UNA, NESSUNA, CENTOMILA. Alfabetizzazione, educazione e scrittura delle donne tra ‘300 e ‘400.
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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CAGLIARI
FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA
CORSO DI LAUREA IN LETTERE
UNA, NESSUNA, CENTOMILA
Alfabetizzazione, educazione e scrittura delle donne
tra ‘300 e ‘400.
Relatore: tesi di laurea di:
Prof.ssa Olivetta Schena Figus Simonetta
ANNO ACCADEMICO 2009-2010
1
Introduzione: Perché parlare di scrittura al femminile.
Parte Prima
La Dimensione Mediterranea
Capitolo I – La situazione politica, sociale, economica.
1. Medioevo: la dimensione mediterranea.............................................p.6
2. Le corti dell’Italia centrale, Toscana e Stato della Chiesa...........…..p.12
3. Il Mezzogiorno e la Sicilia.................................................................p.16
4. La corte Aragonese e Spagnola..........................................................p. 23
Capitolo II – Educazione e Istruzione delle donne.
1. Le età della donna. Nascita, fanciullezza, matrimonio......................p. 27
2. Un’educazione per i maschi e una per le femmine............................p. 35
3. Sottomisssione e libertà.....................................................................p. 41
Capitolo III – Alfabetizzazione al femminile .
1. Scuole e Università nel Medioevo.....................................................p. 46
2. Quale cultura per le donne?...............................................................p. 53
3. Il lavoro femminile............................................................................p. 57
Capitolo IV – Le scritture.
1. Perché scrivere?.................................................................................p. 62
2. La scrittura nei conventi femminili....................................................p. 65
2
Parte Seconda
La situazione in Sardegna
Capitolo I – Aspetti politici, economici e sociali.
1. Le forze politiche presenti nell’isola.
I giudicati...............................................................................p. 69
Pisa e Genova.........................................................................p. 80
I Catalano-aragonesi...............................................................p. 84
2. Classi sociali, suddivisioni dei poteri.................................................p. 87
3. Diversi popoli, diverse culture............................................................p. 90
Capitolo II – Educazione e cultura delle donne.
1. L’universo femminile. Essere donna nel medioevo sardo..................p. 94
2. La visione della donna nella Carta de Logu e negli Statuti Sassaresi.p. 101
3. Presenze femminili nei Condaghi........................................................p. 104
4. I lavori delle donne in Sardegna..........................................................p. 107
Capitolo III – Alfabetizzazione al femminile.
1. Donne di potere....................................................................................p. 113
2. Donne pisane, ebree, aragonesi............................................................p. 126
Capitolo IV – Donne e scrittura: presenze, assenze.
1. Il codice 1bR del monastero di Santa Chiara di Oristano....................p.136
2. Ego Maximilla abatissa de Sanctu Petru de Silki................................p.140
Conclusioni............................................................................................p. 142
Bibliografia............................................................................................p. 145
3
Introduzione
Parlare delle donne e lasciare che le donne parlino di se stesse attraverso l’analisi
dei loro stessi scritti e delle loro vite è impresa assai ardua e peraltro alquanto
complessa, che questo modesto lavoro si propone per il momento soltanto di
“accarezzare” con rispetto e fedeltà scientifica, col proposito di riprendere il tema
in futuro e potergli dedicare il giusto approfondimento. Per il momento ci
limiteremo all’analisi dei testi che hanno trattato dell’educazione, dello spazio
concesso alle donne in fatto d’istruzione o più spesso di quello che in tanti casi si
sono prese da sole e delle testimonianze scritte che ci sono rimaste, poche, troppo
poche in verità, infatti «da un punto di vista numerico, la presenza di donne
comunque scriventi nell’Italia (e nell’Europa) durante il Medioevo è minima»1
E se ciò si evince da un’area culturalmente fertile come quella italiana o europea,
è facile capire le difficoltà che si possono riscontrare a livello di microcosmo
quale può essere quello emerso dalle rilevazioni fatte in Sardegna; ciò comunque
non può e non deve essere un deterrente ai fini della ricerca perché la «difficoltà
di reperimento delle fonti non significa assenza»2.
Il presente elaborato è stato strutturato in due parti distinte, di cui la prima si
occupa della visione storica, sociale, politica ed educativa dell’area mediterranea,
scelta in base alle influenze particolarmente significative che questa ha avuto sulla
storia della Sardegna, per finire col trattare l’alfabetizzazione e le testimonianze
scritte che le donne che hanno abitato quell’area ci hanno lasciato nel periodo
compreso tra il 1300 e il 1400 dell’Era Volgare; mentre la seconda si concentra
sugli stessi aspetti precedentemente elencati per la prima parte, facendo
particolare riferimento alle condizioni storiche, sociali politiche ed educative nelle
quali la Sardegna si dibatteva nello stesso arco di tempo.
1 A. Petrucci, Premessa in forma di postilla, in L. Miglio, Governare l’Alfabeto. Donne, scrittura e libri nel Medioevo, Roma, Viella, 2008, p. 7.2 L. Miglio, Governare l’Alfabeto… cit., p.13.
1
Proprio le problematiche relative all’educazione, sono oggetto di questa tesi, la
quale intende dimostrare quale fosse la vita delle donne, quale la loro posizione
sociale, quale lo spazio riservato loro dallo strapotere maschile e quanto fosse
forte il desiderio di dignità e rispetto che manifestavano, condensati in una
pluralità di sentimenti variamente dimostrati. Una è la donna nel suo essere
centomila personalità e potenzialità differenti e nessuna laddove l’uomo,
«avendone paura, per farsi coraggio, le disprezza»3 e le imbavaglia con la sua
prepotenza.
3 G. Duby, Medio Evo maschio. Amore e matrimonio, Laterza, Roma-Bari 1988, prefazione, p. VII.
2
Parte Prima
La dimensione mediterranea
Capitolo I – La situazione politica, sociale, economica
1 - Medioevo: la dimensione mediterranea.
Quanto difficile e complesso sia stato il Trecento sotto il profilo demografico,
economico, sociale, politico, spirituale, meteorologico, alimentare ed epidemico, è
ormai un fatto accertato che ricaviamo dalle stesse parole dei cronisti dell’epoca.
Il fiorentino Giovanni Villani attesta nella sua Cronica sia i cambiamenti climatici
e le conseguenze a livello agricolo che questi ultimi produssero «In questo anno
furono molte piogge in Firenze e in questo paese d’intorno, che dall’uscita del
mese di luglio fino a dì VI di novembre non finò di piovere quasi del continuo;
onde molto sconciò le ricolte, e guastò molto grano e biade né campi, e uve nelle
vigne molte ne guastò, e non fu il detto anno il vino né digesto né naturale, e lle
terre si poterono male lavorare e seminare»4, sia le carestie che a varie ondate, dal
1302-03 e per tutto il secolo colpirono l’Italia, gravissima fu quella del 1339-40, il
Nord Europa nel 1315-17 e nel 1347, e nella penisola Iberica nel 1333, come ci
descrive lo stesso Villani facendo riferimento alla carestia che colpì Firenze nel
1347 «E ffu si grande la nicissità, che lle più delle famiglie contadini
abbandonarono i poderi, e rubavano per la fame l’uno all’altro ciò che trovavano e
molti ne vennero mendicando in Firenze, e così di forestieri d’intorno, ch’era una
piatà a vedere e udire, e non si poteno lavorare le terre né seminare»5.
I dati demografici, riferiti alla popolazione, sono un importante e imprescindibile
strumento di ricerca storica, poiché attraverso di essi è possibile ricavare una tale
quantità di notizie che altrimenti non consentirebbero una vera e seria analisi
4 G. Villani, Nuova Cronica, a cura di Giuseppe Porta, vol.3°,libro tredecimo, p.415, Fondazione Pietro Bembo, Ugo Guanda Editore, Parma.5 Ibidem, p.467.
3
sociale, economica, politica e infine storica. Dobbiamo subito dire che la
diminuzione della popolazione non fu un fenomeno improvvisamente sorto nel
Trecento, anzi per trovarne le origini bisogna risalire al Duecento, considerato
dagli storici come il secolo di maggiore prosperità, perché fu proprio alla fine di
questo secolo e all’inizio di quello successivo che la popolazione, in crescita
progressiva da alcuni secoli, smise di crescere e cominciò a diminuire, anche se
non fu un fenomeno che si manifestò dappertutto nello stesso momento.6 Una
delle cause fu certamente la grande peste del 1348.
Figura 1. La diffusione della Morte Nera- 1347 (fonte: http://www.silab.it/storia)
La Peste Nera fece perdere all’Europa circa il 30% dei suoi abitanti. Essa si può
dire sia una conseguenza non desiderata della pax mongolica e dell’epoca di
grande fortuna della via centro asiatica della seta7: il suo primo focolaio noto è del
1338-39 localizzato nella regione centroasiatica del Lago Balhas; nel 1341
l’epidemia è a Samarcanda e da qui, seguendo il ramo della via della seta che
passa a nord del Caspio, la ritroviamo nel 1346 in Crimea. In quell’anno, la
colonia genovese di Caffa è assediata dai tatari che scagliano con catapulte
cadaveri appestati al di là delle mura; nel 1347, una nave genovese carica di topi
sui quali viveva una varietà di pulce portatrice di un bacillo che, dopo la morte del
topo, si trasferiva eccezionalmente sull’uomo per il tempo necessario ad
inoculargli il bacillo, parte da Caffa: l’epidemia esplode nell’equipaggio durante il
6 G. Pinto, Il numero degli uomini, in AA.VV. “La Società Medievale”, Monduzzi Editore, Bologna 1999, pp. 19-26.7 Da La Peste Nera: dati di una realtà ed elementi di una interpretazione, Centro Italiano di Studi Sull’alto medioevo, Spoleto 1994, pp. X- 402.
4
percorso e si trasferisce nel mese di giugno nel quartiere genovese di Pera a
Costantinopoli8. Nel settembre 1347 la peste è a Messina e quindi in tutta la
Sicilia e se Genova rifiuta di accogliere navi sospette, l’infezione compare a
Marsiglia il 1° novembre 1347. La via dell’Europa è ormai aperta9. Ma ormai la
peste colpiva senza pietà uomini, donne e bambini e tanto era «con sì fatto
spavento questa tribolazione entrata né petti degli uomini e delle donne, che l’un
fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la
donna il suo marito; e, che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le
madri i figlioli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano».10
Figura 2. Vittime della peste bubbonica. Miniatura del XV secolo, tratta dalla Bibbia di
Toggenburg (1411), nel cantone svizzero di San Gallo, (fonte:http://www. summagallicana.it)
Tante e tanto gravi furono le problematiche legate ai raccolti da far registrare una
grave crisi annonaria che aumentò i prezzi dei cereali, fino a dieci volte la cifra
iniziale. A questa, altre crisi si succedettero dando origine a problemi non solo di
carattere agricolo-territoriale, ma economico e sociale. Chiaramente le carestie
continue dettero luogo ad una denutrizione tale che i più deboli, come bambini e
anziani, furono i primi ad esserne colpiti, da questo si sviluppò una minore
resistenza alle malattie, un aumento della povertà, una crescita di fenomeni come
il banditismo, le migrazioni in cerca di cibo, l’indebitamento. Poi la terribile Peste
8 W.H. McNeill, La peste nella storia, Einaudi, Torino 1981, pp. X- 282.9 Si può ancora consultare sull’argomento: AA.VV, La peste nera, 1347-1350, Università degli Studi di Firenze, 1970.10 G. Boccaccio, Decameron, vol. I, Garzanti, 1980, p. 14.
5
fece il resto e negli anni immediatamente successivi la forma polmonare della
stessa peste aggravò le condizioni dell’Europa e fu così virulenta da paralizzare la
vita pubblica ed economica dei vari stati. La peste polmonare era una
complicazione della peste bubbonica che colpiva le vie respiratorie: era altamente
contagiosa e si trasmetteva in maniera non diversa dall’influenza o dal
raffreddore, con estrema rapidità, uccidendo con una probabilità che sfiora il
100%, dopo un’incubazione breve di uno o due giorni ed una decorrenza della
stessa durata11. L’Italia raggiunse punte di mortalità del 25-35% dell’intera
popolazione.
Figura 3. Grafico che evidenzia i vari fattori che hanno concorso alla crisi.
La crisi demografica che ne derivò significò anche la scomparsa di molti piccoli
centri e l’abbandono di molte pianure che tornarono ad essere acquitrini e paludi,
regni incontrastati della malaria. Accanto alla peste, la guerra faceva la sua figura
in questo scenario desolante12. La guerra dei Cento Anni, la Reconquista, gli
eserciti mercenari, contribuirono ad innalzare ulteriormente i tassi di mortalità. I
primi segnali positivi li abbiamo intorno al 1450, data da cui si fa
11 L. Del Panta, Le epidemie nella storia demografica italiana (secoli XIV-XIX), Loescher, Torino 1980, pp. 12-75.12 G. Pinto, Il numero degli uomini, cit., p. 25.
6
convenzionalmente partire il recupero demografico grazie ad un’alimentazione
arrichitasi di carne, cosa che migliorando qualitativamente la dieta contribuiva a
irrobustire i corpi e a renderli più resistenti al freddo e alle malattie, allungando la
vita e permettendo, altresì, alle donne di fare più figli. La ricrescita riprenderà e
continuerà senza tregua fino al seicento, anche se sarà difficile e lenta. In Italia,
per fare un esempio noto, la popolazione arriverà ai livelli del Trecento solo nella
seconda metà del Cinquecento e con una distribuzione sul territorio diversificata
rispetto al passato, che vede ora privilegiare la parte meridionale dell’Italia e la
Sicilia13.
Tabella 1. La tabella mostra, in valori percentuali, il crollo della popolazione in Europa durante la crisi del Trecento.
In ogni caso è possibile affermare che la popolazione europea, che aveva
conosciuto perdite molto gravi, in taluni casi anche fino a quasi il 50% della sua
popolazione in determinate aree, nella metà del 1500 aveva recuperato quei livelli
in maniera piena e soddisfacente14. Al crollo demografico si devono aggiungere le
carestie, alla cui origine ci fu spesso il maltempo e le invasioni d’insetti come
bruchi o locuste, le difficoltà della moneta che proprio sul finire del XIII secolo
aumentava o diminuiva il valore a seconda dei bisogni circostanziali di re e
monarchie varie che li vedevano a volte creditori a volte debitori. In seguito a
questo sistema si ebbero bancarotte importanti come quelle dei Bonsignori di
Siena, dei Ricciardi di Lucca, dei Bardi e dei Peruzzi di Firenze. La crisi toccò
13G. Piccinni, Il Medioevo, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 220.14 G. Pinto, Il numero degli uomini, cit., pp. 24-25.
7
anche il tessile, settore di punta del tessuto economico medievale, che diminuì sia
per quantità sia per qualità con aumenti di prezzo anche piuttosto considerevoli15.
In Italia si provò a tamponare la crisi con l’uso della lana merinos delle pecore
spagnole. Inoltre la peste, aprendo vuoti incredibili tra la popolazione, provocò un
vero e proprio sconquasso nei rapporti tra lavoratori e datori di lavoro. Negli anni
quaranta del Trecento, nelle città italiane, si ebbero rivolte popolari che avevano
l’obiettivo di mantenere i salari ai livelli precedenti la peste. Fu proprio su questi
lavoratori salariati urbani, dal basso profilo professionale, che non godevano di
nessuna rappresentanza sociale come le corporazioni di mestiere che, nella
seconda metà del Trecento, si ebbero le maggiori ricadute negative della nuova
situazione economica. I salari restarono invariati, i prezzi, al contrario,
aumentarono notevolmente. Ricordiamo a proposito il «tumulto dei ciompi», la
rivolta avvenuta a Firenze nel 1378, quando gli operai dell’industria tessile si
ribellarono chiedendo maggiori salari e soprattutto il diritto ad organizzarsi in
corporazione. La rivolta fu repressa nel sangue dal comune fiorentino16. La lunga
crisi però non fu l’unica protagonista di questo secolo, dobbiamo rilevare anche la
presenza di una positiva riconversione delle strutture preesistenti ad esempio
mentre alcune piattaforme commerciali crollavano sotto la spinta della crisi, altre
nascevano con grande energia inventando delle nuove tecniche di tenuta dei conti
e nuovi strumenti di credito. 17
Anche la spiritualità mutò il suo volto sia nel modo di sentire comune sia nel
pensiero personale. Si svilupparono, infatti, forme di carità collettiva, come
quella negli ospedali urbani riguardante l’assistenza ai malati e forme individuali
di ritiro dal mondo segnate dalla sincera ricerca di una religiosità capace di
sublimare l’amore per Dio, di una religiosità tutta interiore. L’esperienza mistica
fece in modo che donne come Caterina da Siena vivessero esperienze di fede
profonde che lasciarono segni considerevoli nella storia, interloquendo coi potenti
in maniera quanto mai autorevole e decisa. Erano in genere laiche, vedove o nubili
15 P. Spufford, Il mercante nel medioevo. Potere e profitto,Roma, Libreria dello Stato – Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2005, pp. 223-224.16 Sulla rivolta si può consultare: N. Rodolico, I Ciompi. Una pagina di storia del proletariato italiano, Sansoni, Firenze 1971.17 G. Piccinni, Il Medioevo, cit., pp.221-222.
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per scelta e le loro manifestazioni estatiche, profetiche, ricche di visioni divine
affascinavano la gente facendo loro pensare che costoro fossero portavoce di Dio
stesso18. La Chiesa si dimostrò invece molto spesso scettica anche se adottò la
linea della tolleranza nei confronti di questa nuova espressione di fede. Negli
ultimi trent’anni del Trecento due eventi maturarono all’interno della Chiesa: il
ritorno a Roma della sede papale che aveva visto l’allontanamento dei papi fin dal
1309 quando Clemente V, papa francese, si era trasferito ad Avignone con tutta la
corte e lo scisma nella Chiesa d’Occidente. Il ritorno a Roma fu decisamente
difficile per Gregorio XI nel 1377, ma dopo alterne lotte da parte francese come
italiana che diedero origine allo scisma, la pace arrivò col Concilio di Costanza
nel 1414 ricomponendo lo strappo che si era venuto a creare.
2 - Le corti dell’Italia centrale, Toscana e Stato della Chiesa.
Se in Europa, regni come Francia e Inghilterra andavano formando una loro unità
politica e territoriale, in Italia persistevano divisioni sia politiche, sia territoriali di
regni più grandi accanto a quelli più piccoli e la differenza non si limitava soltanto
ad un puro fattore geografico ma si estendeva alle istituzioni, per cui poteva
capitare che a pochi chilometri di distanza convivessero le più diverse leggi e i più
svariati regimi politici. Dalle Alpi alla Sicilia si incontravano città-stato come
Firenze, signorie come a Ferrara (gli Este),a Milano (i Visconti), principati come
quello, ad esempio, dei marchesi del Monferrato o come quello ecclesiastico del
patriarca di Aquileia, inoltre Pisa e Genova avevano esteso la loro influenza
politica su Sardegna e Corsica; al centro si trovava lo Stato della Chiesa con un
regime politico tutto particolare.19
Infatti esso era retto da un papa-re che conobbe anche esperienze repubblicane e
con una popolazione che più volte si era opposta al centrismo papale. Nel
18 A. Benvenuti Papi, «In castro poenitentiae». Santità e società femminile nell’Italia Medievale, Herder, Roma 1990.19 M. Montanari, Storia Medievale, Editori Laterza, 2002, pp. 246-247.
9
Mezzogiorno e in Sicilia si erano insediati re stranieri. Tuttavia anche in Italia si
avviavano processi di aggregazione per cui città più grandi incorporavano nei loro
territori centri urbani più piccoli e i territori circostanti. Il potere si ritrovava così
riunito nelle mani di un solo principe, di un solo signore, o del potere cittadino
che lo esercitava. Tra le città che furono più attive nell’ampliare i propri confini
troviamo Firenze. All’inizio del Trecento la Toscana si trovava a condividere
ancora tante delle istituzioni che avevano dato vita all’esperienza comunale, quale
per esempio la partecipazione allargata alla vita pubblica20.
A Firenze, per quanto quest’ultima forma abbia subito delle modifiche atte a
coinvolgere nel governo la parte aristocratica, come accadde per il partito dei
Guelfi che ebbero propri rappresentanti, si riuscì comunque a mantenere
istituzioni fedeli all’impianto comunale. Intanto, molto prima di questi eventi,
Firenze aveva conquistato tanta parte del suo hinterland, come si direbbe oggi.
Alla fine del XIII secolo, grazie alle grandi ricchezze che le provenivano dai
commerci e al ruolo egemonico assunto nella regione, pose sotto il suo diretto
controllo città come Prato, Pistoia, San Gimignano, alle quali richiedeva
contributi di carattere militare o economico oppure inviava loro propri podestà. In
questi territori Firenze intervenne attuando nuove definizioni e nuove suddivisioni
o ancora, come fece per Pisa, nel 1406 anno in cui poté annetterla al proprio
dominio, privandola di ogni benché minimo potere di autonomia sui territori che
le erano appartenuti21. La città di Firenze conobbe il potere signorile in due sole
occasioni in tutto il corso del Trecento, occasioni in cui si era avvertito il bisogno
di un potere forte capace di controllare e regolare le discordie, degenerate presto
in veri e propri scontri armati, tra le famiglie potenti della città22.
La prima volta fu affidata, per due anni: dal 1325-27, a Carlo di Calabria, figlio di
Roberto D’Angiò, e successivamente, negli anni 1341-43, a Gualtieri di Brienne,
duca di Atene. Sedate queste controversie, Firenze ritornò alla forma di governo
che le era più congeniale, cioè quello delle arti che, tuttavia, nella sostanza non
20 Sui comuni italiani si vedano i recenti lavori di: G. Cherubini, Città comunali di Toscana, Clueb, Bologna 2003; I Podestà dell’Italia comunale, a cura di J.C. Maire Vigneur, 2 voll., Ècole Française de Rome, Roma 2000.21 M. Montanari, Storia Medievale, cit., p. 251.22 G. Piccinni, Il Medioevo, cit., p. 237.
10
aveva più riscontri nel passato in quanto ogni volta il potere finiva per
concentrarsi nelle mani di una ristretta oligarchia di mercanti e banchieri.
Naturalmente tutti questi avvenimenti rendevano palesi le conflittualità e le
trasformazioni sociali che si stavano venendo a creare nel governo della
respublica fiorentina. Scrive G. Merlo: «Tuttavia le famiglie potenti di varia
provenienza confluivano ormai verso la formazione di un patriziato in cui la
fierezza cavalleresca dei magnati si contemperasse con le forme più meditate di
grandezza e di magnificenza, proprie di mercanti e banchieri».23
Queste nuove figure di mercanti aspiranti alla nobiltà e di nobili divenuti mercanti
priva la nobiltà della sua ragion d’essere, del suo esistere come classe sociale
distinta e privilegiata e vede svolgersi un’analoga trasformazione nella classe
mercantile in cui il mercante non è soltanto un uomo d’affari ma un intellettuale
che riserva parte del proprio tempo alla cultura, agli svaghi intellettuali, che sa
scrivere e leggere, che apprezza l’arte. Tra le famiglie che detenevano il potere
nella città ricordiamo gli Albizi, i Medici, gli Strozzi, i Pitti, i Tornabuoni, i Da
Uzzano. I Medici rappresentano un caso singolare di signoria che si sviluppò negli
anni trenta del Quattrocento da parte del suo capostipite, Cosimo il Vecchio. Il
grande storico belga Henri Pirenne osserva che: «Occorre notare come un
fenomeno assolutamente straordinario, la signoria di fatto che i Medici esercitano
a Firenze e che non ha altra origine se non la loro ricchezza».24 Si trattava, infatti,
di un potere non ufficiale ma riconosciuto da tutti. Essi non modificarono le
istituzioni comunali ma si limitarono a controllare le cariche, affinché fossero
affidate a persone di loro gradimento25. Momento di grande splendore fu la
signoria di Lorenzo de’ Medici, nipote di Cosimo, che nel 1469 successe al padre.
Fu infatti non solo generoso mecenate, sotto la sua protezione fiorirono molti
artisti e attività intellettuali ma fu egli stesso uomo di lettere, poeta, rimatore.
