Università degli Studi di Torino Facoltà di Scienze Politiche Corso di Laurea in Sviluppo e...

99
Università degli Studi di Torino Facoltà di Scienze Politiche Corso di Laurea in Sviluppo e Cooperazione Prova Finale Un’economia di relazione: reti e distretti di economia solidale Relatore Ch.mo prof. Candidato Roberto Burlando Nadia Lambiase matricola n. 200565 Anno accademico 2004-2005 1

Transcript of Università degli Studi di Torino Facoltà di Scienze Politiche Corso di Laurea in Sviluppo e...

Università degli Studi di TorinoFacoltà di Scienze Politiche

Corso di Laurea in Sviluppo e Cooperazione

Prova Finale

Un’economia di relazione: reti e distretti di economia solidale

Relatore Ch.mo prof. Candidato Roberto Burlando Nadia

Lambiase matricola

n. 200565

Anno accademico 2004-2005

1

INDICE

INTRODUZIONE

I. LIMITI DELLA TEORIA “DOMINANTE” E DELL’ATTUALE SISTEMA ECONOMICO

I.1. Economia formale ed economia sostanziale

I.2. Cenni alle critiche dell’economia standard nel pensiero di alcuni autori

I.3. Critiche di natura teorica alle ipotesi dell’economia standardI.3.a. Individualismo metodologicoI.3.b. Comportamento economico e razionalitàI.3.c Benessere ed utilitarismoI.3.d. Il carattere entropico della produzione e del consumo

I.4. Critiche all’economia standard per le sue conseguenze socialiI.4.a. Il lavoro e l’alienazioneI.4.b.Rottura e spersonalizzazione dei rapporti socialiI.4.c. Circolo vizioso e auto alimentante del consumo e della produzione

II. LA RELAZIONE IN ECONOMIA

II.1. Il capitale sociale

II.2. La logica del donoII.2.a. L’«economia dell’affetto»II.2.b. «Oikonomia neoclanica»II.2.c.L’«economia popolare» in America LatinaII.2.d.Il mezzogiornoII.2.e.Un comune punto di partenza: la logica del dono

III. IL PARADIGMA DELLE RETI

III.1. Reti e complessità

III.2. Reti di collaborazione solidaleIII.2.a. La strategia delle retiIII.2.b. La cellula: unità base della reteIII.2.c. Collaborazione solidale ed economia solidale a confronto

2

III.3. Reti e Distretti di economia solidale in ItaliaIII.3.a Cantieri in costruzioneIII.3.b. Domande e questioni aperteIII.3.c. Distretti come sistemi locali territoriali, ossia città dell’abitare

IV: UN’ECONOMIA DI RELAZIONE ALL’INSEGNA DELLA COMPLESSITA’

IV.1. Sincretismi tra nord e sud, tra passato e presente

IV.2. Il progetto locale

IV.3. Una nuova teoria sistemico-economica IV.3.a Homo bioeconomicusVI.3.b. Consumo e produzione: un approccio sistemicoIV.3.c. Decrescita conviviale

BIBLIOGRAFIA

3

INTRODUZIONE

«Che cosa vuol dire “addomesticare”?» «E’una cosa da molto dimenticata. Vuol dire

“creare dei legami”...»

(A. DE SAINT- EXUPERY, Il piccolo principe)

«L’uomo è soprattutto un essere relazionale».1 Di conseguenza, ogni disciplina

che parla dell’uomo non può tralasciare gli «aspetti relazionali che sono di

fondamentale importanza e che caratterizzano tutte le azioni umane, sia economiche

sia d’altro tipo».2

Il presente lavoro si colloca nell’abito disciplinare dell’economia e nasce dalla

volontà di indagare quale ruolo giochi effettivamente la relazione in tale disciplina.

Sulla base di osservazioni empiriche è possibile rilevare come nei Nord del mondo,

ultimamente, stiano sviluppandosi diverse forme di economie che, volendo porsi

come “altre” rispetto al modello economico “dominante”, cercano l’alternativa

riscoprendola nelle radici dell’essenza umana: appunto la relazione. Allo stesso

tempo nei Sud del mondo, dove la relazionalità non si è persa ancora nei meandri

dell’economia e del mercato l’alternativa non è da costruire: è di casa.

Partendo da queste constatazioni, nasce l’interrogativo attorno al quale si

sviluppa l’intero elaborato: può esistere, e con quali caratteristiche, un’economia di

relazione? Dare una risposta ad un tale quesito vorrebbe dire interrogarsi sul

significato profondo della natura umana, fin’anche sul senso della vita stessa.

Pertanto, la finalità del presente lavoro è quella di mostrare l’esistenza e, soprattutto,

l’importanza di un’economia di relazione, in quanto «immagine del nostro interagire,

scambiare, condividere»3 flussi materiali, simbolici e relazionali, tra di noi e tra noi e

l’ambiente in cui viviamo, in un’interdipendenza reciproca.

1 M. AIME, Introduzione, in M. MAUSS, saggio sul dono, Torino, Einaudi, 2002, (ed. orig. 1950), p. XXVIII. Si veda anche E. ARONSON, The social animal, ed. orig. 1972.2 M.GRANOVETTER, Economic action and social structure. The problemof embeddedness, «American Journal of Sociology», 91, 1985, pp. 481-510, cit in M. BUCHANAN, Nexus. La rivoluzionaria teoria delle reti. Perché la natura, la società, l’economia, la comunicazione, funzionano allo stesso modo, Milano, Mondadori, 2003.3 D. FABBRI, Rete, in TELFENER, L. CASADIO (a cura di), Sistemica. Voci e percorsi della complessità,Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p.488.

4

Al fine di delineare un percorso di ricerca coerente e dotato di capacità

euristiche, l’analisi proposta verrà condotta nell’alveo della teoria della complessità.

Si ritiene, infatti, che quest’ultima sia lo strumento analitico che meglio può indagare

la fenomenologia della complessità umana in quanto corrispettivo teorico della

natura e della sostanza umane, intese come relazione.

Per rispondere al quesito per prima cosa si esaminerà brevemente quale posto è

riservato alla relazione nell’analisi economica “dominante”, coincidente con la teoria

neoclassica. L’unità d’analisi della teoria neoclassica è costituita dal singolo

individuo, considerato separatamente dal contesto relazionale in cui è inserito.

Dedurremo nell’elaborato, in seguito all’analisi di diversi punti nodali della

questione, come la teoria neoclassica, negando all’uomo la sua natura relazionale,

non consideri la relazione all’interno dell’analisi economica. Una spiegazione

possibile a questa mancanza, viene dalla distinzione proposta dall’ungherese Karl

Polanyi tra «economia formale», e «economia sostanziale»4. Fondamentalmente

quest’ultima, è caratterizzata dall’essere «incorporata» nella società, al contrario

quella formale - che coincide con il sistema economico basato sulla teoria economica

neoclassica - non solo è «scorporata»5 dalla società, ma è dominante rispetto a

questa. D’altra parte, l’economia sostanziale in quanto incastonata nel sociale

incorpora, per definizione le relazioni.

Vedremo poi come la relazione in economia sia tuttavia, presa in considerazione

nelle analisi della sociologia economica, ad esempio attraverso il concetto di capitale

sociale. Esaminare il ruolo della relazione in economia a partire da tale concetto ci

porta inevitabilmente alla metafora della rete. Infatti il concetto di capitale sociale si

fonda su tale metafora, poiché rimanda all’idea che ogni individuo è inserito in un

reticolo, più o meno fitto di relazioni sociali, in parte preesistenti, in parte costruite

da lui stesso nel tempo. La rete delineata dal concetto di capitale sociale sfuma la sua

natura di metafora nella concretezza di molteplici relazioni sociali, considerate vere e

proprie risorse di cui l’individuo può disporre per far fronte ai suoi bisogni o

desideri. In questo caso, la rete si connatura come spontanea, come parte della vita

umana, a cui gli individui si appoggiano per sopravvivere. Il corrispettivo del

concetto di capitale sociale, maturato al Nord, è la logica del dono su cui sono

imperniate le società del Sud.4 K. POLANYI, La sussistenza dell’uomo, (a cura di H.W. PEARSONN), 1977.5 Cosa si intenda con questi termini verrà chiarito alle pp.8, 9, 11 e 12 del presente elaborato.

5

Successivamente analizzeremo il concetto di rete da un punto di vista teorico,

ancorandolo alla teoria sistemica della complessità. A questo livello d’analisi la

metafora di rete viene assunta nel suo significato strutturale, per cui il legame è dato

dalla volontà di strutturare in rete tutte le singole esperienze di economia alternativa,

per tessere un mosaico complesso e unitario, effettivamente “altro” dal paradigma

economico “dominate.” A questo proposito esamineremo l’innovativa interpretazione

delle reti che propone Euclides Mance, intese come metafora e come strumento di

emancipazione e di liberazione dal sistema economico attuale. Inoltre, considereremo

l’incipiente esperienza italiana volta alla costruzione di una rete nazionale di distretti

di economia solidale. In questo caso, grazie alla multidimensionalità presente nel

concetto di rete, esplicabile nella dinamica nodo-rete, analizzeremo in che modo

l’interazione dialettica che intercorre tra la dimensione locale e quella globale,

influisce sullo sviluppo locale che definiremo meglio come «sviluppo locale

autosostenibile»6 (secondo l’acuta definizione proposta da Alberto Magnaghi).

Infine, dopo aver appurato che effettivamente esistono differenti forme di

economie basate sulla relazione, sia di natura spontanea sia progettuale, proveremo a

definire, da un punto di vista normativo, le caratteristiche specifiche di un modello di

economia di relazione. Innanzitutto attraverso un’operazione di sincretismo - volta a

filtrare e integrare gli aspetti positivi delle differenti forme di economia di relazione -

individueremo come fondante dell’economia di relazione la logica del dono, in

quanto creatrice di capitale relazionale, interagente con una politica in grado di

garantire sempre il bene comune. Un’economia di relazione, pertanto, è

necessariamente incastonata nella società. Secondariamente, grazie all’approccio

«antropobiocentrico» proposto da Magnaghi, considereremo caratterizzante per

un’economia di relazione il fatto che sia incentrata sullo «sviluppo locale

autosostenibile», il quale mette in relazione l’ambiente con gli uomini e questi tra di

loro. Per ultimo, avvalendoci della “nuova” teoria bioeconomica di matrice sistemica

(proposta da Mauro Bonaiuti), definiremo economia di relazione qualsiasi forma

economica in grado di produrre e di implementare, interagendo con i limiti fisici del

pianeta, «beni relazionali»7.

6 A. MAGNAGHI, Il progetto locale, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.7 M. BOMAIUTI, Introduzione, in N. GEORGESCU- ROEGEN, Bioeconomia. Verso un’altra economia ecologicamente e socialmente sostenibile, (a cura di M. BOMAIUTI), Torino, Bollati Boringhieri, 2003.

6

Concludendo, la scommessa insita nell’economia di relazione è quella di

proporre la rete come alternativa effettiva al Mercato, attraverso la valorizzazione

delle relazioni umane, intese come risorsa fondamentale e insostituibile. In altre

parole, sostituire le interazioni puntuali e impersonali che avvengono nel Mercato

con le relazioni, cariche di significato e durevoli, che avvengono nella rete. La rete

come alternativa al Mercato non abolisce però i mercati intesi come luogo di incontro

oltre che di scambio. Infatti, in una società dove l’economico è incastonato e

subordinato al sociale «l’esistenza stessa del mercato non è forse una dimostrazione

del fatto innegabile che abbiamo bisogno gli uni degli altri, e che effettivamente

lavoriamo per gli uni per gli altri?»8.

Considerando la vastità, l’importanza, e soprattutto la novità dell’argomento

inerente all’economia di relazione, reputiamo che tale argomento meriti di essere

approfondito, tanto dal punto di vista teorico quanto da quello operativo e concreto.

La vastità dell’argomento è direttamente proporzionale alla sua complessità. Infatti la

natura dell’oggetto in esame - l’uomo in quanto essere relazionale - conduce a una

visione sistemica di tutto ciò che riguarda l’uomo. Pertanto si dimostra

indispensabile un lavoro a rete - simbolo di un approccio al conoscere che rimanda

alla complessità - che colleghi tutte le scienze relative all’uomo ed all’ambiente e

aperto ai contributi provenienti dai diversi campi disciplinari.

Lo studio e la conseguente realizzazione di un’economia di relazione

permettono, infatti, di affermare che non è più il momento di «preparare un avvenire

migliore ma di vivere altrimenti il presente».9 Questo affinché si possa sperare,

assieme a Euclides Mance che la rete, da mero strumento di sopravvivenza si

trasformi gradualmente, nel medio termine, in un modello economico alternativo

ancorato a un progetto locale. Per divenire infine una nuova forza politica di

democrazia partecipativa a livello mondiale.

8 L.RAZETO, Le dieci strade dell’economia di solidarietà, Bologna, Emi, 2003, [ed. orig. 1993], p. 20.9 F. PARTANT, La Ligne d’horizon, Parigi, La découverte, 1998.

7

CAPITOLO I

LIMITI DELLA TEORIA ECONOMICA “DOMINANTE” E

DELL’ATTUALE SISTEMA ECONOMICO

I.1. Economia formale ed economia sostanziale

La psicologia sociale da decenni descrive l’uomo come «l’animale sociale».10

Partendo da questo assunto, il quesito fondamentale attorno al quale ruota tutto il

presente elaborato è il seguente: può esistere, e con quali caratteristiche,

un’economia di relazione? Per rispondere a tale interrogativo è bene procedere in un

primo momento, cercando di capire che cosa significano, separatamente i termini di

economia e di relazione in economia e, quindi, verificare se il connubio tra i due

termini possa effettivamente godere di una valenza teorica e operativa.

Secondo la teoria economica neoclassica, a cui, per prassi, viene riconosciuto un

ruolo dominante all’interno dell’ambito scientifico economico, la scienza economica

viene intesa, a partire da Lionel Robbins11, come la capacità di organizzare in modo

efficiente dei mezzi scarsi, utilizzabili per usi alternativi, rispetto a dei fini. Secondo

questa impostazione l’economia, però, non può sindacare sui fini, e questo si spiega

alla luce di due fattori. Da una parte, il concetto di costo, perdendo il suo significato

“oggettivo”, è da intendere solamente come costo-opportunità, ossia, il valore

assegnato a un determinato bene è in funzione solamente della rinuncia che ottenere

questo bene comporta rispetto ad ottenere un altro bene possibile. Dall’altro, l’utilità,

la cui massimizzazione si configura come lo scopo del processo economico, è

completamente soggettivizzata, secondo il principio che dice “ognuno è il miglior

giudice di se stesso,” così da non poter più essere una grandezza commensurabile e

tanto meno confrontabile. Non potendo più effettuarsi confronti tra utilità differenti,

di fronte a più alternative, la scelta sarà guidata dal criterio dell’efficienza paretiana,

10 Cfr. E. ARONSON, The social animal, 1972.11 Cfr. L. ROBBINS, Sulla natura e il significato della scienza economica, 1932.

8

secondo cui non è possibile aumentare l’utilità di alcuno senza compromettere quella

di qualcun altro.

La prassi di identificare il termine di economia con la teoria economica

neoclassica si dimostra, però, riduttiva almeno in quanto dimenticandosi dell’origine

etimologica della parola “economia”, non prende in considerazione nella vita reale, e

pertanto elimina dall’orizzonte cognitivo, l’aspetto concreto e quotidiano dell’agire

economico. Infatti il termine economia deriva dall’unione di due termini greci: oikos,

che indica la dimora, e nomos, che indica la legge; pertanto la parola oikonomia, così

come la definisce Aristotele nell’Etica Nicomachea, indica la gestione delle faccende

domestiche.

La limitatezza del concetto di economia comunemente inteso, è evidenziata

dallo studioso ungherese Karl Polanyi vissuto tra il diciannovesimo secolo e il

ventesimo, il quale introduce la significativa distinzione tra la concezione «formale»

e «sostanziale» dell’economia, riprendendo la divisione weberiana tra «razionalità

formale» e «razionalità materiale»12. Così egli definisce i due significati di

economico:

Il primo significato, quello formale deriva dalla natura della relazione mezzi- fini, come in

economizzare o in economico; da questo significato discende la definizione di economico basato sulla

scarsità. Il secondo significato, quello sostanziale, rinvia al fatto elementare che gli essere umani,

come tutti gli altri esseri viventi, non possono mantenersi in vita senza un ambiente materiale che li

sostenga; è questa l’origine della definizione sostanziale di economico. I due significati, quello

formale e quello sostanziale, non hanno nulla in comune.13

Già Aristotele, riconosce Polanyi, distingueva due tipi di produzioni

economiche: la produzione per l’uso, per la sussistenza, l’oikonomia, appunto e la

produzione per il guadagno la crematistica.

Nel corso della storia, però, i due significati di economia sono stati sovrapposti,

per cui si è cercato di legare, peccando di etnocentrismo, l’attività economica di

sussistenza a principi di allocazione efficiente e razionale. Di conseguenza si è

estesa, con pretese di universalismo, l’accezione formale, attuabile di per sé solo in

12 Cfr. M. WEBER, Economia e Società, vol. I, Milano, 1922.13 K. POLANYI, La sussistenza dell’uomo, (a cura di H.W. PEARSONN), Torino, Einaudi, 1983, [ed.orig. 1977], p. 42, cit. in G. P. CELLA, Le tre forme dello scambio. Reciprocità, politica, mercato a partire da Karl Polanyi, Bologna, il Mulino, 1997, p. 56.

9

una società di mercato, come quella capitalista, a tutta la sfera economica, a discapito

di quella sostanziale. A questo proposito, lo studioso ungherese parla di «fallacia

economicista», in opposizione alla quale, egli ritiene invece utile reintrodurre e

utilizzare un concetto di economia più ampio del semplice significato formale, al fine

di effettuare studi comparativi nel tempo e nello spazio tra sistemi economici

differenti.

Inoltre, la teoria economica neoclassica si dimostra riduttiva sotto un altro

aspetto: non considera l’uomo, in quanto agente economico, nella sua dimensione

relazionale. Infatti, punto di partenza e oggetto dell’analisi economica neoclassica è

il singolo individuo, il cui comportamento è spiegato alla luce del concetto della

razionalità strumentale. L’approccio seguito da tale teoria economica, è pertanto

definibile come individualismo metodologico.

Altre scuole di pensiero economico invece, quale quella marxista e quella

polanyiana, prestano attenzione alla dimensione relazionale dell’uomo e, di

conseguenza alle dinamiche relazionali presenti nei contesti economici. Oltre a

mettere in discussione l’approccio dell’individualismo metodologico, suddette scuole

di pensiero muovono diverse critiche alla teoria economica neoclassica Le critiche

di seguito esposte sono di due ordini differenti. Innanzitutto mettono in evidenza

alcuni errori di natura teorica della teoria neoclassica. Conseguentemente, si

focalizzano sulle conseguenze di carattere sociale, determinate da tali errori.

I.2. Cenni alle critiche dell’economia standard nel pensiero di alcuni

autori

Marx14 è uno dei primi studiosi a porsi in contrapposizione rispetto al pensiero

dell’economia classica. Metodologicamente Marx ritiene che si debba indagare la

totalità dell’essere sociale a partire dalla sfera produttiva, da cui dipendono i rapporti

sociali, politici, giuridici e le produzioni culturali. Attraverso le sue analisi vuole

dimostrare che i presupposti su cui si basa la produzione capitalista (proprietà

privata, scambio, salario, profitto, capitale ecc..) non sono di ordine naturale, come

14 La fonte da cui abbiamo attinto le informazioni sul pensiero di Marx è: F. CIOFFI, F. GALLO, G. LUPPI, A. VIGORELLI, E, ZANETTE, Il testo filosofico. Storia della filosofia: autori, opere, problemi, 3/1 l’età contemporanea: l’ottocento, Milano, Bruno Mondadori1, 998, pp.491 e ss.

10

sostengono gli economisti classici, bensì sono dei fenomeni di cui bisogna spiegare il

fondamento perché ricchi di contraddizioni. Come il filosofo tedesco scrive nei

Lineamenti di una critica dell’economia politica, (1859), l’economia politica invece,

«suppone ciò che deve spiegare». Per questo reputa necessario opporre alla

descrizione statica dell’economia politica un’analisi dinamica e dialettica, avendo

come modello il lavoro e le categorie concettuali hegeliane.

Tale influenza hegeliana la si coglie anche nell’Introduzione a Per la critica

dell’economia politica, (1857), sottotitolo dell’opera Il Capitale, in cui Marx

esplicita l’obiettivo della propria analisi scientifica, ossia quello di andare al di là

dell’«apparenza» delle cose, per giungere al cuore della loro essenza risalendo fino

alle loro «forme fenomeniche». Infatti giungere all’essenza dei fenomeni, significa

svelarne la «connessione interna». Secondo il filosofo tedesco, analizzando

correttamente l’economia politica si trova «l’anatomia della società civile», che Marx

intende proprio come un organismo vivente, la cui comprensione e conoscenza passa

attraverso l’analisi delle relazioni dialettiche fra le diverse categorie nell’unità

dell’insieme, e non già attraverso la scomposizione di tale organismo in parti non

correlate. E’ possibile intravedere, in suddetta analisi del filosofo tedesco, una forma

embrionale del pensiero sistemico, sul quale torneremo nelle pagine seguenti.

Il pensiero e gli studi di Marx sono alla base degli studi di Polanyi. Questi,

mosso dal disgusto per come l’economia capitalista stava evolvendosi all’inizio del

ventesimo secolo e, soprattutto, constatando quali conseguenze sociali avesse

causato, dedicò tutta la sua vita di studioso, caratterizzata da un sapere

interdisciplinare, allo scopo di confutare i fondamenti teorici dell’economia classica

e neoclassica. Polanyi contesta primariamente il paradigma

dell’autoregolamentazione del mercato e, secondariamente, l’idea liberale secondo la

quale la società di mercato, quella in cui vige l’economia capitalista, sia

un’evoluzione naturale della società umana. Polanyi intraprende pertanto studi

storici, sociali e antropologici, al fine di metter a confronto la società di mercato con

le società arcaiche e primitive, gettando così le basi per un’economia comparata e per

l’economia antropologica. Il risultato di tale confronto storico lo porta a denunciare il

carattere totalmente artificiale della società di mercato, basata sulla preminenza

dell’elemento economico scorporato (disembedded) dalla società.

11

Analizziamo brevemente il percorso che porta Polanyi alla formulazione di una

così felice ed evocativa espressione, quale quella di embeddedness, per indicare la

relazione che da sempre lega l’economia alla società: l’economico è totalmente

incorporato, incastonato nel sociale. Legame che, però, non sussiste più nell’ambito

della società di mercato, dominata da un’economia di mercato, dove a imperare sono

i mercati e dove quindi, l’economico ha preso il sopravvento sulla società.

E’ grazie agli studi di antropologia e di etnologia, tra i quali spiccano quello

condotto dall’antropologo Marcel Mauss, Saggio sul dono, e l’opera fondamentale di

Malinowski, Gli Argonauti del Pacifico, che lo studioso ungherese effettua

l’eccezionale scoperta: l’economia, in quanto attività legata all’uomo, è in realtà

immersa nei rapporti sociali umani. Questa scoperta confuta le pretese degli

economisti classici i quali sostenevano la naturale propensione dell’uomo verso il

baratto e lo scambio, da cui sono discesi gli assunti teorici di uomo economico e di

razionalità economica strumentale. Infatti, ciò che influenza le scelte e i

comportamenti dell’uomo, secondo Polanyi, non è un criterio economico, inteso nel

suo senso formale, ma è un criterio sociale. Scrive Polanyi:

L’uomo non agisce in modo da salvaguardare il suo interesse individuale nel possesso di beni

materiali, agisce in modo da salvaguardare la sua posizione sociale, le sue pretese sociali, i suoi

vantaggi sociali.15

La subordinazione dell’elemento economico a quello sociale è provato inoltre,

dalla

assenza di motivo di guadagno, [dall’] assenza del principio del lavoro per una remunerazione,

[dall’] assenza del principio del minimo sforzo e in particolare, [dall’] assenza di qualunque

istituzione separata e distinta basata su motivi economici.16

15 K. POLANY, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Torino, Einaudi, 1974 [ed. orig. 1944], p. 61. 16Ivi, p. 62. A riguardo di queste affermazioni sul carattere preminentemente sociale e non economico dell’agire dell’uomo arcaico, Polaniy inserisce nel libro, una parte inerente alle fonti da lui utilizzate. Cfr. K. POLANY, Note alle fonti, in La grande trasformazione...cit., pp. 338 e ss. A questo proposito facciamo presente come uno dei limiti dell’analisi polonyiana sia la riluttanza dello studioso ad ammettere il principio della competizione economica nelle società primitive.

12

La spiegazione di un tale comportamento è proponibile in termini di

sopravvivenza, ossia servendoci dell’accezione sostanziale del termine di economia.

Per farsi capire meglio, Polanyi riporta l’esempio di un’ipotetica società tribale. E’

la società nel suo complesso che pensa alla sopravvivenza dei singoli e pertanto non

c’è spazio per l’interesse economico personale, solo per quello collettivo. I singoli,

dal canto loro, fanno attenzione a conservare e perpetrare i legami sociali, per

rimanere all’interno del gruppo, e continuare a godere dei benefici derivanti da tale

appartenenza. I legami sociali quindi, si configurano come veri e propri obblighi

sociali, analizzati dettagliatamente da Mauss nel suo Saggio sul dono.17

Quanto precede, ci induce a considerare lo studioso ungherese un

istituzionalista, poiché, come si è visto, reputa l’azione economica non spiegabile in

termini individualistici, bensì influenzata dalle istituzioni sociali. Di conseguenza,

per Polanyi, non si può separare il contesto storico e sociale dall’indagine

economica. Infatti nella realtà storica esistono «tipi di economie», «sistemi

economici», rigorosamente al plurale e non riducibili ad astrazioni di alcun genere, in

cui le attività di produzione, distribuzione e scambio, attività indispensabili per la

sopravvivenza di qualsiasi società, sono controllate e gestite da particolari istituzioni

che cambiano nel tempo. Polanyi individua pertanto delle «forme di integrazione»

dell’economia, ossia tre principi fondamentali che regolano le attività di produzione,

distribuzione e scambio dei beni e dei servizi: la reciprocità, la redistribuzione, e lo

scambio di mercato. A ciascun principio sono associate delle strutture o modelli

istituzionali di riferimento che permettono lo svolgersi di tali principi.

Rispettivamente queste sono: la simmetria, la centricità e il mercato autoregolato.

Nelle società arcaiche, o semplicemente anteriori alla nostra, caratterizzate

dall’assenza di istituzioni puramente economiche separate dalla società, i due

principi regolatori sono la reciprocità e la redistribuzione, che si connotano come

non puramente economici. In entrambi i casi Polanyi rileva come «il sistema

economico [sia] in realtà una semplice funzione dell’organizzazione sociale»18.

La reciprocità è legata alle istituzioni della parentela e a quelle claniche,

istituzioni caratterizzate da una struttura simmetrica, in cui si sviluppano relazioni di

«dualità» o «face to face». Infatti beni e servizi vengono prodotti e scambiati sulla

17 Avremo occasione di analizzare questo saggi alle pp.49 e ss. del presente elaborato.18 K. POLANY, La grande trasformazione…cit., p. 65.

13

base delle aspettative di ricevere delle controprestazioni, secondo norme sociali

condivise.

Il principio della redistribuzione invece, la cui struttura di riferimento è la

centricità, è tipico soprattutto dei grandi regni, da quello egiziano al feudalesimo,

dove le istituzioni politiche diventano più importanti di quelle famigliari e parentali.

In questi contesti storici è possibile, effettivamente, scorgere una forma embrionale

statuale caratterizzata da una centralità amministrativa. In questo caso, beni e servizi

vengono prodotti e allocati in base a norme stabilite da un centro, il quale raccoglie

tutta la produzione per poi ridistribuirla. Tale istituzione può essere tanto egualitaria

quanto ineguale, dipende dai criteri politici adottati.

Lo scambio di Mercato, infine, è quella forma di integrazione dell’economia

caratterizzante la società contemporanea. Polanyi definisce quest’ultima come

società di mercato in quanto la produzione e la distribuzione di beni e servizi sono

determinate da mercati regolati da prezzi, mentre lo scambio avviene tramite

commercio, sempre regolato da mercati, in cui i prezzi si formano dall’incrocio della

domanda e dell’offerta. Mentre forme di commercio con prezzi regolati dal mercato,

luogo di contrattazione, ha da sempre presieduto allo scambio di merci, Polanyi

rivela come, invece, sia un fenomeno recente il fatto che la produzione e la

redistribuzione dei redditi avvenga secondo criteri di mercato e, quindi, di prezzo. E’

quest’ultimo aspetto che induce lo studioso ungherese a parlare dello scambio di

mercato come di una forma di integrazione dell’economia. L’istituzione che permette

l’esistenza di una tale forma di integrazione non può dunque che essere il mercato

regolato da prezzi, ossia il «mercato autoregolato». Questo determina la creazione

di quei prerequisiti istituzionali dei mercati autoregolati, quali la proprietà privata, il

capitale, la terra, il lavoro, il lavoro salariato, supposti, e non spiegati dall’economia

classica, come già aveva rivelato Marx, grazie ai quali quest’ultima ha preteso di

spiegare le motivazioni individualiste e utilitariste dell’azione economica.

