, mentre, d’altra parte, si

sono moltiplicati i suppor ti digitali,

come i CD-Rom che consentono con-

sultazioni rapide e persino meta-ricer-

che nei medesimi repertori.

Prima, però, diamo un veloce sguardo

ai tradizionali vocabolari etimologici,

che restano sempre insostituibili: tra i

più diffusi vi sono il Dizionario etimo-

logico della lingua italiana [DELI], cu-

rato da M. Cortelazzo e P. Zolli1 ed il Di-

zionario etimologico di T. De Mauro e

M. Mancini2. Per chi si occupa di lin-

guistica è anche essenziale il classico Di-

zionario etimologico italiano [DEI] di C.

Battisti e G. Alessio3, cui si affianca l’in-

gente lavoro del Grande dizionario

della lingua italiana [GDLI] a cura di

S. Battaglia e G. Barberi Squarotti4.

Oggi è pos sibile affiancare a questi

anche la versione elettronica in CD-

Rom dello storico Dizionario della lin-

gua italiana di N. Tommaseo e B. Bel-

lini5; iniziato nel 1857 e pubblicato tra

il 1861 e il 1879, documenta la lingua

italiana durante gli anni del nostro Ri-

sorgimento.

Soprattutto, però, grazie all’alta velocità

di connessione e ai nuovi strumenti per

la digitalizzazione, si possono facilmente

consultare siti int ernet dedicati allo

studio della lingua e alla divulgazione

dei contenuti lessicografici. Il più auto-

revole di questi, dedicato al lessico del-

l’italiano, è la Lessicografia della Crusca

in Rete (http://www.lessicografia.it) che

pubblica sul web le cinque edizioni del

Vocabolario dell’Accademia della Crusca.

Le prime quattro (1612, 1623, 1691,

1729-1738) sono consultabili sia in tra-

scrizione elettronica che in for mato

immagine; della quinta (1863-1923)

per ora sono disponibili solo le imma-

gini digitalizzate. Questo sito consente

un agevole confronto dell’evoluzione dei

lemmi nel corso dei secoli, su dizionari

che è difficile r eperire in alt ro modo.

Non va, poi, trascurato il Vocabolario

Treccani online, che contempla nelle

sue definizioni una breve ma rigorosa

sezione etimologica (http://www.trec-

cani.it/vocabolario/).

Di queste ed altre possibilità informa-

tiche ci si può proficuamente avvalere,

come si è fatto in questo breve studio,

che vuole offrire un esempio di appli-

cazione.

LINGUE, CULTURE E LETTERATURE

a cura di Giovanni Gobber - Università Cattolica, Milano

Risorse in internet per la storia della lingua Inglese, francese ed italiano nell’etàdell’Illuminismo: quando la concorrenzaera francese e l’insurrezione americanaLuigi Beneduci

1. M. Cortelazzo - P. Zolli, Dizionario etimologico della lin-gua italiana, 1a ed., Zanichelli, Bologna 1979-1988; orariedito in 2a ed. con CD-ROM, 1999.2. T. De Mauro - M. Mancini, Dizionario etimologico, Gar-zanti, Milano 2000.3. C. Battisti - G. Alessio, Dizionario etimologico italiano,Barbera, Firenze 1950-1957, 5 voll. 4. S. Battaglia - G. Barberi Squarotti, Grande dizionariodella lingua italiana, UTET, Torino 1961-2004 in 21 voll.,con Appendice a cura di E. Sanguineti e Indice degli Au-

tori citati a cura di G. Ronco, 2004.5. N. Tommaseo e B. Bellini, Dizionario della lingua ita-liana, ed. origin., Unione Tipografico-Editrice Torinese,Torino1861-1879, 4 voll. in 8 tomi, poi riedito nel 1915,1924 e 1929; le edizioni recentiori sono una ristampanella BUR, Rizzoli, Milano 1977 in 20 volumetti e una ri-produzione anastatica, UTET, Torino 2006, 4 voll. in 8tomi, come l’originale; l’edizione in CD-ROM, Zanichelli,Bologna 2004.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 109

ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE

Il dibattito sulle regole: i puristi...Il Settecento è stato un secolo di ampie

discussioni sulla norma, le forme ed i

modelli linguistici6: i dibattiti più accesi

si innnescarono intorno alla necessità di

liberare la lingua da una normativa au-

toritaria, come quella codificata dall’Ac-

cademia della Crusca. Il dibattito lingui-

stico si inseriva, così, nell’alveo di una

cultura razionalista, antidogmatica e

civilmente impegnata, quale fu quella

dell’Illuminismo.

Le scelte codificate nel Vocabolario della

Crusca, che nel 1729-38 aveva raggiunto

la quarta edizione, erano interpretate

come strumento di astratto pedantismo

e di intollerabile oppressione verso la li-

bertà intellettuale. La Crusca, infatti, pro-

poneva ancora come modello lo “scriver

toscano” degli autori del Duecento e del

Trecento. Il Vocabolario raccoglieva, sul

piano lessicale, voci e locuzioni arcaiche

a scapito della lingua parlata, mentre, per

la sintassi, proponeva un periodare am-

pio e complesso, di gusto latineggiante.

Tra i sostenitori di tali posizioni, i cosid-

detti “puristi”, bisogna almeno citare la

scuola napoletana di Lionardo di Capua

e Niccolò Amenta, orientati ad un’eru-

dizione grammaticale fine a sé stessa che,

secondo il critico giudizio del Galiani7,

si riduceva a voler riproporre il «pretto

stringato idiotismo toscano».

... e gli innovatoriTra gli oppositori del purismo linguistico

vanno invece ricordati Francesco Alga-

rotti, secondo il quale «chi dice […] delle

cose utili e buone alla civile società, può

fare senza le belle parole»8, e Giuseppe Ba-

retti, con la distruttiva e feroce critica al-

l’accademismo condotta sul suo perio-

dico, la “Frusta letteraria”,

dove si chiedeva una «lingua

vivace, spedita, atta a espri-

mere i bisogni di tutta la na-

zione»9. A fine secolo, infine,

Melchiorre Cesarotti, facen-

do perno sul nuovo concetto

di «nazione», proponeva il

concorso di tutti gli intellet-

tuali d’Italia, organizzati in

una sorta di «r epubblica»,

per liberarsi della «gabella»

della Crusca, proprio come

avevano fatto «gl’insurgenti

d’America», secondo il prin-

cipio che «l’uso fa legge»

nella lingua, quando essa

sia «universale e comune agli scrittori e

al popolo»10.

L’opposizione più radicale al passatismo

della Crusca, però, fu realizzata dal

gruppo illuministico milanese. Il più si-

gnificativo articolo sull’argomento, pub-

blicato sul “Caffè”, è la “Rinunzia avanti

Notajo del presente Foglio periodico al

vocabolario della Crusca” (1764), redatto

da Alessandro Verri.

Vi si promuove una lingua moderna ed

aperta verso le innovazioni (neologismi

e forestierismi) che permettessero una di-

vulgazione più immediata delle idee. Il

tono antidogmatico dell’articolo risulta

ancora più efficace per il fatto di non es-

sere privo di un acuto sarcasmo: «Se Pe-

trarca, se Dante, se Boccaccio, se Casa, e

gli altri testi di lingua hanno avuto la fa-

coltà d’inventar parole nuove e buone,

così pretendiamo che tale libertà conven-

ga ancora a noi: conciossiaché abbiamo

due braccia, due gambe, un corpo, ed una

testa, fra due spalle com’eglino l’ebbero».

