"Una situazione sado-masochistica ad incastro". Il dibattito scientifico sull'immigrazione...

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Quaderni storici, Anno 40, Nº 118, 2005 , pp. 97-120 “Una situazione sado-masochistica ad incastro”: Il dibattito scientifico sull’immigrazione meridionale dal miracolo economico all’Autunno caldo Verso la fine degli anni cinquanta l’Italia viveva la trasformazione epocale attraverso la quale è entrata a far parte del novero delle economie avanzate. La rapida crescita industriale del paese, tale da guadagnarsi l’appellativo di «miracolo economico», fu guidata dalle grandi imprese del triangolo industriale, le quali nel decennio appena trascorso avevano modificato i propri assetti organizzativi e ottenuto un generale aumento della produttività. Il miracolo italiano si situava entro un paradigma di sviluppo che a livello internazionale raggiungeva il suo culmine proprio negli anni sessanta. Le economie europee erano state infatti ricostruite dopo la seconda guerra mondiale sulla scorta di principi fordisti-keynesiani ispirati dai policy-makers americani, anche se il fordismo, nel suo aspetto produttivo, quale sistema di produzione di massa organizzata attraverso un misto di scientific management e alta tecnologia meccanica, era nato negli anni venti negli Stati Uniti. Dopo la guerra il fordismo come organizzazione in fabbrica si espandeva in alcuni paesi europei, inglobato a livello macro-economico nel modello di regolazione keynesiano che forniva strumenti di welfare, Sono debitore a Giovanna Fiume, Patrizia Guarnieri, Salvatore Lupo e agli anonimi referees di «Quaderni Storici» per i preziosi commenti e le critiche costruttive, rimango, naturalmente, responsabile del modo in cui le ho messe a frutto. 1

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Quaderni storici, Anno 40, Nº 118, 2005 , pp. 97-120

“Una situazione sado-masochistica ad incastro”: Il

dibattito scientifico sull’immigrazione meridionale dal

miracolo economico all’Autunno caldo

Verso la fine degli anni cinquanta l’Italia viveva la

trasformazione epocale attraverso la quale è entrata a far

parte del novero delle economie avanzate. La rapida crescita

industriale del paese, tale da guadagnarsi l’appellativo di

«miracolo economico», fu guidata dalle grandi imprese del

triangolo industriale, le quali nel decennio appena trascorso

avevano modificato i propri assetti organizzativi e ottenuto

un generale aumento della produttività. Il miracolo italiano

si situava entro un paradigma di sviluppo che a livello

internazionale raggiungeva il suo culmine proprio negli anni

sessanta. Le economie europee erano state infatti ricostruite

dopo la seconda guerra mondiale sulla scorta di principi

fordisti-keynesiani ispirati dai policy-makers americani, anche

se il fordismo, nel suo aspetto produttivo, quale sistema di

produzione di massa organizzata attraverso un misto di scientific

management e alta tecnologia meccanica, era nato negli anni

venti negli Stati Uniti. Dopo la guerra il fordismo come

organizzazione in fabbrica si espandeva in alcuni paesi

europei, inglobato a livello macro-economico nel modello di

regolazione keynesiano che forniva strumenti di welfare,

Sono debitore a Giovanna Fiume, Patrizia Guarnieri, Salvatore Lupoe agli anonimi referees di «Quaderni Storici» per i preziosi commentie le critiche costruttive, rimango, naturalmente, responsabile delmodo in cui le ho messe a frutto.

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incentivi economici e programmi di infrastrutture per

sostenere la domanda del mercato interno. 1

In Italia però questo sviluppo riguardava alcune aree ben

specifiche della penisola, in primis il nord-ovest, mentre

cresceva il divario tra l’Italia settentrionale e centrale e

quella meridionale. Nel 1951 l’inchiesta della Commissione

parlamentare sulla miseria in Italia aveva registrato nel

meridione un numero doppio di famiglie sotto la soglia di

povertà. Allo stesso tempo il tasso di fecondità delle

famiglie meridionali, e quindi la crescita della popolazione

locale, rimaneva di molto superiore al resto del paese.2 Tra

il 1955 e il 1970 questo gap economico e sociale si tradusse

in un flusso migratorio verso i poli industriali del nord che

coinvolgeva oltre tre milioni di meridionali.3 Torino, dove

confluirono 720.500 immigrati nello stesso lasso di tempo, si

1 Per il contesto italiano vedi G. CRAINZ, Storia del miracolo economico:culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Roma 1996; N. CREPAX,Storia dell’industria in Italia. Uomini, imprese e prodotti, Bologna 2002, pp.127-275.Sul fordismo-keynesianismo come modello di sviluppo del capitalismovedi S. IKEOA, World Production in I. WALLERSTEIN e T. HOPKINS (a cura di) TheAge of Transition: Trajectory of the World System, 1945-2025, London 1996, pp. 38-86; S. MARGLIN e J. SCHOR (a cura di), The Golden Age of Capitalism. Reinterpretingthe Postwar Experience Oxford 1991. Sulla traiettoia del fordismo vedi B.CORIAT, L’atelier et le robot: essai sur le fordisme et la production de masse a l’âge del’eletronique, Paris 1990; M. AGLIETTA, A Theory of Capitalist Regulation: the USexperience, London 1979; F. L. BLOCK, The Origins of International Economic Disorder:A Study of the United States International Policy Since World War II to the Present,Berkeley 1977; A. MADDISON, Phases of Capitalism Development, Oxford 1982.2 Inchiesta sulla miseria in Italia (1951-52). Materiali della commissione parlamentare, P.BRAGHIN (a cura di), Torino 1978, p. XV; G. DEMATTEIS, Le trasformazioniterritoriali e ambientali in Storia dell’Italia repubblicana, II, La trasformazione dell’Italia:sviluppo e squilibri, I, Politica, economia, società, Torino 1995; L. DEL PANTA, Lapopolazione italiana dal Medioevo a oggi, Bari 1996.3 U. ASCOLI, Movimenti migratori in Italia, Bologna 1979, pp. 117-127; E.REYNERI, La catena migratoria, Bologna 1980; A. GRAZIANI, L'economia italiana dal1945 ad oggi, Bologna 1979; E. PUGLIESE, Gli squilibri del mercato del lavoro inStoria dell'Italia Repubblicana. La trasformazione dell'Italia. Sviluppo e squilibri, Vol.II, Torino 1995, pp. 421-465, dello stesso autore L’Italia tra migrazioniinternazionali e migrazioni interne, Bologna 2002.

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aggiudicò la palma di terza città meridionale, dopo Napoli e

Palermo.4

Prima del miracolo economico l’urbanizzazione era

avvenuta gradualmente. Le grandi città assorbivano la

popolazione delle campagne circostanti senza conflitti

particolarmente acuti. Negli anni cinquanta e sessanta

l’afflusso massiccio di immigrati dal meridione ebbe invece un

impatto più complesso. Da un lato i meridionali costituivano

la manodopera della crescente espansione edilizia – nel 1962 a

Milano l’85% degli occupati in questo settore era costituito

da non residenti5 – e, negli anni sessanta, anche delle grandi

imprese metalmeccaniche e chimiche, organizzate secondo i

principi della produzione di massa. Quest’ultimo tipo di

occupazione avrebbe dovuto rappresentare l’apogeo del percorso

di integrazione del meridionale – viaggio che iniziava spesso

con un lavoro precario, senza previdenza sociale, e che

continuava nella piccola fabbrica, in una boita dell’indotto,

senza garanzie di continuità d’impiego. In questo i

meridionali che lavoravano al nord erano simili a tutti gli

altri emigrati che, durante il fordismo, furono sradicati

dalle zone socialmente «arretrate» ed economicamente depresse

del sistema-mondo, e attratti dalle regioni in cui erano

concentrati i settori più produttivi del capitalismo: i lavori

più sporchi, le mansioni più nocive, i salari più bassi, le

condizioni contrattuali più sfavorevoli, erano la posta da

pagare sul luogo di lavoro per chi intendeva inserirsi nella

società industrializzata.

4 M. MERIGGI, Breve storia dell’Italia settentrionale, Roma, 1996, p.127;statistiche sull’immigrazione a Torino sono riportate in F. LEVI,L’immigrazione in Storia di Torino, IX - Gli anni della Repubblica, Torino 1999,p.163.5 M. PACI, Mercato del lavoro e classi sociali in Italia, Bologna 1973, p. 27.

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Dall’altro lato, la cronaca giornaliera delle metropoli

del triangolo industriale mostrava che l’impatto

dell’immigrazione non si esauriva nel suo contributo

nell’ambito della produzione. Essa creava inediti problemi

relativi alla trasformazione dei quartieri residenziali,

all’insufficienza dei servizi e all’inserimento sociale degli

immigrati. «Trovare un luogo in cui abitare [era] fra i più

angosciosi e forse il più immediato problema di fronte al

quale [era] posto l’immigrato al suo arrivo».6 Un ripiego

momentaneo poteva essere costituito dal posto letto in una

pensione sovraffollata, luogo che poteva diventare occasione

di una prima socializzazione7, ma che serviva solo per dormire

e di solito veniva concesso a un prezzo molto esoso. Sul

mercato delle case invece gli immigrati erano stretti, per

esempio nel caso di Torino, fra la difficoltà di prendere in

affitto gli appartamenti ben curati delle zone residenziali

della piccola borghesia (difficoltà esemplificata dai famosi

cartelli con la scritta «Non si affitta ai meridionali») e

dall’altro dalla necessità di doversi accontentare degli

alloggi decrepiti e affollati del vecchio centro (dove i

padroni di casa erano ben lieti di affittare ai meridionali) o

sperare nei conglomerati recentemente nati nelle periferie o

fuori dai confini della città. A Milano queste zone presero il

nome di «coree». In esse la degradazione e l’affollamento

erano tali da rendere gli osservatori pessimisti su effettive

possibilità di miglioramento: nella «corea» gli immigrati

erano vincolati «a forme di vita sia materiali che morali,

rigide, dalle quali diventa impossibile per essi uscire e

6 M. TALAMO, L’inserimento socio-urbanistico degli immigrati meridionali a Torino inCRIS, Immigrazione e industria, Milano 1962, p.184.7 Lo spiega molto bene L. BALBO, Un aspetto dell’integrazione sociale degli immigratiin una grande città, «Quaderni di sociologia», XI (1962), pp.298-319.

