"Una situazione sado-masochistica ad incastro". Il dibattito scientifico sull'immigrazione...
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Quaderni storici, Anno 40, Nº 118, 2005 , pp. 97-120
“Una situazione sado-masochistica ad incastro”: Il
dibattito scientifico sull’immigrazione meridionale dal
miracolo economico all’Autunno caldo
Verso la fine degli anni cinquanta l’Italia viveva la
trasformazione epocale attraverso la quale è entrata a far
parte del novero delle economie avanzate. La rapida crescita
industriale del paese, tale da guadagnarsi l’appellativo di
«miracolo economico», fu guidata dalle grandi imprese del
triangolo industriale, le quali nel decennio appena trascorso
avevano modificato i propri assetti organizzativi e ottenuto
un generale aumento della produttività. Il miracolo italiano
si situava entro un paradigma di sviluppo che a livello
internazionale raggiungeva il suo culmine proprio negli anni
sessanta. Le economie europee erano state infatti ricostruite
dopo la seconda guerra mondiale sulla scorta di principi
fordisti-keynesiani ispirati dai policy-makers americani, anche
se il fordismo, nel suo aspetto produttivo, quale sistema di
produzione di massa organizzata attraverso un misto di scientific
management e alta tecnologia meccanica, era nato negli anni
venti negli Stati Uniti. Dopo la guerra il fordismo come
organizzazione in fabbrica si espandeva in alcuni paesi
europei, inglobato a livello macro-economico nel modello di
regolazione keynesiano che forniva strumenti di welfare,
Sono debitore a Giovanna Fiume, Patrizia Guarnieri, Salvatore Lupoe agli anonimi referees di «Quaderni Storici» per i preziosi commentie le critiche costruttive, rimango, naturalmente, responsabile delmodo in cui le ho messe a frutto.
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incentivi economici e programmi di infrastrutture per
sostenere la domanda del mercato interno. 1
In Italia però questo sviluppo riguardava alcune aree ben
specifiche della penisola, in primis il nord-ovest, mentre
cresceva il divario tra l’Italia settentrionale e centrale e
quella meridionale. Nel 1951 l’inchiesta della Commissione
parlamentare sulla miseria in Italia aveva registrato nel
meridione un numero doppio di famiglie sotto la soglia di
povertà. Allo stesso tempo il tasso di fecondità delle
famiglie meridionali, e quindi la crescita della popolazione
locale, rimaneva di molto superiore al resto del paese.2 Tra
il 1955 e il 1970 questo gap economico e sociale si tradusse
in un flusso migratorio verso i poli industriali del nord che
coinvolgeva oltre tre milioni di meridionali.3 Torino, dove
confluirono 720.500 immigrati nello stesso lasso di tempo, si
1 Per il contesto italiano vedi G. CRAINZ, Storia del miracolo economico:culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Roma 1996; N. CREPAX,Storia dell’industria in Italia. Uomini, imprese e prodotti, Bologna 2002, pp.127-275.Sul fordismo-keynesianismo come modello di sviluppo del capitalismovedi S. IKEOA, World Production in I. WALLERSTEIN e T. HOPKINS (a cura di) TheAge of Transition: Trajectory of the World System, 1945-2025, London 1996, pp. 38-86; S. MARGLIN e J. SCHOR (a cura di), The Golden Age of Capitalism. Reinterpretingthe Postwar Experience Oxford 1991. Sulla traiettoia del fordismo vedi B.CORIAT, L’atelier et le robot: essai sur le fordisme et la production de masse a l’âge del’eletronique, Paris 1990; M. AGLIETTA, A Theory of Capitalist Regulation: the USexperience, London 1979; F. L. BLOCK, The Origins of International Economic Disorder:A Study of the United States International Policy Since World War II to the Present,Berkeley 1977; A. MADDISON, Phases of Capitalism Development, Oxford 1982.2 Inchiesta sulla miseria in Italia (1951-52). Materiali della commissione parlamentare, P.BRAGHIN (a cura di), Torino 1978, p. XV; G. DEMATTEIS, Le trasformazioniterritoriali e ambientali in Storia dell’Italia repubblicana, II, La trasformazione dell’Italia:sviluppo e squilibri, I, Politica, economia, società, Torino 1995; L. DEL PANTA, Lapopolazione italiana dal Medioevo a oggi, Bari 1996.3 U. ASCOLI, Movimenti migratori in Italia, Bologna 1979, pp. 117-127; E.REYNERI, La catena migratoria, Bologna 1980; A. GRAZIANI, L'economia italiana dal1945 ad oggi, Bologna 1979; E. PUGLIESE, Gli squilibri del mercato del lavoro inStoria dell'Italia Repubblicana. La trasformazione dell'Italia. Sviluppo e squilibri, Vol.II, Torino 1995, pp. 421-465, dello stesso autore L’Italia tra migrazioniinternazionali e migrazioni interne, Bologna 2002.
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aggiudicò la palma di terza città meridionale, dopo Napoli e
Palermo.4
Prima del miracolo economico l’urbanizzazione era
avvenuta gradualmente. Le grandi città assorbivano la
popolazione delle campagne circostanti senza conflitti
particolarmente acuti. Negli anni cinquanta e sessanta
l’afflusso massiccio di immigrati dal meridione ebbe invece un
impatto più complesso. Da un lato i meridionali costituivano
la manodopera della crescente espansione edilizia – nel 1962 a
Milano l’85% degli occupati in questo settore era costituito
da non residenti5 – e, negli anni sessanta, anche delle grandi
imprese metalmeccaniche e chimiche, organizzate secondo i
principi della produzione di massa. Quest’ultimo tipo di
occupazione avrebbe dovuto rappresentare l’apogeo del percorso
di integrazione del meridionale – viaggio che iniziava spesso
con un lavoro precario, senza previdenza sociale, e che
continuava nella piccola fabbrica, in una boita dell’indotto,
senza garanzie di continuità d’impiego. In questo i
meridionali che lavoravano al nord erano simili a tutti gli
altri emigrati che, durante il fordismo, furono sradicati
dalle zone socialmente «arretrate» ed economicamente depresse
del sistema-mondo, e attratti dalle regioni in cui erano
concentrati i settori più produttivi del capitalismo: i lavori
più sporchi, le mansioni più nocive, i salari più bassi, le
condizioni contrattuali più sfavorevoli, erano la posta da
pagare sul luogo di lavoro per chi intendeva inserirsi nella
società industrializzata.
4 M. MERIGGI, Breve storia dell’Italia settentrionale, Roma, 1996, p.127;statistiche sull’immigrazione a Torino sono riportate in F. LEVI,L’immigrazione in Storia di Torino, IX - Gli anni della Repubblica, Torino 1999,p.163.5 M. PACI, Mercato del lavoro e classi sociali in Italia, Bologna 1973, p. 27.
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Dall’altro lato, la cronaca giornaliera delle metropoli
del triangolo industriale mostrava che l’impatto
dell’immigrazione non si esauriva nel suo contributo
nell’ambito della produzione. Essa creava inediti problemi
relativi alla trasformazione dei quartieri residenziali,
all’insufficienza dei servizi e all’inserimento sociale degli
immigrati. «Trovare un luogo in cui abitare [era] fra i più
angosciosi e forse il più immediato problema di fronte al
quale [era] posto l’immigrato al suo arrivo».6 Un ripiego
momentaneo poteva essere costituito dal posto letto in una
pensione sovraffollata, luogo che poteva diventare occasione
di una prima socializzazione7, ma che serviva solo per dormire
e di solito veniva concesso a un prezzo molto esoso. Sul
mercato delle case invece gli immigrati erano stretti, per
esempio nel caso di Torino, fra la difficoltà di prendere in
affitto gli appartamenti ben curati delle zone residenziali
della piccola borghesia (difficoltà esemplificata dai famosi
cartelli con la scritta «Non si affitta ai meridionali») e
dall’altro dalla necessità di doversi accontentare degli
alloggi decrepiti e affollati del vecchio centro (dove i
padroni di casa erano ben lieti di affittare ai meridionali) o
sperare nei conglomerati recentemente nati nelle periferie o
fuori dai confini della città. A Milano queste zone presero il
nome di «coree». In esse la degradazione e l’affollamento
erano tali da rendere gli osservatori pessimisti su effettive
possibilità di miglioramento: nella «corea» gli immigrati
erano vincolati «a forme di vita sia materiali che morali,
rigide, dalle quali diventa impossibile per essi uscire e
6 M. TALAMO, L’inserimento socio-urbanistico degli immigrati meridionali a Torino inCRIS, Immigrazione e industria, Milano 1962, p.184.7 Lo spiega molto bene L. BALBO, Un aspetto dell’integrazione sociale degli immigratiin una grande città, «Quaderni di sociologia», XI (1962), pp.298-319.