Abbiamo ricordato all’inizio di questo paragrafo che al centro Italia si trovava lo
Stato della Chiesa, il quale, fin dalla fine del secolo XIII e per tutto il Trecento,
aveva intrapreso un’azione energica e violentissima per la difesa della sua
23 G. Tabacco – Grado G. Merlo, Medioevo, V-XV secolo, Il Mulino, 1989, p. 513.24 Henri Pirenne, Storia d’Europa dalle Invasioni al XVI secolo, Newton & Compton, Roma 1999, p. 365.25 G. Piccinni, Il Medioevo, cit., p. 239.
11
egemonia culturale, politica e giurisdizionale; tanto più che per imporla si era
impegnato in un formidabile scontro in primo luogo con l’impero germanico, si
ricordino gli scontri, dapprima con Federico I e in special modo, poi, con Federico
II, sovrano dalla forte personalità che restaurò il sistema politico dei re normanni e
dopo più di due secoli ridiede all’impero un centro evidente e stabile nella
penisola italiana; la chiesa di Roma si sentì pericolosamente accerchiata e cercò
con ogni mezzo di staccare il regno di Sicilia dall’impero. La monarchia papale si
era inoltre impegnata, sia pur con minore intensità, con i regni europei in via di
formazione e di consolidamento26. La guerra del Vespro, scoppiata in Sicilia nel
1282 come sommossa antifrancese, mise in evidenza la debolezza del papato che
contemporaneamente si trovò a dover affrontare anche le lotte scatenate a Roma
dalle famiglie aristocratiche e il legame sempre più stretto con la Francia.
Ma altre nubi si addensavano sul cielo della monarchia papale; queste nubi erano
rappresentate dal malumore che andava diffondendosi tra i cristiani che non
vedevano di buon occhio l’intromissione della corte papale nelle faccende
politiche dei vari stati, nelle guerre contro i ghibellini, nei biechi intrighi di corte.
Dopo la rinuncia di Celestino V, nel 1294, Benedetto Caetani, uomo energico ed
esperto di diritto canonico, salì sul trono pontificio col nome di Bonifacio VIII.
Egli fu particolarmente determinato nell’affermare l’assoluta supremazia della
chiesa sull’impero, secondo le sue affermazioni il papa era oltre che capo religioso
anche politico della cristianità. Peccato che queste sue idee appartenessero ormai
al passato. E lo scontro con Filippo il Bello che prese dei provvedimenti ostili alla
Chiesa, lo dimostrò. Nemmeno la scomunica papale cambiò le cose, anzi
Bonifacio, se possibile, ne uscì indebolito. Per recuperare terreno, all’inizio del
Trecento, fu indetto il primo giubileo in cui si proclamava un anno di indulgenza
plenaria per i pellegrini che fossero giunti in pellegrinaggio a Roma. Alla fine del
secolo, invece, la chiesa mostrò tutti i tratti di quella profondissima crisi in atto
già da tempo ma finora rimasta allo stato latente, che si manifestò sia col
trasferimento della corte papale ad Avignone ed in ultimo con l’apertura del
grande scisma del 1378 e la divisione del mondo cattolico27.
26 M. Montanari, Storia Medievale, cit., pp. 221-223.27 Per maggiori approfondimenti si veda: M.C .De Matteis, La Chiesa verso un modello teocratico: da Gregorio VII a Bonifacio VIII, in, La Storia. I grandi problemi dal Medioevo all’età
12
3 - Il Mezzogiorno e la Sicilia.
Durante la famosa rivolta del Vespro in Sicilia, esplosa il lunedì di Pasqua del 31
marzo 1282, gli insorti, costituitisi in lega di città, chiesero la protezione del papa,
denunciando la tirannia di Carlo I D’Angiò. A tal proposito, è importante
sottolineare che fino a due anni prima, era stata cura del papato, almeno lo era
stato da parte di papa Niccolò III, ridimensionare le aspirazioni egemoniche del
sovrano angioino, il quale, dal canto suo, era piuttosto impegnato nella
realizzazione di «un impero mediterraneo da Oriente a Occidente mediante la
conquista di Costantinopoli».28E tanta era stata la cura che, è probabile, nel
tentativo di stroncare sul nascere i progetti espansionistici di Carlo I, Niccolò III
abbia avviato relazioni diplomatiche con la corte aragonese.
Queste considerazioni emergono dai documenti sottoscritti da Giovanni da
Procida il 4 agosto 1278 da cui emergono le continue relazioni fra Roma,
Barcellona e Bisanzio relative, appunto, agli impegni di alleanze contro il
sovrano angioino.29 Il papa Bonifacio VIII, filofrancese, rifiutando la richiesta,
costrinse gli stessi insorti, lungi dal demordere, ad offrire il regno a Pietro III
d’Aragona, primogenito (ma secondo nato) di Giacomo I il Conquistatore, che
aveva sposato nel 1262 Costanza, figlia di Manfredi, della famiglia imperiale
sveva degli Hohenstaufen30. Il re aragonese veniva incoronato a Palermo nel 1282
con giuramento solenne. E dopo aver ricevuto l’omaggio dei baroni, il suo primo
pensiero fu di occupare militarmente tutta l’isola e di contrastare l’assedio
angioino di Messina. E le risorse necessarie per affrontare lo sforzo bellico, Pietro
III le cercò nell’isola; le imposizioni furono notevoli considerando inoltre che, alle
tradizionali collette, il sovrano aveva aggiunto il fodro, un tributo pagato in
contemporanea, a cura di N. Tranfaglia e M. Firpo, vol.I, Il Medioevo. I quadri generali, UTET, Torino 1998, pp. 425-442.28 D.J. Geneakoplos, L’imperatore Michele Paleologo e l’Occidente (1258-1282), Palermo 1985, p. 205.29 S. Tramontana, Il Mezzogiorno Medievale, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi nei secc. XI-XV , Editore Carocci, Roma 2000, p. 100.30 P. Corrao, Mezzogiorno e Sicilia (secoli XI-XV), in P. Corrao – M.Gallina – C. Villa, L’Italia Mediterranea e gli incontri di civiltà, a cura di M. Gallina, Laterza, p. 128.
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natura, era, infatti, difficile effettuare pagamenti in denaro, e che pesava
interamente sulle comunità rurali.
Cominciò così l’allontanamento dell’isola dal Mezzogiorno che, col passare del
tempo, divenne definitivo con la creazione del regno siciliano sotto il dominio
aragonese e il continente in mano agli angioini. Come conseguenza immediata
della conquista, il papa scomunicò Pietro III e lanciò l’interdetto sui regni della
Corona e lo stesso Pietro fu coinvolto in un lunghissimo conflitto con il sovrano
angioino per il possesso della Sicilia. Tale possesso, come ci ricorda Salvatore
Tramontana, che «apriva un conflitto insanabile con la Chiesa, era per il sovrano
d’Aragona uno strumento fondamentale di lotta per l’egemonia del Mediterraneo
nella quale erano impegnati Francia, Castiglia, Inghilterra, Angiò, Bisanzio».31 La
scomunica non dovette cogliere il re d’Aragona poi tanto di sorpresa anche se gli
effetti materiali e morali dell’azione papale furono, col tempo, molto più efficaci
di quanto lo stesso Pietro III avesse potuto immaginare, infatti quando il regno
passò nelle mani di Giacomo, secondogenito di Pietro, il quale dopo la morte del
fratello primogenito Alfonso, che aveva ereditato dal padre la corona iberica,
ereditò anche la corona d’Aragona (fino ad allora infatti i regni erano stati
separati), a patto che il trono di Sicilia toccasse al fratello minore Federico. Invece
Giacomo mantenne entrambe le Corone e si limitò a nominare Federico suo
luogotenente e vicario nell’isola, disponendo che soltanto se fosse morto senza
lasciare eredi le corone si sarebbero suddivise.
D’altronde, il possesso dell’isola e delle grandi isole tirreniche, era fondamentale
per il progetto egemonico perseguito dalla Corona aragonese anche perché, come
precisa Del Treppo, esse «sono basi strategiche incomparabili, centri di
arruolamento delle truppe, e soprattutto inesauribili fonti di vettovagliamento, e
capaci di alimentare qualsiasi operazione navale a larghissimo raggio».32 A
Giacomo, di certo, non interessava politicamente la Sicilia ma la monarchia
catalano-aragonese e infatti, dalle lunghe trattative di pace portate avanti dal
sovrano, è evidente un progressivo abbandono dell’isola al suo destino. Inoltre
31 S. Tramontana, Il Mezzogiorno Medievale cit., p.104.32 M. Del Treppo, I mercanti catalani e l’espansione della Corona d’Aragona nel secolo XV, Napoli 1972, p. 3.
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egli si rese subito conto dello squilibrio tra le forze angioine e quelle aragonesi e
accettò la proposta di pace che giungeva dal papa stipulando il trattato di Anagni
che prevedeva la rinuncia di Giacomo al trono di Sicilia e la conseguente
restituzione dell’isola agli Angioini in cambio di 120.000 libbre turonensi, del
ritiro della scomunica e dell’interdetto33. In cambio ricevette, dal papa Bonifacio
VIII nel 1297, l’infeudazione di un inesistente Regnum Sardiniae et Corsicae.
Nel corso del Trecento, alcune famiglie dell’aristocrazia siciliana fecero leva sui
sovrani d’Aragona per ottenere che l’isola fosse governata da un sovrano diverso
da quello del regno iberico, cioè da un re che seppure appartenente alla stessa
dinastia fosse da quel regno giuridicamente e istituzionalmente indipendente.
Avvenne così che, essendo in Sicilia molto forte il rancore verso gli angioini e
grande la diffidenza nei confronti dell’Aragona, durante la celebrazione del
parlamento del 1295, convocato per comunicare la rinuncia al trono di Giacomo,
Federico fu proclamato dai baroni del regno, signore di Sicilia e, l’anno dopo,
addirittura re all’unanimità.34. Fu tacito il consenso di Giacomo il quale, dal canto
suo, era più che lieto che la corona restasse in mano a un suo parente così
prossimo e devoto. In questo senso la monarchia di Federico non era circoscritta
alla Sicilia ma faceva parte a pieno titolo della Corona Aragonese di cui l’isola era
una delle componenti.
Inutile dire dell’amarezza che questo fatto provocò nei baroni siciliani e di quanto
triste fosse il non potersi opporre a una politica che ormai veniva giocata “fuori
casa”. Intanto, tra alterne vicende si giunse alla pace di Caltabellotta il 29 agosto
1302, tra angioini e seguaci di Federico III, il quale continuava a rimanere sul
trono fino alla morte, successivamente questo sarebbe passato a Carlo II d’Angiò.
Fu inserito nei patti, inoltre, il matrimonio tra Federico ed Eleonora, figlia di
Carlo II. Alla morte di Federico, nel 1337, la situazione era quanto mai precaria a
causa dei rapporti col papato, con gli angioini e con i guelfi d’Italia. In una lettera
a Stefano Colonna, Francesco Petrarca scrive: «Tutta la Sicilia, simile a un
vulcano che bolle, è in preda a grandi fiamme d’odio e dubitando se debba essere
Italia o Spagna, non è intanto né l’una né l’altra, in uno stato d’animo dubbio, in
33 S. Tramontana, Il Mezzogiorno Medievale, cit., pp. 104-105.34 Ibidem, p. 106.
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una schiavitù indegna, se pur è indegno d’essere chiavo chi non sa esser libero».35
Inoltre l’incapacità dei successori di Federico III di ricomporre il quadro politico,
aggiunsero il danno alla beffa.
Gli anni dai quaranta ai settanta del Trecento furono, di sicuro, anni molto difficili
trascorsi tra la disastrosa situazione di politica interna, la prepotenza baronale,
l’instabilità delle istituzioni, il fallimento della conquista di Napoli e della
completa disfatta angioina. In aggiunta alla situazione economica, igienica,
demografica e psicologica che la peste del 1348 aveva notevolmente aggravato.36
Intanto anno dopo anno, la monarchia perdeva terreno e vedeva indebolire sempre
più il suo potere, specie quello che il demanio le concedeva. La guerra con gli
angioini finì nel 1372 mantenendo inalterata la divisione provocata dalla guerra
del Vespro. Dopo la morte di Federico IV, nel 1377, era stata da lui stesso
designata alla successione la figlia Maria, di quattordici anni d’età. Alla sua tutela
era stato preposto Artale D’Alagona, potente barone del regno, suscitando
nell’isola invidie e liti. Per dirimere la questione, il re d’Aragona Pietro IV, il
Cerimonioso, formò un governo di “quattro vicari”, il cui compito sarebbe dovuto
essere la reggenza collegiale durante la minore età della regina. Ma poiché i
quattro baroni, più che dividersi equamente la reggenza, si concentravano su come
prevalere l’uno sull’altro, fecero in modo che Pietro il Cerimonioso facesse
trasferire la regina Maria a Barcellona perché si sposasse con il figlio Martino.
Conosciuta la notizia, i quattro vicari si riunirono insieme ai grandi baroni del
regno in un pseudo parlamento in cui diversi baroni erano disposti a riconoscere i
nuovi sovrani in cambio dei possessi e dei diritti usurpati e fu così che nel 1392,
Martino il Vecchio, non ancora divenuto re, in compagnia del figlio Martino,
detto il Giovane, e della regina Maria, allestì una flotta, diretto alla volta di
Palermo.37Una volta giunto, però, si trovò dinanzi una situazione molto più
complessa di quanto avesse pensato, l’essere acclamato da più parti, di per sé, non
aveva un gran significato, dal momento che, svariati erano i baroni che
manifestavano resistenza. Infatti apparve presto chiaro che: il suo intento era «di
35 F. Petrarca, Le familiari, a cura di V. Rossi e U. Bosco, cit., Firenze 1932-42, III, l.XV, 7, p.150.36 S. Tramontana, Il Mezzogiorno Medievale, cit., pp. 111-112.37 S. Tramontana, Il Mezzogiorno Medievale, cit., p.118.
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garantire i diritti della Corona, di assorbire l’isola nell’orbita catalano-aragonese,
di rafforzarne la posizione nel Mediterraneo. Alla morte di Giovanni I d’Aragona,
nell’ultimo decennio del trecento, gli succedeva al trono Martino. Il quale, pensò
bene che per legare strettamente la Sicilia all’Aragona e poter controllare i
patrimoni e i lignaggi, sollecitava unioni matrimoniali fra piccola e grande
nobiltà. Martino continuava ad essere il solo arbitro della politica siciliana anche
durante i periodi di corregenza con Martino suo figlio.
Nel 1409, Martino organizzò la spedizione in Sardegna, a spese della Sicilia per
difendere però, interessi esclusivamente iberici. Ci dice Tramontana che: « dopo
la scomparsa della regina Maria senza eredi[…]si riproponevano comunque i
problemi di legittimità istituzionale più che politica in quanto, è noto, sul
matrimonio con la figlia di Federico IV re Martino poggiava i diritti alla corona
di Sicilia».38 Pensò quindi di far sposare in seconde nozze Martino con Bianca di
Navarra, figlia del re. Ma la presenza di Bianca disturbò ulteriormente gli animi e
gli equilibri del regno, già così delicati. Durante la spedizione in Sardegna,
Martino muore e appena un anno dopo anche il padre viene a mancare
all’improvviso senza lasciare eredi. Passarono due anni prima dell’elezione del
primo rappresentante della dinastia castigliana degli Antequera, Ferdinando, figlio
del re di Castiglia. Presto costui inviò nell’isola come vicerè suo figlio Giovanni
di Peňafiel, così veniva sancita la fine del regno di Sicilia e l’unione all’Aragona.
Da ora in avanti, l’isola non avrebbe più avuto un suo re e avrebbe perduto la sua
importante posizione per diventare un’ulteriore strumento della Corona
d’Aragona. Alla morte di Ferdinando, nel 1416, gli successe sul trono Alfonso V,
il Magnanimo. Egli si preoccupò subito di rinsaldare le posizioni nel Mediterraneo
e specie in Sicilia, dove dopo la partenza del fratello Giovanni, inviò due vicerè.
Quest’ultima era una carica di particolare rilevanza sotto molti aspetti ed era
destinata ad apportare profonde trasformazioni. Il vicerè non era una carica
straordinaria e non scadeva con la morte del re che l’aveva concessa ed era il
punto di riferimento per le attività amministrative, inoltre egli esercitava, in nome
e per conto del re, pieni e indiscutibili poteri.39
38 S. Tramontana, Il Mezzogiorno Medievale, cit., p.129.39 Per ulteriori approfondimenti vedi: V. D’Alessandro, Politica e società nella Sicilia Aragonese, Palermo 1963.
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Il Regno di Napoli, a sua volta, governato dagli angioini era il più esteso d’Italia
perché comprendeva tutto il Mezzogiorno. Durante il regno di Roberto il Saggio,
Napoli, dall’inizio alla metà del Trecento, aveva conosciuto un periodo di vero
splendore. Egli si alleò col papa avignonese dal momento che, per antica
tradizione, i regni meridionali erano considerati vassalli del papa. Cercò inoltre, di
riconquistare la Sicilia impegnando uomini e mezzi. Attuava una politica filo
guelfa che portò suo figlio Carlo di Calabria ad essere per un certo tempo, signore
di Firenze; è infatti noto che mercanti fiorentini e banchieri trovarono nel regno
grandi agevolazioni e molto spazio per le loro attività. A poco a poco però, le lotte
dinastiche indebolirono l’autorità angioina svuotandola sempre più di quella
lucidità che l’avevano portata a mantenere saldamente il potere.
La seconda metà del Trecento vide il governo di Giovanna I che divenne regina a
diciassette anni. Durante il suo regno continuò la politica commerciale del nonno
Roberto. Favorì, infatti, in ogni modo l’operato dei mercanti fiorentini arrivando
perfino ad eleggere Nicolò Acciaiuoli, uomo d’affari di Firenze, come suo
consigliere. Cercò anch’essa di riprendersi la Sicilia, senza riuscirci. Non avendo
avuto figli, stabilì che a succederle fosse Luigi d’Angiò.
Costui si trovò in lotta con gli altri aspiranti al regno, tra i quali Carlo III di
Durazzo che nel 1381, fu incoronato re di Napoli dal papa. I sovrani dopo di lui
portarono al massimo dello sfacelo il regno angioino. Preme comunque
sottolineare che, durante i centosettant’anni di predominio francese, Napoli
conobbe uno splendido rinnovamento culturale. Nel corso del solo Trecento si
potevano incontrare personalità come Petrarca, Boccaccio, artisti come Simone
Martini o Giotto. Nel 1442 l’Italia meridionale fu unita alla corona aragonese
insieme alla Sicilia. Infatti, dopo la morte di Giovanna II, divenuta regina all’età
18
di 45 anni dopo la morte di suo fratello Ladislao (figlio di Carlo III)40, senza eredi,
la corona era andata ad Alfonso il Magnanimo che l’aveva reclamata.
Questo evento scatenò le rivendicazioni degli Angiò-Valois che, unitisi ad altre
forze, che non vedevano di buon occhio uno strapotere aragonese in Italia,
cercarono, senza riuscirci, di riottenere il predominio. Alfonso si ritrovò una
situazione inquieta e difficile, i n cui era necessario da un lato legittimare la
corona e dall’altro dare soddisfazione al baronaggio. E su questo fronte Alfonso
cominciò a lavorare, concedendo larghe autonomie ai feudatari concedendo il
mero e misto imperio41 in cambio del riconoscimento dinastico per il figlio
Ferrante. Per Alfonso il dominio di Napoli significava inserirsi in uno dei
crocevia mediterranei di maggiore rilievo: una posizione che garantiva il diretto
coinvolgimento nelle vicende italiane, che assicurava relazioni dirette con
economie potenti e un ruolo eminente negli affari della Chiesa. Raramente una
città e il suo re si sono incontrati in modo così felice come Alfonso con Napoli,
abitata, utilizzata e scelta come sede della corte e come punto di riferimento di
tutti gli stati della Corona d’Aragona. Cosa mai avvenuta prima per nessun’altra
città del regno che non fosse Barcellona.
E’ importante sottolineare il forte impulso culturale che Alfonso impose alla città.
Egli desiderava porsi come l’ideale del principe letterato rinascimentale. Grazie a
lui si andò riformando in città una biblioteca ricca di libri di ogni genere,
specialmente classici latini e greci e testi sacri. Poeti, letterati, filologi, architetti,
scultori, pittori fiamminghi, storici, tutti concorrevano a dare voce alle ambizioni,
alle “virtù” e ai sentimenti propri di un re cosciente di appartenere ad una grande
dinastia come Alfonso il Magnanimo. L’interesse che dimostrava per la Sicilia,
40 Così Machiavelli, nelle sue Istorie fiorentine: «Aveva Ladislao re di Napoli morendo lasciato a Giovanna sua sirocchia, oltre al regno, un grande esercito capitanato dai principali condottieri di Italia………..La reina tolse per marito Jacopo della Marcia francioso, di stirpe regale, con queste condizioni, che fusse contento di essere chiamato principe di Taranto, e lasciasse a lei il titolo il governo del regno». Sappiamo che poi, successivamente, egli assunse direttamente il potere. In N. Machiavelli, Istorie Fiorentine; diligentemente riscontrate sulle migliori edizioni, con alcuni cenni intorno alla vita dell'autore dettati da G.-B. Niccolini. - Rist. anast. / con introduzione di Eugenio Garin, Le Monnier, Firenze 1990, l.1, c. 38, pp. 132-133. 41 «Tale concessione poteva apparire come una macchia all’immagine autorevole di Alfonso, mentre denota comunque l’impegno di un sovrano che, tra mille difficoltà e varie incertezze, cercava di far funzionare al meglio l’affannata macchina della monarchia». Da S. Tramontana, Il Mezzogiorno Medievale, cit., pp. 172-173.
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era un interesse particolare che non si esauriva nella sola utilizzazione di un
territorio che poteva fornirgli e che di fatto gli forniva, i mezzi finanziari e
logistici non solo per l’impresa napoletana ma anche per l’egemonia politica nel
Mediterraneo. L’isola era, infatti, strettamente connessa ai progetti politici e
militari del sovrano. I destini dei due regni tornarono a dividersi dopo la morte di
Alfonso42 fino a quando nel 1504 furono definitivamente riuniti sotto il dominio
spagnolo da Ferdinando il Cattolico.
4 - La corte Aragonese e Spagnola.
Nei secoli XIV e XV la penisola iberica riorganizzò i propri poteri monarchici
giungendo ad una semplificazione politica (vi era stata infatti fino alla metà degli
anni trenta del Duecento una frammentazione in ulteriori due stati, Leòn e la
Catalogna, che furono poi riassorbiti rispettivamente dalla Castiglia e
dall’Aragona) che vide l’esistenza dei regni cattolici di Aragona, Castiglia,
Navarra e Portogallo e dell’unico regno musulmano della penisola, il regno di
Granada. Questi regni erano eterogenei da un punto di vista economico, sociale,
culturale e linguistico ed ebbero in questi secoli anche sviluppi diversi che
potevano trovare una linea comune nell’instabilità politica e nelle continue crisi
dinastiche.
Infatti, all’interno di ciascun regno era stato avviato un processo di rafforzamento
già dal Duecento che vide impegnati i regni cattolici, col sostegno del papa e
quello militare di molti cavalieri di altri regni europei, nell’espansione militare ai
danni del regno musulmano. E fu così che il regno di Castiglia riuscì a conquistare
città importanti come Cordova e Siviglia mentre il regno d’Aragona, che
contemplava anche la Catalogna, oltre a rafforzare le proprie fondamentali
posizioni nel Mediterraneo, conquistò sia Valencia, sia le Baleari. Altrettanto fece
42 Sul regno di Alfonso a Napoli si vedano: E. Pontieri, Alfonso il Magnanimo,re di Napoli: 1435-1458, Napoli 1975; R. Moscati, Lo stato napoletano di Alfonso d’Aragona, in Atti del IX Congresso di Storia della Corona D’Aragona, I, Relazioni, Napoli 1978.
20
il Portogallo. Il regno di Navarra fu invece l’unico a non espandere
geograficamente i confini precedenti la Reconquista, schiacciato anche dalla
grandezza del regno d’Aragona. Era certo che Castiglia e Aragona la facevano da
padroni assumendo un ruolo di guida della penisola, questo, anche se avevano
interessi molto diversificati. Il regno di Castiglia guardava all’interno, alle sue
grandi pianure, pensava a ripopolare le zone urbane, mentre nelle campagne,
essendo tanto pochi gli abitanti, fu favorita la formazione del grande latifondo, sia
laico, che ecclesiastico. Invece in Aragona aveva spazio una classe nobiliare
fortemente radicata nel territorio: anche la stessa sovranità si basava su un
giuramento tra il re e i diversi gruppi sociali eminenti nel regno perché vegliassero
sul rispetto delle consuetudini di cui avevano sempre goduto43.
