Post on 22-Jan-2023
Università degli Studi di Bologna
Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di Laurea Magistrale in Scienze Filosofiche
Il concetto di nonsenso nell’operadi Wittgenstein
Un confronto tra Tractatus e Ricerche
Relazione d’esame per Filosofia del linguaggio 2012/2013
di Rocco Pellino
Numero matricola: 0000648056
Indice
Introduzione. Wittgenstein e la ricerca sul senso 3.
Il Tractatus
10.
Le Ricerche filosofiche
24.
Conclusione. Wittgenstein architetto e terapeuta 34.
Vorrei sapere, quanto è grande il verde, com’è bello il mare, quanto dura una stanza…
F. De Andrè, Oceano, 1975
Introduzione. Wittgenstein e la ricerca sul senso
Negli anni a cavallo tra XIX e XX secolo la cultura
europea attraversa un complesso momento di
riqualificazione e ri-articolazione delle maggiori
branche del sapere scientifico e filosofico. Questa
condizione si manifesta con inedita potenza culturale e
vede l'affacciarsi di una schiera di nuovi linguaggi in
concorrenza fra loro nel riscrivere i modi di fare
scienza, filosofa, o, magari, potremmo dire più in
generale, del fare teoria in sé e per sé. La riconfigurazione
delle grammatiche dei saperi europei agisce
trasversalmente dall'arte alla fisica, all'antropologia,
all'architettura e alla matematica, come una forte scossa
diretta alle stesse fondamenta di tali pratiche
culturali. In molti casi una simile riconfigurazione
prende la forma dell’indagine su ciò che sia dicibile o meno
entro una determinata branca di pensiero; su come si
possa strutturare un discorso fondato e rigoroso tanto in
teoria dell'arte, quanto in fisica, in matematica e in
filosofia. Per quest'ultima l'evento più celebre ed
influente, in tal senso, è costituto dall'avvento del
cosiddetto positivismo, o empirismo logico.
Secondo quanto asserisce G.H. von Wright i padri
spirituali di questo movimento di pensiero andrebbero
identificati in Ernst Mach, Bertrand Russell e Ludwig
Wittgenstein.1 In effetti sono molte le personalità che,
specialmente nell’ambiente viennese, contribuiscono in
vario modo al progetto definito esemplarmente da Carnap,
Neurath e Hahn, come concezione scientifica del mondo.2 Un1 Cfr. G.H. von Wright, Wittgenstein e il suo tempo, in M. Andronico, D. Marconi, C.Penco (a cura di), Capire Wittgenstein, Marietti, Genova 2004 [1988I].2 Cfr. H. Hahn, O. Neurath, R. Carnap, Wissenschaftliche Weltauffassung. Der Wiener-Kreis,1929, ed. it. La concezione scientifica del mondo. Il Circolo di Vienna, a cura di A.
progetto simile – sotto la cui egida si potrebbero
ricondurre le esperienze di pensatori anche non
tradizionalmente legati al Circolo di Vienna, come Edmund
Husserl – assume proprio in Carnap e nello stesso Husserl
il titolo programmatico di Teoria della costituzione. Per
«costituzione» si deve intendere una ricostruzione
rigorosa dei principi e dei modi attraverso i quali una
qualsiasi esperienza di un oggetto del mondo (sia esso
concreto, astratto, reale o immaginario) si articola nel
campo dell’intuizione di un soggetto. Si tratta di
un’indagine che, per gradi successivi, dovrebbe mirare a
mettere in luce lo scheletro di una vera e propria
costruzione logica del mondo.3 Come modello per il suo imponente
lavoro Carnap indica, in particolare, la sfera del
dibattito attorno alla costruzione di linguaggi logico-
formali a cui fosse possibile ricondurre ogni tipo di
enunciato linguistico e di giudizio conoscitivo. Una
lingua concettuale entro i cui termini si potessero
trascrivere le coordinate strutturali e i limiti precisi
di ogni possibile linguaggio sensato. A tal proposito c’è
un nome che figura nella Prefazione carnapiana alla Aufbau:
è quello, appunto, di Ludwig Wittgenstein.
Pasquinelli, Laterza, Roma-Bari 1979.3 Cfr. R. Carnap, Der logische Aufbau der Welt, 1928, ed. it. La costruzione logica del mondo,a cura di E. Severino, Milano, Fratelli Fabbri 1966.
Personalità, quella di Wittgenstein, tra le più
discusse e suggestive della filosofia del ‘900, origine
di intuizioni metodiche destinate ben presto a risultare
fondative per veri e propri capitoli nuovi della
filosofia contemporanea come la cosiddetta filosofia
analitica, o, la filosofia del linguaggio comune (ad
Oxford); nonché fervide fonti di spunti per discipline
che vanno dalla psicologia alla teoria matematica,
all’antropologia o all’estetica. Un’esperienza
intellettuale adatta, inoltre, a segnare con evidenza una
ben specifica interpretazione della pratica della
filosofia, diretta verso una problematicità (concettuale
e vissuta allo stesso tempo) talmente profonda e
connaturata all’uomo, da permettere di interpretare la
filosofia stessa come una sorta di terapia - una senechiana
cura per i mali dell’anima, qui declinata come lo sforzo
di comprensione che la mente deve intraprendere per
giungere ad una condizione risolutiva dei problemi, che
funga da base per una liberazione della mente stessa dai
problemi teorici in vista del raggiungimento di una
condizione umana non più bisognosa di pratiche filosofiche,
poiché ormai guarita dalla risoluzione (o dissoluzione)
di tali fondamentali problemi. Questa forte tensione
verso la fondazione (spesso intesa in chiave logico-
formale) di un metodo di riduzione e risoluzione delle
problematiche filosofiche ereditate dalla cultura europea
è caratteristica di quell’approccio che abbiamo
precedentemente chiamato positivismo logico e che ebbe la
più radicale espressione nel lavoro di personaggi di
spicco della cultura continentale e anglosassone del
primo ‘900 quali Russell, Schlick, Reichenbach,
Whitehead, Ramsey, per citare solo alcuni dei
protagonisti, in ambito filosofico, di tale movimento di
pensiero. La posta in gioco, per così dire, della ricerca
primonovecentesca, sta nella complessa sfida di
fondazione di un legame profondo tra filosofia e scienza
(quest’ultima intesa in senso rigoroso); un legame capace
di rendere conto della complessità della realtà (o
dell’esperienza) del mondo entro un sistema di asserzioni
esplicative coerente e completo. Tra le tante letture di
un simile compito, destinate ad avere più o meno fortuna
nel corso del secolo, quella di Wittgenstein è forse da
considerarsi la più profonda e gravida di stimoli e
suggestioni, recepibili trasversalmente da tutti i campi
della cultura scientifico-filosofica. La posizione
filosofica di Wittgenstein, del resto, si prestava bene
ad un simile successo, se, come nota sempre Von Wright4,
rifiutava categoricamente l’identificazione con una
particolare scuola, o corrente di pensiero ben precisa,4 Cfr. G.H. von Wright, Wittgenstein e il suo tempo, in M. Andronico, D. Marconi, C.Penco (a cura di) Capire Wittgenstein, op. cit. pp. 19-30.
preferendo invece pensare che i risultati mostrati dal
lavoro filosofico potessero servire, piuttosto, ad un
cambiamento dei modi di pensare (e quindi di vivere) degli
uomini, di fronte alla realizzazione del quale, tutti i
precedenti problemi filosofici potessero finalmente
essere rigettati come nonsensi (costrutti teorici non più
informativi, non più utili al progresso del pensiero, in
quanto già risolti all’interno del modo di vivere degli
uomini; così come un vaccino cessa di essere informativo
per il corpo umano, dal momento che questo ha già
riscritto le proprie difese immunitarie, sulla base del
contenuto del vaccino stesso).5
L’eclettismo a cui sembra destinato (a torto o a
ragione) il lascito teorico di Wittgenstein, ritrova, se
non altro, un modello di base nella sua originalissima
collocazione culturale (non ha una formazione filosofica
di tipo accademico e si avvicina alla speculazione
logico-matematica per tramite delle opere di Russell e
Frege), attraversata sin dall’infanzia dal contatto con
personalità di spicco della cultura austriaca come
5 Per illustrare meglio questo paragone e la sua pertinenza con il pensierowittgensteiniano, mi permetto di portarlo ancora un poco oltre assimilando perquanto possibile i concetti di vaccino e di tautologia: il vaccino, infatti,potremmo dire, contiene una configurazione formale che il corpo ospite nonconosce ancora e che deve essere presa in considerazione per la riscritturadelle strutture formali utili alla difesa immunitaria. Una volta che questocompito sia portato a termine, l’informazione contenuta del vaccino risultaessere tautologica rispetto a quella ormai già contenuta nell’organismo ospite edil vaccino stesso cessa perciò di avere senso rispetto a tale organismo.
Bramhs, o Rilke e sostenuta dalle amicizie di altri
famosi teorici di aria austriaca come Karl Kraus e Adolf
Loos, per tacere delle molte altre influenze religiose,
scientifiche ed antropologiche recepite per tramite di
autori quali Weininger, Boltzmann, Hertz, Spengler,
Frazer.
Inserito, dunque, in un panorama simile, l’interesse
primario di Wittgestein per le forme e la logica del
linguaggio (o dei linguaggi) umani, potrebbe essere
recuperata come impulso alla chiarificazione dei limiti e dei
modi di articolazione possibili di una qualunque
costruzione teorica, a partire dalla sensatezza delle
asserzioni in essa contenute. Ovvero, una maniera di
intendere il lascito filosofico di Wittgenstein potrebbe
essere quello di considerarlo come una sorta di teoria su
come fare teoria, una metafilosofia (forse non presente nelle
intenzioni reali del nostro autore), volta a chiarire le
possibilità e le forme di sensatezza del pensiero
teorico, inteso in senso assolutamente trasversale.
Avremmo dunque a che fare con una ricerca a proposito
delle forme del pensiero e delle loro possibili scritture
linguistico-formali. L’idea della scrittura formale di un
linguaggio logico del pensiero, del resto, è sicuramente
l’impulso più forte che il giovane Wittgestein trae
dall’opera di Gottlob Frege, il più chiaro precursore del
metodo del positivismo logico, autore di un testo il cui
titolo, Begriffschrift,6 potrebbe essere a ragione messo al
fianco di quello che lo stesso Wittgenstein sceglierà per
l’unica opera di cui vedrà la pubblicazione in vita:
quella che sarà nota come Tractatus logico-philosophicus.7
Qui, nota H. Sluga, «si proponeva di mostrare che la
filosofia tradizionale poggia su un radicale
fraintendimento della logica del nostro linguaggio. Gran
parte dell’opera illustra il modo in cui Wittgenstein
concepiva la struttura logica del linguaggio e il mondo
(…)».8
Rispetto al significato primario, qui condensato in
poche frasi, dell’opera in questione, appaiono le chiare
analogie col proposito fregeiano di una Ideografia logica.
