Wittgenstein, Orwell e Tolstoj
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Transcript of Wittgenstein, Orwell e Tolstoj
“Ma se il senso della
realtà esiste, e
nessuno può mettere
in dubbio che la sua
esistenza sia
giustificata, allora
ci dev’essere anche
qualcosa che
chiameremo senso
della possibilità […]
Cosicché il senso
della possibilità si
potrebbe anche
definire come la
capacità di pensare
tutto quello che
potrebbe ugualmente
essere, e di non dar
maggiore importanza a
quello che è, che a
quello che non è.
Come si vede, le
conseguenze di tale
attitudine creativa
possono essere
notevoli, e purtroppo
non di rado fanno
apparire falso ciò
che gli uomini
ammirano, e lecito
ciò che essi vietano,
o magari indifferenti
e l’uno e l’altro.”
R. Musil - L’uomo senza
qualità
4
Introduzione……………………………………………………………………….p.7
I. “Nell’oscurità del tempo presente”: per un confronto
tra Wittgenstein e
Orwell…………………………………………………………………………….p.9
I.1. Filosofia ovvero
terapia…………………………………………….......p.10
I.2. “Facci esseri umani”: il problema
dell’accordo con la forma di vita......p.15
I.3. “Io scrivo quindi in realtà per alcuni
amici dispersi negli angoli del
mondo”: il rapporto problematico di
Wittgenstein con la
modernità
…………....................................................
..........................p.20
I.4. Oceania, bipensiero e neolingua: il
solipsismo di massa
di
“1984”……................................................
.........................................p.27
I.4.1. La dignità del senso comune:
l’ideologia del Socing in lotta con la
6
certezza…………………………………………….
……….........p.29
I.4.2. Un mondo di “superprivati”: l’età
della
solitudine………………………………………..
………………p.44
II. “La brama di semplicità”: brevi note sul rapporto
tra Wittgenstein e
Tolstoj…………………………………………………….……….…..........p.59
II.1. Etica e linguaggio: l’influenza di Tolstoj
sulla formazione del giovane
Wittgenstein…………………………………………………………...p.6
0
II.2. Oltre Tolstoj: la dissoluzione dei
problemi filosofici dei “Racconti”
secondo
Wittgenstein………………………………………………….p.67
Bibliografia…………………………………………………………..…………..p.91
Filmografia……………………………………………………………….……....p.94
7
Introduzione
Scrivere sulla filosofia di Wittgenstein è un compito
veramente arduo per chi inizia con lo scopo di poter
tener fermo un punto di vista generale sulla sua
riflessione. Proprio come il concetto di gioco
linguistico, essa è uno spazio della storia della
filosofia novecentesca di cui non si possono “indicare i
confini” ma al massimo se ne possono tracciare alcuni1.
Il presente lavoro non pretende dunque di esprimere dei
giudizi che definiscano e collochino nella storia del
pensiero la filosofia di Wittgenstein. Si tratta invece
di mettere in luce alcuni degli aspetti più rilevanti
del suo pensiero attraverso un confronto, svolto in due
tempi, con due scrittori estremamente diversi ma che
riecheggiano nelle opere del filosofo austriaco.
L’obiettivo è quello di far emergere da questo confronto
come alcuni dei contributi più rilevanti di Wittgenstein
al pensiero contemporaneo siano rintracciabili nella
filosofia della psicologia e nella riflessione
sull’etica. Lo studio che segue è dunque un lavoro di
lettura parallela tra testi diversi con cui si cerca di
1 Cfr. con L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, ed. it. a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1983, I, § 68, pp. 47-48.
9
costruire analogie, nessi, collegamenti che permettano
di gettare uno sguardo generale, ma non per questo
esauriente, sul contributo filosofico wittgensteiniano.
Nel primo capitolo un aspetto della filosofia di
Wittgenstein in particolare, la riflessione sulla
“certezza” e sulle nozioni del senso comune, che
interessò i suoi ultimi mesi di vita, viene letto
parallelamente ad un romanzo contemporaneo di queste
riflessioni, “1984” di G. Orwell. Vedremo come il modo
in cui Wittgenstein affronta il tema sembra essere
attraversato dalle stesse inquietudini che animano la
distopia orwelliana. Questo ci permetterà di
approfondire anche alcuni temi della filosofia della
psicologia wittgensteiniana, in particolar modo il
raggio di riflessioni che fanno capo al ruolo dell’
“esperienza privata” nell’espressione di sentimenti,
sensazioni, stati interni.
Il secondo capitolo, invece, pone al centro il rapporto
tra Wittgenstein e Tolstoj. Rapporto questo che non
interessò semplicemente l’esperienza esistenziale, la
biografia e i gusti letterari del filosofo austriaco. Ma
che può aiutare a comprendere ed illuminare alcuni
aspetti della sua filosofia quali l’indicibilità di
etica ed estetica e il rapporto dell’etica con alcuni
concetti che riguardano la filosofia della psicologia
dell’ultimo Wittgenstein. Dal confronto emerge come il
filosofo avesse trovato in alcune sue posizioni un
10
superamento dei problemi che, soprattutto negli ultimi
“Racconti” dello scrittore russo, rimangono
drammaticamente insoluti.
Per il primo capitolo i testi wittgensteiniani di
riferimento saranno soprattutto “Della Certezza” e gli
“Ultimi scritti” sulla filosofia della psicologia. Nel
secondo capitolo viene presa in considerazione diretta
una più ampia varietà di testi, ma soprattutto le
“Ricerche filosofiche” e il frammento del “Big Typescript” dal
titolo “Filosofia”.
11
I. “Nell’oscurità del tempo presente”: per un
confronto tra Wittgenstein e Orwell
Ogni testo, sia filosofico che letterario, non vive
staccato dal contesto storico, politico, sociale
dell’autore che lo ha prodotto. Come piante le cui
radici si nutrono delle sostanze vitali di cui un
terreno è ricco, così un testo si nutre e arricchisce lo
sfondo storico che lo ha generato. Persino un manuale di
istruzioni per un sofisticato elettrodomestico segue
questa regola. Avviene poi che alcune di queste piante,
seppur diverse, possono intrecciare le loro radici o
generare fiori somiglianti nell’aspetto e nel profumo.
Succede quindi che due testi la cui composizione è quasi
contemporanea, il cui sfondo culturale e storico è il
medesimo, i cui autori hanno esperienze formative ed
esistenziali tendenti allo stesso punto di fuga, si
riflettono l’uno nell’altro come in un gioco di specchi.
Scritto nel 1948, quello che è considerato il
capolavoro di George Orwell, “1984”, dialoga con una
serie di note che Wittgenstein scrisse nell’ultimo anno
e mezzo di vita2 nelle quali il tema ricorrente è la
2 L. WITTGENSTEIN, Della Certezza. L’analisi filosofica del senso comune, tr. it.di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1999, p.XXX.
12
“certezza” e che pertanto G.E.M. Anscombe e G.H. von
Wright decisero di pubblicare separatamente nel 1969 con
il titolo “On Certainty”. Non esistono aneddoti biografici
o testimonianze che Wittgenstein abbia letto il romanzo
di Orwell, ma è altamente improbabile che un uomo dai
gusti estetici sofisticati come il filosofo viennese, un
uomo colto della Vienna fin-de-siècle, potesse leggere un
romanzo destinato ad aprire un dibattito interno alla
sinistra europea ma privo di quel moralismo e di quel
distacco dell’autore che egli considerava essenziale
alla vera opera d’arte. Ma come le piante le cui radici
affondano nello stesso terreno, sia Wittgenstein che
Orwell condivisero qualcosa di più che l’essere
appartenuti alle generazioni vissute tra la Prima e la
Seconda guerra mondiale. Nato nel 1903, lo scrittore
inglese vivrà l’esperienza politica della guerra civile
spagnola con il disinganno e la rabbia dei trotzkìsti
degli anni Trenta. Lo stesso disinganno, la stessa
consapevolezza di vivere un’epoca di tramonto, forse il
tramonto del genere umano, attraversa le riflessioni di
Wittgenstein sul contesto politico e storico. Sebbene
appartenesse alla generazione segnata dalla Grande
Guerra, il filosofo austriaco condivise con Orwell il
senso di appartenenza ad un orizzonte culturale al
tramonto, la sensazione di trovarsi ad un punto di non
ritorno, di un cambiamento antropologico. Questo
parallelismo della loro esperienza esistenziale si
13
riflette anche in un elemento di somiglianza
rappresentato a mio parere da una forza di tensione
comune alle opere del filosofo e dello scrittore: un
comune impegno etico, una profonda percezione
dell’importanza che una scelta in ambito pratico può
avere nell’ambito teorico e viceversa.
Ovviamente con le dovute differenze, perché in Orwell la
filo-sofia è riflessa nell’impegno politico, nel bisogno di
aprire lo spazio privato della scrittura alla dimensione
pubblica della politica, come luogo alternativo di
critica e rivoluzione della realtà sociale. Vivere
l’esperienza politica come una luce che illumina e
trasforma l’esperienza artistica e individuale della
letteratura, è tale riconsiderazione del proprio ruolo
sociale che caratterizza la letteratura orwelliana. La
passione per l’esperienza descrittiva, per la
rappresentazione nella forma letteraria vengono così
riconsiderate, quasi forzatamente investite, della
partecipazione allo spazio pubblico. Come egli stesso
scrive in un breve saggio autobiografico “Perché scrivo”
del 1946: “Finché sarò vivo e in buona salute continuerò
ad appassionarmi alla prosa, ad amare la superficie
della terra e a prender piacere dagli oggetti solidi e
da ritagli di informazioni inutili. Non c’è modo di
sopprimere questa parte di me. Il lavoro è quello di
riconciliare le mie radicate simpatie e antipatie con le
attività essenzialmente pubbliche e non individuali alle
14
quali quest’epoca ci obbliga”3. È l’epoca di atrocità e
contemporanea retorica del progresso a determinare
quell’alchimia di motivazioni per cui il «semplice
egoismo» e l’«entusiasmo estetico», ragioni individuali
della professione letteraria, si uniscono all’ «impulso
storico» e allo «scopo politico»4, espressioni invece di
un impegno pubblico, di un’apertura agli altri.
I.1. Filosofia ovvero terapia
I.1.1. In un certo senso, e con un peso teorico ben
più grave, la stesso “movimento del pensiero” lo
ritroviamo nelle motivazioni che portano il giovane
Ludwig ad accostarsi alla filosofia, alla fine del 1911.
Forse con una serietà, con un’intransigenza morale molto
più marcate. Perché l’esperienza di un’individualità
sofferta è in Wittgenstein il sintomo di una patologia
diffusa nell’ambiente culturale in cui si formò. Non
solo l’importante e singolare famiglia del giovane
filosofo contribuì ad imprimere nel suo carattere quasi
un’istigazione all’insoddisfazione permanente. Il
bisogno di fare qualcosa di utile per gli altri con il
proprio lavoro e impegno era infatti una delle
3 G. ORWELL, Nel ventre della balena e altri saggi, a cura di S. Perrella,Bompiani, Milano 2002, p. 104. 4 Ivi , pp. 100-101.
15
preoccupazioni che Karl Wittgenstein trasmise in maniera
ossessiva ai suoi figli: “Sicuro di sé e dei propri
valori, li impose ai figli senza curarsi troppo delle
loro attitudini e delle loro inclinazioni: essi dovevano
imparare matematica e latino, perché nella vita erano
destinati – da lui – a combinare ingegneria e affari
come aveva fatto lui”5. Sia Hans che Rudi Wittgenstein,
fratelli maggiori di Ludwig si suicidarono nei primi
anni del XX secolo. Il primo, talento musicale, entrò in
collisione con i progetti che il padre aveva per lui; il
secondo, probabilmente omosessuale, non fu mai
completamente inserito nell’ambiente familiare6.
Ma la famiglia Wittgenstein rifletteva in una
dimensione microscopica le ansie e le inquietudini della
cultura viennese dell’epoca, in cui «gli intellettuali […]
prendono atto della dissoluzione di una ragione universale univoca e
pertanto ritessono i rapporti con gli altri uomini e con le circostanze della
loro vita, ossia ritessono una cultura, una società attraverso la scoperta
dell’uomo in quanto individuo, ma anche un individuo che si riconosce nella
forma che lo distingue mediante, e non già contro, le connessioni molteplici
degli scenari della vita che egli condivide con tutti gli altri membri della
società»7. La consapevolezza della fine di un ordine
razionale superiore, incarnato dal liberalismo classico,
in grado di conferire unità alle forze individuali della
5 B.F. Mc GUINNESS, Wittgenstein. Il giovane Ludwig (1889-1921), tr. it. Il Saggiatore, Milano 1990, pp. 42-43.6 Ivi, si veda soprattutto il cap. II, pp. 39-86. 7 A.G. GARGANI, Wittgenstein. Musica, parola, gesto, Raffaello CortinaEditore, Milano 2008, pp. 37-38.
16
cultura austriaca si esprime, anche nella filosofia di
Wittgenstein, nel tema dell’assenza di una ragione
universale alla quale si sostituisce una fitta trama di
relazioni, analogie e somiglianze tra termini,
proposizioni e concetti. “Ci illudiamo che ciò che è
peculiare, profondo, per noi essenziale, nella nostra
indagine, risieda nel fatto che essa tenta di afferrare
l’essenza incomparabile del linguaggio. Cioè a dire,
l’ordine che sussiste tra i concetti di proposizione,
parola, deduzione, verità, esperienza ecc. Quest’ordine
è un super-ordine tra - potremmo dire – super-concetti”8.
Non esiste alcuna razionalità di ordine superiore, il
significato delle parole è qualcosa di immanente e
autonomo, di indipendente dalle immagini che ci facciamo
delle cose.
I.1.2. È in effetti un tentativo di allontanarsi e
differenziarsi dalla tradizione filosofica occidentale
che anima l’opera di Wittgenstein. Tanto il “Tractatus”,
quanto le “Ricerche filosofiche” cercano di prendere le
distanze da quelle teorie del linguaggio che fondano un
uso improprio di esso, un uso metafisico, che raddoppia,
cioè l’esperienza espressiva e gioca in questo modo il
nostro agire nella realtà. Un aspetto, quest’ultimo,
rilevante della filosofia wittgensteiniana, tanto della
fase del “primo” quanto del “secondo” Wittgenstein, che
8 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, op. cit., I, § 97, p. 63.
17
peraltro mostra la infondatezza di questa
sclerotizzazione del suo pensiero e che si accompagna ad
una concezione della filosofia come attività, come
pratica. Ma se nel “Tractatus” la prassi simbolica del
linguaggio è ancora vista dietro le lenti della
sublimazione di modelli logici, come ad esempio la
cosiddetta “teoria raffigurativa della proposizione”,
nel Wittgenstein della “seconda maniera” di filosofare,
questo punto di vista dall’alto viene abbandonato. Dopo
gli anni Trenta subentra infatti la convinzione che per
liberarsi di quelle immagini idealizzate attraverso cui
sublimiamo le inquietudini profonde che vivono nel fondo
del linguaggio, dobbiamo abbandonare proprio l’immagine
de il linguaggio. La scala del “Tractatus” va ora ascesa
non per superare (überwinden) i nonsensi che
costituiscono l’opera, ma va ascesa per prendere atto
che non esiste alcun punto di vista panottico dal quale
mostrare il funzionamento del linguaggio. E questa
conclusione non ha un orientamento naturalista, perché è
volutamente costruita per emancipare il filosofo dalla
necessità della spiegazione esaustiva dei fenomeni che
concernono il linguaggio. L’orizzonte monolitico che fa
da sfondo significante al “Tractatus”, il Mistico, cede
ora il testimone ad una pluralità di giochi linguistici
dai quali non è possibile enucleare, con lavoro di
analisi, con un travaglio tutto razionale, nessuna
essenza che identifichi un linguaggio. Ciò che emerge
18
sono piuttosto un’inestricabile serie di somiglianze,
analogie, affinità morfologiche che il filosofo non deve
spiegare ma descrivere. Compito della descrizione non è
quello di pervenire ad una soluzione dei problemi
filosofici (Esiste il mondo? Esistono i corpi? Perché
vivo?) ma di farci una rappresentazione perspicua (Übersichtliche
Darstellung) dei fatti linguistici. In questo modo egli
accompagna alla dissoluzione dei problemi filosofici, la
presentazione limpida dei vari casi di uso del
linguaggio. O meglio dei giochi che ne compongono
l’articolazione. Dalla prima alla seconda fase del suo
pensiero dunque, rimane invariata una tendenza di fondo,
un desiderio di chiarezza, per cui “ Tutta la filosofia
è «critica del linguaggio»”9, ma lo è adesso non nel
senso della ricerca di una forma logica che ci permette
di cogliere il funzionamento reale di esso, bensì nel
senso di un’attività di chiarificazione che si esercita
principalmente su se stessi, sul proprio modo di parlare
e quindi di vedere le cose.
Il lavoro sulla filosofia – come spesso il lavoro in
architettura – è in verità più il // un // lavoro su se
stessi, sul proprio modo di pensare; sul proprio modo di
vedere le cose. (E su ciò che ci aspettiamo da esse). Detto
in parole povere: nella // secondo la // vecchia concezione –
all’incirca, quella dei (grandi) filosofi occidentali – ci
9 L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosphicus e Quaderni 1914-1916, tr. it. acura di A. G. Conte, Einaudi, Torino 1998, 4.0031, p. 43.
19
sono stati due tipi di problemi, nel senso scientifico della
parola // due specie distinte di problemi….// : problemi
essenziali, grandi, universali e problemi inessenziali, in un
certo modo accidentali. E proprio con questo contrasta la
nostra concezione, per la quale non vi è alcun problema, nel
senso scientifico della parola che sia grande, essenziale.10
Dunque il filosofo non è colui che cerca la soluzione di
problemi essenziali, problemi cioè che hanno una forma
generale, concernono il mondo e la nostra posizione
rispetto ad esso. Alla filosofia è preclusa una tale
strada perché essa non ha per oggetto i fatti. La
filosofia è invece un esercizio di chiarezza sul nostro
modo di esprimerci che comporta un’irreversibile
trasformazione della propria “immagine del mondo”
(Weltbild). È un’esperienza che vede l’individuo compiere
un importante lavoro di addestramento della volontà: “
Si deve superare una difficoltà della volontà, non
dell’intelletto”11.
I.1.3. La lotta ad una filosofia dogmatica, una
filosofia cioè che sublimi la realtà attraverso immagini
che rispondono al nostro senso di insicurezza e
inquietudine, si svolge sul piano personale;
individualmente. È il tentativo di eliminare la propria
tendenza alla idealizzazione, alla cristallizzazione10 L. WITTGENSTEIN, Filosofia, tr. it. a cura di M. Andronico, DonzelliEditore, Roma 1996, pp. 5-7.11 Ivi, p. 5.
20
della realtà in forme che la nostra attività
immaginativa desume dagli stessi usi del linguaggio.
Questo comporta l’eliminazione di quel soggetto della
conoscenza, quell’identità in cui il reale si rapprende
in una visione d’insieme coerente, che ha fatto capolino
nella tradizione metafisica occidentale con Cartesio e
che ha assunto la sua veste trascendentale con Kant. In
un certo senso è lo stesso bisogno di eliminare l’
“orgoglio” che ci porta a considerare reali distinzione
quali soggetto/oggetto, diretto/indiretto,
profondità/superficie alla base di alcune considerazioni
di Orwell sul mestiere dello scrittore, come questa: “
E, tuttavia, è anche vero che non è possibile scrivere
qualcosa di leggibile se non si lotta costantemente per
tenere in disparte la propria personalità, dato che la
buona prosa è trasparente come il vetro di una
finestra”12. Così anche per Wittgenstein qualsiasi
attività espressiva umana, dalla letteratura alla
musica, dalla logica all’antropologia, deve riuscire a
mostrare lo sfondo vitale al quale essa è immanente
senza eclissarlo dietro l’orgoglio del soggetto, il
quale, nella riflessione razionale sublima il reale. Un
uso retto del linguaggio impone di eliminare quanto di
intellettuale, e quindi quanto di esplicativo, si impone
sull’analisi (come nel caso dell’antropologia) o su un
uso (come nel caso della letteratura) di esso. Proprio
12 G. ORWELL, Nel ventre della balena e altri saggi, op. cit. , p. 105.
21
per questo motivo Wittgenstein paragona l’attività
filosofica ad un’attività terapeutica: “La vera scoperta
è quella che mi rende capace di smettere di filosofare
quando voglio. […] Vengono risolti problemi (eliminate
difficoltà), non un problema. Non c’è un metodo della
filosofia, ma ci sono metodi; per così dire, differenti
terapie”13. L’attività terapeutica consiste quindi in una
disposizione strategica degli usi del linguaggio per
eliminare difficoltà, nel «mettere insieme ricordi, per uno scopo
determinato»14. Un lavoro che si effettua sulla volontà.
I.2 “Facci esseri umani”: il problema dell’accordo con
la forma di vita
I.2.1. Questo approccio terapeutico della filosofia ai
nostri problemi non comporta affatto, come è stato più
volte rimproverato a Wittgenstein, una rassegnazione del
pensiero di fronte all’esistente. L’attività di
chiarificazione, il procedere tranquillo del filosofo
non comportano il disconoscimento della problematicità
della vita. Il “problema della vita”, cioè del suo
perché, del suo senso, rimane tale se si cerca ad esso
una risposta scientifica o filosofica. Una risposta cioè
tesa ad incrementare le nostre cognizioni tecniche o a
discernere le cause ultime delle nostre azioni. La
13 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, op. cit. , I, § 133, p. 71.14 Ivi, § 127, p. 70.
22
problematicità della vita richiede piuttosto un
atteggiamento diverso da parte di chi si pone il
problema, un atteggiamento che si esprime nella
dissoluzione della questione sul piano intellettuale. Il
problema va terapeuticamente spostato sul piano della
volontà. Come già concludeva ai tempi del “Tractatus”:
“Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le
possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i
nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati.
Certo, allora non resta più domanda alcuna; e appunto
questa è la risposta. La risoluzione del problema della
vita si scorge allo sparire di esso. (Non è forse per
questo che gli uomini ai quali il senso della vita
divenne, dopo lunghi dubbi, chiaro, non seppero poi dire
in che cosa consistesse questo senso?)”15. Ma la
dissoluzione implica che la posizione del filosofo
compia una rotazione intorno al proprio asse, che la
prospettiva metafisica venga sostituita da una
prospettiva quotidiana, in cui gli usi eterogenei e
proteiformi del linguaggio siano liberi di muoversi a
dispetto di qualsiasi teoria. Le terapie che il filosofo
pratica, si compongono allora in una faticosa manovra di
avvicinamento a quell’intreccio vitale di simboli,
espressioni, usi del linguaggio e valori che fa da
sfondo ai giochi linguistici. Un ritorno alla casa del
Padre, un ri-orientamento all’interno di una forma di vita:
15 L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosphicus, op. cit., 6.52-6.521, p.108.
23
Se la vita è problematica, è segno che la tua vita non si
adatta alla forma di vita. Devi quindi cambiare la tua vita;
quando si adatterà alla forma, allora scomparirà ciò che è
problematico.
Ma non abbiamo forse la sensazione che chi in questo non vede
un problema non abbia occhi per vedere qualcosa di
importante, anzi la cosa più importante di tutte? Non mi
verrebbe voglia di dire che egli, in questo modo, vegeta –
cieco appunto, quasi una talpa, e che se solo potesse vedere,
allora vedrebbe il problema?
O forse dovrei dire: chi vive rettamente senza il problema
non come tristezza, non come problematico quindi, ma piuttosto
come una gioia; dunque quasi come un etere luminoso attorno
alla sua vita, e non come uno sfondo dubbio.16
Il linguaggio del filosofo metafisico gira a vuoto,
rimane giocato dalle immagini che egli stesso impone
agli usi linguistici. Il metafisico è allora straniero
rispetto alla forma di vita che esprime questi giochi
linguistici, per potersi riconciliare con essa deve
riportare le parole allo loro patria, dall’uso metafisico
all’uso quotidiano17.
I.2.2. La nozione di forma di vita (Lebensform) ha nella
filosofia della “seconda maniera” di Wittgenstein un16 L. WITTGENSTEIN, Pensieri diversi, ed. it. a cura di M. Ranchetti,Adelphi, Milano 2001, p. 61.17 Cfr. con L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, op. cit., I, § 116, p.67.
24
ruolo poliedrico, difficilmente inquadrabile in uno
schema interpretativo che si richiami al significato
assunto nel contesto della filosofia neokantiana o in
quello dello storicismo tedesco. Del resto i concetti
chiave della filosofia dell’ultimo Wittgenstein sono
volontariamente lasciati aperti, viene cioè loro negato
il possesso di una nota caratteristica o essenza che
accomunerebbe gli oggetti che ricadono sotto di essi. Il
concetto però mantiene la sua funzionalità pragmatica
perché permette di individuare quelle somiglianze di famiglia
che contraddistinguono gli oggetti ad esso inerenti.
Anche il concetto di forma di vita, dunque esprime un
carattere liquido ma non per questo irriconoscibile. In
relazione agli usi pratici, agli esempi attraverso cui
Wittgenstein ne illustra l’estensione, il concetto di
forma di vita sembra avere almeno tre connotazioni, che,
ripeto, non lo definiscono rigidamente ma che illuminano
somiglianze di famiglia, analogie e contesti
d’appartenenza differenti in cui esso si mostra.
Una prima connotazione ha indubbiamente a che fare con
la necessità, per una specie biologica, di accordarsi ad
un ambiente naturale; un comune modo di agire e reagire
in una dotazione biologica. Per cui forme di vita
differenti sarebbero i comportamenti eterogenei che le
specie animali hanno in relazione alla questione
dell’adattamento ad un ambiente, con il risultato che «se
25
un leone potesse parlare noi non potremmo capirlo»18. La forma di
vita è allo stesso tempo matrice di trasformazione e
risultato di quanto emerge dal corso della storia
naturale di una specie.
Ma la forma di vita si rivela anche in situazioni che
concernono il senso di certe attività e dei modi di
esprimersi dell’uomo, aspetto questo sviluppato in
relazione al tema del “seguire una regola”:
Immagina di arrivare, come esploratore, in una regione
sconosciuta dove si parla una lingua che ti è del tutto
ignota. In quali circostanze diresti che la gente di quel
paese dà ordini, comprende gli ordini, obbedisce ad essi, si
rifiuta di obbedire, e così via?
Il modo di comportarsi comune agli uomini è il sistema di
riferimento mediante il quale interpretiamo una lingua che ci
è sconosciuta.19
Dunque un comune modo di comportarsi dal qual emerge una
comune intelaiatura grammaticale che fa da sfondo
rassicurante al senso di queste azioni. La forma di vita
è così quella struttura che conferisce significato ad
un’attività o ad un uso linguistico relativo al
contesto. Così sarebbe impossibile comprendere cosa sia
sperare se questo uso linguistico non fosse individuabile
in certi comportamenti comuni agli uomini e relativi a
determinate situazioni. E un analogo discorso18 Ivi, II, XI, p.292.19 Ivi, I, § 206, pp.109-110.
