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Università degli Studi di Torino Facoltà di Scienze Politiche Corso di Laurea in Sviluppo e...
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Università degli Studi di TorinoFacoltà di Scienze Politiche
Corso di Laurea in Sviluppo e Cooperazione
Prova Finale
Un’economia di relazione: reti e distretti di economia solidale
Relatore Ch.mo prof. Candidato Roberto Burlando Nadia
Lambiase matricola
n. 200565
Anno accademico 2004-2005
1
INDICE
INTRODUZIONE
I. LIMITI DELLA TEORIA “DOMINANTE” E DELL’ATTUALE SISTEMA ECONOMICO
I.1. Economia formale ed economia sostanziale
I.2. Cenni alle critiche dell’economia standard nel pensiero di alcuni autori
I.3. Critiche di natura teorica alle ipotesi dell’economia standardI.3.a. Individualismo metodologicoI.3.b. Comportamento economico e razionalitàI.3.c Benessere ed utilitarismoI.3.d. Il carattere entropico della produzione e del consumo
I.4. Critiche all’economia standard per le sue conseguenze socialiI.4.a. Il lavoro e l’alienazioneI.4.b.Rottura e spersonalizzazione dei rapporti socialiI.4.c. Circolo vizioso e auto alimentante del consumo e della produzione
II. LA RELAZIONE IN ECONOMIA
II.1. Il capitale sociale
II.2. La logica del donoII.2.a. L’«economia dell’affetto»II.2.b. «Oikonomia neoclanica»II.2.c.L’«economia popolare» in America LatinaII.2.d.Il mezzogiornoII.2.e.Un comune punto di partenza: la logica del dono
III. IL PARADIGMA DELLE RETI
III.1. Reti e complessità
III.2. Reti di collaborazione solidaleIII.2.a. La strategia delle retiIII.2.b. La cellula: unità base della reteIII.2.c. Collaborazione solidale ed economia solidale a confronto
2
III.3. Reti e Distretti di economia solidale in ItaliaIII.3.a Cantieri in costruzioneIII.3.b. Domande e questioni aperteIII.3.c. Distretti come sistemi locali territoriali, ossia città dell’abitare
IV: UN’ECONOMIA DI RELAZIONE ALL’INSEGNA DELLA COMPLESSITA’
IV.1. Sincretismi tra nord e sud, tra passato e presente
IV.2. Il progetto locale
IV.3. Una nuova teoria sistemico-economica IV.3.a Homo bioeconomicusVI.3.b. Consumo e produzione: un approccio sistemicoIV.3.c. Decrescita conviviale
BIBLIOGRAFIA
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INTRODUZIONE
«Che cosa vuol dire “addomesticare”?» «E’una cosa da molto dimenticata. Vuol dire
“creare dei legami”...»
(A. DE SAINT- EXUPERY, Il piccolo principe)
«L’uomo è soprattutto un essere relazionale».1 Di conseguenza, ogni disciplina
che parla dell’uomo non può tralasciare gli «aspetti relazionali che sono di
fondamentale importanza e che caratterizzano tutte le azioni umane, sia economiche
sia d’altro tipo».2
Il presente lavoro si colloca nell’abito disciplinare dell’economia e nasce dalla
volontà di indagare quale ruolo giochi effettivamente la relazione in tale disciplina.
Sulla base di osservazioni empiriche è possibile rilevare come nei Nord del mondo,
ultimamente, stiano sviluppandosi diverse forme di economie che, volendo porsi
come “altre” rispetto al modello economico “dominante”, cercano l’alternativa
riscoprendola nelle radici dell’essenza umana: appunto la relazione. Allo stesso
tempo nei Sud del mondo, dove la relazionalità non si è persa ancora nei meandri
dell’economia e del mercato l’alternativa non è da costruire: è di casa.
Partendo da queste constatazioni, nasce l’interrogativo attorno al quale si
sviluppa l’intero elaborato: può esistere, e con quali caratteristiche, un’economia di
relazione? Dare una risposta ad un tale quesito vorrebbe dire interrogarsi sul
significato profondo della natura umana, fin’anche sul senso della vita stessa.
Pertanto, la finalità del presente lavoro è quella di mostrare l’esistenza e, soprattutto,
l’importanza di un’economia di relazione, in quanto «immagine del nostro interagire,
scambiare, condividere»3 flussi materiali, simbolici e relazionali, tra di noi e tra noi e
l’ambiente in cui viviamo, in un’interdipendenza reciproca.
1 M. AIME, Introduzione, in M. MAUSS, saggio sul dono, Torino, Einaudi, 2002, (ed. orig. 1950), p. XXVIII. Si veda anche E. ARONSON, The social animal, ed. orig. 1972.2 M.GRANOVETTER, Economic action and social structure. The problemof embeddedness, «American Journal of Sociology», 91, 1985, pp. 481-510, cit in M. BUCHANAN, Nexus. La rivoluzionaria teoria delle reti. Perché la natura, la società, l’economia, la comunicazione, funzionano allo stesso modo, Milano, Mondadori, 2003.3 D. FABBRI, Rete, in TELFENER, L. CASADIO (a cura di), Sistemica. Voci e percorsi della complessità,Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p.488.
4
Al fine di delineare un percorso di ricerca coerente e dotato di capacità
euristiche, l’analisi proposta verrà condotta nell’alveo della teoria della complessità.
Si ritiene, infatti, che quest’ultima sia lo strumento analitico che meglio può indagare
la fenomenologia della complessità umana in quanto corrispettivo teorico della
natura e della sostanza umane, intese come relazione.
Per rispondere al quesito per prima cosa si esaminerà brevemente quale posto è
riservato alla relazione nell’analisi economica “dominante”, coincidente con la teoria
neoclassica. L’unità d’analisi della teoria neoclassica è costituita dal singolo
individuo, considerato separatamente dal contesto relazionale in cui è inserito.
Dedurremo nell’elaborato, in seguito all’analisi di diversi punti nodali della
questione, come la teoria neoclassica, negando all’uomo la sua natura relazionale,
non consideri la relazione all’interno dell’analisi economica. Una spiegazione
possibile a questa mancanza, viene dalla distinzione proposta dall’ungherese Karl
Polanyi tra «economia formale», e «economia sostanziale»4. Fondamentalmente
quest’ultima, è caratterizzata dall’essere «incorporata» nella società, al contrario
quella formale - che coincide con il sistema economico basato sulla teoria economica
neoclassica - non solo è «scorporata»5 dalla società, ma è dominante rispetto a
questa. D’altra parte, l’economia sostanziale in quanto incastonata nel sociale
incorpora, per definizione le relazioni.
Vedremo poi come la relazione in economia sia tuttavia, presa in considerazione
nelle analisi della sociologia economica, ad esempio attraverso il concetto di capitale
sociale. Esaminare il ruolo della relazione in economia a partire da tale concetto ci
porta inevitabilmente alla metafora della rete. Infatti il concetto di capitale sociale si
fonda su tale metafora, poiché rimanda all’idea che ogni individuo è inserito in un
reticolo, più o meno fitto di relazioni sociali, in parte preesistenti, in parte costruite
da lui stesso nel tempo. La rete delineata dal concetto di capitale sociale sfuma la sua
natura di metafora nella concretezza di molteplici relazioni sociali, considerate vere e
proprie risorse di cui l’individuo può disporre per far fronte ai suoi bisogni o
desideri. In questo caso, la rete si connatura come spontanea, come parte della vita
umana, a cui gli individui si appoggiano per sopravvivere. Il corrispettivo del
concetto di capitale sociale, maturato al Nord, è la logica del dono su cui sono
imperniate le società del Sud.4 K. POLANYI, La sussistenza dell’uomo, (a cura di H.W. PEARSONN), 1977.5 Cosa si intenda con questi termini verrà chiarito alle pp.8, 9, 11 e 12 del presente elaborato.
5
Successivamente analizzeremo il concetto di rete da un punto di vista teorico,
ancorandolo alla teoria sistemica della complessità. A questo livello d’analisi la
metafora di rete viene assunta nel suo significato strutturale, per cui il legame è dato
dalla volontà di strutturare in rete tutte le singole esperienze di economia alternativa,
per tessere un mosaico complesso e unitario, effettivamente “altro” dal paradigma
economico “dominate.” A questo proposito esamineremo l’innovativa interpretazione
delle reti che propone Euclides Mance, intese come metafora e come strumento di
emancipazione e di liberazione dal sistema economico attuale. Inoltre, considereremo
l’incipiente esperienza italiana volta alla costruzione di una rete nazionale di distretti
di economia solidale. In questo caso, grazie alla multidimensionalità presente nel
concetto di rete, esplicabile nella dinamica nodo-rete, analizzeremo in che modo
l’interazione dialettica che intercorre tra la dimensione locale e quella globale,
influisce sullo sviluppo locale che definiremo meglio come «sviluppo locale
autosostenibile»6 (secondo l’acuta definizione proposta da Alberto Magnaghi).
Infine, dopo aver appurato che effettivamente esistono differenti forme di
economie basate sulla relazione, sia di natura spontanea sia progettuale, proveremo a
definire, da un punto di vista normativo, le caratteristiche specifiche di un modello di
economia di relazione. Innanzitutto attraverso un’operazione di sincretismo - volta a
filtrare e integrare gli aspetti positivi delle differenti forme di economia di relazione -
individueremo come fondante dell’economia di relazione la logica del dono, in
quanto creatrice di capitale relazionale, interagente con una politica in grado di
garantire sempre il bene comune. Un’economia di relazione, pertanto, è
necessariamente incastonata nella società. Secondariamente, grazie all’approccio
«antropobiocentrico» proposto da Magnaghi, considereremo caratterizzante per
un’economia di relazione il fatto che sia incentrata sullo «sviluppo locale
autosostenibile», il quale mette in relazione l’ambiente con gli uomini e questi tra di
loro. Per ultimo, avvalendoci della “nuova” teoria bioeconomica di matrice sistemica
(proposta da Mauro Bonaiuti), definiremo economia di relazione qualsiasi forma
economica in grado di produrre e di implementare, interagendo con i limiti fisici del
pianeta, «beni relazionali»7.
6 A. MAGNAGHI, Il progetto locale, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.7 M. BOMAIUTI, Introduzione, in N. GEORGESCU- ROEGEN, Bioeconomia. Verso un’altra economia ecologicamente e socialmente sostenibile, (a cura di M. BOMAIUTI), Torino, Bollati Boringhieri, 2003.
6
Concludendo, la scommessa insita nell’economia di relazione è quella di
proporre la rete come alternativa effettiva al Mercato, attraverso la valorizzazione
delle relazioni umane, intese come risorsa fondamentale e insostituibile. In altre
parole, sostituire le interazioni puntuali e impersonali che avvengono nel Mercato
con le relazioni, cariche di significato e durevoli, che avvengono nella rete. La rete
come alternativa al Mercato non abolisce però i mercati intesi come luogo di incontro
oltre che di scambio. Infatti, in una società dove l’economico è incastonato e
subordinato al sociale «l’esistenza stessa del mercato non è forse una dimostrazione
del fatto innegabile che abbiamo bisogno gli uni degli altri, e che effettivamente
lavoriamo per gli uni per gli altri?»8.
Considerando la vastità, l’importanza, e soprattutto la novità dell’argomento
inerente all’economia di relazione, reputiamo che tale argomento meriti di essere
approfondito, tanto dal punto di vista teorico quanto da quello operativo e concreto.
La vastità dell’argomento è direttamente proporzionale alla sua complessità. Infatti la
natura dell’oggetto in esame - l’uomo in quanto essere relazionale - conduce a una
visione sistemica di tutto ciò che riguarda l’uomo. Pertanto si dimostra
indispensabile un lavoro a rete - simbolo di un approccio al conoscere che rimanda
alla complessità - che colleghi tutte le scienze relative all’uomo ed all’ambiente e
aperto ai contributi provenienti dai diversi campi disciplinari.
Lo studio e la conseguente realizzazione di un’economia di relazione
permettono, infatti, di affermare che non è più il momento di «preparare un avvenire
migliore ma di vivere altrimenti il presente».9 Questo affinché si possa sperare,
assieme a Euclides Mance che la rete, da mero strumento di sopravvivenza si
trasformi gradualmente, nel medio termine, in un modello economico alternativo
ancorato a un progetto locale. Per divenire infine una nuova forza politica di
democrazia partecipativa a livello mondiale.
8 L.RAZETO, Le dieci strade dell’economia di solidarietà, Bologna, Emi, 2003, [ed. orig. 1993], p. 20.9 F. PARTANT, La Ligne d’horizon, Parigi, La découverte, 1998.
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CAPITOLO I
LIMITI DELLA TEORIA ECONOMICA “DOMINANTE” E
DELL’ATTUALE SISTEMA ECONOMICO
I.1. Economia formale ed economia sostanziale
La psicologia sociale da decenni descrive l’uomo come «l’animale sociale».10
Partendo da questo assunto, il quesito fondamentale attorno al quale ruota tutto il
presente elaborato è il seguente: può esistere, e con quali caratteristiche,
un’economia di relazione? Per rispondere a tale interrogativo è bene procedere in un
primo momento, cercando di capire che cosa significano, separatamente i termini di
economia e di relazione in economia e, quindi, verificare se il connubio tra i due
termini possa effettivamente godere di una valenza teorica e operativa.
Secondo la teoria economica neoclassica, a cui, per prassi, viene riconosciuto un
ruolo dominante all’interno dell’ambito scientifico economico, la scienza economica
viene intesa, a partire da Lionel Robbins11, come la capacità di organizzare in modo
efficiente dei mezzi scarsi, utilizzabili per usi alternativi, rispetto a dei fini. Secondo
questa impostazione l’economia, però, non può sindacare sui fini, e questo si spiega
alla luce di due fattori. Da una parte, il concetto di costo, perdendo il suo significato
“oggettivo”, è da intendere solamente come costo-opportunità, ossia, il valore
assegnato a un determinato bene è in funzione solamente della rinuncia che ottenere
questo bene comporta rispetto ad ottenere un altro bene possibile. Dall’altro, l’utilità,
la cui massimizzazione si configura come lo scopo del processo economico, è
completamente soggettivizzata, secondo il principio che dice “ognuno è il miglior
giudice di se stesso,” così da non poter più essere una grandezza commensurabile e
tanto meno confrontabile. Non potendo più effettuarsi confronti tra utilità differenti,
di fronte a più alternative, la scelta sarà guidata dal criterio dell’efficienza paretiana,
10 Cfr. E. ARONSON, The social animal, 1972.11 Cfr. L. ROBBINS, Sulla natura e il significato della scienza economica, 1932.
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secondo cui non è possibile aumentare l’utilità di alcuno senza compromettere quella
di qualcun altro.
La prassi di identificare il termine di economia con la teoria economica
neoclassica si dimostra, però, riduttiva almeno in quanto dimenticandosi dell’origine
etimologica della parola “economia”, non prende in considerazione nella vita reale, e
pertanto elimina dall’orizzonte cognitivo, l’aspetto concreto e quotidiano dell’agire
economico. Infatti il termine economia deriva dall’unione di due termini greci: oikos,
che indica la dimora, e nomos, che indica la legge; pertanto la parola oikonomia, così
come la definisce Aristotele nell’Etica Nicomachea, indica la gestione delle faccende
domestiche.
La limitatezza del concetto di economia comunemente inteso, è evidenziata
dallo studioso ungherese Karl Polanyi vissuto tra il diciannovesimo secolo e il
ventesimo, il quale introduce la significativa distinzione tra la concezione «formale»
e «sostanziale» dell’economia, riprendendo la divisione weberiana tra «razionalità
formale» e «razionalità materiale»12. Così egli definisce i due significati di
economico:
Il primo significato, quello formale deriva dalla natura della relazione mezzi- fini, come in
economizzare o in economico; da questo significato discende la definizione di economico basato sulla
scarsità. Il secondo significato, quello sostanziale, rinvia al fatto elementare che gli essere umani,
come tutti gli altri esseri viventi, non possono mantenersi in vita senza un ambiente materiale che li
sostenga; è questa l’origine della definizione sostanziale di economico. I due significati, quello
formale e quello sostanziale, non hanno nulla in comune.13
Già Aristotele, riconosce Polanyi, distingueva due tipi di produzioni
economiche: la produzione per l’uso, per la sussistenza, l’oikonomia, appunto e la
produzione per il guadagno la crematistica.
Nel corso della storia, però, i due significati di economia sono stati sovrapposti,
per cui si è cercato di legare, peccando di etnocentrismo, l’attività economica di
sussistenza a principi di allocazione efficiente e razionale. Di conseguenza si è
estesa, con pretese di universalismo, l’accezione formale, attuabile di per sé solo in
12 Cfr. M. WEBER, Economia e Società, vol. I, Milano, 1922.13 K. POLANYI, La sussistenza dell’uomo, (a cura di H.W. PEARSONN), Torino, Einaudi, 1983, [ed.orig. 1977], p. 42, cit. in G. P. CELLA, Le tre forme dello scambio. Reciprocità, politica, mercato a partire da Karl Polanyi, Bologna, il Mulino, 1997, p. 56.
9
una società di mercato, come quella capitalista, a tutta la sfera economica, a discapito
di quella sostanziale. A questo proposito, lo studioso ungherese parla di «fallacia
economicista», in opposizione alla quale, egli ritiene invece utile reintrodurre e
utilizzare un concetto di economia più ampio del semplice significato formale, al fine
di effettuare studi comparativi nel tempo e nello spazio tra sistemi economici
differenti.
Inoltre, la teoria economica neoclassica si dimostra riduttiva sotto un altro
aspetto: non considera l’uomo, in quanto agente economico, nella sua dimensione
relazionale. Infatti, punto di partenza e oggetto dell’analisi economica neoclassica è
il singolo individuo, il cui comportamento è spiegato alla luce del concetto della
razionalità strumentale. L’approccio seguito da tale teoria economica, è pertanto
definibile come individualismo metodologico.
Altre scuole di pensiero economico invece, quale quella marxista e quella
polanyiana, prestano attenzione alla dimensione relazionale dell’uomo e, di
conseguenza alle dinamiche relazionali presenti nei contesti economici. Oltre a
mettere in discussione l’approccio dell’individualismo metodologico, suddette scuole
di pensiero muovono diverse critiche alla teoria economica neoclassica Le critiche
di seguito esposte sono di due ordini differenti. Innanzitutto mettono in evidenza
alcuni errori di natura teorica della teoria neoclassica. Conseguentemente, si
focalizzano sulle conseguenze di carattere sociale, determinate da tali errori.
I.2. Cenni alle critiche dell’economia standard nel pensiero di alcuni
autori
Marx14 è uno dei primi studiosi a porsi in contrapposizione rispetto al pensiero
dell’economia classica. Metodologicamente Marx ritiene che si debba indagare la
totalità dell’essere sociale a partire dalla sfera produttiva, da cui dipendono i rapporti
sociali, politici, giuridici e le produzioni culturali. Attraverso le sue analisi vuole
dimostrare che i presupposti su cui si basa la produzione capitalista (proprietà
privata, scambio, salario, profitto, capitale ecc..) non sono di ordine naturale, come
14 La fonte da cui abbiamo attinto le informazioni sul pensiero di Marx è: F. CIOFFI, F. GALLO, G. LUPPI, A. VIGORELLI, E, ZANETTE, Il testo filosofico. Storia della filosofia: autori, opere, problemi, 3/1 l’età contemporanea: l’ottocento, Milano, Bruno Mondadori1, 998, pp.491 e ss.
10
sostengono gli economisti classici, bensì sono dei fenomeni di cui bisogna spiegare il
fondamento perché ricchi di contraddizioni. Come il filosofo tedesco scrive nei
Lineamenti di una critica dell’economia politica, (1859), l’economia politica invece,
«suppone ciò che deve spiegare». Per questo reputa necessario opporre alla
descrizione statica dell’economia politica un’analisi dinamica e dialettica, avendo
come modello il lavoro e le categorie concettuali hegeliane.
Tale influenza hegeliana la si coglie anche nell’Introduzione a Per la critica
dell’economia politica, (1857), sottotitolo dell’opera Il Capitale, in cui Marx
esplicita l’obiettivo della propria analisi scientifica, ossia quello di andare al di là
dell’«apparenza» delle cose, per giungere al cuore della loro essenza risalendo fino
alle loro «forme fenomeniche». Infatti giungere all’essenza dei fenomeni, significa
svelarne la «connessione interna». Secondo il filosofo tedesco, analizzando
correttamente l’economia politica si trova «l’anatomia della società civile», che Marx
intende proprio come un organismo vivente, la cui comprensione e conoscenza passa
attraverso l’analisi delle relazioni dialettiche fra le diverse categorie nell’unità
dell’insieme, e non già attraverso la scomposizione di tale organismo in parti non
correlate. E’ possibile intravedere, in suddetta analisi del filosofo tedesco, una forma
embrionale del pensiero sistemico, sul quale torneremo nelle pagine seguenti.
Il pensiero e gli studi di Marx sono alla base degli studi di Polanyi. Questi,
mosso dal disgusto per come l’economia capitalista stava evolvendosi all’inizio del
ventesimo secolo e, soprattutto, constatando quali conseguenze sociali avesse
causato, dedicò tutta la sua vita di studioso, caratterizzata da un sapere
interdisciplinare, allo scopo di confutare i fondamenti teorici dell’economia classica
e neoclassica. Polanyi contesta primariamente il paradigma
dell’autoregolamentazione del mercato e, secondariamente, l’idea liberale secondo la
quale la società di mercato, quella in cui vige l’economia capitalista, sia
un’evoluzione naturale della società umana. Polanyi intraprende pertanto studi
storici, sociali e antropologici, al fine di metter a confronto la società di mercato con
le società arcaiche e primitive, gettando così le basi per un’economia comparata e per
l’economia antropologica. Il risultato di tale confronto storico lo porta a denunciare il
carattere totalmente artificiale della società di mercato, basata sulla preminenza
dell’elemento economico scorporato (disembedded) dalla società.
11
Analizziamo brevemente il percorso che porta Polanyi alla formulazione di una
così felice ed evocativa espressione, quale quella di embeddedness, per indicare la
relazione che da sempre lega l’economia alla società: l’economico è totalmente
incorporato, incastonato nel sociale. Legame che, però, non sussiste più nell’ambito
della società di mercato, dominata da un’economia di mercato, dove a imperare sono
i mercati e dove quindi, l’economico ha preso il sopravvento sulla società.
E’ grazie agli studi di antropologia e di etnologia, tra i quali spiccano quello
condotto dall’antropologo Marcel Mauss, Saggio sul dono, e l’opera fondamentale di
Malinowski, Gli Argonauti del Pacifico, che lo studioso ungherese effettua
l’eccezionale scoperta: l’economia, in quanto attività legata all’uomo, è in realtà
immersa nei rapporti sociali umani. Questa scoperta confuta le pretese degli
economisti classici i quali sostenevano la naturale propensione dell’uomo verso il
baratto e lo scambio, da cui sono discesi gli assunti teorici di uomo economico e di
razionalità economica strumentale. Infatti, ciò che influenza le scelte e i
comportamenti dell’uomo, secondo Polanyi, non è un criterio economico, inteso nel
suo senso formale, ma è un criterio sociale. Scrive Polanyi:
L’uomo non agisce in modo da salvaguardare il suo interesse individuale nel possesso di beni
materiali, agisce in modo da salvaguardare la sua posizione sociale, le sue pretese sociali, i suoi
vantaggi sociali.15
La subordinazione dell’elemento economico a quello sociale è provato inoltre,
dalla
assenza di motivo di guadagno, [dall’] assenza del principio del lavoro per una remunerazione,
[dall’] assenza del principio del minimo sforzo e in particolare, [dall’] assenza di qualunque
istituzione separata e distinta basata su motivi economici.16
15 K. POLANY, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Torino, Einaudi, 1974 [ed. orig. 1944], p. 61. 16Ivi, p. 62. A riguardo di queste affermazioni sul carattere preminentemente sociale e non economico dell’agire dell’uomo arcaico, Polaniy inserisce nel libro, una parte inerente alle fonti da lui utilizzate. Cfr. K. POLANY, Note alle fonti, in La grande trasformazione...cit., pp. 338 e ss. A questo proposito facciamo presente come uno dei limiti dell’analisi polonyiana sia la riluttanza dello studioso ad ammettere il principio della competizione economica nelle società primitive.
12
La spiegazione di un tale comportamento è proponibile in termini di
sopravvivenza, ossia servendoci dell’accezione sostanziale del termine di economia.
Per farsi capire meglio, Polanyi riporta l’esempio di un’ipotetica società tribale. E’
la società nel suo complesso che pensa alla sopravvivenza dei singoli e pertanto non
c’è spazio per l’interesse economico personale, solo per quello collettivo. I singoli,
dal canto loro, fanno attenzione a conservare e perpetrare i legami sociali, per
rimanere all’interno del gruppo, e continuare a godere dei benefici derivanti da tale
appartenenza. I legami sociali quindi, si configurano come veri e propri obblighi
sociali, analizzati dettagliatamente da Mauss nel suo Saggio sul dono.17
Quanto precede, ci induce a considerare lo studioso ungherese un
istituzionalista, poiché, come si è visto, reputa l’azione economica non spiegabile in
termini individualistici, bensì influenzata dalle istituzioni sociali. Di conseguenza,
per Polanyi, non si può separare il contesto storico e sociale dall’indagine
economica. Infatti nella realtà storica esistono «tipi di economie», «sistemi
economici», rigorosamente al plurale e non riducibili ad astrazioni di alcun genere, in
cui le attività di produzione, distribuzione e scambio, attività indispensabili per la
sopravvivenza di qualsiasi società, sono controllate e gestite da particolari istituzioni
che cambiano nel tempo. Polanyi individua pertanto delle «forme di integrazione»
dell’economia, ossia tre principi fondamentali che regolano le attività di produzione,
distribuzione e scambio dei beni e dei servizi: la reciprocità, la redistribuzione, e lo
scambio di mercato. A ciascun principio sono associate delle strutture o modelli
istituzionali di riferimento che permettono lo svolgersi di tali principi.
Rispettivamente queste sono: la simmetria, la centricità e il mercato autoregolato.
Nelle società arcaiche, o semplicemente anteriori alla nostra, caratterizzate
dall’assenza di istituzioni puramente economiche separate dalla società, i due
principi regolatori sono la reciprocità e la redistribuzione, che si connotano come
non puramente economici. In entrambi i casi Polanyi rileva come «il sistema
economico [sia] in realtà una semplice funzione dell’organizzazione sociale»18.
La reciprocità è legata alle istituzioni della parentela e a quelle claniche,
istituzioni caratterizzate da una struttura simmetrica, in cui si sviluppano relazioni di
«dualità» o «face to face». Infatti beni e servizi vengono prodotti e scambiati sulla
17 Avremo occasione di analizzare questo saggi alle pp.49 e ss. del presente elaborato.18 K. POLANY, La grande trasformazione…cit., p. 65.
13
base delle aspettative di ricevere delle controprestazioni, secondo norme sociali
condivise.
Il principio della redistribuzione invece, la cui struttura di riferimento è la
centricità, è tipico soprattutto dei grandi regni, da quello egiziano al feudalesimo,
dove le istituzioni politiche diventano più importanti di quelle famigliari e parentali.
In questi contesti storici è possibile, effettivamente, scorgere una forma embrionale
statuale caratterizzata da una centralità amministrativa. In questo caso, beni e servizi
vengono prodotti e allocati in base a norme stabilite da un centro, il quale raccoglie
tutta la produzione per poi ridistribuirla. Tale istituzione può essere tanto egualitaria
quanto ineguale, dipende dai criteri politici adottati.
Lo scambio di Mercato, infine, è quella forma di integrazione dell’economia
caratterizzante la società contemporanea. Polanyi definisce quest’ultima come
società di mercato in quanto la produzione e la distribuzione di beni e servizi sono
determinate da mercati regolati da prezzi, mentre lo scambio avviene tramite
commercio, sempre regolato da mercati, in cui i prezzi si formano dall’incrocio della
domanda e dell’offerta. Mentre forme di commercio con prezzi regolati dal mercato,
luogo di contrattazione, ha da sempre presieduto allo scambio di merci, Polanyi
rivela come, invece, sia un fenomeno recente il fatto che la produzione e la
redistribuzione dei redditi avvenga secondo criteri di mercato e, quindi, di prezzo. E’
quest’ultimo aspetto che induce lo studioso ungherese a parlare dello scambio di
mercato come di una forma di integrazione dell’economia. L’istituzione che permette
l’esistenza di una tale forma di integrazione non può dunque che essere il mercato
regolato da prezzi, ossia il «mercato autoregolato». Questo determina la creazione
di quei prerequisiti istituzionali dei mercati autoregolati, quali la proprietà privata, il
capitale, la terra, il lavoro, il lavoro salariato, supposti, e non spiegati dall’economia
classica, come già aveva rivelato Marx, grazie ai quali quest’ultima ha preteso di
spiegare le motivazioni individualiste e utilitariste dell’azione economica.