C’è qui da aggiungere però, che un tema chiave, in
Wittgenstein, per la fondazione di un linguaggio simile è
costituito dalla chiara fissazione dei suoi limiti,
ovvero, dei confini entro i quali, potremmo dire,
determinate asserzioni sono sensate rispetto al linguaggio
di riferimento.
6 Cfr. G. Frege, Begriffsschrift, eine der arithmetischen nachgebildete Formelsprache des reinenDenkens, 1879, trad. it., Ideografia, in C. Mangione (a cura di), Logica e aritmetica,Boringhieri, Torino 1965.7 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Routledge and Kegan Paul, London 1922(1961), trad. it. di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1964. Da ora in avanti Tseguito dal numero della sezione nel testo.8 H. Sluga, Wittgenstein, trad. it. di G. Lando, Einaudi, Torino 2012, p. 11.
Si tratta, in buona sostanza, del tema del senso e
del nonsenso, come attributi essenziali di qualunque
asserzione possibile. Una ricognizione dei modi di
presentarsi del nonsenso di un’asserzione rispetto a certi
confini logici, o antropologici, può fornire una
posizione di lettura privilegiata di quello che sembra
essere l’interesse principale del cosiddetto primo
Wittgenstein, così come di quello delle Ricerche filosofiche.9
A proposito del Tractatus, infatti, Sluga scrive:
Qui si sostiene che tutti gli enunciati che non sono immagini
di concatenazioni di oggetti o combinazioni logiche di tali
immagini sono, strettamente parlando, privi di senso. Tra queste
ci sono tutte le proposizioni etiche ed estetiche, tutte quelle
che hanno a che fare con il significato della vita, ma anche tutte
le proposizioni della logica, anzi in effetti tutte le
proposizioni filosofiche, comprese tutte quelle dello stesso
Tractatus.10
La variazione più o meno radicale, che si può
attribuire al concetto di nonsenso, preso in esame
rispetto agli esiti del Tractatus e delle Ricerche (che sarà
lo scopo di questa trattazione), investe di certo la base
fondativa, la legittimazione ultima del riconoscimento9 L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Blackwell, Oxford 1953, trad. it.,Ricerche filosofiche, a cura di R. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1967. Daora in avanti RF seguito dal numero della sezione nel testo.10 H. Sluga, op. cit., p. 12.
del nonsenso stesso, ma, forse, non il ruolo complessivo
che questo concetto mantiene dal punto di vista euristico
lungo tutta l’opera wittgensteiniana.
Il nonsenso sembra essere qualcosa posto al di fuori
della struttura naturale di un linguaggio, specchio a sua
volta di un insieme di modi di vivere umani, poiché non
passibile di un’integrazione con le regole formali di
tale struttura, o poiché superfluo rispetto a ciò che
attraverso tale struttura si intende esprimere.11 Ciò che
varia, tra le due opere, sarà, allora, il fondamento
effettivo (la legalità) di una simile struttura formale,
che sposterà il suo accento dal terreno strettamente
logico, a quello (forse più marcatamente antropologico)
delle pratiche d’uso e delle regole del cosiddetto gioco
linguistico.
Prendendo le mosse dal Tractatus, quindi, cercheremo di
seguire l’articolazione di una pratica filosofica che
mostra i suoi risultati come esito di una continua (e
terapeutica) attività, mai adatta a congelarsi in una teoria
acquisita e archiviabile come fondamento del sapere, ma
continuamente svolgentesi e auto-superantesi, lasciando
che i mezzi teorici necessari per arrivare a certi fini
spirituali, si sciolgano da ogni criterio di validità e11 Tento, con questa frase, di comprendere una definizione sommaria del nonsenso,trasversale rispetto a Tractatus e Ricerche. Nel far questo propongo di considerareuna maggiore capienza, o potenza, del concetto di struttura formale, rispetto aquello di struttura logica.
sensatezza, una volta che tali fini siano stati raggiunti.
«Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi
comprende , infine le riconosce insensate» (T 6.54). Già
dall’osservare la pratica filosofica e dal riconoscere
quale particolare tipo di comprensione Wittgenstein
richieda ai suoi lettori e interpreti potremo gettare, in
maniera abbastanza diretta, un po’ di luce sulla
morfologia del nonsenso e sull’importanza che questo
concetto riveste sin dalle fondamenta della sfida
filosofica wittgensteiniana. Seguendo, cioè, le regole
formali tracciate differentemente nel Tractatus e nelle
Ricerche, nel tentativo di mappare i confini della sensatezza
linguistica, potremo forse far emergere dal calco del
senso, una fisionomia generale del nonsenso, inteso come
ciò che delimita le pratiche linguistiche corrette
formandone, in qualche modo, un negativo da cui queste
possano essere estratte e riportate alla luce.
Ciò che intendo qui è sottolineare la cardinalità del
concetto di nonsenso, tanto come punto di partenza per la
terapia filosofica, cioè per quell’attività che ha motivo di
esistere solo in ragione di chiarificare le aporie e gli
incantamenti (i quesiti che Carnap attribuiva alla
metafisica definendoli pseudoproblemi), nei quali siamo
condotti dalla natura del nostro linguaggio non
regolamentato logicamente, tanto come tema generale
d’attenzione per qualunque speculazione teorica che
voglia essere davvero un mezzo trasparente12 e onesto,
aggiungerei, per la risoluzione di problemi umani. La
terapia filosofica, infatti, sembra (almeno nel primo
Wittgenstein) configurarsi come cura del nonsenso, come
soluzione dei problemi che angosciano lo spirito
dell’uomo, solo perché mascherati e veicolati da normali
proposizioni che, in realtà vere proposizioni non sono,
risultando piuttosto «insensate proposizioni apparenti»
(T 4.1272). Ma se la soluzione dell’insensatezza
strettamente logica è da considerarsi un tema
privilegiato del Tractatus, tuttavia anche nelle Ricerche è
fortemente presente in Wittgenstein la consapevolezza di
un lavoro che agisce negativamente, come forza destruens
rispetto ad un complesso di costruzioni teoriche (in
forma di problemi filosofici), che oscurano la chiarezza
delle forme del linguaggio e della vita. Così nelle
Ricerche: «quelli che distruggiamo sono solo edifici di
cartapesta, e distruggendoli sgombriamo il terreno del
linguaggio sul quale essi sorgevano» (R 118).
Alla luce di queste considerazioni sarà legittimo,
dunque, chiedersi che aspetto abbia questa selva di
pseudoproblemi, che viene indicata mediante il concetto di
nonsenso, che l’attività del filosofo è chiamata sin da12 Cfr. L. Wittgenstein, Pensieri diversi, trad. it. M. Ranchetti, Adelphi, Milano1980, p. 25, cit. in H. Sluga, op. cit. p. 27.
principio a dipanare, allo scopo di far emergere dalla
stessa materia di cui essa è fatta (parole e pensieri) le
sole ed uniche strutture dotate di una vera legalità
linguistica e concettuale, le regole che mostrino cosa può
effettivamente essere detto legittimamente.13
Ci si potrà, quindi, chiedere: Quali sono le
caratteristiche del nonsenso? Da cosa si riconoscono gli
«edifici di cartapesta» che il filosofo è chiamato a
distruggere?
Nel rispondere a queste domande confronteremo, per
sommi capi, l’architettura del Tractatus con quella delle
Ricerche, soffermandoci in particolare sul confronto tra un
esempio dell’occorrenza del termine non-senso (o
dell’aggettivo corrispondente: insensato) nella prima e
nella seconda opera. Cercheremo così di capire le
differenze principali che, nei due diversi momenti,
caratterizzano il presupposto per l’attività
chiarificatrice della filosofia: ovvero di capire come
cambia, dalla prima alla seconda opera, la fisionomia e
13Nel Tractatus a queste regole devono essere riconducibili tutti i modi diprodurre proposizioni linguistiche. Ma naturalmente l’insieme delle proposizionilinguistiche corrette non comprende tali regole; stavolta non perchépropriamente insensate (errate), ma perché vuote di senso (sinnloos) rispetto a taleinsieme. Il Tractatus mostra le regole di produzione di proposizioni corrette; maqueste regole sono uno scheletro formale che non può essere propriamente dettodal linguaggio corretto; questo non dice, infatti, la sua struttura, ma la mostra;dire ciò che il linguaggio mostra risulta tautologico e dunque vuoto di senso; illinguaggio si usa per dire delle cose; non rientra nel suo uso corretto il direle proprie stesse regole.
la natura della selva in cui il linguaggio può
imprigionarci se usato non correttamente.
1. Il Tractatus
Il manoscritto inizialmente intitolato Logisch-
philosophische Abhandlung e destinato, a partire dagli anni
’20 del ‘900 a cogliere una vastissima fortuna nel
panorama filosofico e scientifico europeo – tanto da
essere esplicitamente indicato come fonte diretta di
ispirazione dagli autori del manifesto del Circolo di
Vienna (il testo già ricordato col titolo di La concezione
scientifica del mondo), nonché dal Carnap della Logische Aufbau
der Welt – viene steso nell’estate del 1918, dopo che il
suo autore abbia attraversato (oltre alle trincee della
prima guerra mondiale), un fruttuoso periodo di studio di
sei anni a Cambridge, seguendo in particolare la guida di
Bertrand Russell, la cui opera intitolata The principles of
Mathematics,14 assieme agli scritti di un altro dei padri
della logica filosofica contemporanea, Gottlob Frege, lo
aveva profondamente ispirato promuovendo in lui l’idea di
dedicarsi allo studio della filosofia in Inghilterra.
Dai testi succitati il giovane Wittgenstein trae una
linfa preziosa per la sua prima opera filosofica,
inscrivendola perfettamente (tanto da essere preso a
14 B. Russel, The principles of mathematics, University press, Cambridge 1903.
modello in futuro assieme ai suoi stessi maestri: Russell
e Frege) nello spirito di quella che Russell aveva
definito come filosofia dell’atomismo logico.
