Wittgenstein, Orwell e Tolstoj

154
“Ma se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità […] Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe ugualmente essere, e di non dar maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è. Come si vede, le

Transcript of Wittgenstein, Orwell e Tolstoj

“Ma se il senso della

realtà esiste, e

nessuno può mettere

in dubbio che la sua

esistenza sia

giustificata, allora

ci dev’essere anche

qualcosa che

chiameremo senso

della possibilità […]

Cosicché il senso

della possibilità si

potrebbe anche

definire come la

capacità di pensare

tutto quello che

potrebbe ugualmente

essere, e di non dar

maggiore importanza a

quello che è, che a

quello che non è.

Come si vede, le

conseguenze di tale

attitudine creativa

possono essere

notevoli, e purtroppo

non di rado fanno

apparire falso ciò

che gli uomini

ammirano, e lecito

ciò che essi vietano,

o magari indifferenti

e l’uno e l’altro.”

R. Musil - L’uomo senza

qualità

4

Indice

5

Introduzione……………………………………………………………………….p.7

I. “Nell’oscurità del tempo presente”: per un confronto

tra Wittgenstein e

Orwell…………………………………………………………………………….p.9

I.1. Filosofia ovvero

terapia…………………………………………….......p.10

I.2. “Facci esseri umani”: il problema

dell’accordo con la forma di vita......p.15

I.3. “Io scrivo quindi in realtà per alcuni

amici dispersi negli angoli del

mondo”: il rapporto problematico di

Wittgenstein con la

modernità

…………....................................................

..........................p.20

I.4. Oceania, bipensiero e neolingua: il

solipsismo di massa

di

“1984”……................................................

.........................................p.27

I.4.1. La dignità del senso comune:

l’ideologia del Socing in lotta con la

6

certezza…………………………………………….

……….........p.29

I.4.2. Un mondo di “superprivati”: l’età

della

solitudine………………………………………..

………………p.44

II. “La brama di semplicità”: brevi note sul rapporto

tra Wittgenstein e

Tolstoj…………………………………………………….……….…..........p.59

II.1. Etica e linguaggio: l’influenza di Tolstoj

sulla formazione del giovane

Wittgenstein…………………………………………………………...p.6

0

II.2. Oltre Tolstoj: la dissoluzione dei

problemi filosofici dei “Racconti”

secondo

Wittgenstein………………………………………………….p.67

Bibliografia…………………………………………………………..…………..p.91

Filmografia……………………………………………………………….……....p.94

7

8

Introduzione

Scrivere sulla filosofia di Wittgenstein è un compito

veramente arduo per chi inizia con lo scopo di poter

tener fermo un punto di vista generale sulla sua

riflessione. Proprio come il concetto di gioco

linguistico, essa è uno spazio della storia della

filosofia novecentesca di cui non si possono “indicare i

confini” ma al massimo se ne possono tracciare alcuni1.

Il presente lavoro non pretende dunque di esprimere dei

giudizi che definiscano e collochino nella storia del

pensiero la filosofia di Wittgenstein. Si tratta invece

di mettere in luce alcuni degli aspetti più rilevanti

del suo pensiero attraverso un confronto, svolto in due

tempi, con due scrittori estremamente diversi ma che

riecheggiano nelle opere del filosofo austriaco.

L’obiettivo è quello di far emergere da questo confronto

come alcuni dei contributi più rilevanti di Wittgenstein

al pensiero contemporaneo siano rintracciabili nella

filosofia della psicologia e nella riflessione

sull’etica. Lo studio che segue è dunque un lavoro di

lettura parallela tra testi diversi con cui si cerca di

1 Cfr. con L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, ed. it. a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1983, I, § 68, pp. 47-48.

9

costruire analogie, nessi, collegamenti che permettano

di gettare uno sguardo generale, ma non per questo

esauriente, sul contributo filosofico wittgensteiniano.

Nel primo capitolo un aspetto della filosofia di

Wittgenstein in particolare, la riflessione sulla

“certezza” e sulle nozioni del senso comune, che

interessò i suoi ultimi mesi di vita, viene letto

parallelamente ad un romanzo contemporaneo di queste

riflessioni, “1984” di G. Orwell. Vedremo come il modo

in cui Wittgenstein affronta il tema sembra essere

attraversato dalle stesse inquietudini che animano la

distopia orwelliana. Questo ci permetterà di

approfondire anche alcuni temi della filosofia della

psicologia wittgensteiniana, in particolar modo il

raggio di riflessioni che fanno capo al ruolo dell’

“esperienza privata” nell’espressione di sentimenti,

sensazioni, stati interni.

Il secondo capitolo, invece, pone al centro il rapporto

tra Wittgenstein e Tolstoj. Rapporto questo che non

interessò semplicemente l’esperienza esistenziale, la

biografia e i gusti letterari del filosofo austriaco. Ma

che può aiutare a comprendere ed illuminare alcuni

aspetti della sua filosofia quali l’indicibilità di

etica ed estetica e il rapporto dell’etica con alcuni

concetti che riguardano la filosofia della psicologia

dell’ultimo Wittgenstein. Dal confronto emerge come il

filosofo avesse trovato in alcune sue posizioni un

10

superamento dei problemi che, soprattutto negli ultimi

“Racconti” dello scrittore russo, rimangono

drammaticamente insoluti.

Per il primo capitolo i testi wittgensteiniani di

riferimento saranno soprattutto “Della Certezza” e gli

“Ultimi scritti” sulla filosofia della psicologia. Nel

secondo capitolo viene presa in considerazione diretta

una più ampia varietà di testi, ma soprattutto le

“Ricerche filosofiche” e il frammento del “Big Typescript” dal

titolo “Filosofia”.

11

I. “Nell’oscurità del tempo presente”: per un

confronto tra Wittgenstein e Orwell

Ogni testo, sia filosofico che letterario, non vive

staccato dal contesto storico, politico, sociale

dell’autore che lo ha prodotto. Come piante le cui

radici si nutrono delle sostanze vitali di cui un

terreno è ricco, così un testo si nutre e arricchisce lo

sfondo storico che lo ha generato. Persino un manuale di

istruzioni per un sofisticato elettrodomestico segue

questa regola. Avviene poi che alcune di queste piante,

seppur diverse, possono intrecciare le loro radici o

generare fiori somiglianti nell’aspetto e nel profumo.

Succede quindi che due testi la cui composizione è quasi

contemporanea, il cui sfondo culturale e storico è il

medesimo, i cui autori hanno esperienze formative ed

esistenziali tendenti allo stesso punto di fuga, si

riflettono l’uno nell’altro come in un gioco di specchi.

Scritto nel 1948, quello che è considerato il

capolavoro di George Orwell, “1984”, dialoga con una

serie di note che Wittgenstein scrisse nell’ultimo anno

e mezzo di vita2 nelle quali il tema ricorrente è la

2 L. WITTGENSTEIN, Della Certezza. L’analisi filosofica del senso comune, tr. it.di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1999, p.XXX.

12

“certezza” e che pertanto G.E.M. Anscombe e G.H. von

Wright decisero di pubblicare separatamente nel 1969 con

il titolo “On Certainty”. Non esistono aneddoti biografici

o testimonianze che Wittgenstein abbia letto il romanzo

di Orwell, ma è altamente improbabile che un uomo dai

gusti estetici sofisticati come il filosofo viennese, un

uomo colto della Vienna fin-de-siècle, potesse leggere un

romanzo destinato ad aprire un dibattito interno alla

sinistra europea ma privo di quel moralismo e di quel

distacco dell’autore che egli considerava essenziale

alla vera opera d’arte. Ma come le piante le cui radici

affondano nello stesso terreno, sia Wittgenstein che

Orwell condivisero qualcosa di più che l’essere

appartenuti alle generazioni vissute tra la Prima e la

Seconda guerra mondiale. Nato nel 1903, lo scrittore

inglese vivrà l’esperienza politica della guerra civile

spagnola con il disinganno e la rabbia dei trotzkìsti

degli anni Trenta. Lo stesso disinganno, la stessa

consapevolezza di vivere un’epoca di tramonto, forse il

tramonto del genere umano, attraversa le riflessioni di

Wittgenstein sul contesto politico e storico. Sebbene

appartenesse alla generazione segnata dalla Grande

Guerra, il filosofo austriaco condivise con Orwell il

senso di appartenenza ad un orizzonte culturale al

tramonto, la sensazione di trovarsi ad un punto di non

ritorno, di un cambiamento antropologico. Questo

parallelismo della loro esperienza esistenziale si

13

riflette anche in un elemento di somiglianza

rappresentato a mio parere da una forza di tensione

comune alle opere del filosofo e dello scrittore: un

comune impegno etico, una profonda percezione

dell’importanza che una scelta in ambito pratico può

avere nell’ambito teorico e viceversa.

Ovviamente con le dovute differenze, perché in Orwell la

filo-sofia è riflessa nell’impegno politico, nel bisogno di

aprire lo spazio privato della scrittura alla dimensione

pubblica della politica, come luogo alternativo di

critica e rivoluzione della realtà sociale. Vivere

l’esperienza politica come una luce che illumina e

trasforma l’esperienza artistica e individuale della

letteratura, è tale riconsiderazione del proprio ruolo

sociale che caratterizza la letteratura orwelliana. La

passione per l’esperienza descrittiva, per la

rappresentazione nella forma letteraria vengono così

riconsiderate, quasi forzatamente investite, della

partecipazione allo spazio pubblico. Come egli stesso

scrive in un breve saggio autobiografico “Perché scrivo”

del 1946: “Finché sarò vivo e in buona salute continuerò

ad appassionarmi alla prosa, ad amare la superficie

della terra e a prender piacere dagli oggetti solidi e

da ritagli di informazioni inutili. Non c’è modo di

sopprimere questa parte di me. Il lavoro è quello di

riconciliare le mie radicate simpatie e antipatie con le

attività essenzialmente pubbliche e non individuali alle

14

quali quest’epoca ci obbliga”3. È l’epoca di atrocità e

contemporanea retorica del progresso a determinare

quell’alchimia di motivazioni per cui il «semplice

egoismo» e l’«entusiasmo estetico», ragioni individuali

della professione letteraria, si uniscono all’ «impulso

storico» e allo «scopo politico»4, espressioni invece di

un impegno pubblico, di un’apertura agli altri.

I.1. Filosofia ovvero terapia

I.1.1. In un certo senso, e con un peso teorico ben

più grave, la stesso “movimento del pensiero” lo

ritroviamo nelle motivazioni che portano il giovane

Ludwig ad accostarsi alla filosofia, alla fine del 1911.

Forse con una serietà, con un’intransigenza morale molto

più marcate. Perché l’esperienza di un’individualità

sofferta è in Wittgenstein il sintomo di una patologia

diffusa nell’ambiente culturale in cui si formò. Non

solo l’importante e singolare famiglia del giovane

filosofo contribuì ad imprimere nel suo carattere quasi

un’istigazione all’insoddisfazione permanente. Il

bisogno di fare qualcosa di utile per gli altri con il

proprio lavoro e impegno era infatti una delle

3 G. ORWELL, Nel ventre della balena e altri saggi, a cura di S. Perrella,Bompiani, Milano 2002, p. 104. 4 Ivi , pp. 100-101.

15

preoccupazioni che Karl Wittgenstein trasmise in maniera

ossessiva ai suoi figli: “Sicuro di sé e dei propri

valori, li impose ai figli senza curarsi troppo delle

loro attitudini e delle loro inclinazioni: essi dovevano

imparare matematica e latino, perché nella vita erano

destinati – da lui – a combinare ingegneria e affari

come aveva fatto lui”5. Sia Hans che Rudi Wittgenstein,

fratelli maggiori di Ludwig si suicidarono nei primi

anni del XX secolo. Il primo, talento musicale, entrò in

collisione con i progetti che il padre aveva per lui; il

secondo, probabilmente omosessuale, non fu mai

completamente inserito nell’ambiente familiare6.

Ma la famiglia Wittgenstein rifletteva in una

dimensione microscopica le ansie e le inquietudini della

cultura viennese dell’epoca, in cui «gli intellettuali […]

prendono atto della dissoluzione di una ragione universale univoca e

pertanto ritessono i rapporti con gli altri uomini e con le circostanze della

loro vita, ossia ritessono una cultura, una società attraverso la scoperta

dell’uomo in quanto individuo, ma anche un individuo che si riconosce nella

forma che lo distingue mediante, e non già contro, le connessioni molteplici

degli scenari della vita che egli condivide con tutti gli altri membri della

società»7. La consapevolezza della fine di un ordine

razionale superiore, incarnato dal liberalismo classico,

in grado di conferire unità alle forze individuali della

5 B.F. Mc GUINNESS, Wittgenstein. Il giovane Ludwig (1889-1921), tr. it. Il Saggiatore, Milano 1990, pp. 42-43.6 Ivi, si veda soprattutto il cap. II, pp. 39-86. 7 A.G. GARGANI, Wittgenstein. Musica, parola, gesto, Raffaello CortinaEditore, Milano 2008, pp. 37-38.

16

cultura austriaca si esprime, anche nella filosofia di

Wittgenstein, nel tema dell’assenza di una ragione

universale alla quale si sostituisce una fitta trama di

relazioni, analogie e somiglianze tra termini,

proposizioni e concetti. “Ci illudiamo che ciò che è

peculiare, profondo, per noi essenziale, nella nostra

indagine, risieda nel fatto che essa tenta di afferrare

l’essenza incomparabile del linguaggio. Cioè a dire,

l’ordine che sussiste tra i concetti di proposizione,

parola, deduzione, verità, esperienza ecc. Quest’ordine

è un super-ordine tra - potremmo dire – super-concetti”8.

Non esiste alcuna razionalità di ordine superiore, il

significato delle parole è qualcosa di immanente e

autonomo, di indipendente dalle immagini che ci facciamo

delle cose.

I.1.2. È in effetti un tentativo di allontanarsi e

differenziarsi dalla tradizione filosofica occidentale

che anima l’opera di Wittgenstein. Tanto il “Tractatus”,

quanto le “Ricerche filosofiche” cercano di prendere le

distanze da quelle teorie del linguaggio che fondano un

uso improprio di esso, un uso metafisico, che raddoppia,

cioè l’esperienza espressiva e gioca in questo modo il

nostro agire nella realtà. Un aspetto, quest’ultimo,

rilevante della filosofia wittgensteiniana, tanto della

fase del “primo” quanto del “secondo” Wittgenstein, che

8 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, op. cit., I, § 97, p. 63.

17

peraltro mostra la infondatezza di questa

sclerotizzazione del suo pensiero e che si accompagna ad

una concezione della filosofia come attività, come

pratica. Ma se nel “Tractatus” la prassi simbolica del

linguaggio è ancora vista dietro le lenti della

sublimazione di modelli logici, come ad esempio la

cosiddetta “teoria raffigurativa della proposizione”,

nel Wittgenstein della “seconda maniera” di filosofare,

questo punto di vista dall’alto viene abbandonato. Dopo

gli anni Trenta subentra infatti la convinzione che per

liberarsi di quelle immagini idealizzate attraverso cui

sublimiamo le inquietudini profonde che vivono nel fondo

del linguaggio, dobbiamo abbandonare proprio l’immagine

de il linguaggio. La scala del “Tractatus” va ora ascesa

non per superare (überwinden) i nonsensi che

costituiscono l’opera, ma va ascesa per prendere atto

che non esiste alcun punto di vista panottico dal quale

mostrare il funzionamento del linguaggio. E questa

conclusione non ha un orientamento naturalista, perché è

volutamente costruita per emancipare il filosofo dalla

necessità della spiegazione esaustiva dei fenomeni che

concernono il linguaggio. L’orizzonte monolitico che fa

da sfondo significante al “Tractatus”, il Mistico, cede

ora il testimone ad una pluralità di giochi linguistici

dai quali non è possibile enucleare, con lavoro di

analisi, con un travaglio tutto razionale, nessuna

essenza che identifichi un linguaggio. Ciò che emerge

18

sono piuttosto un’inestricabile serie di somiglianze,

analogie, affinità morfologiche che il filosofo non deve

spiegare ma descrivere. Compito della descrizione non è

quello di pervenire ad una soluzione dei problemi

filosofici (Esiste il mondo? Esistono i corpi? Perché

vivo?) ma di farci una rappresentazione perspicua (Übersichtliche

Darstellung) dei fatti linguistici. In questo modo egli

accompagna alla dissoluzione dei problemi filosofici, la

presentazione limpida dei vari casi di uso del

linguaggio. O meglio dei giochi che ne compongono

l’articolazione. Dalla prima alla seconda fase del suo

pensiero dunque, rimane invariata una tendenza di fondo,

un desiderio di chiarezza, per cui “ Tutta la filosofia

è «critica del linguaggio»”9, ma lo è adesso non nel

senso della ricerca di una forma logica che ci permette

di cogliere il funzionamento reale di esso, bensì nel

senso di un’attività di chiarificazione che si esercita

principalmente su se stessi, sul proprio modo di parlare

e quindi di vedere le cose.

Il lavoro sulla filosofia – come spesso il lavoro in

architettura – è in verità più il // un // lavoro su se

stessi, sul proprio modo di pensare; sul proprio modo di

vedere le cose. (E su ciò che ci aspettiamo da esse). Detto

in parole povere: nella // secondo la // vecchia concezione –

all’incirca, quella dei (grandi) filosofi occidentali – ci

9 L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosphicus e Quaderni 1914-1916, tr. it. acura di A. G. Conte, Einaudi, Torino 1998, 4.0031, p. 43.

19

sono stati due tipi di problemi, nel senso scientifico della

parola // due specie distinte di problemi….// : problemi

essenziali, grandi, universali e problemi inessenziali, in un

certo modo accidentali. E proprio con questo contrasta la

nostra concezione, per la quale non vi è alcun problema, nel

senso scientifico della parola che sia grande, essenziale.10

Dunque il filosofo non è colui che cerca la soluzione di

problemi essenziali, problemi cioè che hanno una forma

generale, concernono il mondo e la nostra posizione

rispetto ad esso. Alla filosofia è preclusa una tale

strada perché essa non ha per oggetto i fatti. La

filosofia è invece un esercizio di chiarezza sul nostro

modo di esprimerci che comporta un’irreversibile

trasformazione della propria “immagine del mondo”

(Weltbild). È un’esperienza che vede l’individuo compiere

un importante lavoro di addestramento della volontà: “

Si deve superare una difficoltà della volontà, non

dell’intelletto”11.

I.1.3. La lotta ad una filosofia dogmatica, una

filosofia cioè che sublimi la realtà attraverso immagini

che rispondono al nostro senso di insicurezza e

inquietudine, si svolge sul piano personale;

individualmente. È il tentativo di eliminare la propria

tendenza alla idealizzazione, alla cristallizzazione10 L. WITTGENSTEIN, Filosofia, tr. it. a cura di M. Andronico, DonzelliEditore, Roma 1996, pp. 5-7.11 Ivi, p. 5.

20

della realtà in forme che la nostra attività

immaginativa desume dagli stessi usi del linguaggio.

Questo comporta l’eliminazione di quel soggetto della

conoscenza, quell’identità in cui il reale si rapprende

in una visione d’insieme coerente, che ha fatto capolino

nella tradizione metafisica occidentale con Cartesio e

che ha assunto la sua veste trascendentale con Kant. In

un certo senso è lo stesso bisogno di eliminare l’

“orgoglio” che ci porta a considerare reali distinzione

quali soggetto/oggetto, diretto/indiretto,

profondità/superficie alla base di alcune considerazioni

di Orwell sul mestiere dello scrittore, come questa: “

E, tuttavia, è anche vero che non è possibile scrivere

qualcosa di leggibile se non si lotta costantemente per

tenere in disparte la propria personalità, dato che la

buona prosa è trasparente come il vetro di una

finestra”12. Così anche per Wittgenstein qualsiasi

attività espressiva umana, dalla letteratura alla

musica, dalla logica all’antropologia, deve riuscire a

mostrare lo sfondo vitale al quale essa è immanente

senza eclissarlo dietro l’orgoglio del soggetto, il

quale, nella riflessione razionale sublima il reale. Un

uso retto del linguaggio impone di eliminare quanto di

intellettuale, e quindi quanto di esplicativo, si impone

sull’analisi (come nel caso dell’antropologia) o su un

uso (come nel caso della letteratura) di esso. Proprio

12 G. ORWELL, Nel ventre della balena e altri saggi, op. cit. , p. 105.

21

per questo motivo Wittgenstein paragona l’attività

filosofica ad un’attività terapeutica: “La vera scoperta

è quella che mi rende capace di smettere di filosofare

quando voglio. […] Vengono risolti problemi (eliminate

difficoltà), non un problema. Non c’è un metodo della

filosofia, ma ci sono metodi; per così dire, differenti

terapie”13. L’attività terapeutica consiste quindi in una

disposizione strategica degli usi del linguaggio per

eliminare difficoltà, nel «mettere insieme ricordi, per uno scopo

determinato»14. Un lavoro che si effettua sulla volontà.

I.2 “Facci esseri umani”: il problema dell’accordo con

la forma di vita

I.2.1. Questo approccio terapeutico della filosofia ai

nostri problemi non comporta affatto, come è stato più

volte rimproverato a Wittgenstein, una rassegnazione del

pensiero di fronte all’esistente. L’attività di

chiarificazione, il procedere tranquillo del filosofo

non comportano il disconoscimento della problematicità

della vita. Il “problema della vita”, cioè del suo

perché, del suo senso, rimane tale se si cerca ad esso

una risposta scientifica o filosofica. Una risposta cioè

tesa ad incrementare le nostre cognizioni tecniche o a

discernere le cause ultime delle nostre azioni. La

13 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, op. cit. , I, § 133, p. 71.14 Ivi, § 127, p. 70.

22

problematicità della vita richiede piuttosto un

atteggiamento diverso da parte di chi si pone il

problema, un atteggiamento che si esprime nella

dissoluzione della questione sul piano intellettuale. Il

problema va terapeuticamente spostato sul piano della

volontà. Come già concludeva ai tempi del “Tractatus”:

“Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le

possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i

nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati.

Certo, allora non resta più domanda alcuna; e appunto

questa è la risposta. La risoluzione del problema della

vita si scorge allo sparire di esso. (Non è forse per

questo che gli uomini ai quali il senso della vita

divenne, dopo lunghi dubbi, chiaro, non seppero poi dire

in che cosa consistesse questo senso?)”15. Ma la

dissoluzione implica che la posizione del filosofo

compia una rotazione intorno al proprio asse, che la

prospettiva metafisica venga sostituita da una

prospettiva quotidiana, in cui gli usi eterogenei e

proteiformi del linguaggio siano liberi di muoversi a

dispetto di qualsiasi teoria. Le terapie che il filosofo

pratica, si compongono allora in una faticosa manovra di

avvicinamento a quell’intreccio vitale di simboli,

espressioni, usi del linguaggio e valori che fa da

sfondo ai giochi linguistici. Un ritorno alla casa del

Padre, un ri-orientamento all’interno di una forma di vita:

15 L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosphicus, op. cit., 6.52-6.521, p.108.

23

Se la vita è problematica, è segno che la tua vita non si

adatta alla forma di vita. Devi quindi cambiare la tua vita;

quando si adatterà alla forma, allora scomparirà ciò che è

problematico.

Ma non abbiamo forse la sensazione che chi in questo non vede

un problema non abbia occhi per vedere qualcosa di

importante, anzi la cosa più importante di tutte? Non mi

verrebbe voglia di dire che egli, in questo modo, vegeta –

cieco appunto, quasi una talpa, e che se solo potesse vedere,

allora vedrebbe il problema?

O forse dovrei dire: chi vive rettamente senza il problema

non come tristezza, non come problematico quindi, ma piuttosto

come una gioia; dunque quasi come un etere luminoso attorno

alla sua vita, e non come uno sfondo dubbio.16

Il linguaggio del filosofo metafisico gira a vuoto,

rimane giocato dalle immagini che egli stesso impone

agli usi linguistici. Il metafisico è allora straniero

rispetto alla forma di vita che esprime questi giochi

linguistici, per potersi riconciliare con essa deve

riportare le parole allo loro patria, dall’uso metafisico

all’uso quotidiano17.

I.2.2. La nozione di forma di vita (Lebensform) ha nella

filosofia della “seconda maniera” di Wittgenstein un16 L. WITTGENSTEIN, Pensieri diversi, ed. it. a cura di M. Ranchetti,Adelphi, Milano 2001, p. 61.17 Cfr. con L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, op. cit., I, § 116, p.67.

24

ruolo poliedrico, difficilmente inquadrabile in uno

schema interpretativo che si richiami al significato

assunto nel contesto della filosofia neokantiana o in

quello dello storicismo tedesco. Del resto i concetti

chiave della filosofia dell’ultimo Wittgenstein sono

volontariamente lasciati aperti, viene cioè loro negato

il possesso di una nota caratteristica o essenza che

accomunerebbe gli oggetti che ricadono sotto di essi. Il

concetto però mantiene la sua funzionalità pragmatica

perché permette di individuare quelle somiglianze di famiglia

che contraddistinguono gli oggetti ad esso inerenti.

Anche il concetto di forma di vita, dunque esprime un

carattere liquido ma non per questo irriconoscibile. In

relazione agli usi pratici, agli esempi attraverso cui

Wittgenstein ne illustra l’estensione, il concetto di

forma di vita sembra avere almeno tre connotazioni, che,

ripeto, non lo definiscono rigidamente ma che illuminano

somiglianze di famiglia, analogie e contesti

d’appartenenza differenti in cui esso si mostra.

Una prima connotazione ha indubbiamente a che fare con

la necessità, per una specie biologica, di accordarsi ad

un ambiente naturale; un comune modo di agire e reagire

in una dotazione biologica. Per cui forme di vita

differenti sarebbero i comportamenti eterogenei che le

specie animali hanno in relazione alla questione

dell’adattamento ad un ambiente, con il risultato che «se

25

un leone potesse parlare noi non potremmo capirlo»18. La forma di

vita è allo stesso tempo matrice di trasformazione e

risultato di quanto emerge dal corso della storia

naturale di una specie.

Ma la forma di vita si rivela anche in situazioni che

concernono il senso di certe attività e dei modi di

esprimersi dell’uomo, aspetto questo sviluppato in

relazione al tema del “seguire una regola”:

Immagina di arrivare, come esploratore, in una regione

sconosciuta dove si parla una lingua che ti è del tutto

ignota. In quali circostanze diresti che la gente di quel

paese dà ordini, comprende gli ordini, obbedisce ad essi, si

rifiuta di obbedire, e così via?

Il modo di comportarsi comune agli uomini è il sistema di

riferimento mediante il quale interpretiamo una lingua che ci

è sconosciuta.19

Dunque un comune modo di comportarsi dal qual emerge una

comune intelaiatura grammaticale che fa da sfondo

rassicurante al senso di queste azioni. La forma di vita

è così quella struttura che conferisce significato ad

un’attività o ad un uso linguistico relativo al

contesto. Così sarebbe impossibile comprendere cosa sia

sperare se questo uso linguistico non fosse individuabile

in certi comportamenti comuni agli uomini e relativi a

determinate situazioni. E un analogo discorso18 Ivi, II, XI, p.292.19 Ivi, I, § 206, pp.109-110.