26
Wittgenstein lo fa, nelle sue ultime annotazioni, per la
certezza. La forma di vita appare dunque come un’armatura,
una struttura della quale le nostre azioni infondate
traggono linfa e forza. In un certo senso essa svolge un
ruolo analogo a ciò che nella filosofia del “Tractatus” e
degli anni Venti svolgeva il Mistico. Quando parliamo in
accordo con la nostra forma di vita i nostri atti
linguistici si trovano a riparo dalle intemperie a cui
sono esposti, invece, i ragionamenti del filosofo
metafisico: “Farò menzione di un’altra esperienza,
subito, che mi è pure nota e che può essere nota anche
ad alcuni di voi: l’esperienza, si potrebbe dire, di
sentirsi assolutamente al sicuro. Intendo lo stato d’animo
in cui si è portati a dire «Sono al sicuro, nulla può
recarmi danno, qualsiasi cosa accada»”20.
Vi è infine una terza connotazione del concetto di forma
di vita che insiste invece sull’importanza della
prassi, l’agire conforme a ciò che è culturalmente
“normale”, e del suo apprendimento. In una parola è la
modalità con cui impariamo a comportarci, a districarci
nel retaggio di pratiche culturali e attività simboliche
concordi con la nostra cultura, con i nostri usi, con le
nostre credenze, con le nostre conoscenze; è ciò che
Wittgenstein chiama addestramento (Abrichtung). Legata al20 Così Wittgenstein parla dell’esperienza del Mistico nellaconferenza sull’etica pronunciata a Cambridge probabilmente tra il1929 e il 1930 davanti ad un’associazione chiamata «The Heretics»,il testo della quale è tradotto in italiano in L.WITTGENSTEIN,Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, a curadi M. Ranchetti, Adelphi, Milano 2005, p. 13.
27
tema del seguire una regola, la pratica
dell’addestramento risulta fondamentale, in “Della
Certezza”, per l’azione conforme al sistema di
proposizioni empiriche sottratte al gioco del dubbio che
fa da sfondo, metafisicamente infondato, al nostro agire
infondato.
Ovviamente queste tre sfumature del concetto di forma di
vita non esauriscono la gamma di giochi linguistici,
pratiche simboliche, usi espressivi apparentati da
somiglianze e analogie possibili; non ne individuano
l’estensione. È per questo motivo che Wittgenstein
rinuncia ad una definizione per farne emergere il
carattere attraverso esempi di giochi linguistici in
contesti quotidiani. La forma di vita è quindi uno
sfondo immanente alle pratiche linguistiche e
simboliche, alle nostre azioni:
Al posto del non analizzabile, dello specifico,
dell’indefinibile: il fatto che agiamo in questo e questo
modo, che, per esempio, puniamo certe azioni, accertiamo la
situazione effettiva in questo e quel modo, diamo ordini,
prepariamo resoconti, descriviamo colori, ci interessiamo ai
sentimenti altrui. Quello che dobbiamo accettare, il dato –
si potrebbe dire – sono i fatti della nostra vita.21
21 L. WITTGENSTEIN, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, tr. it. di R.De Monticelli, Adelphi, Milano 1990, I, § 630, p. 188.
28
Ciò che si deve accettare, il dato, sono – potremmo dire –
forme di vita.22
Ma la mia immagine del mondo non ce l’ho perché ho convinto
me stesso della sua correttezza, e neanche perché sono
convinto della sua correttezza. È lo sfondo che mi è stato
tramandato, sul qual distinguo tra vero e falso.23
Tutti i controlli, tutte le conferme e le confutazioni di
un’assunzione, hanno luogo già all’interno di un sistema. […]
Il sistema non è tanto il punto di partenza, quanto piuttosto
l’elemento vitale dell’argomentazione.24
Come si evince da questi passi la sfumatura comunitaria
del concetto di forma di vita è importante tanto quanto
quella prassiologica. Non è semplicemente il conformarsi
ciecamente alla intelaiatura grammaticale dei nostri
giochi linguistici a far sì che noi siamo parte della
forma di vita. Lo sfondo, i fatti della nostra vita, il
dato, ciò che deve essere accettato è qualcosa che è già
immanente alle nostre azioni. È l’elemento vitale di
qualsiasi argomentazione finanche del dubbio e
dell’errore. Questa particolare proprietà di
condivisione, questo attivo deposito comunitario di
pratiche, interessi e valori collettivi caratterizza la
Lebensform. Sfondo e allo stesso tempo trama dell’agire
22 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, op. cit., II, XI, p. 295.23 L. WITTGENSTEIN, Della Certezza, op. cit., § 94, p. 19.24 Ivi, § 105, p. 20.
29
essa è ciò che permette di riconoscere la palese
manifestazione della presenza umana, dal momento che «per
quanto le cose di questo mondo ci colpiscano intensamente, per quanto
profondamente esse possano emozionarci e stimolarci, non diventano
umane per noi se non nel momento in cui possiamo discuterne con i nostri
simili. Tutto ciò che non può diventare oggetto di dialogo – il sublime,
l’orribile, il perturbante – può anche trovare una voce umana attraverso la
quale risuonare nel mondo, ma non è propriamente umano. Noi
umanizziamo ciò che avviene nel mondo e in noi stessi solo parlandone e, in
questo parlare, impariamo a diventare umani»25. Allora,
un’espressione acquista una fisionomia a noi familiare,
solo se essa è al centro di un discorso che si avvale di
forme espressive e usi linguistici comuni, solo se
scaturisce dalla nostra forma di vita. In questo
“miracolo” della condivisione, noi ci rappresentiamo e
siamo esseri umani. “Facci esseri umani” scriveva
Wittgenstein nel 1937 26.
I.3. “Io scrivo quindi in realtà per alcuni amici
dispersi negli angoli del mondo”: il rapporto
problematico di Wittgenstein con la modernità
I.3.1. Se si volessero approfondire le origini
teoriche della nozione di forma di vita nella filosofia25 H. ARENDT, Antologia. Pensiero, azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, tr. it.a cura di L. Bollea,Feltrinelli, Milano 2006, si veda il saggioL’umanità in tempi bui, p. 228.26 L. WITTGENSTEIN, Pensieri diversi, op. cit., p. 67.
30
di Wittgenstein la nostra attenzione cadrebbe
indubbiamente su uno dei più insigni rappresentanti
dello storicismo tedesco, Oswald Spengler. Del resto è
lo stesso Wittgenstein ad incastrare il filosofo della
cultura nel puzzle delle personalità che maggiormente lo
hanno influenzato, o meglio, che a suo dire, hanno
influenzato il suo talento riproduttivo tipicamente
ebraico:
[…] Io credo di non aver mai inventato un corso di pensiero; al
contrario, mi è sempre stato dato da qualcun altro. Io l’ho
solo afferrato subito con passione per la mia opera di
chiarificazione. Così mi hanno influenzato Boltzmann, Hertz,
Schopenhauer, Frege, Russell, Kraus, Loos, Weininger,
Spengler, Sraffa.27
Ciò che di stimolante Wittgenstein ritrova ne “Il tramonto
dell’Occidente” di Spengler è probabilmente un metodo di
analisi della storia che sfugge al regime di un ordine
razionale storico superiore. Il fulcro teorico della
filosofia spengleriana è infatti un metodo morfologico
il quale permette di comprendere la pluralità delle
culture umane come ripetizione, in forme diverse, di un
“fenomeno originario” (Urphänomen) consistente nello
schema per cui una civiltà è pari a un organismo
biologico, che nasce, si sviluppa e muore. Va però
sottolineato che la fortuna del metodo morfologico
27 Ivi, p. 47.
31
risale a Goethe il quale, nei suoi scritti scientifici e
nel poema “Die Metamorphose der Pflanzen”, paragona alcune
piante e animali alle complesse modificazioni di una
struttura semplice, il già citato “fenomeno originario”.
Ovviamente non si tratta, per quanto riguarda la
morfologia di piante e animali, di un surrogato della
teoria evoluzionista. Non è una teoria generale
sull’origine delle specie. Si tratta piuttosto di un
metodo teso a rischiarare la relazione tra due elementi
di un sistema, una relazione che va “dal semplice al
complesso”. Proprio perché fa emergere una relazione, il
metodo morfologico non è una spiegazione generale ma un
modello descrittivo. Nella filosofia wittgensteiniana il
metodo morfologico è il modello descrittivo che ci
permette di cogliere, tra gli usi linguistici e
differenti giochi, quei membri intermedi (Zwischenglieder) i
quali riflettono analogie e somiglianze di famiglia
utili a farci una rappresentazione perspicua della nostra
grammatica. Così in quel frammento del “Big Typescript” noto
con il nome di “Philosophie”, in cui Wittgenstein affronta
direttamente (caso più unico che raro) le motivazioni e
i problemi connessi al filosofare, egli attribuisce il
metodo morfologico come mezzo per la perspicuità della
rappresentazione alla Stimmung di cui Spengler è parte:
Il concetto di rappresentazione perspicua è per noi di
importanza fondamentale. Esso contraddistingue la nostra
32
forma di rappresentazione , il modo in cui vediamo le cose.
(Un tipo di “visione del mondo”, quale sembra essere tipica
del nostro tempo. Spengler.)28
In particolare, il metodo morfologico, trova un
riscontro importante nel rapporto tra giochi linguistici
completamente esauriti in un contesto e giochi
linguistici che invece sfondano quello stesso contesto,
presentandosi così come delle complicazioni dei primi. È
il rapporto che intercorre, ad esempio, tra i nostri
giochi linguistici e quelli dei due muratori nei
paragrafi iniziali delle “Ricerche filosofiche”. Meglio
ancora, tra giochi linguistici primitivi e complessi
legati da somiglianze morfologiche, intercorre lo stesso
rapporto che c’è tra una proposizione empirica e il
gioco con cui la mettiamo in dubbio. Il dubbio è cioè
una complicazione di un gioco semplice come la
constatazione di un nesso causale, la quale a sua volta
non è altro che una reazione:
La forma primitiva del gioco linguistico è la certezza, non
l’incertezza. Perché l’incertezza non potrebbe portare
all’azione.
Voglio dire: è caratteristico del nostro linguaggio che esso
cresca su un terreno di solide forme di vita, di azioni
regolari. […] Abbiamo un’idea proprio di quali forme di vita
siano primitive e di quali si siano potute formare soltanto a
28 L. WITTGENSTEIN, Filosofia, op. cit., p. 35.
33
partire da queste. Noi crediamo che l’aratro più semplice sia
venuto prima di quello complicato. La forma semplice (e
questa è la forma originaria) del gioco di causa ed effetto è
la determinazione della causa, non il dubbio.29
Il nostro errore consiste nel cercare una spiegazione dove
invece dovremmo vedere questo fatto come un “fenomeno
originario”. Cioè, dove invece dovremmo dire: si giuoca questo
giuoco linguistico.30
Il gioco linguistico primitivo non svolge tuttavia un
ruolo, potremmo dire, trascendentale rispetto agli altri
giochi linguistici. Esso non è per così dire l’essenza
di tutti i giochi linguistici complessi apparentati alla
stessa linea morfologica. Wittgenstein riprende questo
schema che dal semplice va al più complesso, e che in
Spengler illustra un approccio filosofico alla storia
più vicino a Nietzsche che ad Hegel, solamente da un
punto di vista metodologico, dal momento che «la nebbia si
dissipa quando studiamo i fenomeni del linguaggio nei modi primitivi del
suo impiego, nei quali si può avere una visione chiara e completa dello
scopo e del funzionamento delle parole»31. Dunque l’applicazione
del metodo morfologico alla pluralità dei giochi
linguistici che vivono negli esempi di Wittgenstein si
riflette nella nozione di forma di vita, dotata, come
abbiamo visto sopra, di una sfumatura di significato29 L. WITTGENSTEIN, Causa ed effetto seguito da Lezioni sulla libertà del volere, acura di A. Voltolini, Einaudi, Torino 2006, p. 24.30 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, op. cit., I, § 654, p. 219.31 Ivi, I, § 5, p. 11.
34
organica, biologica: facendo eco a Spengler la forma di
vita nasce, si sviluppa e forse muore. Ma dedurre questo
modello descrittivo, questo schema per poi
ipostatizzarlo al di fuori del linguaggio, trascendendo
la forma di vita, in una filosofia della storia è una
conclusione che Wittgenstein non può accettare. È questo
probabilmente il limite che egli ravvisa nella teoria
del tramonto dell’Occidente: il fatto che si tratti di
una teoria, cioè di una spiegazione generale. “Spengler
si potrebbe capire meglio se dicesse: io stabilisco un
confronto fra diverse epoche della civiltà e la vita di
gruppi familiari; all’interno di una famiglia c’è
un’aria di famiglia , ma anche tra i membri di famiglie
diverse c’è una somiglianza; […] Altrimenti, ecco che
tutto ciò che vale per il modello assunto nell’indagine
lo si afferma nolens volens anche riguardo all’oggetto
indagato; […] Ma poiché si fa confusione tra modello e
oggetto, si è obbligati ad attribuire dogmaticamente
all’oggetto ciò che caratterizza obbligatoriamente solo
il modello”32. In altri termini, Spengler è caduto nella
trappola del metafisico perché ha sublimato quel modello
teorico che fa capo al metodo morfologico e alle forme
di vita, finendo per esserne giocato, per adattare
l’oggetto della sua analisi alla forma dell’ analisi.
Risultato: il modello spengleriano viene declinato dal
suo artefice come necessità, ineluttabilità della
32 L. WITTGENSTEIN, Pensieri diversi, op. cit., pp. 39-40.
35
storia; perde cioè il suo ruolo di principio formale
della riflessione per travestirsi da manifestazione
oggettiva del destino.
I.3.2. Non insisterei ulteriormente sul rapporto tra
Wittgenstein e Spengler. Non deve essere trascurato però
un aspetto, eliminando il quale, la riflessione di
Wittgenstein perde il radicamento nel suo contesto
culturale e storico per essere ipostatizzata, come
spesso è accaduto, nel pantheon della sola filosofia
analitica e postanalitica. Direi che più di un’affinità
teorica, l’aspetto in questione coinvolge un
atteggiamento comune ad una corrente della cultura
europea nata nell’Ottocento quasi per contrasto al
pensiero razionalista, scientifico e in parte
dialettico. Ai fini di una “rappresentazione perspicua”
del terreno su cui germoglia, come “Il biancospino del conte
Eberardo”33, la filosofia di Wittgenstein si potrebbe in
maniera alquanto grossolana, ma non per questo
inefficace, situare in quell’atmosfera antirazionalista
e antimetafisica che da Schopenhauer e Kierkegaard
arriva a Dostoevskij e Tolstoj, passando per Nietzsche e
Weininger. Questo atteggiamento inizialmente carsico ma
con Nietzsche esplosivo, si coniugò nella Germania e
33 Mi riferisco qui alla poesia di Johann Ludwig Uhland (1787-1862)che Wittgenstein lesse per la prima volta in una lettera inviataglida Paul Engelmann, e nella quale vide un magnifico esempio artisticodi espressione dell’inesprimibile, cfr. con P. ENGELMANN, Lettere diLudwig Wittgenstein, tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1970, p. 7.
36
nell’Austria tardoasburgica con un pessimismo storico
diffuso, con in il senso dell’inizio di un’epoca in cui
l’umanità cede il passo alla supremazia della scienza.
Ora la diagnosi del tramonto dell’Occidente formulata da
Spengler si spiega, all’interno del suo modello di
analisi delle culture come organismi biologici, nella
celebre distinzione tra Kultur e Zivilisation, tra civiltà e
cultura ovvero tra una cultura positiva, non corrotta e
vitale, e una cultura della decadenza, che ha consumato
le sue energie spirituali, per questo dominata
dall’illusione progresso tecnico illimitato. L’orizzonte
verso cui marcia la decadente cultura occidentale è
quello della civiltà delle macchine, il dominio
incontrastato della tecnica in cui l’uomo occidentale e
il suo universo simbolico sono destinati a scomparire.
Un certo rifiuto della modernità, un antagonismo
essenziale alla faccia ottimista e razionalista della
cultura europea, è dunque ciò che caratterizza la
Stimmung dell’epoca di cui Wittgenstein fu figlio. Ma la
migliore e più completa manifestazione del suo giudizio
sulla modernità, di cui sempre condannò le espressioni
più filistee, risale al 1930, ad un abbozzo di
prefazione e ad una prefazione, la seconda delle quali
R. Rhees inserì come premessa delle “Philosophische
Bemerkungen”, per orientare i lettori34. In questi due
34 Nei passi seguenti farò riferimento a L. WITTGENSTEIN, Osservazioni filosofiche, tr. it. di M. Rosso, Einaudi, Torino 1999, Premessa dell’autoree Pensieri diversi, op. cit., pp. 26-28.
37
brani Wittgenstein dice apertamente che lo spirito, con
cui egli scrive, è «diverso dalla grande corrente della cultura
[Zivilisation] europea e americana». Lo spirito che anima l’età
moderna, esternato nella parola progresso, si esprime
nell’industria, nella musica, nell’architettura, nel
fascismo e nel socialismo. Esso è estraneo allo spirito
di Wittgenstein. Uno spirito che invece guarda «al tempo di
una grande civiltà [Kultur]», ove il valore del singolo poteva
esprimersi. Questo, precisa, avviene peraltro anche
nella modernità, ma estraniandosi dalla stessa civiltà.
Le grandi individualità riescono ad esprimersi soltanto
dirottando il proprio valore in una dimensione di
isolamento o comunque non comunitaria. La forza del
singolo è in competizione con innumerevoli altre forze
contrarie e resistenze d’attrito cosicché «lo spettacolo che
offre quest’epoca è quello poco edificante di una moltitudine dove i
migliori perseguono solo fini privati». Ciò non avveniva in quelle
grandi organizzazioni che furono le civiltà, nelle quali
il singolo trova «il posto in cui può lavorare nello spirito del tutto».
Due elementi saltano immediatamente all’attenzione del
lettore di queste poche righe. In primo luogo
un’esperienza dell’individualità rispetto a ciò che
Wittgenstein definisce modernità, estremamente sofferta.
Una forza di resistenza rispetto a una pluralità di
attriti e forze contrastanti. E questo atteggiamento
caratterizzò la vita dell’individuo Wittgenstein, la
riflessione del quale emerse, quasi per contrasto e
38
accordo, per composizione, con numerosi altri “vettori”
individuali della cultura europea. Non è un caso, o una
stranezza da annoverare tra i cataloghi di aneddotica
wittgensteiniana, il suo rapporto di contrasto finanche
violento con le personalità scientifiche della sua
epoca. Si pensi ad esempio all’accesa discussione con K.
Popper, ormai entrata a far parte degli episodi che
accrescono l’aura di genialità e sregolatezza con cui di
solito, frettolosamente, lo si etichetta. Il secondo
elemento che cattura l’attenzione, nella lettura di
queste poche righe, è un atteggiamento ironico, se non
demistificatore, nei confronti della nozione di progresso
come forma della cultura europea e americana. Tale forma
si esplicita in un atteggiamento costruttivo che si
avvale della chiarezza, dell’attività di chiarificazione
propria della filosofia antidogmatica, come mezzo per
l’edificazione di qualcosa di più complesso.
Ad essa Wittgenstein contrappone una pratica della
chiarificazione che sia fine a se stessa, e per questo
motivo, non costruisca edifici complessi, ma che
presenti punti di vista differenti sempre sullo stesso
oggetto di riflessione. Lo spirito costruttivo del «tipico
uomo di scienza occidentale» non è però l’unica sfumatura
della nozione di progresso che il filosofo austriaco
rifiuta. Accanto allo spirito costruttivo del filosofo o
dello scienziato di professione, egli lascia intuire, in
alcuni obiter dicta, che il suo rifiuto si estende alle
39
esternazioni sul piano storico, politico e sociale di
questo tipo di atteggiamento. Proprio perché contrario
al modello storico esplicativo del positivismo,
Wittgenstein palesa la sua critica a questo uso del
termine progresso solamente nel suo percorso filosofico,
senza mai attaccare direttamente l’immagine generale e
affascinante da esso generata. Questo rifiuto è un
aspetto interno e profondo della sua posizione
antimetafisica e antifondazionalista, un aspetto che ci
permette di chiarire quale metafisica, quale
atteggiamento dogmatico egli non accetti nel pensiero
della modernità. Come osserva von Wright: “La metafisica
contro la quale Wittgenstein lotta non è dunque radicata
nella teologia, ma nella scienza. Egli combatte
l’influsso ottenebrante che sul pensiero hanno non i
relitti di una cultura morta, ma gli abiti di una
cultura viva”35. Lascia invece libero corso ai suoi
giudizi diretti raramente, a piccole e tenebrose
annotazioni:
È possibile che scienza e industria, e il loro progresso,
siano le cose più durature del mondo contemporaneo. Che ogni
supposizione di un loro fallimento sia per ora, e resti per
molto tempo, un mero sogno, e che esse in seguito, con
infinito strazio, pervengano a unificare il mondo, cioè a
35 G.H. VON WRIGHT, Wittgenstein e il Novecento, in Wittgenstein e il Novecento. Tra filosofia e psicologia, a cura di R. Egidi, Donzelli, Roma 2002, p. 40.
40
contrarlo in una sola cosa, dove poi, naturalmente tutto
dimorerà fuorché la pace.
Scienza e industria decidono ormai le guerre, o almeno così
pare.36
Forse sarebbe eccessivo vedere in questa annotazione del
1947 una previsione dell’omologazione per niente
pacifica cui lo sviluppo di tecnica e industria
avrebbero portato da lì a pochi anni, prima l’occidente
economico poi il pianeta. Non voglio certo dire che in
questa, ed altre annotazioni sia possibile riconoscere
un’intuizione di ciò che chiamiamo globalizzazione o
società dei consumi. Va però detto che lo spirito delle
osservazioni non è semplicemente manifestazione del
pessimismo cronico di un uomo formatosi nella Vienna fin-
de-siècle di fronte alla diffusione di una cultura di
massa. Wittgenstein ha una chiara percezione del ruolo
che la “metafisica della modernità” interna al discorso
scientifico-positivista gioca nella nascita della
“civiltà delle macchine”. E questa percezione si
accompagna all’orrore per l’ottimismo di una cultura in
cui i problemi più profondi vengono sottratti allo
spettro espressivo dei linguaggi umani con l’illusione
di poterli risolvere delegandoli al progresso tecnico,
con l’ampliamento dell’edificio del sapere scientifico:
36 L. WITTGENSTEIN, Pensieri diversi, op. cit., pp. 120-121.
41
Ho detto una volta e forse con ragione: la civiltà del
passato diventerà un mucchio di rovine e alla fine un mucchio
di cenere, ma sulla cenere aleggeranno degli spiriti.37
È sul rapporto con la modernità, che a mio parere può
svolgersi un confronto fecondo tra la filosofia di
Wittgenstein e quella produzione letteraria che si nutrì
della stessa atmosfera antirazionalista, pessimista e
antimetafisica di cui si nutrì anche il filosofo
austriaco. Solo date tali premesse possiamo serenamente
affrontare l’analisi di quel silenzioso gioco di specchi
riscontrabile dalle letture di “Della Certezza” e di “1984”.
Se Orwell probabilmente non ebbe la stessa sfiducia di
Wittgenstein nei confronti della modernità, se il suo
giudizio sul concetto di progresso non fu altrettanto
severo, ugualmente catastrofica fu la sua creazione
letteraria sulla direzione intrapresa dal pianeta dopo
il secondo conflitto mondiale. Quel mondo «contratto in una
sola cosa» che scienza e industria stanno edificando, in
cui «tutto dimorerà fuorché la pace», non è poi tanto distante
dalla distopia che Orwell rappresenta nel suo romanzo,
dove «la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza»38.
37 Ivi, p.22.38 G.ORWELL, 1984, tr. it. a cura di S. Manferlotti, Mondatori, Milano 2000, p.8.
42
I.4. Oceania, bipensiero e neolingua: il solipsismo di
massa di “1984”
Il mondo che Orwell descrive in “1984” è la
realizzazione effettiva degli incubi più oscuri, delle
inquietudini più profonde, delle società uscite dal
trauma della Seconda guerra mondiale. Il metro con cui
la sua distopia deve essere valutata non è ovviamente
quello della sua verificazione. “1984” non è un saggio
di filosofia della storia, o una profezia ineluttabile.
La sua lettura richiede la serena consapevolezza di
trovarsi di fronte ad un modello di descrizione,
alternativo, ma non per questo meno possibile delle
potenzialità apocalittiche inespresse (o espresse in
parte, dipende dai punti di vista) della realtà politica
e sociale postbellica. Non si tratta quindi di una
predizione sui tempi che stiamo vivendo. Come osserva R.
Rorty:
[…] quello che fecero Orwell e Nabokov – sensibilizzare il
pubblico alle crudeltà e umiliazioni che gli erano passate
inosservate – non è stato di svelare l’apparenza e rivelare
la realtà. […] È meglio pensare che si sia trattato di una
ridescrizione di quello che poteva succedere o che era già
successo – da confrontarsi non con la realtà; ma con
descrizioni diverse degli stessi fenomeni.39
39 R. RORTY, La filosofia dopo la filosofia, cap. 8 L’ultimo intellettuale d’Europa: Orwell e la crudeltà, tr. it. Laterza, Roma-Bari 1989, p. 198.
43
Guardiamo dunque da vicino questo mondo catastrofico,
modello alternativo del mondo reale. Nel 1984 non
esistono più gli stati, gli assetti politico-sociali che
conosciamo ma tre supernazioni Oceania, Eurasia ed
Estasia. Pare che questo riassetto internazionale sia
nato da un periodo di rivoluzioni, guerre e conflitti
nucleari che hanno gettato l’umanità in una sorta di
Medioevo postatomico. Ciascuna delle tre supernazioni è
controllata da organizzazioni politiche che oggi
definiremmo di stampo totalitario: ispirate da tre
ideologie che convergono nella forma e nei fini
perseguiti, controllate da una piccola oligarchia il cui
scopo è la conservazione del potere, tese ad un
conflitto perenne e finalizzato alla mobilitazione
permanente delle popolazioni oppresse. Orwell,
probabilmente pensando a ciò che avveniva in Unione
Sovietica, chiamò questa forma di governo “collettivismo
oligarchico”40. L’ Oceania è la supernazione in cui vive
il protagonista del romanzo, “l’ultimo uomo in Europa”,
Winston Smith. In essa il potere è detenuto da
un’organizzazione politica il Socing (Socialismo
inglese) al cui vertice si trova il Grande Fratello,
capo infallibile e onnisciente che nessuno ha mai visto.