A tal proposito scrive Sluga:
Due punti chiave emergono da questo quadro. Il primo è che la
forma del mondo può essere portata alla luce (ed è l’unico modo)
attraverso un procedimento di analisi logica. Il secondo punto è
che l’analisi logica richiede un’analisi del linguaggio. (…)
Questa fiducia nel potere rivelatorio della logica risale alle
origini del pensiero occidentale, ma ha conosciuto una nuova
sorprendente fortuna con l’invenzione di una nuova logica da parte
di Frege, Russell e Wittgenstein.15
Nell’addentrarci meglio nell’architettura del Tractatus
notiamo, sin d’ora, che il carattere di quest’opera che
ha riscosso più successo e celebrità presso interpreti
provenienti da svariate discipline sembra potersi
identificare con la sua teoria dell’immagine, ovvero del
rispecchiamento tra gli oggetti delle proposizioni
linguistiche e quelli del mondo, secondo una struttura
tipicamente raffigurativa e basata su una concordanza nella
forma logica dei fatti del mondo e delle proposizioni
linguistiche correttamente formate. Questa teoria è il
primo argomento di discussione del Tractatus dopo che il
15 H. Sluga, op. cit. pp. 38-39.
suo autore abbia introdotto e definito alcuni termini
nevralgici utili alla sua spiegazione16:
- Mondo: l’insieme dei fatti, nella misura in cui essi
costituiscono ciò che accade e non si identificano affatto
con le cose fisiche (T 1-1.2).
- Fatto: ciò che accade determinando possibili stati di
cose (T 2).
- Stato di cose: un nesso di oggetti, in quanto
determinato dalle proprietà stesse degli oggetti rispetto
alle sue forme possibili. In questo senso «Se conosco
l’oggetto, conosco anche tutte le possibilità del suo
occorrere in stati di cose» (T 20123).
- Oggetto: parte costituente della sostanza del mondo,
ovvero di ciò che non varia al variare di ogni possibile
configurazione degli oggetti stessi. Tale sostanza è la
forma necessaria che un mondo deve avere per esistere, è,
nella massima astrattezza, il concetto di struttura
formale, carattere che inevitabilmente si accompagna
all’esistenza di un mondo di qualunque genere. Tale
struttura è, caso per caso, sempre fissa. «Questa forma
fissa consta appunto degli oggetti» (T 2.03). Anche gli
oggetti sembrano essere entità puramente formali. Essi
«non possono essere composti», né possedere proprietà
16 Traggo l’idea di questo schema da H. Sluga, op. cit. p. 36.
materiali alla stregua di oggetti fisici17; risultano
piuttosto essere atomi logici, dotati perciò solo di una
specifica forma logica.
Se ora procediamo nel vedere come questi concetti
fondamentali interagiscono nella costruzione di quella
particolare teoria dell’immagine che regge la validità
dell’intera proposta di analisi logico-linguistica del
Tractatus, potremo, forse, comprendere meglio come,
rispetto a questa struttura, si possa riconoscere
l’insensatezza di certe proposizioni del linguaggio
ordinario.
2.12 L’immagine è un modello della realtà.
2.13 Agli oggetti corrispondono nell’immagine gli elementi
dell’immagine.
2.141 L’immagine è un fatto.
2.151 La forma della raffigurazione è la possibilità che le
cose siano l’una all’altra nella stessa relazione che gli elementi
dell’immagine.
2.1515 Queste coordinazioni sono quasi le antenne degli
elementi dell’immagine, con le quali l’immagine tocca la realtà.
2.171 La sua propria forma di raffigurazione, tuttavia,
l’immagine non può raffigurarla; essa la esibisce. 2.182 Ogni immagine è anche un’immagine logica. (…)
2.02 L’immagine rappresenta una possibile situazione nello
spazio logico.
17 Cfr. Tractatus 2.02-2.0232.
2.21 L’immagine concorda con la realtà o no; essa è corretta
o scorretta, vera o falsa.
2.22 L’immagine rappresenta ciò che rappresenta,
indipendentemente dalla propria verità o falsità, mediante la
forma della raffigurazione.
2.221 Ciò che l’immagine rappresenta è il proprio senso.
3 L’immagine logica dei fatti è il pensiero.
Queste alcune delle proposizioni del Tractatus a
proposito dello statuto logico dell’immagine e della
raffigurazione. La validità del paradigma raffigurativo
come base del legame tra linguaggio e mondo, appare qui
come obiettivo fondamentale dell’argomentazione e cardine
della particolarità dell’esperienza di comprensione
semantica che il linguaggio, a parere di Wittgenstein, sa
mostrare. L’avvicinamento del concetto di una simile
comprensione al concetto di comprensione di un’immagine
rinvia direttamente ad una concordanza di fondo tra la
composizione logica dell’immagine e la possibile struttura
degli stati di cose che configurano i fatti del mondo.
Questa concordanza, non è infatti, né arbitraria, né
convenzionale. Così «Non “il segno complesso” ‘aRb’ dice
che a sta nella relazione R con b, ma: Che “a” stia in una
certa relazione con “b” dice che aRb» (T 3.1432). E
inoltre: «È manifesto che una proposizione della forma
“aRb” è da noi concepita come un’immagine. Qui il segno è
manifestamente una similitudine del designato» (T 4.012).
In quest’ultima frase il nostro autore sembra voler dire
che nella fisicità del segno proposizionale possa essere
percepita sensibilmente una struttura formale astratta,
una forma puramente logica della reale configurazione
degli stati di cose nel mondo, resa percepibile
(sensibile) da un modello che ne riproduce i rapporti
essenziali, in virtù della sua interna organizzazione. Tale
modello (che può essere paragonato, come nota Frascolla,
ad un vero e proprio modellino plastico in cui sia
ricostruito un evento reale)18 è realizzato dalla
proposizione linguistica.
La comprensione proposizionale è intimamente legata
alla capacità di visualizzare una possibile situazione
reale; siamo in grado di comprendere una proposizione
facendo appello alla raffigurazione mentale dei fatti da essa
descritti. In questo senso Wittgenstein può affermare che
«Nella proposizione una situazione è come composta
sperimentalmente»(T 4.031). In tal modo, nota sempre
Frascolla, la competenza semantica viene «ricondotta,
tramite la riduzione della proposizione a immagine, alla
nostra capacità di ‘leggere’ un’immagine, di afferrare,
cioè, immediatamente quale determinata situazione
18 Cfr. P. Frascolla, La natura raffigurativa del pensiero e del linguaggio, in Idem, IlTractatus logico-filosoficus di Wittgenstein, Carocci, Milano 20123.
un’immagine rappresenta».19 Ciò spiegherebbe, inoltre, la
capacità umana di cogliere il senso di enunciati mai
sentiti prima, avendo appreso solo le «parti costitutive»
(T 4.024) del linguaggio proposizionale, cioè quelle
strutture costanti che definiscono le possibili maniere
in cui il linguaggio raffigura, mette in relazione tra loro
i segni semplici, ovvero le parole. Il problema della
comprensione semantica del parlante umano si riduce,
quindi, alla capacità di riconoscere e produrre certe
forme di raffigurazione, che costituiscono il termine di
confronto principale tra immagine proposizionale e
realtà. Imparare la capacità di figurazione caratteristica
della propria lingua, sarà condizione sufficiente per
produrre enunciati sensati, nei quali si possa sempre
esprimere un «nuovo senso» (T 4.027). Così come imparare
una tecnica di disegno è condizione sufficiente a
produrre immagini fisiche che rappresentino situazioni e
sensi potenzialmente infiniti. Potremmo allora dire che
la figuratività (Bildhaftigkeit) del linguaggio sia l’insieme dei
modi di raggiungimento della forma, l’insieme delle
caratteristiche combinazioni logiche di cui una lingua si
serve per manifestare, in un enunciato, una forma che
riproduca simbolicamente il modo di manifestarsi degli
eventi, nella sua struttura essenziale. Ciò permette alla
19 Ibidem, p. 38
lingua stessa di comporre (sperimentalmente) in simboli,
eventi che non si sono effettivamente verificati, i quali
saranno compresi esattamente allo stesso modo (in virtù
della stessa forma) per cui vengono compresi
simbolicamente quelli che invece si verificano. «La
possibilità di tutte le similitudini, di tutta la
figuratività del nostro mondo d’espressione, risiede
nella logica della raffigurazione» (T 4.015)
Questa caratteristica ci permette di comprendere più
a fondo la peculiare natura dell’immagine linguistica
proposizionale. Come nota Frascolla, la relazione
d’immagine che la proposizione intrattiene con la realtà
non è riconducibile ad un semplice stare per; ossia ad un
rapporto per il quale la proposizione si limiterebbe a
fare «le veci della situazione che essa rappresenta».20
Se, infatti, la rappresentanza e la possibile concordanza
di proposizione e realtà, sta in un carattere puramente
formale ed interno della proposizione stessa, essa non
potrà limitarsi ad essere una sommatoria di elementi
simbolici che rappresentano altrettanti elementi reali.
La proposizione non è un mero aggregato simbolico, bensì
una costruzione articolata: «La proposizione non è un
miscuglio di parole. – (Come il tema musicale non è un
miscuglio di suoni.) La proposizione è articolata» (T
20 P. Frascolla, op. cit. p. 51.
3.141). E subito dopo: «Solo i fatti possono esprimere un
senso; non una classe di nomi» (T 3.143). il paragone
con l’esperienza musicale è particolarmente calzante e
adatto a sottolineare il carattere essenzialmente
relazionale dell’avere sensatezza di una proposizione. Il
senso di quest’ultima emerge olisticamente, potremmo
dire, dall’insieme delle relazioni che sussistono tra i suoi
elementi; insieme, questo, che garantisce un surplus
semantico rispetto all’insieme dei singoli elementi
costituenti preso per sé. Gli elementi semplici di una
proposizione infatti (i nomi), sono in tutto e per tutto
rappresentanti di oggetti della realtà (T 3.22), mentre
la proposizione, in quanto immagine, è un fatto (T
2.141). Ma un fatto (come un’esecuzione musicale) ha
senso soltanto olisticamente, cioè come particolare
configurazione di stati di cose, come un percorso
determinato che mette in relazione nessi oggettuali. Il
suo senso vero e proprio emerge dalla forma di tale
percorso, che non è riducibile alla mera classificazione
degli elementi semplici che esso pone in certe relazioni
reciproche.
