Ascesa o decadenza delle società e delle civiltà. Un nodo tra psicologia e politica in alcuni...

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a cura di PATRIZIA CATELLANI Identità e appartenenza nella società globale Scritti in onore di Assunto Quadrio Aristarchi

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a cura di

PATRIZIA CATELLANI

Identità e appartenenzanella società globaleScritti in onoredi Assunto Quadrio Aristarchi

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© 2005 Vita e Pensiero - Largo A. Gemelli, 1-20123 MilanoISBN 88-343-1981-8

INDICE

Saluto introduttivo di Lorenzo Ornaghi 1

Presentazione di Alberto Qiiadrìo Curzto 9

Introduzione di Patrìzia Catellani 11

PATRIZIA CATELLANI

Identità multiple in una società globale 17

VINCENZO CESAREO - MAURO MAGATTI

La domanda di identità in una società multiculturale 45

EUGENIA SCABINI - CLAUDIA MANZI

Famiglia, identità e rapporti tra le generazioni 73

PASQUALE GAGLIARDI

Culture del lavoro e identità sociali nelle organizzazioni 109

VITTORIO EMANUELE PARSI

Identità politica, identità nazionale e globalizzazione 129

UGO DRAETTA

La costituzione europea e il nodo della sovranità nazionale 163

MARINELLA FUMAGALLI MERAVIGLIA

Diritti dell'uomo e identità europea 183

ALBERTO QUADRIO CURZIO

Euro-sviluppo: democrazia, economia, innovazione.Tre paradigmi europei 203

INDICE

LORENZO ORNAGHI - DAMIAMO PALANO

Ascesa o decadenza delle società e delle civiltà.Un nodo tra psicologia e politica in alcuniscritti dimenticati 239

GIOVANNI ANCARANI

Identità civili ed eredità storiche 297

CARLO BERETTA

II ruolo della razionalità nella spiegazionedel comportamento sociale 315

LORENZO ORNAGHI* - DAMIANO PALANO**

Ascesa o decadenza delle societàe delle civiltà1

Un nodo tra psicologia e politica in alcuniscritti dimenticati

Invenzione e imitazione: la storia futura

Attorno al 1895, mentre sfogliava le pagine del Journal dei fratelliGoncourt, Cabrici Tarde ebbe occasione di imbattersi nel breveresoconto di una conversazione di Berthelot, nella quale il celebrescienziato francese profilava l'ipotesi che l'umanità, dopo il raf-freddamento della massa solare, fosse destinata a ritirarsi nel sot-tosuolo terrestre. Tarde, leggendo le parole di Berthelot, si ram-mentò di una «fantasia sociologica» da lui composta molto tempoprima, probabilmente verso la fine degli anni Settanta, quando,ancora sconosciuto alla comunità accademica, svolgeva le funzio-ni di magistrato in una piccola cittadina di provincia. Il raccontodel criminologo di Sarlat prendeva le mosse proprio dall'ipotesi diuna nuova era glaciale, che, nell'anno 2498, avrebbe spinto i pochisuperstiti del genere umano a imboccare la strada delle profonditàdella Terra. Incoraggiato dall'ipotesi di «una personalità così emi-nente», Tarde si decise a sottrarre il manoscritto dal polverosostipo in cui era rimasto a lungo abbandonato e a pubblicarlo, alcu-ni mesi dopo, nel 1896, sulla prestigiosa «Revue Internationale deSociologie», con il titolo Fragment d'histoire future.

Assai più che per lo scenario apocalittico in cui si collocaval'ordito narrativo, il divertissement fantascientifico trovava imme-diata ospitalità su una delle più illustri riviste sociologiche di fine

Professore ordinario di Scienza politica, Facoltà di Scienze politiche, Rettoredell'Università Cattolica del Sacro Cuore.

Ricercatore di Scienza politica, Facoltà di Scienze politiche, UniversitàCattolica del Sacro Cuore.11 paragrafi 5 e 6 si possono attribuire a Lorenzo Ornaghi; i paragrafi 2, 3 e 4 aDamiano Palano; i paragrafi 1 e 7 ai due autori congiuntamente.

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secolo poiché la vicenda costituiva, per molti aspetti, una sorta disintetico compendio dell'intera riflessione teorica di Tarde.Nella tesi al cuore di tutta la riflessione del sociologo, secondocui l'intera storia umana risulta segnata dall'ininterrotta dialet-tica di «invenzione» e «imitazione», si rispecchia infatti chiara-mente anche l'immagine della nuova civiltà sotterranea deiTitani, capace di progredire contro tutte le avversità, grazie algenio del suo fondatore e all'attivo contributo di altri «geni ausi-liari». Non era perciò casuale che, nel racconto, la proposta dellagrande migrazione verso il sottosuolo fosse giunta dalla voce iso-lata di un individuo geniale chiamato Milziade; come, d'altraparte, non era soltanto in virtù del suo giovanile estro letterarioche Tarde, insistendo sull'importanza del ristretto gruppo diinventori, evocasse l'utopia di una «repubblica geniocratica», incui la nascita e lo sviluppo del potere avvenivano in modo estre-mamente lineare:

II y a toujours, dans la foule de nos génies, un genie superieur qui estsalué tei par l'acclamation preque unanime de ses élèves d'abord, de sescamarade ensuite. On est jugé, en effect, par ses pairs et d'après sesouvres, non par des incompétents et d'après ses prousses électorales.L'élévation de ce dictateur a la suprème magistrature, vu l'intime solida-rieté qui nous lie et nous cimente les uns aux autres, n'a rien d'humiliantpour l'orgueil de sénateurs qui l'ont élu et qui sont les chefs de totes lesgrandes écoles créés par eux. Un électeure qui est un éleve, un électeurqui est un admirateur intelligent et sympathique, s'identifie a son élu. Or,c'est le caractère propre de notre république géniocratique, de reposersur l'admiration, non sur l'envie, - sur la sympathie, non sur la haine, -sur l'intelligence, non sur l'illusion (Tarde, 1896, p. 473).

Certo nel racconto fantascientifico di Tarde erano evidenti i debi-ti verso il classico filone del pensiero utopico. Nondimeno, sia loscenario in cui si collocava la vicenda, sia il rilievo congiuntamen-te assegnato alla casta degli «inventori» e al meccanismo dell'imi-tazione, palesavano una vicinanza a temi e ad atmosfere cui sierano rivolte, in modo quasi privilegiato, non solo la letteraturadegli ultimi decenni dell'Ottocento, ma anche le nascenti scienzesociali e psicologiche. In effetti, dall'impianto scenico del Fragmenttardiano trapelava - come è stato notato - l'influenza di «unacerta claustrofilia in voga nella letteratura popolare del tempo»(Petrucci, 1988, p. 21) e di quella sorta di ossessione per il sotto-

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suolo, per i cunicoli sotterranei, oscuri e melmosi, che, per esem-pio, aveva ispirato a Victor Hugo il memorabile viaggio di JeanValjan nelle rogne di Parigi, nei Miserabili, e alimentato alcuni deipiù noti romanzi di Jules Verne, come, in particolare, il Viaggio alcentro della Terra. La fortuna di queste ambientazioni, se da un latorimandava al tema topico della discesa agli inferi, dall'altro, assu-meva anche - nel contesto culturale della seconda metàdell'Ottocento - un ulteriore significato, in cui il viaggio verso leprofondità della Terra veniva ad alludere simbolicamente all'e-splorazione che gli studiosi positivisti intendevano compiere: l'e-splorazione 'scientifica', cioè, delle profondità più oscure dellacostituzione psicologica umana, di quelle remote cavità in cui ilpassato individuale andava a confondersi con l'eredità primordia-le della specie e della 'razza'.

La particolare soluzione teorica che Tarde condensava nel suoracconto non era probabilmente così efficace, sotto il profilo let-terario, da meritare allo studioso francese il titolo di precorritoredella moderna sciencefìction, al pari di altri autori contemporaneiquali lo stesso Verne o Herbert George Wells (che pure presentòla traduzione inglese del Fragment). La sua proposta era però par-ticolarmente significativa, giacché, neutralizzando il 'deposito pul-sionale' naturale evocato dal simbolismo ctonio, riusciva a daresoluzione a quell'equilibrio ambivalente tra conservazione e pro-pensione al nuovo attorno al quale si arrovellavano, in modo nonepisodico, le scienze sociali di fine secolo. Se i sotterranei mar-morei cui il magistrato di Sarlat affidava il compito di custodire ildestino della futura umanità apparivano infatti ormai spogliati diquelle equivoche connotazioni simboliche che avevano sancito lafortuna della letteratura «claustrofobica» di Verne, la 'normaliz-zazione' dell'immagine del mondo sotterraneo, operata da Tarde,scaturiva da quella stessa tesi di fondo su cui egli avrebbe costrui-to la propria intera architettura teorica. Collocando nell'ininter-rotta e virtualmente interminabile dialettica di invenzione e imi-tazione la logica strutturale del progresso, in tutte le sue molte-plici varianti, Tarde aveva infatti fissato esplicitamente nella figuradella civiltà sotterranea dei Titani - una civiltà in grado di annul-lare del tutto la dimensione naturale e animale della convivenza -il vertice della civilizzazione, facendo di fatto coincidere l'apicedel progresso con un mondo interamente affidato alle potenzia-lità dell'invenzione geniale e all'efficacia dell'imitazione virtuosa.

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L'interesse di Tarde per le dinamiche del progresso e per il'mistero' dell'imitazione non era un caso isolato nel panoramaintellettuale/ira de siede. L'enfasi sulle relazioni ambigue tra l'iner-zia e l'innovazione, ma anche su quelle tra la capacità di resisterealle sfide del mutamento e l'attitudine di avviare una modificazio-ne sostanziale delle strutture sociali e politiche, costituì in effettiuno dei nodi cruciali per gran parte degli interpreti delle trasfor-mazioni sociali. Gli eventi da cui - nel breve arco di tempo tra lasconfitta di Sedan e la tragedia della Comune - viene sconvolto ilVecchio Continente non mutano soltanto i consolidati equilibritra le potenze europee, ma sanciscono anche l'avvento sul pro-scenio politico della 'massa'. Proprio nella massa, la quale potevasmettere le vesti di un popolo festante, per indossare il manto dia-bolico delle petrokuses comunarde, si celava lo stesso segreto checonsentiva a una società di conservarsi nel tempo o che, al con-trario, poteva condannarla alla senescenza e a un desiino di ine-vitabile decadenza.

L'avvento delle folle, con la loro volubile e imprevedibile azio-ne, mostrava e amplificava il coacervo di pulsioni istintuali checonvivono in equilibrio instabile nella psiche di ciascun essereumano. Al tempo stesso, non appena caduto il velo che preserva-va la sagoma stilizzata di un soggetto astratto, integralmente gui-dato dal calcolo razionale della propria utilità, l'irrompere di que-ste masse anonime e senza capo portava in primo piano la ricercadi quali fossero le basi psicologiche dell'identità, individuale e col-lettiva, in grado di conservare inalterato l'ordine di una società, o,viceversa, di accelerare la nascita di un nuovo e diverso ordine.

Molti degli scritti di psicologia collettiva della fine dell'Ot-tocento e dei primi del Novecento si rivelano oggi inservibili, oltreche segnati spesso da deleterie distorsioni prospettiche. E tuttavia,come cercherà di mostrare questa nostra rilettura di alcuni scrittidimenticati, nei materiali e nelle ipotesi di quei lavori andarono asommarsi, e non di rado a scontrarsi, molti dei dilemmi che lescienze sociali avrebbero tentato di risolvere nei decenni seguen-ti, e che, ai nostri giorni, dinanzi alle sfide non solo teoriche diquesti anni, ci colgono di sorpresa con la loro imprevista attualità.All'incrocio di molteplici filoni teorici e disciplinari, il dibattitodelle nascenti scienze sociali sulla conservazione e la propensioneal nuovo, oltre che sulle cause dell'ascesa e della decadenza delleciviltà, coglieva infatti non soltanto la rilevanza della dimensione

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del tempo per ogni sintesi politica, ma anche quella della proie-zione temporale nella costruzione stessa di ogni identità politica.

Misoneismo e rivoluzione

Max Nordau, nel testo forse più ambizioso dedicato al crepuscolodella fin de siede, attìnse a piene mani dalle pagine sulla decadenzadi Hippolyte Taine ed Emile Zola, oltre che di numerosi esponen-ti della letteratura scientifica di quegli anni. La prospettiva di lungoperiodo che trapelava dalla sua Entartung non era però intera-mente pessimista. Nordau, infatti, considerava la 'degenerazione'come un processo storico inevitabile e per molti aspetti tragico, chetuttavia non conduceva di necessità al crollo della civiltà occiden-tale. All'interno di una prospettiva integralmente evoluzionista,anche la degenerazione di fine secolo, con il suo culto decadenteper le forme artistiche morbose e patologiche, era intesa come ilprezzo da pagare alla stessa logica del progresso storico. Nellacostante lotta per la sopravvivenza e l'adattamento, i «degenerati»,gli «isterici» e i «neurastenici» sarebbero senz'altro stati eliminati,perché incapaci di assumere una posizione ferma di fronte allarealtà e alle sue modificazioni. Accanto a questa frazione di uma-nità psichicamente segnata dallo stigma della degenerazione, sisarebbe però profilata una nuova schiera di esseri umani, in gradodi adattarsi al progresso tecnologico e ai suoi nuovi ritmi, di cuiNordau forniva una suggestiva prefigurazione:

La fine del ventesimo secolo vedrà quindi, probabilmente, una genera-zione, alla quale non tornerà greve leggere quotidianamente alcune doz-zine di metri quadrati di giornali, esser chiamata di continuo al telefo-no, pensare contemporaneamente a tutte le cinque parti del mondo,vivere metà in ferrovia e metà nella navicella aerea, e sbrigarsela con uncircolo di diecimila persone fra conoscenti, colleghi ed amici. Saprà tro-vare i suoi comodi in seno alle metropoli, e, coi suoi nervi robustissimi,soddisfare senza noia e senza eccitazione alle infinite esigenze della vita(Nordau, 1892, p. 492).

A dispetto dell'ottimismo riposto nelle potenzialità della selezionenaturale, anche Nordau, come Taine e Zola, non mancava però diritrovare - proprio nelle giornate del 1870-71 e nel fulmineo pre-cipitare dall'esaltazione della guerra alla disperazione della scon-

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fitta - il segnale di una patologia generale, che in Francia era statoaggravato dal logoramento subito nei cento anni precedenti.Proprio «per quella grave perdita di sangue che la nazione fran-cese subì durante il ventennio delle guerre napoleoniche, per leviolente scosse morali cui fu soggetta durante i grandi rivolgimentie durante il poema eroico dell'Impero» (Nordau, 1892, p. 58), laFrancia si era trovata impreparata ad affrontare le conseguenzedistruttive delle innovazioni tecnologiche ed era arrivata alla guer-ra franco-prussiana in una condizione di fragilità, destinata aesserle fatale:

Su questo popolo affetto nei nervi e predisposto a perturbazioni morbo-se si riversò poi il terribile disastro del 1870. Con una coscienza cherasentava la megalomanìa, il popolo si vide umiliato e infranto. Tutte lesue convinzioni caddero. [...] L'intera nazione si trovò in uno stato dicose come di un uomo colpito improvvisamente dalla sorte avversa neisuoi beni, nella sua posizione, nella sua famiglia, nel suo decoro, nellasua stima. Migliaia impazzirono. Si ebbe anzi a constatare, a Parigi, unavera epidemia di malattie mentali, per la quale si trovò un nome proprio:follia ossidionale. Ed anche coloro che non perdettero l'intelletto subi-rono un danno permanente nella salute del loro sistema nervoso(Nordau, 1892, p. 58).