26

Wittgenstein lo fa, nelle sue ultime annotazioni, per la

certezza. La forma di vita appare dunque come un’armatura,

una struttura della quale le nostre azioni infondate

traggono linfa e forza. In un certo senso essa svolge un

ruolo analogo a ciò che nella filosofia del “Tractatus” e

degli anni Venti svolgeva il Mistico. Quando parliamo in

accordo con la nostra forma di vita i nostri atti

linguistici si trovano a riparo dalle intemperie a cui

sono esposti, invece, i ragionamenti del filosofo

metafisico: “Farò menzione di un’altra esperienza,

subito, che mi è pure nota e che può essere nota anche

ad alcuni di voi: l’esperienza, si potrebbe dire, di

sentirsi assolutamente al sicuro. Intendo lo stato d’animo

in cui si è portati a dire «Sono al sicuro, nulla può

recarmi danno, qualsiasi cosa accada»”20.

Vi è infine una terza connotazione del concetto di forma

di vita che insiste invece sull’importanza della

prassi, l’agire conforme a ciò che è culturalmente

“normale”, e del suo apprendimento. In una parola è la

modalità con cui impariamo a comportarci, a districarci

nel retaggio di pratiche culturali e attività simboliche

concordi con la nostra cultura, con i nostri usi, con le

nostre credenze, con le nostre conoscenze; è ciò che

Wittgenstein chiama addestramento (Abrichtung). Legata al20 Così Wittgenstein parla dell’esperienza del Mistico nellaconferenza sull’etica pronunciata a Cambridge probabilmente tra il1929 e il 1930 davanti ad un’associazione chiamata «The Heretics»,il testo della quale è tradotto in italiano in L.WITTGENSTEIN,Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, a curadi M. Ranchetti, Adelphi, Milano 2005, p. 13.

27

tema del seguire una regola, la pratica

dell’addestramento risulta fondamentale, in “Della

Certezza”, per l’azione conforme al sistema di

proposizioni empiriche sottratte al gioco del dubbio che

fa da sfondo, metafisicamente infondato, al nostro agire

infondato.

Ovviamente queste tre sfumature del concetto di forma di

vita non esauriscono la gamma di giochi linguistici,

pratiche simboliche, usi espressivi apparentati da

somiglianze e analogie possibili; non ne individuano

l’estensione. È per questo motivo che Wittgenstein

rinuncia ad una definizione per farne emergere il

carattere attraverso esempi di giochi linguistici in

contesti quotidiani. La forma di vita è quindi uno

sfondo immanente alle pratiche linguistiche e

simboliche, alle nostre azioni:

Al posto del non analizzabile, dello specifico,

dell’indefinibile: il fatto che agiamo in questo e questo

modo, che, per esempio, puniamo certe azioni, accertiamo la

situazione effettiva in questo e quel modo, diamo ordini,

prepariamo resoconti, descriviamo colori, ci interessiamo ai

sentimenti altrui. Quello che dobbiamo accettare, il dato –

si potrebbe dire – sono i fatti della nostra vita.21

21 L. WITTGENSTEIN, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, tr. it. di R.De Monticelli, Adelphi, Milano 1990, I, § 630, p. 188.

28

Ciò che si deve accettare, il dato, sono – potremmo dire –

forme di vita.22

Ma la mia immagine del mondo non ce l’ho perché ho convinto

me stesso della sua correttezza, e neanche perché sono

convinto della sua correttezza. È lo sfondo che mi è stato

tramandato, sul qual distinguo tra vero e falso.23

Tutti i controlli, tutte le conferme e le confutazioni di

un’assunzione, hanno luogo già all’interno di un sistema. […]

Il sistema non è tanto il punto di partenza, quanto piuttosto

l’elemento vitale dell’argomentazione.24

Come si evince da questi passi la sfumatura comunitaria

del concetto di forma di vita è importante tanto quanto

quella prassiologica. Non è semplicemente il conformarsi

ciecamente alla intelaiatura grammaticale dei nostri

giochi linguistici a far sì che noi siamo parte della

forma di vita. Lo sfondo, i fatti della nostra vita, il

dato, ciò che deve essere accettato è qualcosa che è già

immanente alle nostre azioni. È l’elemento vitale di

qualsiasi argomentazione finanche del dubbio e

dell’errore. Questa particolare proprietà di

condivisione, questo attivo deposito comunitario di

pratiche, interessi e valori collettivi caratterizza la

Lebensform. Sfondo e allo stesso tempo trama dell’agire

22 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, op. cit., II, XI, p. 295.23 L. WITTGENSTEIN, Della Certezza, op. cit., § 94, p. 19.24 Ivi, § 105, p. 20.

29

essa è ciò che permette di riconoscere la palese

manifestazione della presenza umana, dal momento che «per

quanto le cose di questo mondo ci colpiscano intensamente, per quanto

profondamente esse possano emozionarci e stimolarci, non diventano

umane per noi se non nel momento in cui possiamo discuterne con i nostri

simili. Tutto ciò che non può diventare oggetto di dialogo – il sublime,

l’orribile, il perturbante – può anche trovare una voce umana attraverso la

quale risuonare nel mondo, ma non è propriamente umano. Noi

umanizziamo ciò che avviene nel mondo e in noi stessi solo parlandone e, in

questo parlare, impariamo a diventare umani»25. Allora,

un’espressione acquista una fisionomia a noi familiare,

solo se essa è al centro di un discorso che si avvale di

forme espressive e usi linguistici comuni, solo se

scaturisce dalla nostra forma di vita. In questo

“miracolo” della condivisione, noi ci rappresentiamo e

siamo esseri umani. “Facci esseri umani” scriveva

Wittgenstein nel 1937 26.

I.3. “Io scrivo quindi in realtà per alcuni amici

dispersi negli angoli del mondo”: il rapporto

problematico di Wittgenstein con la modernità

I.3.1. Se si volessero approfondire le origini

teoriche della nozione di forma di vita nella filosofia25 H. ARENDT, Antologia. Pensiero, azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, tr. it.a cura di L. Bollea,Feltrinelli, Milano 2006, si veda il saggioL’umanità in tempi bui, p. 228.26 L. WITTGENSTEIN, Pensieri diversi, op. cit., p. 67.

30

di Wittgenstein la nostra attenzione cadrebbe

indubbiamente su uno dei più insigni rappresentanti

dello storicismo tedesco, Oswald Spengler. Del resto è

lo stesso Wittgenstein ad incastrare il filosofo della

cultura nel puzzle delle personalità che maggiormente lo

hanno influenzato, o meglio, che a suo dire, hanno

influenzato il suo talento riproduttivo tipicamente

ebraico:

[…] Io credo di non aver mai inventato un corso di pensiero; al

contrario, mi è sempre stato dato da qualcun altro. Io l’ho

solo afferrato subito con passione per la mia opera di

chiarificazione. Così mi hanno influenzato Boltzmann, Hertz,

Schopenhauer, Frege, Russell, Kraus, Loos, Weininger,

Spengler, Sraffa.27

Ciò che di stimolante Wittgenstein ritrova ne “Il tramonto

dell’Occidente” di Spengler è probabilmente un metodo di

analisi della storia che sfugge al regime di un ordine

razionale storico superiore. Il fulcro teorico della

filosofia spengleriana è infatti un metodo morfologico

il quale permette di comprendere la pluralità delle

culture umane come ripetizione, in forme diverse, di un

“fenomeno originario” (Urphänomen) consistente nello

schema per cui una civiltà è pari a un organismo

biologico, che nasce, si sviluppa e muore. Va però

sottolineato che la fortuna del metodo morfologico

27 Ivi, p. 47.

31

risale a Goethe il quale, nei suoi scritti scientifici e

nel poema “Die Metamorphose der Pflanzen”, paragona alcune

piante e animali alle complesse modificazioni di una

struttura semplice, il già citato “fenomeno originario”.

Ovviamente non si tratta, per quanto riguarda la

morfologia di piante e animali, di un surrogato della

teoria evoluzionista. Non è una teoria generale

sull’origine delle specie. Si tratta piuttosto di un

metodo teso a rischiarare la relazione tra due elementi

di un sistema, una relazione che va “dal semplice al

complesso”. Proprio perché fa emergere una relazione, il

metodo morfologico non è una spiegazione generale ma un

modello descrittivo. Nella filosofia wittgensteiniana il

metodo morfologico è il modello descrittivo che ci

permette di cogliere, tra gli usi linguistici e

differenti giochi, quei membri intermedi (Zwischenglieder) i

quali riflettono analogie e somiglianze di famiglia

utili a farci una rappresentazione perspicua della nostra

grammatica. Così in quel frammento del “Big Typescript” noto

con il nome di “Philosophie”, in cui Wittgenstein affronta

direttamente (caso più unico che raro) le motivazioni e

i problemi connessi al filosofare, egli attribuisce il

metodo morfologico come mezzo per la perspicuità della

rappresentazione alla Stimmung di cui Spengler è parte:

Il concetto di rappresentazione perspicua è per noi di

importanza fondamentale. Esso contraddistingue la nostra

32

forma di rappresentazione , il modo in cui vediamo le cose.

(Un tipo di “visione del mondo”, quale sembra essere tipica

del nostro tempo. Spengler.)28

In particolare, il metodo morfologico, trova un

riscontro importante nel rapporto tra giochi linguistici

completamente esauriti in un contesto e giochi

linguistici che invece sfondano quello stesso contesto,

presentandosi così come delle complicazioni dei primi. È

il rapporto che intercorre, ad esempio, tra i nostri

giochi linguistici e quelli dei due muratori nei

paragrafi iniziali delle “Ricerche filosofiche”. Meglio

ancora, tra giochi linguistici primitivi e complessi

legati da somiglianze morfologiche, intercorre lo stesso

rapporto che c’è tra una proposizione empirica e il

gioco con cui la mettiamo in dubbio. Il dubbio è cioè

una complicazione di un gioco semplice come la

constatazione di un nesso causale, la quale a sua volta

non è altro che una reazione:

La forma primitiva del gioco linguistico è la certezza, non

l’incertezza. Perché l’incertezza non potrebbe portare

all’azione.

Voglio dire: è caratteristico del nostro linguaggio che esso

cresca su un terreno di solide forme di vita, di azioni

regolari. […] Abbiamo un’idea proprio di quali forme di vita

siano primitive e di quali si siano potute formare soltanto a

28 L. WITTGENSTEIN, Filosofia, op. cit., p. 35.

33

partire da queste. Noi crediamo che l’aratro più semplice sia

venuto prima di quello complicato. La forma semplice (e

questa è la forma originaria) del gioco di causa ed effetto è

la determinazione della causa, non il dubbio.29

Il nostro errore consiste nel cercare una spiegazione dove

invece dovremmo vedere questo fatto come un “fenomeno

originario”. Cioè, dove invece dovremmo dire: si giuoca questo

giuoco linguistico.30

Il gioco linguistico primitivo non svolge tuttavia un

ruolo, potremmo dire, trascendentale rispetto agli altri

giochi linguistici. Esso non è per così dire l’essenza

di tutti i giochi linguistici complessi apparentati alla

stessa linea morfologica. Wittgenstein riprende questo

schema che dal semplice va al più complesso, e che in

Spengler illustra un approccio filosofico alla storia

più vicino a Nietzsche che ad Hegel, solamente da un

punto di vista metodologico, dal momento che «la nebbia si

dissipa quando studiamo i fenomeni del linguaggio nei modi primitivi del

suo impiego, nei quali si può avere una visione chiara e completa dello

scopo e del funzionamento delle parole»31. Dunque l’applicazione

del metodo morfologico alla pluralità dei giochi

linguistici che vivono negli esempi di Wittgenstein si

riflette nella nozione di forma di vita, dotata, come

abbiamo visto sopra, di una sfumatura di significato29 L. WITTGENSTEIN, Causa ed effetto seguito da Lezioni sulla libertà del volere, acura di A. Voltolini, Einaudi, Torino 2006, p. 24.30 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, op. cit., I, § 654, p. 219.31 Ivi, I, § 5, p. 11.

34

organica, biologica: facendo eco a Spengler la forma di

vita nasce, si sviluppa e forse muore. Ma dedurre questo

modello descrittivo, questo schema per poi

ipostatizzarlo al di fuori del linguaggio, trascendendo

la forma di vita, in una filosofia della storia è una

conclusione che Wittgenstein non può accettare. È questo

probabilmente il limite che egli ravvisa nella teoria

del tramonto dell’Occidente: il fatto che si tratti di

una teoria, cioè di una spiegazione generale. “Spengler

si potrebbe capire meglio se dicesse: io stabilisco un

confronto fra diverse epoche della civiltà e la vita di

gruppi familiari; all’interno di una famiglia c’è

un’aria di famiglia , ma anche tra i membri di famiglie

diverse c’è una somiglianza; […] Altrimenti, ecco che

tutto ciò che vale per il modello assunto nell’indagine

lo si afferma nolens volens anche riguardo all’oggetto

indagato; […] Ma poiché si fa confusione tra modello e

oggetto, si è obbligati ad attribuire dogmaticamente

all’oggetto ciò che caratterizza obbligatoriamente solo

il modello”32. In altri termini, Spengler è caduto nella

trappola del metafisico perché ha sublimato quel modello

teorico che fa capo al metodo morfologico e alle forme

di vita, finendo per esserne giocato, per adattare

l’oggetto della sua analisi alla forma dell’ analisi.

Risultato: il modello spengleriano viene declinato dal

suo artefice come necessità, ineluttabilità della

32 L. WITTGENSTEIN, Pensieri diversi, op. cit., pp. 39-40.

35

storia; perde cioè il suo ruolo di principio formale

della riflessione per travestirsi da manifestazione

oggettiva del destino.

I.3.2. Non insisterei ulteriormente sul rapporto tra

Wittgenstein e Spengler. Non deve essere trascurato però

un aspetto, eliminando il quale, la riflessione di

Wittgenstein perde il radicamento nel suo contesto

culturale e storico per essere ipostatizzata, come

spesso è accaduto, nel pantheon della sola filosofia

analitica e postanalitica. Direi che più di un’affinità

teorica, l’aspetto in questione coinvolge un

atteggiamento comune ad una corrente della cultura

europea nata nell’Ottocento quasi per contrasto al

pensiero razionalista, scientifico e in parte

dialettico. Ai fini di una “rappresentazione perspicua”

del terreno su cui germoglia, come “Il biancospino del conte

Eberardo”33, la filosofia di Wittgenstein si potrebbe in

maniera alquanto grossolana, ma non per questo

inefficace, situare in quell’atmosfera antirazionalista

e antimetafisica che da Schopenhauer e Kierkegaard

arriva a Dostoevskij e Tolstoj, passando per Nietzsche e

Weininger. Questo atteggiamento inizialmente carsico ma

con Nietzsche esplosivo, si coniugò nella Germania e

33 Mi riferisco qui alla poesia di Johann Ludwig Uhland (1787-1862)che Wittgenstein lesse per la prima volta in una lettera inviataglida Paul Engelmann, e nella quale vide un magnifico esempio artisticodi espressione dell’inesprimibile, cfr. con P. ENGELMANN, Lettere diLudwig Wittgenstein, tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1970, p. 7.

36

nell’Austria tardoasburgica con un pessimismo storico

diffuso, con in il senso dell’inizio di un’epoca in cui

l’umanità cede il passo alla supremazia della scienza.

Ora la diagnosi del tramonto dell’Occidente formulata da

Spengler si spiega, all’interno del suo modello di

analisi delle culture come organismi biologici, nella

celebre distinzione tra Kultur e Zivilisation, tra civiltà e

cultura ovvero tra una cultura positiva, non corrotta e

vitale, e una cultura della decadenza, che ha consumato

le sue energie spirituali, per questo dominata

dall’illusione progresso tecnico illimitato. L’orizzonte

verso cui marcia la decadente cultura occidentale è

quello della civiltà delle macchine, il dominio

incontrastato della tecnica in cui l’uomo occidentale e

il suo universo simbolico sono destinati a scomparire.

Un certo rifiuto della modernità, un antagonismo

essenziale alla faccia ottimista e razionalista della

cultura europea, è dunque ciò che caratterizza la

Stimmung dell’epoca di cui Wittgenstein fu figlio. Ma la

migliore e più completa manifestazione del suo giudizio

sulla modernità, di cui sempre condannò le espressioni

più filistee, risale al 1930, ad un abbozzo di

prefazione e ad una prefazione, la seconda delle quali

R. Rhees inserì come premessa delle “Philosophische

Bemerkungen”, per orientare i lettori34. In questi due

34 Nei passi seguenti farò riferimento a L. WITTGENSTEIN, Osservazioni filosofiche, tr. it. di M. Rosso, Einaudi, Torino 1999, Premessa dell’autoree Pensieri diversi, op. cit., pp. 26-28.

37

brani Wittgenstein dice apertamente che lo spirito, con

cui egli scrive, è «diverso dalla grande corrente della cultura

[Zivilisation] europea e americana». Lo spirito che anima l’età

moderna, esternato nella parola progresso, si esprime

nell’industria, nella musica, nell’architettura, nel

fascismo e nel socialismo. Esso è estraneo allo spirito

di Wittgenstein. Uno spirito che invece guarda «al tempo di

una grande civiltà [Kultur]», ove il valore del singolo poteva

esprimersi. Questo, precisa, avviene peraltro anche

nella modernità, ma estraniandosi dalla stessa civiltà.

Le grandi individualità riescono ad esprimersi soltanto

dirottando il proprio valore in una dimensione di

isolamento o comunque non comunitaria. La forza del

singolo è in competizione con innumerevoli altre forze

contrarie e resistenze d’attrito cosicché «lo spettacolo che

offre quest’epoca è quello poco edificante di una moltitudine dove i

migliori perseguono solo fini privati». Ciò non avveniva in quelle

grandi organizzazioni che furono le civiltà, nelle quali

il singolo trova «il posto in cui può lavorare nello spirito del tutto».

Due elementi saltano immediatamente all’attenzione del

lettore di queste poche righe. In primo luogo

un’esperienza dell’individualità rispetto a ciò che

Wittgenstein definisce modernità, estremamente sofferta.

Una forza di resistenza rispetto a una pluralità di

attriti e forze contrastanti. E questo atteggiamento

caratterizzò la vita dell’individuo Wittgenstein, la

riflessione del quale emerse, quasi per contrasto e

38

accordo, per composizione, con numerosi altri “vettori”

individuali della cultura europea. Non è un caso, o una

stranezza da annoverare tra i cataloghi di aneddotica

wittgensteiniana, il suo rapporto di contrasto finanche

violento con le personalità scientifiche della sua

epoca. Si pensi ad esempio all’accesa discussione con K.

Popper, ormai entrata a far parte degli episodi che

accrescono l’aura di genialità e sregolatezza con cui di

solito, frettolosamente, lo si etichetta. Il secondo

elemento che cattura l’attenzione, nella lettura di

queste poche righe, è un atteggiamento ironico, se non

demistificatore, nei confronti della nozione di progresso

come forma della cultura europea e americana. Tale forma

si esplicita in un atteggiamento costruttivo che si

avvale della chiarezza, dell’attività di chiarificazione

propria della filosofia antidogmatica, come mezzo per

l’edificazione di qualcosa di più complesso.

Ad essa Wittgenstein contrappone una pratica della

chiarificazione che sia fine a se stessa, e per questo

motivo, non costruisca edifici complessi, ma che

presenti punti di vista differenti sempre sullo stesso

oggetto di riflessione. Lo spirito costruttivo del «tipico

uomo di scienza occidentale» non è però l’unica sfumatura

della nozione di progresso che il filosofo austriaco

rifiuta. Accanto allo spirito costruttivo del filosofo o

dello scienziato di professione, egli lascia intuire, in

alcuni obiter dicta, che il suo rifiuto si estende alle

39

esternazioni sul piano storico, politico e sociale di

questo tipo di atteggiamento. Proprio perché contrario

al modello storico esplicativo del positivismo,

Wittgenstein palesa la sua critica a questo uso del

termine progresso solamente nel suo percorso filosofico,

senza mai attaccare direttamente l’immagine generale e

affascinante da esso generata. Questo rifiuto è un

aspetto interno e profondo della sua posizione

antimetafisica e antifondazionalista, un aspetto che ci

permette di chiarire quale metafisica, quale

atteggiamento dogmatico egli non accetti nel pensiero

della modernità. Come osserva von Wright: “La metafisica

contro la quale Wittgenstein lotta non è dunque radicata

nella teologia, ma nella scienza. Egli combatte

l’influsso ottenebrante che sul pensiero hanno non i

relitti di una cultura morta, ma gli abiti di una

cultura viva”35. Lascia invece libero corso ai suoi

giudizi diretti raramente, a piccole e tenebrose

annotazioni:

È possibile che scienza e industria, e il loro progresso,

siano le cose più durature del mondo contemporaneo. Che ogni

supposizione di un loro fallimento sia per ora, e resti per

molto tempo, un mero sogno, e che esse in seguito, con

infinito strazio, pervengano a unificare il mondo, cioè a

35 G.H. VON WRIGHT, Wittgenstein e il Novecento, in Wittgenstein e il Novecento. Tra filosofia e psicologia, a cura di R. Egidi, Donzelli, Roma 2002, p. 40.

40

contrarlo in una sola cosa, dove poi, naturalmente tutto

dimorerà fuorché la pace.

Scienza e industria decidono ormai le guerre, o almeno così

pare.36

Forse sarebbe eccessivo vedere in questa annotazione del

1947 una previsione dell’omologazione per niente

pacifica cui lo sviluppo di tecnica e industria

avrebbero portato da lì a pochi anni, prima l’occidente

economico poi il pianeta. Non voglio certo dire che in

questa, ed altre annotazioni sia possibile riconoscere

un’intuizione di ciò che chiamiamo globalizzazione o

società dei consumi. Va però detto che lo spirito delle

osservazioni non è semplicemente manifestazione del

pessimismo cronico di un uomo formatosi nella Vienna fin-

de-siècle di fronte alla diffusione di una cultura di

massa. Wittgenstein ha una chiara percezione del ruolo

che la “metafisica della modernità” interna al discorso

scientifico-positivista gioca nella nascita della

“civiltà delle macchine”. E questa percezione si

accompagna all’orrore per l’ottimismo di una cultura in

cui i problemi più profondi vengono sottratti allo

spettro espressivo dei linguaggi umani con l’illusione

di poterli risolvere delegandoli al progresso tecnico,

con l’ampliamento dell’edificio del sapere scientifico:

36 L. WITTGENSTEIN, Pensieri diversi, op. cit., pp. 120-121.

41

Ho detto una volta e forse con ragione: la civiltà del

passato diventerà un mucchio di rovine e alla fine un mucchio

di cenere, ma sulla cenere aleggeranno degli spiriti.37

È sul rapporto con la modernità, che a mio parere può

svolgersi un confronto fecondo tra la filosofia di

Wittgenstein e quella produzione letteraria che si nutrì

della stessa atmosfera antirazionalista, pessimista e

antimetafisica di cui si nutrì anche il filosofo

austriaco. Solo date tali premesse possiamo serenamente

affrontare l’analisi di quel silenzioso gioco di specchi

riscontrabile dalle letture di “Della Certezza” e di “1984”.

Se Orwell probabilmente non ebbe la stessa sfiducia di

Wittgenstein nei confronti della modernità, se il suo

giudizio sul concetto di progresso non fu altrettanto

severo, ugualmente catastrofica fu la sua creazione

letteraria sulla direzione intrapresa dal pianeta dopo

il secondo conflitto mondiale. Quel mondo «contratto in una

sola cosa» che scienza e industria stanno edificando, in

cui «tutto dimorerà fuorché la pace», non è poi tanto distante

dalla distopia che Orwell rappresenta nel suo romanzo,

dove «la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza»38.

37 Ivi, p.22.38 G.ORWELL, 1984, tr. it. a cura di S. Manferlotti, Mondatori, Milano 2000, p.8.

42

I.4. Oceania, bipensiero e neolingua: il solipsismo di

massa di “1984”

Il mondo che Orwell descrive in “1984” è la

realizzazione effettiva degli incubi più oscuri, delle

inquietudini più profonde, delle società uscite dal

trauma della Seconda guerra mondiale. Il metro con cui

la sua distopia deve essere valutata non è ovviamente

quello della sua verificazione. “1984” non è un saggio

di filosofia della storia, o una profezia ineluttabile.

La sua lettura richiede la serena consapevolezza di

trovarsi di fronte ad un modello di descrizione,

alternativo, ma non per questo meno possibile delle

potenzialità apocalittiche inespresse (o espresse in

parte, dipende dai punti di vista) della realtà politica

e sociale postbellica. Non si tratta quindi di una

predizione sui tempi che stiamo vivendo. Come osserva R.

Rorty:

[…] quello che fecero Orwell e Nabokov – sensibilizzare il

pubblico alle crudeltà e umiliazioni che gli erano passate

inosservate – non è stato di svelare l’apparenza e rivelare

la realtà. […] È meglio pensare che si sia trattato di una

ridescrizione di quello che poteva succedere o che era già

successo – da confrontarsi non con la realtà; ma con

descrizioni diverse degli stessi fenomeni.39

39 R. RORTY, La filosofia dopo la filosofia, cap. 8 L’ultimo intellettuale d’Europa: Orwell e la crudeltà, tr. it. Laterza, Roma-Bari 1989, p. 198.

43

Guardiamo dunque da vicino questo mondo catastrofico,

modello alternativo del mondo reale. Nel 1984 non

esistono più gli stati, gli assetti politico-sociali che

conosciamo ma tre supernazioni Oceania, Eurasia ed

Estasia. Pare che questo riassetto internazionale sia

nato da un periodo di rivoluzioni, guerre e conflitti

nucleari che hanno gettato l’umanità in una sorta di

Medioevo postatomico. Ciascuna delle tre supernazioni è

controllata da organizzazioni politiche che oggi

definiremmo di stampo totalitario: ispirate da tre

ideologie che convergono nella forma e nei fini

perseguiti, controllate da una piccola oligarchia il cui

scopo è la conservazione del potere, tese ad un

conflitto perenne e finalizzato alla mobilitazione

permanente delle popolazioni oppresse. Orwell,

probabilmente pensando a ciò che avveniva in Unione

Sovietica, chiamò questa forma di governo “collettivismo

oligarchico”40. L’ Oceania è la supernazione in cui vive

il protagonista del romanzo, “l’ultimo uomo in Europa”,

Winston Smith. In essa il potere è detenuto da

un’organizzazione politica il Socing (Socialismo

inglese) al cui vertice si trova il Grande Fratello,

capo infallibile e onnisciente che nessuno ha mai visto.