Così la tesi dell’immagine come fatto varrebbe da
legame tra senso dell’immagine proposizionale e sua
struttura interna (Frascolla).21
21 Ivi.
Abbiamo visto, quindi, che per rendere conto dei
criteri verofunzionali dell’espressione linguistica –
dell’essere una proposizione verificata o smentita dalla
conformazione degli avvenimenti nella realtà, del
comprendere visto come sapere cosa accada nel mondo se
essa è vera (T 4.024) – bisogna considerare la
proposizione munita di senso come un’immagine logica
della realtà. I suoi costituenti più semplici, ovvero i
nomi che stanno per oggetti, non dovranno però, a loro
volta essere immagini (né tantomeno fatti) dal momento
che abbiamo ancorato il concetto di immagine a quello di
descrizione di un certo insieme di rapporti logici tra
oggetti. Questi ultimi sono rappresentati, nella
proposizione, da nomi che non svolgono una autentica
funzione raffigurativa nei loro confronti, ma
semplicemente, stanno per essi, li rappresentano senza
condividerne una struttura logica interna. Annota
Wittgenstein « Il nome non è un’immagine del denominato»
(Q 4.10.14).22 Non vi sono dunque immagini di immagini
che possano produrre pericolose circolarità (affini a
quelle del paradosso di Russell), ma solo immagini di
stati di cose, coordinazioni di elementi semplici, presso i
quali l’analisi della proposizione può terminare (evitando,
22 L. Wittgenstein, Tagebucher 1914-1916, a cura di G.H. von Wright e G.E.M.Anscombe, Blackwell, Oxford 1961; trad. it. Quaderni 1914-1916 in appendice a T. Daora in avanti Q seguito dalla data dell’annotazione riportata nel testo.
tra l’altro, regressi all’infinito). L’immagine, ovvero
la proposizione, è articolata. I suoi costituenti ultimi,
gli oggetti semplici, non sono a loro volta immagini,
poiché non presentano la struttura logica di uno stato di
cose, ma assolvono solo la funzione di rimando
convenzionale ad un elemento della realtà. Dunque avremo
che: «Nella proposizione il pensiero può essere espresso
così che agli oggetti del pensiero corrispondano elementi
del segno proposizionale» (T 3.2) ed anche: «Questi
elementi li chiamo “segni semplici”; la proposizione,
“completamente analizzata”» (T 3.201). È necessaria,
quindi, per i componenti dell’immagine, quella che
Frascolla chiama «irrilevanza simbolica della loro organizzazione
interna».23
Ma data la connessione essenziale che abbiamo
stabilito tra l’essere una raffigurazione logica e
l’avere valore di verità, deduciamo che il segno semplice
e inarticolato non può avere, di per sé, valore di
verità, né, ciò che più ci interessa, può avere
propriamente senso (vedi Q 4.10.14).
Rispetto alla definizione della struttura d’immagine
della proposizione, possiamo ora ritrovare facilmente
quali siano le caratteristiche, o, per così dire, i
sintomi del nonsenso linguistico, in entrambe le sue
23 Ivi.
manifestazioni, cioè sia come Unsinn che come Sinnlos.24
Potrà, inoltre, intervenire, a questo punto, quella
particolare visione della filosofia come strumento di
chiarificazione logica del pensiero, come affermato verso
l’inizio della § 4, dove troviamo scritto anche:
«Risultato della filosofia non sono “proposizioni
filosofiche”, ma il chiarirsi di proposizioni. La
filosofia deve chiarire e delimitare nettamente i
pensieri che altrimenti, direi, sarebbero torbidi e
indistinti» (T 4.112).
La critica filosofica dovrà allora, mediante
l’analisi logica del linguaggio, smascherare i travestimenti
di cui il linguaggio stesso, nel suo uso comune, si
ammanta attraverso una «grammatica superficiale»,25 che
nasconde l’ordine logico in cui normalmente si darebbero
le espressioni linguistiche (T 5.5563).
Il travestimento del reale ordine logico del pensiero è
paragonato da Wittgenstein al rapporto tra l’abito e la
forma del corpo. Solitamente il primo tende a modificare
(superficialmente) nei modi più svariati la seconda è ciò
avviene «perché la forma esteriore dell’abito è formata
per ben altri scopi che quello di far riconoscere la
24 Questi i due termini utilizzati nel Tractatus per indicare il nonsenso,traducibili rispettivamente come: insensato e privo di senso. Quest’ultimo caso èquello delle tautologie. Ci occuperemo della differenza tra i due termini piùavanti.25 H. Sluga, op cit. p. 40.
forma del corpo» (T 4.002). Ma c’è un aspetto particolare
di tale modificazione che dobbiamo ora sottolineare:
essa, infatti, si presenta (almeno in senso stretto)26
come una modificazione insensata. Torniamo così a cercare
dei modelli fisici per comprendere il concetto
wittgensteiniano di nonsenso, affermando che: laddove ogni
modificazione organica e naturale della forma di un corpo
possa essere intesa come inerente alla logica
dell’evoluzione strutturale del corpo stesso e quindi
coerente col suo senso più intimo, una modificazione
apparente e illusioria come quella data dall’aspetto esteriore
del vestito, invece, risulterà per l’appunto insensata
rispetto alla logica interna di quel corpo.
Cominciamo così a vedere chiaramente quelli che
abbiamo chiamato i sintomi del nonsenso, che si manifestano
nella maniera più evidente quando una struttura logica
coerente e sensata, viene rivestita da un’espressione
linguistica che non corrisponde in tutto e per tutto
all’articolazione interna di tale struttura. Wittgenstein
dà due fondamentali indicazioni rispetto a queste
occasioni. La prima nel Tractatus: «Nella proposizione
26 Già in questa analisi possiamo vedere come dalla definizione di nonsenso cheemerge nel Tractatus ci possa essere un naturale collegamento con una ricercaulteriore volta ad approfondire i ruoli e i modi di esistere di tutte quellecaratteristiche, a volte superficiali, di un linguaggio o di un sistema dipensiero, che tuttavia sembrano far perdere qualcosa all’analisi nel momento in cuisono semplicemente cassate come nonsensi. Questa sarà una delle vie principalidelle Ricerche.
dev’essere da distinguere esattamente tanto, quanto è da
distinguere nella situazione che essa rappresenta.
Ambedue devono possedere la medesima molteplicità logica
(matematica). (Cfr. la Meccanica di Hertz, sui modelli
dinamici.)» (T 4.04); la seconda nei Quaderni: «
Proposizioni apparenti sono quelle che, se analizzate,
tornano solo a mostrare ciò che invece dovrebbero dire» (Q
21.10.14). Mi sembra che le proposizioni appena citate
possano gettare una chiara luce sulla morfologia del
nonsenso. Entrambe si sposano bene con l’esempio del
vestito. Innanzitutto una proposizione che abbia senso
possiede quel requisito che Wittgenstein definisce come
l’avere la stessa molteplicità logica della situazione
rappresentata: nella proposizione-immagine, cioè, si
devono poter distinguere tanti elementi semplici, quanti
ve ne sono nella situazione che essa simboleggia. Prima
ancora di preoccuparci, infatti, della forma di un
vestito, potremmo contare le parti che costituiscono la
sua struttura formale e confrontarle col numero di quelle
che sono possedute dal corpo che il vestito ricopre, per
scoprire una discordanza rappresentazionale. Il vestito
non è una corretta immagine del corpo. Così il nonsenso
potrà essere riconosciuto come una scorretta immagine di
una situazione reale (o al limite come un’immagine che
non rappresenta alcuna situazione reale possibile).
Dobbiamo però, a questo punto, fare un’importante
precisazione. La scorrettezza rappresentativa di cui
stiamo parlando non è dello stesso tipo della scorrettezza
che attribuiamo ad un’immagine linguistica (correttamente
formulata) esprimente il falso, cioè una situazione che
non si è in effetti verificata. Rispetto alla prima
dovremmo, più precisamente, dire che essa manifesta una
violazione dello stesso principio per cui è possibile
costruire immagini (vere o false) della realtà. Il
nonsenso, in effetti, non è un’immagine di alcunché e
questo è ciò che lo caratterizza in primissima analisi.
Inoltre (passando all’affermazione dei Quaderni),
notiamo questo: una proposizione correttamente articolata
(che quindi svolge l’ufficio di immagine) può essere
analizzata e scomposta nelle sue parti costituenti, gli
oggetti semplici (presi indipendentemente dall’insieme
delle loro relazioni), che non mostrano alcun senso e si
limitano a dire, a nominare degli oggetti reali. Non c’è
più da interrogarsi, potremmo dire, su ciò che la
proposizione voglia esprimere, una volta che la si è
compresa mediante un procedimento (più o meno immediato)
di analisi logica. I conti invece non tornano quando
nella nostra proposizione si annidano dei nonsensi: in
questo caso infatti, avremo dei componenti che non si
lasciano ridurre a semplici nomi e che non si collegano
direttamente a degli oggetti reali, assolvendo così alla
funzione della denominazione (il dire), ma continuano ad
apparire come problemi da analizzare ulteriormente; i
concetti che il linguaggio logicamente corretto mette in
gioco, devono esprimere nessi di oggetti realmente
riscontrabili nella realtà: laddove questo ufficio non
venga rispettato ed il reperimento di queste connessioni
reali venga meno, si evince il fatto che ci siamo
espressi attraverso un nonsenso. Questa sorta di parassita
linguistico, per così dire, inficia l’intera costruzione
della proposizione come immagine del mondo. Un’immagine
proposizionale che contenga un nonsenso smette di
funzionare come immagine nel senso Wittgensteiniano.
Abbiamo, quindi, rilevato dei tratti sommari di quel
tipo di nonsenso che potremmo chiamare distruttivo, in quanto
assolutamente nefasto per lo svolgimento dell’espressione
linguistica. E questo è ciò che si intende col termine
Unsinn.
Ma ci sono altri casi di fallimento del compito
rappresentazionale del linguaggio, che non vengono
ricondotti entro questa prima categoria di nonsenso.
Leggiamo nel Tractatus:
La proposizione mostra ciò che dice; la tautologia e la
contraddizione, che dicono nulla. La tautologia non ha condizioni
di verità, poiché è incondizionatamente vera; e la contraddizione
è sotto nessuna condizione vera. Tautologia e contraddizione sono
prive di senso 27» (T. 4.461).
