La scoperta dell'altro. Note su colonialismo, selvaggi e potere disciplinare in età moderna
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Università di Siena
Facoltà di Lettere e Filosofia
Storia moderna III, prof. Gaetano Greco
a. a. 2008/2009
La genesi dell’«altro». Alcune notesu scoperte geografiche, colonialismoe nascita dello stato moderno
di Marco Ambra
INDICE
Introduzione
1. La scoperta dell’ «altro»
1.1 Perché un’espansione europea? Cause e vicende diuna conquista che formarono un’identità
1.2 L’«altro» e gli europei: il problema dellacomunicazione
1.3 Gli europei e l’«altro»: dalla costruzione del mitoalla scoperta della diversità1.3.1 Attitudine coloniale e attitudine antropologica.I filosofi e i selvaggi1.3.2 Stato di natura, «selvaggi» e contratto: Hobbese Rousseau
2. La modernità e la nascita dello stato moderno comedisciplinamento
2
2.1 Gli aspetti illiberali dell’epoca moderna e laformazione dello stato moderno
2.2 Tecniche disciplinari
Introduzione
La spiegazione storica, la
spiegazione come ipotesi
di sviluppo è solo un modo
di raccogliere i dati –
della loro sinossi. È
ugualmente possibile
vedere i dati nella loro
relazione reciproca e
riassumerli in una
immagine generale che non
abbia la forma di
3
un’ipotesi sullo sviluppo
cronologico.
(L. WITTGENSTEIN, Note sul
“Ramo d’oro” di Frazer, tr. it.
a cura di S. de Waal,
Adelphi, Milano 1975, p.
28.)
L’atmosfera tra l’onirico e il reale del racconto Nella
colonia penale di Kafka rappresenta con una lucidità
angosciata l’origine (Herkunft), o meglio la complessa
trasformazione, della giustizia penale nell’età moderna.
La narrazione verte sulla relazione triangolare tra il
protagonista, un esploratore giunto dall’estero a
osservare e giudicare la procedura penale che lì viene
messa in atto, l’ufficiale preposto all’illustrazione del
funzionamento di questa procedura e il condannato, in
attesa di subire il supplizio. Ma il baricentro di
questa relazione, il vero protagonista del racconto, è la
macchina con la quale vengono giustiziati i condannati
della colonia. Una «macchina curiosa» come osserva
l’ufficiale, soprattutto per la macabra complessità del
suo funzionamento:
Tanto il letto che il disegnatore hanno una propria batteria
elettrica; al letto occorre per conto suo, al disegnatore per
l’erpice. Appena il condannato è stato fermato con le cinghie,
vien messo in moto il letto, che comincia a tremare in4
piccolissime e rapidissime scosse, tanto in senso ondulatorio
quanto sussultorio contemporaneamente. Avrà visto apparecchi
simili nelle case di cura; con la differenza che nel nostro
letto i movimenti sono esattamente calcolati, poiché devono
concordare perfettamente con i movimenti dell’erpice. E proprio
a questo è affidata l’esecuzione vera e propria della
condanna.1
Ma in cosa consiste «l’esecuzione vera e propria della
condanna»? Qual è la posta in gioco simbolica di un
meccanismo penale così macabro e preciso al tempo stesso?
Per rispondere a questi interrogativi, vale la pena
soffermarsi sulle tre figure che costituiscono l’ossatura
del racconto e da cui è possibile ricavare tre importanti
spunti ermeneutici.
In primo luogo l’ambiguità della macchina rispetto al
tipo di giustizia che essa traduce in atto. Da un lato
essa infatti rappresenta un tipo di giustizia al quale
l’immaginario collettivo contemporaneo è abituato: un
meccanismo freddo e implacabile. La macchina come
espressione di una giustizia imparziale e calcolatrice.
D’altro canto, però, ciò a cui da luogo la macchina, è la
manifestazione del potere sovrano, quel potere contro cui
il condannato si è scagliato per meritare la punizione,
direttamente sul suo corpo:
L’esploratore, pur avendo l’intenzione di fare diverse domande,
in presenza del condannato si limitò a chiedere soltanto:
1 KAFKA F., Racconti, tr. it. a cura di E.Pocar, Mondadori, Milano 2006,p.289.
5
«Conosce la sua condanna?». «No» rispose l’ufficiale […] e
aggiunse poi: «Sarebbe inutile comunicargliela, tanto imparerà
a conoscerla sul suo corpo».2
È, per usare un’espressione foucoltiana, un «potere di
dare la morte» lontano dalla idea occidentale e liberal-
democratica di giustizia, tutta imperniata su un ordine
del discorso che concerne la vita. La macchina descritta
da Kafka, il suo funzionamento così esatto e la
dimensione fisica e spettacolare del potere che essa
esprime, può dunque essere assunta a punto d’intersezione
tra due tipi di giustizia che si incrociano tra XVI e
XVII secolo. Una giustizia punitiva che fa del supplizio
il suo rituale di manifestazione del potere sovrano da un
lato, una giustizia punitiva che fa invece
dell’efficienza e della commisurazione della pena i suoi
segni distintivi, dall’altro. Ma in cosa invece
convergono, in cosa possiamo individuare, il loro punto
d’intersezione?
Entrambi questi modelli, che nella storia complessa di
quei secoli non si sono mai presentati “puri”, hanno come
obiettivo, come materia informe da marchiare o formare,
il condannato. Dal punto di vista della giustizia,
infatti, uno dei segni più tangibili dell’età moderna è
la nascita o lo sviluppo (laddove era già presente) del
rito accusatorio accanto a quello inquisitorio; di una
giustizia concordata accanto ad una giustizia che
procedeva dall’alto, gerarchica. Questo ebbe senz’altro
2 Ivi, p.290.6
il luogo più visibile di riscontro nei discorsi intorno
alla figura del condannato. Espressione dell’alterità, di
un’alterità non ancora radicale ma come parte di una
grande rappresentazione “teatrale” nella giustizia dei
supplizi, egli diventa nel corso del XVII secolo un
soggetto da formare, una variabile dipendente all’interno
di un sistema di calcolo complesso. Cosicché il
condannato diviene una quantità da plasmare e regolare
secondo le necessità del potere, che a sua volta muta da
emanazione di un ordine divino e immutabile a ricerca di
un equilibrio più o meno stabile. Il condannato sveste i
panni della minaccia all’ordine divino, dell’eretico, del
non-umano per vestire i panni di un'altra alterità, sulla
quale poter intervenire, ma anche più facilmente
esercitare un potere di controllo:
D’altronde, il condannato aveva talmente l’aspetto di un cane
sottomesso, da dare l’impressione che lo si poteva lasciar
correre liberamente per i pendii e che bastava chiamarlo poi
con un fischio all’inizio dell’esecuzione, perché accorresse.3
Infine, terza e ultima figura esplicativa dell’età
moderna presente nel racconto, il significato della
colonia penale. Essa è innanzitutto un luogo al limite
della “normalità” giudiziaria, in cui il diritto è
violenza: «Comunque occorreva non dimenticare che si
trattava di una colonia penale, che si doveva quindi
ricorrere a misure speciali e che era necessario
3 Ivi, p.285.7
procedere militarmente in tutto.»4 Non è un caso che nel
racconto la pena di morte venga inflitta ai detenuti
anche alla minima infrazione degli ordini.
Ma la colonia penale è soprattutto il luogo d’incontro,
anche nel nome, tra due scenari dell’età moderna: quello
conseguente dall’espansione europea sul globo, dalla
scoperta dell’ altro esterno e dalla sua colonizzazione;
quello della formazione nelle organizzazioni politiche
europee di istituzioni centralizzate, lo scenario della
nascita dello stato moderno, attraverso la scoperta dell’
altro interno e delle «tecniche disciplinari» che
rappresentarono il modo più vistoso di funzionamento di
questa nuova realtà. Colonia-penale, espansione e
disciplinamento: è questo il binomio a partire dal quale
è possibile gettare uno sguardo su una età moderna
multidimensionale, complessa.
Se infatti si considera la storia moderna come la vicenda
dell’espansione e affermazione di una piccola tribù,
quella europea, a scapito di tutti gli altri “poli di
civilizzazione” del pianeta, bisogna allora prendere in
considerazione gli elementi che resero possibile questa
vicenda. E sicuramente la formazione irregolare e
stratificata di organizzazioni, istituzioni e
amministrazioni “moderne”, accanto alla capacità di
controllo e integrazione culturale, ad una comunicazione
efficiente, ereditata dall’alto Medioevo e dall’incontro-
scontro tra cultura tardo-antica, greco-romano-giudaica,4 Ivi, p.293.
8
e culture “barbare” nordiche e orientali, fecero degli
europei i protagonisti assoluti dell’età moderna.
Protagonisti soprattutto in negativo, se si considerano
le devastazioni causate dalla formazione della loro
identità negli altri continenti. Così, ad esempio, Paolo
Viola dice a proposito della distruzione e colonizzazione
dell’America nel XVI secolo:
Nel complesso gli europei in America hanno fondato la loro
personalità sociale e culturale sulla scoperta di un’alterità
radicale, sulla sua distruzione e sulla sua ricostruzione ex
novo di un continente; pianificata o lasciata all’iniziativa
privata, ma in ogni caso realizzata dopo aver cercato di
annullare per quanto possibile ogni eredità del passato.5
Ora la «distruzione» e «ricostruzione ex novo» di cui parla
Viola può anche essere utilizzata come una lente
d’ingrandimento attraverso la quale leggere quella che fu
la vicenda interna della formazione dell’identità
europea, delle sue istituzioni e della sovranità moderna.
È questa la domanda e al tempo stesso l’ipotesi che, nei
limiti di capacità e di sintesi, innerva il presente
lavoro.
Consideriamo l’età moderna come un “quadro”, uno scenario
a più dimensioni, lo spazio dei luoghi geometrici di una
geometria non-euclidea. È possibile individuare alcuni
punti d’intersezione (dei punti di contatto tra scenari a
volte, paradossalmente, paralleli) tra l’inizio
5 VIOLA P., L’Europa moderna. Storia di un’identità, Einaudi, Torino 2004, p.87.9
dell’espansione europea sul globo e quel grande processo
di disciplinamento che va sotto l’etichetta di
“formazione dello stato moderno”?
Non ci rimane che fare come l’esploratore del racconto di
Kafka e viaggiare in questa complessa vicenda,
lasciandoci indietro la pretesa di comprendere noi
stessi, ma «solo allo scopo di vedere»6 e stabilire delle
relazioni interessanti per lo storico.