All'indomani delle tragiche giornate della Comune, erano appar-si studi e memorie, che, pur nella loro frammentarietà, intende-vano offrire una spiegazione medico-psicologica degli eventiseguiti alla sconfitta militare contro la Prussia. In un testo ancoranon del tutto dimenticato (anche perché lo si può considerareuna prima anticipazione dei temi che diventeranno centrali neglistudi di psicologia delle folle), J.B.V. Laborde (1872) esaminò lepersonalità di alcuni protagonisti dell'insurrezione parigina, rile-vando come gran parte di essi fossero criminali consumati o affet-ti da patologie psichiche, che, in taluni casi già presenti almomento dell'insurrezione, in altri erano state probabilmentedeterminate proprio dagli episodi traumatici di quei giorni2.Sarebbe stato ancora una volta lo stesso Zola, nelle pagine con-clusive della Débàcle, a porre il sigillo definitivo a questa rappre-

2 Per una rilettura di questi testi, cfr. COCHART (1982) e APFELBAUM - McGuiRE(1986).

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sentazione della Comune, raffigurando l'insurrezione di Parigicome un'epidemia di «ubriachezza generale»: «la popolazione,vissuta a lungo senza pane, e con barili di acquavite e di vino- scriveva - se n'era saturata e ormai sragionava alla minima goc-cia» (Zola, 1892, p. 348). Aggravata dalla scarsità di cibo e dal-l'assedio sempre più pressante, proprio l'ubriachezza generaleavrebbe spinto gli insorti, travolti da una «furibonda demenza»,a votarsi alla causa suicida di una catastrofe capace di purificareil mondo.

Nella Débàcle, Zola consolidava peraltro anche un'altra tesi, giàemersa nei giorni immediatamente successivi, secondo cui la trup-pa degli insorti era per gran parte reclutata tra le fila della delin-quenza comune e delle prostitute di Parigi3. L'idea che nei rivolgi-menti politici avessero una parte spesso decisiva proprio i delin-quenti, e che individui affetti da gravi patologie psichiche potesse-ro trovare facilmente i propri adepti tra le schiere di criminali abi-tuali, prostitute e vagabondi allignanti nei bassifondi dei grandiagglomerati urbani, era in realtà divenuta una tesi ormai diffusa.Anche Cesare Lombroso, il fondatore della scuola italiana di antro-pologia criminale, esaminando, verso la metà degli anni Ottanta, iritratti dei martiri dell'indipendenza italiana raccolti in una mostraa Torino, ebbe modo di esplicitare quelle che, a suo giudizio, eranole inestricabili connessioni tra criminalità e rivolta politica, ever-sione dell'ordine sociale e funzione rivoluzionaria. Dopo aver con-statato in quei ritratti l'assenza del tipo criminale (presente, inve-ce, tra gli insorti della Comune), Lombroso cominciò a elaborare,insieme all'allievo veronese Raffaele Laschi, il progetto di un'ope-ra sul delitto politico, nella quale avrebbe rifuso e riformulato leipotesi e i risultati della sua instancabile ricerca sul tema.

3 Mentre scoppiava l'incendio destinato ad avvolgere la capitale, Maurice, unodei due protagonisti, vedeva infatti uscire da un palazzo in cui si era stabilito lostato maggiore della Comune un vecchio commilitone, esponente proprio diquella criminalità collocata alla testa della rivolta. Guadagnati i gradi nellaGuardia Nazionale dopo il 18 marzo, Chouteau - come riferiva Zola - «si erainstallato nel palazzo della Légion d'honneur, e viveva lì con un'amante, gozzo-vigliando giorno e notte, stendendo gli stivali infangati sui grandi letti sontuosi,rompendo gli specchi a colpi di rivoltella, per divertirsi» e facendo trafugareall'amante «ogni mattina in una carrozza di gala, [...] pacchi di biancheria, pen-dole e perfino mobili» (ZOLA, 1892, p. 350).

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Lombroso si era in effetti trovato alle prese con il problemadella delinquenza politica fin dal 1878, in occasione del processoall'anarchico napoletano Giovanni Passanante, autore del tentatoregicidio di Vittorio Emanuele. Nelle riflessioni formulate a mar-gine del processo, egli cominciò a delineare la figura del «mattoi-de», collocata al confine tra genialità e follia, le cui ossessioni pote-vano talvolta sfociare in azioni criminose e in attentati politici. Lopsichiatra veronese, in seguito, avrebbe impiegato la nozione di«mattoidismo» per spiegare alcuni dei casi più noti di attentatorie regicidi, da Guiteau a Sante Caserio, da Luigi Luccheni fino amolti degli anarchici di fine secolo, accolti nella galleria crimina-le lombrosiana. Lo studioso italiano aveva già utilizzato l'idea delmattoidismo come pretesto per invocare attenuazioni di pena. Inquesta circostanza, tuttavia, egli si era spinto, in una chiave piùampia, a elaborare l'ipotesi che, in determinati frangenti storici,anche i «mattoidi» potessero corrispondere a una funzione di pro-gresso. L'idea, delineata solo sommariamente nelle considerazio-ni su Passanante, sarebbe stata in seguito ripresa con convinzionedallo psichiatra veronese, il quale, secondo uno stile di lavoro giàampiamente collaudato, iniziò a cercare nelle grandi figure dellastoria le conferme alla propria tesi4.

Utilizzando questo schema argomentativo, il fondatore dell'an-tropologia criminale aveva costruito, nel 1883, un provocatoriopamphlet, nel quale venivano affiancate le personalità di Cola diRienzi e di Coccapieller, uno spregiudicato giornalista della Romadi fine Ottocento. Al di là dell'accostamento, il punto cruciale del-l'argomentazione di Lombroso era che ambedue, proprio in virtùdella loro peculiare anomalia psichica, erano stati in grado di eser-citare «un'azione potente sulle plebi», perché, a differenza degliautentici geni, spesso incompresi dal grande pubblico, «cedestimattoidi essendo bizzarri ma non elevati nei concetti, anzi soven-te più bassi del comune, son perciò più accessibili e accetti allemasse» (Lombroso, 1883, p. 67). Sulla scorta di questa ipotesi difondo, egli si spingeva pertanto a formulare una «teoria psichia-

4 Si trattava di un rjrocedimento ojà utilizzato da Lombroso in altre oriere. Unaefficace ricostruzione del singolare metodo dello studioso italiano può essere rin-tracciata nei lavori di BULFERETTI (1975) e VILLA (1985), oltre che nei recentistudi di GIBSON (2002) e ERIGESSI (2003).

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tro-zoologica delle rivoluzioni», secondo la quale i mattoidi rico-prono un ruolo decisivo nell'abbattimento di quelle convenzionisociali e politiche, che, ereditate dalla tradizione, vengono invecedifese dalla maggioranza conservatrice.

Se infatti la tendenza all'inerzia e alla conservazione costituiva,secondo Lombroso, un tratto comune a tutti gli individui norma-li, il compito di dare avvio alle rivoluzioni religiose, politiche esociali, non poteva che spettare a quegli individui che, per effettodi alienazioni più o meno gravi, erano in grado di scostarsi dallapercezione condivisa dai più. Dotato della «convinzione irremovi-bile, fanatica, del pazzo» e dell'«astuzia calcolatrice del genio», ilmattoide si rivela capace «di generare una tal dose di altruismo»,da sacrificare persine «i propri interessi e la vita per far conosce-re e spesso accettare i nuovi veri al pubblico» (Lombroso, 1883,p. 86). Scontrandosi dunque con l'inerzia della maggioranza espronando le masse con il suo esempio e la sua predicazione, l'a-lienato - quando i tempi risultano maturi per un effettivo muta-mento - può indossare le vesti del rivoluzionario e del profeta,rendendo possibile l'evoluzione dell'umanità:

i rivolgimenti storici non si fanno duraturi se non sono preparati da unalunga serie di eventi: ma chi ne precipita la soluzione, alle volte, moltianni prima dell'applicabilità pratica, sono i geni alienati, che precorro-no gli eventi, non sentono gli ostacoli, né li temono; e perciò spesso rie-scono laddove i savi sarebbero stati impotenti (Lombroso, 1883, p. 89).

La teoria della rivoluzione, delineata nell'opuscolo di Lombroso,e l'idea che i mattoidi possano giocare un ruolo positivo in alcu-ne fasi di trapasso storico e politico non ricevettero tuttavia un'ac-coglienza favorevole. A questo proposito, nella Prefazione ai Tre tri-buni, l'autore non si lasciò sfuggire l'occasione per sferrare l'en-nesimo attacco contro quella «cultura classica», che in Italia con-tinuava a frapporre un'invalicabile barriera al progresso dellescienze positive, rendendo 1'«ignoranza» in materia psichiatricadel tutto incontrastata persine presso il pubblico colto(Lombroso, 1887, p. X). Le critiche alla teoria «psichiatro-zoolo-gica» della rivoluzione, però, non arrivarono soltanto dai profanio da quegli avversali polemici votati a negare qualsiasi fondatezzascientifica alle ipotesi del criminologo veronese. Attorno alla que-stione della criminalità politica e in rapporto alla discussione sulla

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sanità psichica dei delinquenti politici, nel corso del PrimoCongresso di Antropologia criminale tenuto a Roma nel 1885, siera infatti prodotta una delle più rilevanti fratture tra la scuola ita-liana e il gruppo degli studiosi francesi capeggiato da AlexandreLacassagne5. Durante i lavori, la rassegna di Raffaele Laschi, dedi-cata a illustrare la frequente connessione tra la patologia psichicae il reato politico, provocò una discussione accesa, incentrata nontanto sulla lettura dei casi addotti come supporto sperimentale,quanto sulle conseguenze, anche politiche, che da essa discende-vano. Se i dissensi emersi a Roma erano soltanto il primo segnaledi una polemica che, nel Congresso parigino di quattro annidopo, avrebbe messo in questione tutti i principali assunti dellascuola italiana, la discussione sul crimine politico, pur seguendolinee non sempre coincidenti, avrebbe continuato ad alimentarele polemiche, fino a raggiungere il culmine verso la metà deglianni Novanta, quando il vento di un nuovo e inquietante terrori-smo sembrò annunciare, pressoché in tutti i Paesi del continente,il crepuscolo della vecchia società europea.

Anche in seguito alle critiche avanzate in occasione delCongresso di Roma, la redazione del saggio si rivelò più complessae laboriosa del previsto, concludendosi soltanto nel 1890, con lapubblicazione del volume R delitto politico e le rivoluzioni, un testò lacui mole faceva trapelare piuttosto scopertamente le ambizionidegli autori. Già dai primi articoli sul tema, pubblicati da Lombrosoe Laschi sull'«Archivio di Scienze penali e Antropologia crimina-le», affiorava nitidamente la tesi di fondo del lavoro, incentrata sul-l'idea che, nel corso delle sommosse e delle rivolte, emergesseroquasi invariabilmente individui affetti da gravi anomalie psichicheo spinti al crimine da profonde reversioni atavistiche. In questosenso, riprendendo l'ipotesi lombrosiana sul ruolo rivoluzionariodei mattoidi e anticipando anche alcuni dei temi più tardi al cen-tro dei lavori di Sighele e Le Bon, Laschi scriveva:

la pazzia può dirsi ad un tempo causa ed effetto dei rivolgimenti politici:da individui patologicamente anormali, si propaga alle masse, avide delnuovo, suscettìbili alle emozioni più rapide e più varie, e così spessouomini pazzi producono commozioni popolari da cui può sorgere la

5 Sul contrasto fra la scuola italiana e quella francese, cfr. NYE (1976; 1984), PAPA(1985), ma anche PICK (1989).

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co», e le semplici rivolte e sedizioni, ritenute invece, semplice-mente, il risultato di «un'incubazione precipitosa, artificiale - atemperatura esagerata - di embrioni tratti perciò a certa morte»(Lombroso - Laschi, 1890, p. 31). Se la rivoluzione era coronata daun rapido successo e dalla scarsa incidenza della violenza, le som-mosse sarebbero invece state votate a un rapido fallimento, e alloro interno avrebbero avuto un ruolo preponderante i ceti infe-riori, le dinamiche imitative e l'abuso di alcolici:

le rivoluzioni si formano, quando il terreno è predisposto, o grazie al sor-gere dei genii, o di anomali, che per l'originalità e l'acutezza maggioredella mente, per il minore misoneismo, che son caratteri speciali delgenio, presentono le necessità che verranno più tardi da tutti sentite;mentre il pubblico misoneista non potendo seguirli nelle loro vedute, limisconosce sul principio e li abbandona a pochi fanatici, appassionati espesso pazzi o criminali. [... ] Ma se il terreno non sia preparato e sia trop-pa la distanza fra il precursore e la massa del pubblico, la sua voce restainascoltata e non si ha allora che una sedizione, la quale rappresenta per-tanto l'aborto della rivoluzione, la convulsione piuttosto che il moto nor-male e, quindi, come quella, è prova di malattia o indebolimento(Lombroso - Laschi, 1890, p. 34).

Rifiutando di accogliere la vecchia nozione delineata dalla scuolapenale, Lombroso e Laschi ritenevano che si potesse effettiva-mente parlare di «reato politico» solo quando l'azione criminosa,diretta a colpire l'ordinamento esistente, andava a scontrarsi con-tro la generale riprovazione della morale comune, ancora impre-parata a un effettivo cambiamento. L'unico criterio per distingue-re con certezza il delitto politico da un vero atto rivoluzionario,non ascrivibile ad alcuna fattispecie criminosa, era perciò il gradodi maturazione storica della trasformazione sociale, ossia il suc-cesso dell'azione insurrezionale. Il «delitto politico» andava acoincidere, così, con «.ogni lesione violenta del diritto costituito dellamaggioranza, al mantenimento e al rispetto dell'organizzazione politica,sociale economica, da essa voluta» (Lombroso - Laschi, 1890, p. 437).

La «voce inconscia dell'istinto»

Cabrici Tarde, già da diversi anni impegnato in una contesa dia-lettica con i criminologi della scuola italiana, mise causticamente

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prosperità di un paese, vano sogno di molti secoli delle menti più elette.[... ] Avviene dagli individui alla moltitudine una vera trasmissione epi-demica del pensiero e dell'azione pazzesca, che l'esempio e l'imitazionediffondono, trascinando le masse ad atti ora eroici, ora perversi, nellamaggior parte dei casi incoscienti (Laschi, 1885, pp. 296-297).

Se le rivolte erano il teatro in cui folli e mattoidi potevano con-quistare un ruolo da protagonisti, il rischio era nondimeno quel-lo che i delinquenti nati, vestendo i panni di agitatori politici ebeneficiando per questo del sostegno popolare, potessero darelibero sfogo alle loro feroci tendenze omicide. Riferendosi agliesempi pressoché obbligati della Rivoluzione francese e dellaComune parigina, Laschi affermava che in entrambi i casi idisordini politici, seppur causati da oggettive ragioni storiche,avevano finito col consegnare la guida della rivolta a delinquen-ti e folli capaci di commettere efferatezze spesso del tutto immo-tivate. Se ciò rispondeva a una regolarità psichica in grado dispiegare le violenze e le crudeltà delle insurrezioni, il punto cen-trale della teoria «psichiatro-zoologica» era proprio l'idea del«misoneismo», definita con attenzione fin dalle prime paginedel Delitto politico. Secondo tale concezione, ogni aggregatoumano risulta caratterizzato da una naturale tendenza alla con-servazione e, dunque, dalla propensione a rifiutare qualsiasiinnovazione:

il passato è così incarnato nelle nostre viscere, che anche i più riluttantine sentono attrazione potente [...]. E se la civiltà si fa strada non di rado,è perché trova nei mutamenti di clima, di razza, o nell'insorgere deigenii o dei pazzi, circostanze tali che finiscono per sommare tanti picco-li movimenti in modo da farne col secolo un grande (Lombroso - Laschi,1890, p. 26).