L’ideologia del Partito ha irretito, bloccato e reso

40 Così almeno viene definita nel “Libro” dell’unico oppositore al regime oceanico, Emmanuel Goldstein, cfr. con G. ORWELL, 1984, op. cit., pp. 193-222.

44

analizzabile ogni singolo frammento delle vite delle

persone. Tutti, dai membri del Partito interno (gli

oligarchi al vertice dell’organizzazione) ai membri del

Partito esterno (di cui Winston fa parte) pensano e

agiscono secondo i principi del Socing. Gli individui

subiscono infatti il controllo perenne di teleschermi

presenti nelle loro case e al minimo sospetto di

deviazione dai principi dell’ideologia vengono arrestati

dal braccio repressivo del Partito, la psicopolizia. Essa

ha il compito di intervenire laddove si sviluppi la

possibilità della riflessione indipendente dalla logica

cui il Partito ha piegato la realtà. Se la psicopolizia

è uno strumento di controllo del pensiero esterno alla

mente degli individui, strumenti come il bipensiero e la

neolingua, impediscono dall’interno, come vedremo in

seguito, qualsiasi tipo di pensiero indipendente da

tale logica. Unica eccezione a questo enorme sistema di

disciplinazione e controllo della vita sono i prolet, la

stragrande maggioranza della popolazione, sfruttata

nelle attività produttive, dei quali il Partito fomenta

solamente le pulsioni nazionaliste e l’istinto a

riprodursi, per creare nuova forza lavoro. I prolet,

allevati come animali e ritenuti tali, vivono al di

sotto dell’autocoscienza e pertanto non sono nelle

condizioni di ribellarsi al sistema oppressivo. Eppure

conservano quella condizione di “nuda vita” che nessuna

logica di potere può completamente manipolare. Esclusi

45

dallo spazio dell’autocoscienza, incapaci di formulare

una qualsiasi forma di riflessione, i prolet non possono

subire quel processo di disgregazione della realtà, di

vaporizzazione delle certezze del senso comune che il

Socing impone al resto dei cittadini di Oceania. È per

questo motivo che Winston ripone le ultime speranze di

resistenza nella loro impermeabilità all’ideologia. “Se

una speranza c’era, questa risiedeva fra i prolet”41.

Osservando una donna che aveva vissuto per anni in

quella condizione ferina, con delle braccia vigorose,

immersa nelle sue faccende domestiche mentre canticchia

un motivetto stupido, Winston pensa: “Un giorno quei

poderosi lombi avrebbero dato vita a una razza di esseri

umani consapevoli di sé. Il futuro apparteneva a loro.

Voi eravate i morti, ma potevate aver parte in quel

futuro se mantenevate in vita la mente così come essi

mantenevano in vita il corpo, tramandando quella

dottrina segreta secondo cui due più due fa quattro”42.

I.4.1. La dignità del senso comune: l’ideologia del

Socing in lotta con la certezza

I.4.1.1. Come è possibile un simile controllo degli

individui? Perché Winston pensa alla sua vita di

dissidente come ad un atto etico, consistente nella

conservazione della propria integrità mentale? Quale

41 Ivi, p. 74, 226.42 Ivi, p. 227.

46

importanza simbolica ha per la forma di vita umana che

due più due diano quattro?

Questi interrogativi trovano una possibile risposta in

quelle riflessioni wittgensteiniane che hanno come tema

comune il ruolo che la certezza svolge nei nostri giochi

linguistici, raccolte appunto in “Della Certezza”. Ad

attirare, com’è noto, l’attenzione di Wittgenstein su

questi temi fu la lettura, avvenuta nel 1949 durante un

viaggio negli Stati Uniti, presso N. Malcom, delle opere

di G.E. Moore in cui è presente la difesa delle

proposizioni del senso comune: “Proof of the External World” e

“Defence of Common Sense”. Senza scendere nei dettagli

della posizione filosofica di Moore possiamo qui

accennare alla strategia di difesa da lui adottata. Egli

distingue la propria posizione da chi nutre dubbi sulla

verità delle proposizioni comprese nella visione del

mondo del senso comune, come “La terra esiste da molti

anni”. Il problema non è la verità di queste

proposizioni ma l’analisi del loro significato, compito

questo della filosofia. L’analisi filosofica mette in

luce come il problema del significato di proposizioni

complesse che esprimono la posizione del senso comune,

ad esempio “le cose materiali esistono”, dipenda in

ultima istanza dall’analisi di proposizioni più semplici

come “questa è la mia mano”. Per evitare un regressum ad

infinitum Moore sottolinea poi come le proposizioni

semplici che scaturiscono dalla visione del mondo del

47

senso comune, vertano sempre intorno a qualche “dato

sensoriale” il quale non coincide con la “cosa”

argomento della proposizione. Sebbene non logicamente

provate, le credenze di contenuto realistico, sono

dunque certamente vere perché non possiamo vivere

altrimenti. “Io so che qui c’è una mano umana, un foglio

di carta, una penna ecc.” e lo so con una certezza che

non mi giustifica a dubitarne della verità. La vera

questione, dice Moore, semmai riguarda il significato

autentico di tali proposizioni, il quale emerge solo

attraverso l’analisi filosofica. Ma che tale analisi sia

stata portata a termine da qualche filosofo, questo,

osserva Moore, può essere terreno fertile per lo

scetticismo:

[…] io non sono affatto scettico riguardo alla verità di

proposizioni come «La terra esiste da molti anni», «Da molto

tempo molti esseri umani hanno vissuto sulla terra», ecc.,

cioè riguardo a proposizioni che asseriscono l’esistenza di

cose materiali […] Sono invece assai scettico sulla

possibilità di un’analisi corretta di tali proposizioni. E

questo è un punto in cui credo di differenziarmi da parecchi

filosofi. Molti sembrano infatti ritenere che non ci sia

dubbio alcuno sulla validità della loro analisi […] E alcuni di

questi filosofi […] sembrano dubbiosi della verità di ognuna di

queste proposizioni; io, invece, per parte mia, mentre

ritengo che non sussista dubbio alcuno sulla verità di molte

delle proposizioni in questione, ritengo anche che nessun

48

filosofo, finora, sia riuscito a suggerire un’analisi,

riguardo a certi punti importanti del loro significato, che

possa neanche lontanamente avvicinarsi ad essere sicuramente

vera.43

In “Della Certezza” Wittgenstein, pur riconoscendo la

dignità del senso comune, nega la plausibilità di una

tale impostazione della questione. “Ora, si può

enumerare quello che si sa (come fa Moore)? Così, sui

due piedi, credo di no . – Altrimenti le parole «Io so»

sarebbero usate malamente. E attraverso questo cattivo

uso della parola sembra che si mostri uno stato mentale

strano ed estremamente importante”44. Attribuire alla

certezza espressa nelle credenze del senso comune un

valore epistemologico, potersi cioè pronunciare sulla

loro verità o falsità, è un non senso tanto quanto la

negazione dell’esistenza del mondo esterno affermata dal

solipsista. Ciò non vuol dire che Wittgenstein

attribuisca a Moore una posizione apodittica, che

rasenta l’ingenuità. Quello che egli contesta non è

l’intento di Moore, la difesa del senso comune, ma il

metodo da lui utilizzato. Perché impostando la sua

soluzione in questi termini Moore si mette sullo stesso

piano del solipsista il quale nega la certezza delle

proposizioni del senso comune:

43 G. E. MOORE, In difesa del senso comune in Saggi filosofici, tr. it. Lampugnani Nigri, Milano 1970, p. 45.44 L. WITTGENSTEIN, Della Certezza, op. cit., § 6, p.4.

49

Moore ha ben ragione, dicendo di sapere che davanti a lui c’è

un albero. Naturalmente, in questo può sbagliarsi . (Infatti

qui le cose non stanno con l’espressione «Io credo che là ci

sia un albero»). Ma se in questo caso abbia ragione o si

sbagli, non è importante da un punto di vista filosofico.

Quando Moore contesta quelli che dicono che una cosa del

genere non si può propriamente sapere, non può farlo dandoci

l’assicurazione che lui sa questo e quest’altro, perché non

c’è bisogno di credergli. Se il suo oppositore avesse

asserito che non si può credere questa determinata cosa così e

così, allora Moore avrebbe potuto rispondergli: «La credo io».

L’errore di Moore consiste nel contrapporre, all’asserzione

che una certa cosa non si può sapere, «Io la so».”45

I.4.1.2. Wittgenstein mostra invece come una

dissoluzione del problema richieda un abbandono della

trattazione di proposizioni come “questa è la mia mano”

in termini di verità e falsità. Il problema non è sapere

che una data proposizione sia vera o meno, ma di

indagare gli effetti che la negazione della sua verità o

l’asserzione della sua falsità avrebbero sul modo di

agire dei parlanti: “non si tratta del fatto che Moore

sappia che qui c’è una mano, ma del fatto che se dicesse

«Qui naturalmente potrei sbagliarmi» non lo capiremmo.

Chiederemmo: «Che aspetto avrebbe un errore così?» - Che

aspetto avrebbe, per esempio, la scoperta che si

trattava d’un errore?”46.

45 Ivi, §§ 520-521, p. 84.46 Ivi, § 32, p. 8.

50

Se le certezze del senso comune non sono certezze

cognitive, qual è allora il loro statuto giuridico nel

linguaggio? Il carattere particolare della certezza del

senso comune, appare chiaro quando volgiamo lo sguardo

dall’analisi logica al comportamento umano. Certo

Wittgenstein non nega che le proposizioni di cui Moore

parla abbiano un contenuto empirico. Ma nei nostri

giochi linguistici esse svolgono un ruolo particolare,

quello di strumenti grammaticali il cui scopo è

disciplinare la nostra condotta intellettuale. Le

certezze espresse dalle proposizioni del senso comune

costituiscono un sistema, un edificio, che fa da codice

privo di fondamenti razionali o metafisici ai nostri

comportamenti. È come se Wittgenstein volesse sottrarre

il problema delle certezze del senso comune all’agone

filosofico che su di esse la tradizione occidentale ha

costruito, per sottolineare l’importanza che per la loro

assunzione, nella vita di tutti i giorni, ha quello

sfondo ereditato dalla comunità sociale cui apparteniamo:

“«Una proposizione empirica si può controllare» (diciamo

noi). Ma in qual modo? e con quale mezzo? […] Come se

una volta o l’altra la fondazione non giungesse a un

termine. Ma il termine non è la presupposizione

infondata, sibbene il modo d’agire infondato”47. Quello

che ancora una volta emerge da questi passi è la

tensione tutta interna alle opere del Wittgenstein

47 Ivi, §§ 109-110, p. 21.

51

maturo, nelle quali cerca di sganciare la visione del

linguaggio dalla sublimazione in modelli teorici per

ancorarlo stabilmente alla dimensione della prassi.

L’esito di questa tensione è incarnato da quella

citazione goethiana ripresa più volte nella fase matura

della sua riflessione: “Im Anfang war die Tat”48 (“In

principio era l’Azione”). Così se, ad esempio, non

assumessimo l’esistenza delle cose materiali o del mondo

esterno come presupposizione infondata non sarebbe possibile

alcun tipo di azione, saremmo cioè impediti dal dubbio,

incerti. Lo stesso gioco linguistico del dubbio, così

come lo conosciamo, ha questa fisionomia solo perché

alcune proposizioni empiriche sono collocate al di là di

esso, fanno cioè da terreno su cui esso poi agisce. Che

ne sarebbe del dubbio se non esistesse questo sfondo

infondato, senza queste proposizioni “saldamente

stabilite”? Semplice, dice Wittgenstein, non sarebbe più

un dubbio: “Chi volesse dubitare di tutto, non

arriverebbe neanche a dubitare. Lo stesso giuoco del

dubitare presuppone già la certezza”49.

Se anche il gioco del dubbio è una possibilità scaturita

dall’infondatezza delle certezze del senso comune allora

il riconoscimento della loro dignità, sebbene non

razionalmente giustificata, diventa un punto

imprescindibile per la libertà della riflessione. Così

Winston Smith scrive nel suo diario: “Libertà è la

48 W. GOETHE, Faust, tr. it. Einaudi, Torino 1965, p. 38.49 L. WITTGENSTEIN, Della Certezza, op. cit., § 115, p. 22.

52

libertà di dire che due più due fa quattro. Garantito

ciò, tutto il resto ne consegue naturalmente”50. Dunque

tanto Orwell quanto Wittgenstein conferiscono al senso

comune una dignità di medesimo valore. Nella distopia

orwelliana ne va della resistenza dell’integrità mentale

del protagonista, di ciò che di più umano vi è nella

riflessione: “Bisognava difendere tutto ciò che era

ovvio, sciocco e vero. I truismi sono veri, era una cosa

da tenere per fermo! Il mondo reale esiste e le sue

leggi sono immutabili. Le pietre sono dure, l’acqua è

bagnata e gli oggetti lasciati senza sostegno cadono

verso il centro della Terra”51. Ma il filosofo austriaco

conviene su questa difesa espellendo la visione del

mondo del senso comune dall’area della problematicità,

così da dissolvere quel crampo filosofico per cui alcuni

filosofi affermano la non esistenza delle cose

materiali. Per questo motivo egli non si sottopone alla

tortura di una confutazione di segno opposto, cioè

realista, del solipsismo. Piuttosto si limita alla

chiarificazione dei termini in cui la questione della

verità o falsità delle proposizioni del senso comune

viene posta, e ne fa emergere, l’opacità, la profonda

dissonanza con l’esperienza quotidiana. E su questo si

fonda un’importante differenza che risulta dal confronto

con Orwell. Wittgenstein conferisce, infatti, uguale

dignità tanto al senso comune e alla sua certezza quanto

50 G. ORWELL, 1984, op. cit., p. 86.51 Ibid.

53

all’errore; la possibilità di sbagliarsi è data dal

fatto che giudichiamo in conformità con la forma di

vita, con il resto dell’umanità: “Per sbagliarsi, l’uomo

deve già giudicare in conformità con l’umanità”52.

Potremmo definire questo il tema della prova. Il

problema cioè della verità o meno di una prova che

garantisca ad un individuo il senso della “concordanza

con la realtà” non dipende dall’adaequatio rei et intellectus,

ma dalla condivisione del modo di giudicarla con la

forma di vita. In tal senso «prove sicure sono quelle che

accettiamo come incondizionatamente sicure, e grazie alle quali agiamo

con sicurezza e senza dubbi»53. Così, in “1984”, anche Winston è

impegnato nella disperata ricerca di una prova su cui

fondare non solo la propria resistenza ad un potere

soverchiante, ma soprattutto la propria “integrità

mentale”. Dal buon esito di questa ricerca ne va della

sopravvivenza di una dissidenza principalmente

psicologica ai principi ideologici, legata a doppio filo

con la sanità mentale del protagonista. Questa

integrità, ripete Winston, «non ha alcun rapporto con la

statistica»54, vorrebbe cioè essere libera da quel bisogno

di condivisione che il tema della prova ha invece nella

trattazione di Wittgenstein. Proprio per questo motivo,

Winston cerca continuamente di ancorare la propria

52 L. WITTGENSTEIN, Della Certezza, op. cit , § 156, p. 28. Sull’argomento si vedano anche i §§ 71-73, pp. 14-15 e il § 663, p. 108.53 Ivi, § 196, p. 33.54 G. ORWELL, 1984, op. cit., p. 223.

54

memoria, la propria esistenza, anche nei suoi aspetti

materiali, ad una prova che ne dimostri, in barba a ciò

che il Partito dice, la fondatezza: “Winston aveva

sollevato il cucchiaio e rimestava nel sugo scolorito

che colava sul tavolo, tracciandovi dei disegni e nello

steso tempo riflettendo, pieno di rancore, sui meri

aspetti fisici dell’esistenza. Era stato sempre così? Il

sapore del cibo era stato sempre questo?”55.

Mosso dallo stesso intento Winston affida la propria

integrità mentale alla memoria di alcuni fatti storici,

che la strategia di “controllo della realtà” del Partito

tende continuamente a divorare. È il caso, ad esempio,

della foto con i tre esponenti del Partito Interno,

accusati, in una purga che allude direttamente alle

vicende dello stalinismo, di essere ingiustamente dei

traditori; e che egli stesso ha dovuto distruggere:

“Tutto svaniva nella nebbia. Il passato veniva

cancellato, la cancellazione dimenticata, e la menzogna

diventava verità . Una volta sola in vita sua aveva

posseduto (dopo che l’evento si era verificato, ed era

questo che contava) la prova materiale e

incontrovertibile di un atto di falsificazione. L’aveva

tenuta stretta fra le dita per ben trenta secondi”56.

Quella prova che Winston, tiene in mano per pochi

secondi, perde il suo valore di prova perché egli non

era stato in grado di farne un elemento condiviso su cui

55 Ivi, p. 63.56 Ivi, pp. 79-80.

55

fondare le proprie accuse alla mistificazione della

realtà messa in atto dal Partito.

I.4.1.3. Vorrei ora soffermarmi su due temi presenti in

“Della Certezza” che in un certo senso richiamano la

rappresentazione della lotta che in “1984” il Partito

intraprende contro la visione del mondo propria del

senso comune. In primo luogo deve essere considerata la

prospettiva da cui Wittgenstein tratta il tema del modo

in cui noi ereditiamo l’edificio delle proposizioni

ritirate dal gioco del dubbio. Il linguaggio, l’insieme

di azioni con le quali gli individui prendono parte ai

giochi linguistici che ne caratterizzano

l’articolazione, è sicuramente il canale attraverso cui

una comunità sociale eredita questo sfondo. Sicuramente

ciò concerne il lato, potremmo dire “comunitario” della

questione, perché la sua realizzazione implica

l’appartenenza del parlante alla forma di vita di cui lo

sfondo è espressione. Abbiamo visto sopra coma non

esista verità fuori dalla condivisione. In un certo

senso il parlante si conforma al bagaglio di esperienze

condiviso dalla comunità linguistica: “No, l’esperienza

non è la ragione del nostro giuoco del giudicare. E

neanche la sua conseguenza più cospicua. Gli uomini

giudicavano che un re potesse far piovere; noi diciamo

che questo contraddirrebbe ogni esperienza. Oggi si

giudica che l’aeroplano, la radio, ecc., siano mezzi per

56

avvicinare tra loro i popoli e per diffondere la

cultura”57. Ma imparare a giudicare in conformità ad una

comunità significa anche imparare una prassi, la prassi

del giudizio empirico. Attraverso questo esercizio

costante impariamo a credere ad un sistema di giudizi;

potremmo definire questo il lato “prassiologico” della

questione:

La prassi del giudizio empirico non l’impariamo imparando

regole; ci vengono insegnati giudizi, e la loro connessione con

altri giudizi. Ci viene resa plausibile una totalità di giudizi.

Quando cominciamo a credere a qualcosa, crediamo, non già a

una proposizione singola, ma a un intiero sistema di

proposizioni. (Sulla totalità la luce si leva poco a poco).58

.

Ma per padroneggiare completamente le regole di una

prassi è fondamentale che il parlante accetti, senza

spiegazioni che ne illuminino le fondamenta razionali,

una totalità di giudizi posta al di là di ogni

ragionevole dubbio. È questo il modo in cui il bambino

eredita lo sfondo della comunità sociale all’interno

della quale nasce: “Il bambino impara a credere un sacco

di cose. Cioè impara, per esempio, ad agire secondo

questa credenza. Poco alla volta, con quello che crede

si costruisce un sistema e in questo sistema alcune cose

sono ferme e incrollabili, altre sono più o meno mobili.

57 L. WITTGENSTEIN, Della Certezza, §§ 131-132, p. 24.58 Ivi, §§ 140-141, p. 26.

57

Quello che è stabile, non è stabile perché sia in sé

chiaro o di per sé evidente, ma perché è mantenuto tale

da ciò che gli sta intorno”59. E la costruzione del

sistema, attraverso cui il bambino partecipa alla

comunità linguistica, è a sua volta il risultato di un

costante addestramento e della fiducia nel proprio

insegnante. Il bambino costruisce questo edificio

mettendo alle sue fondamenta quei giudizi empirici che

“ciò che gli sta intorno” considera fondamentali. O per

utilizzare la stessa pregnante immagine wittgensteiniana

il bambino “inghiotte” le premesse infondate della

propria comunità sociale prescindendo da qualsiasi

intenzione educativa del proprio ambiente60. La stessa

immagine è riecheggiata in “1984” a proposito del modo

in cui gli ortodossi, i buonpensanti, conformano la

propria vita sulla visione del mondo del Partito. Non è

necessario che il potere imponga, a queste persone, i

principi del Socing perché «ingoiavano tutto, senza batter ciglio,

e ciò che ingoiavano non le faceva soffrire perché non lasciava traccia

alcuna, allo stesso modo in cui un chicco di grano passa indigerito

attraverso il corpo di un uccello»61.

Terrei questo come un punto fermo del confronto:

appartenere ad una cultura, ad una forma di vita, vuol

dire ingerire e assimilare le sue premesse infondate.

Allo stesso tempo però la pratica del dubbio, quindi

59 Ibid., § 144.60 Ibid., § 143.61 G. ORWELL, 1984, op. cit., p. 163.

58

della scoperta dell’infondatezza razionale di tali

premesse implica uno sradicamento del soggetto della

riflessione. Del resto questa sofferenza è l’amara

contropartita dell’attività filosofica. Il filosofo ha

bisogno di una buona dose di coraggio se aspira ad

ottenere risultati significativi, non deve aver paura

del dolore: “Le doglie nel partorire nuovi concetti”62

constata il filosofo austriaco nel 1947. Non

narcisistico titanismo, ma assunzione della

responsabilità della riflessione. La stessa dolorosa

solitudine è vissuta da Winston Smith nella battaglia

per la difesa della propria integrità mentale, per non

uniformarsi alla follia di massa, alla sragione

oppressiva del Socing: “Winston si sentì come se stesse

vagando nelle foreste del fondo marino, perduto in un

mondo mostruoso in cui era lui il mostro. Era solo. Il

passato era morto, il futuro imprevedibile”63.

I.4.1.4. Il rapporto tra individuo e comunità, tra il

modo in cui il bambino impara a parlare, riflettere,

argomentare e lo sfondo infondato della nostra cultura,

ci introduce al secondo tema presente in “Della Certezza”

che in un senso decisamente più diretto rispecchia quel

conflitto tra ideologia e senso comune, vero

protagonista di “1984”. Lo definirei il tema della

trasformazione. Lo sfondo che costituisce la mia

62 L. WITTGENSTEIN, Pensieri diversi, op. cit., p. 120.63 G. ORWELL, 1984, op. cit., p. 29.

59

“immagine del mondo” (Weltbild), la parte solida

dell’edificio ereditato dalla cultura cui appartengo è,

abbiamo detto, quell’insieme di presupposti infondati

che mi permettono di distinguere il vero dal falso.

Possiamo dunque immaginare quale grado di conflittualità

inneschi una trasformazione di questo sfondo tra chi ha

“inghiottito” il vecchio sistema che fa da metro del

giudizio e chi invece ne ha assimilato uno nuovo, uno

attraverso il quale è stato addestrato e ha formato la

propria “immagine del mondo”. Questo tipo di conflitto è

immaginato tanto da Wittgenstein quanto da Orwell. Ma se

nel primo viene neutralizzato nella sua trattazione

teorica, nel secondo presenta tutta la concretezza

della prosa con cui si rappresenta una distopia:

Dove s’incontrano effettivamente due principî che non si

possono riconciliare l’uno con l’altro, là ciascuno dichiara

che l’altro è folle ed eretico.

Ho detto che «combatterei» l’altro – ma allora non gli darei

forse ragioni? Certamente, ma fin dove arrivano? Al termine

delle ragioni sta la persuasione. (Pensa a quello che accade

quando i missionari convertono gl’indigeni).64

La lotta, il combattimento tra due immagini del mondo

differenti, non avviene per dimostrazione. Le ragioni

di una visione del mondo, nel conflitto tra sistemi di

giudizio alternativi, possono essere impegnate solo fino

64 L. WITTGENSTEIN, Della Certezza, op. cit., §§ 611-612, p. 99.

60

a quando non si giunga a mettere in gioco lo sfondo

infondato di tale visione del mondo. La radicalità dello

scontro è espressa proprio nel fatto che al termine

delle ragioni, per convincere l’avversario, non rimane

che la persuasione. Del resto chi “inghiotte” una serie di

certezze che riguardano il mondo, la storia, le leggi

della fisica, non lo fa perché convinto dalle ragioni

con cui si argomentano queste posizioni, ma perché viene

convinto da qualcosa che funziona, che ha un riscontro

nell’esperienza quotidiana e nel rapporto con gli altri.

Se Wittgenstein immagina la persuasione come un

appoggiare «il nostro modo di procedere con ogni sorta di parole

d’ordine (slogan)»65, anche Orwell inscena il conflitto che i

principi ideologici del Socing combattono contro la

visione del mondo del senso comune, non attraverso il

“proceder tranquillo” della filosofia, ma nell’impatto

tra le coscienze e slogan martellanti, ripetuti da

teleschermi e megafoni. «La guerra è pace, la libertà è schiavitù,

l’ignoranza è forza» oppure ancora «chi controlla il passato controlla il

futuro: chi controlla il presente controlla il passato»66 sono un esempio

di come Orwell rappresenti la lotta tra Partito e senso

comune con lo scontro tra slogan. Tuttavia, rimane il

fatto che la persuasione abbia nel romanzo un sapore

decisamente più violento, non limitato alla penetrazione

psicologica degli slogan del Partito. La strategia

persuasiva attuata ha infatti il carattere di una

65 Ibid., § 610.66 G. ORWELL, 1984, op. cit., pp. 8 e 255.

61

trasformazione coatta e violenta sintetizzata dal

percorso di rieducazione che Winston compie nell’ultima

parte del romanzo: “Al Partito i fatti manifesti non

interessano. L’unica cosa che ci sta a cuore è il

pensiero. Noi non ci limitiamo a distruggere i nostri

nemici, noi li cambiamo”67.

Il cambiamento, la trasformazione violenta, sono

esercitati principalmente sul modo di pensare, di

articolare l’argomentazione o finanche sostenere gli

slogan di un’immagine del mondo opposta a quella del

Partito. Si tratta di aggredire lo zoccolo duro, la

parte solida delle certezze di una forma di vita. È

quello che Wittgenstein ipotizza, in un contesto neutro,

quando dice: “Ma non sarebbe possibile che accadesse

qualcosa che mi buttasse completamente fuori dai binari?