La lingua, infatti, avendo come fine il

vantaggio morale e materiale dei lettori,

deve accogliere i termini, anche stranieri,

che le permettano di essere chiara ed ef-

ficace: gli accademici dei Pugni, quindi,

considerando che «ch’ella è cosa ragio-

nevole, che le parole servano alle idee, ma

non le idee alle parole», ritengono giusto

voler «prendere il buono quand’anche

fosse ai confini dell’Universo, e se dall’in-

da, o dall’americana lingua ci si fornisse

qualche vocabolo ch’esprimesse un’idea

nostra, meglio che colla lingua Italiana,

noi lo adopereremo».

6. Sull’argomento cfr. B. Migliorini, Storia della LinguaItaliana, Sansoni, Firenze 1960, ora Milano, Bompiani,2001, in particolare il par. Discussioni sulla norma lin-guistica, pp. 459-466.7. Ivi, p. 460.8. Lettera ad A. Zanon, citata da Migliorini, p. 457.

9. Ivi, p. 463.10. Così si esprimeva Cesarotti nel suo trattato Saggiosulla filosofia delle lingue, citato da Migliorini, pp. 464-65.11. É un'espressione di Devoto, citato da Migliorini, p.474.12. Lo stralcio del documento è riportato in E. Levasseur,

Histoire des classes ouvrières et de l'Industrie en Franceavant 1789, Rousseau Éditeur, tomo 2, Paris 1901, p. 201,nota 2. 13. Cfr. Migliorini, par. Francesismi, pp. 518 segg.14. Oxford English Dictionary, Oxford University Press, 2aed. 1989 in 20 voll.

Il frontespizio di una pubblicazione dell’Accademia della Crusca.

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX110

L’influenza del francese:francesismi e cambiamentisemanticiL’ampia circolazione delle idee, tipica del

cosmopolitismo settecentesco, unita al-

l’arretratezza dell’Italia ed allo sviluppo

delle altre nazioni e uropee, porta un

marcato aumento dell’influenza stranie-

ra sull’italiano.

Molto rilevante risulta l’influsso della lin-

gua francese: questa, per l’espandersi del-

la filosofia razionalista, ma anche per la

diffusione della moda e del buon gusto,

si impone come modello egemone in

Europa, tanto da far parlare, per l’Italia

del Settecento, di un «n uovo bilingui-

smo»11. Alcuni termini settecenteschi

giunti dal fr ancese sono usati anc ora

oggi: appartengono ai campi della moda

(cravatta, ciniglia, flanella, bleu, lillà), del-

la musica (rondò, minuetto) e del cibo

(bignè, cotoletta, ragù, gattò, dessert).

Simili termini furono, talvolta, anche

espressione di un atteggiamento tutto

sommato provinciale, che portò ad un

“infranciosamento” dell’italiano, già in

quel tempo oggetto di critiche ed ironie.

Più significative risultano invece le alte-

razioni semantiche, ovvero i cambia-

menti di significato, di parole già esisten-

ti, dovute all’influenza del fr ancese:

sono questi che testimoniano quanto ab-

biano agito profondamente i mutamenti

in campo culturale, politico ed econo-

mico dell’epoca.

Dalla concorrenza in amorealla rivalità commercialePer lo studio delle alterazioni semanti-

che, si possono efficacemente applicare

le risorse in rete: un esempio può essere

costituito dai diversi significati assunti

dal termine concorrenza. Osserviamone

l’evoluzione attraverso le accezioni re-

gistrate dai dizionari in differenti periodi

e contesti.

La quarta edizione del Vocabolario

della Crusca (cfr. Crusca in R ete

http://www.lessicografia.it) indica i si-

gnificati impiegati nel corso della storia

letteraria ed ammessi dalla c omunità

colta all’inizio del Settecento. Qui con-

correnza presenta due accezioni: indica

la «competenza», che lo stesso vocabo-

lario definisce come il «competere», os-

sia il gareggiare o contendere, nel senso

della aemulatio latina. Gli esempi lette-

rari che accompagnano il termine, però,

testimoniano come tale “competizione”

fosse riferita soltanto ai campi semantici

dell’eleganza, della guer ra e persino

dell’amore (così il Berni nella riscrittura

dell’Orlando innamorato:«E non amor

al mondo, che si metta / A concorren-

za»), ma non all’economia.

L’evoluzione settecentesca del termine

si realizza quando concorrenza, sul mo-

dello della lingua francese, viene appli-

cato anche ai rapporti economici. Rea-

lizzatasi nel Settecento, l’accezione si af-

ferma in Italia nella prima metà dell’Ot-

tocento: infatti già il Tommaseo-Bellini

(è consultabile on-line il primo volume

al sito http://www.dizionario.org) ag-

giunge ai significati tradizionali la pre-

cisazione: «Nel senso commerciale e, più

in generale, nell’economia: libera con-

correnza».

Che l’accezione economica sia giunta dal

francese ce lo assicura un’altra risorsa di-

sponibile in rete: di tratta del sito web

del Centre National de Resources Textuel-

les et Lexicales (http://www.cnrtl.fr/ety-

mologie/). Creato nel 2005 dal CNRS

(Centre National de la Recherche Scien-

tifique) con la collaborazione dell’ATILF

(Analyse et Traitement Informatique de

la Langue F rançaise) - U niversità di

Nancy, il sito riunisce numerosi stru-

menti per l’elaborazione del linguaggio

(lessici, sinonimi, antonimi, ecc.) tra cui

un puntuale vocabolario etimologico.

Le etimologie del CNRTL fanno risalire

la prima attestazione di «concurrence»

intesa nel senso di «rivalité commerciale»

alle doléances della Délibération de la salle

de Saint-Louis datate 16 luglio 1648; già

nel XVII secolo in Francia ci si lamenta

che «La concurrence des drapieres d’An-

gleterre et de l’H ollande a réduit un

nombre infini de petit peuple à la men-

dicité»12.

Così nasce un termine che ancora segna

il linguaggio economico della nost ra

contemporaneità e che si potrebbe im-

maginare più collegato al “liberismo” in-

glese. La Francia, invece, inserita in un

contesto economico fortemente svilup-

pato, fu tra le prime nazioni a sperimen-

tare, e quindi ad avvertire l’esigenza di

nominare, la concorrenza come uno dei

più importanti fenomeni del capitalismo

moderno.

Migliorini offre numerosi suggerimenti

per condurre ricerche analoghe13: nel

Settecento il sostantivo genio acquista il

nuovo senso di uomo di alto ingegno; i

termini manifattura e stabilimento acqui-

stano il senso moder no di fabbr ica;

prodotto definisce il fr utto del la voro

umano in campo industriale; progresso

assume un senso ast ratto per indicare

l’avanzamento civile dell’umanità; pub-

blico da aggettivo diviene un sostantivo

indicante coloro cui si rivolge un’opera;

sensibile è detto di chi si commuove, se-

condo i principi del sensismo.

Gli anglo-italiani: inocularedalla botanica alla medicinaLa risorsa più rigorosa della rete per

quanto concerne l’inglese è la versione

on-line del classico dizionario Oxford

English Dictionary [OED]14 che presenta

una nutrita sezione etimologica. Pur-

troppo alla c onsultazione del sit o

(http://www.oed.com/) si accede me-

diante una costosa sottoscrizione.

Utilizzando, comunque, dizionari eti-

mologici, cartacei oppure on-line, si pos-

sono studiare i notevoli anglo-latinismi

settecenteschi in ambito scientifico e po-

litico, che testimoniano campi di eccel-

lenza della civiltà inglese.