Qui l’aggettivo usato è sinnlos, ad indicare che non
si tratta di un non-senso inteso come errore semantico, ma
piuttosto di una vuotezza di senso che, come abbiamo detto
all’inizio, caratterizzerebbe ogni proposizione che non
aggiunga alcun contributo informativo sulla realtà
(adesso possiamo dire: che non è un’immagine della
realtà). Una tautologia, infatti, non rappresenta uno
stato di cose, non raffigura una situazione reale del
mondo, ma esprime piuttosto una regola di fondo per
l’asserzione di qualcosa. Essa non è strettamente
unsinnig, ma non possiede nemmeno quel requisito
essenziale alla sensatezza che abbiamo visto essere il
carattere raffigurativo della proposizione. Infatti:
«Tautologia e contraddizione non sono però insensate;
esse appartengono al simbolismo, così come lo “0” al
simbolismo dell’aritmetica» (T 4.4611).
La tautologia, non affermando nulla di sussistente
realmente, «lascia alla realtà tutto – infinito – lo
spazio logico; la contraddizione riempie tutto lo spazio
logico e non lascia alla realtà alcun punto. Nessuna
27 Qui l’aggettivo usato è Sinnlos.
delle due può quindi determinare comunque la realtà» (T
4.463).
Il modo del nonsenso, per la tautologia è quello che
abbiamo precedentemente esemplificato paragonandolo
all’utilità del vaccino.
Le proposizioni della logica esprimono le regole
generali della sintassi di un qualunque linguaggio
segnico. A queste regole devono essere riconducibili
tutti i modi di produrre proposizioni linguistiche. Ma
naturalmente l’insieme delle proposizioni linguistiche
corrette non comprende tali regole; stavolta non perché
propriamente insensate (errate), ma perché vuote di senso
(sinnlos) rispetto a tale insieme. Il Tractatus mostra le
regole di produzione di proposizioni corrette; ma queste
regole sono uno scheletro formale che non può essere
propriamente detto da un linguaggio corretto; questo non
dice, infatti, la sua struttura, ma la mostra; dire ciò che
il linguaggio mostra risulta tautologico e dunque vuoto di
senso; il linguaggio si usa per dire delle cose; non
rientra nel suo uso corretto il dire le proprie stesse
regole.
A tal proposito afferma Wittgenstein nei Quaderni: «
La proposizione esprime ciò che io non so; ma ciò, che io
devo sapere per poterla enunciare, lo mostro in essa» (Q
25. 10.14).
E sulla stessa scia, nel Tractatus: « Se conosciamo la
sintassi logica d’un qualsiasi linguaggio segnico, sono
già date tutte le proposizioni della logica» (T 6.124).
Ovvero, ciò che propriamente si mostra nel corretto uso
della sintassi di un qualsiasi linguaggio naturale, è
l’intera sua struttura interna e la totale comprensione
semantica (da parte del parlante) del linguaggio logico
che determina ogni possibile lingua naturale. Si mostra,
dunque, l’intera logica proposizionale nella semplice
conoscenza della sintassi della propria lingua. Ma ciò
che, con ciò, si mostra non può a sua volta, essere detto,
cioè inserito in un’asserzione coerente sullo stato di
cose del mondo reale.
Così, nel caso dei maggiori problemi filosofici, non
dovremo stupirci di essere spesso di fronte a costrutti
che propriamente non sono problemi strettamente sensati. La
risoluzione di quesiti che ogni uomo può sentire come
fondamentali per la propria esistenza, come quelli che
emergerebbero da proposizioni etiche o estetiche, non
possono essere oggetto di una sensata esperienza
linguistica e la loro pur capitale importanza resta fuori
dagli uffici della filosofia, la quale, al contrario, in
presenza di simili pseudo-problemi, potrà solo limitarsi a
chiarificare le operazioni logico-linguistiche dalla
confusione in cui incorrono nel momento in cui non
rendono più immagini sensate di stati di cose. In questo
senso la logica, non potendo uscire dal limite posto
dalle regole della raffigurazione, non potrà far altro
che «curarsi di se stessa» (T 5.473). Questo a voler dire
che essa non può venire in aiuto della risoluzione di
alcun problema metafisico, poiché non può propriamente
affermare nulla che non si esprima attraverso segni che si
usino per descrivere certi significati reali, facenti parte di
un mondo i cui unici fatti sono connessioni di stati di
cose di cui si possano costruire modelli totalmente
analizzabili. A tal proposito Wittgenstein indica come
paradigma per l’asserzione di qualunque verità sul mondo
le proposizioni delle scienze naturali ed in particolare
quelle della meccanica (vedi T 6.343).
Vediamo ora, per concludere in merito al Tractatus, di
fornire un’ulteriore esempio dell’utilizzo del termine
non-senso che risulti emblematico per la concezione del
linguaggio che abbiamo fin qui delineato e che mostri,
altresì, la strettissima dipendenza della sensatezza dal
carattere d’immagine di una proposizione. Discuteremo
tale esempio anche più avanti, nel confrontarlo con le
nuove acquisizioni wittgensteiniane delle Ricerche.
Consideriamo, dunque, la proposizione 5.4733, nella
quale viene asserito che: «“Socrate è identico” non dice
nulla, perché alla parola “identico” quale aggettivo non
abbiamo dato alcun significato (…)». A questa asserzione
fa da controcanto la 5.5303: «Detto di passaggio: Dire di
due cose, che esse sono identiche, è un nonsenso; e dire
di una, che essa è identica a se stessa, dice nulla».
La prima delle due precedenti proposizioni si esprime
circa la validità di un’espressione che non ci
meraviglieremmo di trovare in qualunque linguaggio
comune. Il problema che sorge con l’utilizzo del termine
“identico” quale aggettivo (cioè nel ruolo che gli
conferisce la grammatica superficiale della lingua) è,
come sempre, un’inconciliabilità della proposizione così
formulata con la sua capacità di descrivere un’immagine
del mondo (vera o falsa che sia). Non esiste, infatti,
nel mondo uno stato di cose che possa legittimare
l’utilizzo del termine “identico” come concetto sotto il
quale far cadere l’oggetto “Socrate”. Il principio
d’identità è una ben nota tautologia della logica
elementare: ma questa non può, in nessun caso, essere
trasformata in un’asserzione intorno ad uno stato di
cose. Le relazioni espresse in matematica dal simbolo
“=”, l’eguaglianza e l’identità, sono considerate da
Wittgenstein concetti formali e liquidati come non
applicabili linguisticamente, a differenza dei concetti
reali, vertenti su uno stato di cose ben determinato.28 28 Infatti si asserisce in T 5.534: «E ora vediamo che proposizioni apparenticome: “a a”,” a b . b c a c”, “(x) . x a”, etc., non possono
Per illustrare brevemente il modo in cui Wittgenstein
intenda parlare di concetti formali traggo un esempio molto
chiaro da H.O. Mounce:
‘Piove’ dice qualcosa; «‘Piove’ è una proposizione» non dice nulla.
‘Piove’ mostra di essere una proposizione, mostra di essere
intellegibile, nel dire qualcosa; tentando di dire che lo è (una
proposizione), non aggiungiamo nulla. Dunque ‘x è una proposizione’ è un
esempio di ciò che Wittgenstein chiama un concetto formale, in
contrapposizione a un concetto reale.29
Ed infatti: in che reale stato di cose dovrebbe trovarsi
Socrate perché la relazione di identità possa essere
espressa mediante un’immagine articolata? Avendo
denominato (non raffigurato) Socrate notiamo che esso
mostra l’identità con se stesso; ma una simile relazione
non può essere raffigurata mediante il modello
proposizionale descritto dal Tractatus. Alla presunta
relazione di identità non corrisponde alcuna relazione
tra oggetti che si possa rappresentare figurativamente.
Da ciò vediamo, ancora una volta, che non si possono
usare termini per rappresentare (e quindi dire) ciò che
viene mostrato, poiché nella loro carenza figurativa essi
perdono ogni possibile senso. Diventano quindi,
affatto scriversi in un’ideografia corretta».29 H.O. Mounce, Introduzione al “Tractatus” di Wittgenstein, trad. it. di M. Andronico,Marietti, Genova 2000.
propriamente, inutili. Così nella 5 47321 troviamo che: «Il
rasoio di Ockham naturalmente non è regola arbitraria o
giustificata dal suo successo pratico. Esso detta che
unità segniche innecessarie non significhino nulla. Segni,
che servono a un fine, sono logicamente equivalenti;
segni, che servono a nessun fine, sono logicamente privi
di significato».
Ritroviamo, dunque, il tema della non-necessarietà;
di quello che avevamo chiamato surplus di informazione
(nel senso di un incremento apparente di determinazione
che si riveli tautologico o comunque non qualificabile
logicamente)30 come base fondamentale per riconoscere i
tratti del non-senso in Wittgenstein, almeno nel suo uso
più generale. Un punto cardine della maniera in cui
questa concezione si declina nel Tractatus è costituito dal
processo di completa analizzabilità di una proposizione.
Abbiamo visto infatti come tale procedimento possa
arrivare a verificare la corretta struttura figurativa di
un’espressione linguistica riconducendo la grammatica
superficiale della lingua alla sua essenziale struttura
logica e raffigurativa.
30 A tal proposito mi sembra che un esempio eccellente per visualizzare ilconcetto wittgensteiniano di non-senso in un modo più ampio di quello tematizzatodal Tractatus ed, in linea di principio, recepibile in maniera utile e terapeuticada qualunque metodo di ricerca teorica, sia rappresentato dalla frase che chiudeT 4.1272: «È altrettanto insensato dire “v’è solo un 1” quanto sarebbe insensatodire: “2+2, alle ore 3, è eguale a 4”».
Ma il fatto che un tale processo di analisi possa
eventualmente far perdere qualcosa degli aspetti realmente
determinati da una struttura linguistica comunemente in
uso, sarà a sua volta un cardine dello spirito che
guiderà la meticolosa indagine del Wittgenstein delle
Ricerche.