Prove [Evidenz] che mi rendessero impossibile, assumere

la cosa più sicura? O comunque agissero in modo da farmi

rovesciare i miei giudizi più fondamentali? (Se a

ragione o a torto, qui non importa affatto)”68 . Ora la

funzione di questi “binari” su cui viaggiano i miei

giudizi è definita nel concetto di mitologia:

Le proposizioni, che descrivono quest’immagine del mondo,

potrebbero appartenere a una specie di mitologia. E la loro

funzione è simile alla funzione delle regole del giuoco, e il

67 Ivi, p. 260.68 L. WITTGENSTEIN, Della Certezza, op. cit., § 517, p. 83.

62

giuoco si può imparare anche in modo puramente pratico, senza

bisogno d’imparare regole esplicite.69

Nel nostro linguaggio è depositata un’intera mitologia. (In

unserer Sprache ist eine ganze Mythologie niedergelegt.)70

Nella nostra forma di vita si dà quindi un sistema di

proposizioni, un gruppo di giochi linguistici collegati

da importanti somiglianze di famiglia, che occupano al

suo interno una posizione centralissima. Ne consegue che

una trasformazione di questo nucleo che, ricordiamolo,

si manifesta nei nostri giochi linguistici come

l’“elemento vitale dell’argomentazione”, comporta una

mutazione della stessa forma di vita. Come l’alterazione

del dna per un organismo biologico complesso si esprime

nella mutazione delle note caratteristiche di

quell’organismo, così se la mitologia depositata nel

linguaggio venisse alterata il risultato sarebbe un

cambiamento della forma di vita, una mutazione

antropologica. Wittgenstein sostiene, senza

sovrapposizioni di modelli generali come la teoria

dell’evoluzione, che il rapporto tra mitologia e giochi

linguistici “in circolazione”, su cui cioè la pratica

del dubbio rappresenti, potremmo dire, un rischio

calcolato, è un rapporto non dato una volta per tutte.

La trasformazione della mitologia è un elemento di

69 Ivi, § 95, p. 19.70 L. WITTGENSTEIN, Filosofia, op. cit., p. 83.

63

dinamismo interno alla stessa forma di vita. I nostri

giochi linguistici sono infatti una serie di giochi le

cui regole nascono, mutano, si complicano, giocando:

Ci si potrebbe immaginare che certe proposizioni hanno forma

di proposizioni empiriche vengano irrigidite e funzionino

come una rotaia per le proposizioni empiriche non rigide,

fluide; e che questo rapporto cambi col tempo, in quanto le

proposizioni fluide si solidificano e le proposizioni rigide

diventano fluide.

La mitologia può di nuovo tramutarsi in corrente, l’alveo del

fiume dei pensieri può spostarsi. Ma io faccio una

distinzione tra il movimento dell’acqua nell’alveo del fiume,

e lo spostamento di quest’ultimo; anche se, tra le due cose,

una distinzione netta non c’è.71

L’importanza del tema della trasformazione si manifesta

anche nel ruolo che la filosofia come istanza

terapeutica deve svolgere nei confronti delle malattie

del linguaggio. Perché se l’attività filosofica è

dissipazione della nebbia che avvolge un certo uso del

linguaggio, e quindi trasformazione dello sguardo su ciò

che consideriamo ovvietà, superficie; allora il filosofo

opera una bonifica della mitologia, una chiarificazione

di ciò che di infondato giace negli anfratti del

linguaggio. E non lo fa imponendo a questo sfondo nuovi

usi linguistici, usi totalmente analizzati, puri,

71 L. WITTGENSTEIN, Della Certezza, op. cit., §§ 96-97, p. 19.

64

scientifici. Ma lo fa ricollocandosi nell’alveo del

quotidiano, provocando una trasformazione nell’immanente

che non sia imposizione. Il lavoro filosofico è una

trasformazione non violenta di sé, un modo responsabile,

vitale e antitragico di guardare alla concretezza del

quotidiano: “In questo mondo (il mio) non vi è tragicità

e quindi neppure tutte le infinite cose che producono la

tragicità (come frutto). Tutto è, per così dire,

solubile nell’etere del mondo; non vi sono durezze. Vale

a dire, la durezza e il conflitto non danno luogo a

qualcosa di splendido, bensì a un errore”72. La posizione

wittgensteiniana non ha quindi nulla a che fare con

forme di rassegnazione più o meno soddisfatte rispetto

alla storia. Nasce piuttosto da un’esigenza di

trasformazione che non prescinda dalla comunità e dalla

storia, ma che ne faccia punto focale della propria

azione, attraverso una serrata critica, accompagnata da

una ricollocazione responsabile, all’interno di quel

complesso fenomeno in cui riconosciamo la forma di vita:

il linguaggio. La posizione etica di Wittgenstein non è

la progettazione di una trasformazione radicale

dell’esistente da realizzarsi attraverso l’imposizione

di un modello universale. Come osserva S.Borutti:

“Wittgenstein non sembra ammettere in questo modo una

funzione critica razionale separata e riflessa, una

progettualità politica autonoma, un’u-topia elaborata

72 L. WITTGENSTEIN, Pensieri diversi, op. cit., p. 32.

65

indipendentemente dal luogo in cui siamo consegnati. Il

suo modello sembra voler rimanere decisamente

impolitico, o pre-politico: se allude agli effetti

politici della dinamica spontanea delle pratiche

intracomunitarie, esclude tuttavia un’autonoma

dimensione teorica del dibattito, progettazione e

deliberazione”73.

Al contrario, quella di “1984”, è una trasformazione

della forma di vita di una violenza inaudita, resa in

tutta la sua crudezza dalle immagini, dalle metafore che

Orwell rappresenta. La velocità e la consistenza

dell’opera di trasformazione imposta dal Partito

sull’uomo, come finora lo abbiamo rappresentato, è tale

da causare lo sgretolamento, o meglio la

“vaporizzazione”, della mitologia così come la intende

Wittgenstein:

Un bel giorno il Partito avrebbe proclamato che due più due

fa cinque, e voi avreste dovuto crederci. Era inevitabile che

prima o poi succedesse, era nella logica stessa delle

premesse su cui si basava il Partito. La visione del mondo

che lo informava negava, tacitamente, non solo la validità

dell’esperienza, ma l’esistenza stessa della realtà esterna.

Il senso comune costituiva l’eresia delle eresie. Ma la cosa

terribile non era tanto il fatto che vi avrebbero uccisi se

l’aveste pensata diversamente, ma che potevano aver ragione

loro. […] Che cosa succede, se il passato e il mondo esterno73 S. BORUTTI, Wittgenstein impolitico? in Wittgenstein politico, a cura di D. Sparti, Feltrinelli, Milano 2000, p. 149.

66

esistono solo nella vostra mente e la vostra mente è sotto

controllo?74

La stessa terribile angoscia per la scomparsa degli

oggetti fisici, per lo spaesamento nel posto in cui si

ci trova, per la perdita della propria identità, la

ritroviamo nelle immagini, neutralizzate dall’ambito

teorico, con cui Wittgenstein in “Della Certezza” svolge

l’analisi filosofica del senso comune75. Un’angoscia

questa che attraversa le ultime annotazioni

wittgensteiniane e che fa dell’alter ego teorico di

Wittgenstein in “Della Certezza” un personaggio parallelo a

Winston Smith, alter ego narrativo di Orwell, dal

momento che anch’egli, in ogni sua parola o azione,

sembra chiederci: “Di che cosa posso fidarmi?”76. E

perché non immaginare che anche Winston, immobile,

insieme a Julia, nella stanza dove di lì a poco avrebbe

fatto irruzione la psicopolizia, si fosse concesso la

libertà di questa riflessione: “Anche una proposizione

come questa: che ora vivo in Inghilterra, ha questi due

aspetti: un errore non è – ma, d’altra parte, che cosa

so, dell’Inghilterra? – Non può darsi che nel mio

giudizio mi sbagli completamente? Non sarebbe possibile

che entrassero nella mia stanza uomini, che asserissero

tutto il contrario? E cioè, me ne dessero “prove”,

74 G. ORWELL, 1984, op. cit., p. 85.75 Cfr. con L. WITTGENSTEIN, Della Certezza, op. cit., §§ 214, 421, 486,515, pp. 36, 66, 79, 83.76Ivi, § 508, p. 82.

67

cosicché improvvisamente me ne starei lì, da solo, come

un matto tra persone tutte normali, o come una persona

normale tra matti?”77.

I.4.1.5. Nel mondo di Winston Smith, quindi, è in

corso, o nella peggiore delle ipotesi è già avvenuta,

una notevole mutazione antropologica. Una mutazione che

investe non solo le esperienze individuali ma

soprattutto il modo di pensare e di agire collettivo. Un

mutamento radicale della forma di vita che investe ciò

che il senso comune, l’uomo della strada, colloca al di

là di ogni ragionevole dubbio. Che io esista, che i

corpi esterni esistano, che la terra esista da più di

cento anni; tutto questo non fa più da sfondo alle

azioni degli uomini e delle donne di Oceania salvo che

il Partito non lo giudichi conveniente per la sua

esistenza. Ma questo non può avvenire, perché il Socing

ha fatto della guerra alla certezza, al senso comune,

all’accordo comunitario, all’oggettività lo strumento

indispensabile per la conservazione eterna del potere.

Potremmo dire, con Wittgenstein, che una specie di mitologia,

l’ideologia del Socing, costituisca adesso lo sfondo che

dà senso alle azioni delle persone. Si tratta tuttavia

di uno sfondo liquido, sottoposto alla pressione

costante del “controllo della realtà” da parte del

Partito e per questo incapace di solidificarsi e

77 Ivi, § 420, p. 66.

68

diventare quel nucleo infondato sul quale (e attraverso

il quale) può fiorire un nuovo spettro di espressioni,

una nuova forma di vita:

Che cosa direi se, nei miei giudizi priv[ati], entrassi in

contraddizione con tutti gli altri? Vale a dire, se non

potessi più giocare un gioco lin[guistico] con loro. O se

tutti i fatti intorno a me diventassero straordinari? Mi

atterrei ancora ai miei giudizi?78

Questa strategia di “controllo della realtà” attuata dal

Partito in Oceania ha nel linguaggio ispirato ai

principi ideologici del Socing, la neolingua, un nome

particolare: bipensiero.

Esso è una tecnica particolare padroneggiando la quale è

possibile esprimersi e credere realmente, senza alcuno

sforzo, nelle menzogne che la classe dirigente di

Oceania propina quotidianamente alla popolazione. Il

bipensiero è infatti «[…] la capacità di accogliere simultaneamente

nella propria mente due opinioni tra loro contrastanti accettandole

entrambe»79. Viene assimilato dal parlante attraverso i

due meccanismi che lo costituiscono: lo stopreato e il

nerobianco. Il primo è, potremmo dire un meccanismo di

inibizione del parlante, un esercizio di allontanamento

dal giudizio e dall’errore espressi in conformità alla

forma di vita. È in un certo senso una volontaria cecità78 L. WITTGENSTEIN, Esperienza privata e dati di senso, a cura di L. Perissinotto, Einaudi, Torino 2007, p. 60.79 G. ORWELL, 1984, op. cit., p. 220.

69

di fronte a quelle analogie, a quelle somiglianze di

famiglia che permetterebbero di farci un quadro chiaro

del modo in cui ci esprimiamo. Lo stopreato è «[…] la

capacità di non cogliere le analogie, di non percepire gli errori di logica, di

fraintendere le argomentazioni più elementari quando sono contrarie al

Socing, oltre a quella di provare noia o ripulsa di fronte a un qualsiasi

pensiero articolato che potrebbe portare a posizioni eretiche. In parole

povere, lo stopreato è una forma di stupidità protettiva»80. Il secondo

meccanismo di funzionamento del bipensiero è forse il

maggior elemento di destabilizzazione, di liquefazione

della mitologia sedimentata nel linguaggio. Il suo nome

in neolingua è nerobianco ed indica la sincera volontà ma

anche «la capacità di credere veramente che il nero sia bianco e, più

ancora, di sapere che il nero è bianco, dimenticando di aver mai pensato il

contrario»81. Naturalmente su questa ultima definizione

Wittgenstein avrebbe precisato che il modo in cui “Io

so” che il nero è il bianco «si mostrerà dal modo in cui agisco e

parlo delle cose»82, infatti «non è che in certi punti l’uomo conosca la

verità con sicurezza completa. Ma anzi la sicurezza completa si riferisce

soltanto al suo atteggiamento»83. Ciò non toglie che il bipensiero

si riveli un utile alleato nella battaglia per la

demolizione del senso comune, la cui seconda faccia è il

completo controllo del passato. Esso penetra nel

radicamento del soggetto pensante alla forma di vita,

nella sua capacità di distinguere vero e falso a partire80 Ivi, p. 218.81 Ibid.82 L. WITTGENSTEIN, Della Certezza, op. cit., § 395, p. 62.83 Ivi, § 404, p. 63.

70

dallo sfondo infondato di una comunità sociale, che

peraltro è stato inghiottito attraverso una dialettica

di addestramento e inconscia appartenenza, e lo sradica.

Lo estranea dal modo in cui gli altri giudicano, lo isola

cancellando quella dignità di certezza ed errore che

Wittgenstein riscontrava nell’analisi del senso comune,

per farne un folle.

Tutto ciò mette in luce l’effetto cercato dal Partito

attraverso questo complicato insieme strategico di

demolizione della visione del mondo del senso comune:

l’atomizzazione della forma di vita in una galassia di

soggetti privati, incapaci di condividere uno sfondo

comune, incapaci di manifestare nei giochi linguistici

l’appartenenza alla medesima vitale realtà. Penso che

questa possibile deriva catastrofica di alcuni esiti

della tradizione metafisica occidentale, in particolare

da Cartesio in poi, fosse, sebbene non in termini

distopici, presente all’attenzione di Wittgenstein. Temi

come l’argomentazione contro il linguaggio privato delle

sensazioni o la critica delle dicotomie interno/esterno,

profondità/superficie, diretto/indiretto tipiche

dell’argomentazione filosofica su problemi che

concernono i concetti della psicologia, potrebbero

essere letti in relazione a quella vena apocalittica che

caratterizzò il modo di vivere il proprio tempo del

filosofo austriaco. Mi propongo adesso di approfondire,

71

con la consapevolezza di non poterlo esaurire, proprio

questo aspetto.

I.4.2. Un mondo di “superprivati”: l’età della

solitudine

“Una pusillanime

trepidazione dell’ira nostra

s’impadronirà di loro, le loro

intelligenze

s’intimidiranno, i loro occhi

diverranno facili alle lacrime,

come quelli dei bambini e

delle donne: ma con

altrettanta facilità, a un

nostro cenno passeranno

all’allegria e al riso, alla più

limpida gioia, e alle beate

canzoncine infantili.”

F. Dostoevskij, I fratelli

Karamazov (ParteII,

Libro V, cap. V, Il

Grande Inquisitore, tr.

it. Einaudi, Torino

2005, p. 345.)

72

Il sistema politico che il Socing incarna non fonda

dunque il suo potere su un banale controllo dei

comportamenti individuali. Ai membri del Partito non si

richiede infatti una semplice adesione formale ai

principi ideologici che lasci spazio ad un carsico

nicodemismo. La grande novità che questo modo di gestire

il potere apporta ai vecchi totalitarismi e alle

dittature è appunto una trasformazione violenta della

forma di vita. Una trasformazione che si realizza

attraverso la soluzione di un problema proprio della

tradizione filosofica occidentale in un senso che

Wittgenstein avrebbe definito solipsista. Il problema in

questione è infatti quello dell’esistenza reale di

altre menti oltre alla nostra.

I.4.2.1 Nell’ultima parte del romanzo la scena è

dominata dai dialoghi tra Winston e un membro del

Partito interno O’Brien. Catturato e imprigionato come

dissidente, Winston è sottoposto ad un doloroso percorso

di rieducazione che riproduce, su scala individuale,

quella trasformazione antropologica violenta di cui ho

già parlato. Questi dialoghi riproducono lo stesso

schema presente in “Della Certezza”. Da un lato O’Brien

che con una cattiveria paragonabile all’ “ingannatore

maligno” di cartesiana memoria continua a mettere in

dubbio ciò che dall’altro lato, Winston, dice invece di

73

sapere con certezza. Allo stesso modo, in “Della Certezza”,

da un lato abbiamo una voce che pone dubbi, chiede,

immagina situazioni disorientanti. Dall’altro lato,

invece troviamo una voce timida che coniuga le proprie

argomentazioni al condizionale. Sebbene la prima voce

abbia il compito spesso fastidioso di svelare le

infondatezze del senso comune, non è possibile

identificarla completamente con Wittgenstein; ugualmente

la seconda voce, sostenitrice invece della certezza del

senso comune, non è una maschera di Moore84. Sulla scorta

delle considerazioni di S. Cavell85 potremmo dire che

questa struttura dialogica percorra per intero la

filosofia di Wittgenstein dagli anni Trenta in poi, e

che rifletta non un semplice strumento stilistico, bensì

il modo stesso di procedere della filosofia per il

pensatore austriaco. Le annotazioni di “Della Certezza”

presentano tutte una tensione interna tra ciò che

potremmo definire la “voce della tentazione” e ciò che

di contro potrebbe invece essere chiamata la “voce del

perfezionamento”. La prima, esposta da Wittgenstein

sempre tra virgolette, esprime una certa tendenza

all’idealizzazione, alla sublimazione,

all’ipostatizzazione in immagini di espressioni

quotidiane. È ciò che, insomma, Wittgenstein

84 Per il “tema delle due voci” in Della Certezza si veda M.L. BARBERA, L’idea di trasformazione tra violenza e nonviolenza, in “Annali della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena”, Vol. XVI, 1995, pp. 135-154. 85 Cfr. S. CAVELL, Il tramonto al tramonto. Wittgenstein filosofo della cultura, in Wittgenstein politico, op. cit., pp. 70 e sgg.

74

identificava con un modo degenerato, metafisico, di fare

filosofia. Il tono, molto spesso sicuro di questa voce,

viene invece insidiato dai dubbi, dalle angosce, dalle

domande di una seconda voce che tende invece a

smascherare questo tipo di illusioni filosofiche. È

questa quella voce che richiamò Wittgenstein, nel corso

della sua vita, ad un continuo esercizio di

perfezionamento e miglioramento del proprio modo di

guardare al mondo.

Ora, lo stesso gioco delle parti, sebbene i dubbi, le

domande e le angosce di O’Brien abbiano qui il ruolo di

torturare, di perfezionare in un senso diabolico, le

certezze non provate di Winston, lo ritroviamo in alcuni

passi dell’ultima parte di “1984”. A tal proposito vale

la pena spendere alcune parole sulla parte, sulla

maschera che O’Brien recita. Egli non è il mero

controaltare dialettico alle posizioni di Winston.

Rappresenta, forse in maniera più nitida e con più

forza, un pericolo e una possibilità dalla quale Orwell

vuole metterci in guardia e che interessa il ruolo

dell’intellettuale, del filosofo di professione. Come

osserva R. Rorty: “O’Brien ci ricorda che gli esseri

umani che sono stati socializzati – in qualunque

linguaggio, in una qualunque cultura – hanno in comune

una cosa che gli animali non hanno. Possono subire tutti

un particolare dolore: possono venir umiliati

dall’abbattimento violento delle strutture di linguaggio

75

e credenza in cui sono stati socializzati (o che si

vantano di essersi costruiti da soli)”86.

In uno di questi passi la strategia scelta da O’Brien,

per rimuovere, dalle argomentazioni di Winston, la

certezza dei fatti avvenuti nel passato, si muove

proprio sul binario della demolizione delle certezze del

senso comune:

Tu pensi che la realtà sia qualcosa di oggettivo, di esterno

qualcosa che abbia un’esistenza autonoma. Credi anche che la

natura della realtà sia di per se stessa evidente. Quando

inganni te stesso e pensi di vedere qualcosa, tu presumi che

tutti gli altri vedano quello che vedi tu. Ma io ti dico,

Winston, che la realtà non è qualcosa di esterno, la realtà

esiste solo nella mente, in nessun altro luogo. Non nella

mente individuale, che è soggetta a errare ed è comunque

peritura, ma bensì in quella del Partito, che è collettiva e

immortale.87

La forza del potere del Partito si rivela nell’uso

mirato dei dubbi avanzati dal solipsista per screditare

qualsiasi forma di certezza del senso comune. E questo

trova le sue conseguenze visibili nell’incapacità per i

cittadini di Oceania a vincere quella barriera di

incomunicabilità, quel muro invalicabile rappresentato

dal linguaggio, o più in generale dalle forme espressive

e dai temi simbolici, imposti con la minaccia costante86 R. RORTY, La filosofia dopo la filosofia, op. cit., pp. 202-203.87 G. ORWELL, 1984, op. cit., p. 256.

76

dell’incedere nello psicoreato. Del resto questa

dimensione di confine che il linguaggio assume nelle

relazioni con gli altri è ciò che il giovane

Wittgenstein aveva rilevato quando nel 1931 annota: “Noi

lottiamo contro il linguaggio. Siamo in lotta contro il

linguaggio”88. Dal momento che la dignità del senso

comune deriva proprio dalla condivisione dei criteri che

gli individui appartenenti da un gruppo assimilano per

giudicare in conformità a quel gruppo, la sua

cancellazione rappresenta anche la cancellazione di quel

bisogno di condivisione. La scomparsa di questo sfondo

comune, la riduzione a manifestazione mentale di tutta

la realtà esterna compresi gli altri, la soluzione in

senso solipsistico del problema dell’altro sono tutti i

segni vincenti della strategia di perpetuazione del

potere scelta dal Partito; una sorta di “solipsismo di

massa” contro l’assimilazione nel quale lotta

l’integrità mentale di Winston:

Eppure sapeva, sapeva di aver ragione. Ci doveva essere

certamente un modo per dimostrare che l’opinione secondo cui

esternamente alla nostra mente non esiste nulla era falsa. Un

tempo non ne era stata dimostrata la fallacia? Esisteva anche

una definizione, ma l’aveva dimenticata […] «Te l’avevo

detto, Winston» disse, «che la metafisica non è il tuo forte.

La parola che cerchi è solipsismo. Ti sbagli, però, questo

non è solipsismo. È solipsismo collettivo, se vuoi. In realtà

88 L. WITTGENSTEIN, Pensieri diversi, op. cit., p. 35.

77

è tutta un’altra cosa, è esattamente l’opposto. Ma stiamo

divagando» 89.

Se volessimo forzare ulteriormente il parallelo tra il

modo in cui O’Brien affronta il problema metafisico

dell’esistenza del mondo e il modo in cui invece viene

affrontato da Wittgenstein nel corso di tutta la sua

riflessione, potremmo dire che il primo svolge nel

dialogo sopra citato l’argomentazione del secondo su

solipsismo e realismo presente nel “Tractatus” in un senso

molto più forte e con conseguenze ben più drammatiche.

Nella proposizione 5.64, partendo dalla distinzione tra

quello che R. Haller chiama un “Io filosofico”90, e il

mondo come totalità dei fatti, di ciò che sfugge a

qualsiasi ordine a priori, il filosofo austriaco

conclude: “Appare qui che il solipsismo, svolto

rigorosamente, coincide con il realismo puro. L’Io del

solipsismo si contrae in un punto inesteso e resta la

realtà ad esso coordinata” 91. Secondo Wittgenstein, che

nel “Tractatus” cerca ancora di definire un modello che

permetta una netta demarcazione dal suo interno tra

l’espressione sensata e quella insensata, il solipsismo

possiede un merito non trascurabile. Quello cioè di

permettere all’Io, inteso non in termini psicologici, di

entrare a far parte del mondo sensato. Svolgendo

89 G. ORWELL, 1984, op. cit., p. 273.90 Sulla trattazione del tema dell’Io si veda R. HALLER, L’egologia di Wittgenstein, in Wittgenstein e il Novecento, op. cit., p. 144.91 L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, op. cit., 5.64, p. 90.

78

rigorosamente le premesse del solipsismo, per cui Io sono

il mio mondo, si comprende infatti l’importanza che l’Io

metafisico, il soggetto trascendentale, abbia nel

rapporto tra linguaggio e mondo. Il solipsismo sbaglia

infatti, dice Wittgenstein, quando tenta di dire la

distinzione tra sensato e insensato, finendo così per

confonderla. L’Io è invece un punto inesteso, un limite

che mostra ma non può dire la demarcazione tra espressione

sensata e insensata. Esso diventa così, nell’ontologia

del “Tractatus”, il posto di confine dal quale si guarda

il mondo, il regno dei fatti, e dalla posizione del

quale dipende l’atteggiamento etico del soggetto. La

posizione di questo Io filosofico rispetto al regno dei

fatti determina infatti il suo atteggiamento, il suo

modo di guardare al mondo. Il rapporto di coincidenza

tra Io e mondo nel solipsismo, viene configurato da

Wittgenstein come un rapporto che concerne l’esclusione

del non dicibile dall’espressione sensata ma allo stesso

tempo la sua importanza per essa: i contenuti

dell’etica, dell’estetica e della religione acquisiscono

la loro importanza da ciò che non può esser detto . Il

solipsismo viene quindi neutralizzato nelle sue

conseguenze epistemologiche.

Anche O’Brien svolge in senso rigoroso il solipsismo

contestatogli da Winston, anche lui mostra come la

negazione del mondo nell’affermazione dell’Io, coincida

in realtà con il suo opposto, con il realismo. Ma l’Io

79

di cui parla O’Brien non è un soggetto trascendentale,

posto in limine mundi, il cui raggio di azione mostra

l’immanenza dell’insensato al sistema delle espressioni

sensate. No, l’Io del solipsismo di cui parla O’Brien è

una monade globale, un sistema chiuso che fagocita il

regno dei fatti e fa della propria esistenza un campo di

forze in cui scompare, viene cancellato, lo sfondo

infondato da cui prendono le mosse le nostre azioni.

Solipsismo collettivo, in cui gli altri cessano di

essere un problema perché sono allo stesso tempo

irriducibili allo sfondo dei miei giudizi e parte di uno

stesso grande Io filosofico che ha inghiottito la

visione del mondo del senso comune.

I.4.2.2 Ora, il compito della filosofia, per il

Wittgenstein che supera le posizioni del “Tractatus”, è la

chiarezza della rappresentazione perspicua, proprio

perché la cancellazione della realtà auspicata da

O’Brien passa principalmente per una soluzione,

attraverso modelli, immagini e analogie, di problemi

nati dalla sublimazione di questi modelli; come quello

dell’esistenza di altre menti. Ed è questo un tema

ricorrente nella filosofia di Wittgenstein degli anni

Trenta. Cioè: la critica wittgensteiniana a quella

filosofia che si fa assimilare ai metodi e agli

obiettivi della scienza, a quella metafisica della

scienza irretita dal paradigma del progresso, si

80

struttura proprio attorno a tale tema. In alcune note

manoscritte del 1934-1936, stese per le lezioni tenute a

Cambridge su “Esperienza privata” e “dati di senso”,

partendo dall’analisi delle espressioni con le quali,

per esempio, vogliamo comunicare il dolore egli arriva

ad interrogarsi sul perché ci poniamo interrogativi che

riguardano l’esistenza di dolore, sofferenza, sentimenti

analoghi ai nostri negli altri. Wittgenstein qui si

interroga su quali modelli, analogie, immagini fanno si

che il problema dell’esistenza di altre menti che

provino sensazioni analoghe alle nostre sia realmente un

problema. Proprio come quando Cartesio osservando dalla

sua finestra degli uomini che passano per la strada si

chiede: “Ma che cosa vedo se non berretti e vestiti,

sotto i quali potrebbero nascondersi degli automi?”92.