Una volta preso coscienza di ciò, Polanyi trae le sue conclusioni:

In definitiva è per questo che il controllo del sistema economico da parte del mercato è di

grandissima importanza per l’intera organizzazione della società: esso significa alla fin fine la

conduzione della società come accessoria rispetto al mercato. Non è più l’economia ad essere inserita

nei rapporti sociali, ma sono i rapporti sociali ad essere inseriti nel sistema economico19. 19 Ivi, p. 74.

14

Un tale sistema economico, proprio per la caratteristica di auto regolazione

considerata intrinseca nei mercati, implica che non avvenga alcuna interferenza nel

funzionamento economico da parte della sfera politica, né tanto meno da quella

sociale. Il carattere di subordinazione della società alla sfera economica è quello che

spinge l’autore ungherese a chiamare tale società, società di mercato, senza la quale

un’economia di mercato non potrebbe sussistere. Per questo carattere di

subordinazione, Polanyi definisce la società di mercato, «eccezionale», nel senso di

anomala, tanto rispetto al passato prossimo delle società europee quanto rispetto al

passato remoto delle società primitive.

Dunque, in un’economia di mercato, in cui anche la società è subordinata alle

leggi del mercato, tutto è ridotto a merce, compresi elementi chiaramente

appartenenti alla sfera sociale se non naturale, quali per esempio il lavoro e la terra.

Ma quest’ultimi, nota Polanyi, «non sono altro che gli esseri umani stessi dai quali è

costituita ogni società e l’ambiente naturale nel quale essa esiste»20. Polanyi dunque,

chiama il lavoro, la terra e anche la moneta «merci fittizie»21. Pertanto il principio

organizzativo su cui si fonda un’economia di mercato, e quindi la società di mercato,

è «la finzione della merce», la quale inevitabilmente conduce al disfacimento della

società.

E’ bene precisare come le tre forme di integrazione, proposte nel suddetto ordine

dallo studioso ungherese, non seguono nessuna linea evolutiva nel pensiero di

Polanyi, bensì, tutte e tre possono essere compresenti in una data società, anche se

sovente, una è presente in maniera più esplicita e preponderante delle altre,

determinando così, un peculiare sistema economico. Nella società di mercato, per

esempio, si è assistito al prevalere della forma del mercato sugli altri principi, fino a

che l’economia si è scorporata dalla società.

L’infondatezza del paradigma dell’economia neoclassica

dell’autoregolamentazione del mercato, nociva per la società e per l’ambiente,

conduce inesorabilmente, a una reazione di difesa della prima, secondo Polanyi,

come pure una reazione del secondo, a parere di chi scrive. A partire dunque,

dall’affermazione di una naturalità sociale contrapposta all’individualismo dell’uomo

20 Ivi, p. 92.21 Da non confondere con ciò che Marx chiame il «feticismo delle merci», a indicare il carattere feticistico del valore delle merci. Rimandiamo a p. 16 del seguente elaborato.

15

economico, Polanyi inserisce il discorso della difesa della società dalle pretese

tiranniche del mercato autoregolato. Questo discorso verrà affrontato nelle pagine

seguenti, quando si analizzeranno le conseguenze sociali causate dall’economia di

mercato, basata su principi teorici errati.

I.3. Critiche di natura teorica alle ipotesi dell’economia standard

I.3.a Individualismo metodologico

L’unità d’analisi della teoria neoclassica, come abbiamo visto, è l’individuo

singolarmente preso. Dunque, riducendo l’uomo, in quanto agente economico a un

atomo, la teoria neoclassica, invece di indagare e agire nel campo della complessità,

opera semplificazioni e riduzioni. Secondo l’economista John Friedmann22 l’unità

d’analisi dell’economia dovrebbe invece essere l’economia famigliare, ossia il

casolare (in inglese household, parola che così bene aderisce al concetto greco di

oikonomia). Infatti il nucleo famigliare, secondo Friedman, rispecchia l’embrione di

ogni società politica ed economica allo stesso tempo in quanto è composto da

individui socialmente legati e dipendenti, che, pur competendo talvolta tra di loro,

imparano ogni tipo di relazioni: di scambio, di mercato e affettive. Ponendo come

unità d’analisi il nucleo familiare e non il singolo individuo posto al di fuori di ogni

relazione sociale, Friedmann vuole enfatizzare la dimensione relazionale di noi esseri

umani, al contrario della teoria economica neoclassica.

La teoria economica neoclassica, in quanto fondata sull’ individualismo

metodologico, considera il comportamento economico a livello aggregato, come la

somma dei singoli comportamenti individuali. Il gruppo pertanto, non compare tra i

soggetti dell’analisi. Questo equivale a negare ogni valenza all’influenza che la

società può determinare sul comportamento economico. L’analisi economica così

intesa è l’opposto della visione olistica, il cui centro d’analisi è costituito dalla

società, presa come un tutto inscindibile e in cui l’individuo non è autonomo, ma

assoggettato alle regole della società in cui vive.

22 Cfr. J. FRIEDMANN, Empowerment. The politics of Alternative Development, Cambidge, Massachussets, Blackwell Publishers, 1992.

16

Questi due approcci sono integrati e superati dal concetto di capitale sociale23 e

dalla visione sistemica, adottata dall’analisi bioeconomica, il cui centro è costituito,

non dall’individuo o dalla società, separatamente presi, ma dalla relazione circolare

che comprende entrambi24.

I.3.b. Comportamento economico e razionalità

La teoria economica «dominate» si basa sull’assunto della razionalità

strumentale del comportamento degli agenti economici, orientato alla

massimizzazione dell’ interesse personale sotto il vincolo della relazione tra fini da

raggiungere e mezzi scarsi applicabili a usi alternativi. Il contesto di riferimento è

inteso essere di perfetta e completa informazione, in cui ogni rischio e incertezza

sono elusi, e infine dove agli agenti economici non è dato di modificare le proprie

preferenze nel tempo. Un modello del genere si presenta dunque, come

perfettamente statico, ignorando totalmente la complessità e la dinamicità presenti

nel mondo reale. Secondo la teoria economica standard il comportamento effettivo

degli esseri umani si identifica necessariamente con il comportamento razionale. Ma,

innanzi tutto, rimanendo inizialmente su un livello puramente logico, si ritiene troppo

riduttivo definire la razionalità solamente come massimizzazione dell’ interesse

personale, poiché ciò equivale a dire che tutto ciò che non sia massimizzazione del

interesse personale non è razionale. E viceversa, è altrettanto riduttivo sostenere che

affinché si possa parlare di razionalità si debba sempre avere a che fare con la

massimizzazione dell’interesse personale.

Scendendo invece a un livello pratico, quotidiano, constatiamo empiricamente

come l’agire perfettamente razionale degli individui sia fortemente limitato

dall’impossibilità di disporre sempre di completa e perfetta informazione. Ma

quand’anche si accettasse l’ipotesi di perfetta informazione, non è detto che gli

individui si comportino sempre massimizzando i propri interessi. A questo proposito

il filosofo ed economista Amartya Sen spiega come «la vera questione è se ci sia una

pluralità di motivazioni, o se sia il solo interesse personale a guidare gli esseri

umani».25

23 Rimandiamo al primo paragrafo del secondo capitolo del presente elaborato.24 Rimandiamo al terzo paragrafo del quarto capitolo del presente elaborato.25 A. K. SEN, Etica ed economia, Roma- Bari, Laterza, 1987, p. 28.

17

Sempre secondo Sen, il criterio di razionalità, in quanto massimizzazione

dell’interesse personale, valuta scorrettamente la relazione che unisce il benessere,

inteso in termini di felicità raggiunta in seguito alla realizzazione del proprio

interesse, e la «facoltà d’agire». In altre parole non si tiene conto del fatto

che la facoltà d’agire della persona può benissimo essere indirizzata a considerazioni non

riguardanti – o per lo meno non completamente riguardanti – il suo benessere.26

Sen specifica che tra i due concetti, seppure distinti, possa esistere una certa

interdipendenza, e fa un esempio:

se uno lotta per l’indipendenza del proprio paese, e, quando questa indipendenza è raggiunta, si

sente anche più felice, il risultato principale è l’indipendenza, e la felicità per questo risultato è solo

una conseguenza.27

Il criterio della razionalità, invece presuppone che la facoltà d’agire sia sempre

finalizzata all’interesse personale.

In questo frangente ci sembra illuminante discernere il «razionale» dal

«ragionevole», come propone Serge Latouche nel suo libro La sfida di Minerva28. E’

bene, sostiene l’autore francese, incominciare a prendere le distanze dal «razionale»,

così freddo e inquadrato in una visione mono dimensionale della realtà, appiattita sul

concetto di utilità, per aprirsi al «ragionevole», caldo, dinamico, e vario, come ci

dimostra chiaramente la realtà africana29.

Inoltre, accettare la definizione di razionalità data dai neoclassici, significa

negare ogni valenza alla concezione della motivazione collegata all’etica, e quindi

rifiutare all’etica ogni ruolo nell’effettiva presa delle decisioni.30 Questo ha

comportato l’evolversi dell’ottica strumentale, la quale, non considerando l’uomo

nella sua vera natura di essere vivente in relazione con ciò che lo circonda, lo ha

posto fuori dal sistema naturale, di cui invece fa parte, legittimando la sua logica di

dominio verso l’ambiente. Come vedremo più avanti, l’economista Mauro Bonaiuti,

26 Ivi, p. 54.27 Ivi, p. 57.28Cfr. S. LATOUCHE, La sfida di Minerva. Razionalità occidentale e ragione mediterranea, Torino, Bollati Boringhieri,2000, [ ed, orig. 1999].29 Rimandiamo alle pp. 30 e ss. del presente elaborato.30 A. K. SEN, Etica ed economia... cit., p. 23.

18

proponendo la logica bioeconomica e sistemica, indica come alternativa alla

razionalità strumentale la «saggezza sistemica»31.

Infine, è necessario un altro chiarimento: l’interesse personale non è da

intendersi come alternativa a, e in contrasto con l’interesse collettivo. E’ frequente

osservare, infatti, che in nome della fedeltà a un gruppo di appartenenza, il singolo è

disposto a sacrificare l’interesse personale, o, al contrario, sempre le medesime

azioni motivate dalla fedeltà al gruppo, possono risolversi come un miglioramento

dell’appagamento dell’interesse personale.32

I.3.c. Benessere ed utilitarismo

Il benessere personale è calcolato sulla base di un unico criterio, l’utilità, intesa

come il soddisfacimento delle preferenze individuali. Ma tale criterio è estremamente

semplicistico e non aderente alla complessità della realtà, in quanto il benessere è

composto, in realtà, da molteplici dimensioni. Inoltre, poiché in seguito alla

rivoluzione neoclassica l’utilità è considerata una grandezza incommensurabile, e

quindi inadatta ad effettuare confronti tra utilità diverse, tale criterio non tiene conto

dell’insostituibilità dei beni. Sorge pertanto il problema della non commensurabilità

delle diverse alternative, per cui non si può più dire quanto si preferisce una cosa ma

solo quanto la si preferisce rispetto a qualcos’altro. Infine, usufruendo di strumenti

analitici che garantiscano tale neutralità valutativa, l’economia neoclassica tende a

eliminare la dimensione sociale dalle proprie affermazioni.

Un altra critica mossa da Amartya Sen al benessere inteso come vantaggio di

una persona in termini di risultati da essa conseguiti, è il fatto che presta scarsissima

attenzione al fattore libertà. Secondo Sen:

Si può sostenere che sarebbe meglio rappresentare il vantaggio attraverso la libertà che ha la

persona, e non attraverso (per lo meno non totalmente attraverso) ciò che la persona raggiunge- in

termini di benessere o in termini di aspetto agente- sulla base di questa libertà.33

31 Rimandiamo al terzo paragrafo del quarto capitolo del presente elaborato.32 Rimandiamo a p. 23 del presente elaborato, dove vengono esaminati gli effetti negativi e positivi del capitale sociale: soprattutto in presenza di legami familiari, clanici, e talvolta mafiosi, il grado di sacrificio del singolo verso il gruppo può essere notevole. 33 A. K. SEN, Etica ed economia... cit., p. 61.

19

La libertà dunque, gode di un suo valore intrinseco, che va oltre al valore delle

condizioni d’esistenza concretamente raggiunte dall’individuo. Ma l’economia del

benessere considera la libertà dotata solamente di un valore strumentale per cui ciò

che conta effettivamente sono i risultai raggiunti.

I.3. d. Il carattere entropico della produzione e del consumo

Sviluppiamo la critica all’economia neoclassica, per quanto riguarda le

conseguenze di natura ambientale seguendo l’analisi proposta dall’economista

Mauro Bonaiuti, che riteniamo alquanto esplicativa e completa. Alla base dell’analisi

di Bonaiuti vi è il modello bioeconomico di Georgescu- Roegen,34 il quale

smaschera i presupposti su cui si basa l’economia standard soprattutto dal punto di

vista fisico e biologico, evidenziando la natura entropica intrinseca al processo di

crescita economico.

La teoria della produzione dell’economia standard prevede la massimizzazione

del profitto in vista di una crescita illimitata, da collegare all’ipotesi di non saziabilità

del consumatore, secondo la quale il paniere X” è preferito al paniere di partenza X’,

se X” è ottenuto aggiungendo a X’ una quantità positiva di almeno un bene.35 Ma

l’assunto della crescita illimitata e il corrispettivo assunto di non sazietà del

consumatore, si rivelano infondati e pericolosi. Infondati, perché il mondo in cui

viviamo è fisicamente e biologicicamente limitato; la pericolosità, d’altro lato,

discende dalla constatazione di questi limiti: pretendere una crescita illimitata in un

mondo limitato porta all’autodistruzione fisica, oltre che all’infelicità36. Da ciò

Bonaiuti trae una conclusione di tipo «metodologico»:

la rappresentazione pendolare del processo economico, [...] secondo la quale la domanda

stimola la produzione, e quest’ultima fornisce il reddito necessario ad alimentare nuova domanda, in

un processo reversibile e apparentemente in grado di riprodursi all’infinito, andrà sostituito da una

rappresentazione circolare ed evolutiva, in cui il processo economico risulti radicato nell’ambiente

biofisico che lo sostiene.37

34N. GEORGESCU- ROEGEN, Bioeconomia. Verso un’altra economia ecologicamente e socialmente sostenibile, (a cura di M. BONAIUTI), Torino, Bollati Boringhieri, 2003.35 L’ ipotesi di non sazietà è tuttavia mitigata in parte dalla teoria dell’utilità decrescente, per cui ogni unità di bene aggiuntivo procura al consumatore soddisfazione viva via decrescente.36 M. BOMAIUTI, Introduzione, in N. GEORGESCU- ROEGEN, Bioeconomia...cit., p. 27.37 Ivi, p. 9.

20

Questa nuova rappresentazione di natura bioeconomica è inerente alla fisicità

imprescindibile di ogni processo economico. Ci rammenta l’importanza di

ridimensionare il processo di «valorizzazione» a favore di quello di «lavorazione»

nell’attività produttiva, come aveva già auspicato Marx, il quale condannava il

processo di produzione capitalista il cui principale scopo era appunto costituito dalla

«valorizzazione»38.

Se in ciò che è stato analizzato si volesse intravedere una valenza etica, una

valenza cioè in grado di orientare l’agire umano, secondo Bonaiuti essa si

definirebbe sulla scia della seconda legge della termodinamica39. Questa ci insegna

che il processo economico di produzione ha sempre un «costo», e pertanto, ogni

produzione di qualsivoglia bene o servizio determina un’opportunità in meno per le

generazioni future. Riteniamo questa conclusione una visione negativa, nel senso che

vede in ogni caso il processo produttivo come una negazione di un bene futuro.

Affrontando invece, la questione con un approccio «territorialista»40. l’uomo e

l’ambiente interagendo assieme, possono determinare, anche durante il processo di

produzione, un’accresciuta valorizzazione del territorio, cosicché quanto effettuato

oggi possa costituire una risorsa per domani. Anche se con ciò non si vuole

assolutamente negare l’inevitabilità dell’effettuarsi di un aumento di entropia nel

sistema e nell’ambiente.

I.4. Critiche all’economia standard per le sue conseguenze sociali

38 Rimandiamo a p. 24 di questo elaborato, dove sono esposte le critiche di Marx al modo di produzione capitalista. di seguito in questo elaborato39 La seconda legge della termodinamica, ricordiamo, dice: per ogni processo termodinamico che porta da uno stato di equilibrio a un altro, l’entropia del sistema e dell’ambiente aumenta.40 A. MAGNAGHI, Il progetto locale, ... cit., esaminato nel secondo paragrafo del quarto capitolo del presente scritto.

21

La seguente trattazione sarà suddivisa in base a un criterio storico- cronologico,

secondo il quale si sono manifestate le conseguenze e come tali sono state analizzate

da alcuni studiosi, dei quali si riporta il pensiero.

I.4.a. Il lavoro e l’alienazione

Il lavoro possiede da sempre una molteplicità di valenze. Innanzi tutto si

riconosce una valenza puramente materiale, ossia costituisce un mezzo grazie al

quale poter vivere. Ma insieme, il lavoro caratterizza il ruolo sociale della persona,

divenendo segno e mezzo di riconoscimento: segno di identificazione, grazie alla

posizione sociale ricoperta in seguito al lavoro svolto, e mezzo con cui conquistare la

stima degli altri. Inoltre il lavoro incorpora una valenza simbolica in quanto può

essere uno strumento di auto realizzazione personale e di gratificazione. Attraverso il

lavoro, infine, l’uomo può incidere sulla realtà.

Con l’avvento della fabbrica e della massificazione del lavoro salariato, il lavoro

ha perso quelle caratteristiche peculiari che lo rendevano umano, azione naturale

della persona: l’avvento del capitalismo, secondo Marx, ha determinato la

spersonalizzazione del lavoro, l’alienazione dell’uomo. L’alienazione è vista da Marx

come «espropriazione», e indica il risultato dell’attività di produzione. Secondo il

filosofo tedesco l’alienazione si manifesta, innanzitutto, come alienazione

dell’oggetto dal lavoro, ossia il prodotto del lavoro, in quanto lavoro oggettivato, non

appartiene più al lavoratore. Quindi il processo di oggettivazione, intrinseco

dell’attività lavorativa, diviene processo di alienazione, in quanto è l’operaio stesso

che si oggettivizza nell’oggetto, il quale non gli appartiene. In realtà avviene una

duplice e inversa operazione nel medesimo tempo: la personificazione dell’oggetto, e

la reificazione del lavoratore. Marx assegna un valore positivo all’oggettivazione - in

quanto attraverso essa l’uomo dà forma alla natura, trasformandola – mentre la

distingue dall’alienazione; quest’ultima è, secondo Marx, il fattore contingente e

peculiare che caratterizza la società capitalistica. Da questo assunto che considera

l’alienazione come risultato dell’attività di produzione, Marx distingue tre «lati» del

fenomeno, che, ci sembra, siano esposti secondo una scala che dal particolare va al

generale.

22

In primo luogo Marx parla dell’alienazione dell’attività lavorativa in cui si

verifica l’inversione delle categorie mezzo- fine. Il lavoro dell’operaio diventa un

mezzo sfruttato dal capitalista per arricchirsi. Il lavoro non costituisce più per

l’operaio un momento di auto realizzazione personale: lavorando l’uomo non

costruisce più la propria felicità.

Conseguentemente Marx individua l’alienazione dal genere umano: non

potendosi realizzare nell’attività lavorativa, l’uomo perde la peculiarità del suo

essere, ossia la possibilità e capacità di intervenire sulla natura trasformandola in

modo coerente rispetto a un progetto consapevole; l’uomo perde la sua essenza più

propria ossia la capacità di intrattenere con la natura un rapporto di mediazione. Il

concetto di lavoro alienato costituisce la chiave di lettura per interpretare il rapporto

tra uomo e natura

Per ultimo, vi è l’alienazione dell’uomo, poiché in definitiva la vita stessa non

appartiene più all’operaio ma al capitalista per il quale egli lavora.

In definitiva, conclude Marx, la proprietà privata lungi dall’essere un

presupposto naturale, è in realtà «il risultato del lavoro espropriato», come scrive nei

suoi Manoscritti economico- filosofici del 1844.

Il lavoro, in seguito alla rivoluzione industriale, perdendo tutte le altre valenze

ha conservato solo quella materiale, quale mezzo per la sussistenza. In questo modo,

come sostiene il filosofo e sociologo cileno Luis Razeto

la stragrande maggioranza degli uomini ha perso il controllo delle proprie condizioni di vita,

perché ha trasferito all’imprenditore capitalista o allo Stato imprenditore ogni iniziativa e capacità

imprenditoriale.41

Questo determina la concentrazione delle capacità e delle conoscenze

tecnologiche, e quindi la possibilità di decisione in mano di pochi. In quest’ottica di

mercificazione del lavoro, l’unica cosa che resta ai salariati è vendere la propria

forza-lavoro, che spesso viene rifiutata a causa della sovrabbondanza di offerta.

Dunque, come sostiene Marx, i legami sociali tra gli uomini si possano realizzare

solo attraverso il mercato, dove i mezzi di produzione sono proprietà di una sola

41 L.RAZETO, Le dieci strade dell’economia di solidarietà, Bologna,... cit., p. 61.

23

classe, e l’altra classe possiede solo forza-lavoro. Il capitale crea e presuppone allo

stesso tempo la condizione per cui i rapporti sociali si spersonalizzano.

I.4.b. Rottura e spersonalizzazione dei rapporti sociali

Il sistema capitalista, a causa della natura del suo modo di produzione, il cui

risultato è tanto il bene prodotto quanto il fenomeno dell’alienazione, si configura

come l’origine della spersonalizzazione dei rapporti sociali.

Marx è uno dei primi a studiare questo fenomeno, che fin da subito si connota

come una piaga sociale. L’opera a cui ci riferiamo è Il Capitale, (opera pubblicata in

diversi volumi separatamente,1867,1869-79,1885,1894) dove il punto di partenza è

la merce, la quale presenta la medesima complessità insita nel modo di produzione

capitalistico. La caratteristica peculiare della merce è costituita dalla sua duplice

natura. Ogni merce è infatti contemporaneamente mezzo per la soddisfazione di un

bisogno, e oggetto che viene scambiato sul mercato: ha dunque un’esistenza naturale

e una sociale. In altri termini possiede un valore d’uso e immediato, il quale si

realizza nel consumo, e un valore di scambio e mediato, il quale si realizza nel

commercio. Nello scambio si compie un’astrazione dalla forma concreta della merce,

e il valore di scambio è l’espressione di tale astrazione. Nella società capitalista tale

valore è espresso dal denaro. Il valore della merce è mediato dunque dal denaro.

Marx spiega come si determina il valore di scambio, ossia il criterio con il quale

è possibile monetarizzare le merci. Egli parla di un terzo referente, che non è

un’altra merce ma qualcosa in comune alle due merci in questione: ossia il lavoro

umano in esse oggettivato. Il valore di scambio è quindi un valore mediato, prima

ancora che dal denaro, dal lavoro umano oggettivato nelle merci. Marx nota come la

medesima duplicità che caratterizza la merce si ritrova nel lavoro, solamente però

nella società capitalista, poiché, come ha detto Polanyi, solo la società di mercato o

capitalista ha commesso l’errore di trasformare il lavoro, insieme alla terra e al

denaro, in merci.42 Il lavoro, infatti, in qualità di lavoro «vivo», concreto, quindi

azione di trasformazione della natura, esprime il proprio valore d’uso; invece, il

lavoro in quanto fonte di valore, il lavoro oggettivato nelle merci, dunque il lavoro

astratto, «morto», determina il valore di scambio, il quale finisce per essere il valore

42 Rimandiamo alla nota n.20 di p. 14 del presente elaborato.

24

unico e determinante del lavoro. Nella società capitalista il lavoro, trasformato in

merce, è spogliato della sua forma naturale per essere assunto solo nella sua forma

sociale. Il valore di scambio di una merce viene così a coincidere con il lavoro

astratto in essa contenuta calcolato in ore di lavoro.

Nuovamente la duplicità di forme investe anche il processo produttivo nel suo

complesso. Da una parte esso si configura come processo di «lavorazione» in quanto

finalizzato alla produzione di merci volte alla soddisfazione dei bisogni che come

abbiamo precedentemente visto, è da sempre la vera essenza del lavoro. Ma

dall’altra parte il processo di produzione è simultaneamente processo di

«valorizzazione» grazie al quale il capitale si riproduce e si accresce. E’ nel processo

di valorizzazione che si genera il «plus valore», la cui genesi va appunto ricercata nel

processo di produzione e non già in quello di circolazione. Il plus valore, spiega

Marx, proviene dal lavoro non pagato.

Il processo di «valorizzazione», presente solamente nella società capitalista,

analiticamente e concretamente scindibile dal primo, viene invece assunto

dall’economia politica borghese come inscindibile dal processo di «lavorazione»,

affinché possa essere ricoperto anch’esso, a torto, delle caratteristiche di “naturale”

ed “eterno”. In questo modo il capitale è inteso come cosa. Marx invece obietta

sostenendo, ne Il Capitale che il capitale non è una cosa, bensì è «un rapporto sociale

fra persone mediato da cose». Il capitale crea e presuppone allo stesso tempo, la

condizione per cui i legami sociali tra gli uomini si possano realizzare solo attraverso

il mercato, dove i mezzi di produzione sono proprietà di una sola classe, e l’altra

classe possiede solo forza-lavoro.

Essendo dunque il processo di lavorazione totalmente subordinato a quello di

valorizzazione, anche il lavoro sarà subordinato al capitale, il quale si presenta come

lavoro oggettivato, lavoro alienato nei mezzi di produzione, i quali si accresceranno

sempre in quantità maggiore, grazie al processo di valorizzazione. Il capitale è quindi

lavoro «morto». Dunque il lavoro «morto» comanda il lavoro «vivo», poiché in

definitiva, come scrive Marx ne Il Capitale, «non è l’operaio che utilizza i mezzi di

produzione, ma sono i mezzi di produzione che utilizzano l’operaio», al fine di

accrescersi continuamente. Vige pertanto il dominio della cosa sull’uomo, del

prodotto sul produttore. Questa relazione rovesciata, propria del capitalismo, si

esprime in ciò che Marx chiama «feticismo delle merci».

25

In conclusione, possiamo dire che il capitale, in quanto «rapporto sociale fra

persone mediato da cose», in particolare dal denaro, e l’aver postulato lavoro, terra e

moneta quali merci, quando in realtà non lo sono, hanno determinato,

rispettivamente, la spersonalizzazione e la rottura dei rapporti sociali. Polanyi

esamina le conseguenze dell’elevazione di lavoro, terra e denaro a «merci fittizie».

Egli nota come la formazione del mercato del lavoro causi la progressiva distruzione

delle forme di protezione tradizionale, soprattutto quelle legate ai legami di

parentela. Assieme alle masse di lavoratori, fa capolino nella storia anche la miseria,

prima sconosciuta, perché fin tanto che il sistema economico era incorporato nella

società, la sussistenza era garantita dai legami sociali. Infatti, l’elevazione della terra

a merce ha portato alla «distruzione della società rurale», fondata sui legami sociali

di reciprocità e custode di questi allo stesso tempo.

Per quanto riguarda la spersonalizzazione, Marx spiega, nei Lineamenti

fondamentali della critica dell’economia politica, cosa significa che il denaro si sia

costituito come rapporto sociale. Nella società borghese capitalista, la quale ha

abolito i rapporti di dipendenza personali, tipici delle società che l’hanno

storicamente preceduta, gli individui si mostrano liberi nello scambio sociale. Marx

precisa invece come questa libertà sia in realtà soltanto apparente, in quanto ai

rapporti di dipendenza dalle persone si sono sostituiti quelli dalle cose, cioè dalle

merci, dallo scambio, dal denaro.

Dunque, con l’avvento del capitalismo e della tirannia del denaro, la merce,

qualunque essa sia, nello scambio perde paradossalmente la sua natura sociale. Perde

cioè la capacità di creare legami sociali nell’incontro, pur essendo scambiata

all’interno di una società. Perché inizialmente, in qualsiasi forma si realizzasse lo

scambio, con un baratto (Merce-Merce) o mediante alcune forme di

pagamento(Merce- Denaro- Merce), al centro dello scambio vi era l’incontro di due

soggetti. Ma con il sopravvento del denaro, esso stesso considerato merce e non più

mediazione tra merci, il centro dello scambio si è spostato dalla relazione tra due

soggetti alla merce denaro, (Denaro- Merce- Denaro). Lo scopo dello scambio si

esaurisce totalmente nel creare nuovo denaro con il denaro che già si possiede. Lo

scambio non è più personale, ma diviene impersonale, in quanto l’altro, nel processo

di scambio non è più fondamentale. In altre parole, come ha indicato bene Mauss, il

bene scambiato ha sostituito il legame sociale.