Lo stesso Wittgenstein, nelle fasi successive del suo pensiero,
suggerì che l’analisi potesse essere concepita in modo più ampio, come
processo in cui una forma di espressione (fonte di confusioni
filosofiche) viene rimpiazzata da un’altra (filosoficamente più chiara,
RF, 90). In questa fase egli respinse l’idea che ci potesse essere
un’analisi finale o completa di qualcosa, e manifestò addirittura dubbi
sulla tesi che l’analisi giovi necessariamente alla comprensione, ossia
che la forma analizzata di un enunciato mostri ciò che l’enunciato non
analizzato intendeva davvero: è vero che, se si ha solo la forma non
analizzata, manca l’analisi; se invece si conosce la forma analizzata, si
ha tutto, ma permane il dubbio: «non posso dire che in questo, come
nell’altro caso, un aspetto della cosa va perduto?» (RF, 63).31
Le Ricerche filosofiche
Una volta edito (non senza una certa insoddisfazione
personale) il Tractatus, Wittgenstein si lascia alle spalle per
diversi anni il lavoro filosofico, intraprendendo diversi
mestieri (il maestro elementare, l’aiuto-giardiniere,31 H. Sluga, Wittgenstein, op. cit. p. 39-40.
l’architetto per la casa della sorella) nello svolgimento dei
quali potrebbe forse intravedersi la ricerca di un’esperienza
pratica della costruzione del senso, specie nel periodo della
progettazione architettonica.
Per diversi anni Wittgenstein si mantiene ben lontano da
qualunque lavoro accademico e non mantiene alcun contatto con
Cambridge, fatta eccezione per la corrispondenza e le visite
che scambia col giovane logico Frank Ramsey.
Dopo la fondazione del Circolo di Vienna nel 1929,
l’autore del Tractatus, sebbene preso a modello dagli studiosi
austriaci attorno ai quali si costruisce tale realtà, si
rifiuta sempre di appartenere al circolo, pur non disdegnando
le occasioni di colloquio con i suoi membri.
In questa fase saranno proprio gli scambi di idee con
Ramsey e l’influenza delle ricerche intuizionistiche di Brower
e Weyl che orienteranno marcatamente il nuovo indirizzo preso
dalle riflessioni di Wittgenstein e che segneranno la seconda
fase del suo insegnamento inglese, caratterizzata da una
profonda e simmetrica revisione delle tesi del Tractatus,
confluita e sintetizzata poi nei paragrafi delle Ricerche
filosofiche, manoscritto che non vede la luce se non dopo la
morte del suo autore.
Dal contatto con le ricerche di Ramsey, la riflessione
wittgensteiniana eredita alcune impronte fortemente
pragmatiste, in particolare nel dar voce a quelle componenti
dei sistemi linguistici che non erano strettamente
comprensibili in un quadro di analisi logica radicale (sul
modello del Tractatus). La riflessione di Wittgenstein si apre
alla considerazione di variabili nuove, o perlomeno cambiate
di segno, rispetto alla sua prima opera, come il concetto di
uso (Gebrauch) a fondamento del significato degli enunciati; i
quali assumeranno più le vesti di veri e propri comportamenti,
piuttosto che di immagini logiche derivabili da un'unica forma
preposizionale. O ancora, il tema (forse il più celebre nel
corso della lunga fortuna delle Ricerche) del gioco linguistico,
quindi della valenza strumentale del significato, della sua
legalità pragmatica.
Questi concetti, a ben vedere, sono il frutto di un lungo
periodo di riflessione, condotto da Wittgenstein almeno dagli
anni ’30 in poi, attraversando il periodo dei contatti con il
Circolo di Vienna, fino a quello del suo ritorno ad Oxford. Le
conquiste teoriche di questo lungo periodo richiedono al loro
autore un gran dispendio di energia intellettuale, come
documentato da almeno tre dei manoscritti (ordinati dai suoi
esecutori testamentari) nei quali si può chiaramente
constatare l’affiorare dei temi che terranno banco nelle
Ricerche.
Questi testi sono noti coi nomi di: Osservazioni
filosofiche, Libro blu e libro marrone e Grammatica filosofica.32
32 Rispettivamente: L. Wittgenstein, Philosophische Bemerkungen, a cura di R. Rhees,Blackwell, Oxford 1964, trad. it. Osservazioni filosofiche, a cura di M. Rosso,
Dal lavoro qui raccolto doveva emergere una rinnovata
concezione del linguaggio e delle sue forme, che, pur
mantenendo alcuni fondamentali spunti programmatici già
propri del Tractatus (come l'idea della filosofia come
chiarificazione terapeutica del linguaggio, l'attenzione
alla dimensione dell'uso dei termini grammaticali –
seppure in una sua ridefinita definizione – nonché, come
vedremo una certa parte dell'idea definitoria del non-
senso), re-indirizza la linea di ricerca wittgensteiniana
verso il mondo della quotidianità linguistica e dei
comportamenti che in essa si configurano orientando
aspettative di senso comuni fra i parlanti, comuni obiettivi
espressivi e determinati comportamenti simbolici.
Osserva Gargani che:
Dall'incontro con Ramsey Wittgenstein doveva essere indotto a
confrontare le espressioni linguistiche con le funzioni e gli
scopi cui esse assolvono nella scienza e nella vita quotidiana, e
quindi con le modalità e le categorie d'uso secondo le quali
vengono impiegate. Doveva, inoltre, essere indotto ad abbandonare
progressivamente la concezione dell'essenza raffigurativa del
linguaggio, e ad orientare l'analisi non più secondo un modello
esclusivo d'interpretazione, ma in funzione di uno schema
Einaudi, Torino 1976; idem, The Blue and Brown Books, a cura di R. Rhees, Blackwell,Oxford 1958, trad. it. Libro blu e libro marrone, a cura di A.G. Conte, Einaudi,Torino 1983; idem, Philosophische Grammatik, a cura di R. Rhees, Blackwell, Oxford1969, trad. it. Grammatica filosofica, a cura di M. Trinchero, La Nuova Italia,Firenze 1990.
interpretativo più largo ed elastico, conforme alla varietà delle
modalità d'uso che sono disponibili nei confronti degli strumenti
simbolici.33
Conseguentemente a ciò l'obiettivo della descrizione
di una filosofia intesa come grammatica, non sarà più un
astratto schema logico al quale ricondurre tutte le
affermazioni spurie del linguaggio quotidiano, bensì
questo stesso linguaggio nel suo costituirsi come
strumento, comportamento e forma di vita.
Così si legge nelle Osservazioni: ‹‹Il linguaggio
fenomenologico o 'linguaggio primario', come io lo
chiamai, non mi si presenta ora come scopo […]. Cioè, se
si descrive la classe dei linguaggi, si è allora mostrato
il loro essenziale››34.
O, ancora: ‹‹L'analisi logica è l'analisi di qualcosa
che abbiamo, non di qualcosa che non abbiamo. Essa è
dunque l'analisi delle proposizioni come esse sono.
(Sarebbe strano se la società umana avesse parlato sino
ad ora senza mettere insieme una proposizione
corretta.)››35.
Due elementi andrebbero sottolineati nei passi appena
citati: nel primo il riferimento implicito al Tractatus, il
cui ruolo di pietra di paragone per la comprensione della33 A.G. Gargani, Wittgenstein, Laterza, Bari 2007, p. 50.34 L. Wittgenstein, Osservazioni filosofiche, cit. in ibidem, p. 51.35 Ivi.
ricerca wittgensteiniana viene fortemente sottolineato
anche nella prefazione delle Ricerche. Nel secondo, il
riferimento esplicito alla comunità dei parlanti umani e
alla sua storia, elemento questo che denuncia già
l'inserimento di nuove variabili e di nuovi orizzonti
all'interno della riflessione sul linguaggio per come si
configurerà nelle Ricerche. Queste sembrano assumere già un
certo tono antropologico, piuttosto che logico-formale;
un tono che si avvicini di più alle diverse colorazioni
dei comportamenti linguistici e delle regole che
presiedono a questi, entro la definizione collettiva del
senso.
Del confronto col Tractatus, dunque, che già
Wittgenstein stesso ritiene importante per chi consideri
un approccio efficace all'insieme dei suoi risultati
teorici, focalizzeremo qui, nello specifico, i passi che
possano aiutarci a comprendere i cambiamenti nella
morfologia del nonsenso nella nuova prospettiva dell’opera
ad esso simmetrica; e che possano condurci, magari, ad
una visione complessiva dell'argomento che sintetizzi i
risultati ottenuti da entrambe le opere.
La prima parte delle Ricerche (§1 – 64 circa) inizia
subito un dialogo critico con le tesi del Tractatus,
procedendo allo smantellamento dei presupposti
fondamentali su cui questo poggiava e che abbiamo visto
essere collegati essenzialmente alla natura raffigurativa
del linguaggio e quindi all’idea della proposizione come
immagine di uno stato di cose reale o possibile.
Per accorgerci della radicalità raggiunta da tale
smantellamento basta leggere alcune delle primissime
sezioni del testo: nella §5 leggiamo che
il concetto generale di significato della parola circonda il
funzionamento del linguaggio di una caligine, che rende
impossibile una visione chiara. – La nebbia si dissipa quando
studiamo i fenomeni del linguaggio nei modi primitivi del suo
impiego, nei quali si può avere una visione chiara e completa
dello scopo e del funzionamento delle parole. (RF 5).
Ciò che salta subito agli occhi da queste righe
sembra essere una decisiva inversione dei rapporti tra
struttura logica del linguaggio e sua forma superficiale.
Quest’ultima era stata dichiarata, nel Tractatus, come
latrice di inganni e mistificazioni conducenti, in ultima
analisi (causa la dimenticanza della struttura logica),
ad un uso insensato del linguaggio stesso. Ma ora la
posizione dei due termini appare totalmente invertita: è
la rigidità della struttura logica, rappresentata qui dal
tassello fondamentale del significato (nel senso dell’idea
di significato), a dover essere riconosciuta come una
falsa conoscenza, un abbaglio da considerare, senza mezzi
termini, come «caligine» del pensiero. L’impiego più
immediato e spontaneo del linguaggio accorre, invece, a
dissipare tale nebbia e a ricondurre l’osservazione dello
studioso sull’unico piano di verifica lecita, che è
quello dell’uso e dello scopo delle espressioni
linguistiche, due fattori rispetto ai quali il
significato assume il suo ruolo funzionale.
L’analisi del linguaggio deve occuparsi di esso così
com’è, senza cercare astrazioni logiche come il «concetto
generale di significato», o la forma logica universale
della proposizione. Su questo piano il concetto di
significato andrà di volta in volta rinegoziato a seconda
degli scopi e delle applicazioni cui un enunciato assolve
entro il gioco linguistico nel quale occorre. L’analisi
wittgensteiniana ha, in certo modo, abbandonato il
terreno della riduzione logica atomistica, per
avventurarsi su quello della semplice osservazione e
descrizione dell’andamento di una pratica (o attività)
umana, così come essa già si svolge spontaneamente.