Wittgenstein non si chiede infatti cosa possa risolvere

questo problema, ma quali siano le condizioni che lo

rendono un problema.

Prendiamo il caso della sensazione di dolore. Esprimere

una sensazione di dolore non è descrivere l’oggetto

dolore con delle espressioni verbali. L’analisi di

proposizioni attraverso cui esprimiamo, ad esempio la

sensazione del mal di denti, non ci permette in alcun

modo di individuare l’essenza del mal di denti. Questa

illusione viene piuttosto modellata dall’immagine nata

quando, dicendo che proviamo dolore, stiamo in realtà

92 R. DESCARTES, Meditazioni sulla filosofia prima, Seconda meditazione, tr. it.a cura di G. Brianese, Mursia, Milano 1994, p. 66.

81

parlando di qualcosa, il “dolore”, accessibile solo a

noi, perché situato nella nostra mente o in qualche

parte specifica del corpo umano:

Come faccio allora a dare un nome a un’esperienza (per

esempio, a un dolore) ? Non è come se volessi, per così dire,

mettergli un cappello?

Se qualcuno dicesse: “Gli posso mettere un cappello solo

indirettamente”. Gli domanderei: Credi che a qualcuno sarebbe

venuto in mente di parlare così se non avesse pensato che si

può mettere il cappello su una persona che soffre? Si, dire

che si potrebbe mettere il cappello sul dolore solo in modo

indiretto dà l’idea che vi sia nondimeno un modo diretto che

non può essere messo di fatto in discussione.

La difficoltà è che sentiamo di aver detto qualcosa sulla

natura del dolore allorché si è detto che una persona non può

avere il dolore di un altro. Forse saremmo inclini a dire di

non aver detto nulla di fisiologico o psicologico ma di

metapsicologico, di metafisico. Qualcosa sull’essenza, la

natura, del dolore in contrasto con i suoi legami causali con

altri fenomeni.93

L’idea cioè che esista qualcosa al di là dei meri

comportamenti con cui esprimiamo il dolore, qualcosa in

profondità la cui conoscenza diretta è possibile solo al

soggetto del dolore, è in realtà una sublimazione. Ma di

cosa? Dell’incertezza che aleggia sui criteri con cui

riconosciamo un comportamento umano. È questo carattere

93 L. WITTGENSTEIN, Esperienza privata e dati di senso, op. cit., p. 9.

82

imprevedibile del comportamento umano a generare quella

incertezza che ci porta a sublimare, a ipostatizzare, le

espressioni verbali relative alle sensazioni altrui

(dolore, gioia, angoscia) in immagini, analogie e

modelli che distinguono conoscenza diretta e conoscenza

indiretta, profondità e superficie, evidenza interna ed

evidenza esterna. Così, dice Wittgenstein veniamo

“giocati” da queste stesse immagini e arriviamo a

ritenere reale un’asimmetria nella conoscenza di

sensazioni come quella del dolore, un’asimmetria che

vede la prima persona dell’espressione verbale della

sensazione privilegiata nell’accesso epistemologico ad

essa. È come se si pensasse che nella comunicazione di

una sensazione di dolore o più in generale di una

qualsiasi esperienza privata non passasse qualcosa,

l’essenza della sensazione, dalla cui conoscenza è

pertanto esclusa la terza persona della comunicazione.

Con questo meccanismo, aggiunge il filosofo austriaco,

compiamo il passo successivo quello cioè che ci porta a

considerare problematica l’esistenza delle altre menti.

Scambiando il modello fondato sulla distinzione tra

evidenza diretta e indiretta della sensazione per la

realtà alimentiamo infatti una precisa immagine, quella

di una soggettività in un interno nascosto, invisibile

agli altri ma non a noi stessi. È questo il tratto

caratteristico della nozione di mentale:

83

Il tratto caratteristico del mentale sembra essere che, negli

altri, lo si deve indovinare dall’esterno e che lo si conosce

soltanto a partire da se stessi. Ma se, riflettendo

attentamente, questa visione va in fumo, quel che ne risulta

non è che l’interno è qualcosa di esterno ; «esterno» e

«interno», però, non sono più considerati qualità

dell’evidenza. «Evidenza interna» non significa nulla e perciò

non significa nulla neanche «evidenza esterna». 94

Il modello della privatezza dell’esperienza può infatti

essere declinato in due sensi. Esiste, potremmo dire una

privatezza “dei sentimenti” che si manifesta ad esempio

nella volontà di voler tenere nascosto un sentimento,

come quella che Winston mette in atto ogni qual volta

teme che la sua dissidenza all’ideologia ufficiale venga

scoperta: “Erano già qui! Restò seduto, immobile come un

topo, nella futile speranza che, chiunque fosse, potesse

andar via dopo il primo tentativo. Ma non fu così, si

udì di nuovo bussare. […] Il cuore gli batteva in petto

come un tamburo, ma probabilmente, in virtù della lunga

abitudine, la faccia era rimasta priva di qualsiasi

espressione”95.

Wittgenstein distingue, però, dalla privatezza “dei

sentimenti” un altro senso del termine presente, quasi

come corollario, nell’uso di certe espressioni riguardo

alla comunicazione dell’esperienza privata, come ad

94 L. WITTGENSTEIN, Ultimi scritti. La filosofia della psicologia, tr. it. di A.G. Gargani e Barbara Agnese, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 216.95 G. ORWELL, 1984, op. cit., p. 22.

84

esempio “Non sai quello che provo!”, “Non puoi capire

quello che sento!”. Quando facciamo affidamento su

queste immagini per comunicare un’esperienza privata

come la sensazione del dolore, allora finiamo per

sovrapporre ad essa un certo modello, per il quale nella

comunicazione si perde qualcosa dell’esperienza

originaria: “L’idea è che solo una parte dell’esperienza

originale si conservi nel processo di comunicazione

mentre qualcos’altro va perduto. […] È come se qualcuno

pensasse che si può trasmettere solo, per così dire, il

disegno colorato, e l’altro vi inserisce i suoi colori”96.

Con queste espressioni escludiamo la possibilità che

l’altro, con il quale parliamo della sensazione, possa

varcare la soglia della nostra mente. Possa cioè sapere

effettivamente quello che stiamo provando in modo

genuino. Possiamo dunque esibire parole, gesti,

comportamenti, indizi corporei, toni con cui parliamo,

ma non possiamo esibire i nostri sentimenti in quanto

tali.

Questa esclusione dell’altro a priori dalla sfera del

mentale è ciò che potremmo chiamare, sulla scia di

Wittgenstein, una “superprivatezza”97. O meglio ancora

una “privatezza metafisica”. Perché alla base

dell’istituzione di questa asimmetria nella conoscenza

del mio dolore c’è il riconoscimento di un primato, il

96 L. WITTGENSTEIN, Esperienza privata e dati di senso, op. cit., p. 11.97 L. WITTGENSTEIN, Note per la “Lezione filosofica”, tr. it. di T. Fracassi, in aut aut, 304, 2001, p. 5.

85

primato della prima persona nell’accesso agli stati

interni.

È questa tradizione della metafisica della prima persona

che Wittgenstein intende smascherare, una tradizione che

nella storia della filosofia moderna segna una tappa

importantissima nella filosofia cartesiana. L’evidenza

del mentale è infatti ciò che Cartesio riconosce come il

«punto archimedeo» su cui far leva per uscire dal «gorgo

marino» del dubbio quale esito del filosofare, «[…] infatti,

poiché ora so che i corpi non sono percepiti propriamente dai sensi o dalla

facoltà di immaginare, bensì dal solo intelletto, e che non vengono percepiti

per il fatto che si toccano o che si vedono, ma soltanto per il fatto che li

concepiamo, conosco in modo manifesto che non vi è nulla che possa da me

essere percepito con più facilità e con più evidenza della mia mente»98. La

critica di Wittgenstein alla metafisica della prima

persona è dunque una critica all’illusione che i

sentimenti e le sensazioni siano qualcosa che non possa

essere genuinamente condiviso perché accessibile solo al

loro portatore. I sostenitori della “privatezza

metafisica”, infatti, si assicurano in questo modo un

dominio inespugnabile, rappresentato dalla nozione di

mentale e che nel caso del solipsista diventa l’unica

fortezza esistente. Attraverso il predominio

dell’immagine esterno/interno, superficie/profondità,

diretto/indiretto attraverso cui, nella comunicazione

dell’esperienza privata, esprimiamo questa metafisica

98 R. DESCARTES, Meditazioni sulla filosofia prima, Seconda meditazione, op. cit., p. 68.

86

della prima persona, quello che facciamo non è altro che

sublimare l’insieme di incertezze che la presenza

dell’altro provoca. E sublimando queste incertezze è

come se riconoscessimo due spazi privati, il mio e

quello dell’altro, irriducibili l’uno all’altro e per

questo solidi:

Perché non dire: «L’ evidenza del mentale in un’altra persona

è l’esterno»? Ebbene, non c’è un’evidenza esterna mediata e

un’evidenza immediata dell’interno. […] Non il rapporto

dell’interno con l’esterno spiega l’incertezza dell’evidenza,

bensì, al contrario questo rapporto è soltanto una

presentazione in immagini di questa insicurezza.99

Con questo non vuol dire che Wittgenstein ammetta la

possibilità di poter provare il dolore di un altro,

piuttosto ne smonta la portata epistemologica. Dicendo

“Non posso mai provare il tuo dolore” non stiamo dicendo

nulla sull’essenza di ciò che chiamiamo “dolore”, stiamo

piuttosto facendo un’osservazione grammaticale. Ma da

qui a concludere, come fa il metafisico, che il mio

interno ti è precluso passiamo per un processo di

“personificazione”, o meglio di “oggettivazione” della

sensazione con cui combattiamo l’incertezza che avvolge

l’altro.

99 L. WITTGENSTEIN, Ultimi scritti, op. cit. p. 221.

87

I.4.2.3. Negare dunque il valore filosofico di questo

privilegio concesso al soggetto nella conoscenza dei

suoi stati interni, non va tradotto dice Wittgenstein in

un’apologia del comportamentismo, per cui l’esperienza

privata si riduce al comportamento, a ciò che affiora in

superficie. Questo modo di argomentare implicherebbe

infatti, nel caso del dolore, la sua riduzione ad una

serie di comportamenti che potrebbero sussistere anche

in sua assenza. L’esistenza del dolore, della

sofferenza, non può essere cancellata con un colpo di

spugna dalla lavagna del nostro modo di vivere: “Un

legislatore potrebbe abolire il concetto di dolore? I

concetti fondamentali sono intrecciati in modo talmente

stretto con ciò che vi è di più essenziale nel nostro

modo di vivere che, per questa ragione, risultano

inattaccabili”100. Wittgenstein non vuole cioè negare

l’esistenza dell’esperienza privata, tuttavia pensa che

la nostra soggettività non sia qualcosa che si nasconda

dietro il comportamento osservabile. Essa non sta né in

superficie né in profondità.

Tanto il sostenitore della metafisica della prima

persona, quanto il comportamentista, finiscono così per

ridurre a qualcos’altro proprio ciò che intendono

preservare, la soggettività. Se nel primo caso la

metafisica della prima persona può degenerare

nell’estremo del solipsismo, per cui realtà e soggetto

100 Ivi, p. 198.

88

coincidono, nel secondo caso ad essere ritenuti

realmente esistenti sono reazioni esterne a stimoli

altrettanto esterni. In entrambi casi ciò che

probabilmente disturba Wittgenstein è il vuoto che si

viene a creare attorno o all’interno dell’Io. Un vuoto

pneumatico che nel caso del solipsista, il quale

sostiene l’accesso privilegiato dell’Io ai propri stati

interni, garantisce la solidità del microcosmo così

creato. L’Io può scrutare il vuoto che lo circonda e

giungere ad affermare la sua sola esistenza. Nel caso

del comportamentista, invece, il vuoto pneumatico

dell’Io è un vuoto interno, un vuoto che lo porterebbe a

considerare gli altri alla stregua di automi che

rispondono a stimoli mirati. Ciò che accomuna dunque

queste teorie è un esito di disumanizzazione dei

contesti linguistici in cui l’espressione delle

sensazioni private ha luogo. La solitudine, la

costruzione di una barriera teorica che rende

impossibile la comunicazione di uno stato interno, vuoi

perché l’altro è non pervenuto, vuoi perché questo stato

interno non esiste, è l’esito di qualsiasi teoria che

sublima “ciò che vi è di più essenziale nel nostro modo

di vivere”. Di fronte però alla forza vitale delle

sensazioni e dei sentimenti non esiste sublimazione che

regga, «prova un po’ a mettere in dubbio – in un caso reale - l’angoscia, il

89

dolore di un’altra persona!»101, esclama il filosofo austriaco in

uno dei paragrafi più concitati delle “Ricerche filosofiche”.

Nel solipsismo collettivo di “1984”, invece, i membri

del Partito vivono separati da pareti divisorie

incrollabili, vivono cioè in un mondo in cui la

“superprivatezza” ha inaridito fino alla morte la

possibilità dei rapporti umani. Winston Smith, che

probabilmente è nel romanzo l’alter ego di Orwell , è

impressionato tanto quanto il Wittgenstein confutatore

del linguaggio privato delle sensazioni, da questo

potere violento di rimozione dei legami umani: “Lo colpì

il fatto che ciò che veramente caratterizzava la vita

moderna non era tanto la sua crudeltà, né il generale

senso d’insicurezza che si avvertiva, quanto quel vuoto,

quell’apatia incolore”102. Quella che il protagonista del

romanzo definisce “l’età della solitudine” è una

dimensione in cui l’abitudine a considerare l’altro come

un problema irrisolvibile, se non nella mistica dell’Io

collettivo rappresentata dall’ideologia del Socing, si è

imposta nella vita quotidiana. Creare il vuoto attorno a

ciascun individuo, farne un atomo in uno spazio vuoto, è

come possiamo qui vedere, l’altra faccia della strategia

di eliminazione della realtà esterna e della storia che

il Partito considera fondamentale per la perpetuazione

del potere. Certo, scrive il leggendario oppositore

Goldstein nel suo libro, «vi è ancora differenza fra la vita e la

101 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, op. cit., I, § 303, p. 135.102 G. ORWELL, 1984, op. cit., p. 78.

90

morte, fra il piacere fisico e il dolore fisico, ma questo è tutto. Tagliato fuori

da ogni contatto con il mondo esterno e con il passato, il cittadino

dell’Oceania è simile a un uomo che si trovi nello spazio interstellare e che

non ha la possibilità di sapere dov’è l’alto e dov’è il basso»103.

Se Winston ha sviluppato una propensione volontaria alla

privatezza, quasi un istinto alla dissimulazione,

l’“uomo nuovo” che la Rivoluzione e il potere esercitato

secondo l’ideologia del Socing tendono a plasmare ha

invece interiorizzato l’immagine dell’inaccessibilità

dall’esterno alla propria soggettività, che ha eliminato

completamente la distinzione tra interno ed esterno. È

come se questo nuovo modo di vivere conoscesse un unico

grande Io, un unico grande interno “superprivato”

incarnato dal Partito. Gli individui quindi crederanno,

penseranno, proveranno ciò che il Partito crede, pensa e

prova. Proprio questa è la natura strategica del

bipensiero.

Nelle sue osservazioni apocalittiche, nel suo orrore per

la cultura di massa, nelle osservazioni caustiche su

quella categoria di persone che etichettava sotto la

definizione di filistei, Wittgenstein probabilmente cercò

di esprimere la direzione che “scienza e industria”

avevano impresso alla società, alle relazioni sociali.

Contro le teorizzazioni della moderna metafisica

intrinseca alla scienza, contro la problematizzazione

dell’altro, contro la sublimazione dell’incertezza in

103 Ivi, p. 206

91

immagini illusorie, in una parola contro la solitudine

Wittgenstein, si potrebbe dire, recupera le reazione

“istintiva” all’espressione dell’esperienza privata da

parte dell’altro. Ciò che dobbiamo recuperare nei

rapporti con gli altri è l’ovvietà della reazione

spontanea, in cui si esprimono tanto il mio vedere

quanto il mio reagire alle sensazioni e ai sentimenti

dell’altro. Gettare la maschera della “superprivatezza”

per riconquistare una dimensione di autenticità nelle

nostre relazioni: “Immagina però di capitare in una

società in cui, secondo il nostro esempio, i sentimenti

sono riconoscibili con certezza dall’aspetto esteriore

(non usiamo l’immagine dell’interno e dell’esterno). Ma

non sarebbe analogo al fatto di arrivare da un paese in

cui si portino molte maschere in uno in cui non si porti

nessuna maschera o se ne portino di meno? (Come per

esempio dall’Inghilterra in Irlanda). Là la vita è,

appunto, diversa”104. Alla “superprivatezza” Wittgenstein

infatti contesta che esistono circostanze in cui

possiamo condividere con qualcuno il dolore o la gioia:

la capacità tutta umana di provare compassione; il gioco

linguistico in cui diciamo “Capisco cosa provi. Ti sono

vicino” è parte essenziale della forma di vita. Così

Winston riconosce in O’Brien, all’inizio del romanzo, un

altro possibile oppositore, un altro essere umano, come

lui: “Ci fu tuttavia una frazione di secondo in cui i

104 L. WITTGENSTEIN, Ultimi scritti, op. cit., p. 184.

92

loro occhi si incontrarono e in quel brevissimo arco di

tempo Winston seppe (si, seppe) che O’Brien stava

pensando le stesse cose che stava pensando lui. Era

stato inviato un messaggio inequivocabile. […] “Sono con

te” sembrava dirgli O’Brien, “so esattamente quello che

provi, so tutto del tuo disprezzo, del tuo odio del tuo

disgusto, ma non temere, io sono dalla tua parte!”105.

Giocando questo gioco è come se cercassimo di superare

i limiti angusti dell’esperienza privata dell’altro, per

riconoscere nel suo modo di agire un comportamento

umano:

Come avviene che io sia pieno di compassione per quest’uomo?

Come si vede qual è l’oggetto della compassione? (La

compassione è, si può dire, una forma di convinzione che un

altro prova dolore.)106

Ma se “ho m[al di denti]” sta in luogo di un lamento, per che

cosa sta “ha m[al di denti]”? Si potrebbe dire: sta anch’esso

per un lamento, ma di compassione.107

Il riconoscimento di una sensazione, di un’esperienza

privata altrui, fa quindi parte di un atteggiamento

complessivo nei confronti degli esseri umani. La

possibilità di riconoscere la sofferenza, la gioia, il

dolore altrui non riposa sulla nostra capacità di

105 G. ORWELL, 1984, op. cit., p. 20.106 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, op. cit., I, § 287, p. 131.107 L. WITTGENSTEIN, Esperienza privata e dati di senso, op. cit., p. 62.

93

effettuare una diagnosi, quasi fossimo dei medici, dopo

l’attenta analisi di un comportamento. Ma su di una

disposizione globale nei confronti degli altri che si

manifesta in un certo atteggiamento e che è parte

integrante di ciò che fa da sfondo ai nostri giudizi.

Questa stessa possibilità è invece negata da Orwell in

“1984”, unica eccezione è Winston Smith, “l’ultimo uomo

in Europa”. La “superprivatezza” nella quale sono

sospesi gli uomini di Oceania nega la possibilità della

compassione, anzi rovescia di segno la convinzione nella

possibilità che un altro provi una sensazione o un

sentimento a noi familiare. Non il riconoscimento

nell’altro di un modo di agire che caratterizza anche i

miei comportamenti, e quindi la convinzione di provare

le stesse sensazioni. Ma la possibilità di liberarsi di

queste sensazioni solo in comportamenti prestabiliti che

devono aver luogo in momenti definiti, in un rituale

specifico per mezzo del quale l’individuo con le sue

pulsioni scompare nell’Io del Partito. Dunque in ciò che

il Partito ama, crede ed odia. Penso che la cerimonia

dei “Due Minuti d’Odio” sia una descrizione abbastanza

lucida, nel romanzo, di questa forma di solipsismo di

massa. Ciò che di residuo rimane nella sfera del privato

individuale, le passioni, le pulsioni erotiche, i

sentimenti, viene tutto esternato in una cerimonia,

durante la quale i membri del Partito si lanciano contro

un teleschermo in cui compare il traditore per

94

antonomasia, Goldstein. Il risultato è una sublimazione

delle pulsioni più ferine, ma anche delle energie più

spontanee: “La cosa orribile dei Due Minuti d’Odio era

che nessuno veniva obbligato a recitare. Evitare di

farsi coinvolgere era infatti impossibile. Un’estasi

orrenda, indotta da un misto di paura e di sordo

rancore, un desiderio di uccidere, di torturare, di

spaccare facce a martellate, sembrava attraversare come

una corrente elettrica tutte le persone lì raccolte,

trasformando il singolo individuo, anche contro la sua

volontà, in una folla urlante, il volto alterato da

smorfie. E tuttavia, la rabbia che ognuno provava

costituiva un’emozione astratta, indiretta, che era

possibile spostare da un oggetto all’altro come una

fiamma ossidrica”108.

108 G. ORWELL, 1984, op. cit., p.17.

95

II. “La brama di semplicità”: brevi note sul

rapporto tra Wittgenstein e Tolstoj

Se è vero che esistono testi la cui reciproca influenza

si riflette in contesti culturali oggettivi,

indipendenti cioè da un accordo intenzionale (nei gusti

letterari o nelle posizioni filosofiche) tra gli autori,

è altrettanto vero che esistono testi, autori,

elaborazioni teoriche la cui influenza su un contesto

culturale magnetizza l’intero spettro di posizioni, in

positivo o negativo, di tale contesto. Se alla prima

categoria appartiene il confronto tra Wittgenstein e

Orwell abbozzato nelle pagine precedenti, è possibile

indicare come classificabile nella seconda categoria il

rapporto tra il pensiero del filosofo austriaco e alcuni

romanzi, racconti e saggi di Lev Nikolaevič Tolstoj.

96

Come verrà messo in evidenza nelle prossime pagine, il

grande scrittore russo esercitò un’enorme influenza con

le sue posizioni etiche ed estetiche su tantissimi

intellettuali europei della fine del XIX secolo. In

particolare, Tolstoj soffiò come un vento potente

sull’incendio culturale della Vienna fin-de-siècle. Qui

infatti l’ansia di ribellione dei giovani artisti

viennesi nei confronti dell’accademismo, del naturalismo

e del razionalismo liberale, nel seno del quale si erano

formati i loro padri, si unì ad un’istanza di

rinnovamento morale dell’espressione artistica che, in

ambito filosofico, trovò la sua espressione nel progetto

di Sprachkritik .

In questo ambiente si formò Wittgenstein. Non è un

caso, legato magari ai gusti estetici della sua famiglia

e dei suoi più intimi amici, che il filosofo austriaco

ebbe sempre una grandissima ammirazione per l’opera di

Tolstoj, paragonabile solo a quella che ebbe per l’altro

grande scrittore russo dell’epoca, Dostoevskij. La

letteratura secondaria a riguardo, assai esigua se si

escludono le due importanti biografie di Mc Guinness e

Monk109, si è però troppo spesso soffermata a

sottolineare alcuni parallelismi biografici tra

Wittgenstein e Tolstoj, senza dargli un senso preciso.

Un senso cioè che orienti quelle che a prima vista sono

sorprendenti corrispondenze nei fatti e nelle scelte

109 R. MONK, Ludwig Wittgenstein. Il dovere del genio, tr. it. Bompiani, Milano 1991.

97

della vita dei due autori, all’interno di un più ampio

confronto teorico che li elabori più in profondità.

Compito di questa breve trattazione sarà allora quello

di tentare un confronto tra questi due autori sul piano,

seppur limitato rispetto alla sterminata opera

letteraria di Tolstoj e alla proteiforme riflessione di

Wittgenstein, delle rispettive posizioni teoriche in

merito ad alcuni problemi filosofici che nel precedente

capitolo abbiamo designato con l’etichetta di

“metafisica della prima persona”. Come risulterà

evidente dalla trattazione, il confronto, imperniato

soprattutto su una certa lettura di alcuni tra i più

importanti “Racconti” di Tolstoj degli anni Ottanta

dell’Ottocento, lascia la porta aperta a qualsiasi

interpretazione alternativa o nuova prospettiva che ne

allarghi l’orizzonte di senso.

II.1. Etica e linguaggio: l’influenza di Tolstoj sulla

formazione del giovane Wittgenstein

II.1.1. Si è spesso parlato del ruolo che la cultura

mitteleuropea giocò nell’orientamento degli interessi

filosofici del giovane Wittgenstein. Sovraccaricando di

peso teorico effettivo sulla filosofia wittgensteiniana

il contesto culturale di Kraus e Weininger, di

Hofmannsthal e Musil, di Schönberg e Freud, alcuni

98

studi, a partire dagli anni ’70, hanno proposto una

lettura concatenata di questi fenomeni culturali, il

compimento dei quali sarebbe rappresentato dal “Tractatus”

o dall’intera opera di Wittgenstein110. Non è questa la

sede per approfondire i percorsi intellettuali

particolari che si intrecciano sul palcoscenico della

capitale dell’Impero austro-ungarico. Basterà osservare

di passaggio, che sebbene studi di questo tipo, in

particolar modo “La grande Vienna” tolgano a Wittgenstein

l’etichetta del logico positivista, rischiano di

attribuirgliene un’altra forse meno appropriata, quella

di “filosofo-tardoromantico”, enfatizzando ad esempio

l’influenza che Schopenhauer ebbe sull’esigenza di una

“critica del linguaggio” wittgensteiniana.

Quello che invece può essere considerato il loro merito

è l’aver riscoperto le radici culturali del pensiero del

filosofo austriaco, ma soprattutto la sua appartenenza

ad un contesto consapevole di un processo interno di

disgregazione, di fine della coesione politica e

culturale. Come osserva Gargani:

110 Per un’ampia panoramica della Vienna del periodo si veda C.SCHORSKE, Vienna fin-de-siècle, tr. it. Bompiani, Milano 1981. Per ilrapporto tra la filosofia di Wittgenstein soprattutto del Tractatuscon la “grande Vienna” si veda poi l’omonimo libro di A. JANIK- S.TOULMIN, La grande Vienna, tr. it. Garzanti, Milano 1975. Va infinericordato come questo rapporto e questo contesto culturale sianostati, in Italia, oggetto di studio approfondito di M. CACCIARI,Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli,Milano 1976.

99

Il mondo della Valse [opera di M. Ravel] non è una struttura

coesa e integrata, bensì una costellazione di frammenti, di

elementi individuali che formano una molteplicità variegata di

temi che si connettono e si intrecciano tra loro. A poco a

poco l’elemento concentrico, il polo magnetico, l’attrattore

si disintegra; ogni tema musicale mantiene la sua fisionomia e

il suo respiro, ma si sposta verso la propria eccentricità.111

Il lento collasso politico e sociale dell’Impero, che si

concluse con la Prima guerra mondiale, si manifestò

nell’arte, nella filosofia, nella scienza dell’epoca in

una crisi profonda della cultura liberale ottocentesca.