L’Aragona era una confederazione di regni, per questo era chiamata Corona, a
differenza delle monarchie di Francia e Inghilterra. Comprendeva l’Aragona, il
regno di Valencia, e la Catalogna. Nel corso del Duecento conquistò le Baleari,
tolse la Sicilia agli Angioini in seguito alla guerra del Vespro, e nel 1323 giunse in
Sardegna l’infante Alfonso, figlio di Giacomo II, per tentare la conquista
dell’isola che era stata infeudata a Giacomo da papa Bonifacio VIII44. Il regno di
Navarra fu invece assorbito dal regno di Francia attraverso un’accorta politica
matrimoniale. La contrazione demografica che investì l’Europa durante il
Trecento, toccò solo marginalmente la penisola iberica: alcuni storici hanno
supposto, infatti, che l’espansione verso il Mediterraneo e l’Africa sia stato un
sintomo di questo dato che ha reso vitale la sua gente spingendola da un lato verso
quella rotta de las islas che l’Aragona cercava di realizzare per poter giungere in
Oriente e dall’altro verso la costruzione di un impero africano che la Castiglia e il
Portogallo stavano cercando di perseguire45.
Nonostante i mercanti europei avessero raggiunto una certa indipendenza nei
traffici con l’Oriente, non erano riusciti a fare a meno della mediazione
commerciale di arabi e turchi per raggiungere le zone più interne. Le cose erano
poi peggiorate dopo il 1350 quando a causa della sconfitta dell’impero mongolo,
43 G. Piccinni, Il Medioevo, cit., p. 231.44 F. C. Casula, La Sardegna Aragonese, La Corona d’Aragona, vol.I , Edizioni Chiarella, Sassari 1990, pp. 147-148.45 M. Montanari, Storia Medievale, cit., p.216-217.
21
le vie transcontinentali d’accesso alla Cina erano state chiuse. I mercanti avevano,
a questo punto, dovuto trovare vie alternative verso le favolose Indie. Una di
queste era appunto la via delle isole (Baleari, Sardegna, Sicilia), che come basi
strategiche permettevano di arrivare alla via delle spezie attraverso l’Africa del
Nord e il Mediterraneo orientale46. Mentre la Castiglia, che già dal Trecento aveva
rivolto le sue attenzioni al grano del Marocco, essendo forte di una marina
mercantile molto sviluppata, contava, e non solo la Castiglia ma anche il
Portogallo, sul fatto che i mercanti europei se volevano trovare, come detto prima,
nuove vie per l’Oriente attraverso l’Atlantico, erano costretti a passare dai loro
territori.
Nel 1391 da Siviglia partì una spedizione per le Canarie, mentre nel 1400
francesi, castigliani e portoghesi circumnavigarono l’Africa. A metà Quattrocento
i re di Castiglia e Portogallo annientarono Marocco e Granada. I primi anni del
secolo in Aragona si estinse con Martino il Vecchio la dinastia dei conti-re
catalani che , a cominciare da Raimondo Berengario IV, aveva governato per circa
cinquecento anni la confederazione catalano-aragonese. Cominciò così un difficile
periodo di vuoto di potere fino all’elezione a Caspe di Ferdinando I d’Antequera
della famiglia castigliana dei Trastàmara. Alfonso V succeduto a Ferdinando I,
aggiunse nuovi territori come il regno di Napoli, dove fissò la sua dimora. La
penisola vide i regni presenti condurre vita propria fino al 1469 quando il trono di
Castiglia e Aragona fu definitivamente unito sotto un’unica corona, quella
spagnola, grazie al matrimonio tra Ferdinando il Cattolico, figlio di Giovanni II
d’Aragona e Isabella regina di Castiglia47.
Ultimo grande avvenimento da ricordare sul finire del secolo XV è la conquista di
Granada (1492) strappata ai Mori dopo un lungo assedio. La città era stata una
delle più grandi di Spagna composta in prevalenza da musulmani, ebrei e cristiani.
Le due culture diverse dalla cristiana furono perseguitate in maniera spesso
violenta, famose, infatti, sono quelle contro gli ebrei i quali furono costretti a
scegliere tra la conversione e l’esilio, furono inoltre vittime di soprusi e di
46 Ibidem.47 F. C. Casula, L’età dei Catalano-Aragonesi e degli Arborea, in La Sardegna, a cura di M. Brigaglia, Della Torre, p. 48.
22
confisca dei loro beni, a causa delle loro grandi ricchezze. Dalla Spagna si
dispersero in Italia, in Africa del Nord e nell’impero ottomano alla ricerca di
nuove patrie.
Figura 4. I domini spagnoli nel 1360.
23
Capitolo II – Educazione e Istruzione delle donne.
1 - Le età della donna. Nascita, fanciullezza, matrimonio.
«Nell’antichità, nel Medioevo, nel Rinascimento e fino alle soglie dell’età moderna, udiamo le voci femminili o come rumore di fondo, dietro e attraverso i discorsi degli uomini, o come canti, o
gridi, isolati».
Elisabetta Rasy, Le donne e la letteratura.48
La vita di una donna, in qualunque tempo e in qualunque cultura, è sempre stata
contrassegnata dalla sottomissione all’uomo. Allora come oggi. E per quanto le
conquiste femminili del XX secolo, la rivoluzione sessuale degli anni Settanta, la
stessa dignità giuridica, il diritto di voto, l’aborto, abbiano indubbiamente
apportato significativi e importanti miglioramenti nella vita delle donne, tuttavia
esse continuano a rimanere in soluzione di minoranza e discriminazione nei campi
della politica, della ricerca scientifica, dell’economia, dell’imprenditoria, della
finanza. Quelle poche che rivestono incarichi importanti, sono un’eccezione che
confermano la regola. Altrimenti, se uguaglianza esistesse, istituzioni come le
famose “quote rosa”, ovvero gentili concessioni maschili alle donne che volessero
intraprendere la carriera politica o addirittura il Ministero per le Pari Opportunità,
non avrebbero ragion d’essere. Nei secoli di cui si parla in questo lavoro, la donna
in linea di principio, fosse essa appartenente alla nobiltà o al popolo, viveva
all’ombra di un uomo, come diceva Virginia Woolf in “ Le donne e la scrittura”,
le donne erano costrette al silenzio da condizioni sociali e familiari che le
condannavano a «guardare di straforo alla vita, attraverso gli occhi e gli interessi
[del padre], del marito o del fratello».49 Non si può fare a meno di rilevare la
«constatazione cioè della debolezza numerica e della irrilevanza sociale delle
donne in una società che pure ci ha lasciato di esse le immagini più sensibili e
raffinate, e che ha parlato moltissimo della famiglia».50 Sulla periodizzazione della
48 E. Rasy, Le donne e la letteratura, Editori Riuniti, Roma 1986.49 V. Woolf., Le donne e la scrittura, a cura di Michèle Barret, Milano, La Tartaruga, 1981 (tit. orig. Women and Writing, London, The Women’s Press, 1979)50 C. Klapisch-Zuber, La famiglia e le donne nel Rinascimento a Firenze, Editori Laterza, 1995, p. 12.
24
vita femminile, si può dire che le fonti scritte, ad esempio quelle normative, non
sono in grado di darci informazioni esaustive o precise riguardo questo tema. Si
trovano, invece, risposte più articolate e diversificate nell’arte e nella letteratura a
cui le arti stesse hanno attinto per la loro produzione. L’ambito artistico ha
prodotto, da un punto di vista iconografico, nel medioevo e nell’età moderna, un
vasto repertorio circa “le età della vita” con una vasta gamma di intepretazioni.
La letteratura e l’iconografia ci attestano l’esistenza di almeno 7 diverse mappe
della vita51. Si citeranno le più importanti: la prima scansione vede una
suddivisione in 3 età secondo lo schema: giovinezza – maturità – vecchiaia, che
applica alla vita lo schema triadico ascesa – stasi – declino e che era desunto dal
percorso del sole nel cielo. In realtà, questo schema deriva la sua autorità da
Aristotele. 52La seconda, la vede iscritta in un sistema diviso in 4 parti, basato sulla
tetrade pitagorica dei principi che ordinano l’universo: 4 gli elementi che ordinano
51 S. Seidel Menchi – A. Jacobson Schutte – T. Kuehn, Tempi e Spazi di vita femminile tra medioevo ed età moderna, Il Mulino, Bologna 1999.52 Essa deriva dallo schema triadico di Aristotele che vedeva una suddivisione in augmentum – status – decrementum. Da K.T. Wirag, Cursus Aetatis, p.11.
25
Figura 5. Anonimo Italiano, Le età della vita femminile, metà del sec. XVI (Londra, Warburg Institute).
il cosmo, 4 le stagioni e 4 i venti (di origine tolemaica), 4 gli umori del corpo
umano (di origine ippocratica e galenica), 4 i punti cardinali, così anche la vita
dell’uomo consta di 4 età. L’interpretazione che vede la scansione in 6 età,
risponde ad una visione agostiniana della creazione nella Genesi (1,1-2,3).
Agostino aveva stabilito una relazione fra i 6 giorni della creazione, le 6 età della
storia universale e le 6 fasi della vita umana53. Si citerà, infine, un’ulteriore
schematizzazione in 7 età, secondo il numerus perfectionis di Pitagora che lo
innalzò al ruolo di numero estremamente potente capace di dare forma al mondo e
alle sue parti. Quest’ultima ripartizione della vita stabiliva una relazione fra le età
dell’uomo e i corpi celesti, in base alla convinzione che «gli astri esercitassero un
influsso e un controllo sulla vita degli uomini»54. E’ interessante notare la
sequenza delle età tramandataci da un giurista piemontese del primo Cinquecento,
Giovanni Nevizano: «Vi sono alcuni che enumerano gli esercizi femminili
ripartendoli per età della donna, di 7 anni in 7 anni. Nei primi 7 anni è mezzana,
perché la madre si serve di lei, bambina e incapace di malizia, per mandare a
chiamare l’amante. Nei 7 anni successivi è vergine. Fra i 14 e i 21 anni è preda
d’amore. Nei 7 anni successivi – dai 21 ai 28 – è meretrice. Fra i 28 e i 35 anni è
giovenca o porca. Nel settennio che segue è di nuovo mezzana. Fra i 42 e i 49 è
rigattiera. Fra i 49 e i 56 anni va a mendicare vino con l’orcio. Nei 7 anni
successivi diventa strega. Finisce bruciata»55.
Appare chiaro che la biografia della donna coincida con la corporeità nelle sue
diverse fasi. I periodi della sua vita non sono proposti come se fossero parte
integrante della sfera emotiva e psicologica e anzi da questi stessi condizionati e
influenzati, ma come una serie di “esercizi” che la natura stessa le ha imposto. La
soluzione nella quale le donne stesse si ritrovavano era lo schema delle 3 età. Il
passaggio dall’infanzia all’età adulta era fissato a partire dai 12 anni e per le
donne significava anche il momento del matrimonio e quindi dell’età adulta. E’
importante anche sottolineare che questa età era più reale per quelle fanciulle che
appartenevano a ceti sociali elevatissimi, mentre per quelle, senz’altro più
53 S. Seidel Menchi et al., Tempi e spazi di vita femminile, cit., p. 112..54 E. Sears, The Ages of Man, Medieval Interpretations of the Life Cycle, Princeton 1986.55 Clarissimi iurisconsulti d. Joan. De Nevizanis civis Asten. Sylva nuptialis, Impressa Lugduni per Jannem Moylin alias de Cambray, 1526, f. XX<X>VIIr-v.
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fortunate, che appartenevano ai ceti mercantili o cittadini o contadini, l’età
arrivava anche ai 16-19. I 25 anni segnavano una svolta per le donne che ancora
non avevano contratto matrimonio. Gli statuti genovesi permettevano alle donne
di quell’età di potersi sposare anche senza il consenso paterno e anzi un padre che
non avesse ancora maritato la figlia a quell’età, non solo verrebbe meno ai suoi
doveri di padre, ma potrebbe anche essere costretto dalla figlia stessa a fornirla di
una considerevole dote56. Si è affermato e ancora forse accade, che nel Medioevo
non sia esistita un’infanzia vera e propria, di sicuro non come noi la intendiamo.
Ma le fonti ci attestano una realtà ben diversa; e anche qui la letteratura e
l’iconografia ci vengono in aiuto. Infatti, in queste due espressioni dell’umano
ingegno, troviamo tutti gli stadi dell’infanzia e della giovinezza, dal lattante al
bambino in fasce, una dietetica per bambini, giocattoli e testi che, a vario modo e
titolo, si occupano di educazione e disciplina del bambino57. Troviamo
testimonianza di ciò in numerose pale d’altare, dove è spesso raffigurato il
lattante, con accanto una tinozza colma d’acqua pulita e panni caldi per
asciugarlo, inoltre prima di essere posato nella culla, veniva messo in posizione e
avvolto strettamente in fasce. Il neonato veniva allattato fino ai 2 anni e troviamo
in questo periodo registrazioni relative a precise regole sull’alimentazione, la
digestione e rimedi per alleviare i fastidi dovuti alla dentizione.58
Dopo la nascita, i bambini venivano affidati ad una balia, se appartenenti a
famiglie ricche, o borghesi o abbandonati in uno dei tanti Spedali della città che
col tempo cominciarono ad ospitarli, se figli di serve o se nati all’interno di
famiglie numerose e disagiate. Dai libri di famiglia fiorentini esaminati da
Christiane Klapisch-Zuber, sappiamo che «i fiorentini tengono in casa più spesso i
maschi che le femmine; per tutto il periodo preso in esame (1300-1530), il 23%
dei bambini maschi è affidato ad una balia che abita in casa, contro il solo 12%
delle bambine, per un periodo più o meno lungo. Inversamente, sono mandati in
campagna il 68% delle femmine, contro il 55% dei maschi59». Questi dati
56 S. Seidel Menchi et al Tempi e Spazi cit., p.141.57 H. Schipperges, Il giardino della salute, la medicina nel Medioevo, cap. III, nascita, maturazione e morte, Garzanti , p.28.58 Ibidem, p.30.59 Klapisch-Zuber, La famiglia e le donne, cit., p.221.
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esprimono, con chiara evidenza, un dato inconfutabile: era più facile separarsi da
un neonato di sesso femminile che da un maschietto, destinato a diventare loro
erede.
Dalle fonti a nostra disposizione notiamo che il parto di una donna nobile non era
mai un’esperienza privata da condividere con altre donne capaci di assisterla come
levatrici, medici, altre donne della famiglia, ma era, anzi, un affare di stato. Vi
erano un numero incredibile di persone (ambasciatori, cancellieri, membri del
governo) estranee alla cerchia dei parenti, incaricate soltanto di seguire il parto in
tutte le sue fasi, accertare il sesso del bambino, assicurarsi che fosse garantito il
legame di sangue con la partoriente. Tutto ciò senza che venisse per nulla
considerato l’aspetto intimo del parto, che mette la donna in una condizione di
difficoltà, paura e grande pericolo di vita per sé e per il nascituro. Era, infatti,
molto frequente morire di parto e, si diceva che le donne che morivano mettendo
al mondo i loro figli o che abortivano, avessero una lunga agonia. Le loro anime,
secondo Burcardo di Worms, erano particolarmente pericolose perchè uscivano
dai sepolcri a tormentare i vivi. L’unico modo per liberarsene consisteva nel
trafiggere con un palo la madre insieme all’infante, per legarli saldamente alla
terra.60
E’ possibile immaginare quanto grande dovette essere l’ansia di queste
giovanissime donne! La nascita di una figlia femmina era quasi sempre un
elemento di grande frustrazione per la donna che l’aveva partorita. Se apparteneva
ad un ceto sociale elevato, lo era perché non metteva la madre nelle condizioni di
assicurare un erede alla dinastia e questo non le permetteva di godere di tutta una
serie di privilegi di cui invece avrebbe goduto in caso di un maschio; nel 1475,
come racconta uan cronaca contemporanea, «nascete una fiola al duca Hercole61,
chiamata Beatrice……et non si fece allegreza, perché volea ch’el fusse
60 Burchardus da Worms (950-1025), fu vescovo di Worms, tra il 1008 e il 1012 scrisse un Penitenziale (erano una sorta di tariffari in cui venivano annotati i peccati con le relative penitenze che potevano quantificarsi sia in preghiere sia in denaro) che faceva parte del suo immenso Decretum, ovvero raccolta completa di diritto canonico.61 Si tratta del duca Ercole d’Este, duca di Ferrara e di Modena, il quale sposò nel 1473 Eleonora, figlia di Ferrante, figlio naturale di Alfonso il Magnanimo, fu re di Napoli.
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maschio».62Se apparteneva ad un ceto sociale basso, lo era perché significava che
non solo non poteva, in quanto femmina, portare braccia robuste per il lavoro, ma
che pure le si doveva trovare un marito e fornirla di una dote. Spesso si risolveva
il problema con l’abbandono, laddove non ci pensava la morte, molto presente tra
i bambini, a liberare i genitori dal pensiero di dover crescere un figlio.
Una bambina appena nata, in una ricca famiglia, veniva sottoposta a un esame, il
primo tra i tanti che avrebbe dovuto sopportare per stabilire pregi e virtù, difetti o
manchevolezze che avrebbero potuto portare ad una brillante o, viceversa, opaca
contrattazione prematrimoniale. La bellezza, la salute e, insomma, la perfezione
fisica l’avrebbero riscattata dall’imperfezione del sesso. Infatti, padri, fratelli e
perfino madri, quindi altrettante donne con le quali a suo tempo fu adottato lo
stesso metro, guardavano all’utilità e ai vantaggi che avrebbe potuto fornire alla
famiglia la nascita di una femmina. Vantaggi, certamente, di tipo economico, nel
caso di un matrimonio con una ricca famiglia, di tipo territoriale e politico, nel
caso di inimicizie da risolvere tra potenti, la donna veniva usata come pegno, o,
ancora, vantaggi di tipo dinastico, nella necessità di rafforzare uno Stato, di
elevare le parentele.
Maritare una donna era un affare serio per qualunque uomo, se la donna in
questione apparteneva alla nobiltà o alla ricca borghesia, genitori e parenti
autorevoli cominciavano a predisporre piani che ambasciatori di professione od
occasionali incaricati di missioni avevano il compito di rendere noti agli
interessati63. Se la poverina apparteneva ad una famiglia modesta era il padre ad
occuparsi di trovarle marito e dote, modesta certamente ma sebbene tale la dote
era necessaria, tanto che si ricorreva persino a prestiti per ottenerla, e nel caso
fosse orfana di padre era la madre a preoccuparsi di tutto. Nel mercato dei
matrimoni, tutto andava attentamente valutato, non solo le offerte ma anche le
domande. Il lignaggio doveva essere importante, se non superiore almeno alla
pari, l’alleanza più o meno strategica, il consolidamento di alleanze matrimoniali
precedenti erano tutti criteri che andavano oculatamente verificati.64
62 M.S. Mazzi, Donne e Potere, in” Medioevo. Un passato da riscoprire”, anno 9, n.11, novembre 2005, pp. 98-121.63 Ibidem, p. 105 (§ Le giuste nozze per il casato).64 Ibidem, p.105.
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Figura 6. La cavalleria era uno dei tratti più ambigui del rapporto uomo-donna. Se da un lato esaltava la figura femminile, dall’altro la trattava come un oggetto di venerazione, in cui il desiderio era non
appagato per principio, trasformando la donna in un essere senza sostanza.
L’unica controparte completamente trascurata e ininfluente era proprio la donna. I
suoi desideri, i suoi bisogni, il suo pensiero erano assolutamente assenti da questo
gioco d’interessi. Veniva privata persino del suo legittimo diritto ad avere
informazioni precise sullo sposo. Caratteristiche fisiche e qualità caratteriali erano
descritte con tanta vaghezza da lasciare forse fin troppo spazio alla fantasia di
giovani fanciulle che una volta maritate si ritrovavano molto spesso di fronte a
mariti deformi o con 20 e più anni di loro o che ancora ospitavano nelle loro case
amanti e figli bastardi. La preparazione all’unione matrimoniale avveniva prima
che tra gli sposi attraverso un contratto che sanciva dal punto di vista giuridico
l’accordo concluso. I patti contemplavano tempi e modi in cui avrebbe dovuto
svolgersi il rituale solenne della celebrazione, ma soprattutto disciplinavano la
dote. L’ammontare, i tempi di versamento, poteva essere versata a rate e quasi
sempre lo era, in un’unica soluzione o dilazionate, e quali erano le penalità
previste per inadempienza: tutto doveva essere minuziosamente analizzato,
pattuito e scritto in dettaglio nell’atto notarile.65 C’è da evidenziare che anche lo
sposo aveva i suoi obblighi: un assegno da versare annualmente alla sposa, il
numero di coloro che avrebbero dovuto formare la sua corte, la quantità di
65 Ibidem, p. 112 (§ Il contratto nuziale).
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accompagnatori dalla terra d’origine che la sposa avrebbe potuto tenere con
sé.66Nelle famiglie di ceto medio-basso, dopo questo accordo, il fidanzato si
precipitava dalla sua promessa sposa, e le portava di solito qualche regalo mentre
la famiglia di lei gli offriva in cambio una bella cena.67Diverso era invece
l’approccio tra nobili.
Dopo la celebrazione del matrimonio per procura, la sposa veniva accompagnata
con una cavalcata solenne fino alla città dello sposo. Tutto poteva sembrare dorato
alle giovani spose che coltivavano speranze e sogni, si apriva per loro una nuova
vita accanto all’uomo a cui erano state consegnate. Inizialmente inorgoglite dalle
attestazioni di rispetto e di ossequio, lusingate spesso dai doni e dalle celebrazioni
di cui erano fatte omaggio, le poverine non erano preparate ad una realtà che
aveva poco di dorato e favoloso. La malinconia del distacco dalla famiglia
d’origine, non si dimentichi la loro giovanissima età, e dalla terra in cui erano
cresciute, la fatica e i disagi del viaggio di trasferimento, il peso della
rappresentanza, l’obbligo di un comportamento perfetto da tenere durante le varie
cerimonie a corte e l’ansia di ritrovarsi accanto ad un uomo sconosciuto che avrà
in mano la loro sorte, contribuivano a rendere la loro posizione davvero poco
invidiabile.68Era quindi solo questione di tempo il rendersi conto che non era
esattamente ciò che avevano sognato.
«Dominio e potere sono maschili. Coniugati al femminile diventano offerta e
dedizione»69anche quando, casi notevoli come quello di Eleonora d’Aragona
hanno dato prova di grandi capacità di governo e gestione del potere: per due
lunghi periodi e per diverse ragioni essa si trovò a reggere il dominio estense. O il
caso di Giovanna I e Giovanna II, entrambe regine del regno di Napoli, o della
regina Maria, moglie di Alfonso il Magnanimo, che resse da sola la Corona
durante la permanenza di Alfonso a Napoli.
66 Ibidem.67 Klapisch-Zuber, La famiglia e le donne, cit., p.115.68 M.S. Mazzi, p.114 , (§ Donne e Potere).69 Ibidem, p. 115 (§ Onore e oneri).
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2 – Un’educazione per i maschi e una per le femmine.
« Lo fanciullo….nè sei o né sette anni porlo a leggere; e poi o fallo studiare o pollo a quella arte che più gli diletta….E s’ell’è fanciulla femina, polla a cuscire e none a leggere, chè non istà
troppo bene a una femina sapere leggere, se già no la volessi fare monaca….».
Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi, pp. 126-127.