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liberarsi».8 A Torino negli anni sessanta e settanta la
reputazione dei quartieri di Falchera e delle Vallette era
indicativa dello stigma di emarginazione che caratterizzava
gli immigrati. Questi quartieri di edilizia pubblica, abitati
per circa l’ottanta percento da meridionali, erano stati
progettati come unità autosufficienti, ma in realtà mancavano
di infrastrutture e soprattutto di collegamenti con il tessuto
urbano, con il risultato di diventare, de facto, un’area di
segregazione per fasce di popolazione socialmente
indesiderate.9 La questione degli alloggi per gli immigrati
meridionali si legava del resto al problema più ampio
dell’espansione non pianificata, tra laissez-faire e
speculazione, che caratterizzò le grandi città italiane
all’epoca del boom.10
Alla fine degli anni cinquanta c’era un consenso
pressoché unanime sul fatto che l’immigrazione meridionale,
certe volte inquadrata nel generale movimento demografico
dalla campagna alla città, sarebbe stata portatrice di
cambiamenti radicali nell’assetto urbano, sociale ed economico
del paese. L’incontro tra immigrati e residenti comportò siaepisodi di contrapposizione sia di accomodamento, ma le
tensioni che si svilupparono attorno alla trasformazione dei
quartieri e al mercato del lavoro contribuirono a irrigidire
8 L. DIENA, Borgata Milanese, Milano 1963, p.146. Vedi anche F. ALASIA e D.MONTALDI, Milano, Corea, Milano 1960; J. FOOT, Milan Since the Miracle. City, Cultureand Identity, Oxford 2001. 9 Per le statistiche vedi CRIS, Immigrazione e industria cit.; S. MUSSO, Illungo miracolo economico. Industria, economia e società (1950-1970) in Storia di Torinocit., p 59-61. Sui percorsi degli immigrati a Torino vedi Immigrazione etraiettorie sociali in città: Salvatore e gli altri negli anni sessanta in L’Italia delle migrazioniinterne, A. ARRU e F. RAMELLA (a cura di), Roma 2003, pp.339-385 e ingenerale i due volumi della Storia dell’emigrazione italiana, P. BEVILACQUA, A.DE CLEMENTI, E. FRANZINA, Roma 2001.10 A. DE MAGISTRIS, L’urbanistica della grande trasformazione (1945-1980) in Storia diTorino cit., pp. 209-226.
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gli stereotipi con cui si rappresentavano i meridionali.
L’intensa immigrazione nelle città del nord arrivava a
configurarsi come una minaccia all’identità delle comunità
riceventi. In molti casi, la stampa locale, presentando gli
uomini del sud come individui culturalmente arretrati e
soggetti a passioni irrefrenabili,11 alimentava un pregiudizio
etnico latente nutrito, nella prima metà del secolo, della
divulgazione dell’antropologia e della criminologia di Cesare
Lombroso e Alfredo Niceforo, i quali caratterizzavano i
meridionali come appartenenti ad uno stadio inferiore
dell’evoluzione sociale.12
In questo periodo, quando la questione dell’integrazione
degli immigrati diventò la preoccupazione di amministratori
locali, funzionari del partito e del sindacato, della Chiesa
cattolica e in generale dell’opinione pubblica, i meridionali
diventarono oggetto privilegiato di ricerca per le scienze
sociali. Ciò accadde in un momento in cui in Italia la
sociologia, la psicologia e la psichiatria stavano recependo
dalla letteratura statunitense l’interesse per il problema
dell’integrazione degli immigrati che aveva caratterizzato
oltreoceano queste discipline.
L’influenza americana
I grandi movimenti migratori transoceanici della fine
dell’Ottocento avevano per la prima volta posto la questione
di una psicopatologia tipica del migrante. Inventando la
11 Del ritratto negativo degli immigrati fornito dalla stampa locale aveva già parlato F. COMPAGNA, Migrazioni interne e sociologia populista, «Quaderni di sociologia rurale», 1, 1961, pp.5-17. 12 V. TETI, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, Roma 1993; J.DICKIE, Darkest Italy. The Nation and the Stereotypes of the Mezzogiorno, London 1999.
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categoria nosologica di «aliéné voyageur er migrateur»,
Achille Foville descriveva individui affetti dalla «monomania
dei viaggi» o «lipemania».13 Come direttore del manicomio di Le
Havre, un porto translatlantico, Foville aveva avuto modo di
osservare dieci casi di uomini che avevano avuto intenzione di
emigrare o per sfuggire alla persecuzione di nemici immaginari
o per mania di grandezza, nella speranza di portare a termine
grandi e ambiziosi progetti. Il loro desiderio di mobilità
geografica era sintomo di uno stato patologico, anche se lo
psichiatra osservava che il delirio del quale erano vittima
questi malati era talmente lucido che la loro scelta sembrava
ragionata, derivata da una riflessione. Tuttavia
l’associazione tra migrazione e malattia mentale diventò un
caposaldo della disciplina e servì nei decenni successivi a
stigmatizzare gli emigranti come individui instabili, con una
personalità premorbosa già nel luogo di origine. Nella clima
antisemita dell’ affaire Dreyfus quest’etichetta venne utilizzata
da Philippe Tissié e Henry Meige, quest’ultimo psichiatra alla
Salpêtrière di Parigi, per caratterizzare gli ebrei dell’est
europeo che arrivavano in Francia sfuggendo a delle (reali)
persecuzioni e dare quindi legittimità scientifica al mito
dell’«ebreo errante».14 Intanto in Italia, il Professor Lener
del Manicomio Interprovinciale di Nocera Inferiore scriveva
che «il fenomeno dell’immigrazione, sia questa permanente che
13 A. FOVILLE fils, Les aliénés voyageurs ou mirateurs. Etude clinique sur certains cas delypémanie, «Annales Médico-psychologiques», 14, (1875), pp. 5-45; perun breve saggio sull’argomento vedi S. MELLINA, L’emigrante alienato di fineOttocento tra necessità economica e realtà storica: a proposito della lipemania migratoriain F. M. FERRO (a cura di), Passioni delle mente e della storia, Milano 1989, pp.409-419.14 P. TISSIÉ, Les Aliénés Voyageurs: Essai medico-psychologique, Paris 1887; H. MEIGE,Le Juif-errant à la Salpêtrière. Etude sur certains névropaths voyageurs, «Nouvelle Iconographie de la Salpêtrière », 6, (1893), pp. 182- 206; J. GOLDSTEIN, The Wandering Jew and the Problem of Psychiatric Anti-Semitism in Fin-de-Siècle France, «Journal of Contemporary History», 20 (1985), pp. 521-552.
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periodica, quando investe intere regioni, rappresenta
l’indizio più sicuro d’inferiorità economica, causa prima
dell’inferiorità psico-sociale di un individuo come di un
popolo».15 La psichiatria degli inizi del secolo aveva quindielaborato un approccio all’immigrazione in cui lo stigma della
malattia e quello della povertà si sovrapponevano.
Ancora negli anni trenta il norvergese Oedegaard,
mediante un confronto fra i suoi connazionali emigrati negli
Stati Uniti e la popolazione in patria, spiegava la maggiore
incidenza di schizofrenia tra i trapiantati come «emigrazione
selettiva di soggetti predisposti».16 Questa interpretazione di
un dato statistico che sembrava ineluttabile, la maggiore
incidenza di internati immigrati rispetto al loro peso
relativo nel paese di accoglienza, rappresentava allora un
argomento progressista rispetto alla teoria di derivazione
eugenetica che gli immigrati di alcuni paesi rappresentassero
uno «stock» umano di qualità inferiore e quindi
indesiderabile. Tali teorie avevano avuto il loro peso
nell’approvazione delle leggi, tra il 1919 e il 1924, che
restringevano le quote di immigrazione negli Stati Uniti per
specifici gruppi etnici. Queste leggi discriminanti erano
state suffragate da una serie di studi psicometrici che,
misurando il quoziente d’intelligenza, pervenivano alla
conclusione di una inferiorità delle razze mediterranee e
slave rispetto a quelle «alpine» e nordiche.17
15 A. LENER, Le malattie mentali e le correnti migratorie dell’Italia Meridionale in «IlManicomio», Nocera Inferiore, fasc. 2 e 3 (1908) citato in G.INGRASSIA, Su alcune problematiche di igiene mentale in tema di psicopatologia ecriminologia negli eimigrat italiani con particolare riferimento a quelli siciliani, «IgieneMentale», XV (1971), p.1114.16 O. OEDEGAARD, Emigration and mental health, «Mental Hygiene», n. 20, (1936), pp. 546-553.17 G. L. BROWN, Intelligence as related to nationality, «Journal of educationalresearch», V, (1922), p. 324-327; K. YOUNG, Intelligence tests of certain
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Il passaggio da un’interpretazione delle patologie
sociali incentrata sulla razza o sull’etnia a
un’interpretazione «ecologica» imperniata sullo studio di
fattori ambientali la stavano preparando, nella prima metà del
XX secolo, i sociologi della Scuola di Chicago i quali
approfondirono il tema del disordine urbano e
dell’integrazione degli immigrati nella città. Il problema
dell’immigrazione stava infatti all’origine della sociologia
degli Stati Uniti, un paese che si era costituito attraverso
successive ondate migratorie e in cui era diventata cruciale
la questione dell’integrazione. Diversamente dalla psichiatria
e dalla psicologia, la sociologia si prefiggeva di «curare»
non la devianza individuale, ma quella collettiva, che si
esprimeva nel conflitto di classe come manifestazione
patologica del vivere sociale. La nuova interpretazione che
inquadrava l’origine della malattia dell’individuo nella sua
relazione con l’ambiente offriva più di un ponte di
collegamento fra queste discipline, come testimoniava la
nascita di sub-discipine come la psicologia sociale e
psichiatria sociale.18
Albion Small, William I. Thomas, Robert E. Park e Ernest
Burgess, per citare solo i più famosi, erano i fautori, in
quello che era uno dei primi dipartimenti di sociologia negli
Stati Uniti, di un imponente programma di ricerca concernente
la città e la sue trasformazioni.19 Chicago era all’epoca nelimmigrant groups, «Scientific monthly», 15, (1922), p. 417-434. Per unquadro complessivo vedi J. HIGHAM, Strangers in the Land: Patterns of AmericanNativism, 1860-1925, New Brunswick, NJ 1988.18 Per una storia di queste discipline rimando a H. W. DUNHAM, SocialPsychiatry, «American Sociological Review», 2 (1948), pp. 183-197 e J.S. HOUSE, The three faces of social psychology, «Sociometry», 2 (1977), pp. 161-177.19 Un compendio delle teorie della Scuola di Chicago può essereconsiderato R. E. PARK e E. W. BURGESS, Introduction to the Science of Sociology,Chicago 1921. Sull’importanza scientifica della Scuola di Chicago
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pieno di una smisurata espansione basata sull’industria
siderurgica, su quella delle carni in scatola e sul fatto di
essere il centro di smistamento dei commerci del Midwest
americano. Tra l’anno di nascita del dipartimento (1893) e la
Depressione, la città vide l’arrivo di varie ondate di
immigrati polacchi, italiani, ucraini, e greci.20 Il programma
scientifico del dipartimento, elaborato da Park in un famoso
articolo, auspicava l’esame della «organizzazione industriale»
e dell’ «ordine morale» della città e lo studio sia del
controllo sociale sia della disorganizzazione sociale. 21 Per
questo gruppo di studiosi l’inserimento di un individuo
estraneo entro un nuovo gruppo sociale passava attraverso una
fase di conflitto e una di accomodamento, per andare
irreversibilmente verso l’assimilazione. La preoccupazione
degli studiosi americani riguardava la relazione fra i valori
della società di accoglienza e la capacità individuale di
adattamento, piuttosto che l’interazione fra i vari gruppi di
cui era composta la società. Questo approccio caratterizzò
tutta la letteratura statunitense sugli immigrati nel
ventennio fra le due guerre. Una pietra miliare fu costituita
dallo studio di William I. Thomas e Florian Znaniecki sugli
immigrati polacchi, nel quale, di nuovo, l’oggetto d’indagine
era il processo individuale di adattamento. Al centro
dell’analisi del Polish Peasant in Europe and America, un libro
destinato a fare scuola per l’uso innovativo di documenti
personali e per i suoi aspetti metodologici, non vi era la
comunità di immigrati, ma l’individuo, il contadino polacco,
vedi D. MARTINDALE, American sociology before World War II, «Annual Review ofSociology», 2 (1976), pp. 121-143.20 Vedi M. D’ERAMO, Il maiale e il grattacielo. Chicago: una storia del nostro futuro, Milano 2002.21 R. E. PARK, The city: suggestions for the investigation of human behavior in the urban environment, «American Journal of Sociology», 20 (1915), pp. 577-612.
