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Critica del testoXIV / 1, 2011

Dante, oggi / 1

a cura di

Roberto AntonelliAnnalisa Landolfi

Arianna Punzi

viella

© Dipartimento di Studi Europei, Americani e Interculturali,“Sapienza” Università di RomaISSN 1127-1140 ISBN 978-88-8334-637-8Rivista quadrimestrale, anno XIV, n. 1, 2011Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 125/2000 del 10/03/2000

Sito internet: http://w3.uniroma1.it/studieuropei/criticacriticatesto@uniroma1.it

Direzione: R. Antonelli, F. Beggiato, P. Boitani, C. Bologna, N. von PrellwitzDirettore responsabile: Roberto AntonelliQuesta rivista è finanziata da “Sapienza” Università di Roma

Viellalibreria editricevia delle Alpi, 32 – I-00198 ROMAtel. 06 84 17 758 – fax 06 85 35 39 60www.viella.it – info@viella.it

Premessa di Roberto Antonelli vii

Problematiche

Roberto AntonelliCome (e perché) Dante ha scritto la Divina Commedia? 3

Andreas KablitzDie Ethik der Göttlichen Komödie 25

Zygmunt G. BaranskiDante poeta e lector: «poesia» e «riflessione tecnica» (con divagazioni sulla Vita nova) 81

Roberto MercuriIl metodo intertestuale nella lettura della Commedia 111

Albert Russell AscoliTradurre l’allegoria: Convivio II, i 153

Teodolinda BaroliniDante’s Sympathy for the Other, or the Non-Stereotyping Imagination: Sexual and Racialized Others in the Commedia 177

Le opere e la ricezione

Natascia TonelliLe rime 207

Roberto ReaLa Vita nova: questioni di ecdotica 233

Raffaella ZanniIl De vulgari eloquentia fra linguistica, filosofia e politica 279

Giorgio StabileDante oggi: il Convivio tra poesia e ragione 345

Antonio MontefuscoLe Epistole di Dante: un approccio al corpus 401

Riccardo VielSulla tradizione manoscritta della Commedia: metodo e prassi in centocinquant’anni di ricerca 459

Paolo CanettieriIl Fiore e il Detto d’Amore 519

Saverio Bellomo«La natura delle cose aromatiche» e il sapore della Commedia: quel che ci dicono gli antichi commenti a Dante 531

Alessia RonchettiDa Beatrice a Fiammetta. Prime risposte boccacciane al modello autobiografico dantesco 555

Simon A. Gilson«La divinità di Dante»: The Problematics of Dante’s Critical Reception from the Fourteenth to the Sixteenth Centuries 581

Riassunti – Summaries 605

Biografie degli autori 617

Critica del testo, XIV / 1, 2011

Raffaella Zanni

Il De vulgari eloquentia fra linguistica, filosofia e politica*

1. Per cominciarePer fornire un quadro degli studi sul De vulgari eloquentia dan-

tesco (d’ora in poi Dve), intendo concentrarmi sul primo libro, che rappresenta il fondamento teorico della dottrina del volgare illustre. Il proficuo apporto di discipline diverse, in particolare della filosofia medievale e della filosofia del linguaggio medievale, ha permesso di cogliere le ragioni della necessità per Dante di postulare un volgare illustre (aulico, cardinale e curiale), tanto a livello di espressione lin-guistica (fondamento della convivenza civile) quanto a livello poeti-co-culturale, come espressione dei valori etici portanti dell’amicabile commertium umano. L’opera resta un unicum nella tradizione medie-vale romanza e italiana: anzitutto un trattato teorico linguistico, ma anche un trattato di poesia e retorica (e in senso più ampio, si potrebbe dire, di politica culturale) che offre al contempo una personale poetica dell’auctor, tracciando una vera e propria storiografia letteraria del volgare illustre all’interno di un saldo impianto dottrinale e filosofico. Nonostante il carattere provvisorio e l’incompiutezza del trattato, cre-do che l’opera dantesca vada riletta, per quanto possibile, nei termini di un progetto unitario, linguistico, poetico e politico1.

* Ringrazio Nadia Cannata per il suo prezioso e amichevole contributo al labor limae.

1. Sul Dve e sulla tradizione del testo esiste una vastissima bibliografia critica. Le tre principali edizioni critiche, alle quali rimanderò nel presente contributo, sono, in ordine di apparizione: Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, ridotto a miglior lezione, commentato e tradotto da A. Marigo, con introduzione, analisi metrica della canzone, studio della lingua e glossario, Firenze 19573 (con appendice a c. di P. G. Ricci; d’ora in poi Marigo); Id., De vulgari eloquentia. 1. Introduzione e testo, a c.

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2. Il Dve e la generazione degli intellettuali a cavallo tra XIII e XIV secolo

Secondo Mengaldo non solo il Convivio, ma anche il Dve sa-rebbe un autocommento2. è indubbio il fatto che i nodi concettuali del trattato rispecchino il senso dell’esperienza lirica dantesca e che contribuiscano alla costituzione di una «storia e geografia» della liri-ca romanza e italiana a cavallo fra XIII e XIV secolo, all’interno del-

di P. V. Mengaldo, Padova 1968 (d’ora in poi Mengaldo 1968) e Id., De Vulgari Elo-quentia, a cura di P. V. Mengaldo, in Id., Opere minori, II, Milano-Napoli 1979 (d’ora in poi Mengaldo); Id., De vulgari eloquentia, a c. di M. Tavoni, in Id., Opere, dir. M. Santagata, I, Milano 2011 (d’ora in poi Tavoni) – un’anticipazione delle principali novità fornite dalla presente edizione sono state offerte da Tavoni nel contributo «De vulgari eloquentia»: luoghi critici, storia della tradizione, idee linguistiche, in Sto-ria della lingua italiana e filologia, Atti del VII Convegno internazionale dell’ASLI (Pisa-Firenze, 18-20 dicembre 2008), Firenze 2010, pp. 47-72. La storia editoriale del testo parte dall’edizione critica curata da P. Rajna, Dante Alighieri, Il trattato «De vul-gari eloquentia», Firenze 1896 (ristampa stereotipa, Milano 1965 [d’ora in poi Rajna 1896]); segue con la scoperta di B e l’inserimento del nuovo testimone nella restitutio textus da parte di L. Bertalot, Dantis Alagherii De vulgari eloquentia libri II, Geben-nae 1920 [ed. or. Francoforte 1917]; quindi da parte di Rajna in Le opere di Dante, testo critico a c. della Società dantesca italiana, Firenze 1921; degne di attenzione sono anche l’ed. a c. di E. Moore e P. Toynbee, in Le opere di Dante Alighieri, Oxford 1924 e il contributo editoriale di A. Pézard, “La rotta gonna”. Gloses et corrections aux textes mineurs de Dante, II, De vulgari eloquentia, Monarchia, Firenze-Paris 1969, pp. 7-51, pubblicato in seguito all’uscita del volume delle opere dantesche da lui curato (Œuvres complètes, Paris 1965). Fra le edizioni commentate che, basandosi sul testo stabilito da Mengaldo, dotano l’esegesi del testo di nuovi spunti interpretativi e di approfondimento, si tengano presenti, quella a c. di C. Marazzini e C. Del Popolo, Milano 1990; quella a c. di V. Coletti, Milano 1991; e quella a c. di G. Inglese, Milano 1998. Si attendono infine, di prossima pubblicazione, due nuove edizioni commen-tate: in Francia sotto la direzione di Irène Rosier-Catach, Dante, L’éloquence en vul-gaire, bilingue, traduction de A. Grondeux, R. Imbach, I. Rosier-Catach, introduction et annotation de I. Rosier-Catach, Paris s.p.; in Italia per cura di E. Fenzi, nell’ambito del progetto di una «Nuova edizione commentata delle opere di Dante» promossa dal Centro Pio Rajna. Mi limito ad indicare infine, in ordine di apparizione, i contributi più recenti sulla tradizione manoscritta antica del Dve, rimandando, per la bibliografia pregressa, ai riferimenti ivi contenuti: A. Rossi, Il codice “Bini” di Berlino e il De vulgari eloquentia, in Id., Da Dante a Leonardo. Un percorso di originali, Firenze 1999, pp. 84-132; C. Bologna, Un’ipotesi sulla ricezione del De vulgari eloquentia: il codice Berlinese, in La cultura volgare padovana nell’età del Petrarca, a c. di F. Bru-gnolo e Z. L. Verlato, Padova 2006, pp. 205-256 e C. Pulsoni, La tradizione “padova-na” del De vulgari eloquentia, in La cultura volgare padovana cit., pp. 187-204.

2. Mengaldo, pp. 3, 4.

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la quale Dante, poeta e intellettuale, colloca anche la propria espe-rienza lirica, alla luce dei dibattiti che avvenivano all’interno delle scuole di retorica, in particolare nell’ambiente bolognese. Tuttavia mi sentirei di poter affermare che se la volontà dantesca di fornire una sistemazione storiografica dell’esperienza poetica in volgare co-stituisce un elemento necessario alla sua argomentazione, lo scopo primario del trattato è di offrire una riflessione di carattere univer-sale sullo status ontologico del linguaggio e sulla sua funzionalità, con valore modellizzante, che viene inserita da Dante all’interno di uno specifico programma di rinnovamento storico-culturale. Tale riflessione, che filtra in maniera brillante e originale il portato del-le principali discussioni filosofiche, teologiche e poetico-retoriche del suo tempo, è condotta ragionando sia a livello sincronico sul significato profondo della locutio, sia a livello diacronico sulla sua origine e sulla sua evoluzione storica. Essa costituisce a sua volta la base dell’applicazione pratica del volgare illustre, rappresenta-ta dall’altrettanto personale poetica della canzone illustre (modus excellentissimus)3, che anima la storiografia letteraria tracciata nel secondo libro del trattato4.

3. Sul valore normativo a livello retorico e metrico del secondo libro del trattato, si vedano, in ordine di apparizione, i seguenti contributi: F. D’Ovidio, La metrica del-la canzone secondo Dante (1878), in Id., Opere di Francesco D’Ovidio, IX. 3, Versi-ficazione romanza. Poetica e poesia medioevale. III Parte, Napoli 1932, pp. 147-167; G. Folena, Dante e la teoria degli stili: dal «De vulgari eloquentia» all’«Epistola XIII» (1955), in Id., Textus testis. Lingua e cultura poetica delle origini, a c. di D. Goldin e G. Peron, Torino 2002, pp. 199-228; M. Pazzaglia, Il verso e l’arte della canzone nel «De vulgari eloquentia», Firenze 1967; G. Nencioni, Dante e la retorica, in Dante e Bologna cit., pp. 91-112; G. Brugnoli, Il latino dei dettatori e quello di Dante, ibid., pp. 113-126; I. Baldelli, Il “De vulgari Eloquentia” e la poesia di Dante, in Nuove Letture Dantesche, 8, Anno di studi 1972-1973, Firenze 1976, pp. 241-258; P. V. Mengaldo, Linguistica e retorica di Dante, Firenze 1976 (in part. L’elegia umile, pp. 199-222; Dante e il «cursus», pp. 263-280; Idee dantesche sulla «constructio», pp. 281-288; La poesia giullaresca in Dante, pp. 289-293) e Cultura e teorie retori-che, in Mengaldo 1968, pp. xxxvii-l; P. Orvieto, Il “De vulgari eloquentia” di Dante e la tipologia degli stili nel Medioevo, in P. Orvieto, l. Brestolini, La poesia comico-realistica. Dalle origini al Cinquecento, Roma 2000, pp. 147-154; M. S. Lannutti, “Ars” e “scientia”, “actio” e “passio”. Per l’interpretazione di alcuni passi del “De vulgari eloquentia”, in «Studi Medievali», 41 (2000), 1, pp. 1-38.

4. Sul progetto culturale dantesco espresso in Dve, sulla storiografia letteraria ivi tracciata e sul ruolo dei doctores eloquentes si veda l’ampio quadro fornito in

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La dialettica enciclopedismo-specializzazione, entro la quale oscillerebbe l’argomentazione dantesca secondo Mengaldo, costitu-isce un punto di partenza importante nell’approccio ermeneutico al trattato, soprattutto per il I libro, ove la teoria dell’eloquenza volga-re viene fondata attraverso un rigoroso ragionamento filosofico. Se Dante appare infatti fortemente debitore dell’attrezzatura filosofica e dottrinale derivante dalle compilazioni enciclopediche, dagli Specu-la di Vincenzo di Beauvais al Tresor di Brunetto Latini, dai lessici e dizionari di Uguccione e di Isidoro, la serrata caccia speculativa del volgare illustre che anima il primo libro, e anche l’esposizione del-la dottrina della canzone illustre del secondo, utilizza direttamente materiali filosofici che integrano il discorso retorico con la dottrina aristotelico-tomistica: il «Magister Sapientium» Aristotele, mediato dai commentari medievali in particolare da Tommaso, appare l’au-torità filosofica di riferimento dell’intero trattato.

Appare evidente che la scrittura del Dve da parte di Dante muove da un’esigenza concreta di ragionare sullo statuto della lin-gua volgare in tutti gli ambiti di pertinenza civile, dalla gestione del comune all’insegnamento universitario5. Nel ricostruire i termini di un’origine medievale dell’umanesimo italiano Witt ha individuato le specifiche peculiarità “linguistiche” della vita intellettuale ita-

Mengaldo 1968, Critica militante e storiografia letteraria, pp. lxxviii-cii (con rife-rimento alla bibliografia pregressa); in tempi più recenti si vedano i contributi di T. Barolini, Il miglior fabbro. Dante e i poeti della Commedia, Torino 1993, pp. 77-152; R. Antonelli, “Subsistant igitur ignorantie sectatores”, in Guittone D’Arezzo nel VII Centenario della morte, Atti del Convegno internazionale (Arezzo, 22-24 aprile 1994), a c. di M. Picone, Firenze 1995, pp. 337-349 e R. Mercuri, Il canone della let-teratura italiana, in Il canone alla fine del millennio (= «Critica del testo», 3 [2000], 1, pp. 177-213). Il rapporto del Dve con il modello librario, poetico e culturale offerto dal Canzoniere Vat. lat. 3793 è analizzato da R. Antonelli, Canzoniere Vaticano latino 3793, in Letteratura italiana, dir. da A. Asor Rosa, Le Opere, I, Dalle Origini al Cin-quecento, Torino 1992, pp. 27-44, Id., Struttura materiale e disegno storiografico del canzoniere Vaticano, in I canzonieri della lirica italiana delle origini, IV, Studi critici, a c. di Lino Leonardi, Firenze 2001, pp. 3-23; più di recente ha ripreso la questione J. Steinberg, “A terrigenis mediocribus”. The De vulgari eloquentia and the Babel of Vaticano 3793, in Id., Accounting for Dante, Notre Dame 2007, pp. 95-123.

5. Dante del resto aveva precisa contezza del fatto che lingua naturale e lingua grammaticale convivessero, sin dall’antichità: «la novità del De Vulgari è la teo-rizzazione in termini filosofici di questa acronica diglossia, non la sua esistenza» (Tavoni, n. i, 3, p. 1135).

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liana a cavallo di XIII e XIV secolo6: se a Padova si assiste ad una vera e propria riforma umanistica dei saperi, ove lo studio e l’inse-gnamento dei classici, non più solo in funzione dell’apprendimento retorico e grammaticale, diviene il modello per la composizione poetica, a Bologna e a Firenze si osserva una perfetta convivenza fra latino e volgare, nei termini di una diglossia espressiva, che lega il latino alla prosa d’arte e didattica e il volgare ad una più libera espressione poetica (nonché alle cronache e ai volgarizzamenti). L’esigenza del volgare illustre, di una sua definizione e formula-zione nasce, come già individuava Nardi, da una spinta reale, po-litica e storica dell’età di Dante: il volgare, «nato dall’anima del popolo e perfezionato dai poeti, può sostituire il latino accademico, come espressione viva dell’arte e della scienza, a quel modo che l’aveva ormai sostituito nella trattazione dei pubblici negozî nelle assemblee popolari dei comuni»7. Il volgare è variabile e corrutti-bile come tutti gli atti naturali, fra i quali rientrano anche i diversi idiomi; il latino appartiene al campo della dottrina e dell’appren-dimento scolastico: una lingua di secondo grado, regolata quindi artificialmente, come hanno scoperto e applicato gli inventores gramatice facultatis e i gramatice positores. L’affermazione in-cipitaria e programmatica circa la maggiore nobiltà del volgare costituisce il perno dell’argomentazione («nobilior est vulgaris»), e sancisce la divisione fra una «locutio primaria» o «vulgaris lo-cutio», «ea (…) qua infantes assuefiunt ab assistentibus cum pri-mitus distinguere voces incipiunt», ovvero quella che si apprende «sine omni regula nutricem imitans» (Dve I, i, 2 [miei i corsivi]), e una «locutio secundaria», «quam Romani gramaticam vocaverunt» («hanc quidem secundariam Greci habent et alii, non omnes»), alla quale pochi pervengono, attraverso assiduità di studio («quia non

6. R. G. Witt, ‘In the Footsteps of the Ancients’. The Origins of Humanism from Lovato to Bruni (2000), tr. it. Sulle tracce degli antichi. Padova, Firenze e le origini dell’umanesimo, Roma 2005.

7. Come libera e immediata espressione dell’anima di una gente nuova (cfr. B. Nardi, Il linguaggio [1929], in Id., Dante e la cultura medievale. Nuovi saggi di filosofia dantesca, Bari 1942, pp. 148-175, cit. p. 157). Si veda anche G. Arnaldi, Pace e giustizia in Firenze e in Bologna al tempo di Dante, in Dante e Bologna nei tempi di Dante, a c. della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, Bologna 1967, pp. 163-177.

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nisi per spatium temporis et studii assiduitatem regulamur et doc-trinamur in illa», ibid., 3)8. L’affermazione della maggiore nobiltà del volgare in virtù della sua primarietà, universalità e naturalità (Ibid., 4) non implica, come è stato a lungo dibattuto dalla critica, alcuna contraddizione con le argomentazioni interne al Convivio (d’ora in poi Cv) nel momento in cui viene istituita una parallela distinzione fra sermone volgare e latino, affermandone la maggiore sovranità del secondo «per nobiltà e per vertù e per bellezza» – «onde concedesi esser più bello, più virtuoso e più nobile» il latino, in quanto seguita arte (quindi è perpetuo e non corruttibile), e il volgare seguita uso (risultando di fatto non stabile e corruttibile; Cv I, v, 7-15)9. Con una prospettiva differente, mettendo in cam-

8. Tavoni, n. i, 3, p. 1133 fa notare che gramatica va reso come sostantivo “grammatica” ovvero “lingua grammaticale” (a differenza di Marigo, n. 18, p. 7 che rendeva «come aggettivo» “grammaticale” che specificasse il precedente se-cundariam); il significato deriva da una generalizzazione condivisa nel Medioevo di “lingua latina” (Mengaldo, n. 5, pp. 79-80), unica lingua grammaticale univer-salmente conosciuta al tempo di Dante, come affermato nel De regimine principum di Egidio Romano (II, ii, 7) e nel Tresor di Brunetto (e nei suoi volgarizzamenti) e come ribadirò più avanti.

9. Sul rapporto tra latino e volgare nel Dve (e in Cv) si possono vedere: F. D’Ovidio, Sul trattato “De vulgari eloquentia” di Dante (1873), in Id., Opere di Francesco D’Ovidio, IX. 2, Versificazione romanza. Poetica e poesia medioevale. II Parte, Napoli 1932, pp. 217-332; Nardi, Il linguaggio cit.; B. Terracini, Natura e origine del linguaggio umano nel «De vulgari eloquentia» (1947-1948), in Id., Pagine e appunti di linguistica storica, Firenze 1957, pp. 237-246; A. Pagliaro, I «primissima signa» nella dottrina linguistica di Dante (1947), in Id., Nuovi saggi di critica semantica, Messina-Firenze 1956, pp. 213-246; G. Vinay, Ricerche sul De vulgari eloquentia, in «Giornale storico della letteratura italiana», 136 (1959), pp. 236-274; 367-388, le cui posizioni sono state riprese e discusse da c. Gray-son, «Nobilior est vulgaris»: latino e volgare nel pensiero di Dante (1965), in Id., Cinque saggi su Dante, Bologna 1972, pp. 1-31; R. Dragonetti, La conception du langage poétique dans le De vulgari eloquentia de Dante, in Id., Aux frontières du langage poétique (Etudes sur Dante, Mallarmé, Valéry), Gand 1961, pp. 9-77, in part. pp. 52-77. Più di recente si vedano, A. Mazzocco, Linguistic theories in Dante and the Humanist. Studies of Language and Intellectual History in Late Medieval and Early Renaissance Italy, Leiden-New York-Köln 1993; A. Fratta, Discussio-ni esegetiche sul I libro del De vulgari eloquentia, in «Medioevo romanzo», 13 (1988), pp. 39-54; A. R. Ascoli, ‘Neminem ante nos’: Historicity and Authority in the De vulgari eloquentia, in «Annali d’Italianistica», 8 (1991), pp. 186-231; G. Inglese, Il “mito” del volgare illustre, in Id., L’intelletto e l’amore. Studi sulla letteratura italiana del Due e Trecento, Firenze 2000, pp. 99-121; A., Raffi, La

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po le stesse identiche caratteristiche distintive delle due locutiones e dei due idiomi, entrambi i trattati giungono in maniera inversa allo stesso fine, ovvero a definire la centralità dell’utilizzo del vol-gare nell’espressione del prodotto poetico della mente umana: nel primo attraverso una legittimazione, in factis, della “superiorità” del volgare sul latino nell’esposizione e commento delle canzoni dottrinarie in volgare (che deve passare necessariamente attraverso l’affermazione della superiorità del latino, lingua per eccellenza dell’apprendimento e della speculazione filosofica10); nel secondo caso, evidentemente, in quanto l’intento dantesco è fondare una vera e propria dottrina del volgare illustre, desumibile, attraverso un principio di reductio ad unum, dalla stratigrafia della varietà linguistica italiana, la cui primaria funzionalità (tradizionalmente spettante alla gramatica dei classici) risiede nell’espressione poe-tica e più generalmente del sapere. Riprendendo una nota formula di Dionisotti, si può a buon diritto affermare che la lezione del Dve è quella di «un’esigenza unitaria, di una ideale unità linguisti-ca e letteraria, proposta e richiesta a una reale, frazionata varietà, un’unità insomma che supera, ma nel tempo stesso implica questa varietà»11. Dante stesso chiarisce quindi la cronologia relativa fra i due trattati, alla luce di quanto ha affermato all’interno di Cv I, v, ove anticipa il principio evolutivo e di trasmutazione naturale della lingua argomentato in Dve I, ix, 9-10 ed esperito attraverso la panoramica storico-geografica dei vilgari municipali in Dve I, xvi. La scelta del latino per comporre nei fatti un’apologia della locutio e dell’eloquentia volgare pone verosimilmente Dante in grado di entrare in dialogo con l’ambiente universitario, e tale scelta appare funzionale alla promozione del volgare illustre di sì nei più elevati ambiti e contesti del sapere del suo tempo (verosimilmente a Bolo-gna, come chiarirò meglio più avanti).

gloria del volgare. Ontologia e semiotica in Dante dal «Convivio» al «De vulgari eloquentia», Soveria Mannelli 2004.

10. «Con ciò sia cosa che latino molte cose manifesta concepute ne la mente che lo volgare far non può, sì come sanno quelli che hanno l’uno e l’altro sermone, più è la vertù sua che quella del volgare» (Cv I, v, 12 [Dante Alighieri, Convivio, a c. di F. Ageno, 3 tomi, Firenze 1995]).