L’ideologia del Partito ha irretito, bloccato e reso
40 Così almeno viene definita nel “Libro” dell’unico oppositore al regime oceanico, Emmanuel Goldstein, cfr. con G. ORWELL, 1984, op. cit., pp. 193-222.
44
analizzabile ogni singolo frammento delle vite delle
persone. Tutti, dai membri del Partito interno (gli
oligarchi al vertice dell’organizzazione) ai membri del
Partito esterno (di cui Winston fa parte) pensano e
agiscono secondo i principi del Socing. Gli individui
subiscono infatti il controllo perenne di teleschermi
presenti nelle loro case e al minimo sospetto di
deviazione dai principi dell’ideologia vengono arrestati
dal braccio repressivo del Partito, la psicopolizia. Essa
ha il compito di intervenire laddove si sviluppi la
possibilità della riflessione indipendente dalla logica
cui il Partito ha piegato la realtà. Se la psicopolizia
è uno strumento di controllo del pensiero esterno alla
mente degli individui, strumenti come il bipensiero e la
neolingua, impediscono dall’interno, come vedremo in
seguito, qualsiasi tipo di pensiero indipendente da
tale logica. Unica eccezione a questo enorme sistema di
disciplinazione e controllo della vita sono i prolet, la
stragrande maggioranza della popolazione, sfruttata
nelle attività produttive, dei quali il Partito fomenta
solamente le pulsioni nazionaliste e l’istinto a
riprodursi, per creare nuova forza lavoro. I prolet,
allevati come animali e ritenuti tali, vivono al di
sotto dell’autocoscienza e pertanto non sono nelle
condizioni di ribellarsi al sistema oppressivo. Eppure
conservano quella condizione di “nuda vita” che nessuna
logica di potere può completamente manipolare. Esclusi
45
dallo spazio dell’autocoscienza, incapaci di formulare
una qualsiasi forma di riflessione, i prolet non possono
subire quel processo di disgregazione della realtà, di
vaporizzazione delle certezze del senso comune che il
Socing impone al resto dei cittadini di Oceania. È per
questo motivo che Winston ripone le ultime speranze di
resistenza nella loro impermeabilità all’ideologia. “Se
una speranza c’era, questa risiedeva fra i prolet”41.
Osservando una donna che aveva vissuto per anni in
quella condizione ferina, con delle braccia vigorose,
immersa nelle sue faccende domestiche mentre canticchia
un motivetto stupido, Winston pensa: “Un giorno quei
poderosi lombi avrebbero dato vita a una razza di esseri
umani consapevoli di sé. Il futuro apparteneva a loro.
Voi eravate i morti, ma potevate aver parte in quel
futuro se mantenevate in vita la mente così come essi
mantenevano in vita il corpo, tramandando quella
dottrina segreta secondo cui due più due fa quattro”42.
I.4.1. La dignità del senso comune: l’ideologia del
Socing in lotta con la certezza
I.4.1.1. Come è possibile un simile controllo degli
individui? Perché Winston pensa alla sua vita di
dissidente come ad un atto etico, consistente nella
conservazione della propria integrità mentale? Quale
41 Ivi, p. 74, 226.42 Ivi, p. 227.
46
importanza simbolica ha per la forma di vita umana che
due più due diano quattro?
Questi interrogativi trovano una possibile risposta in
quelle riflessioni wittgensteiniane che hanno come tema
comune il ruolo che la certezza svolge nei nostri giochi
linguistici, raccolte appunto in “Della Certezza”. Ad
attirare, com’è noto, l’attenzione di Wittgenstein su
questi temi fu la lettura, avvenuta nel 1949 durante un
viaggio negli Stati Uniti, presso N. Malcom, delle opere
di G.E. Moore in cui è presente la difesa delle
proposizioni del senso comune: “Proof of the External World” e
“Defence of Common Sense”. Senza scendere nei dettagli
della posizione filosofica di Moore possiamo qui
accennare alla strategia di difesa da lui adottata. Egli
distingue la propria posizione da chi nutre dubbi sulla
verità delle proposizioni comprese nella visione del
mondo del senso comune, come “La terra esiste da molti
anni”. Il problema non è la verità di queste
proposizioni ma l’analisi del loro significato, compito
questo della filosofia. L’analisi filosofica mette in
luce come il problema del significato di proposizioni
complesse che esprimono la posizione del senso comune,
ad esempio “le cose materiali esistono”, dipenda in
ultima istanza dall’analisi di proposizioni più semplici
come “questa è la mia mano”. Per evitare un regressum ad
infinitum Moore sottolinea poi come le proposizioni
semplici che scaturiscono dalla visione del mondo del
47
senso comune, vertano sempre intorno a qualche “dato
sensoriale” il quale non coincide con la “cosa”
argomento della proposizione. Sebbene non logicamente
provate, le credenze di contenuto realistico, sono
dunque certamente vere perché non possiamo vivere
altrimenti. “Io so che qui c’è una mano umana, un foglio
di carta, una penna ecc.” e lo so con una certezza che
non mi giustifica a dubitarne della verità. La vera
questione, dice Moore, semmai riguarda il significato
autentico di tali proposizioni, il quale emerge solo
attraverso l’analisi filosofica. Ma che tale analisi sia
stata portata a termine da qualche filosofo, questo,
osserva Moore, può essere terreno fertile per lo
scetticismo:
[…] io non sono affatto scettico riguardo alla verità di
proposizioni come «La terra esiste da molti anni», «Da molto
tempo molti esseri umani hanno vissuto sulla terra», ecc.,
cioè riguardo a proposizioni che asseriscono l’esistenza di
cose materiali […] Sono invece assai scettico sulla
possibilità di un’analisi corretta di tali proposizioni. E
questo è un punto in cui credo di differenziarmi da parecchi
filosofi. Molti sembrano infatti ritenere che non ci sia
dubbio alcuno sulla validità della loro analisi […] E alcuni di
questi filosofi […] sembrano dubbiosi della verità di ognuna di
queste proposizioni; io, invece, per parte mia, mentre
ritengo che non sussista dubbio alcuno sulla verità di molte
delle proposizioni in questione, ritengo anche che nessun
48
filosofo, finora, sia riuscito a suggerire un’analisi,
riguardo a certi punti importanti del loro significato, che
possa neanche lontanamente avvicinarsi ad essere sicuramente
vera.43
In “Della Certezza” Wittgenstein, pur riconoscendo la
dignità del senso comune, nega la plausibilità di una
tale impostazione della questione. “Ora, si può
enumerare quello che si sa (come fa Moore)? Così, sui
due piedi, credo di no . – Altrimenti le parole «Io so»
sarebbero usate malamente. E attraverso questo cattivo
uso della parola sembra che si mostri uno stato mentale
strano ed estremamente importante”44. Attribuire alla
certezza espressa nelle credenze del senso comune un
valore epistemologico, potersi cioè pronunciare sulla
loro verità o falsità, è un non senso tanto quanto la
negazione dell’esistenza del mondo esterno affermata dal
solipsista. Ciò non vuol dire che Wittgenstein
attribuisca a Moore una posizione apodittica, che
rasenta l’ingenuità. Quello che egli contesta non è
l’intento di Moore, la difesa del senso comune, ma il
metodo da lui utilizzato. Perché impostando la sua
soluzione in questi termini Moore si mette sullo stesso
piano del solipsista il quale nega la certezza delle
proposizioni del senso comune:
43 G. E. MOORE, In difesa del senso comune in Saggi filosofici, tr. it. Lampugnani Nigri, Milano 1970, p. 45.44 L. WITTGENSTEIN, Della Certezza, op. cit., § 6, p.4.
49
Moore ha ben ragione, dicendo di sapere che davanti a lui c’è
un albero. Naturalmente, in questo può sbagliarsi . (Infatti
qui le cose non stanno con l’espressione «Io credo che là ci
sia un albero»). Ma se in questo caso abbia ragione o si
sbagli, non è importante da un punto di vista filosofico.
Quando Moore contesta quelli che dicono che una cosa del
genere non si può propriamente sapere, non può farlo dandoci
l’assicurazione che lui sa questo e quest’altro, perché non
c’è bisogno di credergli. Se il suo oppositore avesse
asserito che non si può credere questa determinata cosa così e
così, allora Moore avrebbe potuto rispondergli: «La credo io».
L’errore di Moore consiste nel contrapporre, all’asserzione
che una certa cosa non si può sapere, «Io la so».”45
I.4.1.2. Wittgenstein mostra invece come una
dissoluzione del problema richieda un abbandono della
trattazione di proposizioni come “questa è la mia mano”
in termini di verità e falsità. Il problema non è sapere
che una data proposizione sia vera o meno, ma di
indagare gli effetti che la negazione della sua verità o
l’asserzione della sua falsità avrebbero sul modo di
agire dei parlanti: “non si tratta del fatto che Moore
sappia che qui c’è una mano, ma del fatto che se dicesse
«Qui naturalmente potrei sbagliarmi» non lo capiremmo.
Chiederemmo: «Che aspetto avrebbe un errore così?» - Che
aspetto avrebbe, per esempio, la scoperta che si
trattava d’un errore?”46.
45 Ivi, §§ 520-521, p. 84.46 Ivi, § 32, p. 8.
50
Se le certezze del senso comune non sono certezze
cognitive, qual è allora il loro statuto giuridico nel
linguaggio? Il carattere particolare della certezza del
senso comune, appare chiaro quando volgiamo lo sguardo
dall’analisi logica al comportamento umano. Certo
Wittgenstein non nega che le proposizioni di cui Moore
parla abbiano un contenuto empirico. Ma nei nostri
giochi linguistici esse svolgono un ruolo particolare,
quello di strumenti grammaticali il cui scopo è
disciplinare la nostra condotta intellettuale. Le
certezze espresse dalle proposizioni del senso comune
costituiscono un sistema, un edificio, che fa da codice
privo di fondamenti razionali o metafisici ai nostri
comportamenti. È come se Wittgenstein volesse sottrarre
il problema delle certezze del senso comune all’agone
filosofico che su di esse la tradizione occidentale ha
costruito, per sottolineare l’importanza che per la loro
assunzione, nella vita di tutti i giorni, ha quello
sfondo ereditato dalla comunità sociale cui apparteniamo:
“«Una proposizione empirica si può controllare» (diciamo
noi). Ma in qual modo? e con quale mezzo? […] Come se
una volta o l’altra la fondazione non giungesse a un
termine. Ma il termine non è la presupposizione
infondata, sibbene il modo d’agire infondato”47. Quello
che ancora una volta emerge da questi passi è la
tensione tutta interna alle opere del Wittgenstein
47 Ivi, §§ 109-110, p. 21.
51
maturo, nelle quali cerca di sganciare la visione del
linguaggio dalla sublimazione in modelli teorici per
ancorarlo stabilmente alla dimensione della prassi.
L’esito di questa tensione è incarnato da quella
citazione goethiana ripresa più volte nella fase matura
della sua riflessione: “Im Anfang war die Tat”48 (“In
principio era l’Azione”). Così se, ad esempio, non
assumessimo l’esistenza delle cose materiali o del mondo
esterno come presupposizione infondata non sarebbe possibile
alcun tipo di azione, saremmo cioè impediti dal dubbio,
incerti. Lo stesso gioco linguistico del dubbio, così
come lo conosciamo, ha questa fisionomia solo perché
alcune proposizioni empiriche sono collocate al di là di
esso, fanno cioè da terreno su cui esso poi agisce. Che
ne sarebbe del dubbio se non esistesse questo sfondo
infondato, senza queste proposizioni “saldamente
stabilite”? Semplice, dice Wittgenstein, non sarebbe più
un dubbio: “Chi volesse dubitare di tutto, non
arriverebbe neanche a dubitare. Lo stesso giuoco del
dubitare presuppone già la certezza”49.
Se anche il gioco del dubbio è una possibilità scaturita
dall’infondatezza delle certezze del senso comune allora
il riconoscimento della loro dignità, sebbene non
razionalmente giustificata, diventa un punto
imprescindibile per la libertà della riflessione. Così
Winston Smith scrive nel suo diario: “Libertà è la
48 W. GOETHE, Faust, tr. it. Einaudi, Torino 1965, p. 38.49 L. WITTGENSTEIN, Della Certezza, op. cit., § 115, p. 22.
52
libertà di dire che due più due fa quattro. Garantito
ciò, tutto il resto ne consegue naturalmente”50. Dunque
tanto Orwell quanto Wittgenstein conferiscono al senso
comune una dignità di medesimo valore. Nella distopia
orwelliana ne va della resistenza dell’integrità mentale
del protagonista, di ciò che di più umano vi è nella
riflessione: “Bisognava difendere tutto ciò che era
ovvio, sciocco e vero. I truismi sono veri, era una cosa
da tenere per fermo! Il mondo reale esiste e le sue
leggi sono immutabili. Le pietre sono dure, l’acqua è
bagnata e gli oggetti lasciati senza sostegno cadono
verso il centro della Terra”51. Ma il filosofo austriaco
conviene su questa difesa espellendo la visione del
mondo del senso comune dall’area della problematicità,
così da dissolvere quel crampo filosofico per cui alcuni
filosofi affermano la non esistenza delle cose
materiali. Per questo motivo egli non si sottopone alla
tortura di una confutazione di segno opposto, cioè
realista, del solipsismo. Piuttosto si limita alla
chiarificazione dei termini in cui la questione della
verità o falsità delle proposizioni del senso comune
viene posta, e ne fa emergere, l’opacità, la profonda
dissonanza con l’esperienza quotidiana. E su questo si
fonda un’importante differenza che risulta dal confronto
con Orwell. Wittgenstein conferisce, infatti, uguale
dignità tanto al senso comune e alla sua certezza quanto
50 G. ORWELL, 1984, op. cit., p. 86.51 Ibid.
53
all’errore; la possibilità di sbagliarsi è data dal
fatto che giudichiamo in conformità con la forma di
vita, con il resto dell’umanità: “Per sbagliarsi, l’uomo
deve già giudicare in conformità con l’umanità”52.
Potremmo definire questo il tema della prova. Il
problema cioè della verità o meno di una prova che
garantisca ad un individuo il senso della “concordanza
con la realtà” non dipende dall’adaequatio rei et intellectus,
ma dalla condivisione del modo di giudicarla con la
forma di vita. In tal senso «prove sicure sono quelle che
accettiamo come incondizionatamente sicure, e grazie alle quali agiamo
con sicurezza e senza dubbi»53. Così, in “1984”, anche Winston è
impegnato nella disperata ricerca di una prova su cui
fondare non solo la propria resistenza ad un potere
soverchiante, ma soprattutto la propria “integrità
mentale”. Dal buon esito di questa ricerca ne va della
sopravvivenza di una dissidenza principalmente
psicologica ai principi ideologici, legata a doppio filo
con la sanità mentale del protagonista. Questa
integrità, ripete Winston, «non ha alcun rapporto con la
statistica»54, vorrebbe cioè essere libera da quel bisogno
di condivisione che il tema della prova ha invece nella
trattazione di Wittgenstein. Proprio per questo motivo,
Winston cerca continuamente di ancorare la propria
52 L. WITTGENSTEIN, Della Certezza, op. cit , § 156, p. 28. Sull’argomento si vedano anche i §§ 71-73, pp. 14-15 e il § 663, p. 108.53 Ivi, § 196, p. 33.54 G. ORWELL, 1984, op. cit., p. 223.
54
memoria, la propria esistenza, anche nei suoi aspetti
materiali, ad una prova che ne dimostri, in barba a ciò
che il Partito dice, la fondatezza: “Winston aveva
sollevato il cucchiaio e rimestava nel sugo scolorito
che colava sul tavolo, tracciandovi dei disegni e nello
steso tempo riflettendo, pieno di rancore, sui meri
aspetti fisici dell’esistenza. Era stato sempre così? Il
sapore del cibo era stato sempre questo?”55.
Mosso dallo stesso intento Winston affida la propria
integrità mentale alla memoria di alcuni fatti storici,
che la strategia di “controllo della realtà” del Partito
tende continuamente a divorare. È il caso, ad esempio,
della foto con i tre esponenti del Partito Interno,
accusati, in una purga che allude direttamente alle
vicende dello stalinismo, di essere ingiustamente dei
traditori; e che egli stesso ha dovuto distruggere:
“Tutto svaniva nella nebbia. Il passato veniva
cancellato, la cancellazione dimenticata, e la menzogna
diventava verità . Una volta sola in vita sua aveva
posseduto (dopo che l’evento si era verificato, ed era
questo che contava) la prova materiale e
incontrovertibile di un atto di falsificazione. L’aveva
tenuta stretta fra le dita per ben trenta secondi”56.
Quella prova che Winston, tiene in mano per pochi
secondi, perde il suo valore di prova perché egli non
era stato in grado di farne un elemento condiviso su cui
55 Ivi, p. 63.56 Ivi, pp. 79-80.
55
fondare le proprie accuse alla mistificazione della
realtà messa in atto dal Partito.
I.4.1.3. Vorrei ora soffermarmi su due temi presenti in
“Della Certezza” che in un certo senso richiamano la
rappresentazione della lotta che in “1984” il Partito
intraprende contro la visione del mondo propria del
senso comune. In primo luogo deve essere considerata la
prospettiva da cui Wittgenstein tratta il tema del modo
in cui noi ereditiamo l’edificio delle proposizioni
ritirate dal gioco del dubbio. Il linguaggio, l’insieme
di azioni con le quali gli individui prendono parte ai
giochi linguistici che ne caratterizzano
l’articolazione, è sicuramente il canale attraverso cui
una comunità sociale eredita questo sfondo. Sicuramente
ciò concerne il lato, potremmo dire “comunitario” della
questione, perché la sua realizzazione implica
l’appartenenza del parlante alla forma di vita di cui lo
sfondo è espressione. Abbiamo visto sopra coma non
esista verità fuori dalla condivisione. In un certo
senso il parlante si conforma al bagaglio di esperienze
condiviso dalla comunità linguistica: “No, l’esperienza
non è la ragione del nostro giuoco del giudicare. E
neanche la sua conseguenza più cospicua. Gli uomini
giudicavano che un re potesse far piovere; noi diciamo
che questo contraddirrebbe ogni esperienza. Oggi si
giudica che l’aeroplano, la radio, ecc., siano mezzi per
56
avvicinare tra loro i popoli e per diffondere la
cultura”57. Ma imparare a giudicare in conformità ad una
comunità significa anche imparare una prassi, la prassi
del giudizio empirico. Attraverso questo esercizio
costante impariamo a credere ad un sistema di giudizi;
potremmo definire questo il lato “prassiologico” della
questione:
La prassi del giudizio empirico non l’impariamo imparando
regole; ci vengono insegnati giudizi, e la loro connessione con
altri giudizi. Ci viene resa plausibile una totalità di giudizi.
Quando cominciamo a credere a qualcosa, crediamo, non già a
una proposizione singola, ma a un intiero sistema di
proposizioni. (Sulla totalità la luce si leva poco a poco).58
.
Ma per padroneggiare completamente le regole di una
prassi è fondamentale che il parlante accetti, senza
spiegazioni che ne illuminino le fondamenta razionali,
una totalità di giudizi posta al di là di ogni
ragionevole dubbio. È questo il modo in cui il bambino
eredita lo sfondo della comunità sociale all’interno
della quale nasce: “Il bambino impara a credere un sacco
di cose. Cioè impara, per esempio, ad agire secondo
questa credenza. Poco alla volta, con quello che crede
si costruisce un sistema e in questo sistema alcune cose
sono ferme e incrollabili, altre sono più o meno mobili.
57 L. WITTGENSTEIN, Della Certezza, §§ 131-132, p. 24.58 Ivi, §§ 140-141, p. 26.
57
Quello che è stabile, non è stabile perché sia in sé
chiaro o di per sé evidente, ma perché è mantenuto tale
da ciò che gli sta intorno”59. E la costruzione del
sistema, attraverso cui il bambino partecipa alla
comunità linguistica, è a sua volta il risultato di un
costante addestramento e della fiducia nel proprio
insegnante. Il bambino costruisce questo edificio
mettendo alle sue fondamenta quei giudizi empirici che
“ciò che gli sta intorno” considera fondamentali. O per
utilizzare la stessa pregnante immagine wittgensteiniana
il bambino “inghiotte” le premesse infondate della
propria comunità sociale prescindendo da qualsiasi
intenzione educativa del proprio ambiente60. La stessa
immagine è riecheggiata in “1984” a proposito del modo
in cui gli ortodossi, i buonpensanti, conformano la
propria vita sulla visione del mondo del Partito. Non è
necessario che il potere imponga, a queste persone, i
principi del Socing perché «ingoiavano tutto, senza batter ciglio,
e ciò che ingoiavano non le faceva soffrire perché non lasciava traccia
alcuna, allo stesso modo in cui un chicco di grano passa indigerito
attraverso il corpo di un uccello»61.
Terrei questo come un punto fermo del confronto:
appartenere ad una cultura, ad una forma di vita, vuol
dire ingerire e assimilare le sue premesse infondate.
Allo stesso tempo però la pratica del dubbio, quindi
59 Ibid., § 144.60 Ibid., § 143.61 G. ORWELL, 1984, op. cit., p. 163.
58
della scoperta dell’infondatezza razionale di tali
premesse implica uno sradicamento del soggetto della
riflessione. Del resto questa sofferenza è l’amara
contropartita dell’attività filosofica. Il filosofo ha
bisogno di una buona dose di coraggio se aspira ad
ottenere risultati significativi, non deve aver paura
del dolore: “Le doglie nel partorire nuovi concetti”62
constata il filosofo austriaco nel 1947. Non
narcisistico titanismo, ma assunzione della
responsabilità della riflessione. La stessa dolorosa
solitudine è vissuta da Winston Smith nella battaglia
per la difesa della propria integrità mentale, per non
uniformarsi alla follia di massa, alla sragione
oppressiva del Socing: “Winston si sentì come se stesse
vagando nelle foreste del fondo marino, perduto in un
mondo mostruoso in cui era lui il mostro. Era solo. Il
passato era morto, il futuro imprevedibile”63.
I.4.1.4. Il rapporto tra individuo e comunità, tra il
modo in cui il bambino impara a parlare, riflettere,
argomentare e lo sfondo infondato della nostra cultura,
ci introduce al secondo tema presente in “Della Certezza”
che in un senso decisamente più diretto rispecchia quel
conflitto tra ideologia e senso comune, vero
protagonista di “1984”. Lo definirei il tema della
trasformazione. Lo sfondo che costituisce la mia
62 L. WITTGENSTEIN, Pensieri diversi, op. cit., p. 120.63 G. ORWELL, 1984, op. cit., p. 29.
59
“immagine del mondo” (Weltbild), la parte solida
dell’edificio ereditato dalla cultura cui appartengo è,
abbiamo detto, quell’insieme di presupposti infondati
che mi permettono di distinguere il vero dal falso.
Possiamo dunque immaginare quale grado di conflittualità
inneschi una trasformazione di questo sfondo tra chi ha
“inghiottito” il vecchio sistema che fa da metro del
giudizio e chi invece ne ha assimilato uno nuovo, uno
attraverso il quale è stato addestrato e ha formato la
propria “immagine del mondo”. Questo tipo di conflitto è
immaginato tanto da Wittgenstein quanto da Orwell. Ma se
nel primo viene neutralizzato nella sua trattazione
teorica, nel secondo presenta tutta la concretezza
della prosa con cui si rappresenta una distopia:
Dove s’incontrano effettivamente due principî che non si
possono riconciliare l’uno con l’altro, là ciascuno dichiara
che l’altro è folle ed eretico.
Ho detto che «combatterei» l’altro – ma allora non gli darei
forse ragioni? Certamente, ma fin dove arrivano? Al termine
delle ragioni sta la persuasione. (Pensa a quello che accade
quando i missionari convertono gl’indigeni).64
La lotta, il combattimento tra due immagini del mondo
differenti, non avviene per dimostrazione. Le ragioni
di una visione del mondo, nel conflitto tra sistemi di
giudizio alternativi, possono essere impegnate solo fino
64 L. WITTGENSTEIN, Della Certezza, op. cit., §§ 611-612, p. 99.
60
a quando non si giunga a mettere in gioco lo sfondo
infondato di tale visione del mondo. La radicalità dello
scontro è espressa proprio nel fatto che al termine
delle ragioni, per convincere l’avversario, non rimane
che la persuasione. Del resto chi “inghiotte” una serie di
certezze che riguardano il mondo, la storia, le leggi
della fisica, non lo fa perché convinto dalle ragioni
con cui si argomentano queste posizioni, ma perché viene
convinto da qualcosa che funziona, che ha un riscontro
nell’esperienza quotidiana e nel rapporto con gli altri.
Se Wittgenstein immagina la persuasione come un
appoggiare «il nostro modo di procedere con ogni sorta di parole
d’ordine (slogan)»65, anche Orwell inscena il conflitto che i
principi ideologici del Socing combattono contro la
visione del mondo del senso comune, non attraverso il
“proceder tranquillo” della filosofia, ma nell’impatto
tra le coscienze e slogan martellanti, ripetuti da
teleschermi e megafoni. «La guerra è pace, la libertà è schiavitù,
l’ignoranza è forza» oppure ancora «chi controlla il passato controlla il
futuro: chi controlla il presente controlla il passato»66 sono un esempio
di come Orwell rappresenti la lotta tra Partito e senso
comune con lo scontro tra slogan. Tuttavia, rimane il
fatto che la persuasione abbia nel romanzo un sapore
decisamente più violento, non limitato alla penetrazione
psicologica degli slogan del Partito. La strategia
persuasiva attuata ha infatti il carattere di una
65 Ibid., § 610.66 G. ORWELL, 1984, op. cit., pp. 8 e 255.
61
trasformazione coatta e violenta sintetizzata dal
percorso di rieducazione che Winston compie nell’ultima
parte del romanzo: “Al Partito i fatti manifesti non
interessano. L’unica cosa che ci sta a cuore è il
pensiero. Noi non ci limitiamo a distruggere i nostri
nemici, noi li cambiamo”67.
Il cambiamento, la trasformazione violenta, sono
esercitati principalmente sul modo di pensare, di
articolare l’argomentazione o finanche sostenere gli
slogan di un’immagine del mondo opposta a quella del
Partito. Si tratta di aggredire lo zoccolo duro, la
parte solida delle certezze di una forma di vita. È
quello che Wittgenstein ipotizza, in un contesto neutro,
quando dice: “Ma non sarebbe possibile che accadesse
qualcosa che mi buttasse completamente fuori dai binari?