Il ruolo dei «mattoidi», così come quello di altri devianti, insensi-bili al richiamo della tendenza misoneica, sarebbe consistito pro-prio nel trascinare le masse, naturalmente portate all'inerzia, per-suadendole ad accettare innovazioni maturate nel lento processostorico di evoluzione sociale e politica. Proprio sulla scorta di que-sto schema evoluzionista, Lombroso e Laschi potevano distingue-re con una certa nettezza tra le vere rivoluzioni, «che sono uneffetto lento, preparato, necessario, al più reso di un poco piùrapido da qualche genio nevrotico, o da qualche accidente stori-

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in rilievo, recensendo il Delitto politico sulla. «Revue scientifìque», ilfatto che Lombroso e Laschi avessero rintracciato un esempio di«misoneismo nazionale» nel popolo francese, definito come«vain, belliqueux, amoreux de nouveautés» (Tarde, 1892). In un'al-tra lunga recensione al volume, Scipio Sighele, giovane allievo diEnrico Ferri e cultore degli studi di antropologia criminale, difen-deva invece l'idea del «misoneismo», definito come «la grandevoce inconscia dell'istinto ereditario della specie, il quale, nellasua missione conservatrice, si ribella contro chi vuole imporre aforza un'innovazione» (Sighele, 1890, p. 210). Replicando alleposizioni di Tarde, egli sosteneva che non esiste alcuna effettivacontraddizione tra un sostanziale misoneismo e quel filoneismoche spinge a entusiasmarsi per innovazioni di scarsa rilevanza:

una nazione può essere misoneica e amante di novità, come può esseremisoneica e amante di novità una signora, la quale ama mutare la sua toi-lette secondo la moda, e rimane incredula davanti alle scoperte dellascienza e si offende se le dite che la religione è un ammasso di pregiudi-zi e falsità (Sighele, 1890, p. 209).

Sighele, nel far sua l'ipotesi del misoneismo, individuava tuttaviail punto più debole del volume di Lombroso e Laschi nella defi-nizione che essi avevano fornito del reato politico. Mentre in chia-ve di interpretazione storica il criterio del successo può effettiva-mente delineare un netto discrimine tra rivolta e rivoluzione, talecriterio è sostanzialmente inservibile per interpretare le forme didelinquenza politica contemporanea, perché il riferimento allavolontà della «maggioranza» non può che risultare di assai diffici-le accertamento. In sostanza, osservava Sighele, il semplice richia-mo alla «legge d'inerzia» non è sufficiente a fondare una defini-zione persuasiva del delitto politico. Per giungere a una tale defi-nizione, è infatti necessario considerare gli elementi della violen-za o della frode, e dunque le modalità in cui la violazione avviene(Sighele, 1890, pp. 223-224)6.

6 Nella risposta a Sighele, Lombroso e Laschi confermarono nella sostanza la loroidea del crimine politico come offesa al «sentimento», osservando che Sighelefiniva col dimenticare «quelli che anche i giuristi classici chiamarono i delittipolitici puri, cioè quelli che, pur non essendo commisti a reati comuni, richia-mano forse nel maggior grado la difesa dello Stato, perché mirano al cangia-

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stesso Ferri, che, al principio degli anni Novanta, aveva intravistonelle aggregazioni umane temporanee una condizione psicologi-ca irriducibile a quella propria della società ordinata e organizza-ta: «i gruppi di individui, stretti da relazioni costanti, che ne fannoaltrettanti organismi nell'organismo collettivo della società, ripro-ducono in questo la società stessa, come un frammento di cristalloriproduce i caratteri mineralogici del cristallo intero» (Ferri, 1881,p. 57). Le aggregazioni temporanee, invece, rispondono a una logi-ca differente, non riconducibile né alla normale psicologia indivi-duale, né all'ordinario funzionamento della società. Ed è proprioquesto terreno intermedio tra individuo e società che la «psicolo-gia collettiva», secondo Ferri, avrebbe il compito di esplorare:

I fenomeni proprii di certi aggruppamenti di individui, sono regolati daleggi analoghe ma non identiche a quelle della sociologia, e variano aseconda che i gruppi stessi sono una unione temporanea ed accidentaleoppure permanente e continua di individui. Così la psicologia collettiva hail suo campo di osservazione in tutte le riunioni d'uomini, più o menoavventizie; le vie pubbliche, i mercati, le borse, i teatri, i comizii, le assem-blee, i collegi, le scuole, le caserme, le prigioni, ecc. E non sono pochele applicazioni pratiche, che si possono trarre dallo studio di questi fatti(Ferri, 1881, pp. 57-58).

Dieci anni più tardi, Sighele avrebbe ripreso e dilatato questoschema fino alle sue estreme conseguenze, che conducevano aintravedere un'eccezione a quella concezione organicista dell'or-dine sociale su cui Spencer aveva edificato la propria architetturateorica. Il principio spenceriano della corrispondenza tra psicolo-gia individuale e psicologia della società poteva essere considera-to valido, in altre parole, soltanto per gli aggregati umani caratte-rizzati dalla stabilità, dall'organicità e dall'omogeneità dei com-ponenti. All'opposto, esso doveva essere inteso come inapplicabi-le a proposito degli aggregati «del tutto eterogenei ed inorganici»(Sighele, 1891, p. 56), al cui studio si sarebbe dovuta dedicare la«psicologia collettiva»:

Questa evoluzione nella applicabilità del principio Spenceriano agliaggregati di uomini, ci indica chiaramente che là dove questi aggregatisono omogenei ed organici valgono le leggi della sociologia - che noidicemmo più complesse ma parallele a quelle della psicologia indivi-duale - mentre invece, mano mano che gli aggregati diventano meno

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omogenei e meno organici, scompare la possibilità di applicare ad essile leggi della sociologia, e a queste subentrano le leggi della psicologia col-lettiva: - che noi dicemmo totalmente diverse dalle leggi della psicologiaindividuale (Sighele, 1891, p. 56).

Nell'illustrare la propria tesi, Sighele non rinunciava né alla teo-ria lombrosiana del misoneismo, né all'idea secondo cui il pro-gresso e le rivoluzioni politiche, culturali e religiose sarebberoda imputare, in prevalenza, all'azione deviante di individuigeniali. Al contrario, egli - consentendo non soltanto conLombroso, ma anche con quella «tendenza psicologica costante»che Gaetano Mosca avrebbe di lì a poco collocato alla base dellascienza politica7 - ammetteva esplicitamente che le societàumane fossero contrassegnate sempre dal dominio dei capi sullamassa, disposta passivamente all'obbedienza8. Inoltre, se da unlato escludeva che i capi coincidessero sempre con i «migliori»,dall'altro egli ritrovava l'origine del loro potere in una «forzaarcana di suggestione, posseduta da alcuni, che attrae e trattie-ne attorno ad essi, come una calamità, coloro che li avvicinano»(Sighele, 1893, p. 7).

La logica che guidava la folla, e che la psicologia collettiva avreb-be dovuto spiegare, rimandava però a un altro meccanismo, all'in-terno del quale la dinamica normale del rapporto tra capo e massagiocava un ruolo pressoché irrilevante. La condizione psicologicache si determinava all'interno delle aggregazioni incoerenti ed ete-rogenee, in altre parole, non poteva essere spiegata semplicemen-te mediante il ricorso all'idea della suggestione esercitata dalmeneur, o alle idee - pure estremamente diffuse nel dibattito scien-

7 Un esame delle dottrine minoritarie, che affianca la riflessione di Sighele aquella di Mosca, è svolta, per esempio, da PENNATI ( 1961 ). Per le convergenze trapsicologia collettiva e nascita della scienza politica elitista, si vedano le osserva-zioni di DONZELLI (1995a).8 Nella Coppia criminale scrìveva.: «Questa influenza dell'individuo sulla massa, cheraggiunge un grado altissimo quando l'individuo è un genio e la massa che lo cir-conda è preparata a seguirlo, si riscontra parzialmente e in proporzioni minorianche al di fuori dei grandi fatti storici, nella vita normale e modesta di tutti igiorni. Se noi guardiamo la società umana, vediamo che essa, dal punto di vistaintellettuale e morale, può suddividersi in tante frazioni, ognuna delle quali ècomposta di uno o più capi che comandano, e di molti gregali che ciecamenteobbediscono» (SIGHELE, 1893, p. 5).

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tifico - del contagio morale e dell'imitazione del comportamentodel capo. Questi schemi esplicativi assumevano un reale significatosolo se riletti alla luce di una specifica concezione, che rappresen-tava l'organizzazione psichica nei termini di una stratificazionecaratteriale prodotta nel corso del processo di civilizzazione. Lafolla si rivelava violenta e brutale, in sostanza, non perché progettie idee di violenza le fossero 'suggestionati' (per dir così) dall'e-sterno, ma semplicemente perché - per effetto di condizioni trau-matìche, oltre che per le dinamiche del contagio emotivo - gli stra-ti superiori del carattere individuale andavano (temporaneamen-te) a sfaldarsi, facendo così riaffiorare gli strati atavici, lascito dellapiù remota storia della specie e della razza9.

Per quanto avesse obiettivi molto distanti da quelli che avevanoalimentato le Orìgines di Taine, Sighele aveva mutuato in realtàmolte ipotesi dal grande autore francese. Nelle sue pagine ricor-revano, per esempio, alcune delle più emblematiche raffigurazio-ni degli efferati crimini commessi dalle folle rivoluzionarie diParigi. Ancor più in profondità, seppure Sighele avesse inteso lafolla come una patologia temporanea e tendenzialmente supera-bile, anch'egli non aveva rinunciato a rappresentarla come l'esitodi un processo di disgregazione sociale e di riviviscenza atavistica.Anche nella proposta di Sighele, cioè, la folla non perdeva queicontorni fortemente negativi di brutalità, impulsività e ferocia chele erano stati assegnati da Taine e, prima ancora, da una vasta econsolidata tradizione. Alcuni anni più tardi, dopo che Le Bonaveva già pubblicato la sua Psychologie desfoules, Sighele avrebbe inparte rivisto quella rappresentazione, e, senza venire meno al pro-prio schema esplicativo, non avrebbe considerato la folla soltantocome una 'deviazione' rispetto alla sequenza evolutiva.

Al principio della Delinquenza settaria, nel 1897, confrontandosiesplicitamente con le tesi di Le Bon, ma recependo anche alcunedelle provocatorie ipotesi formulate dal giovane GuglielmoFerrerò, Sighele affrontò nuovamente il nodo dei delitti collettivi.

9 In questo senso, richiamando la teoria della stratificazione del carattere diGiuseppe Sergi (1889), Sighele scriveva che nella folla «gli strati ultimi e miglio-ri del carattere [...], quelli che la civiltà e l'educazione sono riuscite a formarein alcuni individui privilegiati, restano eclissati di fronte agli strati medi che sonoil patrimonio di tutti; nella somma totale questi prevalgono e gli altri scompaio-no» (SIGHELE, 1891, pp. 76-77).

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A questo proposito, egli tentò di distinguere tra una criminalitàevolutiva, prodotto delle classi più elevate, e una criminalità atavi-ca, brutale, violenta, espressione invece di quelle classi inferioriattestate a uno stadio evolutivo più arretrato. Se in precedenzaSighele aveva inteso la criminalità collettiva delle folle come unariemersione occasionale di strati del carattere, che deviava solotemporaneamente dal sentiero dell'evoluzione, ora riteneva inve-ce che quella forma di criminalità avesse un ruolo all'interno del-l'evoluzione, e che, in altri termini, costituisse l'annuncio di unanuova stagione. A tale proposito, osservava:

è certo che la criminalità della classe colta e agiata è un fenomeno pato-logico che indica la viziosa organizzazione sociale che ci regge, un sinto-mo che ci avverte essere il sistema attuale arrivato alla sua ultima fase epresso a finire; - la criminalità della classe infima invece, può rassomi-gliarsi all'annuncio di una nuova era che sta per incominciare. L'una,insomma, è l'indice di un tramonto, l'altra di un'alba: la prima è unsegno di degenerazione di un organismo già vecchio, l'altra è la crisi diun organismo giovane che cresce e s'avanza (Sighele, 1897, p. 24).

La svolta compiuta da Sighele non era rilevante soltanto perchéarrivava a intendere la criminalità collettiva come espressione diun conflitto tra le forze politiche e sociali di fine secolo. In termi-ni teorici, la sua nuova proposta aveva infatti almeno altre dueimplicazioni, che investivano direttamente le stesse basi concet-tuali della psicologia dei fenomeni collettivi. In primo luogo, lapsicologia della folla non era più intesa da Sighele come il sem-plice effetto di un processo di decomposizione (temporanea oduratura) dell'organismo sociale. Essa, pertanto, non rappresen-tava una deviazione dalle leggi dell'evoluzione, ma, piuttosto,veniva a indicare la formazione di un nuovo organismo sociale. Insecondo luogo, proprio perché la folla (insieme con il suo com-portamento violento e brutale) non costituiva un lascito del pas-sato, bensì l'annuncio di un prossimo futuro, essa doveva essereconsiderata come l'espressione paradigmatica del gruppo umano,mentre il suo stato psicologico estremo configurava la condizioneesemplare di qualsiasi unità politica.

Grazie a questa duplice operazione, Sighele giungeva dunque arovesciare i propri assunti di partenza. Soprattutto, egli fornivauna diversa spiegazione al problema della decadenza. Il segretodella propensione a conservare piuttosto che a inventare, in altri

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termini, deve essere ricercato nello stesso fondamento della psi-cologia di gruppo, ossia in quella condizione psicologica che con-sente a un gruppo di mantenere la propria coesione interna. Laprofondità dell'orizzonte temporale di un gruppo non dipendeperciò né dal suo livello di organizzazione sociale, né dal livello dievoluzione culturale, ma esclusivamente dalla coesione psicologi-ca dei propri membri. E dunque, paradossalmente, quanto piùcresce l'organizzazione sociale, tanto più «l'unisono psicologico»deve allentarsi, e tanto più, per necessaria conseguenza, l'oriz-zonte temporale tende ad assestarsi sulle prospettive dell'utileindividuale.