Una volta preso coscienza di ciò, Polanyi trae le sue conclusioni:
In definitiva è per questo che il controllo del sistema economico da parte del mercato è di
grandissima importanza per l’intera organizzazione della società: esso significa alla fin fine la
conduzione della società come accessoria rispetto al mercato. Non è più l’economia ad essere inserita
nei rapporti sociali, ma sono i rapporti sociali ad essere inseriti nel sistema economico19. 19 Ivi, p. 74.
14
Un tale sistema economico, proprio per la caratteristica di auto regolazione
considerata intrinseca nei mercati, implica che non avvenga alcuna interferenza nel
funzionamento economico da parte della sfera politica, né tanto meno da quella
sociale. Il carattere di subordinazione della società alla sfera economica è quello che
spinge l’autore ungherese a chiamare tale società, società di mercato, senza la quale
un’economia di mercato non potrebbe sussistere. Per questo carattere di
subordinazione, Polanyi definisce la società di mercato, «eccezionale», nel senso di
anomala, tanto rispetto al passato prossimo delle società europee quanto rispetto al
passato remoto delle società primitive.
Dunque, in un’economia di mercato, in cui anche la società è subordinata alle
leggi del mercato, tutto è ridotto a merce, compresi elementi chiaramente
appartenenti alla sfera sociale se non naturale, quali per esempio il lavoro e la terra.
Ma quest’ultimi, nota Polanyi, «non sono altro che gli esseri umani stessi dai quali è
costituita ogni società e l’ambiente naturale nel quale essa esiste»20. Polanyi dunque,
chiama il lavoro, la terra e anche la moneta «merci fittizie»21. Pertanto il principio
organizzativo su cui si fonda un’economia di mercato, e quindi la società di mercato,
è «la finzione della merce», la quale inevitabilmente conduce al disfacimento della
società.
E’ bene precisare come le tre forme di integrazione, proposte nel suddetto ordine
dallo studioso ungherese, non seguono nessuna linea evolutiva nel pensiero di
Polanyi, bensì, tutte e tre possono essere compresenti in una data società, anche se
sovente, una è presente in maniera più esplicita e preponderante delle altre,
determinando così, un peculiare sistema economico. Nella società di mercato, per
esempio, si è assistito al prevalere della forma del mercato sugli altri principi, fino a
che l’economia si è scorporata dalla società.
L’infondatezza del paradigma dell’economia neoclassica
dell’autoregolamentazione del mercato, nociva per la società e per l’ambiente,
conduce inesorabilmente, a una reazione di difesa della prima, secondo Polanyi,
come pure una reazione del secondo, a parere di chi scrive. A partire dunque,
dall’affermazione di una naturalità sociale contrapposta all’individualismo dell’uomo
20 Ivi, p. 92.21 Da non confondere con ciò che Marx chiame il «feticismo delle merci», a indicare il carattere feticistico del valore delle merci. Rimandiamo a p. 16 del seguente elaborato.
15
economico, Polanyi inserisce il discorso della difesa della società dalle pretese
tiranniche del mercato autoregolato. Questo discorso verrà affrontato nelle pagine
seguenti, quando si analizzeranno le conseguenze sociali causate dall’economia di
mercato, basata su principi teorici errati.
I.3. Critiche di natura teorica alle ipotesi dell’economia standard
I.3.a Individualismo metodologico
L’unità d’analisi della teoria neoclassica, come abbiamo visto, è l’individuo
singolarmente preso. Dunque, riducendo l’uomo, in quanto agente economico a un
atomo, la teoria neoclassica, invece di indagare e agire nel campo della complessità,
opera semplificazioni e riduzioni. Secondo l’economista John Friedmann22 l’unità
d’analisi dell’economia dovrebbe invece essere l’economia famigliare, ossia il
casolare (in inglese household, parola che così bene aderisce al concetto greco di
oikonomia). Infatti il nucleo famigliare, secondo Friedman, rispecchia l’embrione di
ogni società politica ed economica allo stesso tempo in quanto è composto da
individui socialmente legati e dipendenti, che, pur competendo talvolta tra di loro,
imparano ogni tipo di relazioni: di scambio, di mercato e affettive. Ponendo come
unità d’analisi il nucleo familiare e non il singolo individuo posto al di fuori di ogni
relazione sociale, Friedmann vuole enfatizzare la dimensione relazionale di noi esseri
umani, al contrario della teoria economica neoclassica.
La teoria economica neoclassica, in quanto fondata sull’ individualismo
metodologico, considera il comportamento economico a livello aggregato, come la
somma dei singoli comportamenti individuali. Il gruppo pertanto, non compare tra i
soggetti dell’analisi. Questo equivale a negare ogni valenza all’influenza che la
società può determinare sul comportamento economico. L’analisi economica così
intesa è l’opposto della visione olistica, il cui centro d’analisi è costituito dalla
società, presa come un tutto inscindibile e in cui l’individuo non è autonomo, ma
assoggettato alle regole della società in cui vive.
22 Cfr. J. FRIEDMANN, Empowerment. The politics of Alternative Development, Cambidge, Massachussets, Blackwell Publishers, 1992.
16
Questi due approcci sono integrati e superati dal concetto di capitale sociale23 e
dalla visione sistemica, adottata dall’analisi bioeconomica, il cui centro è costituito,
non dall’individuo o dalla società, separatamente presi, ma dalla relazione circolare
che comprende entrambi24.
I.3.b. Comportamento economico e razionalità
La teoria economica «dominate» si basa sull’assunto della razionalità
strumentale del comportamento degli agenti economici, orientato alla
massimizzazione dell’ interesse personale sotto il vincolo della relazione tra fini da
raggiungere e mezzi scarsi applicabili a usi alternativi. Il contesto di riferimento è
inteso essere di perfetta e completa informazione, in cui ogni rischio e incertezza
sono elusi, e infine dove agli agenti economici non è dato di modificare le proprie
preferenze nel tempo. Un modello del genere si presenta dunque, come
perfettamente statico, ignorando totalmente la complessità e la dinamicità presenti
nel mondo reale. Secondo la teoria economica standard il comportamento effettivo
degli esseri umani si identifica necessariamente con il comportamento razionale. Ma,
innanzi tutto, rimanendo inizialmente su un livello puramente logico, si ritiene troppo
riduttivo definire la razionalità solamente come massimizzazione dell’ interesse
personale, poiché ciò equivale a dire che tutto ciò che non sia massimizzazione del
interesse personale non è razionale. E viceversa, è altrettanto riduttivo sostenere che
affinché si possa parlare di razionalità si debba sempre avere a che fare con la
massimizzazione dell’interesse personale.
Scendendo invece a un livello pratico, quotidiano, constatiamo empiricamente
come l’agire perfettamente razionale degli individui sia fortemente limitato
dall’impossibilità di disporre sempre di completa e perfetta informazione. Ma
quand’anche si accettasse l’ipotesi di perfetta informazione, non è detto che gli
individui si comportino sempre massimizzando i propri interessi. A questo proposito
il filosofo ed economista Amartya Sen spiega come «la vera questione è se ci sia una
pluralità di motivazioni, o se sia il solo interesse personale a guidare gli esseri
umani».25
23 Rimandiamo al primo paragrafo del secondo capitolo del presente elaborato.24 Rimandiamo al terzo paragrafo del quarto capitolo del presente elaborato.25 A. K. SEN, Etica ed economia, Roma- Bari, Laterza, 1987, p. 28.
17
Sempre secondo Sen, il criterio di razionalità, in quanto massimizzazione
dell’interesse personale, valuta scorrettamente la relazione che unisce il benessere,
inteso in termini di felicità raggiunta in seguito alla realizzazione del proprio
interesse, e la «facoltà d’agire». In altre parole non si tiene conto del fatto
che la facoltà d’agire della persona può benissimo essere indirizzata a considerazioni non
riguardanti – o per lo meno non completamente riguardanti – il suo benessere.26
Sen specifica che tra i due concetti, seppure distinti, possa esistere una certa
interdipendenza, e fa un esempio:
se uno lotta per l’indipendenza del proprio paese, e, quando questa indipendenza è raggiunta, si
sente anche più felice, il risultato principale è l’indipendenza, e la felicità per questo risultato è solo
una conseguenza.27
Il criterio della razionalità, invece presuppone che la facoltà d’agire sia sempre
finalizzata all’interesse personale.
In questo frangente ci sembra illuminante discernere il «razionale» dal
«ragionevole», come propone Serge Latouche nel suo libro La sfida di Minerva28. E’
bene, sostiene l’autore francese, incominciare a prendere le distanze dal «razionale»,
così freddo e inquadrato in una visione mono dimensionale della realtà, appiattita sul
concetto di utilità, per aprirsi al «ragionevole», caldo, dinamico, e vario, come ci
dimostra chiaramente la realtà africana29.
Inoltre, accettare la definizione di razionalità data dai neoclassici, significa
negare ogni valenza alla concezione della motivazione collegata all’etica, e quindi
rifiutare all’etica ogni ruolo nell’effettiva presa delle decisioni.30 Questo ha
comportato l’evolversi dell’ottica strumentale, la quale, non considerando l’uomo
nella sua vera natura di essere vivente in relazione con ciò che lo circonda, lo ha
posto fuori dal sistema naturale, di cui invece fa parte, legittimando la sua logica di
dominio verso l’ambiente. Come vedremo più avanti, l’economista Mauro Bonaiuti,
26 Ivi, p. 54.27 Ivi, p. 57.28Cfr. S. LATOUCHE, La sfida di Minerva. Razionalità occidentale e ragione mediterranea, Torino, Bollati Boringhieri,2000, [ ed, orig. 1999].29 Rimandiamo alle pp. 30 e ss. del presente elaborato.30 A. K. SEN, Etica ed economia... cit., p. 23.
18
proponendo la logica bioeconomica e sistemica, indica come alternativa alla
razionalità strumentale la «saggezza sistemica»31.
Infine, è necessario un altro chiarimento: l’interesse personale non è da
intendersi come alternativa a, e in contrasto con l’interesse collettivo. E’ frequente
osservare, infatti, che in nome della fedeltà a un gruppo di appartenenza, il singolo è
disposto a sacrificare l’interesse personale, o, al contrario, sempre le medesime
azioni motivate dalla fedeltà al gruppo, possono risolversi come un miglioramento
dell’appagamento dell’interesse personale.32
I.3.c. Benessere ed utilitarismo
Il benessere personale è calcolato sulla base di un unico criterio, l’utilità, intesa
come il soddisfacimento delle preferenze individuali. Ma tale criterio è estremamente
semplicistico e non aderente alla complessità della realtà, in quanto il benessere è
composto, in realtà, da molteplici dimensioni. Inoltre, poiché in seguito alla
rivoluzione neoclassica l’utilità è considerata una grandezza incommensurabile, e
quindi inadatta ad effettuare confronti tra utilità diverse, tale criterio non tiene conto
dell’insostituibilità dei beni. Sorge pertanto il problema della non commensurabilità
delle diverse alternative, per cui non si può più dire quanto si preferisce una cosa ma
solo quanto la si preferisce rispetto a qualcos’altro. Infine, usufruendo di strumenti
analitici che garantiscano tale neutralità valutativa, l’economia neoclassica tende a
eliminare la dimensione sociale dalle proprie affermazioni.
Un altra critica mossa da Amartya Sen al benessere inteso come vantaggio di
una persona in termini di risultati da essa conseguiti, è il fatto che presta scarsissima
attenzione al fattore libertà. Secondo Sen:
Si può sostenere che sarebbe meglio rappresentare il vantaggio attraverso la libertà che ha la
persona, e non attraverso (per lo meno non totalmente attraverso) ciò che la persona raggiunge- in
termini di benessere o in termini di aspetto agente- sulla base di questa libertà.33
31 Rimandiamo al terzo paragrafo del quarto capitolo del presente elaborato.32 Rimandiamo a p. 23 del presente elaborato, dove vengono esaminati gli effetti negativi e positivi del capitale sociale: soprattutto in presenza di legami familiari, clanici, e talvolta mafiosi, il grado di sacrificio del singolo verso il gruppo può essere notevole. 33 A. K. SEN, Etica ed economia... cit., p. 61.
19
La libertà dunque, gode di un suo valore intrinseco, che va oltre al valore delle
condizioni d’esistenza concretamente raggiunte dall’individuo. Ma l’economia del
benessere considera la libertà dotata solamente di un valore strumentale per cui ciò
che conta effettivamente sono i risultai raggiunti.
I.3. d. Il carattere entropico della produzione e del consumo
Sviluppiamo la critica all’economia neoclassica, per quanto riguarda le
conseguenze di natura ambientale seguendo l’analisi proposta dall’economista
Mauro Bonaiuti, che riteniamo alquanto esplicativa e completa. Alla base dell’analisi
di Bonaiuti vi è il modello bioeconomico di Georgescu- Roegen,34 il quale
smaschera i presupposti su cui si basa l’economia standard soprattutto dal punto di
vista fisico e biologico, evidenziando la natura entropica intrinseca al processo di
crescita economico.
La teoria della produzione dell’economia standard prevede la massimizzazione
del profitto in vista di una crescita illimitata, da collegare all’ipotesi di non saziabilità
del consumatore, secondo la quale il paniere X” è preferito al paniere di partenza X’,
se X” è ottenuto aggiungendo a X’ una quantità positiva di almeno un bene.35 Ma
l’assunto della crescita illimitata e il corrispettivo assunto di non sazietà del
consumatore, si rivelano infondati e pericolosi. Infondati, perché il mondo in cui
viviamo è fisicamente e biologicicamente limitato; la pericolosità, d’altro lato,
discende dalla constatazione di questi limiti: pretendere una crescita illimitata in un
mondo limitato porta all’autodistruzione fisica, oltre che all’infelicità36. Da ciò
Bonaiuti trae una conclusione di tipo «metodologico»:
la rappresentazione pendolare del processo economico, [...] secondo la quale la domanda
stimola la produzione, e quest’ultima fornisce il reddito necessario ad alimentare nuova domanda, in
un processo reversibile e apparentemente in grado di riprodursi all’infinito, andrà sostituito da una
rappresentazione circolare ed evolutiva, in cui il processo economico risulti radicato nell’ambiente
biofisico che lo sostiene.37
34N. GEORGESCU- ROEGEN, Bioeconomia. Verso un’altra economia ecologicamente e socialmente sostenibile, (a cura di M. BONAIUTI), Torino, Bollati Boringhieri, 2003.35 L’ ipotesi di non sazietà è tuttavia mitigata in parte dalla teoria dell’utilità decrescente, per cui ogni unità di bene aggiuntivo procura al consumatore soddisfazione viva via decrescente.36 M. BOMAIUTI, Introduzione, in N. GEORGESCU- ROEGEN, Bioeconomia...cit., p. 27.37 Ivi, p. 9.
20
Questa nuova rappresentazione di natura bioeconomica è inerente alla fisicità
imprescindibile di ogni processo economico. Ci rammenta l’importanza di
ridimensionare il processo di «valorizzazione» a favore di quello di «lavorazione»
nell’attività produttiva, come aveva già auspicato Marx, il quale condannava il
processo di produzione capitalista il cui principale scopo era appunto costituito dalla
«valorizzazione»38.
Se in ciò che è stato analizzato si volesse intravedere una valenza etica, una
valenza cioè in grado di orientare l’agire umano, secondo Bonaiuti essa si
definirebbe sulla scia della seconda legge della termodinamica39. Questa ci insegna
che il processo economico di produzione ha sempre un «costo», e pertanto, ogni
produzione di qualsivoglia bene o servizio determina un’opportunità in meno per le
generazioni future. Riteniamo questa conclusione una visione negativa, nel senso che
vede in ogni caso il processo produttivo come una negazione di un bene futuro.
Affrontando invece, la questione con un approccio «territorialista»40. l’uomo e
l’ambiente interagendo assieme, possono determinare, anche durante il processo di
produzione, un’accresciuta valorizzazione del territorio, cosicché quanto effettuato
oggi possa costituire una risorsa per domani. Anche se con ciò non si vuole
assolutamente negare l’inevitabilità dell’effettuarsi di un aumento di entropia nel
sistema e nell’ambiente.
I.4. Critiche all’economia standard per le sue conseguenze sociali
38 Rimandiamo a p. 24 di questo elaborato, dove sono esposte le critiche di Marx al modo di produzione capitalista. di seguito in questo elaborato39 La seconda legge della termodinamica, ricordiamo, dice: per ogni processo termodinamico che porta da uno stato di equilibrio a un altro, l’entropia del sistema e dell’ambiente aumenta.40 A. MAGNAGHI, Il progetto locale, ... cit., esaminato nel secondo paragrafo del quarto capitolo del presente scritto.
21
La seguente trattazione sarà suddivisa in base a un criterio storico- cronologico,
secondo il quale si sono manifestate le conseguenze e come tali sono state analizzate
da alcuni studiosi, dei quali si riporta il pensiero.
I.4.a. Il lavoro e l’alienazione
Il lavoro possiede da sempre una molteplicità di valenze. Innanzi tutto si
riconosce una valenza puramente materiale, ossia costituisce un mezzo grazie al
quale poter vivere. Ma insieme, il lavoro caratterizza il ruolo sociale della persona,
divenendo segno e mezzo di riconoscimento: segno di identificazione, grazie alla
posizione sociale ricoperta in seguito al lavoro svolto, e mezzo con cui conquistare la
stima degli altri. Inoltre il lavoro incorpora una valenza simbolica in quanto può
essere uno strumento di auto realizzazione personale e di gratificazione. Attraverso il
lavoro, infine, l’uomo può incidere sulla realtà.
Con l’avvento della fabbrica e della massificazione del lavoro salariato, il lavoro
ha perso quelle caratteristiche peculiari che lo rendevano umano, azione naturale
della persona: l’avvento del capitalismo, secondo Marx, ha determinato la
spersonalizzazione del lavoro, l’alienazione dell’uomo. L’alienazione è vista da Marx
come «espropriazione», e indica il risultato dell’attività di produzione. Secondo il
filosofo tedesco l’alienazione si manifesta, innanzitutto, come alienazione
dell’oggetto dal lavoro, ossia il prodotto del lavoro, in quanto lavoro oggettivato, non
appartiene più al lavoratore. Quindi il processo di oggettivazione, intrinseco
dell’attività lavorativa, diviene processo di alienazione, in quanto è l’operaio stesso
che si oggettivizza nell’oggetto, il quale non gli appartiene. In realtà avviene una
duplice e inversa operazione nel medesimo tempo: la personificazione dell’oggetto, e
la reificazione del lavoratore. Marx assegna un valore positivo all’oggettivazione - in
quanto attraverso essa l’uomo dà forma alla natura, trasformandola – mentre la
distingue dall’alienazione; quest’ultima è, secondo Marx, il fattore contingente e
peculiare che caratterizza la società capitalistica. Da questo assunto che considera
l’alienazione come risultato dell’attività di produzione, Marx distingue tre «lati» del
fenomeno, che, ci sembra, siano esposti secondo una scala che dal particolare va al
generale.
22
In primo luogo Marx parla dell’alienazione dell’attività lavorativa in cui si
verifica l’inversione delle categorie mezzo- fine. Il lavoro dell’operaio diventa un
mezzo sfruttato dal capitalista per arricchirsi. Il lavoro non costituisce più per
l’operaio un momento di auto realizzazione personale: lavorando l’uomo non
costruisce più la propria felicità.
Conseguentemente Marx individua l’alienazione dal genere umano: non
potendosi realizzare nell’attività lavorativa, l’uomo perde la peculiarità del suo
essere, ossia la possibilità e capacità di intervenire sulla natura trasformandola in
modo coerente rispetto a un progetto consapevole; l’uomo perde la sua essenza più
propria ossia la capacità di intrattenere con la natura un rapporto di mediazione. Il
concetto di lavoro alienato costituisce la chiave di lettura per interpretare il rapporto
tra uomo e natura
Per ultimo, vi è l’alienazione dell’uomo, poiché in definitiva la vita stessa non
appartiene più all’operaio ma al capitalista per il quale egli lavora.
In definitiva, conclude Marx, la proprietà privata lungi dall’essere un
presupposto naturale, è in realtà «il risultato del lavoro espropriato», come scrive nei
suoi Manoscritti economico- filosofici del 1844.
Il lavoro, in seguito alla rivoluzione industriale, perdendo tutte le altre valenze
ha conservato solo quella materiale, quale mezzo per la sussistenza. In questo modo,
come sostiene il filosofo e sociologo cileno Luis Razeto
la stragrande maggioranza degli uomini ha perso il controllo delle proprie condizioni di vita,
perché ha trasferito all’imprenditore capitalista o allo Stato imprenditore ogni iniziativa e capacità
imprenditoriale.41
Questo determina la concentrazione delle capacità e delle conoscenze
tecnologiche, e quindi la possibilità di decisione in mano di pochi. In quest’ottica di
mercificazione del lavoro, l’unica cosa che resta ai salariati è vendere la propria
forza-lavoro, che spesso viene rifiutata a causa della sovrabbondanza di offerta.
Dunque, come sostiene Marx, i legami sociali tra gli uomini si possano realizzare
solo attraverso il mercato, dove i mezzi di produzione sono proprietà di una sola
41 L.RAZETO, Le dieci strade dell’economia di solidarietà, Bologna,... cit., p. 61.
23
classe, e l’altra classe possiede solo forza-lavoro. Il capitale crea e presuppone allo
stesso tempo la condizione per cui i rapporti sociali si spersonalizzano.
I.4.b. Rottura e spersonalizzazione dei rapporti sociali
Il sistema capitalista, a causa della natura del suo modo di produzione, il cui
risultato è tanto il bene prodotto quanto il fenomeno dell’alienazione, si configura
come l’origine della spersonalizzazione dei rapporti sociali.
Marx è uno dei primi a studiare questo fenomeno, che fin da subito si connota
come una piaga sociale. L’opera a cui ci riferiamo è Il Capitale, (opera pubblicata in
diversi volumi separatamente,1867,1869-79,1885,1894) dove il punto di partenza è
la merce, la quale presenta la medesima complessità insita nel modo di produzione
capitalistico. La caratteristica peculiare della merce è costituita dalla sua duplice
natura. Ogni merce è infatti contemporaneamente mezzo per la soddisfazione di un
bisogno, e oggetto che viene scambiato sul mercato: ha dunque un’esistenza naturale
e una sociale. In altri termini possiede un valore d’uso e immediato, il quale si
realizza nel consumo, e un valore di scambio e mediato, il quale si realizza nel
commercio. Nello scambio si compie un’astrazione dalla forma concreta della merce,
e il valore di scambio è l’espressione di tale astrazione. Nella società capitalista tale
valore è espresso dal denaro. Il valore della merce è mediato dunque dal denaro.
Marx spiega come si determina il valore di scambio, ossia il criterio con il quale
è possibile monetarizzare le merci. Egli parla di un terzo referente, che non è
un’altra merce ma qualcosa in comune alle due merci in questione: ossia il lavoro
umano in esse oggettivato. Il valore di scambio è quindi un valore mediato, prima
ancora che dal denaro, dal lavoro umano oggettivato nelle merci. Marx nota come la
medesima duplicità che caratterizza la merce si ritrova nel lavoro, solamente però
nella società capitalista, poiché, come ha detto Polanyi, solo la società di mercato o
capitalista ha commesso l’errore di trasformare il lavoro, insieme alla terra e al
denaro, in merci.42 Il lavoro, infatti, in qualità di lavoro «vivo», concreto, quindi
azione di trasformazione della natura, esprime il proprio valore d’uso; invece, il
lavoro in quanto fonte di valore, il lavoro oggettivato nelle merci, dunque il lavoro
astratto, «morto», determina il valore di scambio, il quale finisce per essere il valore
42 Rimandiamo alla nota n.20 di p. 14 del presente elaborato.
24
unico e determinante del lavoro. Nella società capitalista il lavoro, trasformato in
merce, è spogliato della sua forma naturale per essere assunto solo nella sua forma
sociale. Il valore di scambio di una merce viene così a coincidere con il lavoro
astratto in essa contenuta calcolato in ore di lavoro.
Nuovamente la duplicità di forme investe anche il processo produttivo nel suo
complesso. Da una parte esso si configura come processo di «lavorazione» in quanto
finalizzato alla produzione di merci volte alla soddisfazione dei bisogni che come
abbiamo precedentemente visto, è da sempre la vera essenza del lavoro. Ma
dall’altra parte il processo di produzione è simultaneamente processo di
«valorizzazione» grazie al quale il capitale si riproduce e si accresce. E’ nel processo
di valorizzazione che si genera il «plus valore», la cui genesi va appunto ricercata nel
processo di produzione e non già in quello di circolazione. Il plus valore, spiega
Marx, proviene dal lavoro non pagato.
Il processo di «valorizzazione», presente solamente nella società capitalista,
analiticamente e concretamente scindibile dal primo, viene invece assunto
dall’economia politica borghese come inscindibile dal processo di «lavorazione»,
affinché possa essere ricoperto anch’esso, a torto, delle caratteristiche di “naturale”
ed “eterno”. In questo modo il capitale è inteso come cosa. Marx invece obietta
sostenendo, ne Il Capitale che il capitale non è una cosa, bensì è «un rapporto sociale
fra persone mediato da cose». Il capitale crea e presuppone allo stesso tempo, la
condizione per cui i legami sociali tra gli uomini si possano realizzare solo attraverso
il mercato, dove i mezzi di produzione sono proprietà di una sola classe, e l’altra
classe possiede solo forza-lavoro.
Essendo dunque il processo di lavorazione totalmente subordinato a quello di
valorizzazione, anche il lavoro sarà subordinato al capitale, il quale si presenta come
lavoro oggettivato, lavoro alienato nei mezzi di produzione, i quali si accresceranno
sempre in quantità maggiore, grazie al processo di valorizzazione. Il capitale è quindi
lavoro «morto». Dunque il lavoro «morto» comanda il lavoro «vivo», poiché in
definitiva, come scrive Marx ne Il Capitale, «non è l’operaio che utilizza i mezzi di
produzione, ma sono i mezzi di produzione che utilizzano l’operaio», al fine di
accrescersi continuamente. Vige pertanto il dominio della cosa sull’uomo, del
prodotto sul produttore. Questa relazione rovesciata, propria del capitalismo, si
esprime in ciò che Marx chiama «feticismo delle merci».
25
In conclusione, possiamo dire che il capitale, in quanto «rapporto sociale fra
persone mediato da cose», in particolare dal denaro, e l’aver postulato lavoro, terra e
moneta quali merci, quando in realtà non lo sono, hanno determinato,
rispettivamente, la spersonalizzazione e la rottura dei rapporti sociali. Polanyi
esamina le conseguenze dell’elevazione di lavoro, terra e denaro a «merci fittizie».
Egli nota come la formazione del mercato del lavoro causi la progressiva distruzione
delle forme di protezione tradizionale, soprattutto quelle legate ai legami di
parentela. Assieme alle masse di lavoratori, fa capolino nella storia anche la miseria,
prima sconosciuta, perché fin tanto che il sistema economico era incorporato nella
società, la sussistenza era garantita dai legami sociali. Infatti, l’elevazione della terra
a merce ha portato alla «distruzione della società rurale», fondata sui legami sociali
di reciprocità e custode di questi allo stesso tempo.
Per quanto riguarda la spersonalizzazione, Marx spiega, nei Lineamenti
fondamentali della critica dell’economia politica, cosa significa che il denaro si sia
costituito come rapporto sociale. Nella società borghese capitalista, la quale ha
abolito i rapporti di dipendenza personali, tipici delle società che l’hanno
storicamente preceduta, gli individui si mostrano liberi nello scambio sociale. Marx
precisa invece come questa libertà sia in realtà soltanto apparente, in quanto ai
rapporti di dipendenza dalle persone si sono sostituiti quelli dalle cose, cioè dalle
merci, dallo scambio, dal denaro.