26

I.4.c. Circolo vizioso e auto alimentante del consumo e della produzione

L’analisi finora condotta si è concentrata sulle conseguenze di natura sociale

causate dalla nascita del sistema capitalista. Sebbene storicamente contestualizzate,

tali problematiche sociali caratterizzano a tutti gli effetti anche le società capitaliste

dei nostri giorni, presentando, però, delle peculiarità declinate in base all’epoca

storica del momento.

Attualmente, le società aderenti a un’economia capitalista, che sono ormai la

maggioranza del mondo dato l’imperante processo di globalizzazione tanto

economica quanto culturale43, sono caratterizzate da un’altissima propensione al

consumo, fenomeno altrimenti noto con il nome di consumismo. Il teologo e

psicoterapeuta Eugen Drewermann44, per comprendere e allo stesso tempo spiegare il

comportamento dell’uomo moderno, parte dal concetto di angoscia. La vita è sempre

più disarticolata, parcellizzata, soffocata da mille impegni ed esperienze, dietro alle

quali si nasconde la paura della morte e la difficoltà a dare un senso all’esistenza.

Tutto ciò comporta un’ulteriore difficoltà a instaurare relazioni armoniose con se

stessi, con gli altri con l’ambiente e con Dio.

In un contesto del genere i fattori socio-culturali acquisiscono grande

importanza nel determinare le scelte di consumo degli individui. Una particolare

attenzione è da rivolgere al valore simbolico che ultimamente si attribuisce ai beni,

rispetto alla loro utilità funzionale: i beni vengono scelti in rapporto al significato che

essi assumono in relazione agli altri membri della società con cui si interagisce.

Sempre più spesso, inoltre, i consumatori quando acquistano oggetti, in realtà sono

alla ricerca di “esperienze”. L’uomo, alienato a causa del lavoro, ricerca se stesso

negli oggetti che consuma. Si assiste a un vero e proprio processo di identificazione

sociale attraverso il consumo. Si manifesta agli altri il proprio stile di vita esibendo il

marchio dei prodotti che si usano. Il consumo di un certo taglio, dicono i sociologi

sostenitori dell’approccio «neodiffernziazionista»,45 diventa indice di uno status

43 Consapevoli della complessità e ambiguità di tale termine, ci riserviamo, al fine di non divergere dalla tematica di tale scritto, di non approfondire l’argomento e di rimandare il lettore interessato a testi specifici sul tema.44 Cfr. E. DREWERMANN, 1982, cit. in M. BOMAIUTI, Introduzione, in N. GEORGESCU- ROEGEN, Bioeconomia....cit., p. 47 e ss.45 Cfr, J BAUDRILLARD, 1968, 1970, cit. in C. TRIGIGLIA, Sociologia economica. Vol. II, Bologna, il Mulino, 1998, p. 212.

27

symbol, agendo come fattore di differenziazione sociale. I consumatori, secondo

questa scuola, sono totalmente passivi di fronte al condizionamento dei media.

Secondo altri invece, il consumo diviene veicolo di comunicazione indiretta, e non

già mezzo con cui competere socialmente.46

Dall’altro lato anche il lavoro, come il consumo, snaturato della sua funzione,

viene utilizzato come valvola di sfogo per sopprimere solitudini o per supplire a

carenze affettive. Oppure, il lavoro viene inteso in un’ottica strumentale, cioè come

mezzo per affermarsi socialmente e, strettamente legato al consumo, assurge a status

symbol: si cerca di guadagnare di più al fine di poter spendere in prodotti d’alta

qualità e di marca.

In entrambi i casi, avendo riposto nel consumo e nel lavoro la speranza di

trovare risposte di senso e di significato si è portati a consumare o a lavorare

maggiormente, con il risultato di non trovare la felicità sperata, ma di accrescere il

senso di insoddisfazione e quindi di infelicità.

46 Cfr, Sahlins, 1976, cit. in C. TRIGIGLIA, Sociologia economica....cit., p. 213.

28

CAPITOLO II

LA RELAZIONE IN ECONOMIA

II.1. Il capitale sociale

Per rispondere all’interrogativo di fondo, e cioè se possa esistere o meno

un’economia di relazione, abbiamo inizialmente chiarito che il concetto di economia

è in realtà composto da due anime, quella sostanziale e quella formale e che

l’economia neoclassica fa riferimento solamente all’accezione formale del termine

economico, dimostrando, in questo modo, la sua limitatezza. Inoltre, attraverso

diverse critiche rivolte alla teoria economica neoclassica da alcuni studiosi

economisti emerge che l’economia standard non si configura come economia di

relazione.

Procedendo nella nostra trattazione, spostiamo l’attenzione dal concetto di

economia a quello di relazione. Il campo d’analisi verterà però, non già sul concetto

di relazione in senso lato, bensì sulla relazione in economia. Ci chiediamo pertanto,

quale ruolo giocano le relazioni più o meno personali tra gli individui nel campo

economico. Per dare risposta a tale quesito ci serviremo del concetto di capitale

sociale.

Il concetto di capitale sociale è un termine recente, che rimanda in realtà a una

verità antica quanto l’uomo, perché parla appunto della natura umana, ossia della

relazione. Inventando il termine di capitale sociale si è semplicemente formalizzato e

concettualizzato ciò di cui l’essere umano ha da sempre fatto esperienza, ossia che

senza relazioni non è possibile vivere.

Effettivamente il concetto di capitale sociale è molto più antico del termine in

sé, poiché è già presente nel saggio di Max Weber, Le sette protestanti e lo spirito del

capitalismo47, dove, sebbene il sociologo tedesco non parli di capitale sociale, si

mettono già in luce alcune caratteristiche di tale concetto. Egli infatti capisce

l’importanza delle reti sociali, siano esse a base religiosa, culturale o politica, nella

47 Cfr. M. WEBER, Sociologia della religione, Milano, Comunità 1982, [ed. orig. 1920-21], cit. in C. TRIGIGLIA, Capitale sociale e sviluppo locale, in Capitale sociale. Istruzioni per l’uso, Bologna, il Mulino, 2001, p. 106.

29

determinazione dell’imprenditorialità. Individua quindi una correlazione tra i reticoli

sociali e lo sviluppo economico.

Agli inizi degli anni settanta il sociologo Mark Granovetter (1973) mette in

risalto la correlazione tra l’importanza delle reti sociali orbitanti attorno agli

individui e la capacità di trovare lavoro, nonostante egli non si riferisse mai al

concetto di capitale sociale. Egli sostiene l’importanza dei «legami deboli»48, ossia

legami meno intensi, sporadici, ma più aperti all’esterno e quindi con un raggio

d’azione maggiore, più ancora che dei «legami forti», ossia legami intensi ma con la

tendenza a rimanere chiusi, nella ricerca del lavoro, nella mobilità, nella circolazione

di informazione.

Glenn Loury è uno dei primi che, nel 1977, utilizza espressamente la parola di

capitale sociale, con la quale si riferisce a una rete di relazioni familiari e sociali in

grado di incrementare il capitale umano. Nel 1980, Bourdieu pone chiaramente la

distinzione tra capitale economico, culturale e sociale. Il capitale sociale è inteso da

Bourdieu come rete di relazioni personali di cui un individuo può disporre per far

fronte a determinati obiettivi e anche per perseguire un miglioramento della sua

posizione sociale.

Dieci anni dopo, James Coleman, a cui si guarda come l’effettivo padre del

concetto di capitale sociale, parla di capitale sociale come rete di relazioni che fanno

capo ai singoli individui. Egli precisa che il suo intento, nella sua opera principale,

Foundations of social theory, [1990], nel quale perfeziona il concetto di capitale

sociale, è quello di correggere la distorsione individualistica dell’economia classica.

Ma il concetto di capitale sociale acquisisce popolarità piena con l’opera principale

di Putman, La tradizione civica nelle regioni italiane, (1993), in cui l’autore spiega

l’arretratezza economica del Mezzogiorno a partire dall’insufficienza di capitale

sociale causata, secondo l’autore, da fattori storico-culturali. Putman viene

successivamente criticato per la sua tendenza culturalista, che snatura il significato

originario di capitale sociale datogli da J. Coleman e che privilegia una spiegazione

statica e predeterminata, non tenendo conto del ruolo attivo degli attori.

Il termine di capitale sociale, come abbiamo appena visto, comincia a essere

esplicitamente impiegato a fine anni settanta, nell’ambito scientifico al confine tra

quello sociologico e quello economico. Diventa quindi un concetto cardine della 48 Cfr. M. GRANOVETTER, La forza dei legami deboli, Napoli, Liguori, pp. 115-146, cit in C. TRIGIGLIA, Introduzione: ritorno alle reti, in Capitale sociale...cit., p. 8.

30

sociologia economica, con riferimento al funzionamento del mercato del lavoro e alle

forme di organizzazione dell’economia. In altre parole, il termine di capitale sociale

è stato coniato per cercare di capire e spiegare come i fenomeni sociali possano

influire e condizionare l’azione economica. Fin dall’esordio dell’applicazione di tale

concetto, si rende pertanto esplicito il problema di confine disciplinare: da una parte

l’economia si occupa delle relazioni di scambio, e delle istituzioni che ne

conseguono, ossia il mercato in un contesto capitalista; dall’altra, la sociologia si è

sempre occupata delle relazioni non di scambio. Ma nel tempo i confini sono stati

erosi da ambo le parti. La definizione di capitale sociale, oltre che il termine stesso,

ha preso a prestito termini del dominio economico. Innanzitutto con l’espressione di

capitale si fa riferimento a un qualcosa che si comporta a tutti gli effetti come una

risorsa per chi lo detiene, per chi ne è in possesso. In altre parole si definisce capitale

sociale l’insieme

delle relazioni sociali in possesso di un individuo [le quali costituiscono] un insieme di risorse

che costui può utilizzare, assieme ad altre risorse, per meglio perseguire i suoi fini.49

Inoltre, rimanendo nel campo delle metafore economiche, per non dire di un

vero e proprio linguaggio economico, il capitale sociale, in quanto capitale, è inteso

come produttivo, ma per essere tale richiede qualche forma di investimento. Infatti

secondo la sociologa Fortunata Piselli

il capitale sociale è il risultato di strategie di investimento, intenzionale o inintenzionale,

orientate alla costruzione e riproduzione di relazioni sociali durevoli, capaci nel tempo di procurare

profitti materiali e simbolici.50

Infine, secondo il sociologo Carlo Trigilia, con il concetto di capitale sociale la

sociologia economica si spinge oltre: si misura con l’economia nel suo stesso campo,

ossia nella scelta dei mezzi51. Si afferma che le scelte economiche non sono

condizionate unicamente dalle risorse economiche a disposizione della persona, ma

anche da risorse sociali, e nella fattispecie dalle reti di relazioni. Si prendono dunque

49 A. PIZZORNO, Perché si paga il benzinaio. Per una teoria del capitale sociale, in Capitale sociale....cit., p. 21.50 F. PISELLI, Capitale sociale: un concetto situzionale e dinamico, in Capitale sociale,... cit., p. 49.51 C. TRIGIGLIA, Introduzione, ...cit., p. 9.

31

le distanze tanto dalla visione «ipersocializzata» dell’attore sociale, il cui

comportamento è drasticamente influenzato dalle norme e dalla cultura interiorizzate

grazie al processo di socializzazione, tanto dalla visione «iposocializzta»52

caratterizzante l’approccio dell’economia classica che, come abbiamo visto, vede

l’attore economico calcolatore ed utilitarista. Attraverso l’analisi strutturale, invece,

la quale pone l’accento sulle reti di relazione sociale, si vuole dare risalto alle

dinamiche interattive. In questo modo

il concetto di capitale sociale consente una visione più aperta dei possibili esiti dell’azione e

nello stesso tempo permette di cogliere le dinamiche di cambiamento [...].53

Fortunata Piselli, cogliendo pienamente la natura dinamica del capitale sociale,

lo definisce in modo al quanto appropriato come

un concetto situazionale e dinamico: un concetto, pertanto, che non si riferisce a un “oggetto”

specifico, non può essere appiattito in rigide definizioni, ma deve essere interpretato, di volta in volta,

in relazione agli attori, ai fini che perseguono, e al contesto in cui agiscono54.

L’aggettivo situazionale, utilizzato dalla Piselli a partire dalle argomentazioni

che Coleman sviluppa riguardo al capitale sociale, rinvia alla non tangibilità della sua

essenza, in quanto inerente alla struttura delle relazioni. L’aggettivo dinamico

rimanda all’idea che i vari soggetti usufruiscano della rete in modo di volta in volta

diverso a seconda del mutamento delle esigenze. Data questa natura dinamica del

capitale sociale, i risultati ottenibili dall’interazione delle reti con le istituzioni

pubbliche e con la sfera economica varieranno al variare della natura delle reti e del

tipo di rapporti intrattenuti. Poiché «il capitale sociale è il risultato di un’interazione

dinamica: si crea, si mantiene, si distrugge.»55, richiede investimenti continui, che

come abbiamo già visto, la Piselli definisce investimenti di tipo relazionale. Di

conseguenza lo studio del capitale sociale è inscindibile dal contesto istituzionale in

cui è inserito. Pertanto differenti saranno anche le forme che il capitale sociale

52 Per i termini «ipersocilaizzata»e «iposocializzata» cfr. M. GRANOVETTER, Economic Action and Socila Structure: The Problem of Embeddedness, in «American Journal of Sociology», n. 91, cit in C. TRIGIGLIA, Sociologia Economica...cit., p.192.53 C. TRIGIGLIA, Introduzione, ... cit., p. 13.54 F. PISELLI, Capitale sociale: un concetto situazionale e dinamico,.. cit., p. 48.55 Ivi,... p 52.

32

assumerà di volta in volta, e di volta in volta sarà produttivo a seconda delle

situazioni.

Riprendendo il pensiero di J. Coleman, la Piselli spiega come il concetto di

capitale sociale in realtà incorpori tanto una dimensione soggettiva quanto una

oggettiva o collettiva, e come queste due dimensioni interagiscono tra loro. La prima

dimensione, quella soggettiva, riguarda le risorse relazionali, le reti sociali ereditate o

costruite di cui può disporre l’individuo. Piselli chiarisce però, come reti sociali e

capitale sociale non coincidano. Le prime infatti

possono esser considerate dal punto di vista delle caratteristiche morfologiche[...] dal punto di

vista della natura dei legami [...] e dal punto di vista dei contenuti che transitano nella relazione [...] Il

capitale sociale, invece, è incorporato nelle relazioni sociali56,

e in quanto risorsa è sempre fonte di benefici.

La seconda dimensione, quella strutturale o oggettiva, si esplica in

caratteristiche strutturali e normative di un determinato sistema sociale.

Conseguentemente a questa dimensione, Coleman dedusse come una delle

caratteristiche peculiari del capitale sociale sia quella di avere la natura di bene

pubblico, differentemente dalle altre forme di capitale. Esso pertanto si presenta con

le caratteristiche di indivisibilità e di non rivalità nel consumo. Infatti Coleman scrive

che

come attributo della struttura sociale in cui la persona è inserita (embedded) il capitale sociale

non è proprietà privata di alcuna delle persone che ne traggono vantaggi57.

Coleman, attraverso studi antropologici, che hanno costituito la base anche dei

lavori di Polanyi, nota come nelle società in cui l’economico è incorporato nella

socialità, riprendendo il termine polanyiano, la natura di bene pubblico del capitale

sociale si esplica nel modo più completo possibile producendo benefici usufruibili da

tutti. Non così avviene in un contesto dove vige la società di mercato la quale è

assoggettata alle logiche di mercato. In questo caso il capitale sociale tende a

56 Ivi,... p 53.57 J. COLEMAN, Foundation of social theory, Cambridge, MA, The Belknap Press of Harvard University Press, 1990, p. 315, cit., in F. PISELLI, Capitale sociale: un concetto situzionale e dinamico.. cit., p. 50.

33

comportarsi piuttosto come «un bene selettivo, che favorisce certi gruppi specifici e

in relazione a determinati scopi»58.

Tali meccanismi selettivi con cui si diffonde il capitale sociale sono stati definiti

nei lavori di Portes e Landolt, The downside of social capital del 1996, come

processi di esclusione, con conseguenze negative ai fini dell’integrazione sociale.

Altri possibili effetti negativi del capitale sociale in quanto bene selettivo soprattutto

dal punto di vista collettivo sono: il livellamento sociale, il controllo normativo,

fenomeni di collusione, chiusura, favoritismi all’interno della cerchia ristretta della

rete a discapito dei soggetti esterni ad essa. Tutto questo può determinare dinamiche

inefficienti dal punto di vista economico, non lasciando mano libera alla

concorrenza. Inoltre può rafforzare la tendenza, cresciuta soprattutto negli ultimi

tempi di crisi del welfare, di usufruire dei benefici del capitale sociale inteso

ideologicamente come self-help,59come alternativa alle istituzioni pubbliche. Ma

come giustamente ha chiarito Putman attraverso i suoi ultimi scritti, il capitale

sociale non deve mai diventare un surrogato delle azioni istituzionali pubbliche. Le

reti infine, possono erigersi a controllori morali, e non solo del comportamento dei

soggetti che ve ne fanno parte, inibendo così lo spirito di innovazione.

Abbiamo definito il capitale sociale come quella risorsa costituita dalle relazioni

sociali che fanno capo a un individuo. Ma non tutte le relazioni sociali danno origine

al capitale sociale. Secondo il sociologo Alessandro Pizzorno non sono sufficienti dei

legami sociali per dire che esiste capitale sociale. Sicuramente le «relazioni di

scambio», quelle di «mero incontro», e infine a quelle di «ostilità» non lo

determinano60. Tutte queste tipologie di relazione sono infatti accomunate da alcuni

tratti peculiari: non necessitano del riconoscimento dell’identità degli attori in azione,

e non prevedono che la relazione abbia una durata, ma che essa sia piuttosto

puntuale. Si deduce pertanto,

che dovremo circoscrivere come portatrici di capitale sociale quelle relazioni in cui sia possibile

che l’identità più o meno duratura dei partecipanti sia riconosciuta, e che inoltre ipotizzano forme di

solidarietà o di reciprocità61.

58 F. PISELLI, Capitale sociale: un concetto situzionale e dinamico... cit., p. 61.59 C. TRIGIGLIA, Introduzione, ... cit., p. 12.60 A. PIZZORNO, Perché si paga il benzinaio...cit., p. 22.61 Ivi,... p. 23.

34

Alessandro Pizzorno distingue due forme di capitale sociale: quello «di

solidarietà» e «quello di reciprocità»62. La prima forma presuppone l’esistenza di

gruppi fortemente coesi e integrati con alto grado di percezione di sé, caratterizzati

dalla presenza di «legami forti», utilizzando la nota espressione utilizzata dal

sociologo Gravovetter. Questo tipo di reti, secondo il pensiero della Piselli,63 sono

efficienti in termini di assistenzialismo e talvolta di sopravvivenza, grazie al sostegno

garantito dalla comunità verso i membri. Il «capitale sociale di reciprocità», invece,

non presuppone l’esistenza di gruppi coesi, ma è caratterizzato dalla presenza di

«legami deboli», i quali risultano vincenti nell’inserimento lavorativo, nella mobilità,

e nella circolazione di idee.

II.2. La logica del dono

Servendoci del concetto di capitale sociale abbiamo dunque potuto constatare

che le relazioni sociali sono presenti all’interno dell’economia, e più precisamente

nell’economia di mercato, e soprattutto che possono in qualche modo influenzarla.

Questo però, non significa ancora che esiste un’economia di relazione, anche se può

fornirci alcune indicazioni per poter incamminarci verso una tale economia.

Prima di procedere oltre nel capire in che modo sia possibile realizzare

un’economia di relazione, abbandonando per un momento l’analisi delle società

capitaliste, ci soffermiamo invece, sulla realtà di altre società geograficamente situate

a Sud: le società africane rurali e delle periferie; le società dell’America Latina; e

infine, brevemente, il Mezzogiorno italiano. Tutti i contesti esaminati, caratterizzati

da una povertà economica, sembrano invece, essere ricchi di quel fattore che

abbiamo chiamato capitale sociale, di cui ignorano il nome ma non certo l’esistenza,

grazie al quale hanno dato vita a varie forme di economia, seppure di sopravvivenza.

Cerchiamo dunque di capire quale valenza hanno l’elemento economico e la

relazione in queste società, e soprattutto in che modo interagiscono.

Per capire e comprendere a fondo l’essenza intrinseca di tali società, è

necessario, però, cominciare, come ci ricorda Serge Latouche a proposito delle

62 Ivi,... pp. 27 e ss.63 F. PISELLI, Capitale sociale: un concetto situazionale e dinamico.. cit., p 57.

35

società africane da lui studiate,

col denunciare ciò che possiamo chiamare l’illusione economica, la miopia economica, per poi

analizzare la complessità degli espedienti cha assicurano la sopravvivenza dei naufraghi e le logiche

sociali che ne permettono la riproduzione e, infine, tentare di cogliere l’unità sociale [...]64.

Intraprendiamo inizialmente lo studio delle società africane, dapprima nella

dimensione rurale, avvalendoci degli studi condotti da Goran Hyden65e, in seguito,

nella dimensione urbana grazie alle analisi effettuate da Serge Latouche.

II.2.a. L’«economia dell’affetto»

Gli studi che Hyden ha condotto in Africa, soprattutto in Tanzania agli inizi

degli anni ottanta, lo hanno portato a coniare il concetto di economia dell’affetto per

indicare il tipo di economia che caratterizza le società rurali africane. Nell’analisi

condotta, Hyden si è prefisso di presentare le principali funzioni dell’economia

dell’affetto, e di indagare come esse influiscano da un lato, sulle società di base e,

dall’altro, sull’apparto statale ed economico. La conclusione a cui giunge è che, se in

un primo momento l’economia dell’affetto può beneficiare le società di base, in un

secondo momento, in una prospettiva di medio- lungo termine, questa risulta invece

deleteria poiché mina la costruzione dello stato e dell’economia di mercato. La via

dello sviluppo che egli vede per il continente africano è dunque quella dell’economia

capitalista appoggiata da uno stato efficiente. Non concordiamo su tali conclusioni.

La tesi sostenuta nel presente elaborato va invece, esattamente nella direzione

opposta. Si sostiene, attraverso il pensiero di Euclides Mance, che la forma del

mercato capitalista possa essere sostituita da una nuova economia basata sulla

relazione, per la quale l’economia dell’affetto potrebbe costituire una realtà cui

riferirsi, dopo averne analizzato criticamente tanto gli aspetti positivi quanto quelli

negativi.

Hyden, prima di giungere a illustrare che cosa sia l’economia dell’affetto, si

attarda a spiegare come funziona il modo di produzione contadino, al fine di chiarire

64 S. LATOUCHE, Altri mondi, altre menti, altrimenti. Oikonomia vernacolare e società conviviale, Calabria, Rubettino Editore, 2004, p. 73.65 G. HYDEN, No short cuts to progress: African development management in perspective, Heinemann, 1983, p. 5.

36

meglio il ruolo giocato dall’economia dell’affetto in questi contesti rurali. Ciò che

caratterizza il modo di produzione contadino è la quasi inesistente divisione del

lavoro, peculiarità che innesta una serie di conseguenze di natura economica a

catena. Le piccole unità di produzione coincidono con le unità di consumo, in

quanto, non essendoci divisione del lavoro, e dunque specializzazione, viene anche

meno il presupposto allo scambio, secondo la nota teoria dei vantaggi comparati

proposta da Richardo.

Il mancato rapporto di scambio comporta l’impossibilità di instaurare una

interdipendenza strutturale e relazionale tra le varie unità di produzione, la quale

invece potrebbe incentivare lo sviluppo dei mezzi di produzione, la cui mancanza

determina a sua volta, una limitata fattibilità del realizzarsi di un surplus e quindi

della divisione in classi. Pertanto, tale modo di produzione riproduce l’isolamento

delle singole unità produttive. Data quest’autonomia, per non parlare di autarchia,

che caratterizza le singole unità contadine di produzione, la natura della relazione che

intercorre tra coloro che detengono il potere all’interno dello stato e coloro che

coltivano, non appartiene al sistema di produzione. Infatti, piuttosto che come

relazione produttiva, essa si connota come relazione tributaria, dal momento che

l’appropriazione della produzione da parte di chi detiene il potere avviene attraverso

la tassazione. Per comprendere meglio, bisogna partire dalla constatazione che i paesi

africani potrebbero ancora definirsi società senza stato66.

Concludendo la spiegazione del modello di produzione contadino, l’autore

ricorda come, ogni volta che ci si riferisce al concetto di “modo di produzione”, in

realtà, si opera una mera astrazione, la quale rimanda a un modello unitario e puro.

Nelle società della vita reale, invece, raramente si trova un modo di produzione

singolo e puro. La formazione sociale è appunto specchio dei differenti modi di

produzione facenti parte della società. Hyden, infatti, non ha mancato di notare come

nei paesi africani convivano i due modi di produzione, quello tradizionale e quello

occidentale. 66 Lo stato, infatti, scaturito dal passato coloniale e appartenendo, da un punto di vista concettuale, al dominio cognitivo europeo, ha fatto fatica a passare dal piano dell’astrazione a quello della realtà, non riuscendo a presentarsi come concreto interlocutore per la popolazione, soprattutto la più povera, e rimanendo estraneo alle attività produttive quotidiane della società. Di conseguenza, dato il rapporto che lega il contadino e lo stato, dove quest’ultimo percepito non indispensabile dal primo, è inevitabile che ogni intervento statale perpetuato al fine di migliorare la sua agricoltura viene percepito da questi sempre come un intervento esterno. D’altro canto, possedendo egli la terra, identificandosi quasi con essa e trovando rifugio in essa, gli risulta facile eludere le pretese statali.

37

L’economia dell’affetto assume un ruolo fondamentale nello studio dell’autore,

in quanto secondo questi, essa costituisce il modello di spiegazione per ogni forma di

organizzazione tanto sociale quanto economica della realtà africana. Hyden si affretta

a precisare che tale termine, economia dell’affetto, non ha nulla a che vedere con un

discorso sentimentale ed emotivo. Piuttosto, esso si riferisce

a una rete di supporto, comunicazioni e interazioni tra gruppi strutturalmente definiti, legati da

rapporti di sangue, di pelle, comunitari, o per altre affinità, come la religione67.

L’economia dell’affetto si muove spinta da due vettori contemporaneamente:

uno verticale e uno orizzontale. Il primo attraversa la stratificazione sociale dalla

base ai vertici; il secondo, si riversa su tutta quanta la società nel suo complesso pur

concentrandosi maggiormente nelle comunità rurali. In entrambi i casi al centro ci

sono i legami sociali. Legami, dunque, che sono in grado di collegare tra loro proprio

quelle singole unità economiche e sociali, supplendo così alla parcellizzazione delle

stesse, che altrimenti si andrebbe a creare, date le caratteristiche intrinseche del modo

di produzione contadino, il quale appunto, tende invece a isolare e rendere autonome

le varie unità. In altre parole, tali legami costituiscono capitale sociale. Hyden spiega,

facendo proprio il pensiero di Polanyi, come ogni decisione economica in realtà sia

incorporata in altre condizioni sociali e non economiche, data la natura

dell’economia dell’affetto incastonata nei legami sociali.

Poiché la cooperazione che si instaura tra le singole unità economiche e sociali,

si afferma quale elemento esterno al modo di produzione contadino, si deduce che

l’economia dell’affetto non può essere considerata parte di questo. Si può parlare

invece, di «organizzazioni invisibili», informali piuttosto che formali, e che quindi

non apportano alcun contributo esplicito ai flussi macro-economici. Questo è dovuto

al fatto che in Africa, diversamente che dall’America Latina o dall’Asia, l’economia

dell’affetto è saldamente radicata nella società, e viene percepita soprattutto dai

contadini come un’economia alternativa a quella nazionale. Come precedentemente

si è visto, date le caratteristiche del modo di produzione rurale, il contadino può

permettersi di operare e muoversi in entrambi gli ambiti economici, quello informale

67 G. HYDEN, No short cuts to progress... cit., p. 8.

38

e quello formale, insomma di avere un piede in due scarpe, utilizzando la metafora

proposta da Hyden. Pertanto le decisioni economiche operate dal contadino saranno

talvolta favorevoli, talvolta contrarie a obiettivi macro economici e nazionali. Ma

non per questo, soprattutto in caso di decisioni controproducenti per l’economia

nazionale, si deve concludere che le decisioni intraprese all’interno dell’economia

dell’affetto siano irrazionali. Anzi, Hyden ribadisce che quest’ultime rispondono

rigorosamente a una logica razionale, seppure diversa da quella occidentale68. Come

ci ricorda Latouche, il «ragionevole», non per forza è «razionale».

Hyden evidenzia come l’economia dell’affetto abbia lo scopo di assolvere

principalmente a determinate funzioni distinguibili in tre categorie generali: la

sopravvivenza base, la conservazione sociale, e lo sviluppo. Dalla sequenzialità con

cui l’autore propone i tre ambiti è possibile intravedere la volontà di legarli in una

scala progressiva. Per cui ogni categoria è l’evolversi della precedente e ne

costituisce il livello successivo. Analizzando nello specifico ciascuna categoria, ne

verranno abbozzati rispettivamente gli aspetti negativi.