Così, dalla precedente definizione in termini di
teoria dell’immagine, il concetto di significato cambierà
decisamente di segno e Wittgenstein potrà scrivere che:
«Il significato di una parola è il suo uso nel
linguaggio» (RF 43).
L’uso effettivo di una parola traccia, per così dire,
i confini della legalità del significato della parola
stessa in un contesto linguistico. Tale uso è messo in
atto e diversificato, scremato (al punto da rendere, in
ultima analisi, il concetto di significato come un
concetto vago, non ben definito)36, all’interno di quei
contesti di convergenza di scopi, aspettative, abitudini
culturali, convenzioni, variabili espressive e
interpretative individuali e sociali, che sono
(sommariamente) i giochi linguistici.
Ma nella stessa § 43 Wittgenstein avverte che la
possibile definizione di significato che abbiamo appena
dato, non deve essere considerata come l’unica
immaginabile (ché altrimenti ricadremmo nella trappola
dell’idea di un ben definito e astraibile concetto di
significato a cui ricondurre tutti i casi singoli), ma
come quella che si potrebbe indicare come valida «per una
grande classe di casi», ma non per tutti. Questo a riprova
dell’estrema versatilità di ogni posizione espressa in
quest’opera e dell’indeterminatezza generale che assume
l’indagine linguistica, nell’ottica di un’indagine su
pratiche e forme di vita umane. Non assumiamo dunque alcuna36 L’ipotesi di Dummett, circa la nascita dell’idea di significato come uso, èche una simile definizione si ricolleghi ad un criterio verificazionista, nellacui ottica la comprensione del significato di qualcosa coincide con la capacità(o il metodo) di verificarlo nella molteplicità dei contesti enunciativi. Cfr.M. Dummett, 1976: What is a Theory of Meaning (II), cit. in M. Andronico, D. Marconi, C.Penco, op. cit. p. 195.
definizione esclusiva del significato di un termine. Non
esclusiva nemmeno di una posizione simile a quella del
Tractatus, secondo la quale (in accordo con la teoria
raffigurativa), il significato di un enunciato, una volta
scomposto nei suoi costituenti ultimi, poteva coincidere
con un preciso pezzo di realtà, come ad esempio il
referente di un nome proprio.37 Infatti, prosegue
Wittgenstein, «talvolta il significato di un nome si
definisce indicando il suo portatore» (RF 43). Ciò che
potrebbe sembrare riavvicinarci ad una concezione
corrispondentista del significato come quella del Tractatus
– cioè una simile conclusione della § 43 – ne prende
però ( a ben guardare) le dovute distanze. Wittgenstein
ammette, infatti, che (in certi casi) il significato di
un nome possa essere ricondotto (quasi ostensivamente) al
suo portatore, cioè al referente individuale del nome in
questione; ma ci avverte con decisione di non
identificare mai del tutto il significato del nome con
l’individuo che si fa suo portatore. Se ciò fosse lecito
osserva l’autore delle Ricerche, un nome proprio cesserebbe
di avere senso nel momento in cui il suo referente
individuale cessasse di esistere (RF 39 e 79). Ma è pur
37 Col termine nome proprio si intendono qui (in accordo con la teoria delle descrizionidefinite di Russell) tutti i casi in cui ci si riferisca ad un oggetto individualemediante un nome come “Platone”, o (equivalentemente) mediante una descrizionericonducibile alla forma: “Quell’x tale che x è il filosofo greco autore dellaRepubblica”.
vero che un nome di persona continua ad avere senso anche
quando la persona che lo portava fosse morta. «Se il
signor N. N. muore si dice che è morto il portatore del
nome, non il significato del nome. E sarebbe insensato
parlare in questo modo, perché se il nome cessasse di
avere un significato, non avrebbe senso dire: “Il signor
N. N. è morto”» (RF 39).
Il contenuto di questa sezione getta luce, al
contempo, sul tema del significato come uso e su quello
della morfologia del nonsenso nelle Ricerche.
Un nome può avere uno specifico referente oggettuale
al quale esso è legato mediante un rapporto che è
esplicitabile attraverso una descrizione definita à la
Russell. Il legame tra tale oggetto individuale e il suo
nome può venire ben legittimato dall’uso che facciamo di
questo nome in una frase. Ma ecco che Wittgenstein ci
mostra come il tribunale di fronte al quale è posto il
significato abbia cambiato di sede e dalla astratta
corrispondenza logico-raffigurativa, si sia spostato
nello scenario, ben più vario e indefinito, della
pragmatica degli usi linguistici.
Un certo significato è valido se il linguaggio ne
contempla effettivamente l’utilizzo nelle sue
enunciazioni. La validità significazionale dell’ostensione
(l’indicare il portatore del nome) resta in piedi
fintantoché essa viene legittimata, non più da una
struttura logica di connessione linguaggio-mondo alla
maniera del Tractatus, ma da una effettiva pratica di
utilizzo linguistico. Essa risulta legittima finché si
osservi che gli usi che ricopre siano in effetti
compatibili con il meccanismo dell’ostensione: “Il signor
N. sta parlando”, ad esempio; o ancora “Ecco il signor
N.”. Queste frasi significano ostensivamente non perché
l’ostensione sia la forma logica fondamentale del
significato in sé, ma perché la lingua ne consente e ne
approva pragmaticamente l’uso entro i suoi contesti
enunciativi. Ma è proprio questo contesto enunciativo,
questo contesto d’uso di un termine che ne garantisce, in
ultimo, il significato. Un nome proprio, infatti,
continua ad aver senso anche quando il suo utilizzo
linguistico sia incompatibile con la definizione
ostensiva attraverso il portatore, ovvero quando il
portatore del nome abbia cessato di esistere realmente.
In questi casi il nome proprio continua ad essere
proficuamente utilizzato in svariati contesti e, dunque,
continua ad avere propriamente senso. Qui il nonsenso,
invece, è indicato in maniera negativa, notando, cioè,
l’insensatezza dell’affermare che un’espressione come “Il
signor N. è morto” non abbia significato a causa del
venir meno del riferimento ostensivo.
Che genere di nonsenso è questo? Ci sembra evidente
considerarlo come una sorta di incidente, dovuto allo
scontrarsi di una convinzione filosofica con un reale e
consistente ostacolo linguistico, rappresentato in ultima
analisi da un uso semantico ben radicato ed efficiente
all’interno di una lingua. La sua forma sarebbe allora
quella di uno scontro vero e proprio (che crei dei
bernoccoli mentali), tra il tentativo di definire una forma
logica fissa e il vero zoccolo duro del sistema
linguistico, ovvero l’insieme indeterminato dei suoi usi,
della sua pragmatica comunicativa.
L’insensatezza nasce qui dal cercare definizioni e
strutture verso cui ricondurre i paradigmi di una pratica
umana (che è già pienamente legittima così com’è),
allontanandola dal campo d’osservazione effettivo in cui
si mostrano i suoi modi di utilizzo dei termini
linguistici. Dal cercare quindi significati e sensi che
possano prescindere dall’uso effettivo che se ne fa negli
svariati contesti linguistici.
Ciò che non si usa (è interessante notare come questa
affermazione, cambiata di segno, fosse già presente nel
Tractatus) nel linguaggio, non ha un senso linguistico.
Dunque conseguentemente a quanto abbiamo detto circa
un nome proprio e il suo significato, notiamo che: «uso
il nome “N” senza un significato fisso» (RF, 79). Ma,
prosegue Wittgenstein, «ciò è tanto poco pregiudizievole
al suo uso quanto all’uso di un tavolo sarebbe
pregiudizievole il fatto che esso poggi su quattro gambe
anziché su tre, e quindi qualche volta traballi» (ivi).
Con ciò si esprime, pare, la totale rottura tra: rigidità
di una forma logica corrispondente all’idea di
significato e versatilità dei contesti linguistici entro
cui questo si dà realmente. Un termine la cui forma logica
non sia saldamente ancorata ad un terreno, non viene solo
perciò abbandonato dalla rete della prassi linguistica.
Nello scegliere un frammento delle Ricerche in cui
ricorra il termine nonsenso, da porre a paragone con
quello scelto per il Tractatus, consideriamo un’espressione
che sia particolarmente espressiva di questo scontro
deciso tra analisi logica e descrizione degli usi
linguistici, per come il filosofo austriaco lo dipinge
nella sua seconda opera.
Nella sezione 39 si afferma, a proposito della
connessione raffigurativa tra nome e oggetto (o portatore
del nome):
Se però «Nothung» è il nome di un oggetto, quando Nothung è in
pezzi questo oggetto non c’è più; e poiché in tal caso al nome non
corrisponderebbe alcun oggetto, il nome non avrebbe alcun
significato. Ma allora nella proposizione «Nothung ha una lama
tagliente» ci sarebbe una parola priva di significato e pertanto
la proposizione sarebbe un non senso. Ma ha un senso; (…). (RF.
39).
Le ultime frasi di questo passo sembrano quasi
intrappolate, dal riconoscimento di una contraddizione
evidente, in una situazione di stallo argomentativo. Ma non
stanno così le cose per Wittgenstein: quando egli afferma
che la frase circa la spada “Nothung” «ha un senso»,
sembra farlo perentoriamente e senza lasciare troppo
spazio a domande come: “Perché ha un senso?”. La frase in
questione è evidentemente compresa entro i consueti usi
linguistici ammessi dai nostri contesti enunciativi. Qui
nelle Ricerche, infatti, ci basta riconoscere una frase
come effettivamente pronunciabile in un determinato
contesto, per accorgerci che essa ha senso. Non occorre
un’analisi che vada oltre il riconoscimento intuitivo del
senso di una frase, perché questa sia ammissibile dalla
descrizione della pratica linguistica.
Dire di Socrate che fosse «identico»38, nel Tractatus,
costituiva un nonsenso in virtù della sua vacuità
raffigurativa; in virtù del fatto che non avendo a
disposizione uno stato di cose che cadesse sotto il
concetto di «identico», non sarebbe stato possibile
condurre un analisi completa della proposizione in questione.