Dunque, con l’avvento del capitalismo e della tirannia del denaro, la merce,
qualunque essa sia, nello scambio perde paradossalmente la sua natura sociale. Perde
cioè la capacità di creare legami sociali nell’incontro, pur essendo scambiata
all’interno di una società. Perché inizialmente, in qualsiasi forma si realizzasse lo
scambio, con un baratto (Merce-Merce) o mediante alcune forme di
pagamento(Merce- Denaro- Merce), al centro dello scambio vi era l’incontro di due
soggetti. Ma con il sopravvento del denaro, esso stesso considerato merce e non più
mediazione tra merci, il centro dello scambio si è spostato dalla relazione tra due
soggetti alla merce denaro, (Denaro- Merce- Denaro). Lo scopo dello scambio si
esaurisce totalmente nel creare nuovo denaro con il denaro che già si possiede. Lo
scambio non è più personale, ma diviene impersonale, in quanto l’altro, nel processo
di scambio non è più fondamentale. In altre parole, come ha indicato bene Mauss, il
bene scambiato ha sostituito il legame sociale.
26
I.4.c. Circolo vizioso e auto alimentante del consumo e della produzione
L’analisi finora condotta si è concentrata sulle conseguenze di natura sociale
causate dalla nascita del sistema capitalista. Sebbene storicamente contestualizzate,
tali problematiche sociali caratterizzano a tutti gli effetti anche le società capitaliste
dei nostri giorni, presentando, però, delle peculiarità declinate in base all’epoca
storica del momento.
Attualmente, le società aderenti a un’economia capitalista, che sono ormai la
maggioranza del mondo dato l’imperante processo di globalizzazione tanto
economica quanto culturale43, sono caratterizzate da un’altissima propensione al
consumo, fenomeno altrimenti noto con il nome di consumismo. Il teologo e
psicoterapeuta Eugen Drewermann44, per comprendere e allo stesso tempo spiegare il
comportamento dell’uomo moderno, parte dal concetto di angoscia. La vita è sempre
più disarticolata, parcellizzata, soffocata da mille impegni ed esperienze, dietro alle
quali si nasconde la paura della morte e la difficoltà a dare un senso all’esistenza.
Tutto ciò comporta un’ulteriore difficoltà a instaurare relazioni armoniose con se
stessi, con gli altri con l’ambiente e con Dio.
In un contesto del genere i fattori socio-culturali acquisiscono grande
importanza nel determinare le scelte di consumo degli individui. Una particolare
attenzione è da rivolgere al valore simbolico che ultimamente si attribuisce ai beni,
rispetto alla loro utilità funzionale: i beni vengono scelti in rapporto al significato che
essi assumono in relazione agli altri membri della società con cui si interagisce.
Sempre più spesso, inoltre, i consumatori quando acquistano oggetti, in realtà sono
alla ricerca di “esperienze”. L’uomo, alienato a causa del lavoro, ricerca se stesso
negli oggetti che consuma. Si assiste a un vero e proprio processo di identificazione
sociale attraverso il consumo. Si manifesta agli altri il proprio stile di vita esibendo il
marchio dei prodotti che si usano. Il consumo di un certo taglio, dicono i sociologi
sostenitori dell’approccio «neodiffernziazionista»,45 diventa indice di uno status
43 Consapevoli della complessità e ambiguità di tale termine, ci riserviamo, al fine di non divergere dalla tematica di tale scritto, di non approfondire l’argomento e di rimandare il lettore interessato a testi specifici sul tema.44 Cfr. E. DREWERMANN, 1982, cit. in M. BOMAIUTI, Introduzione, in N. GEORGESCU- ROEGEN, Bioeconomia....cit., p. 47 e ss.45 Cfr, J BAUDRILLARD, 1968, 1970, cit. in C. TRIGIGLIA, Sociologia economica. Vol. II, Bologna, il Mulino, 1998, p. 212.
27
symbol, agendo come fattore di differenziazione sociale. I consumatori, secondo
questa scuola, sono totalmente passivi di fronte al condizionamento dei media.
Secondo altri invece, il consumo diviene veicolo di comunicazione indiretta, e non
già mezzo con cui competere socialmente.46
Dall’altro lato anche il lavoro, come il consumo, snaturato della sua funzione,
viene utilizzato come valvola di sfogo per sopprimere solitudini o per supplire a
carenze affettive. Oppure, il lavoro viene inteso in un’ottica strumentale, cioè come
mezzo per affermarsi socialmente e, strettamente legato al consumo, assurge a status
symbol: si cerca di guadagnare di più al fine di poter spendere in prodotti d’alta
qualità e di marca.
In entrambi i casi, avendo riposto nel consumo e nel lavoro la speranza di
trovare risposte di senso e di significato si è portati a consumare o a lavorare
maggiormente, con il risultato di non trovare la felicità sperata, ma di accrescere il
senso di insoddisfazione e quindi di infelicità.
46 Cfr, Sahlins, 1976, cit. in C. TRIGIGLIA, Sociologia economica....cit., p. 213.
28
CAPITOLO II
LA RELAZIONE IN ECONOMIA
II.1. Il capitale sociale
Per rispondere all’interrogativo di fondo, e cioè se possa esistere o meno
un’economia di relazione, abbiamo inizialmente chiarito che il concetto di economia
è in realtà composto da due anime, quella sostanziale e quella formale e che
l’economia neoclassica fa riferimento solamente all’accezione formale del termine
economico, dimostrando, in questo modo, la sua limitatezza. Inoltre, attraverso
diverse critiche rivolte alla teoria economica neoclassica da alcuni studiosi
economisti emerge che l’economia standard non si configura come economia di
relazione.
Procedendo nella nostra trattazione, spostiamo l’attenzione dal concetto di
economia a quello di relazione. Il campo d’analisi verterà però, non già sul concetto
di relazione in senso lato, bensì sulla relazione in economia. Ci chiediamo pertanto,
quale ruolo giocano le relazioni più o meno personali tra gli individui nel campo
economico. Per dare risposta a tale quesito ci serviremo del concetto di capitale
sociale.
Il concetto di capitale sociale è un termine recente, che rimanda in realtà a una
verità antica quanto l’uomo, perché parla appunto della natura umana, ossia della
relazione. Inventando il termine di capitale sociale si è semplicemente formalizzato e
concettualizzato ciò di cui l’essere umano ha da sempre fatto esperienza, ossia che
senza relazioni non è possibile vivere.
Effettivamente il concetto di capitale sociale è molto più antico del termine in
sé, poiché è già presente nel saggio di Max Weber, Le sette protestanti e lo spirito del
capitalismo47, dove, sebbene il sociologo tedesco non parli di capitale sociale, si
mettono già in luce alcune caratteristiche di tale concetto. Egli infatti capisce
l’importanza delle reti sociali, siano esse a base religiosa, culturale o politica, nella
47 Cfr. M. WEBER, Sociologia della religione, Milano, Comunità 1982, [ed. orig. 1920-21], cit. in C. TRIGIGLIA, Capitale sociale e sviluppo locale, in Capitale sociale. Istruzioni per l’uso, Bologna, il Mulino, 2001, p. 106.
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determinazione dell’imprenditorialità. Individua quindi una correlazione tra i reticoli
sociali e lo sviluppo economico.
Agli inizi degli anni settanta il sociologo Mark Granovetter (1973) mette in
risalto la correlazione tra l’importanza delle reti sociali orbitanti attorno agli
individui e la capacità di trovare lavoro, nonostante egli non si riferisse mai al
concetto di capitale sociale. Egli sostiene l’importanza dei «legami deboli»48, ossia
legami meno intensi, sporadici, ma più aperti all’esterno e quindi con un raggio
d’azione maggiore, più ancora che dei «legami forti», ossia legami intensi ma con la
tendenza a rimanere chiusi, nella ricerca del lavoro, nella mobilità, nella circolazione
di informazione.
Glenn Loury è uno dei primi che, nel 1977, utilizza espressamente la parola di
capitale sociale, con la quale si riferisce a una rete di relazioni familiari e sociali in
grado di incrementare il capitale umano. Nel 1980, Bourdieu pone chiaramente la
distinzione tra capitale economico, culturale e sociale. Il capitale sociale è inteso da
Bourdieu come rete di relazioni personali di cui un individuo può disporre per far
fronte a determinati obiettivi e anche per perseguire un miglioramento della sua
posizione sociale.
Dieci anni dopo, James Coleman, a cui si guarda come l’effettivo padre del
concetto di capitale sociale, parla di capitale sociale come rete di relazioni che fanno
capo ai singoli individui. Egli precisa che il suo intento, nella sua opera principale,
Foundations of social theory, [1990], nel quale perfeziona il concetto di capitale
sociale, è quello di correggere la distorsione individualistica dell’economia classica.
Ma il concetto di capitale sociale acquisisce popolarità piena con l’opera principale
di Putman, La tradizione civica nelle regioni italiane, (1993), in cui l’autore spiega
l’arretratezza economica del Mezzogiorno a partire dall’insufficienza di capitale
sociale causata, secondo l’autore, da fattori storico-culturali. Putman viene
successivamente criticato per la sua tendenza culturalista, che snatura il significato
originario di capitale sociale datogli da J. Coleman e che privilegia una spiegazione
statica e predeterminata, non tenendo conto del ruolo attivo degli attori.
Il termine di capitale sociale, come abbiamo appena visto, comincia a essere
esplicitamente impiegato a fine anni settanta, nell’ambito scientifico al confine tra
quello sociologico e quello economico. Diventa quindi un concetto cardine della 48 Cfr. M. GRANOVETTER, La forza dei legami deboli, Napoli, Liguori, pp. 115-146, cit in C. TRIGIGLIA, Introduzione: ritorno alle reti, in Capitale sociale...cit., p. 8.
30
sociologia economica, con riferimento al funzionamento del mercato del lavoro e alle
forme di organizzazione dell’economia. In altre parole, il termine di capitale sociale
è stato coniato per cercare di capire e spiegare come i fenomeni sociali possano
influire e condizionare l’azione economica. Fin dall’esordio dell’applicazione di tale
concetto, si rende pertanto esplicito il problema di confine disciplinare: da una parte
l’economia si occupa delle relazioni di scambio, e delle istituzioni che ne
conseguono, ossia il mercato in un contesto capitalista; dall’altra, la sociologia si è
sempre occupata delle relazioni non di scambio. Ma nel tempo i confini sono stati
erosi da ambo le parti. La definizione di capitale sociale, oltre che il termine stesso,
ha preso a prestito termini del dominio economico. Innanzitutto con l’espressione di
capitale si fa riferimento a un qualcosa che si comporta a tutti gli effetti come una
risorsa per chi lo detiene, per chi ne è in possesso. In altre parole si definisce capitale
sociale l’insieme
delle relazioni sociali in possesso di un individuo [le quali costituiscono] un insieme di risorse
che costui può utilizzare, assieme ad altre risorse, per meglio perseguire i suoi fini.49
Inoltre, rimanendo nel campo delle metafore economiche, per non dire di un
vero e proprio linguaggio economico, il capitale sociale, in quanto capitale, è inteso
come produttivo, ma per essere tale richiede qualche forma di investimento. Infatti
secondo la sociologa Fortunata Piselli
il capitale sociale è il risultato di strategie di investimento, intenzionale o inintenzionale,
orientate alla costruzione e riproduzione di relazioni sociali durevoli, capaci nel tempo di procurare
profitti materiali e simbolici.50
Infine, secondo il sociologo Carlo Trigilia, con il concetto di capitale sociale la
sociologia economica si spinge oltre: si misura con l’economia nel suo stesso campo,
ossia nella scelta dei mezzi51. Si afferma che le scelte economiche non sono
condizionate unicamente dalle risorse economiche a disposizione della persona, ma
anche da risorse sociali, e nella fattispecie dalle reti di relazioni. Si prendono dunque
49 A. PIZZORNO, Perché si paga il benzinaio. Per una teoria del capitale sociale, in Capitale sociale....cit., p. 21.50 F. PISELLI, Capitale sociale: un concetto situzionale e dinamico, in Capitale sociale,... cit., p. 49.51 C. TRIGIGLIA, Introduzione, ...cit., p. 9.
31
le distanze tanto dalla visione «ipersocializzata» dell’attore sociale, il cui
comportamento è drasticamente influenzato dalle norme e dalla cultura interiorizzate
grazie al processo di socializzazione, tanto dalla visione «iposocializzta»52
caratterizzante l’approccio dell’economia classica che, come abbiamo visto, vede
l’attore economico calcolatore ed utilitarista. Attraverso l’analisi strutturale, invece,
la quale pone l’accento sulle reti di relazione sociale, si vuole dare risalto alle
dinamiche interattive. In questo modo
il concetto di capitale sociale consente una visione più aperta dei possibili esiti dell’azione e
nello stesso tempo permette di cogliere le dinamiche di cambiamento [...].53
Fortunata Piselli, cogliendo pienamente la natura dinamica del capitale sociale,
lo definisce in modo al quanto appropriato come
un concetto situazionale e dinamico: un concetto, pertanto, che non si riferisce a un “oggetto”
specifico, non può essere appiattito in rigide definizioni, ma deve essere interpretato, di volta in volta,
in relazione agli attori, ai fini che perseguono, e al contesto in cui agiscono54.
L’aggettivo situazionale, utilizzato dalla Piselli a partire dalle argomentazioni
che Coleman sviluppa riguardo al capitale sociale, rinvia alla non tangibilità della sua
essenza, in quanto inerente alla struttura delle relazioni. L’aggettivo dinamico
rimanda all’idea che i vari soggetti usufruiscano della rete in modo di volta in volta
diverso a seconda del mutamento delle esigenze. Data questa natura dinamica del
capitale sociale, i risultati ottenibili dall’interazione delle reti con le istituzioni
pubbliche e con la sfera economica varieranno al variare della natura delle reti e del
tipo di rapporti intrattenuti. Poiché «il capitale sociale è il risultato di un’interazione
dinamica: si crea, si mantiene, si distrugge.»55, richiede investimenti continui, che
come abbiamo già visto, la Piselli definisce investimenti di tipo relazionale. Di
conseguenza lo studio del capitale sociale è inscindibile dal contesto istituzionale in
cui è inserito. Pertanto differenti saranno anche le forme che il capitale sociale
52 Per i termini «ipersocilaizzata»e «iposocializzata» cfr. M. GRANOVETTER, Economic Action and Socila Structure: The Problem of Embeddedness, in «American Journal of Sociology», n. 91, cit in C. TRIGIGLIA, Sociologia Economica...cit., p.192.53 C. TRIGIGLIA, Introduzione, ... cit., p. 13.54 F. PISELLI, Capitale sociale: un concetto situazionale e dinamico,.. cit., p. 48.55 Ivi,... p 52.
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assumerà di volta in volta, e di volta in volta sarà produttivo a seconda delle
situazioni.
Riprendendo il pensiero di J. Coleman, la Piselli spiega come il concetto di
capitale sociale in realtà incorpori tanto una dimensione soggettiva quanto una
oggettiva o collettiva, e come queste due dimensioni interagiscono tra loro. La prima
dimensione, quella soggettiva, riguarda le risorse relazionali, le reti sociali ereditate o
costruite di cui può disporre l’individuo. Piselli chiarisce però, come reti sociali e
capitale sociale non coincidano. Le prime infatti
possono esser considerate dal punto di vista delle caratteristiche morfologiche[...] dal punto di
vista della natura dei legami [...] e dal punto di vista dei contenuti che transitano nella relazione [...] Il
capitale sociale, invece, è incorporato nelle relazioni sociali56,
e in quanto risorsa è sempre fonte di benefici.
La seconda dimensione, quella strutturale o oggettiva, si esplica in
caratteristiche strutturali e normative di un determinato sistema sociale.
Conseguentemente a questa dimensione, Coleman dedusse come una delle
caratteristiche peculiari del capitale sociale sia quella di avere la natura di bene
pubblico, differentemente dalle altre forme di capitale. Esso pertanto si presenta con
le caratteristiche di indivisibilità e di non rivalità nel consumo. Infatti Coleman scrive
che
come attributo della struttura sociale in cui la persona è inserita (embedded) il capitale sociale
non è proprietà privata di alcuna delle persone che ne traggono vantaggi57.
Coleman, attraverso studi antropologici, che hanno costituito la base anche dei
lavori di Polanyi, nota come nelle società in cui l’economico è incorporato nella
socialità, riprendendo il termine polanyiano, la natura di bene pubblico del capitale
sociale si esplica nel modo più completo possibile producendo benefici usufruibili da
tutti. Non così avviene in un contesto dove vige la società di mercato la quale è
assoggettata alle logiche di mercato. In questo caso il capitale sociale tende a
56 Ivi,... p 53.57 J. COLEMAN, Foundation of social theory, Cambridge, MA, The Belknap Press of Harvard University Press, 1990, p. 315, cit., in F. PISELLI, Capitale sociale: un concetto situzionale e dinamico.. cit., p. 50.
33
comportarsi piuttosto come «un bene selettivo, che favorisce certi gruppi specifici e
in relazione a determinati scopi»58.
Tali meccanismi selettivi con cui si diffonde il capitale sociale sono stati definiti
nei lavori di Portes e Landolt, The downside of social capital del 1996, come
processi di esclusione, con conseguenze negative ai fini dell’integrazione sociale.
Altri possibili effetti negativi del capitale sociale in quanto bene selettivo soprattutto
dal punto di vista collettivo sono: il livellamento sociale, il controllo normativo,
fenomeni di collusione, chiusura, favoritismi all’interno della cerchia ristretta della
rete a discapito dei soggetti esterni ad essa. Tutto questo può determinare dinamiche
inefficienti dal punto di vista economico, non lasciando mano libera alla
concorrenza. Inoltre può rafforzare la tendenza, cresciuta soprattutto negli ultimi
tempi di crisi del welfare, di usufruire dei benefici del capitale sociale inteso
ideologicamente come self-help,59come alternativa alle istituzioni pubbliche. Ma
come giustamente ha chiarito Putman attraverso i suoi ultimi scritti, il capitale
sociale non deve mai diventare un surrogato delle azioni istituzionali pubbliche. Le
reti infine, possono erigersi a controllori morali, e non solo del comportamento dei
soggetti che ve ne fanno parte, inibendo così lo spirito di innovazione.
Abbiamo definito il capitale sociale come quella risorsa costituita dalle relazioni
sociali che fanno capo a un individuo. Ma non tutte le relazioni sociali danno origine
al capitale sociale. Secondo il sociologo Alessandro Pizzorno non sono sufficienti dei
legami sociali per dire che esiste capitale sociale. Sicuramente le «relazioni di
scambio», quelle di «mero incontro», e infine a quelle di «ostilità» non lo
determinano60. Tutte queste tipologie di relazione sono infatti accomunate da alcuni
tratti peculiari: non necessitano del riconoscimento dell’identità degli attori in azione,
e non prevedono che la relazione abbia una durata, ma che essa sia piuttosto
puntuale. Si deduce pertanto,
che dovremo circoscrivere come portatrici di capitale sociale quelle relazioni in cui sia possibile
che l’identità più o meno duratura dei partecipanti sia riconosciuta, e che inoltre ipotizzano forme di
solidarietà o di reciprocità61.
58 F. PISELLI, Capitale sociale: un concetto situzionale e dinamico... cit., p. 61.59 C. TRIGIGLIA, Introduzione, ... cit., p. 12.60 A. PIZZORNO, Perché si paga il benzinaio...cit., p. 22.61 Ivi,... p. 23.
34
Alessandro Pizzorno distingue due forme di capitale sociale: quello «di
solidarietà» e «quello di reciprocità»62. La prima forma presuppone l’esistenza di
gruppi fortemente coesi e integrati con alto grado di percezione di sé, caratterizzati
dalla presenza di «legami forti», utilizzando la nota espressione utilizzata dal
sociologo Gravovetter. Questo tipo di reti, secondo il pensiero della Piselli,63 sono
efficienti in termini di assistenzialismo e talvolta di sopravvivenza, grazie al sostegno
garantito dalla comunità verso i membri. Il «capitale sociale di reciprocità», invece,
non presuppone l’esistenza di gruppi coesi, ma è caratterizzato dalla presenza di
«legami deboli», i quali risultano vincenti nell’inserimento lavorativo, nella mobilità,
e nella circolazione di idee.
II.2. La logica del dono
Servendoci del concetto di capitale sociale abbiamo dunque potuto constatare
che le relazioni sociali sono presenti all’interno dell’economia, e più precisamente
nell’economia di mercato, e soprattutto che possono in qualche modo influenzarla.
Questo però, non significa ancora che esiste un’economia di relazione, anche se può
fornirci alcune indicazioni per poter incamminarci verso una tale economia.
Prima di procedere oltre nel capire in che modo sia possibile realizzare
un’economia di relazione, abbandonando per un momento l’analisi delle società
capitaliste, ci soffermiamo invece, sulla realtà di altre società geograficamente situate
a Sud: le società africane rurali e delle periferie; le società dell’America Latina; e
infine, brevemente, il Mezzogiorno italiano. Tutti i contesti esaminati, caratterizzati
da una povertà economica, sembrano invece, essere ricchi di quel fattore che
abbiamo chiamato capitale sociale, di cui ignorano il nome ma non certo l’esistenza,
grazie al quale hanno dato vita a varie forme di economia, seppure di sopravvivenza.
Cerchiamo dunque di capire quale valenza hanno l’elemento economico e la
relazione in queste società, e soprattutto in che modo interagiscono.
Per capire e comprendere a fondo l’essenza intrinseca di tali società, è
necessario, però, cominciare, come ci ricorda Serge Latouche a proposito delle
62 Ivi,... pp. 27 e ss.63 F. PISELLI, Capitale sociale: un concetto situazionale e dinamico.. cit., p 57.
35
società africane da lui studiate,
col denunciare ciò che possiamo chiamare l’illusione economica, la miopia economica, per poi
analizzare la complessità degli espedienti cha assicurano la sopravvivenza dei naufraghi e le logiche
sociali che ne permettono la riproduzione e, infine, tentare di cogliere l’unità sociale [...]64.
Intraprendiamo inizialmente lo studio delle società africane, dapprima nella
dimensione rurale, avvalendoci degli studi condotti da Goran Hyden65e, in seguito,
nella dimensione urbana grazie alle analisi effettuate da Serge Latouche.
II.2.a. L’«economia dell’affetto»
Gli studi che Hyden ha condotto in Africa, soprattutto in Tanzania agli inizi
degli anni ottanta, lo hanno portato a coniare il concetto di economia dell’affetto per
indicare il tipo di economia che caratterizza le società rurali africane. Nell’analisi
condotta, Hyden si è prefisso di presentare le principali funzioni dell’economia
dell’affetto, e di indagare come esse influiscano da un lato, sulle società di base e,
dall’altro, sull’apparto statale ed economico. La conclusione a cui giunge è che, se in
un primo momento l’economia dell’affetto può beneficiare le società di base, in un
secondo momento, in una prospettiva di medio- lungo termine, questa risulta invece
deleteria poiché mina la costruzione dello stato e dell’economia di mercato. La via
dello sviluppo che egli vede per il continente africano è dunque quella dell’economia
capitalista appoggiata da uno stato efficiente. Non concordiamo su tali conclusioni.
La tesi sostenuta nel presente elaborato va invece, esattamente nella direzione
opposta. Si sostiene, attraverso il pensiero di Euclides Mance, che la forma del
mercato capitalista possa essere sostituita da una nuova economia basata sulla
relazione, per la quale l’economia dell’affetto potrebbe costituire una realtà cui
riferirsi, dopo averne analizzato criticamente tanto gli aspetti positivi quanto quelli
negativi.
Hyden, prima di giungere a illustrare che cosa sia l’economia dell’affetto, si
attarda a spiegare come funziona il modo di produzione contadino, al fine di chiarire
64 S. LATOUCHE, Altri mondi, altre menti, altrimenti. Oikonomia vernacolare e società conviviale, Calabria, Rubettino Editore, 2004, p. 73.65 G. HYDEN, No short cuts to progress: African development management in perspective, Heinemann, 1983, p. 5.
36
meglio il ruolo giocato dall’economia dell’affetto in questi contesti rurali. Ciò che
caratterizza il modo di produzione contadino è la quasi inesistente divisione del
lavoro, peculiarità che innesta una serie di conseguenze di natura economica a
catena. Le piccole unità di produzione coincidono con le unità di consumo, in
quanto, non essendoci divisione del lavoro, e dunque specializzazione, viene anche
meno il presupposto allo scambio, secondo la nota teoria dei vantaggi comparati
proposta da Richardo.
Il mancato rapporto di scambio comporta l’impossibilità di instaurare una
interdipendenza strutturale e relazionale tra le varie unità di produzione, la quale
invece potrebbe incentivare lo sviluppo dei mezzi di produzione, la cui mancanza
determina a sua volta, una limitata fattibilità del realizzarsi di un surplus e quindi
della divisione in classi. Pertanto, tale modo di produzione riproduce l’isolamento
delle singole unità produttive. Data quest’autonomia, per non parlare di autarchia,
che caratterizza le singole unità contadine di produzione, la natura della relazione che
intercorre tra coloro che detengono il potere all’interno dello stato e coloro che
coltivano, non appartiene al sistema di produzione. Infatti, piuttosto che come
relazione produttiva, essa si connota come relazione tributaria, dal momento che
l’appropriazione della produzione da parte di chi detiene il potere avviene attraverso
la tassazione. Per comprendere meglio, bisogna partire dalla constatazione che i paesi
africani potrebbero ancora definirsi società senza stato66.
Concludendo la spiegazione del modello di produzione contadino, l’autore
ricorda come, ogni volta che ci si riferisce al concetto di “modo di produzione”, in
realtà, si opera una mera astrazione, la quale rimanda a un modello unitario e puro.
Nelle società della vita reale, invece, raramente si trova un modo di produzione
singolo e puro. La formazione sociale è appunto specchio dei differenti modi di
produzione facenti parte della società. Hyden, infatti, non ha mancato di notare come
nei paesi africani convivano i due modi di produzione, quello tradizionale e quello
occidentale. 66 Lo stato, infatti, scaturito dal passato coloniale e appartenendo, da un punto di vista concettuale, al dominio cognitivo europeo, ha fatto fatica a passare dal piano dell’astrazione a quello della realtà, non riuscendo a presentarsi come concreto interlocutore per la popolazione, soprattutto la più povera, e rimanendo estraneo alle attività produttive quotidiane della società. Di conseguenza, dato il rapporto che lega il contadino e lo stato, dove quest’ultimo percepito non indispensabile dal primo, è inevitabile che ogni intervento statale perpetuato al fine di migliorare la sua agricoltura viene percepito da questi sempre come un intervento esterno. D’altro canto, possedendo egli la terra, identificandosi quasi con essa e trovando rifugio in essa, gli risulta facile eludere le pretese statali.
37
L’economia dell’affetto assume un ruolo fondamentale nello studio dell’autore,
in quanto secondo questi, essa costituisce il modello di spiegazione per ogni forma di
organizzazione tanto sociale quanto economica della realtà africana. Hyden si affretta
a precisare che tale termine, economia dell’affetto, non ha nulla a che vedere con un
discorso sentimentale ed emotivo. Piuttosto, esso si riferisce
a una rete di supporto, comunicazioni e interazioni tra gruppi strutturalmente definiti, legati da
rapporti di sangue, di pelle, comunitari, o per altre affinità, come la religione67.
L’economia dell’affetto si muove spinta da due vettori contemporaneamente:
uno verticale e uno orizzontale. Il primo attraversa la stratificazione sociale dalla
base ai vertici; il secondo, si riversa su tutta quanta la società nel suo complesso pur
concentrandosi maggiormente nelle comunità rurali. In entrambi i casi al centro ci
sono i legami sociali. Legami, dunque, che sono in grado di collegare tra loro proprio
quelle singole unità economiche e sociali, supplendo così alla parcellizzazione delle
stesse, che altrimenti si andrebbe a creare, date le caratteristiche intrinseche del modo
di produzione contadino, il quale appunto, tende invece a isolare e rendere autonome
le varie unità. In altre parole, tali legami costituiscono capitale sociale. Hyden spiega,
facendo proprio il pensiero di Polanyi, come ogni decisione economica in realtà sia
incorporata in altre condizioni sociali e non economiche, data la natura
dell’economia dell’affetto incastonata nei legami sociali.
Poiché la cooperazione che si instaura tra le singole unità economiche e sociali,
si afferma quale elemento esterno al modo di produzione contadino, si deduce che
l’economia dell’affetto non può essere considerata parte di questo. Si può parlare
invece, di «organizzazioni invisibili», informali piuttosto che formali, e che quindi
non apportano alcun contributo esplicito ai flussi macro-economici. Questo è dovuto
al fatto che in Africa, diversamente che dall’America Latina o dall’Asia, l’economia
dell’affetto è saldamente radicata nella società, e viene percepita soprattutto dai
contadini come un’economia alternativa a quella nazionale. Come precedentemente
si è visto, date le caratteristiche del modo di produzione rurale, il contadino può
permettersi di operare e muoversi in entrambi gli ambiti economici, quello informale
67 G. HYDEN, No short cuts to progress... cit., p. 8.
38
e quello formale, insomma di avere un piede in due scarpe, utilizzando la metafora
proposta da Hyden. Pertanto le decisioni economiche operate dal contadino saranno
talvolta favorevoli, talvolta contrarie a obiettivi macro economici e nazionali. Ma
non per questo, soprattutto in caso di decisioni controproducenti per l’economia
nazionale, si deve concludere che le decisioni intraprese all’interno dell’economia
dell’affetto siano irrazionali. Anzi, Hyden ribadisce che quest’ultime rispondono
rigorosamente a una logica razionale, seppure diversa da quella occidentale68. Come
ci ricorda Latouche, il «ragionevole», non per forza è «razionale».