Prove [Evidenz] che mi rendessero impossibile, assumere
la cosa più sicura? O comunque agissero in modo da farmi
rovesciare i miei giudizi più fondamentali? (Se a
ragione o a torto, qui non importa affatto)”68 . Ora la
funzione di questi “binari” su cui viaggiano i miei
giudizi è definita nel concetto di mitologia:
Le proposizioni, che descrivono quest’immagine del mondo,
potrebbero appartenere a una specie di mitologia. E la loro
funzione è simile alla funzione delle regole del giuoco, e il
67 Ivi, p. 260.68 L. WITTGENSTEIN, Della Certezza, op. cit., § 517, p. 83.
62
giuoco si può imparare anche in modo puramente pratico, senza
bisogno d’imparare regole esplicite.69
Nel nostro linguaggio è depositata un’intera mitologia. (In
unserer Sprache ist eine ganze Mythologie niedergelegt.)70
Nella nostra forma di vita si dà quindi un sistema di
proposizioni, un gruppo di giochi linguistici collegati
da importanti somiglianze di famiglia, che occupano al
suo interno una posizione centralissima. Ne consegue che
una trasformazione di questo nucleo che, ricordiamolo,
si manifesta nei nostri giochi linguistici come
l’“elemento vitale dell’argomentazione”, comporta una
mutazione della stessa forma di vita. Come l’alterazione
del dna per un organismo biologico complesso si esprime
nella mutazione delle note caratteristiche di
quell’organismo, così se la mitologia depositata nel
linguaggio venisse alterata il risultato sarebbe un
cambiamento della forma di vita, una mutazione
antropologica. Wittgenstein sostiene, senza
sovrapposizioni di modelli generali come la teoria
dell’evoluzione, che il rapporto tra mitologia e giochi
linguistici “in circolazione”, su cui cioè la pratica
del dubbio rappresenti, potremmo dire, un rischio
calcolato, è un rapporto non dato una volta per tutte.
La trasformazione della mitologia è un elemento di
69 Ivi, § 95, p. 19.70 L. WITTGENSTEIN, Filosofia, op. cit., p. 83.
63
dinamismo interno alla stessa forma di vita. I nostri
giochi linguistici sono infatti una serie di giochi le
cui regole nascono, mutano, si complicano, giocando:
Ci si potrebbe immaginare che certe proposizioni hanno forma
di proposizioni empiriche vengano irrigidite e funzionino
come una rotaia per le proposizioni empiriche non rigide,
fluide; e che questo rapporto cambi col tempo, in quanto le
proposizioni fluide si solidificano e le proposizioni rigide
diventano fluide.
La mitologia può di nuovo tramutarsi in corrente, l’alveo del
fiume dei pensieri può spostarsi. Ma io faccio una
distinzione tra il movimento dell’acqua nell’alveo del fiume,
e lo spostamento di quest’ultimo; anche se, tra le due cose,
una distinzione netta non c’è.71
L’importanza del tema della trasformazione si manifesta
anche nel ruolo che la filosofia come istanza
terapeutica deve svolgere nei confronti delle malattie
del linguaggio. Perché se l’attività filosofica è
dissipazione della nebbia che avvolge un certo uso del
linguaggio, e quindi trasformazione dello sguardo su ciò
che consideriamo ovvietà, superficie; allora il filosofo
opera una bonifica della mitologia, una chiarificazione
di ciò che di infondato giace negli anfratti del
linguaggio. E non lo fa imponendo a questo sfondo nuovi
usi linguistici, usi totalmente analizzati, puri,
71 L. WITTGENSTEIN, Della Certezza, op. cit., §§ 96-97, p. 19.
64
scientifici. Ma lo fa ricollocandosi nell’alveo del
quotidiano, provocando una trasformazione nell’immanente
che non sia imposizione. Il lavoro filosofico è una
trasformazione non violenta di sé, un modo responsabile,
vitale e antitragico di guardare alla concretezza del
quotidiano: “In questo mondo (il mio) non vi è tragicità
e quindi neppure tutte le infinite cose che producono la
tragicità (come frutto). Tutto è, per così dire,
solubile nell’etere del mondo; non vi sono durezze. Vale
a dire, la durezza e il conflitto non danno luogo a
qualcosa di splendido, bensì a un errore”72. La posizione
wittgensteiniana non ha quindi nulla a che fare con
forme di rassegnazione più o meno soddisfatte rispetto
alla storia. Nasce piuttosto da un’esigenza di
trasformazione che non prescinda dalla comunità e dalla
storia, ma che ne faccia punto focale della propria
azione, attraverso una serrata critica, accompagnata da
una ricollocazione responsabile, all’interno di quel
complesso fenomeno in cui riconosciamo la forma di vita:
il linguaggio. La posizione etica di Wittgenstein non è
la progettazione di una trasformazione radicale
dell’esistente da realizzarsi attraverso l’imposizione
di un modello universale. Come osserva S.Borutti:
“Wittgenstein non sembra ammettere in questo modo una
funzione critica razionale separata e riflessa, una
progettualità politica autonoma, un’u-topia elaborata
72 L. WITTGENSTEIN, Pensieri diversi, op. cit., p. 32.
65
indipendentemente dal luogo in cui siamo consegnati. Il
suo modello sembra voler rimanere decisamente
impolitico, o pre-politico: se allude agli effetti
politici della dinamica spontanea delle pratiche
intracomunitarie, esclude tuttavia un’autonoma
dimensione teorica del dibattito, progettazione e
deliberazione”73.
Al contrario, quella di “1984”, è una trasformazione
della forma di vita di una violenza inaudita, resa in
tutta la sua crudezza dalle immagini, dalle metafore che
Orwell rappresenta. La velocità e la consistenza
dell’opera di trasformazione imposta dal Partito
sull’uomo, come finora lo abbiamo rappresentato, è tale
da causare lo sgretolamento, o meglio la
“vaporizzazione”, della mitologia così come la intende
Wittgenstein:
Un bel giorno il Partito avrebbe proclamato che due più due
fa cinque, e voi avreste dovuto crederci. Era inevitabile che
prima o poi succedesse, era nella logica stessa delle
premesse su cui si basava il Partito. La visione del mondo
che lo informava negava, tacitamente, non solo la validità
dell’esperienza, ma l’esistenza stessa della realtà esterna.
Il senso comune costituiva l’eresia delle eresie. Ma la cosa
terribile non era tanto il fatto che vi avrebbero uccisi se
l’aveste pensata diversamente, ma che potevano aver ragione
loro. […] Che cosa succede, se il passato e il mondo esterno73 S. BORUTTI, Wittgenstein impolitico? in Wittgenstein politico, a cura di D. Sparti, Feltrinelli, Milano 2000, p. 149.
66
esistono solo nella vostra mente e la vostra mente è sotto
controllo?74
La stessa terribile angoscia per la scomparsa degli
oggetti fisici, per lo spaesamento nel posto in cui si
ci trova, per la perdita della propria identità, la
ritroviamo nelle immagini, neutralizzate dall’ambito
teorico, con cui Wittgenstein in “Della Certezza” svolge
l’analisi filosofica del senso comune75. Un’angoscia
questa che attraversa le ultime annotazioni
wittgensteiniane e che fa dell’alter ego teorico di
Wittgenstein in “Della Certezza” un personaggio parallelo a
Winston Smith, alter ego narrativo di Orwell, dal
momento che anch’egli, in ogni sua parola o azione,
sembra chiederci: “Di che cosa posso fidarmi?”76. E
perché non immaginare che anche Winston, immobile,
insieme a Julia, nella stanza dove di lì a poco avrebbe
fatto irruzione la psicopolizia, si fosse concesso la
libertà di questa riflessione: “Anche una proposizione
come questa: che ora vivo in Inghilterra, ha questi due
aspetti: un errore non è – ma, d’altra parte, che cosa
so, dell’Inghilterra? – Non può darsi che nel mio
giudizio mi sbagli completamente? Non sarebbe possibile
che entrassero nella mia stanza uomini, che asserissero
tutto il contrario? E cioè, me ne dessero “prove”,
74 G. ORWELL, 1984, op. cit., p. 85.75 Cfr. con L. WITTGENSTEIN, Della Certezza, op. cit., §§ 214, 421, 486,515, pp. 36, 66, 79, 83.76Ivi, § 508, p. 82.
67
cosicché improvvisamente me ne starei lì, da solo, come
un matto tra persone tutte normali, o come una persona
normale tra matti?”77.
I.4.1.5. Nel mondo di Winston Smith, quindi, è in
corso, o nella peggiore delle ipotesi è già avvenuta,
una notevole mutazione antropologica. Una mutazione che
investe non solo le esperienze individuali ma
soprattutto il modo di pensare e di agire collettivo. Un
mutamento radicale della forma di vita che investe ciò
che il senso comune, l’uomo della strada, colloca al di
là di ogni ragionevole dubbio. Che io esista, che i
corpi esterni esistano, che la terra esista da più di
cento anni; tutto questo non fa più da sfondo alle
azioni degli uomini e delle donne di Oceania salvo che
il Partito non lo giudichi conveniente per la sua
esistenza. Ma questo non può avvenire, perché il Socing
ha fatto della guerra alla certezza, al senso comune,
all’accordo comunitario, all’oggettività lo strumento
indispensabile per la conservazione eterna del potere.
Potremmo dire, con Wittgenstein, che una specie di mitologia,
l’ideologia del Socing, costituisca adesso lo sfondo che
dà senso alle azioni delle persone. Si tratta tuttavia
di uno sfondo liquido, sottoposto alla pressione
costante del “controllo della realtà” da parte del
Partito e per questo incapace di solidificarsi e
77 Ivi, § 420, p. 66.
68
diventare quel nucleo infondato sul quale (e attraverso
il quale) può fiorire un nuovo spettro di espressioni,
una nuova forma di vita:
Che cosa direi se, nei miei giudizi priv[ati], entrassi in
contraddizione con tutti gli altri? Vale a dire, se non
potessi più giocare un gioco lin[guistico] con loro. O se
tutti i fatti intorno a me diventassero straordinari? Mi
atterrei ancora ai miei giudizi?78
Questa strategia di “controllo della realtà” attuata dal
Partito in Oceania ha nel linguaggio ispirato ai
principi ideologici del Socing, la neolingua, un nome
particolare: bipensiero.
Esso è una tecnica particolare padroneggiando la quale è
possibile esprimersi e credere realmente, senza alcuno
sforzo, nelle menzogne che la classe dirigente di
Oceania propina quotidianamente alla popolazione. Il
bipensiero è infatti «[…] la capacità di accogliere simultaneamente
nella propria mente due opinioni tra loro contrastanti accettandole
entrambe»79. Viene assimilato dal parlante attraverso i
due meccanismi che lo costituiscono: lo stopreato e il
nerobianco. Il primo è, potremmo dire un meccanismo di
inibizione del parlante, un esercizio di allontanamento
dal giudizio e dall’errore espressi in conformità alla
forma di vita. È in un certo senso una volontaria cecità78 L. WITTGENSTEIN, Esperienza privata e dati di senso, a cura di L. Perissinotto, Einaudi, Torino 2007, p. 60.79 G. ORWELL, 1984, op. cit., p. 220.
69
di fronte a quelle analogie, a quelle somiglianze di
famiglia che permetterebbero di farci un quadro chiaro
del modo in cui ci esprimiamo. Lo stopreato è «[…] la
capacità di non cogliere le analogie, di non percepire gli errori di logica, di
fraintendere le argomentazioni più elementari quando sono contrarie al
Socing, oltre a quella di provare noia o ripulsa di fronte a un qualsiasi
pensiero articolato che potrebbe portare a posizioni eretiche. In parole
povere, lo stopreato è una forma di stupidità protettiva»80. Il secondo
meccanismo di funzionamento del bipensiero è forse il
maggior elemento di destabilizzazione, di liquefazione
della mitologia sedimentata nel linguaggio. Il suo nome
in neolingua è nerobianco ed indica la sincera volontà ma
anche «la capacità di credere veramente che il nero sia bianco e, più
ancora, di sapere che il nero è bianco, dimenticando di aver mai pensato il
contrario»81. Naturalmente su questa ultima definizione
Wittgenstein avrebbe precisato che il modo in cui “Io
so” che il nero è il bianco «si mostrerà dal modo in cui agisco e
parlo delle cose»82, infatti «non è che in certi punti l’uomo conosca la
verità con sicurezza completa. Ma anzi la sicurezza completa si riferisce
soltanto al suo atteggiamento»83. Ciò non toglie che il bipensiero
si riveli un utile alleato nella battaglia per la
demolizione del senso comune, la cui seconda faccia è il
completo controllo del passato. Esso penetra nel
radicamento del soggetto pensante alla forma di vita,
nella sua capacità di distinguere vero e falso a partire80 Ivi, p. 218.81 Ibid.82 L. WITTGENSTEIN, Della Certezza, op. cit., § 395, p. 62.83 Ivi, § 404, p. 63.
70
dallo sfondo infondato di una comunità sociale, che
peraltro è stato inghiottito attraverso una dialettica
di addestramento e inconscia appartenenza, e lo sradica.
Lo estranea dal modo in cui gli altri giudicano, lo isola
cancellando quella dignità di certezza ed errore che
Wittgenstein riscontrava nell’analisi del senso comune,
per farne un folle.
Tutto ciò mette in luce l’effetto cercato dal Partito
attraverso questo complicato insieme strategico di
demolizione della visione del mondo del senso comune:
l’atomizzazione della forma di vita in una galassia di
soggetti privati, incapaci di condividere uno sfondo
comune, incapaci di manifestare nei giochi linguistici
l’appartenenza alla medesima vitale realtà. Penso che
questa possibile deriva catastrofica di alcuni esiti
della tradizione metafisica occidentale, in particolare
da Cartesio in poi, fosse, sebbene non in termini
distopici, presente all’attenzione di Wittgenstein. Temi
come l’argomentazione contro il linguaggio privato delle
sensazioni o la critica delle dicotomie interno/esterno,
profondità/superficie, diretto/indiretto tipiche
dell’argomentazione filosofica su problemi che
concernono i concetti della psicologia, potrebbero
essere letti in relazione a quella vena apocalittica che
caratterizzò il modo di vivere il proprio tempo del
filosofo austriaco. Mi propongo adesso di approfondire,
71
con la consapevolezza di non poterlo esaurire, proprio
questo aspetto.
I.4.2. Un mondo di “superprivati”: l’età della
solitudine
“Una pusillanime
trepidazione dell’ira nostra
s’impadronirà di loro, le loro
intelligenze
s’intimidiranno, i loro occhi
diverranno facili alle lacrime,
come quelli dei bambini e
delle donne: ma con
altrettanta facilità, a un
nostro cenno passeranno
all’allegria e al riso, alla più
limpida gioia, e alle beate
canzoncine infantili.”
F. Dostoevskij, I fratelli
Karamazov (ParteII,
Libro V, cap. V, Il
Grande Inquisitore, tr.
it. Einaudi, Torino
2005, p. 345.)
72
Il sistema politico che il Socing incarna non fonda
dunque il suo potere su un banale controllo dei
comportamenti individuali. Ai membri del Partito non si
richiede infatti una semplice adesione formale ai
principi ideologici che lasci spazio ad un carsico
nicodemismo. La grande novità che questo modo di gestire
il potere apporta ai vecchi totalitarismi e alle
dittature è appunto una trasformazione violenta della
forma di vita. Una trasformazione che si realizza
attraverso la soluzione di un problema proprio della
tradizione filosofica occidentale in un senso che
Wittgenstein avrebbe definito solipsista. Il problema in
questione è infatti quello dell’esistenza reale di
altre menti oltre alla nostra.
I.4.2.1 Nell’ultima parte del romanzo la scena è
dominata dai dialoghi tra Winston e un membro del
Partito interno O’Brien. Catturato e imprigionato come
dissidente, Winston è sottoposto ad un doloroso percorso
di rieducazione che riproduce, su scala individuale,
quella trasformazione antropologica violenta di cui ho
già parlato. Questi dialoghi riproducono lo stesso
schema presente in “Della Certezza”. Da un lato O’Brien
che con una cattiveria paragonabile all’ “ingannatore
maligno” di cartesiana memoria continua a mettere in
dubbio ciò che dall’altro lato, Winston, dice invece di
73
sapere con certezza. Allo stesso modo, in “Della Certezza”,
da un lato abbiamo una voce che pone dubbi, chiede,
immagina situazioni disorientanti. Dall’altro lato,
invece troviamo una voce timida che coniuga le proprie
argomentazioni al condizionale. Sebbene la prima voce
abbia il compito spesso fastidioso di svelare le
infondatezze del senso comune, non è possibile
identificarla completamente con Wittgenstein; ugualmente
la seconda voce, sostenitrice invece della certezza del
senso comune, non è una maschera di Moore84. Sulla scorta
delle considerazioni di S. Cavell85 potremmo dire che
questa struttura dialogica percorra per intero la
filosofia di Wittgenstein dagli anni Trenta in poi, e
che rifletta non un semplice strumento stilistico, bensì
il modo stesso di procedere della filosofia per il
pensatore austriaco. Le annotazioni di “Della Certezza”
presentano tutte una tensione interna tra ciò che
potremmo definire la “voce della tentazione” e ciò che
di contro potrebbe invece essere chiamata la “voce del
perfezionamento”. La prima, esposta da Wittgenstein
sempre tra virgolette, esprime una certa tendenza
all’idealizzazione, alla sublimazione,
all’ipostatizzazione in immagini di espressioni
quotidiane. È ciò che, insomma, Wittgenstein
84 Per il “tema delle due voci” in Della Certezza si veda M.L. BARBERA, L’idea di trasformazione tra violenza e nonviolenza, in “Annali della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena”, Vol. XVI, 1995, pp. 135-154. 85 Cfr. S. CAVELL, Il tramonto al tramonto. Wittgenstein filosofo della cultura, in Wittgenstein politico, op. cit., pp. 70 e sgg.
74
identificava con un modo degenerato, metafisico, di fare
filosofia. Il tono, molto spesso sicuro di questa voce,
viene invece insidiato dai dubbi, dalle angosce, dalle
domande di una seconda voce che tende invece a
smascherare questo tipo di illusioni filosofiche. È
questa quella voce che richiamò Wittgenstein, nel corso
della sua vita, ad un continuo esercizio di
perfezionamento e miglioramento del proprio modo di
guardare al mondo.
Ora, lo stesso gioco delle parti, sebbene i dubbi, le
domande e le angosce di O’Brien abbiano qui il ruolo di
torturare, di perfezionare in un senso diabolico, le
certezze non provate di Winston, lo ritroviamo in alcuni
passi dell’ultima parte di “1984”. A tal proposito vale
la pena spendere alcune parole sulla parte, sulla
maschera che O’Brien recita. Egli non è il mero
controaltare dialettico alle posizioni di Winston.
Rappresenta, forse in maniera più nitida e con più
forza, un pericolo e una possibilità dalla quale Orwell
vuole metterci in guardia e che interessa il ruolo
dell’intellettuale, del filosofo di professione. Come
osserva R. Rorty: “O’Brien ci ricorda che gli esseri
umani che sono stati socializzati – in qualunque
linguaggio, in una qualunque cultura – hanno in comune
una cosa che gli animali non hanno. Possono subire tutti
un particolare dolore: possono venir umiliati
dall’abbattimento violento delle strutture di linguaggio
75
e credenza in cui sono stati socializzati (o che si
vantano di essersi costruiti da soli)”86.
In uno di questi passi la strategia scelta da O’Brien,
per rimuovere, dalle argomentazioni di Winston, la
certezza dei fatti avvenuti nel passato, si muove
proprio sul binario della demolizione delle certezze del
senso comune:
Tu pensi che la realtà sia qualcosa di oggettivo, di esterno
qualcosa che abbia un’esistenza autonoma. Credi anche che la
natura della realtà sia di per se stessa evidente. Quando
inganni te stesso e pensi di vedere qualcosa, tu presumi che
tutti gli altri vedano quello che vedi tu. Ma io ti dico,
Winston, che la realtà non è qualcosa di esterno, la realtà
esiste solo nella mente, in nessun altro luogo. Non nella
mente individuale, che è soggetta a errare ed è comunque
peritura, ma bensì in quella del Partito, che è collettiva e
immortale.87
La forza del potere del Partito si rivela nell’uso
mirato dei dubbi avanzati dal solipsista per screditare
qualsiasi forma di certezza del senso comune. E questo
trova le sue conseguenze visibili nell’incapacità per i
cittadini di Oceania a vincere quella barriera di
incomunicabilità, quel muro invalicabile rappresentato
dal linguaggio, o più in generale dalle forme espressive
e dai temi simbolici, imposti con la minaccia costante86 R. RORTY, La filosofia dopo la filosofia, op. cit., pp. 202-203.87 G. ORWELL, 1984, op. cit., p. 256.
76
dell’incedere nello psicoreato. Del resto questa
dimensione di confine che il linguaggio assume nelle
relazioni con gli altri è ciò che il giovane
Wittgenstein aveva rilevato quando nel 1931 annota: “Noi
lottiamo contro il linguaggio. Siamo in lotta contro il
linguaggio”88. Dal momento che la dignità del senso
comune deriva proprio dalla condivisione dei criteri che
gli individui appartenenti da un gruppo assimilano per
giudicare in conformità a quel gruppo, la sua
cancellazione rappresenta anche la cancellazione di quel
bisogno di condivisione. La scomparsa di questo sfondo
comune, la riduzione a manifestazione mentale di tutta
la realtà esterna compresi gli altri, la soluzione in
senso solipsistico del problema dell’altro sono tutti i
segni vincenti della strategia di perpetuazione del
potere scelta dal Partito; una sorta di “solipsismo di
massa” contro l’assimilazione nel quale lotta
l’integrità mentale di Winston:
Eppure sapeva, sapeva di aver ragione. Ci doveva essere
certamente un modo per dimostrare che l’opinione secondo cui
esternamente alla nostra mente non esiste nulla era falsa. Un
tempo non ne era stata dimostrata la fallacia? Esisteva anche
una definizione, ma l’aveva dimenticata […] «Te l’avevo
detto, Winston» disse, «che la metafisica non è il tuo forte.
La parola che cerchi è solipsismo. Ti sbagli, però, questo
non è solipsismo. È solipsismo collettivo, se vuoi. In realtà
88 L. WITTGENSTEIN, Pensieri diversi, op. cit., p. 35.
77
è tutta un’altra cosa, è esattamente l’opposto. Ma stiamo
divagando» 89.
Se volessimo forzare ulteriormente il parallelo tra il
modo in cui O’Brien affronta il problema metafisico
dell’esistenza del mondo e il modo in cui invece viene
affrontato da Wittgenstein nel corso di tutta la sua
riflessione, potremmo dire che il primo svolge nel
dialogo sopra citato l’argomentazione del secondo su
solipsismo e realismo presente nel “Tractatus” in un senso
molto più forte e con conseguenze ben più drammatiche.
Nella proposizione 5.64, partendo dalla distinzione tra
quello che R. Haller chiama un “Io filosofico”90, e il
mondo come totalità dei fatti, di ciò che sfugge a
qualsiasi ordine a priori, il filosofo austriaco
conclude: “Appare qui che il solipsismo, svolto
rigorosamente, coincide con il realismo puro. L’Io del
solipsismo si contrae in un punto inesteso e resta la
realtà ad esso coordinata” 91. Secondo Wittgenstein, che
nel “Tractatus” cerca ancora di definire un modello che
permetta una netta demarcazione dal suo interno tra
l’espressione sensata e quella insensata, il solipsismo
possiede un merito non trascurabile. Quello cioè di
permettere all’Io, inteso non in termini psicologici, di
entrare a far parte del mondo sensato. Svolgendo
89 G. ORWELL, 1984, op. cit., p. 273.90 Sulla trattazione del tema dell’Io si veda R. HALLER, L’egologia di Wittgenstein, in Wittgenstein e il Novecento, op. cit., p. 144.91 L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, op. cit., 5.64, p. 90.
78
rigorosamente le premesse del solipsismo, per cui Io sono
il mio mondo, si comprende infatti l’importanza che l’Io
metafisico, il soggetto trascendentale, abbia nel
rapporto tra linguaggio e mondo. Il solipsismo sbaglia
infatti, dice Wittgenstein, quando tenta di dire la
distinzione tra sensato e insensato, finendo così per
confonderla. L’Io è invece un punto inesteso, un limite
che mostra ma non può dire la demarcazione tra espressione
sensata e insensata. Esso diventa così, nell’ontologia
del “Tractatus”, il posto di confine dal quale si guarda
il mondo, il regno dei fatti, e dalla posizione del
quale dipende l’atteggiamento etico del soggetto. La
posizione di questo Io filosofico rispetto al regno dei
fatti determina infatti il suo atteggiamento, il suo
modo di guardare al mondo. Il rapporto di coincidenza
tra Io e mondo nel solipsismo, viene configurato da
Wittgenstein come un rapporto che concerne l’esclusione
del non dicibile dall’espressione sensata ma allo stesso
tempo la sua importanza per essa: i contenuti
dell’etica, dell’estetica e della religione acquisiscono
la loro importanza da ciò che non può esser detto . Il
solipsismo viene quindi neutralizzato nelle sue
conseguenze epistemologiche.
Anche O’Brien svolge in senso rigoroso il solipsismo
contestatogli da Winston, anche lui mostra come la
negazione del mondo nell’affermazione dell’Io, coincida
in realtà con il suo opposto, con il realismo. Ma l’Io
79
di cui parla O’Brien non è un soggetto trascendentale,
posto in limine mundi, il cui raggio di azione mostra
l’immanenza dell’insensato al sistema delle espressioni
sensate. No, l’Io del solipsismo di cui parla O’Brien è
una monade globale, un sistema chiuso che fagocita il
regno dei fatti e fa della propria esistenza un campo di
forze in cui scompare, viene cancellato, lo sfondo
infondato da cui prendono le mosse le nostre azioni.
Solipsismo collettivo, in cui gli altri cessano di
essere un problema perché sono allo stesso tempo
irriducibili allo sfondo dei miei giudizi e parte di uno
stesso grande Io filosofico che ha inghiottito la
visione del mondo del senso comune.
I.4.2.2 Ora, il compito della filosofia, per il
Wittgenstein che supera le posizioni del “Tractatus”, è la
chiarezza della rappresentazione perspicua, proprio
perché la cancellazione della realtà auspicata da
O’Brien passa principalmente per una soluzione,
attraverso modelli, immagini e analogie, di problemi
nati dalla sublimazione di questi modelli; come quello
dell’esistenza di altre menti. Ed è questo un tema
ricorrente nella filosofia di Wittgenstein degli anni
Trenta. Cioè: la critica wittgensteiniana a quella
filosofia che si fa assimilare ai metodi e agli
obiettivi della scienza, a quella metafisica della
scienza irretita dal paradigma del progresso, si
80
struttura proprio attorno a tale tema. In alcune note
manoscritte del 1934-1936, stese per le lezioni tenute a
Cambridge su “Esperienza privata” e “dati di senso”,
partendo dall’analisi delle espressioni con le quali,
per esempio, vogliamo comunicare il dolore egli arriva
ad interrogarsi sul perché ci poniamo interrogativi che
riguardano l’esistenza di dolore, sofferenza, sentimenti
analoghi ai nostri negli altri. Wittgenstein qui si
interroga su quali modelli, analogie, immagini fanno si
che il problema dell’esistenza di altre menti che
provino sensazioni analoghe alle nostre sia realmente un
problema. Proprio come quando Cartesio osservando dalla
sua finestra degli uomini che passano per la strada si
chiede: “Ma che cosa vedo se non berretti e vestiti,
sotto i quali potrebbero nascondersi degli automi?”92.