Una cultura storica, razionalista e ottimista, che non

era però riuscita a neutralizzare la conflittualità

strutturale di un Impero multietnico come quello

asburgico. Si cominciò così ad affermare, nella seconda

metà dell’Ottocento, tra le giovani generazioni educate

secondo la Weltanschaung del liberalismo austriaco, il

bisogno di un rinnovamento radicale. Di una tensione

espressiva nuova, lontana dalla corruzione estetica e

morale in cui era caduta l’arte ufficiale, per la quale

il bisogno di comunicare i sentimenti era stato

eliminato dalla logica dell’arte per l’arte, da un

accademismo fine a se stesso espresso nel primato

dell’ornamento e di un vuoto formalismo. In questo

circolo vizioso in cui le istituzioni artistiche

viennesi erano precipitate, le giovani generazioni

111 A.G. GARGANI, Wittgenstein. Musica, parola, gesto, op. cit., p.27.

100

videro le conseguenze dell’imporsi in ogni campo della

vita sociale del motto guida della cultura liberale:

“gli affari per gli affari”. Ciò che urgeva era

un’innovazione dell’espressione artistica, scientifica e

filosofica che potesse garantire, se non il quadro

culturale unitario, l’ordine razionale superiore di cui

si erano giovate le generazioni precedenti, almeno

l’armonia (non la sottomissione ad un “super-ordine” dei

linguaggi), della cultura e degli individui. Da un lato

l’innovazione espressiva, dall’altro il conflitto con il

degenerato ordine precedente: “La Vienna fin de siècle,

con i suoi presagi acutamente avvertiti di sfacelo

politico e sociale, si è rivelata uno dei terreni più

fertili e producenti della cultura astorica del nostro

secolo. Tutti i suoi grandi innovatori – nell’ambito

della musica e della filosofia, dell’economia e

dell’architettura, e, naturalmente, della psicoanalisi –

hanno spezzato più o meno deliberatamente i loro legami

con la visione storica che caratterizzava la cultura

liberale ottocentesca, culla della loro formazione”112.

Indubbiamente il nume tutelare di questi “innovatori” fu

Karl Kraus, la cui opera di critica della società e del

linguaggio condotta dalle pagine del “Die Fackel” illuminò

e anticipò lo spirito con cui Loos per quanto riguarda

l’architettura, Schönberg per quanto riguarda la musica,

Klimt e Kokoschka per la pittura, Hofmannsthal,

112 C. SCHORSKE, op. cit., p. XII.

101

Schnitzler e Musil per quel che concerne la letteratura,

avrebbero rivoluzionato i rispettivi linguaggi

espressivi. Parallelamente l’empiriocriticismo di Mach e

la fisica teorica di Hertz e Boltzmann contribuirono in

ambito scientifico alla critica di quella scienza

accademica platonizzante e metafisicizzata o all’opposto

materialista volgare che pretendeva di svelare le

strutture ultime della realtà. La nuova impostazione dei

problemi scientifici si tradusse, nel caso di Mach, in

una concezione delle ipotesi scientifiche come risposte

ad un’esigenza economico-descrittiva consistente nel

catalogare la varietà dell’esperienza col minor numero

possibile di segni convenzionali. Nel caso di

Boltzmann, la concezione delle teorie fisiche come

modelli, che non riflettono le cose in sé, estese la

critica machiana alle interferenze esercitate nelle

scienze fisico-matematiche dai metodi logicizzanti

basati su presunte leggi naturali del pensiero. Questi

sono in un senso più generale il risultato di

un’attività filosofica quale fraintendimento delle

nostre espressioni linguistiche e alla quale bisogna

opporre una teoria della scienza che faccia della

chiarezza la sua bandiera.

II.1.2. Non è difficile vedere nell’ambiente

culturale viennese, e nelle modalità con cui maturarono

le convinzioni di Wittgenstein sulla natura del

102

linguaggio, una certa recezione di ciò che Tolstoj aveva

scritto sull’arte, sulla scienza, sull’etica e sul ruolo

dello scrittore. Indubbiamente il testo in cui questi

temi vengono trattati senza la mediazione della forma

letteraria, dunque da un punto di vista squisitamente

teorico è il trattato del 1897 “Che cos’è l’arte?”.

In esso lo scrittore russo polemizza con l’arte a lui

contemporanea, degenerata, a suo dire in puro

divertimento per le classi superiori. L’estetismo

dell’arte moderna si evince dalla limitata

comprensibilità delle opere d’arte all’interno della

società. Se, paradossalmente, da un lato sempre più

uomini vengono impiegati come forza lavoro per quella

che va assumendo le dimensioni di una vera e propria

“industria culturale”, dall’altro lato sempre meno

uomini sono in grado di comprendere il significato

dell’opera d’arte. E questo è il risultato, secondo

Tolstoj, di una civiltà degenerata, in cui i concetti di

bene, verità e bellezza sono stati asserviti al piacere

soggettivo: “Il bene, la bellezza e la verità vengono

posti allo stesso livello e tutti e tre i concetti

vengono riconosciuti come fondamentali e metafisici. Ma

in realtà non è affatto così. […] La bellezza invece –

se non vogliamo contentarci di parole – non è altro che

ciò che ci piace. Il concetto di bellezza non solo non

coincide con il bene, ma gli è addirittura opposto, dato

che il bene più spesso coincide con la vittoria sulle

103

passioni, mentre la bellezza è la base di tutte le

passioni”113. Se lo scopo dell’opera d’arte è la

bellezza, e se questa coincide con il piacere

soggettivo, allora l’arte diventa un lusso a

disposizione dei pochi privilegiati che possono

permettersela economicamente e comprenderla. Conseguenza

dell’identificazione tra opera d’arte, bellezza e

piacere soggettivo è l’elezione della “nebulosità” e

dell’ “oscurità” a caratteristiche fondamentali del

bello. Queste sono le caratteristiche che Tolstoj

rinviene nell’estetismo e nel simbolismo a lui

contemporaneo: “Negli ultimi tempi non solo la

nebulosità, la misteriosità, l’oscurità e

l’inaccessibilità per le masse, ma anche l’incertezza e

l’inefficacia della parola sono state promosse a pregi e

a condizioni del valore poetico delle opere d’arte”114.

Compito dell’arte buona deve essere quello di

trasmettere i sentimenti dell’artista agli altri uomini.

Se l’artista non riesce a rendere comprensibile al resto

dell’umanità i sentimenti da lui provati nella creazione

dell’opera, allora la sua attività resta muta e può al

massimo eccitare il piacere soggettivo in alcuni

individui. L’arte autentica invece è fondata sulla

«capacità degli uomini di essere contagiati dai sentimenti degli altri

uomini»115. In questo senso lo scopo dell’arte è quello di113 L. TOLSTOJ, Che cos’è l’arte? in Scritti sull’arte, ed. it. Bollati Boringhieri, Torino 1964, p. 212.114 Ivi, p.228.115 Ivi, p. 191.

104

mettere insieme gli uomini, legarli attraverso i

sentimenti che l’artista esprime nella produzione

dell’opera. L’arte autentica è “arte religiosa”. Lega

gli uomini, supera le difficoltà del discorso razionale,

mediato, logico attraverso l’espressione del sentimento

da parte dell’artista e con la comprensione intuitiva

da parte di coloro che vi entrano in relazione:

Il compito dell’arte consiste proprio nel rendere

comprensibile e accessibile ciò che potrebbe essere

incomprensibile e inaccessibile in forma di ragionamento. Di

solito, quando una persona riceve un’impressione veramente

artistica, le sembra di averla conosciuta anche prima ma solo

di non essere stata capace di esprimerla. 116

Confrontando queste posizioni con quelle espresse da

Wittgenstein nelle sue “Lezioni sull’estetica”, tenute a

Cambridge nell’estate del 1938 e delle quali ci sono

rimaste gli appunti degli studenti che vi presero parte,

Smythies, Rhees, Taylor, Redpath, Lewy, Drury, emergono

alcune importanti analogie e alcune significative

differenze. Il filosofo austriaco parte dalla

considerazione del ruolo che, i giochi linguistici in

cui vengono espresse valutazioni estetiche, hanno negli

usi del linguaggio. Ebbene Wittgenstein osserva che le

nostre valutazioni estetiche non sono l’espressione,

definizione questa fuorviante, delle nostre emozioni di

116 Ivi, p. 253.

105

fronte all’opera d’arte. Sembrano più essere

l’espressione di una competenza che il destinatario

dell’opera esprime in una valutazione:

Quando formuliamo un giudizio estetico su una cosa, non ci

limitiamo a rimanere a bocca aperta dicendo «Oh, che

splendido!». Distinguiamo tra una persona che sa ciò di cui

sta parlando e una che non lo sa. Se uno ammira la poesia

inglese, deve sapere l’inglese. Supponiamo che un russo che

non sa l’inglese sia emozionato da un sonetto riconosciuto

buono. Diremmo che non sa affatto che cosa sia.117

Nelle sue lezioni Wittgenstein sembra infatti avere una

posizione che in parte riprende e in parte contesta le

opinioni di Tolstoj sul giudizio estetico. Con Tolstoj

sembrerebbe, a prima vista, concordare sul fatto che le

valutazione estetiche della civiltà occidentale siano

limitate alle persone che hanno acquisito una serie di

competenze in ambito artistico.

Egli è d’accordo con lo scrittore russo sul giudizio

rispetto all’arte contemporanea. L’arte autentica, come

dice Tolstoj, dovrebbe possedere in primo luogo la

caratteristica della sincerità con cui l’autore

“contagia” i propri sentimenti agli altri: “L’arte

diventa più o meno contagiosa secondo queste tre

condizioni : 1) maggiore o minore singolarità del

117 L. WITTGENSTEIN, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, op. cit., p. 60.

106

sentimento che viene comunicato; 2) maggiore o minore

chiarezza nel comunicare il sentimento; 3) maggiore o

minore intensità, cioè sincerità, con la quale l’artista

stesso prova il sentimento che comunica. […] Sebbene io

parli di tre condizioni del contagio, e del valore

dell’arte, in sostanza vi è una sola condizione, cioè

l’ultima delle tre: che l’artista senta la necessità

interiore di esprimere il sentimento che comunica”118.

Sul fatto che l’autenticità dell’opera d’arte si

misurasse sulla sua chiarezza, espressione dell’onestà

intellettuale del suo autore, Wittgenstein si trovava

perfettamente d’accordo. Del resto le sue letture, i

suoi gusti musicali, la sua preferenza per espressioni

artistiche considerate di bassa leva, come il cinema

western, riflettono proprio questo principio. Perché

l’arte ha per Wittgenstein una funzione essenzialmente

morale. Come per Tolstoj l’arte deve essere

l’espressione di un sentimento, quello del legame tra

gli uomini per questo motivo «è necessario che l’artista sia un

uomo moralmente illuminato, e che quindi non viva una vita esclusivamente

egoistica, bensì partecipi alla comune vita dell’umanità»119. È appunto

in questo senso che per Wittgenstein la valutazione

artistica è impossibile da spiegare dal punto di vista

di un’estetica che sia scienza. L’estetica è indicibile

perché per descrivere una valutazione estetica dovremmo

118 L. TOLSTOJ, Che cos’è l’arte? in op. cit., p, 311 e 312.119 L. TOLSTOJ, Scritti sull’arte, op. cit., p.519.

107

descrivere ciò che fa da sfondo, infondato, al modo di

giudicare l’espressione artistica di una cultura:

Le parole che chiamiamo espressioni di giudizio estetico

hanno un ruolo molto complicato, ma ben definito, in ciò che

chiamiamo la cultura di un periodo. Per descrivere il loro

uso o per descrivere ciò che intendi per un gusto colto,

devi descrivere una cultura. 120

Tanto Wittgenstein quanto Tolstoj aspirano alla

sincerità dell’espressione, sia essa artistica o meno.

Nutrono quella che il filosofo austriaco definisce una

«brama di semplicità»121 per tutto ciò che riguardi i

rapporti tra gli uomini. Ma sono i modi in cui questo

fine viene perseguito su cui i due divergono. Perché per

Wittgenstein il valore espresso da un’opera d’arte

autentica, come da un sentimento positivo quale la

compassione, consiste in una prospettiva diversa

presente nell’opera d’arte , dalla quale guardiamo i

fatti, il mondo. A tal proposito è illuminante una sua

osservazione presente in “Filosofia”, in cui chiama in

causa, sebbene non esplicitamente, proprio alcune pagine

del trattato sull’arte di Tolstoj:

(Tolstoi: il significato (la significatività) di un oggetto

consiste nella sua generale comprensibilità. – Questo è

120 L. WITTGENSTEIN, Lezioni e conversazioni, op. cit., p. 63.121 Ivi, p. 107.

108

insieme vero e falso. Ciò che rende difficile la comprensione

di un oggetto – qualora esso sia significativo, importante –

non è il fatto che per comprenderlo sia necessaria una

speciale istruzione su cose astruse; piuttosto, è il

contrasto tra il comprendere l’oggetto in questione e ciò che

la maggior parte delle persone vuole vedere. A causa di ciò,

anche la cosa più semplice può diventare la più difficile da

comprendere. Si deve superare una difficoltà della volontà,

non dell’intelletto.)122

In questo passo Wittgenstein estende l’idea tolstojana

sulla comprensibilità universale dell’opera d’arte quale

criterio della sua autenticità al suo metodo filosofico.

Accettandola e rifiutandola. Perché un oggetto

difficilmente comprensibile, come per Tolstoj può essere

l’opera d’arte contemporanea, non lo è perché una

cultura valorizzi la “nebulosità” dell’espressione

piuttosto che la chiarezza. Ma perchè il soggetto che

esprime un giudizio estetico sull’opera vuole vederla

attraverso un’immagine che ne oscura la semplicità.

Questa osservazione viene estesa da Wittgenstein alle

difficoltà della filosofia: i problemi del filosofo sono

abbagli della volontà che nell’uso metafisico del

linguaggio sublima la varietà espressiva del quotidiano

e la rende “difficilmente comprensibile”. Per questo

motivo il lavoro filosofico è un lavoro sulla propria

volontà più che sull’intelletto. Perché a complicare la122 L. WITTGENSTEIN, Filosofia, op. cit., p. 5, cfr. con L.TOLSTOJ, Che cos’è l’arte in op. cit., pp. 250-256.

109

semplicità del quotidiano, ad alienarci in contesti nei

quali il linguaggio gira a vuoto, è proprio un modo di

voler vedere le cose che è proprio della tradizione

filosofica occidentale. È in questa ricerca della

semplicità in un differente modo di guardare alla e

nella forma di vita che la dissoluzione del problema

wittgensteiniana diverge profondamente dai tentativi di

soluzione di Tolstoj.

II.2. Oltre Tolstoj: la dissoluzione dei problemi

filosofici dei “Racconti” secondo Wittgenstein

II.2.1. Non è necessario per il nostro studio

dilungarsi sull’opera di critica e rielaborazione dei

linguaggi artistici, scientifici e filosofici che

investì la Vienna della fine dell’Ottocento. Si

rischierebbe infatti di appiattire l’innovazione degli

intellettuali austriaci sulla sola critica dei canoni

espressivi tradizionali, lasciandone in secondo piano

tutta l’originalità e il peso che poi ebbe su altri

contesti culturali. Basti qui però osservare che

Wittgenstein ereditò questo sfondo per intero sia

intenzionalmente, sposando quella linea culturale che

Kraus aveva fatto trincea della propria battaglia contro

una società e un’arte corrotte, sia “inghiottendone” le

premesse nel corso della sua formazione. Solamente alla

110

luce di questa influenza e degli stimoli al

perfezionamento provenienti dall’ambiente familiare è

possibile accostarsi alle ultime sezioni del “Tractatus”

senza intravedervi le ansie di un uomo eccentrico.

La “critica del linguaggio” al centro del dibattito

culturale viennese, che l’autore del “Tractatus”

considera compiuta con la sua opera, riceve il suo senso

profondo solo se se ne coglie la tensione morale

interna, lo sforzo teso alla perfezione del suo autore,

il significato etico. Solo illuminandole da questa

prospettiva le ultime sezioni del testo palesano il loro

obiettivo e dissolvono quella «sensazione di disagio

intellettuale»123 che Russell riscontrava in ciò che

Wittgenstein definisce il Mistico. Così scriveva il

filosofo austriaco all’editore L. von Ficker: “[…] Le

scrivo un paio di parole sul mio libro: dalla lettura di

questo , infatti, Lei, e questa è la mia esatta

opinione, non ne tirerà fuori un granché. Difatti Lei

non lo capirà; l’argomento le apparirà del tutto

estraneo, poiché il senso del libro è un senso etico.

[…] In effetti io volevo scrivere che il mio lavoro

consiste di due parti: di quello che ho scritto, ed

inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio

questa seconda parte è quella più importante. Ad opera

del mio libro, l’etico viene delimitato, per così dire,

dall’interno; e sono convinto che l’etico è da

123 B. RUSSELL, Introduzione a L. WITTGENSTEIN, Tractatus, op. cit., p. 18.

111

delimitare solamente in questo modo”124. Se il compito

del “Tractatus” è infatti quello di mostrare i limiti del

linguaggio sensato, limiti che vengono rispettati solo

se la proposizione è immagine di uno stato di cose,

allora ciò che trascende le condizioni di sensatezza, i

valori etici, religiosi ed estetici rimangono fuori da

questo limite. Questo non vuol dire che la mancanza di

senso sottragga loro la pienezza dell’essere la trama

dell’espressione umana. Il Mistico è uno sfondo

infondato proprio come quell’insieme di proposizioni

grammaticali che in “Della Certezza” rimangono al di là di

ogni ragionevole dubbio. L’assenza di solide fondamenta

razionali non impedisce però a questo sfondo insensato

di conferire senso a ciò che rimane all’interno dei

limiti della sensatezza:

Come il mondo è, è affatto indifferente per ciò che è più

alto. Dio non rivela sé nel mondo.

Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è.125

È pertanto condivisibile la critica a quella

letteratura secondaria che vede nel Mistico,

nell’indicibile e nell’invito al silenzio del “Tractatus”

una dimensione del non senso sostanziale. Come osserva

Grargani: “L’etica, ossia ciò che è alto, viene definita

indicibile dal filosofo austriaco non già perché si124 L. WITTGENSTEIN, Lettere di Ludwig Wittgenstein con Ricordi, tr. it. di I. Roncaglia Cherubini, La Nuova Italia, Firenze 1970, p. 115.125 L. WITTGENSTEIN, Tractatus, op. cit., 6.432 e 6.44, p. 108.

112

riferisce a un valore ineffabile, bensì in quanto è

l’insieme di tutti i possibili atteggiamenti di

carattere valoriale. L’ineffabile, l’indicibile, il

mistico non è, nel Tractatus, un’entità oscura e

inafferrabile, bensì un silenzio colmo d’espressione”126. Se

l’indicibile mostra l’esistenza del mondo questo non

cancella la sua “austera” insensatezza: “Che è il

carattere obiettivo della vita felice, armonica? Anche

qui è chiaro che non può esservi un tale carattere, che

si possa descrivere. Questo non può essere un carattere

fisico, ma solo un carattere metafisico, trascendente.

L’etica è trascendente”127.

Proprio per questo motivo “etico” è passare dalla

parola all’azione: il retto vedere è parte e condizione

del retto vivere. Si tratta della stessa consapevolezza

che l’Ivàn Il’ič di Tolstoj raggiunge poco prima di

esalare l’ultimo respiro, quando la paura della morte

che lo ha accompagnato nell’ultima parte della sua vita,

rivelandone impietosamente l’inautenticità, cede il

passo ad una presentazione perspicua del senso

dell’esistenza: “In quello stesso istante Ivàn Il’ič

sprofondò, vide la luce, e gli si rivelò che la sua vita

non era stata come avrebbe dovuto essere, ma che vi si

poteva ancora porre rimedio. […] «D’altronde perché

parlare, occorre fare» pensò”128. Il protagonista del126 A. G. GARGANI, Wittgenstein, op. cit., p. 136.127 L. WITTGENSTEIN, Tractatus, op. cit., p. 224.128 L. TOLSTOJ, La morte di Ivan Il’ič in Tutti i Racconti, a cura di I. Sibaldi,Mondatori, Milano 1991, Volume secondo, p. 400.

113

racconto, un funzionario del sistema giudiziario

zarista, il giudice Ivàn Il’ič Golovìn, è un uomo

perfettamente inserito nel suo ambiente sociale, la

piccola nobiltà russa. La sua vita trascorre in un

compiaciuto adempimento delle formalità, in un abbandono

totale alla mondanità, fin quando non inizia a soffrire

di un male, probabilmente un cancro, che lo porterà a

doversi confrontare con la morte. È l’esperienza stessa

del male a rivelargli la falsità delle relazioni

sociali, l’artificio della mondanità, l’insuperabile

barriera che il rispetto della forma frappone tra gli

uomini. Questo gioco delle parti è compreso da Ivàn

Il’ič solo quando si scontra con la propria incapacità a

comunicare, alla moglie, ai figli, ai colleghi, a quella

società nel seno della quale aveva condotto una vita

libera dal tarlo del dubbio, il proprio dolore.

L’incapacità di esprimere e far comprendere la

sofferenza interiore viene vista da Ivàn Il’ič nella sua

pienezza solo di fronte al medico, a colui che la

società ha investito del compito di salvaguardare il

funzionamento del corpo individuale e sociale: “Tutto fu

come s’aspettava: tutto si svolse così come sempre si

svolgono queste cose. L’attesa, e l’aria di importanza

affettata, dottorale, a lui ben nota, quella stessa aria

che anche lui assumeva in tribunale, e le auscultazioni,

e i vari colpetti, e le domande che esigevano risposte

già definite in anticipo ed evidentemente inutili, e

114

l’aria significativa che suggeriva: ecco, basta che voi

non vi diate pena e vi sottomettiate a noi, e noi

sistemeremo tutto, sappiamo bene e senza dubbio alcuno,

noialtri, come sistemare ogni cosa; tutto allo stesso

modo per qualsivoglia persona”129. L’idea che il dolore

sia qualcosa di accessibile in maniera diretta solo al

suo portatore, e che quindi gli altri ne possano essere

resi partecipi solo indirettamente è, come dice

Wittgenstein, un’illusione della metafisica:

“Quindi non hai davvero dolore, ti lamenti soltanto?!” Sembra

esservi una descrizione del mio comportamento e anche, nello

stesso senso, una descrizione della mia esperienza, del mio

dolore! Una è, per così dire, la descrizione di un fatto

esterno, l’altra di uno interno. Ciò corrisponde all’idea che

come posso dare un nome a una parte del mio corpo, così allo

stesso modo posso nominare un’esperienza privata (solo in

modo indiretto).130

Descrivendo le nostre sensazioni attraverso lo schema

binario della conoscenza diretta/indiretta, della

profondità e della superficie, finiamo per essere

giocati dal nostro modo di parlare. In che termini

oggettiviamo questo “fenomeno di iridescenza”131 presente

nei nostri giochi linguistici sul dolore? In quella

distinzione tra corpo e anima, tra materiale e mentale,

129 Ivi, pp. 360-361.130 L. WITTGENSTEIN, Esperienza privata e dati di senso, op. cit., p. 63.131 Cfr. Ivi, pp. 83-84.

115

con la quale nei discorsi filosofici, scientifici e

medici finiamo per irreggimentare la varietà delle

sensazioni, dei sentimenti e dei modi di esprimerli, in

una parola la vita:

Dico al cameriere: porti sempre della minestra chiara a me e

densa a tutti gli altri. Egli cerca di ricordare la mia

faccia. Supponete che cambi completamente faccia (corpo) ogni

giorno, come farebbe a sapere quale sono io? […] Sembra che

io possa tracciare la mia identità, del tutto indipendentemente

dall’identità del mio corpo. E l’idea suggerita è che io

tracci l’identità di qualcosa che abita un corpo, cioè

l’identità della mia mente. 132

E questa illusione è presente, in tutta la sua

drammaticità, nei vari tentativi che i medici fanno per

cercare di curare il male di Ivàn Il’ič. Se il dolore

non è esprimibile direttamente, se non è possibile

individuare in una proposizione la sua essenza, allora

la cura del male passa per la quantificazione e

desoggettivizzazione del dolore. Passa cioè per la sua

traduzione in una diagnosi, in cui “il dolore” viene

oggettivizzato attraverso il linguaggio medico-

scientifico e dunque reso terreno d’analisi e

intervento. A questa illusione metafisica che in buona

misura è presente nella medicina occidentale,

Wittgenstein oppone una concezione grammaticale del

132 Ivi, p. 71.

116

dolore e un ribaltamento dell’asimmetria nella

conoscenza degli stati interni, per cui l’ “Io so”

riferito ad esso è possibile solo alla terza persona. È

come se la sensazione del dolore venisse recitata da

colui che nei giochi linguistici siamo soliti

individuare come il suo portatore. In questo modo le

parole con cui esprimiamo il dolore riacquistano quel

peso e quindi quella importanza insita nel loro essere

sue manifestazioni. Le parole con cui ci lamentiamo,

facciamo una confessione, manifestiamo una sofferenza

sono importanti perché in un certo senso rappresentano

il copione con il quale entriamo in azione sulla scena

della forma di vita: “Così, vorrei dire, le parole «Oh,

come vorrei che arrivasse!» sono cariche del mio

desiderio. E le parole possono erompere da noi – come un

grido. Le parole possono essere difficili da pronunciare:

tali sono, per esempio, le parole con le quali

esprimiamo una rinuncia, o confessiamo una debolezza.

(Le parole sono anche atti)”133. Negli avvenimenti che lo

portano lentamente alla morte Ivàn Il’ič trova la

difficoltà nel pronunciare le parole che gli

permetterebbero di aprirsi e manifestare la sua

sofferenza. Inutilmente si affanna a chiedersi il perché

dell’indifferenza degli altri: “Non era possibile

ingannarsi: qualcosa di terribile, di nuovo, e di

significativo come null’altro nella sua vita, stava

133 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, op. cit., I, § 546, p. 193.

117

avvenendo dentro di lui. E lui solo ne era a conoscenza,

tutti quelli che lo circondavano non capivano o non

volevano capirlo, e pensavano che tutto, al mondo,

andasse come prima”134. Solo sul letto di morte arriva ad

interrogarsi sul senso che la sua vita ha avuto, e

scopre che il giudizio positivo su questo senso non

dipende dall’aver trovato in ogni sua azione il consenso

degli altri, della società, ma nel non aver vissuto come

avrebbe dovuto. Ciò che avrebbe potuto salvarlo e fare

della sua esistenza un’esistenza felice sarebbe dovuta

essere un’esperienza del rapporto con gli altri non

improntata all’inautenticità, alla correttezza e al

decoro, ma all’autenticità dell’azione morale. Ivàn

Il’ič non riesce però a sciogliere «l’enigma della vita e della

morte»135, ne rimane prigioniero e per questo muore.