Nel Medioevo, l’educazione dei figli era legata al loro sesso ed era influenzata dal
futuro che i rispettivi genitori avevano progettato per loro. I maschi potevano
essere destinati a diventare re, principi o uomini di governo, oppure mercanti,
artigiani, contadini o cavalieri o ancora, uomini di chiesa. Le femmine invece
potevano diventare mogli, fosse pure in qualità di regine o principesse, di
contadine, donne mercanti o tessitrici o serve, o entrare in convento; qualunque
fosse il futuro della donna, questo era sempre subordinato alla figura maschile e la
sua educazione era sempre un affare maschile, infatti, «il ruolo che la donna
conserva in questa società è sempre e solo inevitabilmente orientato in funzione di
valori esclusivamente maschili».70Nella terza predica alle donne sposate di
Gilberto da Tournai71, egli si raccomanda calorosamente alla donna maritata
perché impari il governo della casa, che consta di quattro compiti e tra questi al
primo posto compare l’educazione dei figli: «educhi perciò i figli a non ascoltare
nient’altro e a non parlare di nient’altro se non di ciò che riguarda il timore e
l’amore di Dio, a non avere turpi pensieri e a ignorare le canzoni del mondo» e
prosegue «allontani le figlie da quelle persone di mondo che possono insegnare in
modo peggiore il male che hanno acquisito».72Fin da piccoli, quindi, i bambini
venivano educati secondo i principi della fede e dei buoni costumi, così come del
resto raccomandavano le Sacre Scritture. In un passo dell’Ecclesiastico,73 cap. VII,
si dice: “Hai figli? Educali e piegali alla sottomissione fin dalla giovinezza”74
70 C. Xodo Cegolon, Lo specchio di Margherita, per una storia dell’educazione femminile nel Basso Medioevo, cit., Università di Padova.71 Predicatore dell’Ordine Francescano che scrisse verso la metà del secolo XIII.72 Da C. Casagrande, Prediche alle donne del secolo XIII, Bompiani, 1978.73 Questo libro fa parte della Bibbia greca, ma non figura nel canone ebraico, è uno dei libri deutero-canonici accolti dalla chiesa cattolica. E’ stato scritto in ebraico; san Girolamo l’ha conosciuto nella lingua originale e i rabbini l’hanno citato. I due terzi circa di questo testo ebraico sono stati ritrovati nel 1896 nei frammenti di diversi manoscritti del medioevo provenienti da una vecchia sinagoga del Cairo.74 Da Ecclesiasticus liber,7, 23
32
laddove il termine piegali è usato nel senso di volgere verso il bene, dal momento
che, è la giovinezza il tempo in cui l’uomo, in quanto essere umano, è più
malleabile.
Nel pensiero pedagogico medievale, l’educazione non era soltanto influenzata dal
futuro ruolo nella società che il bambino avrebbe occupato da adulto, ma era,
inoltre, particolarmente legata alla posizione sociale che la sua famiglia occupava,
nella città come nella campagna. Anzi, la disparità sociale era considerata il primo
e più importante dato di fatto che l’educatore doveva considerare.75Tra laico ed
ecclesiastico, tra un ragazzo destinato alla vita nel mondo ed uno nella chiesa o
nel monastero, vi era una distinzione che precedeva tutte le altre. A conferma di
queste differenze, talvolta operate con una minuziosità stupefacente, Gregorio
Magno76 nella Regula Pastoralis, precisa: «Bisogna istruire in un modo gli uomini
ed in un altro le donne, in un modo i giovani ed in un altro i vecchi; in un modo i
poveri ed in un altro i ricchi; in un modo quelli che sono allegri ed in un altro
quelli che sono tristi; in un modo i sottoposti ed in un altro i superiori; in un modo
i servi ed in un altro gli ignoranti….».77Il fanciullo non era visto come individuo
autonomo ma sempre in relazione ad un modello, che è rappresentato dall’uomo
adulto. Più il fanciullo era disponibile con l’educatore, più costui aveva la facoltà
di riprodurre in lui l’uomo ideale. Questa la visione seguita fino a quando la
tradizione cristiana non introdusse una nuova prospettiva, quella che, da un lato lo
vedeva come frutto del peccato originale e quindi incline al male per natura e
quella che, dall’altra, vedeva il modello di bambino che Gesù aveva indicato nel
Vangelo quando disse: «Se non vi farete come uno di questi piccoli, non entrerete
nel Regno dei Cieli».78E da qui parte il maestro per educare con severità o con
dolcezza, a seconda dei casi.
Nell’alto medioevo, l’educazione maschile veniva impartita dai monasteri, dove
entravano fanciulli appartenenti a tutte le classi sociali. Qui dovevano essere
75 C. Frova, Istruzione e Educazione nel Medioevo, Loescher Editore, Torino 1973.76 Gregorio Magno fu papa dal 540 al 604. All’inizio del suo pontificato compose il Liber regulae pastoralis, in cui delinea la figura ideale del vescovo, con un’attenta analisi delle virtù che deve praticare e dei vizi che deve fuggire.77 Traduzione da P. Richè, Dall’educazione antica all’educazione cavalleresca, Mursia, Milano 1970.78 Mt 18, 3-4.
33
seguiti da un monaco esperto, come l’abate, capace di trattare con i bambini. Le
punizioni erano naturalmente in uso in tutti i tipi di scuole e se ne servivano
spesso i maestri privati, i quali le consideravano come uno strumento
indispensabile di correzione e incitamento.79Il maestro doveva essere oltre che un
insegnante di scienza, un modello di moralità; e poiché l’esempio era
importantissimo, gli si ricordava spesso quali fossero le virtù di cui doveva dar
prova.
L’arte figurativa ci fornisce diverse esempi relativi a rappresentazioni allegoriche
delle virtù e dei vizi che compendiano l’insegnamento morale del medioevo.
Inoltre questo tipo di raffigurazioni avevano da soli valore di insegnamento,
perché permettevano a tutti gli illetterati di percepire il messaggio educativo insito
nelle rappresentazioni.80 E fino a quando le strutture educative erano rappresentate
solamente dalle scuole ecclesiastiche, i programmi erano calibrati sul modello del
destinato ad educare soprattutto monaci o chierici. Per loro veniva profuso tutto lo
sforzo pedagogico della scuola. A chi invece era destinato al mondo, non si
proponeva un programma morale specifico e benché le norme fossero sempre le
stesse, tuttavia erano notevolmente ridotte perché nessun laico avrebbe potuto
aspirare a raggiungere la perfezione dello stato ecclesiastico.81 Con la nascita e lo
sviluppo delle scuole laiche, indipendenti da quelle cristiane, assistiamo anche
allo sviluppo di nuovi ideali pedagogici. 82
79 C. Frova, Istruzione e Educazione, cit., p.72.80 Ibidem, p.73.81 Ibidem.82 Cfr. B. Nardi, Il pensiero pedagogico nel Medioevo, Sansoni, Firenze 1957.
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Figura 7. Allegoria delle Virtù, dei Vizi e delle Arti Liberali nel cod. ms. B42 n.f, Novella super quinque libros decretalium di Niccolò da Bologna del sec. XIV, presente presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano
Alcuni di questi ideali, troveranno spazio nella scuola cittadina, che sebbene
mantenesse come impronta l’insegnamento di tipo tradizionale, di cui si è appena
parlato, pur tuttavia lo finalizza a nuovi bisogni che la società, radicalmente
mutata dopo il Duecento, richiede. Sono gli esiti della nascita dei comuni, dello
sviluppo del commercio, dell’apertura a nuovi orizzonti culturali in genere.83
Grande spazio, inoltre, questi nuovi ideali pedagogici troveranno nelle Università,
che formeranno un nuovo tipo di intellettuale, ora, finalmente, anche laico e di
studente, e ci sarà non solo un rinnovamento dei contenuti ma anche dei metodi e
della stessa organizzazione educativa.
L’educazione riservata alle donne è un campo piuttosto difficile da sondare. Ci si
può fare un’idea dell’insegnamento delle buone maniere, delle attività domestiche,
e della pietà da alcune fonti che ci sono rimaste, ma non si riesce ad avere un’idea
chiara e precisa della loro formazione intellettuale, salvo che per le monache o per
certe donne dell’aristocrazia. Le fonti a nostra disposizione sono dunque di tre
tipi: i trattati moralistici e didascalici rivolti alle donne, i tre tipi di istruzione
aperte alle donne, ovvero quella religiosa, quella all’interno delle grandi famiglie
e quella nelle scuole elementari indirizzate ai bambini e bambine della città o, in
qualche caso, anche della campagna. Infine, le fonti rappresentate da documenti di
83 Per maggiori approfondimenti si consiglia il sempre valido G. Manacorda, Storia della scuola in Italia, 2 voll., Sandron, Milano 1913.
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varia natura, da quelli letterari a quelli notarili.84Le opere e i trattati didascalici
spaziano dall’insegnamento delle buone maniere all’arte di tenere la casa, dalle
regole per giocare il gioco dell’amore cortese alle minuziose istruzioni circa la
cura della persona e il portamento. Va da se che le famiglie aristocratiche avevano
tutto l’interesse a curare questi aspetti nelle figlie femmine affinché risultassero
perfette per l’investimento cui erano destinate. 85Ad un’età che ai nostri occhi può
risultare del tutto incredibile, le bambine dell’alta società cominciavano a
percorrere il loro cammino educativo. Il primo esame era costituito dalla
accertamento della loro buona salute fisica e di un fascino anche mediocre,
perché la presenza di queste doti naturali influivano notevolmente nella creazione
di una perfetta gentildonna. L’educazione vera e propria aveva inizio intorno ai tre
anni e comportava un insieme di conoscenze complesse che venivano sviluppate
nel corso del tempo con l’ausilio di precettori e maestri di diverse competenze.86
Leggere e scrivere erano alla base della formazione classica di una fanciulla di
nobile lignaggio, mentre non era affatto ritenuto necessario per le fanciulle di un
semplice signore e così pure per le figlie dei mercanti o degli artigiani.87 Quindi, la
conoscenza del latino si associava al greco, le lingue straniere alle arti come la
danza, il canto e la musica, l’insegnamento delle buone maniere alle regole
dell’etichetta e dei complessi cerimoniali di corte, l’arte del conversare in modo
intelligente, misurato alle conoscenze politiche e alla sapienza di governo. Tutti
questi aspetti del vivere sociale che non le riguardavano in maniera esclusiva, così
come anche nella formazione classica, le condividevano con i loro fratelli maschi.
Mentre a loro soltanto venivano riservate tutte quelle tecniche e abilità finalizzate
ad aumentare il fascino e l’eleganza. In quanto destinate ad affascinare, le
bambine dovevano apprendere gli strumenti per farlo. Col tempo diventavano
esperte nel trucco, nell’arte di acconciare i capelli e di vestire88. Il portamento e il
garbo che imparavano nel muoversi attraverso lo spazio erano un contributo al
loro fascino a cui si sommavano capacità prettamente maschili come cavalcare e
andare a caccia. Tutto insomma doveva concorrere a fare di queste fanciulle 84 E. Power, Donne del Medioevo, a cura di M. M. Postan, Jaca Book, Milano 1978, p.95.85 Ibidem, cap.4, L’educazione delle donne, p.96, 86 M.S. Mazzi, Donne e Potere, cit., p.104, (§ Un’educazione esclusiva).87 E. Power, Donne del Medioevo, cit., pp. 95-104.88 M.S. Mazzi, Donne e Potere, cit., p.119 (§ Fedeli allo sposo e allo stato).
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aristocratiche dei modelli di virtù e abilità: «dovevano essere fedeli allo sposo,
assicurare la successione e conservare il dominio al fine di trasmetterlo ai propri
figli»89. Alle altre, non rimanevano che le scuole interne ai monasteri femminili
anche quando non erano destinate alla vita monastica. Dai secoli XII e XIII, con il
miglioramento delle condizioni di vita anche per le ragazze borghesi si apre la
possibilità di essere istruite. Per quelle più ricche si adottano i sistemi
dell’aristocrazia, precettori e scuole conventuali, per le altre si aprono scuole
cittadine, più raramente rurali. Per le donne delle campagne e per quelle degli
strati più poveri della società rimaneva spesso un unico insegnamento, quello
dell’arte della sopravvivenza, dove le credenze popolari miste ai sermoni sentiti in
chiesa si mescolavano per creare un vademecum per la vita.
3 – Sottomissione e libertà
89 Ibidem, p. 120.
37
«al marito…..sta il comandare, e alla moglie appartiene lietamente e con prestezza esequir le sue voglie».
Francesco Barbaro, Prudentissimi et gravi documenti circa la elettion della moglie…..nuouamente dal latino tradotti per M. Alberto Lollio, Venezia, Gabriel Giolito de Ferrari, 1548.
Nel Medioevo la sottomissione della donna nei confronti dell’uomo era un fatto
naturale, insito in ciascuno, maschio o femmina che fosse, e questo «perché
l’uomo ha per sua natura un più vigoroso discernimento di ragione»90. Si nasceva
così, con questa certezza. L’uomo poteva in tutta indipendenza, la donna non
poteva senza il permesso dell’uomo. La donna era, infatti, un essere imperfetto e
senza la guida dell’uomo tutto le era precluso91. E mentre nell’età antica alla
donna era riconosciuto un qualche spazio di libertà, nel Medioevo questo si chiuse
quasi del tutto. Furono il Cristianesimo, soprattutto i padri della chiesa, come
Sant’Agostino o San Tommaso e i grandi della fede come San Paolo, che
contribuirono con le loro opere e il loro pensiero a privare, di fatto, le donne di
quei pochi spazi di libertà che erano stati loro concessi dalle civiltà precedenti.92 E
loro, le donne, incastrate in un sistema che aveva la presunzione di dover
governare e comandare tout court le loro vite, si sono ritrovate private, quasi
defraudate, di mesi, giorni, anni di infanzia, di giovinezza, di sogni e gioie,
d’amore e speranze di essere, fare e diventare, dell’ebbrezza di poter decidere
liberamente il proprio futuro, indipendentemente da ruoli e schemi che gli uomini
avevano pensato per loro e che fortemente le costringeva, le soffocava rubando
loro la cosa più bella: la vita.
La subordinazione rientrava nell’ordine della creazione. San Tommaso, per
distinguere i sessi, mette l’accento sul fatto che è la donna ad essere diversa
dall’uomo. La donna, in quanto ausiliaria per la generazione, è per forza
subordinata al sesso primo, quello maschile, appunto. E per sostenere queste sue
opinioni non risparmia prolusioni, nè citazioni. E spiega, dal momento che la
donna è inferiore all’uomo, la sua subordinazione non può essere solo una
conseguenza del peccato originale, si reggerà ovviamente su basi più solide93.
90 Tommaso d’Aquino, Summa Theologica , I, 92, 1 ad 2. Vol. VI, p. 196.91 K. E. Borresen, L’ordine della creazione, in M. C. De Matteis, Donna nel Medioevo, aspetti culturali e di vita quotidiana, Pàtron Editore, Bologna 1986, p.151.92 Ibidem, p.152.93 Ibidem, p. 152.
38
Nella sua interpretazione, riguardante il modo in cui la donna si è formata, egli
ammette la debolezza della donna che d’altronde, essendo meno perfetta
dell’uomo, ha bisogno di essere guidata da lui, e incalza aggiungendo che la
subordinazione le è vantaggiosa perché «mas et ratione perfectior et fortior»94,
come dice parlando dell’indissolubilità del matrimonio, all’interno del quale essa
svolge un ruolo adatto alle sue inferiori capacità.95Per meglio argomentare,
Tommaso specifica che l’imperfezione della donna riguarda il corpo e l’anima,
come afferma anche San Paolo nella lettera agli Efesini «vir naturaliter
supereminet feminae»96, e nella lettera ai Corinzi «caput autem muliebri vir»97.
L’uomo che è stato creato per primo, è più perfetto nel suo essere, e perciò è
sottomesso direttamente a Dio, mentre la donna lo è per il tramite di lui.98Questi
passi, tratti da ben circoscritti testi, fanno dell’imperfezione della donna il
fondamento della sua subordinazione.99E’ difficile sapere in cosa consista
esattamente, per Tommaso, quest’imperfezione femminile, che secondo lui tocca
l’anima e il corpo. Prosegue spiegando le facoltà dell’anima, quali sono e in cosa
consistono, distinguendo le facoltà dell’anima razionale, intelligenza e volontà,
che per esprimersi non hanno bisogno del corpo, e quelle sensibili che operano
con l’ausilio del corpo.100La donna è incapace e imperfetta per sua natura; non si
tratta di una deficienza colpevole101. È così, non è colpa sua e non ci si può fare
niente. Essa è come i bambini e i pazzi, non può dare una valida testimonianza
giuridica secondo il diritto canonico medievale e osserva, che la testimonianza
della donna non è ammessa ma che a causa della sua imperfezione non le si
attribuisce colpa, absque culpa. Di tutto il discorso di Tommaso sul’inferiorità
della donna resta, come base fondamentale, il racconto della creazione, in cui la
distinzione dei sessi corrisponde alla finalità della riproduzione della specie.
Questa superiorità maschile si fonda sulla finalità dell’esistenza della donna come
mulier e sul modo in cui Eva è stata riprodotta da una costola di Adamo. Lo stato
94 Tommaso d’Aquino, Summa contra gentiles III, 123.95 K. E. Borresen, L’ordine della creazione, cit., p. 152.96 Ef. 5, 22-23.97 I Cor. XI, 3.98 K. E. Borresen, L’ordine della creazione, cit., p. 153.99 Ibidem, p. 154 (§ Imperfezione della donna).100 Tommaso d’Aquino, Summa Theologica I, 78, 1, c.101 K. E. Borresen, L’ordine della creazione, cit., p.155.
39
di sottomissione femminile è legato strettamente e unicamente all’esistenza della
donna in quanto essere sessuato, poiché la ragione della sua esistenza come
mulier è esclusivamente la sua funzione di ausiliaria102. Intanto questa
considerazione così sprezzante, miope e riduttiva della condizione femminile
comincia a rivestire la donna, il modo d’intenderla, determinando la stessa
relazione dei sessi nella famiglia e nella società non solo del tempo, ma anzi
creando un concetto della donna, fuorviante e discriminante, che sarebbe durato a
lungo nei secoli avvenire e che in taluni ambienti, persiste ancora oggi103.
Quali sono stati allora, se ci sono stati, gli spazi in cui la donna ha avuto un
margine, seppure limitato, di libertà? E in che senso poteva essere intesa?
Tenendo sempre presente ciò che si è appena detto, ci si può inoltrare a sondare
campi di studio non solo culturali ma anche geografici, che mostrano come, in
taluni ambienti anche territorialmente vicini si trovino a stretto contatto realtà
differenti riguardanti i campi d’azione che alla donna erano concessi. E così,
accanto alle limitazioni toscane, troviamo le libertà del Mezzogiorno d’Italia e
della Sicilia. Questa parte d’Italia infatti presenta «una spiccata specificità perché
troviamo, oltre alle gentildonne appartenenti alle casate feudali, ciò che manca
alle signorie e alle corti rinascimentali dell’Italia centro-settentrionale, cioè la
figura della regina, un ruolo istituzionalizzato e assai più pregnante rispetto alle
consorti dei signori cittadini»104Un elemento è importante sottolineare, nel sud
troviamo la presenza, sebbene rara e limitata ai regni normanno-svevo e angioino,
di regine per diritto di nascita, come Costanza d’Altavilla, Giovanna I e Giovanna
II d’Angiò105. In realtà, estendendo la visuale al di là dei palazzi regi, si può
osservare che la possibilità dell’ereditarietà femminile nei feudi dava il diritto alla
donna di succedere nella titolarità senza bisogno che questa venisse acquisita in
qualità di moglie del signore106. Queste feudatarie erano «facilitate da un assetto
102 Ibidem, p. 158.103 Ibidem, p. 159.104 P. Mainoni, Premessa a AA.VV., «Con animo virile», Donne e potere nel Mezzogiorno medievale (secc. XI-XV), a cura di P. Mainoni, Viella, Roma 2010, p. 12.105 Costanza d’Altavilla era figlia di Ruggero II, nel 1186 sposa Enrico di Hoenstaufen, figlio di Federico Barbarossa; Giovanna I, regina di Napoli, era figlia del duca Carlo d’Angiò e nipote di Roberto; Giovanna II d’Angiò-Durazzo era regina di Napoli, figlia di Carlo III e sorella di Ladislao.106 P. Mainoni (a cura di), «Con animo virile», cit., p.13.
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politico territoriale che poteva consentire loro una grande autonomia, e
disponevano di notevoli ricchezze personali e di capacità di iniziativa in campo
religioso, caritativo e artistico, se non anche politico e militare»107. Queste facoltà
non erano poi limitate alle sole donne laiche ma si estendevano anche alle badesse
di alcuni monasteri che facevano pesare la loro influenza personale basata sul loro
ruolo, sui legami di parentela con le casate baronali e sull’estensione delle loro
proprietà e dei diritti giurisdizionali dell’ente ecclesiastico108.
Dalla documentazione sicilana studiata da Carmela Maria Rugolo riferita in
particolare ai rogiti notarili, emerge che anche le donne non nobili potevano
rivelare insospettabili campi di autonomia109. Tra i contratti rogati ad Erice,
troviamo «un’obbligazione in cui Maria, vedova di Pietro Sorrentino, entrava in
possesso di una casa, una vigna, due buoi aratori, venti vacche, uno schiavo
saraceno, e che potrebbe essere considerata prova di una piccola impresa
agraria»110. Molto interessante è l’esperienza siciliana di contratti mercantile
riferiti a societas in cui una delle due parti che la compongono era un soggetto di
sesso femminile.
Di seguito il caso di un contratto agrario della durata di due anni stipulato tra
Frisono de Affundo e Margherita, moglie di Giovanni di Noto, molto dettagliato
nella descrizione degli impegni assunti dalle due parti; i proventi sarebbero stati
divisi per metà111. O ancora, il caso di Contessa de Citella che dava a mastro
Giovanni de Bellachera e alla moglie Isolda 10 onze d’oro per un mese per
l’acquisto di lana. Alla fine del tempo stabilito, le sarebbe stato restituito il
capitale, più metà degli utili112. Al di là di questi esempi, le donne siciliane non
differivano da quelle di qualsiasi altra parte d’Italia o d’Europa, perché esse
continuavano in ogni caso a dipendere dagli uomini e erano considerate soltanto
in rapporto ad un soggetto maschile. Infatti, come ci fa notare la stessa Rugolo,
«sono pochi i casi in cui il referente immediato non sia un marito, un padre, un
107 Ibidem.108 Ibidem., p.14.109 C. M. Rugolo, Donna e lavoro nella Sicilia del Basso Medioevo, in Muzzarelli, Galetti, Andreolli (a cura di), Donne e lavoro nell’Italia Medievale, Rosenberg & Sellier, Torino 1991, p. 67-70.110 Ibidem, p.68.111 Ibidem, p.78.112 Ibidem, p.79.
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figlio, un fratello, un procuratore, o trattandosi di vedove o di orfane, il defunto.
E’ semmai il ruolo e le funzioni che esercitava in seno alla società a garantirle
degli spazi, seppur ristretti di autonomia113.
Capitolo III – Alfabetizzazione al femminile
113 C. M. Rugolo, Donna e lavoro nella Sicilia del Basso Medioevo, cit, pp. 67-70.
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1 – Scuole e Università nel Medioevo
La scuola, come è oggi comunemente intesa, vede la luce nel XII secolo, quando
l’emergere di nuove classi sociali, quali i mercanti e gli artigiani fanno nascere
l’esigenza di nuovi bisogni da soddisfare114. Ecco che, infatti, nel nuovo clima
sociale di questo secolo per tali categorie era essenziale essere in possesso di una
cultura di base, leggere, scrivere e far di conto, caratteristiche che aveva in
comune con la cultura clericale, ma che ora era animata da motivazioni e fini
fondamentalmente diversi e di carattere pratico che poco avevano a che fare con la
devozione religiosa. Anche il comune, che allora muoveva i suoi primi passi nei
meandri della burocrazia e della legislazione statutaria aveva bisogno di formare
funzionari per tenere in piedi la struttura amministrativa che avessero nozioni di
diritto e di contabilità, del tutto estranee al personale ecclesiastico115. Inoltre col
tempo, il comune assumerà addirittura in proprio la gestione delle scuole di
grammatica e ancora prima aveva manifestato una volontà di controllo o
addirittura di monopolio delle scuole stessse116.
La scuola nacque come istituzione privata, da alcuni atti notarili veniamo a sapere
di padri che affidarono i loro figli a maestri disposti ad insegnare, dietro un
compenso, a leggere e scrivere117. Ed è, questa prospettiva, il primo nucleo di
scuola, la quale si sviluppa sotto varie forme. Abbiamo notai, ecclesiastici,
talvolta artigiani, che prendono in affidamento gratuito i giovani in cambio di
un’istruzione. C’è ancora la famiglia nobile o facoltosa che assume un precettore
in casa perché istruisca i figli. E c’è ancora il caso dei maestri che affittano locali
dove tengono le loro lezioni e arrivano anche a prendere a pensione gli alunni che
vengono da fuori. I metodi e le discipline insegnate erano volte a formare
mercanti, artigiani, notai, amministratori ovvero, tutte figure che erano molto
richieste dal mercato del lavoro in quel tempo118.