11. C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1967, p. 35.

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Emanuele Coccia e Sylvain Piron hanno di recente descritto con molta efficacia la straordinaria stagione intellettuale dei decenni a cavallo fra XIII e XIV secolo in questi termini:

Parmi les Italiens nés entre 1250 et 1280, on compte un nombre étonnant d’in-dividus excellant dans plus d’un domaine, souvent impliqués dans l’action po-litique, auteurs d’œuvres novatrices et ayant de surcroît une forte conscience de la singularité de leur démarche. À l’évidence, l’explication par le génie ne suffit pas; pour comprendre le phénomène, il faut invoquer des conditions sociologiques et un contexte historique particuliers; mais pour l’appréhender correctement, il faut avant tout modifier en profondeur la perception habi-tuelle de ce qui constitue l’objet de l’histoire intellectuelle du Moyen Age central. Si l’on veut faire entrer Dante tout entier dans le tableau, il faut en élargir le cadre12.

Dante costituisce, naturalmente, un eccezionale portavoce di questa generazione di intellettuali la cui peculiarità va riconosciuta in una stretta interrelazione fra attività civile, politica e letteraria ra-dicalmente multidisciplinare (i cui rappresentanti mostrano di poter coscientemente spaziare dalla filosofia alla teologia, dalla scienza al diritto). La comunicazione tra discipline diverse costituisce una specificità tutta italiana, assai evidente al confronto con lo Studium parigino, favorita essenzialmente dal particolare assetto politico dell’Italia comunale del XIII e XIV secolo13. Un peso rilevante nel-la formazione intellettuale è costituito dall’influenza profonda della riflessione aristotelica intorno alla natura umana, all’interno della quale bisogna collocare la dottrina della locutio esposta da Dante nel Dve. L’aspra censura operata dal vescovo parigino Tempier (1270-1277) nei confronti dell’opera filosofica naturale e morale d’Aristo-tele nel quadro dell’insegnamento universitario, in particolare nella corrente radicale averroista, impersonata nella figura dei maestri Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia, favorì paradossalmente uno sdoganamento dell’insegnamento di Aristotele al di fuori dell’acca-

12. E. Coccia, S. Piron, Poésie, sciences et politique. Une génération d’intel-lectuels italiens (1290-1330), in «Revue de Synthèse», 129 (2008), 4, pp. 549-586, cit. p. 551.

13. «Au sein de l’Europe médiévale, à l’apogée de la grande scolastique, l’Ita-lie du Centre et du Nord présente une physionomie particulière dont le trait le plus marquant est une organisation de savoirs qui rend possible des phénomènes de croi-sement et d’hybridation difficilement réalisables à Paris», ibid., p. 553.

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demia parigina. La “diaspora” di maestri di logica e medicina forma-tisi presso la facoltà delle Artes di Parigi verso l’Italia, a Bologna in particolare, provocò un’esplosione dello studio e dell’insegnamento di Aristotele nella penisola italiana, incentivando profondamente la circolazione dei testi, del relativo commento e quindi dei volgarizza-menti. A partire dalla seconda metà del XIII secolo si assiste quindi ad un’istituzionalizzazione dell’apprendimento filosofico, attraverso la lettura e il commento delle opere di filosofia naturale d’Aristotele nell’insegnamento della logica e della medicina a Bologna e Pado-va, al di fuori del dominio della teologia (e della lettura aristotelica tomistica, che resta di fondamentale importanza), in forza quindi di una laicizzazione del sapere. Sia a Padova sia a Bologna la medici-na si costituisce come facoltà autonoma, seppur in stretta relazione con la facoltà delle arti, a tal punto da divenire naturale insegnare all’interno dei due domini14. Parallelamente si sviluppò anche una circolazione del sapere filosofico-teologico al di fuori dei luoghi isti-tuzionalmente deputati alla sua trasmissione (come l’università o gli studia degli ordini religiosi) fortemente connotata in chiave laica, cioè promossa dai laici per i laici15. In tale contesto si deve necessa-riamente collocare la formazione filosofica di Dante, che nutre pro-fondamente l’intero macrotesto, pur non risultando egli incardinato, per motivi biografici o forse per geniale scelta, in nessuna struttura istituzionale di veicolazione del sapere.

Il sistema politico podestarile dei comuni italiani del XIII secolo inoltre favorì la formazione di un’élite politica e di una classe di fun-zionari pubblici, intellettuali, caratterizzati da un sorprendente grado di mobilità: giudici, cancellieri, e notai, a titolo privato o inquadrati come funzionari comunali, allo stesso tempo maestri di grammatica e retorica16. Artifoni ha riconosciuto nei governi «di popolo» della se-

14. Centrale in tal senso appare la scuola medica del fiorentino Taddeo Al-derotti, attivo a Bologna nei tre decenni conclusivi del XIII secolo, volgarizzatore – e divulgatore – dell’Ethica aristotelica: per una contestualizzazione dell’opera di Alderotti, per l’analisi del volgarizzamento dell’Ethica e sulla ricezione due-trecentesca dell’indagine aristotelica intorno all’uomo si veda S. Gentili, L’uomo aristotelico alle origini della letteratura italiana, Roma 2005.

15. R. Imbach, Dante, la philosophie et les laïcs, Paris-Fribourg 1996.16. Un chiaro esempio in tal senso è rappresentato da Albertano da Brescia

(1200-1270ca.), giudice e notaio, fondatore di una scrittura e di una retorica al

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conda metà del XIII secolo la condizione migliore «per una grande opera di educazione collettiva alla politica all’interno delle istituzioni comunali»; ciò in virtù «della capacità di intermediazione culturale di un ceto di laici circolante nei governi comunali, che oggettivamente deprofessionalizza la trattazione dei grandi temi filosofici, e nel fare questo trasforma e ricontestualizza i materiali stessi di partenza»17. Lo sviluppo commerciale, a Firenze in particolare, diede luogo inoltre ad una diversa forma di acculturazione, di massa, incentrata sull’utilizzo del volgare, l’apprendimento delle lettere e della matematica funzio-nali all’esercizio dell’attività di commercio: i poteri locali finanzia-rono direttamente le scuole di grammatica (ovvero i primi livelli del corso di studi), a tal punto che, sul finire del XIII secolo, i maestri delle facoltà di arti, medicina e diritto potevano essere direttamente stipendiati dai comuni (e proprio a tale contesto socio-culturale, in-carnato nei fuoriusciti attivisti del comune fiorentino in Francia, si ri-volge il Tresor di Brunetto Latini). Intrecciandosi con la rete di potere costituita a partire dalla circolazione di funzionari e dagli scambi eco-nomici, le lotte intestine all’interno dei comuni incentivarono quindi la configurazione mobile, circolante, di una nuova figura intellettuale laica, legata agli interessi comunali, e forzatamente o volontariamente bandita, in esilio. L’esilio diventa quindi una condizione utilizzata ob-torto collo per lo studio e la scrittura (originale e portatrice di novità a livello collettivo, condiviso)18: proprio all’interno di tale esperienza

servizio dell’attività politica comunale-podestarile. Si vedano i fondamentali con-tributi di Enrico Artifoni, fra i quali Retorica e organizzazione del linguaggio po-litico nel Duecento italiano, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, Relazioni tenute al convegno internazionale di Trieste (2-5 marzo 1993), Roma 1994, pp. 157-182; Id., Prudenza del consigliare. L’educazione del cittadino nel Liber consolationis et consilii di Albertano da Brescia (1246), in “Consilium”. Teorie e pratiche del consigliare nella cultura medievale, a c. di C. Casagrande, C. Crisciani e S. Vecchio, Firenze 2004, pp. 195-216; da ultimo (sullo specifico del modello politico-culturale italiano “in movimento”), Id., Notes sur les équipes des podestats et sur la circulation de modèles culturels dans l’Italie du XIIIe siècle, in Des sociétés en mouvement. Migrations et mobilité au Moyen Âge. XLe Congrès de la SHMESP (Nice, 4-7 juin 2009), Paris 2010, pp. 315-324.

17. Id., I governi di “popolo” e le istituzioni comunali nella seconda metà del se-colo XIII, in «Reti Medievali – Rivista», 4 (2003), 2, p. 20, url: www.retimedievali.it.

18. «Les acteurs dont nous parlons ont souvent eu la forte conscience, personnelle et collective, d’accomplir des œuvres originales et de participer à un mouvement porteur

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si concretizza per Dante la scrittura del Dve. La dimensione cittadina e pubblica dell’intellettuale a partire dagli anni cinquanta e sessanta del XIII secolo fu propria anche del giudice padovano Lovati, fautore della rinascita dell’esame dei classici nello Studio di Padova e della composizione poetica in latino, anch’egli mosso da preoccupazioni di carattere morale e politico, in linea con la tradizione civile iniziata da Albertano, che raggiungono un alto livello retorico e poetico nel dibattito con il maggiore esponente della stagione padovana immedia-tamente successiva, Albertino Mussato.

Un’ulteriore tessera, nel tentativo di ricostruire gli ambiti di-sciplinari tenuti presente da Dante nella composizione del Dve, è rappresentanta dall’assai dibattuto rapporto dantesco con la rifles-sione grammaticale modista, veicolata in Italia nell’insegnamento universitario della logica e della grammatica, attraverso maestri e allievi fuorisciti dalla facoltà delle Arti di Parigi dopo il 1277. A partire dalla metà del XII, anzitutto in Francia, si era assistito ad una prolifica produzione di manuali di grammatica che intendeva-no supplire, sulla scorta delle riflessioni di Guillaume de Conches (attivo attorno al 1154) e del suo discepolo Pietro Elia (attivo nel torno d’anni 1130-1166, autore della Summa super Priscianum), all’assenza di una speculazione delle causae inventionis nei trattati grammaticali di Prisciano. A partire da tale panorama, che assorbe progressivamente la grammatica nella logica, veniva fondata in am-bito universitario parigino e oxoniense, alla metà del XIII secolo, la grammatica speculativa dei cosiddetti “modisti”19; la riflessione in tal senso, aperta dal protomodista commentario al Prisciano minore attribuito a Roberto di Kildwarby, arcivescovo di Canterbury20, ar-

de nouveauté. Au plan collectif, différents indices autorisent à parler d’une conscience historique partagée» (Coccia, Piron, Poésie, sciences et politique cit., p. 560).

19. I. Rosier-Catach., La grammaire spéculative des Modistes, Lille 1983; Ead., Un courant méconnu de la grammaire spéculative, in History and historiography of linguistics. Papers from the fourth international conference on the history of the language sciences (Trier, 24-28 August 1987), a c. di H. J. Niederehe e K. Koerner, 2 voll., Amsterdam 1990, I, pp. 189-203; C. Marmo, Semiotica e linguaggio nella Sco-lastica: Parigi, Bologna, Erfurt (1270-1330). La semiotica dei Modisti, Roma 1994.

20. M. Fredborg, K. Green-Pedersen, L. Nielsen, J. Pinborg, The Commentary on “Priscianus Maior” ascribed to Robert Kilwardby, in «Cahiers de l’Institut du Moyen Âge Grec et Latin», 15 (1975), pp. 1-143.

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ticolata successivamente in differenti declinazioni dalla scuola dei Daci, ha condotto concordemente alla fondazione del valore scienti-fico della grammatica, per cui diviene centrale non già il significato ma il modus significandi. Il centro principale di ricezione fu Bolo-gna universitaria, specializzata nell’insegnamento della logica ari-stotelica, ove si distinsero significative figure di maestri, particolar-mente ricettivi anche della riflessione della grammatica speculativa, quali Matteo da Bologna e Gentile da Cingoli21. Si è molto discusso circa l’apporto modista nell’impianto dottrinale del primo libro del trattato, a partire dalla pionieristica analisi condotta in tal senso da Maria Corti nel 1981, che suscitò un vivace dibattito, fra entusiasmi e profonde critiche e smentite22. Nell’ultimo trentennio si è creduto

21. Fondamentali in tal senso i contributi di M. Grabmann, Der Bologneser Averroist Angelo d’Arezzo (ca. 1325), in Mittelalterliches Geistesleben. Abhandlun-gen zur Geschichte der Scholastik und Mistik, München 1936, Bd. II, pp. 261-271; Id., Gentile da Cingoli. Ein italienischer Aristoteleserklärer aus der Zeit Dantes, München 1941, pp. 12-88 («Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wis-senschaften», 1940, Heift 9), ora anche in Id., Gesammelte Akademieabhandlungen, Paderborn 1979, Bd. II, pp. 1639-1742 (i cui risultati sono ripresi da L. Marchegia-ni, L’aristotelismo latino di Gentile da Cingoli alla fine del XIII secolo, in «Annali della Facoltà Giuridica di Camerino», 36 [1970], pp. 81-177); Id., L’Aristotelismo italiano al tempo di Dante con particolare riguardo all’Università di Bologna, in «Rivista di filosofia neo-scolastica», 38 (1946), pp. 260-277. Più di recente si veda L’insegnamento della Logica a Bologna nel XIV secolo, a c. di D. Buzzetti, M. Ferriani e A. Tabarroni, Bologna 1992 (in particolare, nel rispetto della grammatica speculativa, G. C. Alessio, Il commento di Gentile da Cingoli a Martino di Dacia, pp. 3-71; I. Rosier, Mathieu de Bologne et les divers aspects du pre-modisme, pp. 73-164; A. Tabarroni, Gentile da Cingoli e Angelo d’Arezzo sul Peryermeneias e i maestri di logica a Bologna all’inizio del XIV secolo, pp. 393-440).

22. M. Corti, Lingua universale e lingua poetica in Ead., Dante a un nuovo crocevia, Firenze 1981, pp. 33-76 (e per un inquadramento del panorama filoso-fico-culturale veicolato da Parigi a Bologna, dopo la condanna dell’aristotelismo radicale, Ead., Parigi e Bologna: novità filosofiche e linguistiche, ibid., pp. 1-26, ora in Ead., Scritti su Cavalcanti e Dante. La felicità mentale. Percorsi dell’in-venzione e altri saggi, Torino 2003, pp. 312-326), le cui tesi sono state riprese e approfondite in Ead., De Vulgari Eloquentia di Dante Alighieri, in Letteratura Italiana. Le Opere, I cit., pp. 187-209 e in Ead., Linguaggio poetico e lingua “re-gulata”, in Ead., Percorsi dell’invenzione. Il linguaggio poetico di Dante, Torino 1993, pp. 75-112, ora in Ead., Scritti cit., pp. 221-254. Repliche e smentite al ra-gionamento della Corti sono venute nell’ordine da I. Pagani, La teoria linguistica di Dante: “De vulgari eloquentia”: discussioni, scelte, proposte, Napoli 1982 e nelle recensioni al volume della Corti rispettivamente di P. V. Mengaldo, in «Ita-

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di poter affermare l’infondatezza di un’adesione dantesca ai principi della grammatica speculativa; rimane tuttavia aperta la possibilità che Dante possa aver risentito di tale apporto nella formulazione del suo ragionamento sulla locutio umana nell’articolazione della dialettica fra identità sostanziale e diversità accidentale che nutre da un lato il binomio volgare/ latino e anima dall’altro la caccia del volgare illustre; tale dialettica, di stampo più generalmente aristo-elico, viene utilizzata nella riflessione modista a partire da Boezio di Dacia, ma anche nell’analisi condotta da Bacone nel De signis, seppur inserita in un progetto d’impronta differente23.

La formazione filosofica ha giocato quindi un ruolo fondamen-tale nella configurazione dell’intellettuale e poeta laico e “vernaco-lare” della seconda metà del XIII secolo, e in tale orizzonte si deve collocare anche la formazione filosofica dantesca, integrata con lo studio della teologia, come espresso chiaramente in Cv II, xiii. è noto che Dante, all’epoca della sua prima formazione intellettuale (1292-1295), poté verosimilmente assistere a Firenze alle Quaestio-nes disputates e alle Quodlibetali sviluppate negli studia francescani

lienische Studien», 6 (1983), pp. 187-193 e di A. Maierù, Dante al crocevia?, in «Studi medievali», s. III, 24 (1983), pp. 735-748 (con replica di M. Corti, Postille a una recensione, ibid., 25 [1984], pp. 839-845 e ripresa nella stessa sede da A. Maierù, Il testo come pretesto, pp. 847-855). Si vedano inoltre F. Lo Piparo, Dante linguista anti-modista, in Italia linguistica: idee, storia, strutture, a c. di F. Albano Leoni, D. Gambara, F. Lo Piparo e R. Simone, Bologna 1983, pp. 9-30 e M. Tavoni, Ancora su De vulgari eloquentia I, 1-9, in «Rivista di letteratura italiana», 5 (1989), pp. 468-496. Hanno accolto con favore le tesi di Corti, con ul-teriori aggiornamenti e messe a punto, G. C. Alessio, La grammatica speculativa e Dante, in Letture classensi, 13, ciclo cur. da M. Corti, Ravenna 1984, pp. 69-88, Id., Il “De vulgari eloquentia” e la teoria linguistica del Medioevo, in Per correr migliori acque...: bilanci e prospettive degli studi danteschi alle soglie del nuovo millennio, Atti del Convegno internazionale (Verona - Ravenna, 25-29 ottobre 1999), 2 voll., Roma 2001, I, pp. 203-227; A. Fratta, Discussioni esegetiche sul I libro del De vulgari eloquentia, in «Medioevo romanzo», 13 (1988), pp. 39-54 e M. Shapiro, Dante and the Grammarians, in «Zeitschrift für romanische Philolo-gie», 105 (1989), 5-6, pp. 498-528.

23. A tal proposito si veda R. Imbach, I. Rosier-Catach, De l’un au multiple, du multiple à l’un. Une clef d’interprétation pour le De vulgari eloquentia, in La résistible ascension des vulgaires. Contacts entre latin et langues vulgaires au bas Moyen Âge. Problèmes pour l’historien, dir. par B. Grévin, Rome 2005, pp. 509-529, in part. pp. 524-528.

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di Santa Croce, con Pietro de Trabibus24 e in quelli domenicani di Santa Maria Novella; non sono da escludere inoltre soggiorni suc-cessivi in qualità di “studente” anche presso gli studia di Bologna (tra il 1304-1306?) e di Parigi (1308-1310?). Il risultato dantesco, com’è noto, è in direzione di un’originale conciliazione fra teologia tomistica e aristotelismo (e dottrine averroiste, mediate dalla lezione di Sigieri di Brabante), declinata e variamente articolata nelle diver-se forme di intervento intellettuale dantesco, dalla poesia all’opera dottrinale (in volgare e in latino)25. è stata anche avanzata la possi-bilità che un ulteriore apporto di natura filosofica nella formulazione del pensiero linguistico dantesco sia giunto dalla corrente mistica ebraica, che favorì, tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, la divulgazione latina dei testi della tradizione neoplatonica, attiva ad esempio a Verona con Hillel ben Shemuel, in proficuo dialogo con la tradizione dei commentatori cristiani; nella nota e dibattuta formula-zione dantesca «forma locutionis (…) prima cum anima concreata», è stata vista, ad esempio, un’adesione dantesca al concetto di Abu-lafia (che studiò con Shemuel e fondò, durante un lungo soggior-no a Barcellona, la corrente mistica cabalistica26) tzurat ha-dibbur “forma della parola”, verosimilmente circolante, in forma testuale o orale, a Verona intorno al 1303-1304, anni in cui si colloca il primo soggiorno veronese di Dante e tradizionalmente l’inizio della stesu-ra del trattato27.

24. S. Piron, Le poète et le théologien. Une rencontre dans le studium de Santa Croce, in «Picenum Seraphicum. Rivista di studi storici e francescani», 19 (2000), ripreso in Ut philosophia poesis. Questions philosophiques dans l’écriture de Dan-te, Pétrarque, Boccace, a c. di J. Biard e F. Mariani Ziani, Paris 2008, pp. 73-112. Sulla biblioteca dello studium francescano di Santa Croce si veda anche G. Brunet-ti, S. Gentili, Una biblioteca nella Firenze di Dante: i manoscritti di Santa Croce, in Testimoni del vero. Su alcuni libri in biblioteche di autore, a c. di E. Russo, Roma 2000, pp. 21-55.

25. Si veda in particolare Imbach, Dante, la philosophie cit., pp. 129-196.26. Sulla corrente mistica ebraica della Kabbalah il rimando obbligato è agli

studi di Gershom Scholem, fra i quali si veda almeno (in tr. it.) Le origini della Kabbalah, Bologna 1974 e La Kabbalah e il suo simbolismo, Torino 1980.

27. Si veda M. Idel, À la recherche de la langue originelle: le témoignage du nourrisson, in «Revue de l’histoire des religions», 213 (1996), pp. 415-442. Già Umberto Eco aveva discusso la possibilità di un apporto proveniente dalla mistica ebraica (in particolare dalla linea Shemuel e Abulafia) nel pensiero linguistico dan-

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Chiudo concentrandomi su Bologna, la cui centralità nella com-posizione del trattato, rilevata già da Marigo28, è stata sostenuta a più riprese anche da Mengaldo. Anche Mirko Tavoni, ridiscutendo oggi la questione della datazione e della collocazione geografica della ste-sura del trattato29, individua un ruolo cardine della città di Bologna nella travagliata vicenda biografica di Dante bandito, nell’ideazio-ne e soprattutto nella destinazione del Dve: Bologna, insieme locus amoenus della scrittura e destinatario del trattato, ben spiegherebbe infatti gli apporti culturali confluiti nell’argomentazione e soprattut-to il senso, anche politico, della caccia del volgare illustre, destinato a superare linguisticamente il particolarismo politico dell’Italia agli inizi del XIV secolo, preludendo agli sviluppi del pensiero dantesco nella Monarchia. L’inizio della composizione del Dve si può a buona ragione collocare, a bando già promulgato30, subito dopo la sconfitta militare dei fuoriusciti fiorentini alla Lastra (20 luglio 1304), che sancisce l’impossibilità della parte dantesca di rientrare a Firenze, desumibile nel testo anzitutto dall’esaltazione del regime imperiale degli illustres heroes Federico II e Manfredi (Dve I, xii), in secondo luogo da un atteggiamento denigratorio nei confronti del volgare fiorentino, di tutti i volgari toscani, e dei relativi poeti municipali (Brunetto in primis [Dve I, xiii])31. Secondo la ricostruzione biogra-fica degli spostamenti di Dante esule fra il 1303 e il 1306, operata da Petrocchi32, fra maggio (o giugno) 1303 fino al marzo 1304 Dante

tesco in U. Eco, La lingua perfetta di Dante, in Id., La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Roma-Bari 1993, pp. 41-59. Di recente, per un quadro della ricezione e circolazione veronese del pensiero ebraico, si può vedere G. Battistoni, Dante, Verona e la cultura ebraica, Firenze 2004.

28. Marigo, pp. xxv-xxvi.29. Tavoni, pp. 1113-1116.30. Dante fa esplicita menzione del bando in Dve I, vi, 3.31. Fermo restando il dato interno di cronologia relativa che fa riferimento a

Giovanni da Monferrato ancora vivente in Dve I, xii, 5 – e quindi al fatto che entro il febbraio del 1305, data di morte del marchese, può essere collocata la stesura di tale porzione di trattato (Dve I, i-xii, 5).

32. G. Petrocchi, Vita di Dante, Bari 1983, pp. 91-103, anche, Id., La vicenda biografica di Dante nel Veneto, in Id., Itinerari danteschi, Milano 1994, pp. 88-103 [1969, pp. 119-141] (si veda anche la nuova sistemazione operata da G. Indizio, Le tappe venete dell’esilio di Dante: Verona, Padova, Treviso, Venezia, in «Miscella-nea Marciana», 19 [2004], pp. 35-64).