II.2.2. L’etico sfonda il contesto linguistico

ordinario e ne mostra il senso, la direzione. La

felicità o l’infelicità del soggetto della volontà, di

quell’Io che non è oggetto ma limite del mondo, della

totalità dei fatti, dipende dalla relazione che egli

intrattiene con questa totalità: “Se il volere buono o

cattivo altera il mondo, esso può alterare solo i limiti

del mondo, non i fatti, non ciò che può essere espresso

dal linguaggio. In breve, il mondo allora deve perciò

divenire un altro mondo. Esso deve, per così dire,

134 L. TOLSTOJ, La morte Ivàn Il’ič, in op. cit., p.365.135 Ivi, p. 392.

118

decrescere o crescere in toto. Il mondo del felice è un

altro mondo che quello dell’infelice”136. Così la

libertà del soggetto della volontà dipende da come

questo soggetto guardi al mondo, dalla posizione del

limite del mondo. Mutatis mutandis, la stessa prospettiva

sull’argomento, Wittgenstein la riproporrà nelle sue

Lezioni sulla libertà del volere, tenute a Cambridge nel 1939,

delle quali siamo a conoscenza grazie agli appunti presi

da Yorick Smythies. Analizzando i giochi linguistici dai

quali rileviamo la questione della libertà del volere

umano o del determinismo, Wittgenstein perviene ad una

dissoluzione del problema consistente nella prospettiva

per la quale, giudicando un’azione come libera o come il

risultato di una costrizione, noi adottiamo in realtà

modelli grammaticali diversi di descrizione dei fatti:

Sembra come se, se siete fortemente colpiti dalla

responsabilità che un essere umano ha per le sue azioni,

tendiate a dire che queste azioni e scelte non possono

seguire leggi naturali. E all’opposto, se tendete molto

fortemente a dire che esse seguono leggi naturali, allora

tendete a dire: «non posso essere ritenuto responsabile per

la mia scelta». Che abbiate questa tendenza, dovrei dire, è

un fatto di psicologia. 137

136 L. WITTGENSTEIN, Tractatus, op. cit., 6.43, p. 107.137 L. WITTGENSTEIN, Causa ed effetto seguito da Lezioni sulla libertà del volere, op. cit., p.65.

119

Ebbene in alcune occasioni, quando ad esempio vogliamo

sottolineare il carattere morale di un’azione, tendiamo

ad adottare il modello di descrizione che insiste sulla

libertà del volere, dicendo che quell’uomo ha agito

spontaneamente. Nulla poi vieta che i nostri giochi

linguistici possano sposare contemporaneamente i due

modelli grammaticali, per cui l’indipendenza della

totalità dei fatti, del mondo non implica un’azione

necessitante nei confronti della libertà delle azioni

del soggetto. È il caso questo, dice Wittgenstein, della

morale paolina: “San Paolo dice che Dio ha fatto di te

un vaso d’ira o un vaso di grazia, e tuttavia che tu sei

responsabile”138. Se un’azione sia libera o meno, quindi,

dipende dalla grammatica delle parole che la descrivono.

L’insensatezza di “ciò che è più profondo” così come

l’infondatezza delle proposizioni grammaticali che fanno

da sostegno ai nostri giudizi mostrano quella che è la

trama di fondo dell’intera riflessione wittgensteiniana,

l’azione etica della sua filosofia. Dobbiamo liberarci

delle parole di cui Wittgenstein si serve per

raggiungere una rappresentazione chiara del nostro modo

di parlare e quindi di agire, dobbiamo lasciarci toccare

da quella esperienza etica rappresentata dalla sua

stessa riflessione. L’etica non può essere una scienza

sistematica, il suo peso è tale che espressa nel

138 Ivi, p. 70.

120

linguaggio significante lo svuoterebbe di tutte le sue

funzioni empiriche ed ordinarie:

L’etica, se è qualcosa, è soprannaturale, mentre le nostre

parole potranno esprimere solamente fatti; così come una

tazza contiene solo la quantità d’acqua che la riempie fino

all’orlo, e io ne facessi versare un ettolitro. 139

All’autore che vuole intraprendere una “critica del

linguaggio” che mostri dall’interno i limiti del

dicibile, non rimane che abbandonare le parole con cui

ha strutturato la critica per agire nella direzione che

egli stesso ha indicato. In questo senso il compito di

una buona filosofia è quello di mostrare la trasparenza

delle condizioni di sensatezza del linguaggio. E questa

è già per se stessa un’azione etica la cui contropartita

è il silenzio. L’esperienza esistenziale di Wittgenstein

dimostra come egli diede un esito concreto a queste

conclusioni, quando alla fine della Prima guerra

mondiale decise di abbandonare la filosofia accademica

per dedicarsi, a partire dal settembre del 1920,

all’insegnamento elementare nella bassa Austria. È

curioso riscontrare in questa scelta un parallelo

biografico con Tolstoj, che nell’inferno della trincea

era stato per lui una lettura salvifica. Anche lo

scrittore russo, di ritorno da quella che fu una delle

prime guerre combattute con i metodi e la crudeltà delle139 L. WITTGENSTEIN, Lezioni e conversazioni, op. cit., p. 11.

121

guerre contemporanee, la guerra di Crimea, aprì

nell’autunno 1859 una scuola per i ragazzi di Jasnaja

Poljana. Probabilmente Wittgenstein visse questa

esperienza, peraltro fallimentare, dal momento che i

suoi metodi a volte bruschi nei confronti dei bambini

non erano apprezzati dai genitori, con uno spirito

decisamente “tolstojano”. Il bisogno di comunicare la

propria esperienza etica nell’attività di insegnante,

trova un riscontro nell’antintellettualismo di Tolstoj

nei confronti delle teorie pedagogiche, positiviste,

dell’Ottocento: “Negli articoli che pubblicò sulla

rivista «Jasnaja Poljana», Tolstoj negò la possibilità di

costruire una scienza pedagogica, come poi avrebbe

negato un’arte della guerra, e con scherno felice derise

ogni tentativo della ragione di imporre una regola alla

varietà della vita”140.

Ciò che nelle valutazioni del “Tractatus” e del “periodo

del silenzio” (quello che va dall’inizio degli anni

Venti al 1929, l’anno del ritorno a Cambridge) deve

essere tenuto in considerazione è l’influenza che la

Stimmung viennese, la Prima guerra mondiale e la

“riscoperta” di Tolstoj ebbero sul giovane Wittgenstein.

Il silenzio colmo di significato con cui Wittgenstein

chiudeva il “Tractatus” si trovava in armonia con la

battaglia culturale di critica dei linguaggi espressivi

corrotti che univa lo spettro culturale viennese e

140 P. CITATI, Tolstoj, Adelphi, Milano 1996, p. 76.

122

trovava un compimento esistenziale in alcune scelte che

il filosofo austriaco prese dopo aver vissuto da

volontario il trauma della guerra e che potremmo

definire “tolstojane”.

Il primo incontro tra Wittgenstein e le opere di Tolstoj

avvenne nella casa paterna di Allegasse a Vienna. Il

giovane Wittgenstein poteva leggere, infatti, tutta

quella letteratura dotata di una chiarezza della forma e

dei contenuti tale da risultare gradita ai gusti

estetici molto raffinati e decisamente poco borghesi

della sua famiglia. Solo in questo tipo di letteratura i

Wittgenstein pensavano che si sarebbero potuti trovare

quegli stimoli al miglioramento di sé, quella tensione

alla perfezione che faceva tutt’uno con un senso di

appartenenza e sacrificio per la propria comunità, nella

quale diventa umana la vita di ogni individuo.

Ma il vero incontro avvenne sotto le armi. All’inizio

della Prima guerra mondiale Wittgenstein si arruolò come

volontario nell’esercito austriaco. Anche Tolstoj aveva

combattuto una guerra non meno cruenta, la guerra di

Crimea. Assegnato alla terza batteria leggera della

quattordicesima Brigata di artiglieria dell’esercito

zarista, lo scrittore russo lì compose quei “Racconti di

Sebastopoli” in cui l’esperienza della guerra è così

crudamente rappresentata, l’esercito russo è tal punto

spogliato di quel pomposo eroismo che la letteratura

123

patriottica gli attribuiva, da essersi guadagnati la

censura di alcune parti.

Inizialmente destinato alle retrovie, prima sul battello

Goplana in pattugliamento sulla Vistola, poi in

un’officina d’artiglieria a Cracovia, il filosofo

austriaco chiese e ottenne di essere trasferito come

soldato semplice sul fronte orientale. Con la stessa

cieca ostinazione del Michele Kohlhaas di Kleist,

Wittgenstein cercò intenzionalmente il confronto con

l’esperienza della morte. Un’esperienza che diede un

nuovo orientamento a tutta la sua riflessione sul

linguaggio, sui suoi limiti, sulla logica. La presenza

della morte fu il fenomeno che permise a Wittgenstein di

trovare quel filo rosso con cui tenere insieme le

proprie ansie, la profonda inquietudine espressa da una

continua esigenza di perfezionamento, e il senso del suo

lavoro in logica. O meglio «[…] la persistente aspirazione al

raggiungimento della decenza morale (Anständigkeit), la mancata

acquisizione di uno sguardo complessivo (Überblick) che raccogliesse le

manifestazioni disperse e frammentarie della vita in una visione perspicua.

Alla base di questa esperienza integrale c’era in Wittgenstein il

fondamentale bisogno della confessione. Sich sammeln: racogliersi,

prendersi per così dire in mano per esprimere unicamente quello che si

è»141.

Fu sul fronte orientale che il filosofo austriaco iniziò

a leggere senza sosta il “Riassunto del Vangelo” di Tolstoj,

141 A. G. GARGANI, Il coraggio di essere, introd. a L.WITTGENSTEIN, Diari segreti, ed. it. a cura di F. Funtò Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 6-7.

124

tanto da essere soprannominato dai suoi commilitoni

“l’uomo del Vangelo”. Nei primi mesi in prima linea il

sostegno spirituale che Wittgenstein trasse da questa

lettura divenne fondamentale per la sua sopravvivenza.

In quest’opera egli riscontrò quella idea sul soggetto

dell’etica, sull’Io come limite del mondo, che avrebbe

formalizzato in seguito nel “Tractatus”. L’idea cioè per

cui in una visione religiosa, cristiana, del mondo

l’interiorità dell’uomo garantisse la libertà, perché

essa diviene nell’atteggiamento etico del soggetto,

indipendente dai rischi corsi dall’esteriorità, dal

corpo:

Il mondo mi è dato, vale a dire la mia volontà si volge al

mondo completamente dal di fuori, come a un fatto compiuto.

[…] Quindi abbiamo la sensazione d’essere dipendenti da una

volontà estranea. […] Dal fato posso rendermi indipendente.

Vi sono due divinità: il mondo ed il mio Io indipendente. Io

sono o felice o infelice, questo è tutto. Si può dire: bene o

male non v’è. Chi è felice non deve aver timore. Neppure

della morte. […] Il timore della morte è il miglior segno

d’una vita falsa, cioè cattiva.142

Non dipendere soltanto dal mondo esterno, e allora non ti

sarà necessario temere ciò che in esso accade. Stanotte ho

sevizio di guardia. È più facile rendersi indipendenti dalle

142 L. WITTGENSTEIN, Tractatus e Quaderni 1914-1916, op. cit., annotazione dell’ 8/7/16, p. 219.

125

cose che dagli uomini. Ma anche questo si deve riuscire ad

ottenere! 143

II.2.3. Fu probabilmente l’esigenza di vivere

autenticamente, di non aver paura della morte, che mosse

Wittgenstein ad uno dei gesti più clamorosi per

l’ambiente sociale in cui viveva. Nel settembre del

1919, dopo il suo rilascio dal campo di prigionia di

Montecassino, il filosofo ritornò a Vienna dove alienò

ai fratelli la ricca eredità paterna. Questa rinuncia

all’eredità possiede un valore simbolico decisamente

significativo. Essa rientra a pieno titolo fra quelle

esperienze esistenziali che avvicinano la parabola

biografica wittgensteiniana a quella di Tolstoj. Ma in

un certo senso la cifra simbolica della rinuncia

all’eredità paterna rappresenta, sul piano

dell’esperienza filosofica di Wittgenstein, la rinuncia

ad un determinato modo di affrontare le questioni

filosofiche. La rinuncia quindi ad una certa tradizione,

quella che si interroga su questioni attraverso immagini

e concetti che sono il retaggio di un certo modo di

parlare e quindi di vivere:

Si sente continuamente l’osservazione che la filosofia

propriamente non fa alcun progresso, e che noi ci occupiamo

143 L. WITTGENSTEIN, Diari segreti, op. cit., annotazione del 4.11.1914, p. 76.

126

ancora degli stessi problemi di cui si occupavano già i

Greci. Ma chi dice questo non capisce la ragione per cui

è //deve essere// così. La ragione è che il nostro linguaggio

è lo stesso e che ci induce a porre sempre ancora le stesse

domande. Finché ci sarà un verbo “essere” che sembra

funzionare come “mangiare” e “bere”, finché ci saranno

aggettivi come “identico”, “vero”, “falso”, “possibile”,

finché si parlerà dello scorrere del tempo e dell’estensione

dello spazio, e così via, fino ad allora gli uomini

incapperanno nelle stesse misteriose difficoltà, e si

fisseranno su ciò che nessuna spiegazione sembra poter

rimuovere.

E ciò soddisfa, tra l’altro, un’aspirazione verso il

soprannaturale //trascendente//; infatti, mentre credono di

vedere i “limiti dell’intelletto umano”, naturalmente credono

di poter vedere al di là di ciò.

Leggo: “…. philosophers are no nearer to the meaning of

“Reality” than Plato got…..”. Che stranezza. Com’è strano che

Platone potesse comunque andare così avanti! Oppure, che noi

non siamo potuti andare oltre! È stato perché Platone era così

intelligente?144

Nella rinuncia al lessico della filosofia tradizionale,

la cui natura dogmatica appartiene tanto a quella

metafisica propria della tradizione classica e della

teologia, quanto a quella “metafisica della scienza”

insita nell’idea di progresso sui problemi scientifici

interna al positivismo e al neopositivismo,

144 L. WITTGENSTEIN, Filosofia, op. cit., pp. 57-59.

127

Wittgenstein rinuncia ad uno sguardo sulla realtà che si

serva di modelli (essere, vero, falso, possibile, tempo,

spazio) con cui le nostre più profonde inquietudini

vengono sublimate in “misteriose difficoltà”. All’umiltà

della filosofia dogmatica, alla rassicurante

“aspirazione verso il soprannaturale” il filosofo

austriaco oppone una trasformazione immanente al

linguaggio dei problemi filosofici, che ne dirada

l’alone di problematicità.

Dunque il carattere di questa rinuncia, il carattere

profondo della tanto celebrata “svolta linguistica”, non

risiede in una riorganizzazione strategica degli

investimenti teorici, ma ancora una volta in un bisogno

etico, quello del ritorno delle parole alla loro patria

(Heimat) e del filosofo al loro uso quotidiano, cioè alla

forma di vita. Una rinuncia che non è ripiegamento su se

stessi, su quello che Gargani definisce un “uso

intransitivo” del linguaggio145, ma che invece si colora

dell’apertura del filosofo al mondo, alla semplicità

carica di espressione, con cui le parole vengono giocate

nei contesti quotidiani.

Una rinuncia di segno opposto a quella del Padre Sergij

di Tolstoj. Il protagonista di questo racconto del 1891,

il principe Stepàn Kasatskij, è un giovane bello e

ambizioso il quale rinuncia al mondo, abbracciando il

monachesimo, in seguito ad un episodio lesivo del suo

145 Cfr. A.G.GARGANI, Wittgenstein, op. cit., p. 70.

128

smisurato orgoglio: la donna alla quale aveva chiesto la

mano era già stata amante dello zar. Il passaggio, però,

dal culto pedissequo delle formalità mondane

all’acritica adesione alla vita monastica, con cui il

giovane principe si trasforma lentamente nel venerando

Padre Sergij, non elimina il bisogno di emergere nel suo

ambiente espresso nell’ansia di farsi accettare dal

sovrano: “[…] ma dentro di lui si andava svolgendo un

lavorìo complesso e carico di tensione. Questo lavorìo

sin dagli anni dell’infanzia era andato assumendo, in

apparenza, le forme più diverse, ma in sostanza era

rimasto sempre il medesimo, ed era sempre consistito

nello sforzo di raggiunger sempre, in qualsiasi cosa

ch’egli si trovasse a fare, una tal perfezione e un tal

successo da suscitare le lodi e l’ammirazione della

gente”146. Le tensioni irrisolte della sua vita di

preghiera sono rappresentate da Tolstoj nella lotta tra

la carne e lo spirito, tra il corpo e l’anima. Come il

filosofo dogmatico, la cui razionalità discriminatrice

sublima le inquietudini vitali in immagini binarie quali

interno/esterno, diretto/indiretto,

profondità/superficie, così anche Padre Sergij

cristallizza le proprie pulsioni vitali in un rigido

ascetismo che non le risolve. Ma che, anzi, ne accelera

la tensione distruttrice: “La sua vita era difficile.

Non per le fatiche del digiuno e della preghiera, che

146 L. TOLSTOJ, Padre Sergij in Tutti i Racconti, op. cit., Volume secondo, pp. 684-685.

129

non erano fatiche, ma per la lotta interiore, che egli

non si era affatto aspettato di dover combattere lì. Due

erano le cause di questa lotta: il dubbio e la bramosia

carnale”147. La tensione giunge al culmine con

l’incombere sulla vita ritirata del monaco, di quella

che Tolstoj chiama “la tentazione della donna”. La

Màkovkina, rappresentazione del femmineo moderno,

raggiunge l’eremo di Padre Sergij con l’obiettivo di

vincere la propria noia, mettendone alla prova la

castità. Di fronte alla forza seducente della donna il

monaco risolve tragicamente la situazione: amputa

l’indice della propria mano sinistra e con ciò si illude

di aver eliminato simbolicamente la propria corporeità.

S’illude perché lentamente scivola in una vita

esclusivamente spirituale in cui il corpo, la carne,

gioca il ruolo del rimosso pronto ad un ritorno

violento. Nel momento in cui la vita dello spirito si

manifesta in guarigioni miracolose che spingono decine

di pellegrini al suo eremo, padre Sergij ritorna a

sentirsi esposto, con una forza sempre più trascinante,

alle seduzioni dell’esteriorità, del corpo, della carne:

“Era cominciata dopo la guarigione di quel ragazzo

quattordicenne, e da allora di mese in mese, di

settimana in settimana, di giorno in giorno Sergij aveva

sentito come la sua vita interiore si venisse

distruggendo, per lasciar posto a una tutta esteriore.

147 Ivi, p. 702.

130

Era come se l’avessero rivoltato, facendo diventar

l’interno l’esterno”148.

L’epilogo del racconto è segnato da questa incapacità

risolutiva del personaggio di Tolstoj. Padre Sergij

ricade nella spirale del desiderio sessuale, questa

volta nei confronti di una ragazzina, probabilmente

malata di mente, condotta da lui nella notte per essere

guarita. La reazione del monaco esprime quella rinuncia

al mondo che Tolstoj stesso visse nella sua maturità, di

segno opposto alla simbolica rinuncia all’eredità

paterna di Wittgenstein. Dopo la caduta, Sergij fugge

dal suo eremo alla ricerca, inizialmente inconsapevole,

di una lontana parente incarnazione di una semplicità e

di una purezza estranee alla sua mente. In questo modo

Sergij si condanna ad un silenzio che è incapacità di

uscire dalla trappola metafisica in cui i dualismi della

ragione lo hanno intrappolato.

In parte questo è stato anche il destino di Tolstoj. Le

sue violente crisi morali che lo portarono a fuggire da

casa diverse volte, e durante una delle quali morì,

significano proprio questo senso di frustrazione dettato

dall’insufficienza della vita della spirito, una vita

profonda e inaccessibile all’altro, fosse inconciliabile

con i suoi ideali di solidarietà e fratellanza

universale. L’antiintellettualismo di Tolstoj, la scelta

di un cristianesimo popolare, manca di quell’apertura

148 Ivi, p. 715.

131

alla forma di vita, di quel silenzio carico di

significato, che invece fu la soluzione wittgensteiniana

al problema della vita. Certo, non può passare in

secondo piano che «l’antiintellettualismo dello scrittore russo e la sua

ripugnanza per la spiegazione teologica esitano nell’esortazione ad

accettare e seguire, avendola riconosciuta, nell’insegnamento cristiano

una “regola” donatrice di senso. E – passo ulteriore – a seguirla con

passione, convinto che questa forma di evoluzione conduca ad una vita

giusta. Il modello sognato – e messo in pratica da Tolstoj – si inspira alla

“vita semplice” dei contadini, a una vita legata alla natura e al ciclo

stagionale»149. Ma in questo riconoscimento della semplicità

salvifica del cristianesimo Tolstoj compie una rinuncia

ad un aspetto della realtà, quello corporeo, esterno, di

superficie cui invece la dissoluzione del problema della

vita di Wittgenstein non rinuncia: “La gioia per i miei

pensieri è la gioia per la strana vita che mi è propria.

È, questo, gioia di vivere?”150. L’atteggiamento etico di

Wittgenstein è un atteggiamento antitragico, un

superamento della realtà divisa, segmentata,

conflittuale del linguaggio filosofico.

Il suo rapporto con il mondo è agli antipodi di quello

che il principe Andréj, in “Guerra e pace” vive dopo la

battaglia di Austerlitz, simbolo dei limiti della

riflessione teorica di Tolstoj sul problema della vita:

“Forse, tu hai ragione per te, - seguitò dopo un po’ di

149 A. GRIECO, Una vita cattiva è una vita irrazionale, in Wittgenstein politico, op. cit., p. 171.150 L. WITTGENSTEIN, Pensieri diversi, op. cit., p. 53.

132

silenzio; - ma ciascuno vive a modo suo: tu hai vissuto

per te e dici che con questo per poco non hai rovinato

la tua vita e hai riconosciuto la felicità solo quando

ti sei messo a vivere per gli altri. E io ho provato il

contrario. Io ho vissuto per la gloria. ( E che è poi la

gloria? È lo stesso amore verso gli altri, il desiderio

di far qualcosa per loro, il desiderio delle loro lodi).

Così ho vissuto per gli altri e non ho quasi rovinato,

ma totalmente rovinato la mia vita. E sono qui

tranquillo da quando vivo per me solo”151. Tra l’io del

principe Andréj e gli altri esiste una barriera

insuperabile che si dà in un certo uso del linguaggio,

in un certo modo d’agire staccato dalla concretezza del

reale, dal quotidiano. La vita dello spirito ha bisogno

di un al di là, di una dimensione trascendente, perché

nell’immanente rimane intrappolata nella prigione del

corpo. Compito della filosofia è invece, secondo

Wittgenstein, quello di dissolvere la contrapposizione

tra un interno ed un esterno, tra un’anima e un corpo,

tra l’Io del solipsista e la realtà esterna del

realista. E dimostrarne in questo modo il rischio

intrinseco, quello di voltare le spalle alla forma di

vita, dell’intrappolamento: “Qual è il tuo scopo in

filosofia? – Indicare alla mosca la via d’uscita dalla

trappola”152.

151 L. TOLSTOJ, Guerra e pace, tr. it. a cura E. Carafa d’Andria, Einaudi, Torino 1990, Libro II parte II cap. XI, p. 446.152 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, op. cit., I, § 309, p. 137.

133

Questo superamento è al centro della sua elaborazione

filosofica. Ma viene visto da posizioni differenti, da

prospettive distinte. Se il giovane Wittgenstein crede

che la chiarezza del linguaggio filosofico sia

d’importanza capitale per delimitare le condizioni di

possibilità del linguaggio significante, il Wittgenstein

della maturità rinuncia alla trasparenza di tutto il

terreno su cui innestiamo le parole, per illuminarne, di

volta in volta, solo alcune parti. La propria esperienza

esistenziale, la vita, dimostra al filosofo austriaco

che anche vedere completamente la forma logica, questo

deus ex machina delle operazioni linguistiche, è

un’illusione altrettanto pericolosa come il

funzionamento a vuoto del linguaggio filosofico. La

forma logica è una pericolosa illusione tanto quanto lo

è il deus absconditus del principe Andréj che conferisce

senso alle insensate sofferenze del rapporto tra

l’individuo e gli altri. Il filosofo avverte che

camminare sulla “lastra di ghiaccio” della forma logica

è impossibile senza l’ “attrito” dovuto alle

imperfezioni dei giochi linguistici quotidiani153.

Guardare a queste imperfezioni come all’elemento vitale

dell’espressione linguistica, del nostro modo di vivere,

della forma di vita; è questo in ultima istanza il senso

profondo dell’atteggiamento antitragico che Wittgenstein

vuole intrattenere con il mondo: “Nel cristianesimo è

153 Cfr. Ivi, I, § 107, p. 65.

134

come se il buon Dio dicesse agli uomini: non fate

tragedie, cioè paradiso e inferno sulla terra. Paradiso

e inferno me li sono riservati io”154.

II.2.4. La lotta tra carne e spirito inscenata da

Tolstoj è il risultato di quella distinzione tra

interiorità ed esteriorità che Wittgenstein aveva

affrontato a proposito dell’espressione del dolore, o di

altri stati interni come i sentimenti. Abbiamo visto nel

precedente capitolo che queste distinzioni sono il

risultato di un particolare modo di porsi le questioni

filosofiche, quella metafisica della prima persona, che

fa dell’accesso privilegiato dell’io alla conoscenza dei

propri stati interni, l’elemento su cui costruire una

significativa asimmetria tra la prima e la terza

persona, tra l’io e l’altro. Questa tradizione

filosofica ha quindi contribuito, da un punto di vista

teorico, al rigetto del corpo umano quale organo della

conoscenza reale, per relegarlo nell’ambito

dell’apparenza, delle qualità secondarie. La metafisica

della prima persona ha invece investito ciò che

Wittgenstein chiama il “mentale”, l’anima, la res

cogitans, l’Io penso, del compito di conoscere la realtà

concettuale, vera. Ma la conoscenza della realtà per la

mente è sempre mediata dall’esperienza sensoriale,

spazio-temporalmente localizzata del corpo. Il risultato

154 L. WITTGENSTEIN, Pensieri diversi, op. cit., p. 39.

135

è stato quella scomposizione tragica della realtà che ha

nelle distinzioni tra interno/esterno,

diretto/indiretto, profondità/superficie le sue

conseguenze più importanti. Ma soprattutto la

gerarchizzazione delle facoltà conoscitive secondo uno

schema che privilegi l’intelletto o la ragione, facoltà

espressioni del mentale, a scapito dell’immaginazione,

facoltà associata all’esperienza sensoriale, quindi al

corpo.