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liberarsi».8 A Torino negli anni sessanta e settanta la

reputazione dei quartieri di Falchera e delle Vallette era

indicativa dello stigma di emarginazione che caratterizzava

gli immigrati. Questi quartieri di edilizia pubblica, abitati

per circa l’ottanta percento da meridionali, erano stati

progettati come unità autosufficienti, ma in realtà mancavano

di infrastrutture e soprattutto di collegamenti con il tessuto

urbano, con il risultato di diventare, de facto, un’area di

segregazione per fasce di popolazione socialmente

indesiderate.9 La questione degli alloggi per gli immigrati

meridionali si legava del resto al problema più ampio

dell’espansione non pianificata, tra laissez-faire e

speculazione, che caratterizzò le grandi città italiane

all’epoca del boom.10

Alla fine degli anni cinquanta c’era un consenso

pressoché unanime sul fatto che l’immigrazione meridionale,

certe volte inquadrata nel generale movimento demografico

dalla campagna alla città, sarebbe stata portatrice di

cambiamenti radicali nell’assetto urbano, sociale ed economico

del paese. L’incontro tra immigrati e residenti comportò siaepisodi di contrapposizione sia di accomodamento, ma le

tensioni che si svilupparono attorno alla trasformazione dei

quartieri e al mercato del lavoro contribuirono a irrigidire

8 L. DIENA, Borgata Milanese, Milano 1963, p.146. Vedi anche F. ALASIA e D.MONTALDI, Milano, Corea, Milano 1960; J. FOOT, Milan Since the Miracle. City, Cultureand Identity, Oxford 2001. 9 Per le statistiche vedi CRIS, Immigrazione e industria cit.; S. MUSSO, Illungo miracolo economico. Industria, economia e società (1950-1970) in Storia di Torinocit., p 59-61. Sui percorsi degli immigrati a Torino vedi Immigrazione etraiettorie sociali in città: Salvatore e gli altri negli anni sessanta in L’Italia delle migrazioniinterne, A. ARRU e F. RAMELLA (a cura di), Roma 2003, pp.339-385 e ingenerale i due volumi della Storia dell’emigrazione italiana, P. BEVILACQUA, A.DE CLEMENTI, E. FRANZINA, Roma 2001.10 A. DE MAGISTRIS, L’urbanistica della grande trasformazione (1945-1980) in Storia diTorino cit., pp. 209-226.

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gli stereotipi con cui si rappresentavano i meridionali.

L’intensa immigrazione nelle città del nord arrivava a

configurarsi come una minaccia all’identità delle comunità

riceventi. In molti casi, la stampa locale, presentando gli

uomini del sud come individui culturalmente arretrati e

soggetti a passioni irrefrenabili,11 alimentava un pregiudizio

etnico latente nutrito, nella prima metà del secolo, della

divulgazione dell’antropologia e della criminologia di Cesare

Lombroso e Alfredo Niceforo, i quali caratterizzavano i

meridionali come appartenenti ad uno stadio inferiore

dell’evoluzione sociale.12

In questo periodo, quando la questione dell’integrazione

degli immigrati diventò la preoccupazione di amministratori

locali, funzionari del partito e del sindacato, della Chiesa

cattolica e in generale dell’opinione pubblica, i meridionali

diventarono oggetto privilegiato di ricerca per le scienze

sociali. Ciò accadde in un momento in cui in Italia la

sociologia, la psicologia e la psichiatria stavano recependo

dalla letteratura statunitense l’interesse per il problema

dell’integrazione degli immigrati che aveva caratterizzato

oltreoceano queste discipline.

L’influenza americana

I grandi movimenti migratori transoceanici della fine

dell’Ottocento avevano per la prima volta posto la questione

di una psicopatologia tipica del migrante. Inventando la

11 Del ritratto negativo degli immigrati fornito dalla stampa locale aveva già parlato F. COMPAGNA, Migrazioni interne e sociologia populista, «Quaderni di sociologia rurale», 1, 1961, pp.5-17. 12 V. TETI, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, Roma 1993; J.DICKIE, Darkest Italy. The Nation and the Stereotypes of the Mezzogiorno, London 1999.

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categoria nosologica di «aliéné voyageur er migrateur»,

Achille Foville descriveva individui affetti dalla «monomania

dei viaggi» o «lipemania».13 Come direttore del manicomio di Le

Havre, un porto translatlantico, Foville aveva avuto modo di

osservare dieci casi di uomini che avevano avuto intenzione di

emigrare o per sfuggire alla persecuzione di nemici immaginari

o per mania di grandezza, nella speranza di portare a termine

grandi e ambiziosi progetti. Il loro desiderio di mobilità

geografica era sintomo di uno stato patologico, anche se lo

psichiatra osservava che il delirio del quale erano vittima

questi malati era talmente lucido che la loro scelta sembrava

ragionata, derivata da una riflessione. Tuttavia

l’associazione tra migrazione e malattia mentale diventò un

caposaldo della disciplina e servì nei decenni successivi a

stigmatizzare gli emigranti come individui instabili, con una

personalità premorbosa già nel luogo di origine. Nella clima

antisemita dell’ affaire Dreyfus quest’etichetta venne utilizzata

da Philippe Tissié e Henry Meige, quest’ultimo psichiatra alla

Salpêtrière di Parigi, per caratterizzare gli ebrei dell’est

europeo che arrivavano in Francia sfuggendo a delle (reali)

persecuzioni e dare quindi legittimità scientifica al mito

dell’«ebreo errante».14 Intanto in Italia, il Professor Lener

del Manicomio Interprovinciale di Nocera Inferiore scriveva

che «il fenomeno dell’immigrazione, sia questa permanente che

13 A. FOVILLE fils, Les aliénés voyageurs ou mirateurs. Etude clinique sur certains cas delypémanie, «Annales Médico-psychologiques», 14, (1875), pp. 5-45; perun breve saggio sull’argomento vedi S. MELLINA, L’emigrante alienato di fineOttocento tra necessità economica e realtà storica: a proposito della lipemania migratoriain F. M. FERRO (a cura di), Passioni delle mente e della storia, Milano 1989, pp.409-419.14 P. TISSIÉ, Les Aliénés Voyageurs: Essai medico-psychologique, Paris 1887; H. MEIGE,Le Juif-errant à la Salpêtrière. Etude sur certains névropaths voyageurs, «Nouvelle Iconographie de la Salpêtrière », 6, (1893), pp. 182- 206; J. GOLDSTEIN, The Wandering Jew and the Problem of Psychiatric Anti-Semitism in Fin-de-Siècle France, «Journal of Contemporary History», 20 (1985), pp. 521-552.

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periodica, quando investe intere regioni, rappresenta

l’indizio più sicuro d’inferiorità economica, causa prima

dell’inferiorità psico-sociale di un individuo come di un

popolo».15 La psichiatria degli inizi del secolo aveva quindielaborato un approccio all’immigrazione in cui lo stigma della

malattia e quello della povertà si sovrapponevano.

Ancora negli anni trenta il norvergese Oedegaard,

mediante un confronto fra i suoi connazionali emigrati negli

Stati Uniti e la popolazione in patria, spiegava la maggiore

incidenza di schizofrenia tra i trapiantati come «emigrazione

selettiva di soggetti predisposti».16 Questa interpretazione di

un dato statistico che sembrava ineluttabile, la maggiore

incidenza di internati immigrati rispetto al loro peso

relativo nel paese di accoglienza, rappresentava allora un

argomento progressista rispetto alla teoria di derivazione

eugenetica che gli immigrati di alcuni paesi rappresentassero

uno «stock» umano di qualità inferiore e quindi

indesiderabile. Tali teorie avevano avuto il loro peso

nell’approvazione delle leggi, tra il 1919 e il 1924, che

restringevano le quote di immigrazione negli Stati Uniti per

specifici gruppi etnici. Queste leggi discriminanti erano

state suffragate da una serie di studi psicometrici che,

misurando il quoziente d’intelligenza, pervenivano alla

conclusione di una inferiorità delle razze mediterranee e

slave rispetto a quelle «alpine» e nordiche.17

15 A. LENER, Le malattie mentali e le correnti migratorie dell’Italia Meridionale in «IlManicomio», Nocera Inferiore, fasc. 2 e 3 (1908) citato in G.INGRASSIA, Su alcune problematiche di igiene mentale in tema di psicopatologia ecriminologia negli eimigrat italiani con particolare riferimento a quelli siciliani, «IgieneMentale», XV (1971), p.1114.16 O. OEDEGAARD, Emigration and mental health, «Mental Hygiene», n. 20, (1936), pp. 546-553.17 G. L. BROWN, Intelligence as related to nationality, «Journal of educationalresearch», V, (1922), p. 324-327; K. YOUNG, Intelligence tests of certain