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che in essa non era più controllato o sostenuto
psicologicamente ed era perciò portatore di disorganizzazione
e di anomia.22
Soltanto nel dopoguerra, soprattutto con i lavori di
Malzberg e Lee, si consolidava il nuovo paradigma
interpretativo della correlazione fra immigrazione e malattia
mentale.23 I due studiosi sostenevano, sulla scorta di
confronti fra campioni di individui di diverse ondate
migratorie negli Stati Uniti, che la predisposizione degli
immigrati ad ammalarsi esisteva, ma era più bassa di quanto
potesse apparire. La condizione che invece appariva
discriminante era quella economica, in quanto i soggetti
destinatari di sussidi di disoccupazione, fossero essi nativi
o immigrati, bianchi o neri, presentavano un tasso di
morbilità mentale più che doppio rispetto agli individui
economicamente autosufficienti. L’ipotesi che si affermava era
quindi che la malattia mentale fosse causata dalla reazione
dell’individuo al nuovo ambiente, incluso il suo grado di
adattamento al sistema economico. Alle stesse conclusioni
arrivavano altri studi relativi ai casi di Francia, Germania e
Israele, paesi anch’essi interessati da un grande flusso
immigratorio negli anni cinquanta.24
Scienze sociali e medicina trovavano un punto d’incontro
nella psicologia sociale, disciplina che diventò importante
negli studi sull’immigrazione proprio quando si cominciarono a
definire i problemi dell’integrazione come inerenti il22 W.I. THOMAS e F. ZNANIECKI, The Polish Paesant in Europe and America, Boston1919.23 Vedi B. MALZBERG, E.S. LEE, Migration and Mental Disease, New York 1956.24 R. CLEMENS, G. VOSSE-SMAL, L. MINON, L’assimilation culturelle des immigrants en Belgique, Liege 1953; A. GIRARD e J. STOETZEL, Français et Immigrés, Paris 1953; S. N. EISENSTADT, The absorption of immigrants, London 1954; Y. CHAMPION,Migration et maladie mentale, Parigi 1958; W. D BORRIE, The cultural integration of Immigrants, Parigi 1959.
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raggiungimento di un equilibrio all’interno dell’individuo e
la sua personale identificazione con la comunità ricevente.
D’altronde si trattava di una disciplina dai confini piuttosto
mobili alla quale, ponendo l’accento sull’una o l’altra delle
sue componenti, contribuirono sia psicologi sia sociologi.25
Questi testi nel dopoguerra venivano recepiti in Italia
attraverso le riviste specializzate e tramite compendi di
sintesi; 26 tardive invece erano le traduzioni proposte dagli
editori solo alla fine degli anni sessanta, contemporaneamente
all’istituzione dei primi corsi di laurea in sociologia. Per
esempio, quando nel 1968 viene pubblicata, da Edizioni di
Comunità, la traduzione dello studio di Thomas e Znaniecki,
Luciano Gallino nell’introduzione la descrive già come
«un’opera che [...] ha contribuito a stabilire le direzioni in
cui si svolge [la nostra ricerca e] le categorie che gli danno
senso».27 Con strumenti intellettuali di tale provenienza e
consistenza si analizzeranno in Italian i problemi
psicopatologi determinati dalle migrazioni interne e dal
massiccio inurbamento. Essi prendevano come punto di partenza
l’individuo, descrivendo la sua esperienza in termini di
adattamento, aggiustamento e assimilazione. Nessuno
considerava che la letteratura americana (e anche quella nord-
europea) nascondeva un’insidia per i ricercatori nostrani:
essa si riferiveva all’immigrazione di gruppi etnici diversi
da quello nativo. Interpretando le migrazioni interne con
questi modelli, senza porre la questione esplicitamente, si25 Vedi HOUSE, cit.26 Come quello di L. ANCONA, La psicologia sociale negli Stati Uniti d’America, Milano 1956.27 W. I. THOMAS, F. ZNANIECKI, Il contadino polacco in Europa e in America, Vol. I eII, Milano 1968. Degli altri esponenti della Scuola di Chicagotroverà pubblicazione in quel periodo, sempre per le Edizioni diComunità , solo R. E. PARK, E. W. BURGESS, R. D. MCKENZIE, La città, Milano1967.
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proponeva un’immagine dell’immigrato meridionale come
appartenente a un’etnia diversa da quella settentrionale,
trascurando altri cleavages, come ad esempio quello di classe,
con il quale pure si sarebbe potuta costruire la differenza.
Il problema dell’integrazione
Una parte delle ricerche prodotte sulla questione
dell’immigrazione aveva un carattere meramente descrittivo.
Per esempio, le indagini sul pregiudizio etnico classificavano
scientificamente atteggiamenti largamente noti. Alla fine
degli anni cinquanta, nell’ambito di dissertazioni più
teoriche sul pregiudizio sociale, furono lo psicologo Renzo
Canestrari e il suo allievo Marco Batacchi a occuparsi più
specificamente del pregiudizio antimeridionale che, come si
evinceva dalla pubblicistica, sembrava diffuso nei
settentrionali di ogni classe e orientamento politico.28
Batacchi aveva accertato che la percezione della diversità del
meridionale si ancorava a certe differenze somatiche e
biologiche come il colore della pelle, le fattezze del viso,
la statura, ma che il pregiudizio che colpiva i meridionali
non era di natura razziale, bensì culturale. Non c’era dubbio
– questo era una dato acquisito anche dalle opere di
divulgazione29 – che fosse l’ambiente sociale e non la natura
ad avere condizionato in tal modo i meridionali. D’altro canto
le argomentazioni lombrosiane di una presunta inferiorità28 R. CANESTRARI, La psicologia del pregiudizio sociale, «Rassegna di psicologiagenerale e clinica» n.1, IV, (1959), p.10; M. BATACCHI, Meridionali eSettentrionali nella struttura del pregiudizio etnico in Italia, Bologna 1959, 1972.29 Vedi per esempio C. DI NAPOLI, I meridionali al Nord, Roma 1967 a p.101 «Ilmeridionale, si sa, ha ereditato dall’ambiente in cui è nato unattaccamento verso la famiglia che è altrove ritenuto eccessivo. […]Notorio è il rigore moralistico con cui il meridionale e l’isolanovigila assiduamente sulla fedeltà della consorte».
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della «razza» meridionale non potevano essere riproposte nel
dopoguerra, quando l’esperienza delle leggi razziali e
dell’Olocausto aveva reso spinoso ogni discorso razzista.
Nei questionari raccolti da Batacchi, meridionali e
settentrionali si etichettavano reciprocamente come: gelosi,
focosi, impulsivi, diffidenti (i primi) ovvero pratici,
attivi, tenaci, volitivi, previdenti (i secondi). Sebbene i
pregiudizi fossero reciproci, erano i meridionali a soffrire e
interiorizzare lo stigma sociale. La ricerca metteva in luce
che il fastidio di avere dei rapporti sociali con un
meridionale era superato soltanto dal fastidio di poter essere
scambiato per un meridionale. Questa osservazione sarebbe stata
confermata qualche anno più tardi da uno studio dell’IRES
(Istituto Ricerche Economico-Sociali) che segnalava un basso
tasso di «matrimoni misti» fra settentrionali e meridionali e
una scarsa socializzazione fuori dal lavoro. Il presupposto
che a un pregiudizio segua necessariamente un comportamento
ostile forse non era preciso, ma fu quello che spinse Batacchi
ad affermare pessimisticamente: «i risultati mettono a nudo
una radicale ostilità collettiva» nei confronti
dell’immigrazione meridionale.30
Lo studio di Batacchi presentava il pregiudizio etnico
come un dato di fatto incontrovertibile. Batacchi non offriva
soluzioni, ma cercava di descrivere il più scientificamente
possibile una situazione. Nel descrivere Batacchi individuava
anche, senza dargli un giudizio di valore, un processo in
corso: il superamento dello stigma avveniva attraverso la
«settentrionalizzazione» del meridionale e si trattava di un
processo individuale, non collettivo. La struttura della
30 IRES, Immigrazione di massa e struttura sociale in Piemonte, Torino 1965, pp.276-279; BATACCHI, Meridionali e settentrionali cit. p. 65.