Wittgenstein non si chiede infatti cosa possa risolvere
questo problema, ma quali siano le condizioni che lo
rendono un problema.
Prendiamo il caso della sensazione di dolore. Esprimere
una sensazione di dolore non è descrivere l’oggetto
dolore con delle espressioni verbali. L’analisi di
proposizioni attraverso cui esprimiamo, ad esempio la
sensazione del mal di denti, non ci permette in alcun
modo di individuare l’essenza del mal di denti. Questa
illusione viene piuttosto modellata dall’immagine nata
quando, dicendo che proviamo dolore, stiamo in realtà
92 R. DESCARTES, Meditazioni sulla filosofia prima, Seconda meditazione, tr. it.a cura di G. Brianese, Mursia, Milano 1994, p. 66.
81
parlando di qualcosa, il “dolore”, accessibile solo a
noi, perché situato nella nostra mente o in qualche
parte specifica del corpo umano:
Come faccio allora a dare un nome a un’esperienza (per
esempio, a un dolore) ? Non è come se volessi, per così dire,
mettergli un cappello?
Se qualcuno dicesse: “Gli posso mettere un cappello solo
indirettamente”. Gli domanderei: Credi che a qualcuno sarebbe
venuto in mente di parlare così se non avesse pensato che si
può mettere il cappello su una persona che soffre? Si, dire
che si potrebbe mettere il cappello sul dolore solo in modo
indiretto dà l’idea che vi sia nondimeno un modo diretto che
non può essere messo di fatto in discussione.
La difficoltà è che sentiamo di aver detto qualcosa sulla
natura del dolore allorché si è detto che una persona non può
avere il dolore di un altro. Forse saremmo inclini a dire di
non aver detto nulla di fisiologico o psicologico ma di
metapsicologico, di metafisico. Qualcosa sull’essenza, la
natura, del dolore in contrasto con i suoi legami causali con
altri fenomeni.93
L’idea cioè che esista qualcosa al di là dei meri
comportamenti con cui esprimiamo il dolore, qualcosa in
profondità la cui conoscenza diretta è possibile solo al
soggetto del dolore, è in realtà una sublimazione. Ma di
cosa? Dell’incertezza che aleggia sui criteri con cui
riconosciamo un comportamento umano. È questo carattere
93 L. WITTGENSTEIN, Esperienza privata e dati di senso, op. cit., p. 9.
82
imprevedibile del comportamento umano a generare quella
incertezza che ci porta a sublimare, a ipostatizzare, le
espressioni verbali relative alle sensazioni altrui
(dolore, gioia, angoscia) in immagini, analogie e
modelli che distinguono conoscenza diretta e conoscenza
indiretta, profondità e superficie, evidenza interna ed
evidenza esterna. Così, dice Wittgenstein veniamo
“giocati” da queste stesse immagini e arriviamo a
ritenere reale un’asimmetria nella conoscenza di
sensazioni come quella del dolore, un’asimmetria che
vede la prima persona dell’espressione verbale della
sensazione privilegiata nell’accesso epistemologico ad
essa. È come se si pensasse che nella comunicazione di
una sensazione di dolore o più in generale di una
qualsiasi esperienza privata non passasse qualcosa,
l’essenza della sensazione, dalla cui conoscenza è
pertanto esclusa la terza persona della comunicazione.
Con questo meccanismo, aggiunge il filosofo austriaco,
compiamo il passo successivo quello cioè che ci porta a
considerare problematica l’esistenza delle altre menti.
Scambiando il modello fondato sulla distinzione tra
evidenza diretta e indiretta della sensazione per la
realtà alimentiamo infatti una precisa immagine, quella
di una soggettività in un interno nascosto, invisibile
agli altri ma non a noi stessi. È questo il tratto
caratteristico della nozione di mentale:
83
Il tratto caratteristico del mentale sembra essere che, negli
altri, lo si deve indovinare dall’esterno e che lo si conosce
soltanto a partire da se stessi. Ma se, riflettendo
attentamente, questa visione va in fumo, quel che ne risulta
non è che l’interno è qualcosa di esterno ; «esterno» e
«interno», però, non sono più considerati qualità
dell’evidenza. «Evidenza interna» non significa nulla e perciò
non significa nulla neanche «evidenza esterna». 94
Il modello della privatezza dell’esperienza può infatti
essere declinato in due sensi. Esiste, potremmo dire una
privatezza “dei sentimenti” che si manifesta ad esempio
nella volontà di voler tenere nascosto un sentimento,
come quella che Winston mette in atto ogni qual volta
teme che la sua dissidenza all’ideologia ufficiale venga
scoperta: “Erano già qui! Restò seduto, immobile come un
topo, nella futile speranza che, chiunque fosse, potesse
andar via dopo il primo tentativo. Ma non fu così, si
udì di nuovo bussare. […] Il cuore gli batteva in petto
come un tamburo, ma probabilmente, in virtù della lunga
abitudine, la faccia era rimasta priva di qualsiasi
espressione”95.
Wittgenstein distingue, però, dalla privatezza “dei
sentimenti” un altro senso del termine presente, quasi
come corollario, nell’uso di certe espressioni riguardo
alla comunicazione dell’esperienza privata, come ad
94 L. WITTGENSTEIN, Ultimi scritti. La filosofia della psicologia, tr. it. di A.G. Gargani e Barbara Agnese, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 216.95 G. ORWELL, 1984, op. cit., p. 22.
84
esempio “Non sai quello che provo!”, “Non puoi capire
quello che sento!”. Quando facciamo affidamento su
queste immagini per comunicare un’esperienza privata
come la sensazione del dolore, allora finiamo per
sovrapporre ad essa un certo modello, per il quale nella
comunicazione si perde qualcosa dell’esperienza
originaria: “L’idea è che solo una parte dell’esperienza
originale si conservi nel processo di comunicazione
mentre qualcos’altro va perduto. […] È come se qualcuno
pensasse che si può trasmettere solo, per così dire, il
disegno colorato, e l’altro vi inserisce i suoi colori”96.
Con queste espressioni escludiamo la possibilità che
l’altro, con il quale parliamo della sensazione, possa
varcare la soglia della nostra mente. Possa cioè sapere
effettivamente quello che stiamo provando in modo
genuino. Possiamo dunque esibire parole, gesti,
comportamenti, indizi corporei, toni con cui parliamo,
ma non possiamo esibire i nostri sentimenti in quanto
tali.
Questa esclusione dell’altro a priori dalla sfera del
mentale è ciò che potremmo chiamare, sulla scia di
Wittgenstein, una “superprivatezza”97. O meglio ancora
una “privatezza metafisica”. Perché alla base
dell’istituzione di questa asimmetria nella conoscenza
del mio dolore c’è il riconoscimento di un primato, il
96 L. WITTGENSTEIN, Esperienza privata e dati di senso, op. cit., p. 11.97 L. WITTGENSTEIN, Note per la “Lezione filosofica”, tr. it. di T. Fracassi, in aut aut, 304, 2001, p. 5.
85
primato della prima persona nell’accesso agli stati
interni.
È questa tradizione della metafisica della prima persona
che Wittgenstein intende smascherare, una tradizione che
nella storia della filosofia moderna segna una tappa
importantissima nella filosofia cartesiana. L’evidenza
del mentale è infatti ciò che Cartesio riconosce come il
«punto archimedeo» su cui far leva per uscire dal «gorgo
marino» del dubbio quale esito del filosofare, «[…] infatti,
poiché ora so che i corpi non sono percepiti propriamente dai sensi o dalla
facoltà di immaginare, bensì dal solo intelletto, e che non vengono percepiti
per il fatto che si toccano o che si vedono, ma soltanto per il fatto che li
concepiamo, conosco in modo manifesto che non vi è nulla che possa da me
essere percepito con più facilità e con più evidenza della mia mente»98. La
critica di Wittgenstein alla metafisica della prima
persona è dunque una critica all’illusione che i
sentimenti e le sensazioni siano qualcosa che non possa
essere genuinamente condiviso perché accessibile solo al
loro portatore. I sostenitori della “privatezza
metafisica”, infatti, si assicurano in questo modo un
dominio inespugnabile, rappresentato dalla nozione di
mentale e che nel caso del solipsista diventa l’unica
fortezza esistente. Attraverso il predominio
dell’immagine esterno/interno, superficie/profondità,
diretto/indiretto attraverso cui, nella comunicazione
dell’esperienza privata, esprimiamo questa metafisica
98 R. DESCARTES, Meditazioni sulla filosofia prima, Seconda meditazione, op. cit., p. 68.
86
della prima persona, quello che facciamo non è altro che
sublimare l’insieme di incertezze che la presenza
dell’altro provoca. E sublimando queste incertezze è
come se riconoscessimo due spazi privati, il mio e
quello dell’altro, irriducibili l’uno all’altro e per
questo solidi:
Perché non dire: «L’ evidenza del mentale in un’altra persona
è l’esterno»? Ebbene, non c’è un’evidenza esterna mediata e
un’evidenza immediata dell’interno. […] Non il rapporto
dell’interno con l’esterno spiega l’incertezza dell’evidenza,
bensì, al contrario questo rapporto è soltanto una
presentazione in immagini di questa insicurezza.99
Con questo non vuol dire che Wittgenstein ammetta la
possibilità di poter provare il dolore di un altro,
piuttosto ne smonta la portata epistemologica. Dicendo
“Non posso mai provare il tuo dolore” non stiamo dicendo
nulla sull’essenza di ciò che chiamiamo “dolore”, stiamo
piuttosto facendo un’osservazione grammaticale. Ma da
qui a concludere, come fa il metafisico, che il mio
interno ti è precluso passiamo per un processo di
“personificazione”, o meglio di “oggettivazione” della
sensazione con cui combattiamo l’incertezza che avvolge
l’altro.
99 L. WITTGENSTEIN, Ultimi scritti, op. cit. p. 221.
87
I.4.2.3. Negare dunque il valore filosofico di questo
privilegio concesso al soggetto nella conoscenza dei
suoi stati interni, non va tradotto dice Wittgenstein in
un’apologia del comportamentismo, per cui l’esperienza
privata si riduce al comportamento, a ciò che affiora in
superficie. Questo modo di argomentare implicherebbe
infatti, nel caso del dolore, la sua riduzione ad una
serie di comportamenti che potrebbero sussistere anche
in sua assenza. L’esistenza del dolore, della
sofferenza, non può essere cancellata con un colpo di
spugna dalla lavagna del nostro modo di vivere: “Un
legislatore potrebbe abolire il concetto di dolore? I
concetti fondamentali sono intrecciati in modo talmente
stretto con ciò che vi è di più essenziale nel nostro
modo di vivere che, per questa ragione, risultano
inattaccabili”100. Wittgenstein non vuole cioè negare
l’esistenza dell’esperienza privata, tuttavia pensa che
la nostra soggettività non sia qualcosa che si nasconda
dietro il comportamento osservabile. Essa non sta né in
superficie né in profondità.
Tanto il sostenitore della metafisica della prima
persona, quanto il comportamentista, finiscono così per
ridurre a qualcos’altro proprio ciò che intendono
preservare, la soggettività. Se nel primo caso la
metafisica della prima persona può degenerare
nell’estremo del solipsismo, per cui realtà e soggetto
100 Ivi, p. 198.
88
coincidono, nel secondo caso ad essere ritenuti
realmente esistenti sono reazioni esterne a stimoli
altrettanto esterni. In entrambi casi ciò che
probabilmente disturba Wittgenstein è il vuoto che si
viene a creare attorno o all’interno dell’Io. Un vuoto
pneumatico che nel caso del solipsista, il quale
sostiene l’accesso privilegiato dell’Io ai propri stati
interni, garantisce la solidità del microcosmo così
creato. L’Io può scrutare il vuoto che lo circonda e
giungere ad affermare la sua sola esistenza. Nel caso
del comportamentista, invece, il vuoto pneumatico
dell’Io è un vuoto interno, un vuoto che lo porterebbe a
considerare gli altri alla stregua di automi che
rispondono a stimoli mirati. Ciò che accomuna dunque
queste teorie è un esito di disumanizzazione dei
contesti linguistici in cui l’espressione delle
sensazioni private ha luogo. La solitudine, la
costruzione di una barriera teorica che rende
impossibile la comunicazione di uno stato interno, vuoi
perché l’altro è non pervenuto, vuoi perché questo stato
interno non esiste, è l’esito di qualsiasi teoria che
sublima “ciò che vi è di più essenziale nel nostro modo
di vivere”. Di fronte però alla forza vitale delle
sensazioni e dei sentimenti non esiste sublimazione che
regga, «prova un po’ a mettere in dubbio – in un caso reale - l’angoscia, il
89
dolore di un’altra persona!»101, esclama il filosofo austriaco in
uno dei paragrafi più concitati delle “Ricerche filosofiche”.
Nel solipsismo collettivo di “1984”, invece, i membri
del Partito vivono separati da pareti divisorie
incrollabili, vivono cioè in un mondo in cui la
“superprivatezza” ha inaridito fino alla morte la
possibilità dei rapporti umani. Winston Smith, che
probabilmente è nel romanzo l’alter ego di Orwell , è
impressionato tanto quanto il Wittgenstein confutatore
del linguaggio privato delle sensazioni, da questo
potere violento di rimozione dei legami umani: “Lo colpì
il fatto che ciò che veramente caratterizzava la vita
moderna non era tanto la sua crudeltà, né il generale
senso d’insicurezza che si avvertiva, quanto quel vuoto,
quell’apatia incolore”102. Quella che il protagonista del
romanzo definisce “l’età della solitudine” è una
dimensione in cui l’abitudine a considerare l’altro come
un problema irrisolvibile, se non nella mistica dell’Io
collettivo rappresentata dall’ideologia del Socing, si è
imposta nella vita quotidiana. Creare il vuoto attorno a
ciascun individuo, farne un atomo in uno spazio vuoto, è
come possiamo qui vedere, l’altra faccia della strategia
di eliminazione della realtà esterna e della storia che
il Partito considera fondamentale per la perpetuazione
del potere. Certo, scrive il leggendario oppositore
Goldstein nel suo libro, «vi è ancora differenza fra la vita e la
101 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, op. cit., I, § 303, p. 135.102 G. ORWELL, 1984, op. cit., p. 78.
90
morte, fra il piacere fisico e il dolore fisico, ma questo è tutto. Tagliato fuori
da ogni contatto con il mondo esterno e con il passato, il cittadino
dell’Oceania è simile a un uomo che si trovi nello spazio interstellare e che
non ha la possibilità di sapere dov’è l’alto e dov’è il basso»103.
Se Winston ha sviluppato una propensione volontaria alla
privatezza, quasi un istinto alla dissimulazione,
l’“uomo nuovo” che la Rivoluzione e il potere esercitato
secondo l’ideologia del Socing tendono a plasmare ha
invece interiorizzato l’immagine dell’inaccessibilità
dall’esterno alla propria soggettività, che ha eliminato
completamente la distinzione tra interno ed esterno. È
come se questo nuovo modo di vivere conoscesse un unico
grande Io, un unico grande interno “superprivato”
incarnato dal Partito. Gli individui quindi crederanno,
penseranno, proveranno ciò che il Partito crede, pensa e
prova. Proprio questa è la natura strategica del
bipensiero.
Nelle sue osservazioni apocalittiche, nel suo orrore per
la cultura di massa, nelle osservazioni caustiche su
quella categoria di persone che etichettava sotto la
definizione di filistei, Wittgenstein probabilmente cercò
di esprimere la direzione che “scienza e industria”
avevano impresso alla società, alle relazioni sociali.
Contro le teorizzazioni della moderna metafisica
intrinseca alla scienza, contro la problematizzazione
dell’altro, contro la sublimazione dell’incertezza in
103 Ivi, p. 206
91
immagini illusorie, in una parola contro la solitudine
Wittgenstein, si potrebbe dire, recupera le reazione
“istintiva” all’espressione dell’esperienza privata da
parte dell’altro. Ciò che dobbiamo recuperare nei
rapporti con gli altri è l’ovvietà della reazione
spontanea, in cui si esprimono tanto il mio vedere
quanto il mio reagire alle sensazioni e ai sentimenti
dell’altro. Gettare la maschera della “superprivatezza”
per riconquistare una dimensione di autenticità nelle
nostre relazioni: “Immagina però di capitare in una
società in cui, secondo il nostro esempio, i sentimenti
sono riconoscibili con certezza dall’aspetto esteriore
(non usiamo l’immagine dell’interno e dell’esterno). Ma
non sarebbe analogo al fatto di arrivare da un paese in
cui si portino molte maschere in uno in cui non si porti
nessuna maschera o se ne portino di meno? (Come per
esempio dall’Inghilterra in Irlanda). Là la vita è,
appunto, diversa”104. Alla “superprivatezza” Wittgenstein
infatti contesta che esistono circostanze in cui
possiamo condividere con qualcuno il dolore o la gioia:
la capacità tutta umana di provare compassione; il gioco
linguistico in cui diciamo “Capisco cosa provi. Ti sono
vicino” è parte essenziale della forma di vita. Così
Winston riconosce in O’Brien, all’inizio del romanzo, un
altro possibile oppositore, un altro essere umano, come
lui: “Ci fu tuttavia una frazione di secondo in cui i
104 L. WITTGENSTEIN, Ultimi scritti, op. cit., p. 184.
92
loro occhi si incontrarono e in quel brevissimo arco di
tempo Winston seppe (si, seppe) che O’Brien stava
pensando le stesse cose che stava pensando lui. Era
stato inviato un messaggio inequivocabile. […] “Sono con
te” sembrava dirgli O’Brien, “so esattamente quello che
provi, so tutto del tuo disprezzo, del tuo odio del tuo
disgusto, ma non temere, io sono dalla tua parte!”105.
Giocando questo gioco è come se cercassimo di superare
i limiti angusti dell’esperienza privata dell’altro, per
riconoscere nel suo modo di agire un comportamento
umano:
Come avviene che io sia pieno di compassione per quest’uomo?
Come si vede qual è l’oggetto della compassione? (La
compassione è, si può dire, una forma di convinzione che un
altro prova dolore.)106
Ma se “ho m[al di denti]” sta in luogo di un lamento, per che
cosa sta “ha m[al di denti]”? Si potrebbe dire: sta anch’esso
per un lamento, ma di compassione.107
Il riconoscimento di una sensazione, di un’esperienza
privata altrui, fa quindi parte di un atteggiamento
complessivo nei confronti degli esseri umani. La
possibilità di riconoscere la sofferenza, la gioia, il
dolore altrui non riposa sulla nostra capacità di
105 G. ORWELL, 1984, op. cit., p. 20.106 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, op. cit., I, § 287, p. 131.107 L. WITTGENSTEIN, Esperienza privata e dati di senso, op. cit., p. 62.
93
effettuare una diagnosi, quasi fossimo dei medici, dopo
l’attenta analisi di un comportamento. Ma su di una
disposizione globale nei confronti degli altri che si
manifesta in un certo atteggiamento e che è parte
integrante di ciò che fa da sfondo ai nostri giudizi.
Questa stessa possibilità è invece negata da Orwell in
“1984”, unica eccezione è Winston Smith, “l’ultimo uomo
in Europa”. La “superprivatezza” nella quale sono
sospesi gli uomini di Oceania nega la possibilità della
compassione, anzi rovescia di segno la convinzione nella
possibilità che un altro provi una sensazione o un
sentimento a noi familiare. Non il riconoscimento
nell’altro di un modo di agire che caratterizza anche i
miei comportamenti, e quindi la convinzione di provare
le stesse sensazioni. Ma la possibilità di liberarsi di
queste sensazioni solo in comportamenti prestabiliti che
devono aver luogo in momenti definiti, in un rituale
specifico per mezzo del quale l’individuo con le sue
pulsioni scompare nell’Io del Partito. Dunque in ciò che
il Partito ama, crede ed odia. Penso che la cerimonia
dei “Due Minuti d’Odio” sia una descrizione abbastanza
lucida, nel romanzo, di questa forma di solipsismo di
massa. Ciò che di residuo rimane nella sfera del privato
individuale, le passioni, le pulsioni erotiche, i
sentimenti, viene tutto esternato in una cerimonia,
durante la quale i membri del Partito si lanciano contro
un teleschermo in cui compare il traditore per
94
antonomasia, Goldstein. Il risultato è una sublimazione
delle pulsioni più ferine, ma anche delle energie più
spontanee: “La cosa orribile dei Due Minuti d’Odio era
che nessuno veniva obbligato a recitare. Evitare di
farsi coinvolgere era infatti impossibile. Un’estasi
orrenda, indotta da un misto di paura e di sordo
rancore, un desiderio di uccidere, di torturare, di
spaccare facce a martellate, sembrava attraversare come
una corrente elettrica tutte le persone lì raccolte,
trasformando il singolo individuo, anche contro la sua
volontà, in una folla urlante, il volto alterato da
smorfie. E tuttavia, la rabbia che ognuno provava
costituiva un’emozione astratta, indiretta, che era
possibile spostare da un oggetto all’altro come una
fiamma ossidrica”108.
108 G. ORWELL, 1984, op. cit., p.17.
95
II. “La brama di semplicità”: brevi note sul
rapporto tra Wittgenstein e Tolstoj
Se è vero che esistono testi la cui reciproca influenza
si riflette in contesti culturali oggettivi,
indipendenti cioè da un accordo intenzionale (nei gusti
letterari o nelle posizioni filosofiche) tra gli autori,
è altrettanto vero che esistono testi, autori,
elaborazioni teoriche la cui influenza su un contesto
culturale magnetizza l’intero spettro di posizioni, in
positivo o negativo, di tale contesto. Se alla prima
categoria appartiene il confronto tra Wittgenstein e
Orwell abbozzato nelle pagine precedenti, è possibile
indicare come classificabile nella seconda categoria il
rapporto tra il pensiero del filosofo austriaco e alcuni
romanzi, racconti e saggi di Lev Nikolaevič Tolstoj.
96
Come verrà messo in evidenza nelle prossime pagine, il
grande scrittore russo esercitò un’enorme influenza con
le sue posizioni etiche ed estetiche su tantissimi
intellettuali europei della fine del XIX secolo. In
particolare, Tolstoj soffiò come un vento potente
sull’incendio culturale della Vienna fin-de-siècle. Qui
infatti l’ansia di ribellione dei giovani artisti
viennesi nei confronti dell’accademismo, del naturalismo
e del razionalismo liberale, nel seno del quale si erano
formati i loro padri, si unì ad un’istanza di
rinnovamento morale dell’espressione artistica che, in
ambito filosofico, trovò la sua espressione nel progetto
di Sprachkritik .
In questo ambiente si formò Wittgenstein. Non è un
caso, legato magari ai gusti estetici della sua famiglia
e dei suoi più intimi amici, che il filosofo austriaco
ebbe sempre una grandissima ammirazione per l’opera di
Tolstoj, paragonabile solo a quella che ebbe per l’altro
grande scrittore russo dell’epoca, Dostoevskij. La
letteratura secondaria a riguardo, assai esigua se si
escludono le due importanti biografie di Mc Guinness e
Monk109, si è però troppo spesso soffermata a
sottolineare alcuni parallelismi biografici tra
Wittgenstein e Tolstoj, senza dargli un senso preciso.
Un senso cioè che orienti quelle che a prima vista sono
sorprendenti corrispondenze nei fatti e nelle scelte
109 R. MONK, Ludwig Wittgenstein. Il dovere del genio, tr. it. Bompiani, Milano 1991.
97
della vita dei due autori, all’interno di un più ampio
confronto teorico che li elabori più in profondità.
Compito di questa breve trattazione sarà allora quello
di tentare un confronto tra questi due autori sul piano,
seppur limitato rispetto alla sterminata opera
letteraria di Tolstoj e alla proteiforme riflessione di
Wittgenstein, delle rispettive posizioni teoriche in
merito ad alcuni problemi filosofici che nel precedente
capitolo abbiamo designato con l’etichetta di
“metafisica della prima persona”. Come risulterà
evidente dalla trattazione, il confronto, imperniato
soprattutto su una certa lettura di alcuni tra i più
importanti “Racconti” di Tolstoj degli anni Ottanta
dell’Ottocento, lascia la porta aperta a qualsiasi
interpretazione alternativa o nuova prospettiva che ne
allarghi l’orizzonte di senso.
II.1. Etica e linguaggio: l’influenza di Tolstoj sulla
formazione del giovane Wittgenstein
II.1.1. Si è spesso parlato del ruolo che la cultura
mitteleuropea giocò nell’orientamento degli interessi
filosofici del giovane Wittgenstein. Sovraccaricando di
peso teorico effettivo sulla filosofia wittgensteiniana
il contesto culturale di Kraus e Weininger, di
Hofmannsthal e Musil, di Schönberg e Freud, alcuni
98
studi, a partire dagli anni ’70, hanno proposto una
lettura concatenata di questi fenomeni culturali, il
compimento dei quali sarebbe rappresentato dal “Tractatus”
o dall’intera opera di Wittgenstein110. Non è questa la
sede per approfondire i percorsi intellettuali
particolari che si intrecciano sul palcoscenico della
capitale dell’Impero austro-ungarico. Basterà osservare
di passaggio, che sebbene studi di questo tipo, in
particolar modo “La grande Vienna” tolgano a Wittgenstein
l’etichetta del logico positivista, rischiano di
attribuirgliene un’altra forse meno appropriata, quella
di “filosofo-tardoromantico”, enfatizzando ad esempio
l’influenza che Schopenhauer ebbe sull’esigenza di una
“critica del linguaggio” wittgensteiniana.
Quello che invece può essere considerato il loro merito
è l’aver riscoperto le radici culturali del pensiero del
filosofo austriaco, ma soprattutto la sua appartenenza
ad un contesto consapevole di un processo interno di
disgregazione, di fine della coesione politica e
culturale. Come osserva Gargani:
110 Per un’ampia panoramica della Vienna del periodo si veda C.SCHORSKE, Vienna fin-de-siècle, tr. it. Bompiani, Milano 1981. Per ilrapporto tra la filosofia di Wittgenstein soprattutto del Tractatuscon la “grande Vienna” si veda poi l’omonimo libro di A. JANIK- S.TOULMIN, La grande Vienna, tr. it. Garzanti, Milano 1975. Va infinericordato come questo rapporto e questo contesto culturale sianostati, in Italia, oggetto di studio approfondito di M. CACCIARI,Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli,Milano 1976.