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Il passaggio da un’interpretazione delle patologie

sociali incentrata sulla razza o sull’etnia a

un’interpretazione «ecologica» imperniata sullo studio di

fattori ambientali la stavano preparando, nella prima metà del

XX secolo, i sociologi della Scuola di Chicago i quali

approfondirono il tema del disordine urbano e

dell’integrazione degli immigrati nella città. Il problema

dell’immigrazione stava infatti all’origine della sociologia

degli Stati Uniti, un paese che si era costituito attraverso

successive ondate migratorie e in cui era diventata cruciale

la questione dell’integrazione. Diversamente dalla psichiatria

e dalla psicologia, la sociologia si prefiggeva di «curare»

non la devianza individuale, ma quella collettiva, che si

esprimeva nel conflitto di classe come manifestazione

patologica del vivere sociale. La nuova interpretazione che

inquadrava l’origine della malattia dell’individuo nella sua

relazione con l’ambiente offriva più di un ponte di

collegamento fra queste discipline, come testimoniava la

nascita di sub-discipine come la psicologia sociale e

psichiatria sociale.18

Albion Small, William I. Thomas, Robert E. Park e Ernest

Burgess, per citare solo i più famosi, erano i fautori, in

quello che era uno dei primi dipartimenti di sociologia negli

Stati Uniti, di un imponente programma di ricerca concernente

la città e la sue trasformazioni.19 Chicago era all’epoca nelimmigrant groups, «Scientific monthly», 15, (1922), p. 417-434. Per unquadro complessivo vedi J. HIGHAM, Strangers in the Land: Patterns of AmericanNativism, 1860-1925, New Brunswick, NJ 1988.18 Per una storia di queste discipline rimando a H. W. DUNHAM, SocialPsychiatry, «American Sociological Review», 2 (1948), pp. 183-197 e J.S. HOUSE, The three faces of social psychology, «Sociometry», 2 (1977), pp. 161-177.19 Un compendio delle teorie della Scuola di Chicago può essereconsiderato R. E. PARK e E. W. BURGESS, Introduction to the Science of Sociology,Chicago 1921. Sull’importanza scientifica della Scuola di Chicago

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pieno di una smisurata espansione basata sull’industria

siderurgica, su quella delle carni in scatola e sul fatto di

essere il centro di smistamento dei commerci del Midwest

americano. Tra l’anno di nascita del dipartimento (1893) e la

Depressione, la città vide l’arrivo di varie ondate di

immigrati polacchi, italiani, ucraini, e greci.20 Il programma

scientifico del dipartimento, elaborato da Park in un famoso

articolo, auspicava l’esame della «organizzazione industriale»

e dell’ «ordine morale» della città e lo studio sia del

controllo sociale sia della disorganizzazione sociale. 21 Per

questo gruppo di studiosi l’inserimento di un individuo

estraneo entro un nuovo gruppo sociale passava attraverso una

fase di conflitto e una di accomodamento, per andare

irreversibilmente verso l’assimilazione. La preoccupazione

degli studiosi americani riguardava la relazione fra i valori

della società di accoglienza e la capacità individuale di

adattamento, piuttosto che l’interazione fra i vari gruppi di

cui era composta la società. Questo approccio caratterizzò

tutta la letteratura statunitense sugli immigrati nel

ventennio fra le due guerre. Una pietra miliare fu costituita

dallo studio di William I. Thomas e Florian Znaniecki sugli

immigrati polacchi, nel quale, di nuovo, l’oggetto d’indagine

era il processo individuale di adattamento. Al centro

dell’analisi del Polish Peasant in Europe and America, un libro

destinato a fare scuola per l’uso innovativo di documenti

personali e per i suoi aspetti metodologici, non vi era la

comunità di immigrati, ma l’individuo, il contadino polacco,

vedi D. MARTINDALE, American sociology before World War II, «Annual Review ofSociology», 2 (1976), pp. 121-143.20 Vedi M. D’ERAMO, Il maiale e il grattacielo. Chicago: una storia del nostro futuro, Milano 2002.21 R. E. PARK, The city: suggestions for the investigation of human behavior in the urban environment, «American Journal of Sociology», 20 (1915), pp. 577-612.

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che in essa non era più controllato o sostenuto

psicologicamente ed era perciò portatore di disorganizzazione

e di anomia.22

Soltanto nel dopoguerra, soprattutto con i lavori di

Malzberg e Lee, si consolidava il nuovo paradigma

interpretativo della correlazione fra immigrazione e malattia

mentale.23 I due studiosi sostenevano, sulla scorta di

confronti fra campioni di individui di diverse ondate

migratorie negli Stati Uniti, che la predisposizione degli

immigrati ad ammalarsi esisteva, ma era più bassa di quanto

potesse apparire. La condizione che invece appariva

discriminante era quella economica, in quanto i soggetti

destinatari di sussidi di disoccupazione, fossero essi nativi

o immigrati, bianchi o neri, presentavano un tasso di

morbilità mentale più che doppio rispetto agli individui

economicamente autosufficienti. L’ipotesi che si affermava era

quindi che la malattia mentale fosse causata dalla reazione

dell’individuo al nuovo ambiente, incluso il suo grado di

adattamento al sistema economico. Alle stesse conclusioni

arrivavano altri studi relativi ai casi di Francia, Germania e

Israele, paesi anch’essi interessati da un grande flusso

immigratorio negli anni cinquanta.24

Scienze sociali e medicina trovavano un punto d’incontro

nella psicologia sociale, disciplina che diventò importante

negli studi sull’immigrazione proprio quando si cominciarono a

definire i problemi dell’integrazione come inerenti il22 W.I. THOMAS e F. ZNANIECKI, The Polish Paesant in Europe and America, Boston1919.23 Vedi B. MALZBERG, E.S. LEE, Migration and Mental Disease, New York 1956.24 R. CLEMENS, G. VOSSE-SMAL, L. MINON, L’assimilation culturelle des immigrants en Belgique, Liege 1953; A. GIRARD e J. STOETZEL, Français et Immigrés, Paris 1953; S. N. EISENSTADT, The absorption of immigrants, London 1954; Y. CHAMPION,Migration et maladie mentale, Parigi 1958; W. D BORRIE, The cultural integration of Immigrants, Parigi 1959.

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raggiungimento di un equilibrio all’interno dell’individuo e

la sua personale identificazione con la comunità ricevente.

D’altronde si trattava di una disciplina dai confini piuttosto

mobili alla quale, ponendo l’accento sull’una o l’altra delle

sue componenti, contribuirono sia psicologi sia sociologi.25

Questi testi nel dopoguerra venivano recepiti in Italia

attraverso le riviste specializzate e tramite compendi di

sintesi; 26 tardive invece erano le traduzioni proposte dagli

editori solo alla fine degli anni sessanta, contemporaneamente

all’istituzione dei primi corsi di laurea in sociologia. Per

esempio, quando nel 1968 viene pubblicata, da Edizioni di

Comunità, la traduzione dello studio di Thomas e Znaniecki,

Luciano Gallino nell’introduzione la descrive già come

«un’opera che [...] ha contribuito a stabilire le direzioni in

cui si svolge [la nostra ricerca e] le categorie che gli danno

senso».27 Con strumenti intellettuali di tale provenienza e

consistenza si analizzeranno in Italian i problemi

psicopatologi determinati dalle migrazioni interne e dal

massiccio inurbamento. Essi prendevano come punto di partenza

l’individuo, descrivendo la sua esperienza in termini di

adattamento, aggiustamento e assimilazione. Nessuno

considerava che la letteratura americana (e anche quella nord-

europea) nascondeva un’insidia per i ricercatori nostrani:

essa si riferiveva all’immigrazione di gruppi etnici diversi

da quello nativo. Interpretando le migrazioni interne con

questi modelli, senza porre la questione esplicitamente, si25 Vedi HOUSE, cit.26 Come quello di L. ANCONA, La psicologia sociale negli Stati Uniti d’America, Milano 1956.27 W. I. THOMAS, F. ZNANIECKI, Il contadino polacco in Europa e in America, Vol. I eII, Milano 1968. Degli altri esponenti della Scuola di Chicagotroverà pubblicazione in quel periodo, sempre per le Edizioni diComunità , solo R. E. PARK, E. W. BURGESS, R. D. MCKENZIE, La città, Milano1967.

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proponeva un’immagine dell’immigrato meridionale come

appartenente a un’etnia diversa da quella settentrionale,

trascurando altri cleavages, come ad esempio quello di classe,

con il quale pure si sarebbe potuta costruire la differenza.

Il problema dell’integrazione

Una parte delle ricerche prodotte sulla questione

dell’immigrazione aveva un carattere meramente descrittivo.

Per esempio, le indagini sul pregiudizio etnico classificavano

scientificamente atteggiamenti largamente noti. Alla fine

degli anni cinquanta, nell’ambito di dissertazioni più

teoriche sul pregiudizio sociale, furono lo psicologo Renzo

Canestrari e il suo allievo Marco Batacchi a occuparsi più

specificamente del pregiudizio antimeridionale che, come si

evinceva dalla pubblicistica, sembrava diffuso nei

settentrionali di ogni classe e orientamento politico.28

Batacchi aveva accertato che la percezione della diversità del

meridionale si ancorava a certe differenze somatiche e

biologiche come il colore della pelle, le fattezze del viso,

la statura, ma che il pregiudizio che colpiva i meridionali

non era di natura razziale, bensì culturale. Non c’era dubbio

– questo era una dato acquisito anche dalle opere di

divulgazione29 – che fosse l’ambiente sociale e non la natura

ad avere condizionato in tal modo i meridionali. D’altro canto

le argomentazioni lombrosiane di una presunta inferiorità28 R. CANESTRARI, La psicologia del pregiudizio sociale, «Rassegna di psicologiagenerale e clinica» n.1, IV, (1959), p.10; M. BATACCHI, Meridionali eSettentrionali nella struttura del pregiudizio etnico in Italia, Bologna 1959, 1972.29 Vedi per esempio C. DI NAPOLI, I meridionali al Nord, Roma 1967 a p.101 «Ilmeridionale, si sa, ha ereditato dall’ambiente in cui è nato unattaccamento verso la famiglia che è altrove ritenuto eccessivo. […]Notorio è il rigore moralistico con cui il meridionale e l’isolanovigila assiduamente sulla fedeltà della consorte».