LINGUE, CULTURE E LETTERATURE

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 111

In campo medico, ad esempio,

si può seguire l’evoluzione del

termine inoculare, dall’inglese

to inoculate, che deriva dal la-

tino inoculatus (da in+oculus,

col valore traslato di “fessura”,

al posto di quello originale di

“occhio”).

In Inghilterra nel Cinquecento

esso era ancora impiegato per

indicare l’atto di innestare una

gemma su un alber o, ma a

partire dal 1714 lo t roviamo

usato in patologia, per indicare

l’inserimento, in un c orpo

sano, di un agente patogeno al

fine di produrre immunizzazione.

Questa accezione nasce dall’interessa-

mento di Lady Mary Wortley Montagu,

moglie dell’ambasciatore inglese a Co-

stantinopoli. Ella, dopo aver osservato

tale pratica impiegata in T urchia per

provocare una rozza immunizzazione

dal vaiolo, e dopo averla fatta applicare

a suo figlio, la introdusse per la prima

volta in Inghilterra, dando origine così

alla sperimentazione medica in Europa.

In Italia inoculazione si affiancherà, at-

traverso l’inglese, all’italiano innesto: an-

ch’esso originariamente indicava l’inne-

sto botanico, ma poi passerà ad assume-

re un’accezione medica. Il più famoso

impiego con questo valore è testimonia-

to dall’ode di Parini L’innesto del vaiuolo

(1765); ma g ià Algarotti, prima del

1764, aveva usato in ambito medico-fi-

siologico inoculare ed innestare come si-

nonimi. Nel linguaggio medico attuale,

però, sarà il vocabolo di origine inglese

a prevalere, mentre l’innesto tornerà a

circoscriversi in ambito agricolo.

L’antica Roma rivive aFiladelfia: costituzione,presidente e insurrezioneIn campo politico, invece, è interessante

la storia del termine costituzionale: seb-

bene questo termine derivi dal latino con-

stitutionem, il suo moderno significato

e la sua diffusione nel mondo contem-

poraneo non transita attraverso l’italiano,

bensì dall’inglese constitutional.

Il termine italiano costituzione, secondo

l’edizione settecentesca della Crusca,

infatti, indica la «constituzione» intesa

come l’«ordine», il modo in cui qualcosa

è costituito; può indicare anche il «tem-

peramento» ossia lo «stato del corpo»,

definito anche «complessione»; e solo per

via indiretta, come sinonimo, infine,

equivale a «statuto», cioè «legge» valida

in un luogo (come i latini statutum, con-

stitutio, lex municipalis).

In Inghilterra, invece, a partire dal Sei-

cento constitution indica specificamente

l’organizzazione di uno Stato e dal Set-

tecento l’insieme dei principi che gover-

nano una società.

Il termine, infine, passerà a definire il do-

cumento che raccoglie le legg i fonda-

mentali di uno Stat o, quando la storia

politica si salda alla storia delle parole: ciò

avvenne quando dodici colonie inglesi ri-

belli diedero vita alla prima Costituzione,

appunto, quella degli Stati Uniti d’Ame-

rica (1787).

Attraverso un percorso simile, il latino

praesidentem (dal verbo latino praesidere)

dà luogo al termine inglese president, che

diviene in italiano presidente. Il primo

impiego del termine, per indicare chi de-

tiene il potere esecutivo in una Repubbli-

ca, si riscontra nella stessa Costituzione

degli Stati Uniti, dopo che aveva indicato

prima il r esponsabile del Cong resso

Continentale (1774), e precedentemente

i singoli governatori delle colonie (dal

1608) a partire dalla Virginia. Allo stesso

modo, dal latino insurrectio deriva l’ita-

liano insurrezione con la mediazione

dell’inglese insurrection, usata per indicare

proprio l’insurrezione americana. Questo

avvenimento dimostra così, anche per

verba, la sua c entralità nella storia del

mondo occidentale.

Di questi ed altri termini è interessante

confrontare le accezioni ammesse dalla

nostra tradizione letteraria con i significati

che maturano nel nuovo contesto stori-

co-sociale dell’età dell’Ill uminismo in

Francia e nel mondo anglosassone: la sto-

ria delle parole diviene così uno strumen-

to privilegiato per conoscere il percorso

della nostra modernità.

Luigi Beneduci ISIS “F.De Sarlo” di Lagonegro e “N.Miraglia” di Lauria (PZ)

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX112

IntroductionCLIL is an approach which has already

been widely developed throughout

Europe; in Italy, a law (Legge Moratti,

53/2003; D.L. 17.10.2010 n. 226) requires

its adoption during the final year of Liceo,

Istituto Tecnico non professionale and

from the thir d year of the Liceo

Linguistico. This law does not envisage the

language teacher as a CLIL expert, even

if over the years it has been mainly the

language professors that have advanced

the cause of CLIL and been convinced of

its validity. Despite that fac t that in

most European countries CLIL is carried

out by content teachers, the supporting

and collaborative role of the language

teacher is still m uch needed if this

approach – whic h calls for a balanc e

between content and language objectives

– is t o be e xploited in the best wa y

possible.

For the abo ve-mentioned reasons

language learning risks becoming of

secondary importance with respect to

content learning, given that c ontent

teachers tend, because of their education,

to give a prevalent role to the teaching of

the subject matter (Dafouz Milne, 2011).

It is very likely that the CLIL approach

adopted by content teachers will be

mainly based only on one t ype of

language learning, the so-called incidental

learning, which derives mainly fr om

the teacher’s input. Precisely for this

reason the input must be particularly well

prepared, and in this sense, language

teachers can play a supporting role for the

content teachers, guiding them towards

an awareness of the importance of this

support. The input – that is, the language

the learners are exposed to, is thus a

crucial aspect in CLIL, as it is in all

processes of teaching-learning.

This article is the result of a Doctorate in

Education in the UK, during which the

input presentation strategies used by

CLIL teachers were analysed.

The results from some 20 hours of

lesson transcriptions evidenced some

common input presentation strategies

found in the literature as well as others

that had not been explicitly mentioned

in the references. The results presented

in the present article started from this

data in order to see whether these new

input presentation strategies would be

judged positively by the students, as

well. In order to test these defamiliarising

input presentation strategies a v ery

straightforward questionnaire was given

to 126 students who had e xperienced

CLIL.

These new strategies (henceforth called

defamiliarising) are: the use of humour,

focusing on form (regarding grammar,

lexis and pr onunciation) and

codeswitching. They have been defined

as defamiliarising input presentation

strategies because, from the lesson

observations, it seemed the y were

adopted during moments of focus and

greater attention on the par t of the

students (see also section 2). These input

strategies, could be particularly useful for

emphasising conceptual and linguistic

aspects and maintaining in equilibrium

that continual balance of stance between

teacher and stud ent typical of school

contexts. To the best of my knowledge no

one has yet dealt with these categories in

the CLIL context.

Tenets of CLILCLIL (Content and Language Integrated

Learning) is an approach that calls for the

integrated teaching-learning of language

and content. It can be undertaken at any

school level, from primary school to

higher education, and can in volve any

language and non-linguistic content.

The term CLIL appeared in the 1990s on

the heels of a number of programmes

already in place in Europe.

1995 represented an important starting

point: a Council of Europe Resolution

stated that teaching a foreign language

through other disciplines constituted a

highly innovative approach and a

European Commission White Paper on

Education and Training spoke of a similar

concept. The growing influence of CLIL

is shown by the fact that since 2000 all

European Socrates programmes

sponsoring teachers and lea rners have

promoted CLIL, and that in 2003 th e

European Commission, in its 2004-2006

Action Plan, openly stated that CLIL

represented a valid methodolog y.