Per quanto riguarda la prima categoria, si evidenzia come per la maggior parte

dei nuclei familiari dei paesi africani, dato il loro marginale coinvolgimento

nell’economia formale, se non addirittura la loro completa assenza da essa, risulti

materialmente impossibile sopravvivere, se non fosse per la presenza dell’economia

dell’affetto. Infatti grazie alla «natura degli scambi faccia a faccia», usando

un’espressione dello stesso Hyden, e alle relazioni di reciprocità che caratterizzano

l’economia dell’affetto, si vengono a creare dei legami di fiducia da un lato, e di

obbligazione morale e sociale, dall’altro, secondo la logica del dono, esaminata da

Marcel Mauss nel suo saggio. La natura sociale di tali legami è tale per cui la

maggior parte della gente in essi coinvolti preferisce arrangiarsi attraverso i canali

informali dell’economia dell’affetto, piuttosto che affidarsi a quelli formali

dell’economia nazionale. I poveri dunque, inizialmente emarginati dall’economia

formale per la loro povertà, finiscono per auto escludersi trovando sostentamento

nelle reti sociali dell’economia dell’affetto, le quali assolvono fondamentali funzioni

sociali sostituendosi, così, alle istituzioni sociali. Quest’ultimo aspetto è un esempio

di quanto abbiamo evidenziato riguardo agli aspetti negativi che si possono

nascondere dentro al capitale sociale. Tali prestazioni vanno dalle cure mediche 68 Rimandiamo al diverso significato dei concetti razionale e ragionevole, proposti da Latouche e esaminati più avanti nel presente elaborato, a p.33.

39

all’apprendimento del lavoro, dall’assistenza in generale alle richieste di prestiti. E’

durante le catastrofi naturali o causate da mano d’uomo che l’economia dell’affetto

raggiunge il culmine nell’esplicare il suo scopo volto alla sopravvivenza base delle

persone che a essa si affidano. Ciò che caratterizza l’attivazione delle varie reti

sociali soprattutto nel momento del bisogno è l’assoluta spontaneità.

Per quanto concerne la seconda categoria delle funzioni dell’economia

dell’affetto, ossia la conservazione sociale, l’autore la qualifica come una pratica

frequente che si spande dal semplice fare doni all’interno di un piccolo cerchio di

parentado, fino a contributi più ingenti con finalità religiose, per esempio per

cerimonie quali il matrimonio o il funerale, o con finalità politiche creando

fenomeni di patronato e corruzione. Nuovamente, in quest’ultime due pratiche

riconosciamo l’analogia con alcune degli aspetti negativi del capitale sociale. Se si

accetta l’ipotesi di una lettura progressiva delle tre categorie, si può notare come in

questo secondo livello la funzione assolta dall’economia dell’affetto risulti invariata

rispetto al primo livello, in quanto a modalità di esplicazione, poiché ci si serve delle

medesime reti sociali e delle medesime prestazioni tra le persone. Ciò che cambia è

invece, lo scopo per cui vengono attivate le reti sociali: una volta assicurata la

sopravvivenza base, l’economia dell’affetto si preoccupa di perpetrare l’essenza

stessa della società. Da qui il nome dato da Hyden a questa funzione di

«conservazione sociale». Quest’ultima, appoggiandosi ai circuiti informali, però,

finisce con il detrarre risorse all’economia nazionale, ove invece, secondo l’autore,

potrebbero essere proficuamente impiegate. L’economia dell’affetto grazie a questa

funzione permette al sistema sociale locale di mantenersi e auto riprodursi,

caratterizzandolo pertanto come sistema complesso dotato della caratteristica

dell’autopoiesi.69

Infine, per parlare del terzo livello delle funzioni dell’economia dell’affetto,

ossia quello legato allo sviluppo, Hyden introduce il discorso sul settore informale.

Spiega come quest’ultimo non debba essere identificato, come spesso accade, con

l’economia dell’affetto, ma piuttosto, con quella parte di attività economiche rese

possibili e favorite dall’economia dell’affetto.

Riassumendo, si può riconoscere come l’economia dell’affetto giochi un ruolo

positivo e di supporto nel provvedere a una rete di sicurezza in grado, talvolta, di 69 Per la teoria dei sistemi complessi, rimandiamo al primo paragrafo del terzo capitolo del presente elaborato.

40

dirottare il surplus generato all’interno dell’economia formale verso canali informali

facilmente raggiungibili dai più poveri, altrimenti esclusi dalla ricchezza nazionale.

Ma proprio questo, evidenzia Hyden, costituisce l’aspetto negativo, l’altra faccia

della medaglia dell’economia dell’affetto. Infatti, sottraendo risorse all’economia

formale, se, da una parte, essa aiuta i più poveri, dall’altra, ostacola lo sviluppo dello

stato poiché impedisce o ritarda il formarsi di comportamenti istituzionali in grado di

avviare e di sostenere la crescita economica nazionale e di conseguenza d’essere

d’aiuto per gli emarginati. Ancora una volta riconosciamo come l’economia

dell’affetto possa essere identificata, nel bene e nel male, come una forma di capitale

sociale, nel momento in cui favorisce i membri della rete ostacolando invece chi è

fuori.

Come precedentemente si è visto, le reti sociali, create dall’economia

dell’affetto, oltre a instaurare rapporti di reciprocità e di mutuo aiuto, impongono

anche dei veri e propri obblighi sociali. Essi, agendo come una ragnatela sulle

relazioni all’interno della società, limitano fortemente, in maniera indiretta, la libertà

degli individui, e più direttamente i loro interessi e, quindi, le loro capacità, di

rivolgersi e affidarsi al settore pubblico, preferendo essere assistiti dalla propria

comunità di riferimento. Ritroviamo un ennesimo esempio di come l’economia

dell’affetto, effettuando un controllo morale sul gruppo e tendendo a impedire la

libera iniziativa del singolo, presenta nel suo DNA le caratteristiche del capitale

sociale. Finora il settore pubblico, dal canto suo, è riuscito a fare ben poco per evitare

questo fenomeno e uno dei motivi di questo fallimento, seguendo la riflessione

condotta da Hyden, è proprio il mancato studio dell’economia dell’affetto e delle sue

interazioni con l’economia formale.

L’azione dell’economia dell’affetto sull’economia formale, significativamente

descritta da Hyden come un’azione di «guerriglia», lenta, continua e subdola,

piuttosto che come un assalto deciso e violento, rischia, però, secondo l’autore, di

trasformarsi in minaccia per la stessa società di base, per cui inizialmente è riuscita a

fornire benefici. Su questo punto, però, ci dissociamo dalle conclusioni dell’autore,

quindi, abbandoniamo il lavoro di Hyden, per passare all’analisi di Latouche

condotte nell’ambito urbano delle periferie africane.

II.2.b. «Oikonomia neoclanica»

41

Latouche attraverso i suoi studi inerenti alle società africane cerca di dare una

spiegazione del fenomeno economico in tali contesti, comunemente e vagamente

definito economia informale rispetto all’economia formale70. Mentre, però, il

significato di economia formale è chiaro, non così è per quello di economia

informale. Con economia formale, infatti, si fa riferimento a tutte quelle attività

economiche che presuppongono le istituzioni, tipicamente occidentali del Mercato e

dello Stato. Non sfugge dunque il legame con il concetto polanyano di «economia

formale» la quale è possibile solo in un’economia di mercato. Il termine informale,

invece, presenta semplicemente una valenza negativa, nel senso che pretende di

identificare tutta quella serie di pratiche economiche che non rientrano nell’economia

formale. Si dice cosa l’economia informale non è, ma si ha difficoltà a spiegare che

cosa essa sia.

A tal proposito Latouche spiega che

L’informale non è [...] un insieme omogeneo e specifico di attività che si potrebbero assimilare a

un nuovo settore, paragonabile ai tre settori di Colin Clark e un po’ frettolosamente battezato da alcuni

“settore quaternario”. Neppure è un insieme “settorializzato” separato completamente dal resto

dell’economia circostante e dalla società.71

Latouche, dunque, consapevole della complessità cui rimanda il termine di

economia informale, prova a suddividere l’insieme in quattro tipologie72, riscontrabili

nel contesto africano. Innanzitutto egli distingue un’economia che, se non criminale,

è illegale o, quanto meno, illegittima, ed è rappresentata dal commercio e dai traffici

internazionali che hanno luogo nelle periferie delle grandi città africane. La seconda

tipologia consiste in un’economia di subappalto, ovvero di dislocazione produttiva,

favorita dalle grandi multinazionali. Latouche distingue, in terzo luogo, ciò che egli

chiama «economia popolare» caratterizzata da piccoli lavori di artigianato sviluppati

a scala locale ai margini dell’economia formale, con una clientela popolare e in parte

della borghesia locale.

70 Da non confondere con il concetto polanyiano di «economia formale», opposta a «economia sostanziale», anche se, come vedremo, entrambe le espressioni rimandano al concetto di economia capitalista.71 S. LATOUCHE, L’altra Africa. Tra dono e mercato, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, p. 161.72 Cfr. S. LATOUCHE, Altri mondi, altre menti, altrimenti...cit., pp. 71 e ss.

42

Infine, individua la quarta tipologia di informale nell’«oikonomia neoclanica» o

«economia vernacolare», così nominata da Latouche, dove con il termine oikonomia

riprende il termine aristotelico. L’aggettivo neoclanica, invece, rimanda al fatto che

[l’] arte della sopravvivenza nelle periferie popolari delle grandi città dell’Africa si fa attraverso

la famiglia allargata e tutte le relazioni sociali molto forti.73

La sopravvivenza, dunque, è garantita da «strategie relazionali»74 , esattamente

come ha dimostrato Hyden per l’economia dell’affetto.

Così Latouche descrive i soggetti di tale oikonomia neoclanica:

questi sono gli esclusi dalle forme canoniche della modernità, dalla cittadinanza dello Stato-

nazione, perché in Africa lo Stato nazione è un problema. Sono gli esclusi dalla partecipazione al

mercato nazionale, vivendo, in effetti, grazie alle reti di solidarietà neoclaniche.75

I soggetti, nota Latouche, sono in prevalenza femminili, non professionalizzati,

e in grado di svolgere una pluralità di attività, poiché spiega lo studioso francese, ci

sono differenti modi di essere «ragionevoli», mente univoca è la maniera di essere

«razionali». Per quanto riguarda il rapporto con lo Stato, Latouche riprende la

metafora proposta da Hyden secondo cui la società dell’economia vernacolare può

apparire come in un’azione di guerriglia latente, ma continua contro lo Stato. A

differenza di Hyden, però, pur consapevole delle problematiche insite in questo

scontro, Latouche “fa il tifo” per la società vernacolare, se per Stato si intende

l’istituzione occidentale trapiantate in Africa.

Le quattro tipologie di informale sopra citate, hanno in comune l’importanza

delle reti sociali su cui si fondano e la logica del dono invece che quella di mercato.

Tuttavia Latouche riconosce una grossa differenza tra i primi tre livelli e l’ultimo.

Mentre i primi tre livelli di informale rientrano, in qualche modo, nel campo

dell’economia della «grande società», il quarto si pone nettamente al di fuori di essa.

L’oikonomia neoclanica si costituisce come una vera e propria nicchia sociale, in cui

l’economia, osserva Latouche, è reincorporata nella socialità dove tale

73Ivi, pp. 71-72.74 S. LATOUCHE, L’altra Africa...cit., p.164.75 S. LATOUCHE, Altri mondi...cit., p. 72.

43

reincorporazione non significa la dissoluzione dell’economico, quanto piuttosto una

sua subordinazione alla società.

Lo studioso francese utilizza quindi, il concetto polanyiano di embedded, ma,

parlando di reincorporazione dell’economico nel sociale, è come se affermasse che,

precedentemente, nell’oikonomia neoclanica l’economico era effettivamente

scorporato dalla socialità. Riteniamo invece più corretto, parlare semplicemente di

incorporazione e non di reincorporazione, sostenendo che nelle società africane,

come in tutte quelle che non hanno conosciuto il sistema capitalista, l’economico si

presenta, da sempre, perfettamente incastonato nella società. Quindi, per esse, non si

può parlare di un ritorno dell’economico nella sfera del sociale, perché, di fatto, esso

non si è mai spostato dal suo posto. Riprendendo l’evocativa espressione di Mauss, si

è di fronte, in questi casi, a «fenomeni sociali totali».76 Piuttosto, è possibile

constatare che, di fronte alla miseria causata dall’entrata del sistema capitalista in

Africa, mascherata da promesse di sviluppo economico, le società africane, composte

dai «naufraghi dello sviluppo»,77 si sono maggiormente aggrappate alle proprie

logiche relazionali di esistenza. Latouche riporta, contestandolo, il pensiero

dell’economista Jacques Charmes, secondo il quale il fenomeno dell’incorporazione

dell’economico nel sociale si configura più come una solidarietà residuale, una

sopravvivenza di pratiche passate che non una invenzione, una vera e propria nuova

strategia di sopravvivenza. Ci troviamo concorde con quest’ultimo, soprattutto nel

negare ogni valenza di novità a tale fenomeno.

Inoltre, l’altra Africa, così Latouche chiama la società dell’economia neoclanica,

come già abbiamo detto,

non è quella della razionalità economica. Se il mercato vi è presente, non vi è omnipresente. [...]

E’ un’Africa di bricolage in tutti i campi e a tutti i livelli, tra il dono e il mercato, tra i rituali oblativi e

la mondializzazione dell’economia78

Nell’informale africano ritroviamo, dunque, il «ragionevole» opposto al

«razionale». Per cui per un africano, l’idea di possedere due mucche per ricavare più

latte e quindi, in definitiva, guadagnare più soldi, appare irragionevole rispetto a

76 Rimandiamo alla nota n. 94 a p. 51 del presente elaborato.77 Cfr. S. LATOUCHE, L’altra Africa...cit.78 Ivi, p. 21.

44

posseder una sola mucca, mungerla, e avere appena il tempo di godersi il tramonto

del sole in pace79. Oppure spendere tutte le proprie risorse economiche per fare una

festa è più ragionevole che non fare la festa non spendendo nulla in soldi, ma

perdendo in relazioni sociali. Così scrive a proposito il padre gesuita Eric de Rosny,

vissuto in Cameroun,

la festa occupa un posto smisurato in proporzione ai mezzi finanziari della popolazione, tutti gli

economisti lo dicono, ma essa è appropriata ai suoi bisogni affettivi.80

Questo caso citato, non è diverso da quanto ha rivelato Hyden a proposito della

funzione dell’economia dell’affetto in qualità di «conservazione sociale».

Dunque, comportarsi in modo economicamente irrazionale non significa essere

irragionevoli, sia nel caso in cui si considera il tempo vita e non denaro, sia nel caso

in cui si assegna un’importanza simbolica ai legami sociali. E comportarsi in modo

ragionevole non si dimostra privo di successi. Anzi, Latouche spiega come «il

successo di comportamenti economici irrazionali deriva dall’incorporazione

dell’economico nel sociale».81

Concordiamo con Latouche nel sostenere che la forma dell’economia

vernacolare - come anche la forma dell’economia dell’affetto - può insegnarci la

strada per giungere a un’economia di relazione. Latouche contrappone l’altra Africa,

quella delle società dell’economia vernacolare, a quella «ufficiale», ossia quella che

indossa la maschera dell’occidente perché indotta o per imitazione. Ma si è finiti,

volendo a tutti i costi classificare, definire, dare un nome a quest’altra Africa, con

identificarla con il settore informale, confermando nuovamente la tendenza degli

occidentali di ridurre tutto a fattori economici. Ma così facendo, ribatte Latouche, si

rischia di snaturare l’essenza di tale realtà. Si rischia, cioè, di vederla solo in

negativo: ossia «in mancanza di meglio» o come forma di «transizione».82 Vederla in

positivo significa invece, riconoscere le sue peculiarità intrinseche, e quindi

percepirla come una via alternativa allo “sviluppo” capitalista.

79 Cfr, S. LATOUCHE, La sfida di Minerva...cit., pp. 18-19.80 DE RONSY, Les yeux de ma chevre : Sur les pas des maitres de la nuit en pays Douala, Parigi, PLON, Presse de la citè, 1996, cit. in S. LATOUCHE, Altri mondi...cit., p.87.81 S. LATOUCHE, La sfida di Minerva...cit., p. 17.82S. LATOUCHE, L’altra Africa...cit., p. 168.

45

E’ molto interessante il passaggio dello studioso francese quando sostiene,

giustamente, che l’informale africano non si configura come l’alternativa

all’economia di mercato, bensì come una possibile alternativa. Latouche, addirittura,

insiste sul fatto che sia impreciso parlare dell’informale africano come di altra

economia. L’informale africano riguarda piuttosto «un’altra società», che segue la

logica del «dopo- sviluppo». Lo studioso francese spiega che è possibile parlare di

altra Africa poiché quest’ultima riesce a vedere altrimenti, in modo diverso,

dall’assolutismo economico.

II.2.c. L’«economia popolare» in America Latina

Dall’Africa ci spostiamo all’America Latina, dove troviamo una altra forma di

economia informale. Il sociologo cileno Luis Razeto prova a descrivere le

caratteristiche di tale economia che egli chiama «popolare»83. Razeto riconosce la

presenza di differenti livelli. Il primo livello vede la presenza di lavori in proprio

esercitati informalmente. Il secondo livello consta di micro imprese famigliari, che in

America Latina sono diventate così frequenti, che ne esiste una ogni quattro o cinque

abitazioni. Infine il terzo livello è composto da «organizzazioni economiche

popolari», ossia gruppi di persone, talvolta più famiglie, che si associano per gestire

in comune le scarse risorse che hanno a disposizione, e che puntano alla

realizzazione di una rete di tali organizzazioni.

Nell’economia popolare, rivela Razeto, sono fortemente presenti elementi della

solidarietà, sia per il ruolo cardine dalla famiglia e per il forte significato simbolico

che ricopre, sia perché la sussistenza spinge ad associarsi per fare fronte comune alla

miseria. Il sociologo cileno si sofferma ad esaminare nello specifico l’ultimo livello

citato di economia popolare, ossia le organizzazioni economiche popolari, poiché

in ragione della loro particolare dimensione organizzativa, possiamo ipotizzare, in relazione a

esse, una certa più definita conformazione sociale, una maggiore potenzialità di essere soggetto e

attore di un processo di costruzione di un’economia di solidarietà, nonché una certa capacità di essere

all’ avanguardia e di sapere orientare un processo più ampio di organizzazione sociale dell’economia

popolare84.

83 L.RAZETO, Le dieci strade ... cit., p. 28 e ss.84 Ivi, p. 33.

46

Razeto mette dunque in risalto alcune caratteristiche che accomunano tali

esperienze economiche e allo stesso tempo sociali. In primo luogo esse sorgono tra

gli esclusi del mercato ufficiale e incorporano quindi la fascia misera della

popolazione. Inoltre sono caratterizzati da piccoli numeri: poche persone che

agiscono sul locale. Razeto precisa che esse si pongono come delle vere e proprie

organizzazioni nel senso che hanno obiettivi precisi e, progettano e gestiscono

razionalmente le risorse a disposizione per il raggiungimento di tali fini. Così

definite, tali organizzazioni sembrano comportarsi secondo la logica della razionalità

dall’economia standard. Questo dimostra che il principio della razionalità economica

non è condannabile in sé, ma solamente se diventa l’unico parametro di

comportamento. Sono pertanto organizzazioni a carattere economico, nel senso

sostanziale del termine, in quanto lo scopo è quello di far fronte alla sussistenza, e

sono organizzate in «unità economiche», o «cellule», tanto di produzione quanto di

consumo. La sussistenza è garantita da fenomeni di «reciprocità», da fenomeni di

cooperazione e fiducia reciproca.

Infine, sono organizzazioni che si fondano sul lavoro, il quale non è mai di un

solo tipo, ma piuttosto si esercitano differenti attività lavorative. Esattamente come

ha rilevato Latouche per l’economia neoclanica africana. Tali organizzazioni, al loro

interno, praticano l’autogestione: il lavorare ha diritto e dovere di partecipare alle

decisioni dell’organizzazione. Quindi è presumibile che quest’ultime non siano a

base clanica o di parentela generalmente connotate da rapporti gerarchici tra i

membri.

A differenza delle attività svolte in seno all’economia neoclanica e, ancor meno

nell’economia dell’affetto, il livello delle organizzazioni popolari dell’economia

popolare, presenta un’autocoscienza della propria identità, intesa come vera

alternativa al sistema dominante. La loro stessa presenza è il frutto di un atto volitivo

del costituirsi tali, anche se spinti dalla necessità. L’identità culturale d’origine di tali

organizzazioni, non è rinnegata dalla loro volontà di porsi come esperienze altre

rispetto al sistema capitalista, anzi, è assunta a modello, a partire dall’antica filosofia

andina, la quale incorpora anche principi economici.

Il soggetto cardine nella cultura andina, non è l’individuo bensì la comunità,

quindi il concetto di proprietà è solamente di natura collettiva. La stessa visione del

47

mondo è collettiva e non prevede la scissione duale tra materiale e spirituale, tra

uomo e natura. Il mondo è inteso come un’unità, «un mondo-anima» vivente. Questo

determina una concezione del lavoro tale per cui esso è inteso sia come attività

spirituale che materiale e, conseguentemente, la produzione non implica la

trasformazione e il dominio del mondo ma la costruzione della vita. Secondo Razeto

«saper coltivare la vita sarebbe la definizione andina»85, di tecnologia. A ragione si

può parlare di «tecnologia simbolica». Anche in questo caso, l’economico è

incorporato nel sociale, fino nella sua dimensione di sacralità. Ma non per questo,

tale tecnologia è priva di competenze empiriche, che, anzi, sono abbondanti e efficaci

nel campo dell’agro-astronomia e in generale nella conoscenza dei segreti della

natura. Le caratteristiche che garantiscono efficacia a questa tecnologia sono plurime.

In primo luogo, la dimensione del sacro e quella simbolica offrono stimoli

psicologici in chiave di fiducia e ottimismo responsabilizzando i membri della

comunità a dare il meglio di sé per il bene comune. In secondo luogo, il lavoro e la

tecnologia così intesi permettono il realizzarsi di un processo di coscientizzazione, di

riconoscimento della propria identità storico-culturale. Infine, questa tecnologia,

integrando valori condivisi quali la visione dell’unità e dell’integralità, protegge

dall’individualismo, dal consumismo, dalla distruzione ambientale, garantendo

invece, equità sociale e equilibri ecologici.

II.2.d. Il mezzogiorno

Cambiando completamente posizione geografica e, quindi, anche contesto

socio- culturale, pur rimanendo a sud, ci spostiamo nel Mezzogiorno italiano. Molto

brevemente ci soffermiamo su questa realtà, con il solo intento di constatare come

anche il sud d’Italia fosse, in un passato non troppo lontano, e per certi versi sia

tutt’ora, una realtà ricca di reti sociali, cui ci si appoggiava costantemente per fare

fronte ai problemi della vita quotidiana. Attesta infatti, la sociologa Piselli

che la società meridionale, prima e dopo gli anni ’50, era tutt’altro che disgregata, ma

caratterizzata da una fitta trama di solidarietà e lealtà che andavano ben oltre la famiglia nucleare

immaginata e teorizzata da Banfield. Individui e famiglie erano inseriti in una fitta rete di legami di

85 Ivi, p. 145.

48

parentela, amicizia, vicinato, comparaggio che costituivano risorse, cioè capitale sociale, per una

varietà di scopi [...].86

Considerando tali reticoli di solidarietà come vera e propria risorsa a

disposizione delle popolazioni del Mezzogiorno e, quindi, riconoscendo ad esse la

valenza di capitale sociale, è possibile individuare lo loro influenza sul contesto

economico della zona. A questo proposito la Piselli aggiunge che

i networks sociali in alcune aree del Mezzogiorno, hanno stimolato processi di cooperazione

orizzontale e verticale positivamente orientati verso lo sviluppo, [inteso come] la capacità di generare

reddito in maniera autonoma, senza dipendere da meccanismi redistributivi.87

Anche la realtà del Sud Italiano, come i tre contesti esaminati poco sopra, è stata

caratterizzata, e continua ad esserlo, da un’arretratezza economica, soprattutto se

confrontata con il nord del Paese. Per spiegare questo scarto economico il sociologo

Trigiglia, discostandosi dalla lettura culturalista fattane da Putmana[ 1993], avanza

l’ipotesi secondo la quale

non è la carenza di reti ad avere ostacolato lo sviluppo nel Sud, ma una politica scarsamente

modernizzata e emancipata dalla società civile, che ha favorito l’impeigo delle reti al suo interno,

come strumento di appropriazione particolaristica di risorse pubbliche- piuttosto che nella sfera di

mercato.88

Mette dunque in evidenzia, esattamente come abbiamo notato anche per la realtà

africana, il risvolto negativo che può assumere il capitale sociale, soprattutto se non

interagisce con un’adeguata politica per lo sviluppo locale. Ma cosa sia lo sviluppo

locale e quale ruolo deve giocare la politica lo vedremo meglio nel quarto capitolo.

II.2.e. Un comune punto di partenza: la logica del dono

86 F. PISELLI, Capitale sociale: un concetto situazionale e dinamico,.. cit. p 67-68, cfr. anche E. BANFIELD, Le basi morali di una società arretrata, Bologna, il Mulino, 1961 [ed. orig. 1958], e F. PISELLI, Parentela ed emigrazione, Torino, Einaudi, 1981.87 Ivi, p 70.88 C. TRIGIGLIA, Capitale sociale e sviluppo locale, ...cit., p. 123.

49

L’analisi condotta finora su alcune società del Sud ha rivelato come, in realtà, in

esse la relazione sia, non solo un concetto cardine della loro socialità, ma proprio

l’anello concreto, il filo che amalgama i vari reticoli sociali. E’ emerso anche, come

la relazione sia alla base pure delle varie attività economiche che, a seconda dei

contesti e degli studiosi che li hanno analizzati, prendono il nome di economia

dell’affetto, oikonomia neoclanica, o economia popolare.

Avendo riconosciuto molte caratteristiche comuni a tutte le realtà esaminate che

potrebbero rimandarci all’espressione di economia di relazione, proveremo ad

evidenziare quali esse siano e, se effettivamente possono costituire la base per

un’economia di relazione.

Incominciamo con il notare che in tutte le società esaminate viene assegnata

un’importanza cruciale alle reti di relazione sociale. Ma che cosa si trova alla base di

tali relazioni sociali così fittamente intricate? E soprattutto, cos’è che permette il

mantenimento di tali relazioni? L’antropologia, ci riferiamo principalmente all’opera

di Marcel Mauss, Saggio sul dono, dimostra come in alcune società il dono

costituisca uno degli elementi fondanti delle stesse. Infatti, donare diventa il cardine

sociale su cui si costituiscono tali società, perché donare diviene sinonimo di

instaurare e mantenere relazioni. Pertanto, in tutti questi contesti, compresi quelli

esaminati, si evince il primato della società rispetto all’individuo a differenza delle

nostre società occidentali per cui si può parlare di un vero e proprio «imperialismo

del sociale»89. Tale solidarietà sociale come ha sottolineato Latouche è responsabile

del successo delle varie forme di economie informali.

Data l’importanza che assumono le reti di relazioni sociali nelle società prese ad

esame, e visto che tali reti si fondano a partire dalla logica del dono, ci soffermiamo a

sviscerare quest’argomento, per capire a quale natura appartenga il dono e quali

implicazioni abbia sulla società nel complesso e, quindi, anche sulle attività

economiche. Come rileva Mauss dalle sue ricerche, il dono si pone come un ibrido a

metà tra una prestazione mercantile di scambio, e un atto puramente gratuito. Infatti

dietro al dono si cela comunque l’attesa di un contro dono, in qualunque forma e

modo. Ciò che differenzia il donare e il contraccambiare a un dono dallo scambio

mercantile, è la libertà, come sostiene il francese Godbout90, ovvero l’assenza di

89 S. LATOUCHE, L’altra Africa, cit., p. 38.90 Cfr. J.T.GODBOUT, Il linguaggio del dono, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, cit. in M. AIME, Introduzione, in M. MAUSS, saggio sul dono, Torino, Einaudi, 2002, (ed. orig. 1950), p. XI.

50

contratto e, quindi, di coercizione. Anche se c’è l’obbligo di restituire, non c’è un

come e soprattutto un quando: l’obbligo si configura più che altro come morale.

L’assenza di garanzie presuppone pertanto che la fiducia sia una componente

fondamentale della prestazione del dono. Un’altra differenza tra dono e scambio

mercantile è che gli oggetti scambiati secondo la logica mercantile prendono nome di

merci e vengono scambiate secondo regole economiche, per cui vi è un valore delle

merci espresso dal prezzo. Il dono, invece, pur avendo qualche componente

economica, questa è totalmente incorporata in dinamiche sociali, e da esse

determinata.