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relazione fra le due culture era quella, scriveva Batacchi, di
due poli binari in opposizione. Non vi era mediazione, solo la
possibile transizione di un individuo che addomesticava la
propria estraneità, rinunciando alle caratteristiche del suo
essere meridionale colpite da pregiudizio.31
Si trattava di integrazione culturale? Questa locuzione non
può essere confusa con la multiculturalità, nel senso di
coesistenza di due culture diverse, una maggioritaria, l’altra
necessariemente minoritaria, in uno stesso spazio sociale. Per
la prospettiva sociologica prevalente negli anni sessanta e
settanta il concetto di integrazione non contemplava
l’interazione tra modelli culturali. Nel senso di mera
integrazione di un individuo «altro» in una data cultura, essa
somigliava piuttosto all’assimilazione, e quindi alla rinuncia
da parte di quell’individuo degli elementi caratterizzanti la
sua cultura di origine.32 Talvolta invece si distingueva
l’integrazione culturale, che implicava la soluzione
nell’individuo del conflitto tra le norme e i valori della cultura
di appartenenza e quelli della cultura d’arrivo, da
un’integrazione sociale, vista come processo meno
problematico, che necessitava solo della risoluzione di
difficoltà oggettive, quali il lavoro o la casa.33 In ogni caso
31 ibid. p.80.32 Come ha spiegato Michaele Eve, a livello internazionale latradizione sociologica di studi sulle migrazioni ha focalizzatol’interesse anche delle altre discipline sulla distanza culturale trala popolazione «normale» e quella immigrata con il risultato di unagrande divario fra i metodi impiegati per lo studio dell’una edell’altra. Vedi M. EVE, Una sociologia degli altri e un’altra sociologia: la tradizionedi studio sull’immigrazione, «Quaderni storici», 1, (2001), pp. 233-259.33 Vedi M. PACI, L’integrazione dei meridionali nelle grandi città del Nord, «Quadernidi sociologia», 4 (1964), pp.341-349. In quegli anni due libri digrande diffusione avevano denunciato le condizioni disagiate degliimmigrati nelle città settentrionali G. FOFI, L’immigrazione meridionale aTorino, Milano 1963 e L. CAVALLI, L’immigrazione meridionale e la società ligure,Milano 1964.
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Quaderni storici, Anno 40, Nº 118, 2005 , pp. 97-120
l’impostazione dominante nella letteratura sociologica,
psicologica e psichiatrica sugli immigrati meridionali era
quella di definire i problemi dell’immigrazione in termini di
mancata integrazione, intesa nell’accezione di inserimento
monodirezionale nella società di arrivo. Durante gli anni
sessanta, in maniera molto benevola e sotto il manto di una
pretesa obiettività, le scienze sociali in Italia proporranno
l’immigrato non-integrato come un deviante e si dedicheranno
ad analizzarne cause, estensione ed effetti.
I termini di questa rappresentazione sono già contenuti
nelle tesi, di grande successo, di Francesco Alberoni,
elaborate tra il 1962 e il 1966, sulla «socializzazione
anticipatoria» dell’immigrato. Il meridionale che partiva per
il settentrione, affermava Alberoni, era già preparato ad
affrontare un nuovo stile di vita perché la partenza implicava
un rifiuto «dell’antica società» e un’accettazione, appunto
anticipata, dei valori e dei comportamenti della società
industriale assimilati già nel luogo di origine attraverso i
media e i resoconti dei parenti emigrati.34 L’analisi di
Alberoni era quindi apparentemente ottimista. La
«socializzazione anticipatoria» era un meccanismo che riduceva
la distanza culturale. Proprio grazie a questo processo
l’immigrato meridionale non formava comunità chiuse nelle
città del settentrione, come accadeva all’estero, per esempio
negli Stati Uniti, a causa della mancata previa
socializzazione. Il basso indice di matrimoni misti non era da
considerare di per sé significativo di mancata integrazione,
perché «giocano in queste cose svariati elementi come
conoscenze precedenti, gusti erotici, empatie a livello
34 F. ALBERONI e G. BAGLIONI, L’integrazione dell’immigrato nella società industriale,Bologna 1966, pp. 11-24.
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Quaderni storici, Anno 40, Nº 118, 2005 , pp. 97-120
preconscio o inconscio, che orientano la scelta verso persone
del proprio ambiente originario».35 Il sociologo non sembrava
considerare l’empatia e l’attrazione fisica fra due gruppi
etnici come indici utili per misurare la distanza o la
prossimità sociale.
Le indagini di Alberoni arrivavano a questi risultati
perchè si basavano sull’osservazione di impiegati e
professionisti, tra cui gli immigrati bresciani e quelli
meridionali non si distinguevano affatto quanto
all’accettazione della nuova realtà e alla necessità di
lasciarsi alle spalle i propri conterranei. Purtroppo queste
due categorie professionali rappresentavano, nel momento in
cui scriveva il sociologo, una percentuale trascurabile
dell’immigrazione meridionale che, nella stragrande
maggioranza, confluiva invece nella manodopera non
qualificata. Era quindi presumibilmente proprio alla
maggioranza di immigrati che Alberoni si riferiva quando
individuava i rischi del mancato adattamento dell’immigrato,
sfociante in una situazione socialmente pericolosa di anomia.
Il superamento del gap socio-culturale fra la società di
partenza e quella di arrivo richiedeva un «notevole impegno
di energia psichica». Questo obiettivo però non era sempre
raggiungibile a causa della situazione frustrante in cui
l’immigrato si trovava.36 Questa inadeguatezza poteva portare
così a un comportamento anomizzante che, a sua volta, causava35 ibid. p. 113.36 «La differenza culturale e strutturale della società ospiterispetto a quella di provenienza pone all’immigrato un compito dicomprensione molto grande al quale egli è, il più delle volte,sprovveduto, sia perchè è vissuto in un ambiente in cui non è maistato stimolato alla comprensione e non è mai stato educato a farlo,sia perchè è impegnato in un compito di sopravvivenza per sè e per lasua famiglia sempre urgente, ma spento e spesso drammatico. Ben pochesono le energie intellettuali che egli può dirottare nello sforzo diconoscere e comprendere». Ibid., p. 26.
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ostilità da parte della comunità ricevente, aumentando la
frustrazione e il senso d’inadeguatezza dell’immigrato. Per
interrompere questo circolo vizioso, qualora esso si fosse
instaurato, Alberoni proponeva di intervenire, da un lato,
attraverso la lotta al pregiudizio antimeridionale,
dall’altro, nelle comunità di partenza, con l’educazione
civica, con la quale egli intendeva, «non tanto la conoscenza
dell’ordinamento giuridico o delle norme del vivere civile,
quanto aspetti più trascurati come ad esempio, ciò che uno
deve aspettarsi e come deve comportarsi quando vive ed opera
in un’organizzazione, la natura dei rapporti di autorità, [..]
cosa significa eleggere e rispettare il volere della
maggioranza».37 In altre parole, se non vi era stata una
socializzazione anticipatoria, bisognava far sì che essa
avesse finalmente luogo.
Se l’analisi di Alberoni era inficiata dalla non
rappresentatività del campione selezionato, l’assunto che
l’immigrato non assimilato fosse portatore di disordine
morale e di criminalità era però radicato in molti altri
interventi scientifici sul tema. Un leit-motiv era la
convinzione che l’onere dell’integrazione spettasse
all’immigrato, attraverso un difficile adeguamento
psicologico che però lo rendeva un individuo fragile,
soggetto a impulsi irrazionali, turbe psichiche e
comportamenti antisociali. In una comunicazione al Congresso
di Psicologia sociale del 1958 un relatore avvertiva che il
tentativo di integrazione del meridionale nel settentrione
dava luogo a un aumento delle loro forme nevrotiche e
37 Ibid., p. 32.
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Quaderni storici, Anno 40, Nº 118, 2005 , pp. 97-120
all’esasperazione di loro peculiari aspetti caratteriali,
quali l’atteggiamento «oniroide».38
Il primo Istituto di Psicologia sociale veniva fondato
nel 1962 a Torino, una delle città maggiormente investite da
questa trasformazione. La direttrice, Angiola Massucco Costa
(comunista estudiosa della psicologia sovietica), che aveva
dedicato decennali ricerche al problema dello stereotipo del
meridionale fu la prima a segnalare che la ricerca
psicologica sullo stereotipo rischiava di andare nella
direzione di attribuire alla personalità del meridionale una
congenita diversità, se pur derivante dalle caratteristiche
culturali della società di origine, mentre si finiva per
indicare nella personalità del settentrionale un modello da
imitare, desiderabile e positivo.39 Una preoccupazione simile,
nel contesto nord americano, era stata espressa qualche anno
prima, da una voce dissidente nel panorama della sociologia
statunitense, Charles Wright Mills, il quale aveva
qualificato quegli stessi studiosi che poi influenzeranno la
letteratura italiana come «patologi sociali». Essi definivano
i problemi sociali in termini di devianza dalle norme della
società, considerandole come date e identificandole con i
valori e gli ideali della middle class americana, senza
considerare che le norme stesse sono prodotte
dall’interazione tra gli individui e che esse appunto si
trasformano in conseguenza di tale interazione. In questa
logica, il cambiamento repentino delle norme di una data38 Riportato da A. MASSUCCO COSTA, Intervento, «Rivista di psicologia»,n.1, LIX (1965), p. 188.39 A. MASSUCCO COSTA, A. FONZI, Schema di ricerca sullo “stereotipo” del meridionale,«Rivista di psicologia sociale», I, (1954); A. MASSUCCO COSTA, La“differenza biologica” e l’immagine dinamica degli stereotipi razziali e nazionali, «Rivistadi psicologia sociale», IV (1957); Stereotipi e pregiudizi nel controllo deicomportamenti, «Rivista di psicologia sociale», IV (1957); Intervento,«Rivista di Psicologia», n.1, LIX (1965).