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della «razza» meridionale non potevano essere riproposte nel

dopoguerra, quando l’esperienza delle leggi razziali e

dell’Olocausto aveva reso spinoso ogni discorso razzista.

Nei questionari raccolti da Batacchi, meridionali e

settentrionali si etichettavano reciprocamente come: gelosi,

focosi, impulsivi, diffidenti (i primi) ovvero pratici,

attivi, tenaci, volitivi, previdenti (i secondi). Sebbene i

pregiudizi fossero reciproci, erano i meridionali a soffrire e

interiorizzare lo stigma sociale. La ricerca metteva in luce

che il fastidio di avere dei rapporti sociali con un

meridionale era superato soltanto dal fastidio di poter essere

scambiato per un meridionale. Questa osservazione sarebbe stata

confermata qualche anno più tardi da uno studio dell’IRES

(Istituto Ricerche Economico-Sociali) che segnalava un basso

tasso di «matrimoni misti» fra settentrionali e meridionali e

una scarsa socializzazione fuori dal lavoro. Il presupposto

che a un pregiudizio segua necessariamente un comportamento

ostile forse non era preciso, ma fu quello che spinse Batacchi

ad affermare pessimisticamente: «i risultati mettono a nudo

una radicale ostilità collettiva» nei confronti

dell’immigrazione meridionale.30

Lo studio di Batacchi presentava il pregiudizio etnico

come un dato di fatto incontrovertibile. Batacchi non offriva

soluzioni, ma cercava di descrivere il più scientificamente

possibile una situazione. Nel descrivere Batacchi individuava

anche, senza dargli un giudizio di valore, un processo in

corso: il superamento dello stigma avveniva attraverso la

«settentrionalizzazione» del meridionale e si trattava di un

processo individuale, non collettivo. La struttura della

30 IRES, Immigrazione di massa e struttura sociale in Piemonte, Torino 1965, pp.276-279; BATACCHI, Meridionali e settentrionali cit. p. 65.

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relazione fra le due culture era quella, scriveva Batacchi, di

due poli binari in opposizione. Non vi era mediazione, solo la

possibile transizione di un individuo che addomesticava la

propria estraneità, rinunciando alle caratteristiche del suo

essere meridionale colpite da pregiudizio.31

Si trattava di integrazione culturale? Questa locuzione non

può essere confusa con la multiculturalità, nel senso di

coesistenza di due culture diverse, una maggioritaria, l’altra

necessariemente minoritaria, in uno stesso spazio sociale. Per

la prospettiva sociologica prevalente negli anni sessanta e

settanta il concetto di integrazione non contemplava

l’interazione tra modelli culturali. Nel senso di mera

integrazione di un individuo «altro» in una data cultura, essa

somigliava piuttosto all’assimilazione, e quindi alla rinuncia

da parte di quell’individuo degli elementi caratterizzanti la

sua cultura di origine.32 Talvolta invece si distingueva

l’integrazione culturale, che implicava la soluzione

nell’individuo del conflitto tra le norme e i valori della cultura

di appartenenza e quelli della cultura d’arrivo, da

un’integrazione sociale, vista come processo meno

problematico, che necessitava solo della risoluzione di

difficoltà oggettive, quali il lavoro o la casa.33 In ogni caso

31 ibid. p.80.32 Come ha spiegato Michaele Eve, a livello internazionale latradizione sociologica di studi sulle migrazioni ha focalizzatol’interesse anche delle altre discipline sulla distanza culturale trala popolazione «normale» e quella immigrata con il risultato di unagrande divario fra i metodi impiegati per lo studio dell’una edell’altra. Vedi M. EVE, Una sociologia degli altri e un’altra sociologia: la tradizionedi studio sull’immigrazione, «Quaderni storici», 1, (2001), pp. 233-259.33 Vedi M. PACI, L’integrazione dei meridionali nelle grandi città del Nord, «Quadernidi sociologia», 4 (1964), pp.341-349. In quegli anni due libri digrande diffusione avevano denunciato le condizioni disagiate degliimmigrati nelle città settentrionali G. FOFI, L’immigrazione meridionale aTorino, Milano 1963 e L. CAVALLI, L’immigrazione meridionale e la società ligure,Milano 1964.

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l’impostazione dominante nella letteratura sociologica,

psicologica e psichiatrica sugli immigrati meridionali era

quella di definire i problemi dell’immigrazione in termini di

mancata integrazione, intesa nell’accezione di inserimento

monodirezionale nella società di arrivo. Durante gli anni

sessanta, in maniera molto benevola e sotto il manto di una

pretesa obiettività, le scienze sociali in Italia proporranno

l’immigrato non-integrato come un deviante e si dedicheranno

ad analizzarne cause, estensione ed effetti.

I termini di questa rappresentazione sono già contenuti

nelle tesi, di grande successo, di Francesco Alberoni,

elaborate tra il 1962 e il 1966, sulla «socializzazione

anticipatoria» dell’immigrato. Il meridionale che partiva per

il settentrione, affermava Alberoni, era già preparato ad

affrontare un nuovo stile di vita perché la partenza implicava

un rifiuto «dell’antica società» e un’accettazione, appunto

anticipata, dei valori e dei comportamenti della società

industriale assimilati già nel luogo di origine attraverso i

media e i resoconti dei parenti emigrati.34 L’analisi di

Alberoni era quindi apparentemente ottimista. La

«socializzazione anticipatoria» era un meccanismo che riduceva

la distanza culturale. Proprio grazie a questo processo

l’immigrato meridionale non formava comunità chiuse nelle

città del settentrione, come accadeva all’estero, per esempio

negli Stati Uniti, a causa della mancata previa

socializzazione. Il basso indice di matrimoni misti non era da

considerare di per sé significativo di mancata integrazione,

perché «giocano in queste cose svariati elementi come

conoscenze precedenti, gusti erotici, empatie a livello

34 F. ALBERONI e G. BAGLIONI, L’integrazione dell’immigrato nella società industriale,Bologna 1966, pp. 11-24.

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preconscio o inconscio, che orientano la scelta verso persone

del proprio ambiente originario».35 Il sociologo non sembrava

considerare l’empatia e l’attrazione fisica fra due gruppi

etnici come indici utili per misurare la distanza o la

prossimità sociale.

Le indagini di Alberoni arrivavano a questi risultati

perchè si basavano sull’osservazione di impiegati e

professionisti, tra cui gli immigrati bresciani e quelli

meridionali non si distinguevano affatto quanto

all’accettazione della nuova realtà e alla necessità di

lasciarsi alle spalle i propri conterranei. Purtroppo queste

due categorie professionali rappresentavano, nel momento in

cui scriveva il sociologo, una percentuale trascurabile

dell’immigrazione meridionale che, nella stragrande

maggioranza, confluiva invece nella manodopera non

qualificata. Era quindi presumibilmente proprio alla

maggioranza di immigrati che Alberoni si riferiva quando

individuava i rischi del mancato adattamento dell’immigrato,

sfociante in una situazione socialmente pericolosa di anomia.

Il superamento del gap socio-culturale fra la società di

partenza e quella di arrivo richiedeva un «notevole impegno

di energia psichica». Questo obiettivo però non era sempre

raggiungibile a causa della situazione frustrante in cui

l’immigrato si trovava.36 Questa inadeguatezza poteva portare

così a un comportamento anomizzante che, a sua volta, causava35 ibid. p. 113.36 «La differenza culturale e strutturale della società ospiterispetto a quella di provenienza pone all’immigrato un compito dicomprensione molto grande al quale egli è, il più delle volte,sprovveduto, sia perchè è vissuto in un ambiente in cui non è maistato stimolato alla comprensione e non è mai stato educato a farlo,sia perchè è impegnato in un compito di sopravvivenza per sè e per lasua famiglia sempre urgente, ma spento e spesso drammatico. Ben pochesono le energie intellettuali che egli può dirottare nello sforzo diconoscere e comprendere». Ibid., p. 26.

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ostilità da parte della comunità ricevente, aumentando la

frustrazione e il senso d’inadeguatezza dell’immigrato. Per

interrompere questo circolo vizioso, qualora esso si fosse

instaurato, Alberoni proponeva di intervenire, da un lato,

attraverso la lotta al pregiudizio antimeridionale,

dall’altro, nelle comunità di partenza, con l’educazione

civica, con la quale egli intendeva, «non tanto la conoscenza

dell’ordinamento giuridico o delle norme del vivere civile,

quanto aspetti più trascurati come ad esempio, ciò che uno

deve aspettarsi e come deve comportarsi quando vive ed opera

in un’organizzazione, la natura dei rapporti di autorità, [..]

cosa significa eleggere e rispettare il volere della

maggioranza».37 In altre parole, se non vi era stata una

socializzazione anticipatoria, bisognava far sì che essa

avesse finalmente luogo.