114 A. I. Pini, Scuole e Università, in AA.VV., La società medievale, cit., p. 486.115Ibidem.116 C. Frova, Istruzione e educazione nel medioevo, cit., pp. 100-103.117 A. I. Pini, Scuole e Università, cit., p.488.118 C. Frova, Istruzione, cit., p. 100-103.
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Figura 8. Lezione in classe. Il maestro siede su un alto seggio e gli studenti in basso su lunghe bancate. (Fonte: http://www.archeorivista.it)
Il maestro aveva un’importanza fondamentale nella scuola perché era lui che era
chiamato a svolgere un compito quanto mai ingrato e impegnativo; le classi erano
composte da studenti di età diverse ed erano numerose; secondo Giovanni Villani
«troviamo ch’e’ fanciulli e fanciulle che stanno a leggere, da otto a diecimila. I
fanciulli che stanno ad imparare l’abbaco a algorismo in sei scuole, da mille in
milledugento. E quegli che stanno ad apprendere la grammatica e la loica in
quattro grandi scuole, da cinquecentocinquanta in seicento»119.Ora tralasciando
pure le cifre, davvero troppo elevate che Villani ci fornisce, appare comunque
evidente quanto alta fosse la scolarizzazione in Toscana nel basso medioevo120. Vi
erano tre gradi di scuole necessarie prima di poter accedere all’università: la
scuola di base, la scuola di grammatica, la scuola “delle arti liberali”. La scuola di
base era a sua volta suddivisa in due o tre livelli e almeno quattro ne aveva quella
di grammatica. Per ogni livello si impiegava mediamente un anno, a seconda
119 G. Villani, Cronica, cit., libro XI, cap.94.120 L. Miglio, Governare l’Alfabeto. cit, , p.62.
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dell’impegno dello scolaro o delle qualità del maestro. Era quest’ultimo a stabilire
il momento in cui il giovane alunno era pronto per passare alla fase successiva.
Accadeva però molto spesso, che essendo il maestro stipendiato dalla famiglia
dell’alunno, per il timore di perdere una fonte di guadagno, mentisse sulla reale
preparazione dell’alunno121. Nel primo livello si imparava a leggere attraverso un
sistema alfabetico, nel secondo livello, finalmente si imparava a scrivere
utilizzando due tavolette di legno, il quaternus, ricoperte di cera. Le parole e le
frasi erano in latino. Il terzo livello prevedeva l’apprendimento delle basi del
latino122.
Superata la scuola di base, si poteva accedere alla scuola di grammatica, ovvero
dei “latinantes”, che prevedeva quattro livelli. Nel primo, quello dei “Donatisti”,
da Elio Donato l’autore del manuale in uso, era previsto lo studio dei rudimenti
della grammatica latina, si imparavano a memoria i Disticha Catonis. Il secondo
livello prevedeva l’avviamento alla composizione di brani latini mediante la
trascrizione. Nel terzo si facevano le traduzioni. Nel quarto, si componeva
mediante l’utilizzo di testi di retorica e dialettica, ma anche di formulari notarili o
trattati giuridici123. Dopo i “latinantes”, veniva un terzo tipo di scuola che
preparava all’università. Si studiavano le sette arti liberali, ovvero la grammatica,
la retorica, la dialettica o logica, l’aritmetica124, la geometria, la musica e
l’astronomia. Tutti i testi erano in latino ma, si suppone, che il maestro li
spiegasse parte in latino e parte in volgare125. Caratteristica era l‘importanza che si
dava allo studio dei testi imparati a memoria e alla ripetizione orale. I testi erano
in gran parte ereditati dalla tradizione scolastica precedente126. Nella seconda metà
del Duecento, nasce a Bologna la prima scuola d’abaco127, una sorta di scuola
superiore di tipo professionale. L’accesso era permesso dopo aver compiuto i
121 A. I. Pini, Scuole e Università, cit., p.489.122 Ibidem.123 Ibidem, p.490.124 L’aritmetica veniva studiata in forma teorica e non pratica, era quindi molto diversa da quella che si insegnava nelle scuole d’abaco.125 A. I. Pini, Scuole e Università, cit., p.491.126C. Frova, Istruzione e educazione, cit., p. 100-103.127 La prima scuola d’abaco a noi nota nasce nel 1265 a Bologna. Era chiamata scuola d’abaco dalla tavoletta quadrettata sulla quale, con l’aiuto di gettoni di diverso colore e spessore, detti “quartiroli”, si eseguivano i conti. Si veda G. Arrighi, Il primo abaco in volgare italiano (1307), in “Archivio storico italiano”, 143 (1985), pp.429-435.
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primi tre livelli della scuola di base ed era destinata a quei ragazzi che avrebbero
poi intrapreso la via del commercio o dell’artigianato. Il manuale in uso era quello
scritto nel 1202 da Leonardo Fibonacci, un mercante di Pisa, il quale aveva
viaggiato molto nel mondo arabo dove era venuto a conoscenza di un sistema
numerico sconosciuto in occidente. Egli introdusse i numeri a nove cifre e il segno
zero che facilitò enormemente i calcoli128.
Il manuale insegnava oltre alle quattro operazioni anche calcoli più difficili, come
le frazioni, calcoli con una o più incognite, il calcolo degli interessi e dello
sconto129. Vi era ancora un altro esempio di scuola professionale nel medioevo ed
era rappresentato dalle botteghe artigiane o dai fondaci dei mercanti, dove si
trasmetteva un sapere di tipo tecnico, non letterario, e che riguardava un numero
elevato di giovani che vi entravano fin da piccoli per imparare un mestiere. I
ragazzi erano legati da un contratto di lavoro col maestro d’arte che gli trasmetterà
i segreti della sua arte, gli fornirà gli strumenti necessari e lo manterrà per il
periodo stabilito. In cambio l’apprendista, che trascorreva col maestro tutta
l’infanzia e l’adolescenza si impegnava a prestare la sua opera nella bottega e
spesso anche a casa. Questo tipo di contratti erano stabiliti dai genitori o dai tutori,
anche se non mancano esempi di contratti intrapresi da adulti130. Nei fondaci, il
garzone poteva arricchire in maniera più che soddisfacente il suo curriculum. Egli
vi scopriva un mondo che non poteva trovare nei libri, che andava dai “manuali di
mercatura” ai “portolani”131e persino un “Tolomeo”, cioè una carta geografica
dell’Europa mediterranea o di certe singole regioni di essa.
128 Da A. I. Pini, Scuole e Università, cit., pp. 492-493. Il testo originario era stato scritto in latino, successivamente però, ne vennero fatte nuove copie, più adatte agli scolari, che non conoscevano bene il latino. Il più famoso fu scritto nel 1329 dal mercante pratese Paolo Dagomari, più conosciuto come Paolo dell’Abbaco129 Il sistema monetario del tempo prevedeva le lire, i soldi e i denari. Una lira valeva 20 soldi, 1 soldo valeva 12 denari .130 Si veda, a proposito, C. Frova, Istruzione e educazione, cit., p. 100-103 e A. I. Pini, Scuole e Università, cit., pp. 492-494.131 I portolani erano descrizioni, spesso molto accurate, dei principali porti e delle loro caratteristiche tecniche, davano indicazioni preziose sulle rotte costiere da seguire e consigli pratici per affrontare una buona navigazione. Si veda F. M. Levanto, Lo specchio del Mare Mediterraneo (sec. XVII), prefazione di G. Pisanò, coordinamento di Paiano, Congedo, Galatina, 2002, pp.
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Nel periodo cronologico oggetto di questo lavoro, le condizioni della scuola
mutarono nella prospettiva in cui il Rinascimento penetrò nel tessuto sociale,
poichè la nuova concezione dell’uomo inserito al centro dell’universo, portava
alla scoperta e valorizzazione di quei periodi della vita come l’infanzia e la
fanciullezza che sino ad allora erano stati poco considerati. Questo fece in modo
che il fanciullo non fosse più visto come “cera da modellare”, ma una “persona”
da valorizzare nelle sue doti potenziali attraverso un’educazione nuova tesa ad
incentivare lo sviluppo di quelle doti132. Tali furono maestri come Guarino da
Verona e Vittorino da Feltre, che cominciarono ad operare una distinzione tra
fanciulli ed adolescenti, i quali trovandosi a vivere fasi di crescita differenti
abbisognavano anche di metodi didattici diversi. Gli obiettivi non erano più
soltanto quelli di insegnare a leggere e a scrivere ma quelli di valorizzare le
attitudini degli studenti, formare il carattere e far maturare in loro un vivace
spirito critico133.È in questa fase che nei programmi scolastici entrano a farne parte
materie come la filosofia morale, la poesia e la storia. Non solo gli alunni ne
beneficiarono ma anche i maestri i quali cominciarono ad essere considerati
sempre di più, ad essere pagati un po’ meglio, ad avere esenzioni e ad essere
sottoposti ad un esame che verificasse lo loro preparazione134. È nel Quattrocento
che alcune scuole diventano totalmente pubbliche, ossia assolutamente gratuite.
La nascita dell’Università è certamente il fenomeno più eclatante della storia
dell’istruzione nel medioevo. «L’università è infatti un’entità giuridica: il
riconoscimento ufficiale degli studi in essa compiuti, è forse l’aspetto che più
immediatamente la distingue rispetto alle istituzioni scolastiche che l’hanno
preceduta nell’antichità e nel medioevo»135. L’università è anche un fenomeno
sociale e culturale, sociale in quanto associazione di maestri e studenti e culturale
non solo perché l’università produceva cultura, ma lo è tanto più quando,
estendendosi a tutti i paesi d’Europa, questa cultura la monopolizza diventando
l’unico modo per raggiungere un’istruzione superiore136.
132 Informazioni più precise al riguardo si possono trovare in: A. I. Pini, Scuole e Università, cit., pp. 501-503.133 Ibidem, p.502.134 Ibidem, p.503.135 In C. Frova, Istruzione e educazione, cit., pp.120-128.136 Ibidem, p.121.
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All’inizio del XIII secolo per indicare un istituto di studi superiore era utilizzato il
termine di studium generale 137. In questo periodo alcuni centri come Parigi per gli
studi di teologia e arti liberali, Bologna per il diritto e Salerno per la medicina
diventano, sempre più, un punto di richiamo per studenti provenienti da località
anche molto distanti tra loro e finiscono per estendere la loro influenza anche al di
là delle città e dei territori sottoposti alla sua giurisdizione. Inizialmente, una
qualsiasi città che ospitasse studi superiori poteva avere uno studium, ma col
passare del tempo, il valore del titolo che lo studium concedeva diventò
preminente nel vantare il titolo138. Questa scalata verso poteri sempre più grandi
coincide con l’interesse che papi ed imperatori tributarono a questi studi. È del
1224 la fondazione dello studio generale di Napoli da parte di Federico II; tra il
1224 e il 1245 papa Innocenzo IV concede speciali privilegi allo studium urbis,
istituito presso la stessa corte papale. Ed è sempre Federico II a schierarsi con gli
studenti e i maestri arrivando ad emanare una costituzione speciale, nota come
Authentica Habita, in cui riconosceva a tutti gli studenti e ai “magistri” che per
motivi di studio erano costretti a vivere in terra straniera una sua speciale
protezione e specifici privilegi. Agli studenti era poi concesso il privilegio del
foro, ossia la possibilità, in caso di reato, di essere giudicati dai loro stessi
professori o, in caso di studenti ecclesiastici, dal vescovo cittadino anziché dal
tribunale locale139. Benchè questo provvedimento preceda di due secoli gli
avvenimenti oggetto di questo lavoro, risulta di enorme importanza per le ricadute
che avrà nei tessuti sociali delle città, in quanto sarà proprio questo privilegio a
creare «da un lato i primi grossi contrasti tra gli studenti e le autorità cittadine e
dall’altro la nascita di quelle associazioni studentesche che prenderanno il nome di
nationes e di universitates e che caratterizzeranno la vita e le attività
dell’università medievale140».
Nello studium l’insegnamento era molto legato al rapporto personale tra maestro e
alunno. Questi ultimi stipulavano col maestro una sorta di contratto che prevedeva
il versamento annuale di una cifra, detta “colletta”, in cambio delle lezioni e 137 Ibidem.138 M. Grundmann, La genesi dell’Università nel Medioevo, in «Bollettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo», LXX (1958), pp. 1-18.139 A. I. Pini, Scuole e Università, cit., p.508-509.140 A. I. Pini, Scuole e Università, cit., p.508-509.
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dell’uso dell’aula. Altre cifre erano previste per l’uso dei banchi141, per il bidello
incaricato della custodia dei libri e di tenere in ordine le aule. La frequenza era
libera, non c’erano interrogazioni e neppure esami finali142.
Le prime forme associative erano dette nationes, riunivano insieme tutti gli
studenti provenienti dalla stessa area linguistica143. Dalla federazione di queste
nationes ebbero origine, agli inizi del XIII secolo, due associazioni generali, dette
“ università”, che col tempo finirono per darsi uno statuto comune nel 1252 ed un
unico “bidello generale”144. Da queste associazioni erano esclusi i professori. A
capo di queste università, gli studenti eleggevano un” rettore”, scegliendolo tra
loro e a turno tra le diverse nationes . La carriera dello studente si articolava in
due periodi. Durante il primo, che poteva durare dai quattro ai cinque anni lo
studente doveva ascoltare le lezioni dei diversi professori e al termine poteva
ottenere il titolo di baccelliere; nel secondo continuando frequentare le lezioni dei
professori, poteva tenere a sua volta delle lezioni in cui poteva commentare dei
testi che costituivano la base delle lezioni. Al termine di questo secondo periodo
diventava professore. Il cammino studentesco si iniziava tra i tredici e i sedici
anni, quello del dottorato intorno ai venti e poteva durare, secondo la facoltà e
l’università, dai cinque ai sette anni. Gli uomini dell’università, e sottolineo
uomini, alle donne non era permessa la frequenza dell’università, sentono di
essere non dei ripetitori, a dispetto dei metodi d’insegnamento, ma creatori di
cultura. Le esigenze da cui nasce l’università, i suoi contenuti culturali, il modo in
cui si svolge l’insegnamento, strutturato in una maniera sconosciuta alle scuole
precedenti, la sua organizzazione interna, tutto questo contribuisce a dare agli
uomini la consapevolezza che l’università poteva formare una mentalità nuova
capace di influire sulla società a livello politico, amministrativo, di governo, tutte
prerogative sconosciute agli studiosi dell’età precedente145.
141 I banchi non erano sempre disponibili, in loro sostituzione gli studenti seguivano le lezioni seduti sulla paglia che ricopriva il pavimento.142 A. I. Pini, Scuole e Università, cit., p.508-509.143 Per tutti gli studenti s’intende: civilisti e canonisti, giuristi e non giuristi; per stessa area linguistica s’intende : i tedeschi, gli inglesi, i provenzali.144 A. I. Pini, Scuole e Università, cit., p. 510.145 In C. Frova, Istruzione e educazione, cit., pp.120-128.
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2 – Quale cultura per le donne?
L’organizzazione della cultura, della scuola e dell’università fu, fin dal suo
nascere, pensata, strutturata, organizzata e rivolta solo ai maschi. I diritti erano
riservati soltanto a loro, come disse George Duby, il «Medioevo, decisamente, è
maschio»146 e la donna si muoveva in questo mondo come una figura di secondo
piano troppo spesso sfumata nei contorni e nella sostanza, tanto più perché le
testimonianze che di loro ci restano, raramente sono dirette, provenienti dalle loro
stesse mani, sono per la maggior parte «mediate dagli uomini, ricavate da discorsi
e informazioni maschili»147. E seppur non possa essere negato il fatto che alcune
figure di donne emergono dalla storia con forza, come Ildegarda di Bingen,
Margherita Porete, Dhuoda, Egeria, Radegonda, Batilde, Adelperga148, Ada,
Gisella, fino a Christine dè Pisan149e Caterina Benincasa, esse rappresentano
soltanto una minoranza di donne e l’ambiente privilegiato in cui hanno vissuto e
operato che le ha favorite. E ancora sarebbe interessante conoscere da vicino la
consistenza dell’educazione di queste donne per le quali non ci sarebbe da
meravigliarsi troppo se si scoprisse che la loro cultura si materializza più nella
lettura che nella scrittura. E anche per questo vi è una ragione: la lettura dei testi
sacri, naturalmente, serve ad elevare gli animi, ad avvicinarli a Dio, e quindi
fornisce quell’educazione morale indispensabile alle monache e in ogni caso utile
146 G. Duby, Medioevo maschio, cit., p.7.147 L. Miglio, Governare l’alfabeto, cit., p. 24.148 Radegonda era moglie di Clotario, Batilde vedova di Clodoveo II, Adelperga era figlia di Desiderio e moglie di Arechi II.149 Su queste figure di donne si vedano i seguenti testi: P. Dronke, Women Writers of the Middle Ages. A critical Study of Texts from Perpetua († 203) to Marguerite Porete († 1310), Cambridge, Cambridge University Press, 1984; trad. Ital. Donne e cultura nel Medioevo. Scrittrici medievali dal XII al XIV secolo, a cura di E. Randi, Il Saggiatore Milano 1986; G. Duby, Donne nello specchio del Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1995; Dhuoda, Educare nel Medioevo. Per la formazione di mio figlio, a cura di G. Zanoletti, con introduzione di S. Gavinelli, Jaca Book, Milano 1984; S. F. Wemple, Contributi culturali e spirituali delle comunità religiose femminili nel regno merovingico (500-750), in «Bullettino dell’Istituto stoirco italiano per il Medioevo», 91 (1984), pp.317-336.
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anche alle fanciulle di alto lignaggio. Come ben fa rilevare la Miglio, «il rapporto
che nell’alto medioevo sembra annodarsi tra donne e educazione è un rapporto dai
contorni ancora non del tutto chiari ma comunque limitati che includono
principesse, contesse, regine – rimaste nel mondo o entrate in monastero – ma
escludono le altre, la massa di coloro la cui educazione non era legata ad un
possibile destino pubblico»150.
Il programma educativo, destinato poi a rimanere immutato nel tempo, evidenzia
le caratteristiche e le differenze tra educazione al maschile e educazione al
femminile: «Filii tibi sunt? Erudi illos et curva illos a puericia eorum. Filiae tibi
sunt? Serva corpus earum…..»151. La custodia e la vigilanza del corpo della donna
deve essere l’obiettivo da raggiungere per le giovani donne. E’ un aspetto che non
muterà nemmeno quando l’emergere di nuove classi aristocratiche che si
affiancheranno all’aristocrazia di sangue mutueranno da costoro aspirazioni,
privilegi e modi di vita.
Ed è proprio allora, ci dice la Miglio, «in un’età in cui le università si sostituivano
ai monasteri e ai conventi come sedi deputate della cultura, in cui gli insegnamenti
mondani…..riconquistavano spazio, in cui la diffusione del volgare come lingua
scritta diminuiva le distanze tra letterati e illetterati e la produzione libraria si
organizzava secondo metodi nuovi e diversi, che rendevano più facile la
diffusione e il commercio dei codici e più accessibile la loro fruizione, è proprio
allora che …lo iato tra cultura femminile e cultura maschile diviene più profondo,
che le differenze tra educazione delle donne e degli uomini s’inaspriscono e
radicalizzano»152.
E a questo, si può aggiungere, l’osservazione di Michela Pereira quando dice che
mentre per gli uomini «lo studio perde sempre più i caratteri della cultura
monastica e diventa mezzo per le professioni o i mestieri, per le donne continua ad
essere ciò che era destinato ad essere per le monache: uno strumento di
abbellimento dell’anima»153. E comunque lo studio, anche quando diventava 150 L. Miglio, Governare l’alfabeto, cit., p. 26.151 Da Ecclesiasticus liber,7, 23-24152 L. Miglio, Governare l’alfabeto, , cit., p.27.153 M. Pereira, L’educazione femminile alla fine del Medioevo. Considerazioni sul “De erudizione filiorum nobiium” di Vincenzo di Beauvais, in «Quaderni della Fondazione Giangiacomo
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accessibile, lo era per poche. Per la stragrande maggioranza delle donne
l’alfabetizzazione era totalmente preclusa154. Quindi non soltanto non
frequentavano l’università, ma non avevano diritto a nessuna nozione di carattere
intellettuale, nessuna istruzione letteraria, nessuna conoscenza che mirasse ad
accrescere la loro personalità.
Le donne finirono per essere sempre più relegate all’interno delle mura
domestiche, dove saper leggere e scrivere non aveva nessuna valenza e nessuna
utilità. Era, infatti, ben altro che le veniva richiesto «fare tutti i fatti della
masserizia di casa, cioè il pane, lavare il cappone, abburattare e cuocere e far
bucato e fare il letto, e filare, e tessere borse francesche o recamare seta con ago, e
tagliare panni lini o lani, e rimpedulare le calze, e tutte simili cose….»155. Il diritto
all’istruzione, seppure strumentale alla vita claustrale, era riservato a quelle donne
che seguivano la strada del convento. Soltanto a loro era permesso imparare a
leggere e a scrivere, conoscere i testi sacri e quelli dei padri della chiesa, sempre
Paolo da Certaldo consigliava: «Se la vuoi fare monaca, mettila nel munistero
anzi ch’abbia la malizia di conoscere la vanità del mondo, e là entro imparerà a
leggere»156.
Figura 9. Particolare di affresco raffigurante Christine de Pisàn, scrittrice vissuta nel Trecento
Troviamo, infatti, che la maggioranza degli scritti femminili che ci sono rimasti
appartengono a badesse o prioresse, le quali vergando di propria mano tali
documenti riempiono un buco, comunque troppo ampio, nell’universo scrittorio
Feltrinelli», 23 (1983), p115.154 L. Miglio, Governare l’alfabeto, Donne, scrittura e libri nel Medioevo, Viella, Roma 2008, p. 29.155 Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi, a cura di Alfredo Schiaffini, Le Monnier, Firenze1945; ristampato in Mercanti scrittori, pp.127-128 .156 Ibidem, p.127.
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del tardo medioevo. Queste donne di chiesa, scrivevano per compilare ricevute, i
libri dei conti del convento, ma anche scritti più impegnati come raccolte di vite di
santi o sante, zibaldoni devozionali o copie di volgarizzamenti dei Padri della
chiesa157. Alle altre donne, quelle alle quali era destinata la vita del mondo, gli
uomini della borghesia che avevano accettato le idee circa la debolezza e
l’inferiorità della donna, non concedevano questo privilegio, ritenuto superfluo
per i compiti ai quali erano chiamate, inoltre, era ritenuto pericoloso perché
veicolo di sbandamento e corruzione dei costumi158. Vi erano però alcuni casi, che
stupivano gli stessi contemporanei, di donne che avevano raggiunto un alto grado
di cultura e di conoscenza e che erano capaci non solo di leggere ma anche, cosa
più rara, di scrivere. Grande stupore suscitarono le capacità grafiche di
Margherita Datini, i tanti elogi che Ginevra Lomellini ricevette dal marito
Bernabò da Genova, come ci racconta lo stesso Boccaccio: «…..Appresso questo
la commendò meglio sapere cavalcare un cavallo, tenere uno uccello, leggere e
scrivere e fare una ragione che se un mercatante fosse»159. E allora, dopo tutto ciò
che sin qui è stato detto, viene da chiedersi, come spiegare i «fanciulli e fanciulle
che stanno a leggere, da otto a diecimila» di cui parla Giovanni Villani?160. Che la
Firenze del primo Trecento abbia mostrato un notevole processo di
scolarizzazione è un dato ormai accertato ma, facendo alcune ipotesi, si potrebbe
pensare che quel processo, da imputare all’ascesa dei nuovi gruppi mercantili,
abbia voluto fornire dei dati a scopo puramente celebrativo. Tanto più che non
abbiamo informazioni sul numero effettivo di queste bambine e che dalle altre
fonti che ci sono rimaste, come per esempio i libri di famiglia, non si rileva
nessun interesse nei confronti dell’istruzione femminile161, mentre si hanno
informazioni precise sull’istruzione dei figli maschi. Le figlie femmine e le donne
157 Era infatti, ciò che fece la badessa Massimilla nel compilare il registro del Condaghe di San Pietro di Silki in Sardegna o le suore del monastero di Santa Chiara di Oristano. Si veda a proposito: Condaghe di San Pietro di Silki, a cura di G. Bonazzi, Sassari 1990 e G. Mele, Un manoscritto arborense inedito del Trecento, il codice 1bR del monastero di Santa Chiara di Oristano, S’Alvure, Oristano 1985158 L. Miglio, Governare l’alfabeto, cit., p. 31.159 Il racconto di Ginevra Lomellini è narrato da Boccaccio nella nona novella della seconda giornata: G. Boccaccio, Decameron, Garzanti, 1974, vol. I, p.198.160 Da G. Villani, Cronica, cit., libro XI, cap.94.161 L. Miglio, Governare l’alfabeto, cit., p. 62.Ibidem, p.64.