Hyden evidenzia come l’economia dell’affetto abbia lo scopo di assolvere
principalmente a determinate funzioni distinguibili in tre categorie generali: la
sopravvivenza base, la conservazione sociale, e lo sviluppo. Dalla sequenzialità con
cui l’autore propone i tre ambiti è possibile intravedere la volontà di legarli in una
scala progressiva. Per cui ogni categoria è l’evolversi della precedente e ne
costituisce il livello successivo. Analizzando nello specifico ciascuna categoria, ne
verranno abbozzati rispettivamente gli aspetti negativi.
Per quanto riguarda la prima categoria, si evidenzia come per la maggior parte
dei nuclei familiari dei paesi africani, dato il loro marginale coinvolgimento
nell’economia formale, se non addirittura la loro completa assenza da essa, risulti
materialmente impossibile sopravvivere, se non fosse per la presenza dell’economia
dell’affetto. Infatti grazie alla «natura degli scambi faccia a faccia», usando
un’espressione dello stesso Hyden, e alle relazioni di reciprocità che caratterizzano
l’economia dell’affetto, si vengono a creare dei legami di fiducia da un lato, e di
obbligazione morale e sociale, dall’altro, secondo la logica del dono, esaminata da
Marcel Mauss nel suo saggio. La natura sociale di tali legami è tale per cui la
maggior parte della gente in essi coinvolti preferisce arrangiarsi attraverso i canali
informali dell’economia dell’affetto, piuttosto che affidarsi a quelli formali
dell’economia nazionale. I poveri dunque, inizialmente emarginati dall’economia
formale per la loro povertà, finiscono per auto escludersi trovando sostentamento
nelle reti sociali dell’economia dell’affetto, le quali assolvono fondamentali funzioni
sociali sostituendosi, così, alle istituzioni sociali. Quest’ultimo aspetto è un esempio
di quanto abbiamo evidenziato riguardo agli aspetti negativi che si possono
nascondere dentro al capitale sociale. Tali prestazioni vanno dalle cure mediche 68 Rimandiamo al diverso significato dei concetti razionale e ragionevole, proposti da Latouche e esaminati più avanti nel presente elaborato, a p.33.
39
all’apprendimento del lavoro, dall’assistenza in generale alle richieste di prestiti. E’
durante le catastrofi naturali o causate da mano d’uomo che l’economia dell’affetto
raggiunge il culmine nell’esplicare il suo scopo volto alla sopravvivenza base delle
persone che a essa si affidano. Ciò che caratterizza l’attivazione delle varie reti
sociali soprattutto nel momento del bisogno è l’assoluta spontaneità.
Per quanto concerne la seconda categoria delle funzioni dell’economia
dell’affetto, ossia la conservazione sociale, l’autore la qualifica come una pratica
frequente che si spande dal semplice fare doni all’interno di un piccolo cerchio di
parentado, fino a contributi più ingenti con finalità religiose, per esempio per
cerimonie quali il matrimonio o il funerale, o con finalità politiche creando
fenomeni di patronato e corruzione. Nuovamente, in quest’ultime due pratiche
riconosciamo l’analogia con alcune degli aspetti negativi del capitale sociale. Se si
accetta l’ipotesi di una lettura progressiva delle tre categorie, si può notare come in
questo secondo livello la funzione assolta dall’economia dell’affetto risulti invariata
rispetto al primo livello, in quanto a modalità di esplicazione, poiché ci si serve delle
medesime reti sociali e delle medesime prestazioni tra le persone. Ciò che cambia è
invece, lo scopo per cui vengono attivate le reti sociali: una volta assicurata la
sopravvivenza base, l’economia dell’affetto si preoccupa di perpetrare l’essenza
stessa della società. Da qui il nome dato da Hyden a questa funzione di
«conservazione sociale». Quest’ultima, appoggiandosi ai circuiti informali, però,
finisce con il detrarre risorse all’economia nazionale, ove invece, secondo l’autore,
potrebbero essere proficuamente impiegate. L’economia dell’affetto grazie a questa
funzione permette al sistema sociale locale di mantenersi e auto riprodursi,
caratterizzandolo pertanto come sistema complesso dotato della caratteristica
dell’autopoiesi.69
Infine, per parlare del terzo livello delle funzioni dell’economia dell’affetto,
ossia quello legato allo sviluppo, Hyden introduce il discorso sul settore informale.
Spiega come quest’ultimo non debba essere identificato, come spesso accade, con
l’economia dell’affetto, ma piuttosto, con quella parte di attività economiche rese
possibili e favorite dall’economia dell’affetto.
Riassumendo, si può riconoscere come l’economia dell’affetto giochi un ruolo
positivo e di supporto nel provvedere a una rete di sicurezza in grado, talvolta, di 69 Per la teoria dei sistemi complessi, rimandiamo al primo paragrafo del terzo capitolo del presente elaborato.
40
dirottare il surplus generato all’interno dell’economia formale verso canali informali
facilmente raggiungibili dai più poveri, altrimenti esclusi dalla ricchezza nazionale.
Ma proprio questo, evidenzia Hyden, costituisce l’aspetto negativo, l’altra faccia
della medaglia dell’economia dell’affetto. Infatti, sottraendo risorse all’economia
formale, se, da una parte, essa aiuta i più poveri, dall’altra, ostacola lo sviluppo dello
stato poiché impedisce o ritarda il formarsi di comportamenti istituzionali in grado di
avviare e di sostenere la crescita economica nazionale e di conseguenza d’essere
d’aiuto per gli emarginati. Ancora una volta riconosciamo come l’economia
dell’affetto possa essere identificata, nel bene e nel male, come una forma di capitale
sociale, nel momento in cui favorisce i membri della rete ostacolando invece chi è
fuori.
Come precedentemente si è visto, le reti sociali, create dall’economia
dell’affetto, oltre a instaurare rapporti di reciprocità e di mutuo aiuto, impongono
anche dei veri e propri obblighi sociali. Essi, agendo come una ragnatela sulle
relazioni all’interno della società, limitano fortemente, in maniera indiretta, la libertà
degli individui, e più direttamente i loro interessi e, quindi, le loro capacità, di
rivolgersi e affidarsi al settore pubblico, preferendo essere assistiti dalla propria
comunità di riferimento. Ritroviamo un ennesimo esempio di come l’economia
dell’affetto, effettuando un controllo morale sul gruppo e tendendo a impedire la
libera iniziativa del singolo, presenta nel suo DNA le caratteristiche del capitale
sociale. Finora il settore pubblico, dal canto suo, è riuscito a fare ben poco per evitare
questo fenomeno e uno dei motivi di questo fallimento, seguendo la riflessione
condotta da Hyden, è proprio il mancato studio dell’economia dell’affetto e delle sue
interazioni con l’economia formale.
L’azione dell’economia dell’affetto sull’economia formale, significativamente
descritta da Hyden come un’azione di «guerriglia», lenta, continua e subdola,
piuttosto che come un assalto deciso e violento, rischia, però, secondo l’autore, di
trasformarsi in minaccia per la stessa società di base, per cui inizialmente è riuscita a
fornire benefici. Su questo punto, però, ci dissociamo dalle conclusioni dell’autore,
quindi, abbandoniamo il lavoro di Hyden, per passare all’analisi di Latouche
condotte nell’ambito urbano delle periferie africane.
II.2.b. «Oikonomia neoclanica»
41
Latouche attraverso i suoi studi inerenti alle società africane cerca di dare una
spiegazione del fenomeno economico in tali contesti, comunemente e vagamente
definito economia informale rispetto all’economia formale70. Mentre, però, il
significato di economia formale è chiaro, non così è per quello di economia
informale. Con economia formale, infatti, si fa riferimento a tutte quelle attività
economiche che presuppongono le istituzioni, tipicamente occidentali del Mercato e
dello Stato. Non sfugge dunque il legame con il concetto polanyano di «economia
formale» la quale è possibile solo in un’economia di mercato. Il termine informale,
invece, presenta semplicemente una valenza negativa, nel senso che pretende di
identificare tutta quella serie di pratiche economiche che non rientrano nell’economia
formale. Si dice cosa l’economia informale non è, ma si ha difficoltà a spiegare che
cosa essa sia.
A tal proposito Latouche spiega che
L’informale non è [...] un insieme omogeneo e specifico di attività che si potrebbero assimilare a
un nuovo settore, paragonabile ai tre settori di Colin Clark e un po’ frettolosamente battezato da alcuni
“settore quaternario”. Neppure è un insieme “settorializzato” separato completamente dal resto
dell’economia circostante e dalla società.71
Latouche, dunque, consapevole della complessità cui rimanda il termine di
economia informale, prova a suddividere l’insieme in quattro tipologie72, riscontrabili
nel contesto africano. Innanzitutto egli distingue un’economia che, se non criminale,
è illegale o, quanto meno, illegittima, ed è rappresentata dal commercio e dai traffici
internazionali che hanno luogo nelle periferie delle grandi città africane. La seconda
tipologia consiste in un’economia di subappalto, ovvero di dislocazione produttiva,
favorita dalle grandi multinazionali. Latouche distingue, in terzo luogo, ciò che egli
chiama «economia popolare» caratterizzata da piccoli lavori di artigianato sviluppati
a scala locale ai margini dell’economia formale, con una clientela popolare e in parte
della borghesia locale.
70 Da non confondere con il concetto polanyiano di «economia formale», opposta a «economia sostanziale», anche se, come vedremo, entrambe le espressioni rimandano al concetto di economia capitalista.71 S. LATOUCHE, L’altra Africa. Tra dono e mercato, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, p. 161.72 Cfr. S. LATOUCHE, Altri mondi, altre menti, altrimenti...cit., pp. 71 e ss.
42
Infine, individua la quarta tipologia di informale nell’«oikonomia neoclanica» o
«economia vernacolare», così nominata da Latouche, dove con il termine oikonomia
riprende il termine aristotelico. L’aggettivo neoclanica, invece, rimanda al fatto che
[l’] arte della sopravvivenza nelle periferie popolari delle grandi città dell’Africa si fa attraverso
la famiglia allargata e tutte le relazioni sociali molto forti.73
La sopravvivenza, dunque, è garantita da «strategie relazionali»74 , esattamente
come ha dimostrato Hyden per l’economia dell’affetto.
Così Latouche descrive i soggetti di tale oikonomia neoclanica:
questi sono gli esclusi dalle forme canoniche della modernità, dalla cittadinanza dello Stato-
nazione, perché in Africa lo Stato nazione è un problema. Sono gli esclusi dalla partecipazione al
mercato nazionale, vivendo, in effetti, grazie alle reti di solidarietà neoclaniche.75
I soggetti, nota Latouche, sono in prevalenza femminili, non professionalizzati,
e in grado di svolgere una pluralità di attività, poiché spiega lo studioso francese, ci
sono differenti modi di essere «ragionevoli», mente univoca è la maniera di essere
«razionali». Per quanto riguarda il rapporto con lo Stato, Latouche riprende la
metafora proposta da Hyden secondo cui la società dell’economia vernacolare può
apparire come in un’azione di guerriglia latente, ma continua contro lo Stato. A
differenza di Hyden, però, pur consapevole delle problematiche insite in questo
scontro, Latouche “fa il tifo” per la società vernacolare, se per Stato si intende
l’istituzione occidentale trapiantate in Africa.
Le quattro tipologie di informale sopra citate, hanno in comune l’importanza
delle reti sociali su cui si fondano e la logica del dono invece che quella di mercato.
Tuttavia Latouche riconosce una grossa differenza tra i primi tre livelli e l’ultimo.
Mentre i primi tre livelli di informale rientrano, in qualche modo, nel campo
dell’economia della «grande società», il quarto si pone nettamente al di fuori di essa.
L’oikonomia neoclanica si costituisce come una vera e propria nicchia sociale, in cui
l’economia, osserva Latouche, è reincorporata nella socialità dove tale
73Ivi, pp. 71-72.74 S. LATOUCHE, L’altra Africa...cit., p.164.75 S. LATOUCHE, Altri mondi...cit., p. 72.
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reincorporazione non significa la dissoluzione dell’economico, quanto piuttosto una
sua subordinazione alla società.
Lo studioso francese utilizza quindi, il concetto polanyiano di embedded, ma,
parlando di reincorporazione dell’economico nel sociale, è come se affermasse che,
precedentemente, nell’oikonomia neoclanica l’economico era effettivamente
scorporato dalla socialità. Riteniamo invece più corretto, parlare semplicemente di
incorporazione e non di reincorporazione, sostenendo che nelle società africane,
come in tutte quelle che non hanno conosciuto il sistema capitalista, l’economico si
presenta, da sempre, perfettamente incastonato nella società. Quindi, per esse, non si
può parlare di un ritorno dell’economico nella sfera del sociale, perché, di fatto, esso
non si è mai spostato dal suo posto. Riprendendo l’evocativa espressione di Mauss, si
è di fronte, in questi casi, a «fenomeni sociali totali».76 Piuttosto, è possibile
constatare che, di fronte alla miseria causata dall’entrata del sistema capitalista in
Africa, mascherata da promesse di sviluppo economico, le società africane, composte
dai «naufraghi dello sviluppo»,77 si sono maggiormente aggrappate alle proprie
logiche relazionali di esistenza. Latouche riporta, contestandolo, il pensiero
dell’economista Jacques Charmes, secondo il quale il fenomeno dell’incorporazione
dell’economico nel sociale si configura più come una solidarietà residuale, una
sopravvivenza di pratiche passate che non una invenzione, una vera e propria nuova
strategia di sopravvivenza. Ci troviamo concorde con quest’ultimo, soprattutto nel
negare ogni valenza di novità a tale fenomeno.
Inoltre, l’altra Africa, così Latouche chiama la società dell’economia neoclanica,
come già abbiamo detto,
non è quella della razionalità economica. Se il mercato vi è presente, non vi è omnipresente. [...]
E’ un’Africa di bricolage in tutti i campi e a tutti i livelli, tra il dono e il mercato, tra i rituali oblativi e
la mondializzazione dell’economia78
Nell’informale africano ritroviamo, dunque, il «ragionevole» opposto al
«razionale». Per cui per un africano, l’idea di possedere due mucche per ricavare più
latte e quindi, in definitiva, guadagnare più soldi, appare irragionevole rispetto a
76 Rimandiamo alla nota n. 94 a p. 51 del presente elaborato.77 Cfr. S. LATOUCHE, L’altra Africa...cit.78 Ivi, p. 21.
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posseder una sola mucca, mungerla, e avere appena il tempo di godersi il tramonto
del sole in pace79. Oppure spendere tutte le proprie risorse economiche per fare una
festa è più ragionevole che non fare la festa non spendendo nulla in soldi, ma
perdendo in relazioni sociali. Così scrive a proposito il padre gesuita Eric de Rosny,
vissuto in Cameroun,
la festa occupa un posto smisurato in proporzione ai mezzi finanziari della popolazione, tutti gli
economisti lo dicono, ma essa è appropriata ai suoi bisogni affettivi.80
Questo caso citato, non è diverso da quanto ha rivelato Hyden a proposito della
funzione dell’economia dell’affetto in qualità di «conservazione sociale».
Dunque, comportarsi in modo economicamente irrazionale non significa essere
irragionevoli, sia nel caso in cui si considera il tempo vita e non denaro, sia nel caso
in cui si assegna un’importanza simbolica ai legami sociali. E comportarsi in modo
ragionevole non si dimostra privo di successi. Anzi, Latouche spiega come «il
successo di comportamenti economici irrazionali deriva dall’incorporazione
dell’economico nel sociale».81
Concordiamo con Latouche nel sostenere che la forma dell’economia
vernacolare - come anche la forma dell’economia dell’affetto - può insegnarci la
strada per giungere a un’economia di relazione. Latouche contrappone l’altra Africa,
quella delle società dell’economia vernacolare, a quella «ufficiale», ossia quella che
indossa la maschera dell’occidente perché indotta o per imitazione. Ma si è finiti,
volendo a tutti i costi classificare, definire, dare un nome a quest’altra Africa, con
identificarla con il settore informale, confermando nuovamente la tendenza degli
occidentali di ridurre tutto a fattori economici. Ma così facendo, ribatte Latouche, si
rischia di snaturare l’essenza di tale realtà. Si rischia, cioè, di vederla solo in
negativo: ossia «in mancanza di meglio» o come forma di «transizione».82 Vederla in
positivo significa invece, riconoscere le sue peculiarità intrinseche, e quindi
percepirla come una via alternativa allo “sviluppo” capitalista.
79 Cfr, S. LATOUCHE, La sfida di Minerva...cit., pp. 18-19.80 DE RONSY, Les yeux de ma chevre : Sur les pas des maitres de la nuit en pays Douala, Parigi, PLON, Presse de la citè, 1996, cit. in S. LATOUCHE, Altri mondi...cit., p.87.81 S. LATOUCHE, La sfida di Minerva...cit., p. 17.82S. LATOUCHE, L’altra Africa...cit., p. 168.
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E’ molto interessante il passaggio dello studioso francese quando sostiene,
giustamente, che l’informale africano non si configura come l’alternativa
all’economia di mercato, bensì come una possibile alternativa. Latouche, addirittura,
insiste sul fatto che sia impreciso parlare dell’informale africano come di altra
economia. L’informale africano riguarda piuttosto «un’altra società», che segue la
logica del «dopo- sviluppo». Lo studioso francese spiega che è possibile parlare di
altra Africa poiché quest’ultima riesce a vedere altrimenti, in modo diverso,
dall’assolutismo economico.
II.2.c. L’«economia popolare» in America Latina
Dall’Africa ci spostiamo all’America Latina, dove troviamo una altra forma di
economia informale. Il sociologo cileno Luis Razeto prova a descrivere le
caratteristiche di tale economia che egli chiama «popolare»83. Razeto riconosce la
presenza di differenti livelli. Il primo livello vede la presenza di lavori in proprio
esercitati informalmente. Il secondo livello consta di micro imprese famigliari, che in
America Latina sono diventate così frequenti, che ne esiste una ogni quattro o cinque
abitazioni. Infine il terzo livello è composto da «organizzazioni economiche
popolari», ossia gruppi di persone, talvolta più famiglie, che si associano per gestire
in comune le scarse risorse che hanno a disposizione, e che puntano alla
realizzazione di una rete di tali organizzazioni.
Nell’economia popolare, rivela Razeto, sono fortemente presenti elementi della
solidarietà, sia per il ruolo cardine dalla famiglia e per il forte significato simbolico
che ricopre, sia perché la sussistenza spinge ad associarsi per fare fronte comune alla
miseria. Il sociologo cileno si sofferma ad esaminare nello specifico l’ultimo livello
citato di economia popolare, ossia le organizzazioni economiche popolari, poiché
in ragione della loro particolare dimensione organizzativa, possiamo ipotizzare, in relazione a
esse, una certa più definita conformazione sociale, una maggiore potenzialità di essere soggetto e
attore di un processo di costruzione di un’economia di solidarietà, nonché una certa capacità di essere
all’ avanguardia e di sapere orientare un processo più ampio di organizzazione sociale dell’economia
popolare84.
83 L.RAZETO, Le dieci strade ... cit., p. 28 e ss.84 Ivi, p. 33.
46
Razeto mette dunque in risalto alcune caratteristiche che accomunano tali
esperienze economiche e allo stesso tempo sociali. In primo luogo esse sorgono tra
gli esclusi del mercato ufficiale e incorporano quindi la fascia misera della
popolazione. Inoltre sono caratterizzati da piccoli numeri: poche persone che
agiscono sul locale. Razeto precisa che esse si pongono come delle vere e proprie
organizzazioni nel senso che hanno obiettivi precisi e, progettano e gestiscono
razionalmente le risorse a disposizione per il raggiungimento di tali fini. Così
definite, tali organizzazioni sembrano comportarsi secondo la logica della razionalità
dall’economia standard. Questo dimostra che il principio della razionalità economica
non è condannabile in sé, ma solamente se diventa l’unico parametro di
comportamento. Sono pertanto organizzazioni a carattere economico, nel senso
sostanziale del termine, in quanto lo scopo è quello di far fronte alla sussistenza, e
sono organizzate in «unità economiche», o «cellule», tanto di produzione quanto di
consumo. La sussistenza è garantita da fenomeni di «reciprocità», da fenomeni di
cooperazione e fiducia reciproca.
Infine, sono organizzazioni che si fondano sul lavoro, il quale non è mai di un
solo tipo, ma piuttosto si esercitano differenti attività lavorative. Esattamente come
ha rilevato Latouche per l’economia neoclanica africana. Tali organizzazioni, al loro
interno, praticano l’autogestione: il lavorare ha diritto e dovere di partecipare alle
decisioni dell’organizzazione. Quindi è presumibile che quest’ultime non siano a
base clanica o di parentela generalmente connotate da rapporti gerarchici tra i
membri.
A differenza delle attività svolte in seno all’economia neoclanica e, ancor meno
nell’economia dell’affetto, il livello delle organizzazioni popolari dell’economia
popolare, presenta un’autocoscienza della propria identità, intesa come vera
alternativa al sistema dominante. La loro stessa presenza è il frutto di un atto volitivo
del costituirsi tali, anche se spinti dalla necessità. L’identità culturale d’origine di tali
organizzazioni, non è rinnegata dalla loro volontà di porsi come esperienze altre
rispetto al sistema capitalista, anzi, è assunta a modello, a partire dall’antica filosofia
andina, la quale incorpora anche principi economici.
Il soggetto cardine nella cultura andina, non è l’individuo bensì la comunità,
quindi il concetto di proprietà è solamente di natura collettiva. La stessa visione del
47
mondo è collettiva e non prevede la scissione duale tra materiale e spirituale, tra
uomo e natura. Il mondo è inteso come un’unità, «un mondo-anima» vivente. Questo
determina una concezione del lavoro tale per cui esso è inteso sia come attività
spirituale che materiale e, conseguentemente, la produzione non implica la
trasformazione e il dominio del mondo ma la costruzione della vita. Secondo Razeto
«saper coltivare la vita sarebbe la definizione andina»85, di tecnologia. A ragione si
può parlare di «tecnologia simbolica». Anche in questo caso, l’economico è
incorporato nel sociale, fino nella sua dimensione di sacralità. Ma non per questo,
tale tecnologia è priva di competenze empiriche, che, anzi, sono abbondanti e efficaci
nel campo dell’agro-astronomia e in generale nella conoscenza dei segreti della
natura. Le caratteristiche che garantiscono efficacia a questa tecnologia sono plurime.
In primo luogo, la dimensione del sacro e quella simbolica offrono stimoli
psicologici in chiave di fiducia e ottimismo responsabilizzando i membri della
comunità a dare il meglio di sé per il bene comune. In secondo luogo, il lavoro e la
tecnologia così intesi permettono il realizzarsi di un processo di coscientizzazione, di
riconoscimento della propria identità storico-culturale. Infine, questa tecnologia,
integrando valori condivisi quali la visione dell’unità e dell’integralità, protegge
dall’individualismo, dal consumismo, dalla distruzione ambientale, garantendo
invece, equità sociale e equilibri ecologici.
II.2.d. Il mezzogiorno
Cambiando completamente posizione geografica e, quindi, anche contesto
socio- culturale, pur rimanendo a sud, ci spostiamo nel Mezzogiorno italiano. Molto
brevemente ci soffermiamo su questa realtà, con il solo intento di constatare come
anche il sud d’Italia fosse, in un passato non troppo lontano, e per certi versi sia
tutt’ora, una realtà ricca di reti sociali, cui ci si appoggiava costantemente per fare
fronte ai problemi della vita quotidiana. Attesta infatti, la sociologa Piselli
che la società meridionale, prima e dopo gli anni ’50, era tutt’altro che disgregata, ma
caratterizzata da una fitta trama di solidarietà e lealtà che andavano ben oltre la famiglia nucleare
immaginata e teorizzata da Banfield. Individui e famiglie erano inseriti in una fitta rete di legami di
85 Ivi, p. 145.
48
parentela, amicizia, vicinato, comparaggio che costituivano risorse, cioè capitale sociale, per una
varietà di scopi [...].86
Considerando tali reticoli di solidarietà come vera e propria risorsa a
disposizione delle popolazioni del Mezzogiorno e, quindi, riconoscendo ad esse la
valenza di capitale sociale, è possibile individuare lo loro influenza sul contesto
economico della zona. A questo proposito la Piselli aggiunge che
i networks sociali in alcune aree del Mezzogiorno, hanno stimolato processi di cooperazione
orizzontale e verticale positivamente orientati verso lo sviluppo, [inteso come] la capacità di generare
reddito in maniera autonoma, senza dipendere da meccanismi redistributivi.87
Anche la realtà del Sud Italiano, come i tre contesti esaminati poco sopra, è stata
caratterizzata, e continua ad esserlo, da un’arretratezza economica, soprattutto se
confrontata con il nord del Paese. Per spiegare questo scarto economico il sociologo
Trigiglia, discostandosi dalla lettura culturalista fattane da Putmana[ 1993], avanza
l’ipotesi secondo la quale
non è la carenza di reti ad avere ostacolato lo sviluppo nel Sud, ma una politica scarsamente
modernizzata e emancipata dalla società civile, che ha favorito l’impeigo delle reti al suo interno,
come strumento di appropriazione particolaristica di risorse pubbliche- piuttosto che nella sfera di
mercato.88
Mette dunque in evidenzia, esattamente come abbiamo notato anche per la realtà
africana, il risvolto negativo che può assumere il capitale sociale, soprattutto se non
interagisce con un’adeguata politica per lo sviluppo locale. Ma cosa sia lo sviluppo
locale e quale ruolo deve giocare la politica lo vedremo meglio nel quarto capitolo.
II.2.e. Un comune punto di partenza: la logica del dono
86 F. PISELLI, Capitale sociale: un concetto situazionale e dinamico,.. cit. p 67-68, cfr. anche E. BANFIELD, Le basi morali di una società arretrata, Bologna, il Mulino, 1961 [ed. orig. 1958], e F. PISELLI, Parentela ed emigrazione, Torino, Einaudi, 1981.87 Ivi, p 70.88 C. TRIGIGLIA, Capitale sociale e sviluppo locale, ...cit., p. 123.
49
L’analisi condotta finora su alcune società del Sud ha rivelato come, in realtà, in
esse la relazione sia, non solo un concetto cardine della loro socialità, ma proprio
l’anello concreto, il filo che amalgama i vari reticoli sociali. E’ emerso anche, come
la relazione sia alla base pure delle varie attività economiche che, a seconda dei
contesti e degli studiosi che li hanno analizzati, prendono il nome di economia
dell’affetto, oikonomia neoclanica, o economia popolare.
Avendo riconosciuto molte caratteristiche comuni a tutte le realtà esaminate che
potrebbero rimandarci all’espressione di economia di relazione, proveremo ad
evidenziare quali esse siano e, se effettivamente possono costituire la base per
un’economia di relazione.
Incominciamo con il notare che in tutte le società esaminate viene assegnata
un’importanza cruciale alle reti di relazione sociale. Ma che cosa si trova alla base di
tali relazioni sociali così fittamente intricate? E soprattutto, cos’è che permette il
mantenimento di tali relazioni? L’antropologia, ci riferiamo principalmente all’opera
di Marcel Mauss, Saggio sul dono, dimostra come in alcune società il dono
costituisca uno degli elementi fondanti delle stesse. Infatti, donare diventa il cardine
sociale su cui si costituiscono tali società, perché donare diviene sinonimo di
instaurare e mantenere relazioni. Pertanto, in tutti questi contesti, compresi quelli
esaminati, si evince il primato della società rispetto all’individuo a differenza delle
nostre società occidentali per cui si può parlare di un vero e proprio «imperialismo
del sociale»89. Tale solidarietà sociale come ha sottolineato Latouche è responsabile
del successo delle varie forme di economie informali.