Moreover, there is an entire page on the

Council of Europe internet site devoted

to CLIL

(http://ec.europa.eu/education/languages/

language-teaching/doc236_it.htm).

LINGUE, CULTURE E LETTERATURE

Defamiliarising Input Presentation Strategies in CLIL

What do Students Think? Francesca Costa

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 113

ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE

This is the definition that Llinar es,

Morton and Whittaker (2012, p. 1) use for

CLIL “a bilingual approach in which the

study of an academic content is combined

with the use and lear ning of a for eign

language”. First adopt ed to improve

language proficiency (Dalton-Puffer 2007),

experts have increasingly come around to

the view that content as well as language

are involved in the learning process

(Coonan 2007a,b) and that a “promise” is

intrinsic in the acronym CLIL: that is, “that

content be learnt through the language and

that language be learnt through content,

contemporaneously” (Coonan 2008, p. 14).

Research on the advantages of CLIL is still

fully underway, though increased

motivation (Coyle, Hood and M arsh

2010) certainly seems t o be a st rong

point for this method. Moreover, the value

added of CLIL could also be cognitive in

nature: that is, the fusion of language and

content. It is still not clear, however, what

this cognitive value exactly consists of. This

could well be what Dodman (2009, p. 55)

calls defamiliarisation as regards the

learning of technical vocabulary at school

level, though it could also be applied t o

input strategies as well. This discordance

surprise factor could make input more

noticeable and therefore lead to a deeper

learning process.This paper starts, in fact,

from this assumption.

Taxonomy of ReferenceBelow the input presentation strategies

examined in this paper will be illustrated,

beginning with focus on for m and

codeswitching, which is understood as

belonging to the focus on form category.

The other cat egory – h umour – w ill

then be analysed.

Focus on Form as a Type ofInput PresentationTwo of the most famous theor ies on

second language acquisition – the input

hypothesis and focus on form – share the

belief that the learning of a language is

optimised when it is undertaken within

a focus on meaning c ontext (Krashen

1985; Long 1991). CLIL is par excellence

such a context, and it is th us ideal for

learning language in addition to content.

By input it is meant the language the

students are exposed to. For Krashen

(1985) it is fundamental that the language

be understandable and pr esented at a

slightly higher level than that acquired by

the students in order to stimulate them

toward new learning. In Krashen’s view,

called Input Hypothesis, language

learning by the student should occur in

an incidental or implicit manner: that is,

directly from being e xposed to the

comprehensible input.

On the other hand, by focus on form it

is meant a particular attention to language

in meaning-focused contexts. Thus this

strategy is seen as moments dur ing

which the teacher focuses on a language

aspect during a c ontent lesson (Ellis,

Basturkmen and Loewen 2001). Such

focus on form moments represent times

when the language is viewed as an object

of learning and not as a vehicle. In this

paper focus on form is understood as a

form of comprehensible input.

In this sense focus on form is important

for CLIL since it could facilitate the so-

called fusion context between linguistic

and content objectives. In fact, focus on

form is, according to Lyster (2007), a way

to achieve a counterbalanced approach

through which form and c ontent are

integrated.

There are various types of focus on

form: phonological, grammatical and

lexical, according to the language aspect

in question. Moreover, focus on form can

be reactive or proactive, where reactive

(explicit) refers to moments of linguistic

focus that ar ise from communication

problems that gener ally concern the

students and pr oactive (implicit) t o

moments where it is the teacher himself

who perceives the need t o focus on

language even in the absence of any

student doubts. Focus on form should not

be confused with focus on forms that refer

to an explicit teaching of linguistic forms

for the entire teaching-learning process.

Few researchers have tried to list the

effective input st rategies used by CLIL

teachers in the presentation of input to the

students. Coonan (2002) lists the

following: using discourse markers, using

repetitions, using e xamples, using

synopsis/summaries, using definitions,

explaining, re-using lexis, using synonyms,

using paraphrasis, reformulating, asking

for questions, slowing down the pace of

speaking, emphasising thr ough

intonation, articulating words clearly.

The present paper will instead introduce

new strategies.

CodeswitchingThe concept of focus on for m also

includes codeswitching: that is, the

alternance between L1 and L2 typical in

contexts of bilingual speak ers (Cook

2001). Over time this concept has suffered

greatly because it was thoug ht to be

harmful to learning. During the last ten

years several studies ha ve instead

underscored its impor tance (Coonan

2007; Gajo 2001). That said, it is clear that

the amount of codeswitching must be

adjusted to the le vel of the students

(Costa 2009) and that ignoring this could

invalidate or impoverish the learning.

3.2. Humour Despite the fact that there have been many

studies on h umour and w it, especially

regarding psychology and lit erature,

almost all of these refer to and have as

their object nati ve speakers. There are

fewer studies on humour in education,

especially concerning non-native speakers.

Norrick (1993) held that in r eality the

various forms are all contained inside a

continuum. Humour has the advantage

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX114

of relieving the tension and it is a way to

recognise affiliation. Along the same lines,

anecdotes, especially if they are humorous,

strengthen relationships; funny stories

help to create a positive idea of the person

who tells them. Wordplays and puns, on

the other hand, are more difficult to find,

especially in the corpora of non-native

speakers. A year after Norrick, Stuart and

Bank (1994) under took a stud y of 195

students using a questionnaire. The results

demonstrate that humour makes the class

less formal, that negative humour should

not be used, as it is highly counterproductive,

and that a lack of humour is seen as a sign

of formality.If, as the studies presented here

show, humour is not only a pedagogical

motivator but also a wa y to enhance

understanding of content, then it is clear

that it should be widely used in CLIL

courses, though with the necessary caution,

since the teachers in this case are non-

native speaking.

What works?Starting from the assumption that CLIL

is a g rowing phenomenon and that

precisely for this reason there is need for

research into the strategies to implement

the approach, 126 students were asked to

give their o pinion on se veral

defamiliarising input presentation

strategies. The CLIL literature has studied

several common input pr esentation

strategies in depth while ignoring others

that have turned out inst ead to be

important. The present study in some

ways complements a pr eceding one

which noted, through a c orpus of

transcriptions and obser vations, that

several non-common strategies (use of

humour, focus on for m and

codeswitching) created discordant

moments in which the students appeared

to be more attentive, for which reason

they were called defamiliarising. Given

that the previous study was lacking the

opinion of the students regarding these

strategies, the decision was made t o

supply this missing information.

The results of the study reveal that all

these strategies are held to be important

by the students. In order of appreciation

there is the use of humour, all types of

focus on form (pronunciation, lexical,

grammatical) and codeswitching, which

is the most controversial strategy. Thus

all these less-common, though not for

that less effec tive, input pr esentation

strategies should be added to the

common input presentation strategies

presented in the reference literature.

Moreover, the impor tance of these

mainly linguistic categories can be very

important for CLIL language teachers in

that they could aid those content teachers

who perhaps are less a ware of the

importance of the input.

Francesca Costa Università Cattolica, sede di Milano

LINGUE, CULTURE E LETTERATURE

REFERENCES

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 115

ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE

Osservando le r epliche alle do-

mande nei dialoghi ci si può ren-

dere conto di come funzionino

certi processi della comunicazione verbale.

Spesso infatti la replica tiene conto di una

dimensione implicita che sottende all’im-

pianto del testo e si pone nel mondo con-

diviso dagli interlocutori. A volte questa

dimensione si cattura facilmente; altre vol-

te richiede un certo lavoro di analisi. Pe-

raltro, gli interlocutori di solito afferrano

rapidamente l’implicito, cioè colgono le

informazioni che la pratica quotidiana ha

loro insegnato a sc oprire dietro alle

forme linguistiche.