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compie il primo soggiorno a Verona presso Bartolomeo della Scala, per poi spostarsi, dopo la sua morte, in Toscana, verosimilmente ad Arezzo, per seguire da vicino la fallimentare “campagna” di pace del vescovo Niccolò da Prato (al quale indirizza l’Ep. I per conto dell’«Universitas partis alborum»). Immediatamente dopo questo fallimento e forse prima della battaglia della Lastra si potrebbe col-locare l’inizio di un soggiorno di Dante esule a Bologna (t.a.q. 20 luglio 1304; t.p.q. 10 giugno 1304), dove risiedevano condizioni di equilibrio politico favorevoli ad accoglierlo, sotto il regime bianco del 1303-1305. Durante tale soggiorno si sarebbe concretizzata l’idea del trattato33, congiuntamente al particolare intento di comporlo per la città di Bologna, come dimostra la centralità offerta da Dante alla “parte bolognese” sia a livello dialettologico, nel condurre la caccia empirica del volgare illustre attraverso la disamina dei 14 volgari italiani, sia a livello poetico. Tavoni rileva un «macro-fattore struttu-rante di tipo del tutto nuovo» utilizzato da Dante per rappresentare il quadro linguistico dell’area geografica entro la quale egli si trovava a risiedere34, dopo aver terminato la stroncatura linguistico-poetica dei toscani che si arrogavano, a cattivo diritto, un primato linguistico inesistente (rispetto al siciliano “illustre” della scuola poetica della curia federiciana)35. Si tratta dell’esistenza in Italia di due volgari,

33. Magari già maturata durante il soggiorno veronese, come dimostrerebbe il riferimento in Dve II, vi, 7 a libri molto rari effettivamente posseduti dalla Bibliote-ca Capitolare di uno dei primissimi centri pre-umanistici italiani (cfr. Tavoni, n. vi, 7, pp. 1451-1455). Ancora Petrocchi individua un triennio di massima lunigiano-toscano (1306-1308, dall’incarico di procuratore di pace presso il vescovo di Luni, da parte dei suoi nuovi ospiti Franceschino, Corradino e Moroello Malaspina al breve soggiorno nel Casentino e a quello lucchese). Fra il 1304 e il 1306, ancora un triennio, la documentazione degli spostamenti danteschi manca: un soggiorno pro-lungato a Treviso presso Gherardo da Camino non è impossibile (verosimilmente tra l’estate del 1304 e la metà del 1306), stabile, o itinerante tra Padova, Venezia «e altre città non lontane» (Petrocchi, Vita di Dante cit., p. 99).

34. Tavoni, pp. 1091-1092; cit. p. 1091.35. Ancora Tavoni sottolinea che l’accostamento fra il livello d’espressione

“municipale” più alto, quello siciliano, e quello più basso, toscano, è funzionale a massimizzare il contrasto fra due società poetiche e politiche: «l’autore ha eviden-temente il dente avvelenato coi suoi concittadini che lo hanno esiliato, ma riversa la sua aggressività tanto sui Comuni guelfi quanto su quelli ghibellini» (Tavoni, p. 1090), anche quelli che gli avevano dato ospitalità in esilio: verso Arezzo, come

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che si oppongono per caretteristiche contrarie, ma che concorrono, complementariamente, a definire il ruolo linguistico-politico bolo-gnese (I, xv, 5): il volgare “muliebre” della Romandiola e quello “irsuto” e aspro della Lombardia e Marchia Trivisiana (I, xiv, 2-5). Tale dialettica sembrerebbe essere costruita da Dante per definire ed esaltare la centralità e l’equilibrio di Bologna, situata sul confi-ne fra le due aree, non solo a livello linguistico, ma evidentemente a livello politico: il dominio linguistico romagnolo corrispondeva infatti all’epoca di Dante alle signorie ghibelline di Imola e Faenza, e di Forlì (sotto Scarpetta Ordelaffi [xiv, 3], presso il quale Dante si rifugiò nel febbraio-marzo 1303, quale «capitaneus partis Alborum extrinsecorum civitatis Florentiae»); il volgare oppositum (xiv, 8) ai confini nord-occidentali di Bologna era quello di Ferrara e Modena, del dominio guelfo e minaccioso del marchese Azzo VIII d’Este (I, xii, 5 e II, vi, 4). Il volgare bolognese contempera quindi l’uno con l’altro (I, xv, 2 «ab Imolensibus, Ferrarensibus et Mutinensibus cir-cunstantibus»), pervenendo «ad laudabilem suavitatem». Tale equi-librio linguistico corrisponderebbe a livello metaforico all’equilibrio politico garantito a Bologna dal regime guelfo bianco del 1303-1305, che, perdurando il dominio della pars Ecclesiae (dei geremei), l’aveva in realtà temperato (è verbo dantesco) con la riammissione dei lambertazzi dagli esili romagnoli, cooptandoli nella resistenza alla minaccia estense. Tale quadro politico-linguistico permette di spiegare anche gli ulteriori elementi addotti da Dante ad evidenziare la posizione di rilievo occupata da Bologna nel panorama poetico coevo: l’argomentazione del primato estetico del volgare bolognese (xv, 2-6, del quale Dante è in grado di cogliere le sfumature interne alle contrade, da Borgo San Felice a Strada Maggiore, ix, 4); il rico-noscimento di un gruppo di rimatori bolognesi, che seppero diver-tere dal proprio volgare municipale, attingendo al volgare illustre, ovvero la quaterna dei doctores, secondi ai soli stilnovisti fiorentini (xv, 6), con l’avamposto faentino guidato da Ugolino “Bucciola” Manfredi e Tommaso da Faenza, autore di un’attualissima tenzone

dimostra il non tenero riferimento a Pietramala (I, vi, 2 che rappresenta il castello aretino dei Tarlati, ai vertici della classe dirigente aretina e in fiera contesa con i Guidi e i Della Faggiola ospiti di Dante), ma anche, al di fuori della Toscana, nei confronti di Verona (xiv, 5).

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politica con Onesto da Bologna e Cino36 (xiv, 3). Si rileva il fatto che le presenze all’interno della quaterna bolognese sono anch’esse do-tate di un valore metaforico “di equilibrio”, perfettamente radicate nella realtà politica e sociale di provenienza (l’ambiente giuridico-notarile, fortemente compenetrato con la poesia volgare cittadina): Guinizzelli, giudice pre-stilnovista, in quanto ghibellino esiliato dai lambertazzi nel 1274, Onesto, in quanto interlocutore poetico (e po-litico) di Cino, Guido Ghislieri, guelfo, imparentato con Guinizzelli, Fabruzzo de’ Lambertazzi, appartenente all’eponima famiglia che dava il segno al regime guelfo bianco bolognese. Ancora, permette di dimostrare la centralità bolognese nella stesura del trattato l’auto-revole ruolo poetico accordato a Cino da Pistoia, giurista di scuola bolognese e poeta stilnovista della venus, corrispondente poetico di Onesto, anch’esso bandito come Dante, ma in quanto guelfo nero, a Prato o a Firenze (Dve I, x, 2; xiii, 4; xvii, 3; II, v, 4; vi, 6)37: egli sostituisce nel Dve il primo amico della Vita nova Cavalcanti, san-cendo il “passaggio di consegne” da Firenze a Bologna, ovvero il nuovo centro verso il quale è proiettato Dante e la generazione di banditi da lui rappresentata. Infine risultano di pertinenza bolognese le esemplificazioni addotte dei diversi gradi di constructio (II, vi, 4), in linea con i dettami della tradizione dettatoria bolognese, che ren-dono omaggio alla personale e collettiva condizione di fuoriuscito fiorentino bianco, inducendo scherno e indignazione contro i nemici comuni (tanto degli esuli che del Comune bolognese), rappresen-tati dal marchese d’Este e da Carlo di Valois38. Il trattato sarebbe stato lasciato interrotto a metà del cap. xiv del secondo libro in se-

36. Ibid., n. xiv, 3, p. 1299 nota che la tenzone politica con Cino e Onesto potrebbe essere a buon diritto il motivo che ha portato all’attenzione di Dante tale altrimenti “mediocre” rimatore (seppur essa non sia ancora stata mai messa a fuoco in tal senso negli studi sul Dve): la tenzone tratta di Bonifacio VIII, Carlo di Valois, guelfi neri (Cino) e bianchi (Tommaso e Onesto), equiparando l’azione del papa, che vuol sostituire la casa imperiale con quella di Francia e sovvertire i comuni toscani, ad un comportamento simoniaco (con sorprendenti corrispondenze col trat-teggio papale che Dante farà in If 19).

37. G. Zaccagnini, Cino da Pistoia. Studio biografico, Pistoia 1919, p. 88; app. n. vi; un quadro della poliedrica figura intellettuale ciniana, con rimandi alla bibliografia pregressa, è fornito in Coccia, Piron, Poésie, science et politique cit., pp. 570-571.

38. Tavoni, n. vi, 4, pp. 1439-1444.

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guito al rovesciamento del regime bianco a Bologna nel febbraio del 1306 in seguito ad una trasformazione nella composizione delle parti bolognesi e al successivo prevalere della parte nera filoestense, ora filofiorentina, che «riuscì a scacciare e a bandire con l’accusa di tradimento l’eterogeneo gruppo formato dai sapientes bianchi (…), dai lambertazzi rientrati (…), e dalla porzione più filoferrarese degli stessi neri»39. La fretta «di salvare la pelle» dovuta al rivolgimen-to della situazione, ma soprattutto il trasferimento presso Moroello Malaspina (con l’incarico ufficiale di procuratore legale, forse per il tramite dello stesso Cino) rendevano nei fatti inutile la prosecuzione del trattato: «certo per Dante non sarebbe stato il caso di portare a termine un’opera scritta per una città dove non poteva più mettere piede, né di rifinire la teoria della futura Curia imperiale italiana per il capo dei guelfi neri toscani»40.

Alla luce degli spunti forniti fin ora mi sembra si chiarisca il fatto che Dante prenda le mosse da un’esigenza reale di sistematiz-zazione anzitutto linguistica, quindi politico-culturale dello scena-rio italiano, superando il particolarismo municipale, attraverso una terza via (il volgare illustre), che comprende al suo interno l’intrin-seca mutevolezza e variabilità da cui essa stessa ha tratto origine. La locutio costituisce quindi, in linea con i dettami della filosofia politica aristotelica, il fondamento della vita associata e la poesia, come forma più alta di eloquentia, ne rappresenta il suo massimo raffinamento41.

3. Per un’interpretazione politica del I libro

Dal commento di Marigo fino ai contributi più recenti è stata individuata nel Dve una doppia tradizione del sapere del tempo di Dante, una scritturale-cristiana, l’altra filosofico-aristotelica, funzio-nali entrambe a tracciare e argomentare la quaestio circa origine e natura della locutio. Dante ha voluto conciliare, sul piano dell’argo-

39. G. Milani, L’esclusione dal comune. Conflitti e bandi politici a Bologna e in altre città italiane tra XII e XIV secolo, Roma 2003, pp. 377-413, cit. a p. 385.

40. Tavoni, p. 1116; il Dve quindi, con le parole di Tavoni, «porta segni così profondi della congiuntura biografica entro la quale è stato concepito da non resi-stere alla distruzione di quello stato di cose» (ibid.).

41. Ibid., pp. 1068-1069.

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mentazione retorica e del ragionamento logico, tale doppia tradizio-ne, che rappresenta contemporaneamente una prospettiva ispiratrice ed ermeneutica. Tale tentativo di saldatura de «la nozione filosofica della “natura” del linguaggio con quella sacra, di una “storia” delle lingue»42 raggiunge momenti di teoresi altissima. Il concetto di lo-cutio, quello di signum locutionis, la nozione dell’ad placitum, che muovono da categorie aristoteliche, costuiscono di fatto elaborazio-ni autentiche e innovative del ragionamento dantesco, dimostrando come la stratificazione degli intertesti e la profonda risemantizzazio-ne degli stessi in un’architettura teorica del tutto originale costitui-sca la modalità precipua di costruzione del testo da parte di Dante.

Alla luce del rimando esplicito alla filosofia politica aristotelica commentata da Tommaso in punti nevralgici dell’argomentazione, la critica si è recentemente orientata verso il riconoscimento e la va-lorizzazione di un movente soprattutto politico del trattato dantesco e della dottrina della locutio volgare ivi esposta, che conferisce sen-so anche alla storiografia letteraria e alla poetica tracciata all’interno del secondo libro, rappresentando la messa in atto di una strategia politico-culturale, sovramunicipale, ad opera di un intellettuale laico in esilio43.

All’inizio del primo libro del trattato, subito dopo l’esplicitazione di quale sia il suo subiectum (“argomento”, “materia”, “soggetto”)44, l’argomentazione si dipana lungo tre direttrici, come ha individuato Tavoni, scandite, rispettivamente, dalla maggioritaria ricorrenza di tre termini chiave, locutio (capp. i-v), ydioma (capp. vi-ix), vulgare (x-xix)45. Ad un’apparente polivalenza dei diversi termini utilizzati

42. Inglese, Il “mito” del volgare illustre cit., p. 99.43. Si vedano in particolare Imbach, Rosier-Catach, De l’un au multiple cit.; R.

Imbach, Appunti di uno storico della filosofia sul “De vulgari eloquentia”, in Let-ture classensi, 38, Le opere minori di Dante nella prospettiva della Commedia, Ra-venna 2009, pp. 41-62; I. Rosier-Catach, Man as a Speaking and Political Animal: A Political Reading of Dante’s De vulgari eloquentia, in Dante’s Plurilingualism. Authority, Knowledge, Subjectivity, a c. di S. Fortuna, M. Gragnolati e J. Trabant, Oxford 2010, pp. 34-51; il portato di tali significativi contributi all’interpretazione complessiva del trattato è accolto e argomentato in Tavoni, pp. 1068-1069.

44. Ibid., n. i, 2, pp. 1130-1132.45. M. Tavoni, Contributo all’interpretazione di De vulgari eloquentia I, 1-9,

in «Rivista di letteratura italiana», 5 (1987), pp. 385-496, in part. pp. 385-417 (e si veda la discussione con P. V. Mengaldo, Un contributo all’interpretazione di

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Il De vulgari eloquentia fra linguistica, filosofia e politica 299

da Dante per indicare “lingua” e “linguaggio” (sermo, locutio, lo-quela, lingua, ydioma, vulgare), fa da contraltare «una regolarità così stringente da doversi propriamente chiamare strategia»46: tali lessemi rappresentano, infatti, nei termini di una gradatio ascen-dente, i tre pilastri ideologici dell’architettura del primo libro, volto ad aperire la dottrina della vulgare eloquentia. Locutio rappresenta l’“espressione linguistica”, il “parlare” quindi il “linguaggio” «colto nella sua essenza di attività e mezzo di comunicazione»47; ydioma contraddistingue la “lingua particolare”, con piena valorizzazione della sua etimologia (che da Papia a Uguccione, nei lessici medie-vali, ma anche nell’esegesi biblica e in Tommaso riflette il senso originario di «proprietas loquendi», quindi di peculiarità idiomatica, di “lingua” in connessione con l’idea di “particolarità”48) e contrad-distingue la sezione storica del trattato come «termine etimologica-mente abilitato a trattare delle più antiche forme particolari in cui la facoltà linguistica dell’uomo si realizzò, prima di passare alle lingue volgari del presente»49; con vulgare Dante intende infine una “lingua particolare moderna”, una delle diverse formae loquendi della con-temporaneità dantesca. Tali termini scandiscono i momenti chiave del percorso d’ermeneusi “politica” del trattato.

3.1. Soli homini datum est loqui

In Dve I, ii-iii Dante definisce la locutio come un parlare ad alterum dimostrando progressivamente, per acquisizioni succes-sive, che l’attività locutoria è necessaria esclusivamente all’uomo in quanto compagnevole animale50, e come tale definibile solo nei

De vulgari eloquentia I, i-ix, in «Belfagor», 44 [1989], 5, pp. 539-558, in part. pp. 539-548; M. Tavoni, Ancora su De vulgari cit., pp. 470-482). La specificità della terminologia linguistica dantesca in relazione alle fasi dell’argomentazione è nuo-vamente definita, con minimi aggiustamenti, in Tavoni, pp. 1080-1081.

46. Tavoni, Contributo all’interpretazione cit., p. 386 (concetto ribadito in Tavoni, Ancora su De vulgari cit., p. 470).

47. Tavoni, n. i, 1, pp. 1127-1128; Introduzione, pp. 1068-1069.48. Tavoni, Contributo all’interpretazione cit., pp. 398-403; Id., Ancora su De

vulgari cit., pp. 477-81; Tavoni, n. iv, 1, pp. 1154-1155. 49. Id., Ancora su De vulgari cit., p. 479.50. «Lo fondamento radicale della imperiale maiestade, secondo lo vero, è la

necessità della umana civilitade, che a uno fine è ordinata, cioè a vita felice; alla

Raffaella Zanni300

termini dell’umanità (non già delle intelligenze angeliche né tanto-meno degli esseri più inferiori, gli animali), come esposto program-maticamente in apertura del ii capitolo, che avvia la quaestio circa l’essenza ontologica della nostra prima vera locutio (Dve I, ii, 1-2).

La costruzione di tale snodo dottrinale avviene attraverso una sa-piente e originale mescidanza di fonti filosofiche e teologiche. L’argo-mentazione si fonda su alcuni presupposti cardine della speculazione filosofica del tempo51: la concezione gerarchica dell’universo, di matri-ce essenzialmente neoplatonica52; la concezione teologico-economica per cui la natura nulla compie invano (e per cui ogni grado dell’es-sere risulta avere una collocazione e una funzione determinante); la riflessione filosofico-teologica del linguaggio, veicolata a partire da Tommaso, su base aristotelica. Il perno dell’argomentazione, che apre e chiude il dittico, è rappresentato da un luogo specifico della Senten-tia libri Politicorum di Tommaso, attraverso il quale Dante sostiene

quale nullo per sé è sufficiente a venire sanza l’aiutorio d’alcuno, con ciò sia cosa che l’uomo abisogna di molte cose, alle quali uno solo satisfare non può. E però dice lo Filosofo che l’uomo naturalmente è compagnevole animale» (Cv IV, i, 1); «[...] sì come Aristotile dice, l’uomo è animale civile, per che a lui si richiede non pur a sé ma altrui essere utile» (Cv IV, xxvii, 3). La fonte è chiaramente aristotelica, nell’articolazione fattane nel Peri Hermeneias, e mediata attraverso il commentario tomistico: «sed quia homo est animal naturaliter politicum et sociale, necesse fuit quod conceptiones unius hominis innotesceren t aliis, quod fit per vocem; et ideo necesse fuit esse voces significativas, ad hoc quod homines ad invicem convive-rent» (Exp. libri Periherm. I, l. 2, n. 2). I testi di Tommaso d’Aquino si intendono citati dall’Opera omnia S. Thomae nell’edizione leonina ora consultabile on line http://www.corpusthomisticum.org/.

51. R. Imbach, La langue d’Adam et la philosophie du langage chez Dante, in Id., Dante, la philosophie cit., pp. 200-206.

52. Tale concezione, per cui l’uomo occupa una posizione intermedia «ne l’ordine intellettuale de l’universo» fra l’intelligenza angelica e il brutum animal, rappresenta un punto cardine dell’argomentazione dottrinale dantesca: «e però che ne l’ordine intellettuale de l’universo si sale e discende per gradi quasi continui da la infima forma a l’altissima [e da l’altissima] a la infima, sì come vedemo ne l’ordine sensibile, e tra l’angelica natura, che è cosa intellettuale, e l’anima umana non sia grado alcuno, ma sia quasi l’uno a l’altro continuo per li ordini de li gradi, e tra l’anima umana e l’anima più perfetta de li bruti animali ancor mezzo alcuno non sia» (Cv III, vii, 6). Ancora nella Monarchia (d’ora in poi Mn, ed. a c. di B. Nardi, in Dante Alighieri, Opere minori cit.): «Sciendum quod homo solus in entibus tenet medium corruptibilium et incorruptibilium; propter quod recte a phylosophis assi-milatur orizonti, qui est medium duorum emisperiorum» (Mn III, xv, 3).

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Il De vulgari eloquentia fra linguistica, filosofia e politica 301

la necessità esclusiva della locutio all’essere umano in quanto funzio-nale ad una convivenza e inter-relazione civile: una necessità quindi che orienta il ragionamento dantesco nei termini strettamente politici del messaggio aristotelico mediato da Tommaso. Il passo si trova nel contesto del commento alla definizione aristotelica dell’uomo come ζῷον πολιτικόν (Polit. I, 2, 1253a3):

Deinde cum dicit ex hiis igitur manifestum etc., ostendit, quod homo sit naturali-ter civile animal (…). Concludit ergo primo ex praemissis, quod civitas est eorum quae sunt secundum naturam. Et cum civitas non sit nisi congregatio hominum, sequitur, quod homo sit animal naturaliter civile (Sent. Polit. I, l. 1, n. 26).Dicimus enim quod na tura n ih i l fac i t f rus t ra , quia semper operatur ad finem determinatum. Unde, si natura attribuit alicui rei aliquid quod de se est ordinatum ad aliquem finem, sequitur quod ille finis detur illi rei a natura. Videmus enim quod cum quaedam alia animalia habeant vocem, solus homo supra alia animalia habeat loquutionem (Ibid., n. 28).

La vox animale, come Aristotele affermava già nel II libro dell’Ethica, è data all’animale dalla natura per esprimere le pro-prie passioni guidate dall’istinto ed è distinta, come estrinsecazione fonica, a seconda delle specie (aliquas voces naturales, per cui il leone ruggisce, il cane latra ecc.)53. La locutio umana invece (con-cretizzata in sermo) è funzionale all’espressione di quanto concepito razionalmente nei termini di giusto e ingiusto, di bene e male, in quanto esclusivamente all’uomo è concessa naturaliter la capacità di discernimento etico (Sent. Polit. I, l. 1, n. 29). Ne consegue che l’uomo è animale domestico e civile, in quanto la comunicazione risulta fondativa di una comunità ristretta, a livello domestico, e più ampia, a livello di società civile. L’evidente rimando a tale strin-ga tomistico-aristotelica è chiarito nel passo conclusivo di Dve I, ii, 2 «sed necquicquam datum fuisset eis [la locutio agli angeli e agli animali]: quod nempe facere natura aborret», che parafrasa la nota formula aristotelica per cui la “natura non compie nulla invano”

53. «Est autem differentia inter sermonem et simplicem vocem. Nam vox est signum tristitiae et delectationis, et per consequens aliarum passionum, ut irae et timoris, quae omnes ordinantur ad delectationem et tristitiam, ut in secundo Ethico-rum dicitur. Et ideo vox datur aliis animalibus, quorum natura usque ad hoc perven-it, quod sentiant suas delectationes et tristitias, et haec sibiinvicem significent per aliquas naturales voces, sicut leo per rugitum, et canis per latratum, loco quorum nos habemus interiectiones» (Sent. Polit. I, l. 1, n. 28).

Raffaella Zanni302

(«natura nihil facit frustra» ravvisabile in diverse opere aristoteliche [De anima III, 9, 432b21-23; De caelo I, 4, 271a33]), comune alla tradizione scolastica, e variamente utilizzata da Dante anche in altri luoghi significativi della sua produzione54.