Data l’importanza che assumono le reti di relazioni sociali nelle società prese ad
esame, e visto che tali reti si fondano a partire dalla logica del dono, ci soffermiamo a
sviscerare quest’argomento, per capire a quale natura appartenga il dono e quali
implicazioni abbia sulla società nel complesso e, quindi, anche sulle attività
economiche. Come rileva Mauss dalle sue ricerche, il dono si pone come un ibrido a
metà tra una prestazione mercantile di scambio, e un atto puramente gratuito. Infatti
dietro al dono si cela comunque l’attesa di un contro dono, in qualunque forma e
modo. Ciò che differenzia il donare e il contraccambiare a un dono dallo scambio
mercantile, è la libertà, come sostiene il francese Godbout90, ovvero l’assenza di
89 S. LATOUCHE, L’altra Africa, cit., p. 38.90 Cfr. J.T.GODBOUT, Il linguaggio del dono, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, cit. in M. AIME, Introduzione, in M. MAUSS, saggio sul dono, Torino, Einaudi, 2002, (ed. orig. 1950), p. XI.
50
contratto e, quindi, di coercizione. Anche se c’è l’obbligo di restituire, non c’è un
come e soprattutto un quando: l’obbligo si configura più che altro come morale.
L’assenza di garanzie presuppone pertanto che la fiducia sia una componente
fondamentale della prestazione del dono. Un’altra differenza tra dono e scambio
mercantile è che gli oggetti scambiati secondo la logica mercantile prendono nome di
merci e vengono scambiate secondo regole economiche, per cui vi è un valore delle
merci espresso dal prezzo. Il dono, invece, pur avendo qualche componente
economica, questa è totalmente incorporata in dinamiche sociali, e da esse
determinata.
La prestazione del dono dunque, si configura come un triangolo: donare-
ricevere- restituire Questo triangolo del dono costituisce il motore propulsore delle
società in cui il dono è fondamento dei legami sociali. Si innesca infatti, una spirale
di riconoscenza tra le persone, che assumono di volta in volta il ruolo di debitori e di
creditori. In realtà, il debito non si annulla mai, ma si ricrea continuamente, al
contrario della prestazione mercantile dove, a scambio avvenuto tra le due parti, si
salda il debito precedentemente contratto.91 La condizione abituale è, di conseguenza,
perennemente volta al disequilibrio, piuttosto che all’equilibrio. Infatti sebbene si
tenda comunque all’equilibrio, il dono per sua natura crea disequilibrio, seppure
alterno tra le parti.92
Nella condizione di squilibrio, però, si nascondono i lati negativi del dono.
Infatti se non si effettua la contro prestazione o questa è ritenuta inferiore a quanto
ricevuto, il dono può avere effetti opposti alla sua funzione originaria di legame
sociale. Il dono si può trasformare in un’arma di distruzione, accentuando
disuguaglianze e gerarchie, e provocando la disgregazione dei legami sociali.
Latouche spiega che secondo la logica del dono ogni scambio ha una triplice
valenza: reale, monetaria, ma soprattutto simbolica. E’ quest’ultima la causa dello
scarto tra gli effetti positivi e negativi che gli scambi effettuati secondo la logica del
dono determinano, rispettivamente, se praticati all’interno delle reti sociali e di
parentela o all’interno dell’economia formale. Infatti se è il polo simbolico, da una
91 A questo proposito Guideiri [Cfr. GUIDIERI; Saggio sul prestito, in Voci da Babele, Napoli, Guida, 1990, cit., in M. AIME, Introduzione... cit., p. XXI.], fa notare come la differenza che, in ambito morale, intercorre tra dono e perdere e prestito, sia rispecchiata anche semanticamente: si tende ad associare il termine debito alla sfera economica, mentre quello di dono alla sfera affettiva, per cui, seppure nell’ambito familiare lo stato di debito è generalizzato, non è percepito tale essendo considerato normale.92 Cfr. J.T.GODBOUT, Il linguaggio del dono, cit. in M. AIME, Introduzione... cit., p. XXIV.
51
parte, «permette il miracolo della moltiplicazione dei pani»93 all’interno delle
economie informali, dall’altra è causa di fenomeni di corruzione e clienterismo,
quando interferisce con le istituzioni. Nella dinamica appena descritta è possibile
riconoscere uno degli aspetti negativi citati a proposito del capitale sociale ed
empiricamente visto a riguardo delle economie informali prese in esame, evidenziate
in particolar modo da Hyden.
La logica del dono alla base delle reti social e il primato della comunità rispetto
all’individuo sono spiegabili a partire dall’espressione polanyiana per cui
l’economia, in questi contesti, è incorporata nella società. Per dirla come Mauss, si è
in presenza di «fenomeni sociali totali»94ossia,
[...] fatti, tutti molto complessi, in cui si mescola tutto ciò che costituisce la vita propriamente
sociale delle società che hanno preceduto le nostre, [dove] trovano espressione, a un tempo e di colpo,
ogni specie di istituzioni: religiose, giuridiche e morali [...] nonché economiche, con le forme
particolari della produzione e del consumo, o piuttosto della prestazione e della distribuzione; senza
contare i fenomeni estetici ai quali mettono capo questi fatti e i fenomeni morfologici che queste
istituzioni rivelano.95
Presentando la medesima caratteristica di essere società in cui l’economico è
subordinato alle logiche sociali, le realtà sopra esaminate sono accomunate dalla
forma di integrazione economica della reciprocità e dalla corrispettiva istituzione
della simmetria. Effettivamente anche se si ha poco, grazie alla forma della
reciprocità, la solidarietà si sostituisce alla scarsità. Pertanto l’investimento
93 S. LATOUCHE, L’altra Africa... cit., p. 193.94 Da questa espressione si capisce l’influenza esercitata da Durkheim sullo studioso e nipote Mauss. Infatti oggetto della sociologia, per Durkheim (1858-1917) sono i «fatti sociali» che si presentano, per costituzione, diversi tanto dai fatti naturali e biologici, quanto da quelli psichici, ossia soggettivi. Durkheim li definisce : «collettivi», il fatto sociale è una pratica, una fede che coinvolge un gruppo sociale; «esterni», ossia esterni all’individuo, e quindi sovra e preindividuali; «coercitivi»: cioè imperativi per l’individuo. Nel complesso il fatto sociale è «una rappresentazione psichica collettiva» che sovrintende un gruppo, e la cui funzione è quello di amalgamarlo grazie alla creazione di valori e norme condivisi. E’ evidente il carattere vincolante che Durkheim assegna ai fatti sociali nei confronti degli individui. In questi termini, il fatto sociale è sempre qualcosa di concreto, e non identificabile con la società in senso astratto. Inoltre, secondo Durkheim, i fatti sociali non possono essere analizzati e compresi a partire dalla scomposizione nelle singole parti di cui è composto. In altre parole essi non coincidono con la mera somma dei comportamenti individuali. Vi è in nuce quanto si afferma nella logica sistemica, per cui il tutto non è la somma delle parti, bisogna tenere conto delle relazioni tra le parti, e il tutto possiede delle caratteristiche proprie e diverse da quelle appartenenti alle singole parti. Per questo Durkheim è considerato il fondatore del paradigma dell’olismo.95 M. MAUSS, saggio sul dono ...cit., p. 5.
52
relazionale diviene una priorità assoluta, esattamente come abbiamo evidenziato per
il capitale sociale.
Un’altra peculiarità che rende molto simili i contesti esaminati è quella di
possedere la capacità di auto organizzazione dei sistemi complessi.96 Comune a tutte
queste esperienze, infatti, è l’essere fenomeni che nascono dal basso,
spontaneamente, nell’ambito locale, in piccole nicchie, organizzate secondo regole
interne che permettono loro la conservazione e l’auto riproduzione. Hyden ha messo
in evidenzia questa caratteristica dell’economia dell’affetto parlando della sua
funzione di «conservazione sociale». Latouche, dal canto suo spiega come «i
collegati delle reti neoclaniche riescono a fabbricare tra loro l’essenziale della
propria condizione d’esistenza»97, in quanto sono in grado di mobilitare molte
risorse al loro interno, senza aiuto, o appoggio dallo stato. Attraverso la logica del
dono, poi, riescono a perpetrare tali condizioni d’esistenza.
96 Per la teoria dei sistemi complessi rimandiamo al primo paragrafo del terzo capitolo. 97 S. LATOUCHE, Altri mondi...cit., p. 90.
53
CAPITOLO III
IL PARADIGMA DELLE RETI
Dopo avere esaminato separatamente i termini di economia e di relazione in
economia, possiamo avviare l’analisi di cosa possano significare i due termini
racchiusi insieme, in un’unica parola, quale economia di relazione. Quanto visto
finora, ossia i limiti dell’economia neoclassica e dell’attuale sistema economico, da
una parte, e il concetto di capitale sociale in cui rientra la logica del dono, ci consente
di sostenere che la relazione, effettivamente, ricopre un ruolo fondamentale nelle
prestazioni economiche. Questo è deducibile, sia osservando le conseguenze sociali
causate dal negare tale ruolo in campo economico alla relazione, tanto da un punto di
vista teorico quanto da quello pratico; sia osservando, invece, come la relazione sia
alla base, e condizioni le attività economiche in quei contesti in cui la socialità e i
networks sociali prevalgono sull’individualismo. Nel primo caso l’economico è
scorporato dalla società e questa è assoggettata alle logiche del mercato, nel secondo
l’economico è totalmente incorporato e integrato nel sociale. Nel primo caso, inoltre,
l’economia è da intendere nella sua accezione formale, nel secondo, nell’accezione
sostanziale.
Prima ancora, dunque, di provare a definire come possa essere un’economia di
relazione, ci soffermiamo, in questo capitolo, sul concetto di rete, in quanto metafora
adatta per rappresentare le relazioni sociali, definite appunto reticoli sociali, e alla cui
base abbiamo visto risiede il concetto di capitale sociale e la logica del dono.
L’analisi condotta procede con un taglio che dal generale va al particolare e, dal
teorico giunge al pratico. Accenneremo brevemente alla teoria delle reti e alla teoria
dei sistemi complessi, per avere una panoramica generale sul concetto di rete, e
soprattutto sulla sua forza evocativa. Successivamente vedremo il concetto di rete
applicato all’economia secondo il pensiero di Euclides Mance, il quale ha teorizzato
il concetto di «rete di collaborazione solidale», in alternativa al sistema capitalista, a
partire da esperienze concrete presenti in America Latina. Infine, delineeremo
sommariamente l’esperienza italiana riguardo alla realizzazione di una rete nazionale
di economia solidale.
54
III.1. Reti e complessità
È possibile applicare al mondo umano, al comportamento umano, leggi e
modelli matematici, o leggi e modelli presenti nel mondo naturale? E’ possibile
pensare all’esistenza di un unico principio organizzativo alla base del nostro mondo?
Mark Buchanan sostiene, attraverso indagini scientifiche condotte lungo il solco
della nuova scienza delle reti, la tesi secondo cui esiste un medesimo principio
organizzativo, un unico paradigma di funzionamento per realtà diverse, dalle reti
sociali umane alla cellula, dal sistema nervoso e dalle catene alimentari
all’economia. Buchanan, parla addirittura di «una dinamica interconnettiva che fa
inesorabilmente capire chi siamo, che cosa pensiamo e come ci comportiamo».98
Lasciando da parte l’interrogativo riguardo al grado di determinismo presente in una
tale affermazione, ci sembra interessante soffermarci brevemente sulla teoria delle
reti.
La nuova scienza delle reti affonda le proprie radici nella teoria della
complessità99, secondo la quale, per quante informazioni si dispongono a livello delle
singole parti di un insieme, non è possibile stabilire il modello organizzativo secondo
cui tale insieme si struttura. La complessità di un sistema, non è data dalle
caratteristiche delle parti quanto dalla configurazione architettonica che assume
l’insieme, definibile appunto rete. La complessità è quindi una caratteristica
qualitativa di quei fenomeni, che si presentano come una combinazione di
molteplicità e di autonomia. Nei fenomeni e nei sistemi complessi la molteplicità
associata all’autonomia porta a distinguere in essi una forma di organizzazione
irriducibile a chi li osserva. Grazie all’autonomia, tali fenomeni si governano
secondo leggi proprie, sono perciò autoreferenziali, in quanto si riferiscono
primariamente a se stessi. Sono anche autopietici100, ossia il loro funzionamento
98 M. BUCHANAN, Nexus. La rivoluzionaria teoria delle reti. Perché la natura, la società, l’economia, la comunicazione, funzionano allo stesso modo, Milano, Mondadori, 2003, p. 31.99 Cfr. G. DE MICHELIS, Complessità, in TELFENER, L. CASADIO (a cura di), Sistemica. Voci e percorsi della complessità,Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 191 e ss.100 Cfr. H. MATURANA, F. VARELA, Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, Padova, Marsilio, 1985, cit. in G. DEMATTEIS, Possibilità e limiti dello sviluppo locale, p. 53, in G. BECCANTINI, F. SFORZI., Lezioni sullo sviluppo locale, Torino, Rosenberg & Sellier, 2002. Testo della lezione inaugurale svolta ad Artimino 16-21 settembre, 1991.
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primario è mosso verso l’autorinnovamnto. Infatti, letteralmente, autopiesi, significa
“auto- produzione”.
Il modello dell’autopoiesi è molto efficace per descrivere le dinamiche
interattive tra nodo e rete, o sottoinsieme e insieme. Dire che un sistema è
autopoietico significa principalmente affermare che esso è in grado di produrre e
riprodurre se stesso. Ma questo non implica una totale autonomia del sistema rispetto
all’ambiente esterno, con il quale invece intraprende comunque degli scambi. Si dice
che possiede una chiusura operativa ossia che, essendo in grado di selezionare gli
imput che gli arrivano esternamente, ha pieno controllo sulla sua organizzazione
interna, la quale può esser modificata soltanto da regole interne (componente
genetica del sistema) e non può essere modificata esogenamente. I possibili
comportamenti attuabili dal sistema sono previsti appunto da queste regole interne,
le quali, in definitiva, determinano l’organizzazione del sistema, ossia la parte
invariante, pena la perdita di identità, con conseguente scomparsa del sistema. Ciò
che invece può variare, ed è bene che vari, nelle interazioni con l’esterno è la
struttura del sistema.
Quindi possiamo definire l’interazione tra il sistema-nodo e il sistema globale a
rete, come un accoppiamento strutturale, il quale determina un cambiamento
reciproco delle strutture, entro i limiti di compatibilità consentiti dalle rispettive
organizzazioni. Tale compatibilità rispecchia il grado di plasticità del sistema, la
quale permette di selezionare la gamma di relazioni effettuabili con l’esterno senza
che queste minaccino l’identità del sistema. Quest’ultimo, grazie alla sua autonomia,
è dotato di una razionalità propria con la quale reagisce rispondendo agli stimoli
esterni in base ad auto rappresentazioni interne. In questi casi si parla di dominio
cognitivo del sistema. E’ evidente che, in presenza di accoppiamenti strutturali,
nessun sistema può rimanere invariato, ma produrrà sempre delle modifiche al suo
interno, grazie alla sua componente strutturale dotata di flessibilità, senza la quale il
sistema non potrebbe sopravvivere nei continui rapporti con l’esterno.
La scienza delle reti, dunque, permette di capire la rete indipendentemente dalle
parti che la compongono.
Forse scopriremo che alcune delle verità più profonde del nostro mondo riguardano non tanto gli
elementi da cui il mondo è costituito e i loro comportamenti individuali, quanto l’organizzazione
56
complessiva. Il concetto di «piccolo mondo» è uno dei più originali e importanti di questa nuova
«scienza delle forme», le cui radici affondano nell’antichità.101
Non è insolito pensare all’umanità come a una rete intricata di persone. Le reti
sociali in cui viviamo, e siamo immersi, hanno le caratteristiche di «piccolo
mondo»102. Nel 1998, due matematici Ducan Watts e Steve Strogatz elaborarono un
grafo103 per risolvere il problema del mondo sociale dei «sei gradi di separazione»,
per cui ogni punto del grafo rappresentava donne e uomini, e le linee che univano i
punti, le relazioni tra le persone. L’espressione diffusa a livello popolare come «sei
gradi di separazione» deriva dalla sconcertante scoperta effettuata da Stanley
Milgram104, psicologo sociale degli anni sessanta. In seguito a plurimi esperimenti in
campo sociale, Milgram dedusse che in realtà, ogni persona sulla terra è separata da
una qualsiasi altra persona soltanto da sei individui. Il grafo di Watts e di Strogatz
fornisce una spiegazione matematica al mistero del piccolo mondo, in cui vige la
regole dei sei gradi di separazione: incominciando da un punto qualunque del grafo,
è possibile giungere a qualsiasi altro punto scelto a priori in sei passaggi.
Come si è detto, le proprietà di piccolo mondo appartengono a tutte le reti
sociali. Tali proprietà si presentano come una commistione di casualità per cui si
prevede la presenza di nuclei con deboli relazioni locali e di ordine, ossia si prevede
la presenza di comunità fortemente integrate. Sono dunque a metà tra il caos e
l’ordine. Di conseguenza la casualità permette un basso grado di separazione, ossia
sono necessari pochi passaggi per muoversi da un punto a un altro punto qualsiasi,
mentre l’ordine, garantisce un alto grado di integrazione e aggregazione. Questo vuol
dire che all’interno delle reti sociali è presente una commistione tra «legami forti» e
«legami deboli», ricordando le famose espressioni del sociologo Granovetter. I
legami deboli sono fondamentali per rendere basso il grado di separazione all’interno
della rete perché si comportano come veri e propri ponti sociali, che permettono di
collegare non solo individui ma anche zone geografiche totalmente estranee le une
alle altre. Tale caratteristica dei legami deboli rende inoltre possibile la coesione di
101 M. BUCHANAN, Nexus... cit., p.13.102 D.J.WATTS, S.H.STROGATZ, Collective dynamics of «small world» networks, «Nature», 396, 1998, pp. 440-42, cit in BUCHANAN, Nexus ...cit., p. 19.103 Nel gergo matematico: un certo numero di punti collegati da delle linee. Essendo solo una struttura logica, priva di qualunque connessione diretta con il mondo reale, non è detto che abbia un significato.104 Cfr. S. MILGRAM, The small- world problem, «Psychology Today», 1, 1967, pp. 60-67, cit. in BUCHANAN, Nexus... cit., p.6.
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differenti gruppi, tra loro intimamente connessi, e quindi rende fattibile l’esistenza di
una comunità sociale, seppure al suo interno eterogenea. Infine conferisce alla rete la
caratteristica di essere così «piccola» o vicina.
Le reti, secondo la geometria «piccolo mondo», possono presentarsi in natura
come reti egualitarie, tipo la rete neuronale del cervello, o come reti aristocratiche o
gerarchiche, come la rete di Internet. Nel primo caso le connessioni sono ripartite più
o meno egualmente in tutto il sistema, pertanto la rete è definibili anche come rete da
pesca. Al contrario, nel secondo caso, risalta la presenza di alcuni nodi iperconnessi
che prendono il nome di hub o connettori. Legata alle reti aristocratiche vi è quella
che i matematici chiamano «la legge di potenza», ossia quella legge che interviene
ogni qual volta vi è una relazione inversamente proporzionale tra la concentrazione
di potere, in qualunque forma esso si presenti, in un dato sistema, e il numero di
elementi del medesimo sistema che detengono tale potere. Nel caso delle reti la legge
di potenza si esplica nel seguente modo: ogni qual volta il numero delle connessioni
raddoppia, il numero di nodi con quel numero di connessioni diminuisce
proporzionalmente, in gradi diversi a seconda dei contesti.
Le caratteristica di essere reti gerarchiche, in quanto dominate da hubs, presenta
vantaggi e svantaggi al medesimo tempo. Infatti se il principio gerarchico potrebbe
essere funzionale per una maggiore organizzazione e un maggior controllo interni,
allo stesso tempo rende il sistema maggiormente controllabile anche dall’esterno.
Infatti una rete gerarchica è estremamente vulnerabile verso attacchi organizzati che
mirano proprio ai principali centri organizzativi della rette: gli hubs sono così
determinanti per il sistema che, se distrutti, provocano la disintegrazione dell’intero
sistema. Troppa iper connessione inoltre, può sommerge gli stessi hub, i quali
possono perdere vantaggio dal ricevere ulteriori connessioni. Sotto altre vesti ritorna
il discorso dei costi e dei limiti.
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III.2. Rete di collaborazione solidale
III.2.a. La strategia delle reti
«L’ottica di rete rappresenta l’inizio incoraggiante di una visione economica
di maggior respiro»105. Così afferma Buchanan, dopo avere esposto la sua tesi
riguardo alla rete come paradigma del funzionamento del mondo e, quindi, anche del
comportamento umano e di tutto quanto discende da esso. E’ allora possibile
ipotizzare una rivoluzione tanto cognitiva quanto pratica, in campo economico:
sostituire la metafora della mano invisibile, cha ha dominato tutto il pensiero
economico occidentale, con quella di rete, che meglio rispecchia la complessità della
natura umana.
Il filosofo brasiliano Euclides Mance sostiene che la «rivoluzione delle reti»106
non solo è ipotizzabile come metafora, ma addirittura si costituisce come realtà, il cui
obiettivo è trovare un’alternativa economica praticabile per gli esclusi dal sistema
capitalista, e creare una società post-capitalista. Infatti, come scrisse Marx, ne Il
Capitale, tutto il capitalismo è costituito da un’essenza intrinsecamente
contraddittoria, in quanto mira alla produzione, non già per soddisfare i bisogni
sociali, ma per generare e accrescere plusvalore. Per questo Marx, considerando il
capitalismo come un «punto di transizione», auspicava la realizzazione di
un’organizzazione economica in cui la produzione e la redistribuzione della
ricchezza sarebbero state soggette alla decisione cosciente dei «liberi produttori
associati».
La strategia delle reti si presenta pertanto come una progettualità sociale al fine
di coniugare economia ed etica, di riscrivere la politica e di promuovere la
cittadinanza attiva. Mance sottolinea come, facendo ricorso alla metafore di rete, il
processo di liberazione dell’uomo e dell’oikonomia dall’economia capitalista,
prevede che «nessuno libera nessuno, nessuno si libera da solo: tutti si liberano
assieme».107 A tale proposito Mance parla di collaborazione solidale, intesa come
105 BUCHANAN, Nexus... cit., p.236.106 E.A. MANCE, La rivoluzione delle reti. L’economia solidale per un’altra globalizzazione, Bologna, EMI, 2003. 107 Ivi, p. 15.
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lavoro e consumo condivisi il cui vincolo reciproco fra le persone si manifesta, innanzitutto, con
un sentire morale di corresponsabilità per il bem-vivir di tutti e di ciascuno in particolare.108
Mance pertanto, distingue concettualmente la collaborazione solidale
dall’economia solidale, poiché con la definizione di collaborazione si introduce
«l’esercizio umano della libertà», ritenuto fondamentale, come abbiamo
precedentemente visto, dal filosofo ed economista Amartya Sen. La collaborazione
solidale infatti, non si pone solo come una proposta economica, ma anche come
un’«attitudine etica» e una «posizione politica». Rimanda, più in generale, a una
concezione filosofica, a una «comprensione filosofica dell’esistenza umana»109.
Alla base della collaborazione solidale Mance individua la pratica del consumo
solidale, inteso come mediazione del bem-vivir, al fine di eludere le trappole del
capitalismo. Di fatti il consumo solidale viene praticato per rispondere ai problemi di
disoccupazione e prevede la condivisione, in quanto si ha di mira la collettività nel
suo insieme, ricercando appunto sia il bem-vivir personale che quello collettivo.
Mance utilizzando il termine di bem-vivir, intende differenziarlo dal benessere, in
quanto quest’ultimo, troppo compromesso con il concetto di utilità di stampo
neoclassico, rimanda a una dimensione primariamente individuale. Al contrario, il
concetto di bem-vivir è fondato su criteri valoriali, qualitativi e di comunità. Infatti
il bem-vivir è l’esercizio umano di disporre delle mediazioni materiali, politiche, educative e
informative non solo per soddisfare eticamente le necessità biologiche e culturali di ciascuno, ma per
garantire, sempre eticamente, la realizzazione di tutto ciò che può essere concepito e desiderato per
una libertà personale che non neghi quella collettiva.110
Anche Mance osserva come gli esclusi dal capitalismo si auto organizzano per
sopravvivere, Egli individua pertanto la necessità di creare delle cellule di
produzione e di consumo da legare in rete, le quali al loro interno pratichino il
consumo solidale, connotandosi così, come reti di collaborazione solidale. In quanto
reti, esse devono godere di particolari caratteristiche, quali un’ampia estensione della
dimensione orizzontale, un’elevata intensità sul piano verticale, diversità e integralità
allo stesso tempo. Caratteristiche tali per cui, permettendo la rialimentazione e l’auto
108 Ivi, p. 5.109 Ivi, p. 190.110 Ivi, p. 17.
60
accrescimento delle reti stesse, determinano l’auspicata «rivoluzione delle reti».
Infatti, secondo Mance, la rete globale, che si costituirà a partire dalle singole reti,
acquisterà una forza tale da soverchiare l’economia capitalista e da scavalcare ogni
confine geografico-politico. Mance sostiene che la rivoluzione delle reti, la quale
parte dall’intendere l’economia in maniera alternativa rispetto al modello dominante,
porterà con sé altre due rivoluzioni: quella politica, in quanto rafforzamento della
democrazia a tutti i livelli di scala, e quella culturale. Perché in realtà, spiega Mance,
la Rete è l’intersecazione di tre dimensioni differenti: quella economica, quella
politica e quella culturale.
Il modello della rete internazionale della collaborazione solidale, proponendosi
come alternativa al sistema capitalista, si fonda pertanto su principi opposti a
quest’ultimo. Innanzi tutto al posto dell’individualismo, sia teorico che pratico, si
oppone il principio della collaborazione, la quale prevede l’inclusione e
l’integrazione di tutti nel processo produttivo e in quello di consumo.
Conseguentemente, si respinge l’idea di competitività e di concorrenza all’interno
della rete per lasciar spazio alla solidarietà. La collaborazione tra le cellule implica
pertanto che la rete sia acefala dal punto di vista economico, eludendo quindi la
possibilità che si creino monopoli o oligopoli. La rete di collaborazione solidale,
inoltre, oppone la «libera iniziativa solidale» alla «libera iniziativa privata»111, grazie
alla quale è possibile realizzare lo scopo ultimo delle reti solidali, ossia incrementare
il bem-vivir individuale attraverso l’incremento di quello collettivo. L’assunto di base
infatti, dice che è possibile migliorare la propria condizione personale soltanto in
misura in cui aumenta il bem-vivir della rete nel complesso. Al contrario, la libera
iniziativa privata, fondandosi sul concetto di utilità, guarda alla soddisfazione dei soli
interessi personali con poca, o nessuna, ricaduta sociale. La condizione necessaria
affinché la rete possa crescere è che ci sia la redistribuzione della ricchezza, evitando
ogni forma di concentrazione.
Inoltre, la collaborazione solidale, essendo una rete acefala, non presenta delle
concentrazioni territoriali e aborrisce pertanto, lo sviluppo di metropoli. Queste sono
il frutto della concentrazione geografica di capitale in determinati centri urbani i
quali si trasformano in nodi fondamentali (hubs), connessi a livello mondiale. Di
conseguenza l’occupazione del territorio avviene in maniera diseguale, con
111 Ivi, p. 47.
61
l’esclusione di alcune zone dall’economia mondiale, verso cui, invece, si espande la
rete di collaborazione solidale, accrescendo in tal modo il peso politico di tali zone.
Grazie alla rete di collaborazione solidale, lo sviluppo locale, che affonda le radici in
uno sviluppo ecologicamente sostenibile, risulta geograficamente distribuito in modo
equilibrato.
Infine, la rete di collaborazione solidale permette la creazione di posti di lavoro
grazie a un nuovo utilizzo della tecnologia, per cui si abbassano i prezzi dei prodotti
e si riducono le ore lavorative, al fine di godere di maggior tempo libero.
III.2.b. La cellula: unità base della rete
Nell’analisi di Mance la cellula è l’unità di base della rete. Ma affinché si possa
parlare di cellule è necessario, spiega il filosofo brasiliano, che le varie attività che
operano in un determinato territorio, nel campo dell’economia solidale, o che si
ispirano ai principi di tale economia, siano collegate tra loro attraverso flussi di
produzione e consumo. In seguito a una mappatura del territorio, che permetta di
segnalare le realtà già operanti nell’economia solidale, bisogna capire come
connettere tali attività al fine di costituire la cellula. Data la fragilità iniziale della
novella realtà collegata in rete, è fondamentale che essa si rivolga alle esigenze locali
e che i consumatori aderenti alla rete si rivolgano essenzialmente ad essa per
sopperire ai loro bisogni. Mance individua nella creazione di gruppi di acquisto
comunitari, uno strumento utile tanto ai consumatori, quanto ai produttori e illustra
schematicamente il circolo virtuoso generabile da tali gruppi di acquisto comunitari.