1. La scoperta dell’ «altro»
1.1 Perché un’espansione europea? Cause e vicende di una
conquista che formarono un’identità
Comprendere in che modo e per quali motivi, alla fine del
XVI secolo, due delle monarchie iberiche, abbiano
avviato la ricerca di rotte, terre e risorse sui
territori che si affacciano sull’Oceano Atlantico è uno
di quegli esercizi attraverso i quali lo storico mette
tra parentesi la logica deduttiva e lineare del
ragionamento scientifico per sposare una prospettiva più
ampia, mai completamente analizzabile.
Certamente l’espansionismo mussulmano nel Mediterraneo,
il controllo esercitato dalla Repubblica di Venezia sui
traffici commerciali con l’Oriente, la nascita di
6 KAFKA F., op.cit., p.299.10
economie sempre più bisognose di risorse, rappresentarono
degli stimoli formidabili alla rapida spartizione
portoghese e castigliana dei territori atlantici. Ma
questa catena causale non basta a delucidare il complesso
meccanismo che nel giro di pochi decenni portò prima i
portoghesi poi anche i castigliani a imporre la loro
egemonia sulle rotte atlantiche e indiane.
Innanzitutto le prime esplorazioni geografiche
sull’Oceano Atlantico furono realizzate alla fine del XIV
secolo da esperti navigatori come quelli delle flotte
genovesi, con lo scopo chiaramente economico di aggirare
il Mediterraneo orientale (non era nota l’estensione del
continente africano) e contrattare direttamente il prezzo
delle spezie asiatiche. In questo modo sarebbero stati
aggirati tre “monopoli” commerciali, tre traffici
sottoposti ad uno stretto controllo da parte delle
istituzioni commerciali e politiche occupanti il
territorio da cui transitavano o in cui si trovavano le
merci. È il caso della triade schiavi-oro-spezie
controllata rispettivamente dai regni mussulmani
d’Africa, dagli imperi orientali e dalla Repubblica di
Venezia. Fu questa ad esempio la vicenda che portò i
genovesi alla scoperta delle isole Canarie tra il 1336 e
il 1341.
In secondo luogo, nella seconda metà del Quattrocento,
all’avanguardia nell’ambito delle esplorazioni
atlantiche, non troviamo la Repubblica di Venezia o
Genova. Troviamo invece una monarchia iberica, quella
portoghese. Sia per la collocazione geopolitica11
(schiacciata tra Castiglia e Oceano Atlantico), sia
perché la dinastia regnante, gli Aviz, era uscita
vincitrice da una guerra civile anche attraverso
l’appoggio dei ceti mercantili interessati ai traffici
commerciali con l’Oriente. A ciò va poi aggiunta la
presenza di un’aristocrazia feudale imbevuta dei “valori”
della contemporanea reconquista, la quale all’esigenza
dell’espansione univa uno spirito di crociata non
secondario nell’atteggiamento che portoghesi e spagnoli
terranno nei confronti delle popolazioni extraeuropee.
Per la verità il fanatismo religioso dell’aristocrazia
portoghese sarà fatale alla stessa corona quando, nel
1578, la “crociata” di re Sebastiano I Aviz contro gli
infedeli del Marocco termina nella disastrosa battaglia
di Alcazarquivir, causa della crisi dinastica al termine
della quale Filippo II verrà incoronato anche re del
Portogallo.
Partendo da questa situazione socio-politica, i
portoghesi, riuscirono in poco più di mezzo secolo a
doppiare il capo di Buona Speranza (1497) e a raggiungere
Calicut, sulla costa occidentale del sub-continente
indiano, nel 1498. La situazione che trovarono in India
non corrispose però alla facilità di imposizione del
controllo commerciale sulle spezie immaginata. In Oriente
erano presenti antiche civiltà, poteri e istituzioni
radicati, sostenuti dai proventi economici del commercio
con l’Occidente. Per questo motivo i lusitani seguirono
una duplice strategia nel tentativo di monopolizzare il
mercato delle spezie. Da un lato evitarono la vera e12
propria colonizzazione, la penetrazione militare
all’interno, stabilendo semplicemente degli avamposti
commerciali e militari sulla costa. In secondo luogo
sfruttarono a loro vantaggio le divergenze politiche tra
i signori locali, appoggiando chi garantiva il loro
monopolio. Questo non vuol dire che nel loro contatto con
le civiltà e le culture dell’India occidentale non
utilizzarono, qualora le loro condizioni non fossero
state accettate, la violenza. Nel 1502 l’ostile città di
Calicut, il sovrano della quale aveva rifiutato
l’apertura al commercio con la corona portoghese, venne
cannoneggiata da una flotta di 14 navi. Si tratta solo di
un esempio, che in fin dei conti prende in considerazione
un avvenimento “evenemenziale”. Ma la violenza
quotidiana, sistematica, con cui i portoghesi penetrarono
nelle aree limitrofe ai loro avamposti, con cui diffusero
fanaticamente la religione cattolica, è riscontrabile in
una letteratura ben più vasta. Basti pensare
all’ambiguità dei portoghesi in Africa: l’imposizione ai
sovrani locali del cattolicesimo si accompagnava alla
partecipazione alla tratta degli schiavi.
Queste brevi e parziali considerazioni mettono in
evidenza come a farla da padrone nelle variabili che
contribuirono all’espansione europea sul pianeta a
partire dal XVI secolo, c’è un fattore, per utilizzare un
vocabolario marxiano, squisitamente ideologico. E questo
fattore è senza dubbio la sfera ideologica di ciò che
definiamo capitalismo. Durante il Medioevo gli europei
avevano prodotto unicamente per consumare e scambiare, il13
commercio non conosceva la stessa logica pianificatrice
che conoscerà nei secoli successivi, il denaro era
considerato, a differenza della terra, instabile e
moralmente “male”. Tra il XIV e il XV secolo, invece, gli
europei iniziarono ad accumulare il denaro come mezzo
legittimo per acquisire la terra, dunque come mezzo per
acquisire rango e riconoscimento sociale. Un nuovo
scenario sociale venne gradualmente delineandosi e
innestandosi su quello dominato dalle aristocrazie
feudali. Sebbene infatti «nell’Età moderna, gli europei
hanno continuato a conquistare terra e a sottomettere
persone, anche più di prima, soprattutto fuori d’Europa»
hanno anche iniziato a ritenere normale l’utilizzo del
denaro, l’arricchimento, l’autorealizzazione nel profitto
economico; «hanno sostituito una cultura della mobilità,
della ricchezza e della crescita, alla cultura della
stabilità, del prestigio, dell’imposizione
dell’autorità».7
Ovviamente questa cesura di rilevanza storica non va
assolutizzata, non va letta come un taglio netto tra un
Medioevo impermeabile all’economia di mercato e un’età
moderna omogeneizzata dalle leggi del capitale. Si tratta
però di un aspetto da non sottovalutare, almeno nella
vicenda che ci riguarda, dato che l’organizzazione di
un’economia capitalista fu una delle armi con cui gli
europei aggredirono, e attraverso cui giustificarono
questa aggressione, alle culture degli altri continenti.
Perché un’ideologia di questo tipo permise di creare le7 VIOLA P., op.cit., p.7.
14
condizioni di sviluppo materiale alla base del primato
europeo in età moderna: una spiccata capacità produttiva
e una propensione all’innovazione tecnologica senza
eguali.
Ma questo modo di pensare la produzione materiale in
termini “moderni”, attraverso la lente dell’innovazione,
si innestò spesso su una realtà caratterizzata dalla
forte presenza di ideologie di stampo feudale, in un
mondo in cui l’organizzazione gerarchica della società,
la discendenza e l’onore, erano saldamente al primo posto
nella scala dei valori sociali. La “rivoluzione
scientifica” del Seicento determinò sì, con l’utilizzo
del ragionamento matematico accanto ad un rigoroso
sperimentalismo, un clima di critica intellettuale nei
confronti della tradizione e un forte legame ideologico
tra cultura europea e razionalità. Ma questo avvenne nel
corso di un lungo periodo e a partire da un secolo, il
Seicento, che mostrerà tutta la portata culturale
dell’impatto con civiltà estremamente differenti. Nel
Cinquecento il quadro ideologico è ancora caratterizzato
da elementi della tradizione medievale, accanto ad
istanze di rinnovamento o meglio di “riforma” del
pensiero. Basta osservare l’effetto che le relazioni di
viaggio dei primi navigatori italiani, con le loro
descrizioni dei popoli del Nuovo Mondo, sortirono sulla
coscienza italiana del XVI secolo8. Tanto su quella
religiosa quanto su quella del nascente Umanesimo laico e
8 Cfr. ROMEO R., Le scoperte americane nella coscienza italiana del Cinquecento, Laterza, Roma-Bari 1989.
15
classicista. A parte la rinascita di miti come quello di
Atlantide, della mitica età dell’oro e della scoperta del
Paradiso terrestre, gli umanisti italiani videro nei
“selvaggi” descritti dalle relazioni di viaggio delle
vere e proprie incarnazioni dei canoni estetici dell’uomo
antico, quello reso immortale dall’arte classica. E
questo è solo un esempio di come l’etichetta di “moderno”
fosse in alcuni casi incongrua rispetto al modo effettivo
di interpretare la realtà degli europei del Cinquecento.
Se gli storici hanno visto dunque nella nascita del
capitalismo e nella cesura rappresentata dalla scoperta
dell’America l’avvio di una nuova epoca, l’età moderna,
non bisogna dimenticare in quale intricato quadro
ideologico e religioso questa scoperta è avvenuta.
Non è un caso dunque che il XV secolo fu caratterizzato
tanto dalle innovazioni nel campo delle tecniche navali,
quanto dallo sviluppo di conoscenze legate alla geografia
e alla cartografia. Nel primo caso l’impulso dato dalle
prime navigazioni atlantiche, fece sì che gli armatori
genovesi sviluppassero delle imbarcazioni in grado di
affrontare le insidie dell’Oceano: la caracca, la
caravella e il galeone. Nel secondo caso vale la pena
citare una data significativa: il 1479, anno di
pubblicazione della prima edizione a stampa della Geografia
di Tolomeo di Alessandria d’Egitto (II secolo d.C.).
Sulla scorta del trattato tolemaico, il fiorentino Paolo
dal Pozzo Toscanelli elaborava in quegli stessi anni una
carta nautica in cui dimostrava la possibilità di16
raggiungere l’Oriente navigando sempre verso Occidente.
Se però da un lato la connessione tra lo spirito
dell’Umanesimo laico, fondato sul recupero, sulla
rilettura dell’antichità per guardare al futuro, e
scoperte geografiche appare quasi scontata, dall’altro
risulta altrettanto palese il ruolo marginale del moderno
spirito scientifico di scoperta nelle esplorazioni
europee del tempo. Quest’ultimo assunto è ben
rappresentato dalla figura di Cristoforo Colombo.