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in generale erano solo delle brevi comparse. Ma le donne c’erano ed è quasi un
dare voce a questi silenzi il parlarne. Perché «evocare le assenze…..non significa
disconoscere le presenze; presenze rare, isolate, eccezionali che non servono certo
a rischiarare un paesaggio oscuro, solo ad illuminarlo per lampi, ma che sarebbe
comunque ingiusto ricacciare nel buio»162.
3 – Il lavoro femminile
Una donna che lavora è sempre un elemento che suscita contrastanti discussioni
tra chi la vorrebbe relegata in casa, perché ha paura delle sue capacità e di quel
valore aggiunto che sempre le donne portano in qualunque settore, e tra chi lo
accetta solo per necessità, perché serve economicamente alla famiglia. E’ raro
trovare nell’universo maschile chi le renda il diritto, riconosciuto invece in
automatico all’uomo, di trovare nel lavoro una fonte di carriera, soddisfazioni e un
riconoscimento delle proprie capacità e qualità. Eppure la donna ha sempre
lavorato, anche nel medioevo163. Lavoravano in molti settori e secondo quelle
modalità che le permettevano di conciliare casa e figli, come ancora fanno le
donne. Non si hanno dati numerici attendibili circa la presenza della donna nel
mondo del lavoro, e questo perché, prima della rivoluzione industriale, era
difficile stabilire le presenze per il fatto che la donna non era riconosciuta come
tale ma sempre in relazione al suo stato civile (sposata, nubile, vedova o figlia,
moglie, madre, sorella)164. Il loro lavoro era silenzioso, scarsamente appariscente;
se dava qualche piccolo vantaggio a livello economico, non ne dava a livello
sociale165.
162
163 Su questo argomento si veda: a cura di A. Groppi, Il lavoro delle donne, Editori Laterza, Roma-Bari, 1996.164 Ibidem, introduzione, p. VI.165 AA.VV., Donne e lavoro nell’Italia medievale, a cura di M. G: Muzzarelli, P. Galetti, B. Andreolli, Rosenberg & Sellier, Torino 1991, p.10. Vi è anche da considerare che È interessante notare, a
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Il passaggio dall’alto al tardo medioevo ha visto un peggioramento nel
riconoscere il lavoro delle donne e le loro potenziali possibilità. Ed è così che
vediamo la donna sempre più confinata dentro le mura domestiche talvolta per
protezione, talaltra per limitarne l’influenza166. Nelle città comunali il lavoro è
sempre stato pensato come parte integrante e imprescindibile delle corporazioni di
mestiere. Queste ultime regolavano il mercato del lavoro e le varie professioni e
tutte le tipologie di mestieri erano rappresentate e tutelate in esse. Ad un esame
obiettivo, però, queste affermazioni trovano una secca smentita e il lavoro delle
donne lo dimostra ampiamente167.
Le donne, come già si è accennato, lavoravano attivamente sia in città che nelle
campagne e spesso nelle imprese artigiane ma il loro lavoro era poco visibile e per
nulla riconosciuto o considerato, raramente erano socie dell’arte per cui
lavoravano. Infatti, nei documenti delle arti italiane, le donne non s’incontrano
quasi mai, non erano organizzate in nessuna corporazione a differenza delle loro
colleghe in Germania. Il loro contributo non era istituzionalizzato e nessun organo
rappresentativo le tutelava. Conosciamo molto bene la presenza femminile nella
manodopera dell’industria tessile. Gli uomini, anch’essi impiegati in tale settore in
qualità di scardassieri, sceglitori, divettini, scamatini168, lavoravano all’interno
delle botteghe, le donne, per lo più a domicilio. La filatura era svolta dalle donne
sia in città, che in campagna, e tutte le disposizioni relative a tale fase erano
sempre indirizzate a loro. Anche l’orditura e la tessitura era un lavoro delle donne,
anche se nella tessitura e pettinatura, talvolta si potevano trovare anche uomini169.
proposito, che oggi, a livello economico, spesso a parità di qualifica e posizione e spesso con titoli formativi superiori agli uomini, gli stipendi delle donne sono inferiori e a livello sociale si lotta per avere pari opportunità.166 Ibidem, p.10.167 G. Piccinni, cit., p.192-193.168 Tali qualifiche facevano parte di quelle operazioni legate al trattamento dei panni di lana preliminari alla filatura. Erano la divettatura, la scamattatura, la pettinatura, la scardassatura, la scelta della palmella. Questi lavori erano svolti da operai chiamati ciompi.169 AA.VV., Il lavoro delle donne, cit., pp. 83-88.
55
Figura 10. Miniatura rappresentante tre donne impegnate nella cardatura, filatura e tessitura della lana. (Fonte: http://www.circolodidatticodivinci.it/tecniche.htm)
In quello che oggi chiameremo il lavoro sommerso, le donne primeggiavano.170
Erano soprattutto loro a occuparsi del piccolo commercio porta a porta o dentro i
portoni o in strada; «nei mercati erano soprattutto loro a vendere i cibi cotti,
verdura, frutta e prodotti del pollaio, panni vecchi, cuffie e ornamenti, provocando
più volte il risentimento e l’ostilità delle corporazioni che cercavano di porre un
controllo di polizia e che talvolta chiedevano il pagamento di una cauzione per
lasciarle esercitare»171. Un altro dei lavori riservati alle donne era quello del
ricamo, svolto oltre che dalle monache, da ragazze, balie, fantesche che
lavoravano presso famiglie importanti legate alle corti, le quali, forse per
arrotondare il loro salario, ammesso che ne ricevessero uno, lavoravano durante i
momenti liberi, realizzando ricami per arazzi e paramenti172. Erano inoltre sarte,
lavandaie, balie, i bambini ancora molto piccoli venivano affidati, per lo più in
170 Ibidem.171 G. Piccinni, Il Medioevo, cit., pp. 192-193.172 Da A. Ghinato, Le ricamatrici: un esempio ferrarese, in AA.VV., “Donne e lavoro nell’Italia medievale”, a cura di M. G: Muzzarelli, P. Galetti, B. Andreolli, Rosenberg & Sellier, Torino 1991, p.87.
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campagna, a donne che li prendevano a balia, si occupavano di loro e della loro
crescita in cambio di un salario. Erano ancora levatrici, erboriste, titolari di
bordelli, prostitute.
A tal proposito, è interessante notare che tra ‘300 e ‘400, nel momento in cui
prevalse l’idea che l’esercizio della professione di prostituta non solo non
rappresentasse un pericolo ma anzi un istituto di grande utilità, in quanto
permetteva ai maschi di soddisfare i loro legittimi bisogni, la società tutta
ammorbidì quelle norme che nel ‘200 avevano sancito una serie notevole di
proibizioni e divieti, imposizioni e costrizioni173. Fu riconosciuta e legittimata la
loro professione, a patto che fosse esercitata in luoghi adatti come postriboli
pubblici o municipali creati dalle autorità e gestiti direttamente o no dagli stessi
governi locali, i quali, oltre che sorvegliare sul fenomeno, ne ricavavano anche un
guadagno sicuro grazie alle imposte sul loro lavoro. Esercitavano la loro attività
nelle taverne, nei bagni pubblici, nelle case private, nei mulini o nelle botteghe, su
strade e su piazze centrali per il transito di cittadini e forestieri, in condizioni di
grande precarietà174. Era proibito loro qualunque forma di aggregazione in piccoli
gruppi compatti che risultasse «fuori legge» e si sa che ce ne dovettero essere
parecchie di prostitute che non accettando di lavorare e risiedere nei bordelli, si
sottraevano alle regole e ai compromessi che la società imponeva loro attraverso il
bordello autorizzato. Ancora le donne si occupavano del rammendo delle reti da
pesca se vivevano in una città di mare e inoltre le troviamo negli ospedali tra il
personale di fatica, nelle case dei signori fanno le serve, lavorano nelle terme,
fanno le portiere e le campanare, portano acqua nei cantieri175. Un peso
importantissimo avevano nelle aziende a conduzione familiare, anzi il loro
contributo in questo settore dell’economia era preponderante. Nel medioevo,
spesso, il luogo di lavoro coincideva con l’abitazione e perciò luoghi come i
poderi, le botteghe, le osterie o le cartiere, vedevano uniti questi due aspetti,
formando un tutt’uno tra lavoro e membri della famiglia, quindi donne e anche
bambini. Qui le donne erano coinvolte quotidianamente in quelle operazioni che
173 Da R. Rinaldi, «Mulieres publicae». Testimonianze e note sulla prostituzione tra pieno e tardo medioevo, in AA.VV., Donne e lavoro nell’Italia medievale, cit., p.105-118.174 Ibidem.175 G. Piccinni, Il lavoro delle donne cit., p.192-193.
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contribuivano a formare quel reddito che era necessario per vivere176. Se la casa
era un laboratorio, la donna era impegnata su più fronti, da quello domestico a
quello della cura dei figli, al lavoro aziendale vero e proprio e alla produzione dei
beni per l’autoconsumo; quest’ultima attività, fatta di enormi fatiche, non era
assolutamente riconosciuta come lavoro. Nelle “case-laboratorio” si lavorava
anche per l’esterno, svolgendo attività per conto della manifattura della lana,
svolgendo i lavori prima citati177.
Dal quadro fin qui tracciato, si evince che non è corretto affermare che le
corporazioni raggruppavano tutto il lavoro delle città italiane del medioevo e
l’esempio che il lavoro femminile ci fornisce dimostra una realtà ignorata e
sommersa, privata della giusta considerazione che doveva essere riconosciuta a
chi reggeva una parte non trascurabile del sistema economico del tempo.
Capitolo IV – Le scritture
1 – Perché scrivere?
Le donne che nel medioevo erano capaci di scrivere, a parte le monache,
erano pochissime, quasi rare in tutta Italia. Le testimonianze più “numerose” e più
dense le ritroviamo nell’area toscana in cui, nel ’300-‘400, la condizione più
comune per la donna era ancora quella di analfabeta o illetterata. Secondo Dante,
176 Ibidem.177 Ibidem.
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la poesia volgare nacque in Italia e in Provenza per le donne, perché per loro «era
malagevole d’intendere li versi latini»178. Certamente «parlare di educazione
grafica per le elementari manifestazioni scrittorie di queste donne può sembrare
un non senso, così come parlare di cultura scritta a proposito di testi per lo più
assai poveri e dalla semplicissima testura. Sono, quasi sempre, relitti di
un’educazione incompiuta, quando non addirittura prove di uno sforzo
autodidattico scaturito da esigenze intime e profonde»179. Infatti, è proprio qui che
emergono le motivazioni che portarono le donne toscane a prendere in mano la
penna per affrontare l’esperienza della scrittura, quasi sempre vissuta con la
consapevolezza della propria incompetenza, scrive Lena Acciaioli al marito Neri -
«Io ti scrivo il meglo che so sì che non ti far befe di me»180 e, ormai in pieno
Cinquecento, Veronica Gambara scrive - «Iscusimi l’esser donna e ignorante»181
e ancora più sconsolante l’ammissione di Angela Mellini: «Io non so scrivere e
non poso se non cometere molti difeto e gofagene»182. E’ per comunicare i propri
sentimenti, le proprie preoccupazioni, per sentire vicini gli affetti lontani come
mariti, padri, figli che le donne scrivono o tentano di farlo e insieme di superare le
loro insicurezze, le loro inquietudini di donne alle quali è stata negata
un’istruzione che altrimenti le avrebbe messe in condizioni di non doversi
vergognare. Non tutte le donne potevano vantare la cultura che un padre, come
quello di Christine dè Pisan183, sensibile e di larghe vedute era stato capace di
trasmettere alla figlia. Anzi, proprio il suo sapere e le sue doti grafiche le
permisero di vivere del suo lavoro intellettuale quando, dopo la morte del marito
tanto amato, si ritrovò sola a dover crescere i figli184. In questi scritti di donne che
ci sono rimasti troviamo un mix di sentimenti ed affetti, erano quindi libere
178 «E lo primo che cominciò a dire sì come poeta volgare, si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole d’intendere li versi latini»: Vita Nuova, XXV, 3-6.179 L. Miglio, Governare l’alfabeto. cit., p. 51.180 A. Petrucci – L. Miglio, Alfabetizzazione e organizzazione scolastica nella Toscana del XIV secolo, in “La Toscana nel secolo XIV. Caratteri di una civiltà regionale”. Atti del I convegno del Centro di studi sulla civiltà del tardo medioevo (Firenze – San Miniato, 1-5 ottobre 1986), a cura di Sergio Gensini, Pacini, Pisa 1988 (Collana di studi e ricerche, 2), p. 483.181 La protesta della Gambara si trova in una lettera del gennaio 1531 a Pietro Bembo per informarlo, tra l’altro, di aver scritto due sonetti in morte del Sannazzaro.182 A. Petrucci, Note sulla scrittura di Angela Mellini, in «Quaderni storici», 41 (1979), p.642.183 Christine de Pizan era una scrittrice nata a Venezia nel 1362 e morta nel monastero di Poissy intorno al 1431. Ha scritto varie opere in prosa e in poesia, tra cui La citè des dames e Le livre des trois vertus.184 E. Power, Donne del Medioevo, cit., p.15.
59
espressioni dello spirito che non tenevano conto di regole stilistiche o modelli
testuali, queste voci di dentro esprimono a livello grafico scritture dal modulo
grande, con grafie elementari, lettere staccate e rigide, mancanza di punteggiatura,
parole iniziate e non finite185.
Tutti questi elementi esprimono il livello grafico di queste donne, che pure
appartenevano a famiglie importanti e di rilievo nella vita pubblica delle città.
Certo erano molte le donne di alto lignaggio che affidavano i loro pensieri a
scrivani di professione anziché farlo di propria mano. Non è però il caso di Lena
Acciaioli186, forse la donna più famosa del suo clan familiare. Le sue lettere al
marito sono cariche di sentimento, d’affetto e disperazione per una lontananza
fattasi sempre più insopportabile; si entra con lei nel suo mondo, incapaci di
neutralità e invece partecipi del suo dolore per non aver generato il figlio maschio
tanto atteso. Sono le sue parole ingenue e candide a suscitare un’emozione
profonda187. Era nata nella famiglia più ricca di Firenze e suo padre, messer Palla
Strozzi, era «uomo dottissimo in tutte due le lingue, latina e greca, e di
meraviglioso ingegno»188ma cionostante questo non aveva procurato a Maddalena
un trattamento diverso da quello delle coetanee di pari rango; i precettori che
messer Palla teneva in casa «per insegnare a’ figlioli, i più dotti uomini d’Italia e
più stimati»189che però erano riservati alla discendenza maschile di casa. Del resto
come avrebbe potuto Maddalena approcciarsi anche ad uno soltanto di quei codici
che il padre si faceva realizzare dai migliori scrittori di latino e greco e che
acquistava nei suoi innumerevoli viaggi, lei che riusciva a stento a dare forma di
discorso ai mille palpiti del suo cuore? Ma probabilmente risiede proprio qua la
parte più vera, più intima e sincera di questa donna, nella quale si possono
identificare mille altre donne che avrebbero voluto anche solo abbozzare dei tratti
grafici per dare voce ai loro sentimenti, pensieri e non hanno potuto. Per lei, di
fronte ai dolori della vita, la scrittura diventa una necessità, «il luogo per scaricare
185L. Miglio, Governare l’alfabeto, cit., p. 52.186 Lena Acciaioli è’ Maddalena Strozzi moglie di Neri Acciaioli, era figlia del famoso e richissimo mercante e mecenate fiorentino Palla Strozzi.187 L. Miglio, Governare l’alfabeto, cit., p. 73.188 Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV, a cura di Paolo D’Ancona ed Ehrard Aeschlimann , Hoepli, Milano 1951, p. 389.189 Ibidem, p. 390.
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tensioni, sentimenti, emozioni divenuti troppo laceranti per poter essere vissuti in
silenzio; è allora, in momenti fondamentali della sua giovane vita –
l’approssimarsi del parto, la nascita delle figlie – che, nonostante qualche timore e
ritrosia, affonda la penna nell’inchiostro e depone il suo animo sulla carta»190. E’
questa una vicenda che ne accomuna molte altre, così fu per Alessandra Macinghi
Strozzi, per Margherita Datini, per Sigismonda Acciaioli per Onesta Strozzi191,
che non «scrivono perché la società le ha investite di precise funzioni di scrittura
correlate ad altrettante precise forme estetico-grafiche, anzi semmai, il loro è uno
“scrivere contro”; esse scrivono nonostante la società abbia loro negato l’accesso
alla capacità di farlo, scrivono spinte da motivazioni nuove e diverse, estranee
all’universo grafico contemporaneo, scrivono perché, nonostante tutto, sono libere
di violare quel divieto. E hanno la voglia e il coraggio di farlo»192. Forse se queste
stesse donne avessero intuito la potenzialità di quell’atto insieme semplice
complesso, così abituate all’obbedienza, alla sottomissione, al rispetto da tributare
all’uomo, avrebbero dato vita ad opere ben più incisive, di ampio respiro,
avrebbero potuto esprimere ben più dei propri sentimenti privati e regalarci
maggiori informazioni sulle loro vite.
2 – La scrittura nei conventi femminili.
Nel palazzo pubblico di Siena esattamente nella sala del Mappamondo, vi è un
affresco di Lorenzo Vecchietta193raffigurante Caterina Benincasa, meglio nota
come Caterina da Siena, con il libro della dottrina in mano. L’iconografia
medievale ci regala diverse altre immagini di sante con il libro in mano, ma non
per questo dobbiamo credere che la scrittura fosse, per queste donne, un fatto
consolidato. Si hanno molti esempi di sante e beate illetterate perché ignare del
190 L. Miglio, Governare l’alfabeto. cit., p. 74. La data di nascita di Maddalena è difficilmente precisabile, ma la si può, con ogni probabilità, collocare tra il 1403 e il 1405; sposò Neri intorno al 1420 quando aveva circa 17 anni. Ebbe, oltre alle femmine di cui parla, 2 maschi, Donato e Piero.191 192 L. Miglio, Governare l’alfabeto. cit., p. 75.193 È del 1461.
61
latino e, spesso, incapaci di scrivere, ma capaci di conquistare con la forza della
parola mistica nobili e popolani, umili e potenti194. Vi erano poi, tante altre
monache per lo più sconosciute alla grande storia, che non scrivevano a principi o
papi, ma a persone della famiglia d’origine, o per documentare gli affari del
convento.
Quando scrivono, queste suore, usano toni pacati, sottomessi a volte servili; e
anche quando parlano di eventi dolorosi che investono le loro vite, come dolori,
malattie gravi, perdite, travagli di ogni sorta, non lo fanno mai come ci fosse in
loro qualcosa di soprannaturale, nessuna prova di santità da fornire ma solo tanta
fragile umanità in quelle espressioni dell’anima, come un «male di fianco» o altro
di simile, da impedire, talvolta, persino l’uso della penna; le loro non sono,
insomma, lettere spirituali con intenti letterari o didattici o ancora tesi
all’esaltazione mistica ma più comuni lettere profane e personali, richieste di
raccomandazioni, favori, elemosine, offerte di preghiere, prive di particolari
valutazioni di ordine morale e/o letterario, destinate perciò a rimanere nei cassetti
di famiglia o negli archivi195. L’analisi puntuale e precisa che Luisa Miglio ha
trattato nel suo saggio “Lettere dal monastero”196, si è basata sull’esame della
documentazione proveniente dal Fondo Mediceo Avanti il Principato
dell’Archivio di Stato di Firenze, ciò dà alla sua indagine un preciso arco
cronologico che va dal 1433 al 1496 e un circoscritto ambito geografico, si tratta
di un centinaio di lettere circa, tutte scritte in volgare provenienti da diversi
monasteri della città e dintorni197. Queste lettere di monache toscane, provenienti
da famiglie dell’oligarchia cittadina, sono come un «prolungamento dello spazio
claustrale» in cui riversare «libere effusioni dell’anima, ma di anime pietose,
modellate dalla disciplina e dalla preghiera, coltivate all’obbedienza e al
servizio»198. Non deve stupire il numero di lettere giunto fino a noi, poiché mentre
per le donne laiche, come già si è avuto modo di considerare, si poteva contare
soltanto su un numero esiguo di testimonianze, in quanto, per chi le aveva
faticosamente redatte, la scrittura era stata una conquista ardita, fuori dagli schemi 194 L. Miglio, Governare l’alfabeto, cit., p.105.195 Ibidem, p. 106.196 Ibidem, p.101.197 Ibidem, p.110.198 Ibidem, p.107.
62
entro i quali queste donne erano state inquadrate dalla stessa società, fatta di
maschi, in questo caso trattandosi di religiose, non solo era concessa ma anzi
possibile e anzi necessaria al ruolo che le monache avevano nella società e nel
monastero199. Era così per le badesse o le priore, per quelle che tenevano gli
elenchi delle sorelle, per chi ne tramandava i decessi, per chi si curava
dell’amministrazione. L’uso della scrittura come mezzo funzionale allo
svolgimento delle attività monacali e religiose, non impedì alle suore di servirsi
della scrittura per scopi letterari o privati, dapprima tollerato dalla chiesa poi
sempre più osteggiato perché usato per comporre opere teatrali, sacre
rappresentazioni o commedie spirituali. E’ noto che conoscessero le opere di
Petrarca e Boccaccio, «libri vani»,200e che correvano il rischio di sostituire ai testi
edificanti libri sconvenienti, come ci racconta Boccaccio «…..e so che le sue
orazioni e i suoi paternostri sono i romanzi franceschi e le canzoni latine, né quali
ella legge di Lancellotto e di Ginevra e di Tristano e di Isotta e lor prodezze e i
loro amori e le loro giostre e i tornimenti e l’assemblee; e tutta si tritola…..»201.