La prestazione del dono dunque, si configura come un triangolo: donare-

ricevere- restituire Questo triangolo del dono costituisce il motore propulsore delle

società in cui il dono è fondamento dei legami sociali. Si innesca infatti, una spirale

di riconoscenza tra le persone, che assumono di volta in volta il ruolo di debitori e di

creditori. In realtà, il debito non si annulla mai, ma si ricrea continuamente, al

contrario della prestazione mercantile dove, a scambio avvenuto tra le due parti, si

salda il debito precedentemente contratto.91 La condizione abituale è, di conseguenza,

perennemente volta al disequilibrio, piuttosto che all’equilibrio. Infatti sebbene si

tenda comunque all’equilibrio, il dono per sua natura crea disequilibrio, seppure

alterno tra le parti.92

Nella condizione di squilibrio, però, si nascondono i lati negativi del dono.

Infatti se non si effettua la contro prestazione o questa è ritenuta inferiore a quanto

ricevuto, il dono può avere effetti opposti alla sua funzione originaria di legame

sociale. Il dono si può trasformare in un’arma di distruzione, accentuando

disuguaglianze e gerarchie, e provocando la disgregazione dei legami sociali.

Latouche spiega che secondo la logica del dono ogni scambio ha una triplice

valenza: reale, monetaria, ma soprattutto simbolica. E’ quest’ultima la causa dello

scarto tra gli effetti positivi e negativi che gli scambi effettuati secondo la logica del

dono determinano, rispettivamente, se praticati all’interno delle reti sociali e di

parentela o all’interno dell’economia formale. Infatti se è il polo simbolico, da una

91 A questo proposito Guideiri [Cfr. GUIDIERI; Saggio sul prestito, in Voci da Babele, Napoli, Guida, 1990, cit., in M. AIME, Introduzione... cit., p. XXI.], fa notare come la differenza che, in ambito morale, intercorre tra dono e perdere e prestito, sia rispecchiata anche semanticamente: si tende ad associare il termine debito alla sfera economica, mentre quello di dono alla sfera affettiva, per cui, seppure nell’ambito familiare lo stato di debito è generalizzato, non è percepito tale essendo considerato normale.92 Cfr. J.T.GODBOUT, Il linguaggio del dono, cit. in M. AIME, Introduzione... cit., p. XXIV.

51

parte, «permette il miracolo della moltiplicazione dei pani»93 all’interno delle

economie informali, dall’altra è causa di fenomeni di corruzione e clienterismo,

quando interferisce con le istituzioni. Nella dinamica appena descritta è possibile

riconoscere uno degli aspetti negativi citati a proposito del capitale sociale ed

empiricamente visto a riguardo delle economie informali prese in esame, evidenziate

in particolar modo da Hyden.

La logica del dono alla base delle reti social e il primato della comunità rispetto

all’individuo sono spiegabili a partire dall’espressione polanyiana per cui

l’economia, in questi contesti, è incorporata nella società. Per dirla come Mauss, si è

in presenza di «fenomeni sociali totali»94ossia,

[...] fatti, tutti molto complessi, in cui si mescola tutto ciò che costituisce la vita propriamente

sociale delle società che hanno preceduto le nostre, [dove] trovano espressione, a un tempo e di colpo,

ogni specie di istituzioni: religiose, giuridiche e morali [...] nonché economiche, con le forme

particolari della produzione e del consumo, o piuttosto della prestazione e della distribuzione; senza

contare i fenomeni estetici ai quali mettono capo questi fatti e i fenomeni morfologici che queste

istituzioni rivelano.95

Presentando la medesima caratteristica di essere società in cui l’economico è

subordinato alle logiche sociali, le realtà sopra esaminate sono accomunate dalla

forma di integrazione economica della reciprocità e dalla corrispettiva istituzione

della simmetria. Effettivamente anche se si ha poco, grazie alla forma della

reciprocità, la solidarietà si sostituisce alla scarsità. Pertanto l’investimento

93 S. LATOUCHE, L’altra Africa... cit., p. 193.94 Da questa espressione si capisce l’influenza esercitata da Durkheim sullo studioso e nipote Mauss. Infatti oggetto della sociologia, per Durkheim (1858-1917) sono i «fatti sociali» che si presentano, per costituzione, diversi tanto dai fatti naturali e biologici, quanto da quelli psichici, ossia soggettivi. Durkheim li definisce : «collettivi», il fatto sociale è una pratica, una fede che coinvolge un gruppo sociale; «esterni», ossia esterni all’individuo, e quindi sovra e preindividuali; «coercitivi»: cioè imperativi per l’individuo. Nel complesso il fatto sociale è «una rappresentazione psichica collettiva» che sovrintende un gruppo, e la cui funzione è quello di amalgamarlo grazie alla creazione di valori e norme condivisi. E’ evidente il carattere vincolante che Durkheim assegna ai fatti sociali nei confronti degli individui. In questi termini, il fatto sociale è sempre qualcosa di concreto, e non identificabile con la società in senso astratto. Inoltre, secondo Durkheim, i fatti sociali non possono essere analizzati e compresi a partire dalla scomposizione nelle singole parti di cui è composto. In altre parole essi non coincidono con la mera somma dei comportamenti individuali. Vi è in nuce quanto si afferma nella logica sistemica, per cui il tutto non è la somma delle parti, bisogna tenere conto delle relazioni tra le parti, e il tutto possiede delle caratteristiche proprie e diverse da quelle appartenenti alle singole parti. Per questo Durkheim è considerato il fondatore del paradigma dell’olismo.95 M. MAUSS, saggio sul dono ...cit., p. 5.

52

relazionale diviene una priorità assoluta, esattamente come abbiamo evidenziato per

il capitale sociale.

Un’altra peculiarità che rende molto simili i contesti esaminati è quella di

possedere la capacità di auto organizzazione dei sistemi complessi.96 Comune a tutte

queste esperienze, infatti, è l’essere fenomeni che nascono dal basso,

spontaneamente, nell’ambito locale, in piccole nicchie, organizzate secondo regole

interne che permettono loro la conservazione e l’auto riproduzione. Hyden ha messo

in evidenzia questa caratteristica dell’economia dell’affetto parlando della sua

funzione di «conservazione sociale». Latouche, dal canto suo spiega come «i

collegati delle reti neoclaniche riescono a fabbricare tra loro l’essenziale della

propria condizione d’esistenza»97, in quanto sono in grado di mobilitare molte

risorse al loro interno, senza aiuto, o appoggio dallo stato. Attraverso la logica del

dono, poi, riescono a perpetrare tali condizioni d’esistenza.

96 Per la teoria dei sistemi complessi rimandiamo al primo paragrafo del terzo capitolo. 97 S. LATOUCHE, Altri mondi...cit., p. 90.

53

CAPITOLO III

IL PARADIGMA DELLE RETI

Dopo avere esaminato separatamente i termini di economia e di relazione in

economia, possiamo avviare l’analisi di cosa possano significare i due termini

racchiusi insieme, in un’unica parola, quale economia di relazione. Quanto visto

finora, ossia i limiti dell’economia neoclassica e dell’attuale sistema economico, da

una parte, e il concetto di capitale sociale in cui rientra la logica del dono, ci consente

di sostenere che la relazione, effettivamente, ricopre un ruolo fondamentale nelle

prestazioni economiche. Questo è deducibile, sia osservando le conseguenze sociali

causate dal negare tale ruolo in campo economico alla relazione, tanto da un punto di

vista teorico quanto da quello pratico; sia osservando, invece, come la relazione sia

alla base, e condizioni le attività economiche in quei contesti in cui la socialità e i

networks sociali prevalgono sull’individualismo. Nel primo caso l’economico è

scorporato dalla società e questa è assoggettata alle logiche del mercato, nel secondo

l’economico è totalmente incorporato e integrato nel sociale. Nel primo caso, inoltre,

l’economia è da intendere nella sua accezione formale, nel secondo, nell’accezione

sostanziale.

Prima ancora, dunque, di provare a definire come possa essere un’economia di

relazione, ci soffermiamo, in questo capitolo, sul concetto di rete, in quanto metafora

adatta per rappresentare le relazioni sociali, definite appunto reticoli sociali, e alla cui

base abbiamo visto risiede il concetto di capitale sociale e la logica del dono.

L’analisi condotta procede con un taglio che dal generale va al particolare e, dal

teorico giunge al pratico. Accenneremo brevemente alla teoria delle reti e alla teoria

dei sistemi complessi, per avere una panoramica generale sul concetto di rete, e

soprattutto sulla sua forza evocativa. Successivamente vedremo il concetto di rete

applicato all’economia secondo il pensiero di Euclides Mance, il quale ha teorizzato

il concetto di «rete di collaborazione solidale», in alternativa al sistema capitalista, a

partire da esperienze concrete presenti in America Latina. Infine, delineeremo

sommariamente l’esperienza italiana riguardo alla realizzazione di una rete nazionale

di economia solidale.

54

III.1. Reti e complessità

È possibile applicare al mondo umano, al comportamento umano, leggi e

modelli matematici, o leggi e modelli presenti nel mondo naturale? E’ possibile

pensare all’esistenza di un unico principio organizzativo alla base del nostro mondo?

Mark Buchanan sostiene, attraverso indagini scientifiche condotte lungo il solco

della nuova scienza delle reti, la tesi secondo cui esiste un medesimo principio

organizzativo, un unico paradigma di funzionamento per realtà diverse, dalle reti

sociali umane alla cellula, dal sistema nervoso e dalle catene alimentari

all’economia. Buchanan, parla addirittura di «una dinamica interconnettiva che fa

inesorabilmente capire chi siamo, che cosa pensiamo e come ci comportiamo».98

Lasciando da parte l’interrogativo riguardo al grado di determinismo presente in una

tale affermazione, ci sembra interessante soffermarci brevemente sulla teoria delle

reti.

La nuova scienza delle reti affonda le proprie radici nella teoria della

complessità99, secondo la quale, per quante informazioni si dispongono a livello delle

singole parti di un insieme, non è possibile stabilire il modello organizzativo secondo

cui tale insieme si struttura. La complessità di un sistema, non è data dalle

caratteristiche delle parti quanto dalla configurazione architettonica che assume

l’insieme, definibile appunto rete. La complessità è quindi una caratteristica

qualitativa di quei fenomeni, che si presentano come una combinazione di

molteplicità e di autonomia. Nei fenomeni e nei sistemi complessi la molteplicità

associata all’autonomia porta a distinguere in essi una forma di organizzazione

irriducibile a chi li osserva. Grazie all’autonomia, tali fenomeni si governano

secondo leggi proprie, sono perciò autoreferenziali, in quanto si riferiscono

primariamente a se stessi. Sono anche autopietici100, ossia il loro funzionamento

98 M. BUCHANAN, Nexus. La rivoluzionaria teoria delle reti. Perché la natura, la società, l’economia, la comunicazione, funzionano allo stesso modo, Milano, Mondadori, 2003, p. 31.99 Cfr. G. DE MICHELIS, Complessità, in TELFENER, L. CASADIO (a cura di), Sistemica. Voci e percorsi della complessità,Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 191 e ss.100 Cfr. H. MATURANA, F. VARELA, Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, Padova, Marsilio, 1985, cit. in G. DEMATTEIS, Possibilità e limiti dello sviluppo locale, p. 53, in G. BECCANTINI, F. SFORZI., Lezioni sullo sviluppo locale, Torino, Rosenberg & Sellier, 2002. Testo della lezione inaugurale svolta ad Artimino 16-21 settembre, 1991.

55

primario è mosso verso l’autorinnovamnto. Infatti, letteralmente, autopiesi, significa

“auto- produzione”.

Il modello dell’autopoiesi è molto efficace per descrivere le dinamiche

interattive tra nodo e rete, o sottoinsieme e insieme. Dire che un sistema è

autopoietico significa principalmente affermare che esso è in grado di produrre e

riprodurre se stesso. Ma questo non implica una totale autonomia del sistema rispetto

all’ambiente esterno, con il quale invece intraprende comunque degli scambi. Si dice

che possiede una chiusura operativa ossia che, essendo in grado di selezionare gli

imput che gli arrivano esternamente, ha pieno controllo sulla sua organizzazione

interna, la quale può esser modificata soltanto da regole interne (componente

genetica del sistema) e non può essere modificata esogenamente. I possibili

comportamenti attuabili dal sistema sono previsti appunto da queste regole interne,

le quali, in definitiva, determinano l’organizzazione del sistema, ossia la parte

invariante, pena la perdita di identità, con conseguente scomparsa del sistema. Ciò

che invece può variare, ed è bene che vari, nelle interazioni con l’esterno è la

struttura del sistema.

Quindi possiamo definire l’interazione tra il sistema-nodo e il sistema globale a

rete, come un accoppiamento strutturale, il quale determina un cambiamento

reciproco delle strutture, entro i limiti di compatibilità consentiti dalle rispettive

organizzazioni. Tale compatibilità rispecchia il grado di plasticità del sistema, la

quale permette di selezionare la gamma di relazioni effettuabili con l’esterno senza

che queste minaccino l’identità del sistema. Quest’ultimo, grazie alla sua autonomia,

è dotato di una razionalità propria con la quale reagisce rispondendo agli stimoli

esterni in base ad auto rappresentazioni interne. In questi casi si parla di dominio

cognitivo del sistema. E’ evidente che, in presenza di accoppiamenti strutturali,

nessun sistema può rimanere invariato, ma produrrà sempre delle modifiche al suo

interno, grazie alla sua componente strutturale dotata di flessibilità, senza la quale il

sistema non potrebbe sopravvivere nei continui rapporti con l’esterno.

La scienza delle reti, dunque, permette di capire la rete indipendentemente dalle

parti che la compongono.

Forse scopriremo che alcune delle verità più profonde del nostro mondo riguardano non tanto gli

elementi da cui il mondo è costituito e i loro comportamenti individuali, quanto l’organizzazione

56

complessiva. Il concetto di «piccolo mondo» è uno dei più originali e importanti di questa nuova

«scienza delle forme», le cui radici affondano nell’antichità.101

Non è insolito pensare all’umanità come a una rete intricata di persone. Le reti

sociali in cui viviamo, e siamo immersi, hanno le caratteristiche di «piccolo

mondo»102. Nel 1998, due matematici Ducan Watts e Steve Strogatz elaborarono un

grafo103 per risolvere il problema del mondo sociale dei «sei gradi di separazione»,

per cui ogni punto del grafo rappresentava donne e uomini, e le linee che univano i

punti, le relazioni tra le persone. L’espressione diffusa a livello popolare come «sei

gradi di separazione» deriva dalla sconcertante scoperta effettuata da Stanley

Milgram104, psicologo sociale degli anni sessanta. In seguito a plurimi esperimenti in

campo sociale, Milgram dedusse che in realtà, ogni persona sulla terra è separata da

una qualsiasi altra persona soltanto da sei individui. Il grafo di Watts e di Strogatz

fornisce una spiegazione matematica al mistero del piccolo mondo, in cui vige la

regole dei sei gradi di separazione: incominciando da un punto qualunque del grafo,

è possibile giungere a qualsiasi altro punto scelto a priori in sei passaggi.

Come si è detto, le proprietà di piccolo mondo appartengono a tutte le reti

sociali. Tali proprietà si presentano come una commistione di casualità per cui si

prevede la presenza di nuclei con deboli relazioni locali e di ordine, ossia si prevede

la presenza di comunità fortemente integrate. Sono dunque a metà tra il caos e

l’ordine. Di conseguenza la casualità permette un basso grado di separazione, ossia

sono necessari pochi passaggi per muoversi da un punto a un altro punto qualsiasi,

mentre l’ordine, garantisce un alto grado di integrazione e aggregazione. Questo vuol

dire che all’interno delle reti sociali è presente una commistione tra «legami forti» e

«legami deboli», ricordando le famose espressioni del sociologo Granovetter. I

legami deboli sono fondamentali per rendere basso il grado di separazione all’interno

della rete perché si comportano come veri e propri ponti sociali, che permettono di

collegare non solo individui ma anche zone geografiche totalmente estranee le une

alle altre. Tale caratteristica dei legami deboli rende inoltre possibile la coesione di

101 M. BUCHANAN, Nexus... cit., p.13.102 D.J.WATTS, S.H.STROGATZ, Collective dynamics of «small world» networks, «Nature», 396, 1998, pp. 440-42, cit in BUCHANAN, Nexus ...cit., p. 19.103 Nel gergo matematico: un certo numero di punti collegati da delle linee. Essendo solo una struttura logica, priva di qualunque connessione diretta con il mondo reale, non è detto che abbia un significato.104 Cfr. S. MILGRAM, The small- world problem, «Psychology Today», 1, 1967, pp. 60-67, cit. in BUCHANAN, Nexus... cit., p.6.

57

differenti gruppi, tra loro intimamente connessi, e quindi rende fattibile l’esistenza di

una comunità sociale, seppure al suo interno eterogenea. Infine conferisce alla rete la

caratteristica di essere così «piccola» o vicina.

Le reti, secondo la geometria «piccolo mondo», possono presentarsi in natura

come reti egualitarie, tipo la rete neuronale del cervello, o come reti aristocratiche o

gerarchiche, come la rete di Internet. Nel primo caso le connessioni sono ripartite più

o meno egualmente in tutto il sistema, pertanto la rete è definibili anche come rete da

pesca. Al contrario, nel secondo caso, risalta la presenza di alcuni nodi iperconnessi

che prendono il nome di hub o connettori. Legata alle reti aristocratiche vi è quella

che i matematici chiamano «la legge di potenza», ossia quella legge che interviene

ogni qual volta vi è una relazione inversamente proporzionale tra la concentrazione

di potere, in qualunque forma esso si presenti, in un dato sistema, e il numero di

elementi del medesimo sistema che detengono tale potere. Nel caso delle reti la legge

di potenza si esplica nel seguente modo: ogni qual volta il numero delle connessioni

raddoppia, il numero di nodi con quel numero di connessioni diminuisce

proporzionalmente, in gradi diversi a seconda dei contesti.

Le caratteristica di essere reti gerarchiche, in quanto dominate da hubs, presenta

vantaggi e svantaggi al medesimo tempo. Infatti se il principio gerarchico potrebbe

essere funzionale per una maggiore organizzazione e un maggior controllo interni,

allo stesso tempo rende il sistema maggiormente controllabile anche dall’esterno.

Infatti una rete gerarchica è estremamente vulnerabile verso attacchi organizzati che

mirano proprio ai principali centri organizzativi della rette: gli hubs sono così

determinanti per il sistema che, se distrutti, provocano la disintegrazione dell’intero

sistema. Troppa iper connessione inoltre, può sommerge gli stessi hub, i quali

possono perdere vantaggio dal ricevere ulteriori connessioni. Sotto altre vesti ritorna

il discorso dei costi e dei limiti.

58

III.2. Rete di collaborazione solidale

III.2.a. La strategia delle reti

«L’ottica di rete rappresenta l’inizio incoraggiante di una visione economica

di maggior respiro»105. Così afferma Buchanan, dopo avere esposto la sua tesi

riguardo alla rete come paradigma del funzionamento del mondo e, quindi, anche del

comportamento umano e di tutto quanto discende da esso. E’ allora possibile

ipotizzare una rivoluzione tanto cognitiva quanto pratica, in campo economico:

sostituire la metafora della mano invisibile, cha ha dominato tutto il pensiero

economico occidentale, con quella di rete, che meglio rispecchia la complessità della

natura umana.

Il filosofo brasiliano Euclides Mance sostiene che la «rivoluzione delle reti»106

non solo è ipotizzabile come metafora, ma addirittura si costituisce come realtà, il cui

obiettivo è trovare un’alternativa economica praticabile per gli esclusi dal sistema

capitalista, e creare una società post-capitalista. Infatti, come scrisse Marx, ne Il

Capitale, tutto il capitalismo è costituito da un’essenza intrinsecamente

contraddittoria, in quanto mira alla produzione, non già per soddisfare i bisogni

sociali, ma per generare e accrescere plusvalore. Per questo Marx, considerando il

capitalismo come un «punto di transizione», auspicava la realizzazione di

un’organizzazione economica in cui la produzione e la redistribuzione della

ricchezza sarebbero state soggette alla decisione cosciente dei «liberi produttori

associati».

La strategia delle reti si presenta pertanto come una progettualità sociale al fine

di coniugare economia ed etica, di riscrivere la politica e di promuovere la

cittadinanza attiva. Mance sottolinea come, facendo ricorso alla metafore di rete, il

processo di liberazione dell’uomo e dell’oikonomia dall’economia capitalista,

prevede che «nessuno libera nessuno, nessuno si libera da solo: tutti si liberano

assieme».107 A tale proposito Mance parla di collaborazione solidale, intesa come

105 BUCHANAN, Nexus... cit., p.236.106 E.A. MANCE, La rivoluzione delle reti. L’economia solidale per un’altra globalizzazione, Bologna, EMI, 2003. 107 Ivi, p. 15.

59

lavoro e consumo condivisi il cui vincolo reciproco fra le persone si manifesta, innanzitutto, con

un sentire morale di corresponsabilità per il bem-vivir di tutti e di ciascuno in particolare.108

Mance pertanto, distingue concettualmente la collaborazione solidale

dall’economia solidale, poiché con la definizione di collaborazione si introduce

«l’esercizio umano della libertà», ritenuto fondamentale, come abbiamo

precedentemente visto, dal filosofo ed economista Amartya Sen. La collaborazione

solidale infatti, non si pone solo come una proposta economica, ma anche come

un’«attitudine etica» e una «posizione politica». Rimanda, più in generale, a una

concezione filosofica, a una «comprensione filosofica dell’esistenza umana»109.

Alla base della collaborazione solidale Mance individua la pratica del consumo

solidale, inteso come mediazione del bem-vivir, al fine di eludere le trappole del

capitalismo. Di fatti il consumo solidale viene praticato per rispondere ai problemi di

disoccupazione e prevede la condivisione, in quanto si ha di mira la collettività nel

suo insieme, ricercando appunto sia il bem-vivir personale che quello collettivo.

Mance utilizzando il termine di bem-vivir, intende differenziarlo dal benessere, in

quanto quest’ultimo, troppo compromesso con il concetto di utilità di stampo

neoclassico, rimanda a una dimensione primariamente individuale. Al contrario, il

concetto di bem-vivir è fondato su criteri valoriali, qualitativi e di comunità. Infatti

il bem-vivir è l’esercizio umano di disporre delle mediazioni materiali, politiche, educative e

informative non solo per soddisfare eticamente le necessità biologiche e culturali di ciascuno, ma per

garantire, sempre eticamente, la realizzazione di tutto ciò che può essere concepito e desiderato per

una libertà personale che non neghi quella collettiva.110

Anche Mance osserva come gli esclusi dal capitalismo si auto organizzano per

sopravvivere, Egli individua pertanto la necessità di creare delle cellule di

produzione e di consumo da legare in rete, le quali al loro interno pratichino il

consumo solidale, connotandosi così, come reti di collaborazione solidale. In quanto

reti, esse devono godere di particolari caratteristiche, quali un’ampia estensione della

dimensione orizzontale, un’elevata intensità sul piano verticale, diversità e integralità

allo stesso tempo. Caratteristiche tali per cui, permettendo la rialimentazione e l’auto

108 Ivi, p. 5.109 Ivi, p. 190.110 Ivi, p. 17.

60

accrescimento delle reti stesse, determinano l’auspicata «rivoluzione delle reti».

Infatti, secondo Mance, la rete globale, che si costituirà a partire dalle singole reti,

acquisterà una forza tale da soverchiare l’economia capitalista e da scavalcare ogni

confine geografico-politico. Mance sostiene che la rivoluzione delle reti, la quale

parte dall’intendere l’economia in maniera alternativa rispetto al modello dominante,

porterà con sé altre due rivoluzioni: quella politica, in quanto rafforzamento della

democrazia a tutti i livelli di scala, e quella culturale. Perché in realtà, spiega Mance,

la Rete è l’intersecazione di tre dimensioni differenti: quella economica, quella

politica e quella culturale.

Il modello della rete internazionale della collaborazione solidale, proponendosi

come alternativa al sistema capitalista, si fonda pertanto su principi opposti a

quest’ultimo. Innanzi tutto al posto dell’individualismo, sia teorico che pratico, si

oppone il principio della collaborazione, la quale prevede l’inclusione e

l’integrazione di tutti nel processo produttivo e in quello di consumo.

Conseguentemente, si respinge l’idea di competitività e di concorrenza all’interno

della rete per lasciar spazio alla solidarietà. La collaborazione tra le cellule implica

pertanto che la rete sia acefala dal punto di vista economico, eludendo quindi la

possibilità che si creino monopoli o oligopoli. La rete di collaborazione solidale,

inoltre, oppone la «libera iniziativa solidale» alla «libera iniziativa privata»111, grazie

alla quale è possibile realizzare lo scopo ultimo delle reti solidali, ossia incrementare

il bem-vivir individuale attraverso l’incremento di quello collettivo. L’assunto di base

infatti, dice che è possibile migliorare la propria condizione personale soltanto in

misura in cui aumenta il bem-vivir della rete nel complesso. Al contrario, la libera

iniziativa privata, fondandosi sul concetto di utilità, guarda alla soddisfazione dei soli

interessi personali con poca, o nessuna, ricaduta sociale. La condizione necessaria

affinché la rete possa crescere è che ci sia la redistribuzione della ricchezza, evitando

ogni forma di concentrazione.

Inoltre, la collaborazione solidale, essendo una rete acefala, non presenta delle

concentrazioni territoriali e aborrisce pertanto, lo sviluppo di metropoli. Queste sono

il frutto della concentrazione geografica di capitale in determinati centri urbani i

quali si trasformano in nodi fondamentali (hubs), connessi a livello mondiale. Di

conseguenza l’occupazione del territorio avviene in maniera diseguale, con

111 Ivi, p. 47.

61

l’esclusione di alcune zone dall’economia mondiale, verso cui, invece, si espande la

rete di collaborazione solidale, accrescendo in tal modo il peso politico di tali zone.

Grazie alla rete di collaborazione solidale, lo sviluppo locale, che affonda le radici in

uno sviluppo ecologicamente sostenibile, risulta geograficamente distribuito in modo

equilibrato.

Infine, la rete di collaborazione solidale permette la creazione di posti di lavoro

grazie a un nuovo utilizzo della tecnologia, per cui si abbassano i prezzi dei prodotti

e si riducono le ore lavorative, al fine di godere di maggior tempo libero.

III.2.b. La cellula: unità base della rete

Nell’analisi di Mance la cellula è l’unità di base della rete. Ma affinché si possa

parlare di cellule è necessario, spiega il filosofo brasiliano, che le varie attività che

operano in un determinato territorio, nel campo dell’economia solidale, o che si

ispirano ai principi di tale economia, siano collegate tra loro attraverso flussi di

produzione e consumo. In seguito a una mappatura del territorio, che permetta di

segnalare le realtà già operanti nell’economia solidale, bisogna capire come

connettere tali attività al fine di costituire la cellula. Data la fragilità iniziale della

novella realtà collegata in rete, è fondamentale che essa si rivolga alle esigenze locali

e che i consumatori aderenti alla rete si rivolgano essenzialmente ad essa per

sopperire ai loro bisogni. Mance individua nella creazione di gruppi di acquisto

comunitari, uno strumento utile tanto ai consumatori, quanto ai produttori e illustra

schematicamente il circolo virtuoso generabile da tali gruppi di acquisto comunitari.

I consumatori, associandosi, risparmiano; allo stesso tempo assicurano una domanda

continua, favorendo la creazione di nuovi posti di lavoro. Questi accrescendo il

potenziale di consumo della rete, determinano nuovi gruppi d’acquisto comunitari,

assicurando il movimento autopoietico della rete.

Inizialmente la rete usufruirà maggiormente i canali di apertura verso l’esterno

piuttosto che quelli interni, dovendo rifornirsi di risorse che ancora non possiede. Ma

con il passare del tempo e attraverso la diversificazione dei suoi prodotti, e la

creazione di catene produttive delle varie cellule di produzione, il valore generato

all’interno della rete tende a circolare in essa e a non fuoriuscire. Ma non bisogna

62

dimenticare che lo scopo della rete non è tanto accumulare e concentrare ricchezza

quando distribuirla per accrescere il bem-vivir collettivo.

Le reti locali potranno poi connettersi a loro volta tra loro e creare così delle reti

macroregionali, fino ad arrivare alla creazione di una rete solidale mondiale, come

auspica Mance.

Per quanto riguarda il collegamento in rete, sia a livello locale che mondiale,

Mance ritiene fondamentale il supporto dell’informatica, al fine di realizzare il

decentramento del potere permettendo una efficiente circolazione di flussi

informativi, materiali e valoriali. In questo modo infatti i dati complessivi della rete

sono a disposizione immediata di ogni singola cellula. In altre parole, ogni cellula

contiene in sé tutto il DNA costitutivo della rete, in modo che essa possa essere

ricreata a partir da qualsiasi punto, in caso di catastrofe. Inoltre, grazie all’apporto

delle tecnologie informatiche, tutti possono partecipare allo stesso livello nel

prendere decisioni o nel fare proposte. Infine, l’utilizzo della tecnologia informatica

facilita la rete nei contatti con il modo esterno alla rete. A riguardo delle tecnologie

informatiche e della tecnologie in generale, Mance suggerisce che la rete deve

adottare un atteggiamento equilibrato, a metà tra la «tecnofobia» e la «tecnolatria» 112.