Innanzitutto una considerazione banale ma chiarificatrice
di questa ambiguità dello spirito che animò le
esplorazioni geografiche: le conclusioni esposte da
Colombo ai sovrani di Castiglia e Aragona sulla
possibilità di raggiungere le Indie navigando sempre
verso Occidente sono fondate su un errore di calcolo che
considera il globo terrestre molto più piccolo di quanto
in realtà esso sia. Come osserva Todorov:
L’interpretazione dei segni della natura, così come viene
praticata da Colombo, è predeterminata dal risultato al quale
egli vuole pervenire. La sua stessa impresa, la scoperta
dell’America, è conseguenza del medesimo comportamento: egli
non la scopre, la trova dove «sapeva» che avrebbe dovuto essere
(cioè là dove pensava che si trovasse la costa orientale
dell’Asia).9
In secondo luogo, il navigatore genovese, è l’emblema del
connubio tra ragioni economiche e ragioni religiose che9 TODOROV T., La conquista dell’America. Il problema dell’«altro», Einaudi, Torino 1984, p. 27.
17
animò le scoperte geografiche della prima età moderna.
L’impresa della scoperta dell’America è il risultato
della perseveranza di Colombo, sostenitore delle idee del
Toscanelli, ma anche mistico lettore delle Sacre
Scritture. L’aver intrapreso un viaggio in aperto Oceano,
senza conoscere l’esatto quantitativo di viveri da
imbarcare, ha come giustificazione principale, nelle
lettere del navigatore genovese, la diffusione della
fede nel “Catai” e nel “Cipango”. A questa esigenza si
accompagna poi, nelle intenzioni di Colombo, quella della
ricerca dell’oro, utile sia a rischiarare il prestigio
di Ferdinando il Cattolico e Isabella di Castiglia, ma
anche a finanziare una nuova crociata con la quale
liberare la Terra Santa dalla presenza ottomana:
Non solo i contatti con Dio interessano a Colombo molto più
delle questioni puramente umane, ma anche la sua forma di
religiosità è particolarmente arcaica (per la sua epoca): non è
un caso se i progetti di crociata vengano abbandonati dopo il
Medioevo. È dunque, paradossalmente, un tratto di mentalità
medievale che fa scoprire l’America a Colombo e gli fa
inaugurare l’età moderna.10
Nella mentalità di Colombo e dei primi conquistadores il
bisogno di denaro, l’avidità d’oro, e la diffusione della
fede cattolica non si escludevano. Anzi. Collaboravano in
una sorta di rapporto mezzo-fine. L’espansione economica,
l’accumulo di ricchezze, la spoliazione di risorse dei
10 Ivi, p. 15. 18
territori scoperti nel XV secolo erano per i castigliani
i mezzi più semplici e più diretti per l’evangelizzazione
dei popoli che li abitavano. La presenza dell’oro
dimostrava e giustificava l’imposizione della fede
cattolica e viceversa era il presupposto per
un’ulteriore espansione di essa. L’oro e la croce sono i
simboli più significativi delle scoperte geografiche del
XV secolo.
1.2 L’«altro» e gli europei: il problema della
comunicazione
La costruzione del predominio europeo sul resto del mondo
può essere articolata in due fasi cui corrisposero due
diversi baricentri nei rapporti di forza tra monarchie e
stati all’interno dell’Europa stessa. Se fino alla prima
metà del Seicento Spagna e Portogallo riuscirono a
mantenere, con grosse difficoltà, lo status quo del
Trattato di Tordesillas (1494), la seconda metà di quel
secolo è caratterizzata dal “sorpasso”, in termini di
capacità di controllo e sfruttamento dei territori
extraeuropei, da parte delle Province Unite, della
Francia ma soprattutto dell’Inghilterra. Non solo una
maggiore capacità di produrre ricchezza accanto alla
forza militare furono le peculiarità che resero possibile
questo mutamento nell’esercizio dell’ egemonia coloniale,
ma anche e soprattutto una superiore capacità di
adattamento al sistema economico integrato creato dalla
mondializzazione dell’economia. Questo può dirsi con19
maggiore sicurezza degli inglesi. Una data su tutte: il
1713, anno in cui al termine della guerra di successione
spagnola l’Inghilterra ottiene da Filippo V di Borbone
l’asiento, cioè l’esclusiva, sulla tratta degli schiavi
neri. Si tratta della ratifica ufficiale di un monopolio
già di fatto acquisito.
Ora, il sostrato comune a queste due fasi distinte del
predominio europeo è, potremmo azzardare, un problema
comune tanto alla fase della scoperta e della conquista
quanto a quella dello sfruttamento secondo una
razionalità capitalistica consolidata. Si tratta, per
dirla con categorie filosofiche e antropologiche, del
problema dell’«altro». L’ideologia coloniale della
superiorità della cultura occidentale nacque a partire
dal contatto con civiltà estremamente differenti da
quella europea, spesso , come nel caso degli Amerindi,
prive della scrittura. Civiltà quindi non della parola
scritta ma dell’interpretazione del suono, del gesto,
della musicalità. Quello che pertanto si trovarono
davanti gli esploratori prima, i conquistadores poi, fu il
problema di capire e farsi capire. Problema che non venne
mai affrontato perché la sua soluzione era inutile in
vista dello scopo: la conquista e lo sfruttamento. Anzi,
giocare sull’incomprensione fu spesso utile al
raggiungimento dello scopo.
Una conseguenza non secondaria di questo problema di
comunicazione fu certamente un modo di identificare
l’alterità, che dall’età moderna in poi, sarà una
costante della storia dell’occidente. Questa conseguenza20
ruota tutta attorno allo slittamento semantico, prodotto
dall’incontro con le popolazioni extraeuropee nel XVI
secolo, della parola barbaro che dal significato greco di
“straniero” o comunque di non appartenente alla comunità,
cominciò a coincidere con “incivile” o “selvaggio”.
I “selvaggi” diventano così vittime di una «strategia
“finalistica” dell’interpretazione»11 e allo stesso tempo
carburante per l’ideologia della superiorità europea.
Questo duplice ruolo, di oggetto tra gli oggetti da
sfruttare nel Nuovo Mondo, e di termine di paragone
ideologico tra l’umano e il subumano, è l’ambiguità con
cui gli europei videro i popoli extraeuropei (in
particolare gli Amerindi) e costruirono l’immagine della
propria superiorità.
In La conquista dell’America, Tzvetan Todorov espone chiaramente
come questa ambiguità del rapporto con le popolazioni
Amerinde caratterizzi sin dalla scoperta la comunicazione
con gli europei. Protagonista assoluto di questa
ambiguità è Colombo e la sua strategia comunicativa.
Partendo dall’esame di un brano tratto dal diario del
terzo viaggio di Colombo nel Nuovo Mondo, riportato da
Las Casas nella Historia de las Indias, Todorov nota come
l’interpretazione della realtà del navigatore genovese
(in questo caso l’asserzione di trovarsi sulla
terraferma), la sua ermeneutica, si articolasse su tre
piani paralleli:
11 Ivi, p.20.21
Su tre argomenti si fonda dunque la convinzione di Colombo:l’abbondanza di acqua dolce; l’autorità dei libri santi;
l’opinione di altri uomini da lui incontrati [«molti indiani
cannibali» dice Colombo nel testo]. Ora è evidente che questi
tre argomenti non si possono mettere sullo stesso piano, ma
rivelano l’esistenza di tre sfere in cui si articola il mondo
di Colombo: una sfera naturale, una sfera divina e una terza
sfera umana. 12
Per cui nel caso in cui prevalga la “sfera naturale” la
conquista è mossa dall’interesse teoretico di Colombo per
la natura, nel caso in cui prevalga la “sfera umana” la
conquista è la conseguenza dell’avidità di ricchezza, nel
caso in cui, infine, prevalga la “sfera divina” la
conquista è mossa dalla necessità di cristianizzare il
Nuovo Mondo. La frequenza con cui prevale quest’ultimo
piano d’interpretazione è nettamente superiore rispetto
agli altri. Come abbiamo già messo in evidenza sopra,
nell’ermeneutica di Colombo prevale una visione
predeterminata dalla religiosità medievale, dall’autorità
delle Sacre Scritture.
È proprio questa strategia che impedisce a Colombo di
comunicare effettivamente con gli indios. Il significato
delle parole è sempre il risultato di una contrattazione
intersoggettiva, presuppone un accordo che precede la
comunicazione. Con la sua visone predeterminata delle
cose Colombo, invece, pretende di comprendere una lingua
o meglio una forma di vita a lui sconosciuta. Perché ciò
12 Ivi, p.17.22
che ha eminentemente valore per lui è la concretizzazione
dei segni divini, degli indizi della verità delle sue
convinzioni, contenuti nelle Sacre Scritture.
Il risultato di questa scarsa attenzione nei confronti
della lingua dell’altro, di questo disinteresse per la
comunicazione, è un atteggiamento ambiguo nei confronti
degli indiani:
O egli pensa agli indiani (senza peraltro usare questo termine)
come a degli esseri umani completi, con gli stessi diritti che
spettano a lui; ma in tal caso non li vede come eguali, bensì
come identici, e questo tipo di comportamento sbocca
nell’assimilazionismo, nella proiezione dei propri valori sugli
altri. Oppure parte dalla differenza; ma questa viene tradotta
immediatamente in termini di superiorità (nel suo caso com’è
ovvio, sono gli indiani ad essere considerati inferiori: si
nega l’esistenza di una sostanza umana realmente altra […]
Queste due elementari figure dell’alterità si fondano entrambe
sull’egocentrismo, sull’identificazione dei propri valori come
valori in generale, del proprio io con l’universo: sulla
convinzione che il mondo è uno.13
Nella storia dell’espansione europea in America, Asia e
Africa sarà questa seconda figura dell’alterità a
prevalere sull’altra. Sarà etnocentrismo tradotto in
termini di ideologia della superiorità a imporsi. Nel
caso dell’America la retorica della superiorità diventa
giustificazione della conquista, dello sfruttamento delle
risorse e della schiavizzazione delle popolazioni. E13 TODOROV T., op.cit., p.51.
23
questo perché «Colombo ha scoperto l’America, non gli
americani».14
Dietro l’impresa che nel giro di due anni, tra il 1519 e
il 1521, portò Hernan Cortés ad essere il padrone
assoluto dell’America centrale e di quelli che furono i
domini dell’impero azteco, possiamo dunque individuare,
al di là delle spiegazioni concernenti la superiorità
materiale degli spagnoli, una vera e propria tattica di
aggiramento del problema della comunicazione. Con poche
centinaia di uomini Cortés riuscì ad avere la meglio di
un impero di proporzioni continentali. Certo poteva
contare su armi e armature di metallo contro le armi di
ossidiana dell’esercito di Montezuma. Poteva contare su
minuscoli e imprevisti alleati, i batteri europei, che di
lì a poco avrebbero sterminato le popolazioni locali.