I consumatori, associandosi, risparmiano; allo stesso tempo assicurano una domanda
continua, favorendo la creazione di nuovi posti di lavoro. Questi accrescendo il
potenziale di consumo della rete, determinano nuovi gruppi d’acquisto comunitari,
assicurando il movimento autopoietico della rete.
Inizialmente la rete usufruirà maggiormente i canali di apertura verso l’esterno
piuttosto che quelli interni, dovendo rifornirsi di risorse che ancora non possiede. Ma
con il passare del tempo e attraverso la diversificazione dei suoi prodotti, e la
creazione di catene produttive delle varie cellule di produzione, il valore generato
all’interno della rete tende a circolare in essa e a non fuoriuscire. Ma non bisogna
62
dimenticare che lo scopo della rete non è tanto accumulare e concentrare ricchezza
quando distribuirla per accrescere il bem-vivir collettivo.
Le reti locali potranno poi connettersi a loro volta tra loro e creare così delle reti
macroregionali, fino ad arrivare alla creazione di una rete solidale mondiale, come
auspica Mance.
Per quanto riguarda il collegamento in rete, sia a livello locale che mondiale,
Mance ritiene fondamentale il supporto dell’informatica, al fine di realizzare il
decentramento del potere permettendo una efficiente circolazione di flussi
informativi, materiali e valoriali. In questo modo infatti i dati complessivi della rete
sono a disposizione immediata di ogni singola cellula. In altre parole, ogni cellula
contiene in sé tutto il DNA costitutivo della rete, in modo che essa possa essere
ricreata a partir da qualsiasi punto, in caso di catastrofe. Inoltre, grazie all’apporto
delle tecnologie informatiche, tutti possono partecipare allo stesso livello nel
prendere decisioni o nel fare proposte. Infine, l’utilizzo della tecnologia informatica
facilita la rete nei contatti con il modo esterno alla rete. A riguardo delle tecnologie
informatiche e della tecnologie in generale, Mance suggerisce che la rete deve
adottare un atteggiamento equilibrato, a metà tra la «tecnofobia» e la «tecnolatria» 112.
Le cellule nella rete produttiva posso sorgere con diverse modalità. In primo
luogo, Mance individua la «generazione spontanea»113 secondo cui alcune persone,
mosse dalla «libera iniziativa solidale», decidono di creare, ex-novo, una cellula
produttiva. Dopo un periodo di progettazione, in cui si effettua l’analisi del
territorio, delle esigenze di consumo e della produzione, al fine di non generare
bisogni indotti e di capire quale sia l’impatto sulle catene produttive già esistenti, si
passa alla fase dell’approvazione dove viene ascoltato il parere dei consumatori
attraverso metodi partecipativi.
Un’ altra modalità con cui si possono generare le cellule produttive, spiega
Mance, è «per fasi concatenate»,114 ossia una nuova cellula nasce per sopperire a
domande di consumo produttivo provenienti da altre cellule produttive. Si instaura
così una sequenza produttiva.
Una terza modalità riconosciuta è la generazione «per fissione», che può
avvenire per due motivi differenti. Da una parte, al fine di sopperire alla crescente
112 Ivi, p. 80.113 Ivi, p. 55.114 Ibidem.
63
domanda di consumo finale di un determinato prodotto, rimasta insoddisfatta a causa
dell’insufficienza produttiva della cellula preposta alla produzione di tale prodotto.
Dall’altra, la fissione può verificarsi nel caso in cui una cellula produttiva, a causa
della sua alta produttività, diviene iperconnessa, rischiando di diventare un hub e
quindi di accentare il poter e indebolire di conseguenza la rete solidale. Ogni cellula,
infatti, nell’analisi di Mance, non deve mai produrre al massimo del suo sforzo
produttivo, ma condividere tale sforzo in collaborazione con tutte le altre cellule
produttive del medesimo tipo.
Infine, Mance individua la genesi di una nuova cellula produttiva in ciò che egli
chiama «la riconversione del sistema», ossia quando alcune unità produttive operanti
nell’economia capitalista aderiscono al modello dell’economia solidale.
Mance, come abbiamo detto, vede nella cellula l’unità di base della rete ma, allo
stesso tempo, riconosce che la rete non esisterebbe se non ci fossero i collegamenti
che mettono in relazione le varie cellule. Queste si collegano tra di loro attraverso
flussi di produzione e consumo che permettono l’accrescimento della rete, attraverso
i principi della diversità e dell’integrazione. In realtà, ogni sistema economico si
configura secondo questo rapporto di scambio tra produzione e consumo. La logica
dell’economia capitalista, però, si fonda sull’idea di competizione, secondo cui si
cerca continuamente di creare dei vantaggi, rispetto a terzi, attraverso il processo di
produzione. Non così avviene nelle catene di produzione interne alla rete, dove,
abbiamo visto, vige il principio della collaborazione e della solidarietà. Nella rete,
inoltre, la produzione è al servizio delle esigenze dei consumatori locali e della
collettività in generale, per cui la produzione è massimizzata in funzione del bem-
vivir collettivo.115
Il consumo di rete, come qualsiasi altro consumo, si divide in due categorie: il
consumo finale e il consumo produttivo. Entrambe le forme sono presenti in ciascuna
cellula, ma occorre sezionare analiticamente le due forme di consumo, prendendo in
considerazione separatamente, da una parte, la rete di consumo e dall’altra, la rete di
produzione. In questo modo, si comprende meglio quale sia la domanda per le risorse
finalizzate a mantenere l’apparto produttivo e, invece, quale sia la domanda per il
consumo finale nella rete di consumo. Secondo Mance, le cellule di produzione e di
servizio devono partire effettivamente della domanda-esigenza proveniente dalle
115 Ivi, p. 170.
64
cellule di consumo. Per cui la costruzione di un rapporto diretto tra produttori e
consumatori parte dalle esigenze di quest’ultimi.
E’ importante, a questo proposito, al fine di garantire il successo del modello di
rete nel processo produttivo e di consumo, conoscere il «punto di equilibrio»116 di
una rete, ossia quel punto in cui la rete può perpetrare all’infinito il suo movimento
autopoietico. Da un punto di vista strettamente economico significa individuare il
livello minimo dell’out-put finale complessivo della rete, tale da assicurare il
mantenimento delle varie unità produttive. Secondo la metodologia SEBRAE, sigla
dell’organismo di sostegno alle piccole imprese in America Latina, è la composizione
organica di ogni singola cellula che permette di calcolare e individuare il punto di
equilibrio della rete. Con il termine di composizione organica si fa riferimento alla
relazione che intercorre tra i mezzi di produzione e la forza lavoro viva impiegata
nella rete. Rispetto ai modelli SABRAE, dove è prevista la competizione tra le varie
unità produttive, con la conseguente produzione in scala, nella rete proposta da
Mance, le cellule di produzione sono chiamate a collaborare grazie alla pratica del
consumo solidale. Le eccedenze infatti vengono negoziate collettivamente e,
pertanto, risultano sempre equilibrate rispetto alla composizione organica della rete,
la cui proporzione tra tecnologia e forza lavoro risulta a vantaggio di quest’ultima,
senza che per questo venga sottovalutata la prima. In questo modo non si sviluppa
un’economia di velocità e competizione, bensì «un’economia di scopo»117, dove la
produzione è guidata dalla domanda di consumo.
III.2.c. Collaborazione solidale ed economia solidale a confronto
Mance propone l’articolo dell’economista sud americano Paul Singer,
“Economia solidale contro la disoccupazione”,118 per criticare alcune proposte e
strategie dell’economia solidale esplicitate in tale articolo, per evidenziarne le
differenze con ciò che egli chiama collaborazione solidale e, infine, per sottolineare
invece proposte e strategie efficaci.
116 Ivi, p. 139.117 Ivi, p. 140.118 In questo articolo sono presenti alcune proposte e strategie inserite nel programma di governo del partito PT (Partidos dos Trabalhadores) in occasione delle elezioni municipale del 1996, nella città di San Paolo.
65
Secondo Singer, l’economia solidale può presentarsi come effettiva alternativa
economica e sociale al modello capitalista solo subordinatamente a una volontà
politica delle autorità. In altre parole, non è sufficiente un movimento spontaneo che
nasca dal basso, ma è necessario sia l’intervento e il supporto dello Stato da un punto
di vista economico, sia il riconoscimento socialmente conferito a questo sistema
produttivo da un patrocinio esterno.
Nel modello delle reti proposto da Mane, invece, lo Stato non è necessario né
per dare il via al sistema né per implementarlo o sorreggerlo. Tuttavia, Mance
riconosce come interventi statali favorevoli alle reti, possano generare un effetto
positivo sullo sviluppo delle stesse. Mance inoltre, sottolinea come siano ancora
molte le visioni che considerano necessaria l’azione dei governi per avviare o
sostenere l’economia solidale e spiega che tale concezione è da correggere, poiché
non di fonda sul modello della complessità. Detto altrimenti, negando il carattere
endogeno ed autopoietico di quelle realtà che si connettono in rete, le si condanna al
fallimento, facendole dipendere dall’esterno.
Secondo Singer, inoltre, è impensabile prescindere dalla competizione e dalla
concorrenza delle imprese che operano nel campo dell’economia solidale, «affinché
ciascuna di esse sia stimolata a migliorare la qualità e a ridurre i costi»119. Opposto è
il pensiero di Mance, il quale ritiene invece, che
l’elemento qualificante della produzione non sia la competizione tra le unità lavorative [...] ma la
valutazione pubblica dei consumatori, che hanno anche l’autonomia per determinare cambiamenti nei
prodotti e nei servizi offerti dalla rete120.
Singer, giustifica la presenza della competitività escludendo che le attività
economiche interne all’economia solidale «possano essere di poveri a favore dei
poveri». Mance, dal canto suo, risolve questo passaggio proponendo che il concetto
di competitività venga sostituito con quello di solidarietà, grazie alla quale «i poveri
possono essere soggetti economici della propria liberazione».121
In aggiunta, Singer considera necessario un periodo in cui il nascente mercato
dell’attività dell’economia solidale sia protetto dalla concorrenza esterna, visto che
119 P.SINGER, Globalizacao e Desemprego- Diagnostico e Alternativas, Editora contexto, San Paolo, 1998, p. 123, cit. in E.A.MANCE, La rivoluzione delle reti...cit. p. 184.120 E.A.MANCE, La rivoluzione delle reti.... cit. p. 184.121 Ivi, p. 185.
66
gli ex disoccupati, i principali soggetti interessati a dare avvio a forme di economie
solidali, «hanno bisogno di un periodo di apprendistato per acquistare efficienza e
conquistare i clienti»122. Ma tale strategia implica che l’obbiettivo finale delle
imprese dell’economia alternativa sia di operare nel mercato capitalista una volta
raggiunto un certo grado di competitività, e non già di instaurare un nuovo modello
di relazioni e di scambio. Quest’ultimo aspetto è invece la meta che si prefigge la
collaborazione solidale proposta da Mance attraverso la rivoluzione delle reti.
Infine, Singer prevede la creazione di una moneta locale, spendibile solamente
all’interno del circuito economico dell’economia solidale, con lo scopo di proteggere
ulteriormente tale settore, obbligando verso quest’ultimo i consumi degli ex-
disoccupati. Mance invece, aborrendo un tale scopo assegnato alla moneta locale,
ritiene che
la garanzia del consumo dei prodotti e il ricorso ai servizi effettuati nella Rete di Collaborazione
Solidale abbia bisogno di una libera decisione dei partecipanti che ad essa si integrano123.
La libera decisione è data dalla consapevolezza di chi pratica il consumo
solidale, che questo è finalizzato al bem-vivir individuale e collettivo. Mance, dal
canto suo, non nega a priori la validità di una moneta locale, ma non considera
realistica l’adozione di un tale strumento prescindendo del tutto dalla moneta
ufficiale. Egli infatti è consapevole che nella fase iniziale della rete, essendo essa non
ancora in grado di rispondere a tutte le domande interne, dovrà avvalersi dei prodotti
del mercato capitalista, e per far ciò necessiterà quindi della moneta ufficiale.
Tuttavia egli auspica che alla fine si possa abolire la moneta come strumento di
scambio, pur ritenendo necessaria una qualche misura virtuale di valore per
consentire gli scambi.
Nel complesso, il modello proposto da Singer, è verosimilmente più soggetto ad
andare incontro a fallimenti in quanto non è auto riproducibile, non spontaneo bensì
eteroindotto e dipendente da un sistema esterno. Al contrario, quello proposto da
Mance, rispondendo ai criteri di spontaneità e di complessità, permette di esser auto
riproducibile.
122 P.SINGER, Globalizacao e Desemprego, cit. p. 122, cit. in E.A.MANCE, La rivoluzione delle reti... cit. p. 185.123 E.A.MANCE, La rivoluzione delle reti... cit., p. 186.
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Mance ha presentato, utilizzando il paradigma della complessità, un’alternativa
economia al sistema capitalista. La tesi iniziale dell’autore afferma che un’unità
produttiva, grazie alla pratica del consumo solidale, è in grado, non solo, di vendere
tutta quanta la produzione, ma anche di generare un surplus capace di innescare
nuove cellule produttive. Una seconda tesi afferma che è possibile per gli esclusi dal
sistema capitalista di organizzarsi in attività produttive a partire dal consumo.
Unendo le due tesi, Mance arriva a sostenere che oggi è possibile una rivoluzione
economica, se i vari soggetti che cercano un’alternativa economica al capitalismo si
collegano, creando una rete di collaborazione solidale. Tale rete, inoltre, avrà valenza
non solo economica ma anche politica e culturale.
III.3 La Rete di Economia Solidale in Italia
III.3.a Cantieri in costruzione
Il modello della Rete di Collaborazione Solidale, proposto da Euclide Mance, è
alla base dell’incipiente esperienza italiana. Qualche anno fa, in Italia, in seguito alle
sollecitazioni provenienti dalla Rete di Lilliput124, accolte successivamente da una
serie di realtà operanti separatamente nell’economia solidale si è dato avvio al
processo che punta alla realizzazione della Rete di Economia Solidale italiana (RES).
Il primo passo, realizzato a Verona il 19 ottobre del 2002, è stato quello di creare
uno spazio di confronto, attraverso un seminario dal titolo “Strategie di rete per
l’economia solidale”. Il quesito attorno al quale ruotava il confronto era se fosse
possibile ragionare per reti, sotto l’influsso delle vicine esperienze spagnola e
francese, e di quelle più lontane dell’America Latina, nella costruzione di un nuovo
modello economico, alternativo a quello dominante. In seguito alla risposta positiva a
tale interrogativo, si è costituito un gruppo di lavoro per la “Rete di Economia
Solidale” con lo scopo di portare avanti una riflessione concreta sull’argomento
proponendo modelli teorici da legare all’esperienza delle varie realtà di economia
solidale.
La prima proposta fu quella di creare dei Distretti di economia solidale, ossia
delle reti di dimensione locale, a livello cittadino, in grado di organizzare tutti i
124 Rimandiamo al sito web: www.retedililliput.it
68
soggetti che, su versanti diversi, producessero beni e servizi locali e/o in seno
all’economia solidale. Al fine di creare una base valoriale comune tra i soggetti
aderenti ai Distretti, si è voluto creare una Carta di intenti, in cui sono espressi i
principi che dovrebbero guidare e indirizzare le varie esperienze di economia
solidale. La Carta di intenti rimanda al triangolo della sostenibilità, i cui tre vertici
sono rappresentati dall’economia, dalla società e dall’ambiente. I principi ai quali si
ispira sono pertanto i seguenti: un’economia di giustizia volta a creare maggior
equità sociale, la valorizzazione della dimensione locale e, infine, la sostenibilità
ecologica. La Carta, inoltre, contiene un quarto punto inerente al metodo da applicare
al fine di realizzare i principi esposti, ossia il metodo della partecipazione attiva, cui
i soggetti dei Distretti sono chiamati a implementare per concertare le «modalità
concrete di gestione dei processi economici propri del distretto stesso»125.
La neo realtà dei Distretti non fa però riferimento al concetto di «sviluppo
sostenibile» così inteso secondo il Rapporto Bruntalnd, inserendosi invece in quella
nuova corrente di pensiero antiutilitarista che, in antitesi al concetto di sviluppo
sostenibile ritenuto un ossimoro, oppone la parola “decrescita”126, da intendere però,
come uno slogan piuttosto che come un vero e proprio concetto.
Lo scopo dei distretti è quello di mettere in diretto contatto, legandoli
strutturalmente, i produttori con i consumatori, da un lato, e dall’altro, questi con le
pubbliche amministrazioni, come per esempio si propone la Rete dei Nuovi
Municipi. Essa è una rete nazionale in cui rientrano gli enti pubblici e centri di
ricerca che lavorano in sincronia per proporre progetti partecipati e partecipativi.
Pertanto, la Carta definisce i Distretti come
“laboratori” di sperimentazione civica, economica, e sociale, in altre parole come esperienze
pilota in vista di future e più vaste applicazioni dei principi e delle pratiche caratteristiche
dell’economia solidale127.
Al momento attuale, la questione principale inerente alla costruzione di
Distretti, riguarda la forma, assolutamente nuova, di rete, che le varie esperienze di
125 Dalla Carta di intenti della Rete di Economia Solidale italiana, nei Documenti “Oltre il pensiero unico” , scuola estiva, Gerace 23-28 settembre 2004, raccolti da Forum e Cooperazione e Tecnologia, Milano.126 Rimandiamo al terzo paragrafo del VI capitolo del presente elaborato.127 Dalla Carta di intenti... cit.
69
economia solidale devono assumere. E’ necessario pertanto un ingente e alquanto
specifico lavoro per riuscire ad aggregare in maniera integrata tutti i soggetti in
campo, in modo da far incontrare facilmente domanda e offerta di beni e servizi,
esigenze e soluzioni. Il distretto, grazie alla messa in rete di tutti i soggetti già
operanti nell’economia solidale (le Botteghe del Mondo, i Gruppi di Acquisto
Solidali, , le organizzazioni della finanza etica, il Turismo responsabile, le
cooperativa sociali ecc..) dovrebbe assolvere completamente alle principali funzioni
economiche quali produzione, consumo, distribuzione e finanziamento.
Affinché si possa parlare di distretto è necessario definire un territorio che abbia
o che costruisca nel tempo un significato, una narrazione. In questo caso la parola
territorio potrebbe rinviare metaforicamente a uno spazio immaginario, non per forza
caratterizzato da una contiguità fisica, quanto piuttosto da una continuità di
significato e di narrazione e quindi di relazione. Le incipienti esperienze di Distretti a
livello italiano, si configurano per ora semplicemente come entità territoriali fisiche.
Per dare vita a un distretto bisogna capire, innanzitutto, quali soggetti sono interessati
a un tale discorso. Nell’esperienza italiana un ruolo decisivo in qualità di promotori e
propulsori, lo hanno giocato i Gruppi di Acquisto Solidale (GAS). Essi, infatti, sono
cruciali nel definire e cogliere la domanda che risponde al quesito “quali esigenze
presenta il territorio”. Una volta decodificata la domanda, si dovrebbe procedere con
la creazione di filiere produttive corte, cerchi chiusi di circa 50 km.
Le reti esistenti a livello cittadino, ossia i Distretti, non sono molto numerose e,
sono diverse l’una dall’altra. Le principali esperienze esistenti si trovano a Roma,
Torino, Como, Milano e Venezia, e tanti altri progetti sono agli inizi.
III.3.b. Domande e questioni aperte128
Secondo alcuni manca una riflessione sul ruolo della politica tradizionale nelle
riflessioni della RES, per cui si corre il rischio di ridurre la politica al solo andare a
fare la spesa praticando il consumo critico, sostenendo che, ogni volta che si fa la
spesa, è come se si votasse. Sebbene questo sia giusto, è necessario distinguere il
“fare politica” dal fare un’azione con valenza politica. Tuttavia, non bisogna
dimenticare che i soggetti facenti parte della RES si muovono, e hanno scelto di 128 Domande e questioni sollevate durante la Scuola Estiva “Oltre il pensiero unico”, Gerage, 23-28 settembre 2004.
70
muoversi, su un terreno prevalentemente economico, quindi su un terreno specifico,
anche se con un progetto di trasformazione, non solo del terreno in questione, ma
anche dei soggetti in esso operanti. L’idea di fondo, infatti, è che attraverso un
progetto locale129 si possa influenzare i soggetti operanti nel campo, la società nel
complesso e, soprattutto, le istituzioni pubbliche. Continuando sull’onda della prima
obiezione si critica la modalità di gestione del distretto: nella carta di intenti si fa
riferimento al modello della partecipazione. In realtà non viene specificato in alcun
modo come questo possa avvenire. Si contesta soprattutto la volontà di risolvere ogni
problematica con la sola auto organizzazione dal basso, vedendo in questa pratica il
rischio di chiudersi nel localismo, a fronte di una sempre maggior interdipendenza
del mondo.
Legato a quanto detto, non è ancora chiaro quale modello di relazione si debba
instaurare con le istituzioni pubbliche e, tanto meno, con il mercato. Alcuni
sostengono la necessità di una contaminazione, di una commistione tra mercato ed
economia solidale. Il rischio però è che, talvolta, le attività svolte secondo i criteri
dell’economia solidale, a causa di tale commistione ritenuta imprescindibile con
l’economia di mercato, seguano infine il paradigma di quest’ultima, come è
accaduto, in parte, alle cooperative e al terzo settore. Il problema maggiore in realtà è
capire quale modello di economia alternativa, all’insegna della decrescita e dei
rapporti di reciprocità, si vuole instaurare nei distretti e, quindi, proporre ai
consumatori.
Infine,un’altra questione aperta rimane quella inerente al possibile ruolo
ricopribile dalle monete locali, o complementari,130 all’interno dei Distretti e della
RES.
La questione riguardo alla natura del rapporto che i Distretti e la RES devono
instaurare con l’ambiente esterno è affrontata dallo studioso Giuseppe Dematteis,
sebbene l’oggetto della sua analisi non sia la Rete di Economia Solidale italiana, né
tanto meno i Distretti, quanto i «sistemi locali territoriali».
III.3.c. Distretti come sistemi locali territoriali, ossia città dell’abitare
129 Rimandiamo al secondo paragrafo del IV capitolo del presente elaborato.130 Cfr. M. PITTAU, Economia senza denaro. I sistemi di scambio non monetario nell’economia di mercato, Bologna, EMI, 2003.
71
L’analisi che Dematteis ha condotto sui sistemi locali territoriali è incentrata
sullo sviluppo locale. In altre parole, egli si chiede in che modo un sistema locale
possa essere protagonista di uno sviluppo locale. Interrogarsi sullo sviluppo locale,
conduce Dematteis ad affrontare inevitabilmente la questione legata al rapporto
locale-globale, che egli risolve proponendo la metafora di rete, invece che quella
obsoleta di centro-periferia. Prima di addentrarci nella teorica analisi di Dematteis,
attraversiamo il campo immaginativo, fatto di idee e visioni del possibile, perché
l’analisi acquisti più colore.
Alberto Magnaghi nel suo libro Il progetto locale131, parla della necessità di uno
«scenario strategico»132, che definisce «più come interpretazione di futuri possibili
che non come invenzione di futuri desiderati»133, al fine di realizzare una città che
affondi le radici nello sviluppo locale autosostenibile134 e che si possa configurare
come manifesto del progetto locale. Realizzare lo scenario strategico interpretando,
significa intravedere in filigrana il progetto della comunità, nascosto nei
comportamenti e negli atteggiamenti individuali e quotidiani, intrappolato nella
composizione sociale del lavoro e nelle esigenze di tutti i giorni. Perché, come
ricorda Dematteis parafrasando quanto affermato da Vagaggini,135 lo sviluppo locale,
prima ancora di costituirsi come un problema di mercato, è un problema di
comunicazione, - e, aggiungiamo, di relazione - ossia di linguaggio e
rappresentazione. Sono le «mappe invisibili»136, da cui bisogna disegnare quelle
visibili.
La città dell’abitare, configurandosi pertanto come un futuro possibile, è
descritta come
un luogo ospitale, che riconosce il tempo luogo della propria storia; [...] coltiva la bellezza dei
propri spazi collettivi, [...] sviluppa forme non mercificate di scambio e di lavoro, individua nuove
forme di municipalità adatte all’autogoverno di questa complessità di azioni [...]137
131 Cfr. A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit.132 Ivi, p. 153.133 Ivi, p. 156. Magnaghi si riferisce alla classificazione proposta da Francesco Indovina nel seminario Cnr sui futuri della città, Roma, 21 febbraio 1998. 134 Rimandiamo al secondo paragrafo del quarto capitolo del presente elaborato.135 Cfr. V. VAGAGGINI, Sistema economico e agire territoriale, Milano, Angeli, 1990, cit. in G. DEMATTEIS, Possibilità e limiti... cit., p. 54.136 Cfr. G. OLSSON, «Invisible map. A prospectus», Geografiska Annaler, sez. B, vol. 73, cit. in G. DEMATTEIS, Possibilità e limiti... cit., p.46.137 A. MAGNAGHI, La città dei luoghi virtuali, in «Eupolis», 7, cit. in A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 182.
72
In altre parole Magnaghi potrebbe aver descritto un Distretto di economia
solidale. La caratteristica principale della città dell’abitare è che, pur avendo una
sostanza unica, essa si può declinare in molteplici forme, a seconda di dove si
sviluppa. Tuttavia, ciò che accomuna le molteplici forme possibili è l’idea che, a
partire dagli esclusi del sistema, è necessaria la rinascita dell’idea di comunità. Dove
«il significato di comunità è che gli individui si adoperino a vicenda come risorse»138
e dove l’identità della società locale si connatura come «progetto» e non come «una
statica condizione originaria»139. Inoltre, dalla sostanza unica che connatura la città
dell’abitare
emerge con forza una finalizzazione solidale ed etica dell’attività produttiva, formativa,
comunicativa; sia nella direzione della costruzione di scambi economici finalizzati non solo alla
produzione di merci sul mercato ma anche alla produzione di beni pubblici, sia nella costruzione di
reti distributive e mercati locali legati alla cura ambientale e alla valorizzazione delle risorse locali e
delle loro peculiarità locali.140
Ne consegue che l’agricoltura non è più considerata un settore economico
residuale, ma fondante dell’economia della nuova città, dove vige la consapevolezza
che «la terra è all’origine di ogni risorsa naturale e umana e della riproduzione della
vita».141 Di conseguenza gli abitanti della città dell’abitare non conoscono il
problema ecologico. Questo infatti, è generato da un rapporto squilibrato tra l’uomo
e la natura,
un rapporto che, a differenza di quello che con essa stabiliscono gli animali, non è diretto e naturale
[...] è mediato dall’economia. Tra l’uomo e la natura si interpongono, infatti, i complessi e dinamici
processi di produzione, distribuzione, consumo e accumulo.142
138 P. GOODMAN, Individuo e comunità,trad. it., Milano, Eleuthera, 1995, p. 75, cit. in A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 109.139 G. PABA, I cantieri sociali per la ricostruzione della città, in A. MAGNAGHI, (a cura di), Il territorio degli abitanti, Milano, Douod, 1998, p. 90, cit. in A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 108.140 A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 114.141 Ivi, p. 168.142 L.RAZETO, Le dieci strade....cit., p. 116-117.
73
La città dell’abitare, intendendo l’economia come «un processo di scambio
vitale tra l’uomo e la natura, per il quale entrambi risultano trasformati»143, instaura
una relazione di reciprocità con l’ambiente in cui vive, tale per cui è impossibile che
si generi un disagio ecologico.
La città dell’abitare ideata da Magnaghi, assumendo in tutto e per tutto i
connotati di un ipotetico Distretto di economia solidale, può altrimenti essere letta
come un «sistema locale», secondo l’analisi proposta da Giuseppe Dematteis. Un
sistema locale è
un aggregato di soggetti che in varie circostanze può comportarsi di fatto come un soggetto
collettivo anche se non è formalmente riconosciuto come tale.144
Quando agisce come soggetto collettivo, tale insieme si presenta con una sua
propria identità, differente dalle identità dei singoli soggetti che lo compongono, e di
cui quest’ultimi sono coscienti. Oltre a un’identità propria, il sistema locale si
munisce anche di regole informali, tali da permettergli di interagire con l’esterno. Lo
scopo ultimo del sistema locale, così definito, non si risolve più nel produrre qualche
cosa, bensì nel «produrre e riprodurre se stesso»145. Da questa breve descrizione è
possibile riconoscere come all’interno dei sistemi locali operino i principi della teoria
sistemica.