Le implicazioni della nuova teoria diventavano evidenti nellaclassificazione dei gruppi sociali stilata da Sighele. Lo studioso,infatti, riconosceva esplicitamente come la folla rappresentasse «ilprimo stadio del gruppo sociale, quello da cui tutti gli altri deriva-no» (Sighele, 1897, p. 52), tanto che persine lo Stato modernopoteva essere inteso come un estremo sviluppo dell'aggregazioneprimitiva della folla10. Entrambi gli aggregati si fondano sul mec-canismo per cui l'unità del gruppo scaturisce dalla suggestioneesercitata sulla massa in modo cosciente o incosciente, da unmeneur visibile o invisibile. Solo grazie a questo meccanismo sug-gestivo può essere raggiunta la condizione alla base di ogni asso-ciazione umana, «l'unisono, vale a dire la formazione di un solocorpo e di un'anima sola [...] di due o più corpi e di due o piùanime» (Sighele 1897, p. 98). Questa necessità sarebbe derivatadalla stessa legge di conservazione degli aggregati umani, unalegge che imponeva che tutte le azioni dei singoli fossero direttea un unico scopo:

Una legge rigida, precisa, concisa, è il primo bisogno del genere umano:è ciò che gli è necessario prima di tutto e sopra tutto, per formare unnocciolo di abitudini, di costumi, di idee. Tutte le azioni della vita devo-

10 In un passaggio importante, lo scrittore trentino notava infatti: «Lo Statomoderno non è infatti che la folla primitiva e selvaggia che i secoli hanno tra-mutato in società, un aggregato di uomini che stanno uniti per uno scopo per-petuo, cosciente e generale mentre la folla non ha che uno scopo transitorio,incosciente e particolare, - una riunione di individui pei quali è necessaria ladivisione del lavoro e l'organizzazione, mentre la folla è un ente inorganico incui nessuno ha parte determinata» (SIGHELE, 1897, p. 49).

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no essere sottoposte a una regola unica, in vista di uno scopo unico. Sequesto regime interdice la libertà del pensiero, non è un male o, piutto-sto, benché sia un male, è la base indispensabile di un gran bene: essaforma il sostrato della civiltà e indurisce la fibra ancor molle dell'uomodei primi tempi (Sighele, 1897, pp. 108-109).

Sighele, traendo l'estrema implicazione di questa tesi, giungevaanche a individuare una sostanziale antitesi tra la morale indivi-duale e la morale politica, fondata a sua volta sulla dicotomia, ope-rante in ogni raggruppamento sociale, tra due logiche di azione:«una di cooperazione all'interno, e l'altra di difesa all'esterno». Inaltre parole, come spiegava Sighele, fin dalle prime fasi della con-vivenza umana, «all'esterno, cioè per le tribù straniere, regna l'an-tagonismo; all'interno, cioè fra i membri della stessa tribù, regnal'amicizia» (Sighele, 1897, p. 135). Questa originaria dicotomianon sarebbe scomparsa, ma sarebbe invece stata ereditata anchedalle moderne società civilizzate:

Le società civili hanno ereditato - trasformandoli - questi due codicimorali, uno dei quali vale per i rapporti interni fra i cittadini di uno Statoe l'altro per i rapporti esterni. [...] E poiché l'attributo della civiltà nonè soltanto di trasformare, ma anche di complicare, noi vediamo oggimoltiplicarsi quel dualismo iniziale fra la morale interna e la morale ester-na. Solidarietà famigliare, spirito di parte, regionalismo, patriottismo, ecco inomi che indicano i gradi in cui passa, trasformandosi ed allargandosicome l'onda del lago, la unica e rigida morale privata (Sighele, 1897, pp.136-137).

In questo modo, Sighele arrivava a sostenere la tesi paradossaleche la criminalità politica delle sette fosse sempre il portato di unacondotta altruistica, e cioè di una dedizione del singolo all'inte-resse del gruppo. Implicitamente, egli riconosceva però che l'a-zione indotta per mezzo della suggestione, anche qualora evo-casse istinti atavici di violenza, fosse sempre razionale, e anziespressione di una razionalità superiore a quella individuale. Laforma più elevata di questa razionalità giungeva a coincidere conla più netta subordinazione della ragione individuale alla ragio-ne collettiva. E la dinamica psicologica che si produceva nellafolla - quella stessa dinamica che alcuni anni prima Sighele avevadescritto come il riemergere degli strati più arcaici dell'organiz-zazione caratteriale - arrivava così a trasformarsi nella condizione

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della più totale dedizione del singolo al gruppo e nel requisitofondamentale per la 'conquista' del futuro.

Innovazione e ripetizione

II fatto che Cabrici Tarde, nel proprio Fragment d'histoire future,avesse risolto la problematica relazione fra la tensione verso il pro-gresso e l'attrazione di un passato atavico in una prospettiva inte-ramente schiacciata sulla duplice dinamica dell'invenzione e del-l'imitazione, non significa affatto che egli fosse immune da quel-l'incubo della degenerazione e del declino, da cui era tormentatala psicologia collettiva di fine secolo. Nella Logica sodale, egli avevaconsiderato esplicitamente questa eventualità. Nondimeno, con-testando in modo diretto la teoria formulata da Théodule Ribot,si era limitato a considerare la degenerazione come effetto di unacalante capacità di invenzione:

la degenerazione sociale consiste in- una perdita graduale di invenzionie di scoperte, proprio come lo sviluppo anteriore consisteva in una suc-cessiva acquisizione di invenzioni e di scoperte. Ma questo dissolvimen-to è forse l'opposto simmetrico, la ripetizione all'inverso di questa evo-luzione? Lo si potrebbe credere. [...] Ma di fatto, e comunque sia laverità di questa formula per quel che concerne l'individuo, bisogna nota-re che quando un popolo, giunto al culmine di una certa onda civilizza-trice, si mette a discendere, lo si vede raramente, se non mai, [... ] rinun-ciare ai bisogni creduti fittizi, accettati per ultimi [...]. Al contrario, è aigusti venuti per ultimi, frutto del disfacimento finale, che un popolotiene maggiormente; il suo declino è dimostrato dal suo moltiplicatoattaccamento al falso, al convenzionale, al recente in fatto d'importazio-ni straniere o di nuove trovate, e dalla sua graduale rinunzia all'agricol-tura e alla guerra, alle passioni e alle virtù rurali e bellicose e alla reli-gione (Tarde, 1895, p. 461).

Il magistrato di Sarlat aveva illustrato la propria tesi sulla centralitàdell'invenzione e sulla conseguente dinamica dell'imitazione giàdiversi anni prima, in uno dei suoi primi articoli, pubblicato sulla«Revue philosophique» con il titolo Qu'est-ce qu'une sociéte? (1884)e in seguito riproposto nelle Lois de l'imitation (1890). In quel con-tributo, Tarde aveva sostenuto che le società fossero tenute insiemenon soltanto dai bisogni economici e naturali, ma soprattutto da

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idee e mentalità comuni, prodotte da individui geniali e assorbitedalla massa della popolazione grazie a un lento processo imitativo.In questo senso, proprio puntando sulla centralità dell'imitazioneper la formazione di qualsiasi organizzazione sociale, Tarde potevaaddirittura definire ogni gruppo umano come «una collezione diesseri in quanto stanno imitandosi fra di loro o in quanto, senzaattualmente imitarsi, si somigliano, essendo i loro tratti comunicopie antiche di uno stesso modello» (Tarde, 1890, p. 111).

Il ricorso all'idea dell'imitazione non costituiva un'operazioneinteramente originale, perché prima di Tarde - come avrebbenotato Ferri, in uno scambio fortemente polemico con il collegafrancese - diversi studiosi avevano già utilizzato questo schemaesplicativo. Anche lo stesso Darwin, nell'Orìgine dell'uomo, avevanotato come «il principio di "imitazione"» fosse «estremamenteforte nell'uomo e specialmente [...] nei selvaggi» (Darwin, 1871,p. 89). Alcuni anni più tardi, in un testo di grande rilievo, seppurormai dimenticato, Alfred Espinas aveva invece sostenuto che ilmeccanismo dell'imitazione costituiva un formidabile strumentodi comunicazione all'interno delle società animali (Espinas,1877). Mentre, secondo Espinas, l'imitazione era un processosostanzialmente 'orizzontale', in cui ciascun individuo imitavainconsapevolmente i propri simili, per Tarde la dinamica imitati-va si svolgeva su un piano 'verticale', nel senso che la massa degliindividui si trovava a imitare un modello proveniente dall'alto, ecioè da personalità eccezionali e geniali. Inoltre, riprendendoalcune ipotesi dal contemporaneo dibattito sul «magnetismo»,Tarde poteva definire l'imitazione nei termini di un rapporto disuggestione fra un superiore e il complesso degli inferiori. In altreparole, nella società gli individui, come veri e propri automi,avrebbero agito per effetto di una suggestione esterna, compien-do soltanto gli atti imposti da una volontà superiore:

Lo stato sociale, come lo stato ipnotico, non è che una forma del sogno,un sogno su comando e un sogno in azione. Non avere che idee sugge-rite e crederle spontanee: tale è l'illusione propria del sonnambulo, cosìcome dell'uomo sociale. Per riconoscere l'esattezza di questo punto divista sociologico [...] bisogna pensare a qualche popolo antico di unaciviltà sicuramente estranea nei confronti della nostra, Egiziani, Spartiati,Ebrei... Quelle genti non si credevano forse autonome come noi, men-tre senza saperlo erano degli automi di cui i loro antenati, i loro capipolitici, i loro profeti facevano scattare il meccanismo, quando non lo

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facevano reciprocamente scattare l'uno all'altro essi stessi? Ciò chedistingue la nostra società contemporanea ed europea da queste societàstraniere e primitive, è il fatto che la magnetizzazione vi è per così diredivenuta reciproca (Tarde, 1890, pp. 120-121).

Per quanto nella società contemporanea il processo imitativo fossetanto abituale da apparire come effetto di un'influenza reciproca,all'origine di quel fenomeno - e dunque all'origine della stessaconvivenza sociale - si doveva sempre rinvenire l'autorità eserci-tata da un «uomo sovranamente imperioso ed affermativo»(Tarde, 1890, p. 121), la cui capacità di soggiogare la massa nondiscendeva tanto dalla forza, quanto dal «prestigio» che, come unvero e proprio magnetizzatore, era in grado di emanare. Il puntocruciale del ragionamento di Tarde consisteva infatti proprio nel-l'ipotesi secondo cui, all'origine di qualsiasi vincolo sociale, cifosse sempre l'azione di un singolo, capace di polarizzare l'atten-zione del proprio popolo su un determinato oggetto, dal quale,per imitazione, ciascuno traeva comportamenti e idee. Una voltacreato questo legame originario, la società poteva prendere corpoe avviare un processo di imitazione reciproca:

II magnetizzato imita il magnetizzatore, ma non il contrario. Soltantonella vita detta allo stato di veglia, e fra gente che sembra non esercitarealcuna azione magnetica l'una sull'altra, si produce quella mutua imita-zione, quel mutuo prestigio, chiamato simpatia, nel senso di Adam Smith.Se ho posto dunque il prestigio, non la simpatia, alla base e all'originedella società, è perché [...] l'unilaterale ha dovuto precedere il recipro-co. Per quanto ciò possa sorprendere, senza un'età di autorità non visarebbe mai stata un'età di relativa fraternità (Tarde, 1890, p. 122).

Come è stato notato da Valentino Petrucci (1989, pp. 60-61), Tar-de riusciva a proporre con successo l'idea che l'imitazione (per dipiù inconsapevole) fosse il fenomeno chiave della vita sociale, solopresentandola come il corollario di una teoria dell'invenzione cheandava ad attingere a quel «culto dell'individuo», alimentato pertutto l'Ottocento e rilanciato verso la fine del secolo dalla fortunadel mito superomista. Nella prospettiva di Tarde, dunque, lasocietà iniziava già ad assumere quei caratteri di sostanziale passi-vità su cui avrebbe insistito nel Novecento la riflessione sulla civiltàdei consumi e sulla 'massificazione'. Opponendosi infatti alla tesiche riservava solo ai popoli non civilizzati l'attitudine a imitare il

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modello dei capi carismatici, Tarde sosteneva che anche la libertàdi cui i popoli civili si ritenevano detentori non fosse altro cheun'illusione, dovuta soltanto al fatto che l'imitazione era a talpunto interiorizzata da risultare un processo naturale e invisibile.Come il soggetto magnetizzato diventava sempre più malleabilecon il ripetersi delle sedute, così le attitudini imitative dei popolidiventavano sempre più marcate al crescere del loro livello di civi-lizzazione. Tarde illustrava questa dinamica parlando di un pas-saggio dalla «magnetizzazione-moda», ancora consapevole, a una«magnetizzazione-costume», tanto interiorizzata e meccanica darisultare inconsapevole, e precisava che il «progresso della civiltà»aveva «per effetto di rendere nello stesso tempo più personale erazionaci'asservimenlo all'imitazione» (Tarde, 1890, pp. 126-127).Era perciò quasi scontato che il teatro dell'imitazione più totale epersistente venisse a essere costituito, secondo Tarde, propriodalle metropoli moderne, che, in grado di soggiogare le folle, neatrofizzano le facoltà intellettuali con la suggestione di spettacoliinterminabili e costanti:

ogniqualvolta un uomo vive in un ambiente animato, in una societàintensa e variata, che lo distrae con spettacoli e concerti, conversazioni eletture sempre nuove, si dispensa gradualmente da ogni sforzo intellet-tuale; e, ad un tempo intorpidendosi e sovraeccitandosi sempre più, lasua mente [... ] si fa sonnambula. Questo è lo stato mentale proprio amolti cittadini. Il movimento e il rumore delle strade, le vetrine dei nego-zi, l'agitazione sfrenata e impulsiva della loro esistenza, fanno loro l'ef-fetto di gesti magnetici (Tarde, 1890, pp. 127-128).

Nel corso degli anni Novanta, Tarde avrebbe difeso le proprie teo-rie dell'invenzione e dell'imitazione dalle aspre critiche diDurkheim. Mentre Tarde considerava possibile fondare la cono-scenza della società e delle sue leggi proprio sulle basi della dina-mica psicologica dell'imitazione, il più giovane collega contestavaalle radici la legittimità dell'operazione, sostenendo la propriaidea dell'autonomia dei fatti sociali e delle rappresentazioni col-lettive11. Nella proposta di Durkheim, il ruolo principale non era

11 Una ricostruzione della polemica e delle posizioni sostenute da Tarde eDurkheim è già svolta da BLONDEL (1928). Ma si vedano soprattutto i recenti con-tributi di APFELBAUM (1981), CLARK (1973) e GEIGER (1975).

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assegnato agli stati psicologici individuali o alle relazioni tra sin-goli individui, bensì alle rappresentazioni collettive e agli statimentali condivisi, quali elementi cui era riconosciuta una sostan-ziale autonomia da ogni singola coscienza individuale. Tali ele-menti, infatti, erano da considerare alla stregua di 'cose' oggetti-vamente esistenti, che potevano essere dunque studiate senza l'a-dozione di un metodo introspettivo o della psicologia individua-le. In definitiva, per quanto Durkheim non escludesse del tutto lapossibilità di una psicologia sociale, egli la intendeva in prevalen-za nei termini della Vólkerpsychologie di Lazarus e Steintihal, e dun-que non certo nei termini di uno sviluppo della psicologia indivi-duale, come invece avveniva nella proposta di Tarde12.