Se l’analisi di Alberoni era inficiata dalla non

rappresentatività del campione selezionato, l’assunto che

l’immigrato non assimilato fosse portatore di disordine

morale e di criminalità era però radicato in molti altri

interventi scientifici sul tema. Un leit-motiv era la

convinzione che l’onere dell’integrazione spettasse

all’immigrato, attraverso un difficile adeguamento

psicologico che però lo rendeva un individuo fragile,

soggetto a impulsi irrazionali, turbe psichiche e

comportamenti antisociali. In una comunicazione al Congresso

di Psicologia sociale del 1958 un relatore avvertiva che il

tentativo di integrazione del meridionale nel settentrione

dava luogo a un aumento delle loro forme nevrotiche e

37 Ibid., p. 32.

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all’esasperazione di loro peculiari aspetti caratteriali,

quali l’atteggiamento «oniroide».38

Il primo Istituto di Psicologia sociale veniva fondato

nel 1962 a Torino, una delle città maggiormente investite da

questa trasformazione. La direttrice, Angiola Massucco Costa

(comunista estudiosa della psicologia sovietica), che aveva

dedicato decennali ricerche al problema dello stereotipo del

meridionale fu la prima a segnalare che la ricerca

psicologica sullo stereotipo rischiava di andare nella

direzione di attribuire alla personalità del meridionale una

congenita diversità, se pur derivante dalle caratteristiche

culturali della società di origine, mentre si finiva per

indicare nella personalità del settentrionale un modello da

imitare, desiderabile e positivo.39 Una preoccupazione simile,

nel contesto nord americano, era stata espressa qualche anno

prima, da una voce dissidente nel panorama della sociologia

statunitense, Charles Wright Mills, il quale aveva

qualificato quegli stessi studiosi che poi influenzeranno la

letteratura italiana come «patologi sociali». Essi definivano

i problemi sociali in termini di devianza dalle norme della

società, considerandole come date e identificandole con i

valori e gli ideali della middle class americana, senza

considerare che le norme stesse sono prodotte

dall’interazione tra gli individui e che esse appunto si

trasformano in conseguenza di tale interazione. In questa

logica, il cambiamento repentino delle norme di una data38 Riportato da A. MASSUCCO COSTA, Intervento, «Rivista di psicologia»,n.1, LIX (1965), p. 188.39 A. MASSUCCO COSTA, A. FONZI, Schema di ricerca sullo “stereotipo” del meridionale,«Rivista di psicologia sociale», I, (1954); A. MASSUCCO COSTA, La“differenza biologica” e l’immagine dinamica degli stereotipi razziali e nazionali, «Rivistadi psicologia sociale», IV (1957); Stereotipi e pregiudizi nel controllo deicomportamenti, «Rivista di psicologia sociale», IV (1957); Intervento,«Rivista di Psicologia», n.1, LIX (1965).

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comunità, causato dall’arrivo di un gruppo di immigranti era

visto come un fenomeno patologico, effetto del mancato

adattamento dell’individuo o dell’incapacità della società di

assimilarlo.40

Nonostante questi richiami, per tutti gli anni sessanta

e un po’ oltre, la ricerca avrebbe comunque accolto il

presupposto di una «differenza» del meridionale da indagare

allo scopo di facilitare il suo inserimento nella società

industriale. Ancora alla fine del decennio la ricerca di

Luigi Ancona (ordinario di Psicologia all’Università

cattolica di Roma) e dei suoi collaboratori partiva dal

presupposto che «i problemi dell’integrazione sono correlati

alla «disposizione mentale» del soggetto al momento della

partenza dalla zona di esodo e del suo arrivo in quella di

insediamento».41 Lo studioso tornava sull’argomento

dell’integrazione, in un momento (i primissimi anni settanta)

di grande fermento sociale a forte protagonismo meridionale,

ribadendo la necessità e il ruolo sociale della psicologia e

della psichiatria. A suo modo di vedere le difficoltà di

integrazione dell’immigrato meridionale, «portando a

incomprensioni, tensioni, sfruttamenti, conflitti e infortuni

sul lavoro che si manifestano sul piano sociale […]

rappresentano un tipico problema ai limiti fra Igiene Mentale

e Criminologia».42 La sua ricerca si basava sulla misurazione

comparata del livello di intelligenza, della strategia

decisionale e dell’equilibrio emotivo di bambini dell’Italia

meridionale, centrale e settentrionale, i risultati venivano

40 C. WRIGHT MILLS, The Professional Ideology of Social Pathologists in «The AmericanJournal of Sociology», 2, (1943), pp.165-180.41 L. ANCONA, R. CARLI, E. SCHWARZ, Aspetti psicologici e psicopatologici dei processi dimigrazione in «Archivio di psicologia, neurologia, e psichiatria»,n.3, (1971), p. 357.42 Ibid. p.355.

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poi applicati allo studio delle relazioni tra emigrati

meridionali e popolazioni di accoglienza settentrionali.

L’obiettività scientifica era garantita dall’utilizzo di test

di intelligenza culture free, come quello messo a punto da John

Raven e diventato popolare negli Stati Uniti da almeno un

decennio. Questo test, detto delle matrici progressive, si

basava sul riconoscimento di forme geometriche, per evitare

l’etnocentrismo riconosciuto insito nei test basati su forme

verbali.43 L’adozione del test di Raven dimostrava che gli

psicologi sociali italiani avevano recepito i più moderni

strumenti analitici sviluppati oltreoceano, ma allo stesso

tempo testimoniava una residua fiducia che potessero esistere

metodi d’indagine obiettivi, immuni dai preconcetti

culturali dei ricercatori. Oggi si riconosce che anche gli

elementi non verbali su cui si basa il test di Raven sono

costrutti che non esistono in tutte le culture, si apprendono

nei primi anni di scuola e quindi sono più facilmente

riconoscibili da individui scolarizzati.44

Prevedibilmente, la ricerca accertava che il livello

intellettivo dei bambini meridionali era inferiore alla media

italiana e stabiliva una correlazione inversamente

proporzionale tra il livello d’intelligenza e i conflitti

emotivi dell’individuo e tra questi due e il grado di

sicurezza di sè. Naturalmente, ciò non era spiegabile con una

deficienza ereditaria; era piuttosto l’ambiente depresso che

si rifletteva sulla dinamica evolutiva del meridionale:

«Nell’Italia Meridionale emerge – secondo Ancona – non solo

una scarsa dotazione intellettuale dell’infanzia, ma un

orientamento generale all’insicurezza depressiva, che43 L. J. CROBACH, Essentials of Psychological Testing, New York 1970.44 E. BENSON, Intelligence across cultures, «Monitor on Psychology», n.2, Vol.34, (2003), p. 56.

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ostacola l’utilizzazione produttiva delle sia pur limitate

risorse presenti ed impedisce e rallenta ogni ulteriore

evoluzione nell’ambito di questa zona».45 Ci possiamo chiedere

se non fosse rintracciabile un’eco di biologismo nell’effetto

determinante e paralizzante dell’ambiente, dai caratteri

immutabili, in cui si sviluppava anormalmente la personalità

del meridionale quando si affermava che «la conflittualità

presente in Italia Meridionale, incarcerata in un sistematico

sforzo introiettivo, inibisce l’attivazione

dell’intelligenza».46 Ancona si riferisce qui a una

conflittualità interiore, affettiva, generata dallo scarso

equilibrio emotivo del meridionale, non a una conflittualità

sociale: è sempre l’individuo, seppure a campione, non il

gruppo a essere oggetto d’indagine.

Date queste premesse, l’incontro dell’immigrato del Sud

con l’ambiente del Nord non poteva che essere drammatico.

Vale la pena di citare un passo che ne descrive le

conseguenze.

L’inserzione fra emigrati e popolazione del luogo di

immigrazione si costituisce più precisamente a causa

delle rispettive dinamiche, come una situazione sado-

masochistica ad incastro: masochistica per i soggetti del

Sud, che inseriscono nella propria dinamica depressiva ed

autocritica l’eccessiva sicurezza dei soggetti del Nord.

Sadica in questi ultimi, che attuano la propria dinamica

paranoidea col fatto di accogliere gli immigrati nel

proprio seno, proiettando su di essi gli aspetti negativi

appartenenti al proprio gruppo.47

45 ANCONA, Aspetti psicologici cit., p. 391.46 Ibid., p. 393.47 Ibid., p. 394.

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Il meridionale e il lavoro

Mentre un filone di interventi riguardava i problemi dello

stereotipo e del pregiudizio e quindi dell’integrazione nel

tessuto urbano nel senso più ampio, vi era anche un interesse

forte verso la questione, di più immediata rilevanza pratica,

dell’adattamento del meridionale al lavoro industriale e alla

disciplina di fabbrica. Questo era più specificatamente il

campo della psicologia del lavoro.

Uno degli studiosi più noti di questa disciplina,

Gustavo Iacono, si era occupato a varie riprese del

comportamento dei lavoratori meridionali, studiati sia nel

settentrione sia nella loro società di origine. La domanda

che interessava gli psicologi del lavoro era: il lavoratore

meridionale presenta delle caratteristiche particolari in

quanto meridionale? È il meridionale adatto al lavoro in

fabbrica e a quale livello di efficienza? A ben guardare,

l’assunto di questi interrogativi è ancora una volta una

presupposta irrazionalità meridionale studiata, come nel caso

di Alberoni, con una metodologia ancora incerta

sull’influenza della soggettività e dei pregiudizi propri del

ricercatore.

Anche Iacono rilevava che il livello intellettivo,

misurato attraverso dei reattivi non esplicitati nel corso

della ricerca, dei soggetti meridionali tende ad essere

mediamente inferiore a quello di soggetti di pari età,

scolarità, e condizione sociale del nord d’Italia.48 Il

48 G. IACONO, L’orientamento affiliativo: un fenomeno e un’ipotesi sul comportamento deilavoratori meridionali, «Rivista di psicologia», n.1, LIX (1965), pp.170-181; vedi anche Id. Prime osservazioni nello studio del carattere dei soggettimeridionali, Napoli 1960.

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meridionale si adattava facilmente alle più disparate

mansioni, ma aveva la tendenza a non rispettare alla lettera

la consegna e a intervenire, non autorizzato, nelle mansioni

dei compagni. Inoltre aveva sfiducia nei propri meriti e per

avanzare contava di più sulla raccomandazione. Iacono ne

concludeva che il lavoro aveva per i meridionali una «scarsa

rilevanza psicologica», a causa della mancata

differenziazione di tale situazione da altre situazioni

interpersonali, per esempio la vita familiare, e raccomandava

non tanto l’addestramento alle mansioni, che i meridionali

apprendevano facilmente, quanto «l’assimilazione di

atteggiamenti, motivazioni, orientamenti appropriati alla

situazione di lavoro […] attraverso l’utilizzazione di

procedimenti psicologici».49

L’accenno alla propensione dei meridionali per la «vita

familiare» e il clientelismo non era accompagnato da nessun

riferimento ai coevi studi antropologi sul «familismo».