Le cellule nella rete produttiva posso sorgere con diverse modalità. In primo

luogo, Mance individua la «generazione spontanea»113 secondo cui alcune persone,

mosse dalla «libera iniziativa solidale», decidono di creare, ex-novo, una cellula

produttiva. Dopo un periodo di progettazione, in cui si effettua l’analisi del

territorio, delle esigenze di consumo e della produzione, al fine di non generare

bisogni indotti e di capire quale sia l’impatto sulle catene produttive già esistenti, si

passa alla fase dell’approvazione dove viene ascoltato il parere dei consumatori

attraverso metodi partecipativi.

Un’ altra modalità con cui si possono generare le cellule produttive, spiega

Mance, è «per fasi concatenate»,114 ossia una nuova cellula nasce per sopperire a

domande di consumo produttivo provenienti da altre cellule produttive. Si instaura

così una sequenza produttiva.

Una terza modalità riconosciuta è la generazione «per fissione», che può

avvenire per due motivi differenti. Da una parte, al fine di sopperire alla crescente

112 Ivi, p. 80.113 Ivi, p. 55.114 Ibidem.

63

domanda di consumo finale di un determinato prodotto, rimasta insoddisfatta a causa

dell’insufficienza produttiva della cellula preposta alla produzione di tale prodotto.

Dall’altra, la fissione può verificarsi nel caso in cui una cellula produttiva, a causa

della sua alta produttività, diviene iperconnessa, rischiando di diventare un hub e

quindi di accentare il poter e indebolire di conseguenza la rete solidale. Ogni cellula,

infatti, nell’analisi di Mance, non deve mai produrre al massimo del suo sforzo

produttivo, ma condividere tale sforzo in collaborazione con tutte le altre cellule

produttive del medesimo tipo.

Infine, Mance individua la genesi di una nuova cellula produttiva in ciò che egli

chiama «la riconversione del sistema», ossia quando alcune unità produttive operanti

nell’economia capitalista aderiscono al modello dell’economia solidale.

Mance, come abbiamo detto, vede nella cellula l’unità di base della rete ma, allo

stesso tempo, riconosce che la rete non esisterebbe se non ci fossero i collegamenti

che mettono in relazione le varie cellule. Queste si collegano tra di loro attraverso

flussi di produzione e consumo che permettono l’accrescimento della rete, attraverso

i principi della diversità e dell’integrazione. In realtà, ogni sistema economico si

configura secondo questo rapporto di scambio tra produzione e consumo. La logica

dell’economia capitalista, però, si fonda sull’idea di competizione, secondo cui si

cerca continuamente di creare dei vantaggi, rispetto a terzi, attraverso il processo di

produzione. Non così avviene nelle catene di produzione interne alla rete, dove,

abbiamo visto, vige il principio della collaborazione e della solidarietà. Nella rete,

inoltre, la produzione è al servizio delle esigenze dei consumatori locali e della

collettività in generale, per cui la produzione è massimizzata in funzione del bem-

vivir collettivo.115

Il consumo di rete, come qualsiasi altro consumo, si divide in due categorie: il

consumo finale e il consumo produttivo. Entrambe le forme sono presenti in ciascuna

cellula, ma occorre sezionare analiticamente le due forme di consumo, prendendo in

considerazione separatamente, da una parte, la rete di consumo e dall’altra, la rete di

produzione. In questo modo, si comprende meglio quale sia la domanda per le risorse

finalizzate a mantenere l’apparto produttivo e, invece, quale sia la domanda per il

consumo finale nella rete di consumo. Secondo Mance, le cellule di produzione e di

servizio devono partire effettivamente della domanda-esigenza proveniente dalle

115 Ivi, p. 170.

64

cellule di consumo. Per cui la costruzione di un rapporto diretto tra produttori e

consumatori parte dalle esigenze di quest’ultimi.

E’ importante, a questo proposito, al fine di garantire il successo del modello di

rete nel processo produttivo e di consumo, conoscere il «punto di equilibrio»116 di

una rete, ossia quel punto in cui la rete può perpetrare all’infinito il suo movimento

autopoietico. Da un punto di vista strettamente economico significa individuare il

livello minimo dell’out-put finale complessivo della rete, tale da assicurare il

mantenimento delle varie unità produttive. Secondo la metodologia SEBRAE, sigla

dell’organismo di sostegno alle piccole imprese in America Latina, è la composizione

organica di ogni singola cellula che permette di calcolare e individuare il punto di

equilibrio della rete. Con il termine di composizione organica si fa riferimento alla

relazione che intercorre tra i mezzi di produzione e la forza lavoro viva impiegata

nella rete. Rispetto ai modelli SABRAE, dove è prevista la competizione tra le varie

unità produttive, con la conseguente produzione in scala, nella rete proposta da

Mance, le cellule di produzione sono chiamate a collaborare grazie alla pratica del

consumo solidale. Le eccedenze infatti vengono negoziate collettivamente e,

pertanto, risultano sempre equilibrate rispetto alla composizione organica della rete,

la cui proporzione tra tecnologia e forza lavoro risulta a vantaggio di quest’ultima,

senza che per questo venga sottovalutata la prima. In questo modo non si sviluppa

un’economia di velocità e competizione, bensì «un’economia di scopo»117, dove la

produzione è guidata dalla domanda di consumo.

III.2.c. Collaborazione solidale ed economia solidale a confronto

Mance propone l’articolo dell’economista sud americano Paul Singer,

“Economia solidale contro la disoccupazione”,118 per criticare alcune proposte e

strategie dell’economia solidale esplicitate in tale articolo, per evidenziarne le

differenze con ciò che egli chiama collaborazione solidale e, infine, per sottolineare

invece proposte e strategie efficaci.

116 Ivi, p. 139.117 Ivi, p. 140.118 In questo articolo sono presenti alcune proposte e strategie inserite nel programma di governo del partito PT (Partidos dos Trabalhadores) in occasione delle elezioni municipale del 1996, nella città di San Paolo.

65

Secondo Singer, l’economia solidale può presentarsi come effettiva alternativa

economica e sociale al modello capitalista solo subordinatamente a una volontà

politica delle autorità. In altre parole, non è sufficiente un movimento spontaneo che

nasca dal basso, ma è necessario sia l’intervento e il supporto dello Stato da un punto

di vista economico, sia il riconoscimento socialmente conferito a questo sistema

produttivo da un patrocinio esterno.

Nel modello delle reti proposto da Mane, invece, lo Stato non è necessario né

per dare il via al sistema né per implementarlo o sorreggerlo. Tuttavia, Mance

riconosce come interventi statali favorevoli alle reti, possano generare un effetto

positivo sullo sviluppo delle stesse. Mance inoltre, sottolinea come siano ancora

molte le visioni che considerano necessaria l’azione dei governi per avviare o

sostenere l’economia solidale e spiega che tale concezione è da correggere, poiché

non di fonda sul modello della complessità. Detto altrimenti, negando il carattere

endogeno ed autopoietico di quelle realtà che si connettono in rete, le si condanna al

fallimento, facendole dipendere dall’esterno.

Secondo Singer, inoltre, è impensabile prescindere dalla competizione e dalla

concorrenza delle imprese che operano nel campo dell’economia solidale, «affinché

ciascuna di esse sia stimolata a migliorare la qualità e a ridurre i costi»119. Opposto è

il pensiero di Mance, il quale ritiene invece, che

l’elemento qualificante della produzione non sia la competizione tra le unità lavorative [...] ma la

valutazione pubblica dei consumatori, che hanno anche l’autonomia per determinare cambiamenti nei

prodotti e nei servizi offerti dalla rete120.

Singer, giustifica la presenza della competitività escludendo che le attività

economiche interne all’economia solidale «possano essere di poveri a favore dei

poveri». Mance, dal canto suo, risolve questo passaggio proponendo che il concetto

di competitività venga sostituito con quello di solidarietà, grazie alla quale «i poveri

possono essere soggetti economici della propria liberazione».121

In aggiunta, Singer considera necessario un periodo in cui il nascente mercato

dell’attività dell’economia solidale sia protetto dalla concorrenza esterna, visto che

119 P.SINGER, Globalizacao e Desemprego- Diagnostico e Alternativas, Editora contexto, San Paolo, 1998, p. 123, cit. in E.A.MANCE, La rivoluzione delle reti...cit. p. 184.120 E.A.MANCE, La rivoluzione delle reti.... cit. p. 184.121 Ivi, p. 185.

66

gli ex disoccupati, i principali soggetti interessati a dare avvio a forme di economie

solidali, «hanno bisogno di un periodo di apprendistato per acquistare efficienza e

conquistare i clienti»122. Ma tale strategia implica che l’obbiettivo finale delle

imprese dell’economia alternativa sia di operare nel mercato capitalista una volta

raggiunto un certo grado di competitività, e non già di instaurare un nuovo modello

di relazioni e di scambio. Quest’ultimo aspetto è invece la meta che si prefigge la

collaborazione solidale proposta da Mance attraverso la rivoluzione delle reti.

Infine, Singer prevede la creazione di una moneta locale, spendibile solamente

all’interno del circuito economico dell’economia solidale, con lo scopo di proteggere

ulteriormente tale settore, obbligando verso quest’ultimo i consumi degli ex-

disoccupati. Mance invece, aborrendo un tale scopo assegnato alla moneta locale,

ritiene che

la garanzia del consumo dei prodotti e il ricorso ai servizi effettuati nella Rete di Collaborazione

Solidale abbia bisogno di una libera decisione dei partecipanti che ad essa si integrano123.

La libera decisione è data dalla consapevolezza di chi pratica il consumo

solidale, che questo è finalizzato al bem-vivir individuale e collettivo. Mance, dal

canto suo, non nega a priori la validità di una moneta locale, ma non considera

realistica l’adozione di un tale strumento prescindendo del tutto dalla moneta

ufficiale. Egli infatti è consapevole che nella fase iniziale della rete, essendo essa non

ancora in grado di rispondere a tutte le domande interne, dovrà avvalersi dei prodotti

del mercato capitalista, e per far ciò necessiterà quindi della moneta ufficiale.

Tuttavia egli auspica che alla fine si possa abolire la moneta come strumento di

scambio, pur ritenendo necessaria una qualche misura virtuale di valore per

consentire gli scambi.

Nel complesso, il modello proposto da Singer, è verosimilmente più soggetto ad

andare incontro a fallimenti in quanto non è auto riproducibile, non spontaneo bensì

eteroindotto e dipendente da un sistema esterno. Al contrario, quello proposto da

Mance, rispondendo ai criteri di spontaneità e di complessità, permette di esser auto

riproducibile.

122 P.SINGER, Globalizacao e Desemprego, cit. p. 122, cit. in E.A.MANCE, La rivoluzione delle reti... cit. p. 185.123 E.A.MANCE, La rivoluzione delle reti... cit., p. 186.

67

Mance ha presentato, utilizzando il paradigma della complessità, un’alternativa

economia al sistema capitalista. La tesi iniziale dell’autore afferma che un’unità

produttiva, grazie alla pratica del consumo solidale, è in grado, non solo, di vendere

tutta quanta la produzione, ma anche di generare un surplus capace di innescare

nuove cellule produttive. Una seconda tesi afferma che è possibile per gli esclusi dal

sistema capitalista di organizzarsi in attività produttive a partire dal consumo.

Unendo le due tesi, Mance arriva a sostenere che oggi è possibile una rivoluzione

economica, se i vari soggetti che cercano un’alternativa economica al capitalismo si

collegano, creando una rete di collaborazione solidale. Tale rete, inoltre, avrà valenza

non solo economica ma anche politica e culturale.

III.3 La Rete di Economia Solidale in Italia

III.3.a Cantieri in costruzione

Il modello della Rete di Collaborazione Solidale, proposto da Euclide Mance, è

alla base dell’incipiente esperienza italiana. Qualche anno fa, in Italia, in seguito alle

sollecitazioni provenienti dalla Rete di Lilliput124, accolte successivamente da una

serie di realtà operanti separatamente nell’economia solidale si è dato avvio al

processo che punta alla realizzazione della Rete di Economia Solidale italiana (RES).

Il primo passo, realizzato a Verona il 19 ottobre del 2002, è stato quello di creare

uno spazio di confronto, attraverso un seminario dal titolo “Strategie di rete per

l’economia solidale”. Il quesito attorno al quale ruotava il confronto era se fosse

possibile ragionare per reti, sotto l’influsso delle vicine esperienze spagnola e

francese, e di quelle più lontane dell’America Latina, nella costruzione di un nuovo

modello economico, alternativo a quello dominante. In seguito alla risposta positiva a

tale interrogativo, si è costituito un gruppo di lavoro per la “Rete di Economia

Solidale” con lo scopo di portare avanti una riflessione concreta sull’argomento

proponendo modelli teorici da legare all’esperienza delle varie realtà di economia

solidale.

La prima proposta fu quella di creare dei Distretti di economia solidale, ossia

delle reti di dimensione locale, a livello cittadino, in grado di organizzare tutti i

124 Rimandiamo al sito web: www.retedililliput.it

68

soggetti che, su versanti diversi, producessero beni e servizi locali e/o in seno

all’economia solidale. Al fine di creare una base valoriale comune tra i soggetti

aderenti ai Distretti, si è voluto creare una Carta di intenti, in cui sono espressi i

principi che dovrebbero guidare e indirizzare le varie esperienze di economia

solidale. La Carta di intenti rimanda al triangolo della sostenibilità, i cui tre vertici

sono rappresentati dall’economia, dalla società e dall’ambiente. I principi ai quali si

ispira sono pertanto i seguenti: un’economia di giustizia volta a creare maggior

equità sociale, la valorizzazione della dimensione locale e, infine, la sostenibilità

ecologica. La Carta, inoltre, contiene un quarto punto inerente al metodo da applicare

al fine di realizzare i principi esposti, ossia il metodo della partecipazione attiva, cui

i soggetti dei Distretti sono chiamati a implementare per concertare le «modalità

concrete di gestione dei processi economici propri del distretto stesso»125.

La neo realtà dei Distretti non fa però riferimento al concetto di «sviluppo

sostenibile» così inteso secondo il Rapporto Bruntalnd, inserendosi invece in quella

nuova corrente di pensiero antiutilitarista che, in antitesi al concetto di sviluppo

sostenibile ritenuto un ossimoro, oppone la parola “decrescita”126, da intendere però,

come uno slogan piuttosto che come un vero e proprio concetto.

Lo scopo dei distretti è quello di mettere in diretto contatto, legandoli

strutturalmente, i produttori con i consumatori, da un lato, e dall’altro, questi con le

pubbliche amministrazioni, come per esempio si propone la Rete dei Nuovi

Municipi. Essa è una rete nazionale in cui rientrano gli enti pubblici e centri di

ricerca che lavorano in sincronia per proporre progetti partecipati e partecipativi.

Pertanto, la Carta definisce i Distretti come

“laboratori” di sperimentazione civica, economica, e sociale, in altre parole come esperienze

pilota in vista di future e più vaste applicazioni dei principi e delle pratiche caratteristiche

dell’economia solidale127.

Al momento attuale, la questione principale inerente alla costruzione di

Distretti, riguarda la forma, assolutamente nuova, di rete, che le varie esperienze di

125 Dalla Carta di intenti della Rete di Economia Solidale italiana, nei Documenti “Oltre il pensiero unico” , scuola estiva, Gerace 23-28 settembre 2004, raccolti da Forum e Cooperazione e Tecnologia, Milano.126 Rimandiamo al terzo paragrafo del VI capitolo del presente elaborato.127 Dalla Carta di intenti... cit.

69

economia solidale devono assumere. E’ necessario pertanto un ingente e alquanto

specifico lavoro per riuscire ad aggregare in maniera integrata tutti i soggetti in

campo, in modo da far incontrare facilmente domanda e offerta di beni e servizi,

esigenze e soluzioni. Il distretto, grazie alla messa in rete di tutti i soggetti già

operanti nell’economia solidale (le Botteghe del Mondo, i Gruppi di Acquisto

Solidali, , le organizzazioni della finanza etica, il Turismo responsabile, le

cooperativa sociali ecc..) dovrebbe assolvere completamente alle principali funzioni

economiche quali produzione, consumo, distribuzione e finanziamento.

Affinché si possa parlare di distretto è necessario definire un territorio che abbia

o che costruisca nel tempo un significato, una narrazione. In questo caso la parola

territorio potrebbe rinviare metaforicamente a uno spazio immaginario, non per forza

caratterizzato da una contiguità fisica, quanto piuttosto da una continuità di

significato e di narrazione e quindi di relazione. Le incipienti esperienze di Distretti a

livello italiano, si configurano per ora semplicemente come entità territoriali fisiche.

Per dare vita a un distretto bisogna capire, innanzitutto, quali soggetti sono interessati

a un tale discorso. Nell’esperienza italiana un ruolo decisivo in qualità di promotori e

propulsori, lo hanno giocato i Gruppi di Acquisto Solidale (GAS). Essi, infatti, sono

cruciali nel definire e cogliere la domanda che risponde al quesito “quali esigenze

presenta il territorio”. Una volta decodificata la domanda, si dovrebbe procedere con

la creazione di filiere produttive corte, cerchi chiusi di circa 50 km.

Le reti esistenti a livello cittadino, ossia i Distretti, non sono molto numerose e,

sono diverse l’una dall’altra. Le principali esperienze esistenti si trovano a Roma,

Torino, Como, Milano e Venezia, e tanti altri progetti sono agli inizi.

III.3.b. Domande e questioni aperte128

Secondo alcuni manca una riflessione sul ruolo della politica tradizionale nelle

riflessioni della RES, per cui si corre il rischio di ridurre la politica al solo andare a

fare la spesa praticando il consumo critico, sostenendo che, ogni volta che si fa la

spesa, è come se si votasse. Sebbene questo sia giusto, è necessario distinguere il

“fare politica” dal fare un’azione con valenza politica. Tuttavia, non bisogna

dimenticare che i soggetti facenti parte della RES si muovono, e hanno scelto di 128 Domande e questioni sollevate durante la Scuola Estiva “Oltre il pensiero unico”, Gerage, 23-28 settembre 2004.

70

muoversi, su un terreno prevalentemente economico, quindi su un terreno specifico,

anche se con un progetto di trasformazione, non solo del terreno in questione, ma

anche dei soggetti in esso operanti. L’idea di fondo, infatti, è che attraverso un

progetto locale129 si possa influenzare i soggetti operanti nel campo, la società nel

complesso e, soprattutto, le istituzioni pubbliche. Continuando sull’onda della prima

obiezione si critica la modalità di gestione del distretto: nella carta di intenti si fa

riferimento al modello della partecipazione. In realtà non viene specificato in alcun

modo come questo possa avvenire. Si contesta soprattutto la volontà di risolvere ogni

problematica con la sola auto organizzazione dal basso, vedendo in questa pratica il

rischio di chiudersi nel localismo, a fronte di una sempre maggior interdipendenza

del mondo.

Legato a quanto detto, non è ancora chiaro quale modello di relazione si debba

instaurare con le istituzioni pubbliche e, tanto meno, con il mercato. Alcuni

sostengono la necessità di una contaminazione, di una commistione tra mercato ed

economia solidale. Il rischio però è che, talvolta, le attività svolte secondo i criteri

dell’economia solidale, a causa di tale commistione ritenuta imprescindibile con

l’economia di mercato, seguano infine il paradigma di quest’ultima, come è

accaduto, in parte, alle cooperative e al terzo settore. Il problema maggiore in realtà è

capire quale modello di economia alternativa, all’insegna della decrescita e dei

rapporti di reciprocità, si vuole instaurare nei distretti e, quindi, proporre ai

consumatori.

Infine,un’altra questione aperta rimane quella inerente al possibile ruolo

ricopribile dalle monete locali, o complementari,130 all’interno dei Distretti e della

RES.

La questione riguardo alla natura del rapporto che i Distretti e la RES devono

instaurare con l’ambiente esterno è affrontata dallo studioso Giuseppe Dematteis,

sebbene l’oggetto della sua analisi non sia la Rete di Economia Solidale italiana, né

tanto meno i Distretti, quanto i «sistemi locali territoriali».

III.3.c. Distretti come sistemi locali territoriali, ossia città dell’abitare

129 Rimandiamo al secondo paragrafo del IV capitolo del presente elaborato.130 Cfr. M. PITTAU, Economia senza denaro. I sistemi di scambio non monetario nell’economia di mercato, Bologna, EMI, 2003.

71

L’analisi che Dematteis ha condotto sui sistemi locali territoriali è incentrata

sullo sviluppo locale. In altre parole, egli si chiede in che modo un sistema locale

possa essere protagonista di uno sviluppo locale. Interrogarsi sullo sviluppo locale,

conduce Dematteis ad affrontare inevitabilmente la questione legata al rapporto

locale-globale, che egli risolve proponendo la metafora di rete, invece che quella

obsoleta di centro-periferia. Prima di addentrarci nella teorica analisi di Dematteis,

attraversiamo il campo immaginativo, fatto di idee e visioni del possibile, perché

l’analisi acquisti più colore.

Alberto Magnaghi nel suo libro Il progetto locale131, parla della necessità di uno

«scenario strategico»132, che definisce «più come interpretazione di futuri possibili

che non come invenzione di futuri desiderati»133, al fine di realizzare una città che

affondi le radici nello sviluppo locale autosostenibile134 e che si possa configurare

come manifesto del progetto locale. Realizzare lo scenario strategico interpretando,

significa intravedere in filigrana il progetto della comunità, nascosto nei

comportamenti e negli atteggiamenti individuali e quotidiani, intrappolato nella

composizione sociale del lavoro e nelle esigenze di tutti i giorni. Perché, come

ricorda Dematteis parafrasando quanto affermato da Vagaggini,135 lo sviluppo locale,

prima ancora di costituirsi come un problema di mercato, è un problema di

comunicazione, - e, aggiungiamo, di relazione - ossia di linguaggio e

rappresentazione. Sono le «mappe invisibili»136, da cui bisogna disegnare quelle

visibili.

La città dell’abitare, configurandosi pertanto come un futuro possibile, è

descritta come

un luogo ospitale, che riconosce il tempo luogo della propria storia; [...] coltiva la bellezza dei

propri spazi collettivi, [...] sviluppa forme non mercificate di scambio e di lavoro, individua nuove

forme di municipalità adatte all’autogoverno di questa complessità di azioni [...]137

131 Cfr. A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit.132 Ivi, p. 153.133 Ivi, p. 156. Magnaghi si riferisce alla classificazione proposta da Francesco Indovina nel seminario Cnr sui futuri della città, Roma, 21 febbraio 1998. 134 Rimandiamo al secondo paragrafo del quarto capitolo del presente elaborato.135 Cfr. V. VAGAGGINI, Sistema economico e agire territoriale, Milano, Angeli, 1990, cit. in G. DEMATTEIS, Possibilità e limiti... cit., p. 54.136 Cfr. G. OLSSON, «Invisible map. A prospectus», Geografiska Annaler, sez. B, vol. 73, cit. in G. DEMATTEIS, Possibilità e limiti... cit., p.46.137 A. MAGNAGHI, La città dei luoghi virtuali, in «Eupolis», 7, cit. in A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 182.

72

In altre parole Magnaghi potrebbe aver descritto un Distretto di economia

solidale. La caratteristica principale della città dell’abitare è che, pur avendo una

sostanza unica, essa si può declinare in molteplici forme, a seconda di dove si

sviluppa. Tuttavia, ciò che accomuna le molteplici forme possibili è l’idea che, a

partire dagli esclusi del sistema, è necessaria la rinascita dell’idea di comunità. Dove

«il significato di comunità è che gli individui si adoperino a vicenda come risorse»138

e dove l’identità della società locale si connatura come «progetto» e non come «una

statica condizione originaria»139. Inoltre, dalla sostanza unica che connatura la città

dell’abitare

emerge con forza una finalizzazione solidale ed etica dell’attività produttiva, formativa,

comunicativa; sia nella direzione della costruzione di scambi economici finalizzati non solo alla

produzione di merci sul mercato ma anche alla produzione di beni pubblici, sia nella costruzione di

reti distributive e mercati locali legati alla cura ambientale e alla valorizzazione delle risorse locali e

delle loro peculiarità locali.140

Ne consegue che l’agricoltura non è più considerata un settore economico

residuale, ma fondante dell’economia della nuova città, dove vige la consapevolezza

che «la terra è all’origine di ogni risorsa naturale e umana e della riproduzione della

vita».141 Di conseguenza gli abitanti della città dell’abitare non conoscono il

problema ecologico. Questo infatti, è generato da un rapporto squilibrato tra l’uomo

e la natura,

un rapporto che, a differenza di quello che con essa stabiliscono gli animali, non è diretto e naturale

[...] è mediato dall’economia. Tra l’uomo e la natura si interpongono, infatti, i complessi e dinamici

processi di produzione, distribuzione, consumo e accumulo.142

138 P. GOODMAN, Individuo e comunità,trad. it., Milano, Eleuthera, 1995, p. 75, cit. in A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 109.139 G. PABA, I cantieri sociali per la ricostruzione della città, in A. MAGNAGHI, (a cura di), Il territorio degli abitanti, Milano, Douod, 1998, p. 90, cit. in A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 108.140 A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 114.141 Ivi, p. 168.142 L.RAZETO, Le dieci strade....cit., p. 116-117.

73

La città dell’abitare, intendendo l’economia come «un processo di scambio

vitale tra l’uomo e la natura, per il quale entrambi risultano trasformati»143, instaura

una relazione di reciprocità con l’ambiente in cui vive, tale per cui è impossibile che

si generi un disagio ecologico.

La città dell’abitare ideata da Magnaghi, assumendo in tutto e per tutto i

connotati di un ipotetico Distretto di economia solidale, può altrimenti essere letta

come un «sistema locale», secondo l’analisi proposta da Giuseppe Dematteis. Un

sistema locale è

un aggregato di soggetti che in varie circostanze può comportarsi di fatto come un soggetto

collettivo anche se non è formalmente riconosciuto come tale.144

Quando agisce come soggetto collettivo, tale insieme si presenta con una sua

propria identità, differente dalle identità dei singoli soggetti che lo compongono, e di

cui quest’ultimi sono coscienti. Oltre a un’identità propria, il sistema locale si

munisce anche di regole informali, tali da permettergli di interagire con l’esterno. Lo

scopo ultimo del sistema locale, così definito, non si risolve più nel produrre qualche

cosa, bensì nel «produrre e riprodurre se stesso»145. Da questa breve descrizione è

possibile riconoscere come all’interno dei sistemi locali operino i principi della teoria

sistemica.

Dematteis precisa che «locale» non necessariamente è sinonimo di

«territoriale». Infatti i confini di un sistema locale possono essere determinati, non da

un punto di vista geografico, bensì concettuale. In altre parole, non occorrono mappe

geografiche per rilevarli sulla carta, quanto piuttosto delle «mappe invisibili» che

rappresentino il codice normativo e comportamentale del sistema. Tuttavia,

Dematteis si concentra sui sistemi locali territoriali, individuando alcuni tratti

distintivi. Innanzitutto, ciò che identifica un sistema locale territoriale è il luogo

fisico che accomuna tutti gli abitanti di una determinata zona, per il modo che questi

hanno sviluppato, nel tempo, di rapportarsi con tale luogo. Dematteis chiama lo

specifico luogo in questione «milieu», definendolo come

143 Ivi, p. 117.144 G. DEMATTEIS, Possibilità e limiti ... cit., p. 45. 145 Ibidem.

74

un insieme permanente di caratteri socio-culturali sedimentatesi in un certa area geografica

attraverso l’evolvere storico di rapporti intersoggettivi, a loro volta in relazione con le modalità di

utilizzo degli ecosistemi naturali locali.146

Le relazioni che i soggetti locali intraprendono all’interno e con il proprio

milieu, vengono definite «verticali». Queste, però, non sono sufficienti, secondo

Dematteis, per garantire uno sviluppo, seppure locale. Affinché questo abbia luogo è

necessario innanzitutto che avvenga la cosiddetta «valorizzazione territoriale».

Quest’ultima si determina grazie all’interazione tra le relazioni «verticali», con

quelle «orizzontali», ossia sovra-locali, non per forza solo di mercato, ma anche

istituzionali. La semplice valorizzazione territoriale, però, spiega Dematteis

concordando con Magnaghi, non è sufficiente per garantire lo sviluppo locale.

Questo, infatti, rispetto alla valorizzazione territoriale, che si configura generalmente

come una dipendenza esogena e quindi come un processo di sviluppo reversibile, si

presenta a tutti gli effetti come endosviluppo, in quanto innesca processi endogeni

non reversibili, e attiva giochi a somma positiva.