Un tipo di tormento che, certamente, poco si addiceva ad una sposa di Cristo. Per
la maggior parte, nel Quattrocento, abbiamo lettere di monache devote, ossequiose
alle regole, che veicolano un tipo di scrittura piatto e uniforme, depresso e un po’
noioso, molto lontano da quello delle scriventi laiche che è invece rumoroso,
proprio perché scaturisce dai moti spontanei dell’anima. Appare, infatti, evidente
negli scritti monastici l’assenza di quei tratti infantili e rozzi che si riscontrano
negli scritti laici e questo è un segno di un diverso approccio alla scrittura per
quelle donne destinate o meno alla vita del convento202. Spesso si entrava in
convento poco più che bambine203, «anzi ch’abbia la malizia di conoscere il
199 La Miglio cita l’opinione opposta di G. Barone, Come studiare il monachesimo femminile, che parla di «arretratezza culturale del mondo religioso femminile» e, di contro, di donne laiche «presto partecipi della cultura scritta» (p.14). Ma, continua la Miglio, le testimonianze non sembrano darle ragione, sia che si tratti di testimonianze usuali che librarie. Per le prime, e in generale sull’alfabetizzazione delle donne, vedi Miglio, Leggere e scrivere il volgare; per le seconde e, in particolare, per la cultura grafica nei monasteri femminili Miglio, A mulieribus conscriptos arbitror, pp. 259-260.200 Citato in G. Zarri, Monasteri femminili e città (secoli XV-XVIII), in “Storia d’Italia”. Annali, IX, Torino, Einaudi 1986, p. 394. E’ lei a ricordare che nella seconda metà del secolo XVI le monache «tengono et legono libri vani, come Furioso, Petrarcha, Bochacio».201 G. Boccaccio, a cura di Tauno Nurmela, Helsinki 1968, p.120.202 L. Miglio, Lettere dal monastero, in Governare l’alfabeto, cit., p.110.203 La Miglio riporta il parere di Richard Trexler in Le cèlibat à la fin du Moyen Age: les religieuses de Florence, pp.1343-1344, secondo cui le bambine entravano in convento prima di aver
63
mondo», consigliava Paolo da Certaldo204, spesso in seguito a vere vocazioni, più
spesso perché spinte da motivi familiari. Proprio l’ingresso forzato in quel mondo,
se toglieva alla piccola novizia la prospettiva di future gioie mondane è vero che
le permetteva l’accesso all’alfabetizzazione: «e là entro imparerà a leggere»205, ma
anche a scrivere, si potrebbe dire. Molte di loro erano già fornite dei primi
rudimenti dell’alfabeto avendo imparato a riconoscere i segni grafici già a casa
«sul salterio o sul libro d’ore materno o, in modo che lo studio diventi trastullo206,
giocando con le lettere, di bosso, d’avorio o di zucchero, che la madre o la nutrice
mescolavano davanti a loro, acciocchè non dal suono, ma dall’aspetto le
riconoscessero207, è invece assai improbabile che la loro mano fosse stata già
guidata a tracciare le lettere»208. Mentre è realistico pensare che questa fase sia
avvenuta in convento. Chi sia stato l’artefice di questo insegnamento non è dato
saperlo, ma si suppone possa essere stata una suora anziana, più esperta e
istruita209. La modalità di apprendimento seguiva un iter contenuto all’interno
delle lettere stesse. Le giovani novizie «disegnavano sulla carta una scrittura di
chiaro modello gotico che, modulata in diversi livelli di qualità, competenza e
padronanza si ripeteva»210 senza grandi variazioni, semplice, elementare, a lettere
larghe, lenta e pesante nel tratto. Ma è proprio qui che «isolate dal mondo,
separate dalla società, all’interno del chiostro le donne sembrano avvicinarsi con
maggiore facilità alla cultura ufficiale, dominante al di fuori, raggiungerla quasi e
riscattare, almeno in alcuni casi, il peccato originale dell’educazione grafica
femminile, la minorità»211.
compiuto 6 anni. Da un raffronto con Anthony Molho emerge che dall’analisi dei documenti del Monte delle doti si ricava che prima del 1480 le donne prendevano i voti ad un’età media di 17,6 anni: A. Molho, «Tamquam vere mortue». Le professioni religiose femminili nella Firenze del tardo Medioevo, in «Società e storia», 43 (1989), pp.13-15.204 Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi, cit., p. 127.205 Ibidem.206 Citazione tratta da Girolamo, Lettera a Leta o dell’educazione della figliola, a cura di Francesco Bocchi, Ferraguti, Modena 1930, p.31.207 Ibidem.208 L. Miglio, Governare l’alfabeto, .cit., p.111.209 La stessa pratica la riscontriamo nel Condaghe di San Pietro di Silki: Archivio del Monastero di Santa Chiara (A.M.S.C.O.), ms. 1bR, c. 11v. 210 L. Miglio, Governare l’alfabeto, cit., p.112.211 L. Miglio, Governare l’alfabeto. cit., p.199.
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Per concludere questa prima parte del lavoro si vogliono enucleare alcuni concetti
di fondo su quanto l’alfabetizzazione femminile sia stata, nel Medioevo, inusuale,
episodica, limitata al solo apprendimento della lettura, per dirla con le lucide
parole della Miglio, che
la loro cultura si sia sovente formata «alle prediche» e «non in iscuola, né in libro»,
per dirla con Boccaccio212, e poco necessitasse di libri, scritture, parole ce lo
suggeriscono le fonti, ce lo confermano le testimonianze grafiche. Questa prima
indagine ci suggerisce anche quanto variegato, sfaccettato, contradditorio,
complesso e meno piatto di quanto si potesse immaginare possa essere il mondo
della scrittura al femminile. Sensazioni, suggestioni, non certezze; valutazioni
provvisorie, non sistemazioni definitive; ipotesi, dubbi, interrogativi, non risposte213.
Questo è quanto ci rimane da indagare ancora, con passione, per il futuro.
Parte Seconda
La situazione in Sardegna
Capitolo I – Aspetti politici, economici e sociali.
212 Boccaccio, Il Corbaccio, p. 63.213 L. Miglio, Governare l’alfabeto. cit., p.200.
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1 – Le forze politiche presenti nell’isola. Dal ‘200 al ‘400.
I giudicati.
Cercando di descrivere brevemente gli antefatti che diedero vita al sorgere dei
quattro regni giudicali in Sardegna, dobbiamo fare riferimento alla dominazione
bizantina214, la quale si sostituì ai Vandali nel 534, in seguito alla vittoria di
Belisario, generale di Giustiniano, a Tricamari. Sotto Bisanzio la Sardegna fu
inserita nell’esarcato d’Africa e insieme alla Corsica e alle Baleari divenne una
delle sette province. Per l’amministrazione civile e militare si ebbero nell’isola
due funzionari distinti: il primo, il praeses, detto anche iudex provinciae, risiedeva
a Cagliari e si occupava degli affari civili, l’altro, che fu detto dux, risiedeva a
Forum Traiani (oggi Fordongianus), centro fortificato eretto contro gli abitanti
della Barbagia215. Il dux esercitava, rispetto a quella del praeses, un’autorità
superiore, inoltre data la durezza dei tempi e tenuto conto della fondamentale
importanza di una difesa militare rapida ed efficace di un’isola, vasta per quei
tempi, dal notevole e frastagliato sviluppo costiero, si può ipotizzare che, già dal
VII secolo il dux prevalesse, non foss’altro perché aveva l’esercito sotto il suo
esclusivo comando, ma anche perché il potere del praeses era fin dal principio
limitato da quello dell’arcivescovo di Cagliari;216 infine sarebbero stati i massicci
attacchi degli arabi, che cominciarono agli inizi del secolo successivo subito dopo
la conquista dell’Esarcato d’Africa, a far precipitare definitivamente la situazione
in favore del dux. I due poteri finirono con l’accentrarsi in un solo titolare che
sempre più frequentemente li assumeva entrambi dinanzi ai continui attacchi degli
arabi217. Egli, detto archòn, iudex e anche ipatos, comandava su tutti i funzionari,
compresi i giudici minori presenti nelle varie parti dell’Isola e così definiti nelle
carte pontificie; del resto già in Africa, e per ragioni simili, le figure del prefetto e
del magister militum erano state fuse dall’imperatore Maurizio (582-602) in quella
214 Saranno, infatti, le due massime cariche istituzionali bizantine a dare vita, dopo la conquista araba dell’Africa, il progressivo abbandono dell’isola e le incursioni arabe nelle coste, ai quattro giudici sardi. 215 Sintesi tratta da: A. Boscolo, L’età dei Giudici, in “La Sardegna”, a cura di M. Brigaglia, 1, Edizioni della Torre, p.26.216 L. Galoppini, La Sardegna giudicale e catalano-aragonese, in AA.VV., “Storia della Sardegna”, a cura di M. Brigaglia, Edizioni della Torre, Sassari 2004, p. 140.217 A. Boscolo, L’età dei Giudici, cit., p.26.
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unica dell’esarca218. L’influsso bizantino cominciò così a penetrare nella cultura,
nella religione, nell’arte e ad esercitare la sua efficacia, nelle cancellerie e nelle
chiese fu usata la lingua greca219.
In seguito alle incursioni arabe nel Mediterraneo, la situazione divenne sempre più
grave per la Sardegna specie da quando anche la Sicilia fu occupata dagli Arabi
nell’827, comportando che ogni nave cristiana proveniente dall’Oriente bizantino
e in transito nei suoi mari non potesse sfuggire al controllo arabo220. La Sardegna,
isolata completamente da Bisanzio, dovette provvedere da sola alla propria difesa.
Nell’815, i legati Sardorum de Carali civitate si rivolsero alla corte franca per
ottenere un sostegno militare alla lotta contro le scorrerie arabe stabilendo con
essa rapporti d’amicizia221. Gli abitanti cominciarono ad abbandonare le città
costiere e a cercare luoghi più appartati e interni all’isola che dessero una
maggiore sicurezza e migliori possibilità di difesa in caso di razzie arabe. La
stessa Karales, che in epoca romana e vandalica occupava grosso modo la zona
che andava dall’attuale quartiere di Sant’Avendrace alla chiesa di San Saturno, fu
trasferita in una zona interna allo stagno di Santa Gilla, allora chiamato Santa Igia,
da qui il nuovo nome della città, protetta e riparata dalle incursioni, ma che
permetteva un certo movimento dato che le acque della laguna erano navigabili.
Tra il IX e il X secolo, in un inarrestabile allontanamento da Bisanzio, la Sardegna
conobbe «il suo primo autentico, lungo ed unico periodo di isolamento dal resto
del mondo mediterraneo»222 e, si presume, dato il silenzio delle fonti, che si hanno
solo a partire dall’XI secolo presentando un quadro già strutturato in giudicati e
che non ci permettono di conoscere né il momento preciso, né la causa della loro
origine, che sia stato intorno a questo periodo che nacquero i Giudicati223.
Ogni giudicato o Rennu era retto da un giudice, iudex o iudike, con poteri sovrani.
Il territorio di ciascun regno era diviso in curatorie, a capo di ciascuna stava un
218 L. Ortu, La storia dei Sardi: identità, autonomia, federalismo, Aedo Libri 2004, p. 3. 219 A. Boscolo, L’età dei Giudici, cit., , p.26.220 G. Meloni a cura di, La Sardegna nel quadro della politica mediterranea di Pisa, Genova, Aragona, in AA. VV. ,“Il Medioevo dai Giudicati agli Aragonesi”, Jaca Book, Milano 1988, p.49.221 S. Petrucci, Storia politica e istituzionale della Sardegna medioevale (secoli XI-XIV), in AA. VV., “Il Medioevo dai Giudicati agli Aragonesi”, cit., p. 49.222 G. Meloni, La Sardegna nel quadro della politica mediterranea, cit., p.49.223 A. Boscolo, L’età dei Giudici, in “La Sardegna”, cit., p.27.
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curatore, nominato dal giudice e dotato di autorità fiscale e giudiziaria. Ogni
curatoria comprendeva un numero variabile di ville, ossia villaggi, ognuna retta da
un maiore de villa nominato dal curatore, che risiedeva nella villa principale e
amministrava la giustizia minore. Col tempo le norme appartenenti alla
consuetudine, furono fissate in carte de logu scritte, dove logu è il termine che
indicava il territorio del giudicato224. Il giudice aveva la sua reggia che era, per la
verità, un palazzo modesto dove abitava e si occupava degli affari di stato e di
giustizia, assistito dai suoi funzionari tra cui un armentariu de pegugiare che
gestiva il suo patrimonio privato e l’armentariu de rennu che amministrava le
cure del patrimonio dello stato. Istituzionalmente i giudicati avevano delle
peculiarità che li distinguevano dai regni di tipo feudale esistenti in Europa e in
particolare del Mezzogiorno d’Italia dopo l’avvento dei Normanni225, ossia
l’esistenza della grande proprietà di tipo signorile, inoltre furono entità statuali
autonome, furono stati sovrani- cum summa potestas, e, particolare di grande
importanza e modernità per l’epoca, furono stati non patrimoniali, cioè non erano
di proprietà del sovrano, ma erano superindividuali. I giudici, come era
consuetudine per i sovrani medioevali, si spostavano nelle varie ville del regno e
per le cause giudiziarie erano assistiti da uno speciale “tribunale” chiamato
Corona de Logu, che significa appunto “riunione, parlamento del regno226” e che
rappresentava la manifesta volontà dei personaggi più importanti del giudicato. La
successione era ereditaria, ma avveniva attraverso un’associazione al governo del
giudice dei figli, chiamati donnikellos, con il consenso dell’alto clero e dei grandi
del regno. Poteva subentrare alla successione anche una donna, nel qual caso il
titolo sarebbe passato al marito227.
224 L. Galoppini, La Sardegna giudicale e catalano-aragonese, cit., p142.225 Ibidem.226 F. C. Casula, La Storia di Sardegna, Chiarella, Sassari 1994, pp. 125-126.227 L. Galoppini, La Sardegna giudicale e catalano-aragonese, cit., p. 142.
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Figura 11. I quattro giudicati con le principali città del tempo. (Da: http://it.wikipedia.org/wiki/File:Giudicati_sardi_1.svg)
I giudicati erano suddivisi in quattro entità statuali, probabilmente corrispondenti
alle parti in cui il praeses bizantino suddivise il territorio per meglio difenderlo
dalle incursioni arabe. All’inizio del Duecento, la situazione politica nei quattro
giudicati era già compromessa dalla presenza di pisani e genovesi, che si erano
insinuati nel tessuto giudicale sardo già all’indomani della vittoria su Mugâhid
Abd Allâh al Amiri228. Nel corso del secolo, il controllo politico ed economico
dell’isola da parte di Pisa andò progressivamente aumentando. Verso la metà del
secolo il giudicato di Cagliari scomparve, dopo una guerra contro Genova con cui
il giudice di Cagliari, Chiano di Massa, aveva stretto alleanza contro Pisa. La
guerra si concluse con la distruzione di Santa Igia nel 1258 e la vittoria dei pisani.
Il territorio venne diviso tra i Donoratico, i Capraia e i Visconti, tutte famiglie che
già avevano vasti possedimenti e notevoli interessi nell’isola. Testimonia
Giovanni Villani che in quei tempi la città di Pisa «era in grande e nobile stato de’
grandi e possenti cittadini più d’Italia, e erano in accordo e unità, e manteneano
228 Lo storico iraqueno Ibn al-Athir (XIII secolo) nei suoi Annali ricorda una spedizione leggendaria che narra la presenza araba in un’isola, come sottolineava, «più grande dopo la Sicilia e Creta», ricca di alberi da frutta, spesso oggetto di invasioni e rapine da parte musulmana. Così, racconta lo scrittore, «nell’anno 406 [1015] Mugâhid al-Amiri da Denia, di cui era signore, assalì per mare la Sardegna con 120 navi. La conquistò, facendo grandi stragi e catturando donne e bambini. Avuta notizia di ciò, i re dei Rum fecero alleanza contro di lui e partirono dal continente con un potente esercito. Si scontrarono e i Musulmani furono sconfitti e cacciati dall’isola di Sardegna……..Dopo questo [avvenimento], [l’isola] non subì altre incursioni»: in L. Galoppini, La Sardegna giudicale e catalano-aragonese, cit., p. 148.
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grande stato, che v’era cittadino il giudice di Gallura229, il conte Ugolino, il conte
Fazio, il conte Nieri, il conte Anselmo230; il giudice d’Alborea n’era cittadino231; e
ciascuno per sé tenea gran corte. E con molti cittadini e cavalieri affiati
cavalcavano ciascuno per sua terra; e per la loro grandezza erano signori di
Sardigna, e di Corsica, e d’Elba, onde aveano grandissime rendite in propio e per
lo Comune; e quasi dominavano il mare co lloro legni e mercatantie; e oltremare
nella città d’Acri erano molto grandi»232. Scivolò nel silenzio la fine del giudicato
di Torres, appena un anno dopo la fine di quello di Cagliari. All’interno del
territorio, nella zona nord-occidentale della Sardegna, «le casate genovesi avevano
via via occupato le postazioni chiave difensive, giungendo a controllare le arterie
di smistamento dei prodotti locali dai centri agro-pastorali dell’interno fino ai
porti delle zone costiere»233. Dalla valle del Monteacuto alla pianura del Nulauro
erano tutti territori guardati a vista dalle fortificazioni delle famiglie genovesi dei
Doria, dei Malaspina e degli Spinola. Al contempo papa Gregorio IX faceva
pressioni su Adelasia vedova di Ubaldo Visconti, giudice di Torres, perché
contraesse nuovamente matrimonio con un suo protetto, sotto minaccia di
scomunica234. I Doria, potente casata genovese che si era insediata nel nord
dell’isola dove godeva di grande prestigio, cercarono di impedirlo coinvolgendo
nei loro programmi Federico II di Svevia perché candidasse il figlio illegittimo
Enzo a richiedere la mano della giudicessa Adelasia che accettò. Nel 1238, anno
in cui contrassero matrimonio, Adelasia aveva trent’anni ed Enzo non ancora
venti, ma già famoso per bellezza e intelligenza235. Il papa, scomunicò gli sposi.
229 E’ Giovanni Visconti. Esponente di una delle famiglie più eminenti di Pisa, derivavano il cognome della loro casata dalla ereditarietà della funzione pubblica di vicecomes, inoltre continuarono a giocare un ruolo di primissimo piano nelle vicende politiche di Pisa per tutto il Duecento. Avevano da tempo interessi in Sardegna. A partire dal 1205 si erano impadroniti del trono giudicale di Gallura, a dispetto della chiesa. Giovanni, che controllava oltre alla Gallura, anche la fascia orientale del Cagliaritano, era figlio del fratello di Lamberto, il quale aveva sposato, nel 1207, Elena di Gallura.230 Si tratta di membri famosi e importanti della famiglia pisana dei conti di Donoratico. Ugolino era signore della sesta parte del giudicato cagliaritano. Ranieri e Bonifacio erano figli del conte Gherardo di Donoratico, al quale era toccata l’altra sesta parte del giudicato cagliaritano ed entrambi dominii Sardinee. Anselmo è figlio di Bertoldo di Capraia, nipote di Guglielmo, giudice d’Arborea.231 E’ Guglielmo di Capraia, giudice di Arborea, zio del summenzionato Anselmo e alleato di Pisa.232 G. Villani, Nuova Cronica, cit., vol.I, libro VIII, LXXXIV, p. 540.233 G. Meloni, La Sardegna nel quadro della politica mediterranea, cit, p.85.234 Ibidem, p. 86.235 A. Boscolo, L’età dei Giudici, cit., p. 31.
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Iniziò da questo momento il declino inarrestabile del giudicato che a causa
dell’inimicizia del papa, degli intrighi delle potenti famiglie nemiche e della
continua lontananza di Enzo dalla Sardegna che seppure nominato dal padre re di
Sardegna, da essa se ne allontanò nel 1239 per non tornare più. Adelasia, dal canto
suo, si rinchiuse (pare volontariamente) nel suo castello del Goceano dove nel
1257, morì all’età di quarantanove anni, dopo aver ottenuto dal papa
l’annullamento del matrimonio e aver confermato alla chiesa il lascito dei propri
beni236. Dopo la morte della giudicessa, « la lotta tra elementi liguri e toscani
all’interno del giudicato si sviluppò con l’obiettivo di occupare il vuoto di potere
lasciato aperto dalla mancanza di eredi diretti al trono»237. Le acque si calmarono
soltanto dopo anni di contrasti in cui il gruppo genovese prese il sopravvento e
occupò una posizione di preminenza nella spartizione dei territori. All’inizio del
XIII secolo, pisani e genovesi non mancarono di interesse nemmeno nei confronti
del giudicato di Gallura, rimasto fino a quel momento in secondo piano nei
progetti delle due repubbliche marinare238. La posizione geografica fece in modo
che Pisa se ne interessasse, stringendo dapprima legami d’amicizia e
successivamente di parentela con i giudici galluresi. Pisa andò assumendo un
potere sempre più grande nel sud dell’isola e allo stesso modo si rafforzò anche
nel nord-est gallurese. Dopo la morte di Nino Visconti239 che invano aveva lottato
per fermare le mire espansionistiche del giudicato di Arborea, il giudicato passò
sotto la diretta amministrazione di Pisa. Ebbe fine in questo modo, inglorioso si
potrebbe dire, anche il terzo giudicato. Ne rimase in vita soltanto uno, quello
d’Arborea, che prima di cadere, nel XV secolo, lotterà a lungo, con grande forza e
intensità di fronte allo straniero venuto di là dal mare, come è sempre stato. Dopo
la morte di Pietro d’Arborea il giudicato era finito nelle mani di Guglielmo di
Capraia che prima governò come judike de factu al posto dell’erede minorenne
Mariano e che vide, successivamente, riconoscersi ufficialmente il giudicato dal
236 Ibidem. 237 G. Meloni a cura di, La Sardegna nel quadro della politica mediterranea, cit., p.85.238 La causa fu la minore redditività del giudicato. Infatti, esso «era formato in gran parte da aspre montagne granitiche e da valli scoscese, dove la principale attività lavorativa era la pastorizia. Neanche la discreta disponibilità di legname ancora esistente nei boschi galluresi,………poteva compensare la maggiore attrattiva costituita per le repubbliche dai beni offerti dagli altri territori sardi». In: G. Meloni a cura di, La Sardegna nel quadro della politica mediterranea, cit., p.85.
239 Nel 1296 aveva fatto ritorno a Pisa dove era morto.
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papa Innocenzo IV nel 1250240. Al raggiungimento della maggiore età Mariano,
terzo con questo nome, fu eletto giudice. Anche l’Arborea rientrava nella sfera
d’influenza pisana tramite il trattato del 1265 in cui Mariano di Bas prendeva la
cittadinanza pisana impegnandosi al versamento di un tributo annuo e
all’armamento di 23 cavalieri241. Egli però non era in posizione di subordine nella
vita politica del comune pisano, spia ne sono il possesso di torri, case, terreni, i
rapporti commerciali con enti e mercanti. Le cronache del tempo lo descrivono
come un signore potente in città, ricco e capace di corruzione pur di ottenere
decisioni a lui favorevoli242.
L’alleanza con Pisa aveva anche apportato al giudicato una crescita politica ed
economica elevando il suo potere. Anche il figlio Giovanni, giudice fino ai primi
anni del Trecento243 rinnoverà i legami con Pisa, ma la debolezza sua e dei suoi
successori favorirono un maggiore controllo da parte pisana facendo nascere un
malcontento sempre più forte prima che nei giudici, in quelle stesse classi sociali
che grazie alle relazioni con Pisa erano cresciute socialmente ed economicamente
e che si sentivano limitate nelle loro azioni e pretendevano di trattare alla pari con
la città pisana. Fu il giudice Ugone II a porre un freno alle pretese pisane quando
fu costretto al pagamento di 100.000 fiorini d’oro a Pisa per farsi riconoscere capo
del giudicato244. Chiuse il porto di Oristano ai mercanti pisani che vennero cacciati
e uccisi, ciononostante, essendo anche lui come Mariano, descritto molto ricco e
potente a Pisa, amico di mercanti e nobili, conservò queste relazioni anche dopo
la rottura se, come si rileva dal suo testamento del 1333, confermò terre in feudo e
concessioni a molti di loro245. D’altro canto però, se da un lato sembra riaffiorare
una traccia di sovranità del giudicato nel comportamento del giudice, dall’altro,
non si spiega l’accordo che egli concluse, durante l’assedio d’Iglesias, a sbarco
aragonese avvenuto, nel 1323, col re d’Aragona, Giacomo II, in cui dichiarandosi
suo vassallo, otteneva il riconoscimento del giudicato. Dovette per di più versare
240 A. Boscolo, L’età dei Giudici, cit., p. 31.241 G. Meloni a cura di, La Sardegna nel quadro della politica mediterranea, cit., p.85.242 S. Petrucci, Storia politica e istituzionale della Sardegna medioevale, cit., p. 154.243 Morirà esattamente nel 1307, in seguito ad una congiura.244 S. Petrucci, Storia politica e istituzionale della Sardegna medioevale, cit., p. 155.245 Ibidem, p. 154.