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comunità, causato dall’arrivo di un gruppo di immigranti era
visto come un fenomeno patologico, effetto del mancato
adattamento dell’individuo o dell’incapacità della società di
assimilarlo.40
Nonostante questi richiami, per tutti gli anni sessanta
e un po’ oltre, la ricerca avrebbe comunque accolto il
presupposto di una «differenza» del meridionale da indagare
allo scopo di facilitare il suo inserimento nella società
industriale. Ancora alla fine del decennio la ricerca di
Luigi Ancona (ordinario di Psicologia all’Università
cattolica di Roma) e dei suoi collaboratori partiva dal
presupposto che «i problemi dell’integrazione sono correlati
alla «disposizione mentale» del soggetto al momento della
partenza dalla zona di esodo e del suo arrivo in quella di
insediamento».41 Lo studioso tornava sull’argomento
dell’integrazione, in un momento (i primissimi anni settanta)
di grande fermento sociale a forte protagonismo meridionale,
ribadendo la necessità e il ruolo sociale della psicologia e
della psichiatria. A suo modo di vedere le difficoltà di
integrazione dell’immigrato meridionale, «portando a
incomprensioni, tensioni, sfruttamenti, conflitti e infortuni
sul lavoro che si manifestano sul piano sociale […]
rappresentano un tipico problema ai limiti fra Igiene Mentale
e Criminologia».42 La sua ricerca si basava sulla misurazione
comparata del livello di intelligenza, della strategia
decisionale e dell’equilibrio emotivo di bambini dell’Italia
meridionale, centrale e settentrionale, i risultati venivano
40 C. WRIGHT MILLS, The Professional Ideology of Social Pathologists in «The AmericanJournal of Sociology», 2, (1943), pp.165-180.41 L. ANCONA, R. CARLI, E. SCHWARZ, Aspetti psicologici e psicopatologici dei processi dimigrazione in «Archivio di psicologia, neurologia, e psichiatria»,n.3, (1971), p. 357.42 Ibid. p.355.
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poi applicati allo studio delle relazioni tra emigrati
meridionali e popolazioni di accoglienza settentrionali.
L’obiettività scientifica era garantita dall’utilizzo di test
di intelligenza culture free, come quello messo a punto da John
Raven e diventato popolare negli Stati Uniti da almeno un
decennio. Questo test, detto delle matrici progressive, si
basava sul riconoscimento di forme geometriche, per evitare
l’etnocentrismo riconosciuto insito nei test basati su forme
verbali.43 L’adozione del test di Raven dimostrava che gli
psicologi sociali italiani avevano recepito i più moderni
strumenti analitici sviluppati oltreoceano, ma allo stesso
tempo testimoniava una residua fiducia che potessero esistere
metodi d’indagine obiettivi, immuni dai preconcetti
culturali dei ricercatori. Oggi si riconosce che anche gli
elementi non verbali su cui si basa il test di Raven sono
costrutti che non esistono in tutte le culture, si apprendono
nei primi anni di scuola e quindi sono più facilmente
riconoscibili da individui scolarizzati.44
Prevedibilmente, la ricerca accertava che il livello
intellettivo dei bambini meridionali era inferiore alla media
italiana e stabiliva una correlazione inversamente
proporzionale tra il livello d’intelligenza e i conflitti
emotivi dell’individuo e tra questi due e il grado di
sicurezza di sè. Naturalmente, ciò non era spiegabile con una
deficienza ereditaria; era piuttosto l’ambiente depresso che
si rifletteva sulla dinamica evolutiva del meridionale:
«Nell’Italia Meridionale emerge – secondo Ancona – non solo
una scarsa dotazione intellettuale dell’infanzia, ma un
orientamento generale all’insicurezza depressiva, che43 L. J. CROBACH, Essentials of Psychological Testing, New York 1970.44 E. BENSON, Intelligence across cultures, «Monitor on Psychology», n.2, Vol.34, (2003), p. 56.
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Quaderni storici, Anno 40, Nº 118, 2005 , pp. 97-120
ostacola l’utilizzazione produttiva delle sia pur limitate
risorse presenti ed impedisce e rallenta ogni ulteriore
evoluzione nell’ambito di questa zona».45 Ci possiamo chiedere
se non fosse rintracciabile un’eco di biologismo nell’effetto
determinante e paralizzante dell’ambiente, dai caratteri
immutabili, in cui si sviluppava anormalmente la personalità
del meridionale quando si affermava che «la conflittualità
presente in Italia Meridionale, incarcerata in un sistematico
sforzo introiettivo, inibisce l’attivazione
dell’intelligenza».46 Ancona si riferisce qui a una
conflittualità interiore, affettiva, generata dallo scarso
equilibrio emotivo del meridionale, non a una conflittualità
sociale: è sempre l’individuo, seppure a campione, non il
gruppo a essere oggetto d’indagine.
Date queste premesse, l’incontro dell’immigrato del Sud
con l’ambiente del Nord non poteva che essere drammatico.
Vale la pena di citare un passo che ne descrive le
conseguenze.
L’inserzione fra emigrati e popolazione del luogo di
immigrazione si costituisce più precisamente a causa
delle rispettive dinamiche, come una situazione sado-
masochistica ad incastro: masochistica per i soggetti del
Sud, che inseriscono nella propria dinamica depressiva ed
autocritica l’eccessiva sicurezza dei soggetti del Nord.
Sadica in questi ultimi, che attuano la propria dinamica
paranoidea col fatto di accogliere gli immigrati nel
proprio seno, proiettando su di essi gli aspetti negativi
appartenenti al proprio gruppo.47
45 ANCONA, Aspetti psicologici cit., p. 391.46 Ibid., p. 393.47 Ibid., p. 394.
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Quaderni storici, Anno 40, Nº 118, 2005 , pp. 97-120
Il meridionale e il lavoro
Mentre un filone di interventi riguardava i problemi dello
stereotipo e del pregiudizio e quindi dell’integrazione nel
tessuto urbano nel senso più ampio, vi era anche un interesse
forte verso la questione, di più immediata rilevanza pratica,
dell’adattamento del meridionale al lavoro industriale e alla
disciplina di fabbrica. Questo era più specificatamente il
campo della psicologia del lavoro.
Uno degli studiosi più noti di questa disciplina,
Gustavo Iacono, si era occupato a varie riprese del
comportamento dei lavoratori meridionali, studiati sia nel
settentrione sia nella loro società di origine. La domanda
che interessava gli psicologi del lavoro era: il lavoratore
meridionale presenta delle caratteristiche particolari in
quanto meridionale? È il meridionale adatto al lavoro in
fabbrica e a quale livello di efficienza? A ben guardare,
l’assunto di questi interrogativi è ancora una volta una
presupposta irrazionalità meridionale studiata, come nel caso
di Alberoni, con una metodologia ancora incerta
sull’influenza della soggettività e dei pregiudizi propri del
ricercatore.
Anche Iacono rilevava che il livello intellettivo,
misurato attraverso dei reattivi non esplicitati nel corso
della ricerca, dei soggetti meridionali tende ad essere
mediamente inferiore a quello di soggetti di pari età,
scolarità, e condizione sociale del nord d’Italia.48 Il
48 G. IACONO, L’orientamento affiliativo: un fenomeno e un’ipotesi sul comportamento deilavoratori meridionali, «Rivista di psicologia», n.1, LIX (1965), pp.170-181; vedi anche Id. Prime osservazioni nello studio del carattere dei soggettimeridionali, Napoli 1960.
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meridionale si adattava facilmente alle più disparate
mansioni, ma aveva la tendenza a non rispettare alla lettera
la consegna e a intervenire, non autorizzato, nelle mansioni
dei compagni. Inoltre aveva sfiducia nei propri meriti e per
avanzare contava di più sulla raccomandazione. Iacono ne
concludeva che il lavoro aveva per i meridionali una «scarsa
rilevanza psicologica», a causa della mancata
differenziazione di tale situazione da altre situazioni
interpersonali, per esempio la vita familiare, e raccomandava
non tanto l’addestramento alle mansioni, che i meridionali
apprendevano facilmente, quanto «l’assimilazione di
atteggiamenti, motivazioni, orientamenti appropriati alla
situazione di lavoro […] attraverso l’utilizzazione di
procedimenti psicologici».49
L’accenno alla propensione dei meridionali per la «vita
familiare» e il clientelismo non era accompagnato da nessun
riferimento ai coevi studi antropologi sul «familismo».