L’unicità della locutio umana viene affermata da Dante attra-verso l’utilizzo della questione scolastica della locutio angelica e del parlare degli animali. In negativo, in quanto Dante ne nega sostan-zialmente l’esistenza per entrambe le creature. L’elemento di partico-lare rilievo è la commistione fra componente sensibile e componente razionale della locutio, che in tal senso si caratterizza come preroga-tiva umana: solo l’uomo combina anima sensitiva e anima razionale. Il confronto è maturato attraverso la messa in luce delle peculiarità distintive della locutio angelica e del parlare animale sulla scia di una cospicua tradizione filosofico-teologica: l’originalità dantesca nell’utilizzo delle fonti è costituita dall’indirizzare gli argomenti che la tradizione aristotelico-tomistica portava a conferma dell’esistenza anche di una modalità locutoria angelica verso la dimostrazione del contrario; e viceversa dall’orientare quegli stessi elementi addotti dai teologi per contraddistinguere la comunicazione immediata de-gli angeli – rispetto a quella mediata degli uomini – verso la dimo-strazione che l’unica comunicazione ammissibile è quella umana, proprio perché attivabile esclusivamente attraverso un veicolo (che è signum) sensibile. Già Marigo aveva fornito nel proprio commen-to al Dve un’ampia panoramica di fonti, ove l’autorità indiscussa rimaneva quella tomistica nella discussione delle teorie aristoteliche sul linguaggio: dalla Sententia libri Politicorum (I, l. 1, nn. 28-29) alla Super Sententis (II, d. 11, q. 2, a. 3), dal De veritate (q. 9, a. 4) alla Summa Theologiae (I, q. 107, a. 1-5)55; a queste Mengaldo aggiungeva lo Speculum maius di Vincenzo di Beauvais (collettore di diverse auctoritates scolastiche) e il De regimine principum di Egidio Romano56. Mengaldo ha individuato un utilizzo repertoriale

54. Mengaldo, n. 8, p. 33.55. Marigo pp. 10-18.56. P. V. Mengaldo, Preistoria e componenti di una tesi dantesca («De vulgari

eloquentia» I ii 3; iii 1-2), in Id., Linguistica e retorica cit., pp. 162-199; Id., Problemi di un nuovo commento al De Vulgari eloquentia, ibid., p. 141; Mengaldo, pp. 32-39. Le fonti tomistiche dei capp. ii-iii vengono analizzate in relazione al nodo lingua-ragione (e intelletto possibile) e alla teoria tomistica della conoscenza da L. Sebastio,

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Il De vulgari eloquentia fra linguistica, filosofia e politica 303

della parola tomistica da parte di Dante, in quanto il messaggio ori-ginale appare notevolmente “snaturato” nell’argomentazione dan-tesca, a negazione di una tesi attraverso testi che sostanzialmente la affermano (ovvero l’esistenza di una comunicazione angelica)57. Tale composizione a mosaico del testo dantesco dovrebbe far scatu-rire, come già avvertiva Mengaldo, «qualche indicazione sul metodo di Dante teorico e sul suo modo di scegliere e utilizzare le proprie letture o ‘fonti’», tanto più nel caso di un testo, come il Dve «dal ca-rattere fortemente scorciato, ellittico con cui le singole tesi e le loro concatenazioni per lo più si presentano»58. Da ciò si riparte oggi, con l’apporto di circa un trentennio d’indagini sulla comunicazione nel mondo angelico e animale, ad opera degli studiosi di filosofia del linguaggio medievale, i cui contributi se non modificano sostan-zialmente il quadro dei probabili intertesti filosofico-teologici già da tempo individuati dai commentatori, permettono però «di capire meglio il senso della ricerca dantesca, cioè l’originale e orientata strategia di selezione-combinazione dei concetti e strutturazione ar-gomentativa imposta all’informazione reperita in queste fonti sco-lastiche», come afferma Tavoni all’interno della sua nuova edizione commentata59. Non limitandosi quindi al solo rilevamento di un ap-parente anti-tomismo delle affermazioni dantesche, o meglio di un utilizzo della fonte come repertorio lessicale, piegata in direzione opposta rispetto al messaggio originale, si potrebbe invece provare a ragionare sul fatto che al patente scarto dal modello possa aver cor-risposto invece una precisa strategia espressivo-comunicativa – un anti-tomismo costruito attraverso lessico e concetti specificamente

Per una lettura del “De vulgari eloquentia” in «L’Alighieri. Rassegna bibliografica dantesca», 22, (1981), 1, pp. 30-57; si veda inoltre Id., La lingua e la storia, in Id., Il poeta e la storia. Una dinamica dantesca, Firenze 1984, pp. 97-159.

57. Mengaldo, Preistoria e componenti cit., pp. 195-196; Mengaldo, p. 34.58. Ibid., p. 196. Mengaldo riconosce inoltre l’altissimo grado di concentra-

zione stilistica e semantica di questa pagina dantesca (ibid., p. 197). La densa con-centrazione di figure retoriche (chiasmo, zeugma, fig. etimologica, poliptoto ecc.), l’amplificazione del ragionamento per mezzo di dittologie sinonimiche, l’utilizzo dei due tipi di cursus più raccomandati (velox e planus), ne fanno una pagina me-morabile, perfettamente in linea con i dettami dei trattatisti (in particolare la Poetria nova di Geoffroi de Vinsauf, indubbiamente uno dei punti di riferimento retorico-stilistici per la composizione del trattato).

59. Tavoni, n. ii 2, p. 1139.

Raffaella Zanni304

(e chiaramente) tomistici. Lo scarto e la riformulazione del pensie-ro tomistico (mediato anche attraverso fonti teologiche differenti e altre puramente filosofiche, come mostrerò a breve) sottende infatti un pensiero originale maturato da Dante in fatto di linguaggio: la conclusione è che la locutio umana è unica secondo natura, ed è strumento di relazione e reggimento di una comunità civile60.

Irène Rosier-Catach, che in diverse occasioni ha avanzato e ar-gomentato la possibilità di un’interpretazione in chiave filosofico-politica del trattato61, di recente ha prodotto una sistematizzazione del panorama di fonti filosofiche alla base del concetto dantesco del-la locutio come attitudine specificamente umana62. La locutio è pre-sentata da Dante come l’atto di “enucleare”, “esternare” ad alterum quanto “concepito nella mente” (Dve I, ii, 3)63: tale definizione, che trae origine da un passo della traduzione latina del Timeo platonico da parte di Calcidio64, è riscontrabile con formulazione pressoché

60. Le acquisizioni più recenti sul pensiero linguistico dantesco tendono a svincolare l’apporto aristotelico “genuino” dalla mediazione tomistica (e agosti-niana), individuando una maggiore coesione dantesca alla riflessione linguistica originale di Aristotele. In tal direzione sono orientati alcuni dei contributi offerti nel volume Dante’s Plurilingualism cit.: esso raccoglie gli atti della conferenza omoni-ma tenuta nell’aprile 2008 al Berlin Institute for Cultural Inquiry, che ha affrontato, con taglio multidisciplinare, la portata profondamente innovativa del pensiero lin-guistico dantesco (nel Dve ma nel complesso della sua produzione). In particolare, all’interno di una prima sezione dedicata alla riflessione delle teorie del linguaggio medievali e l’originalità della posizione dantesca, che mostra abilmente di saper “negoziare” i differenti apporti offerti dalle fonti filosofiche, teologiche, retoriche e linguistiche, si vedano i contributi di J. Trabant, Millena variatio: Overcoming the Horror of Variation, pp. 24-33; Rosier-Catach, Man as a Speaking cit.; M. Tavoni, Volgare e latino nella storia di Dante, pp. 52-68; S. Gensini, Le idee linguistiche di Dante e il naturalismo fiorentino-toscano del Cinquecento, pp. 69-82 e F. Lo Pipa-ro, Aristotele e Dante, filosofi della variabilità linguistica, pp. 83-97.

61. Imbach, Rosier-Catach, De l’un au multiple cit.; Rosier-Catach, Man as a Speaking cit.

62. I. Rosier-Catach, Solo all’uomo fu dato di parlare. Dante, gli angeli e gli animali, in «Rivista di filosofia neo-scolastica», 98 (2006), 3, pp. 435-465.

63. In parallelo a Cv I, v, 12: «Così lo sermone, lo quale è ordinato a mani-festare lo concetto umano»; e I, xii, 13: «E noi vedemo che in ciascuna cosa di sermone lo bene manifestare del concetto è più amato e commendato».

64. «Siquidem propterea sermonis est ordinata communicatio, ut praesto fo-rent mutuae voluntatis indicia» (Timaeus a Calcidio translatus commentarioque instructus, a c. di J. H. Waszink e P. J. Jensen, London-Leiden 1962, p. 44).

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identica nei testi di Tommaso d’Aquino dedicati al parlare degli an-geli65. La definizione di Calcidio circolava in realtà in formulazioni varie ancor prima di Tommaso nel XIII secolo, precisamente presso i grammatici; esse presentano come minimo comune dominatore un aspetto fondamentale della sedimentazione dantesca della formula, quello dell’intersoggettività della comunicazione (enucleare aliis). La si riscontra in un passo della Summa grammatica di Ruggero Ba-cone, e permette al grammatico d’insistere sull’importanza dell’in-tenzione di significare come criterio per valutare la correttezza del discorso66; ancora in un luogo del De ortu scientiarum di Roberto di Kildwarby, ove l’elemento intersoggettivo costituisce fattore fonda-tivo del sermo che è signum67.

La prerogativa umana della locutio, imprescindibilmente inter-soggettiva, permette di spiegare sulla base di presupposti filosofici, accolti da Dante e fatti suoi nel ragionamento, da un lato la strenua negazione che Dante fa della locutio animale e angelica in quanto non necessaria, dall’altro la personale lettura proposta del Genesi, in

65. Due luoghi del De veritate, q. 9, a. 4: «Praeterea, ut dicit Plato, sermo ad hoc datus est nobis ut cognoscamus voluntatis indicia» (arg. 7) e «Praeterea, in omni locutione, oportet manifestari aliquid ignotum per notum, sicut nos ma-nifestamus conceptus nostros per sonos sensibiles» (arg. 14); un luogo del Super Sententiis «Praeterea, in omni locutione oportet esse aliquod signum, quod mentis occultum conceptum exprimat» (II, d. 11, q. 2, a. 3, arg. 2); infine una stringa della Summa Theologiae «Nihil est enim aliud loqui ad alterum, quam conceptum mentis alteri manifestare» (I, q. 107, a. 2; sulla quale si modella fortemente la definizione dantesca di locutio; vi tornerò a breve).

66. Rosier-Catach, Solo all’uomo fu dato di parlare cit., p. 438; sulla prassi medievale (in particolare nelle scuole di logica e grammatica del XIII secolo) di adeguare il discorso a ciò che il locutore intende dire, anche infrangendo a tale sco-po le regole del discorso ordinario (e sull’importanza dell’intenzione di significare), si veda Ead., La parole comme acte. Sur la grammaire et la sémantique au XIIIe siècle, Paris 1994.

67. Si potrebbe avanzare l’ipotesi, da sottoporre a puntuali verifiche, che una suggestione del valore di signum offerto da Roberto di Kildwardby (sermo totaliter signum) possa essere confluita nella particolare caratura conferita a signum da parte di Dante, che rappresenta la locutio (il sermo): «Consequenter dividenda est sermo-cinalis scientia, et quia sermo totaliter signum est, quia, ut dicit Plato, ad hoc in-ventus est sermo ut praesto sint mutuae voluntatis indicia, et signum est totaliter ad aliud, ideo scientia sermocinalis totaliter ordinatur ad aliud» (De ortu scientiarum, a c. di A. G. Judy, Toronto 1976, par. 468, p. 160 [cfr. anche par. 421, p. 147]).

Raffaella Zanni306

merito all’origine storico-sacra del linguaggio e all’individuazione del primus loquens68.

La questione della locutio angelica costituisce un caposaldo della speculazione teologica medievale69. Essa, che sembrebbe co-stituire una disputa di carattere puramente teologico, fonda in re-altà le sue radici su una più ampia riflessione circa la scientificità del linguaggio, nella sua dimensione semiotica: si tratta di un punto nodale della filosofia “linguistica” medievale, sviluppato a partire dal XIII secolo, che attraverso la mediazione della disputatio teo-logica sulla comunicazione nel dominio delle sostanze separate fa emergere all’interno delle teorie sul linguaggio umano la questione della comunicazione inter-soggettiva, del rapporto fra locutore e de-stinatario70. Dante inserisce quindi la propria dottrina della locutio all’interno di tale sistema ideologico, conferendo una connotazione antropologica del linguaggio e delle componenti della comunicazio-ne, quali elementi imprescindibili della vita comunitaria.

Il primo richiamo alla locutio angelica in Dve segue la chiarifi-cazione del «quid cum loquimur intendamus»:

Si etenim perspicaciter consideramus quid cum loquimur intendamus, patet quod nichil aliud quam nostre mentis enucleare aliis conceptum. Cum igitur angeli ad pandendas gloriosas eorum conceptiones habeant promptissimam atque ineffabilem sufficientiam intellectus, qua vel alter alteri totaliter inno -tesc i t per se, vel saltim per illud fulgentissimum Speculum in quo cuncti

68. «Cette dimension du parler “à autrui” nous semble avoir été insuffisam-ment prise en compte, alors qu’elle est elle-aussi une clef pour comprendre à la fois le projet du DVE et certains de ses développements», Imbach, Rosier-Catach, De l’un au multiple cit., p. 513, n. 7.

69. Sulla locutio angelica nel panorama teologico e filosofico del XIII secolo si vedano almeno i seguenti contributi, in ordine di apparizione, A. Tabarroni, Il linguaggio degli angeli, in «Prometeo. Rivista trimestrale di scienza e storia», 12 (1985), 3, pp. 88-93; C. Panaccio, Angel’s Talk, Mental Language and the Transpa-rency of the Mind, in Vestigia, Imagines, Verba. Semiotics and Logic in Mediaeval Theological Texts: XIIth-XIVth century, a c. di C. Marmo, Tournhout 1997, pp. 324-335 (e anche Id., Le discours intérieur, de Platon à Guillaume d’Ockham, Paris 1999); T. Suarez-Nani, Connaissance et langage des anges selon Thomas d’Aquin et Gilles de Rome, Paris 2002. Ancora più recenti, Ead., Il parlare degli angeli: un segreto di Pulcinella?, in «Micrologus», 14 (2006), pp. 79-100; I. Rosier-Catach, Le parler des anges et le nôtre, in Ad ingenii acuitionem: studies in honour of Al-fonso Maierù, a c. di S. Caroti [et al.], Louvain-La-Neuve 2006, pp. 377-401.

70. Suarez-Nani, Connaissance et langage cit., pp. 179-253.

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representantur pulcerrimi atque avidissimi speculantur, nullo signo locutionis indiguisse videntur (Dve I, ii, 3).

Secondo Dante l’esternazione di quanto concepito dalla mente nel campo delle sostanze separate avviene attraverso due modalità: immediatamente, cioè letteralmente “senza mediazione”, e l’angelo riesce a diffondere direttamente (pandere) le proprie gloriose con-cezioni mentali all’altro in virtù di una rapidissima e ineffabile ca-pacità intellettuale – per cui un angelo conosce attraverso la propria esistenza l’altro angelo e chiaramente vede (e legge) i suoi contenuti mentali71; o mediatamente, attraverso lo sguardo nello Specchio, che è il Verbo divino, verso il quale tutti gli angeli rivolgono continua-mente il proprio ardore, in una forma di necessario rispecchiamento – nell’ambito della conoscenza per gratiam per cui l’angelo conosce gli altri angeli e i propri contenuti mentali in Dio, che tutti li assom-ma, rappresenta e riflette. Rafforza tale corrispondenza biunivoca fra lo Specchio che è Verbo, Dio e le sostanze angeliche la figura eti-mologica Speculum-speculantur (immagine assai ricorrente anche nella produzione teologica scolastica, mediata a Dante da Vincenzo di Beauvais)72. Tale immediatezza nell’emissione e nella ricezione del messaggio rende ragione della non necessità da parte dell’angelo di alcun signum locutionis.

Ancora poco dopo Dante riallude alla comunicazione nel cam-po delle intelligenze separate:

71. «Sed unus Angelus cognoscit indicia voluntatis alterius Angeli per seip-sum, quia sunt spiritualia; et omnia spiritualia ab Angelo eadem cognitione co-gnoscuntur. Unde, cum Angelus per seipsum spiritualem naturam alterius Angeli cognoscat, per seipsum cognoscet voluntatem ipsius; et ita non indiget aliqua locu-tione» (De veritate, q. 9, a. 4, arg. 7).

72. Mengaldo, Preistoria e componenti cit., pp. 166-185; Mengaldo, n. 2, p. 34. Il motivo dell’angelo-Specchio potrebbe derivare dalla linea dello Pseudo-Dionigi secondo B. Faes de Mottoni, Bonaventura e la scala di Giacobbe. Letture di angeologia, Napoli 1995, p. 252. La stessa studiosa fa notare inoltre come la posizione di Vincenzo di Beauvais sulla locutio angelica sia in realtà affatto origi-nale, riprendendo alla lettera in alcuni punti, abbreviandola e riducendola nelle sue varie parti, la concezione della lingua angelica della Summa de bono di Filippo il Cancelliere (cfr. Ead., Il linguaggio e la memoria dell’angelo in Dante, in Dante e la cultura del suo tempo. Dante e le culture dei confini, Atti del Convegno Inter-nazionale di Studi danteschi [Gorizia, ottobre 1997], Gorizia 1999, pp. 33-52, alle pp. 33-34 n. 1).

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Cum igitur homo non nature instinctu, sed ratione moveatur, et ipsa ratio vel cir-ca discretionem vel circa iudicium vel circa electionem diversificetur in singu-lis, adeo ut fere quilibet sua propria specie videatur gaudere, per proprios actus vel passiones, ut brutum animal, neminem alium intelligere opinamur. Nec per spiritualem speculationem, ut angelum, alterum alterum introire contigit, cum grossitie atque opacitate mortalis corporis humanus spiritus sit obtectus. Oportuit ergo genus humanum ad comunicandas inter se consceptiones suas aliquod rationale signum et sensuale habere: (…) de una ratione in aliam nichil deferri possit nisi per medium sensuale (Dve I, iii, 1-2).

Con questo passo egli fissa le caratteristiche principali del-la locutio umana, che non può essere mossa dal solo istinto, ma è costantemente accompagnata dalla ragione. In quanto espressione delle facoltà individuali di discrezione, giudizio e scelta (diversifi-cate da individuo a individuo, rispetto al comportamento di gruppo, sua propria specie, che regola il mondo animale) la locutio detiene una funzione civile. L’opacità della materia corporea umana impone un veicolo (medium), un intermediario sensibile alla comunicazione dei propri concepta mentis e dunque, in linea con la duplice natura razionale e sensibile dell’essere umano, la locutio ha una duplice componente: razionale e sensibile.

Tornerò più avanti sul carattere molteplice e individuale delle passioni e dei comportamenti umani, e sul duplice statuto sensibile e razionale della locutio umana. Mi interessa ora approfondire l’uti-lizzo da parte di Dante delle fonti teologiche nel confronto della locutio umana con quella angelica, definita da Dante nei termini di speculatio spiritualis, che tutta si gioca sul terreno della dialetti-ca trasparenza/ opacità, dalla quale consegue assenza/ necessità del medium, tacendo invece un elemento fondamentale nella giustifica-zione teologica della locutio angelica, quello della volontà.

La teologia medievale afferma l’esistenza di una comunicazio-ne angelica a partire dal desiderio che gli angeli stessi hanno di ma-nifestare i propri pensieri: una direzione della volontà, che muove l’intelletto ad suam operationem73. La comunicazione fra gli angeli,

73. Oltre ad una motivazione estrinseca all’angelo, che deriva dall’adozione del-la struttura gerarchica dell’ordo rerum, entro la quale gli enti situati ad un grado su-periore possiedono e realizzano perfettamente le prerogative degli inferiori; in base a ciò, se gli uomini comunicano attraverso il linguaggio, gli angeli stessi potranno farlo secondo una modalità più perfetta (Tommaso, Super Sent. II, d. 11, q. 2, a. 3, s. c. 2).

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a partire dall’argomentazione fornita da Tommaso nella quaestio 9 del De veritate (De communicatione scientiae angelicae)74 e nella successiva quaestio 107 del primo libro della Summa Theologiae (De locutionibus Angelorum) comporta essenzialmente il partecipa-re ad alterum i propri pensieri, di per sé occulti (secreta cordis o co-gitationes cordium)75: essi possono infatti rimanere celati, come uno specchio che può a volontà riflettere la propria immagine ad altro specchio o mantenerla celata (come vogliono Alessandro di Hales o Bonaventura)76. La locutio costituisce quindi un atto volontario di disvelamento, ad opera della volontà dell’angelo “parlante”, che rende immediatamente intelligibile, “visibile” ad alterum ciò che intende comunicare, in virtù della trasparenza della propria coscien-za77. La volontà costituisce quindi il requisito fondamentale della comunicazione nel campo delle sostanze separate, senza alcuna ne-cessità di mediazione sensibile78.

Secondo la maggior parte dei teologi gli angeli non dispongono di una locutio discorsiva e composizionale, né tantomeno possie-dono la facoltà di articolare vocalmente (sensibilmente, per vocem) quanto concepito dalla mente, in quanto mancano di materia corpo-rea. L’attivazione di una comunicazione che resta di fatto intellettiva può estrinsecarsi attraverso il nutus “cenno” (con un’attenuazione tomistica nell’affermare che gli angeli possono formare dei suoni nell’aria simili alle voces umane)79; l’estrinsecazione del linguaggio

74. In part. a. 4 (Quarto quaeritur utrum unus Angelus alii loquatur).75. «Dicendum, quod in Angelis aliquem modum locutionis ponere oportet.

Cum enim Angelus secreta cordis non cognoscat specialiter et directe (...), oportet quod unus alteri manifestet suum conceptum; et haec est locutio Angelorum» (De veritate, q. 9, a. 4 co.).

76. Si veda a tal proposito C. Panaccio, Le discours intérieur, de Platon à Guillaume d’Ockham, Paris 1999.

77. Come espresso chiaramente nel Convivio: «Li Angeli che sono sanza grossezza di materia, quasi diafani per la purità de la loro forma» (Cv III, vii, 5).

78. Tommaso, Super Sent. II, d. 11, q. 2, a.3; De ver. q. 9, a. 4 e a. 6 (così anche Bonaventura, In II sent. d. 10, a. 3, q. 1 e Alessandro di Hales, Summa Ha-lensis II).

79. La teologia medievale riconosce tuttavia un sermo intelligibilis, sine vocis prolatus (Agostino, Giovanni Damasceno, Giovanni Saraceno sulla Gerarchia ce-leste dello Pseudo-Dionigi); Egidio Romano propone un modello del tutto originale (Quaest. disp. de cognitione angelorum, q. 12) e ammette una forma di linguag-gio anche per gli angeli (composto di parole intelligibili [signa intelligibilia] ed

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angelico consiste quindi in un volgere volontario della propria co-noscenza ad altro angelo, laddove all’uomo è necessario un medium sensibile, dovendo il proprio concetto/ messaggio attraversare la grossities dell’emittente (locutore) e del destinatario: è quanto Tom-maso esprime in tre luoghi della q. 107 della Summa Theologiae, che costituiscono gli intertesti primari della costruzione del discorso dantesco:

Ad intelligendum igitur qualiter unus Angelus alii loquatur (…), voluntas mo-vet intellectum ad suam operationem (…). Quando autem mens convertit se ad actu considerandum quod habet in habitu, loquitur aliquis sibi ipsi, nam ipse conceptus mentis interius verbum vocatur. Ex hoc vero quod conceptus mentis angelicae ordinatur ad manifestandum alteri, per voluntatem ipsius Angeli, conceptus mentis unius Angeli innotesc i t alteri, et sic loquitur unus Angelus alteri. Nihil est enim aliud loqui ad alterum, quam conceptum mentis alteri manifestare (S. Theol. I, q. 107, a. 1).Secundo autem clauditur mens hominis ab alio homine per g ross i t i em corpor i s . Unde cum etiam voluntas ordinat conceptum mentis ad manife-standum alteri, non statim cognoscitur ab alio, sed oportet aliquod s ignum sens ib i le adhibere (…). Hoc autem obstaculum non habet Angelus. Et ideo quam cito vult manifestare suum conceptum, statim alius cognoscit. (Ibid., ad. 1).Ad secundum dicendum quod locutio exterior quae fit per vocem, est nobis necessaria propter obs tacu lum corpor i s . Unde non convenit Angelo, sed sola locutio interior; ad quam pertinet non solum quod loquatur sibi interius concipiendo, sed etiam quod ordinet per voluntatem ad alterius manifesta-tionem. Et sic lingua Angelorum metaphorice dicitur ipsa virtus Angeli, qua conceptum suum manifestat. (Ibid., ad. 2).