L’antropologia restava una disciplina separata rispetto alla

psicologia sociale e da essa non si traevano nozioni e

metodologie che sarebbero state utili nel comprendere la

personalità del meridionale.50

La psicologia sociale perveniva alla stessa

caratterizzazione della personalità dei meridionali implicita

nei pregiudizi più diffusi che pure la stessa comunità

scientifica si proponeva di analizzare e confutare. Dopo aver

definito la stereotipizzazione come «una generalizzazione

ingiustificata a tutto un gruppo di qualità fisiche e morali

49 IACONO, L’orientamento affiliativo cit., p. 180. 50 E. BANFIELD, Una comunità del Mezzogiorno, Bologna 1961. Per un quadrodell’interesse dell’antropologia nei confronti delle societàmediterranee vedi J. DAVIS, Antropologia delle società mediterranee: un'analisicomparata, Torino 1980.

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riscontrate solo in alcuni dei suoi membri»,51 gli psicologi

sembravano le prime vittime degli stereotipi che intendevano

studiare. Ancora una volta erano le lacune metodologiche,

colmate inevitabilmente dalle convinzioni intime del

ricercatore, che portavano a questi risultati. Nel caso di

Iacono il comportamento dei soggetti in fabbrica era studiato

attraverso osservazione diretta e questionari, ma dalla loro

interpretazione Iacono traeva delle conclusioni ispirate a

convinzioni prettamente personali sostenendo, per esempio,

che la raccomandazione fosse il risultato dell’atteggiamento

verso l’autorità inculcato dalla relazione del meridionale

con la madre, mentre altri comportamenti erano spiegabili con

la «socievolezza e facilità di contatto propri [un termine

che potrebbe intendersi per innati] del meridionale».52

Stante tali caratteristiche della sua personalità,

poteva il meridionale adattarsi al lavoro negli stabilimenti

industriali del Nord? Anche la ricerca di Giuseppe Gallo

svolta in una grande fabbrica del settentrione, confermava il

livello intellettivo inferiore alla media, rilevato però

attraverso i risultati dei test attitudinali, somministrati

dall’azienda, al momento dell’assunzione.53 Al contrario di

Iacono, Gallo osservava anche una difficoltà

nell’apprendimento delle mansioni vere e proprie, misurata

attraverso una percentuale più alta di multe inflitte per

errori del lavoro e riassumeva i suoi risultati osservando

che «i meridionali hanno dato risultati inferiori ai test del

51 D. CAPOZZA, Gli stereotipi del Meridionale e del Settentrionale rilevati e analizzati con latecnica del differenziale semantico, «Rivista di Psicologia», n.3, LXII (1968),pp. 317-367.52 Ibid., p.174 corsivo mio.53 G. GALLO, E. IANNACCARO, E. ROVERSI, Studio dell’influenza etnica nell’inserimento dimaestranze meridionali in una grande industria del Nord, «Rivista di psicologia»,n.1, LIX, (1965), pp. 606-619.

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livello intellettivo; minori prestazioni nel complesso degli

esami attitudinali; reperti modicamente più discutibili nelle

prove caratteriologiche».54 Ciò nonostante, i risultati della

ricerca avrebbero dovuto infondere, secondo l’autore, un

certo ottimismo nei datori di lavoro del nord circa il

normale inserimento delle maestranze meridionali in fabbrica.

L’unico consiglio era semmai di utilizzare oculati test di

selezione – che richiedessero, crediamo, l’intervento di uno

psicologo – per far sì che il «problema degli immigrati,

appunto perché affrontato in via profilattica e con la

selezione e l’orientamento interno aziendale, rimane fuori

dalle mura dello stabilimento».55

Come mai questa contraddizione tra i risultati della

ricerca e i consigli ai datori di lavoro? Semplicemente

perché questa ricerca, basata ancora una volta su dati

scientificamente discutibili in quanto provenienti dai test

della stessa azienda e dalla valutazione meritocratica dei

capi (settentrionali) degli immigrati, è pubblicata nel 1965,

quando già di fatto gli immigrati meridionali sono inseriti,

e a grandi numeri, nelle fabbriche settentrionali a dispetto

della loro presunta scarsa intelligenza e capacità di

apprendere. Quanto al fatto che un’accurata scrematura

all’assunzione avrebbe lasciato i problemi dell’immigrato

fuori dalla fabbrica, basta ricordare che appena quattro anni

dopo ci sarebbe stato l’Autunno caldo in cui una componente

essenziale della protesta meridionale in fabbrica scaturiva

appunto dalle disagiate condizioni sociali nelle quali gli

immigrati vivevano.56

54 Ibid., p. 616.55 Ibid., p. 619.56 Per un approfondimento del ruolo dei meridionali nell’Autunnocaldo rimando a G. BERTA, Conflitto industriale e struttura d'impresa alla Fiat,

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In questo modo il test attitudinale al lavoro in

fabbrica, niente più che la capacità del meridionale di

divenire operaio-massa, diventava la soglia che separava la

normalità dalla psicopatologia. Il meridionale che non

riusciva a integrarsi nella società industriale attraverso il

lavoro era più suscettibile di incorrere in patologie

neurotiche, soprattutto depressive, candidandosi quindi a

diventare oggetto di scrutinio della psichiatria.

Immigrazione e malattia mentale

In questi stessi anni gli psichiatri lamentavano una

crescita vertiginosa della percentuale di immigrati

meridionali internati negli ospedali psichiatrici rispetto

alla loro presenza numerica tra gli abitanti.57 È significativocomunque che questa attenzione verso la devianza dei

meridionali fosse concomitante alla rinnovata preoccupazione

dell’opinione pubblica per le problematiche aperte dall’arrivo

degli immigrati nelle città del settentrione. Non è un caso

che nel 1962, l’anno della cosidetta rivolta di Piazza

Statuto, quando davanti alla sede della UIL di Torino si

verificarono degli scontri tra operai e polizia di cui furono

Bologna 1998; D. GIACHETTI, M. SCAVINO, La Fiat in mano agli operai, Pisa 2001;G. POLO, I Tamburi di Mirafiori. Testimonianze operaie attorno all’autunno caldo alla Fiat,Torino 1989. Una biblografia approfondita sull’Autunno caldo si trovanella mia tesi di Ph.D. N. PIZZOLATO, Workers and Revolutionaries on the ShopFloor: The Breakdown of Industrial Relations in the Automobile Plants of Detroit and Turin(1947-1973), University College London, 2003.57 Per esempio nel convegno su “Immigrazione, lavoro e patologiamentale” ( 23-24 marzo 1963) citato in P. AMBROSI, A. GRASSI, M. RAMPAZI eS. VENDER, Malattia mentale e società. Storia e critica della psichiatria sociale, Roma1980, p. 64.

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immediatamente incolpati gli «scamiciati» meridionali58, sia

anche l’anno della prima conferenca del PCI sull’immigrazione,

della lettera episcopale della CEI sullo stesso tema e del

primo convegno della Lega Italiana di Igiene Mentale dal

titolo appunto «Igiene mentale e immigrazione». Veramente

l’immigrazione aveva assunto «un’imponenza insospettabile»,

come affermò Virginio Porta in apertura del convegno.59

Fra i disturbi più frequenti individuati dai relatori del

congresso vi erano le depressioni, spesso legate

all’alcolismo, e i tentati suicidi. Queste espressioni di

patologie nevrotiche si manifestavano più spesso tra gli

immigrati meridionali e colpivano individui di un profilo

sociale nettamente diverso rispetto ai settentrionali. Se

l’alcolizzato milanese era prevalentemente single, di mezz’età e

appartenente a qualunque classe sociale (fra i ricoverati si

trovano laureati accanto ad analfabeti), l’etilista

meridionale era invece di solito «giovane, ma con famiglia,

spesso abbastanza numerosa» e mai in condizioni di indigenza.

L’ipotesi di Porta era che tali patologie nascessero nel

meridionale a causa della «ricerca di un’evasione alle

frustrazione della vita consociativa». 60 Nonostante vi fossero

conclusioni di altro tono (come dirò più oltre) un parte della

ricerca, qualificando queste patologie come «reattive»,

fotografava nient’altro che la difficile integrazione nel

tessuto sociale del meridionale, mentre dichiarava ben

compiuta quella nel mondo del lavoro.61 58 Per un’indagine approfondita di quell’episodio vedi D. LANZARDO, Larivolta di Piazza Statuto, Milano 1979.59 V. PORTA, Migrazione interna ed igiene mentale. Quadro psicologico e psicopatologico,«Igiene mentale», fasc. 3-4, VI (1962), p. 728.60 Ibid., pp. 747 e 749.61 Vedi anche M. ROSSELLA, La reazione psicogena di tipo paranoico nell’immigratomeridionale, «Igiene Mentale», fasc. 3-4, VI, (1962), p. 1211, il qualeindividua una «patologia reattiva di tipo paranoico nell’immigrato il

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Diverse erano invece le ipotesi che si formulavano nel

caso di tentati suicidi fra le immigrate meridionali,

figurando anche questi in proporzione maggiore rispetto alla

popolazione locale femminile. Sebbene pure in questo caso, le

pazienti di origine meridionale fossero più giovani e

socialmente più omogenee (oltre che più numerose) delle

controparti settentrionali, la differenza di genere portava il

ricercatore a un altro ragionamento. Nel caso delle donne,

Giovanni Alema, neurologo primario degli Ospedali civili di

Genova, suggeriva (ma in modo cauto, avvertendo che si poteva

trattare – e lo era – di una «spiegazione semplicistica») che

«per loro il tentativo di suicidio sarebbe espressione delle

abitudini più libere di vita ottenute nel giungere nel nuovo

ambiente».62 Lo studioso e i suoi collaboratori notavano che,

nonostante le condizioni modeste o disagiate delle immigrate,

il loro impulso autodistruttivo era motivato da ragioni

sentimentali e familiari in prevalenza maggiore rispetto alle

settentrionali, di solito più abbienti. Ritornava quindi

nell’analisi il forte condizionamento familiare a cui sarebbe

stato sottoposto il meridionale, a maggior ragione la donna.