L’antropologia restava una disciplina separata rispetto alla
psicologia sociale e da essa non si traevano nozioni e
metodologie che sarebbero state utili nel comprendere la
personalità del meridionale.50
La psicologia sociale perveniva alla stessa
caratterizzazione della personalità dei meridionali implicita
nei pregiudizi più diffusi che pure la stessa comunità
scientifica si proponeva di analizzare e confutare. Dopo aver
definito la stereotipizzazione come «una generalizzazione
ingiustificata a tutto un gruppo di qualità fisiche e morali
49 IACONO, L’orientamento affiliativo cit., p. 180. 50 E. BANFIELD, Una comunità del Mezzogiorno, Bologna 1961. Per un quadrodell’interesse dell’antropologia nei confronti delle societàmediterranee vedi J. DAVIS, Antropologia delle società mediterranee: un'analisicomparata, Torino 1980.
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Quaderni storici, Anno 40, Nº 118, 2005 , pp. 97-120
riscontrate solo in alcuni dei suoi membri»,51 gli psicologi
sembravano le prime vittime degli stereotipi che intendevano
studiare. Ancora una volta erano le lacune metodologiche,
colmate inevitabilmente dalle convinzioni intime del
ricercatore, che portavano a questi risultati. Nel caso di
Iacono il comportamento dei soggetti in fabbrica era studiato
attraverso osservazione diretta e questionari, ma dalla loro
interpretazione Iacono traeva delle conclusioni ispirate a
convinzioni prettamente personali sostenendo, per esempio,
che la raccomandazione fosse il risultato dell’atteggiamento
verso l’autorità inculcato dalla relazione del meridionale
con la madre, mentre altri comportamenti erano spiegabili con
la «socievolezza e facilità di contatto propri [un termine
che potrebbe intendersi per innati] del meridionale».52
Stante tali caratteristiche della sua personalità,
poteva il meridionale adattarsi al lavoro negli stabilimenti
industriali del Nord? Anche la ricerca di Giuseppe Gallo
svolta in una grande fabbrica del settentrione, confermava il
livello intellettivo inferiore alla media, rilevato però
attraverso i risultati dei test attitudinali, somministrati
dall’azienda, al momento dell’assunzione.53 Al contrario di
Iacono, Gallo osservava anche una difficoltà
nell’apprendimento delle mansioni vere e proprie, misurata
attraverso una percentuale più alta di multe inflitte per
errori del lavoro e riassumeva i suoi risultati osservando
che «i meridionali hanno dato risultati inferiori ai test del
51 D. CAPOZZA, Gli stereotipi del Meridionale e del Settentrionale rilevati e analizzati con latecnica del differenziale semantico, «Rivista di Psicologia», n.3, LXII (1968),pp. 317-367.52 Ibid., p.174 corsivo mio.53 G. GALLO, E. IANNACCARO, E. ROVERSI, Studio dell’influenza etnica nell’inserimento dimaestranze meridionali in una grande industria del Nord, «Rivista di psicologia»,n.1, LIX, (1965), pp. 606-619.
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livello intellettivo; minori prestazioni nel complesso degli
esami attitudinali; reperti modicamente più discutibili nelle
prove caratteriologiche».54 Ciò nonostante, i risultati della
ricerca avrebbero dovuto infondere, secondo l’autore, un
certo ottimismo nei datori di lavoro del nord circa il
normale inserimento delle maestranze meridionali in fabbrica.
L’unico consiglio era semmai di utilizzare oculati test di
selezione – che richiedessero, crediamo, l’intervento di uno
psicologo – per far sì che il «problema degli immigrati,
appunto perché affrontato in via profilattica e con la
selezione e l’orientamento interno aziendale, rimane fuori
dalle mura dello stabilimento».55
Come mai questa contraddizione tra i risultati della
ricerca e i consigli ai datori di lavoro? Semplicemente
perché questa ricerca, basata ancora una volta su dati
scientificamente discutibili in quanto provenienti dai test
della stessa azienda e dalla valutazione meritocratica dei
capi (settentrionali) degli immigrati, è pubblicata nel 1965,
quando già di fatto gli immigrati meridionali sono inseriti,
e a grandi numeri, nelle fabbriche settentrionali a dispetto
della loro presunta scarsa intelligenza e capacità di
apprendere. Quanto al fatto che un’accurata scrematura
all’assunzione avrebbe lasciato i problemi dell’immigrato
fuori dalla fabbrica, basta ricordare che appena quattro anni
dopo ci sarebbe stato l’Autunno caldo in cui una componente
essenziale della protesta meridionale in fabbrica scaturiva
appunto dalle disagiate condizioni sociali nelle quali gli
immigrati vivevano.56
54 Ibid., p. 616.55 Ibid., p. 619.56 Per un approfondimento del ruolo dei meridionali nell’Autunnocaldo rimando a G. BERTA, Conflitto industriale e struttura d'impresa alla Fiat,
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In questo modo il test attitudinale al lavoro in
fabbrica, niente più che la capacità del meridionale di
divenire operaio-massa, diventava la soglia che separava la
normalità dalla psicopatologia. Il meridionale che non
riusciva a integrarsi nella società industriale attraverso il
lavoro era più suscettibile di incorrere in patologie
neurotiche, soprattutto depressive, candidandosi quindi a
diventare oggetto di scrutinio della psichiatria.
Immigrazione e malattia mentale
In questi stessi anni gli psichiatri lamentavano una
crescita vertiginosa della percentuale di immigrati
meridionali internati negli ospedali psichiatrici rispetto
alla loro presenza numerica tra gli abitanti.57 È significativocomunque che questa attenzione verso la devianza dei
meridionali fosse concomitante alla rinnovata preoccupazione
dell’opinione pubblica per le problematiche aperte dall’arrivo
degli immigrati nelle città del settentrione. Non è un caso
che nel 1962, l’anno della cosidetta rivolta di Piazza
Statuto, quando davanti alla sede della UIL di Torino si
verificarono degli scontri tra operai e polizia di cui furono
Bologna 1998; D. GIACHETTI, M. SCAVINO, La Fiat in mano agli operai, Pisa 2001;G. POLO, I Tamburi di Mirafiori. Testimonianze operaie attorno all’autunno caldo alla Fiat,Torino 1989. Una biblografia approfondita sull’Autunno caldo si trovanella mia tesi di Ph.D. N. PIZZOLATO, Workers and Revolutionaries on the ShopFloor: The Breakdown of Industrial Relations in the Automobile Plants of Detroit and Turin(1947-1973), University College London, 2003.57 Per esempio nel convegno su “Immigrazione, lavoro e patologiamentale” ( 23-24 marzo 1963) citato in P. AMBROSI, A. GRASSI, M. RAMPAZI eS. VENDER, Malattia mentale e società. Storia e critica della psichiatria sociale, Roma1980, p. 64.
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immediatamente incolpati gli «scamiciati» meridionali58, sia
anche l’anno della prima conferenca del PCI sull’immigrazione,
della lettera episcopale della CEI sullo stesso tema e del
primo convegno della Lega Italiana di Igiene Mentale dal
titolo appunto «Igiene mentale e immigrazione». Veramente
l’immigrazione aveva assunto «un’imponenza insospettabile»,
come affermò Virginio Porta in apertura del convegno.59
Fra i disturbi più frequenti individuati dai relatori del
congresso vi erano le depressioni, spesso legate
all’alcolismo, e i tentati suicidi. Queste espressioni di
patologie nevrotiche si manifestavano più spesso tra gli
immigrati meridionali e colpivano individui di un profilo
sociale nettamente diverso rispetto ai settentrionali. Se
l’alcolizzato milanese era prevalentemente single, di mezz’età e
appartenente a qualunque classe sociale (fra i ricoverati si
trovano laureati accanto ad analfabeti), l’etilista
meridionale era invece di solito «giovane, ma con famiglia,
spesso abbastanza numerosa» e mai in condizioni di indigenza.
L’ipotesi di Porta era che tali patologie nascessero nel
meridionale a causa della «ricerca di un’evasione alle
frustrazione della vita consociativa». 60 Nonostante vi fossero
conclusioni di altro tono (come dirò più oltre) un parte della
ricerca, qualificando queste patologie come «reattive»,
fotografava nient’altro che la difficile integrazione nel
tessuto sociale del meridionale, mentre dichiarava ben
compiuta quella nel mondo del lavoro.61 58 Per un’indagine approfondita di quell’episodio vedi D. LANZARDO, Larivolta di Piazza Statuto, Milano 1979.59 V. PORTA, Migrazione interna ed igiene mentale. Quadro psicologico e psicopatologico,«Igiene mentale», fasc. 3-4, VI (1962), p. 728.60 Ibid., pp. 747 e 749.61 Vedi anche M. ROSSELLA, La reazione psicogena di tipo paranoico nell’immigratomeridionale, «Igiene Mentale», fasc. 3-4, VI, (1962), p. 1211, il qualeindividua una «patologia reattiva di tipo paranoico nell’immigrato il
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Diverse erano invece le ipotesi che si formulavano nel
caso di tentati suicidi fra le immigrate meridionali,
figurando anche questi in proporzione maggiore rispetto alla
popolazione locale femminile. Sebbene pure in questo caso, le
pazienti di origine meridionale fossero più giovani e
socialmente più omogenee (oltre che più numerose) delle
controparti settentrionali, la differenza di genere portava il
ricercatore a un altro ragionamento. Nel caso delle donne,
Giovanni Alema, neurologo primario degli Ospedali civili di
Genova, suggeriva (ma in modo cauto, avvertendo che si poteva
trattare – e lo era – di una «spiegazione semplicistica») che
«per loro il tentativo di suicidio sarebbe espressione delle
abitudini più libere di vita ottenute nel giungere nel nuovo
ambiente».62 Lo studioso e i suoi collaboratori notavano che,
nonostante le condizioni modeste o disagiate delle immigrate,
il loro impulso autodistruttivo era motivato da ragioni
sentimentali e familiari in prevalenza maggiore rispetto alle
settentrionali, di solito più abbienti. Ritornava quindi
nell’analisi il forte condizionamento familiare a cui sarebbe
stato sottoposto il meridionale, a maggior ragione la donna.