Poteva contare sulla meraviglia suscitata dai cavalli,
mai visti dagli indios. Ma ciò che in misura maggiore
connotò il trionfo dei conquistadores fu una peculiare
capacità nella gestione e nell’utilizzo della
comunicazione interumana rispetto alla comunicazione con
l’ambiente, con la natura con lo spazio circostante. E
questo è riscontrabile in almeno due aspetti e al tempo
stesso ragioni della conquista.
In primo luogo nella strategia messa in atto da Cortés di
fronte alla superiorità numerica delle forze azteche.
Quella di Cortés non fu mai dichiaratamente una guerra di14 Ivi, p.60.
24
conquista, ma fu una strategia di appoggio sulle
divisioni interne al campo azteco, di appoggio e
sfruttamento dei particolarismi locali contro il potere
centrale.
La civiltà degli Aztechi, affermatasi in America centrale
durante il XIV secolo, era fondata su una continua
conflittualità esercitata sulle popolazioni indigene. Gli
Aztechi erano solo gli ultimi, in ordine cronologico, dei
conquistatori che lì si erano succeduti. Cortés comprese
immediatamente questa tensione interna alla realtà azteca
e la sfruttò a suo favore. Per questo la conquista si
configurò innanzitutto come una conquista di
informazioni:
Ciò che Cortés vuole prima di tutto non è prendere, ma
comprendere; sono i segni che lo interessano in primo luogo,
non i loro referenti. La sua spedizione comincia con una
ricerca di informazione, non con la ricerca dell’oro. Il primo
atto che egli compie – ed è un gesto estremamente significativo
– consiste nel cercarsi un interprete. 15
Con l’utilizzo dei nemici degli aztechi, con la messa in
scena di azioni belliche spettacolari, con il ricorso a
stratagemmi in battaglia, Cortés conquista i domini di
Montezuma. Tutto è funzionale all’obiettivo che si vuole
raggiungere, anche l’apparenza e l’inganno, rientrano
nelle possibilità tattiche. Cortés traduce nella sua
azione di conquista le qualità del sovrano “moderno”
15 Ivi, p.122.25
elencate ne Il Principe. È questa una di quelle
interpretazioni in senso deteriore dei precetti di
Machiavelli che caratterizzano lo spirito della politica
europea moderna (stimolate nel secolo successivo dalla
trattatistica antimachiavellica dei gesuiti). Uno spirito
che strumentalizza le acute osservazioni di Machiavelli
per operare una riflessione sul rapporto del principe con
i suoi sudditi, sulla sicurezza del territorio, su quella
che Foucault pone come una delle pietre miliari della
nascita dello stato moderno, «l’arte di governo»:
Detto schematicamente, Il Principe di Machiavelli, per come emerge
in filigrana da questi trattati dichiaratamente o
implicitamente contro Machiavelli, risulta essenzialmente
un’opera sull’abilità del principe a conservare il suo
principato. Ebbene, credo che la letteratura anti-Machiavelli
cerchi in realtà di sostituire l’analisi dell’abilità del
principe con qualcos’altro che potremmo definire un’arte di
governo.16
Il modo strumentale in cui Cortés utilizza il discorso
politico e diplomatico nei rapporti con i nemici degli
aztechi tradisce in realtà una tendenza della politica
europea moderna. Non è un caso che ciò avvenga dunque
all’interno di quel fenomeno di progressiva estensione
del controllo da parte del potere centrale sulle
periferie che gli storici vedono nel processo di
16 FOUCAULT M., Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2005, p.74.
26
disciplinamento correlato alla nascita dello Stato
moderno.
In secondo luogo, la guerra aveva per gli Aztechi un
carattere rituale, con un alto valore simbolico. Per
questo non culminava mai nella distruzione
dell’avversario, bensì nella sua sottomissione attraverso
il tributo e il sacrificio umano. Era questo un aspetto
cruento della civiltà azteca che va collocato in un
contesto simbolico-religioso nel quale è fondamentale la
comunicazione con la divinità. Questa assume il carattere
della divinazione come interpretazione di segni, di
avvenimenti, ma anche di fenomeni ciclici, ad esempio il
regolare corso delle stagioni (per questo grande
importanza avevano l’astrologia e la casta sacerdotale
addetta allo studio dei moti celesti). Osserva Todorov
che questa concezione dei rapporti con la realtà fondata
sull’attività di interpretazione dei segni dell’ordine
naturale è il riflesso di una società “superstrutturata”,
in cui l’individuo è subordinato alla comunità e in cui
le distinzioni gerarchiche, riflesso di quell’ordine,
sono fondamentali:
Anziché percepire il fatto come un evento puramente umano anche
se inedito – l’arrivo di uomini avidi di oro e potere – gli
indiani lo inseriscono in una rete di rapporti naturali,
sociali e sovrannaturali, nella quale l’evento perde di colpo
la sua singolarità: viene in qualche modo addomesticato,
assorbito in un ordine di credenze prestabilito.17
17 TODOROV T., op.cit., pp.90-91.27
In questa riconduzione dell’imprevedibile in schemi
ermeneutici consueti rientra la vicenda della diffusione,
parallela all’arrivo di Cortés, del mito del ritorno di
Quetzalcoatl. La profezia del ritorno del dio-serpente
piumato dopo la sua cacciata da parte degli Aztechi “al
di là del mare” diventa per Montezuma e i suoi vassalli
la lente attraverso cui leggere l’arrivo dall’Oceano di
stranieri potentissimi e pericolosi. Questa forte
dipendenza dalla comunicazione con la natura, con il
vasto apparato simbolico che li circonda, fu il
principale punto di debolezza del grande impero Azteco.
Se l’ideologia schiavista del soldato-conquistador
caratterizzò la prima fase della conquista dell’America,
con Cortés prima, ma soprattutto con l’arrivo dei
missionari come Las Casas poi, si verifica un salto di
qualità riassumibile nella formula “ideologia
colonialista”. La triade dello studioso-religioso-
commerciante sostituì gradualmente nella principale
attività della conquista, la raccolta e l’utilizzo delle
informazioni, l’attività del soldato. Conquistato con la
forza il territorio non rimaneva che assoggettare le
popolazioni locali per la produzione della ricchezza.
Questo assoggettamento, o meglio la formazione di questo
soggetto considerato tale perché in grado di produrre
altri oggetti e di riprodursi, passò anche per l’opera
missionaria dei frati francescani e gesuiti. Nel giro di
un secolo questi diedero vita a un fenomeno di28
acculturazione in senso forte che cancellò gradualmente
la presenza di tradizioni locali nella loro forma “pura”,
per sostituirle con valori intellettuali e morali legati
al cattolicesimo. Ma non solo. Le attività dei frati
missionari ebbero un importante riflesso nella storia
interna d’Europa. Esse dettarono un metodo di reconquista
delle coscienze europee già fotografato e contenuto nelle
relazioni di viaggio dei missionari nel Nuovo Mondo. In
seguito alla lacerazione della cristianità determinata
dalla Riforma, la Chiesa Cattolica metterà in piedi, tra
XVI e XVII secolo, una macchina disciplinare in grado di
riconquistare al culto cattolico l’universo eterogeneo
della “religione delle classi subalterne” europee. La
diversità culturale dei contadini europei interessati
dalla controffensiva cattolica venne egemonizzata
dall’attività della propaganda missionaria dei gesuiti.
Nelle campagne di alcune aree europee, come ad esempio il
centro-sud Italia o le isole del Mediterraneo, i
missionari gesuiti, inviati a combattere la possibilità
di penetrazione dell’eresia luterana, si trovarono di
fronte popolazioni completamente all’oscuro dei
fondamenti della dottrina e della liturgia cattoliche.
Come osserva Leonardo Sciascia in un bellissimo saggio
letterario sulla vicenda dell’agostiniano eretico Diego
La Matina da Racalmuto, in Sicilia:
È ancor oggi facile [Sciascia scrive nel 1964], parlando di
cose della religione cattolica con un contadino, con uno
zolfataro, ed anche con un galantuomo, isolare come proposizioni29
luterane certi loro giudizi sui sacramenti, sulla salvazione
dell’anima, sul ministero sacerdotale; senza dire dei giudizi
sugli interessi temporali e sul mondano comportamento dei
preti. Ma effettualmente tali giudizi non si possono nemmeno
vagamente considerare come proposizioni ereticali; sono, in
rapporto alla religione, qualcosa di più e di peggio: muovono
da una totale ed assoluta refrattarietà alla metafisica, al
mistero, all’invisibile rivelazione; dall’antico materialismo
del popolo siciliano.18
In quest’incontro era quasi necessario, allora, che si
riproducessero quegli schemi e quei topoi letterari nati
dall’evangelizzazione degli indios. A ciò si aggiunse la
strategia che il gruppo dirigente della Compagnia di Gesù
seguì nella seconda metà del Cinquecento nei confronti
dei fratelli missionari. Ad animi accesi dalla lettura
delle “lettere dalle Indie” dei missionari inviati in
America, si proponeva la predicazione nelle campagne del
proprio paese. Associando in questo modo
l’evangelizzazione rivolta all’esterno con quella rivolta
verso l’esterno:
I due movimenti – verso l’esterno e verso l’interno – nascevano
dunque insieme, anzi nascevano l’uno dall’altro: proprio perché
proiettati verso lontananze esotiche, i missionari erano capaci
di calare immagini di mondi lontani su quelli più familiari,
allontanandoli e guardandoli con occhi estraniati. Nella lunga
storia delle pulsioni espansive del cristianesimo, la scoperta
18 SCIASCIA L., Le parrocchie di Regalpetra. Morte dell’Inquisitore, Laterza, Roma-Bari 1967, p.175.
30
delle Indie interne fu certamente un momento di svolta; e la
svolta avvenne in Italia alla metà del Cinquecento.19
Da questa sovrapposizione sarebbe nata l’analogia tra
indios/“selvaggi” e contadini europei. I missionari gesuiti
potevano guardare ai pescatori della Corsica o ai
contadini dell’entroterra siculo con lo stesso sguardo
filtrato da estraneazione ed esotismo con cui i loro
confratelli inviati nel Nuovo Mondo avevano guardato e
guardavano agli indios.