Senza recedere dalla propria posizione, il magistrato di Sarlattrovava infatti nelle critiche di Durkheim l'occasione per definirecon maggiore precisione i contorni della propria teoria. Re-plicando alle note polemiche, ma tentando anche di differenzia-re il proprio approccio dalla psicologia collettiva di Sighele o LeBon, Tarde aveva così modo di soffermarsi - oltre che sul proget-to di una «inter-psicologia» (Lubek, 1981, 1995) - anche sul signi-ficato dell'espressione «psicologia sociale»:

L'expression psychologie collettive ou psicologie sociale est souvent compriseen un sens chimérique qu'il impone avant tout d'écarter. Il consiste aconceivoir un esprit collectif, une conscience sociale, un nous, qui existerait endehors ou au-dessus des esprits individuels. Nous n'avons nul besoin, anotre point de vue, de cette conceptìon mystérieuse pour tracer entre lapsychologie ordinaire et la psychologie sociale - que nous appellerionsplus volontiers inter-spirituelk - une distinction trés nette. Pendant que lapremière, en effet, s'attache aux rapports de l'esprit avec l'universalité

12 A proposito di quelle idee e di quei sentimenti che, tramandati di generazio-ne in generazione, assicurano la continuità e l'unità della vita collettiva,Durkheim così osservava: «tous ces phénomènes sont d'ordre psychologique,mais ne relèvent pas de la psychologie individuelle puisu'ils dépassent infinimentl'individu. Ils doivent donc étre l'objet d'une science speciale chargée de lesdécrire et d'en chercher les conditions: on pourrait l'appeler psychologie socia-le. C'est la Volkerpsychologied.es Allemands. Si nous n'avons rien dit tout a l'heuredes interessante travaux de Lazarus et Steinthal, c'est que jusqu'ici ils n'ont pasdonne de résultats. La Vólkerpsychologie, ielle qu'ils l'entendaient, n'est guèrequ'un mot noveau pour deésigner la linguistìque generale et la philologie com-parée» (DURKHEIM, 1888).

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des autres ètres extérieurs, la seconde étudie, ou doit étudier, les rap-ports mutuels des esprits, leurs influences unilatérailes et réciproques -unilatérailes d'abord, réciproques aprés. Il y a donc entre les deux ladifférence du genre a l'espèce; mais l'espèce ici est d'une nature si sin-gulière et si importante qu'elle veut étre détachée du genre et traitée pardes méthodes qui lui soient propres (Tarde, 1901, p. V).

Se l'opposizione di Durkheim era destinata a produrre conse-guenze durature non solo sulla marginalizzazione di Tarde daldibattito intorno al metodo delle scienze sociali, ma anche sullacollocazione accademica della psicologia sociale in Francia, la pro-posta teorica dell'autore delle Lois de l'imitation venne nettamenteattaccata anche da altri punti di vista, che coinvolgevano la suastessa concezione della società e della dinamica del progresso.A molti studiosi - soprattutto a quelli che, come Enrico Ferri, si sta-vano avviando sul sentiero di una difficile compenetrazione tra l'e-voluzionismo spenceriano, l'antropologia lombrosiana e il marxi-smo positivista di fine Ottocento - i presupposti individualisti diTarde apparivano come scientificamente inaccettabili, in quantoincompatibili sia con l'assunto di fondo delle teorie organiche, siacon le loro conseguenze sulla raffigurazione del processo di tra-sformazione sociale. In effetti, pur recependo alcune sollecitazio-ni provenienti dalla sociologia organicista di autori come ReneWorms o Joseph Novicow, Tarde respinge l'idea di una sostanzialeanalogia tra organismo e società, proprio sulla base della conse-guente dinamica di progresso che da essa sarebbe scaturita.

Novicow, articolando la propria tesi secondo cui la sociologiapuò aspirare a diventare una vera e propria scienza solo fondan-dosi su solide basi biologiche, replicava a Tarde con un'argomen-tazione che puntava a mostrare come l'eguaglianza - intesa peròall'interno di una rigorosa analogia con la teoria cellulare - nonfosse necessariamente in contraddizione né con il progresso nécon l'affermazione storica delle élite. Egli osservava che «l'ugua-glianza di tutti gli organi di fronte al cervello corrisponde all'u-guaglianza dei cittadini di fronte alla legge» (Novicow, 1898, p.31). Ma, se l'eguaglianza dinanzi alla legge, consentita dal pro-gresso sociale, segna l'avvicinamento a un ordine sempre piùperfetto, questa condizione non è affatto in contraddizione conl'affermarsi di forti diseguaglianze - economiche, culturali, intel-lettuali - determinate dalla diversità dei singoli individui: talché

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- concludeva Novicow - «più è grande l'incivilimento di unasocietà, e più in essa il talento e l'ingegno sono oggetto di stima edi venerazione» (Novicow, 1898, p. 32).

Benché le osservazioni critiche di Novicow si appuntassero suun aspetto importante della riflessione tardiana, esse originavanoperò da una sensibilità simpatetica, al fondo, con quella dell'au-tore delle Lois de l'imitation. In entrambi i casi, infatti, le rivendi-cazioni di una maggiore eguaglianza economico-sociale eranointerpretate in termini negativi, come d'altronde la stessa pretesadi difendere la causa del socialismo sulla base di un evoluzionismoorganicista. Proprio questa prospettiva aveva ispirato a Tarde, altermine della Logica sociale, la preoccupata visione di un immi-nente «diluvio socialista», dal quale però il «liberalismo indivi-dualista» - radicato nella stessa struttura antropologica individua-le - non poteva che uscire fatalmente confermato. In tal senso,egli osservava: «il mio governo, le mie leggi, la mia civiltà sonocose di cui io prendo possesso come essere sociale per svilupparesocialmente la mia individualità nativa, unica, sui generis, ed essenon hanno il diritto di assoggettarmi oltre il punto in cui questecessano di essermi utili» (Tarde, 1895, p. 366).

Il fatto che Tarde associasse la propria fede individualista a unaconcezione che basava la centralità sociale del meccanismo imita-tivo sulla simmetria di una «legge universale della ripetizione»doveva però apparire assai meno condivisibile a molti degli intel-lettuali positivisti di fine secolo. In effetti, il magistrato di Sarlatriteneva la legge dell'imitazione un aspetto particolare di unalegge ben più generale, che non dominava soltanto le societàumane ma tutto l'ordine dell'universo. Anche nel mondo fisico ein quello organico, oltre che nel mondo sociale, i fenomeni sisarebbero propagati grazie alla medesima dinamica della ripeti-zione, una dinamica che assumeva peraltro connotazioni diffe-renti a seconda del genere di attività specifico dei diversi ambiti.Se nel mondo sociale la propagazione avveniva per via imitativa, inquello fisico sarebbe avvenuta per ondulazione, mentre, infine,nel mondo organico per via ereditaria. Lo schema teorico difondo era però sempre il medesimo, perché - come scriveva Tarde- «ogni ripetizione, sociale, organica o fisica che sia, cioè imitativa,ereditaria o vibratoria [...], deriva da un'innovazione, come ogniluce deriva da una sorgente luminosa» (Tarde, 1890, p. 49).

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Le opinioni e le credenze

Quella specie di afflato metafisico, che le pagine di Tarde lascia-vano trapelare e facilmente percepire, non sfuggì a George Sorci,impegnato nella propria revisione del marxismo e nel sostegnoalla causa del sindacalismo francese. Se l'autore delle Riflessionisulla violenza dedicò a Tarde pagine di severa critica, egli mostrònondimeno un costante interesse per molti dei contributi che pro-venivano dagli allievi del circolo lombrosiano e anche per la nuovapsicologia collettiva che sembrava prendere forma nell'ultimodecennio dell'Ottocento. In una serie di articoli pubblicati su «LeDevenir social», Sorci prese le difese di Lombroso e Ferri controle critiche avanzate da Tarde, riservando inoltre un'accoglienzapiuttosto favorevole al Delitto politico dello psichiatra veronese(Sorci, 1893), alle Lois psychologiques du Symbolisme di Ferrerò, e adaltri lavori degli studiosi italiani13. Ad attrarre l'attenzione di Sorciverso gli studi di psicologia collettiva era proprio la soluzione daessi proposta all'ambivalente rapporto tra conservazione e pro-pensione al nuovo: una soluzione in cui l'evoluzionismo positivi-sta arrivava a scoprire sia il fondamento 'irrazionale' che muove ilprogresso storico, sia il ruolo cruciale che, nei grandi mutamentipolitici, assumono i miti e le credenze mistiche delle masse.

Se in seguito Sorci avrebbe attinto più alla critica di Durkheimche alla scuola lombrosiana, il suo interesse per la psicologia col-lettiva non sarebbe mai venuto meno. Difatti, alcuni anni piùtardi, la sua revisione 'irrazionalista' del marxismo si sarebbeincrociata persine con la psicologia collettiva di Gustave Le Bon.Per quanto non potesse che trovarsi in disaccordo sulla valutazio-ne delle tendenze conservatrici delle folle, Sorci non poteva nega-re che Le Bon fosse in grado di cogliere nitidamente l'importan-za dei fattori emotivi, affettivi e 'inconsci' che muovono le massee determinano l'ascesa e la caduta delle civiltà14. Le Bon aveva

13 Oltre alle recensioni raccolte in SOREL (1978), sull'interesse dell'autore per lasociologia e per le proposte avanzate dagli allievi di Lombroso, cfr. LENTINI(1978)eMANGONi(1985).14 Sorci recensì per esempio la Psychologie defoules (SoREL, 1895), esprimendo indiverse occasioni pareri positivi sulla riflessione di Le Bon in diverse occasioni.Una lettura dei due sentieri teorici, che ne sottolinea gli aspetti di convergenza,è svolta da NYE( 1973).

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d'altronde lavorato incessantemente attorno al nodo problemati-co dei fondamenti psicologici del progresso sociale, e, sin dallesue prime opere sulle antiche civiltà, aveva collocato proprio inquel punto l'obiettivo principale della propria riflessione.L'elemento chiave delle argomentazioni da lui esposte fin dalprincipio degli anni Ottanta (cioè in quelle ponderose ricerchesulle civiltà orientali, in cui aveva riposto le proprie speranze diuna carriera accademica) era consistito infatti nella crucialedomanda attorno al destino delle civiltà: vale a dire, attorno allepiù profonde motivazioni 'psicologiche' che potevano condurreun piccolo popolo, prevalentemente dedito all'agricoltura, a con-quistare immensi tenitori, o che, viceversa, potevano rendere pos-sibile a sparute tribù nomadi la distruzione di un impero di esten-sione mondiale. Significativamente, il tema della decadenza e del-l'ascesa delle civiltà accompagna infatti la ricerca di Le Bon percirca mezzo secolo, fino agli ultimi volumi, in cui, al principiodegli anni Trenta, si spinge a profetizzare l'ormai irreversibiledecadenza dell'Europa e l'ascesa della potenza americana. NelleBases scientifiques d'une philosophie de l'Histoire, pubblicato l'annostesso della sua scomparsa, Le Bon scrive:

Gràce a leur antìque armature, la France, l'Angleterre et l'Allemagne rési-stent encore au désordre, mais sont progressivement rongées par des illu-sions socialistes dont l'influence grandit chaque jour. L'immense force del'Amerique est d'avoir queques ideés justes pour orienter la conduite deshommes chargés de guider sa destinée (Le Bon, 1931, pp. 279-280).

Una volta scontratosi con le dure opposizioni dell'ambiente uni-versitario, Le Bon aveva abbandonato il progetto di una monu-mentale storia della civilizzazione, dedicandosi ai più agili testi chegli avrebbero garantito per più di un trentennio una sicura noto-rietà (oltre che una posizione di rilievo nell'industria editorialefrancese)15. Tutti i suoi lavori e l'intero suo progetto di una psico-logia politica, nondimeno, avrebbero conservato nel tempo lemedesime coordinate teoriche.

15 Su questi aspetti della camera di Le Bon, oltre che sulle tappe che lo condus-sero ad abbandonare le ambizioni accademiche, si vedano i lavori di NYE (1975),ROUVIER (1986) e MARPEAU (2001).

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Anche Le Bon - conta ricordarlo - aveva scorto per la primavolta lo spettro della decadenza nella débàcle francese contro laPrussia e nella tragedia della «settimana di sangue» del 1871.E, come Taine, aveva preso le mosse da quegli eventi per avviareun vasto progetto, di cui la Psychologie desfoules fu soltanto l'esitopiù riuscito e fortunato. Lo studioso francese, pur mutuando granparte dei materiali teorici della propria riflessione dal dibattitocontemporaneo, ebbe il merito di fornire una sistemazione effi-cace a teorie che, spesso tra loro contraddittorie, erano peraltroassai suggestive.

Il lavoro di Le Bon viene pertanto a inserirsi in un filone di studiin rapida ascesa, che mira a individuare le differenze 'psicologiche'tra popoli e razze. Opere come quelle di John Lubbock ed EdwardB. Tylor in Inghilterra, o l'ipotesi della Vòlkerpsychologie enunciatada Steinthal, sembrano suggerire proprio la validità esplicativa diuna psicologia comparata dei popoli. In quste ricerche, Le Bontrova la conferma alle proprie intuizioni, oltre che l'invito a prose-guire sulla strada imboccata. L'homme et les sociétés (Le Bon, 1881)assume così, per la sua riflessione, il significato di un vero e propriomanifesto teorico, in cui si trova enunciato il programma di lavoroche avrebbe sviluppato con coerenza nel corso di tutto il decenniosuccessivo (Nye, 1975). Durante gli anni Ottanta, Le Bon tenta ditrovare conferme sperimentali alle proprie ipotesi mediante unaserie di spedizioni etnologiche e di esplorazioni archeologiche, e,soprattutto, cerca di porre le fondamenta di una vera e propria psi-cologia delle razze, con lo scopo di rintracciare i tratti distìntivi deidiversi popoli nella loro differente costituzione mentale. Questateoria, volutamente messa ai margini o rimossa dagli interpreti deinostri giorni, costituisce in realtà - come ha notato Alice Gerard(1995) - il filo conduttore di tutta la riflessione di Le Bon: espostasistematicamente già nell'opera del 1881 e in seguito ripresa nellePremière civilisations e nelle Lois psyckologiques, essa è infatti alla baseanche della sua rappresentazione del comportamento collettivo edella dinamica psicologica delle folle.

In tale opera, profondamente influenzata dagli studi di Ribot,pur non abbandonando l'impostazione fisiologica che aveva con-traddistinto fino a quel momento la sua via allo studio della psi-che, Le Bon si incammina su una strada differente: la stessa imma-gine dell'inconscio (che fino ad allora era da lui intesa nei termi-ni tradizionali dell'insieme dei riflessi incoscienti) incomincia a

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mutare e ad essere rappresentata come il prodotto di una stratifi-cazione di istinti sedimentati nella costituzione mentale dall'evo-luzione. Nel corso degli anni Le Bon continuerà a presentarecome sostanzialmente identiche e indifferenziate le due conce-zioni dell'inconscio, nonostante che le implicazioni tratte alterna-tivamente dall'una o dall'altra risultino tra loro in contraddizionepiuttosto palese16.

Nel 1894, nel capitolo conclusivo delle sue Leggi psicotogicke dellaevoluzione dei popoli, Le Bon aveva sintetizzato una tendenza costan-te da cui era stata scandita la decadenza delle grandi civiltà del pas-sato: «il fattore fondamentale della loro caduta fu sempre un muta-mento di costituzione mentale derivante dall'abbassamento delloro carattere» (Le Bon, 1894, p. 170). Mentre il calo delle facoltàintellettive non sembrava aver giocato alcuna significativa influen-za, la lenta dissoluzione delle basi del carattere si era invece rileva-ta determinante, secondo una dinamica ciclica di ascesa e deca-denza che Le Bon riteneva fondata su solide basi scientifiche:

Per tutte le civiltà passate, il meccanismo della dissoluzione fu identi-co, e identico a tal punto che ci si potrebbe chiedere, come ha fatto unpoeta, se la storia, che ha tanti libri, non abbia che una sola pagina.Arrivando a quel grado di civiltà e di potenza in cui, credendosi sicurodi non esser più aggredito dai vicini, un popolo comincia a godere ibenefìci della pace e del lusso che le ricchezze procurano, le virtù mili-tari svaniscono, l'eccesso di civiltà crea nuovi bisogni, si sviluppa l'egoi-smo. [...] Allora vicini barbari e semi-barbari, con bisogni minimi macon un ideale potentissimo, invadono il popolo troppo civile, poi for-mano una nuova civiltà con gli avanzi di quella che hanno abbattuto(Le Bon, 1894, p. 179).