All’interno del rapporto globale-locale, i sistemi locali si configurano come

«nodi di reti globali»147.Utilizzando il concetto di rete nella sua valenza metaforica e

non in quella materiale, esso diviene una raffigurazione astratta delle connessioni tra

soggetti, ma allo stesso tempo si configura come rappresentazione territoriale, in

quanto i soggetti in questione - nella fattispecie i nodi delle reti - sono localizzati

geograficamente. Dematteis distingue due punti di vista. Il primo punto di vista è

esterno al sistema locale e si gioca su un livello globale in cui i vari sistemi locali,

funzionando come nodi, sono connessi in rete. Il sistema locale territoriale si

configura come sottoinsieme aperto del sistema globale. Questa è la logica

economica “dominante”, in cui le parti sono controllate esogenamente dal sistema

globale. Il secondo punto di vista è, invece, interno al sistema locale e il suo fulcro è

pertanto, il livello locale. Il sistema territoriale locale, in questo caso, funziona esso

stesso come rete i cui nodi sono i singoli soggetti presenti sul territorio. Il punto di

vista interno al sistema locale interpreta i sistemi locali come modelli auto

organizzanti e autopoietici. Infatti ciascun sistema è dotato di una sua identità e di

146 G. DEMATTEIS, Possibilità e limiti... cit., p.47.147 Cfr. F. CURTI, L, DIAPPI, (a cura di), Gerarchie e reti di città: tendenze e politiche, Milano , Angeli, 1990, cit. in G. DEMATTEIS, Possibilità e limiti... cit., p.50.

75

una capacità di comportamento autonomo, non dipendente dal sistema globale.

Riprendendo i termini della teoria sistemica della complessità, esposti poco sopra,

Dematteis intende il rapporto tra nodo e rete come un accoppiamento strutturale.148

Grazie all’autonomia organizzazionale, e alla flessibilità strutturale i sistemi

territoriali locali e, quindi, i Distretti, possono interagire e confrontarsi con

l’ambiente esterno, cioè con la realtà globale, senza venirne distrutti o assimilati.

L’accoppiamento strutturale permette la realizzazione di reti in cui convive un

equilibrio sistemico tra forme di competizione e forme di cooperazione cioè

un mondo ricco di qualità e diversità che, come ci insegnano le scienze della vita, è l’unico

contesto in cui un certo grado di competizione diviene veicolo di ulteriore ricchezza e non la causa

dell’appiattimento globale e della distruzione reciproca.149

Questo perché la rete mette in collegamento organizzazioni, in senso sistemico,

diverse. E per comprendere quest’ultime è opportuno prestare attenzione alla

dinamica coevolutiva della cooperazione e della competizione, della creazione del

conflitto che tali organizzazioni sottendono e, infine, bisogna prestare attenzione al

mutamento e alla creazione di adattamenti a condizioni nuove.150

Grazie all’analisi di Dematteis, inoltre, è possibile tratteggiare quale rapporto i

Distretti debbano instaurare con la Rete nazionale. Nel discorso dello sviluppo

locale, da un punto di vista geografico, il «radicamento territoriale»151 è assunto

come categoria chiave. Infatti, al sistema territoriale locale, ovvero al Distretto,

radicato in un milieu, spetta il compito della produzione di beni e servizi, grazie alle

relazioni verticali. Al contrario, ai sistemi a rete, ovvero alla RES, è demandato il

compito della distribuzione e circolazione di flussi. «I sistemi a rete sono dunque

trans-territoriali, ma non del tutto deterritorializzati».152

Ogni Distretto pertanto, dovrebbe fare proprio l’efficace motto: “agisci

localmente pensando globalmente”.

148 Rimandiamo al primo paragrafo del presente capitolo.149 M. BOMAIUTI, Introduzione, in N. GEORGESCU- ROEGEN, Bioeconomia....cit., p. 61.150 L. DAL LAGO, U. MORELLI,, Organizzazione, in TELFENER, L. CASADIO (a cura di), Sistemica... cit., p. 438.151 G. DEMATTEIS, Sistemi locali e reti globali: il problema del radicamento territoriale, in Archivio di studi Urbani e Regionali, n. 53, 1995.152 Ivi, p. 46.

76

CAPITOLO IV

UN’ECONOMIA DI RELAZIONE ALL’INSEGNA

DELLA COMPLESSITA’

A questo punto dell’analisi, dopo esserci soffermati sul paradigma delle reti, sia

a livello teorico, che applicato al campo dell’economia, possiamo incominciare a

sostenere che un’economia di relazione, non solo è possibile, ma esiste già, tanto al

Nord quanto al Sud. Seppure essa assuma diversi nomi a seconda del contesto in cui

si sviluppa, tutte le esperienze economiche fondate sulla relazione, possono

riconoscersi sotto il nome comune di economia solidale. Come sottolinea, in modo

alquanto esplicativo il seguente pensiero di Gaudencuio Frigotto, riportato nel libro

di Mance:

la fine dell’età dell’oro del capitalismo e la realtà crescente della disoccupazione strutturale,

della precarizzazione e la perdita di dignità del lavoro salariato costituiscono un quadro socio-

economico, culturale ed esistenziale riguardante milioni di lavoratori, di cui i classici concetti di

economia e mercato formale non danno conto. Nuove categorie e concetti, come economia di

sopravvivenza, economia solidale, economia associativa e popolare, cercano di esprimere

un’eterogenea e complessa rete di modalità di sopravvivenza153.

Tuttavia, non possono passare inosservate alcune rilevanti differenze, che

distinguono soprattutto le esperienze di economie di relazione al Sud da quelle del

Nord. La diversità maggiore risiede principalmente, nella natura della genesi di tali

esperienze. Mentre al Sud esse si configurano spesso come unica risposta possibile ai

fini della sopravvivenza, rivestendo un carattere di necessità e presentando

dimensioni collettive di ampia portata sociale al Nord, le esperienze di economia

solidale nascono piuttosto, come scelte individuali o di gruppi ristretti, motivate da

principi valoriali e culturali, alla cui base risiede un atto di volontà e non di necessità,

per lo meno non di sopravvivenza, sebbene potrebbe essere una necessità di tipo

morale.

153 E. A. MANCE, La rivoluzione delle reti... cit.,p. 174.

77

Conseguentemente, al Sud, il fenomeno è prevalentemente spontaneo e istintivo,

nel senso di non progettato né tanto meno istituzionalizzato. Invece, al Nord,

nascendo da un atto volitivo preciso e motivato, il fenomeno, tanto delle singole

esperienze, quanto quello di realizzazione di reti, tende a istituzionalizzarsi, avendo

alla base un progetto preciso. Ma, essendo quest’ultimo un progetto di gruppi

minoritari rispetto alla società complessiva, l’esperienza dell’economia solidale

rimane ancora prevalentemente un fenomeno di nicchia. E quando tenta di porsi

come fenomeno sociale più ampio, come nel caso dei Distretti, rischia di generare

scissione tra il gruppo promotore dell’esperienza, il quale tende a porsi come leader,

e il resto della gente tendenzialmente indifferente sull’argomento e soprattutto restia

a cambiare stile di vita.

Sulla base dell’interrogativo iniziale, “può esistere, e con quali caratteristiche,

un’economia di relazione?” si può affermare di avere dato risposta alla prima parte

del quesito. Infatti un’economia di relazione esiste già, o meglio, esistono forme

plurime di economie fondate sulla relazione. In questo capitolo, senza volere

compiere un’opera di astrazione eccessiva, proveremo, allora, a delineare un modello

di un’economia di relazione, illustrandone le caratteristiche peculiari. Al fine di

rispecchiare fedelmente la natura complessa della natura umana, intesa come

relazione con se stessi, con gli altri e con l’ambiente circostante, riteniamo

fondamentale e imprescindibile coniugare il modello di un’economia di relazione

secondo il paradigma della complessità. Pertanto, vedremo come il modello di

un’economia di relazione possa trarre origine, principalmente da due approcci,

entrambi implicanti il concetto di relazione.

Il primo, che presuppone una relazione spazio- temporale, è un approccio volto

al sincretismo tra le varie e differenti esperienze di economia fondate sulla relazione,

esso mette in relazione economie differenti nel tempo, opera quindi un sincretismo

diacronico, e differenti nello spazio, operando dunque un sincretismo sincronico. Il

secondo approccio, definito «antropobiocentrico»154, presuppone una relazione

interdipendente tra l’uomo e l’ambiente in cui vive e conseguentemente una

relazione locale-globale di tipo sistemico. Infine arricchiamo il modello, con la

nuova teoria economico sistemica proposta dall’economista Mauro Bonaiuti.155

154 Cfr. A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit.155 Cfr. M. BOMAIUTI, Introduzione, in N. GEORGESCU- ROEGEN, Bioeconomia... cit.

78

IV.1. Sincretismi tra nord e sud, tra passato e presente

Incominciamo con uno sguardo diacronico, volgendo l’attenzione a quanto

Marcel Mauss ha scoperto e riportato nel Saggio sul dono, il cui scopo principale, lo

ricordiamo, era quello di indagare sulla natura delle transazioni umane nelle società

primitive. Mauss, scoprendo l’agire della morale e dell’economia nelle transazioni da

lui esaminate e identificando il dono come uno dei fondamenti su cui sono costituite

tutte le società, conclude la sua introduzione al saggio dicendo che, poiché:

la morale e l’economia operano ancora nelle nostre società in modo costante, e per così dire,

soggiacente, e poiché crediamo di avere trovato qui uno dei capisaldi su cui sono costruite le nostre

società potremo dedurne alcune conclusioni morali su taluni problemi posti dalla crisi del nostro

diritto e da quella della nostra economia [...]156

e conclude dicendo che

Il sistema che proponiamo di chiamare delle prestazioni totali [...] costituisce il più antico

sistema economico e giuridico che ci sia dato di constatare e di concepire. Esso forma lo sfondo da cui

si è distaccata la morale del dono-scambio. Ora, fatte le dovute proporzioni, tale sistema è

precisamente dello stesso tipo di quello verso il quale vorremmo veder dirigersi le nostre società.157

A questo proposito, partendo proprio dagli studi di Mauss, lo studioso francese

Alian Callié propone il «paradigma del dono»158, come terzo paradigma da

contrapporre ai due paradigmi fondamentali delle scienze sociali: quello utilitarista,

che risale all’economia neoclassica e, quello collettivista, il cui padre è il sociologo

Emile Durkheim. Secondo il primo modello d’analisi, definito anche, come abbiamo

visto, individualismo metodologico, il rapporto sociale, e quindi gli eventuali doni o

scambi, è visto come la sommatoria dell’intreccio dei singoli calcoli individuali. Nel

secondo, invece, l’individuo non è propriamente autonomo, ma assoggettato alle

regole della società in cui vive: sono i legami sociali, pertanto, che spingono a

donare. Nessuno dei due, però, affronta e spiega la genesi dei legami sociali. Allian

156 M. MAUSS, Saggio sul dono, Torino, Einaudi, 2002, (ed. orig. 1950), p. 7.157 Ivi, p. 123.158 Cfr. CALLIE’, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Torino, Bollati Boringhieri, 1998.

79

Caillé, proponendo un terzo paradigma, suggerisce la lettura secondo cui il dono

costituirebbe lo strumento cardine utilizzato dagli uomini per creare i legami sociali,

per promuovere relazioni e quindi per creare e riprodurre la società in cui vivono,

senza la quale non potrebbero esistere. L’accettazione di un tale paradigma implica,

però, aggiungere altro ad una terza accezione di valore, ossia il valore di legame,

all’interpretazione classica data al termine «valore» di beni e servizi, distinto in

valore d’uso e valore di scambio. Il valore di legame, spiega Caillè, fa riferimento

alla capacità dei beni e dei servizi, se donati, di creare legami e relazioni sociali, i

quali finiscono per diventare più importanti del bene o servizio stesso.

L’importanza dei legami sociali, nelle prestazioni economiche, però, non solo la

ritroviamo nelle società arcaiche o primitive, ma anche nelle società contemporanee,

sia al Sud che al Nord. Lo abbiamo evidenziato nel secondo capitolo presentando il

concetto di capitale sociale, il quale spiega come le scelte di natura economica non

sono condizionate unicamente dalle risorse economiche a disposizione della persona,

ma anche da risorse sociali e nella fattispecie dalle reti di relazioni. Anche il concetto

di capitale sociale, dunque, prende le distanze tanto dalle visione «ipersocializzata» e

«iposocializzta»159 dell’attore sociale. Secondo il sociologo Pizzorno, infatti,

l’importanza e la valenza della teoria del capitale sociale, è data dalla sua

applicabilità non solo nella dimensione individuale, ossia per la teoria dell’azione

individuale, ma anche per la dimensione collettiva, ossia utile per una teoria della

democrazia. Addirittura l’autore avanza «l’idea che una teoria del capitale sociale

viene a coincidere con una teoria della riproduzione della socialità»160 così come la

logica del dono lo permetteva nelle società arcaiche.

Effettuando un confronto diacronico tra società distanti nel tempo bisogna, però,

fare molta attenzione a non cadere in facili semplificazioni e rappresentazioni

dicotomiche tra un “loro” società primitive e un “noi” società moderne. In realtà,

proprio il lavoro antropologico ed etnologico di fine ottocento, impugnando la

«ragione etnologica» di cui parla l’antropologo Amselle e, a cui egli contrappone la

«logica meticcia»161, ha dato avvio a tale segmentazione culturale, creando solchi

159 Per i termini «ipersocializzata»e «iposocializzata» cfr. M. GRANOVETTER, Economic Action and Socila Structure: The Problem of Embeddedness, in «American Journal of Sociology», n. 91, cit in C. TRIGIGLIA, Sociologia Economica, vol. II, Bologna, il Mulino, 2002, p.,192.160 A. PIZZORNO, Perché si paga il benzinaio...cit. p. 36.161 Cfr. J.L. AMSELLE, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, Torino, Bollati Boringhieri, 1999.

80

netti tra culture e attribuendo a ciascuna categoria etnica così creata, caratteristiche

estranee le une alle altre, incomunicabili. Pertanto le società passate sono presentate

come popoli solidali per natura, opposti alle nostre società dove imperversa la

ragione economica dell’utilitarismo. Questo modo di pensare, tuttavia, conduce alla

trappola dell’evoluzionismo e del determinismo. Alle società primitive e semplici

corrispondono il primato della società sul singolo, i valori della solidarietà e della

logica del dono e quindi la felicità. Alle società più complesse, fino al massimo della

complessificazione dovuta alla presenza della tecnologia e della scienza,

corrisponde, invece, il primato della logica di mercato, dell’individuo sulla società

sempre più parcellizzata in diverse anime e dunque schizofrenica.162

L’antropologo Marco Aime si interroga se possa reggere, o meno, la chiave di

interpretazione evoluzionista. La risposta è negativa. Infatti, sostiene Aime, anche

nelle società capitaliste è ancora presente il dono nei regali di Natale, di compleanno,

per le cerimonie e, nel tempo dedicato come volontariato. Il problema è che spesso

passa totalmente inosservato, soffocato dalla logica mercantile163.

Evitando di dare qualsiasi connotazione evoluzionista o determinista, passiamo

al confronto sincronico tra le società contemporanee. Ricordiamo che le società

basate sulla logica del dono, geograficamente localizzate a Sud, nonostante la

162 Una grande influenza, sull’argomento, è esercitata dalle teorie sociologiche della seconda metà dell’ottocento. Tonnies (1855- 1936) distingue due forme di legame sociale, la Comunità e la Società, di diversa natura, una naturale, l’altra contrattuale, che egli vede come due fasi distinte e storicamente consequenziali dell’associazionismo umano. La Società, indica la dimensione pubblica, giuridico-economica della vita sociale, dove ognuno persegue obiettivi individualistici. La Società è, quindi, intesa come una macchina, uno strumento artificiale, non presente in natura, che favorisce lo sviluppo e il realizzarsi degli interessi privati. Il legame che tiene uniti gli individui nella Società, secondo Durkheim, è la solidarietà organica, contrapposta alla solidarietà meccanica. La solidarietà pertanto, si connota come organica poiché nella Società vige la libera interazione e integrazione tra individui e tra gruppi diversi tra loro. La solidarietà non è più obbligata ma libera. Ma questa libertà in seno agli individui, comporta un rischio se non viene gestita correttamente. La libertà organica, in seguito a tale componente di libertà, infatti può lasciare il posto a quella che Durkheim chiama «anomia», (letteralmente assenza di leggi) ossia l’indeterminatezza di norme, costumi, e valori socialmente cogenti, e che quindi provoca disgregazione sociale. Questo avviene perché, in assenza di valori, i rapporti dipendono, non più dalle persone, come accade nella Comunità, ma dalle cose, come le merci e il denaro, il che porta alla spersonalizzazione dei rapporti e, all’atomismo. La Società, quindi contraddistinguerebbe le società mercantili e industriali.

Nella Comunità, invece, vige quel tipo di legame sociale che lega, simbolicamente e affettivamente, i membri di un gruppo grazie a valori condivisi. L’agire in comunità è caratterizzato dalla diffusività del comportamento sociale, poiché la comunità è intessuta di relazioni primarie, fondate sulla partecipazione emotiva, e dove le rappresentazioni collettive determinano coercitivamente, in tutto e per tutto, l’agire dei singoli individui. Ciò che tiene legati gli individui nella Comunità, secondo Durkheim, è la solidarietà meccanica. Questo termine rinvia al concetto di una solidarietà automatica, priva di libertà, obbligata. Alla comunità corrisponderebbero, dunque, le aggregazioni naturali, come la famiglia, la comunità tribale o le società pre-capitaliste.163 M. AIME, Introduzione, in M. MAUSS, saggio sul dono... cit. p., X.

81

centralità della relazione nelle loro attività, presentino comunque, degli aspetti

negativi, anche da un punto di vista economico. In particolare, ci riferiamo alla

prevalenza della categoria concettuale di “particolarismo”, contrapposta a quella di

“universalismo”, per cui, sebbene il gruppo prevale sull’individuo, è spesso un

gruppo ristretto, la famiglia o il clan, e non la comunità nel suo insieme eterogeneo.

Da qui possono svilupparsi fenomeni come il favoritismo verso le proprie parentele,

la corruzione, fino a scivolare in atteggiamenti mafiosi, soprattutto in ambito

politico. Inoltre, come abbiamo visto, il dono può anche essere uno strumento con

cui dimostrare la propria superiorità sull’altro, per cui, società che praticano la logica

del dono, possono essere anche fortemente inegualitarie poiché fondate su legami

gerarchi. Infatti, riconosce Latouche, rispetto alle società africane,

questa società dove si dona tanto è anche una collettività in cui alcuni muoiono di fame alle

porte dei palazzi, perché non hanno niente da restituire164.

Inoltre, in queste società, la libertà del singolo può venire fortemente ostacolata

dagli obblighi verso la comunità. Nelle società liberal-capitaliste, invece, la libertà

del singolo è tutelata e prevale sugli interessi particolaristici e di classe, ma finisce

poi, per essere sopravvalutata a discapito di quella sociale. Come riconosce

Latouche, si è pertanto «di fronte a un tragico dilemma» riguardo al ruolo dei

legami sociali in campo economico:

preferire la pesantezza del legame sociale con le forme olistiche o la liberazione dai vincoli

simbolici a costo della distruzione mercantile del sociale?165

Per risolvere tale dilemma, già Weber sottolineava nel suo saggio Le sette

protestanti e lo spirito del capitalismo, ricordato precedentemente166, come gli effetti

positivi dei reticoli sociali possano essere garantiti in parte da fattori storico-culturali,

ma, soprattutto, da condizioni politiche efficaci. Infatti in assenza di un stato

efficiente le reti, sostituendosi alle sue funzioni, e alla sua autorità di controllo,

favoriscono atteggiamenti di particolarismo, utilizzando risorse pubbliche in modo

164 S. LATOUCHE, Altri mondi... cit., p. 98.165 S. LATOUCHE, L’altra Africa... cit., p. 88.166 Rimandiamo alla nota n. 39 del presente elaborato.

82

improprio per la collettività, ma a vantaggio della cerchia ristretta. Il sociologo

Trigiglia concorda appieno con quanto indicato da Weber, e aggiunge una sfumatura.

Mente i fattori storico-culturali, secondo Trigiglia, sono importanti, ma di natura

statica, quasi deterministi, è il ruolo della politica, di una politica moderna, che può

regalare al concetto di capitale sociale, e quindi anche alla logica del dono, la

dinamicità dovuta, così come il capitale sociale è inteso dalla Piselli167. Per politica

moderna, Trigiglia intende una politica scevra da interessi particolaristici, ma votata

all’interesse comune, che fa funzionare il proprio apparto amministrativo secondo

regole universalistiche. Ma Trigiglia precisa che questa è la politica, al singolare,

magari scrivibile con la P maiuscola, ad indicare che si è in presenza della teoria e

non già del campo applicativo. Per scendere a quest’altro livello occorre allora

parlare di politiche, intendendo la pluralità di azioni che possono scaturire dal

modello teorico sopra ricordato, specificatamente mirate ai vari contesti di

intervento168.

Riconosciamo quindi, da un punto di vista descrittivo, che la dimensione del

dono è da sempre fondante nelle relazioni umane. Pertanto la reputiamo fondante

anche da un punto di vista normativo, per un’economia di relazione. L’altra faccia

della logica del dono, però, in un’economia di relazione, è la politica, intesa come il

perseguimento del bene comune. L’economia di relazione, grazie al ruolo della

politica da un lato, e «sostituendo il contratto con il dono», dall’altra, cerca di

«reincastrare l’economia nella società», perché «l’uomo è soprattutto un essere

relazionale»169. E come dice ancora Aime :

ecco che [...] il dono può abbandonare il suo guscio di esotismo e di primitivismo e riproporsi

come un riferimento per contrastare quell’anonimato che tanto ci spaventa.170

Concludiamo questo paragrafo sui sincretismi, riportando il pensiero di

Latouche, il quale scrive: «se l’Africa è povera di quello di cui noi siamo ricchi, in

compenso, essa è ancora ricca di quello di cui noi siamo poveri»171. Infatti «al Sud la

167 Rimandiamo alla nota n. 46 del presente elaborato.168 C. TRIGIGLIA, Capitale sociale e sviluppo locale...cit., p. 124 e ss.169 M. AIME, Introduzione, in M. MAUSS, saggio sul dono... cit., p. XXVIII.170 Ibidem.171 S. LATOUCHE, L’altra Africa... cit., p. 202.

83

socialità è quello che permette di risolvere la crisi economica, mentre al Nord un

artificio economico viene in soccorso al sociale »172.

In definitiva, l’approccio volto al sincretismo, nell’ottica della complessità, si

spiega alla luce del fatto che «nessuna società apporta all’uomo la soddisfazione

completa della sua inquietudine esistenziale»173.

IV.2. Il progetto locale

Nel seguente paragrafo si mette in luce come l’approccio «antropobiocentrico»

proposto da Alberto Magnaghi, possa costituire un paradigma di riferimento per

un’economia di relazione. Questo approccio è diversamente chiamato

«territorialista», in quanto adotta lo sviluppo locale che si fonda sul territorio come

strategia alternativa allo sviluppo fondato sulla globalizzazione. Nella definizione

che Magnaghi dà di territorio, si coglie come tale approccio sia anch’esso formato a

partire dalla teoria della complessità. Il territorio infatti è il prodotto di «un dialogo,

una relazione fra entità viventi, l’uomo stesso e la natura, nel tempo luogo della

storia»174.

Magnaghi riconosce che esistono diversi modi di intendere la sostenibilità,

ognuno dei quali con sfaccettature differenti, e fondati su elementi divergenti. Egli ne

individua tre:

l’approccio funzionalista o dell’ecocompatibilità della crescita economica;

l’approccio ambientalista o biocentrico;

l’approccio territorialista o antropobiocentrico175

Nel primo, dove impera il paradigma economico, l’utilizzo dell’ambiente è in

funzione della realizzazione del modello di sviluppo economico. Dando un valore

monetario a tutti i beni ambientali, questi sono considerati alla stregua di una merce e

il mercato si pone come regolatore delle questioni ambientali. Poiché l’ambiente è

172 S. LATOUCHE, Altri mondi... cit., p. 101.173 S. LATOUCHE, L’altra Africa... cit., p. 204.174 A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 9.175 Ivi, p. 50.

84

visto come un vincolo alla crescita economica, di cui per forza bisogna tenere conto,

il concetto di sostenibilità, utilizzato in questo approccio, fa riferimento alla capacità

di carico del pianeta. Assegnando all’ambiente un ruolo totalmente passivo, tale

approccio si configura come negativo cioè, le politiche derivanti da tale approccio

sono semplicemente di natura correttiva e quindi esogene rispetto al contesto di

intervento. Si investono speranze ed energie nel campo della scienza e della

tecnologia credute la soluzione ideale in grado di correggere i continui danni

ambientali creati dalla smisurata crescita economica. Si parla di perfetta sostituibilità

tra capitale artificiale e capitale naturale. Non si tiene in conto dell’irreversibilità di

alcuni danni, e si ignora la seconda legge della termodinamica. Secondo Magnaghi e

altri176 tale modello è destinato a fallire dal momento che non internalizza i costi di

distruzione ambientali.

Se l’approccio funzionalista pone al centro della sua filosofia l’uomo, inteso

come uomo economico, negando ogni soggettività all’ambiente, il secondo

approccio, all’opposto, fonda tutto sulla centralità dell’ambiente come entità

autonoma. Dunque, «l’ambiente da vincolo diviene opportunità, risorsa»177. Si supera

la visione dicotomica del territorio distinto in aree sfruttabili economicamente ed

aree di valore naturalistico e quindi protette, a favore di «una visione ecosistemica

unitaria»178.Tuttavia, la visione globale sul mondo rimane di matrice duale in quanto

si considerano i due poli di quest’ultimo, quello umano e quello ambientale, non solo

separati, ma contrapposti e dove, in questo caso, il primato spetta all’ambiente.

Nuovamente la portata euristica di tale modello è parziale, in quanto ritiene assolute

le esigenze dell’ambiente, considerato in sé, e non interagente con l’uomo. Lo

sviluppo non è più inteso in termini di ecocompatibilità, bensì di sostenibilità. Ma il

concetto si sviluppo sostenibile così inteso contiene nel suo grembo un principio di

schizofrenia: mentre infatti la parola sviluppo, rimanda al paradigma economico di

crescita quantitativa, o comunque di accumulazione, la parola sostenibile inserisce

dei parametri normativi e correttivi a difesa dell’ambiente. Per alcuni179 tale

espressione si connota semplicemente come un ossimoro.

176 Mauro Bonaiuti e i sostenitori della «decrescita».177 A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 56.178 Ivi, p. 57.179 Mauro Bonaiuti e i sostenitori della «decrescita».

85

L’approccio territorialista, prendendo le distanze tanto dal modello

economicista, quanto da quello naturalista, si presenta, invece, totalmente diverso, in

quanto di natura complessa e non settoriale: è un approccio relazionale. Infatti

«l’approccio territorialista affronta il problema della sostenibilità focalizzando

l’attenzione sull’ambiente dell’uomo»180, considerando l’ambiente e l’uomo integrati

in un’unità complessa. Per questo è anche definito «antropobiocentrico». Tale

approccio effettua una distinzione concettuale, dalla portata euristica non

indifferente, tra l’ambiente naturale e il territorio. Quest’ultimo è «inteso come

neoecosistema prodotto dall’uomo»181, in cui si relazionano in modo virtuoso le tre

anime componenti il territorio: l’ambiente naturale, l’ambiente costruito, l’ambiente

antropico. Pertanto, l’ambiente naturale, non è più il referente primo ed unico,

com’era per l’approccio biocentrico, bensì diviene un sottoinsieme del sistema più

complesso che è il territorio. In quanto sistema complesso, il territorio, è molto più

che l’aggregazione delle singole parti, tanto è vero che non esiste in natura, ma è un

prodotto, anzi «è un’opera d’arte: forse la più alta, la più corale che l’umanità abbia

espresso»,182 formata dall’intreccio, intelligente e nascosto, della «cultura, natura e

storia»183.

Si capisce ora meglio perché si è definito tale approccio relazionale: perché il

territorio, soggetto attorno a cui si ruota, è il frutto di una relazione tra l’ambiente e

l’uomo che lo abita, « è un esito dinamico, stratificato, complesso di successivi cicli

di civilizzazione; è un complesso sistema di relazioni fra comunità insediate (e loro

culture) e ambiente».184

Intendendo il territorio in questo modo, l’approccio territorialista imputa i

sistematici processi di «deterritorializzaizone», causati dall’attuale sfruttamento

economico, come causa del degrado ambientale. L’unica soluzione possibile a tale

degrado è agire in senso inverso, ossia promuovendo «atti territorializzanti» in grado

di rigenerare le relazioni interrotte. C’è bisogno di «nuovi atti fecondanti», che sono

il seme per una nuova sostenibilità o meglio «autosostenibilità», germe di nuova

ricchezza. C’è bisogno di produrre «territorilità», definita come «la mediazione

simbolica, cognitiva e pratica che la materialità dei luoghi esercita sull’agire

180 A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 58.181 Ivi, p. 59.182 Ivi, p. 9183 Ivi, p. 59.184 Ivi, p. 61.

86

sociale».185Secondo Magnaghi, infatti, «nel modo di produzione del territorio sta la

chiave di una sostenibilità durevole, strategica»186.