Non è un caso dunque che Ignazio di Loyola definisse
quelle aree marginali dell’Europa, formalmente cattoliche
(ma di fatto estranee alla disciplina cattolica ormai da
secoli) le «nostre Indie interne». L’evangelizzazione
delle campagne del sud Italia venne così condotta traendo
dall’esperienza dell’evangelizzazione delle Americhe un
importante bagaglio di sapere tattico-strategico. I
missionari cattolici dell’epoca della Controriforma si
mossero avvalendosi di quelle strategie di acculturazione
dell’«altro» già messe in pratica nel Nuovo Mondo. Va
però notato che l’esperienza extraeuropea aveva
determinato nelle strategia dei missionari gesuiti un
cambiamento tattico fondamentale: il metodo di
evangelizzazione doveva essere approntato non sulla
requisitoria giudiziaria dell’Inquisizione, ma sul metodo
apostolico-carismatico; «Non c’erano né eretici né
seguaci del demonio, ma solo uomini e donne ignoranti e
19 PROSPERI A., Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 1996, pp. 560-561.
31
idolatri: che fosse mancata la predicazione del Vangelo
(com’era il caso degli indios) o che se ne fosse perduta
la memoria, come nel caso dei contadini d’Europa, il
risultato era lo stesso»20. Inizia cioè a profilarsi un
metodo di riconquista delle coscienze che ha nella
persuasione, nell’egemonia sui comportamenti e sulle
rappresentazioni degli individui, la sua arma silenziosa.
I gesuiti missionari dell’epoca della Controriforma
contribuirono cioè a formare quell’insieme di strategie e
di tecniche disciplinari che, come vedremo a proposito
della questione della nascita dello stato moderno,
avranno un ruolo determinante.
1.3 Gli europei e l’«altro»: dalla costruzione del mito
alla scoperta della diversità
1.3.1 Attitudine coloniale e attitudine antropologica. I
filosofi e i selvaggi
Ma la scoperta dei nuovi popoli generò in Europa
riflessioni e atteggiamenti diversi dall’attitudine
coloniale e dall’«assimilazionismo». Sin dall’inizio del
Cinquecento le relazioni di viaggio degli esploratori
prima e dei missionari poi, interessarono e ispirarono
buona parte della filosofia politica e morale europea,
concentrate nei secoli centrali dell’età moderna sulla
difficile soluzione dell’enigma dello Stato, della
religione rivelata e del suo rapporto con la vita20 Ivi, p. 599.
32
pubblica. Dalle teorie politiche nate nell’ “Europa
confessionale”, quella delle guerre di religione, alle
teorie dell’epoca dei Lumi, la presenza dei “selvaggi”,
della diversità irriducibile se non attraverso
l’assorbimento o l’indifferenza assoluta, è una
costante.21
Accanto all’attitudine coloniale che realizzò la
conquista del Nuovo Mondo possiamo così riscontrare
un’attitudine antropologica, un interesse e uno stimolo
costante alla comprensione di una diversità, talora solo
intuita e non teorizzata, che spesso si rivelò un arma
molto più potente della conquista stessa.
Se per quasi tutto il XVI secolo la scoperta dei popoli
del Nuovo Mondo suscitò un interesse che andava nella
direzione della conferma o della rinascita di miti
ricollegabili all’antichità o alle credenze religiose
medievali, nel XVII secolo questa tendenza viene meno. I
nuclei tematici attorno a cui si concentra l’attenzione
dei “filosofi” e degli eruditi europei sono la tematica
religiosa ( i “selvaggi” hanno una religione o almeno una
qualche forma di sentimento religioso che precede il
contatto con gli europei? Dal momento che non conoscono
il cristianesimo sono atei, pagani o l’hanno
semplicemente dimenticato?) e quella dell’organizzazione
sociale (esiste la politica, nel significato aristotelico
del termine, tra i “selvaggi”?).
21 Una trattazione esauriente dell’argomento è presente in LANDUCCI S., Ifilosofi e i selvaggi(1580-1780), Laterza, Roma-Bari 1972.
33
Attorno al primo tema, ad esempio, si consumò il
dibattito tra i sostenitori dell’uguaglianza e i
partigiani della disuguaglianza tra indiani e spagnoli.
Tale dibattito trovò un momento culminante nel 1550, con
la “controversia di Valladolid”, durante la quale di
fronte ad una giuria di saggi, giuristi e teologi, si
affrontarono l’erudito e filosofo Ginés de Sepúlveda e
l’abate domenicano Bartolomé de Las Casas. Il primo lo
troviamo a sostenere la tesi dell’ineguaglianza tra
indiani e spagnoli, con l’implicita superiorità dei
secondi. Richiamandosi ad Aristotele, del quale è uno dei
maggiori specialisti della sua epoca, Sepúlveda sostiene
la naturalità delle disuguaglianze. Esisterebbe così una
gerarchia naturale che coinvolge tutti gli esseri
viventi, e tra gli esseri viventi l’animale uomo. Ora gli
indiani non possono rientrare nella celebre definizione
dell’uomo tracciata da Aristotele nella Politica, quella
cioè di “animale politico”. Ma esiste una differenza che
concerne un elemento ancor più caratterizzante, secondo
l’erudito spagnolo, la condizione umana. Un valore
assoluto che è l’appartenenza alla religione cristiana:
non essendo naturaliter cristiani gli indiani sono un
gradino sotto la condizione umana.
Contro questa concezione Las Casas si richiama invece a
quella che egli concepisce come l’essenza del
cristianesimo: l’uguaglianza in Cristo come condizione
naturale degli esseri umani, dal momento che chiunque,
attraverso il battesimo può diventare cristiano. Anzi.
Las Casas, data la sua esperienza diretta in America34
centrale, argomenta a favore di una sorta di religiosità
naturale degli indiani, che ricorderebbe la ricostruzione
idilliaca che i Riformatori radicali d’età moderna
facevano del cristianesimo primitivo.
Nelle posizioni della controversia possiamo così
riscontrare non solo lo schema che gli europei
applicavano al rapporto con l’alterità, quello
dell’irriducibile differenza o dell’appiattimento
identitario , ma anche la presenza dei due temi rispetto
ai quali gli intellettuali europei stavano costruendo la
diversità dell’Europa rispetto al resto del pianeta: il
tema della religione e quello dell’organizzazione
sociale.
La rifrazione di questi due temi all’interno della
costruzione culturale della diversità dei “selvaggi” la
ritroviamo in colui che probabilmente fissa nel tardo
Cinquecento questo concetto. Nella sua Historia natural y moral
de las Indias (1590) Joseph de Acosta schematizza con
chiarezza cristallina l’ordine gerarchico esistente tra i
popoli del pianeta. Al vertice egli pone naturalmente la
civiltà “classico-cristiana”, la civiltà tout-court. Poi, e
la successione non è semplicemente logica ma anche
ontologica, troviamo il grande insieme di popoli
“barbari”, la colpa dei quali sarebbe la non appartenenza
alla comunità cristiana. Ma all’interno di questo
insieme, e qui troviamo l’applicazione di una
discriminante squisitamente politica, Acosta distingue
tra quei popoli “barbari” dotati di leggi, costumi e
magistrature ( i popoli dell’Asia orientale la cui storia35
millenaria aveva impressionato i portoghesi) e “barbari”
invece le cui istituzioni o sono di dimensioni ridotte
(tribali o familiari) oppure sono poco sviluppate. Questa
sarebbe la situazione per Acosta delle civiltà azteca e
inca prima dell’arrivo degli europei. Ma il gradino più
basso della scala gerarchica è occupato dai veri e propri
“selvaggi”, coloro i quali (come i Caraibi) sono privi di
organizzazione e strutture politiche. Homines sylvestres che
l’erudito spagnolo contrappone ai “barbari” (cioè ai
popoli non cristiani) e alla civiltà (ai popoli
cristiani). Basti notare come in questa ripartizione
gerarchica dell’universo geopolitico del XVI secolo, la
riduzione di tutte le forme di organizzazione politica a
quelle europee, quelle cioè teorizzate da Aristotele,
diventa la discriminante attraverso cui separare
all’interno dello stesso campo delle “barbarie”, il
quasi-umano dall’irriducibilmente «altro»:
L’ovvia incomprensione dei caratteri fondamentali
dell’organizzazione tribale portava ad una doppia violenza,
quindi: nel senso dell’assimilazione brutale alle istituzioni
europee ovvero nel senso della messa ai margini del campo
dell’umanità. Ove non si riusciva a ravvisare dei «regna», o
qualcosa di interpretabile in questo senso, la definizione
risultava affatto privativa: selvaggi = non cives.22
La conseguenza fondamentale di questa distinzione,
nell’ambito delle classificazioni che precedono i
22 Ivi, p.100.36
trattati sulla sovranità politica del XVI e del primo
XVII secolo, fu la legittimazione teorica, la
giustificazione ex cathedra, della violenza a danno dei
“selvaggi”. Del resto la tendenza a riconoscere nei
popoli del Nuovo Mondo o in quelli orientali oppure
ancora africani, le istituzioni politiche europee o
qualcosa di simile era l’altra faccia del pensiero
etnocentrico, la cui versione più “genuina” come abbiamo
visto sosteneva il totale appiattimento dei “selvaggi”
sulla pura bestialità; sulla “nuda vita”:
Sembrava che, compiutasi la parabola, il Nuovo Mondo venisse a
specchiarsi nel Vecchio, confermandone parametri euristici e
assiologici. E tutto ciò, come già spesso nel passato, da parte
di chi voleva appunto smentire […] un’altra forma di
etnocentrismo, quella che portava nel senso dell’assimilazione
dei selvaggi alle bestie.23
1.3.2 Stato di natura, «selvaggi» e contratto: Hobbes eRousseau
La tensione tra queste due forme di etnocentrismo che
caratterizzano la filosofia politica dell’età moderna non
si esaurisce nel giudizio complessivo nei confronti delle
organizzazioni politiche extraeuropee. La sua efficacia
teorica va infatti rintracciata nella teorizzazione
positiva di forme della sovranità che si nutrono e
23 Ivi, p.107.37
affondano le loro radici in quell’ambiguo incontro con
l’«altro» che oscilla tra la riduzione di questo ad
animale e il mito del «buon selvaggio». La storia carsica
di questo legame tra barbarie e civiltà è particolarmente
evidente per quel filone teorico della sovranità politica
denominato contrattualismo. Senza percorre tutte le tappe
e le posizioni di questo complesso percorso filosofico
dei secoli XVII e XVIII, data l’esiguità e l’intento
sintetico del presente lavoro, possiamo concentrarci su
due pensatori che ne potrebbero costituire i limiti, sia
in senso teoretico che cronologico: Hobbes e Rousseau.
Quanto al primo è doveroso fare una premessa
sull’influenza che la situazione politica inglese ebbe
sulla stesura della sua opera più importante, il Leviathan,
pubblicato nell’esilio parigino del filosofo inglese, il
quale nello stesso anno (1651), tornava a Londra per
riconciliarsi con Oliver Cromwell. Ebbene questa “scienza
politica” dello stato (nel senso della nota distinzione
operata da Leo Strauss tra una “filosofia politica” e una
“scienza politica”, cioè una vera e propria analisi degli
elementi oggettivi di cui si compone una struttura
politica) è interamente dedotta da considerazioni sulle
passioni umane legate a considerazioni etnografiche
tratte da relazioni di viaggio sulle Americhe.