In questo caso però tale condizionamento entrava in conflitto
con una «partecipazione affettiva» al nuovo ambiente e un
conseguente «aumento delle occasioni conflittuali sul piano
erotico e sentimentale» (e ci si può chiedere se in questa
frase dai toni piuttosto vaghi, alla quale non segue nessuna
quale si viene necessariamente a trovare nelle condizioni ambientalipiù idonee a catalizzare la precipitazione della fenomenologiareattiva; in effetti lo sforzo per inserirsi nel nuovo gruppo socialecon tutta la complessa problematica legata all’inserimento pongonol’immigrato in una situazione esistenziale di particolare cimento,sensibilizzandolo a molteplici eventi frustranti».62 G. ALEMA, G. BALLARDINI, L. FIORITO, Tentato suicidio e reazioni neurotiche inimmigrate meridionali in Liguria, «Igiene mentale», fasc. 3-4, VI (1962),p.1161 e p.1163.
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spiegazione, non si possa forse attribuire l’ennesima
allusione al carattere geloso degli uomini di cui queste donne
sono compagne). Confrontando questa relazione al convegno con
gli altri studi se ne può dedurre che, se per gli uomini la
reazione patologica era conseguenza delle minori possibilità
di contatto sociale in un ambiente ostile, alla donna accadeva
l’esatto contrario: era l’apertura sociale della comunità di
accoglienza a scatenare il deterioramento psichico, anzi, ed è
significativo, il «deterioramento morale», come lo definisce
Alema e il suo gruppo di studio.
Negli interventi al Congresso di Igiene mentale del 1962,
come nella maggior parte della letteratura fin qui presentata,
è possibile distinguere nettamente il livello della pura
raccolta dei dati, accurata e scientificamente ineccepibile,
da quello delle interpretazioni, non necessariamente collegate
ai fenomeni osservati. In un altro intervento sul tema del
tentato suicidio tra i meridionali, i dottori Calderini e
Brussa dell’Ospedale Maggiore di Milano, escludevano che il
trauma migratorio potesse giocare un ruolo importate in questa
patologia per gli uomini, perchè questi potevano trovare
rifugio nell’alcol e nella vita sociale (ma per altri, lo
abbiamo visto, erano proprio l’abuso del primo e le
frustrazioni della seconda a portare al suicidio). Il
contrario accadeva alle donne meridionali, le quali avevano
minori possibilità di contatti sociali essendo per la maggior
parte casalinghe e sopratutto mancando della alberoniana
«socializzazione anticipatoria» poiché la decisione migratoria
era stata presa dell’uomo e accettata «supinamente», senza
cosapevolezza e preparazione.63
63 G. CALDERINI, G. BRUSSA, Tentato suicidio e migrazioni interne, «Igiene mentale»,fasc. 3-4, VI (1962), p. 1279.
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Questi studi si basavano sempre su campioni
statisticamente eccepibili, perchè avevano come oggetto i
pazienti internati nell’ospedale di appartenza del
ricercatore, senza raffronti con la più ampia popolazione
manicomiale (e senza la possibilità di avere i dati delle case
di cura private). Le conclusioni quindi variavano a seconda
del materiale umano osservato. Colpisce invece che nel caso
delle donne tutte le interpretazioni rimandassero allo
stereotipo della donna meridionale: passiva, sottomessa e
rinchiusa tra le pareti domestiche e per la quale uscirne o
restarvi dentro aveva conseguenze psicologiche ugualmente
dannose.
La fragilità psichica dell’uomo e della donna
meridionali, causata dalla mancata integrazione, si
ripercuoteva inevitabilmente sui figli, con conseguenze però
ancora più preoccupanti, trattandosi della nuova generazione.
In questo caso il luogo d’indagine non era l’ospedale
psichiatrico, ma la scuola. Gli studi sul tema del
«disadattamento» degli scolari meridionali erano numerosissimi
e quasi senza eccezioni mostravano che il disadattamento
causava dissocialità e scarso rendimento scolastico. Alcuni
dati suonano oggi veramente sconfortanti. «Dei centoventi
alunni segnalati dalle insegnanti delle scuole normali come
bisognosi di una educazione specializzata in classi
differenziali o per anormali, il novanta per cento risultò
costituito dai figli di immigrati», riferivano i dottori
dell’Istituto psichiatrico provinciale di Milano.64
Dissocialità e scarso rendimento diventavano, a seconda del
metodo psicometrico utilizzato, il sintomo di un’inferiore
64 A. MADERNA, B. LEONE, Interferenze affettive nel disadattamento di scolari immigrati dazone depresse, «Igiene mentale», fasc. 3-4, VI (1962), p.1191.
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capacità intellettiva e questa, come abbiamo visto accadere,
poteva essere a sua volta utilizzata per trarre delle
indicazioni sull’intero gruppo dei meridionali.
La convinzione della condizione d’inferiorità dei figli
degli immigrati rispetto ai coetanei «nativi» era così diffusa
da far sì che taluni prospettassero, con le migliori
intenzioni, l’introduzione di scuole separate per gli
immigrati, magari con insegnanti meridionali.65
Alternativamente, si raccomandava la psicoterapia di gruppo
per gli scolari, operata da psichiatri specializzati, sulla
base di esperimenti pilota che avevano dimostrato come in
questo modo si potesse evitare che «il mancato adattamento
determinasse e convalidasse definitivamente complessi psichici
d’inferiorità, responsabili a loro volta di bloccare
progressivamente le già scarse capacità individuali».66 Una
ricerca di un gruppo di studio della Scuola di psicopedagogia
di Torino sembrava arrivare a risultati diversi misurando un
uguale livello di inserimento scolastico degli immigrati e
degli autoctoni, facendolo dipendere dalle condizioni socio-
economiche piuttosto che dal grado di integrazione. Tuttavia
lo studio finiva comunque per rinforzare la tesi della
pericolosità del processo di integrazione per i soggetti
infantili in quanto prendeva come campione di studio gli
allievi di una scuola di Avviamento industriale,
presumibilmente arrivati nel Nord nell’adolescenza e non
nell’infanzia.67 In definitiva era tutta la famiglia a subire65 Così A. MADERNA, S. VALSESCHINI, Alcuni aspetti sulla situazione scolastica sui figli diimmigrati, «Min. Medicopsicologiche», 4, 235 (1964). Di opinionecontraria era M. SCARCELLA, Rilievi su di una proposta di classi differenziali per figli diimmigrati nel nord, «Igiene Mentale», 1, 88 (1965).66 A. MADERNA, B. LEONE, Interferenze affettive cit., p. 1192.67 E. ARIAN, V. B. GRASSINI, V. GRASSINI, Indagine psicometrica sull’adattamento di ungruppo di studenti immigrati in Torino, con particolare riguardo al comportamento verbale,«Igiene Mentale», fasc. 3-4, VI (1962), pp.1165-1172.
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gli effetti nefasti dell’immigrazione a causa dell’influenza
negativa dell’insicurezza familiare sui bambini in età
evolutiva: «L’ambiente radicalmente diverso può provocare una
vera e propria trasformazione dell’istituto familiare, dove la
mancata integrazione esterna determina esasperazione di
conflitti interni con grave menomazione delle capacità di
educare i figli, fatti già più difficili dall’inferiorità oggettiva
[corsivo mio] e dal complesso di inferiorità soggettivo che li
affligge in confronto ai coetanei indigeni».68
Un aspetto paradossale del dibattito sui meridionali
nella psichiatria e nella psicologia sociale, esemplificativo
di come paradigmi interpretativi considerati superati dalla
disciplina continuassero talvolta a riverberare le loro
suggestioni, era la coesistenza, accanto alla teoria in quel
momento generalmente accettata che la malattia mentale fosse
conseguenza dell’impatto con un ambiente diverso, di elementi
che invece suggerivano una rinnovata fascinazione dell’aliené
voyageur. Gli esempi sono molteplici. Spesso interpretazioni
contrastanti erano presenti nello stesso intervento, senza che
nessuno portasse alla luce la contraddizione. Così uno
studioso aveva riscontrato nel 1966 che soltanto il 38% degli
individui emigrati in America poteva essere considerato
completamente «normale».69 Mentre Gaetano Ingrassia del Centro
di Igiene mentale di Palermo, ancora nel 1971, poteva scrivere
che «è generalmente ammesso il fatto che la decisione di
emigrare venga presa più facilmente da persone di carattere
instabile, aggressivo, con personalità psicopatica o
schizotimica o paranoidea».70 In maniera più sofisticata68 R. DI GENTO, Famiglia alterata da migrazione interna e C.M.PP, «Igiene mentale»,1 (1970), p. 145.69 A. DURANTE, Problemi psicologici dell’emigrazione. Contributo alla conoscenza psicologicadel fenomeno migratorio, «Clinica psichiatrica», 1, II (1966).70 G. INGRASSIA, Su alcune problematiche cit. p. 1116.