99
Il mondo della Valse [opera di M. Ravel] non è una struttura
coesa e integrata, bensì una costellazione di frammenti, di
elementi individuali che formano una molteplicità variegata di
temi che si connettono e si intrecciano tra loro. A poco a
poco l’elemento concentrico, il polo magnetico, l’attrattore
si disintegra; ogni tema musicale mantiene la sua fisionomia e
il suo respiro, ma si sposta verso la propria eccentricità.111
Il lento collasso politico e sociale dell’Impero, che si
concluse con la Prima guerra mondiale, si manifestò
nell’arte, nella filosofia, nella scienza dell’epoca in
una crisi profonda della cultura liberale ottocentesca.
Una cultura storica, razionalista e ottimista, che non
era però riuscita a neutralizzare la conflittualità
strutturale di un Impero multietnico come quello
asburgico. Si cominciò così ad affermare, nella seconda
metà dell’Ottocento, tra le giovani generazioni educate
secondo la Weltanschaung del liberalismo austriaco, il
bisogno di un rinnovamento radicale. Di una tensione
espressiva nuova, lontana dalla corruzione estetica e
morale in cui era caduta l’arte ufficiale, per la quale
il bisogno di comunicare i sentimenti era stato
eliminato dalla logica dell’arte per l’arte, da un
accademismo fine a se stesso espresso nel primato
dell’ornamento e di un vuoto formalismo. In questo
circolo vizioso in cui le istituzioni artistiche
viennesi erano precipitate, le giovani generazioni
111 A.G. GARGANI, Wittgenstein. Musica, parola, gesto, op. cit., p.27.
100
videro le conseguenze dell’imporsi in ogni campo della
vita sociale del motto guida della cultura liberale:
“gli affari per gli affari”. Ciò che urgeva era
un’innovazione dell’espressione artistica, scientifica e
filosofica che potesse garantire, se non il quadro
culturale unitario, l’ordine razionale superiore di cui
si erano giovate le generazioni precedenti, almeno
l’armonia (non la sottomissione ad un “super-ordine” dei
linguaggi), della cultura e degli individui. Da un lato
l’innovazione espressiva, dall’altro il conflitto con il
degenerato ordine precedente: “La Vienna fin de siècle,
con i suoi presagi acutamente avvertiti di sfacelo
politico e sociale, si è rivelata uno dei terreni più
fertili e producenti della cultura astorica del nostro
secolo. Tutti i suoi grandi innovatori – nell’ambito
della musica e della filosofia, dell’economia e
dell’architettura, e, naturalmente, della psicoanalisi –
hanno spezzato più o meno deliberatamente i loro legami
con la visione storica che caratterizzava la cultura
liberale ottocentesca, culla della loro formazione”112.
Indubbiamente il nume tutelare di questi “innovatori” fu
Karl Kraus, la cui opera di critica della società e del
linguaggio condotta dalle pagine del “Die Fackel” illuminò
e anticipò lo spirito con cui Loos per quanto riguarda
l’architettura, Schönberg per quanto riguarda la musica,
Klimt e Kokoschka per la pittura, Hofmannsthal,
112 C. SCHORSKE, op. cit., p. XII.
101
Schnitzler e Musil per quel che concerne la letteratura,
avrebbero rivoluzionato i rispettivi linguaggi
espressivi. Parallelamente l’empiriocriticismo di Mach e
la fisica teorica di Hertz e Boltzmann contribuirono in
ambito scientifico alla critica di quella scienza
accademica platonizzante e metafisicizzata o all’opposto
materialista volgare che pretendeva di svelare le
strutture ultime della realtà. La nuova impostazione dei
problemi scientifici si tradusse, nel caso di Mach, in
una concezione delle ipotesi scientifiche come risposte
ad un’esigenza economico-descrittiva consistente nel
catalogare la varietà dell’esperienza col minor numero
possibile di segni convenzionali. Nel caso di
Boltzmann, la concezione delle teorie fisiche come
modelli, che non riflettono le cose in sé, estese la
critica machiana alle interferenze esercitate nelle
scienze fisico-matematiche dai metodi logicizzanti
basati su presunte leggi naturali del pensiero. Questi
sono in un senso più generale il risultato di
un’attività filosofica quale fraintendimento delle
nostre espressioni linguistiche e alla quale bisogna
opporre una teoria della scienza che faccia della
chiarezza la sua bandiera.
II.1.2. Non è difficile vedere nell’ambiente
culturale viennese, e nelle modalità con cui maturarono
le convinzioni di Wittgenstein sulla natura del
102
linguaggio, una certa recezione di ciò che Tolstoj aveva
scritto sull’arte, sulla scienza, sull’etica e sul ruolo
dello scrittore. Indubbiamente il testo in cui questi
temi vengono trattati senza la mediazione della forma
letteraria, dunque da un punto di vista squisitamente
teorico è il trattato del 1897 “Che cos’è l’arte?”.
In esso lo scrittore russo polemizza con l’arte a lui
contemporanea, degenerata, a suo dire in puro
divertimento per le classi superiori. L’estetismo
dell’arte moderna si evince dalla limitata
comprensibilità delle opere d’arte all’interno della
società. Se, paradossalmente, da un lato sempre più
uomini vengono impiegati come forza lavoro per quella
che va assumendo le dimensioni di una vera e propria
“industria culturale”, dall’altro lato sempre meno
uomini sono in grado di comprendere il significato
dell’opera d’arte. E questo è il risultato, secondo
Tolstoj, di una civiltà degenerata, in cui i concetti di
bene, verità e bellezza sono stati asserviti al piacere
soggettivo: “Il bene, la bellezza e la verità vengono
posti allo stesso livello e tutti e tre i concetti
vengono riconosciuti come fondamentali e metafisici. Ma
in realtà non è affatto così. […] La bellezza invece –
se non vogliamo contentarci di parole – non è altro che
ciò che ci piace. Il concetto di bellezza non solo non
coincide con il bene, ma gli è addirittura opposto, dato
che il bene più spesso coincide con la vittoria sulle
103
passioni, mentre la bellezza è la base di tutte le
passioni”113. Se lo scopo dell’opera d’arte è la
bellezza, e se questa coincide con il piacere
soggettivo, allora l’arte diventa un lusso a
disposizione dei pochi privilegiati che possono
permettersela economicamente e comprenderla. Conseguenza
dell’identificazione tra opera d’arte, bellezza e
piacere soggettivo è l’elezione della “nebulosità” e
dell’ “oscurità” a caratteristiche fondamentali del
bello. Queste sono le caratteristiche che Tolstoj
rinviene nell’estetismo e nel simbolismo a lui
contemporaneo: “Negli ultimi tempi non solo la
nebulosità, la misteriosità, l’oscurità e
l’inaccessibilità per le masse, ma anche l’incertezza e
l’inefficacia della parola sono state promosse a pregi e
a condizioni del valore poetico delle opere d’arte”114.
Compito dell’arte buona deve essere quello di
trasmettere i sentimenti dell’artista agli altri uomini.
Se l’artista non riesce a rendere comprensibile al resto
dell’umanità i sentimenti da lui provati nella creazione
dell’opera, allora la sua attività resta muta e può al
massimo eccitare il piacere soggettivo in alcuni
individui. L’arte autentica invece è fondata sulla
«capacità degli uomini di essere contagiati dai sentimenti degli altri
uomini»115. In questo senso lo scopo dell’arte è quello di113 L. TOLSTOJ, Che cos’è l’arte? in Scritti sull’arte, ed. it. Bollati Boringhieri, Torino 1964, p. 212.114 Ivi, p.228.115 Ivi, p. 191.
104
mettere insieme gli uomini, legarli attraverso i
sentimenti che l’artista esprime nella produzione
dell’opera. L’arte autentica è “arte religiosa”. Lega
gli uomini, supera le difficoltà del discorso razionale,
mediato, logico attraverso l’espressione del sentimento
da parte dell’artista e con la comprensione intuitiva
da parte di coloro che vi entrano in relazione:
Il compito dell’arte consiste proprio nel rendere
comprensibile e accessibile ciò che potrebbe essere
incomprensibile e inaccessibile in forma di ragionamento. Di
solito, quando una persona riceve un’impressione veramente
artistica, le sembra di averla conosciuta anche prima ma solo
di non essere stata capace di esprimerla. 116
Confrontando queste posizioni con quelle espresse da
Wittgenstein nelle sue “Lezioni sull’estetica”, tenute a
Cambridge nell’estate del 1938 e delle quali ci sono
rimaste gli appunti degli studenti che vi presero parte,
Smythies, Rhees, Taylor, Redpath, Lewy, Drury, emergono
alcune importanti analogie e alcune significative
differenze. Il filosofo austriaco parte dalla
considerazione del ruolo che, i giochi linguistici in
cui vengono espresse valutazioni estetiche, hanno negli
usi del linguaggio. Ebbene Wittgenstein osserva che le
nostre valutazioni estetiche non sono l’espressione,
definizione questa fuorviante, delle nostre emozioni di
116 Ivi, p. 253.
105
fronte all’opera d’arte. Sembrano più essere
l’espressione di una competenza che il destinatario
dell’opera esprime in una valutazione:
Quando formuliamo un giudizio estetico su una cosa, non ci
limitiamo a rimanere a bocca aperta dicendo «Oh, che
splendido!». Distinguiamo tra una persona che sa ciò di cui
sta parlando e una che non lo sa. Se uno ammira la poesia
inglese, deve sapere l’inglese. Supponiamo che un russo che
non sa l’inglese sia emozionato da un sonetto riconosciuto
buono. Diremmo che non sa affatto che cosa sia.117
Nelle sue lezioni Wittgenstein sembra infatti avere una
posizione che in parte riprende e in parte contesta le
opinioni di Tolstoj sul giudizio estetico. Con Tolstoj
sembrerebbe, a prima vista, concordare sul fatto che le
valutazione estetiche della civiltà occidentale siano
limitate alle persone che hanno acquisito una serie di
competenze in ambito artistico.
Egli è d’accordo con lo scrittore russo sul giudizio
rispetto all’arte contemporanea. L’arte autentica, come
dice Tolstoj, dovrebbe possedere in primo luogo la
caratteristica della sincerità con cui l’autore
“contagia” i propri sentimenti agli altri: “L’arte
diventa più o meno contagiosa secondo queste tre
condizioni : 1) maggiore o minore singolarità del
117 L. WITTGENSTEIN, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, op. cit., p. 60.
106
sentimento che viene comunicato; 2) maggiore o minore
chiarezza nel comunicare il sentimento; 3) maggiore o
minore intensità, cioè sincerità, con la quale l’artista
stesso prova il sentimento che comunica. […] Sebbene io
parli di tre condizioni del contagio, e del valore
dell’arte, in sostanza vi è una sola condizione, cioè
l’ultima delle tre: che l’artista senta la necessità
interiore di esprimere il sentimento che comunica”118.
Sul fatto che l’autenticità dell’opera d’arte si
misurasse sulla sua chiarezza, espressione dell’onestà
intellettuale del suo autore, Wittgenstein si trovava
perfettamente d’accordo. Del resto le sue letture, i
suoi gusti musicali, la sua preferenza per espressioni
artistiche considerate di bassa leva, come il cinema
western, riflettono proprio questo principio. Perché
l’arte ha per Wittgenstein una funzione essenzialmente
morale. Come per Tolstoj l’arte deve essere
l’espressione di un sentimento, quello del legame tra
gli uomini per questo motivo «è necessario che l’artista sia un
uomo moralmente illuminato, e che quindi non viva una vita esclusivamente
egoistica, bensì partecipi alla comune vita dell’umanità»119. È appunto
in questo senso che per Wittgenstein la valutazione
artistica è impossibile da spiegare dal punto di vista
di un’estetica che sia scienza. L’estetica è indicibile
perché per descrivere una valutazione estetica dovremmo
118 L. TOLSTOJ, Che cos’è l’arte? in op. cit., p, 311 e 312.119 L. TOLSTOJ, Scritti sull’arte, op. cit., p.519.
107
descrivere ciò che fa da sfondo, infondato, al modo di
giudicare l’espressione artistica di una cultura:
Le parole che chiamiamo espressioni di giudizio estetico
hanno un ruolo molto complicato, ma ben definito, in ciò che
chiamiamo la cultura di un periodo. Per descrivere il loro
uso o per descrivere ciò che intendi per un gusto colto,
devi descrivere una cultura. 120
Tanto Wittgenstein quanto Tolstoj aspirano alla
sincerità dell’espressione, sia essa artistica o meno.
Nutrono quella che il filosofo austriaco definisce una
«brama di semplicità»121 per tutto ciò che riguardi i
rapporti tra gli uomini. Ma sono i modi in cui questo
fine viene perseguito su cui i due divergono. Perché per
Wittgenstein il valore espresso da un’opera d’arte
autentica, come da un sentimento positivo quale la
compassione, consiste in una prospettiva diversa
presente nell’opera d’arte , dalla quale guardiamo i
fatti, il mondo. A tal proposito è illuminante una sua
osservazione presente in “Filosofia”, in cui chiama in
causa, sebbene non esplicitamente, proprio alcune pagine
del trattato sull’arte di Tolstoj:
(Tolstoi: il significato (la significatività) di un oggetto
consiste nella sua generale comprensibilità. – Questo è
120 L. WITTGENSTEIN, Lezioni e conversazioni, op. cit., p. 63.121 Ivi, p. 107.
108
insieme vero e falso. Ciò che rende difficile la comprensione
di un oggetto – qualora esso sia significativo, importante –
non è il fatto che per comprenderlo sia necessaria una
speciale istruzione su cose astruse; piuttosto, è il
contrasto tra il comprendere l’oggetto in questione e ciò che
la maggior parte delle persone vuole vedere. A causa di ciò,
anche la cosa più semplice può diventare la più difficile da
comprendere. Si deve superare una difficoltà della volontà,
non dell’intelletto.)122
In questo passo Wittgenstein estende l’idea tolstojana
sulla comprensibilità universale dell’opera d’arte quale
criterio della sua autenticità al suo metodo filosofico.
Accettandola e rifiutandola. Perché un oggetto
difficilmente comprensibile, come per Tolstoj può essere
l’opera d’arte contemporanea, non lo è perché una
cultura valorizzi la “nebulosità” dell’espressione
piuttosto che la chiarezza. Ma perchè il soggetto che
esprime un giudizio estetico sull’opera vuole vederla
attraverso un’immagine che ne oscura la semplicità.
Questa osservazione viene estesa da Wittgenstein alle
difficoltà della filosofia: i problemi del filosofo sono
abbagli della volontà che nell’uso metafisico del
linguaggio sublima la varietà espressiva del quotidiano
e la rende “difficilmente comprensibile”. Per questo
motivo il lavoro filosofico è un lavoro sulla propria
volontà più che sull’intelletto. Perché a complicare la122 L. WITTGENSTEIN, Filosofia, op. cit., p. 5, cfr. con L.TOLSTOJ, Che cos’è l’arte in op. cit., pp. 250-256.
109
semplicità del quotidiano, ad alienarci in contesti nei
quali il linguaggio gira a vuoto, è proprio un modo di
voler vedere le cose che è proprio della tradizione
filosofica occidentale. È in questa ricerca della
semplicità in un differente modo di guardare alla e
nella forma di vita che la dissoluzione del problema
wittgensteiniana diverge profondamente dai tentativi di
soluzione di Tolstoj.
II.2. Oltre Tolstoj: la dissoluzione dei problemi
filosofici dei “Racconti” secondo Wittgenstein
II.2.1. Non è necessario per il nostro studio
dilungarsi sull’opera di critica e rielaborazione dei
linguaggi artistici, scientifici e filosofici che
investì la Vienna della fine dell’Ottocento. Si
rischierebbe infatti di appiattire l’innovazione degli
intellettuali austriaci sulla sola critica dei canoni
espressivi tradizionali, lasciandone in secondo piano
tutta l’originalità e il peso che poi ebbe su altri
contesti culturali. Basti qui però osservare che
Wittgenstein ereditò questo sfondo per intero sia
intenzionalmente, sposando quella linea culturale che
Kraus aveva fatto trincea della propria battaglia contro
una società e un’arte corrotte, sia “inghiottendone” le
premesse nel corso della sua formazione. Solamente alla
110
luce di questa influenza e degli stimoli al
perfezionamento provenienti dall’ambiente familiare è
possibile accostarsi alle ultime sezioni del “Tractatus”
senza intravedervi le ansie di un uomo eccentrico.
La “critica del linguaggio” al centro del dibattito
culturale viennese, che l’autore del “Tractatus”
considera compiuta con la sua opera, riceve il suo senso
profondo solo se se ne coglie la tensione morale
interna, lo sforzo teso alla perfezione del suo autore,
il significato etico. Solo illuminandole da questa
prospettiva le ultime sezioni del testo palesano il loro
obiettivo e dissolvono quella «sensazione di disagio
intellettuale»123 che Russell riscontrava in ciò che
Wittgenstein definisce il Mistico. Così scriveva il
filosofo austriaco all’editore L. von Ficker: “[…] Le
scrivo un paio di parole sul mio libro: dalla lettura di
questo , infatti, Lei, e questa è la mia esatta
opinione, non ne tirerà fuori un granché. Difatti Lei
non lo capirà; l’argomento le apparirà del tutto
estraneo, poiché il senso del libro è un senso etico.
[…] In effetti io volevo scrivere che il mio lavoro
consiste di due parti: di quello che ho scritto, ed
inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio
questa seconda parte è quella più importante. Ad opera
del mio libro, l’etico viene delimitato, per così dire,
dall’interno; e sono convinto che l’etico è da
123 B. RUSSELL, Introduzione a L. WITTGENSTEIN, Tractatus, op. cit., p. 18.
111
delimitare solamente in questo modo”124. Se il compito
del “Tractatus” è infatti quello di mostrare i limiti del
linguaggio sensato, limiti che vengono rispettati solo
se la proposizione è immagine di uno stato di cose,
allora ciò che trascende le condizioni di sensatezza, i
valori etici, religiosi ed estetici rimangono fuori da
questo limite. Questo non vuol dire che la mancanza di
senso sottragga loro la pienezza dell’essere la trama
dell’espressione umana. Il Mistico è uno sfondo
infondato proprio come quell’insieme di proposizioni
grammaticali che in “Della Certezza” rimangono al di là di
ogni ragionevole dubbio. L’assenza di solide fondamenta
razionali non impedisce però a questo sfondo insensato
di conferire senso a ciò che rimane all’interno dei
limiti della sensatezza:
Come il mondo è, è affatto indifferente per ciò che è più
alto. Dio non rivela sé nel mondo.
Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è.125
È pertanto condivisibile la critica a quella
letteratura secondaria che vede nel Mistico,
nell’indicibile e nell’invito al silenzio del “Tractatus”
una dimensione del non senso sostanziale. Come osserva
Grargani: “L’etica, ossia ciò che è alto, viene definita
indicibile dal filosofo austriaco non già perché si124 L. WITTGENSTEIN, Lettere di Ludwig Wittgenstein con Ricordi, tr. it. di I. Roncaglia Cherubini, La Nuova Italia, Firenze 1970, p. 115.125 L. WITTGENSTEIN, Tractatus, op. cit., 6.432 e 6.44, p. 108.
112
riferisce a un valore ineffabile, bensì in quanto è
l’insieme di tutti i possibili atteggiamenti di
carattere valoriale. L’ineffabile, l’indicibile, il
mistico non è, nel Tractatus, un’entità oscura e
inafferrabile, bensì un silenzio colmo d’espressione”126. Se
l’indicibile mostra l’esistenza del mondo questo non
cancella la sua “austera” insensatezza: “Che è il
carattere obiettivo della vita felice, armonica? Anche
qui è chiaro che non può esservi un tale carattere, che
si possa descrivere. Questo non può essere un carattere
fisico, ma solo un carattere metafisico, trascendente.
L’etica è trascendente”127.
Proprio per questo motivo “etico” è passare dalla
parola all’azione: il retto vedere è parte e condizione
del retto vivere. Si tratta della stessa consapevolezza
che l’Ivàn Il’ič di Tolstoj raggiunge poco prima di
esalare l’ultimo respiro, quando la paura della morte
che lo ha accompagnato nell’ultima parte della sua vita,
rivelandone impietosamente l’inautenticità, cede il
passo ad una presentazione perspicua del senso
dell’esistenza: “In quello stesso istante Ivàn Il’ič
sprofondò, vide la luce, e gli si rivelò che la sua vita
non era stata come avrebbe dovuto essere, ma che vi si
poteva ancora porre rimedio. […] «D’altronde perché
parlare, occorre fare» pensò”128. Il protagonista del126 A. G. GARGANI, Wittgenstein, op. cit., p. 136.127 L. WITTGENSTEIN, Tractatus, op. cit., p. 224.128 L. TOLSTOJ, La morte di Ivan Il’ič in Tutti i Racconti, a cura di I. Sibaldi,Mondatori, Milano 1991, Volume secondo, p. 400.
113
racconto, un funzionario del sistema giudiziario
zarista, il giudice Ivàn Il’ič Golovìn, è un uomo
perfettamente inserito nel suo ambiente sociale, la
piccola nobiltà russa. La sua vita trascorre in un
compiaciuto adempimento delle formalità, in un abbandono
totale alla mondanità, fin quando non inizia a soffrire
di un male, probabilmente un cancro, che lo porterà a
doversi confrontare con la morte. È l’esperienza stessa
del male a rivelargli la falsità delle relazioni
sociali, l’artificio della mondanità, l’insuperabile
barriera che il rispetto della forma frappone tra gli
uomini. Questo gioco delle parti è compreso da Ivàn
Il’ič solo quando si scontra con la propria incapacità a
comunicare, alla moglie, ai figli, ai colleghi, a quella
società nel seno della quale aveva condotto una vita
libera dal tarlo del dubbio, il proprio dolore.
L’incapacità di esprimere e far comprendere la
sofferenza interiore viene vista da Ivàn Il’ič nella sua
pienezza solo di fronte al medico, a colui che la
società ha investito del compito di salvaguardare il
funzionamento del corpo individuale e sociale: “Tutto fu
come s’aspettava: tutto si svolse così come sempre si
svolgono queste cose. L’attesa, e l’aria di importanza
affettata, dottorale, a lui ben nota, quella stessa aria
che anche lui assumeva in tribunale, e le auscultazioni,
e i vari colpetti, e le domande che esigevano risposte
già definite in anticipo ed evidentemente inutili, e
114
l’aria significativa che suggeriva: ecco, basta che voi
non vi diate pena e vi sottomettiate a noi, e noi
sistemeremo tutto, sappiamo bene e senza dubbio alcuno,
noialtri, come sistemare ogni cosa; tutto allo stesso
modo per qualsivoglia persona”129. L’idea che il dolore
sia qualcosa di accessibile in maniera diretta solo al
suo portatore, e che quindi gli altri ne possano essere
resi partecipi solo indirettamente è, come dice
Wittgenstein, un’illusione della metafisica:
“Quindi non hai davvero dolore, ti lamenti soltanto?!” Sembra
esservi una descrizione del mio comportamento e anche, nello
stesso senso, una descrizione della mia esperienza, del mio
dolore! Una è, per così dire, la descrizione di un fatto
esterno, l’altra di uno interno. Ciò corrisponde all’idea che
come posso dare un nome a una parte del mio corpo, così allo
stesso modo posso nominare un’esperienza privata (solo in
modo indiretto).130
Descrivendo le nostre sensazioni attraverso lo schema
binario della conoscenza diretta/indiretta, della
profondità e della superficie, finiamo per essere
giocati dal nostro modo di parlare. In che termini
oggettiviamo questo “fenomeno di iridescenza”131 presente
nei nostri giochi linguistici sul dolore? In quella
distinzione tra corpo e anima, tra materiale e mentale,
129 Ivi, pp. 360-361.130 L. WITTGENSTEIN, Esperienza privata e dati di senso, op. cit., p. 63.131 Cfr. Ivi, pp. 83-84.
115
con la quale nei discorsi filosofici, scientifici e
medici finiamo per irreggimentare la varietà delle
sensazioni, dei sentimenti e dei modi di esprimerli, in
una parola la vita:
Dico al cameriere: porti sempre della minestra chiara a me e
densa a tutti gli altri. Egli cerca di ricordare la mia
faccia. Supponete che cambi completamente faccia (corpo) ogni
giorno, come farebbe a sapere quale sono io? […] Sembra che
io possa tracciare la mia identità, del tutto indipendentemente
dall’identità del mio corpo. E l’idea suggerita è che io
tracci l’identità di qualcosa che abita un corpo, cioè
l’identità della mia mente. 132
E questa illusione è presente, in tutta la sua
drammaticità, nei vari tentativi che i medici fanno per
cercare di curare il male di Ivàn Il’ič. Se il dolore
non è esprimibile direttamente, se non è possibile
individuare in una proposizione la sua essenza, allora
la cura del male passa per la quantificazione e
desoggettivizzazione del dolore. Passa cioè per la sua
traduzione in una diagnosi, in cui “il dolore” viene
oggettivizzato attraverso il linguaggio medico-
scientifico e dunque reso terreno d’analisi e
intervento. A questa illusione metafisica che in buona
misura è presente nella medicina occidentale,
Wittgenstein oppone una concezione grammaticale del
132 Ivi, p. 71.
116
dolore e un ribaltamento dell’asimmetria nella
conoscenza degli stati interni, per cui l’ “Io so”
riferito ad esso è possibile solo alla terza persona. È
come se la sensazione del dolore venisse recitata da
colui che nei giochi linguistici siamo soliti
individuare come il suo portatore. In questo modo le
parole con cui esprimiamo il dolore riacquistano quel
peso e quindi quella importanza insita nel loro essere
sue manifestazioni. Le parole con cui ci lamentiamo,
facciamo una confessione, manifestiamo una sofferenza
sono importanti perché in un certo senso rappresentano
il copione con il quale entriamo in azione sulla scena
della forma di vita: “Così, vorrei dire, le parole «Oh,
come vorrei che arrivasse!» sono cariche del mio
desiderio. E le parole possono erompere da noi – come un
grido. Le parole possono essere difficili da pronunciare:
tali sono, per esempio, le parole con le quali
esprimiamo una rinuncia, o confessiamo una debolezza.
(Le parole sono anche atti)”133. Negli avvenimenti che lo
portano lentamente alla morte Ivàn Il’ič trova la
difficoltà nel pronunciare le parole che gli
permetterebbero di aprirsi e manifestare la sua
sofferenza. Inutilmente si affanna a chiedersi il perché
dell’indifferenza degli altri: “Non era possibile
ingannarsi: qualcosa di terribile, di nuovo, e di
significativo come null’altro nella sua vita, stava
133 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, op. cit., I, § 546, p. 193.