Dall’iniziale esposizione dei moti dell’animo che
determinano le azioni, e dunque anche il perseguimento
dei propri fini, Hobbes deduce la disuguaglianza del
genere umano. Gli uomini sono disuguali non per natura,
38
ma perché sono mossi da passioni diverse e dunque
perseguono fini differenti:
La felicità è un continuo progresso del desiderio da un oggetto
all’altro, dove il raggiungimento del primo non è altro che la
via per il conseguimento del secondo. La causa di questo è che
l’oggetto del desiderio umano non consiste nel goderne una sola
volta e per un singolo istante, ma nell’assicurarsi per sempre
l’accesso al desiderio futuro. Perciò le azioni volontarie e le
inclinazioni di tutti gli uomini non tendono soltanto a
procurarsi ma anche ad assicurarsi una vita ricca di
soddisfazioni e differiscono soltanto nella strada che viene
scelta. Questa deriva in parte dalla diversità delle passioni
nei diversi uomini, e in parte dalla differenza di conoscenza o
di opinione posseduta da ciascuno intorno alle cause che
producono gli effetti desiderati.24
In questo senso lo stato di natura è il regno del
perseguimento dei fini soggettivi, è la mancanza di un
ordinamento politico stabile perché il potere di uno
senza la stabilità garantita dalla Legge è esclusivamente
fondato sulla violenza. Tuttavia neanche l’unione di
pochi uomini in famiglie e di poche famiglie tra loro
sarebbe sufficiente a garantire i singoli individui dalla
violenza dello stato di natura, in cui ciascuno realizza
quella «vita ricca di soddisfazioni» garantita dal
perseguimento incondizionato dei propri desideri:
24 HOBBES T., Leviatano, ed. it. a cura di A. Pacchi, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 78.
39
Né il riunirsi di un piccolo numero di uomini che dà loro
questa sicurezza, poiché, quando si tratta di piccoli numeri,
piccole aggiunte da una parte o dall’altra rendono così grande
il vantaggio di forza da divenire sufficiente a procurare la
vittoria, e perciò [coalizioni di pochi uomini] incoraggiano
all’invasione.25
Solo la trasformazione dell’uomo in cives attraverso la
stipulazione del contratto con il sovrano e la
conseguente nascita del mortal god, dello Stato, porrebbero
al riparo da questi rischi. Tutti i popoli fuori da
questo tipo di organizzazione politica, che trascende la
dimensione “tribale”, sarebbero fuori dalla politica. Da
ciò che Aristotele pone come prerogativa distintiva
dell’animale razionale uomo; osserva Landucci:
[…] accanto a questa precisazione di contenuto, Hobbes ne
introduce anche un’altra - quantitativa, ma per lui di
fondamentale importanza - , appena nomina le “famiglie”
selvagge: small, parvae. Tribù cioè di limitate dimensioni;
giacché quel che differenzia uno stato da tutti gli altri
agglomerati umani non “politici” è innanzitutto – sostiene
Hobbes – una questione di ordine di grandezza: lo Stato è una
società «grande», e, correlativamente, una «famiglia magna»,
ammesso che sia davvero estesissima, è un regnum, il “regno
patrimoniale”.26
Ebbene sullo sfondo di queste considerazioni che
caratterizzano la deduzione del bellum omnium contra omnes,25 Ivi, p.140.26 LANDUCCI S., op. cit., pp.121-122.
40
la natura del contratto e le dimensioni dello Stato ci
sono proprio i “selvaggi” dei quali Hobbes leggeva nelle
relazioni di viaggio. La loro mancanza di strutture
politiche razionali è il risultato del dominio delle
passioni, che hanno come conseguenza violenza e miseria.
Ai “selvaggi” non resta dunque che l’organizzazione in
tribù, in associazioni di piccole famiglie, che sarebbero
dunque fuori dal novero delle società politiche. La
teorizzazione del contratto, come patto tra sovrano e
sudditi, e la costituzione dello Stato-Leviatano muove
dunque da questa opposizione allo stato di natura,
qualcosa di molto vicino alla descrizione delle
organizzazioni politiche e sociali degli indios, dei
Caraibi e delle tribù del Nordamerica.
Una linea altrettanto etnocentrica ma in polemica con le
conclusioni di Hobbes, viene seguita un secolo dopo dal
principale sostenitore del «buon selvaggio», Rousseau.
Nel Discorso sulle origini e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini
pubblicato nel 1754 per rispondere al quesito posto
dall’Accademia di Digione sul tema della uguaglianza o
disuguaglianza tra gli uomini nel 1745, il filosofo
ginevrino teorizza lo stato di natura in antitesi alla
concezione hobbesiana. Lo stato di natura sarebbe infatti
la condizione di un’umanità incorrotta, vivente in un
legame simbiotico con l’ambiente, lontana dalla paura e
dall’angoscia perché dotata dei mezzi fisici per
soddisfare i propri bisogni e difendersi dalle minacce.
L’errore di Hobbes e dei teorici che si sono posti sulla41
sua scia sarebbe dunque quello di ascrivere all’uomo allo
stato di natura le passioni proprie dell’uomo civile,
come l’orgoglio e la vanità:
Hobbes ha visto benissimo il difetto di tutte le moderne
definizioni del diritto naturale, ma la conseguenza che egli
trae dalla sua mostrano che egli la prende in un senso che non
è meno falso. Ragionando sui princípi posti da lui stesso,
l’Autore avrebbe dovuto dire che, essendo lo stato di natura
quello in cui la salvaguardia della nostra conservazione reca
meno danno a quella altrui […] Invece egli dice esattamente il
contrario, per avere sprovvedutamente fatto entrare nella cura
della conservazione dell’uomo selvaggio il bisogno di
soddisfare una quantità di passioni che sono opera della
società e che hanno rese necessarie le leggi.27
Una naturalizzazione eccessiva dello stato di natura
sarebbe l’errore principale di Hobbes. Questo non vuol
dire però che Rousseau consideri i “selvaggi” come un
residuo contemporaneo dell’uomo allo stato di natura.
Anche se ad un primo sguardo sembrerebbe proprio così,
data l’insistenza con cui nella prima parte del Discorso il
filosofo ginevrino insiste sulla fisicità, sulla
corporeità animale dei “selvaggi”. Due esempi su tutti:
Questa è senza dubbio la ragione per cui i negri e i selvaggi
si preoccupano così poco delle bestie feroci in cui possono
imbattersi nelle foreste. Per esempio, i Caraibi del Venezuela
27 ROUSSEAU J.J., Origine della disuguaglianza, tr. it. a cura di G.Preti, Feltrinelli, Milano 1992, p.60.
42
vivono, sotto questo rispetto, nella più assoluta tranquillità
e senza il minimo inconveniente. Sebbene siano quasi nudi, dice
Francesco Correal, non cessano di avventurarsi coraggiosamente
nelle foreste, armati soltanto di frecce e dell’arco: ma non si
è mai sentito dire che qualcuno di loro sia stato divorato
dalle belve.
Quando si pensa alla buona costituzione dei selvaggi – ad
eccezione di quelli che abbiamo rovinato con i nostri liquori
alcoolici – quando si sa che essi non conoscono altre malattie
che le ferite e la vecchiaia, si è molto inclini a credere che
si farebbe molto facilmente la storia delle malattie umane
seguendo la storia delle società civili.28
Al contrario l’inquietudine che essi suscitano negli
europei che con loro vengono a contatto sarebbe la
dimostrazione del loro progressivo distaccarsi dallo
stato di natura, del loro essere esponenti di società
“corrotte” tanto quanto quella civile. La violenza e la
miseria che Hobbes considerava condizioni essenziali dei
popoli “selvaggi” diventano in Rousseau il segno
tangibile del loro abbandono dello stato di natura per la
società:
Questo è esattamente lo stadio a cui sono arrivati i popoli
selvaggi che ci sono noti; per non aver distinto le idee e
osservato quanto questi popoli fossero già lontani dal
primitivo stato di natura, molti hanno concluso frettolosamente
28 Ivi, p.42 e p.44.43
che l’uomo è naturalmente crudele e che occorre la disciplina
statale per addolcirlo, mentre invece nulla quanto l’uomo nello
stato di natura quando, collocato dalla natura a distanze
uguali fra la stupidità dei bruti e l’intelligenza funesta
dell’uomo civile, e ugualmente portato dall’istinto quanto
dalla ragione a difendersi dal male che lo minaccia, egli è
trattenuto dalla pietà naturale dal fare del male a
chicchessia, senza esservi portato da nulla, neppure dal fatto
di averne ricevuto.29
Sebbene dunque Rousseau smascheri il modo in cui i
teorici dell’assolutismo regio giustifichino l’esercizio
anche violento della potestas a partire dalla constatazione
della naturale crudeltà dell’uomo, osservabile nei
“popoli selvaggi”, egli finisce per rovesciare questo
stesso argomento e fondare la natura del «buon selvaggio»
sulla crudeltà dei veri “selvaggi”.
In entrambi i casi considerati, tanto in Hobbes quanto in
Rousseau, i “selvaggi”, che siano unioni di piccole tribù
in guerra perenne o individui caratterizzati da una
natura fisica incorrotta, rimangono un’ombra inquietante
ai margini del contratto sociale. Un’ombra lunga alle
spalle della nascita delle teorie della sovranità e della
giustificazione teorica del suo esercizio nello stato
moderno.
29 Ivi, p.79.44
2. La modernità e la nascita dello stato moderno
come disciplinamento
2.1 Gli aspetti illiberali dell’epoca moderna e la
formazione dello stato moderno
Tracciare rapidamente il quadro dei modi e delle forme in
cui si manifestò il potere politico europeo in età
moderna è molto più difficile di quanto la tesi
evolutiva, di una lenta ma progressiva costituzione di
amministrazioni centralizzate e omogenee all’interno
delle monarchie tardomedievali, faccia apparire.