La strategia che vorrei qui illustrare è quel-

la delle domande implicite che vengono

inferite da domande esplicite. Nei testi let-

terari troviamo molti esempi che meri-

tano attenzione. L’insegnante potrà invi-

tare gli studenti ad analizzare i dialoghi

di un’opera in lingua, cercando di spiegare

le ragioni di una replica verbale, che a pri-

ma vista non sembr a rispondere alla

domanda che l’ha provocata. I procedi-

menti qui descritti si trovano in testi di

ogni genere e di ogni lingua d’Europa. Le

osservazioni che riguardano uno scambio

di battute in italiano si possono cioè esten-

dere a mosse dialogiche manifestate per

mezzo di altre lingue.

Occorre anzitutto precisare che, nei

testi «naturali», le domande si possono

presentare anche in mod o implicito,

come nell’ipotetico scambio che segue:

Luigi: Sarai stanco morto... / Pietro: No, anzi. Ho ancora energie da ven-dere.

Dalla battuta di Luigi, Pietro ritiene di de-

rivare una domanda (sei stanco, non è

vero?). La r isposta è c onseguenza di

un'ipotesi interpretativa che Pietro ha for-

mulato a torto o a ragione («[…] à tort

ou à raison», dice Sorin Stati (1990, p. 35).

Non è detto, infatti, che Luigi abbia

inteso comunicare una domanda impli-

cita. È piutt osto l’interpretazione del

testo fatta da Pietro a far emergere quel

sottinteso che si rivela decisivo per il pro-

sieguo del dialogo. Meno problematici

sono altri casi, nei quali un locutore fa una

domanda esplicita di verifica (in ingl. yes-

no question). L’interlocutore recupera

una domanda complementativa (wh-

question) implicita, che serve per orientare

la risposta.

1. In un primo tipo, la domanda inferita è

attivata sia con una risposta affermativa

sia con una negativa; in altre parole, non

si risponde in modo completo replicando

soltanto con un sì o con un no:

Stai via molto? [ ➛Per quanto tempo staivia?]Sì, sto via per un mese. / No, torno dopo-domani.

Come mostrano gli esempi che seguono,

la “profrase” nella risposta (cioè il sì o il

no) può essere omessa:

«C’è ancora molta strada?»«Non molta, forse due ore e mezzo, anchetre forse, di questo passo. Forse per mezzo-giorno ci siamo, effettivamente» (Buzzati,Il deserto dei Tartari, p. 13)

«Dove mi porti?» / «Ti porto dove dormo»./ «È lontano?» / «In fondo a corso Sempio-ne» (Vittorini, Uomini e no, p. 6)

Alla ricerca delle domandeimplicite nei dialoghi Proposte per un esercizio di analisiGiovanni Gobber

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Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX116

2. In un secondo caso, se si risponde nega-

tivamente, basta che sia considerata solo

la domanda esplicita; invece, se la risposta

è affermativa occorre tener conto della

domanda implicita. La semplice replica

sì è avvertita come una risposta incom-

pleta o insoddisfacente

Pietro: È arrivato qualcuno? [Se sì ➛chi èarrivato?] Luigi: No [non è arrivato nessuno / alcuno]./ Sì, è arrivata Maria.

Rispondendo affermativamente, si può

tralasciare la profrase sì, come negli

esempi che seguono:

IL CAPOCOMICO (battendo le mani) Su,su cominciamo.Al Direttore di scena: Manca qualcuno?IL DIRETTORE DI SCEN A Manca laPrima Attrice.IL CAPOCOMICO Al solito! (guarderàl'orologio)(Pirandello, Sei personaggi in cerca d'au-tore, p. 26)

Ma in fondo, al nord, si vedrà bene qual-cosa?All'orizzonte di solito ci sono le nebbie – dis-se Morel [...] Ci sono le nebbie del nord che

non lasciano vedere (Buzzati, Il deserto deiTartari, p. 28)

Il dialogo procede in modo naturale,

come nella conversazione quotidiana.

Analoghe osservazioni si possono svol-

gere per altre lingue. Per esempio, con-

sideriamo l’inglese. Una serie di dialoghi

scritti, reperiti online (http://eng lish-

the-international-language.com) con-

tiene alcuni esempi c he fanno al caso

nostro:

- Are you married? - Yes, I am. - And do you have any children? - Yes, two.

- Do you have anything to declare, sir? - Just some wine and cigarettes.

La strategia è frequente nelle domande

che servono per offrire qualcosa:

- Would you like anything to drink? - Yes, a bottle of red wine please.

Vediamo alcuni esempi tratti da testi di

fiction:

“But, after all, brains are not the best thingsin the world”“Have you any?” enquired the Scarecrow.

“No, my head is quite empty”, answered theWoodman […](F. Baum, The wonderful wizard of Oz, p.58)

L’aggiunta my head is quite empty non ag-

giunge contenuto; è piuttosto una riela-

borazione della risposta no (non avere

cervello = avere il cranio bello vuoto...).

3. È possibile una strategia inversa: si ri-

sponde affermativamente alla domanda

esplicita, mentre la risposta negativa tie-

ne conto di una domanda complemen-

tativa implicita. Non è risposta completa

la semplice replica No:

Sei arrivato ieri? ➛ [Se no, quando?]Sì. / No, sono qui dalla settimana scorsa.

Esempi:

«Siete ebrei tutti e dieci?»«No, solo sei: io, le due donne, il giovane chesta sempre con la ragazza piccola, quello an-ziano che tu hai portato sulle code, e PavelJurevi, il più robusto di tutti [...]» (Primo Levi, Se non ora, quando?, p. 73)

La risposta può tralasciare la profrase No:

«Siete tedeschi?»

NS5 108-118 lingue:Layout 1 15-11-2012 16:44 Pagina 116

Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 117

ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE

«Siamo russi» risposero i due (Primo Levi, Se non ora, quando?, p. 32)

«Dì loro che oggi non posso andare».«Andrai domani?»«Forse nemmeno domani. Andrò una voltao l’altra, ma tu non prendermi impegni.Andrò col treno» (Vittorini, Uomini e no, p. 192)

[…] some minutes later, when he turnedtowards me, I said, using one o f his ownexpressions in the Torres Straits:«An incident, Captain?»«No, sir; an accident this time».«Serious?»«Perhaps». (Jules Verne, 20,000 Leagues Under the Sea,p. 231)

«Is soldiering your regular profession, Mr.Hastings? »«No, before the war I was in Lloyd's».(Agatha Christie, The Mysterious Affair atStyles, p. 6)

Soprattutto una r isposta negativa è

spesso accompagnata da una spiegazio-

ne, che serve ad attenuare la negazione:

«Tell me, Ned», said I, «can you recognisewhat country she [si riferisce a una nave checompare all’orizzonte] belongs to?»The Canadian knitted his eyebrows,dropped his e yelids, and s crewed up thecorners of his eyes, and for a few momentsfixed a piercing look upon the vessel.«No, sir», he replied; «I cannot tell whatnation she belong s to, for she show s nocolours […]».(Verne, 20,000 Leagues Under the Sea, p.266)

4. A volte, una domanda pone esplicita-

mente una constatazione, che di per sé

è ovvia e dunque non giustifica l'appello

a rispondere. Tuttavia, chi risponde

tende spesso a cogliere una richiesta im-

plicita di spiegazione (Non hai fame? ➛Perché non hai fame?):

«Non bevi la tua birra con me? Già te nevai?»«All'albergo c'è molto da fare» (Vittorini, Uomini e no, p. 193)

«Yes, indeed, Mr. Naturalist», he replied;«and we are going to fight them, man tobeast». I looked at him. I thought I had not heardaright.«Man to beast?» I repeated.«Yes, sir. The screw is stopped. I think thatthe horny jaws of one of the cuttlefish isentangled in the blades. That is w hatprevents our moving». (Verne, 20,000 Leagues, pp. 251-252)

«Is it possible? My poor friend! You have notyet realized that it was Miss Howard whowent to the chemist’s shop?"«Miss Howard?"«But, certainly. Who else? It was most easyfor her.(Agatha Christie, The Mysterious Affair atStyles, p. 155)

5. In questi tipi di domande, le repliche ac-

cettabili tengono conto della domanda

implicita. L'inferenza è, per così dire, isti-

tuzionalizzata: gli interlocutori sono

consapevoli di gestire la comunicazione

avvalendosi di st rategie previste nella

prassi dialogica.