Un anno più tardi, nel 1895, pubblicando la Psychologie des foules,la ricerca di Le Bon sembra segnare, almeno parzialmente, un'in-versione di rotta. Per quanto molti dei materiali e delle ipotesi uti-lizzate nel suo pamphlet fossero già presenti nelle opere di Tarde eSighele, oltre che dello stesso Taine, Le Bon li organizza dentroun quadro nuovo, non privo di interne contraddizioni, eppureestremamente suggestivo. La relazione problematica tra l'impul-

16 Su queste contraddizione, si rinvia a NYE (1975), ma anche a GERARD (1995),MÉTRAUX (1983) e PALANO (2004).

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so alla conservazione della società e le dinamiche volte all'inno-vazione era già stata al centro - come si è visto - di tutto il dibatti-to condotto attorno alla psicologia collettiva da Taine a Lombroso,da Tarde a Sighele. Ora, però, Le Bon viene a fornire una diversasoluzione all'antica questione. Fondendo insieme le leggi dellapsicologia delle folle con lo schema teorico della psicologia deipopoli, attorno al quale ha incessantemente lavorato, lo scrittorefrancese può delineare una serie di leggi generali, che non mira-no a spiegare soltanto il comportamento degli aggregati instabili,ma anche quello dei popoli, delle razze e delle aggregazioniumane stabili e coerenti. In questo quadro generale, l'orizzontetemporale di un gruppo - e dunque la sua forza o la sua debolez-za, la sua capacità di cavalcare l'onda del progresso oppure la suacondanna a dover percorrere la parabola discendente della disso-luzione - non dipende dalla forza intellettuale dei leader e nep-pure dal livello culturale della massa, bensì soltanto dalla com-pattezza dell'organizzazione psicologica del popolo.

Nel pamphlet del '95, ben più delle 'leggi' sul comportamentodelle folle, già esposte per gran parte da Sighele e da altri autori,e assai più degli strumenti che Le Bon forniva a quei leader chenon intendessero soccombere dinanzi al nuovo ruolo delle folle,è la distinzione tra «credenze» e «opinioni» a costituire l'elemen-to principale e maggiormente significativo. Le prime configuranole grandi fedi «permanenti», che penetrano nella struttura psichi-ca della razza, costituendo così «la vera ossatura delle civiltà» (LeBon, 1895, p. 132). Le seconde sono semplicemente «opinionimutevoli, derivate per lo più dalle concezioni generali che ciascu-na epoca vede nascere e morire»: esse, «superficiali come lamoda», sono destinate a svanire rapidamente senza lasciare trac-cia, a meno di non trasformarsi in una credenza, a seguito di unlungo e spesso traumatico processo storico. Osserva infatti Le Bon:

Un'opinione passeggera trova facilmente posto nell'anima delle folle,mentre è difficile che vi si stabilisca una credenza durevole; in compen-so quest'ultima, una volta che si è formata, viene difficilmente distrutta.Forse può essere sostituita soltanto a prezzo di violente rivoluzioni, e dicerto solo quando ha quasi interamente perduto il suo potere sugliuomini. Le rivoluzioni servono a eliminare credenze già quasi respinte,che il giogo dell'abitudine impedisce tuttavia di abbandonare completa-mente. Le rivoluzioni che cominciano sono in realtà credenze che fini-scono (Le Bon, 1895, p. 179).

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Le Bon, in particolare, si colloca su un piano differente rispetto aquello di gran parte dell'evoluzionismo dei suoi contemporanei,soprattutto quando insiste sul carattere sempre e necessariamen-te «religioso» assunto dalle credenze delle folle. Lombroso, con lasua teoria del misoneismo e della funzione rivoluzionaria dei mat-toidi, aveva assegnato all'anomalia individuale un ruolo che siinscriveva, seppur solo in alcune circostanze, all'interno di unanecessità sociale: l'anomalia psichica, la devianza, trovava così unapropria funzione all'interno della razionalità storica. Al contrario,Le Bon, in termini analoghi a quanto aveva già fatto Sighele conl'idea della contrapposizione tra morale privata e morale politica,rintraccia il fondamento cruciale di ogni convivenza associata,oltre che il segreto della forza di un popolo, proprio in un fattorecome la credenza, dotata di una forza sostanzialmente emotiva espesso per nulla razionale, e perciò intesa alla stregua di una veritàassunta come assoluta e indimostrabile da parte delle folle17.

Nelle opere degli anni Dieci, Le Bon riprenderà ulteriormentequesta ipotesi e, soprattutto in Les opinions et les croyances, nel 1911,ne definirà in modo più preciso i contomi. In quest'opera, comenegli altri lavori del periodo, Le Bon non si limita tuttavia a rimar-care la distinzione tra opinioni e credenze, ma formula una clas-sificazione delle differenti logiche in grado di orientare il com-portamento umano. In primo luogo, seguendo ancora una voltale indicazioni di Ribot, distingue tra una «logica razionale» e una«logica affettiva», dominata dai fattori inconsci e notevolmentepiù influente della prima. Proprio la logica affettiva, infatti, risul-ta alla base delle concezioni del mondo e di ogni idea morale, reli-giosa, politica e sociale (Le Bon, 1911, pp. 89-90). Se in questomodo ribadisce un punto già esposto in precedenza, egli viene

17 Scrive Le Bon: «Esaminando da vicino le convinzioni delle folle, sia nelle gran-di epoche della fede, sia in un'epoca di grandi rivolgimenti politici, come adesempio l'ultimo secolo, ci accorgiamo che esse acquistano sempre una formaspeciale, che non saprei meglio definire se non come sentimento religioso.Questo sentimento ha caratteristiche molto semplici: adorazione di un essereritenuto superiore, timore del potere che viene attribuito ad esso, sottomissionecieca ai suoi ordini, impossibilità di discutere i suoi dogmi, desiderio di diffon-derli, tendenza a considerare nemici tutti coloro che rifiutano di ammetterli.Si rivolga a un dio invisibile, a un idolo di pietra, a un eroe o a un'idea politica,tale sentimento rimane pur sempre di natura religiosa» (LE BON, 1895, p. 100).

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però anche a chiarire come la logica affettiva non possa essereconfusa né con la «logica collettiva», propria delle folle psicolo-giche, né con la «logica mistica». Quest'ultima - come scrive -è determinante per la vita dei popoli, per la loro ascesa e la lorodecadenza:

Inférieure a la logique rationelle, phase d'évolution plus élevée encore,la logique mistique a joué cedependant un ròle prépondérant dans l'hi-stoire des peuples par les croyances qu'elle engendra. Elle est l'origined'interprétations, étrangères a la raison, sans doute, mais qui constìtuè-rent de puissants mobile d'actions. Si la logique rationelle avait rem-placé jadis la logique mystique, le cours de l'histoire eùt changé (LeBon, 1911, p. 92).

Nella formulazione di Le Bon, pertanto, la logica mistica, quellaaffettiva e quella razionale vengono così a rappresentare «treforme dell'attività mentale irriducibili l'una all'altra» (Le Bon,1911, p. 97). Dal loro equilibrio, oltre che dal mutare dei loro con-flitti, dipendono la forza di un popolo e la sua capacità di impor-si nella storia.

L'individuazione di queste differenti logiche, alla base del com-portamento collettivo, consente a Le Bon di delineare i contornidi una psicologia politica, il cui obiettivo dichiarato consiste nel-l'elevare un argine contro l'anarchia e l'instabilità sociale, provo-cate dai movimenti rivoluzionali del principio del secolo. Scopo diquesta disciplina non è tanto (o soltanto) lo studio disinteressatodei fenomeni collettivi, quanto e soprattutto una «difesa sociale»che, per mezzo degli strumenti offerti dalla conoscenza delle leggiche muovono il comportamento delle masse, riesca a salvaguar-dare l'unità della nazione e, dunque, secondo quanto Le Bon scri-ve nella Psychologie politique, quella «rete di tradizioni, di credenze,di sentimenti comuni, di pregiudizi» consolidati dalla storia (LeBon, 1917, p. 358).

Coerentemente all'affermazione della centralità dei fattori'inconsci', e sulla base della prevalenza della logica affettiva e diquella mistica sulle forme razionali del pensiero, Le Bon - conse-gnando al volume Base scientifiques d'une philosophie de l'Histoire ilproprio testamento intellettuale alla vigilia della morte - si ritienein grado di edificare su «basi scientifiche» una vera e propria filo-sofia della storia: vale a dire, una nuova disciplina capace di sinte-

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rizzare «tutte le conoscenze sull'universo e sull'uomo», e di sco-prire il segreto dell'ascesa e della decadenza delle nazioni:

Edifiée sur [...] bases scientifiques, l'histoire revét un intérèt imprévu.Elle représente une synthèse de toutes les connaissances sur l'univers etsur l'homme. Nous assistons ainsi a la naissance d'une philosophie de lanature, et par conséquent de l'histoire, totalement differente de cellesqui l'ont précedée (Le Bon, 1931, p. 20).

L'individualizzazione della psicologia collettiva

Mentre in Francia e in Italia, con il tramonto della stagione posi-tivista, nel primo decennio del secolo gli studi di psicologia col-lettiva sono sempre meno coltivati18, il tentativo di trovare unaconnessione tra la scienze psicologiche e le scienze sociali si trova,in Germania, al centro dell'interesse dei filoni di ricerca dellaMassenpsychologie e della Volkerpsyckologie. Già dal momento in cuiaveva impostato la questione di quali fossero i criteri ricorrentidell'azione umana, la sociologia tedesca si era infatti trovata alleprese con la necessità di individuare - e 'disseppellire' - leprofonde e oscure 'regole' sottese al comportamento aggregativodell'essere umano. Seppure costantemente oscillante tra le solu-zioni offerte dai 'sistemi' teorici generali di Ferdinand Tònnies,Georg Simmel o Alfred Vierkandt, e le ricostruzioni storico-socio-logiche avanzate invece da Werner Sombart, Franz Oppenheimer,oltre che dallo stesso Max Weber, il tentativo di costruire una tipo-logia delle aggregazioni umane viene a collocarsi su quella stessalinea già evidenziata dalla riflessione gierkiana sulle menschlicheVerbandseinheiten. A dispetto dell'originaria filiazione, le più signi-ficative dimensioni concettuali di un simile problema (e anche, aben guardare, le sue più importanti implicazioni politiche) si ven-gono, tuttavia, a presentare in termini diversi da quelli profilatisiagli occhi di Gierke. Per i giuristi, la riflessione sulle forme diaggregazione (in particolare sulla Kòrperschaft) aveva alimentato la

18 Tra le opere dell'inizio del XX secolo vanno, tuttavia, ricordati i lavori diCICCOTTI (1903), GROPPALI (1902), ORANO (1902), Rossi (1904), SOUILLACE (1902)e STRATICÒ (1905). Tra gli ultimi esempi dell'attenzione verso questo ambito distudio sono da richiamare BOHN ET AL. (1934), JOUSSAIN (1937) e MIOTTO (1937).

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messe di elaborazioni teoriche e dottrinali che, pur diverse e spes-so contrapposte tra di loro, risultavano accomunate dall'obiettivodi annullare, all'interno del rapporto 'giuridico' fra lo Stato e l'in-dividuo, il campo di tensione fra l'apparato statale e la società19.Per quanti adottavano invece la prospettiva degli studi sociologi-ci, l'obiettivo principale (e indispensabile per costruire una tipo-logia delle strutture di aggregazione umana) era rappresentatodalla ricerca di strumenti concettuali in grado di 'catalogare' ilrapporto Stato-società quale forma storica, e perciò mutevole,all'interno delle forme molteplici di aggregazione fra gli uomini.L'indagine sulle forme di aggregazione umana non solo venivacosì a rifiutare la semplificata immagine dello Stato-macchina, masi trovava anche a dover allargare lo spettro ad altre discipline,intersecandosi per esempio con le proposte della Massenpsychologiee della Vòlkerpsychologie, oltre che con le ricerche etnologiche col-tivate nei primi anni di lavoro da Vierkandt o con le sollecitazionidella Tiersoziologie di Alverdes20.

Lo sforzo di innovazione concettuale, nel momento stesso in cuiimponeva il superamento delle vecchie dottrine organiciste delloStato (di cui anche Gierke non aveva saputo rifiutare le seduzio-ni)21, si collocava perciò lungo la via di una 'de-ideologizzazione'sia dello Stato, concepito come forma 'ultima' e 'razionale' dellaconvivenza umana, sia dell'individuo, inteso quale elemento esclu-sivamente 'primario' della società. Proprio da qui, si rafforzava lanecessità di ripensare la relazione dinamica tra individuo e collet-tivo, o, meglio, tra l'instabile aggregazione delle motivazioni e dellepulsioni individuali e la coerenza dell'ordine sociale22.

19 Che proprio attorno alle forme di convivenza si andassero ad incrociare lelinee di riflessione delle scienze umane è d'altronde mostrato proprio dall'inda-gine sul fenomeno corporativo: cfr. ORNAGHI (1984).20 Per gli studi su questo terreno, si vedano per esempio ALVERDES (1925),BECHTEREW (1928), GEIGER (1926), SCHNEERSON (1925-1926a; 1925-1926b), STEELER(1929), THURNWALD (1925), VIERKANDT (1899; 1903). È tra l'altro da ricordare l'e-sperienza della rivista «Zeitschrift fur Vòlkerpsychologie», che, varata nel 1925,puntava proprio a una collaborazione tra i due differenti settori disciplinari.21 Cfr. a questo proposito MEZZADRA (1993).22 Tale ricerca, alla fine, sarebbe stata però sacrificata nel nome di quell'esigenzadi 'purezza' e rigore che ciascuna delle diverse discipline andava riconoscendocome condizione per rafforzare le proprie fondamenta scientifiche.

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Anche per la difficoltà o l'incapacità di abbandonare l'imma-gine idealistica del Volksgeist (e, soprattutto, l'idea della societàpacificata su cui essa si reggeva), la proposta gierkiana era statapiuttosto rapidamente messa ai margini dalla dottrina costituzio-nale tedesca. Insieme con essa, e con l'ipotesi che ogni associa-zione umana poggi su un'unità psichica, si comincia anche arespingere - esplicitamente e con decisione - l'elemento psicolo-gico dal metodo di indagine della scienza del diritto. Se, infatti,ancora si può individuare nel dualismo tra lo 'Stato sociologico'e lo 'Stato giuridico', formulato da Georg Jellinek, la volontà diconservare - seppur come semplice presupposto della teoria giu-ridica - l'idea di un radicamento dell'unità statale nella vita delpopolo, la teoria pura di Kelsen esclude in termini perentori siala rilevanza giuridica, sia la legittimità scientifica di quelle teorieche pretendono di ascrivere la fondazione dello Stato all'esisten-za di una comunità psicologica. Nel famoso scritto dedicato a DerBegriff des Staates und die Sozialpsychologie, apparso nel 1922 sullarivista «Imago», portavoce della scuola psicoanalitica, il giuristaaustriaco, confrontandosi con le tesi enunciate da Freud in temadi Vólkerpsychologie e Massenpsychologie, liquida nettamente l'ideache alla base dello Stato possa essere rinvenuta una qualcheforma di unità psicologica:

in ogni caso deve essere rifiutata la concezione per cui la volontà collet-tiva, il sentimento collettivo o la rappresentazione collettiva sarebberograndezze psichiche ottenute e intensificate dalla somma delle singolerappresentazioni, delle singole volontà o dei singoli sentimenti. E datoche una tale concezione è sostenuta a volte dai teorici del sociale, deveessere ancora detto esplicitamente che elementi psichici di individuidiversi non si lasciano sommare, e che tale somma, anche quando silasciasse tirare, non avrebbe alcuna espressione in una qualsiasi volontàpsichica. Sentimento collettivo, volontà collettiva, rappresentazione col-lettiva non possono significare altro che un segno dell'accordo dei con-tenuti di coscienza di una pluralità di individui (Kelsen, 1922, p. 398).