Dante riprende ad verbum la sua fonte («ad pandendas gloriosas eorum conceptiones», innotescere, Dve I, ii, 3; grossities corporis; «humanus spiritus […] obtectus», Dve I, iii, 180), proprio laddove

estrinsecabile attraverso una scrittura “spirituale”, impressa sotto forma di figure nell’empireo), conferendo quindi una forte caratura semiotica alla locutio angelica (cfr. B. Faes de Mottoni, Voci, alfabeto, e altri segni degli angeli nella Quaestio XII del De cognitione angelorum di Egidio Romano, in «Medioevo», 13 [1987], pp. 71-104).

80. Combinando, con evidente mimesi lessicale, un’ulteriore stringa tomistica che insiste sul solo nutus intentionum come veicolo comunicativo tra le intelligenze separate: «Videtur quod Angeli non accipiant cognitionem aliquorum per mutuam locutionem (...): si nuda et intecta anima viveremus, ex solis nutibus intentionum cogitationes alterutrum panderen tur. Sed Angeli habent intellectum non ob tec -

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Il De vulgari eloquentia fra linguistica, filosofia e politica 311

Tommaso afferma l’identica volontà angelica e umana di comunica-re, attraverso tuttavia una modalità di comunicazione intellettiva e tramite illuminazione del verbum interius (rappresentativo del con-ceptum mentis), trasparente e non sensibilmente mediata (rispetto a quella umana exterior, sensibilis, per vocem), postulabile come locutio (qui Tommaso utilizza il termine lingua) esclusivamente me-taphorice81.

è proprio tale valenza metaforica della lingua degli angeli a non essere ammessa da Dante. L’impossibilità di una comunicazione im-mediata e intelligibile fra gli uomini (speculatio spiritualis, Dve I, iii, 1), ostacolata dall’opacità della materia corporea, impone all’uo-mo un medium sensibile e razionale insieme per la comunicazione intersoggettiva, codificabile attraverso un signum che è rappresenta-to anzitutto dalla voce, estrinsecazione fisica della capacità fonatoria dell’essere umano (articolata in diversas prolationes82), quindi dalla possibilità di declinare attraverso vocaboli e costruzioni complesse (vocabula) il proprio conceptum mentis. La questione della locutio angelica, invertendo il modello speculativo della teologia medieva-

tum corpore . Ergo unus alterius cogitationes videt; et ideo mutua locutione non egent» (Super Sent. II, d. 11, q. 2, a. 3, arg. 1). Tale rimando dimostra efficacemente, come gia voleva Mengaldo (Id., Preistoria e componenti cit., p. 189, n. 45; Mengal-do, nn. 4-5, pp. 39-40) e come ora ribadito in Tavoni, n. iii, 1, p. 1150, la validità in sede ecdotica della difficilior di B «obtectus» (rispetto a «obtentus» GT), in quanto lessema tecnico tomistico; l’immagine del corpo come “veste mortale” dell’anima del resto ricorre frequentemente nel macrotesto dantesco (Cv III, vii, 5; If 13, 103-104; Pg 1, 75; 11, 43-44; 16, 37-38; 30, 13-15; Pd 14, 43-44).

81. Il valore metaforico dell’impiego di termini linguistici per la comunica-zione angelica è chiarito da Tommaso in Super Sent. II, d. 11, q. 2, a. 3 co.: «Quando ergo speciem conceptam ordinat ut manifestandam alteri, dicitur verbum cordis; quando vero coordinat eam alicui eorum quae unus Angelus in alio naturaliter vide-re potest, illud naturaliter cognoscibile fit signum expressivum interioris conceptus; et talis expressio vocatur locutio, non quidem vocalis, sed intellectualibus signis expressa; et virtus exprimendi dicitur lingua eorum».

82. Il lessema ritornerà anche nella descrizione dell’ydioma adamitico (Dve I, vi, 4) e nella disamina dei volgari italiani (I, xiv, 2) e va inteso in senso fonetico, a differenza di quanto fatto nei precedenti commenti, da Marigo a Mengaldo, che lo interpretavano in senso morfologico. L’etimologia di prolatio, da profero è «actus proferendi vel pronuntiandi», come confermano le attestazioni classiche e i lessici medievali, e indica quindi l’“emissione”, la “pronuncia” (cfr. Tavoni, n. vi, 4, pp. 1177-1178).

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le, è piegata “spregiudicatamente” al proprio fine, quello di dimo-strare che l’esistenza della locutio, in quanto definibile attraverso caratteri e facoltà di pertinenza squisitamente umana, può e deve essere postulata esclusivamente sub speciem humanitatis83.

Come sottolinea Rosier-Catach, risulta caratteristico del ragio-namento dantesco il tacere la questione, fondamentale per i teologi, della volontà di comunicare i propri pensieri da parte degli angeli, una volontà che indirizza reciprocamente l’emissione e la ricezione del messaggio84. L’argomento essenziale della volontà è declinato dai teologi con sfumature assai differenti: Alberto Magno e Tom-maso d’Aquino individuano una volontà di trasmissione da parte dell’emittente, a cui corrisponde un immediato ascolto del riceven-te; Alessandro di Hales e Bonaventura sottolineano la necessità di una doppia volontà, d’emissione e ricezione; Ockham afferma la volontà del solo destinatario, in quanto l’angelo emittente non pos-siede una volontà specifica d’indirizzo del proprio messaggio, ma lo dirige gratuitamente e indistintamente verso tutti. Infine Olivi intro-duce la figura dell’angelo “disattento” e il concetto correlato di una conversione latente o “occulta”, come uno sguardo “generale” atto a protrarsi sull’oggetto presentato, quindi virtualmente predisposto a protendersi quando venga prodotto un segno sufficientemente in-tenso. Egidio Romano presenta invece una fisionomia di pensiero del tutto originale, rifiutando la volontà e l’ordinatio ad alterum quali criteri distintivi nella caratterizzare della locutio angelica, implicando invece la mediazione di un signum, come riproduzione dell’articolazione profonda del pensiero. Il silenzio di Dante circa una volontà comunicativa angelica, che fa scaturire l’esternazione dei secreta cordis85, è funzionale a spostare il carattere distintivo della comunicazione sulla sua componente sensibile e razionale, in-

83. Così anche in Cv III, vii, 8, ove Dante insiste sull’origine e finalità ra-zionale (e sociale) della comunicazione e del linguaggio e in quanto tale esclusivo appannaggio umano: «(...) operazioni che sono proprie de l’anima razionale, dove la divina luce più espeditamente raggia: cioè nel parlare e ne li atti che reggimenti e portamenti sogliono essere chiamati. Onde è da sapere che solamente l’uomo intra li animali parla, e ha reggimenti e atti che si dicono razionali, però che solo elli ha in sé ragione».

84. Rosier-Catach, Solo all’uomo fu dato di parlare cit., p. 442-447.85. Suarez-Nani, Il parlare degli angeli: un segreto cit., pp. 4-7.

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dirizzando quindi il ragionamento verso un orizzonte d’attesa esclu-sivamente umano: dimostra ciò anche l’utilizzo del principio della materialità del corpo come ostacolo ad una diretta manifestazione del proprio conceptum mentis, elemento utilizzato dagli stessi teolo-gi, Tommaso in primis, per dimostrare la differenza fra la modalità comunicativa angelica e quella umana.

La non menzione della volontà in Dve è del resto coerente con la concezione dell’angelo che Dante esprimerà più chiaramente nella sua produzione successiva, in rapporto all’intelletto umano (da Mn I, iii, 7 a Pd 29, 70-84)86: mentre Tommaso teorizza un angelo come deposito di conoscenza, che può essere comunicato solo se attivato dal suo intelletto dietro sollecitazione della volontà e per impulso di questa orientato ad un destinatario, Dante concepisce la creatura angelica come puro intelletto trasparente, atto puro (senza passaggio attraverso la potenzialità), nella quale tutto è visibile e svelato (per cui appare necessariamente sprovvista di volontà), rimandando alla concezione aristotelica radicale, in particolare averroistica. Lo ave-va rilevato Nardi87, e lo ha argomentato in tempi più recenti Imbach, riconoscendo un’identità tra esse e intelligere dello statuto angelico nel pensiero dantesco, che va allineandosi alle posizioni sostenute da Boezio di Dacia e Sigieri di Brabante condannate da Tempier nel 1277 (art. 47/85); ancora, il fatto che l’intelligere delle intelligenze separate si eserciti senza interruzione, per cui non sussiste in campo angelico un’acquisizione successiva di nuove conoscenze, sembre-rebbe trarre origine dal commento di Sigieri al De causis, anch’esso condannato (art. 48/ 76)88. Un’istanza aristotelica radicale nella con-figurazione della locutio umana passa anche attraverso il confronto con la comunicazione nel mondo animale, come chiarirò a breve.

La discussione teologico-tomistica intorno alla locutio angelica è utilizzata da Dante in funzione di un ritorno al messaggio politico aristotelico, per definire la locutio in termini esclusivi di umanità: il centro è quindi Aristotele e la configurazione dell’uomo come ani-male politico e sociale. L’adesione al modello della filosofia politica

86. Sulla declinazione dantesca dei concetti di volontà e memoria nell’angelo si veda Faes de Mottoni, Il linguaggio e la memoria dell’angelo cit.

87. Mn, n. 7, pp. 296-298.88. Imbach, Dante, la philosophie cit., pp. 146-147.

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aristotelica nella definizione della locutio va chiarendosi anche attra-verso il confronto che Dante opera con la modalità conoscitiva e il parlare delle creature inferiori, gli animali89:

Inferioribus quoque animalibus, cum solo nature istinctu ducantur, de locutione non oportuit provideri: nam omnibus eiusdem speciei sunt iidem actus et passio-nes, et sic possunt per proprios alienos cognoscere; inter ea vero que diversarum sunt specierum non solum non necessaria fuit locutio, sed prorsus dampnosa fuisset, cum nullum amicabile commertium fuisset in illis (Dve I, ii, 5).

Gli animali occupano il gradino più basso dell’ordo rerum e la loro anima «tutta in materia è compressa» (Cv III, vii, 5), privata com-pletamente, secondo natura, dell’elemento razionale; la loro forma di conoscenza è immediata in quanto guidata dal solo istinto, che per-mette un orizzonte comune di passioni e atti all’interno della stessa specie, laddove nell’essere umano actus e passiones sono condivisi da tutti gli individui in quanto tali – a livello sensuale, ma diversificati per ogni singolo individuo, a livello razionale, in quanto ognuno esprime attraverso la locutio una personale e specifica conceptio mentis, codi-ficata in una corrispondente compositio vocis. Ogni individuo umano quindi fa specie a sé, «ipsa ratio vel circa discretionem vel circa iu-dicium vel circa electionem diversificetur in singulis» (Dve I, iii, 1)90. Attraverso passioni e comportamenti condivisi, gli animali possono riconoscere quelli degli altri attraverso i propri e la forma di conoscen-za appare anche in questo caso immediata (per rispetti diversi, come quella angelica); fra specie diverse non c’è necessità comunicativa né di condivisione in quanto non si osserva lo stesso orizzonte di biso-

89. Per la questione del linguaggio degli animali, con particolare attenzione al fenomeno dell’articolazione della voce, nella teoria linguistica e grammaticale an-tica, si veda A. Tabarroni, On Articulation and Animal Language in Ancient Lingui-stic Theory, in «Versus. Quaderni di studi semiotici », 50/51 (1988), pp. 103-121; nel Medioevo, U. Eco, R. Lambertini, C. Marmo, A. Tabarroni, Latratus canis, in L’uomo di fronte al mondo animale nell’alto Medioevo, Atti della XXXI Settimana di studio CISAM (Spoleto, 7-13 aprile 1983), Spoleto 1985, pp. 1181-1230 (rie-laborato in Idd., On Animal Language in the Medieval Classification of Signs, in On the Medieval Theory of Signs, in «Versus. Quaderni di studi semiotici», 38/39 [1984], pp. 3-38 e in Idd., On the Medieval Theory of Signs, a c. di U. Eco e C. Marmo, Amsterdam-Philadelphia 1989, pp. 3-41).

90. Il concetto dell’agire secondo specie, proprio della creatura animale, con-trapposto all’agire secondo inclinazione individuale, proprio di quella umana razio-nale, è articolato diffusamente da Tommaso in Contra Gent. III, c. 113, nn. 1-3.

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gni e comportamenti guidati dall’istinto (in tal senso passiones). A tal proposito non solo la locutio, “la parola” non risulta necessaria, ma addirittura potrebbe essere nociva, in quanto le diverse specie animali non sono tra loro vincolate da alcun solidale e amicale commertium, a differenza del negotium humanum, che si articola, come afferma Dan-te poco dopo, attraverso permulta ac diversa ydiomata (Dve I, vi, 1).

La sintetica argomentazione dantesca sulla comunicazione nel mondo animale, centrata sulla distinzione caratterizzante fra esclu-siva sensualità animale e commistione fra sensibile e razionale dell’uomo, condensa al suo interno le già menzionate nn. 28-29 alla lectio 1 del I libro della Sententia libri Politicorum, che costituisco-no il sostrato dell’intero capitolo, e che operano anch’esse il con-fronto fra locutio umana (per sermonem) e “parlare” degli animali (per simplicem vocem); in particolare quel luogo in cui Tommaso insiste sul valore etico e civile del linguaggio:

Sed loquutio humana significat quid est utile et quid nocivum. Ex quo sequitur quod significet iustum et iniustum. Consistit enim iustitia et iniustitia ex hoc quod aliqui adaequentur vel non aequentur in rebus utilibus et nocivis. Et ideo loquutio est propria hominibus; quia hoc est proprium eis in comparatione ad alia animalia, quod habeant cognitionem boni et mali, ita et iniusti, et alio-rum huiusmodi, quae sermone significari possunt. Cum ergo homini datus sit sermo a natura, et sermo ordinetur ad hoc, quod homines sibiinvicem commu-nicent in utili et nocivo, iusto et iniusto, et aliis huiusmodi; sequitur, ex quo natura nihil facit frustra, quod naturaliter homines in his sibi communicent. Sed communicatio in istis facit domum et civitatem. Igitur homo est naturali-ter animal domesticum et civile (Sent. Polit. I, l. 1, n. 29).

Dante utilizza le affermazioni di Tommaso con il complemento di due passi del De Regimine principum (con identico rimando alla Politica aristotelica): nel primo Egidio afferma che il sermo è stato dato all’uomo dalla natura per garantire la convivenza civile, quindi per rappresentare e insegnare reciprocamente la disciplina – elemen-to che rende l’uomo stesso, naturaliter, animale sociale:

Quia ergo homo non sufficienter ex instinctu naturae inclinatur ad opera sibi debita, natura dedit ei loquelam sive sermonem, ut per sermonem homines se invicem doceant, et unus ab alio suscipiat disciplinam. Et quia hoc fieri non potest, nisi simul cum aliis convivamus, naturale est homini simul convivere cum aliis et esse animal sociale. Unde et Philosophus I. Poli. inter alias ratio-nes, quas tangit, probantes hominem naturaliter esse sociale animal, potissime innititur huic rationi, videlicet, quod quia sermo est ad alterum ut ad socios, ex

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quo natura dedit homini sermonem, quem non dedit animalibus aliis, sequitur hominem magis naturaliter esse animal sociale, quam animalia cetera (De regimine principum II, i, 1)91.

Nel secondo passo Egidio approfondisce il carattere fondamen-tale del sermo umano di rappresentare non esclusivamente le pas-sioni (come farebbe la semplice vox animale) bensì il discernimento etico, quindi ciò che è ritenuto giusto (da seguire e insegnare ad al-tri) e ciò che è ingiusto (da fuggire), elemento che contraddistingue la socialità civile del vivere umano dalla semplice coabitazione e comunicazione per speciem degli animali:

Unde Philosophus ait primo Politi. quod in aliis animalibus ab homine, usque ad hoc eorum natura pervenit, ut vox sit eis signum delectabilis et tristabilis, ut habeant sensum delectabilem et tristabilem. Hoc enim sibi invicem per vo-cem significant. Canis enim eo quod latrat, aliter latrat cum delectatur cum tristatur. <Et cum delectatur vel tristatur > potest alteri cani per suum latratum significare tristitiam vel delectationem quam habet. Sed hominibus ultra hoc datus est sermo, per quem distincte significatur quid conferens, quid iustum, et quid iniustum (…). Differt ergo civitas a domo, quia in ea non solum quae-ritur quid conferens et quid nocivum, sed etiam quid iustum et quid iniustum, utraque tamen communitas erit naturalis tam domestica quam civilis, eo quod per sermonem nobis datum a natura repraesentatur conferens et nocivum, et iustum et iniustum (De regimine principum III, i, 3).

Centrale appare quindi, fra Tommaso, Egidio e Dante, la distinzio-ne tra affezioni e azioni animali, istintive e umane, mediate razional-mente. Si profila sottotraccia un ulteriore intertesto, additato da Rosier-Catach92, quale fonte comune a Tommaso ed Egidio (e verosimilmente allo stesso Dante, come indicano riscontri lessicali): si tratta di un passo del Liber de naturalibus di Avicenna, assai diffuso nel XIII secolo, che costituisce una delle principali riflessioni dell’epoca in ambito filoso-fico sul linguaggio animale93, inserito all’interno di un significativo ri-

91. Si cita da Egidio Romano, De regimine principum lib. III, apud Antonium Bladum, Romae 1556 (rist. anast. Frankfurt am Main 1968).

92. Rosier-Catach, Solo all’uomo fu dato di parlare cit., pp. 453-460. Ead., Une forme particulière de langage mental, la locutio angelica, selon Gilles de Rome et ses contemporains, in Le langage mental du Moyen Âge à l’âge classique, a c. di J. Biard, Louvain 2009, pp. 60-93

93. A più riprese vi si riferisce anche Alberto Magno, laddove si interroga sul parlare degli animali, in particolare sulla possibilità che essi possano, o meno,

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Il De vulgari eloquentia fra linguistica, filosofia e politica 317

tratto della psicologia umana, d’impianto neoplatonico, ma improntato ad Aristotele (anch’esso presenta alla base Pol. I, 2, 1253a3):

Ex his ergo causis et aliis minus evidentibus sed pluribus numero, necessa-rium fuit homini habere naturaliter potentiam docendi alium sibi socium quod est in anima eius signo aut opere. Ad hoc autem commodior fuit vox quae di-viditur in elementa ex quibus fiunt multae compositiones sine labore corporis, et sunt tales quae non permanent et secretae ei qui non debent eas percipere. Post vocem autem esset nutus qui est eiusmodi, sed vox magis indicat quam nutus (…); ergo natura fecit ut anima ex sonis componeret aliquid per quod posset docere alium. Reliqua quoque animalia habent sonos, quibus sciunt alia dispositione, eius quod est in cordibus eorum; ipsi autem soni non signi-ficant nisi naturaliter et confuse quod appetitur aut quod respuitur indiscrete; quod autem habet homo de hoc est ad placitum, eo quod humani appetitus quasi infiniti sunt; unde non potuit homo naturaliter habere sonos sine fine. Ex proprietatibus ergo hominis est ipsa necessitas quae eum induxit ad dis-cendum et docendum et alia necessitas quae eum indixit ad dandum et re-cipiendum secundum mensuram iustitiae et deinde aliae necessitates, veluti facere conventus et adinvenire artes. Cetera vero animalia (…) habent artes: construunt enim casas vel nidos (…), sed hoc non fit adinveniendo nec me-ditando, sed instintu insito, unde non variatur nec differt; plura autem ex his fiunt ad meliorandum dispositiones suas aut propter necessitatem specialem; non propter necessitatem singularem; in eis autem quae faciunt homines, plura fiunt propter necessitatem singularem et plura ad meliorandum disposi-tionem suas ipsius singularis (Liber de naturalibus V, i, 28-60)94.

Avicenna esprime i principi fondamentali che oppongono alla conoscenza e comunicazione animale quella umana: troviamo infat-ti una definizione del linguaggio che tiene conto della fondamentale componente intersoggettiva (del rapporto ad alterum) qui articolata nei termini del docere (sul quale si allinea il capitolo del De regimine principum); una formulazione del cosiddetto carattere composiziona-le del linguaggio, per cui la vox di cui è dotato l’uomo per natura (a differenza dei confusi suoni che può emettere l’animale, definite voces naturales da Tommaso), è divisa in un certo numero di elementi che possono a loro volta comporsi ad placitum (secondo combinazioni volontarie), per esprimere i quasi infiniti appetiti dell’essere umano; il carattere assolutamente provvisorio delle composizioni vocali, e l’ele-

vocare, “produrre una voce”, cum immaginatione significandi (per la discussione specifica cfr. Rosier-Catach, Solo all’uomo fu dato di parlare cit., pp. 456-457).

94. Avicenna, Liber de anima seu sextus de naturalibus, éd. critique de la trad. lat. méd. par S. Van Riet, Louvain 1972, pp. 71-73.

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mento discriminante della finalità delle stesse, che vengono indirizza-te ad uno specifico destinatario e rimangono occulte ad altri. Infine si rileva la costante opposizione fra istinto naturale dell’animale e razio-nalità umana, dialettica che rende ragione della fissità e del numero ridotto di affezioni e compiti che spettano agli animali, propri della singola specie, e l’infinita varietà delle affezioni, dei comportamenti, dei compiti e dei giudizi individuali (signo/ opere), soggetti a continua variazione e miglioramento (adinveniendo e meditando), tali da ren-dere nei fatti impossibile, come afferma Dante, riconoscere attraverso i propri atti e e le proprie passioni quelli degli altri.

La combinazione del confronto tra la locutio umana e la co-municazione nel mondo delle intelligenze separate e degli animali può arrivare a Dante anche attraverso un passo del De veritate, ove Tommaso insiste, come già Avicenna, sulla molteplicità dei desideri umani, che comporta una molteplicità di relativi concetti ed è causa del loqui; tale moltitudine di desideri non appartiene al genere ani-male (dotato di pochi desideri/ istinti e quindi di relativi pochi segni da esprimere), mentre risulta caratteristica delle sostanze separate le quali, primo fra tutti, presentano un grande desiderio di comunicare ad altri quanto concepito nella propria mente, motivo per cui è po-stulabile per gli angeli (metaphorice) una locutio95.

Risulta quindi maggiormente chiara la portata innovativa dell’ar-gomentazione dantesca, che appunto, tacendo la volontà di espres-sione come condizione necessaria e sufficiente alla comunicazione, esclude agli angeli l’atto locutorio. E in tale panorama si collocano anche le obiezioni fittizie poste da Dante circa la comunicazione nel mondo delle intelligenze separate e del mondo animale. In particolare l’articolata descrizione delle obiezioni che potrebbero giungere a so-stegno dell’esistenza della locutio nel mondo animale (Dve I, ii, 6-7), che traggono spunto dalla tradizione biblica e dall’esegesi scritturale96

95. «Ad decimum dicendum, quod multitudo desideriorum pro tanto dicitur esse causa locutionis, quia ex multitudine desideriorum sequitur multitudo concep-tuum, qui non possent nisi signis valde variis exprimi. Animalia autem bruta habent paucos conceptus, quos paucis naturalibus signis exprimunt. Unde, cum in Angelis sint multi conceptus, requiritur etiam ibi locutio» (De ver. q. 9, art. 4, ad 10).