Certe repliche sono inac cettabili in

quanto non sono c ooperative: repli-

cando con un semplice sì alla domanda

Hai visto qualcuno? non si viene incontro

alle attese di chi interroga. In altri casi,

la domanda pertinente deve essere infe-

rita: Non mangi? ➛Perché non mangi?).

Poiché l'interrogante presume che il

proprio interlocutore conosca la strategia

adottata, la replica non cooperativa è in-

terpretata per lo più come polemica (ri-

fiuto di cooperare: No, non mangio). Ma

la violazione della massima può essere

solo apparente: è possibile che la replica

sia cooperativa, ma che richieda un'in-

ferenza ulteriore: A: Hai incontrato

qualcuno? B: Sì, certo (➛«Puoi immagi-

narti chi»).

L’ultimo tipo di domanda sopra consi-

derato (Hai visto qualcuno?) è una tipica

safe question: chi la usa evita di porre pre-

messe che il secondo locutore potrebbe

smentire. È possibile una semplice rispo-

sta affermativa, che sollecita la domanda

ulteriore chi hai visto?, basata sul presup-

posto «hai visto qualcuno».

Ma in uno scambio c ooperativo di

solito non è nec essario che questa sia

proferita: come abbiamo infatti visto, il

secondo locutore è invitato a inferirla di-

rettamente; così, alla eventuale risposta

affermativa (che può anche essere sot-

tintesa) segue direttamente la risposta

alla domanda complementativa. Tornia-

mo all’esempio dei Sei personaggi di Pi-

randello:

IL CAPOCOMICO […] Al Direttore discena: Manca qualcuno?IL DIRETTORE DI SCENA Manca la Pri-ma Attrice.

Con una domanda «sicura» il capoco-

mico gestisce in modo appropriato la

continuazione del dialogo e il direttore

di scena replica anticipando una mossa

successiva. Invece, avviando subito il dia-

logo con la domanda chi manca?, il ca-

pocomico potrebbe correre il rischio di

introdurre una premessa non condivisa

da chi risponde: infatti, se tutti fossero

presenti, non avrebbe senso presupporre

che manchi qualcuno. Per questo moti-

vo, chi manca? è una d omanda «ri-

schiosa» (risky, cfr. Wunderlich 1981).

Per casi simili, si è proposta un’interes-

sante analisi (F auconnier 1981). Po-

niamo che il locuot ore, proferendo

Manca qualcuno? compia con essa una

tipica safe question, che invita a inferirne

una “rischiosa”. Per cogliere questa fun-

zione della frase proferita, l'interlocutore

tiene conto dell'azione di vari fattori.

Vi è anzitutto un principio di interruzio-

ne: proferendo quella frase, si interroga

su una premessa positiva di una doman-

da “rischiosa” (Chi manca?); come è su-

bito evidente, la risposta positiva costi-

tuisce una situazione che permetterebbe

di proferire Chi manca?

Ma colui che risponde conosce tale

NS5 108-118 lingue:Layout 1 15-11-2012 16:44 Pagina 117

Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX118

procedimento e abbrevia («interrom-

pe») l’esecuzione del «rituale» reagendo

non alla frase «letterale», ma alla richie-

sta successiva: il principio di interruzio-

ne è connesso con un principio di eco-

nomia.

Si ha pure un’anticipazione sociale.

La frase Manca qualcuno? verte su una

condizione che, se è soddisfatta, attiva

la domanda implicita; l'interlocutore an-

ticipa il proferimento di Chi manca? ri-

spondendo fin da subito alla domanda

inferita.

La descrizione delle pratiche dialogiche

sopra considerate mette in luce valori

che hanno per tinenza all’interno di

uno specifico quadro di riferimento cul-

turale – nella fattispecie, quello della tra-

dizione europea occidentale in senso

ampio. In effetti, gli studiosi attenti alle

dinamiche della comunicazione inter-

culturale, pur muovendo da vari orien-

tamenti teorici, sono concordi nell’os-

servare che i valor i specifici di una

cultura non si lasciano ridurre a «mo-

nolingual universals or static g lobal

comparisons» (Clyne 1996, p. 196).

Piuttosto, questi vanno c ompresi ed

esplicitati all’interno della cultura in esa-

me e ad essa vanno ricondotti:

It is impossible for a human being to studyanything […] from a totally extra-culturalpoint of view […] We can find a point ofview which is universal and cultur al-independent, but we must look for such apoint of view not outside all humancultures […] but within our own culture,or within any other culture that we ar eintimately familiar w ith (Wierzbicka1991, p. 9).

A dire il v ero, attraverso l’esperienza

concreta della comunicazione tali valori

possono essere individuati anche da un

soggetto che non sia cresciuto in quella

cultura, a patto che quest’ultimo sia di-

sposto ad accogliere la diversità culturale

e a farne esperienza. Ma per compren-

dere e sperimentare la diversità delle cul-

ture nella comunicazione sembra ragio-

nevole porre come requisito una com-

prensione e una esperienza autentica

della propria cultura specifica. A tale

scopo può essere utile anche la descri-

zione delle domande implicite qui pro-

posta.

Giovanni GobberUniversità Cattolica,

sede di Milano

LINGUE, CULTURE E LETTERATURE

BIBLIOGRAFIA

M. Clyne, Inter-cultural communication at work. Cultural values in discourse. Cambridge University Press, Cambridge 1996 [1994].G. Fauconnier, Questions et actes indirects, «Langue Française» 52, 1981, 44-55.C. Kerbrat-Orecchioni (dir.), La question, PUF, Lyon 1991.D. Sperber e D. Wilson, Relevance. Communication and Cognition, Basil Blackwell, Oxford 1986.S. Stati, Le transphrastique, PUF, Paris 1990.A. Wierzbicka, Cross-Cultural Pragmatics, Mouton de Gruyter, Berlin 1989. D. Wunderlich, Questions About Questions, in W. Klein e W. Levelt (a cura di), Crossing the Boundaries in Linguistics. Studies Presentedto Manfred Bierwisch, Reidel, Dordrecht 1981, pp. 131-158.