Questo perché a seconda della prospettiva che si vuole
esaminare circa l’organizzazione degli stati europei in
45
età moderna, le caratteristiche della “modernità” possono
apparire o scomparire del tutto. Ad esempio, se si
abbandona la prospettiva del processo di unificazione
territoriale e di centralizzazione politica per sposare
quella del rapporto tra centro e periferia, tra luogo
simbolico del potere politico (la corte) e realtà
politiche locali, diventa ancor più evidente come quella
presunta tendenza a centralizzare e amministrare
dall’alto che una parte della storiografia ha ascritto
alla modernità, venga irrimediabilmente meno. Perché
lungi dall’essere realtà omogenee garantite da una
razionalizzata ed efficiente ripartizione delle decisioni
e delle responsabilità, lungi cioè dall’essere una
macchina perfetta della traduzione in atto della potenza
sovrana, lo stato moderno apparirebbe sotto quella
prospettiva come un ginepraio contraddittorio di poteri
in lotta tra loro. Paradigmatiche diventano poi quelle
realtà complesse, che non a caso vengono spesso additate
come residui delle ideologie politico-religiose
medievali: gli imperi. Il Sacro Romano impero fino alla
metà del XVIII secolo non è solo un intrico di
giurisdizioni e un serbatoio di difformità di condizioni
giuridiche, ma è anche il risultato della convivenza
all’interno della stessa realtà istituzionale di realtà
politiche variegate, dalle libere città, ai vescovadi-
principati, dai domini feudali a veri e propri regni.
È dunque evidente che sarebbe qui impossibile affrontare
il problema dello stato moderno nella sua totalità. Resta
però la possibilità di analizzare la vicenda travagliata46
della nascita di istituzioni “moderne” all’interno di una
categoria storiografica, ma anche antropologica e
filosofica, che ha avuto molto successo nelle trattazioni
contemporanee di questo problema: la categoria di
disciplinamento. Tale categoria verrà declinata nel senso
datole da Michel Foucault in una sua opera fondamentale
per la storia della giustizia penale, Sorvegliare e punire
(1975), e nel corso tenuto al Collège de France nell’anno
accademico 1978-1979, pubblicato con il titolo
Sicurezza,territorio e popolazione. In entrambi i casi sarà
possibile mettere in evidenza come il problema della
nascita dello stato moderno possa essere affrontato a
partire dalla tesi di un innalzamento del livello di
controllo del potere sulle realtà individuali e
collettive. Ma ciò che di importante caratterizza la tesi
di Foucault è la possibilità di leggere il
disciplinamento non solo come la storia
dell’addomesticamento delle pulsioni o quella
dell’iscrizione dei comportamenti in una gamma di codici
funzionali all’ordine sociale. Il disciplinamento è anche
la vicenda dell’ambiguità che caratterizza la nascita in
età moderna delle libertà e dei diritti diffusi.
Quell’ambiguità che garantisce il consumo di libertà per
creare nuovi spazi di penetrazione dell’esercizio del
potere.
47
2.1 Una nuova “arte di governo”: l’età moderna come
nascita dello “stato di popolazione” accanto allo “stato
territoriale”
Al centro del corso che Foucault tenne al Collège de
France nel 1978-1979 troviamo sicuramente il problema
della genesi, tra XVI e XVII secolo, di un sapere
politico che avrebbe identificato come oggetto delle
proprie riflessioni la nozione di popolazione e i
meccanismi che ne interessano il funzionamento e la
regolazione. Quello che Foucault nota nelle trattazioni
politiche a cavallo tra i due secoli è proprio la
comparsa di un nuovo soggetto collettivo dotato di una
particolare caratteristica: esso smette di essere una
somma quantitativa di soggetti di diritto o di sudditi
sottomessi ad un sovrano, per diventare un insieme di
variabili da gestire in base alle proprie leggi naturali.
Ciò che diventa centrale nel sapere politico a cavallo
tra XVI e XVII secolo è dunque il modo in cui gestire e
regolare questo nuovo soggetto:
La svolta è importante perché con l’idea di una gestione della
popolazione a partire dalla naturalità del loro desiderio e,
quindi, di una produzione spontanea dell’interesse collettivo
mediante il desiderio, si afferma una concezione opposta a
quella etico-giuridica del governo e dell’esercizio della
sovranità. […] Ora, con il pensiero economico-politico dei
fisiocrati assistiamo alla nascita di un’idea del tutto diversa
[…] Non si tratta, perciò, di limitare la concupiscenza o
48
l’amor proprio nel senso dell’amore di se stessi, ma al
contrario di stimolare e favorire questo amor proprio, questo
desiderio, in modo da fargli produrre quegli effetti benefici
che deve assolutamente produrre.30
Il problema del sovrano che si affaccia sulla politica
del Seicento non è più tanto quello di reprimere e
controllare le forze centrifughe che impediscono la
centralizzazione delle decisioni. Anche perché questo
nella realtà politica delle monarchie nazionali e del
Sacro Romano impero era pressoché impossibile. Si tratta
piuttosto di disciplinare quelle forze centrifughe, di
farle lavorare in vista di un obiettivo: la potenza dello
stato.
La cosa è particolarmente evidente, osserva Foucault,
nei discorsi che i fisiocrati contrapponevano al
mercantilismo. Il problema non è quello di incrementare
la popolazione per incrementare le risorse del principe.
La potenza dello stato non è una partita che si gioca
sull’asse sovrano-sudditi ma su quello delle variabili
che attraversano la popolazione e che vanno dalle leggi
che le vengono imposte, ai desideri in base ai quali gli
individui agiscono.
Quello che qui ci interessa della trattazione foucoltiana
è il fatto che egli metta in evidenza la nascita di un
nuovo modo di teorizzare le funzioni del governo, una
nuova “governamentalità”, che accentui più che i problemi
connessi alla legittimità del sovrano su un territorio il
30 FOUCAULT M., op.cit., p.64.49
problema della conoscenza delle forze e dello sviluppo di
uno stato. Questo nuova dimensione della politica che
Foucault designa con il nome di “ragion di stato” prende
corpo nel XVII secolo in una serie di saperi e tecnologie
politiche. In primo luogo in un apparato diplomatico
affiancato da uno militare, il cui scopo è il
perseguimento di un equilibrio europeo, in cui nessuno
stato possa prevalere sugli altri (il momento massimo di
realizzazione di questo equilibrio è individuato da
Foucault nella pace di Westfalia del 1648). In secondo
luogo la ricerca e la pratica del potenziamento e del
controllo delle risorse ambientali e umane interne,
condensate dalle trattazioni di scienze amministrative
dell’epoca nel termine “polizia”:
In breve, la polizia si inserisce in questo nuovo sistema
economico, sociale, potremmo persino dire antropologico, che
appare tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII. Tale
sistema non obbedisce più al problema immediato di sopravvivere
e di non morire, bensì al problema di vivere e di fare qualcosa
di più del semplice vivere. La polizia, infatti, è l’insieme
delle tecniche, degli interventi e dei mezzi che assicurano che
il vivere, il fare di più che semplicemente vivere, cioè il
coesistere, il comunicare, saranno realmente convertibili in
forze di stato, saranno effettivamente utili alla costituzione
e all’incremento delle forze dello stato.31
Curioso notare come questo termine nasca in un contesto
che individua nel suo significato attuale, quello cioè di31 Ivi, p. 237.
50
istituzione in grado di gestire la sicurezza anche
attraverso la coercizione, solo un aspetto marginale del
campo semantico da esso investito.
Ora, bisogna precisare, che la nascita dello “stato di
popolazione” non abbia come conseguenza la scomparsa
delle forme già note di governo. Esso affianca o meglio
si sovrappone allo “stato territoriale”, quello cioè in
cui la questione della legittimità del sovrano e del suo
potere di rappresentare l’ordine cosmo-teologico avevano
una posizione preminente:
Non si può parlare dello stato-cosa come se fosse un essere che
trae origine da se stesso e si impone agli individui per una
meccanica spontanea, quasi automatica. Lo stato è una pratica,
e non può essere dissociato dall’insieme delle pratiche che lo
hanno fatto diventare effettivamente una maniera di governare,
una maniera di fare, e anche di avere a che fare col governo.32
La nuova pratica del governo, l’origine della quale è
oggetto di analisi nel corso del 1978-1979, ha dunque
come obiettivo la massimizzazione del risultato da essa
perseguito: lo stato. Il sovrano mira a gestire la
popolazione per accrescere in maniera indefinita la
potenza dello stato da egli governato in seno alla
“bilancia europea”. E questo metodo risulta molto più
efficace se l’esercizio della coercizione e del potere
come violenza dall’alto verso il basso cede il passo ad
un potere regolatore, che si può avvalere di quella
32 Ivi, p.203.51
violenza, ma solo se la posta in gioco lo richiede. Lo
stato diventa “l’idea regolatrice” cui si ispirano la
teoria e la pratica politica del XVII secolo:
Principio di intelligibilità e obiettivo strategico: sono
questi i due elementi che inquadrano la ragione di governo
chiamata, per l’appunto, ragion di stato. Voglio dire che lo
stato è fondamentalmente l’idea regolatrice di quella forma di
pensiero, di riflessione, di calcolo, e di intervento che si
chiama politica: la politica come mathesis, come forma razionale
dell’arte di governo.33
Quel che qui è fondamentale sottolineare dell’analisi di
Foucault è che questo modo di affrontare la questione
delle trasformazioni subentrate nella pratica e nel
concetto dello stato in epoca moderna prevede già quella
complicazione che collega la coercizione, il
disciplinamento e il controllo alla nascita del diritto
moderno, codificato e uguale per tutti.
2.2 Tecniche disciplinari
In Sorvegliare e punire, pubblicato quattro anni prima del
corso preso in considerazione nel paragrafo precedente,
Foucault aveva già intravisto la questione della nascita,
tra XVI e XVII secolo, di una nuova razionalità di
33 Ivi, p.207.52
governo, ma si era limitato ad analizzarla facendo leva
su un aspetto particolare da essa investito. Si tratta
del mutamento nella punizione del crimine. A dir la
verità Foucault, nel suo saggio, prende in considerazione
un lasso di tempo che poco ha a che fare con il XVII
secolo. La sua analisi dell’ “economia della pena”
investe infatti il periodo che va dall’esecuzione
pubblica in Francia di Robert-François Damiens (1757) al
ventennio a cavallo tra le esplosioni rivoluzionarie del
1830 e del 1848. Ciò non toglie che ad essere messa alla
prova in questo periodo è proprio quella “ragion di
stato” e il suo funzionamento di fronte a meccaniche
effettivamente di massa, subordinate ad un sapere con
leggi autonome e incontrollabili. In una parola
all’economia:
In breve, la nuova governamentalità, che nel XVII secolo aveva
creduto di potersi investire interamente di un progetto di
polizia completo e unitario, si trova ora nella situazione di
doversi riferire a un campo di naturalità, che è l’economia.
Dovrà gestire popolazioni e organizzare un sistema giuridico di
rispetto delle libertà; dovrà infine dotarsi di uno strumento
d’intervento diretto, ma negativo, ovvero la polizia. Pratica
economica, gestione della popolazione, un diritto pubblico
articolato per il rispetto della libertà e delle libertà, una
polizia con funzione repressiva […]34
Sorvegliare e punire verte proprio sulla nascita del discorso
sul “diritto pubblico articolato per il rispetto della34 Ivi, p.258.