In questo caso però tale condizionamento entrava in conflitto

con una «partecipazione affettiva» al nuovo ambiente e un

conseguente «aumento delle occasioni conflittuali sul piano

erotico e sentimentale» (e ci si può chiedere se in questa

frase dai toni piuttosto vaghi, alla quale non segue nessuna

quale si viene necessariamente a trovare nelle condizioni ambientalipiù idonee a catalizzare la precipitazione della fenomenologiareattiva; in effetti lo sforzo per inserirsi nel nuovo gruppo socialecon tutta la complessa problematica legata all’inserimento pongonol’immigrato in una situazione esistenziale di particolare cimento,sensibilizzandolo a molteplici eventi frustranti».62 G. ALEMA, G. BALLARDINI, L. FIORITO, Tentato suicidio e reazioni neurotiche inimmigrate meridionali in Liguria, «Igiene mentale», fasc. 3-4, VI (1962),p.1161 e p.1163.

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spiegazione, non si possa forse attribuire l’ennesima

allusione al carattere geloso degli uomini di cui queste donne

sono compagne). Confrontando questa relazione al convegno con

gli altri studi se ne può dedurre che, se per gli uomini la

reazione patologica era conseguenza delle minori possibilità

di contatto sociale in un ambiente ostile, alla donna accadeva

l’esatto contrario: era l’apertura sociale della comunità di

accoglienza a scatenare il deterioramento psichico, anzi, ed è

significativo, il «deterioramento morale», come lo definisce

Alema e il suo gruppo di studio.

Negli interventi al Congresso di Igiene mentale del 1962,

come nella maggior parte della letteratura fin qui presentata,

è possibile distinguere nettamente il livello della pura

raccolta dei dati, accurata e scientificamente ineccepibile,

da quello delle interpretazioni, non necessariamente collegate

ai fenomeni osservati. In un altro intervento sul tema del

tentato suicidio tra i meridionali, i dottori Calderini e

Brussa dell’Ospedale Maggiore di Milano, escludevano che il

trauma migratorio potesse giocare un ruolo importate in questa

patologia per gli uomini, perchè questi potevano trovare

rifugio nell’alcol e nella vita sociale (ma per altri, lo

abbiamo visto, erano proprio l’abuso del primo e le

frustrazioni della seconda a portare al suicidio). Il

contrario accadeva alle donne meridionali, le quali avevano

minori possibilità di contatti sociali essendo per la maggior

parte casalinghe e sopratutto mancando della alberoniana

«socializzazione anticipatoria» poiché la decisione migratoria

era stata presa dell’uomo e accettata «supinamente», senza

cosapevolezza e preparazione.63

63 G. CALDERINI, G. BRUSSA, Tentato suicidio e migrazioni interne, «Igiene mentale»,fasc. 3-4, VI (1962), p. 1279.

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Questi studi si basavano sempre su campioni

statisticamente eccepibili, perchè avevano come oggetto i

pazienti internati nell’ospedale di appartenza del

ricercatore, senza raffronti con la più ampia popolazione

manicomiale (e senza la possibilità di avere i dati delle case

di cura private). Le conclusioni quindi variavano a seconda

del materiale umano osservato. Colpisce invece che nel caso

delle donne tutte le interpretazioni rimandassero allo

stereotipo della donna meridionale: passiva, sottomessa e

rinchiusa tra le pareti domestiche e per la quale uscirne o

restarvi dentro aveva conseguenze psicologiche ugualmente

dannose.

La fragilità psichica dell’uomo e della donna

meridionali, causata dalla mancata integrazione, si

ripercuoteva inevitabilmente sui figli, con conseguenze però

ancora più preoccupanti, trattandosi della nuova generazione.

In questo caso il luogo d’indagine non era l’ospedale

psichiatrico, ma la scuola. Gli studi sul tema del

«disadattamento» degli scolari meridionali erano numerosissimi

e quasi senza eccezioni mostravano che il disadattamento

causava dissocialità e scarso rendimento scolastico. Alcuni

dati suonano oggi veramente sconfortanti. «Dei centoventi

alunni segnalati dalle insegnanti delle scuole normali come

bisognosi di una educazione specializzata in classi

differenziali o per anormali, il novanta per cento risultò

costituito dai figli di immigrati», riferivano i dottori

dell’Istituto psichiatrico provinciale di Milano.64

Dissocialità e scarso rendimento diventavano, a seconda del

metodo psicometrico utilizzato, il sintomo di un’inferiore

64 A. MADERNA, B. LEONE, Interferenze affettive nel disadattamento di scolari immigrati dazone depresse, «Igiene mentale», fasc. 3-4, VI (1962), p.1191.

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capacità intellettiva e questa, come abbiamo visto accadere,

poteva essere a sua volta utilizzata per trarre delle

indicazioni sull’intero gruppo dei meridionali.

La convinzione della condizione d’inferiorità dei figli

degli immigrati rispetto ai coetanei «nativi» era così diffusa

da far sì che taluni prospettassero, con le migliori

intenzioni, l’introduzione di scuole separate per gli

immigrati, magari con insegnanti meridionali.65

Alternativamente, si raccomandava la psicoterapia di gruppo

per gli scolari, operata da psichiatri specializzati, sulla

base di esperimenti pilota che avevano dimostrato come in

questo modo si potesse evitare che «il mancato adattamento

determinasse e convalidasse definitivamente complessi psichici

d’inferiorità, responsabili a loro volta di bloccare

progressivamente le già scarse capacità individuali».66 Una

ricerca di un gruppo di studio della Scuola di psicopedagogia

di Torino sembrava arrivare a risultati diversi misurando un

uguale livello di inserimento scolastico degli immigrati e

degli autoctoni, facendolo dipendere dalle condizioni socio-

economiche piuttosto che dal grado di integrazione. Tuttavia

lo studio finiva comunque per rinforzare la tesi della

pericolosità del processo di integrazione per i soggetti

infantili in quanto prendeva come campione di studio gli

allievi di una scuola di Avviamento industriale,

presumibilmente arrivati nel Nord nell’adolescenza e non

nell’infanzia.67 In definitiva era tutta la famiglia a subire65 Così A. MADERNA, S. VALSESCHINI, Alcuni aspetti sulla situazione scolastica sui figli diimmigrati, «Min. Medicopsicologiche», 4, 235 (1964). Di opinionecontraria era M. SCARCELLA, Rilievi su di una proposta di classi differenziali per figli diimmigrati nel nord, «Igiene Mentale», 1, 88 (1965).66 A. MADERNA, B. LEONE, Interferenze affettive cit., p. 1192.67 E. ARIAN, V. B. GRASSINI, V. GRASSINI, Indagine psicometrica sull’adattamento di ungruppo di studenti immigrati in Torino, con particolare riguardo al comportamento verbale,«Igiene Mentale», fasc. 3-4, VI (1962), pp.1165-1172.

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gli effetti nefasti dell’immigrazione a causa dell’influenza

negativa dell’insicurezza familiare sui bambini in età

evolutiva: «L’ambiente radicalmente diverso può provocare una

vera e propria trasformazione dell’istituto familiare, dove la

mancata integrazione esterna determina esasperazione di

conflitti interni con grave menomazione delle capacità di

educare i figli, fatti già più difficili dall’inferiorità oggettiva

[corsivo mio] e dal complesso di inferiorità soggettivo che li

affligge in confronto ai coetanei indigeni».68

Un aspetto paradossale del dibattito sui meridionali

nella psichiatria e nella psicologia sociale, esemplificativo

di come paradigmi interpretativi considerati superati dalla

disciplina continuassero talvolta a riverberare le loro

suggestioni, era la coesistenza, accanto alla teoria in quel

momento generalmente accettata che la malattia mentale fosse

conseguenza dell’impatto con un ambiente diverso, di elementi

che invece suggerivano una rinnovata fascinazione dell’aliené

voyageur. Gli esempi sono molteplici. Spesso interpretazioni

contrastanti erano presenti nello stesso intervento, senza che

nessuno portasse alla luce la contraddizione. Così uno

studioso aveva riscontrato nel 1966 che soltanto il 38% degli

individui emigrati in America poteva essere considerato

completamente «normale».69 Mentre Gaetano Ingrassia del Centro

di Igiene mentale di Palermo, ancora nel 1971, poteva scrivere

che «è generalmente ammesso il fatto che la decisione di

emigrare venga presa più facilmente da persone di carattere

instabile, aggressivo, con personalità psicopatica o

schizotimica o paranoidea».70 In maniera più sofisticata68 R. DI GENTO, Famiglia alterata da migrazione interna e C.M.PP, «Igiene mentale»,1 (1970), p. 145.69 A. DURANTE, Problemi psicologici dell’emigrazione. Contributo alla conoscenza psicologicadel fenomeno migratorio, «Clinica psichiatrica», 1, II (1966).70 G. INGRASSIA, Su alcune problematiche cit. p. 1116.