96. L’episodio del dialogo del serpente con Eva (Gn 3, 2-3, che tornerà più arti-colatamente nella discussione dantesca circa il primiloquium) e dell’asina col padrone Balaam (Nm 22, 28-33), appaiati da Agostino in De Genesi ad litteram XI, 27, 29,

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e classica97, viene confutata mediante la distinzione fra la vox simplex animale (il verso) e la vox distincta umana (il sermo). Tutti gli esempi addotti dalla tradizione del “parlare” degli animali hanno in comune infatti l’imitazione della voce umana, non una realizzazione sponta-nea e articolata della fonazione: nel caso biblico è l’azione del diavolo per il serpente e dell’angelo per l’asina a muovere i loro rispettivi or-gani sicché potesse uscirne una vox simile a quella umana, quindi una vox distinta e articolata; nel caso ovidiano invece la favola non risulta dotata di alcuna veridicità storica e il valore dell’exemplum è esclu-sivamente figurato, allegorico («dicimus quod hoc figurate dicit»). La possibilità della gazza o di alcuni uccelli, come il pappagallo, di imitare l’articolazione vocale umana (Dve I, ii, 7)98 non equivale tout court alla facoltà di parlare ma rappresenta esclusivamente una capa-cità mimetica dell’elemento fonico, sonoro della voce umana (svuo-tata completamente di quella peculiare attitudine umana, razionale, di indicare, ad placitum, «quid iustum, et quid iniustum», «quid […] utile et quid nocivum»).

Il concetto di naturalità della vita collettiva (che dal Convivio attraversa il Dve e arriva alla Monarchia) trova riscontro nell’attac-co del De regno di Tommaso, che integra le formulazioni contenu-te nel commentario alla Politica aristotelica99. Anche per Tommaso solo all’uomo è necessario l’utilizzo della locutio come strumento di realizzazione del progetto di cooperazione collettiva di una società civile; il fine ultimo dell’humana civilitas sarà quindi la felicità, rag-giungibile non individualmente, ma collettivamente100:

sono ripresi da Vincenzo di Beauvais in Speculum naturale XXX, 49 e Tommaso in Summa Theologiae IIa-IIae, q. 165, a. 2, ad 4 (Tavoni, n. ii, 6, p. 1145-1146).

97. L’episodio ovidiano delle Piche-gazze parlanti (Met. V, 294-299; 662-678), viene ripreso anche nell’appello alle Muse di Pg 1, 10-12, come exemplum di empietà punita (Tavoni, n. ii, 7, p. 1147).

98. Cv III, vii, 9 (cfr. Uguccione, Derivationes cit. s.v. Poyo, P 100, 10, pp. 948-949).

99. Rosier-Catach, Man as a Speaking cit., pp. 35-36, 41-42. 100. La declinazione del concetto di civilitas (e la relativa stratificazione se-

mantica), che a partire dal XII secolo costituisce un sinonimo di civitas “stato” “vivere civile” parallelamente a politia (anche, più specificamente “regime poli-tico”), attraversando le traduzione latina dell’Ethica e della Politica aristotelica, le glosse relative di Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, passando per Egidio Romano, attraverso Avicenna, fino ad arrivare a Dante, è analizzata da I. Rosier-

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Naturale autem est homini ut sit animal sociale et politicum, in multitudine vivens, magis etiam quam omnia alia animalia, quod quidem naturalis neces-sitas declarat (…). Nam unus homo per se sufficienter vitam transigere non posset. Est igitur homini naturale quod in societate multorum vivat. Amplius: aliis animalibus insita est naturalis industria ad omnia ea quae sunt eis utilia vel nociva, sicut ovis naturaliter aestimat lupum inimicum. Quaedam etiam animalia ex naturali industria cognoscunt aliquas herbas medicinales et alia eorum vitae necessaria. Homo autem horum, quae sunt suae vitae necessaria, naturalem cognitionem habet solum in communi, quasi eo per rationem va-lente ex universalibus principiis ad cognitionem singulorum, quae necessaria sunt humanae vitae, pervenire. Non est autem possibile quod unus homo ad omnia huiusmodi per suam rationem pertingat. Est igitur necessarium homini quod in multitudine vivat, ut unus ab alio adiuvetur et diversi diversis inve-niendis per rationem occupentur, puta, unus in medicina, alius in hoc, alius in alio. Hoc etiam evidentissime declaratur per hoc, quod est propr ium ho -minis locu t ione u t i , per quam unus homo aliis suum conceptum totaliter potest exprimere. Alia quidem animalia exprimunt mutuo passiones suas in communi, ut canis in latratu iram, et alia animalia passiones suas diversis modis. Magis igitur homo est communicativus alteri quam quodcumque aliud animal, quod gregale videtur, ut grus, formica et apis (De regno I, cap. I).

Alla realizzazione del principio naturale di communitas, civili-tas, fondata sulla comunicazione intersoggettiva, concorre quindi, di necessità, un signum che sia sensibile e razionale insieme, in base al duplice statuto (sensibile e razionale) della natura umana, secondo i principi della fisica aristotelica:

Oportuit ergo genus humanum ad comunicandas inter se consceptiones suas aliquod ra t iona le s ignum e t sensua le habere: quia, cum de ratione ac-cipere habeat et in rationem portare, rationale esse oportuit (Dve I, iii, 2). Hoc equidem s ignum est ipsum subiec tum nobi le de quo loquimur: nam sensua le quid est in quantum sonus est; ra t iona le vero in quantum aliquid significare videtur ad placitum (ibid., 3).

L’ultimo paragrafo mette chiaramente in evidenza la porta-ta innovativa della concezione dantesca del concetto di signum. Dante propone un’equazione fra locutio e signum, indicando in quest’ultimo il soggetto “nobile” del quale si sta trattando, in quan-to estrinsecazione (razionale e sensibile) della locutio. Signum per

Catach, Civilitas de la famille à l’Empire universel, in Mots médiévaux offerts à Ruedi Imbach, a c. di I. Atucha, D. Calma, C. König-Pralong e I. Zavattero, Porto 2011, pp. 139-150.

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Dante è signum locutionis, quindi il linguaggio articolato in «di-versae prolationes et vocabula» – sonus, sensibile, ma codifica-bile e significabile ad placitum, quindi razionalmente e secondo volontà individuale – non semplice parola (dictio), portatrice di significato lessicale, secondo una tradizione che da Aristotele ar-riva alla speculazione linguistica e semantica coeva a Dante101. Il signum rappresenta quindi per Dante la codificazione linguistica della locutio, del “parlare”, e tale formulazione, che appare assente nella trattazione dei grammatici del suo tempo, compresi i modisti, trae verosimilmente spunto da Tommaso, che associa alla regolare definizione “grammaticale” di locutio per aliqua signa o per si-gna sensibilia, un’altra in cui la locutio è identificata chiaramente come signum razionale e sensibile102.

A ciò si unisce, come ho richiamato più volte, l’impiego nell’ar-gomentazione della dottrina aristotelica della significazione ad pla-citum (a partire dal commentario di Boezio al Peri Hermeneias I ii 16b «nomen igitur est vox significativa ad placitum», assai diffusa nel pensiero filosofico medievale), che Dante può ricavare, in una più generale riflessione sulla variabilità e diversificazione intrinseca

101. Ha sottolineato per la prima volta la portata innovativa della concezione dantesca di signum Tavoni, n. iii, 3, pp. 1152-1153. Sul concetto di signum nel-la filosofia e nella teologia medievale e sulla declinazione delle sue componenti (razionale, sensibile, autoreferenziale ed eteroreferenziale), che, partendo da Ari-stotele, passando attraverso Boezio e intrecciandosi con la teoria agostiniana di signum quale sacramento, giunge fino alla scolastica e ai modisti, si vedano almeno A. Maierù, Signum dans la culture médiévale, in Sprache und Erkenntnis im Mit-telalter, Akten des 6. Internationalen Kongresses fur Mittelalterliche Philosophie des Société Internationale pour l’étude de la Philosophie Médiévale (Bonn, 29 August-3 September 1977), hrsg. von J. P. Beckmann (et al.), unter Leitung von W. Kluzen, 2 voll., Berlin-New York 1981, I, pp. 51-72; Id., Signum negli scritti filosofici e teologici fra XIII e XIV secolo, in Signum. 9 Colloquio internazionale, Roma, 8-10 gennaio 1998. Lessico intellettuale europeo, a c. di M. L. Bianchi, Fi-renze 1999, pp. 119-141 e Marmo Semiotica e linguaggio nella Scolastica cit.; sul valore di signum come sacramento (e sulla definizione di sacramento come “segno che fa ciò che significa”), e più generalmente sull’apporto dell’analisi delle formule sacramentali alla semiotica e alla filosofia del linguaggio, si veda I. Rosier-Catach, La parole efficace. Signe, rituel, sacré, Paris 2004.

102. «Locutio est signum intellectus» (S. Th. I, q. 58, a. 4, arg. 3); «locutio autem est signum audibile interioris conceptus» (Ibid., IIa-IIae, q. 181, a. 3 co.). Cfr. Tavoni, n. iii, 3, p. 1153.

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a qualsiasi idioma, nuovamente da Egidio Romano103, articolandola più diffusamente nella discussione portata avanti nei capitoli suc-cessivi.

L’interesse primario di Dante è quindi quello di dimostrare che la locutio è la facoltà fondativa di una comunità civile di parlanti, in quanto animali politici e sociali (e in tale direzione essa può essere definita come «tam egregius humani generis actus», Dve I, iv, 3). A questo fine tende perciò la ricostruizione portata avanti nei capitoli successivi dell’origine storico-sacra del “parlare”, della diversifica-zione spazio-temporale degli idiomi: auspicabile e necessaria appare quindi la possibilità di ritrovare un’unità linguistica in Italia, a fron-te della frammentazione geo-politica del suo territorio (un’effettiva, tangibile “babele” linguistico-dialettale).

3.2. La locutio e la diversificazione delle lingue

L’elemento costitutivo della locutio, ovvero l’intersoggettivi-tà, il parlare ad alterum, permette di spiegare chiaramente la scelta degli episodi biblici e la personale “riscrittura” del Genesi (e della tradizione esegetica correlata, in particolare il De Genesi ad litteram di Agostino) operata da Dante, nei termini di una «linguistica scrit-turale», com’è stata definita da Baranski104. Forse, in base a quanto rilevato fin qui, più che di una moralità di carattere “biblico-reli-gioso” potrebbe piuttosto trattarsi di un’etica di impronta razionale. Come ha sottolineato di recente Imbach, Dante mostra di «praticare un’esegesi dei passi biblici che procede sui binari di criteri razionali; egli tenta infatti di ordinare secondo un ordine sistematico i conte-nuti della rivelazione, richiamati nel corso della sua ricostruzione di

103. «Est naturale homini loqui: habemus enim impetum et naturalem incli-nationem ut loquamur et ut per sermonem manifestemus alteri quod mente concepi-mus; sed quod loquamur hoc idioma vel aliud, non est naturale, sed ad placitum (...). Inde est (...) quod Philosophus, I Peribermeneias, voces et sermones dicit esse ad placitum, qui primo Politicorum ait, sermonem nobis esse datum a natura. Sicut ergo loqui est naturale, sic autem loqui vel sic, est positivum et ad placitum» (De regimine principum III, ii, c. 24).

104. Z. G. Baranski, Dante’s Biblical linguistics (1981), tr. it. La linguistica scritturale di Dante, in Id., «Sole nuovo, luce nuova». Saggi sul rinnovamento cul-turale in Dante, Torino 1996, pp. 79-128, cit. p. 116.

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storia e geografia linguistica» (capp. iv-vii)105; tale prassi, fondata sull’esegesi agostiniana, risulterà funzionale a spiegare (e legittima-re su base razionale) la successiva descrizione della diversificazione e tripartizione linguistica dell’Europa e dell’ydioma babelico “pro-to-romanzo” (capp. viii-ix).

Dante, nel descrivere i primordi del linguaggio umano, non ri-chiama il passo tradizionale dell’impositio nominum di Adamo agli animali (Gn 2, 19-20), ma utilizza il primo esempio offerto dalla fon-te scritturale di una comunicazione rivolta ad alterum, affermando che il primo “loquente” fu la presumptuosissima Eva (in risposta al diavolo tentatore in veste di serpente come registra Gn 3, 2-3)106; tut-tavia, riuscendo difficilmente ammissibile rationabilius (“secondo ragione”) che il primo atto di locutio fosse stato “generato” in condi-zione di peccato originale107, Dante ammette che sia stato Adamo il primo locutore, in quanto rationabiliter a lui «prius datum fuisse lo-

105. Imbach, Appunti di uno storico della filosofia cit., p. 46. Si noti inoltre che nell’argomentazione della quaestio dell’origine del linguaggio Dante fa ricor-so alle circumstantiae proprie della tradizione retorica e delle dispute scolastiche, introducendo gli argomenti che verranno sostanziati attraverso la “riscrittura” scrit-turale: «Soli homini datum fuit ut loqueretur [...]. Nunc quoque investigandum esse existimo cui hominum primum locutio data sit, et quid primitus locutus fuerit, et ad quem, et ubi, et quando, nec non et sub quo ydiomate primiloquium emanavit» (Dve I, iv, 1).

106. Del resto ipotizzare un lapsus da parte di Dante non sarebbe ammissibile (Mengaldo, n. 1, p. 42), magari dovuto ad «una citazione fatta a memoria» (Ma-rigo, n. 13, p. 21); né tantomeno la priorità dell’atto di parola di Eva in risposta al serpente può essere risolta nei termini «di un falso problema introdotto qui per con-ferire alla discussione che segue una patina di legittimità logico-scientifica e tutta l’apparenza di una quaestio filosofica secondo le regole» (Baranski, La linguistica scritturale cit., p. 102). è il carattere intersoggettivo della locutio («langage dialo-gué» secondo Dragonetti, La conception du langage cit., pp. 13-14) che permette a Dante di completare e integrare il testo biblico: sempre con Baranski, La linguistica scritturale cit., p. 116, Dante riprende “alla lettera” quasi, come un «seguace», l’in-segnamento di Agostino che «aveva spesso suggerito di lasciare ai commentatori della Bibbia una certa libertà nello sforzo di interpretare il testo sacro» (De Gen. ad litt. I, xix, 38-xxi, 41), adoperando costantemente la ragione, che preclude in tal senso qualsiasi «travisamento esegetico» (De Doc. Chr. II, xxxi, 48-xl, 61).

107. Sulla volontà dantesca di separare l’origine della lingua umana dal pec-cato originale si veda L. Sebastio, La lingua e la storia, in Id., Il poeta e la storia. Una dinamica dantesca, Firenze 1994, pp. 106-159. Ancora l’articolazione dante-sca del primiloquium, e la particolare rivisitazione biblica operatavi è analizzata da

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qui ab Eo qui statim ipsum plasmaverit» (Dve I, iv, 3). Dante colloca il primiloquium all’interno di uno scenario dialogico innovativo (se non mediato dalla tradizione degli Joca Monachorum o dell’antico francese Jeu d’Adam, assai diffusi entrambi, seppur non a livello di specializzazione teologica): Adamo infatti avrebbe pronunciato per primo la parola El cioé “Dio”, «vel per modum interrogationis vel per modum responsionis» (Dve I, iv, 4).

La centralità dell’intersoggettività e dell’interlocuzione, e il duplice statuto razionale e sensibile dell’atto locutorio definito da Dante nei capp. i-iii, permette inoltre di definire chiaramente il ce-lebre sintagma identificativo del primiloquium adamitico, la certa forma locutionis concreata da Dio in Adamo contemporaneamente alla sua anima (Dve I, vi, 4). Si tratta quindi di un ydioma, secondo la terminologia linguistica dantesca, perfettamente determinato «et quantum ad rerum vocabula et quantum ad vocabulorum construc-tionem et quantum ad constructionis prolationem», coincidente con l’«hebraicum ydioma» (Ivi, vi, 7)108, ovvero quella lingua originaria

I. Rosier-Catach, Il n’est pas raisonnable de croire que la très présomptueuse ève fut le premier être parlant…, in «Poésie», 120 (2007), pp. 392-397.

108. Secondo una linea interpretativa accolta nei principali commenti (da Ma-rigo, n. 25, p. 35 a Mengaldo, n. 1, pp. 54-55; Tavoni, nn. vi, 4, pp. 1176-1177; vi, 7, pp. 1182-1183) che ha accordato anche numerosi interventi critici, nell’arco di circa un secolo di studi: si vedano a tal proposito, in ordine di apparizione, F. D’Ovidio, Dante e la filosofia del linguaggio (1892), in Id., Opere di Francesco D’Ovidio, I. 2, Studi sulla Divina Commedia. Parte II, Caserta 1931, pp. 291-325; Nardi, Il linguaggio cit, pp. 171-175, Terracini, Natura e origine cit., p. 241; Tavo-ni, Contributo all’interpretazione cit., pp. 408-414 (Id., Ancora su De vulgari cit., pp. 477-80); Inglese, Il “mito” del volgare cit., pp. 100-104. Di parere contrario è stata invece Maria Corti, che sulla base delle teorie modiste individuava nella for-ma locutionis «non [...] una lingua concreta, bensì la “causa formale” e il principio generale strutturante della lingua» (Ead., Lingua universale cit., p. 47; Ead.,“De vulgari eloquentia” cit., pp. 193-94; Linguaggio poetico cit., pp. 232-235). Vi si sono allineati anche Eco, La lingua perfetta cit., pp. 51-52, Idel, À la recherche de la langue originelle cit., sulla base di una possibile influenza della corrente mistica ebraica abulafiana (forma come “matrice universale generatrice”). Di recente M. Corrado, Dante e la questione della lingua cit., p. 52, ha per la prima volta sotto-lineato che il sintagma forma locutionis risulta già documentato in relazione alla locutio articulata (e quindi vox significativa), in un brano di Agostino relativo a «una delle più celebri teofanie bibliche» ovvero la discesa dello Spirito Santo sotto forma di colomba durante il battesimo di Gesù (De columba in Christi baptismo, Ep., clxix 3, 10).

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e universale, lingua gratiae, conservatasi come lingua comune fino alla costruzione della torre di Babele e rimasta intatta solo presso la stirpe dei figli di Heber, quindi il popolo ebraico, sicché vi si potesse esprimere Cristo (Ivi, vi, 5-7)109. La sonorità dell’atto comunicativo costituisce per Dante un elemento caratterizzante e perciò contraddi-stingue anche il primiloquium adamitico: «prius vox primi loquentis sonaverit…» (I, iv, 4) «nam in homine sentiri humanius credimus quam sentire, dummodo sentiatur et sentiat tamquam homo. (…) ra-tionabile nobis apparet nobilissimum animal non ante sentire quam sentiri cepisse» (con predicato sentire in poliptòto; I, v, 1). Al para-digma sonoro è ricondotta anche la quête del volgare illustre nella silva dei “dissonanti” volgari italiani, distinti e qualificati proprio in base alla sonorità110; sotto tale rispetto, come chiarirò meglio tra poco, l’episodio babelico e il processo confusio-variatio degli idio-mi che ne consegue appaiono dirimenti: come scriveva Dragonetti, «Babel constitue le lieu où, à nouveau, l’homme d’après la chute redevient sensible à la sonorité de la langue, à ses tonalités, à ses accents divers, hors de tout commerce langagier»111.

La caratterizzazione dell’essere umano come specie a sé, sogget-to quindi ad un criterio imperscrutabile di individualità e mutamento, secondo la nozione aristotelica dell’ad placitum, in contrapposizione alla collettività del comportamento animale, secundum speciem (Dve I, iii, 1), costituisce l’ossatura portante della ricostruzione operata da Dante della differenziazione delle lingue112. L’episodio babelico, in-

109. La fonte è Agostino, De Gen. ad litt., XVI, 3 e 11. Cfr. Tavoni, n. vi, 6, pp. 1180-1181; n. vii, 8, pp. 1192-1194.

110. «Quam multis varietatibus latio dissonante vulgari, decentiorem atque illustrem Ytalie venemur loquelam» (Dve I, xi 1).

111. R. Dragonetti, Dante face à Nemrod. Babel mémoire et miroir de l’Eden? in Le mythe de la langue universelle, num. mon di «Critique», vol. 35, 387-388 (1979), pp. 690-706, cit. p. 697.

112. Sull’originale dottrina dantesca della confusio linguarum, in rapporto alla questione della lingua adamitica, nonché sulla “palinodia” dantesca operata in Pd 26 si apre un vasto panorama bibliografico; si vedano in particolare i contributi di Pagliaro, I «primissima signa» cit., pp. 213-238, e di Z. G. Baranski, Divine, human and animal languages in Dante: notes on “De vulgari Eloquentia” I, i-ix and the Bible, in «Transaction of the Philological Society», 87 (1989), 2, pp. 205-231, e ora Id., La linguistica scritturale cit., ove l’articolazione del discorso verte all’interno di una prospettiva morale-religiosa, fondata sulla dialettica tra dono e

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serito da Dante nell’argomentazione a seguito di una violenta apo-strofe di carattere etico che condanna la caparbietà umana incline a perseverare nell’errore, costituisce esempio eclatante di hybris punita dell’«incurabilis homo» che presunse113 «in corde suo (…) arte sua non solum superare naturam, sed etiam ipsum naturantem, qui Deo est» (Dve I, vii, 4). La personale riscrittura dell’episodio (Gn 11, 1-9), un cauchemar médiéval, come ebbe a dire Le Goff, include nell’origi-nale scritturale la figura del gigante Nimròd quale artefice dell’empia costruzione, sulla base della tradizione esegetica patristica, in partico-lare agostiniana114. Dante mette in rapporto il castigo della confusione delle lingue con la fondazione e costruzione empia della città. Babel «que “turris confusionis” interpretatur» (Dve I, vi, 5) corrisponde a Babylonia già in Gn 11, 9 e ciò è assorbito nella tradizione esegetica patristica, in particolare nel De civitate Dei, ove la torre di Babele rappresenta la città storica di Babylonia, prototipo della città terrestre contrapposta alla città celeste115, sulla cui scia si pone lo stesso Dante.

punizione divina. Si vedano ancora L. Sebastio, Lingua scienza poesia e società nel De vulgari eloquentia, Napoli 1984, pp. 11-108; M. Corti, Dante e la torre di Babele: Una nuova “Allegoria in factis”, in Ead., Il viaggio testuale, Torino 1978, pp. 243-256, ora in Ead., Scritti cit., pp. 301-311; G. Stabile, La Torre di Babele: confusione dei linguaggi e impotenza tecnica, in Id., Dante e la filosofia della natu-ra. Percezioni, linguaggi, cosmologie, Firenze 2007, pp. 219-252; S. Gensini, Sulla confusio linguarum in Dante, in «Studi filosofici», 30 (2007), pp. 61-78; I. Rosier-Catach, R. Imbach, La Tour de Babel dans la philosophie du langage de Dante, in Zwischen Babel und Pfingsten/ Entre Babel et Pentecôte, a c. di P. Von Moos, Berlin 2008, pp. 183-204; M. Corrado, Dante e la questione della lingua di Adamo (Dve, I 4-7; Pd, XXVI 124-38), Roma 2010.

113. La presumptio è il marchio connotativo della colpa babelica: «Presum-psit ergo» (Dve I, vii, 4); «per superbam stultitiam presumendo» (Ibid., vii, 3); «culpa presumptionis humane» (Ibid., vi, 4) – e di presunzione è tacciata anche Eva, rimandando alla colpa originale (Ibid. I, iv, 2).