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Eugenio Gaburri, dell’Ospedale psichiatrico di Varese,
spiegava che le depressioni di cui è vittima il meridionale
sono nate nell’ambiente di partenza, nel quale è un
«perdente», piuttosto che in quello di arrivo e si chiedeva:
«Non si può forse considerare questa situazione di scacco del
suo mondo originario come una condizione traumatizzante
cronica che gioca con la dinamica psichica un ruolo
preponderante di primaria importanza nell’instaurarsi di una
particolare vulnerabilità di un individuo?».71 Nello stesso
anno Luigi Ancona, dell’Istituto di Psicologia dell’Università
Cattolica di Roma, affermava che «sul piano psicosociologico,
emigrano i soggetti animati da un’intensa autocritica, di
orientamento depressivo, mentre quelli eccessivamente sicuri
di sè, di orientamento paranoideo, non emigrano, ma accolgano
immigrati».72 Nello stesso convegno però si ravvisava nei
settentrionali una situazione di tipo maniacale, perchè
«caratterizzata da insufficiente introspezione», mentre erano
gli immigrati a soffrire di «paranoidismo meridionale» in
quanto sviluppavano dei complessi persecutori.73
La tesi antipsichiatrica e la fine del dibattito
Attraverso il discorso scientifico gli psichiatri e gli
psicologi sociali avevano ridefinito l’immigrazione come un
campo privilegiato di attività. Un campo in cui il loro71 E. GABURRI, Importanza del disadattamento sociale nei disturbi psichici degli immigratiinterni, «Igiene mentale», fasc. 3-4, VI (1962), p. 1188.72 L. ANCONA, Su alcuni aspetti della dinamica profonda nel processo di emigrazione-immigrazione, «Igiene mentale», XV (1971), p. 977.73 Il convegno verteva sui Problemi di igiene mentale nelle zone di emigrazione,VIII Congresso Nazionale della Lega Italiana d’igiene e profilassimentale (1970). L’intervento di C. PETRÒ, Sintesi della seconda tavola rotonda,«Igiene mentale», XV (1971), p.1272.
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intervento non era soltanto utile, ma indispensabile. Come
diceva il Professore Diego De Caro, direttore degli Ospedali
psichiatrici di Torino, «non c’è argomento come quello che
stiamo trattando che si adatti meglio al concetto, oggi
largamente accettato, di una psichiatria che sia al tempo
stesso “psichiatria sociale”».74
L’interesse psichiatrico per gli immigrati, quindi, non
derivava semplicemente dal più grande numero di pazienti di
origine meridionale, ma dagli stessi rivolgimenti all’interno
della disciplina in cui la dimensione sociale assumeva sempre
più importanza, allontanando la psichiatria dalla tassonomia
nosografica positivista, verso il terreno più incerto
dell’influenza ambientale. Lo psichiatra Romolo Rossi
osservava che le depressioni erano più frequenti tra gli
immigrati che presso il resto della popolazione, ma tale
frequenza era spiegabile come una reazione allo sradicamento
dell’immigrato dal suo luogo di origine.75 Come Alberoni,
Rossi individuava le cause delle varie psicopatologie che
colpivano l’immigrato nel suo sforzo di adeguamento al nuovo
ambiente, ma al contrario del sociologo non auspicava nessuna
sorta di socializzazione che ne facilitasse l’integrazione,
piuttosto semplicemente deplorava il processo d’immigrazione
in sé, in quanto catapultava il meridionale fuori dal suo
mondo arcaico in cui la figura materna rappresentava ancora
«il motore immobile ed il perno inerte dell’intera struttura»
in un mondo per lui incomprensibile, «assurdo e nemico». 76
74 D. DE CARO, Simposio sui problemi di igiene mentale nelle zon di emigrazione, in«Annali di Frenatria e scienze affini», I (1971), p. 43.75 R. ROSSI, Aspetti psicogeni nella psicopatologia della immigrazione, in «Archiviodi psicologia, neurologia, e psichiatria», n. 1-2 (1971), pp. 105-114.76 Ibid. p. 107 e p. 112.
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L’articolo di Rossi è interessante perché mette in
discussione la convinzione che psicologi e soprattutto
psichiatri potessero essere d’aiuto nell’affrontare i
problemi dell’immigrato. Se la causa della malattia mentale
era lo sradicamento, la questione stava a monte, nelle
condizioni di degrado da cui partiva l’immigrato. È
indicativo dello spostamento di fuoco che il XV congresso
della Lega d’Igiene mentale del 1970 si incentrasse sulle
zone di emigrazione, invece che su quelle di immigrazione. Si
trattava quindi di un problema sociale e politico, non
psichiatrico. Al contrario gli psichiatri potevano solo
peggiorare la situazione, assumendo un atteggiamento
discriminatorio nei confronti dell’immigrato. Per Rossi lo
psichiatra settentrionale era «incatenato al pregiudizio» nei
confronti del paziente meridionale, dal quale raramente
riceveva una risposta positiva alla terapia e sul quale
adottava l’elettro-shock più spesso, mentre faceva
preferibilmente ricorso ai farmaci per i non immigrati.77
Le affermazioni di Rossi erano sintomatiche del
cambiamento di clima nel dibattito scientifico. Siamo nel
1971 e la disciplina era scossa da un movimento di
rinnovamento che rifletteva l’influenza di varie correnti
anti-psichiatriche e del contributo di Franco Basaglia.78 La
funzione dell’istituzione manicomiale, il rapporto medico-
malato e la stessa validità terapeutica della psichiatria
venivano messe in discussione. La tesi anti-psichiatrica
della malattia mentale, fondata sui rapporti di dominio di
classe e sulle pratiche borghesi di esclusione della
77 Ibid. p.113.78 A. CIVITA, D. COSENZA, (a cura di) La cura della malattia mentale. I. Storia edepistemologia, Milano 1999, pp. 248-290; G. JERVIS, L’antipsichiatria trainnovazione e settarismo, «Mondoperaio», XXXIX (1986), pp.125-128.
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marginalità improduttiva, calzava perfettamente al caso
dell’alienazione sociale dei meridionali. Ma, nel momento in
cui le psicopatologie dei meridionali diventavano un sintomo
della patologia di una società malata, piuttosto che
dimostrazione della loro inadeguatezza, l’immigrazione
perdeva anche una caratteristica che almeno le veniva
riconosciuta nelle altre interpretazioni: quella di essere la
scelta libera di un individuo che voleva cambiare il proprio
destino. Nell’interpretazione anti-psichiatrica la situazione
dell’immigrato «non è diversa da quella del deportato o del
perseguitato politico»; egli si trascina sempre dentro «il
paese d’origine ed un profondo desiderio di tornare»,
ostacolato da una maggiore sicurezza economica che turba il
suo equilibrio psicologico e lo blocca in una situazione di
stallo in cui non può né integrarsi né tornare indietro.79
Con questo tipo di considerazioni, nei primi anni
settanta, il dibattito scientifico sull’integrazione dei
meridionali si interrompeva bruscamente. Questo era
sicuramente l’effetto di una autocritica da parte di
psicologi e psichiatri, i quali in precedenza avevano avocato
la soluzione dei problemi apportati dall’immigrazione, ma ora
erano tacciati di essere espressione del potere delle classi
dominanti su degli oppressi. Le lotte operaie
dell’Autunno caldo intanto avevano cambiato i termini della
79 ROSSI, Aspetti psicogeni cit., p.108. C’è qui un implicito richiamo alconcetto «uomo marginale» elaborato da Robert Park già negli annitrenta in riferimento agli immigrati ebrei. L’uomo marginale vive alconfine tra due culture ed è diviso tra la nostalgia per quella cheha abbandonato e l’abitudine crescente alla nuova, per cui si trovamarginale rispetto a entrambi in modi di vita. Il risultato sarebbeuna personalità divisa, almeno fino a quando l’immigrato nonabbraccia definitivamente l’una o l’altra. Vedi R. E. PARK, Humanmigration and the marginal man, «American Journal of Sociology», 33,(1928), pp. 881-893. Per una critica vedi D. I. GOLOVENSKY, The MarginalMan Concept: An Analysis and Critique, «Social Forces», 30 (1952), pp.333-339.
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questione dell’integrazione meridionale. La spinta per la
riforma della società italiana, partita nelle università, si
era propagata proprio nelle grandi fabbriche settentrionali
che costituivano il banco di prova dell’inserimento del
meridionale nella società industriale. Alla Fiat, alla
Pirelli, il contributo dei meridionali era stato fondamentale
per ribaltare i rapporti di forza in officina.80
L’effetto dell’Autunno caldo, crediamo, fu quello di
smentire e rendere obsoleto un dibattito scientifico che
riduceva l’immigrato a un deviante, un elemento patologico
trapiantato in una società sana, un potenziale caso clinico.
Per la maggior parte questo dibattito non diede alcun
contributo alla soluzione dei problemi sociali derivanti
dalla massiccia immigrazione e mancò in molti casi anche la
presa di consapevolezza, che avrebbe potuto portare a una
scelta politica da parte degli studiosi, che le patologie
descritte erano distribuite diversamente tra le classi, con
una prevalenza in quelle più povere. Gli studiosi inoltre
applicarono le categorie nosografiche fornite
dall’elaborazione teorica senza utilizzare un approccio
pluralistico, cioè senza mettere sullo stesso piano la
cultura dell’immigrato con quella della società ricevente e
non colsero la funzione dell’azione collettiva come mezzo
d’integrazione perché partivano dal presupposto che non
sarebbero stati gli immigrati meridionali a cambiare la
società industriale, ma quest’ultima a cambiare quelli. La
carica ribellistica, durante e dopo l’Autunno caldo, di una
parte dei meridionali dimostrava che il loro inserimento
nella società industriale non passava soltanto attraverso la
80 Vedi nota 57.
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«settentrionalizzazione» di comportamenti sociali e
lavorativi, ma anche attraverso la loro contestazione.
Nicola
Pizzolato
(Università di
Palermo)
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