Egli, dunque, parla di «sviluppo locale autosostenibile», dove l’aggettivo «auto»

rimanda alla necessità di regole per l’insediamento umano che non siano dettate

esogenamente, e che tale insediamento sia indipendente da aiuti esterni per

autoriprodursi; mentre l’aggettivo «locale» insiste sulla «necessità di una cultura di

autogoverno e di cura del territorio»187. Più precisamente, con la parola «auto» si

vuole sottolineare che il punto cardine è la comunità: è la società locale che sostiene

se stessa. Per far ciò è necessario, sostiene Magagni, che ci sia una riconvergenza tra

la figura dell’abitante e quella del produttore. Questa, come abbiamo visto, è la

filosofia che anima i Distretti di Economia Solidale, i quali puntano a costituirsi

come cellule di produzione e di consumo, secondo il modello proposto da Mance. La

via maestra per cucire tale scissione è quella di promuovere il lavoro autonomo

rispetto a quello salariato, esattamente come propone anche Mance. Il lavoro

autonomo, infatti, può far riappropriare l’autonomia e, quindi, avviare a forme di

autogoverno e di democrazia. Esso, però, deve diventare «il tessuto connettivo di

nuove relazioni produttive fra comunità insediata e ambiente, di nuova socialità e di

nuova cittadinanza».188 In questo modo, le relazioni produttive, grazie alla cura verso

il territorio, favoriscono relazioni sociali. Si crea così

una nuova alleanza fra abitanti e produttori [che] può riorganizzare in forme sostenibili,

l’economia del tessuto di piccole e medie città, attivando reti di funzioni urbane sul territorio,

rivitalizzando reti commerciali locali, l’artigianato e la piccola produzione per la valorizzazione delle

peculiarità produttive, connettendo reti diffuse di servizi.189

In altre parole, Magnaghi ha appena descritto un ipotetico distretto di economia

solidale.

Soffermiamoci ora sull’aggettivo «locale». «Oggi- dice Magnaghi- il locale è

[...] il vero terreno di scontro»,190 su cui si gioca la riappropriazione dello stesso da

185 Cfr. G. DEMATTEIS, Sul crocevia della territorialità urbana, in AA.VV., I futuri della città, Milano, Angeli, 1999, cit. in A. MAGNAGHI, Il progetto locale.... cit., p.48.186 A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 61.187 Ivi, p. 62.188 Ivi, p. 97.189 Ivi, p. 96.190 Ivi, p. 77.

87

parte delle comunità locali contro le braccia lunghe della globalizzazione. L’autore

individua «tre atteggiamenti generali che connotano il rapporto locale-globale».191Il

primo vede il locale come mero supporto alla globalizzazione. Si connota pertanto

come un atteggiamento predatorio di tutte le possibili ricchezze presenti a scala

locale, al fine di introiettarle nel circuito globale. Il secondo atteggiamento ricerca

l’equilibrio fra il locale e il globale, si parla di «glocale»192. E’ un approccio

compensativo, per cui si cerca di correggere gli squilibri causati dalla

globalizzazione economica a livello locale, senza però condannarla. Infatti secondo

tale approccio l’obiettivo per le società locali deve essere quello di conciliare le

relazioni «verticali» presenti sul territorio, con quelle «orizzontali» esterne, al fine di

valorizzare al meglio le proprie risorse e non rimanere escluse dall’economia

globale.193 Magnaghi fa, però, notare giustamente come attualmente la relazione

locale-globale è fortemente sbilanciata verso quest’ultimo, il quale nella decisione

delle regole fa la parte del leone. Infine vi è l’approccio botton up o globalizzazione

dal basso, che Magnaghi chiama «sviluppo locale versus globale», meglio definito

come una pluralità di approcci i quali «interpretano la crescita di società locali e di

stili di sviluppo peculiari ad ogni contesto coma avvio di un multiverso in grado di

attivare relazioni non gerarchiche, cooperative, fra città, regioni, nazioni, verso un

sistema di relazioni globali costruite dal basso e condivise»,194 al fine di contrastare le

reti gerarchicizzate dell’economia globalizzata.

Affinché questo possa realizzarsi è bene fare attenzione a non identificare lo

sviluppo locale con il localismo, poiché «lo sviluppo locale fondato sulla

valorizzazione del patrimonio non ha confini, né scale, né attori precostituiti»,195 esso

si configura piuttosto come «un punto di vista». Pertanto non ha nulla da spartire con

un atteggiamento di integrale chiusura e di difesa estrema verso l’esterno, tipico di

comportamenti localistici. Nuovamente questa attenzione può tornare utile alle realtà

dei Distretti.

191 Ivi, pp. 78 e ss.192 Il termine è stato utilizzato per la prima volta da Mander e Golsmith (1998) i quali intendono lo sviluppo locale come costruzione di forze di compensazione della globalizzazione economica e dei grandi poteri delle multinazionali, cit. in MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 79.193 Cfr. A. BONOMI, Il capitalismo molecolare, Milano, Feltrinelli, 1997, cit. in MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 79.194 A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 80.195 Ivi, p. 81.

88

Magnaghi illustra come l’approccio territorialista suggerisce di procedere al fine

di implementare l’autosviluppo locale fondato sul territorio. Innanzitutto bisogna

«interpretare l’identità di lunga durata», dei luoghi ossia «l’interazione fra i

successivi atti territorializzanti [la quale] determina in ogni luogo la massa

territoriale»196. A causa delle peculiarità di ogni interazione tra l’atto insediativo

umano e l’ambiente circostante, si determinerà di volta in volta una massa territoriale

specifica, differentemente sparsa su tutto il globo. Ogni luogo, pertanto, differirà in

termini di patrimonio territoriale. Di conseguenza è necessario «valorizzare l’identità

dei luoghi». In quanto soggetti viventi (poiché frutto dell’interazione tra l’umano e il

naturale), e soprattutto, in quanto dotati di «profondità storica», i territori godono

anch’essi di una capacità di autopercezione e possiedono, quindi, una propria

identità. Secondo Magnaghi, tale abilità dei luoghi di «ri- pensarsi»197costituisce

l’essenza fondativa dello sviluppo autosostenibile. Ma affinché le singole identità dei

territori si perpetrino nel tempo, non immutabili, ma in armoniosa trasformazione

con l’ambiente circostante, è necessaria la presenza della «società locale». Gli

abitanti, infatti sono i referenti primari dell’approccio territorialista, il quale ha come

fine ultimo quello di stimolare le capacità di autogoverno degli abitanti, anche in

qualità di produttori. Infatti, l’approccio territorialista autosostenibile, ponendo

l’accento sulla parola «auto», mira a riunificare l’abitante e il produttore.

Infine, è necessario riconoscere le diverse «sfaccettature della sostenibilità».198

In primo luogo Magnaghi parla di sostenibilità politica, definendola come «capacità

di autogoverno di una comunità insediata rispetto alle relazioni con sistemi

decisionali esogeni e sovraordinati»199. Il conflitto è riconosciuto come parte

integrante di qualsiasi società complessa, pertanto non lo si nega, ma si cerca di

trasformarlo in concertazione negoziata in vista dell’interesse comune. La

concertazione negoziata presuppone che ci sia la sostenibilità sociale intesa come

«un elevato livello di integrazione degli interessi degli attori deboli nel sistema

decisionale locale»200. In altre parole, è l’attuazione del concetto di empowerment

proposto da John Friedmann, ossia il dare voce agli esclusi perché diventino soggetti

196 Ivi, p. 63.197 Cfr. F. CASSANO, Il pensiero meridiano, Bari -Roma, Laterza, 1996, cit. in A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 65.198 A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., pp. 68 e ss.199 Ibidem.200 Ivi, p. 70.

89

attivi del loro sviluppo umano, sociale e quindi anche economico. Così Friedmann

definisce il concetto di empowerment :

l’approccio orientato all’empowerment, che è fondamentale per uno sviluppo alternativo, pone

enfasi sull’autonomia decisionale di comunità organizzate territorialmente, sull’autosviluppo (ma non

autarchia), sulla democrazia diretta (partecipativa), sull’apprendimento sociale per esperienza 201

Per fare ciò, continua Magnaghi, è bene

riconoscere le energie sociali, culturali, economiche che possono produrre nuova territorialità

[...]; in secondo luogo [...] nominarle proprio «Principe», alla cui corte elaborare i propri progetti

[....].202

La sostenibilità economica invece, intesa come «la capacità di [...] produrre

valore aggiunto territoriale»203, è strettamente connessa alla sostenibilità territoriale e

di conseguenza a quella ambientale. Dove la prima indica «la capacità [...] di

promuovere processi di territorializzazione»204 e la seconda «l’attivazione di regole

virtuose dell’insediamento umano, atte a produrre autosostenibilità».205

La sostenibilità è quindi, intesa da Magnaghi in senso complesso, in quanto

risultante dell’interazione di diverse sostenibilità. Tale concezione non diverge

dall’interpretazione data da Friedman allo «sviluppo alternativo». Infatti per

Friedmann, nel campo dello sviluppo alternativo, l’economica e la politica sono

fortemente correlate, e queste due, con la sfera sociale. Il tutto è giocato su un

territorio ben definito, che diviene anch’esso soggetto di sviluppo. Grande

importanza è assegnata inoltre, alla dimensione politica che non è intesa come

semplice facoltà di votare bensì nella sua accezione propria e più ampia, come la

capacità di influenzare ogni tipo di azione collettiva. Le decisioni di qualsiasi tipo,

infine, devono esser di natura collettiva e partecipata.

In conclusione, dall’approccio territorialista, incentrato sullo sviluppo locale

autosostenibile, cioè sulle interrelazioni tra l’ambiente, gli uomini e questi tra di loro,

è possibile fondare un’economia di relazione.

201 Cfr. J. FRIEDMANN, Empowerment... cit., p.vii.202A. MAGNAGHI, Il progetto locale... cit., p. 103.203 Ivi, p. 71.204 Ivi, p. 73.205 Ivi, p. 72.

90

IV.3. Una nuova teoria sistemico-economica

IV.3.a Homo bioeconomicus

Attraverso un’iniziale opera di sincretismo tra le molteplici forme di economie,

sparse nel tempo e nello spazio, basate sulla relazione e, successivamente, attraverso

l’analisi dell’approccio antropobiocentrico, abbiamo dedotto le caratteristiche

peculiari di un’economia di relazione. Queste caratteristiche, esposte fin qui in modo

generale, sono sistematizzate nella nuova teoria sistemica della bioeconomia

proposta da Mauro Bonaiuti.

Seguire il paradigma della complessità, suggerito dall’approccio sistemico,

significa fare interagire e analizzare le relazioni tra due sistemi aperti. Nel caso della

bioeconomia significa far interagire i sistemi biologici e quelli economico sociali.

Bonaiuti, però, va oltre l’approccio bioeconomico, proposto da Georgescu- Roegen,

per approdare a un modello sistemico. Lo scopo che egli si prefigge infatti è quello

di fornire un nuovo fondamento epistemologico «al progetto di un’economia

ecologicamente e socialmente sostenibile»206, poiché «mai come in questo momento

è apparso chiaro il legame tra sostenibilità ecologica e sostenibilità economico-

sociale».207

Il nuovo fondamento epistemologico pertanto poggia sulla necessità di leggere

in modo nuovo e di far interagire i diversi sistemi, quali quello biologico, quello

fisico, e quelli inerenti agli esseri umani (quello economico, sociale e politico),

nell’ottica della complessità. Infatti è possibile rinvenire caratteristiche comuni in

tutti i sistemi, o per lo meno ancorare alcuni principi dei sistemi umani a quelli

biologici, essendo l’essere umano prima di tutto un animale biologico. Bonaiuti

evidenzia diverse caratteristiche dei sistemi biologici, in contrasto con i principi

dell’economia neoclassica, dai quali parte per creare un’economia altra:

1. I sistemi biologici non tendono alla massimizzazione di alcuna

variabile, ma hanno piuttosto una pluralità di fini;

2. I sistemi biologici presentano una combinazione di comportamenti di

tipo competitivo (in contesti di espansione) e cooperativo (in contesti di

206 M. BOMAIUTI, Introduzione, in N. GEORGESCU- ROEGEN, Bioeconomia....cit.,p. 8.207 Ivi, p. 42.

91

equilibrio). Non si ritiene un comportamento sano a priori: esso deve essere

funzionale a, e allo stesso tempo dipendere dal contesto in cui è inserito.

Pertanto se quest’ultimo subisce dei cambiamenti, cambieranno anche le

strategie comportamentali di sviluppo;

3. In un contesto non espansivo, un certo grado di competizione tra

specie diverse favorisce lo sviluppo degli ecosistemi ( favorendo la pluralità),

al contrario, la competizione tra i membri di una stessa specie (competizione

intraspecifica) generalmente danneggia e dunque riduce le possibilità di

sopravvivenza della specie stessa;

4. Nei sistemi complessi la parte non può controllare il tutto;

5. I sistemi complessi sono dotati di un anello di feedback. Al contrario

la teoria economica neoclassica, basandosi sui principi della meccanica di

causa-effetto, non coglie questa dinamica circolare, bensì adotta una dinamica

lineare;

6. l’interazione tra gli elementi di un sistema complesso è in genere

attivata da una differenza, questo è quanto prende il nome di informazione.

Sulla base di suddetti principi biologici, Bonaiuti ha formulato

come ipotesi di lavoro, una lista di caratteristiche antropologiche che delineano i tratti fondamentali di

quello che potremmo definire homo bioeconomicus (hb)

1. l’hb ricerca la felicità intesa come pluralità di valori, tra loro (almeno parzialmente)

irriducibili;

2. la felicità /benessere dipende, tra l’altro, dalle relazioni tra i soggetti (reciprocità)

3. l’unità d’analisi non è l’individuo, quanto la relazione circolare tra due o più sistemi

[...]

4. l’hb è soggetto alle leggi della termodinamica e della biologia

5. le leggi economiche non sono universali bensì condizionate dal contesto storico,

culturale, istituzionale (localismo)

6. l’hb non mira alla massimizzazione di alcuna variabile semplice, quanto piuttosto a

una condizione di equilibrio fra più variabili

7. l’hb è caratterizzato dalle coesistenza di comportamenti di tipo competitivo

(espansivo) con comportamenti di tipo cooperativo ( di equilibrio)

8. l’hb è orientato dalla saggezza sistemica anziché dalla razionalità strumentale;

92

9. i bisogni dell’ hb sono generalmente saziabili. 208

Bonaiuti riconosce che sebbene quanto proposto parta da una natura descrittiva,

contiene anche tendenze normative ed etiche.

IV.3.b. Consumo e produzione: un approccio sistemico

Teoria bioeconomica del consumo209

La teoria bioeconomica del consumo si fonda sulla distinzione tra flussi e

fondi210, presi entrambi in considerazione nel processo di consumo, al contrario di

quanto avviene nella teoria neoclassica. La teoria neoclassica, considerando il

benessere del consumatore come funzione esclusiva dei flussi di beni che è in grado

di consumare, non assegna alcuna rilevanza al ruolo dei fondi o sistemi, che, in

realtà, fanno parte del processo di consumo.

In formula:

U = f(X1, X2, X3,...Xn)

I flussi presi in esame dalla teoria bioeconomica, proposta da Bonaiuti, sono i

flussi di risorse naturali, i flussi dei beni di consumo provenienti dal mercato e infine

in aggiunta ai flussi tradizionali, i flussi di beni relazionali.211 Vengono inoltre

considerati tre tipi di fondi. In primo luogo si considerano i consumatori, valutati

nella loro dimensione biofisica, senza i quali il processo di consumo non è nemmeno

ipotizzabile, poiché costituiscono l’agente attivo del processo. Ogni individuo, per

godere di qualsiasi bene e quindi per realizzarsi come consumatore, deve anzi tutto,

preservare il suo equilibrio biofisico. Tale equilibrio è assicurato dal triplice flusso di

beni sopra ricordato, che costituiscono il flusso in entrata nel processo dei consumo.

208 Ivi, p. 28.209 Ivi, pp. 29 e ss.210 I flussi sono quei beni e servizi caratterizzati da una dimensione temporale oltre che da un riferimento temporale. I fondi, invece, presentando una dimensione statica, sono caratterizzati solamente da un riferimento temporale. Secondo Georgescu-Roegen ciò che caratterizza un fondo è l’ipotesi secondo cui esso rimane al termine del processo di consumo invariato rispetto a inizio processo. Bonaiuti, considerando i fondi sistemi autopoietici che godono di una certa flessibilità strutturale, ammette che i fondi possano subire qualche modifica, sia di natura quantitativa che qualitativa. 211Bonaiuti propone come esempi di questi «beni» che si possono godere solamente nella relazione tra chi offre e chi domanda, i servizi alla persona, ma anche offerta di beni culturali e religiosi.

93

Il flusso in uscita è rappresentato dal benessere raggiunto dal soggetto dopo l’atto del

consumo. Inevitabilmente, dopo ogni processo di consumo, come di produzione, si

genera un altro tipo di flusso in uscita, anche se talvolta non voluto o non previsto,

costituito dai rifiuti, sia in senso materiale, sia in senso di degrado irreversibile di

natura entropica.

Il secondo fondo è rappresentato dalla ricchezza capitale posseduta dai soggetti

in qualità di consumatori, sotto forma di beni durevoli, (quali casa, giardino,

biblioteca, computer ecc...). Bonaiuti spiega come questo tipo di beni partecipa al

processo di consumo, seppure in forma passiva, in quanto viene consumato

indirettamente, attraverso l’utilizzo, dalle famiglie o chi per esse. Costituiscono

dunque, per quest’ultime, fonte di benessere, indipendentemente dai flussi che le

famiglie, in quel preciso momento, sono in grado di acquistarsi sul mercato. Bonaiuti

ricorda infatti che il godimento della vita è innanzitutto una funzione della ricchezza

e, quindi, di fondo, prima ancora che una funzione del reddito, cioè di flusso.

Ampliando il concetto di capitale a disposizione delle famiglie, aggiungiamo anche

quel tipo di capitale particolare, definito in sociologia come capitale relazionale, o

come capitale sociale. Ossia, quell’insieme di relazioni personali, su cui può contare

il singolo individuo, che lo lega a una comunità di appartenenza più o meno stretta e

più o meno vincolante. Abbiamo precedentemente dimostrato, come il capitale

sociale o relazionale sia qualificabile a tutti gli effetti come ricchezza dal momento

che permette, soprattutto in contesti economicamente poveri, non solo la

sopravvivenza ma anche successi di tipo economico.

Infine, il terzo fondo è costituito dal capitale naturale, ossia da tutti gli elementi

facenti parte la biosfera. In altre parole, è l’ambiente in cui viviamo, il quale

garantisce la vita e la sopravvivenza a tutte le forme di vita sul nostro pianeta,

attraverso una serie di funzioni di ecosistemi, o di servizi ecologici esenziali212. Le

principali funzioni di ecosistemi sono: funzioni regolative (es. assimilazioni di scarti

e rifiuti); funzioni di produzione (le quali permettono l’effettuarsi dei processi

produttivi, di introdurre immissioni di scarico nell’aria o come l’utilizzo dell’acqua

per i processi di raffreddamento ecc...); funzioni di sostentamento (abitazione,

agricoltura, amenità ecc...) e, infine, funzioni di informazione (scientifica, culturale,

estetica ecc...). Il capitale naturale così inteso, si connatura come il bene comune per 212 Cfr. R. PERMAN, Y. MA, J. McGILVRAY, M. COMMON, Natural resources & enviromental economics, Baskerville (GB), Hnry Ling Limited, 1999 [ed. orig. 1996], p.19-21.

94

eccellenza, dunque, come un bene pubblico, pertanto godibile da tutti senza

esclusione e senza pagamento per l’uso. Ma come giustamente ci ricorda la teoria

bioeconomica, la natura non dà nulla gratis, tutto comporta un certo tipo di costo. Per

tenere in conto dei sevizi che l’ambiente ci offre e, soprattutto, tenendo in conto della

sua natura di bene pubblico, è bene applicare delle politiche economiche ambientali

capaci di internalizzare i «costi» di utilizzo dell’ambiente, onde evitare, in un futuro

non lontano, la «tragedia dei beni comuni»213.

Considerando i fondi come sistemi deperibili nel tempo conseguentemente

all’utilizzo, la teoria bioeconomica ne analizza le condizioni di «mantenimento».

Tenere in conto il ruolo dei fondi nel processo di consumo, e il conseguente costo di

mantenimento, consente di spiegare efficacemente come mai, sempre più di

frequente, soprattutto nei paesi più ricchi, si risconta un generale calo di benessere

quando in realtà aumenta il consumo di beni e servizi flusso. D’altra parte, consente

di spiegare le condizioni di povertà in cui versano la maggior parte dei paesi del Sud

in termini di carenza di beni durevoli, cioè di fondi. Pertanto l’analisi bioeconomica

indica di ovviare a tale carenza, non tanto aumentando i beni flusso, quanto quelli

fondo.

Teoria bioeconomica della produzione214

La teoria neoclassica ignora la distinzione in flussi e fondi anche dal lato della

produzione considerando la produzione in funzione di determinati fattori produttivi,

quali li lavoro, il capitale e le risorse naturali.

In formula:

Q = f(L, K, R)

La teoria neoclassica sostiene che è possibile raggiungere il medesimo livello di

output produttivo, variando a piacimento la composizione dei fattori, considerando

quest’ultimi perfettamente sostituibili tra di loro. Tale concetto è alla base dell’idea

di sostenibilità debole, secondo cui, le risorse naturali non sono indispensabili nel

processo produttivo se sono sostituibili dal capitale tecnologico. L’importante è la

213 T. S. SWANSON, The economics of enviromental degradation: tragedy for the Commons?, Great Britain, Edward Elgar Publishing Limited, UNDP 1996.214 M. BOMAIUTI, Introduzione, in N. GEORGESCU- ROEGEN, Bioeconomia....cit., pp. 35 e ss.

95

totalità del capitale: lo stock di capitale complessivo (sia artificiale che naturale) non

deve decresce nel tempo.

Secondo il modello dei flussi e dei fondi le categorie di K, L, costituiscono i

fondi. Mentre le risorse naturali, e i prodotti intermedi utilizzati dal processo di

produzione, costituiscono i due flussi in entrata. Distinguere la natura dei vari fattori

produttivi, in flussi e fondi, permette di capire come i fattori di flusso e i fattori di

fondi non siano tra loro sostituibili, poiché ciò che lega fondi e flussi è

«fondamentalmente una relazione di complementarietà e non di sostituibilità» 215

La sostituibilità invocata e sostenuta dagli economisti neoclassici, trova

fondamento nella fede smisurata che essi ripongono nel progresso tecnologico, grazie

al quale sarà addirittura possibile far del tutto a meno delle risorse naturali216. Ma

Bonaiuti ricorda come in realtà le nuove tecnologie necessitano, in quanto capitale e

quindi fondo, di un flusso ingente di risorse al fine di mantenersi sempre in

condizione di efficienza. La teoria bioeconomica dimostra pertanto come le risorse

naturali siano comunque necessarie in qualsiasi processo economico.

E’ immediato vedere come la sfera del consumo e quella della produzione siano

intimamente correlate. Non solo per il fatto che i flussi in entrata nel processo di

consumo coincidono con i flussi in uscita del processo di produzione. Ma anche

perché la sfera del consumo e quella della produzione condividono il medesimo

stock di fondi: «gli esseri umani (considerati ora come lavoratori, ora come

consumatori) e il capitale ( economico, relazionale, naturale)».217

IV.3.c. Decrescita conviviale

Questa stretta integrazione, sia dell’attività di consumo con l’attività di

produzione, sia tra le risorse flusso e i beni fondo, non permette più di considerare

lineare e automatica la relazione:

maggiore produzione → maggiore consumo ⇒ maggiore benessere.

La soluzione di «ordine pratico» che Bonaiuti propone, rinvia alla necessità di

rivedere seriamente il paradigma di crescita dell’economia classica, per sostituirlo

215 Cfr. H. E. DALY, 1999, p. 20 cit. in M. BOMAIUTI, Introduzione, in N. GEORGESCU-ROEGEN, Bioeconomia....cit. p. 37.216 Cfr.R. M. SOLOW, 1974, cit. in M. BOMAIUTI, Introduzione, in N. GEORGESCU- ROEGEN, Bioeconomia....cit., p. 35.217 M. BOMAIUTI, Introduzione, in N. GEORGESCU- ROEGEN, Bioeconomia....cit., p. 43.

96

con ciò che lui e altri studiosi218 indicano come «decrescita». Il termine, più che un

concetto vuole essere uno slogan. La decrescita non è sinonimo di crescita zero o di

crescita negativa, bensì, indica un altro modo di vita, in cui si punta alla convivialità,

termine mutuato dallo studioso Ivan Illich219. La «decrescita conviviale» tende a una

riduzione della produzione in termini fisici, rispettando i limiti imposti dalla seconda

legge della termodinamica. Una società conviviale è una società che ha il senso del

limite perché, come ogni ecosistema, presenta delle soglie di cui è consapevole e

pertanto convive in armonia con esse. Ma questo, insiste Bonaiuti, necessita una

rivoluzione estetica e antropologica ancor prima di una sociale ed economica.

Una riduzione della produzione fisica e, conseguentemente, del consumo, non

significa, però, una riduzione di felicità. Infatti come dice Bonaiuti,

occorre favorire lo spostamento della domanda dalla produzione di beni tradizionali ad alto

impatto ambientale, a quei beni per i quali l’economia solidale o civile possiede uno specifico

vantaggio comparto, cioè i beni relazionali.220

218 Studiosi inerenti al M.A.U.S.S. (Movimento Anti Utilitarista delle Scienza Sociali)219 Cfr. I. ILLICH, Convivialità, New York, 1973.220 M. BOMAIUTI, Introduzione, in N. GEORGESCU- ROEGEN, Bioeconomia....cit., pp. 40-41.

97

BIBLIOGRAFIA

AMSELLE J.L., Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, Torino, Bollati Boringhieri, 1999.

BAGNASCO A., PISELLI F., PIZZORNO A., TRIGIGLIA C., Capitale sociale. Istruzioni per l’uso, Bologna, il Mulino, 2001.

BUCHANAN M., Nexus. La rivoluzionaria teoria delle reti. Perché la natura, la società, l’economia, la comunicazione, funzionano allo stesso modo, Milano, Mondadori, 2003.

CELLA G. P., Le tre forme dello scambio. Reciprocità, politica, mercato a partire da Karl Polanyi, Bologna, il Mulino, 1997.

CIOFFI F., GALLO F., LUPPI G., VIGORELLI A., ZANETTE E., Il testo filosofico. Storia della filosofia: autori, opere, problemi, 3/1 l’età contemporanea: l’ottocento, Milano, Bruno Mondadori1, 998.

DEMATTEIS G., Possibilità e limiti dello sviluppo locale, in G. BECCANTINI, F. SFORZI., Lezioni sullo sviluppo locale, Torino, Rosenberg & Sellier, 2002. Testo della lezione inaugurale svolta ad Artimino 16-21 settembre, 1991.

FRIEDMANN J., Empowerment. The politics of Alternative Development, Cambidge, Massachussets, Blackwell Publishers, 1992.

GEORGESCU-ROEGEN N., Bioeconomia. Verso un’altra economia ecologicamente e socialmente sostenibile, (a cura di M. BONAIUTI),Torino, Bollati Boringhieri, 2003.

HYDEN G., No short cuts to progress: African development management in perspective, Heinemann, 1983.

LATOUCHE S., L’altra Africa. Tra dono e mercato, Torino, Bollati Boringhieri, 1997.

LATOUCHE S., La sfida di Minerva. Razionalità occidentale e ragione mediterranea, Torino, Bollati Boringhieri,2000, [ ed, orig. 1999].

LATOUCHE S., Altri mondi, altre menti, altrimenti. Oikonomia vernacolare e società conviviale, Calabria, Rubettino Editore, 2004.

MAGNAGHI A., Il progetto locale, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.

MANCE E.A., La rivoluzione delle reti. L’economia solidale per un’altra globalizzazione, Bologna, EMI, 2003.

98

MAUSS M., saggio sul dono, Torino, Einaudi, 2002.

PERMAN R., MA Y., McGILVRAY J., COMMON M., Natural resources & enviromental economics, Baskerville (GB), Hnry Ling Limited, 1999 [ed. orig. 1996].

POLANY K., La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Torino, Einaudi, 1974 [ed. orig. 1944].

SAROLDI A., Costruire economie solidali, Bologna, EMI, 2003.

SEN A. K., Etica ed economia, Roma- Bari, Laterza, 1987.

SWANSON T. S., The economics of enviromental degradation: tragedy for the Commons?, Great Britain, Edward Elgar Publishing Limited, UNDP 1996.

TELFENER, L. CASADIO (a cura di), Sistemica. Voci e percorsi della complessità,Torino, Bollati Boringhieri, 2003.

TRIGIGLIA C., Sociologia economica. Vol. I, Bologna, il Mulino, 1998.

TRIGIGLIA C., Sociologia economica. Vol. II, Bologna, il Mulino, 1998

.

99