OPERE LETTERARIE CITATE

Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari [1940], Mondadori, Milano 1989. Primo Levi, Se non ora, quando?, Einaudi, Torino 1982.Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d'autore [1921], Mondadori, Milano 1990. Elio Vittorini, Uomini e no [1945], Mondadori, Milano 1996.Frank Baum (with pictures by W.W. Denslow), The wonderful wizard of Oz, Geo M. Hill Co., Chicago 1900Agatha Christie, The Mysterious Affair at Styles, www.gutenberg.orgJules Verne, 20,000 Leagues Under the Sea, www2.hn.psu.edu/faculty/jmanis/julesverne/20000leagues.pdf

NS5 108-118 lingue:Layout 1 15-11-2012 16:44 Pagina 118

contaminato da un’«essenziale

ambiguità» (p. 145). Prova ne è

un tratto che tocca il cuore della

creazione in generale e di quella

artistica in particolare: la «recetti-

vità attiva» (p. 175).

Mettendo finalmente a fuoco il

tema della dignità umana, viene

detto che ad essa pertiene un

«principio misterioso» che può

essere enucleato solo a condizio-

ne di renderne esplicita «la quali-

tà propriamente sacrale», «quali-

tà» che si mostra tanto più chiara-

mente, quanto più l’essere uma-

no è considerato «nella sua nudi-

tà e nella sua debolezza» (p. 176).

Ne discende che la dignità uma-

na può essere pienamente rico-

nosciuta solo in quel regime di

«riconoscimento magnanimo

che si trova alla base della frater-

nità» e non dove domina la

«rivendicazione che suppone

l’eguaglianza» (p. 181).

In conclusione, è nel segno di

una connessione che Marcel

intende chiudere le sue riflessio-

ni: quella, appunto, fra creatività e

fraternità, la cui eco risuona nel

nostro cuore «non solamente

come un ricordo, ma come una

promessa d’eternità» (p. 225).

(Giuseppe D’Acunto)

X. Tilliette

Morte e immortalità

Morcelliana, Brescia 2012,

pp. 224, € 16.

Superata la svolta dei novan-

t’anni, con un fisico atletico e il

volto scarno ed etereo, austero e

dolce dell’asceta, Xavier Tilliette

non cessa di stupire, rammen-

tando con il suo slancio una vita

esemplare dedicata alla ricerca

no successivo un tema diviene,

per lui, centrale: la fedeltà. Tema

declinato ontologicamente, in

quanto vivere nel segno di essa si-

gnifica accedere alla sfera di «un

noi di comunione» (p. 108), ossia

«progredire in una direzione che è

quella stessa dell’essere» (p. 105).

Oltre la fedeltà, un altro tema che

ha giocato, per lui, un ruolo im-

portante è stato l’istanza di resti-

tuire alla nostra esperienza il suo

peso ontologico. A partire da

essa ha preso corpo la distinzio-

ne fra “problema” e “mistero”, fra

l’uno che ci sta davanti nella sua

totalità e l’altro in cui ci troviamo,

invece, coinvolti. «Il termine mi-

stero si applica a ciò che non può

essere problematizzato, a ciò che

rifiuta ogni problematizzazione».

Tuttavia, esso non è mai sinoni-

mo di oscurità, ma, in quanto è

qualcosa che ci avvolge, «deve

essere cercato più sul versante

della luce» (p. 124).

Giunti a questo punto, Marcel si

dichiara in grado di vedere più

chiaramente in che cosa consista

la dignità umana, di cui si parla

nel titolo. Il punto da cui partire ci

viene da qual dato esistenziale

che è la familiarità di ognuno con

il proprio corpo. Con quest’ulti-

mo, abbiamo un rapporto nel se-

gno dell’avere, anche se è in gio-

co qualcosa di più del semplice

possesso. E tuttavia sembra pro-

prio che sia a questo tipo di “ave-

re”, forse indefinibile, che si riferi-

sce ogni nostro possesso. Ci im-

battiamo, qui, in un paradosso:

«ogni possesso si riferisce in

qualche maniera ad un avere, che

a sua volta non si lascia definire

in termini di possesso» (p. 142).

L’avere sembra, letteralmente, ri-

solversi nell’essere, ad esempio,

nel caso della fede: un qualcosa

che appare essermi così consu-

stanziale da fare, veramente, cor-

po vivente con me stesso. Notan-

do come l’umano dimora, prefe-

ribilmente, nella zona intermedia

fra l’essere e l’avere, Marcel con-

clude che l’io non è mai puro, ma

Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX 119

punto di vista esistenziale, signifi-

ca «cercare di correggere uno

stato di relativa indeterminazio-

ne» (p. 72). Ogni domanda, cioè,

implica un giudizio disgiuntivo

che può prospettare un’alternati-

va o anche più possibilità, fra cui

va esercitato un discernimento.

Ne discende che la coscienza ha

un profilo intersoggettivo e si

configura sempre come il terreno

d’incontro fra una domanda e

una risposta. Viene delineata,

così, un’«antropologia filosofica o

esistenziale», imperniata sulla

«distinzione fondamentale fra

esistenza ed oggettività»: le cose

non sono mera esteriorità, res ex-

tensa, ma la loro realtà è appresa

in funzione di quell’«essere incar-

nato» (p. 84) che sono io e che

sono gli altri. Già a livello della

semplice sensazione recepiamo

dei messaggi che non sono altro

che irradiazioni dell’essere-nel-

mondo di chi ci circonda. E nel-

mondo si è, innanzi tutto, a parti-

re dall’esperienza di essere-il-pro-

prio-corpo.Marcel, abbracciando

con uno sguardo comprensivo la

sua opera, nota come spesso, in

essa, la creazione drammatica ab-

bia anticipato il pensiero discorsi-

vo. E ciò sarebbe avvenuto del

tutto naturalmente, visto che «la

riflessione è sempre successiva

all’esperienza» (p. 99).

Il pensiero filosofico esistenziale,

sviluppato sistematicamente nei

saggi della maturità, avrebbe tro-

vato una prefigurazione in dram-

mi scritti dieci o quindici anni pri-

ma. In questo contesto, viene

svolta un’osservazione molto in-

teressante in sede di poetica del-

la composizione artistica. Poiché

«siamo anche ciò che non siamo

divenuti», da noi emana l’alone di

una «contro-realtà» che, non in-

carnandosi nelle nostre azioni,

ma proiettandosi su di esse

«come un’ombra», funge da

«suolo nutritizio della creazione

propriamente detta» (pp. 100-1).

Il 1929 segna la conversione di

Marcel al cattolicesimo e dall’an-

G. Marcel

La dignità umana e le sue radici

esistenziali a cura di E. Piscione,

Studium, Roma 2012, pp. 240,

€ 17,50.

Il volume, edito a Parigi nel 1964,

raccoglie un ciclo di lezioni che

Gabriel Marcel tenne ad Harvard

nel 1961. Nella «Prefazione», il

pensatore francese riflette sul ca-

rattere di «bipolarità» che percor-

re tutta la sua opera, ossia sul fat-

to che essa si è svolta su «due ver-

santi», «troppo spesso considerati

isolatamente»: «il versante filosofi-

co e il versante teatrale» (p. 26).

Se, infatti, il tema a cui si è dedi-

cato maggiormente è stato l’in-

tersoggettività, ebbene, essa è

pienamente riconosciuta solo se

la si traduce non in un linguag-

gio obiettivo, ma in una forma

drammatica: un’espressione che

è «esistenziale per eccellenza»,

dove «l’essere è trattato come

soggetto ed eventualmente

come colui che decide di sé». In

tal senso, è «del tutto normale

che il filosofo esistenziale diventi

drammaturgo». Anzi, è proprio

nel dramma che «il suo pensiero

si attualizza, diventa evidente,

non solamente al pubblico […],

ma anche a lui stesso» (p. 27).