Dematteis precisa che «locale» non necessariamente è sinonimo di
«territoriale». Infatti i confini di un sistema locale possono essere determinati, non da
un punto di vista geografico, bensì concettuale. In altre parole, non occorrono mappe
geografiche per rilevarli sulla carta, quanto piuttosto delle «mappe invisibili» che
rappresentino il codice normativo e comportamentale del sistema. Tuttavia,
Dematteis si concentra sui sistemi locali territoriali, individuando alcuni tratti
distintivi. Innanzitutto, ciò che identifica un sistema locale territoriale è il luogo
fisico che accomuna tutti gli abitanti di una determinata zona, per il modo che questi
hanno sviluppato, nel tempo, di rapportarsi con tale luogo. Dematteis chiama lo
specifico luogo in questione «milieu», definendolo come
143 Ivi, p. 117.144 G. DEMATTEIS, Possibilità e limiti ... cit., p. 45. 145 Ibidem.
74
un insieme permanente di caratteri socio-culturali sedimentatesi in un certa area geografica
attraverso l’evolvere storico di rapporti intersoggettivi, a loro volta in relazione con le modalità di
utilizzo degli ecosistemi naturali locali.146
Le relazioni che i soggetti locali intraprendono all’interno e con il proprio
milieu, vengono definite «verticali». Queste, però, non sono sufficienti, secondo
Dematteis, per garantire uno sviluppo, seppure locale. Affinché questo abbia luogo è
necessario innanzitutto che avvenga la cosiddetta «valorizzazione territoriale».
Quest’ultima si determina grazie all’interazione tra le relazioni «verticali», con
quelle «orizzontali», ossia sovra-locali, non per forza solo di mercato, ma anche
istituzionali. La semplice valorizzazione territoriale, però, spiega Dematteis
concordando con Magnaghi, non è sufficiente per garantire lo sviluppo locale.
Questo, infatti, rispetto alla valorizzazione territoriale, che si configura generalmente
come una dipendenza esogena e quindi come un processo di sviluppo reversibile, si
presenta a tutti gli effetti come endosviluppo, in quanto innesca processi endogeni
non reversibili, e attiva giochi a somma positiva.
All’interno del rapporto globale-locale, i sistemi locali si configurano come
«nodi di reti globali»147.Utilizzando il concetto di rete nella sua valenza metaforica e
non in quella materiale, esso diviene una raffigurazione astratta delle connessioni tra
soggetti, ma allo stesso tempo si configura come rappresentazione territoriale, in
quanto i soggetti in questione - nella fattispecie i nodi delle reti - sono localizzati
geograficamente. Dematteis distingue due punti di vista. Il primo punto di vista è
esterno al sistema locale e si gioca su un livello globale in cui i vari sistemi locali,
funzionando come nodi, sono connessi in rete. Il sistema locale territoriale si
configura come sottoinsieme aperto del sistema globale. Questa è la logica
economica “dominante”, in cui le parti sono controllate esogenamente dal sistema
globale. Il secondo punto di vista è, invece, interno al sistema locale e il suo fulcro è
pertanto, il livello locale. Il sistema territoriale locale, in questo caso, funziona esso
stesso come rete i cui nodi sono i singoli soggetti presenti sul territorio. Il punto di
vista interno al sistema locale interpreta i sistemi locali come modelli auto
organizzanti e autopoietici. Infatti ciascun sistema è dotato di una sua identità e di
146 G. DEMATTEIS, Possibilità e limiti... cit., p.47.147 Cfr. F. CURTI, L, DIAPPI, (a cura di), Gerarchie e reti di città: tendenze e politiche, Milano , Angeli, 1990, cit. in G. DEMATTEIS, Possibilità e limiti... cit., p.50.
75
una capacità di comportamento autonomo, non dipendente dal sistema globale.
Riprendendo i termini della teoria sistemica della complessità, esposti poco sopra,
Dematteis intende il rapporto tra nodo e rete come un accoppiamento strutturale.148
Grazie all’autonomia organizzazionale, e alla flessibilità strutturale i sistemi
territoriali locali e, quindi, i Distretti, possono interagire e confrontarsi con
l’ambiente esterno, cioè con la realtà globale, senza venirne distrutti o assimilati.
L’accoppiamento strutturale permette la realizzazione di reti in cui convive un
equilibrio sistemico tra forme di competizione e forme di cooperazione cioè
un mondo ricco di qualità e diversità che, come ci insegnano le scienze della vita, è l’unico
contesto in cui un certo grado di competizione diviene veicolo di ulteriore ricchezza e non la causa
dell’appiattimento globale e della distruzione reciproca.149
Questo perché la rete mette in collegamento organizzazioni, in senso sistemico,
diverse. E per comprendere quest’ultime è opportuno prestare attenzione alla
dinamica coevolutiva della cooperazione e della competizione, della creazione del
conflitto che tali organizzazioni sottendono e, infine, bisogna prestare attenzione al
mutamento e alla creazione di adattamenti a condizioni nuove.150
Grazie all’analisi di Dematteis, inoltre, è possibile tratteggiare quale rapporto i
Distretti debbano instaurare con la Rete nazionale. Nel discorso dello sviluppo
locale, da un punto di vista geografico, il «radicamento territoriale»151 è assunto
come categoria chiave. Infatti, al sistema territoriale locale, ovvero al Distretto,
radicato in un milieu, spetta il compito della produzione di beni e servizi, grazie alle
relazioni verticali. Al contrario, ai sistemi a rete, ovvero alla RES, è demandato il
compito della distribuzione e circolazione di flussi. «I sistemi a rete sono dunque
trans-territoriali, ma non del tutto deterritorializzati».152
Ogni Distretto pertanto, dovrebbe fare proprio l’efficace motto: “agisci
localmente pensando globalmente”.
148 Rimandiamo al primo paragrafo del presente capitolo.149 M. BOMAIUTI, Introduzione, in N. GEORGESCU- ROEGEN, Bioeconomia....cit., p. 61.150 L. DAL LAGO, U. MORELLI,, Organizzazione, in TELFENER, L. CASADIO (a cura di), Sistemica... cit., p. 438.151 G. DEMATTEIS, Sistemi locali e reti globali: il problema del radicamento territoriale, in Archivio di studi Urbani e Regionali, n. 53, 1995.152 Ivi, p. 46.
76
CAPITOLO IV
UN’ECONOMIA DI RELAZIONE ALL’INSEGNA
DELLA COMPLESSITA’
A questo punto dell’analisi, dopo esserci soffermati sul paradigma delle reti, sia
a livello teorico, che applicato al campo dell’economia, possiamo incominciare a
sostenere che un’economia di relazione, non solo è possibile, ma esiste già, tanto al
Nord quanto al Sud. Seppure essa assuma diversi nomi a seconda del contesto in cui
si sviluppa, tutte le esperienze economiche fondate sulla relazione, possono
riconoscersi sotto il nome comune di economia solidale. Come sottolinea, in modo
alquanto esplicativo il seguente pensiero di Gaudencuio Frigotto, riportato nel libro
di Mance:
la fine dell’età dell’oro del capitalismo e la realtà crescente della disoccupazione strutturale,
della precarizzazione e la perdita di dignità del lavoro salariato costituiscono un quadro socio-
economico, culturale ed esistenziale riguardante milioni di lavoratori, di cui i classici concetti di
economia e mercato formale non danno conto. Nuove categorie e concetti, come economia di
sopravvivenza, economia solidale, economia associativa e popolare, cercano di esprimere
un’eterogenea e complessa rete di modalità di sopravvivenza153.
Tuttavia, non possono passare inosservate alcune rilevanti differenze, che
distinguono soprattutto le esperienze di economie di relazione al Sud da quelle del
Nord. La diversità maggiore risiede principalmente, nella natura della genesi di tali
esperienze. Mentre al Sud esse si configurano spesso come unica risposta possibile ai
fini della sopravvivenza, rivestendo un carattere di necessità e presentando
dimensioni collettive di ampia portata sociale al Nord, le esperienze di economia
solidale nascono piuttosto, come scelte individuali o di gruppi ristretti, motivate da
principi valoriali e culturali, alla cui base risiede un atto di volontà e non di necessità,
per lo meno non di sopravvivenza, sebbene potrebbe essere una necessità di tipo
morale.
153 E. A. MANCE, La rivoluzione delle reti... cit.,p. 174.
77
Conseguentemente, al Sud, il fenomeno è prevalentemente spontaneo e istintivo,
nel senso di non progettato né tanto meno istituzionalizzato. Invece, al Nord,
nascendo da un atto volitivo preciso e motivato, il fenomeno, tanto delle singole
esperienze, quanto quello di realizzazione di reti, tende a istituzionalizzarsi, avendo
alla base un progetto preciso. Ma, essendo quest’ultimo un progetto di gruppi
minoritari rispetto alla società complessiva, l’esperienza dell’economia solidale
rimane ancora prevalentemente un fenomeno di nicchia. E quando tenta di porsi
come fenomeno sociale più ampio, come nel caso dei Distretti, rischia di generare
scissione tra il gruppo promotore dell’esperienza, il quale tende a porsi come leader,
e il resto della gente tendenzialmente indifferente sull’argomento e soprattutto restia
a cambiare stile di vita.
Sulla base dell’interrogativo iniziale, “può esistere, e con quali caratteristiche,
un’economia di relazione?” si può affermare di avere dato risposta alla prima parte
del quesito. Infatti un’economia di relazione esiste già, o meglio, esistono forme
plurime di economie fondate sulla relazione. In questo capitolo, senza volere
compiere un’opera di astrazione eccessiva, proveremo, allora, a delineare un modello
di un’economia di relazione, illustrandone le caratteristiche peculiari. Al fine di
rispecchiare fedelmente la natura complessa della natura umana, intesa come
relazione con se stessi, con gli altri e con l’ambiente circostante, riteniamo
fondamentale e imprescindibile coniugare il modello di un’economia di relazione
secondo il paradigma della complessità. Pertanto, vedremo come il modello di
un’economia di relazione possa trarre origine, principalmente da due approcci,
entrambi implicanti il concetto di relazione.
Il primo, che presuppone una relazione spazio- temporale, è un approccio volto
al sincretismo tra le varie e differenti esperienze di economia fondate sulla relazione,
esso mette in relazione economie differenti nel tempo, opera quindi un sincretismo
diacronico, e differenti nello spazio, operando dunque un sincretismo sincronico. Il
secondo approccio, definito «antropobiocentrico»154, presuppone una relazione
interdipendente tra l’uomo e l’ambiente in cui vive e conseguentemente una
relazione locale-globale di tipo sistemico. Infine arricchiamo il modello, con la
nuova teoria economico sistemica proposta dall’economista Mauro Bonaiuti.155
154 Cfr. A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit.155 Cfr. M. BOMAIUTI, Introduzione, in N. GEORGESCU- ROEGEN, Bioeconomia... cit.
78
IV.1. Sincretismi tra nord e sud, tra passato e presente
Incominciamo con uno sguardo diacronico, volgendo l’attenzione a quanto
Marcel Mauss ha scoperto e riportato nel Saggio sul dono, il cui scopo principale, lo
ricordiamo, era quello di indagare sulla natura delle transazioni umane nelle società
primitive. Mauss, scoprendo l’agire della morale e dell’economia nelle transazioni da
lui esaminate e identificando il dono come uno dei fondamenti su cui sono costituite
tutte le società, conclude la sua introduzione al saggio dicendo che, poiché:
la morale e l’economia operano ancora nelle nostre società in modo costante, e per così dire,
soggiacente, e poiché crediamo di avere trovato qui uno dei capisaldi su cui sono costruite le nostre
società potremo dedurne alcune conclusioni morali su taluni problemi posti dalla crisi del nostro
diritto e da quella della nostra economia [...]156
e conclude dicendo che
Il sistema che proponiamo di chiamare delle prestazioni totali [...] costituisce il più antico
sistema economico e giuridico che ci sia dato di constatare e di concepire. Esso forma lo sfondo da cui
si è distaccata la morale del dono-scambio. Ora, fatte le dovute proporzioni, tale sistema è
precisamente dello stesso tipo di quello verso il quale vorremmo veder dirigersi le nostre società.157
A questo proposito, partendo proprio dagli studi di Mauss, lo studioso francese
Alian Callié propone il «paradigma del dono»158, come terzo paradigma da
contrapporre ai due paradigmi fondamentali delle scienze sociali: quello utilitarista,
che risale all’economia neoclassica e, quello collettivista, il cui padre è il sociologo
Emile Durkheim. Secondo il primo modello d’analisi, definito anche, come abbiamo
visto, individualismo metodologico, il rapporto sociale, e quindi gli eventuali doni o
scambi, è visto come la sommatoria dell’intreccio dei singoli calcoli individuali. Nel
secondo, invece, l’individuo non è propriamente autonomo, ma assoggettato alle
regole della società in cui vive: sono i legami sociali, pertanto, che spingono a
donare. Nessuno dei due, però, affronta e spiega la genesi dei legami sociali. Allian
156 M. MAUSS, Saggio sul dono, Torino, Einaudi, 2002, (ed. orig. 1950), p. 7.157 Ivi, p. 123.158 Cfr. CALLIE’, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Torino, Bollati Boringhieri, 1998.
79
Caillé, proponendo un terzo paradigma, suggerisce la lettura secondo cui il dono
costituirebbe lo strumento cardine utilizzato dagli uomini per creare i legami sociali,
per promuovere relazioni e quindi per creare e riprodurre la società in cui vivono,
senza la quale non potrebbero esistere. L’accettazione di un tale paradigma implica,
però, aggiungere altro ad una terza accezione di valore, ossia il valore di legame,
all’interpretazione classica data al termine «valore» di beni e servizi, distinto in
valore d’uso e valore di scambio. Il valore di legame, spiega Caillè, fa riferimento
alla capacità dei beni e dei servizi, se donati, di creare legami e relazioni sociali, i
quali finiscono per diventare più importanti del bene o servizio stesso.
L’importanza dei legami sociali, nelle prestazioni economiche, però, non solo la
ritroviamo nelle società arcaiche o primitive, ma anche nelle società contemporanee,
sia al Sud che al Nord. Lo abbiamo evidenziato nel secondo capitolo presentando il
concetto di capitale sociale, il quale spiega come le scelte di natura economica non
sono condizionate unicamente dalle risorse economiche a disposizione della persona,
ma anche da risorse sociali e nella fattispecie dalle reti di relazioni. Anche il concetto
di capitale sociale, dunque, prende le distanze tanto dalle visione «ipersocializzata» e
«iposocializzta»159 dell’attore sociale. Secondo il sociologo Pizzorno, infatti,
l’importanza e la valenza della teoria del capitale sociale, è data dalla sua
applicabilità non solo nella dimensione individuale, ossia per la teoria dell’azione
individuale, ma anche per la dimensione collettiva, ossia utile per una teoria della
democrazia. Addirittura l’autore avanza «l’idea che una teoria del capitale sociale
viene a coincidere con una teoria della riproduzione della socialità»160 così come la
logica del dono lo permetteva nelle società arcaiche.
Effettuando un confronto diacronico tra società distanti nel tempo bisogna, però,
fare molta attenzione a non cadere in facili semplificazioni e rappresentazioni
dicotomiche tra un “loro” società primitive e un “noi” società moderne. In realtà,
proprio il lavoro antropologico ed etnologico di fine ottocento, impugnando la
«ragione etnologica» di cui parla l’antropologo Amselle e, a cui egli contrappone la
«logica meticcia»161, ha dato avvio a tale segmentazione culturale, creando solchi
159 Per i termini «ipersocializzata»e «iposocializzata» cfr. M. GRANOVETTER, Economic Action and Socila Structure: The Problem of Embeddedness, in «American Journal of Sociology», n. 91, cit in C. TRIGIGLIA, Sociologia Economica, vol. II, Bologna, il Mulino, 2002, p.,192.160 A. PIZZORNO, Perché si paga il benzinaio...cit. p. 36.161 Cfr. J.L. AMSELLE, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, Torino, Bollati Boringhieri, 1999.
80
netti tra culture e attribuendo a ciascuna categoria etnica così creata, caratteristiche
estranee le une alle altre, incomunicabili. Pertanto le società passate sono presentate
come popoli solidali per natura, opposti alle nostre società dove imperversa la
ragione economica dell’utilitarismo. Questo modo di pensare, tuttavia, conduce alla
trappola dell’evoluzionismo e del determinismo. Alle società primitive e semplici
corrispondono il primato della società sul singolo, i valori della solidarietà e della
logica del dono e quindi la felicità. Alle società più complesse, fino al massimo della
complessificazione dovuta alla presenza della tecnologia e della scienza,
corrisponde, invece, il primato della logica di mercato, dell’individuo sulla società
sempre più parcellizzata in diverse anime e dunque schizofrenica.162
L’antropologo Marco Aime si interroga se possa reggere, o meno, la chiave di
interpretazione evoluzionista. La risposta è negativa. Infatti, sostiene Aime, anche
nelle società capitaliste è ancora presente il dono nei regali di Natale, di compleanno,
per le cerimonie e, nel tempo dedicato come volontariato. Il problema è che spesso
passa totalmente inosservato, soffocato dalla logica mercantile163.
Evitando di dare qualsiasi connotazione evoluzionista o determinista, passiamo
al confronto sincronico tra le società contemporanee. Ricordiamo che le società
basate sulla logica del dono, geograficamente localizzate a Sud, nonostante la
162 Una grande influenza, sull’argomento, è esercitata dalle teorie sociologiche della seconda metà dell’ottocento. Tonnies (1855- 1936) distingue due forme di legame sociale, la Comunità e la Società, di diversa natura, una naturale, l’altra contrattuale, che egli vede come due fasi distinte e storicamente consequenziali dell’associazionismo umano. La Società, indica la dimensione pubblica, giuridico-economica della vita sociale, dove ognuno persegue obiettivi individualistici. La Società è, quindi, intesa come una macchina, uno strumento artificiale, non presente in natura, che favorisce lo sviluppo e il realizzarsi degli interessi privati. Il legame che tiene uniti gli individui nella Società, secondo Durkheim, è la solidarietà organica, contrapposta alla solidarietà meccanica. La solidarietà pertanto, si connota come organica poiché nella Società vige la libera interazione e integrazione tra individui e tra gruppi diversi tra loro. La solidarietà non è più obbligata ma libera. Ma questa libertà in seno agli individui, comporta un rischio se non viene gestita correttamente. La libertà organica, in seguito a tale componente di libertà, infatti può lasciare il posto a quella che Durkheim chiama «anomia», (letteralmente assenza di leggi) ossia l’indeterminatezza di norme, costumi, e valori socialmente cogenti, e che quindi provoca disgregazione sociale. Questo avviene perché, in assenza di valori, i rapporti dipendono, non più dalle persone, come accade nella Comunità, ma dalle cose, come le merci e il denaro, il che porta alla spersonalizzazione dei rapporti e, all’atomismo. La Società, quindi contraddistinguerebbe le società mercantili e industriali.
Nella Comunità, invece, vige quel tipo di legame sociale che lega, simbolicamente e affettivamente, i membri di un gruppo grazie a valori condivisi. L’agire in comunità è caratterizzato dalla diffusività del comportamento sociale, poiché la comunità è intessuta di relazioni primarie, fondate sulla partecipazione emotiva, e dove le rappresentazioni collettive determinano coercitivamente, in tutto e per tutto, l’agire dei singoli individui. Ciò che tiene legati gli individui nella Comunità, secondo Durkheim, è la solidarietà meccanica. Questo termine rinvia al concetto di una solidarietà automatica, priva di libertà, obbligata. Alla comunità corrisponderebbero, dunque, le aggregazioni naturali, come la famiglia, la comunità tribale o le società pre-capitaliste.163 M. AIME, Introduzione, in M. MAUSS, saggio sul dono... cit. p., X.
81
centralità della relazione nelle loro attività, presentino comunque, degli aspetti
negativi, anche da un punto di vista economico. In particolare, ci riferiamo alla
prevalenza della categoria concettuale di “particolarismo”, contrapposta a quella di
“universalismo”, per cui, sebbene il gruppo prevale sull’individuo, è spesso un
gruppo ristretto, la famiglia o il clan, e non la comunità nel suo insieme eterogeneo.
Da qui possono svilupparsi fenomeni come il favoritismo verso le proprie parentele,
la corruzione, fino a scivolare in atteggiamenti mafiosi, soprattutto in ambito
politico. Inoltre, come abbiamo visto, il dono può anche essere uno strumento con
cui dimostrare la propria superiorità sull’altro, per cui, società che praticano la logica
del dono, possono essere anche fortemente inegualitarie poiché fondate su legami
gerarchi. Infatti, riconosce Latouche, rispetto alle società africane,
questa società dove si dona tanto è anche una collettività in cui alcuni muoiono di fame alle
porte dei palazzi, perché non hanno niente da restituire164.
Inoltre, in queste società, la libertà del singolo può venire fortemente ostacolata
dagli obblighi verso la comunità. Nelle società liberal-capitaliste, invece, la libertà
del singolo è tutelata e prevale sugli interessi particolaristici e di classe, ma finisce
poi, per essere sopravvalutata a discapito di quella sociale. Come riconosce
Latouche, si è pertanto «di fronte a un tragico dilemma» riguardo al ruolo dei
legami sociali in campo economico:
preferire la pesantezza del legame sociale con le forme olistiche o la liberazione dai vincoli
simbolici a costo della distruzione mercantile del sociale?165
Per risolvere tale dilemma, già Weber sottolineava nel suo saggio Le sette
protestanti e lo spirito del capitalismo, ricordato precedentemente166, come gli effetti
positivi dei reticoli sociali possano essere garantiti in parte da fattori storico-culturali,
ma, soprattutto, da condizioni politiche efficaci. Infatti in assenza di un stato
efficiente le reti, sostituendosi alle sue funzioni, e alla sua autorità di controllo,
favoriscono atteggiamenti di particolarismo, utilizzando risorse pubbliche in modo
164 S. LATOUCHE, Altri mondi... cit., p. 98.165 S. LATOUCHE, L’altra Africa... cit., p. 88.166 Rimandiamo alla nota n. 39 del presente elaborato.
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improprio per la collettività, ma a vantaggio della cerchia ristretta. Il sociologo
Trigiglia concorda appieno con quanto indicato da Weber, e aggiunge una sfumatura.
Mente i fattori storico-culturali, secondo Trigiglia, sono importanti, ma di natura
statica, quasi deterministi, è il ruolo della politica, di una politica moderna, che può
regalare al concetto di capitale sociale, e quindi anche alla logica del dono, la
dinamicità dovuta, così come il capitale sociale è inteso dalla Piselli167. Per politica
moderna, Trigiglia intende una politica scevra da interessi particolaristici, ma votata
all’interesse comune, che fa funzionare il proprio apparto amministrativo secondo
regole universalistiche. Ma Trigiglia precisa che questa è la politica, al singolare,
magari scrivibile con la P maiuscola, ad indicare che si è in presenza della teoria e
non già del campo applicativo. Per scendere a quest’altro livello occorre allora
parlare di politiche, intendendo la pluralità di azioni che possono scaturire dal
modello teorico sopra ricordato, specificatamente mirate ai vari contesti di
intervento168.
Riconosciamo quindi, da un punto di vista descrittivo, che la dimensione del
dono è da sempre fondante nelle relazioni umane. Pertanto la reputiamo fondante
anche da un punto di vista normativo, per un’economia di relazione. L’altra faccia
della logica del dono, però, in un’economia di relazione, è la politica, intesa come il
perseguimento del bene comune. L’economia di relazione, grazie al ruolo della
politica da un lato, e «sostituendo il contratto con il dono», dall’altra, cerca di
«reincastrare l’economia nella società», perché «l’uomo è soprattutto un essere
relazionale»169. E come dice ancora Aime :
ecco che [...] il dono può abbandonare il suo guscio di esotismo e di primitivismo e riproporsi
come un riferimento per contrastare quell’anonimato che tanto ci spaventa.170
Concludiamo questo paragrafo sui sincretismi, riportando il pensiero di
Latouche, il quale scrive: «se l’Africa è povera di quello di cui noi siamo ricchi, in
compenso, essa è ancora ricca di quello di cui noi siamo poveri»171. Infatti «al Sud la
167 Rimandiamo alla nota n. 46 del presente elaborato.168 C. TRIGIGLIA, Capitale sociale e sviluppo locale...cit., p. 124 e ss.169 M. AIME, Introduzione, in M. MAUSS, saggio sul dono... cit., p. XXVIII.170 Ibidem.171 S. LATOUCHE, L’altra Africa... cit., p. 202.
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socialità è quello che permette di risolvere la crisi economica, mentre al Nord un
artificio economico viene in soccorso al sociale »172.
In definitiva, l’approccio volto al sincretismo, nell’ottica della complessità, si
spiega alla luce del fatto che «nessuna società apporta all’uomo la soddisfazione
completa della sua inquietudine esistenziale»173.
IV.2. Il progetto locale
Nel seguente paragrafo si mette in luce come l’approccio «antropobiocentrico»
proposto da Alberto Magnaghi, possa costituire un paradigma di riferimento per
un’economia di relazione. Questo approccio è diversamente chiamato
«territorialista», in quanto adotta lo sviluppo locale che si fonda sul territorio come
strategia alternativa allo sviluppo fondato sulla globalizzazione. Nella definizione
che Magnaghi dà di territorio, si coglie come tale approccio sia anch’esso formato a
partire dalla teoria della complessità. Il territorio infatti è il prodotto di «un dialogo,
una relazione fra entità viventi, l’uomo stesso e la natura, nel tempo luogo della
storia»174.
Magnaghi riconosce che esistono diversi modi di intendere la sostenibilità,
ognuno dei quali con sfaccettature differenti, e fondati su elementi divergenti. Egli ne
individua tre:
l’approccio funzionalista o dell’ecocompatibilità della crescita economica;
l’approccio ambientalista o biocentrico;
l’approccio territorialista o antropobiocentrico175
Nel primo, dove impera il paradigma economico, l’utilizzo dell’ambiente è in
funzione della realizzazione del modello di sviluppo economico. Dando un valore
monetario a tutti i beni ambientali, questi sono considerati alla stregua di una merce e
il mercato si pone come regolatore delle questioni ambientali. Poiché l’ambiente è
172 S. LATOUCHE, Altri mondi... cit., p. 101.173 S. LATOUCHE, L’altra Africa... cit., p. 204.174 A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 9.175 Ivi, p. 50.
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visto come un vincolo alla crescita economica, di cui per forza bisogna tenere conto,
il concetto di sostenibilità, utilizzato in questo approccio, fa riferimento alla capacità
di carico del pianeta. Assegnando all’ambiente un ruolo totalmente passivo, tale
approccio si configura come negativo cioè, le politiche derivanti da tale approccio
sono semplicemente di natura correttiva e quindi esogene rispetto al contesto di
intervento. Si investono speranze ed energie nel campo della scienza e della
tecnologia credute la soluzione ideale in grado di correggere i continui danni
ambientali creati dalla smisurata crescita economica. Si parla di perfetta sostituibilità
tra capitale artificiale e capitale naturale. Non si tiene in conto dell’irreversibilità di
alcuni danni, e si ignora la seconda legge della termodinamica. Secondo Magnaghi e
altri176 tale modello è destinato a fallire dal momento che non internalizza i costi di
distruzione ambientali.
Se l’approccio funzionalista pone al centro della sua filosofia l’uomo, inteso
come uomo economico, negando ogni soggettività all’ambiente, il secondo
approccio, all’opposto, fonda tutto sulla centralità dell’ambiente come entità
autonoma. Dunque, «l’ambiente da vincolo diviene opportunità, risorsa»177. Si supera
la visione dicotomica del territorio distinto in aree sfruttabili economicamente ed
aree di valore naturalistico e quindi protette, a favore di «una visione ecosistemica
unitaria»178.Tuttavia, la visione globale sul mondo rimane di matrice duale in quanto
si considerano i due poli di quest’ultimo, quello umano e quello ambientale, non solo
separati, ma contrapposti e dove, in questo caso, il primato spetta all’ambiente.
Nuovamente la portata euristica di tale modello è parziale, in quanto ritiene assolute
le esigenze dell’ambiente, considerato in sé, e non interagente con l’uomo. Lo
sviluppo non è più inteso in termini di ecocompatibilità, bensì di sostenibilità. Ma il
concetto si sviluppo sostenibile così inteso contiene nel suo grembo un principio di
schizofrenia: mentre infatti la parola sviluppo, rimanda al paradigma economico di
crescita quantitativa, o comunque di accumulazione, la parola sostenibile inserisce
dei parametri normativi e correttivi a difesa dell’ambiente. Per alcuni179 tale
espressione si connota semplicemente come un ossimoro.