117
avvenendo dentro di lui. E lui solo ne era a conoscenza,
tutti quelli che lo circondavano non capivano o non
volevano capirlo, e pensavano che tutto, al mondo,
andasse come prima”134. Solo sul letto di morte arriva ad
interrogarsi sul senso che la sua vita ha avuto, e
scopre che il giudizio positivo su questo senso non
dipende dall’aver trovato in ogni sua azione il consenso
degli altri, della società, ma nel non aver vissuto come
avrebbe dovuto. Ciò che avrebbe potuto salvarlo e fare
della sua esistenza un’esistenza felice sarebbe dovuta
essere un’esperienza del rapporto con gli altri non
improntata all’inautenticità, alla correttezza e al
decoro, ma all’autenticità dell’azione morale. Ivàn
Il’ič non riesce però a sciogliere «l’enigma della vita e della
morte»135, ne rimane prigioniero e per questo muore.
II.2.2. L’etico sfonda il contesto linguistico
ordinario e ne mostra il senso, la direzione. La
felicità o l’infelicità del soggetto della volontà, di
quell’Io che non è oggetto ma limite del mondo, della
totalità dei fatti, dipende dalla relazione che egli
intrattiene con questa totalità: “Se il volere buono o
cattivo altera il mondo, esso può alterare solo i limiti
del mondo, non i fatti, non ciò che può essere espresso
dal linguaggio. In breve, il mondo allora deve perciò
divenire un altro mondo. Esso deve, per così dire,
134 L. TOLSTOJ, La morte Ivàn Il’ič, in op. cit., p.365.135 Ivi, p. 392.
118
decrescere o crescere in toto. Il mondo del felice è un
altro mondo che quello dell’infelice”136. Così la
libertà del soggetto della volontà dipende da come
questo soggetto guardi al mondo, dalla posizione del
limite del mondo. Mutatis mutandis, la stessa prospettiva
sull’argomento, Wittgenstein la riproporrà nelle sue
Lezioni sulla libertà del volere, tenute a Cambridge nel 1939,
delle quali siamo a conoscenza grazie agli appunti presi
da Yorick Smythies. Analizzando i giochi linguistici dai
quali rileviamo la questione della libertà del volere
umano o del determinismo, Wittgenstein perviene ad una
dissoluzione del problema consistente nella prospettiva
per la quale, giudicando un’azione come libera o come il
risultato di una costrizione, noi adottiamo in realtà
modelli grammaticali diversi di descrizione dei fatti:
Sembra come se, se siete fortemente colpiti dalla
responsabilità che un essere umano ha per le sue azioni,
tendiate a dire che queste azioni e scelte non possono
seguire leggi naturali. E all’opposto, se tendete molto
fortemente a dire che esse seguono leggi naturali, allora
tendete a dire: «non posso essere ritenuto responsabile per
la mia scelta». Che abbiate questa tendenza, dovrei dire, è
un fatto di psicologia. 137
136 L. WITTGENSTEIN, Tractatus, op. cit., 6.43, p. 107.137 L. WITTGENSTEIN, Causa ed effetto seguito da Lezioni sulla libertà del volere, op. cit., p.65.
119
Ebbene in alcune occasioni, quando ad esempio vogliamo
sottolineare il carattere morale di un’azione, tendiamo
ad adottare il modello di descrizione che insiste sulla
libertà del volere, dicendo che quell’uomo ha agito
spontaneamente. Nulla poi vieta che i nostri giochi
linguistici possano sposare contemporaneamente i due
modelli grammaticali, per cui l’indipendenza della
totalità dei fatti, del mondo non implica un’azione
necessitante nei confronti della libertà delle azioni
del soggetto. È il caso questo, dice Wittgenstein, della
morale paolina: “San Paolo dice che Dio ha fatto di te
un vaso d’ira o un vaso di grazia, e tuttavia che tu sei
responsabile”138. Se un’azione sia libera o meno, quindi,
dipende dalla grammatica delle parole che la descrivono.
L’insensatezza di “ciò che è più profondo” così come
l’infondatezza delle proposizioni grammaticali che fanno
da sostegno ai nostri giudizi mostrano quella che è la
trama di fondo dell’intera riflessione wittgensteiniana,
l’azione etica della sua filosofia. Dobbiamo liberarci
delle parole di cui Wittgenstein si serve per
raggiungere una rappresentazione chiara del nostro modo
di parlare e quindi di agire, dobbiamo lasciarci toccare
da quella esperienza etica rappresentata dalla sua
stessa riflessione. L’etica non può essere una scienza
sistematica, il suo peso è tale che espressa nel
138 Ivi, p. 70.
120
linguaggio significante lo svuoterebbe di tutte le sue
funzioni empiriche ed ordinarie:
L’etica, se è qualcosa, è soprannaturale, mentre le nostre
parole potranno esprimere solamente fatti; così come una
tazza contiene solo la quantità d’acqua che la riempie fino
all’orlo, e io ne facessi versare un ettolitro. 139
All’autore che vuole intraprendere una “critica del
linguaggio” che mostri dall’interno i limiti del
dicibile, non rimane che abbandonare le parole con cui
ha strutturato la critica per agire nella direzione che
egli stesso ha indicato. In questo senso il compito di
una buona filosofia è quello di mostrare la trasparenza
delle condizioni di sensatezza del linguaggio. E questa
è già per se stessa un’azione etica la cui contropartita
è il silenzio. L’esperienza esistenziale di Wittgenstein
dimostra come egli diede un esito concreto a queste
conclusioni, quando alla fine della Prima guerra
mondiale decise di abbandonare la filosofia accademica
per dedicarsi, a partire dal settembre del 1920,
all’insegnamento elementare nella bassa Austria. È
curioso riscontrare in questa scelta un parallelo
biografico con Tolstoj, che nell’inferno della trincea
era stato per lui una lettura salvifica. Anche lo
scrittore russo, di ritorno da quella che fu una delle
prime guerre combattute con i metodi e la crudeltà delle139 L. WITTGENSTEIN, Lezioni e conversazioni, op. cit., p. 11.
121
guerre contemporanee, la guerra di Crimea, aprì
nell’autunno 1859 una scuola per i ragazzi di Jasnaja
Poljana. Probabilmente Wittgenstein visse questa
esperienza, peraltro fallimentare, dal momento che i
suoi metodi a volte bruschi nei confronti dei bambini
non erano apprezzati dai genitori, con uno spirito
decisamente “tolstojano”. Il bisogno di comunicare la
propria esperienza etica nell’attività di insegnante,
trova un riscontro nell’antintellettualismo di Tolstoj
nei confronti delle teorie pedagogiche, positiviste,
dell’Ottocento: “Negli articoli che pubblicò sulla
rivista «Jasnaja Poljana», Tolstoj negò la possibilità di
costruire una scienza pedagogica, come poi avrebbe
negato un’arte della guerra, e con scherno felice derise
ogni tentativo della ragione di imporre una regola alla
varietà della vita”140.
Ciò che nelle valutazioni del “Tractatus” e del “periodo
del silenzio” (quello che va dall’inizio degli anni
Venti al 1929, l’anno del ritorno a Cambridge) deve
essere tenuto in considerazione è l’influenza che la
Stimmung viennese, la Prima guerra mondiale e la
“riscoperta” di Tolstoj ebbero sul giovane Wittgenstein.
Il silenzio colmo di significato con cui Wittgenstein
chiudeva il “Tractatus” si trovava in armonia con la
battaglia culturale di critica dei linguaggi espressivi
corrotti che univa lo spettro culturale viennese e
140 P. CITATI, Tolstoj, Adelphi, Milano 1996, p. 76.
122
trovava un compimento esistenziale in alcune scelte che
il filosofo austriaco prese dopo aver vissuto da
volontario il trauma della guerra e che potremmo
definire “tolstojane”.
Il primo incontro tra Wittgenstein e le opere di Tolstoj
avvenne nella casa paterna di Allegasse a Vienna. Il
giovane Wittgenstein poteva leggere, infatti, tutta
quella letteratura dotata di una chiarezza della forma e
dei contenuti tale da risultare gradita ai gusti
estetici molto raffinati e decisamente poco borghesi
della sua famiglia. Solo in questo tipo di letteratura i
Wittgenstein pensavano che si sarebbero potuti trovare
quegli stimoli al miglioramento di sé, quella tensione
alla perfezione che faceva tutt’uno con un senso di
appartenenza e sacrificio per la propria comunità, nella
quale diventa umana la vita di ogni individuo.
Ma il vero incontro avvenne sotto le armi. All’inizio
della Prima guerra mondiale Wittgenstein si arruolò come
volontario nell’esercito austriaco. Anche Tolstoj aveva
combattuto una guerra non meno cruenta, la guerra di
Crimea. Assegnato alla terza batteria leggera della
quattordicesima Brigata di artiglieria dell’esercito
zarista, lo scrittore russo lì compose quei “Racconti di
Sebastopoli” in cui l’esperienza della guerra è così
crudamente rappresentata, l’esercito russo è tal punto
spogliato di quel pomposo eroismo che la letteratura
123
patriottica gli attribuiva, da essersi guadagnati la
censura di alcune parti.
Inizialmente destinato alle retrovie, prima sul battello
Goplana in pattugliamento sulla Vistola, poi in
un’officina d’artiglieria a Cracovia, il filosofo
austriaco chiese e ottenne di essere trasferito come
soldato semplice sul fronte orientale. Con la stessa
cieca ostinazione del Michele Kohlhaas di Kleist,
Wittgenstein cercò intenzionalmente il confronto con
l’esperienza della morte. Un’esperienza che diede un
nuovo orientamento a tutta la sua riflessione sul
linguaggio, sui suoi limiti, sulla logica. La presenza
della morte fu il fenomeno che permise a Wittgenstein di
trovare quel filo rosso con cui tenere insieme le
proprie ansie, la profonda inquietudine espressa da una
continua esigenza di perfezionamento, e il senso del suo
lavoro in logica. O meglio «[…] la persistente aspirazione al
raggiungimento della decenza morale (Anständigkeit), la mancata
acquisizione di uno sguardo complessivo (Überblick) che raccogliesse le
manifestazioni disperse e frammentarie della vita in una visione perspicua.
Alla base di questa esperienza integrale c’era in Wittgenstein il
fondamentale bisogno della confessione. Sich sammeln: racogliersi,
prendersi per così dire in mano per esprimere unicamente quello che si
è»141.
Fu sul fronte orientale che il filosofo austriaco iniziò
a leggere senza sosta il “Riassunto del Vangelo” di Tolstoj,
141 A. G. GARGANI, Il coraggio di essere, introd. a L.WITTGENSTEIN, Diari segreti, ed. it. a cura di F. Funtò Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 6-7.
124
tanto da essere soprannominato dai suoi commilitoni
“l’uomo del Vangelo”. Nei primi mesi in prima linea il
sostegno spirituale che Wittgenstein trasse da questa
lettura divenne fondamentale per la sua sopravvivenza.
In quest’opera egli riscontrò quella idea sul soggetto
dell’etica, sull’Io come limite del mondo, che avrebbe
formalizzato in seguito nel “Tractatus”. L’idea cioè per
cui in una visione religiosa, cristiana, del mondo
l’interiorità dell’uomo garantisse la libertà, perché
essa diviene nell’atteggiamento etico del soggetto,
indipendente dai rischi corsi dall’esteriorità, dal
corpo:
Il mondo mi è dato, vale a dire la mia volontà si volge al
mondo completamente dal di fuori, come a un fatto compiuto.
[…] Quindi abbiamo la sensazione d’essere dipendenti da una
volontà estranea. […] Dal fato posso rendermi indipendente.
Vi sono due divinità: il mondo ed il mio Io indipendente. Io
sono o felice o infelice, questo è tutto. Si può dire: bene o
male non v’è. Chi è felice non deve aver timore. Neppure
della morte. […] Il timore della morte è il miglior segno
d’una vita falsa, cioè cattiva.142
Non dipendere soltanto dal mondo esterno, e allora non ti
sarà necessario temere ciò che in esso accade. Stanotte ho
sevizio di guardia. È più facile rendersi indipendenti dalle
142 L. WITTGENSTEIN, Tractatus e Quaderni 1914-1916, op. cit., annotazione dell’ 8/7/16, p. 219.
125
cose che dagli uomini. Ma anche questo si deve riuscire ad
ottenere! 143
II.2.3. Fu probabilmente l’esigenza di vivere
autenticamente, di non aver paura della morte, che mosse
Wittgenstein ad uno dei gesti più clamorosi per
l’ambiente sociale in cui viveva. Nel settembre del
1919, dopo il suo rilascio dal campo di prigionia di
Montecassino, il filosofo ritornò a Vienna dove alienò
ai fratelli la ricca eredità paterna. Questa rinuncia
all’eredità possiede un valore simbolico decisamente
significativo. Essa rientra a pieno titolo fra quelle
esperienze esistenziali che avvicinano la parabola
biografica wittgensteiniana a quella di Tolstoj. Ma in
un certo senso la cifra simbolica della rinuncia
all’eredità paterna rappresenta, sul piano
dell’esperienza filosofica di Wittgenstein, la rinuncia
ad un determinato modo di affrontare le questioni
filosofiche. La rinuncia quindi ad una certa tradizione,
quella che si interroga su questioni attraverso immagini
e concetti che sono il retaggio di un certo modo di
parlare e quindi di vivere:
Si sente continuamente l’osservazione che la filosofia
propriamente non fa alcun progresso, e che noi ci occupiamo
143 L. WITTGENSTEIN, Diari segreti, op. cit., annotazione del 4.11.1914, p. 76.
126
ancora degli stessi problemi di cui si occupavano già i
Greci. Ma chi dice questo non capisce la ragione per cui
è //deve essere// così. La ragione è che il nostro linguaggio
è lo stesso e che ci induce a porre sempre ancora le stesse
domande. Finché ci sarà un verbo “essere” che sembra
funzionare come “mangiare” e “bere”, finché ci saranno
aggettivi come “identico”, “vero”, “falso”, “possibile”,
finché si parlerà dello scorrere del tempo e dell’estensione
dello spazio, e così via, fino ad allora gli uomini
incapperanno nelle stesse misteriose difficoltà, e si
fisseranno su ciò che nessuna spiegazione sembra poter
rimuovere.
E ciò soddisfa, tra l’altro, un’aspirazione verso il
soprannaturale //trascendente//; infatti, mentre credono di
vedere i “limiti dell’intelletto umano”, naturalmente credono
di poter vedere al di là di ciò.
Leggo: “…. philosophers are no nearer to the meaning of
“Reality” than Plato got…..”. Che stranezza. Com’è strano che
Platone potesse comunque andare così avanti! Oppure, che noi
non siamo potuti andare oltre! È stato perché Platone era così
intelligente?144
Nella rinuncia al lessico della filosofia tradizionale,
la cui natura dogmatica appartiene tanto a quella
metafisica propria della tradizione classica e della
teologia, quanto a quella “metafisica della scienza”
insita nell’idea di progresso sui problemi scientifici
interna al positivismo e al neopositivismo,
144 L. WITTGENSTEIN, Filosofia, op. cit., pp. 57-59.
127
Wittgenstein rinuncia ad uno sguardo sulla realtà che si
serva di modelli (essere, vero, falso, possibile, tempo,
spazio) con cui le nostre più profonde inquietudini
vengono sublimate in “misteriose difficoltà”. All’umiltà
della filosofia dogmatica, alla rassicurante
“aspirazione verso il soprannaturale” il filosofo
austriaco oppone una trasformazione immanente al
linguaggio dei problemi filosofici, che ne dirada
l’alone di problematicità.
Dunque il carattere di questa rinuncia, il carattere
profondo della tanto celebrata “svolta linguistica”, non
risiede in una riorganizzazione strategica degli
investimenti teorici, ma ancora una volta in un bisogno
etico, quello del ritorno delle parole alla loro patria
(Heimat) e del filosofo al loro uso quotidiano, cioè alla
forma di vita. Una rinuncia che non è ripiegamento su se
stessi, su quello che Gargani definisce un “uso
intransitivo” del linguaggio145, ma che invece si colora
dell’apertura del filosofo al mondo, alla semplicità
carica di espressione, con cui le parole vengono giocate
nei contesti quotidiani.
Una rinuncia di segno opposto a quella del Padre Sergij
di Tolstoj. Il protagonista di questo racconto del 1891,
il principe Stepàn Kasatskij, è un giovane bello e
ambizioso il quale rinuncia al mondo, abbracciando il
monachesimo, in seguito ad un episodio lesivo del suo
145 Cfr. A.G.GARGANI, Wittgenstein, op. cit., p. 70.
128
smisurato orgoglio: la donna alla quale aveva chiesto la
mano era già stata amante dello zar. Il passaggio, però,
dal culto pedissequo delle formalità mondane
all’acritica adesione alla vita monastica, con cui il
giovane principe si trasforma lentamente nel venerando
Padre Sergij, non elimina il bisogno di emergere nel suo
ambiente espresso nell’ansia di farsi accettare dal
sovrano: “[…] ma dentro di lui si andava svolgendo un
lavorìo complesso e carico di tensione. Questo lavorìo
sin dagli anni dell’infanzia era andato assumendo, in
apparenza, le forme più diverse, ma in sostanza era
rimasto sempre il medesimo, ed era sempre consistito
nello sforzo di raggiunger sempre, in qualsiasi cosa
ch’egli si trovasse a fare, una tal perfezione e un tal
successo da suscitare le lodi e l’ammirazione della
gente”146. Le tensioni irrisolte della sua vita di
preghiera sono rappresentate da Tolstoj nella lotta tra
la carne e lo spirito, tra il corpo e l’anima. Come il
filosofo dogmatico, la cui razionalità discriminatrice
sublima le inquietudini vitali in immagini binarie quali
interno/esterno, diretto/indiretto,
profondità/superficie, così anche Padre Sergij
cristallizza le proprie pulsioni vitali in un rigido
ascetismo che non le risolve. Ma che, anzi, ne accelera
la tensione distruttrice: “La sua vita era difficile.
Non per le fatiche del digiuno e della preghiera, che
146 L. TOLSTOJ, Padre Sergij in Tutti i Racconti, op. cit., Volume secondo, pp. 684-685.
129
non erano fatiche, ma per la lotta interiore, che egli
non si era affatto aspettato di dover combattere lì. Due
erano le cause di questa lotta: il dubbio e la bramosia
carnale”147. La tensione giunge al culmine con
l’incombere sulla vita ritirata del monaco, di quella
che Tolstoj chiama “la tentazione della donna”. La
Màkovkina, rappresentazione del femmineo moderno,
raggiunge l’eremo di Padre Sergij con l’obiettivo di
vincere la propria noia, mettendone alla prova la
castità. Di fronte alla forza seducente della donna il
monaco risolve tragicamente la situazione: amputa
l’indice della propria mano sinistra e con ciò si illude
di aver eliminato simbolicamente la propria corporeità.
S’illude perché lentamente scivola in una vita
esclusivamente spirituale in cui il corpo, la carne,
gioca il ruolo del rimosso pronto ad un ritorno
violento. Nel momento in cui la vita dello spirito si
manifesta in guarigioni miracolose che spingono decine
di pellegrini al suo eremo, padre Sergij ritorna a
sentirsi esposto, con una forza sempre più trascinante,
alle seduzioni dell’esteriorità, del corpo, della carne:
“Era cominciata dopo la guarigione di quel ragazzo
quattordicenne, e da allora di mese in mese, di
settimana in settimana, di giorno in giorno Sergij aveva
sentito come la sua vita interiore si venisse
distruggendo, per lasciar posto a una tutta esteriore.
147 Ivi, p. 702.
130
Era come se l’avessero rivoltato, facendo diventar
l’interno l’esterno”148.
L’epilogo del racconto è segnato da questa incapacità
risolutiva del personaggio di Tolstoj. Padre Sergij
ricade nella spirale del desiderio sessuale, questa
volta nei confronti di una ragazzina, probabilmente
malata di mente, condotta da lui nella notte per essere
guarita. La reazione del monaco esprime quella rinuncia
al mondo che Tolstoj stesso visse nella sua maturità, di
segno opposto alla simbolica rinuncia all’eredità
paterna di Wittgenstein. Dopo la caduta, Sergij fugge
dal suo eremo alla ricerca, inizialmente inconsapevole,
di una lontana parente incarnazione di una semplicità e
di una purezza estranee alla sua mente. In questo modo
Sergij si condanna ad un silenzio che è incapacità di
uscire dalla trappola metafisica in cui i dualismi della
ragione lo hanno intrappolato.
In parte questo è stato anche il destino di Tolstoj. Le
sue violente crisi morali che lo portarono a fuggire da
casa diverse volte, e durante una delle quali morì,
significano proprio questo senso di frustrazione dettato
dall’insufficienza della vita della spirito, una vita
profonda e inaccessibile all’altro, fosse inconciliabile
con i suoi ideali di solidarietà e fratellanza
universale. L’antiintellettualismo di Tolstoj, la scelta
di un cristianesimo popolare, manca di quell’apertura
148 Ivi, p. 715.
131
alla forma di vita, di quel silenzio carico di
significato, che invece fu la soluzione wittgensteiniana
al problema della vita. Certo, non può passare in
secondo piano che «l’antiintellettualismo dello scrittore russo e la sua
ripugnanza per la spiegazione teologica esitano nell’esortazione ad
accettare e seguire, avendola riconosciuta, nell’insegnamento cristiano
una “regola” donatrice di senso. E – passo ulteriore – a seguirla con
passione, convinto che questa forma di evoluzione conduca ad una vita
giusta. Il modello sognato – e messo in pratica da Tolstoj – si inspira alla
“vita semplice” dei contadini, a una vita legata alla natura e al ciclo
stagionale»149. Ma in questo riconoscimento della semplicità
salvifica del cristianesimo Tolstoj compie una rinuncia
ad un aspetto della realtà, quello corporeo, esterno, di
superficie cui invece la dissoluzione del problema della
vita di Wittgenstein non rinuncia: “La gioia per i miei
pensieri è la gioia per la strana vita che mi è propria.
È, questo, gioia di vivere?”150. L’atteggiamento etico di
Wittgenstein è un atteggiamento antitragico, un
superamento della realtà divisa, segmentata,
conflittuale del linguaggio filosofico.
Il suo rapporto con il mondo è agli antipodi di quello
che il principe Andréj, in “Guerra e pace” vive dopo la
battaglia di Austerlitz, simbolo dei limiti della
riflessione teorica di Tolstoj sul problema della vita:
“Forse, tu hai ragione per te, - seguitò dopo un po’ di
149 A. GRIECO, Una vita cattiva è una vita irrazionale, in Wittgenstein politico, op. cit., p. 171.150 L. WITTGENSTEIN, Pensieri diversi, op. cit., p. 53.
132
silenzio; - ma ciascuno vive a modo suo: tu hai vissuto
per te e dici che con questo per poco non hai rovinato
la tua vita e hai riconosciuto la felicità solo quando
ti sei messo a vivere per gli altri. E io ho provato il
contrario. Io ho vissuto per la gloria. ( E che è poi la
gloria? È lo stesso amore verso gli altri, il desiderio
di far qualcosa per loro, il desiderio delle loro lodi).
Così ho vissuto per gli altri e non ho quasi rovinato,
ma totalmente rovinato la mia vita. E sono qui
tranquillo da quando vivo per me solo”151. Tra l’io del
principe Andréj e gli altri esiste una barriera
insuperabile che si dà in un certo uso del linguaggio,
in un certo modo d’agire staccato dalla concretezza del
reale, dal quotidiano. La vita dello spirito ha bisogno
di un al di là, di una dimensione trascendente, perché
nell’immanente rimane intrappolata nella prigione del
corpo. Compito della filosofia è invece, secondo
Wittgenstein, quello di dissolvere la contrapposizione
tra un interno ed un esterno, tra un’anima e un corpo,
tra l’Io del solipsista e la realtà esterna del
realista. E dimostrarne in questo modo il rischio
intrinseco, quello di voltare le spalle alla forma di
vita, dell’intrappolamento: “Qual è il tuo scopo in
filosofia? – Indicare alla mosca la via d’uscita dalla
trappola”152.
151 L. TOLSTOJ, Guerra e pace, tr. it. a cura E. Carafa d’Andria, Einaudi, Torino 1990, Libro II parte II cap. XI, p. 446.152 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, op. cit., I, § 309, p. 137.
133
Questo superamento è al centro della sua elaborazione
filosofica. Ma viene visto da posizioni differenti, da
prospettive distinte. Se il giovane Wittgenstein crede
che la chiarezza del linguaggio filosofico sia
d’importanza capitale per delimitare le condizioni di
possibilità del linguaggio significante, il Wittgenstein
della maturità rinuncia alla trasparenza di tutto il
terreno su cui innestiamo le parole, per illuminarne, di
volta in volta, solo alcune parti. La propria esperienza
esistenziale, la vita, dimostra al filosofo austriaco
che anche vedere completamente la forma logica, questo
deus ex machina delle operazioni linguistiche, è
un’illusione altrettanto pericolosa come il
funzionamento a vuoto del linguaggio filosofico. La
forma logica è una pericolosa illusione tanto quanto lo
è il deus absconditus del principe Andréj che conferisce
senso alle insensate sofferenze del rapporto tra
l’individuo e gli altri. Il filosofo avverte che
camminare sulla “lastra di ghiaccio” della forma logica
è impossibile senza l’ “attrito” dovuto alle
imperfezioni dei giochi linguistici quotidiani153.
Guardare a queste imperfezioni come all’elemento vitale
dell’espressione linguistica, del nostro modo di vivere,
della forma di vita; è questo in ultima istanza il senso
profondo dell’atteggiamento antitragico che Wittgenstein
vuole intrattenere con il mondo: “Nel cristianesimo è
153 Cfr. Ivi, I, § 107, p. 65.
134
come se il buon Dio dicesse agli uomini: non fate
tragedie, cioè paradiso e inferno sulla terra. Paradiso
e inferno me li sono riservati io”154.