Poiché all’epoca in cui tiene que-

ste lezioni Marcel, nato nel 1889,

può già vantare un lavoro filoso-

fico che copre l’arco di quasi

mezzo secolo, egli intende indivi-

duare le costanti che tale lavoro

hanno caratterizzato. Le rinviene

nell’idea dell’interrogarsi, che, dal

LIBRI a cura di Luigi Tonoli e Lucia Degiovanni

Esperienza, memoriae promessa d’eternità

NS5 119-120 libri:Layout 1 15-11-2012 16:21 Pagina 119

dice» (p. 10). Una poesia che, riap-

propriandosi di tutta la sua forza

e elevandosi dal mero livello di

parola scritta, diventa costruzio-

ne di modelli collettivi, occasione

per l’io di spingersi verso le re-

gioni dell’altro. Una “Forma reci-

tata”, appunto. (Mabel Giraldo)

M.T. Giuffrè

Per vie di mistero. Angelina

Lanza Damiani e la scrittura

di sé. Novecento rosminiano

in Sicilia

Edizioni Studium, Roma, 2012,

pp. 397, € 30,50.

Maria Teresa Giuffrè, siciliana di-

rettrice dell’omonima casa edi-

trice, pubblica Per vie di mistero.

Angelina Lanza Damiani e la

scrittura di sé. Novecento rosmi-

niano in Sicilia. Il testo presenta

la figura di Angelina Lanza Da-

miani (1879-1936) la cui ric-

chezza sia in termini di pensiero

che, in quantità di versi prodot-

ti, è tale da esigere maggiori

scavi e approfondimenti rispet-

to a quelli finora a lei dedicati. Il

volume offre la possibilità di ri-

leggere una delle più importan-

ti intellettuali di Palermo e della

Sicilia. Una vita, quella della

poetessa, caratterizzata fin dal-

l’infanzia da un forte interesse

per le arti e le scienze, ma so-

prattutto per la fede. Una fede

che le fornirà quel rifugio e

quella pace che la vita terrena

le nega, e che si fece sempre più

viva e intensa a partire dalla let-

tura di Rosmini, conosciuto at-

traverso le opere di Fogazzaro e

lo scambio epistolare con l’ami-

co e guida spirituale padre Boz-

zetti. (Mabel Giraldo)

mistero invisibile, propriamente

immemorabile se non attraver-

so la morte. Inoltre coglie un’af-

finità fra intuizione intellettuale

dell’io e morte. È questo il tema,

condotto sino alle sue estreme

conseguenze, della dotta igno-

ranza, da Socrate a Pascal, da

Cusano a Schelling, da Agostino

a Tilliette. Non si tratta della

smemoratezza dei troppo razio-

cinanti né di senili oblivioni di

poco mature riflessioni, bensì

del culmine estatico del sapere:

un uscire fuori di sé a vuoto,

senza ricongiunzioni o prensio-

ni, quindi pressoché mortale,

tuttavia nella cieca esperienza

intuitiva, nella obliosa memoria

dell’immemorabile capace di

sopravvivere.

H. Jonas

Materia, spirito e creazione

Morcelliana, Brescia 2012, pp.

104, € 10,00.

Da un sussurro, da un grido, da

un atto d'amore o da un gesto

di rabbia violenta? Nessuno sa

da dove sia uscito il mondo. Ma

l'ignoranza è madre del raccon-

to: meno conosciamo e più ci

piace ricamare parole ai bordi

del mistero. Hans Jonas, ebreo e

tedesco, ha le carte in regola per

fare bella figura anche in questo

campo. Nel saggio Materia, spiri-

to e creazione fa capire che il suo

demiurgo non si accontenta di

quanto si racconta ad Atene.

Nella realtà fisica è sopita una

voglia nascosta di bene, avversa

al male. Il vecchio dire dei profeti

di Gerusalemme qui assume

toni di inno cosmologico. «La di-

mensione interiore in quanto

tale va attribuita alla sostanza

Nuova Secondaria - n. 5 2013 - Anno XXX120

LIBRI a cura di Luigi Tonoli e Lucia Degiovanni

cosmica universale come presta-

zione propria». Il nostro destino

umano di perenne inquietudine

non ce lo siamo creati da soli, ed

è per questo che, da soli, non lo

sappiamo capire.

Incontri letterari

V. Moretti

Le forme recitate – aspetti

della letteratura tra Otto

e Novecento

Edizioni Studium, Roma, 2011,

pp. 224, € 18,50.

Poeta abruzzese, critico letterario

e, oggi, Professore presso l’Uni-

versità di Chieti, Vito Moretti nel

suo ultimo lavoro, Le forme recita-

te – aspetti della letteratura tra

Otto e Novecento, propone un

viaggio nella sua terra attraverso

le personalità che l’hanno resa

celebre. Queste figure, prove-

nienti dal mondo della letteratu-

ra e della cultura a cavallo tra

‘800 e ‘900, vengono raccontate

in forma sia di resoconti di incon-

tri, come quello di D’Annunzio

con Michetti e Vicoli, e di amici-

zie, come quella tra il poeta pe-

scarese e Laura Grappolo e Gan-

dolin, sia di immaginari storici

celati dietro un gesto che diven-

ta icona di altro, come il dito di

Fra Cristoforo nei Promessi Sposi,

o tra i versi e le strofe, come acca-

de nelle opere di Rossetti, simbo-

lo, secondo De Sanctis, degli

ideali di libertà del Risorgimento

italiano. Legami e panorami im-

portanti per gli equilibri del tem-

po, «in cui i materiali dell’essere

si innestarono ai paesaggi e ai

processi della storia, facendo di

essi quel che oggi si conosce e si

scientifica e alla meditazione fi-

losofico-teologica, alla carità fra-

terna e alla preghiera mistica,

alla raffinatissima scrittura e al-

l’esercizio di una sterminata me-

moria. Proprio alla memoria egli

ha dedicato uno dei suoi più ri-

fulgenti volumi, La Mémoire et

l’Invisible (2002), che esce in edi-

zione italiana alleggerita, rispet-

to alla ginevrina, di alcuni capi-

toli relativi a Goethe e Schelling,

Newmann e Dostoevskij, e con

un titolo che abbandona la me-

moria per indicare il nucleo teo-

reticamente più profondo del-

l’opera (Morte e immortalità).

La vivente memoria di Tilliette

non è rivolta a un remoto passa-

to semplicemente, nemmeno a

quel Chrónos ádelos, tempo

oscuro e immemorabile, vetusto

e non più visibile, che precede i

tempi storicamente ricostruibili.

Il passato scrutato dalla memo-

ria più vera e profonda è un

eterno passato, presupposto ad

ogni tempo antico, attuale o av-

venire. Il passato di cui è degna

la memoria autentica è quello

mai stato presente, reso tale,

passato eterno, dall’eternità in

cui Dio lo ha posto negandolo,

vincendolo, sottoponendoselo,

essendo egli eternamente posi-

tività presente, bene, essere, in

quanto tale escludente attiva-

mente la negatività, il male e il

non-essere, irrevocabilmente

per sempre. Tuttavia tale eterno

passato è quanto permette di

comprendere appieno l’unicità

di Dio, del Dio vivente che esclu-

de ogni altra realtà. Gettare lo

sguardo in tali eternamente re-

condite abissalità divine è dun-

que l’esercizio più vertiginoso,

ma anche istruttivo per la me-

moria. Confrontandosi soprat-

tutto con Schelling, ma anche

con Agostino e Bergson, Vico e

Freud, Rilke e Marcel, nonché

con tanti altri filosofi e teologi,

letterati e poeti, Tilliette illustra

innanzitutto come la memoria si

volga costantemente al proprio

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