Espulsa dalla «teoria pura» del diritto, la proposta di una coope-razione fra le scienze psicologiche e le scienze storico-sociali sisarebbe presto scontrata anche con la specifica soluzione offertada Weber al Methodenstreit.

A sforzarsi di acquisire le conoscenze della psicologia speri-mentale al patrimonio delle Geisteswissenschaften erano stati soprat-

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tutto gli esponenti della scuola storica di economia, comeHildebrand, Knies, Roscher e, più tardi, Schmoller. Proprio que-st'ultimo - in uno degli scritti da cui prese avvio il Methodenstreitdell'ultimo ventennio del XIX secolo, e nel quale rimproverava aMenger di aver operato una semplificazione dei «moventi psico-logici dell'agire umano» (Schmoller, 1883, p. 143) - aveva infattiribadito la necessità che la scienza economica utilizzasse tuttequelle cognizioni che i diversi filoni delle scienze dello spirito - tracui anche, naturalmente, la psicologia - andavano accumulando23.

La rilevanza delle motivazioni individuali rimase in realtà, pergran parte, sullo sfondo della contesa. Sono infatti gli scritti con-clusivi di Weber a sancire una soluzione che prelude al sostanzia-le divorzio tra la psicologia e le nascenti scienze della società.Secondo la proposta di Dilthey, le «scienze dello spirito» accede-vano al proprio oggetto di studio mediante un atto intuitivo,riconducibile all'introspezione psicologica. Al contrario, nellasoluzione avanzata da Weber il metodo di comprensione logicadei fenomeni sociali ed economici - il nucleo metodologico della«sociologia comprendente» - presuppone una netta divaricazioneproprio dall'analisi psicologica del comportamento individuale.Criticando l'impostazione analitica di Roscher, per esempio,Weber esclude che le istituzioni economiche possano essere spie-gate col riferimento alle «radici psicologiche dell'agire dei singo-li» (Weber, 1903-1906, p. 30). In modo ancor più reciso, eglirespinge nettamente anche la tesi di Knies, secondo cui l'inter-pretazione dei fatti sociali ed economici richiederebbe la cono-scenza - o almeno la presupposizione - dei contorni di quella«unitarietà psicologica» che rappresenta il fondamento stesso diogni aggregazione umana e, in modo specifico, del Volk, «porta-tore di forze istintuali unitarie» (Weber, 1903-1906, p. 134). La

23 In questa direzione, infatti, si consideri per esempio questa avversione: «Noicrediamo senza dubbio che talune proposizioni "generali" sulle connessioni dimassa in senso spirituale, su morale, costume e diritto, su potere politico e dirit-ti di libertà, ecc., siano comuni a tutte le discipline sociali e debbano essere pre-supposte, oppure esposte come introduzioni o parti di sostegno all'economiapolitica. Non si introduce in tal modo nessuno specifico punto di vista della ricer-ca storica nella teoria dell'economia politica, ma soltanto si valorizza, per i pro-cessi psichici e sociali, che sono al contempo economici, l'intera conoscenza cheesiste su questo terreno» (SCHMOLLER, 1883, p. 148).

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sociologia di Weber, puntando lo sguardo sull'individuo (e sullasua «razionalità rispetto allo scopo»), rifiuta programmaticamen-te il ricorso a qualsiasi tipo di spiegazione psicologica24, e, in talmodo, viene da un lato a prefigurare la separazione delle scienzedella società dalla psicologia sperimentale, e dall'altro a ricon-durre il complesso della riflessione psicologica nel novero delleNaturwissenschafter?5.

Se la soluzione proposta da Weber al Methodenstreit di fineOttocento era destinata a favorire una progressiva espulsione delriferimento a meccanismi psicologici dal campo di analisi dellescienze sociali, anche la psicologia sperimentale stava producendo,piuttosto rapidamente, una speculare esclusione della dimensionesociale dal suo orizzonte problematico. Varcando l'Oceano, ilmodello di ricerca empirica praticato all'interno del Laboratorio diLipsia non solo ebbe un ruolo decisivo nel favorire l'avvio della svol-ta comportamentista, ma, paradossalmente, determinò anche il rifiu-to totale di quel metodo «introspettivo» che, oltre a caratterizzarel'indagine della Vòlkeipsychologie, costituiva anche l'anello in grado dicongiungere, attorno alle scienze psicologiche, Geisteswissenschaften eNaturwissenschaften. Il «ripudio positivista» di Wundt - come è statodefinito da Kurt Danziger (1979) - era destinato a sancire l'allonta-namento della psicologia comportamentista dal confronto con ledinamiche della società contemporanea, in modo sostanzialmenteanalogo (anche se paradossalmente opposto) a quello con cuiArthur Bentley - traducendo sul piano dell'indagine politologica lepremesse metodologiche del comportamentismo - espelleva dalquadro esplicativo qualsiasi riferimento a sentimenti intcriori o allemotivazioni sottostanti al comportamento degli attori26.

24 «L'atteggiamento "psicologico" dei partecipanti, vale a dire la questione riguar-dante gli "stati in tenori" in base a cui essi si associano orientando [...] il proprioagire in vista di ordinamenti stipulati - osservava per esempio a proposito delfenomeno dell'appartenenza di gruppo - è indifferente per l'esistenza dell'asso-ciazione, finché di fatto sussiste, in un ambito sociologicamente rilevante, la chan-ce di un orientamento in vista del processo di unione» (WEBER, 1922, p. 273).25 Su questo passaggio del Methodenstreit, come anticipazione del successivo«divorzio» tra scienze sociali e psicologia, si rimanda alle considerazioni svolte inORNAGHI - COTELLESSA (1998a, 1999).26 In The Process of Government, per esempio, Bentley, aveva individuato il difettodell'analisi di Simmel nel fatto che questi - pur avendo svolto «un eccellente

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Ma un aspetto altrettanto significativo riguarda direttamente ildestino riservato alla psicologia collettiva di Le Bon, Sighele eTarde, oltre che alla definizione di quella folla 'sfuggente' da essicollocata al cuore delle loro riflessioni. Sotto questo profilo, èpiuttosto significativo come la 'folla' immaginata dagli scrittori finde siede, dal momento in cui inizia a influenzare il dibattito tede-sco sulla 'massa', vada incontro a una sorta di vera e propria meta-morfosi. Una metamorfosi che però, al termine di un percorsointellettuale estremamente articolato e complesso, finisce col farimboccare alla ricerca sentieri paralleli di 'individualizzazione' delcomportamento collettivo: col risultato di privare lo 'stato di folla'di quei caratteri eccezionali che, rispetto alle condizioni psicolo-giche quotidiane, alla folla erano stati a lungo riconosciuti.

A recepire e rendere popolare la nozione di massa, come chia-ve per interpretare i mutamenti politici contemporanei, è soprat-tutto Roberto Michels, che, nell'introdurre la seconda edizionetedesca del suo testo più celebre, può presentare il proprio lavoronei termini di una «psicologia empirica di massa» (Michels, 1925,p. 21 )27. Tuttavia Michels, pur richiamandosi a Le Bon e agli altricultori della psicologia collettiva di fine Ottocento, consideracome «massa» non tanto quegli aggregati informi e spontanei cheprendono forma occasionalmente, per l'intervento di sollecita-zioni traumatiche esterne, quanto le masse organizzate, rigida-mente disciplinate nelle fila del partito socialdemocratico tedesco.Non troppo diversa è l'operazione di Freud in Massenpsychologie

lavoro sbarazzando l'interpretazione sociale del peso di teorie pretenziose fon-date sulle idee e i sentimenti come cause» - aveva infine condotto la sua ricercasui gruppi «nei termini di una psicologia», che finiva col diventare «troppo spes-so un contenuto che s'impone con persistenza in tutta la sua analisi» (ÈENTLEY,1983, p. 575). Su questa svolta, e sulle conseguenze che produsse sulla nascenteteoria dei gruppi, si rinvia a ORNAGHI (1998).2' Concludendo la nuova introduzione egli così osservava: «Benché gli studi pre-sentati in quest'opera presuppongano una certa conoscenza, in primo luogodella psicologia di massa, ed in secondo luogo dei rapporti fra massa e leader-ship, e conducano alla formulazione di leggi riguardanti la psicologia di massa,mi sono tuttavia astenuto dal darne una vera e propria presentazione sistemati-ca. [... ] La materia del presente studio sulla leadership, dovrebbe tuttavia rap-presentare anche un importante, integrale e autonomo settore della psicologiaempirica di massa» (MiCHELS, 1925, p. 21). Michels si era peraltro dedicato anchea una «psicologia dei movimenti di massa anticapitalisti»: cfr. MICHELS (1926).

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una Ich-Analyse. Anche il medico viennese, prendendo le mosseproprio dalle tesi di Le Bon, attribuisce un'ampia estensione altermine Masse, distinguendo le masse disorganizzate da quellealtamente organizzate, e però riconducendo il comportamento dientrambe le tipologie alla stessa logica di fondo (Freud, 1921).

I maggiori sforzi di costruire una sociologia della massa sonocompiuti, con ogni probabilità, da quegli studiosi raccolti attornoalla scuola di Colonia, come, in particolare, Wilhelm Vleugels, chesi dedica, tra l'altro, proprio alla discussione della proposta freu-diana in tema di Massenpsychologie (Vleugels, 1922-1923). Se nelladefinizione di Vleugels, la massa presenta quegli stessi elementifortemente negativi che Le Bon aveva assegnato alla folla, e soprat-tutto quella condizione psicologica eccezionale che aveva con-traddistinto la prima stagione del dibattito28, gran parte della suc-cessiva riflessione sulla massa si indirizzerà verso tentativi defini-tori il più neutrali possibile: tentativi che, se da un lato spoglianola Massenpsychologie della connotazione negativa nei confronti delmovimento operaio, dall'altro tendono però a perdere il riferi-mento alla specificità psicologica della condizione di folla. Sottoquesto profilo, infatti, sia che die Masse venga considerata come«sozialer Verband» (Geiger, 1926), come «flùchtiges sozialesGebilde» (Wiese, 1929), come un particolare tipo di gruppo(Colm, 1930), l'interesse degli studiosi è ormai rivolto non tantoalla condizione psicologica individuale, quanto alla struttura diassociazione definita dalla massa (Berking, 1984, pp. 75-77).Proprio in questa direzione, puntando verso una critica della teo-ria di Le Bon, Theodor Geiger contesta esplicitamente che la pro-spettiva psicologica possa fornire una conoscenza appropriata delfenomeno di massa, il quale può essere invece compreso appienosolo all'interno di una teoria sociologica delle forme umane diaggregazione (Geiger, 1926).

La rilettura tedesca della psicologia collettiva si rivela ancor piùimportante nell'influenzare quell'operazione di graduale neutra-

28 Egli così sciveva, a proposito del concetto di 'massa': «Quanto più è grande edeterogeneo il gruppo di persone da cui si forma una simile massa (Masse), tantopiù l'intera collettività si riduce a quel bagaglio rimosso di idee e sentimenti pri-mitivi, che, attribuito in modo inalienabile all'essere umano fin dai primordi,viene però tenuto a freno nell'individuo isolato» (VLEUGELS, 1926, p. 185).

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lizzazione del comportamento collettivo che contraddistingue siale scienze sociali nordamericane, sia la svolta metodologica nellostudio del comportamento collettivo. Per il primo profilo, rile-vante appare la lettura che Robert Park propone nella tesi di dot-torato su Masse undPublikum, redatta al termine del periodo di stu-dio trascorso in Germania (Park, 1904). In quest'opera - rimastainedita per molti anni, ma fondamentale per la formazione teori-ca di Park - lo studioso americano riformula, con la mediazionedell'analisi sociologica di Simmel, quella stessa definizione del«pubblico» che già Sighele (1894) e Tarde (1901) avevano forni-to in alcuni loro scritti precedenti.

Per il secondo profilo, la Experimentelle Massenpsychologie diWalter Moede (1920) è l'esempio forse più significativo di unainnovazione metodologica da cui viene influenzato Floyd Allport,con la sua Social Psyckology (1924). Moede tenta di verificare empi-ricamente le tesi di Le Bon, sottoponendo a prove sperimentalipiccoli gruppi di studenti e sostenendo, al termine, che moltirisultati non confermano l'idea che la razionalità dei singoli rece-da nelle situazioni di gruppo. Allport, sviluppando alcune delleidee di Moede e, soprattutto, affinando il metodo di indaginesperimentale, giunge alla conclusione secondo cui, nelle situa-zioni di aggregazione collettiva non emerge alcun elemento psi-cologico innovativo: la logica degli individui rimane sostanzial-mente la stessa, senza subire modificazioni rilevanti, spiegabilicon il semplice riferimento ai meccanismi psicologici individua-li. Sebbene per molti versi ineccepibile, sul piano metodologico,l'operazione di Allport viene a sancire una cesura sostanziale, chegli sviluppi teorici ed empirici successivi delle scienze del com-portamento si incaricheranno di confermare e approfondire(Graumann, 1986).

La costruzione dell'orizzonte temporale

Intervenendo al IV Congresso della «International Society ofPoliticai Psychology», nel 1981, Gianfranco Miglio imposta la com-plessa questione del Tempo come elemento psicologico nel processo politi-ca. TVoprzo Tarlatisi déììa componente temporale ae?»fera ìziSatòprofilare, agli occhi dello studioso italiano, il terreno privilegiatodella necessaria e auspicabile collaborazione fra l'indashae -

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logica e la psicologia. Nell'architettura teorica che Miglio va dise-gnando in quegli anni, centrata sulla ricerca dei fondamenti origi-nali del vincolo politico, la dimensione temporale risulta infattidecisiva per differenziare la struttura interna delle due tipologie divincolo sociale, a cui egli ritiene siano da ricondurre tutte le formestorielle della convivenza associata. L'ipotesi della ineliminabilecontrapposizione fra i due vincoli dell'«obbligazione politica» e del«contratto-scambio» trova perciò un fondamentale riscontro neglispecifici orizzonti temporali, nel senso che - come egli scrive - pro-prio la diversa prospettiva temporale differenzia «l'attesa di chicontrae un rapporto di fedeltà politica da quella di chi stipula uncontratto-scambio (privato)» (Miglio, 1981, II, p. 794). In altri ter-mini, se, da un lato, «nel rapporto di contratto-scambio (privato)l'attesa - vale a dire la quantità di tempo che si conviene debbaintercorrere fra l'obbligo assunto (promessa fatta) e la sua realiz-zazione (promessa mantenuta) - tende a ridursi a zero» (Miglio,1981, II, p. 795), dall'altro, la logica costitutiva del vincolo politicorimanda invece a un orizzonte temporale ben più esteso, e tantolontano, da risultare di norma (e quasi fatalmente) indetermina-to, come Miglio sottolinea con grande chiarezza:

In politica infatti non conta tanto realizzare il progetto (l'utopia) procla-mato (anzi: in genere questo non si verifica mai), quanto piuttosto com-portarsi 'come se' quel progetto dovesse, ad un certo punto, diventarecompiuta realtà. 'Stare per', 'combattere per' sono così una manifesta-zione essenziale del differimento temporale in politica; mentre è chiaro chel'obbiettivo vero di chi 'fa politica' non è quello di raggiungere la metavagheggiata e chiudere la partita, ma è lo 'schierarsi', il 'lottare' senza fine'per' una ipotetica realtà che si allontana nel tempo (la 'giusta società',il 'vero socialismo', il 'destino imperiale', ecc.) (Miglio, 1981, II, p. 796).