114. Nembrot, qualificato come semplice iniziatore del regno di Babilonia e di altre città nella regione di Sennaàr, in Gn 10, 8-10, viene definito inoltre «gigans venator contra Domini Deum» nell’Itala. Sarà Agostino, nel De civ. Dei, a conferire a Nembrot il doppio statuto di «gigans» e artefice della torre di Babele. Si veda al riguardo B. Nardi, Intorno al Nembrot dantesco e ad alcune opinioni di Richard Lemay (1965), in Id., Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1966, pp. 367-376; P. Dronke, I giganti dell’«Inferno», in Id., Dante e le tradizioni latine medievali, Bologna 1990, pp. 65-96.

115. «Ista civitas, quae appellata est confusio, ipsa est Babylon, cuius mira-bilem constructionem etiam gentium commendat historia. Babylon quippe inter-

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Del resto il valore civile, “urbano” dell’episodio babelico nell’ideo-logia dantesca è desumibile anche dal fatto che il racconto delle ori-gini della diversificazione delle lingue (a partire dall’unum costituito dall’ebraico adamitico) prende le mosse da un violento attacco contro il borioso municipalismo dei comuni toscani (con l’allusione ironica alla Pietramala aretina), e in particolare di Firenze116.

La punizione celeste del peccato umano di hybris colpisce linguisticamente coloro che attendono alla costruzione dell’empia torre, suddivisi in corporazioni di mestiere, che riecheggiano i rag-gruppamenti in Arti della società comunale: ciò istituisce quindi una geniale corrispondenza di carattere sociale, ignota alla tradizione esegetica, tra l’idioma parlato dopo la confusio linguarum e la man-sione svolta da ciascun parlante/ lavoratore – con una corrisponden-za biunivoca tra il livello di degradazione dell’idioma e il tipo di mansione stessa (Dve I, vii, 6-8). La confusione linguistica, quindi, avvenuta proprio a partire da tali corporazioni professionali, rende di fatto comprensibile la stessa lingua esclusivamente all’interno della medesima categoria lavorativa; essa produce di fatto l’impossibilità di comunicazione e cooperazione fra tutti i lavoranti della torre117 e l’interruzione di quell’amicabile commertium fra gli individui e del negotium a cui collettivamente attendono: l’impotenza «tecnica»,

pretatur confusio. Unde colligitur gigantem illum Nebroth fuisse illius conditorem, quod superius » (De civ. Dei, XVI, 4); «scriptura divina cum terrenam civitatem in Babylone, hoc est confusione, monstrasset» (Ivi, 9).

116. In Dve I, vi, 3 si dipana chiaramente la notevole virata antimunicipale nei confronti di Firenze, menzionando esplicitamente l’ingiustizia del bando subito (exilium patiamur iniuste), nonché l’auto-configurazione dell’intellettuale dantesco come “cittadino” del mondo, frutto di un processo di necessaria razionalizzazione della condizione di exul immeritus. Tale attacco rimanda al nesso Firenze-Babilonia declinato in Ep. VI, 8 (ove gli «scelestissimi Florentini» sono appellati «alteri Babi-lonii»), assai produttivo anche nella Commedia.

117. Hanno sottolineato la «felicissima» trovata di affidare alle Arti (del co-mune fiorentino?) la confusione babelica D’Ovidio, nei termini di una «mera esco-gitazione di Dante» d’origine «psicologica» (Id., Dante e la filosofia del linguag-gio cit., p. 304), e soprattutto Corti, Dante e la torre di Babele cit., che individua nell’episodio babelico un’allegoria in factis della reale condizione politica italiana di rivalità fra le parti (anzitutto quella fiorentina) – «e l’incontro fra un modello ge-rarchico del potere comunale e il trauma della esperienza personale» (ibid., p. 312) avrebbe prodotto nella mente di Dante il corto circuito della confusio babelica.

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generata dalla «disarticolazione delle attività di cantiere», condanna dunque all’impossibilità di far “crescere” la civitas118.

La confusio linguarum consiste nella diversificazione delle lin-gue e nella perdita dell’unicità linguistica originaria e divina, rap-presentata dall’idioma ebraico – che viene mantenuto solo da coloro che si rifiutarono di aderire alla costruzione, serbandolo inalterato fino alla venuta di Cristo. Dopo Cristo, sarà esclusivamente una «minima pars, quantum ad numerum (…)» della stirpe di Sem (ed è congettura dantesca circa la quantità119), dalla quale ebbe origine il popolo di Israele, a perpetuare l’unico ydioma fino alla diaspora120.

118. Come ha chiarito Giorgio Stabile, la fortuna del mito della torre, al di là della centralità del testo biblico e della sua amplissima tradizione esegetica, ri-siede nell’aver sollecitato «una doppia e contraddittoria tendenza della civiltà me-dievale»: «da un lato il riconoscimento de facto di una sterminata costellazione di realtà locali e di radicamenti territoriali differenziati; dall’altro l’opposto bisogno di un’unità de jure, fondata non sulla reciproca, effettiva assimilazione di genti e di lingue, ma sul loro comune riconoscersi in un principio unificante, astratto e più alto. All’idea negativa della dispersione dei popoli e delle lingue, si oppone così l’idea di un impero universale e di una comune patria spirituale, entro cui una tantis dissona linguis turba confluisce assoggettandosi al vincolo giuridico di Roma e spirituale della Chiesa. Non è un caso, del resto, che alla confusio babelica, e al divortium succedutosi tra i popoli, la comunità ecclesiale oppone il significato sal-vifico della Pentecoste, in ricordo della glossolalia evangelizzatrice degli apostoli» (Stabile, La Torre di Babele cit., pp. 223-224). Sul rapporto tra Babele e Pentecoste (e sulla possibile ricezione di tale liaison da parte di Dante) hanno inoltre ragionato Rosier-Catach, Imbach, La Tour de Babel cit. pp. 192-195 (con particolare attenzio-ne al ruolo giocato dal commentario oliviano al Genesi e agli Atti degli apostoli).

119. Rispetto ai precedenti commentatori che ritenevano congettura dantesca (desumibile dall’espressione «sicut conicio») che la famiglia di Heber, quindi il popolo ebraico, fossero discesi dalla stirpe di Sem, terzo figlio di Noè (congettura di fatto assai poco “ardita”, sulla base di Gn 10, 21; 11, 10-17): la questione è discussa da Tavoni, n. vii, 8, pp. 1193-1194, a cui si rimanda.

120. «Ex precedenter memorata confusione linguarum non leviter opinamur per diversa mundi climata climatumque plagas incolendas et angulos tunc primum homines fuisse dispersos» (Dve I, viii, 1). Con tale attacco, che include verosi-milmente all’interno della diversificazione per confusione babelica la tradizione noachica della dispersione e differenziazione dei popoli sul globo terrestre, Dante inizia la ricostruzione storica della differenziazione spazio-temporale delle lingue, dalla mappa mundi, all’Europa, all’ydioma tripharium proto-romanzo: al volgare di sì, una delle tre ramificazioni dell’idioma babelico, toccherà la stessa sorte di dispersione in aree geografiche distinte (le diverse regioni dell’Italia, lungo la dor-sale appenninica, e i diversi “municipi” che le compongono). Dante quindi riporta

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La scelta del modello babelico per principiare il processo di diversificazione cronologica e geografica delle lingue, rispetto a quello alternativo noachico offerto dalla tradizione biblica (Gn 10), risiede nella sua naturale superiorità eziologica. Dante procede in maniera originale ad una secolarizzazione del mito biblico, cercando da un lato una spiegazione plausibile della confusione delle lingue, dall’altro donando alla punizione divina «une certaine vraisemblan-ce expérimentale»121: all’oblivio della lingua universale, conseguente alla confusio, quindi alla diversificazione dell’unicità in molteplicità, segue di fatto una reparatio tutta umana, consistente dapprincipio in una simultanea differenziazione degli idiomi, contemporaneamente alla costruzione della torre da parte dei gruppi umani (Dve I, vii, 7), quindi nella successiva diffusione dei differenti idiomi generati dalla confusio, che si perpetuano in continua diversificazione e mutamen-to, nello spazio e nel tempo. La forte novità del ragionamento risiede nella comprensione di una portata “universale” di tale paradigma prioris oblivio–reparatio ad placitum, applicabile, come modello, a qualsiasi loquela:

Cum igitur omnis nostra loquela, preter illam homini primo concreatam a Deo, sit a nostro beneplacitum reparata post confusionem illam que nil aliud fuit quam prioris oblivio, et homo sit instabilissimus atque variabilissimus animal, nec durabilis nec continua esse potest, sed sicut alia que nostra sunt, puta mores et habitus, per locorum temporumque distantias variari oportet» (Dve, I, ix, 6).

Tale paradigma è insito nell’intrinseca variabilità degli accidenti e dei prodotti umani, lungo l’asse diacronico, all’interno dello stesso gruppo di parlanti, ma sopratutto lungo l’asse diatopico, in luoghi diversi, quindi fra gruppi di parlanti diversamente localizzati sullo spazio geografico, ove agisce a differenziare, a livello sincronico, il condizionamento di abitudini e costumi, quindi l’uso (che implica coesione sociale):

all’età contemporanea le estreme conseguenze del modello originario della disper-sione dei popoli e diversificazione linguistica che ne consegue, e in qualche misura, demitizzando l’episodio babelico come causa originaria, lo integra in una visione naturale di evoluzione e diversificazione tutta umana. Non è questa la sede per ap-profondire la questione: si rimanda pertanto a Tavoni, pp. 1077-1082.

121. Imbach, La langue d’Adam cit., pp. 197-214, cit. p. 212.

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Si ergo per eandem gentem sermo variatur, ut dictum est, successive per tem-pora, nec stare ullo modo potest, necesse est ut disiunctim abmotimque mo-rantibus varie varietur, ceu varie variantur mores et habitus qui nec natura nec consortio confirmantur sed humanis beneplacitis localique congruitate nascuntur» (Ibid., 10)122.

Alla confusio, che è frutto di castigo divino, consegue quindi una variatio organizzata umanamente ad placitum, nello spazio e nel tempo, per gruppi di individui “aggregati” in loco e contraddi-stinti da mores et habitus: la diversificazione delle lingue, quindi, non costituisce un effetto della colpa (e una conseguenza della pu-nizione divina)123, ma rappresenta un momento necessario e naturale di reparatio umana al castigo stesso, di fatto una risposta costruttiva dell’uomo alla punizione divina che ha prodotto confusione. Il pa-radigma di individualità e variabilità secondo natura, uso e conven-zione sociale, qui sancito ufficialmente, era stato segnaleticamente anticipato nell’attacco della trattazione da parte di Dante dell’ultima circumstantia inerente la lingua adamitica ovvero «sub quo ydioma-te primiloquium emanavit» (Dve I, vi, 1).

La sequenza confusio–reparatio con la quale si apre e si chiude l’investigazione dantesca, come hanno sottolineano Imbach e Ro-sier-Catach, è scandita da tre lessemi divisio, confusio e variatio, distribuiti progressivamente lungo le diverse fasi del processo sacro e storico-naturale di diversificazione delle lingue, fino ad arrivare alla nostra loquela124. Il concetto di diversitas e divisio delle lingue è annunciato già a partire dai primi capitoli (Dve I, i, 4; ii, 5; iii,

122. Cito il testo dall’ed. Tavoni, p. 1226 (e cfr. ibid., n. ix, 10, pp. 1226-1227) che produce una variazione della punteggiatura rispetto Mengaldo, p. 78, miglio-rando la resa sintattica dell’affermazione dantesca.

123. Sul carattere di effetto alla colpa del «libero gioco della naturale evolu-zione delle lingue» (elemento cardine che è sottoposto a ritrattazione quindi in Pd 26, «ove la mutevolezza delle lingue non è più effetto della punizione babelica, ma carattere costitutivo di ogni lingua in quanto tale») ha insistito Mengaldo, Appunti sul canto xxvi cit., p. 245.

124. Rosier-Catach, Imbach, La Tour de Babel cit., pp. 188-189. Sulla persi-stenza e l’esegesi di tale specifica terminologia negli antichi commenti alla Com-media, in relazione agli episodi che riprendono la questione babelica, si può vedere I. Rosier-Catach, G. Gambale, “Confusio” et “variatio” selon les anciens com-mentateurs de la Commedia, in «Bollettino di italianistica. Rivista di critica, storia letteraria, filologia e linguistica», n.s., 7 (2010), 2, pp. 78-119.

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1), come già visto, coerentemente alla descrizione dell’uomo come “specie a sé”. Confusio costituisce il lessema connotativo della pu-nizione babelica (da I, vi, 5-6 a I, ix, 6), che ha come conseguenza la diversificazione degli idiomi babelici (I, vii, 6), la dispersione degli uomini nella mappa mundi, il popolamento dell’Europa e la diver-sificazione linguistica dei tre ceppi europei in tre idiomi differenti (ydioma tripharium; I, viii, 1-2), a loro volta suddivisi in una va-rietà di lingue moderne (vulgaria; I, viii, 3-5): il terzo idioma euro-peo, quello “proto-romanzo”, risulta a sua volta “triplice” (ydioma tripharium)125, ovvero diviso in tre diversi vulgaria (oc, oil, sì; ivi, 6). Variatio e variare, dominanti a partire da Dve I, ix, contraddistin-guono invece la spiegazione razionale del variegato panorama dei volgari italiani, in base alla natura instabilissima e variabilissima dell’essere umano.

Dante fornisce quindi nei capp. viii-ix del I libro del Dve una giustificazione filosofica della necessaria moltiplicazione delle lin-gue, stravolgendo, in un certo senso, la centralità dell’episodio di ybris babelica e del conseguente castigo divino: è la natura incostante dell’uomo e la connessa relatività degli usi e costumi umani a ren-dere inevitabile tale diversificazione. Anche sul piano propriamente linguistico è possibile testare la «superiore razionalità eziologica» del mito babelico: i tre volgari romanzi derivano dalla trasformazione di un’unica lingua precedente, ovvero uno dei tre idiomi post-babelici (quello definibile “proto-romanzo”), successivamente “diviso in tre” e trisonum, ovvero suddiviso in tre “realizzazioni foniche differenti”.

125. In entrambi i casi tripharium ydioma va reso come “idioma triplice”, ov-vero “attualmente diviso in tre”, quindi “tre idiomi”, non “unico e potenzialmente tripartito” “triforme” (Marigo e Mengaldo), come ha individuato Tavoni, Contribu-to all’interpretazione cit., pp. 417-433 (Id., Un contributo all’interpretazione cit., pp. 548-553, in Tavoni, Ancora su De vulgari eloquentia cit., pp. 481-488, quindi Id., “Ydioma tripharium” [Dante, “De vulgari Eloquentia” I 8-9], in History and historiography of linguistics. Papers from the fourth international conference on the history of the language sciences (Trier, 24-28 August 1987), a c. di H. J. Niederehe e K. Koerner, 2 voll., Amsterdam 1990, I, pp. 233-247): tale interpretazione trova ora posto nell’ed. Tavoni, pp. 1081-1082, nn. viii, 2, pp. 1200- 1201; viii, 5, p. 1207; ix, 2, pp. 1215-1216, alle quali si rimanda per l’accurata discussione delle proble-matiche anche di carattere testuale generate, in oltre un settantennio di studi critici, dalla precedente interpretazione.

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L’evoluzione storica di ogni loquela risulta quindi parte di quell’incessante processo naturale per cui «nullo effetto mai razïo-nabile, / per lo piacer uman che rinovella/ seguendo il cielo, sem-pre fu durabile» (Pd 26, 127-129): sono le parole di Adamo, con le quali risponde all’interrogativo dantesco circa «l’idïoma ch’usai e che fei» (Pd 26, 114). Esse, in forma di palinodia (apparente), rispetto all’unicità e immutabilità dell’idioma originario adamitico avanzate in Dve, affermano recisamente che anche esso (parlato e fatto dall’uomo Adamo, quindi prodotto naturale) era tutto spento126 già prima della costruzione della Torre. La discrepanza tra i due at-teggiamenti, che ha suscitato anch’essa un ormai secolare dibattito critico127, era stata analizzata da Nardi nei termini di una permanen-za del “pregiudizio” della «dottrina teologica tradizionale, intorno all’origine divina del linguaggio parlato da Adamo e al conservarsi inalterato di esso fino alla torre di Babele», che «limitava nella co-scienza di Dante il significato e la portata del nuovo concetto della naturalità e della necessaria variabilità dei linguaggi»128; tale pregiu-

126. Il lessema spento, che contraddistingue l’origine naturale dell’idioma adamitico («la lingua ch’io parlai fu tutta spenta», Pd 26, 124), rimanda ad un identico impiego del termine fattone nel Convivio, ove Dante introduce la tematica propriamente linguistica che avrebbe affrontato subito dopo in Dve: «Onde vedemo ne le cittadi d’Italia, se bene volemo agguardare, da cinquanta anni in qua molti vocabuli essere spenti e nati e variati (...). Si ch’io dico che, se coloro che partiron d’esta vita già son mille anni tornassero a le loro cittadi, crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da lor discordante. Di questo si parlerà altrove più compiutamente in uno libello ch’io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza» (Cv I, v, 9-10). Le parole di Adamo completano e chiudono coerentemente il ragionamento linguistico dantesco.

127. Per una sintesi si veda Corrado, Dante e la questione della lingua cit., pp. 65-82.

128. Nardi, Il linguaggio cit., p. 171. L’idea che la lingua umana prima di Babele fosse la stessa di Adamo (come esposto in Dve I, vi, 5) non trova riscontro esplicito nel-la fonte scritturale né tantomeno nell’esegesi agostiniana (che afferma invece l’identifi-cazione della lingua universale prebabelica con l’ebraico [De Gen. ad litt. XVI, 3; 11]). Essa potrebbe essere arrivata a Dante (con Nardi, Il linguaggio cit., p. 172, n. 2, e ripre-so da Mengaldo, p. 56, n. 5) da Rabano Mauro (In Gen. II, 11), seppur non è accertabile la conoscenza dantesca di tale commentario. Tavoni n. vi, 5, pp. 1181-1182 aggiunge che potrebbe trattarsi di una deduzione di Dante stesso, in linea con l’argomentazione dell’intero capitolo che utilizza le informazioni offerte dal dittico Genesi-De civitate Dei per ricavare, deduttivamente, la conclusione che «fuit ergo hebraicum ydioma» (Dve I, vi, 7), chiudendo definitavente la quaestio sulla lingua adamitica.

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dizio viene soppiantato dalla progressiva razionale scoperta dell’in-trinseca mutevolezza del linguaggio, attraverso la nozione aristote-lica dell’ad placitum, nella quale Dante fa rientrare, all’altezza della Commedia, anche l’idioma del protoplasto. La novità della rielabo-razione dantesca del materiale offerto dalla tradizione biblica, nella direzione di una sorprendente istanza di razionalismo129, risiede a mio giudizio nel non contravvenire esplicitamente alle testimonian-ze scritturali dell’unicità della lingua, per cui «erat autem terra labii unius et sermonum eorundem» (Gn 11, 1; anche ibid., 6 «ecce unus est popolus et unum labium omnibus»), ma a ripensarle, in chiave razionale, in ossequio al principio di «naturale e necessaria variabi-lità», includendo la lingua usata e fatta da Adamo all’interno del na-turale processo di diversificazione e mutamento dell’essere umano e dei suoi prodotti, arrivando a coinvolgere, «secondo che v’abella», anche l’impositio nominum di Dio da parte dell’uomo (Pd 26, 130-134, sulla scia di Agostino, De ordine II, 12)130.

3.3. Il volgare illustre come una reductio ad unum secondo natura

Il paradigma di variabilità spazio-temporale delle lingue (Dve I, ix, 7 e 9) per cui esse risultano oggi assai diverse da quelle antiche, al limite dell’incomprensibilità reciproca, introduce nuovamente un importante elemento del pensiero linguistico dantesco, già anticipa-to nei capitoli iniziali: la scoperta e la costruzione, nella storia dei parlanti post-babelici, della gramatica, ovvero di una unica lingua artificiale e secondaria, non soggiacente al principio di variabilità ad placitum, in quanto razionalmente e convenzionalmente regolata, a partire dalle molte e variabili lingue naturali volgari (Dve I, ix, 11).

La gramatica dantesca, lingua artificiale, nata dopo una lingua primaria e naturale, e apprendibile per arte costituisce un dispositivo linguistico, regolato e immutabile, in grado di sopperire all’intrinse-

129. G. Sasso, In margine a Paradiso XXVI, 123-34, in «La Cultura. Rivista di filosofia letteratura e storia», 42 (2004), 2, pp. 297-314.

130. «Comme l’homme, le language sera soumis au changement. Le mythe biblique de la confusion des langues trouve ainsi une explication adéquate. Dans le chant du Paradis, théologie, philosophie, et poésie se rejoignent pour exprimer deux aspects fondamentaux de l’existence humaine: sa condition temporelle et lan-gagière» (Imbach, La langue d’Adam cit., p. 214).

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ca mutevolezza di qualsiasi volgare131. L’idea del latino come lingua artificiale esisteva già parallelamente e precedentemente a Dante, in ambito scolastico; tale concetto trova adeguata formulazione sia nella produzione didattica a livello enciclopedico-popolare, come dimostra il Tesoro di Brunetto Latini versificato132; sia a livello filo-sofico-teologico, in ambito universitario parigino, com’è rilevabile nel trattato politico di Egidio Romano, acclarata fonte del ragio-namento politico-linguistico portato avanti in Dve: il De regimine principum sviluppa un consimile scenario di diglossia latino (fisso e comune, nel tempo e nello spazio)/ idioma-volgare (mutabile e spe-cifico nel tempo e nello spazio)133. Proprio attraverso tali antecedenti è possibile finalmente sciogliere, secondo una linea interpretativa da Mengaldo a Tavoni, la questione spinosa del significato da attribuire ai noti e controversi sintagmi «inventores gramatice facultatis» (Dve I, ix, 11), e «gramatice positores» (Dve I, x, 1), assai lontani dalla suggestiva ma errata interpretazione offertane da Maria Corti, che fondava anche su tali sintagmi la sua teoria di dipendenza del pen-siero linguistico dantesco dalla riflessione grammaticale e linguisti-ca portata avanti dai modisti: sulla scorta di intuizioni provenienti già dal commento di Marigo134, Corti avrebbe individuato negli in-

131. «Lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e cor-ruttibile (...) lo quale a piacimento si transmuta» (Cv, I, v, 7).

132. «Siccome dicono i saggi, / ne la latina parlatura à diversi linguaggi: / uno linguaggio ànno l’Italici e un altro Tedeschi, / e altro quelli d’Inghilterra e altro i Francieschi, / e tutti sono della parlatura latina comunemente. / (...) e perciò i Latini antichi e saggi/ per rechare inn uno diversi linguaggi,/ che s’intendesse in-sieme la gente,/ trovaro la gramatica comunemente; / e così gli Greci e lli Ebrei in loro parlatura/ trovaro loro gramatica e loro scrittura. / Ciascuno trovò sue figure e sua maniera / (...) / i Latini, secondo il loro ydioma, / trovarono la loro gramatica a Roma» (A. D’Ancona, Il tesoro di Brunetto Latini versificato, in « Memorie della r. Accademia dei Lincei, Classe di scienze morali, storiche e filologiche», s. IV, 4 [1888], 1, pp. 111-274).

133. «Videntes enim philosophi nullum idiom vulgare esse completum et per-fectum, per quod perfecte exprimere possent naturas rerum, et mores hominum, et cursus astrorum, et alia de quibus disputare volebant, invenerunt sibi quasi proprium idioma, quod dicitur latinum, vel idioma literale, quod constituerunt adeo latum et copiosum, ut per ipsum possent omnes suos conceptus sufficienter expri-mere» (De reg. princ. II, ii, 7).