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Eugenio Gaburri, dell’Ospedale psichiatrico di Varese,

spiegava che le depressioni di cui è vittima il meridionale

sono nate nell’ambiente di partenza, nel quale è un

«perdente», piuttosto che in quello di arrivo e si chiedeva:

«Non si può forse considerare questa situazione di scacco del

suo mondo originario come una condizione traumatizzante

cronica che gioca con la dinamica psichica un ruolo

preponderante di primaria importanza nell’instaurarsi di una

particolare vulnerabilità di un individuo?».71 Nello stesso

anno Luigi Ancona, dell’Istituto di Psicologia dell’Università

Cattolica di Roma, affermava che «sul piano psicosociologico,

emigrano i soggetti animati da un’intensa autocritica, di

orientamento depressivo, mentre quelli eccessivamente sicuri

di sè, di orientamento paranoideo, non emigrano, ma accolgano

immigrati».72 Nello stesso convegno però si ravvisava nei

settentrionali una situazione di tipo maniacale, perchè

«caratterizzata da insufficiente introspezione», mentre erano

gli immigrati a soffrire di «paranoidismo meridionale» in

quanto sviluppavano dei complessi persecutori.73

La tesi antipsichiatrica e la fine del dibattito

Attraverso il discorso scientifico gli psichiatri e gli

psicologi sociali avevano ridefinito l’immigrazione come un

campo privilegiato di attività. Un campo in cui il loro71 E. GABURRI, Importanza del disadattamento sociale nei disturbi psichici degli immigratiinterni, «Igiene mentale», fasc. 3-4, VI (1962), p. 1188.72 L. ANCONA, Su alcuni aspetti della dinamica profonda nel processo di emigrazione-immigrazione, «Igiene mentale», XV (1971), p. 977.73 Il convegno verteva sui Problemi di igiene mentale nelle zone di emigrazione,VIII Congresso Nazionale della Lega Italiana d’igiene e profilassimentale (1970). L’intervento di C. PETRÒ, Sintesi della seconda tavola rotonda,«Igiene mentale», XV (1971), p.1272.

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intervento non era soltanto utile, ma indispensabile. Come

diceva il Professore Diego De Caro, direttore degli Ospedali

psichiatrici di Torino, «non c’è argomento come quello che

stiamo trattando che si adatti meglio al concetto, oggi

largamente accettato, di una psichiatria che sia al tempo

stesso “psichiatria sociale”».74

L’interesse psichiatrico per gli immigrati, quindi, non

derivava semplicemente dal più grande numero di pazienti di

origine meridionale, ma dagli stessi rivolgimenti all’interno

della disciplina in cui la dimensione sociale assumeva sempre

più importanza, allontanando la psichiatria dalla tassonomia

nosografica positivista, verso il terreno più incerto

dell’influenza ambientale. Lo psichiatra Romolo Rossi

osservava che le depressioni erano più frequenti tra gli

immigrati che presso il resto della popolazione, ma tale

frequenza era spiegabile come una reazione allo sradicamento

dell’immigrato dal suo luogo di origine.75 Come Alberoni,

Rossi individuava le cause delle varie psicopatologie che

colpivano l’immigrato nel suo sforzo di adeguamento al nuovo

ambiente, ma al contrario del sociologo non auspicava nessuna

sorta di socializzazione che ne facilitasse l’integrazione,

piuttosto semplicemente deplorava il processo d’immigrazione

in sé, in quanto catapultava il meridionale fuori dal suo

mondo arcaico in cui la figura materna rappresentava ancora

«il motore immobile ed il perno inerte dell’intera struttura»

in un mondo per lui incomprensibile, «assurdo e nemico». 76

74 D. DE CARO, Simposio sui problemi di igiene mentale nelle zon di emigrazione, in«Annali di Frenatria e scienze affini», I (1971), p. 43.75 R. ROSSI, Aspetti psicogeni nella psicopatologia della immigrazione, in «Archiviodi psicologia, neurologia, e psichiatria», n. 1-2 (1971), pp. 105-114.76 Ibid. p. 107 e p. 112.

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L’articolo di Rossi è interessante perché mette in

discussione la convinzione che psicologi e soprattutto

psichiatri potessero essere d’aiuto nell’affrontare i

problemi dell’immigrato. Se la causa della malattia mentale

era lo sradicamento, la questione stava a monte, nelle

condizioni di degrado da cui partiva l’immigrato. È

indicativo dello spostamento di fuoco che il XV congresso

della Lega d’Igiene mentale del 1970 si incentrasse sulle

zone di emigrazione, invece che su quelle di immigrazione. Si

trattava quindi di un problema sociale e politico, non

psichiatrico. Al contrario gli psichiatri potevano solo

peggiorare la situazione, assumendo un atteggiamento

discriminatorio nei confronti dell’immigrato. Per Rossi lo

psichiatra settentrionale era «incatenato al pregiudizio» nei

confronti del paziente meridionale, dal quale raramente

riceveva una risposta positiva alla terapia e sul quale

adottava l’elettro-shock più spesso, mentre faceva

preferibilmente ricorso ai farmaci per i non immigrati.77

Le affermazioni di Rossi erano sintomatiche del

cambiamento di clima nel dibattito scientifico. Siamo nel

1971 e la disciplina era scossa da un movimento di

rinnovamento che rifletteva l’influenza di varie correnti

anti-psichiatriche e del contributo di Franco Basaglia.78 La

funzione dell’istituzione manicomiale, il rapporto medico-

malato e la stessa validità terapeutica della psichiatria

venivano messe in discussione. La tesi anti-psichiatrica

della malattia mentale, fondata sui rapporti di dominio di

classe e sulle pratiche borghesi di esclusione della

77 Ibid. p.113.78 A. CIVITA, D. COSENZA, (a cura di) La cura della malattia mentale. I. Storia edepistemologia, Milano 1999, pp. 248-290; G. JERVIS, L’antipsichiatria trainnovazione e settarismo, «Mondoperaio», XXXIX (1986), pp.125-128.

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marginalità improduttiva, calzava perfettamente al caso

dell’alienazione sociale dei meridionali. Ma, nel momento in

cui le psicopatologie dei meridionali diventavano un sintomo

della patologia di una società malata, piuttosto che

dimostrazione della loro inadeguatezza, l’immigrazione

perdeva anche una caratteristica che almeno le veniva

riconosciuta nelle altre interpretazioni: quella di essere la

scelta libera di un individuo che voleva cambiare il proprio

destino. Nell’interpretazione anti-psichiatrica la situazione

dell’immigrato «non è diversa da quella del deportato o del

perseguitato politico»; egli si trascina sempre dentro «il

paese d’origine ed un profondo desiderio di tornare»,

ostacolato da una maggiore sicurezza economica che turba il

suo equilibrio psicologico e lo blocca in una situazione di

stallo in cui non può né integrarsi né tornare indietro.79

Con questo tipo di considerazioni, nei primi anni

settanta, il dibattito scientifico sull’integrazione dei

meridionali si interrompeva bruscamente. Questo era

sicuramente l’effetto di una autocritica da parte di

psicologi e psichiatri, i quali in precedenza avevano avocato

la soluzione dei problemi apportati dall’immigrazione, ma ora

erano tacciati di essere espressione del potere delle classi

dominanti su degli oppressi. Le lotte operaie

dell’Autunno caldo intanto avevano cambiato i termini della

79 ROSSI, Aspetti psicogeni cit., p.108. C’è qui un implicito richiamo alconcetto «uomo marginale» elaborato da Robert Park già negli annitrenta in riferimento agli immigrati ebrei. L’uomo marginale vive alconfine tra due culture ed è diviso tra la nostalgia per quella cheha abbandonato e l’abitudine crescente alla nuova, per cui si trovamarginale rispetto a entrambi in modi di vita. Il risultato sarebbeuna personalità divisa, almeno fino a quando l’immigrato nonabbraccia definitivamente l’una o l’altra. Vedi R. E. PARK, Humanmigration and the marginal man, «American Journal of Sociology», 33,(1928), pp. 881-893. Per una critica vedi D. I. GOLOVENSKY, The MarginalMan Concept: An Analysis and Critique, «Social Forces», 30 (1952), pp.333-339.

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questione dell’integrazione meridionale. La spinta per la

riforma della società italiana, partita nelle università, si

era propagata proprio nelle grandi fabbriche settentrionali

che costituivano il banco di prova dell’inserimento del

meridionale nella società industriale. Alla Fiat, alla

Pirelli, il contributo dei meridionali era stato fondamentale

per ribaltare i rapporti di forza in officina.80

L’effetto dell’Autunno caldo, crediamo, fu quello di

smentire e rendere obsoleto un dibattito scientifico che

riduceva l’immigrato a un deviante, un elemento patologico

trapiantato in una società sana, un potenziale caso clinico.

Per la maggior parte questo dibattito non diede alcun

contributo alla soluzione dei problemi sociali derivanti

dalla massiccia immigrazione e mancò in molti casi anche la

presa di consapevolezza, che avrebbe potuto portare a una

scelta politica da parte degli studiosi, che le patologie

descritte erano distribuite diversamente tra le classi, con

una prevalenza in quelle più povere. Gli studiosi inoltre

applicarono le categorie nosografiche fornite

dall’elaborazione teorica senza utilizzare un approccio

pluralistico, cioè senza mettere sullo stesso piano la

cultura dell’immigrato con quella della società ricevente e

non colsero la funzione dell’azione collettiva come mezzo

d’integrazione perché partivano dal presupposto che non

sarebbero stati gli immigrati meridionali a cambiare la

società industriale, ma quest’ultima a cambiare quelli. La

carica ribellistica, durante e dopo l’Autunno caldo, di una

parte dei meridionali dimostrava che il loro inserimento

nella società industriale non passava soltanto attraverso la

80 Vedi nota 57.

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Quaderni storici, Anno 40, Nº 118, 2005 , pp. 97-120

«settentrionalizzazione» di comportamenti sociali e

lavorativi, ma anche attraverso la loro contestazione.

Nicola

Pizzolato

(Università di

Palermo)

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