176 Mauro Bonaiuti e i sostenitori della «decrescita».177 A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 56.178 Ivi, p. 57.179 Mauro Bonaiuti e i sostenitori della «decrescita».
85
L’approccio territorialista, prendendo le distanze tanto dal modello
economicista, quanto da quello naturalista, si presenta, invece, totalmente diverso, in
quanto di natura complessa e non settoriale: è un approccio relazionale. Infatti
«l’approccio territorialista affronta il problema della sostenibilità focalizzando
l’attenzione sull’ambiente dell’uomo»180, considerando l’ambiente e l’uomo integrati
in un’unità complessa. Per questo è anche definito «antropobiocentrico». Tale
approccio effettua una distinzione concettuale, dalla portata euristica non
indifferente, tra l’ambiente naturale e il territorio. Quest’ultimo è «inteso come
neoecosistema prodotto dall’uomo»181, in cui si relazionano in modo virtuoso le tre
anime componenti il territorio: l’ambiente naturale, l’ambiente costruito, l’ambiente
antropico. Pertanto, l’ambiente naturale, non è più il referente primo ed unico,
com’era per l’approccio biocentrico, bensì diviene un sottoinsieme del sistema più
complesso che è il territorio. In quanto sistema complesso, il territorio, è molto più
che l’aggregazione delle singole parti, tanto è vero che non esiste in natura, ma è un
prodotto, anzi «è un’opera d’arte: forse la più alta, la più corale che l’umanità abbia
espresso»,182 formata dall’intreccio, intelligente e nascosto, della «cultura, natura e
storia»183.
Si capisce ora meglio perché si è definito tale approccio relazionale: perché il
territorio, soggetto attorno a cui si ruota, è il frutto di una relazione tra l’ambiente e
l’uomo che lo abita, « è un esito dinamico, stratificato, complesso di successivi cicli
di civilizzazione; è un complesso sistema di relazioni fra comunità insediate (e loro
culture) e ambiente».184
Intendendo il territorio in questo modo, l’approccio territorialista imputa i
sistematici processi di «deterritorializzaizone», causati dall’attuale sfruttamento
economico, come causa del degrado ambientale. L’unica soluzione possibile a tale
degrado è agire in senso inverso, ossia promuovendo «atti territorializzanti» in grado
di rigenerare le relazioni interrotte. C’è bisogno di «nuovi atti fecondanti», che sono
il seme per una nuova sostenibilità o meglio «autosostenibilità», germe di nuova
ricchezza. C’è bisogno di produrre «territorilità», definita come «la mediazione
simbolica, cognitiva e pratica che la materialità dei luoghi esercita sull’agire
180 A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 58.181 Ivi, p. 59.182 Ivi, p. 9183 Ivi, p. 59.184 Ivi, p. 61.
86
sociale».185Secondo Magnaghi, infatti, «nel modo di produzione del territorio sta la
chiave di una sostenibilità durevole, strategica»186.
Egli, dunque, parla di «sviluppo locale autosostenibile», dove l’aggettivo «auto»
rimanda alla necessità di regole per l’insediamento umano che non siano dettate
esogenamente, e che tale insediamento sia indipendente da aiuti esterni per
autoriprodursi; mentre l’aggettivo «locale» insiste sulla «necessità di una cultura di
autogoverno e di cura del territorio»187. Più precisamente, con la parola «auto» si
vuole sottolineare che il punto cardine è la comunità: è la società locale che sostiene
se stessa. Per far ciò è necessario, sostiene Magagni, che ci sia una riconvergenza tra
la figura dell’abitante e quella del produttore. Questa, come abbiamo visto, è la
filosofia che anima i Distretti di Economia Solidale, i quali puntano a costituirsi
come cellule di produzione e di consumo, secondo il modello proposto da Mance. La
via maestra per cucire tale scissione è quella di promuovere il lavoro autonomo
rispetto a quello salariato, esattamente come propone anche Mance. Il lavoro
autonomo, infatti, può far riappropriare l’autonomia e, quindi, avviare a forme di
autogoverno e di democrazia. Esso, però, deve diventare «il tessuto connettivo di
nuove relazioni produttive fra comunità insediata e ambiente, di nuova socialità e di
nuova cittadinanza».188 In questo modo, le relazioni produttive, grazie alla cura verso
il territorio, favoriscono relazioni sociali. Si crea così
una nuova alleanza fra abitanti e produttori [che] può riorganizzare in forme sostenibili,
l’economia del tessuto di piccole e medie città, attivando reti di funzioni urbane sul territorio,
rivitalizzando reti commerciali locali, l’artigianato e la piccola produzione per la valorizzazione delle
peculiarità produttive, connettendo reti diffuse di servizi.189
In altre parole, Magnaghi ha appena descritto un ipotetico distretto di economia
solidale.
Soffermiamoci ora sull’aggettivo «locale». «Oggi- dice Magnaghi- il locale è
[...] il vero terreno di scontro»,190 su cui si gioca la riappropriazione dello stesso da
185 Cfr. G. DEMATTEIS, Sul crocevia della territorialità urbana, in AA.VV., I futuri della città, Milano, Angeli, 1999, cit. in A. MAGNAGHI, Il progetto locale.... cit., p.48.186 A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 61.187 Ivi, p. 62.188 Ivi, p. 97.189 Ivi, p. 96.190 Ivi, p. 77.
87
parte delle comunità locali contro le braccia lunghe della globalizzazione. L’autore
individua «tre atteggiamenti generali che connotano il rapporto locale-globale».191Il
primo vede il locale come mero supporto alla globalizzazione. Si connota pertanto
come un atteggiamento predatorio di tutte le possibili ricchezze presenti a scala
locale, al fine di introiettarle nel circuito globale. Il secondo atteggiamento ricerca
l’equilibrio fra il locale e il globale, si parla di «glocale»192. E’ un approccio
compensativo, per cui si cerca di correggere gli squilibri causati dalla
globalizzazione economica a livello locale, senza però condannarla. Infatti secondo
tale approccio l’obiettivo per le società locali deve essere quello di conciliare le
relazioni «verticali» presenti sul territorio, con quelle «orizzontali» esterne, al fine di
valorizzare al meglio le proprie risorse e non rimanere escluse dall’economia
globale.193 Magnaghi fa, però, notare giustamente come attualmente la relazione
locale-globale è fortemente sbilanciata verso quest’ultimo, il quale nella decisione
delle regole fa la parte del leone. Infine vi è l’approccio botton up o globalizzazione
dal basso, che Magnaghi chiama «sviluppo locale versus globale», meglio definito
come una pluralità di approcci i quali «interpretano la crescita di società locali e di
stili di sviluppo peculiari ad ogni contesto coma avvio di un multiverso in grado di
attivare relazioni non gerarchiche, cooperative, fra città, regioni, nazioni, verso un
sistema di relazioni globali costruite dal basso e condivise»,194 al fine di contrastare le
reti gerarchicizzate dell’economia globalizzata.
Affinché questo possa realizzarsi è bene fare attenzione a non identificare lo
sviluppo locale con il localismo, poiché «lo sviluppo locale fondato sulla
valorizzazione del patrimonio non ha confini, né scale, né attori precostituiti»,195 esso
si configura piuttosto come «un punto di vista». Pertanto non ha nulla da spartire con
un atteggiamento di integrale chiusura e di difesa estrema verso l’esterno, tipico di
comportamenti localistici. Nuovamente questa attenzione può tornare utile alle realtà
dei Distretti.
191 Ivi, pp. 78 e ss.192 Il termine è stato utilizzato per la prima volta da Mander e Golsmith (1998) i quali intendono lo sviluppo locale come costruzione di forze di compensazione della globalizzazione economica e dei grandi poteri delle multinazionali, cit. in MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 79.193 Cfr. A. BONOMI, Il capitalismo molecolare, Milano, Feltrinelli, 1997, cit. in MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 79.194 A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 80.195 Ivi, p. 81.
88
Magnaghi illustra come l’approccio territorialista suggerisce di procedere al fine
di implementare l’autosviluppo locale fondato sul territorio. Innanzitutto bisogna
«interpretare l’identità di lunga durata», dei luoghi ossia «l’interazione fra i
successivi atti territorializzanti [la quale] determina in ogni luogo la massa
territoriale»196. A causa delle peculiarità di ogni interazione tra l’atto insediativo
umano e l’ambiente circostante, si determinerà di volta in volta una massa territoriale
specifica, differentemente sparsa su tutto il globo. Ogni luogo, pertanto, differirà in
termini di patrimonio territoriale. Di conseguenza è necessario «valorizzare l’identità
dei luoghi». In quanto soggetti viventi (poiché frutto dell’interazione tra l’umano e il
naturale), e soprattutto, in quanto dotati di «profondità storica», i territori godono
anch’essi di una capacità di autopercezione e possiedono, quindi, una propria
identità. Secondo Magnaghi, tale abilità dei luoghi di «ri- pensarsi»197costituisce
l’essenza fondativa dello sviluppo autosostenibile. Ma affinché le singole identità dei
territori si perpetrino nel tempo, non immutabili, ma in armoniosa trasformazione
con l’ambiente circostante, è necessaria la presenza della «società locale». Gli
abitanti, infatti sono i referenti primari dell’approccio territorialista, il quale ha come
fine ultimo quello di stimolare le capacità di autogoverno degli abitanti, anche in
qualità di produttori. Infatti, l’approccio territorialista autosostenibile, ponendo
l’accento sulla parola «auto», mira a riunificare l’abitante e il produttore.
Infine, è necessario riconoscere le diverse «sfaccettature della sostenibilità».198
In primo luogo Magnaghi parla di sostenibilità politica, definendola come «capacità
di autogoverno di una comunità insediata rispetto alle relazioni con sistemi
decisionali esogeni e sovraordinati»199. Il conflitto è riconosciuto come parte
integrante di qualsiasi società complessa, pertanto non lo si nega, ma si cerca di
trasformarlo in concertazione negoziata in vista dell’interesse comune. La
concertazione negoziata presuppone che ci sia la sostenibilità sociale intesa come
«un elevato livello di integrazione degli interessi degli attori deboli nel sistema
decisionale locale»200. In altre parole, è l’attuazione del concetto di empowerment
proposto da John Friedmann, ossia il dare voce agli esclusi perché diventino soggetti
196 Ivi, p. 63.197 Cfr. F. CASSANO, Il pensiero meridiano, Bari -Roma, Laterza, 1996, cit. in A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 65.198 A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., pp. 68 e ss.199 Ibidem.200 Ivi, p. 70.
89
attivi del loro sviluppo umano, sociale e quindi anche economico. Così Friedmann
definisce il concetto di empowerment :
l’approccio orientato all’empowerment, che è fondamentale per uno sviluppo alternativo, pone
enfasi sull’autonomia decisionale di comunità organizzate territorialmente, sull’autosviluppo (ma non
autarchia), sulla democrazia diretta (partecipativa), sull’apprendimento sociale per esperienza 201
Per fare ciò, continua Magnaghi, è bene
riconoscere le energie sociali, culturali, economiche che possono produrre nuova territorialità
[...]; in secondo luogo [...] nominarle proprio «Principe», alla cui corte elaborare i propri progetti
[....].202
La sostenibilità economica invece, intesa come «la capacità di [...] produrre
valore aggiunto territoriale»203, è strettamente connessa alla sostenibilità territoriale e
di conseguenza a quella ambientale. Dove la prima indica «la capacità [...] di
promuovere processi di territorializzazione»204 e la seconda «l’attivazione di regole
virtuose dell’insediamento umano, atte a produrre autosostenibilità».205
La sostenibilità è quindi, intesa da Magnaghi in senso complesso, in quanto
risultante dell’interazione di diverse sostenibilità. Tale concezione non diverge
dall’interpretazione data da Friedman allo «sviluppo alternativo». Infatti per
Friedmann, nel campo dello sviluppo alternativo, l’economica e la politica sono
fortemente correlate, e queste due, con la sfera sociale. Il tutto è giocato su un
territorio ben definito, che diviene anch’esso soggetto di sviluppo. Grande
importanza è assegnata inoltre, alla dimensione politica che non è intesa come
semplice facoltà di votare bensì nella sua accezione propria e più ampia, come la
capacità di influenzare ogni tipo di azione collettiva. Le decisioni di qualsiasi tipo,
infine, devono esser di natura collettiva e partecipata.
In conclusione, dall’approccio territorialista, incentrato sullo sviluppo locale
autosostenibile, cioè sulle interrelazioni tra l’ambiente, gli uomini e questi tra di loro,
è possibile fondare un’economia di relazione.
201 Cfr. J. FRIEDMANN, Empowerment... cit., p.vii.202A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 103.203 Ivi, p. 71.204 Ivi, p. 73.205 Ivi, p. 72.
90
IV.3. Una nuova teoria sistemico-economica
IV.3.a Homo bioeconomicus
Attraverso un’iniziale opera di sincretismo tra le molteplici forme di economie,
sparse nel tempo e nello spazio, basate sulla relazione e, successivamente, attraverso
l’analisi dell’approccio antropobiocentrico, abbiamo dedotto le caratteristiche
peculiari di un’economia di relazione. Queste caratteristiche, esposte fin qui in modo
generale, sono sistematizzate nella nuova teoria sistemica della bioeconomia
proposta da Mauro Bonaiuti.
Seguire il paradigma della complessità, suggerito dall’approccio sistemico,
significa fare interagire e analizzare le relazioni tra due sistemi aperti. Nel caso della
bioeconomia significa far interagire i sistemi biologici e quelli economico sociali.
Bonaiuti, però, va oltre l’approccio bioeconomico, proposto da Georgescu- Roegen,
per approdare a un modello sistemico. Lo scopo che egli si prefigge infatti è quello
di fornire un nuovo fondamento epistemologico «al progetto di un’economia
ecologicamente e socialmente sostenibile»206, poiché «mai come in questo momento
è apparso chiaro il legame tra sostenibilità ecologica e sostenibilità economico-
sociale».207
Il nuovo fondamento epistemologico pertanto poggia sulla necessità di leggere
in modo nuovo e di far interagire i diversi sistemi, quali quello biologico, quello
fisico, e quelli inerenti agli esseri umani (quello economico, sociale e politico),
nell’ottica della complessità. Infatti è possibile rinvenire caratteristiche comuni in
tutti i sistemi, o per lo meno ancorare alcuni principi dei sistemi umani a quelli
biologici, essendo l’essere umano prima di tutto un animale biologico. Bonaiuti
evidenzia diverse caratteristiche dei sistemi biologici, in contrasto con i principi
dell’economia neoclassica, dai quali parte per creare un’economia altra:
1. I sistemi biologici non tendono alla massimizzazione di alcuna
variabile, ma hanno piuttosto una pluralità di fini;
2. I sistemi biologici presentano una combinazione di comportamenti di
tipo competitivo (in contesti di espansione) e cooperativo (in contesti di
206 M. BOMAIUTI, Introduzione, in N. GEORGESCU- ROEGEN, Bioeconomia....cit.,p. 8.207 Ivi, p. 42.
91
equilibrio). Non si ritiene un comportamento sano a priori: esso deve essere
funzionale a, e allo stesso tempo dipendere dal contesto in cui è inserito.
Pertanto se quest’ultimo subisce dei cambiamenti, cambieranno anche le
strategie comportamentali di sviluppo;
3. In un contesto non espansivo, un certo grado di competizione tra
specie diverse favorisce lo sviluppo degli ecosistemi ( favorendo la pluralità),
al contrario, la competizione tra i membri di una stessa specie (competizione
intraspecifica) generalmente danneggia e dunque riduce le possibilità di
sopravvivenza della specie stessa;
4. Nei sistemi complessi la parte non può controllare il tutto;
5. I sistemi complessi sono dotati di un anello di feedback. Al contrario
la teoria economica neoclassica, basandosi sui principi della meccanica di
causa-effetto, non coglie questa dinamica circolare, bensì adotta una dinamica
lineare;
6. l’interazione tra gli elementi di un sistema complesso è in genere
attivata da una differenza, questo è quanto prende il nome di informazione.
Sulla base di suddetti principi biologici, Bonaiuti ha formulato
come ipotesi di lavoro, una lista di caratteristiche antropologiche che delineano i tratti fondamentali di
quello che potremmo definire homo bioeconomicus (hb)
1. l’hb ricerca la felicità intesa come pluralità di valori, tra loro (almeno parzialmente)
irriducibili;
2. la felicità /benessere dipende, tra l’altro, dalle relazioni tra i soggetti (reciprocità)
3. l’unità d’analisi non è l’individuo, quanto la relazione circolare tra due o più sistemi
[...]
4. l’hb è soggetto alle leggi della termodinamica e della biologia
5. le leggi economiche non sono universali bensì condizionate dal contesto storico,
culturale, istituzionale (localismo)
6. l’hb non mira alla massimizzazione di alcuna variabile semplice, quanto piuttosto a
una condizione di equilibrio fra più variabili
7. l’hb è caratterizzato dalle coesistenza di comportamenti di tipo competitivo
(espansivo) con comportamenti di tipo cooperativo ( di equilibrio)
8. l’hb è orientato dalla saggezza sistemica anziché dalla razionalità strumentale;
92
9. i bisogni dell’ hb sono generalmente saziabili. 208
Bonaiuti riconosce che sebbene quanto proposto parta da una natura descrittiva,
contiene anche tendenze normative ed etiche.
IV.3.b. Consumo e produzione: un approccio sistemico
Teoria bioeconomica del consumo209
La teoria bioeconomica del consumo si fonda sulla distinzione tra flussi e
fondi210, presi entrambi in considerazione nel processo di consumo, al contrario di
quanto avviene nella teoria neoclassica. La teoria neoclassica, considerando il
benessere del consumatore come funzione esclusiva dei flussi di beni che è in grado
di consumare, non assegna alcuna rilevanza al ruolo dei fondi o sistemi, che, in
realtà, fanno parte del processo di consumo.
In formula:
U = f(X1, X2, X3,...Xn)
I flussi presi in esame dalla teoria bioeconomica, proposta da Bonaiuti, sono i
flussi di risorse naturali, i flussi dei beni di consumo provenienti dal mercato e infine
in aggiunta ai flussi tradizionali, i flussi di beni relazionali.211 Vengono inoltre
considerati tre tipi di fondi. In primo luogo si considerano i consumatori, valutati
nella loro dimensione biofisica, senza i quali il processo di consumo non è nemmeno
ipotizzabile, poiché costituiscono l’agente attivo del processo. Ogni individuo, per
godere di qualsiasi bene e quindi per realizzarsi come consumatore, deve anzi tutto,
preservare il suo equilibrio biofisico. Tale equilibrio è assicurato dal triplice flusso di
beni sopra ricordato, che costituiscono il flusso in entrata nel processo dei consumo.
208 Ivi, p. 28.209 Ivi, pp. 29 e ss.210 I flussi sono quei beni e servizi caratterizzati da una dimensione temporale oltre che da un riferimento temporale. I fondi, invece, presentando una dimensione statica, sono caratterizzati solamente da un riferimento temporale. Secondo Georgescu-Roegen ciò che caratterizza un fondo è l’ipotesi secondo cui esso rimane al termine del processo di consumo invariato rispetto a inizio processo. Bonaiuti, considerando i fondi sistemi autopoietici che godono di una certa flessibilità strutturale, ammette che i fondi possano subire qualche modifica, sia di natura quantitativa che qualitativa. 211Bonaiuti propone come esempi di questi «beni» che si possono godere solamente nella relazione tra chi offre e chi domanda, i servizi alla persona, ma anche offerta di beni culturali e religiosi.
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Il flusso in uscita è rappresentato dal benessere raggiunto dal soggetto dopo l’atto del
consumo. Inevitabilmente, dopo ogni processo di consumo, come di produzione, si
genera un altro tipo di flusso in uscita, anche se talvolta non voluto o non previsto,
costituito dai rifiuti, sia in senso materiale, sia in senso di degrado irreversibile di
natura entropica.
Il secondo fondo è rappresentato dalla ricchezza capitale posseduta dai soggetti
in qualità di consumatori, sotto forma di beni durevoli, (quali casa, giardino,
biblioteca, computer ecc...). Bonaiuti spiega come questo tipo di beni partecipa al
processo di consumo, seppure in forma passiva, in quanto viene consumato
indirettamente, attraverso l’utilizzo, dalle famiglie o chi per esse. Costituiscono
dunque, per quest’ultime, fonte di benessere, indipendentemente dai flussi che le
famiglie, in quel preciso momento, sono in grado di acquistarsi sul mercato. Bonaiuti
ricorda infatti che il godimento della vita è innanzitutto una funzione della ricchezza
e, quindi, di fondo, prima ancora che una funzione del reddito, cioè di flusso.
Ampliando il concetto di capitale a disposizione delle famiglie, aggiungiamo anche
quel tipo di capitale particolare, definito in sociologia come capitale relazionale, o
come capitale sociale. Ossia, quell’insieme di relazioni personali, su cui può contare
il singolo individuo, che lo lega a una comunità di appartenenza più o meno stretta e
più o meno vincolante. Abbiamo precedentemente dimostrato, come il capitale
sociale o relazionale sia qualificabile a tutti gli effetti come ricchezza dal momento
che permette, soprattutto in contesti economicamente poveri, non solo la
sopravvivenza ma anche successi di tipo economico.
Infine, il terzo fondo è costituito dal capitale naturale, ossia da tutti gli elementi
facenti parte la biosfera. In altre parole, è l’ambiente in cui viviamo, il quale
garantisce la vita e la sopravvivenza a tutte le forme di vita sul nostro pianeta,
attraverso una serie di funzioni di ecosistemi, o di servizi ecologici esenziali212. Le
principali funzioni di ecosistemi sono: funzioni regolative (es. assimilazioni di scarti
e rifiuti); funzioni di produzione (le quali permettono l’effettuarsi dei processi
produttivi, di introdurre immissioni di scarico nell’aria o come l’utilizzo dell’acqua
per i processi di raffreddamento ecc...); funzioni di sostentamento (abitazione,
agricoltura, amenità ecc...) e, infine, funzioni di informazione (scientifica, culturale,
estetica ecc...). Il capitale naturale così inteso, si connatura come il bene comune per 212 Cfr. R. PERMAN, Y. MA, J. McGILVRAY, M. COMMON, Natural resources & enviromental economics, Baskerville (GB), Hnry Ling Limited, 1999 [ed. orig. 1996], p.19-21.
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eccellenza, dunque, come un bene pubblico, pertanto godibile da tutti senza
esclusione e senza pagamento per l’uso. Ma come giustamente ci ricorda la teoria
bioeconomica, la natura non dà nulla gratis, tutto comporta un certo tipo di costo. Per
tenere in conto dei sevizi che l’ambiente ci offre e, soprattutto, tenendo in conto della
sua natura di bene pubblico, è bene applicare delle politiche economiche ambientali
capaci di internalizzare i «costi» di utilizzo dell’ambiente, onde evitare, in un futuro
non lontano, la «tragedia dei beni comuni»213.
Considerando i fondi come sistemi deperibili nel tempo conseguentemente
all’utilizzo, la teoria bioeconomica ne analizza le condizioni di «mantenimento».
Tenere in conto il ruolo dei fondi nel processo di consumo, e il conseguente costo di
mantenimento, consente di spiegare efficacemente come mai, sempre più di
frequente, soprattutto nei paesi più ricchi, si risconta un generale calo di benessere
quando in realtà aumenta il consumo di beni e servizi flusso. D’altra parte, consente
di spiegare le condizioni di povertà in cui versano la maggior parte dei paesi del Sud
in termini di carenza di beni durevoli, cioè di fondi. Pertanto l’analisi bioeconomica
indica di ovviare a tale carenza, non tanto aumentando i beni flusso, quanto quelli
fondo.
Teoria bioeconomica della produzione214
La teoria neoclassica ignora la distinzione in flussi e fondi anche dal lato della
produzione considerando la produzione in funzione di determinati fattori produttivi,
quali li lavoro, il capitale e le risorse naturali.
In formula:
Q = f(L, K, R)
La teoria neoclassica sostiene che è possibile raggiungere il medesimo livello di
output produttivo, variando a piacimento la composizione dei fattori, considerando
quest’ultimi perfettamente sostituibili tra di loro. Tale concetto è alla base dell’idea
di sostenibilità debole, secondo cui, le risorse naturali non sono indispensabili nel
processo produttivo se sono sostituibili dal capitale tecnologico. L’importante è la
213 T. S. SWANSON, The economics of enviromental degradation: tragedy for the Commons?, Great Britain, Edward Elgar Publishing Limited, UNDP 1996.214 M. BOMAIUTI, Introduzione, in N. GEORGESCU- ROEGEN, Bioeconomia....cit., pp. 35 e ss.
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totalità del capitale: lo stock di capitale complessivo (sia artificiale che naturale) non
deve decresce nel tempo.
Secondo il modello dei flussi e dei fondi le categorie di K, L, costituiscono i
fondi. Mentre le risorse naturali, e i prodotti intermedi utilizzati dal processo di
produzione, costituiscono i due flussi in entrata. Distinguere la natura dei vari fattori
produttivi, in flussi e fondi, permette di capire come i fattori di flusso e i fattori di
fondi non siano tra loro sostituibili, poiché ciò che lega fondi e flussi è
«fondamentalmente una relazione di complementarietà e non di sostituibilità» 215
La sostituibilità invocata e sostenuta dagli economisti neoclassici, trova
fondamento nella fede smisurata che essi ripongono nel progresso tecnologico, grazie
al quale sarà addirittura possibile far del tutto a meno delle risorse naturali216. Ma
Bonaiuti ricorda come in realtà le nuove tecnologie necessitano, in quanto capitale e
quindi fondo, di un flusso ingente di risorse al fine di mantenersi sempre in
condizione di efficienza. La teoria bioeconomica dimostra pertanto come le risorse
naturali siano comunque necessarie in qualsiasi processo economico.
E’ immediato vedere come la sfera del consumo e quella della produzione siano
intimamente correlate. Non solo per il fatto che i flussi in entrata nel processo di
consumo coincidono con i flussi in uscita del processo di produzione. Ma anche
perché la sfera del consumo e quella della produzione condividono il medesimo
stock di fondi: «gli esseri umani (considerati ora come lavoratori, ora come
consumatori) e il capitale ( economico, relazionale, naturale)».217
IV.3.c. Decrescita conviviale
Questa stretta integrazione, sia dell’attività di consumo con l’attività di
produzione, sia tra le risorse flusso e i beni fondo, non permette più di considerare
lineare e automatica la relazione:
maggiore produzione → maggiore consumo ⇒ maggiore benessere.
La soluzione di «ordine pratico» che Bonaiuti propone, rinvia alla necessità di
rivedere seriamente il paradigma di crescita dell’economia classica, per sostituirlo
215 Cfr. H. E. DALY, 1999, p. 20 cit. in M. BOMAIUTI, Introduzione, in N. GEORGESCU-ROEGEN, Bioeconomia....cit. p. 37.216 Cfr.R. M. SOLOW, 1974, cit. in M. BOMAIUTI, Introduzione, in N. GEORGESCU- ROEGEN, Bioeconomia....cit., p. 35.217 M. BOMAIUTI, Introduzione, in N. GEORGESCU- ROEGEN, Bioeconomia....cit., p. 43.
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con ciò che lui e altri studiosi218 indicano come «decrescita». Il termine, più che un
concetto vuole essere uno slogan. La decrescita non è sinonimo di crescita zero o di
crescita negativa, bensì, indica un altro modo di vita, in cui si punta alla convivialità,
termine mutuato dallo studioso Ivan Illich219. La «decrescita conviviale» tende a una
riduzione della produzione in termini fisici, rispettando i limiti imposti dalla seconda
legge della termodinamica. Una società conviviale è una società che ha il senso del
limite perché, come ogni ecosistema, presenta delle soglie di cui è consapevole e
pertanto convive in armonia con esse. Ma questo, insiste Bonaiuti, necessita una
rivoluzione estetica e antropologica ancor prima di una sociale ed economica.
Una riduzione della produzione fisica e, conseguentemente, del consumo, non
significa, però, una riduzione di felicità. Infatti come dice Bonaiuti,
occorre favorire lo spostamento della domanda dalla produzione di beni tradizionali ad alto
impatto ambientale, a quei beni per i quali l’economia solidale o civile possiede uno specifico
vantaggio comparto, cioè i beni relazionali.220
218 Studiosi inerenti al M.A.U.S.S. (Movimento Anti Utilitarista delle Scienza Sociali)219 Cfr. I. ILLICH, Convivialità, New York, 1973.220 M. BOMAIUTI, Introduzione, in N. GEORGESCU- ROEGEN, Bioeconomia....cit., pp. 40-41.
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