134. Per cui gli «inventores gramatice facultatis» sarebbero i “filosofi” del-la corrente grammaticale modista del XIII secolo (Marigo, n. 59, pp. 72-73) e i

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ventores i filosofi «qui inveniunt grammaticam» di cui parla Boezio di Dacia (Modi sign., 6, 34-41)135. Il notevole dibattito critico svilup-patosi a partire da tale interpretazione ha complessivamente rilevato l’equivoco di fondo, in quanto per Boezio e i modisti in generale il concetto di invenire grammaticam significa scoprire nella lingua, oggetto dell’indagine speculativa, la struttura dei modi significandi. Tale principio risulta completamente estraneo alla mente dantesca che individua nella gramatica una lingua specifica e fatta, il latino, non un principio universale comune a tutte le lingue136. Il confronto con le affermazioni del Tesoro versificato e del De regimine prin-cipum permette di confermare ciò, attraverso un consimile utiliz-zo del verbo invenio da rendere “scoprire”, “trovare”, piuttosto che “inventare”137: invenire grammaticam per Dante è quindi quell’ope-razione artificiale e convenzionale, a partire da lingue diverse e pre-esistenti, di trovare una lingua razionalizzata grammaticalmente che permetta di «rechare inn uno diversi linguaggi», quindi di sopperire alla varietas attraverso regole fisse e immutabili.

I soggetti definibili come «inventores gramatice facultatis», se-condo Tavoni, «hanno scoperto la possibilità di creare una lingua di secondo grado, regolata artificialmente, e l’hanno sfruttata, ponen-dosi come “gramatice positores”»: i «gramatice positores» trovano, assumono sic come avverbio affermativo sulla base di un’analisi contrastiva della resa fonica dello stesso nei tre volgari romanzi, attribuendo un certo primato al volgare di sì («quod quandam ante-rioritatem erogare videtur Ytalis, qui sì dicuntur» (Dve I, x, 1)138. Al limite si potrebbe individuare una leggera sfumatura di significato, che non varia affatto l’orizzonte d’attesa, additando negli inventores

«gramatice positores» gli «“artifices”, compilatori di una speciale “gramatica”, cioè della lingua letteraria latina, che dall’ars hanno tratto le norme generali per farne lingua “regulata”» (ibid., n. 5, pp. 74-75).

135. Corti, Lingua universale cit., pp. 37-46; ancora Ead., De Vulgari cit., pp. 196-198 ed Ead., Linguaggio poetico cit., pp. 242-246.

136. Si vedano in ordine di apparizione, Pagani, La teoria linguistica cit., pp. 254-273; Mengaldo, Rec. Dante cit., pp. 189-190; Lo Piparo, Dante linguista cit., pp. 14-19; Maierù, Dante cit., pp. 740-745.

137. Tavoni, n. ix 11, pp. 1228-1232; inventores “scopritori”, sulla base anche delle successive occorrenze del verbo invenio come “scoprire” in Dve (adinvene-runt, I, ix, 2; inveniuntur, I, x, 1; cantionum inventores, II, xiii, 6).

138. Ibid., p. 1230.

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coloro che hanno “scoperto” la possibilità (facultas) di creare la gra-matica e nei positores coloro che la hanno effettivamente “costruita” (ponere) – come suggerirebbe del resto l’esemplificazione della co-struzione dell’avverbium affirmandi139.

La percezione dello sviluppo diacronico delle lingue volgari ro-manze (quindi del volgare di sì) dal latino è assolutamente estranea a Dante e alla riflessione linguistica del suo tempo, come del resto, verosimilmente, anche l’idea della lingua latina come lingua storico-naturale: come dimostra anche il Tesoro versificato, la lingua latina – definita gramatica già dai Romani (Dve I, i, 3) secondo Dante – è stata “trovata” e “costruita” dopo la formazione delle diverse lingue roman-ze, prima dello sviluppo della letteratura latina140. Sulla base di quanto appena rilevato si chiarisce l’altrettanto dibattuto “privilegio” del vol-gare italiano, fondato sul fatto che la formazione della gramatica (del latino) è avvenuta all’interno dell’idioma babelico “proto-romanzo”. Il volgare di sì può esibire tale privilegio rispetto ai volgari d’oc e d’oil perché dovette verosimilmente essere davanti agli occhi di inventores e positores, come dimostra il fatto che essi “plasmarono” il sic sulla corrispondente italiana particella affermativa: il volgare di sì quindi «magis videtur initi grammatice que communis est» (Dve I, x, 2) 141.

139. Ibid., n. x, 1, pp. 1233-1234. 140. Nonostante il tentativo di conciliare la teoria dantesca del latino quale

lingua artificiale all’origine (non arricchita e regolarizzata attraverso l’uso lettera-rio e codificata dai grammatici) con la moderna concezione del latino come lingua storico-naturale (lingua materna parlata dai Romani e madre dei volgari romanzi) operato da diversi studiosi (D’Ovidio, Sul trattato cit., pp. 282-283; Marigo, pp. lvi-ciii [interpretazione ribaltata in Mengaldo 1968, pp. l-lxiv], Pagliaro, I «primis-sima signa» cit.; Id., Comunità linguistica e lingua comune nella dottrina lingui-stica di Dante, in Dante e l’Italia meridionale, Atti del II Congresso nazionale di studi danteschi [Caserta-Benevento-Cassino-Salerno-Napoli, 10-16 ottobre 1965], Firenze 1966, pp. 115-129), l’idea evoluzionistica delle lingue romanze dal latino resta un’acquisizione della riflessione umanistica intorno alla lingua, forse anticipa-ta, ma non influenzata, da qualche testo d’area francese della seconda metà del XIV secolo (e si vedano in particolare M. Tavoni, Latino, grammatica, volgare. Storia di una questione umanistica. Padova 1984; S. Lusignan, Le Latin était la langue ma-ternelle des Romains: la fortune d’un argument à la fin du Moyen Âge, in Préludes à la Renaissance. Aspects de la vie intellectuelle en France au XVe siècle, études réunies par C. Bozzolo, E. Ornato, Paris 1992, pp. 265-292).

141. Tavoni, n. x, 2, pp. 1239-1241 accoglie a testo l’emendamento congettu-rale videtur (proposto da Rajna 1896, n. 5, p. 51 e accolto da Marigo, n. 19, p. 80)

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Sul piano letterario la tripartizione naturale dell’idioma babeli-co ha dato vita a tre letterature differenti, d’oc, d’oil e di sì; «Dante inventerà una comune classificazione filosofica delle due tradizioni liriche, provenzale e italiana» (Dve II, ii, 6-8), che osservano quale minimo comune denominatore la trattazione in poesia volgare dei tria magnalia, salus, venus e virtus, corrispondenti alle tre anime dell’uo-mo, vegetativa, sensitiva e razionale e alle relative più alte finalità dell’essere umano142; il prodotto è quello di una riflessione metalet-teraria sui generi poetici assolutamente innovativa per la cultura del suo tempo: essa pone al vertice, sulla scorta dell’attacco della Politica aristotelica utilizzato fin dalle prime battute del trattato, la poesia del-la virtus (magistralmente esemplificata dalle canzoni dottrinarie del Convivio dantesco), che usufruisce della locutio e della sua realiz-zazione linguistica volgare per fondare a livello etico-dottrinario (e sovramunicipale), attraverso la composizione poetica, la società.

All’interno quindi di una dialettica tra naturalità e regolarità artificiale Dante inserisce il volgare illustre, ovvero «una lingua volgare capace di unire in sé il vantaggio della vitalità e della fles-sibilità storica e quello della strutturata regolarità propria della lin-gua pura artificiale»143. Il ragionamento dell’intero primo libro può essere quindi ricondotto, secondo una felice formulazione di Imbach e Rosier-Catach nei termini di un processo «de l’un au multiple et du multiple à l’un»144: dall’uno originario, rappresentato dall’unicità linguistica pre-babelica, al molteplice scenario di diversificazione in idiomi e volgari seguiti alla confusione; dalla pluralità delle lingue moderne ad una nuova unità, non quella artificiale del latino, ma quella naturale e più nobile del volgare.

sulla lezione tràdita videntur di GT (posta a testo invece da Mengaldo 1968, pp. lxii-lxiv, per cui, sulla base degli argomenti addotti da Grayson, «Nobilior est vul-garis» cit., pp. 11-15, il passo deve avere significato letterario non linguistico). Una conferma esterna della bontà della congettura verrebbe da un passo della Summa di Antonio da Tempo (per cui si veda F. Brugnolo, Z. L. Verlato, Antonio da Tempo e la lingua tusca [2006], in F. Brugnolo, Meandri. Studi sulla lirica veneta e italiana settentrionale del Due-Trecento, Roma-Padova 2010, pp. 459-509). Il soggetto del periodo non sono i poeti italiani Dante e Cino, bensì il volgare latium, che aderisce evidentemente di più alla gramatica comune.

142. Tavoni, p. 1086 (vedi anche pp. 1101-1103).143. Imbach, Appunti di uno storico della filosofia cit., p. 47.144. Imbach, Rosier-Catach, De l’un au multiple cit.

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Il riconoscimento e l’avanzamento argomentativo di una terza via, preso atto dell’insuccesso ottenuto attraverso la caccia empiri-ca del volgare illustre (la pantera odorosa che sfugge nell’italica sil-va, ovvero quella «decentior atque illustris ytalie loquela» [Dve I, xi, 1] miei i corsivi)145 mediante la disamina dei volgari italici (ibid. I, x, 3-xv) avviene per mezzo di un processo di deduzione raziona-le (ibid., xvi, 1-2)146. La base dottrinaria di tale caccia speculativa all’interno del genere dei volgari è costituita dalla combinazione di due elementi: la dottrina aristotelica dell’uno come misura del molteplice in ipso genere, che Dante rintraccia dalla Metaphysica aristotelica anche attraverso il commentario di Tommaso, come ha rilevato la tradizione dei commentatori, da Marigo a Mengaldo e Tavoni,147 e il paradigma teorico di matrice neoplatonica della re-ductio ad unum148. Una molteplicità come quella dei volgari italiani deve venire, di norma, ricondotta all’unità, perché l’uno è, insieme, norma e modello di molti (così come i colori si misurano tutti col bianco); come in ogni genere di cose e sostanze ce n’è una che è prima e semplicissima che è misura di tutte le altre, così anche per le azioni umane (quindi anche per la locutio e la sua estrinsecazione fonica costituita dal volgare), in quanto divise in specie, è neces-sario trovare un signum all’interno del quale e attraverso il quale poterle misurare149:

145. Sulla centralità strutturante del campo semantico-metaforico venatorio all’interno nel macrotesto dantesco si veda R. Mercuri, Semantica di Gerione, Roma 1984, Id., Comedía, in Letteratura Italiana cit., pp. 211-329, in part. pp. 295-298.

146. Tavoni, n. xvi, 1, p. 1326 definisce la ricerca dantesca «con terminologia moderna non fuorviante (...) non induttiva, ma ipotetico-deduttiva».

147. Si veda Sent. libri in Metaph., X, l. 2, n. 2; l. 3, n. 8 (sulla base di Metaph. 1052b e 1053b); si veda anche Contra Gent. I, c. 28, n. 8.

148. Hanno ragionato su tale specifico argomento Imbach, Rosier-Catach, De l’un au multiple cit., e più recentemente, in sedi differenti, Imbach, Appunti di uno storico della filosofia cit.; Rosier Catach, Man as a Speaking cit., in part. pp. 39-46.

149. Per tale concetto, che costituisce un’estensione del concetto di “mi-sura” oltre la dimensione quantitativa, il rimando è a Tommaso, che richiama nuovamente la dottrina aristotelica dell’uno espressa in Metaph. X: «sicut habetur in X Metaphys, in quolibet genere oportet esse unum primum, quod est simplicis-simum in genere illo, et mensura omnium quae sunt illius generis» (Expos. libri Poster. Analytic. I, l. 36, n. 11); ancora più distesamente in Super Sent. I, d. 8, q. 4, a. 2, ad 3.

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Quapropter in actionibus nostris, quantumque dividantur in species, hoc signum inveniri oportet quo et ipse mensurentur. Nam, in quantum simplici-ter ut homines agimus, virtutem habemus, ut generaliter illam intelligamus: nam secundum ipsam bonum et malum hominem iudicamus. In quantum ut homines cives agimus, habemus legem, secundum quam dicitur civis bonus et malus. In quantum ut homines latini agimus, quedam habemus simplicis-sima signa et morum et habitum et locutionis, quibus latine actiones ponde-rantur et mensurantum: que quidem nobilissima sunt earum que Latinorum sunt actiones. Hec nullius civitatis Ytalie propria sunt, et in omnibus comunia sunt: inter que nunc potest illud discerni vulgare quod superius venebamur, quod in qualibet redolet civitate nec cuba in ulla (Dve I, xvi, 3-4)150.

Dante mette in atto un triplice processo di reductio ad unum delle actiones umane, suddivise per speciem, all’interno di ognuna delle quali individua un signum simplicissimum che funge da unità di misura per le stesse (ed è in tali affermazioni che la volontà civile e politica del trattato mostra maggiore evidenza): a livello di sem-plice homo-agens, in quanto individuo, sarà la virtus a fungere da unum simplicissimum; a livello di civis, in quanto appartenente ad una comunità politica e regolata eticamente, sarà la lex; infine, come homo latinus, ovvero individuo civile appartenente ad una specifica comunità, quella italiana, saranno simplicissima signa pertinenti ri-spettivamente all’ambito dei costumi, delle abitudini e del modo di parlare, a costituirne l’unità di misura: il volgare illustre rappresenta quindi il signum attraverso il quale poter misurare le actiones lingui-stiche (ma anche civili e politiche) sotto il rispetto dell’“italianità”.

Mantenendosi ancorato alla riflessione politica ed etica aristote-lica, Dante compie tale triplice riduzione all’unità dell’agire umano, supportato dalle fonti aristotelico-tomistiche per i primi due livelli (nell’ambito della virtus e della lex), ma prosegue autonomamente attraverso una geniale e originale intuizione riguardo al terzo, inse-rendo la riflessione sulla lingua e sul linguaggio in un ordine metafi-sico di ragionamento, ma anche civile e politico: il signum razionale e sensibile, che rappresenta l’estrinsecazione fonico-linguistica del-

150. Cito il testo dall’ed. Tavoni, pp. 1330-1334 che propone una differente e più efficace suddivisione sintattica del periodo (rispetto alla princeps di Corbinelli e al testo stabilito da Rajna, Marigo e Mengaldo: per la discussione delle modifiche operate cfr. ibid., n. xvi, 3, pp. 1333-1334).

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la locutio (capp. i-iii), è incarnato perfettamente, come unità di mi-sura (signum simplicissimum) per il molteplice panorama linguistico italiano, nel volgare illustre. Riprendendo quindi e concludendo le affermazioni d’apertura del trattato, che «nobilior est vulgaris» (lo-cutio I, i, 4), e che la locutio vulgaris è «ipsum subiectum nobile de quo loquimur» (I, iii, 3), Dante afferma qui per la prima volta che il volgare illustre, essendo simplicissimum (in quanto composto da simplicissima signa), è anche nobilissimum in quanto tali simpli-cissima signa «sono i segni più nobili delle azioni che sono degli italiani»; il che fonda tutta l’argomentazione che seguirà sui cor-relati oggetti nobilissima che ad esso e solo ad esso competono» a livello poetico: la canzone illustre, sul piano metrico-retorico (Dve II, iii, 5-8), i «tria magnalia», sul piano semantico (II, ii, 7 e vi, 1), i «vocabula pexa yrsutaque urbana», sul piano stilistico-lessicale (II, vii, 3-4)151.

4. Conclusioni

La profonda novità che il trattato apporta è rappresentata dalla funzione politica del concetto linguistico di volgare illustre, che av-vicina alla successiva Monarchia, ove al centro è la questione della reductio dei due poteri politico-imperiale e religioso-papale152. L’ir-riducibilità del potere imperiale a quello papale, secondo Dante, im-pone che entrambi debbano essere a loro volta ricondotti ad un terzo potere, che è loro superpositus, ovvero quello di Dio. La questione della riducibilità dei poteri appare centrale anche nel De ecclesia-stica potestate di Egidio Romano e nella bolla Unam Sanctam di Bonifacio VIII – ovvero negli argomenti addotti dai temporalisti per teorizzare la riduzione del potere imperiale a quello papale. Come avverte Tavoni153 il principio della reductio ad unum «in omni ge-nere rerum» – che risolve “razionalmente” la ricerca del volgare il-lustre – è essenziale per il pensiero dantesco negli anni dell’esilio,

151. Ibid.152. Dante citerà esplicitamente l’adagio della Metaphysica aristotelica nella

Monarchia per affrontare razionalmente la questione della subordinazione dell’im-peratore al papa (Mn III, xi, 1). Si veda R. Imbach, Quattro idee sul pensiero politi-co di Dante, in «L’Alighieri. Rassegna dantesca», a. 47, 28 (2006), pp. 41-54.

153. Tavoni, n. xvi, 2, pp. 1326-1327.

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per illuminare il discorso sulla locutio umana e conseguentemente i principi della convivenza civile, giovando quindi eticamente e poli-ticamente ad una nuova classe dirigente italiana fuoriuscita, in esi-lio, sovramunicipale e laica, attraverso un discorso che possa essere diretto a tutti, anche agli illetterati («locutioni vulgarium gentium prodesse», Dve I, i, 2, sulla scia della tematica politico-civile portata avanti anche in Cv). Nella Monarchia Dante compirà il passo suc-cessivo, riflettendo sulla questione del potere “politico”, sia civile sia religioso.

La centralità del placitum nella fondazione linguistica di una comunità di parlanti (a partire dalla confusio linguarum babelica e dalla successiva diversificazione degli ydiomata a seconda delle ca-tegorie sociali di lavoratori) costituisce un’ulteriore profonda novità apportata da Dante nella riflessione filosofica e teologica medievale sul linguaggio. Il libero arbitrio che «s’inganna» dietro a «picciol bene», se mal indirizzato da «guida o fren» (Pg 16, 91-105) co-stituisce lo strumento che consente a Dante di operare una fusione tra la dottrina aristotelica dell’origine del linguaggio umano e quel-la cristiano-biblica. Il volgare illustre non è effetto della punizione divina, ma costituisce una reparatio umana alla confusione divina, regolata ad placitum, ed è investito quindi di un’importante valen-za politica e sovramunicipale, in quanto garante di unità linguistica per la varietà (geolinguistica) dello scenario politico italiano: «la restauration de l’unité politique à travers l’unité linguistique (…) est certainement une composante majeure du projet de vulgare illustre, cardinale, aulicum et curiale», e come già accennato, il progetto politico della Monarchia appare sotto tale rispetto complementare a quello linguistico portato avanti nel Dve (e su ciò bisognerebbe tornare a riflettere)154.

154. Rosier-Catach, Imbach, La Tour de Babel cit., p. 195. Come afferma Gior-gio Stabile «ciò che nella Monarchia è teoria dell’assenso politico per la concordia civile, nel De vulgari eloquentia è teoria dell’assenso linguistico come premessa di concordia civile. Assenso che assume l’alto e duplice valore di una confessione di colpa per la rottura dell’armonia edenica avvenuta a Babele, e di una redenzione dalla maledizione che ne conseguì con la condanna divina a parlare idiomi diversi» (G. S., “Sì-oc-oil: in signum eiusdem principii” [1997], pp. 9-25, in Id., Dante e la filosofia della natura cit., pp. 253-270, cit. p. 261).

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Il volgare illustre quindi, principio e misura del genere lingua, che non appartiene a nessuna città in particolare ma a tutte in manie-ra comune (e tutte le città rispettivamente ne partecipano, Dve I, xvi, 6), non costituisce un ritorno alla condizione universale e unificata del primiloquium adamitico, una restaurazione dell’idioma perfetto e sacro del primo parlante per atto divino, come del resto la de-finizione di una lingua poetica illustre non rappresenta un ritorno ad una condizione di “paradiso perduto”155. Attraverso un processo razionale di reductio ad unum, passando per la confusio babelica e la diversificazione degli idiomi come atto riparatorio esclusivamente umano, ovvero regolamentato da principi di variabilità, mutevolezza e corruttibilità precipui del genere umano, l’approdo all’unità terre-na del volgare illustre costituisce una terza via praticabile, una certa forma locutionis in grado di sfuggire al rischio di una variabilità in-discriminata e incontrollabile secundum placitum; la “norma”, non secondaria e costruita artificialmente (non la gramatica), è dedotta attraverso l’analisi contrastiva dei differenti volgari italiani e attra-verso l’esemplificazione fornita dai migliori prodotti della poesia contemporanea: essa permette di contemperare pienamente l’uno e il molteplice, l’unità a cui tende, il molteplice da cui è generata.

Si può infine individuare una portata universale della riflessione linguistica dantesca sviluppata nel primo libro del Dve, e una fun-zione modellizzante dell’unum deducibile razionalmente, in grado di far fronte alla diversitas che costituisce lo specifico dello scenario politico italiano, ma applicabile, mutatis mutandis, a qualsiasi co-munità civile di parlanti. In tale istanza è possibile individuare una profonda tensione “antimunicipale” del trattato (ma non ancora im-

155. Rosier-Catach, Man as a Speaking cit., pp. 42-46; Tavoni, p. 1077. Ha in-vece sostenuto nell’assetto complessivo del Dve e nella ricerca della lingua poetica illustre una nostalgia edenica e una modalità di recupero a tale nostalgia Dragonetti, Le langage poétique cit., pp. 22-23. Un ritorno al linguaggio universale, sub spe-ciem modista ma intriso del modello mistico vittorino, è additato da Corti, Lingua universale cit., pp. 60-76, che effettua «un accostamento in apparenza vertiginoso, in sostanza conseguente, fra la forma locutionis donata da Dio all’Adamo impastato di terra per organizzare le sue voces e un’altra forma locutionis, i simplicissima signa locutionis che il dittatore Amore dona al poeta perché egli costruisca con la propria materia linguistica quel dolce stile che vuol essere naturale e universale, regolato, unica lingua atta a cantare figure angelicate» (ibid., p. 75).

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periale, restando di fatto l’orizzonte d’attesa ancora profondamente radicato nella realtà politica comunale): forse realizzabile a partire da Bologna (non più Firenze), dove fra 1304-1306 si assiste ad un tentativo di temperamento della lotta fra fazioni. Ma la fine delle il-lusioni (anche bolognesi), il riscontro che la riunificazione della cu-ria italiana a livello linguistico non è sufficiente «a queste guerre e a le loro cagioni tòrre via», per cui si rende necessario «uno solo pren-cipato e uno solo prencipe avere» (Cv IV, iv, 4), dischiude definiti-vamente, a livello politico, la stagione della Monarchia. Rimane il valore fondativo a livello linguistico, poetico e politico di una nuova fisionomia di poesia in volgare (come forma più alta di eloquentia): la caccia del volgare illustre e la definizione di una realizzazione metrico-retorica illustre si risolve di necessità nel «sacrato poema» (Pd 23, 62), «al quale ha posto mano cielo e terra» (Pd 25, 2)156.

156. In tal senso risuona, a mo’ di epigrafe, la brillante e icastica affermazione di Gianfranco Contini, a fronte della palinodia operata in Pd 26 circa l’immutabilità e universalità dell’idioma adamitico: «Quei versi sulla lingua di Adamo sono una sorta di blasone interno alla Commedia, ad autogiustificare il paradosso del poema sacro in una lingua peritura – forse frenata nel suo corso fatale di labilità dalla stessa musaicità del legamento » (G. Contini, Dante come personaggio-poeta della Com-media, in Id., Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino 1976, p. 42).