53
libertà e delle libertà”. Per quale motivo, Foucault si
chiede, tra XVIII e XIX secolo in Europa e negli Stati
Uniti si assiste ad un riassetto della giustizia penale?
Perché la punizione del crimine si trasforma da supplizio
pubblico a castigo rieducativo? Ma soprattutto, c’è in
questa trasformazione un effettivo rispetto della
“umanità” del suppliziato o si tratta semplicemente di un
discorso strategico volto a rendere la gestione della
giustizia penale più efficace?
In primo luogo Foucault osserva come la punizione del
crimine attraverso il supplizio abbia la propria ragion
d’essere nella ritualità che essa mette in atto. Il
supplizio del condannato, nelle sue manifestazioni
violente e disumane, è un rituale politico particolare.
Il sovrano, attraverso il supplizio, chiede, decide e fa
eseguire il castigo del criminale nella misura in cui
egli stesso, nella trasgressione della legge, è stato
indirettamente colpito. In sintesi, in un contesto in cui
la sovranità assume una forma sacrale, ogni crimine è un
attentato all’incarnazione del potere sovrano, al re:
Il supplizio non ristabiliva la giustizia, riattivava il
potere. Nel secolo XVII, e ancora all’inizio del XVIII, esso
non era dunque, con tutto il suo spettacolo di terrore, il
residuo non ancora cancellato di un’altra età. I suoi
accanimenti, il suo splendore, la violenza corporale, un gioco
smisurato di forze, un cerimoniale accurato, in breve tutto il
54
suo apparato, si inscriveva nel funzionamento politico della
penalità.35
Ma l’aspetto più interessante del supplizio e della
giustizia penale che esso articola è il margine di
illegalismo su cui esso si esercita. Gli eccessi e gli
squilibri che il supplizio mette in scena, dallo
strapotere dei tribunali locali alla tortura che precede
la vera e propria esecuzione, diventano agli occhi dei
teorici del XVIII secolo, segnali del malfunzionamento di
quel sistema penale. In sintesi « […] sotto l’Ancien Régime,
i diversi strati sociali avevano ciascuno il proprio
margine di illegalismo tollerato: la non-applicazione
della regola, l’inosservanza degli innumerevoli editti o
ordinanze erano condizione del funzionamento politico ed
economico della società.»36. L’illegalismo tollerato dal
potere sovrano prima del XVIII secolo rientrerebbe in
quella partita giocata tra centro e periferia, tra
sovrano e poteri locali, che fa della questione della
nascita dello stato moderno un discorso privo di
linearità:
Tra questo illegalismo dei bassi ceti e quello delle altre
caste sociali, non esisteva né una completa convergenza, né
un’opposizione di fondo. In linea generale, i differenti
illegalismi propri a ciascun gruppo mantenevano fra loro
rapporti che erano insieme di rivalità, di concorrenza, di
35 FOUCAULT M., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976, p. 54.36 Ivi, p. 90.
55
conflitti d’interesse, di appoggio reciproco, di complicità:
il rifiuto dei contadini di pagare certi canoni statuali o
ecclesiastici non era necessariamente malvisto dai proprietari
terrieri […]37
Così certe tipologie di criminale, come il
contrabbandiere o il contadino cacciato dalle estorsioni
di un padrone, diventava sul patibolo l’oggetto della
compassione del popolo, perché degno rappresentate di
forme d’illegalismo cui quasi tutti gli strati più
sfavoriti della popolazione partecipavano. Il bandito-
contrabbandiere diventava insomma una sorta di martire,
in grado di tenere dei veri e propri “discorsi del
patibolo”.
Nel corso del XVIII secolo questo rituale politico di
manifestazione della sacralità del potere cede il passo
ad una giustizia penale discreta, visibile ma non
spettacolare: la reclusione. Come avvenga questo
passaggio è noto: ad aprire la strada alla nuova
giustizia penale è sicuramente il discorso umanitario
degli illuministi, come le critiche di Cesare Beccaria
alla pena di morte e alla tortura. Basti notare qui come
la giustizia penale del supplizio venga attaccata dai
“riformatori” non dall’ottica di una nuova giustizia
penale, ma da quella del suo malfunzionamento.
L’interesse di Foucault si concentra dunque sul perché di
questa trasformazione. Ebbene, l’affermazione di un nuovo
modo di governare come abbiamo visto sopra, che fa del
37 Ivi, p.91.56
calcolo razionale e dell’utile il fulcro della propria
azione, si deve liberare di un modo di punire rapsodico e
casuale. Di una giustizia penale molto appariscente ma
per niente incisiva sulla totalità del corpo sociale. Il
posto prima occupato dalla vendetta del sovrano viene ora
preso dal problema della difesa della società. La
giustizia penale deve essere esercitata in nome di questa
difesa. È proprio da questo discorso che muoveranno i
loro passi nel secolo successivo le prime istituzioni
carcerarie. La loro effettiva realizzazione implicherà
però un’importante differenza rispetto al discorso dei
“riformatori” illuministi. Il funzionamento
dell’istituzione carceraria è infatti l’azione costante
sul corpo del condannato. Un’azione di una violenza molto
più fine di quella del supplizio, perché ad essere preso
di mira non è il corpo nella sua pura fisicità, nella sua
capacità di poter provare dolore, ma il corpo come
sistema delle abitudini e dei comportamenti. È come se la
pratica dell’esercizio del potere avesse preso coscienza
dell’inefficacia di una riqualificazione totale del
condannato come soggetto di diritto attraverso la pena,
per investirlo invece del proprio potere di
disciplinarlo. La disciplina e le tecniche che permettono
di realizzarla sono dunque la cifra del modo in cui la
razionalità di governo nata tra XVI e XVII secolo
affronta i problemi economici legati alla popolazione
sorti tra XVIII e XIX secolo:
57
La «disciplina» non può identificarsi né con una istituzione,
né con un apparato; essa è un tipo di potere, una modalità per
esercitarlo, comportante tutta una serie di strumenti, di
tecniche di procedimenti, di livelli di applicazione, di
bersagli; essa è una «fisica» o una «anatomia», una tecnologia.
E può essere presa in carico sia da istituzioni «specializzate»
(i penitenziari o le case di correzione del secolo XIX), sia da
istituzioni che se ne servono come strumento essenziale per un
fine determinato (istituti di educazione, ospedali), sia da
istanze preesistenti che vi trovano il mezzo per rinforzare o
riorganizzare i loro meccanismi interni […]; sia da apparati
che hanno fatto della disciplina il loro principio di
funzionamento interno (disciplinarizzazione dell’apparato
amministrativo, a partire dall’epoca napoleonica), sia infine
da apparati statuali che hanno la funzione, non esclusiva ma
principale, di far regnare la disciplina a scala dell’intera
società (la polizia).38
La disciplina è dunque un modo di funzionare del potere
nell’età moderna che mira alla separazione, alla
ripartizione, alla classificazione e a tutto ciò che
permetta il corretto funzionamento, secondo parametri di
efficienza e utilità (parametri in una parola
economici) , dello stato e delle sue istituzioni. Ma essa
conosce anche un secondo livello di applicazione,
trasversale a quello dello stato, e che riguarda
l’individuo, il singolo. Che investe il suo corpo e le
sue rappresentazioni.
38 Ivi, p.235.58
La peculiarità della società disciplinare può infatti
essere meglio individuata nell’istanza di formazione di
nuove soggettività, nel potere di modellare e plasmare
secondo le necessità imposte dalla politica e
dall’economia. Ma anche nel potere di formare soggetti
antitetici a questo meccanismo, che funzionino da leva su
cui questo potere si possa esercitare. Non un potere che
esercita un controllo capillare nella società attraverso
la pura repressione, ma un potere che si impone
attraverso la differenziazione, la distinzione e
classificazione degli individui che compongono il corpo
sociale:
Insomma l’arte di punire, nel regime di potere disciplinare,
non tende né all’espiazione e neppure esattamente alla
repressione: ascrivere gli atti, le prestazioni, le condotte
singole ad un insieme che è nello stesso tempo campo di
comparazione, spazio di differenziazione e principio di una
regola da seguire. […] Penalità perpetua che passa per tutti i
punti, e controlla tutti gli istanti delle istituzioni
disciplinari, paragona, differenzia, gerarchizza, omogeneizza,
esclude. In una parola, normalizza.39
Ciò che caratterizza l’epoca moderna è dunque la nascita
di un modo di governare, e questo credo che sia il
contributo più importante di Foucault, che non abbia come
obiettivo la semplice conquista dell’«altro», ma la sua
formazione ex novo, la sua iscrizione in un meccanismo che
lo escluda per stabilire ciò che deve essere incluso. In39 Ivi, p.200.
59
un sistema che funziona attraverso la sanzione e il
premio, attraverso la definizione perpetua della norma.
In Sorvegliare e punire questo emerge dal modo in cui il
condannato diventi nella nuova giustizia penale un
criminale.
La questione della formazione dello stato moderno e la
possibilità di leggerla all’interno della categoria di
disciplinamento non può dunque prescindere dal discorso
sulla scoperta e manipolazione dell’«altro» interno (la
donna, l’eretico, l’ “anormale”, e infine il criminale)
come corollario della distruzione dell’«altro» esterno
(il “selvaggio”, il “barbaro”, lo straniero).
L’organizzazione delle istituzioni moderne occidentali è
un fascio di luce che con cui il potere investe il corpo
della società, lo seziona e lo disciplina mettendo in
atto schemi già sperimentati all’esterno, quando quel
fascio di luce si era posato sul resto del globo.
Proprio come nel finale de Nella colonia penale quello stesso
potere di marchiare il corpo del condannato con la norma
trasgredita per mezzo della macchina, si rivolge a se
stesso, agli individui che ne costituiscono le parti
funzionali, per potere continuare a mettere in scena il
proprio potere di punire per sempre. Allora i ruoli si
rovesciano, e l’ufficiale addetto all’esecuzione da
carnefice si trasforma in vittima:
L’esploratore si morse le labbra e tacque: sapeva già quel che
sarebbe avvenuto, ma non si credeva in diritto di trattenere in60
qualche modo l’ufficiale. Se la procedura penale, alla quale
l’ufficiale teneva tanto, era davvero così prossima ad esser
soppressa, probabilmente per l’intervento dell’esploratore,
intervento a cui questi dal canto suo, si sentiva impegnato,
allora l’ufficiale agiva con perfetta coerenza, e
l’esploratore, al posto suo, non avrebbe agito altrimenti.40
40 KAFKA F., op. cit, p. 312.61
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