II.2.4. La lotta tra carne e spirito inscenata da
Tolstoj è il risultato di quella distinzione tra
interiorità ed esteriorità che Wittgenstein aveva
affrontato a proposito dell’espressione del dolore, o di
altri stati interni come i sentimenti. Abbiamo visto nel
precedente capitolo che queste distinzioni sono il
risultato di un particolare modo di porsi le questioni
filosofiche, quella metafisica della prima persona, che
fa dell’accesso privilegiato dell’io alla conoscenza dei
propri stati interni, l’elemento su cui costruire una
significativa asimmetria tra la prima e la terza
persona, tra l’io e l’altro. Questa tradizione
filosofica ha quindi contribuito, da un punto di vista
teorico, al rigetto del corpo umano quale organo della
conoscenza reale, per relegarlo nell’ambito
dell’apparenza, delle qualità secondarie. La metafisica
della prima persona ha invece investito ciò che
Wittgenstein chiama il “mentale”, l’anima, la res
cogitans, l’Io penso, del compito di conoscere la realtà
concettuale, vera. Ma la conoscenza della realtà per la
mente è sempre mediata dall’esperienza sensoriale,
spazio-temporalmente localizzata del corpo. Il risultato
154 L. WITTGENSTEIN, Pensieri diversi, op. cit., p. 39.
135
è stato quella scomposizione tragica della realtà che ha
nelle distinzioni tra interno/esterno,
diretto/indiretto, profondità/superficie le sue
conseguenze più importanti. Ma soprattutto la
gerarchizzazione delle facoltà conoscitive secondo uno
schema che privilegi l’intelletto o la ragione, facoltà
espressioni del mentale, a scapito dell’immaginazione,
facoltà associata all’esperienza sensoriale, quindi al
corpo.
Del resto l’avvento di questa distinzione è ben evidente
nella storia della scienza moderna, che, a partire dal
XVII secolo, con la sua strutturazione meccanicistica,
ha scisso il sapere dal senso comune. L’uomo della
strada perde la visibilità della natura. L’esperienza
ordinaria viene adesso degradata ad una conoscenza
acquisita senza lo sforzo della ricerca, delle ipotesi e
delle prove; relitto di un sapere illusorio ma non per
questo inutile al soddisfacimento dei bisogni
quotidiani. Il sapere si stacca dal senso comune e
persegue obiettivi autonomi da implicazioni pratiche e
in questo modo si espone a disagi e inquietudini che
sono il risultato di questa chiusura. L’importante
contributo di Wittgenstein alla questione consiste
indubbiamente nell’aver riservato all’attività
filosofica il compito di eliminare questi disagi, queste
inquietudini profonde attraverso la consapevolezza che
nei problemi filosofici (problemi interni anche a un
136
certo tipo di scienza) ci facciamo abbagliare da alcune
analogie del linguaggio, staccandoci così dalla vita
pratica:
È degno di nota che nella vita quotidiana non abbiamo mai la
sensazione che il fenomeno [Phänomen] ci sfugga, non sentiamo
il flusso costante dell’apparenza [Erscheinung], ma ciò accade
solo quando filosofiamo. Ciò significa che qui si tratta di
un pensiero che ci viene suggerito da un impiego sbagliato
del nostro linguaggio.155
Le inquietudini scompaiono solo attraverso un uso
consapevole di quei giochi linguistici nei quali ci
stacchiamo dalle nostre vicende quotidiane per fare
delle osservazioni generalizzate sull’esperienza, sulla
vita pratica. Ricondurre il sapere ad un fondamento
grammaticale è la prima mossa di Wittgenstein. La sua
seconda mossa consiste invece nell’aver riportato alla
luce il carattere grammaticale presente nelle nozioni
del senso comune, nel sapere popolare. In questo modo
quello che per la scienza moderna era stato un insieme
di espressioni cognitive naturali, immediate,
preteoriche da cui emanciparsi attraverso la teoria, è
presentato come un insieme di proposizioni grammaticali,
la certezza delle quali non è il risultato di una
conoscenza immediata ma lo sfondo infondato su cui
converge una forma di vita. Quello di Wittgenstein è
155 L. WITTGENSTEIN, Filosofia, op. cit., pp. 67-69.
137
dunque un lavoro di indicazione di un ordine pre-
cognitivo, infondato, del qual possiamo asserire
semplicemente l’esistenza ma che rimane come sfondo
della varietà dei nostri giochi linguistici.
In questo sforzo di valorizzazione della molteplicità
dei contesti linguistici che si accompagna ad un
demolition job di critica ai contesti vuoti dell’uso
metafisico delle parole è possibile ravvisare una
decisiva tensione etica. «Infatti, riconoscendo le diverse
applicazioni e conseguentemente i diversi significati di una parola, e
praticando l’attività connessa consistente nello sviluppo di una sequenza di
significati secondari a partire da un significato primario, Wittgenstein
coinvolge un atteggiamento etico già presente nel Tractatus; secondo il
quale un soggetto è etico nella misura in cui è riconciliato con il mondo
assunto come una totalità» così come «[…] nelle opere della seconda
maniera Wittgenstein delinea un atteggiamento etico centrato sul
riconoscimento della varietà dei possibili usi delle parole»156.
Vedere e agire nel mondo eticamente vuol dire essere
parte responsabile di una totalità, di una forma di
vita, dissolvere quindi la barriera metafisica tra
esterno ed interno, tra corpo e anima, tra materia e
spirito. Attraverso una conversione grammaticale della
psiche e dell’ontologia:
Che non ci facciamo caso quando ci guardiamo intorno, quando
guardiamo in giro nello spazio, sentiamo il nostro corpo,
ecc., ecc., mostra come proprio queste cose siano naturali156 A. G. GARGANI, Wittgenstein, op. cit., pp. 135-136.
138
per noi. […] Volevo dire che è degno di nota che quelli che
attribuiscono realtà solo alle cose [Dingen], e non alle
nostre rappresentazioni [Vorstellungen], si muovano con tanta
naturalezza nel mondo della rappresentazione e non guardino
mai al di fuori di esso. […] Questa cosa ovvia, la vita,
dovrebbe essere qualcosa di accidentale, di secondario;
mentre ciò di cui normalmente non mi do mai pensiero dovrebbe
essere la cosa vera! […] L’ovvietà del mondo si esprime
proprio in questo: che il linguaggio significa soltanto il
mondo, e può significare soltanto il mondo. 157
La libertà dalla paura della morte che il giovane
Wittgenstein vide nella lettura del “Riassunto del Vangelo”
di Tolstoj, non si risolve in un’indipendenza
dell’interiorità rispetto al mondo esterno. Ma in uno
sforzo della volontà che è superamento di questa
contrapposizione, che è anche scioglimento grammaticale
di quella superficie, di quel corpo che filtra la
conoscenza del mondo esterno. Solo in questo modo,
attraverso un’attività filosofica che è principalmente
lavoro su se stessi, è possibile ricostruire il rapporto
con il mondo, quindi con gli altri, libero dalle
illusioni, dai sortilegi che il linguaggio ci gioca. Il
lavoro sulla volontà contribuisce alla nascita di un
nuovo soggetto per il quale l’altro non è la ragione
diretta di una sublimazione, quella della sua unicità e
imprevedibilità nel paradigma dell’Io, del soggetto
157 WITTGENSTEIN, Filosofia, op. cit., pp. 69-71.
139
della conoscenza, ma per il quale l’altro è parte di una
totalità alla quale anch’egli, consapevolmente,
partecipa. Potremmo trovare la rappresentazione di
questo nuovo Io, la cui psiche è radicata nella
grammatica dei nostri giochi linguistici, in un
personaggio di uno dei romanzi più amati dal filosofo
austriaco, lo starec Zosima dei “Fratelli Karamazov” di
Dostoevskij. Il monaco russo, guida spirituale dell’eroe
positivo del romanzo, possiede e trasmette la
comprensione intuitiva della psiche, dell’anima, altrui.
È in questo suo essere completamente umano, e non
nell’epifania divina del miracolo, che si esaurisce la
santità del personaggio dostoevskijano. Egli
rappresenta per Wittgenstein, si potrebbe dire, un
individuo dotato della visione psicologica “ideale”:
“Dello starec Zosima dicevano molti che, essendo venuto
per tant’anni a contatto con tutti coloro che venivano
ad aprirgli il loro cuore e a invocare il suo consiglio
e il balsamo della sua parola, una così gran quantità di
confessioni, di rimorsi, di autoaccuse fosse venuta a
raccogliersi nell’anima sua, da fargli acquistare alla
fine una sagacia così penetrante, che gli bastava
un’occhiata al viso dello sconosciuto per indovinare che
cosa fosse venuto a chiedergli, di che cosa avesse
bisogno, e perfino qual genere di afflizione tormentasse
la sua coscienza: tanto che meravigliava, turbava e a
volte quasi spaventava il sopravvenuto con una
140
conoscenza così precisa del suo segreto, prima che egli
avesse pronunciata una parola”158.
In Wittgenstein il superamento nella grammatica di una
psicologia e di un’ontologia di tipo metafisico non si
conclude però con l’assunzione di una metafisica degli
istinti o del corpo. Egli esce fuori dallo schema
binario dell’interno e dell’esterno, dell’anima e del
corpo.
In questo modo Wittgenstein è al di là del modo in cui
Tolstoj, si potrebbe dire, non risolve il problema. E
questo è particolarmente evidente in alcuni racconti
della fine degli anni Ottanta, in cui prevale quello che
potremmo definire il “tema dell’opacità del corpo”. Un
tema questo che riscontriamo anche in “Guerra e pace” e che
tocca alcuni dei problemi esistenziali dello stesso
autore. Perché la sessualità sofferta che caratterizza
questi racconti fu parte della stessa vita di Tolstoj.
Il corpo, nella ricerca della verità tolstojana, una
verità di tipo spirituale che ricerca il senso
dell’esistenza umana nella trasmissione del sentimento
religioso tra gli uomini, rappresenta un ostacolo. Come
una scatola all’interno della quale sono racchiusi i
nostri sentimenti, i desideri, le nostre emozioni, il
corpo è contraddistinto da un’opacità che si frappone
tra le anime e che ne impedisce un’unione spirituale,
superiore. Nella conoscenza che deriva dall’esperienza
158 F. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, tr. it. Einaudi, Torino 2005, Parte I Libro I, p. 40.
141
corporea, dalle sensazioni, Tolstoj individua
quell’apparenza, quel “flusso della rappresentazione”
che distoglie l’uomo dalla ricerca del senso della
propria esistenza. Così il principe Andréj prova un
senso di estraneità, una distanza quasi ascetica, di
fronte ai corpi nudi dei suoi soldati che, pochi giorni
prima della battaglia di Borodino, cercano ristoro in
uno stagno: “Sulle sponde, nello stagno, sulla diga,
dappertutto si vedeva quella carne bianca, sana,
muscolosa. Timochin, l’ufficiale dal piccolo naso rosso,
si stropicciava con un asciugamano sulla diga e si
vergognò vedendo il principe; pure si decise a
rivolgersi a lui. – Ci si sta bene, Eccellenza: se
voleste!... – disse. – È sudicia, - disse il principe
Andréj facendo una smorfia. […] «La carne, il corpo, la
chair à canon!» disse fra sé, guardando il suo corpo nudo, e
rabbrividiva non tanto per il freddo quanto per un
ribrezzo e un orrore che egli stesso non riusciva a
capire, alla vista di quella enorme quantità di corpi
sguazzanti nello stagno melmoso”159.
Ma l’ostacolo rappresentato dal corpo nei rapporti con
gli altri, siano essi legami di tipo familiare, siano
invece quelle relazioni effimere che caratterizzano
l’alta società russa, è il tema centrale di due racconti
la cui stesura si intreccia negli anni che dal 1889
159 L. TOLSTOJ, Guerra e pace, op. cit., Libro III Parte II cap. V, p. 826.
142
vanno al 1891. Si tratta de “La sonata a Kreutzer” e de “Il
diavolo”.
Al centro del primo troviamo un impietoso smascheramento
di quello che il matrimonio è diventato tra le classi
ricche nella società ottocentesca. Il suo protagonista è
il tormentato Pozdnyšev, un ricco proprietario terriero
che ha ucciso la moglie per gelosia. L’epilogo del
racconto non è altro che un corollario dell’esposizione
iniziale che il suo protagonista fa ad un uomo con il
quale si trova in treno, della natura del matrimonio
moderno; un’unione esclusivamente carnale alla quale
viene sovrapposta l’aureola del sentimentalismo, della
retorica artistica dell’amore: “Le donne, e
particolarmente quelle che sono passate per la scuola
dell’uomo sanno molto bene che i discorsi su argomenti
elevati sono discorsi, e che l’uomo ha bisogno del corpo
e di tutto ciò che lo mette in mostra nella luce più
ingannatrice, ma più attraente; e questo appunto è ciò
che si fa”160. Che l’amore non sia qualcosa di elevato,
ma di carnale e basso non dipende, osserverebbe
Wittgenstein, dall’educazione sentimentale ricevuta in
una società corrotta o dalla degenerazione dell’arte,
dall’assenza di sentimenti autentici, ma dalla stessa
prospettiva che porta a distinguere nei nostri giochi
linguistici tra un corpo, pura superficie, e un’anima
presente in esso, in profondità. Descriviamo le nostre
160 L. TOLSTOJ, La sonata a Kreutzer, tr. it. a cura di L. Ginzburg, Einaudi, Torino 2006, p. 29
143
sensazioni come oggetti della coscienza di un ego,
distinto dall’ ego della persona cui stiamo facendo la
descrizione:
Voglio descrivere una situazione in cui non sarei tentato di
dire che ho supposto o creduto che l’altro abbia ciò che io
ho; o, in altre parole, una situazione in cui non
[parleremmo] della mia coscienza e della sua coscienza. E in cui
non ci verrebbe l’idea che possiamo essere consapevoli solo
della nostra coscienza. L’idea, da abolire, di un ego che
abita in un corpo.
Qual[unque] coscienza [vi sia], se essa è diffusa in tutti i
corpi umani, allora non vi sarà alcuna tentazione di usare la
parola “ego”.161
L’inganno nel quale Pozdnyšev vive con sua moglie è la
barriera che questa distinzione, quella tra “la mia
coscienza” e “la sua coscienza”, crea nei rapporti tra
gli uomini. Roso dal tarlo della gelosia causata dalla
presenza in casa sua, durante un impegno che lo porta
lontano, di un affascinante musicista, Pozdnyšev non
riesce a chiarire la propria situazione: “Accesi una
sigaretta e, come capita quando ci si aggira in un
medesimo cerchio di contraddizioni insolubili, che si
fuma, fumavo una sigaretta dopo l’altra per annebbiarmi
la vista e non scorgere le contraddizioni”162. Sembra
allora che l’interno di una persona amata mi sia161 L. WITTGENSTEIN, Esperienza privata e dati di senso, op. cit., p. 25.162 L. TOLSTOJ, La sonata a Kreutzer, op. cit., p.104.
144
inaccessibile, che il possesso del suo corpo sia un
ripiegamento al quale sono necessitato
dall’impossibilità di comprenderne i sentimenti. Di
avere una conoscenza diretta delle sensazioni provate
dall’altro. Dal canto suo Wittgenstein sembra sostenere
che se la questione viene posta in questi termini essa
rimane insolubile. L’interno di un’altra persona non è
qualcosa che posso percepire direttamente perché è un
complesso di concetti, di idee con cui ci si riferisce
quando dalla reazione spontanea ai comportamenti
dell’altro passiamo alla riflessione:
Si presuppone sempre che la persona che sorride sia un essere
umano e non soltanto che ciò che sorride sia un corpo umano.
E si presuppongono anche determinate circostanze e relazioni
del sorridere con altre forme del comportamento. Ma se si
presuppone tutto questo, il sorriso di un altro mi è cosa
gradita. Se chiedo a qualcuno per strada un’informazione su
che strada devo prendere preferisco ricevere una risposta
gentile piuttosto che una sgarbata. Io reagisco
immediatamente al comportamento dell’altro. L’interno lo
presuppongo nella misura in cui presuppongo un essere umano.
L’ “interno” è un’illusione. E cioè: l’intero complesso di
idee al quale si allude con questa parola è come un sipario
dipinto calato davanti alla scena della vera applicazione
della parola.163
163 L. WITTGENSTEIN, Ultimi scritti. La filosofia della psicologia, op. cit., p. 236.
145
Il protagonista del racconto continua invece a sbattere
contro le pareti di questa trappola filosofica, non
riesce ad instaurare un rapporto autentico con la moglie
e all’arrivo dell’affascinante musicista la sua gelosia
esplode in un raptus di violenza domestica.
Lo stesso canovaccio è presente nell’altro racconto
citato, “Il diavolo”, scritto durante la stesura de “La
sonata a Kreutzer”. Anche in questo caso al centro della
narrazione troviamo un adulterio. Ma questa volta è il
protagonista , Irtenev, ad essere tentato di tradire la
moglie con una contadina che lavora nei suoi
possedimenti, Stepanida. Ciò che colpisce del racconto è
che il personaggio vive un vero e proprio sdoppiamento
della realtà, da un lato la vita dello spirito
rappresentata dalla moglie, donna angelicata, dall’altro
la tentazione della carne rappresentata da Stepanida,
donna leggera e sensuale: “Sì, due vite ho davanti,
adesso; una è quella che ho cominciato con Liza: tutto
quello che sto facendo per gli altri, e l’azienda, la
bambina, il rispetto della gente. Se questa dev’essere
la vita allora bisogna che lei, Stepanida, non ci sia
più. L’altra invece è proprio qui. Toglierla a suo
marito, dare a lui del denaro, dimenticare la vergogna e
il disonore e andare a vivere con lei”164.
Nella vicenda di Irtenev, il corpo, assume sempre più i
connotati di una macchina, incontrollabile, distinta
164 L. TOLSTOJ, Il diavolo in Tutti i Racconti, op. cit., pp. 1184-1185.
146
dall’anima. La tentazione continua cui la presenza del
corpo di Stepanida lo sottopone, porta Irtenev ad
un’estraneazione continua dal suo di corpo. Egli diventa
come un automa, animato da obiettivi sinistri: “Ma non
posso immaginare che gli uomini intorno a me siano
automi privi di coscienza anche se il loro comportamento
è lo stesso di sempre? – Se lo immagino ora – mentre
sono solo nella mia stanza – vedo la gente attendere
alle proprie faccende con lo sguardo fisso (come in
trance) – forse l’idea è un po’ sinistra. Ma prova a
mantenere ferma quest’idea nelle tue relazioni
quotidiane, per esempio quando sei per strada! Per
esempio, dì a te stesso: «Quei bambini là sono semplici
automi; la loro vivacità è puramente automatica», e
queste parole diventeranno del tutto insignificanti;
oppure si risveglierà in te una specie di sentimento
sinistro, o qualcosa del genere”165. Anche nel caso di
Irtenev non esiste una soluzione al problema filosofico
dell’anima e del corpo. O meglio Tosltoj propone in
questo racconto due finali, il primo che si conclude con
il suicidio del protagonista, il secondo che invece
culmina con l’assassinio di Stepanida, i quali
simbolizzano la sua incapacità a risolvere le proprie
inquietudini: “E in effetti, se Evgenij Irtenev era
malato di mente, allora tutti gli uomini sono malati di
mente quanto lui, e i più malati di mente sono
165 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, op. cit., I, § 420, p. 166.
147
indubbiamente coloro che negli altri uomini scorgono
sintomi di follia che non scorgono in se medesimi”166.
Irtenev, Pozdnyšev, Padre Sergij, in parte anche il
principe Andrèj e Ivàn Il’ič sono tutte maschere della
travagliata esperienza esistenziale di Tolstoj. La sua
sofferta individualità, il rapporto tormentato con la
propria sessualità, sono le ragioni delle sue improvvise
crisi di coscienza. Nell’ultima di queste crisi che lo
costrinse a lasciare Jasnaja Polijana, lo scrittore
russo, ammalatosi, trovò la morte nella piccola stazione
di Astapovo, dove si era rifugiato. I suoi ultimi
racconti in cui è riflessa questa travagliata esperienza
interiore rivelano la sua impotenza di fronte alle
inquietudini profonde suscitate da un uso metafisico
delle parole, sublimate in immagini della realtà.
Dualismi, strade alternative, in cui Tosltoj non riuscì
più a trovare l’unità del reale, quella totalità
comunicatagli dal sentimento religioso, dal suo
anarchismo. La rivolta di Tosltoj contro l’ordine
razionale superiore della dialettica da un lato, e
dell’ideologia del progresso, dall’altro, fu una rivolta
incompiuta. Come la mosca del § 309 delle “Ricerche
filosofiche” egli non riuscì a trovare, nella conversione
ad un cristianesimo popolare, in cui idealizzava la
vitalità del contadino russo, la via d’uscita dalla
trappola. Per farlo avrebbe dovuto rinunciare ad un modo
166 L. TOLSTOJ, Il diavolo in Tutti i Racconti, op. cit., pp. 1187-1188.
148
di vedere le cose, ad una prospettiva sulla realtà
insita in un modo di parlare, in un uso del linguaggio,
staccato dalla vita pratica. Come Kostantin Lèvin,
personaggio che ne è l’alter ego in “Anna Karenina”, anche
Tolstoj pensò di aver trovato nelle sue scelte
“evangeliche” la soluzione al problema della vita: “Mi
arrabbierò ugualmente con il cocchiere Ivàn, egualmente
discuterò, esprimerò a sproposito i miei pensieri, ci
sarà sempre lo stesso muro fra il sacrario della mia
anima e gli altri, e perfino con mia moglie, la
brontolerò egualmente per lo spavento che ho provato,
[…] ma ora la mia vita, tutta la mia vita, qualunque
cosa accada, in ogni suo momento, non solo non è priva
di senso come prima, ma ha un significato sicuro che le
deriva dal bene su cui io posso fondarla”167.
Egli non fu abbastanza forte da rinunciare a questo uso
del linguaggio, a individuare in una “trasformazione
dello sguardo” il compito di una filosofia onesta. Ma
come ha scritto P.Hadot: “Questo ritorno al «quotidiano»
mi sembra essere il movimento caratteristico del secondo
Wittgenstein. Vi vedrei volentieri una volontà di
semplicità e unità, di povertà in qualche modo
‘evangelica’, che poi molto si addice a colui che fu per
un momento discepolo di Tolstoj”168.
167 L. TOLSTOJ, Anna Karenina, tr. it. a cura di P. Zveteremich, Garzanti, Milano 1973, Vol. II, Parte VIII, cap. XIX, pp. 822-823.168 P. HADOT, Wittgenstein e i limiti del linguaggio, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 76.
149
La “brama di semplicità” che mosse tanto lo scrittore
russo nella teorizzazione e produzione di opere
letterarie universalmente condivisibili, quanto il
filosofo austriaco nell’opera etica di dissodamento del
linguaggio, rimase un’aspirazione incompiuta nel primo,
un invito a guardare al di là della sua riflessione nel
secondo.
150
Bibliografia
Testi di Ludwig Wittgenstein:
- Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, tr. it. di
A. G. Conte, Einaudi, Torino 1998.
- Ricerche filosofiche, ed. it. a cura di M. Trinchero,
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- Della Certezza. L’analisi filosofica del senso comune, tr. it. di M.
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- Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza
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- Pensieri diversi, ed. it. a cura di M. Ranchetti, Adelphi,
Milano 2001.
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- Osservazioni sulla filosofia della psicologia, tr. it. di R. De
Monticelli, Adelphi, Milano 1990, parte I.
- Diari segreti, ed. it. a cura di F. Funtò Laterza, Roma-
Bari 2001.
- Osservazioni filosofiche, tr. it. di M. Rosso, Einaudi,
Torino 1999, Premessa dell’autore, p. I.
- Ultimi scritti. La filosofia della psicologia, tr. it. di A.G.
Gargani e Barbara Agnese, Laterza, Roma-Bari 1998, parte
II, L’interno e l’esterno, pp. 157-246.
- Causa ed effetto seguito da Lezioni sulla libertà del volere, a cura di
A. Voltolini, Einaudi, Torino 2006.
- Esperienza privata e dati di senso, a cura di L. Perissinotto,
Einaudi, Torino 2007.
Testi di G. Orwell:
- Nel ventre della balena e altri saggi, a cura di S. Perrella,
Bompiani, Milano 2002.
- 1984, tr. it. a cura di S. Manferlotti, Mondatori,
Milano 2000.
Testi di L. Tolstoj:
152
- Che cos’è l’arte? in Scritti sull’arte, ed. it. Bollati
Boringhieri, Torino 1964, pp. 137-385.
- Tutti i Racconti, a cura di I. Sibaldi, Mondatori, Milano
1991.
- La sonata a Kreutzer, tr. it. a cura di L. Ginzburg,
Einaudi, Torino 2006.
- Anna Karenina, tr. it. a cura di P. Zveteremich,
Garzanti, Milano 1973.
- Guerra e pace, tr. it. a cura E. Carafa d’Andria,
Einaudi, Torino 1990.
Altri testi, saggi e articoli:
- H. ARENDT, L’umanità in tempi bui, in Antologia. Pensiero, azione e
critica nell’epoca dei totalitarismi, tr. it. a cura di L. Bollea,
Feltrinelli, Milano 2006, pp. 210-234.
- M. L. BARBERA, L’idea di trasformazione tra violenza e
nonviolenza, in “Annali della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università
di Siena”, Vol. XVI, 1995, pp. 135-154.
- S. BORUTTI, Wittgenstein impolitico? in Wittgenstein politico, a
cura di D. Sparti, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 127-
152.
- M. CACCIARI, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da
Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 57-98.
153
- S. CAVELL, Il tramonto al tramonto. Wittgenstein filosofo della
cultura, in Wittgenstein politico, a cura di D. Sparti,
Feltrinelli, Milano 2000, pp. 64-93.
- P. CITATI, Tolstoj, Adelphi, Milano 1996.
- R. DESCARTES, Meditazioni sulla filosofia prima, Seconda
meditazione, tr. it. a cura di G. Brianese, Mursia,
Milano 1994, pp. 58-68.
- P. DONATELLI, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari
1998.
- F. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, tr. it. Einaudi,
Torino 2005.
- P. ENGELMANN, Lettere di Ludwig Wittgenstein, tr. it. La Nuova
Italia, Firenze 1970.
- A.G. GARGANI, Wittgenstein. Musica, parola, gesto, Raffaello
Cortina Editore, Milano 2008.
- A.G. GARGANI, Il coraggio di essere, saggio introd. a
L.WITTGENSTEIN, Diari segreti, ed. it. a cura di F. Funtò
Laterza, Roma-Bari 2001. pp. 3-45.
- W. GOETHE, Faust, tr. it. Einaudi, Torino 1965.
- A. GRIECO, Una vita cattiva è una vita irrazionale, in Wittgenstein
politico, a cura di D. Sparti, Feltrinelli, Milano 2000, pp.
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- R. HALLER, L’egologia di Wittgenstein, in Wittgenstein e il
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Donzelli, Roma 2002, pp. 143-166.
- P. HADOT, Wittgenstein e i limiti del linguaggio, tr. it. Bollati
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intellettuale d’Europa: Orwell e la crudeltà, tr. it. Laterza, Roma-
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Filmografia
- Wittgenstein, un film di Derek Jarman con Michael Gough,
Tilda Swinton, Karl Johnson. Genere: Biografico,
produzione: Gran Bretagna 1993, Durata: 75 minuti circa.
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