Del resto l’avvento di questa distinzione è ben evidente

nella storia della scienza moderna, che, a partire dal

XVII secolo, con la sua strutturazione meccanicistica,

ha scisso il sapere dal senso comune. L’uomo della

strada perde la visibilità della natura. L’esperienza

ordinaria viene adesso degradata ad una conoscenza

acquisita senza lo sforzo della ricerca, delle ipotesi e

delle prove; relitto di un sapere illusorio ma non per

questo inutile al soddisfacimento dei bisogni

quotidiani. Il sapere si stacca dal senso comune e

persegue obiettivi autonomi da implicazioni pratiche e

in questo modo si espone a disagi e inquietudini che

sono il risultato di questa chiusura. L’importante

contributo di Wittgenstein alla questione consiste

indubbiamente nell’aver riservato all’attività

filosofica il compito di eliminare questi disagi, queste

inquietudini profonde attraverso la consapevolezza che

nei problemi filosofici (problemi interni anche a un

136

certo tipo di scienza) ci facciamo abbagliare da alcune

analogie del linguaggio, staccandoci così dalla vita

pratica:

È degno di nota che nella vita quotidiana non abbiamo mai la

sensazione che il fenomeno [Phänomen] ci sfugga, non sentiamo

il flusso costante dell’apparenza [Erscheinung], ma ciò accade

solo quando filosofiamo. Ciò significa che qui si tratta di

un pensiero che ci viene suggerito da un impiego sbagliato

del nostro linguaggio.155

Le inquietudini scompaiono solo attraverso un uso

consapevole di quei giochi linguistici nei quali ci

stacchiamo dalle nostre vicende quotidiane per fare

delle osservazioni generalizzate sull’esperienza, sulla

vita pratica. Ricondurre il sapere ad un fondamento

grammaticale è la prima mossa di Wittgenstein. La sua

seconda mossa consiste invece nell’aver riportato alla

luce il carattere grammaticale presente nelle nozioni

del senso comune, nel sapere popolare. In questo modo

quello che per la scienza moderna era stato un insieme

di espressioni cognitive naturali, immediate,

preteoriche da cui emanciparsi attraverso la teoria, è

presentato come un insieme di proposizioni grammaticali,

la certezza delle quali non è il risultato di una

conoscenza immediata ma lo sfondo infondato su cui

converge una forma di vita. Quello di Wittgenstein è

155 L. WITTGENSTEIN, Filosofia, op. cit., pp. 67-69.

137

dunque un lavoro di indicazione di un ordine pre-

cognitivo, infondato, del qual possiamo asserire

semplicemente l’esistenza ma che rimane come sfondo

della varietà dei nostri giochi linguistici.

In questo sforzo di valorizzazione della molteplicità

dei contesti linguistici che si accompagna ad un

demolition job di critica ai contesti vuoti dell’uso

metafisico delle parole è possibile ravvisare una

decisiva tensione etica. «Infatti, riconoscendo le diverse

applicazioni e conseguentemente i diversi significati di una parola, e

praticando l’attività connessa consistente nello sviluppo di una sequenza di

significati secondari a partire da un significato primario, Wittgenstein

coinvolge un atteggiamento etico già presente nel Tractatus; secondo il

quale un soggetto è etico nella misura in cui è riconciliato con il mondo

assunto come una totalità» così come «[…] nelle opere della seconda

maniera Wittgenstein delinea un atteggiamento etico centrato sul

riconoscimento della varietà dei possibili usi delle parole»156.

Vedere e agire nel mondo eticamente vuol dire essere

parte responsabile di una totalità, di una forma di

vita, dissolvere quindi la barriera metafisica tra

esterno ed interno, tra corpo e anima, tra materia e

spirito. Attraverso una conversione grammaticale della

psiche e dell’ontologia:

Che non ci facciamo caso quando ci guardiamo intorno, quando

guardiamo in giro nello spazio, sentiamo il nostro corpo,

ecc., ecc., mostra come proprio queste cose siano naturali156 A. G. GARGANI, Wittgenstein, op. cit., pp. 135-136.

138

per noi. […] Volevo dire che è degno di nota che quelli che

attribuiscono realtà solo alle cose [Dingen], e non alle

nostre rappresentazioni [Vorstellungen], si muovano con tanta

naturalezza nel mondo della rappresentazione e non guardino

mai al di fuori di esso. […] Questa cosa ovvia, la vita,

dovrebbe essere qualcosa di accidentale, di secondario;

mentre ciò di cui normalmente non mi do mai pensiero dovrebbe

essere la cosa vera! […] L’ovvietà del mondo si esprime

proprio in questo: che il linguaggio significa soltanto il

mondo, e può significare soltanto il mondo. 157

La libertà dalla paura della morte che il giovane

Wittgenstein vide nella lettura del “Riassunto del Vangelo”

di Tolstoj, non si risolve in un’indipendenza

dell’interiorità rispetto al mondo esterno. Ma in uno

sforzo della volontà che è superamento di questa

contrapposizione, che è anche scioglimento grammaticale

di quella superficie, di quel corpo che filtra la

conoscenza del mondo esterno. Solo in questo modo,

attraverso un’attività filosofica che è principalmente

lavoro su se stessi, è possibile ricostruire il rapporto

con il mondo, quindi con gli altri, libero dalle

illusioni, dai sortilegi che il linguaggio ci gioca. Il

lavoro sulla volontà contribuisce alla nascita di un

nuovo soggetto per il quale l’altro non è la ragione

diretta di una sublimazione, quella della sua unicità e

imprevedibilità nel paradigma dell’Io, del soggetto

157 WITTGENSTEIN, Filosofia, op. cit., pp. 69-71.

139

della conoscenza, ma per il quale l’altro è parte di una

totalità alla quale anch’egli, consapevolmente,

partecipa. Potremmo trovare la rappresentazione di

questo nuovo Io, la cui psiche è radicata nella

grammatica dei nostri giochi linguistici, in un

personaggio di uno dei romanzi più amati dal filosofo

austriaco, lo starec Zosima dei “Fratelli Karamazov” di

Dostoevskij. Il monaco russo, guida spirituale dell’eroe

positivo del romanzo, possiede e trasmette la

comprensione intuitiva della psiche, dell’anima, altrui.

È in questo suo essere completamente umano, e non

nell’epifania divina del miracolo, che si esaurisce la

santità del personaggio dostoevskijano. Egli

rappresenta per Wittgenstein, si potrebbe dire, un

individuo dotato della visione psicologica “ideale”:

“Dello starec Zosima dicevano molti che, essendo venuto

per tant’anni a contatto con tutti coloro che venivano

ad aprirgli il loro cuore e a invocare il suo consiglio

e il balsamo della sua parola, una così gran quantità di

confessioni, di rimorsi, di autoaccuse fosse venuta a

raccogliersi nell’anima sua, da fargli acquistare alla

fine una sagacia così penetrante, che gli bastava

un’occhiata al viso dello sconosciuto per indovinare che

cosa fosse venuto a chiedergli, di che cosa avesse

bisogno, e perfino qual genere di afflizione tormentasse

la sua coscienza: tanto che meravigliava, turbava e a

volte quasi spaventava il sopravvenuto con una

140

conoscenza così precisa del suo segreto, prima che egli

avesse pronunciata una parola”158.

In Wittgenstein il superamento nella grammatica di una

psicologia e di un’ontologia di tipo metafisico non si

conclude però con l’assunzione di una metafisica degli

istinti o del corpo. Egli esce fuori dallo schema

binario dell’interno e dell’esterno, dell’anima e del

corpo.

In questo modo Wittgenstein è al di là del modo in cui

Tolstoj, si potrebbe dire, non risolve il problema. E

questo è particolarmente evidente in alcuni racconti

della fine degli anni Ottanta, in cui prevale quello che

potremmo definire il “tema dell’opacità del corpo”. Un

tema questo che riscontriamo anche in “Guerra e pace” e che

tocca alcuni dei problemi esistenziali dello stesso

autore. Perché la sessualità sofferta che caratterizza

questi racconti fu parte della stessa vita di Tolstoj.

Il corpo, nella ricerca della verità tolstojana, una

verità di tipo spirituale che ricerca il senso

dell’esistenza umana nella trasmissione del sentimento

religioso tra gli uomini, rappresenta un ostacolo. Come

una scatola all’interno della quale sono racchiusi i

nostri sentimenti, i desideri, le nostre emozioni, il

corpo è contraddistinto da un’opacità che si frappone

tra le anime e che ne impedisce un’unione spirituale,

superiore. Nella conoscenza che deriva dall’esperienza

158 F. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, tr. it. Einaudi, Torino 2005, Parte I Libro I, p. 40.

141

corporea, dalle sensazioni, Tolstoj individua

quell’apparenza, quel “flusso della rappresentazione”

che distoglie l’uomo dalla ricerca del senso della

propria esistenza. Così il principe Andréj prova un

senso di estraneità, una distanza quasi ascetica, di

fronte ai corpi nudi dei suoi soldati che, pochi giorni

prima della battaglia di Borodino, cercano ristoro in

uno stagno: “Sulle sponde, nello stagno, sulla diga,

dappertutto si vedeva quella carne bianca, sana,

muscolosa. Timochin, l’ufficiale dal piccolo naso rosso,

si stropicciava con un asciugamano sulla diga e si

vergognò vedendo il principe; pure si decise a

rivolgersi a lui. – Ci si sta bene, Eccellenza: se

voleste!... – disse. – È sudicia, - disse il principe

Andréj facendo una smorfia. […] «La carne, il corpo, la

chair à canon!» disse fra sé, guardando il suo corpo nudo, e

rabbrividiva non tanto per il freddo quanto per un

ribrezzo e un orrore che egli stesso non riusciva a

capire, alla vista di quella enorme quantità di corpi

sguazzanti nello stagno melmoso”159.

Ma l’ostacolo rappresentato dal corpo nei rapporti con

gli altri, siano essi legami di tipo familiare, siano

invece quelle relazioni effimere che caratterizzano

l’alta società russa, è il tema centrale di due racconti

la cui stesura si intreccia negli anni che dal 1889

159 L. TOLSTOJ, Guerra e pace, op. cit., Libro III Parte II cap. V, p. 826.

142

vanno al 1891. Si tratta de “La sonata a Kreutzer” e de “Il

diavolo”.

Al centro del primo troviamo un impietoso smascheramento

di quello che il matrimonio è diventato tra le classi

ricche nella società ottocentesca. Il suo protagonista è

il tormentato Pozdnyšev, un ricco proprietario terriero

che ha ucciso la moglie per gelosia. L’epilogo del

racconto non è altro che un corollario dell’esposizione

iniziale che il suo protagonista fa ad un uomo con il

quale si trova in treno, della natura del matrimonio

moderno; un’unione esclusivamente carnale alla quale

viene sovrapposta l’aureola del sentimentalismo, della

retorica artistica dell’amore: “Le donne, e

particolarmente quelle che sono passate per la scuola

dell’uomo sanno molto bene che i discorsi su argomenti

elevati sono discorsi, e che l’uomo ha bisogno del corpo

e di tutto ciò che lo mette in mostra nella luce più

ingannatrice, ma più attraente; e questo appunto è ciò

che si fa”160. Che l’amore non sia qualcosa di elevato,

ma di carnale e basso non dipende, osserverebbe

Wittgenstein, dall’educazione sentimentale ricevuta in

una società corrotta o dalla degenerazione dell’arte,

dall’assenza di sentimenti autentici, ma dalla stessa

prospettiva che porta a distinguere nei nostri giochi

linguistici tra un corpo, pura superficie, e un’anima

presente in esso, in profondità. Descriviamo le nostre

160 L. TOLSTOJ, La sonata a Kreutzer, tr. it. a cura di L. Ginzburg, Einaudi, Torino 2006, p. 29

143

sensazioni come oggetti della coscienza di un ego,

distinto dall’ ego della persona cui stiamo facendo la

descrizione:

Voglio descrivere una situazione in cui non sarei tentato di

dire che ho supposto o creduto che l’altro abbia ciò che io

ho; o, in altre parole, una situazione in cui non

[parleremmo] della mia coscienza e della sua coscienza. E in cui

non ci verrebbe l’idea che possiamo essere consapevoli solo

della nostra coscienza. L’idea, da abolire, di un ego che

abita in un corpo.

Qual[unque] coscienza [vi sia], se essa è diffusa in tutti i

corpi umani, allora non vi sarà alcuna tentazione di usare la

parola “ego”.161

L’inganno nel quale Pozdnyšev vive con sua moglie è la

barriera che questa distinzione, quella tra “la mia

coscienza” e “la sua coscienza”, crea nei rapporti tra

gli uomini. Roso dal tarlo della gelosia causata dalla

presenza in casa sua, durante un impegno che lo porta

lontano, di un affascinante musicista, Pozdnyšev non

riesce a chiarire la propria situazione: “Accesi una

sigaretta e, come capita quando ci si aggira in un

medesimo cerchio di contraddizioni insolubili, che si

fuma, fumavo una sigaretta dopo l’altra per annebbiarmi

la vista e non scorgere le contraddizioni”162. Sembra

allora che l’interno di una persona amata mi sia161 L. WITTGENSTEIN, Esperienza privata e dati di senso, op. cit., p. 25.162 L. TOLSTOJ, La sonata a Kreutzer, op. cit., p.104.

144

inaccessibile, che il possesso del suo corpo sia un

ripiegamento al quale sono necessitato

dall’impossibilità di comprenderne i sentimenti. Di

avere una conoscenza diretta delle sensazioni provate

dall’altro. Dal canto suo Wittgenstein sembra sostenere

che se la questione viene posta in questi termini essa

rimane insolubile. L’interno di un’altra persona non è

qualcosa che posso percepire direttamente perché è un

complesso di concetti, di idee con cui ci si riferisce

quando dalla reazione spontanea ai comportamenti

dell’altro passiamo alla riflessione:

Si presuppone sempre che la persona che sorride sia un essere

umano e non soltanto che ciò che sorride sia un corpo umano.

E si presuppongono anche determinate circostanze e relazioni

del sorridere con altre forme del comportamento. Ma se si

presuppone tutto questo, il sorriso di un altro mi è cosa

gradita. Se chiedo a qualcuno per strada un’informazione su

che strada devo prendere preferisco ricevere una risposta

gentile piuttosto che una sgarbata. Io reagisco

immediatamente al comportamento dell’altro. L’interno lo

presuppongo nella misura in cui presuppongo un essere umano.

L’ “interno” è un’illusione. E cioè: l’intero complesso di

idee al quale si allude con questa parola è come un sipario

dipinto calato davanti alla scena della vera applicazione

della parola.163

163 L. WITTGENSTEIN, Ultimi scritti. La filosofia della psicologia, op. cit., p. 236.

145

Il protagonista del racconto continua invece a sbattere

contro le pareti di questa trappola filosofica, non

riesce ad instaurare un rapporto autentico con la moglie

e all’arrivo dell’affascinante musicista la sua gelosia

esplode in un raptus di violenza domestica.

Lo stesso canovaccio è presente nell’altro racconto

citato, “Il diavolo”, scritto durante la stesura de “La

sonata a Kreutzer”. Anche in questo caso al centro della

narrazione troviamo un adulterio. Ma questa volta è il

protagonista , Irtenev, ad essere tentato di tradire la

moglie con una contadina che lavora nei suoi

possedimenti, Stepanida. Ciò che colpisce del racconto è

che il personaggio vive un vero e proprio sdoppiamento

della realtà, da un lato la vita dello spirito

rappresentata dalla moglie, donna angelicata, dall’altro

la tentazione della carne rappresentata da Stepanida,

donna leggera e sensuale: “Sì, due vite ho davanti,

adesso; una è quella che ho cominciato con Liza: tutto

quello che sto facendo per gli altri, e l’azienda, la

bambina, il rispetto della gente. Se questa dev’essere

la vita allora bisogna che lei, Stepanida, non ci sia

più. L’altra invece è proprio qui. Toglierla a suo

marito, dare a lui del denaro, dimenticare la vergogna e

il disonore e andare a vivere con lei”164.

Nella vicenda di Irtenev, il corpo, assume sempre più i

connotati di una macchina, incontrollabile, distinta

164 L. TOLSTOJ, Il diavolo in Tutti i Racconti, op. cit., pp. 1184-1185.

146

dall’anima. La tentazione continua cui la presenza del

corpo di Stepanida lo sottopone, porta Irtenev ad

un’estraneazione continua dal suo di corpo. Egli diventa

come un automa, animato da obiettivi sinistri: “Ma non

posso immaginare che gli uomini intorno a me siano

automi privi di coscienza anche se il loro comportamento

è lo stesso di sempre? – Se lo immagino ora – mentre

sono solo nella mia stanza – vedo la gente attendere

alle proprie faccende con lo sguardo fisso (come in

trance) – forse l’idea è un po’ sinistra. Ma prova a

mantenere ferma quest’idea nelle tue relazioni

quotidiane, per esempio quando sei per strada! Per

esempio, dì a te stesso: «Quei bambini là sono semplici

automi; la loro vivacità è puramente automatica», e

queste parole diventeranno del tutto insignificanti;

oppure si risveglierà in te una specie di sentimento

sinistro, o qualcosa del genere”165. Anche nel caso di

Irtenev non esiste una soluzione al problema filosofico

dell’anima e del corpo. O meglio Tosltoj propone in

questo racconto due finali, il primo che si conclude con

il suicidio del protagonista, il secondo che invece

culmina con l’assassinio di Stepanida, i quali

simbolizzano la sua incapacità a risolvere le proprie

inquietudini: “E in effetti, se Evgenij Irtenev era

malato di mente, allora tutti gli uomini sono malati di

mente quanto lui, e i più malati di mente sono

165 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, op. cit., I, § 420, p. 166.

147

indubbiamente coloro che negli altri uomini scorgono

sintomi di follia che non scorgono in se medesimi”166.

Irtenev, Pozdnyšev, Padre Sergij, in parte anche il

principe Andrèj e Ivàn Il’ič sono tutte maschere della

travagliata esperienza esistenziale di Tolstoj. La sua

sofferta individualità, il rapporto tormentato con la

propria sessualità, sono le ragioni delle sue improvvise

crisi di coscienza. Nell’ultima di queste crisi che lo

costrinse a lasciare Jasnaja Polijana, lo scrittore

russo, ammalatosi, trovò la morte nella piccola stazione

di Astapovo, dove si era rifugiato. I suoi ultimi

racconti in cui è riflessa questa travagliata esperienza

interiore rivelano la sua impotenza di fronte alle

inquietudini profonde suscitate da un uso metafisico

delle parole, sublimate in immagini della realtà.

Dualismi, strade alternative, in cui Tosltoj non riuscì

più a trovare l’unità del reale, quella totalità

comunicatagli dal sentimento religioso, dal suo

anarchismo. La rivolta di Tosltoj contro l’ordine

razionale superiore della dialettica da un lato, e

dell’ideologia del progresso, dall’altro, fu una rivolta

incompiuta. Come la mosca del § 309 delle “Ricerche

filosofiche” egli non riuscì a trovare, nella conversione

ad un cristianesimo popolare, in cui idealizzava la

vitalità del contadino russo, la via d’uscita dalla

trappola. Per farlo avrebbe dovuto rinunciare ad un modo

166 L. TOLSTOJ, Il diavolo in Tutti i Racconti, op. cit., pp. 1187-1188.

148

di vedere le cose, ad una prospettiva sulla realtà

insita in un modo di parlare, in un uso del linguaggio,

staccato dalla vita pratica. Come Kostantin Lèvin,

personaggio che ne è l’alter ego in “Anna Karenina”, anche

Tolstoj pensò di aver trovato nelle sue scelte

“evangeliche” la soluzione al problema della vita: “Mi

arrabbierò ugualmente con il cocchiere Ivàn, egualmente

discuterò, esprimerò a sproposito i miei pensieri, ci

sarà sempre lo stesso muro fra il sacrario della mia

anima e gli altri, e perfino con mia moglie, la

brontolerò egualmente per lo spavento che ho provato,

[…] ma ora la mia vita, tutta la mia vita, qualunque

cosa accada, in ogni suo momento, non solo non è priva

di senso come prima, ma ha un significato sicuro che le

deriva dal bene su cui io posso fondarla”167.

Egli non fu abbastanza forte da rinunciare a questo uso

del linguaggio, a individuare in una “trasformazione

dello sguardo” il compito di una filosofia onesta. Ma

come ha scritto P.Hadot: “Questo ritorno al «quotidiano»

mi sembra essere il movimento caratteristico del secondo

Wittgenstein. Vi vedrei volentieri una volontà di

semplicità e unità, di povertà in qualche modo

‘evangelica’, che poi molto si addice a colui che fu per

un momento discepolo di Tolstoj”168.

167 L. TOLSTOJ, Anna Karenina, tr. it. a cura di P. Zveteremich, Garzanti, Milano 1973, Vol. II, Parte VIII, cap. XIX, pp. 822-823.168 P. HADOT, Wittgenstein e i limiti del linguaggio, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 76.

149

La “brama di semplicità” che mosse tanto lo scrittore

russo nella teorizzazione e produzione di opere

letterarie universalmente condivisibili, quanto il

filosofo austriaco nell’opera etica di dissodamento del

linguaggio, rimase un’aspirazione incompiuta nel primo,

un invito a guardare al di là della sua riflessione nel

secondo.

150

Bibliografia

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Trinchero, Einaudi, Torino 1999.

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religiosa, a cura di M. Ranchetti, Adelphi, Milano 2005,

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- Lettere di Ludwig Wittgenstein con Ricordi, tr. it. di I.

Roncaglia Cherubini, La Nuova Italia, Firenze 1970.

- Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, tr. it. di S. de Waal,

Adelphi, Milano 2000.

- Note per la “Lezione filosofica”, tr. it. di T. Fracassi, in

aut aut, 304, 2001.

- Pensieri diversi, ed. it. a cura di M. Ranchetti, Adelphi,

Milano 2001.

151

- Osservazioni sulla filosofia della psicologia, tr. it. di R. De

Monticelli, Adelphi, Milano 1990, parte I.

- Diari segreti, ed. it. a cura di F. Funtò Laterza, Roma-

Bari 2001.

- Osservazioni filosofiche, tr. it. di M. Rosso, Einaudi,

Torino 1999, Premessa dell’autore, p. I.

- Ultimi scritti. La filosofia della psicologia, tr. it. di A.G.

Gargani e Barbara Agnese, Laterza, Roma-Bari 1998, parte

II, L’interno e l’esterno, pp. 157-246.

- Causa ed effetto seguito da Lezioni sulla libertà del volere, a cura di

A. Voltolini, Einaudi, Torino 2006.

- Esperienza privata e dati di senso, a cura di L. Perissinotto,

Einaudi, Torino 2007.

Testi di G. Orwell:

- Nel ventre della balena e altri saggi, a cura di S. Perrella,

Bompiani, Milano 2002.

- 1984, tr. it. a cura di S. Manferlotti, Mondatori,

Milano 2000.

Testi di L. Tolstoj:

152

- Che cos’è l’arte? in Scritti sull’arte, ed. it. Bollati

Boringhieri, Torino 1964, pp. 137-385.

- Tutti i Racconti, a cura di I. Sibaldi, Mondatori, Milano

1991.

- La sonata a Kreutzer, tr. it. a cura di L. Ginzburg,

Einaudi, Torino 2006.

- Anna Karenina, tr. it. a cura di P. Zveteremich,

Garzanti, Milano 1973.

- Guerra e pace, tr. it. a cura E. Carafa d’Andria,

Einaudi, Torino 1990.

Altri testi, saggi e articoli:

- H. ARENDT, L’umanità in tempi bui, in Antologia. Pensiero, azione e

critica nell’epoca dei totalitarismi, tr. it. a cura di L. Bollea,

Feltrinelli, Milano 2006, pp. 210-234.

- M. L. BARBERA, L’idea di trasformazione tra violenza e

nonviolenza, in “Annali della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università

di Siena”, Vol. XVI, 1995, pp. 135-154.

- S. BORUTTI, Wittgenstein impolitico? in Wittgenstein politico, a

cura di D. Sparti, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 127-

152.

- M. CACCIARI, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da

Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 57-98.

153

- S. CAVELL, Il tramonto al tramonto. Wittgenstein filosofo della

cultura, in Wittgenstein politico, a cura di D. Sparti,

Feltrinelli, Milano 2000, pp. 64-93.

- P. CITATI, Tolstoj, Adelphi, Milano 1996.

- R. DESCARTES, Meditazioni sulla filosofia prima, Seconda

meditazione, tr. it. a cura di G. Brianese, Mursia,

Milano 1994, pp. 58-68.

- P. DONATELLI, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari

1998.

- F. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, tr. it. Einaudi,

Torino 2005.

- P. ENGELMANN, Lettere di Ludwig Wittgenstein, tr. it. La Nuova

Italia, Firenze 1970.

- A.G. GARGANI, Wittgenstein. Musica, parola, gesto, Raffaello

Cortina Editore, Milano 2008.

- A.G. GARGANI, Il coraggio di essere, saggio introd. a

L.WITTGENSTEIN, Diari segreti, ed. it. a cura di F. Funtò

Laterza, Roma-Bari 2001. pp. 3-45.

- W. GOETHE, Faust, tr. it. Einaudi, Torino 1965.

- A. GRIECO, Una vita cattiva è una vita irrazionale, in Wittgenstein

politico, a cura di D. Sparti, Feltrinelli, Milano 2000, pp.

153-174.

- R. HALLER, L’egologia di Wittgenstein, in Wittgenstein e il

Novecento. Tra filosofia e psicologia, a cura di R. Egidi,

Donzelli, Roma 2002, pp. 143-166.

- P. HADOT, Wittgenstein e i limiti del linguaggio, tr. it. Bollati

Boringhieri, Torino 2007.

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- A. JANIK- S. TOULMIN, La grande Vienna, tr. it. Garzanti,

Milano 1975.

- B.F. Mc GUINNESS, Wittgenstein. Il giovane Ludwig (1889-1921),

tr. it. Il Saggiatore, Milano 1990.

- R. MONK, Ludwig Wittgenstein. Il dovere del genio, tr. it.

Bompiani, Milano 1991.

- G. E. MOORE, In difesa del senso comune in Saggi filosofici, tr.

it. Lampugnani Nigri, Milano 1970, pp. 21-52.

- R. RORTY, La filosofia dopo la filosofia, cap. 8 L’ultimo

intellettuale d’Europa: Orwell e la crudeltà, tr. it. Laterza, Roma-

Bari 1989, pp. 193-215.

- C. SCHORSKE, Vienna fin-de-siècle, tr. it. Bompiani, Milano

1981, pp. XI-XXIII.

- G.H. VON WRIGHT, Wittgenstein e il Novecento, in Wittgenstein e il

Novecento. Tra filosofia e psicologia, a cura di R. Egidi,

Donzelli, Roma 2002, pp. 17-43.

Filmografia

- Wittgenstein, un film di Derek Jarman con Michael Gough,

Tilda Swinton, Karl Johnson. Genere: Biografico,

produzione: Gran Bretagna 1993, Durata: 75 minuti circa.

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