38 Vedi T 5.4733.
Nell’ottica delle Ricerche, però, concetti aperti e non ben
definiti possono in linea di principio essere ammessi a
pieno titolo tra le fila di un linguaggio sensato (solo a
patto che svolgano una funzione nel linguaggio ordinario,
cioè che possano orientare e soddisfare delle aspettative
di senso comuni ai partecipanti ad un certo gioco
linguistico) e questo si deve, fondamentalmente, alla
messa in crisi dell’univocità dei criteri di legalità del
significato linguistico.
È questo il maggiore cambiamento dal Tractatus: non
tanto che la proposizione non possa più essere
un’immagine della realtà (può capitare che, entro certi
limiti, si comporti così), ma che con lo svolgere una
funzione meramente raffigurativa del reale non si possa
più spiegare interamente il significato dei termini
linguistici e dunque svelare il loro vero senso;39 che non
esista più un analisi completa della proposizione, capace di
ridurla ai suoi componenti ultimi ed atomici.
39 «Dicendo: “ogni parola di questo linguaggio designa qualcosa” non abbiamoancora detto proprio niente» (RF 13). La funzione raffigurativa potrà,
tuttalpiù, contraddistinguere un certo uso che si può fare di certi termini, ma
non sarà mai la l’unica forma in cui l’attività linguistica si manifesti,
limitandosi, invece, a rappresentare solo una certa forma della proposizione.
Ma, si chiede Wittgenstein, «quanti tipi di proposizioni ci sono? (…) Di tali
tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi differenti d’impiego di tutto ciò
che chiamiamo “segni”, “parole”, “proposizioni”» (RF 23).
Ora, che la possibilità di una tale analisi non stia
più a fondamento del senso linguistico permette a
Wittgenstein di asserire, per una certa frase, «ha un
senso», senza dover giustificare quest’asserzione se non
con il mostrare l’evidenza dell’uso.
Ma anche nel Tractatus ci veniva indicato di
«considerare l’uso»40 dei termini per renderci conto del
loro significato.
Cos’è cambiato allora, nella natura del nonsenso?
Nel Tractatus questo si generava quando in una
proposizione fossero inseriti termini oscuri, che non
riuscissero a cogliere alcun oggetto reale come proprio
riferimento, risultando così superflui e infondati dal
punto di vista di un significato definito dalla teoria
dell’immagine wittgensteiniana. È il caso di «2 + 2, alle
ore 3, è eguale a 4» (T 4.1272). Questa asserzione non
può essere utilizzata. Ma essa non è insensata, in quanto
posta arbitrariamente al di fuori dall’uso linguistico;
piuttosto il fatto che non si usi dipende necessariamente
dal fatto che essa contenga dei termini che non
soddisfino la funzione raffigurativa. Al contrario
sembrerebbero dire le Ricerche, è solo a partire dalla
presenza o dall’assenza di una regola d’utilizzo di una
parola che si può derivare la sua sensatezza linguistica,
40 Vedi T 3.326.
indipendentemente dal fatto che questa svolga o meno una
funzione raffigurativa. Se manca la regola d’uso, manca
anche il senso della parola. Tale regola non è altro che
la risposta alla domanda: “In che contesto enunciativo è
ammissibile una tale frase?”. Se una frase non si combina
con alcun contesto enunciativo, essa non ha senso (almeno
finché non si crei, dalla magmatica attività vitale della
lingua, un nuovo contesto ad essa adatto).
Mi sembra importante notare, però, che un certo modo
di presentarsi del nonsenso rimanga invariato in entrambe
le opere: ed è il modo che abbiamo già indicato essere
quello della non-informatività, del superfluo, di ciò che (pur
possedendo la forma-proposizione) non si lascia riportare al
linguaggio ordinario «nel quale ha [dovrebbe avere] la
sua patria» (RF 116).41 Nel caso del Tractatus i motivi per
cui un termine sfugge all’uso e non consente applicazioni
sono radicalmente diversi, nella loro natura puramente
logico-formale, da quelli che valgono nelle reti
prassiologiche delle Ricerche, ma, ci sembra di capire, che
un tratto distintivo del nonsenso possa essere rilevato,
in entrambi i casi, come lo sfuggire di un’espressione ad
ogni possibilità d’uso.
41 Naturalmente, nell’ottica delle Ricerche, il superfluo non sarà più ciò che noninforma in senso logico, ma ciò che non ha nessuna applicazione funzionale aigiochi linguistici, come uno strumento la cui manovra non comporti alcuneffetto.
Conclusione. Wittgenstein architetto e terapeuta.
Nel concludere il presente lavoro vorrei prendere per
un momento in considerazione un altro tema che emerge,
pur con diverse caratterizzazioni, sia dal Tractatus che
dalle Ricerche e che sembra, per così dire, percorrere
l’anima stessa di tutta la riflessione wittgensteiniana.
Si tratta della concezione della filosofia (o di quella
forma di filosofia accettabile entro i limiti tracciati
ora dal Tractatus, ora dalle Ricerche) come terapia diretta
alla soluzione (nel vero senso del discioglimento) dei
problemi che la mente dell’uomo è inevitabilmente portata
a formulare. Si tratta, naturalmente, di uno fra i temi
più dibattuti, a cui, tra gli altri, dedica una certa
attenzione uno dei più celebri interpreti del filosofo
austriaco, cioè Anthony Kenny.
Questi legge la particolare attenzione dedicata da
Wittgenstein ai risvolti terapeutici del suo metodo di
indagine, alla luce di un possibile contatto teorico con
l’idea di fondo della psicanalisi; ciò sembrerebbe vero,
in particolare, laddove l’autore delle Ricerche parli di
passaggio da un nonsenso occulto in un nonsenso palese, durante
l’analisi delle pratiche linguistiche. Così possiamo
portare alla coscienza meccanismi del linguaggio e del
pensiero (come il concetto stesso di mente), immaginando
di farli lavorare come meccanismi reali con regole in
qualche modo illustrabili (se possibile), piuttosto che
lasciarli nell’irriflessività del senso comune, la quale
può fornire alla “cattiva” filosofia, un ottimo terreno
di crescita di metafisiche e mitologie deleterie per il
benessere spirituale dell’uomo.42
Il linguaggio comune, in sostanza, è sempre (pur
nella sua semplicità) una via tortuosa e stratificata,
dove il nonsenso alligna come una vorace erba selvatica.
Nel Tractatus leggiamo che questo succede a causa della sua
struttura superficiale, che ci nasconde la vera forma logica
della nostra grammatica profonda; nelle Ricerche, invece,
l’uso comune del linguaggio risulta essere, pur
rivalutato secondo una prospettiva totalmente differente,
al contempo l’unico specchio in cui osservare per
descrivere cosa il linguaggio sia (nel senso di come
funzioni); e, tuttavia, un medium in cui si rivela la
forte mancanza di perspicuità della nostra grammatica e la
nostra difficoltà a comprendere le parole che usiamo,
all’interno dei loro reali meccanismi di costruzione del
senso. È, inoltre, un terreno percorso da tutte quelle
“deleterie” abitudini filosofiche che (come quelle
dell’autore del Tractatus…) cercano di sondare una presunta42 Cfr. A. Kenny, Wittgenstein sulla natura della filosofia, in M. Andronico, D. Marconi, C.Penco, op. cit.
profondità essenziale delle parole, senza curarsi della
corretta descrizione del loro uso di superficie (RF 92).
In ogni caso, insomma, l’atteggiamento teorico
wittgensteiniano, che non segue dottrine né ne crea di
nuove, che cerca una pratica filosofica in grado di
mettere l’individuo in condizione di «smettere di
filosofare quando vogli[a]»,43 all’insegna del
raggiungimento della quiete mentale come obiettivo
principale del domandare chiarezza, può apparire (oltre
che problematico e a volte contraddittorio) dotato di una
particolare valenza strumentale. Di un principio
procedurale che subordini l’attività filosofica in sé ad
i suoi risultati in campo spirituale, per così dire, in
termini di risoluzione dei crucci teorici di cui è irta
la mente (linguistica) umana.
Non è una particolare forma di pensiero l’obiettivo
della ricerca, ma il raggiungimento, anche mediante vie
differenti, di uno sgravio spirituale.
Mi sembra a questo punto, importante sottolineare che
una concezione del proprio metodo di lavoro che si
esprime con queste stesse parole (non della filosofia
però, ma dell’architettura) veniva fortemente espressa,
quasi nello stesso periodo temporale, dal celebre
architetto e direttore della Bauhaus, Ludwig Mies Van de
43 RF 133.
Rohe.44 L’importanza di questo collegamento mi sembra
sottolineata, non soltanto dalla pratica del giovane
Wittgenstein come architetto (nella quale forse potremmo
ritrovare la sua intera metodologia teorica incarnata)45, ma
anche dal possibile collegamento indiretto tra i due
personaggi, che sarebbe potuto essere mediato da amicizie
comuni come quelle di Karl Kraus e Adolf Loos (questi
ultimi dei veri e propri riferimenti teorici per il
filosofo austriaco). L’architettura di Van de Rohe mira
ad obiettivi estremamente simili a quelli
wittgensteiniani (specie del Wittgenstein del Tractatus):
la risoluzione dei problemi dell’uomo contemporaneo, dei
suoi problemi esistenziali tradotti in termini costruttivi;
la forma del costruire come via per la risoluzione di
tali problemi, in modo da liberare lo spirito a più alti
fini.
Ho motivo di credere, in buona sostanza, che una
lettura incrociata e parallela del Tractatus (e delle
successive riflessioni comunque dedicate al tema del
nonsenso) e degli Scritti di Van de Rohe, possa portare alla
luce delle affinità metodologiche estremamente
44 Cfr. L.M. Van der Rohe, Gli scritti e le parole, a cura di V. Pizzigoni, Einaudi,Torino 2010.45 Come testimonia H. Sluga, pare che la sorella di Wittgenstein avesse definitoil lavoro del fratello alla sua abitazione come «logica trasformata in casa, nonun’abitazione umana». Vedi H. Sluga op. cit. p. 13.
interessanti, anche, magari, come possibile base per
approfondimenti futuri.
Bibliografia di lavoro
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G.E.M. Anscombe, Blackwell, Oxford 1961; trad. it.
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2. Bibliografia critica
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FRASCOLLA P., Il Tractatus logico-filosoficus di Wittgenstein,
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costruzione logica del mondo, a cura di E. Severino, Milano,
Fratelli Fabbri 1966.
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Der Wiener-Kreis, 1929, ed. it. La concezione scientifica del mondo. Il
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VAN DER ROHE L.M., Gli scritti e le parole, a cura di V.
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