Se Miglio non sfugge forse interamente al rischio di ricondurreanche la logica temporale dell'«obbligazione-politica» all'internodella dimensione della razionalità utilitaristica29, la sua ipotesi hal'indubbio merito di cogliere le potenzialità assai positive di unastretta collaborazione fra gli studi politici e l'indagine psicologica.

29 Per un'esposizione di questa lettura, si rinvia a PALANO (2002b). Sulle persi-stenze di un'impostazione positivista, rinvenibili nella teoria migliana, si vedanole considerazioni esposte in ORNAGHI (1992).

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Proprio sulla scorta di questa intuizione, alcuni anni dopo - nellacollana «Arcana imperii» diretta dallo stesso Miglio - AssuntoQuadrio da alle stampe quelle Questioni di psicologia politica checonfigurano, oltre che uno dei primi tentativi di rilanciare unadisciplina abbandonata ormai da decenni (non soltanto in Italia),anche l'iniziale risultato di un progetto di ricerca significativa-mente contraddistinto da un carattere interdisciplinare30. Non ènaturalmente casuale che molti dei contributi raccolti nel volumedi Quadrio si concentrino sul nodo problematico della dimensio-ne temporale31, perché, per molti versi, l'ipotesi di Miglio sullairriducibile dicotomia di «obbligazione politica» e «contratto-scambio» (insieme con l'idea che tale contrapposizione si caratte-rizzi per la differente prospettiva temporale) informa di sé l'inte-ro progetto di ricerca. Anche secondo Quadrio, come per Miglio,l'esperienza politica può essere intesa come «un ampliamento spa-ziale e temporale delle prospettive individuali», oltre che come unelemento che «interviene nella vita degli individui e delle colletti-vità come regola, progetto, speranza, al limite come utopia che sicolloca ad un termine indefinito» (Quadrio Aristarchi - Berti1984, p. 74 e p. 77). Ancor più significativo è che nelle Considera-zioni introduttive, ripercorrendo le forme di collaborazione frastudi politici e scienze psicologiche, Quadrio ritrovi il proprìumdella psicologia politica (e il suo confine con la contigua psicolo-gia sociale) in una prospettiva temporale non 'schiacciata' intera-mente sul presente o sull'immediato futuro. In tal senso, a pro-posito della difficoltà di individuare con nettezza il luogo e l'areadel «politico», Assunto Quadrio e Laura Rizzardi così osservano:

probabilmente il politico si rileva - sia pure in modo qualche volta diffi-cile - attraverso la sua prospettiva temporale e cioè attraverso il suo nonesaurirsi nel presente o nel breve termine [...]. Dal momento che ilcrearsi - a livello di dimensione politica - di una prospettiva futura, aprela strada a tutta una serie di considerazioni e di studi su quella «area

30 A ricordare il ruolo di Miglio nella nascita del progetto e nella sua articolazio-ne è lo stesso curatore, nelle Considerazioni introduttive (QUADRIO ARISTARCHI -RIZZARDI, 1984, pp. 3-4). Ma si veda sul punto anche QUADRIO ARISTARCHI (1992).31A tale nodo è infatti riservata l'intera seconda sezione, dedicata a un'analisi delRuolo del tempo in politica.

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intermedia» fra realtà ed irrealtà che è propriamente indicata all'inda-gine psicologica (Quadrio Aristarchi - Rizzardi, 1984, pp. 29-30)32.

L'idea di Miglio di «concentrare le energie sull'analisi delle radicipsicologiche del comportamento politico» (Miglio, 1981, II, p. 797)rimanda, per molti versi, agli assunti metodologici di due progeni-tori della scienza politica contemporanea, quali Mosca e Pareto33.L'ipotesi che l'irriducibile contrapposizione tra «obbligazione poli-tica» e «contratto-scambio» implichi anche una duplicità struttura-le nella prospettiva temporale e nella rappresentazione psicologicadell'orizzonte futuro, rimanda anche, almeno implicitamente, aitemi e alle questioni su cui tra Otto e Novecento si era concentra-to l'interesse di autori come Le Bon e Sighele. La dicotomia strut-turale fra «morale privata» e «morale politica», formulata dalloscrittore trentino, così come l'importanza delle logiche non ricon-ducibili alla razionalità strumentale, sottolineata con vigore dallapsicologia politica di Le Bon, aveva infatti collocato al cuore pro-blematico delle loro indagini proprio quello stesso nodo che -quasi un secolo dopo - riaffiora nelle pagine di Miglio e Quadrio.

In altri termini, a ritornare in una posizione non marginale,nelle ricerche di psicologia politica, è l'idea che il vincolo specifi-camente 'politico' si differenzi da qualsiasi altra forma di convi-venza associata in virtù di una prospettiva temporale non 'schiac-ciata' sul presente o sul futuro immediato, e in forza di una logica

32 Nel rivedere a distanza di un quindicennio le proprie ipotesi, nel più recentevolume Nuove questioni di psicologia politica, Quadrio scrive, sempre a proposito delproprìum della disciplina: «il politico rappresenta il sociale nella sua complessità,lo ordina, gli conferisce senso al di là dell'immediato. La politica, in altre paro-le, da ordine, nel presente, al sociale attuale - che senza di esso è esposto alrischio di regredire a livello di folla anarchica, di "orda"' egocentrica, impreve-dibile e incontrollabile - ed insieme programma il sociale nel suo futuro garan-tendo da un lato continuità e prevedibilità e promettendo dall'altro la possibi-lità di cambiamento e cioè la realizzazione di obiettivi adattati, volta a volta, almutare delle circostanze e delle necessità» (QUADRIO ARISTARCHI, 1999a, p. 24).Per l'attenzione riservata da Quadrio agli studi di psicologia politica (e di psico-logia sociale della politica), cfr. anche: QUADRIO - CATELLANI - SALA (1988) eQUADRIO - CATELLANI (1996).33 Se Mosca individua nello studio delle «tendenze psicologiche costanti» dellegrandi masse umane il metodo specifico della scienza politica, Pareto pone la psi-cologia alla base dell'economia e di ogni singola scienza sociale.

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operativa non racchiusa completamente all'interno della ragioneutilitaristica. Soprattutto, a riaffiorare è l'ipotesi che proprio attor-no al tema della prospettiva temporale - quale fattore costitutivodell'identità politica - si possa annodare il progetto di una colla-borazione tra scienze sociali e psicologia, volto a dar corpo a unaclassificazione complessiva delle forme dell'aggregazione umana.In questo senso, le ipotesi formulate da Miglio e le ricerche coor-dinate da Quadrio delineano percorsi e programmi di indagineche, per non pochi aspetti, richiamano i sentieri della psicologiacollettiva italiana e francese di fine secolo: sentieri che sembranoall'improvviso e sorprendentemente interrompersi negli anniTrenta, soprattutto per effetto - almeno in apparenza - di un insie-me di vicendevoli interdizioni disciplinari, oltre che di un eteroge-neo complesso di fattori, ancora tutto da indagare e spiegare.

Da quando, con il concludersi - nei primi anni Ottanta - di unalunga stagione di divaricazione tra lo studio dei fenomeni politicie la ricerca psicologica, è venuta profilandosi la proposta di unanuova psicologia della politica, sono fatalmente riaffiorate moltedelle questioni irrisolte all'origine dello storico divorzio di iniziosecolo34. In parte, nella psicologia politica contemporanea rie-mergono evidenti i limiti di quell'impostazione fortemente indi-vidualista che spinse, per esempio, Moede e Allport a condurre ipropri esperimenti in laboratorio, nella convinzione che i risulta-ti sperimentali sarebbero stati in grado di far luce anche sui feno-meni sociali reali. Benché prendano le mosse da una severa criti-ca dell'orientamento comportamentista, anche i recenti filonidella sociale della politicai cognition-come è stato sostenuto - sem-brano soffrire di questo vizio di fondo: continuando ad operare suuna scala troppo ridotta e dunque sull'ipotesi di una sorta di «ere-mita sociale» assai scarsamente realistica, anch'essi avrebberopoco da dire sui fenomeni più importanti della società di massa(Ameno, 1996, p. 122).

Per di più, dinanzi all'emergere della politicai cognition comefilone dominante all'interno della disciplina, è stato nuovamente

34 Sui rapporti problematici tra psicologia e studi politici, si vedano, in chiaveretrospettiva, le ricostruzioni di ÈRYDER (1986) e VAN GINNEKEN (1992), mentre,per una rassegna e un'analisi critica dei principali risultati della recente ricercain tema di psicologia politica, cfr. AMERIO (1996) e CATELLANI (1997).

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dimenticato - o rimosso dallo spettro problematico - quel tentativodi far luce sulle radici più profonde, complesse e magari inquietan-ti dei meccanismi di aggregazione politica. Nell'ambito della ricer-ca della politicai cognition, è ormai quasi scontato che l'attenzione siposi interamente sui processi cognitivi, sulle rappresentazioni esulle azioni degli attori che si accostano alle questioni o alle istitu-zioni usualmente (e magari banalmente) identificate come 'politi-che'35. Ed è così pressoché inevitabile che la definizione dell'ambi-to della 'politica' venga demandata ad altre discipline, finendo per-ciò col mutuare quell'immagine tradizionale secondo cui la 'politi-ca' coincide, al fondo, con la sfera dello Stato e delle decisioniassunte dalle autorità di governo: un'immagine che, proprio invirtù dell'ambigua sovrapposizione fra Stato e politica cui allude, èstata fortemente posta in questione da un secolo di riflessione teo-rica sui fondamenti, o persine sull'intima 'essenza', del politico.

Proprio l'immagine tradizionale della sfera politica, cui in largaparte - ed esplicitamente - si rifanno molti dei più recenti studidi psicologia sociale della politica, implica perciò che la specificitàdel 'politico' - insieme alla logica che esso presuppone - può esse-re 'immersa', senza soluzione di continuità, all'interno della piùvasta area del 'sociale': privato del proprio carattere 'originario', ilvincolo politico può essere così delimitato e definito per mezzo diuna semplice 'sottrazione' dal terreno del 'sociale', mentre la psi-cologia del 'politico' può lasciare il posto a un settore degli studidi psicologia sociale applicata alle relazioni tra individuo e auto-rità 'politiche'.

La psicologia politica contemporanea, procedendo in una dire-zione al fondo convergente con larga parte della politicai sciencepostbellica, sembra così recedere proprio dinanzi a quel progettoin cui, al principio degli anni Ottanta, Miglio e Quadrio hannointravisto i margini di una collaborazione interdisciplinare. Con-centrando l'attenzione sulla specifica prospettiva temporale allabase di ogni vincolo politico, la psicologia, nel progetto migliano,avrebbe infatti dovuto fondare effettivamente la possibilità di unaconoscenza delle forme di aggregazione umana. L'indagine psico-

35 Come efficacemente sintetizza Catellani, la psicologia politica «studia le rap-presentazioni e azioni dei (potenziali e attuali) attori della politica, ossia di qua-lunque soggetto in quanto cittadino, leader, o membro di gruppi che abbianofini di carattere pubblico o collettivo» (CATELLANI, 1997, p. 13).

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politica, limitandosi a recepire una definizione tradizionale della'politica', dei suoi confini e dei suoi compiti, viene invece ad aggi-rare, in termini programmatici, il compito di riflettere sulle piùprofonde «radici psicologiche del comportamento politico».

Forse si trattava - e tuttora si tratta - di un obiettivo marcata-mente 'faustiano'. Quel progetto, riproponendo proprio gli ele-menti più suggestivi e le intuizioni più efficaci della dimenticatariflessione di fine Ottocento e dei primi Novecento, ha però l'in-discutibile merito di tornare a porre lo sguardo sulle dinamiche di'costruzione' dell'orizzonte temporale che si trovano al cuore stes-so dell'enigma, così spesso rimosso dalla riflessione teorica con-temporanea, della 'produzione' del potere.

Nel pieno del primo conflitto mondiale, avviandosi a conclude-re i suoi Enseignements psychologiques de la guerre européenne, Gustave LeBon sintetizzava, per molti aspetti, i risultati della riflessione cheaveva cominciato a svolgere negli anni Settanta dell'Ottocento.Quando scriveva che, «créateur du présent, le passe contieni lescauses des événements actuels et ceux que le destin fera surgir» (LeBon, 1916, p. 349), il «Faust de Rue Vignon» - come lo definiva unadelle sue più convinte ammiratrici - veniva infatti a ribadire il puntocruciale della soluzione da lui offerta alla questione dell'ascesa edella decadenza delle nazioni. Benché avesse passato in rassegna ifattori che avevano condotto al conflitto, e nonostante avesse presoin considerazione tutte le costanti psicologiche, i fattori etnici e leincognite in grado di influire sull'andamento della guerra, dovevaperò ammettere, proprio nelle ultime pagine, l'impossibilità di deci-frare il segreto più oscuro e profondo nascosto nella storia dellegrandi civiltà: «le destinée des grandes nations européennes nousdemeure inconnue. L'avenire est écrit dans un livre où l'intelligen-ce humaine ne sait pas encore lire» (Le Bon, 1916, p. 349).

Proprio oggi, quando il mantello della secolarizzazione sembrascivolare, scoprendo l'insospettato deposito di passioni irriducibi-li alla razionalità strumentale, torna a riaffiorare anche il nessoprofondo, e forse costitutivo, che stringe la costruzione di un oriz-zonte temporale, proiettato persine verso l'eternità, alla stessa fon-dazione del più originario e intenso vincolo politico. Così, quelladomanda sull'ambivalente rapporto fra la conservazione e la pro-pensione al nuovo, che alimentava la ricerca degli psicologi dellabelle époque, viene a risuonare nuovamente. E riconquista, per inte-ro, il proprio significato.

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Abstract

This artìcle explores thè emergente of collectìve psychology at thè turn ofthè twentieth century. It reviews thè divergent responses of turn-of-thecentury scholars to thè quest of thè rise and fall of societies. The paperpresents an overview of thè analyses of thè existing society, proposed byauthors as Gabriel Tarde, Cesare Lombroso, Scipio Sighele, Gustave LeBon, and George Sorci, particularly around thè notion of 'innovation'and 'misoneism'. The conclusion reached is that this complex, resource-ful, and fascinating group of authors posed thè cruciai question of tem-perai horizons in thè foundation of thè politicai obligation. The samequestion from which, in thè eighties of thè twentieth century, GianfrancoMiglio's hypothesis of a 'psychology of politics' and Assunto Quadrio'sresearches about thè connection of politics and psychology, moved.

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