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un tributo di 3000 fiorini annui e giurare fedeltà al re aragonese246. Quest’
avvenimento, della massima importanza, divenne la ragione evidente della rottura
tra gli Arborea e i catalano-aragonesi nel 1353, portando il giudicato alla fine
della sua esistenza e alla fine dell’ambizioso sogno di unificare sotto la sua egida
tutta la Sardegna. Se inizialmente Ugone aveva collaborato con gli Aragonesi per
favorire la conquista, osteggiando Pisa e consigliando addirittura l’approdo
migliore per lo sbarco, appena si vide frustrato nei suoi interessi di raggiungere
una posizione di preminenza nell’isola e governare sotto la sovranità teorica di
Giacomo II, cominciò a riavvicinarsi a Pisa247. Il giudice Ugone e Alfonso il
Benigno morirono a distanza di un anno l’uno dall’altro, esattamente 1355 il
primo e 1336 il secondo. Ancor peggio andò quando la monarchia aragonese volle
mettere sul trono Giovanni, figlio terzogenito di Ugone al posto del donnikellu
Mariano248. La cosa però si risolse con l’elezione di Mariano, secondo le regole
successorie della Carta de Logu. Inoltre, nel 1349 Mariano catturò Giovanni e suo
figlio Pietro e li buttò in carcere per tutto il resto della loro vita249 senza che Pietro
IV il Cerimonioso, succeduto al padre Alfonso, potesse fare qualcosa per
impedirlo. Attraverso un’abile politica matrimoniale, s’imparentò con importanti
lignaggi internazionali facendo sposare le due figlie Eleonora con Brancaleone
Doria250 e Beatrice con Amerigo VI visconte di Narbona251, il figlio Ugone sposò
246Questo, come gli altri accordi che furono stipulati con i signori dell’isola ( i Doria, i Malaspina e il Comune di Sassari), vanno inquadrati all’interno dell’azione di conquista del Regnum Sardiniae et Corsicae infeudato a Giacomo II dal papa Bonifacio VIII nel 1297. L’originale dell’accordo è conservato all’Archivio de la Corona de Aragòn, ed è tra tutti gli accordi che il re Giacomo e, di fatto, l’infante Alfonso conclusero in Sardegna, quello di maggior rilievo storico e storiografico. Si è trattato, in sintesi, dell’investitura del giudicato in cambio della fedeltà del giudice. Da questo momento in poi, dal punto di vista giuridico, il giudice teneva l’Arborea come feudo del re d’Aragona e ne diventava vassallo. Inoltre, ognuno dei contraenti si impegnava per se stesso e per i propri discendenti. Un quadro più esauriente si trova in: Rafael Conde y Delgado de Molina, La Sardegna Aragonese, in AA. VV., “Il Medioevo dai Giudicati agli Aragonesi”cit., pp. 259-260.247 Ibidem, p. 260.248 Mariano aveva studiato a Barcellona e là si era sposato nel 1336 con la nobile Timbora, figlila di Dalmazzo visconte di Rocabertì. Da lei aveva avuto, un anno dopo, Ugone (futuro Ugone III), e successivamente , negli anni quaranta, le figlie Eleonora (futura giudicessa-reggente), Beatrice (nonna del giudice Guglielmo III di Narbona) ed un’anonimo, morto in tenerissima età intorno al 1346). Mariano, quando era ancora donnikellu nel 1333 era stato armato cavaliere dal re d’Aragona e l’11 settembre del ’39 era stato nominato primo conte del Goceano.249 B. Anatra, La Sardegna aragonese: istituzioni e società, in Brigaglia, Mastino, Ortu, Storia della Sardegna 3, dal 1350 al 1700, Editori Laterza, Roma-Bari 2002.250 Appartenente alla nobile e ricca famiglia genovese dei Doria.251 Beatrice e Amerigo si erano sposati nel 1363. Beatrice partorì otto figli di cui il maggiore, Guglielmo, sarebbe stato il futuro Guglielmo II di Narbona-Bas
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la figlia di Giovani III di Viterbo, della famiglia dei Da Viro, morì nel 1369.
Mariano cominciò, anche lui, a rivolgersi contro gli aragonesi e dopo la resa di
Alghero nel 1353, tutta la Sardegna precipitò in un generale clima di guerra fino
quasi alla metà del Quattrocento. Fu, certamente, un momento assai difficile per
la storia della Sardegna, denso di avvenimenti e speranze, di scontri, battaglie,
alleanze e patti. Gli avvenimenti dal 1364 al 1376 sono importanti soprattutto
perché si ha come l’impressione che la lotta contro gli aragonesi «assuma un
carattere più nazionale e diretto, con la partecipazione, verosimilmente deliberata
in Corona de Logu, del popolo giudicale e della maggior parte dei sardi regnicoli
in rivolta»252. Purtroppo tutti gli sforzi prodotti dal giudicato furono inutili, e
Mariano, morì, forse, di peste nel 1376 senza aver potuto vedere la realizzazione
del suo sogno di unità nazionale. Il governo di Ugone III fu nettamente sotto tono
rispetto a quello paterno, senza azioni di rilievo. Egli fu ucciso dai sudditi in
rivolta insieme alla figlia Benedetta nel marzo del 1383. La necessità da parte
della sorella Eleonora, chiamata al governo del giudicato come regina-reggente
fino al 1392-93 in nome del figlio Federico Doria-Bas, suo primogenito e ancora
minorenne, di pacificare la situazione interna del giudicato e tra questo e i territori
annessi, riaprì le trattative con la corona aragonese, provvisoriamente interrotte
dalla scomparsa di Pietro il Cerimonioso nel 1387.
Le trattative ripresero con Giovanni I d’Aragona, figlio di Pietro IV, giungendo
finalmente alla stipula del documento nel palazzo regio di Cagliari «il venerdì 2
gennaio dell’anno 1388»253. La stipula prevedeva di riportare la Sardegna allo
stato precedente il 1355, restituire i territori occupati del Cagliaritano e della
Gallura, sciogliere dal giuramento di fedeltà agli Arborea quelle curatorie che
avevano chiesto l’annessione al giudicato. Brancaleone, marito di Eleonora, fu
scarcerato solo nel 1390254. Nel 1391 l’Arborea era di nuovo in guerra. Gli
avvenimenti degli anni successivi videro Brancaleone riprendere l’offensiva
252 F. C. Casula, L’età dei Catalano-aragonesi e degli Arborea, in La Sardegna cit., p. 42.253 Ibidem.254 Appena salita al governo, Eleonora aveva permesso al marito di recarsi a Barcellona per esaminare la situazione sarda e chiarire la sua situazione personale. Mentre Brancaleone si trovava in Catalogna, Eleonora aveva ripreso la guerra armata: in seguito a ciò, egli fu arrestato e nel 1384 fu condotto a Cagliari e rinchiuso nel complesso di fortificazioni della torre di San Pancrazio. Eleonora dovette trattare a lungo la sua liberazione.
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contro la corona, ma l’improvvisa scomparsa di Eleonora255 e del figlio Mariano
nel 1407, avviò la fase finale della resistenza agli aragonesi, i quali accusarono
Brancaleone di aver fatto uccidere il figlio per diventare giudice d’Arborea. La
voce trovò credito e nacquero contrasti e discordie nella Sardegna giudicale a tutto
vantaggio dell’Aragona. La Corona de Logu offrì legittimamente il giudicato a
Guglielmo III di Narbona, nipote di Beatrice de Bas-Serra, sorella di Eleonora.
Egli tentò di arrivare ad un accordo con gli aragonesi, ma non vi riuscì di fronte
all’intransigenza di Martino il Giovane, figlio di Martino il Vecchio succeduto al
fratello Giovanni I morto misteriosamente in un incidente di caccia nel 1396. Lo
scontro finale si faceva sempre più vicino e più inevitabile. Alla fine di maggio di
quel fatidico 1409, otto galere catalano-aragonesi attaccarono e vinsero sei galere
genovesi che portavano aiuti a Guglielmo III, giudice d’Arborea256. La guerra
terrestre cominciò il mese dopo, ma si trattò soltanto di un saggio delle reciproche
forze. Lo scontro decisivo avvenne, come tutti sanno, a Sanluri all’alba del 30
giugno 1409, di domenica. Vinsero gli aragonesi. Guglielmo III scappò a
Monreale e poi a Oristano. Fu per i sardi, una vera disfatta, la fine di qualunque
rimonta. Da Oristano Guglielmo ripartì, questa volta verso la Francia per chiedere
aiuto. Intanto l’anno dopo fu presa Bosa e la stessa Oristano che si arrese senza
nemmeno combattere. Dice lo storico F. C. Casula a proposito di questa resa:
«come e perché, rimane un mistero»257. Il documento di capitolazione fu firmato
nella stessa città, nel convento di San Martino fuori le mura, il 29 marzo 1410
data che sigla la fine di fatto del giudicato arborense258.Gli anni successivi furono
piuttosto difficili da ambo i fronti. Guglielmo III, era rientrato dalla Francia per
riorganizzare la lotta contro gli aragonesi, aveva stabilito il suo quartier generale a
Sassari, nuova capitale del giudicato, e si alleò coi Doria. A Barcellona invece,
dopo la morte, senza eredi259, di Martino il Vecchio, si pose il probelma della 255 Morì in una data imprecisata tra il 1402 e il 1404, probabilmente durante la mortargia manna, la grande peste di quegli anni.256 F. C. Casula, La Sardegna aragonese, cit., p. 521. 257 Ibidem.258 I firmatari del documento furono il giudice della città di Oristano, eletto al posto di Guglielmo III di Narbona-Bas, Leonardo Cubello, e Pietro Torrelles, luogotenente generale nel regno di Sardegna del re d’Aragona Martino il Vecchio.259 Il suo unico figlio Martino il Giovane, re di Sicilia, condusse alla vittoria gli aragonesi nella battaglia di Sanluri, ma morì poco dopo a Cagliari, probabilmente di febbri malariche (aveva contratto, evidentemente, la letale “terzana maligna” o “perniciosa”). Malgrado le cure di quattro medici, nel giro di dieci giorni morì. Fu sepolto il 25 luglio 1409, con tutti gli onori, nella
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successione e dopo due anni di interregno fu eletto, a Caspe, Ferdinando I
d’Antequera, della dinastia castigliana dei Trastàmara. Dopo molte e alterne
vicende, l’epilogo dell’ultimo giudicato sardo si concluse senza clamori, quasi in
sordina, senza spargimenti di sangue o strepiti, «come tutte le cose più importanti
che ci riguardano», ha scritto Casula. Si concluse come si risolvono gli affari, non
con Ferdinando I però, che nel frattempo era morto, ma col suo successore
Alfonso il Magnanimo. Accade ad Alghero il 17 agosto 1420 tra Alfonso e il
procuratore del visconte di Narbona. Il visconte vendette il giudicato al re,
inizialmente per 153.000 fiorini d’oro d’Aragona, poi ridotti a 100.000, in cambio
della rinuncia ai diritti dinastici sull’antico giudicato e inoltre avrebbe dovuto
restituire alla Corona tutte le terre regnicole occupate dagli Arborea, compresa la
città di Sassari. Questa fu la fine e nemmeno l’ultima fiamma di resistenza tentata,
nel 1478, da Leonardo Alagòn, imparentato anch’egli con gli Arborea, il quale,
riprese le armi, tentò una rapida campagna bellica conclusa con la battaglia di
Macomer, riuscì a cambiare le sorti dell’ultimo baluardo giudicale sardo260.
Pisa e Genova
L’arrivo in Sardegna di pisani e genovesi si fa risalire all’XI secolo, anche se è
probabile che rapporti commerciali avessero già portato mercanti delle due
repubbliche a conoscere e frequentare le coste sarde, sia pur saltuariamente261. Nel
1080 il giudice di Torres, Mariano, concedeva ai pisani l’esenzione da tutti i
tributi commerciali richiesti fino ad allora; questo fece si che commercianti pisani
si stabilissero a Cagliari e a Porto Torres, mentre ecco che si hanno anche i primi
nuclei di Benedettini, specialmente quelli legati alla potente Opera di Santa Maria
Cattedrale del Castello di Cagliari. All’ episodio della sua morte è legata la figura della “bella di Sanluri”; dopo la battaglia, alcuni suoi cavalieri, sapendo di fargli cosa gradita, gli avevano portato da Sanluri una bellissima ragazza sarda, loro prigioniera; con lei Martino aveva giaciuto e si era indebolito a tal punto da non opporre alcuna resistenza alle febbri malariche che avevano cominciato a farsi sentire nei giorni successivi. Della fanciulla non si hanno ulteriori notizie.260 L. Galoppini, La Sardegna giudicale e catalano-aragonese, cit., p. 158.261 Per ulteriori approfondimenti si può visionare il saggio di Giuseppe Meloni, La Sardegna nel quadro della politica mediterranea cit., p. 52.
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di Pisa, che ricevettero donazioni dai giudici di Torres e Cagliari262. Agli inizi del
XII secolo anche la Cattedrale di San Lorenzo di Genova otteneva la concessione
di sei donnicalie, con genti e terre, nel cagliaritano. Sarebbe molto interessante
elencare e spiegare tutte le enormi concessioni di benefici, possessi fondiari, servi,
ancelle, in pratica le forze lavorative che curarono lo sviluppo delle attività agro-
pastorali e che costituirono non solo il nerbo del tessuto interno dell’isola ma
anche la sua sopravvivenza, individuare gli incredibili interessi sottostanti queste
concessioni; purtroppo l’argomento ci porterebbe fuori strada e perciò ci si
limiterà qui a sottolineare che queste concessioni diedero modo, specialmente a
Pisa, di inserirsi nel territorio in maniera sempre più profonda. Soltanto l’Arborea,
in questo periodo, fu ancora restia e sospettosa nei riguardi dell’elemento esterno.
Pisa, infatti, nel corso dell’XI secolo completò il suo inserimento nell’isola in tutti
e tre i giudicati con un buon controllo delle zone costiere263. Solo il tempo
dimostrò che, a lungo andare, la presenza di queste comunità si sarebbe rivelata
nociva per la Sardegna ma nell’immediato esse apportarono notevoli benefici:
l’aumento dei traffici diede respiro e una nuova apertura all’economia isolana, i
porti dell’isola potenziarono le loro attrezzature per accogliere nuove presenze
mercantili aumentate di numero e di stazza, ripresero vita anche antichi porti come
quelli di Olbia e Oristano e contemporaneamente ne fiorirono di nuovi come
quelli di Ampurias e Bosa, di Orosei e a nord Castel Genovese (oggi Castelsardo)
e Alghero, per citare solo i più grossi264.
E’ in questo periodo che va registrata la presenza di esperti agrari sia da Pisa che
da Genova che affiancandosi all’opera dei monaci impressero un nuovo indirizzo
all’agricoltura dell’isola. A costoro si affiancarono minatori esperti negli scavi che
riattivarono le miniere abbandonate dall’età dei Romani e con loro, artigiani,
tecnici e artisti che abbellirono l’isola con le loro produzioni, come testimoniano 262 A. Boscolo, L’età dei Giudici, cit., p. 28. Si veda inoltre il già citato saggio di Giuseppe Meloni, La Sardegna nel quadro della politica mediterranea cit., p. 62, che delinea chiaramente tutte le problematiche e gli interessi in gioco in questo primo insediamento. I giudici sardi, soprattutto in questo primo periodo, forse nel quadro di un più stretto avvicinamento alla Chiesa di Roma, preferirono elargire le loro donazioni alle Opere delle chiese dei due centri marittimi, piuttosto che a privati o ai comuni in prima persona. Fu così che San Lorenzo di Genova, e in questa prima fase soprattutto Santa Maria di Pisa diventarono lo strumento della penetrazione dei rispettivi comuni nel territorio isolano. 263 G. Meloni, La Sardegna nel quadro della politica mediterranea cit., p. 52.264 A. Boscolo, L’età dei Giudici, cit., p. 28.
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le numerose e splendide chiese sparse per tutta la Sardegna, costruite in stile
romanico-pisano265. La supremazia sull’isola fu esercitata, specie all’inizio,
soprattutto dai pisani. Solo il giudice d’Arborea, Comita II, firmando nel 1131 un
patto con Genova, preferiva aprire i suoi territori alla rivale pisana.
«La lotta fra Pisa e Genova attraversava così anche la Sardegna»266. A seguito dei
mercanti arrivarono nell’isola le grandi e potenti famiglie delle due repubbliche
che, con grande scaltrezza, riuscirono ad inserirsi ai livelli più alti del potere
giudicale entrando a far parte delle stesse famiglie regnanti e riuscendo a
diventare essi stessi giudici grazie all’unica politica davvero efficace, quella dei
matrimoni, diventando così i nuovi protagonisti della scena politica economica e
sociale della Sardegna e, come disse Carducci, «re in Sardegna, a Pisa
cittadini»267. I secoli XII e XIII furono costellati da lotte, cospirazioni, tradimenti e
spartizioni per ottenere quanto più possibile il controllo del territorio. I sardi, che
non avevano più una posizione di preminenza negli interessi e nel governo
dell’isola, «subivano passivamente gli eventi, mentre, protetti dalle famiglie
pisane più potenti, che andavano sempre più affermandosi, si rafforzavano gli
insediamenti dei cittadini di Pisa, dediti al commercio»268. Alla metà del
Duecento, quasi tutta la Sardegna era sotto il controllo di Pisa. Solo il giudicato di
Torres-Logudoro era nelle mani dei genovesi. Si erano anche formati alcuni
“liberi” comuni, sul modello di quelli del continente, come Sassari, dai cui
Statuti269, promulgati nel 1316, emerge il carattere formalmente indipendente del
comune che ciononostante, rimaneva sempre legato agli interessi genovesi270,
chiamato per questo comune pationato. E’ la presenza pisana e genovese a dare
impulso allo sviluppo cittadino, rappresentandone una caratteristica, anche se con
differenze tra le due repubbliche. I Pisani sono presenti soprattutto a Cagliari, che
fu «una creazione, o meglio, rifondazione urbana “coloniale” di grande portata,
265 Ibidem, p. 29.266 Ibidem.267 S. Petrucci, Storia politica e istituzionale, cit., p. 137.268 A. Boscolo, La Sardegna ai tempi di Dante, in D. Scano, “Ricordi di Sardegna..” cit., p. 25.269 Esistono cinque copie degli Statuti Sassaresi, ma solo due appartengono al periodo i Sassari comunale. Un codice è scritto in latino e privo di data, l’altro in logudorese è del 1316, redatto al tempo del podestà genovese Cavallino de Honestis270 G. Meloni, La Sardegna nel quadro della politica mediterranea cit., p. 83.
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opera di mercanti e di ufficiali del comune pisano»271. Quando Benedetta272,
giudicessa di Cagliari, nel 1216, fa dono ai pisani di tre ville, questi sono già
insediati da almeno una trentina d’anni nella villa portuale di Lapola, e la loro
numerosa colonia aveva già edificato case e negozi. Avevano anche fondato un
nuovo borgo sull’altura che domina il colle, il mons de castro. In una fase
successiva, per fronteggiare le manovre di intrusione dei Visconti, fortificano il
borgo del colle e, nel 1218, si parla di un «castrum novum»; fu questa l’origine
del Castellum Castri de Kallari273. Gli esponenti di quelle famiglie che furono a
capo di signorie nel Cagliaritano e nel Logudoro fondarono diverse città signorili
che per lo più corrispondevano, almeno nella loro fase iniziale, a centri castrensi
che «si svilupparono fino a superare le mere funzioni militari e difensive,
assumendo caratteristiche cittadine, con proprie legislazioni e organismi
consiliari»274. E questo è un fenomeno comune a tutta la Sardegna. Le città furono
innanzitutto castelli, come Casteldoria, Castelgenovese, Alghero, Bosa, Castel di
Castro, Iglesias con borghi e appendici, centri di mercato e di insediamento di
abitazioni rurali nel territorio circostante.
La conquista catalana, però, pone pisani e genovesi in una situazione difficile e
annuncia il declino della loro dominazione. Il ritiro, tuttavia, avviene lentamente,
e si manifesta più sul piano politico che su quello sociale. Alcune realtà
permangono per un certo periodo di tempo275. I pisani ricevettero un duro colpo
dalla conquista di Iglesias prima e dopo dalla battaglia di Lucocisterna, località in
prossimità dell’odierna zona del Fangario a Cagliari, il 29 febbraio del 1324, e dal
successivo assedio di Cagliari che si arrese il 19 giugno agli aragonesi della città
stessa. Pisa cedette al re d’Aragona tutti i suoi diritti in Sardegna e Corsica e
l’infante Alfonso, figlio di Giacomo II che aveva guidato la conquista, concesse in
feudo alla repubblica pisana il Castello di Cagliari, Stampace e Villanova, il porto
e lo stagno, con il mero e misto imperio su tutto questo276.
271 J. Heers, Pisani e Genovesi nella Sardegna medievale ,cit., p. 247.272 Figlia di Guglielmo di Massa, giudice di Cagliari che morì nel 1214. Fu lei a succedergli insieme al marito Barisone, giudice d’Arborea.273 J. Heers, Pisani e Genovesi nella Sardegna medievale cit., p. 247.274 S. Petrucci, Storia politica e istituzionale della Sardegna medioevale cit., p. 142.275 Ibidem, p. 249276 Rafael Conde y Delgado de Molina, La Sardegna Aragonese, cit., pp. 258-259.
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Figura 12. Pianta dell’antica città di Cagliari (da S. Műnster, Cosmographia Universalis, 1544)
Gli aragonesi s’ insediarono sul colle di Bonaria277, dove fondarono la loro città.
Ma dopo la partenza dell’infante Alfonso, la città tornò a sostenere Pisa che inviò
una flotta composta anche da genovesi in aiuto alla città di Castel di Castro, ma
non riuscì a cambiare il corso degli eventi. Fu sconfitta nel 1325 nel golfo di
Cagliari e il 9 giugno 1326, la città si arrese definitivamente agli Aragonesi. Fu
concesso agli abitanti pisani di continuare a viverci, con eccezione di quelli che
erano ritenuti sospetti di cospirazione o di infedeltà al re d’Aragona278. Furono
delle concessioni indubbiamente generose che infatti, ebbero vita breve. Si capì
presto che il modo migliore per garantire la pace nelle città era quello di
ripopolarle con sudditi del re d’Aragona. Castello fu, dunque, totalmente evacuato
dai pisani e ripopolato con gli elementi iberici provenienti dal castrum di
277 Bonaria, fu inizialmente un semplice accampamento militare sorto alla rinfusa nel 1323-24, per accogliere le truppe impegnate nella conquista di Castel di Castro, ma ben presto si era data un’efficace organizzazione civile formata da circa 6.000-8.000 persone fra nobili, ufficiali, soldati, marinai e mestieranti vari i quali, il 1° luglio 1324, avevano ottenuto dal re le “domos, barrachas, covas et patia” del colle in franco e libero allodio. Ulteriori approfondimenti in: F. C. Casula, La Sardegna Aragonese, cit., p.207.278 Rafael Conde y Delgado de Molina, La Sardegna Aragonese, cit., pp. 262-63.
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Bonaria279. Finì così per sempre la dominazione di Pisa in Sardegna280. Sopravisse,
invece, il contrasto tra gli aragonesi e Genova, che più volte giudò le ribellioni
contro i nuovi conquistatori. A nulla valsero i trattati di pace del 1360-61. Gli anni
successivi non permisero più a Genova di fornire aiuti alla causa degli Arborea,
sia a causa dei suoi impegni continentali, sia per alcune scelte di politica orientale
che la mettevano in diretta concorrenza con la crescente potenza di Venezia281
I Catalano-Aragonesi
Nell’aprile del 1297 il papa Bonifacio VIII concesse in feudo a Giacomo II
d’Aragona il “Regnum Sardiniae et Corsicae”, inesistente sia da un punto di vista
geografico che istituzionale, per compensarlo d’aver rinunciato alla Sicilia in
favore degli Angioini durante il trattato di Anagni che mise fine alla guerra del
Vespro282. Fino ad allora, la Corona d’Aragona aveva dovuto confrontarsi e
destreggiarsi tra il peso politico e soprattutto economico che la borghesia
mercantile catalana, da una parte, e nobiltà terriera aragonese dall’altra,
esercitavano sul governo centrale. La spinta verso il sud della Francia era andata
ormai esaurendosi e così pure verso il meridione e l’occidente della penisola
iberica a causa dell’opposizione castigliana. Rimaneva quella mediterranea e
quando, dopo la pace di Caltabellotta del 1302283, Giacomo II si accorse che la
situazione internazionale era favorevole per tentare un’espansione che avrebbe
dovuto condurre verso l’Oriente coi suoi favolosi traffici, decise di dare inizio
all’impresa. Il suo progetto era quello di arrivarci tramite la famosa ruta de las
islas, che prevedeva quindi la conquista delle grandi isole del Mediterraneo quali
la Sardegna e la Sicilia, passando attraverso le Baleari e Cipro284. Il momento più
opportuno per dare inizio alle operazioni militari di conquista della Sardegna si
presentò soltanto nel 1323, dopo intensi contatti diplomatici con gli alleati di
279 E’ interessante notare che l’espulsione non colpì le donne sposate con Catalani.280 F. C. Casula, La Sardegna Aragonese cit., p. 206.281 G. Meloni, La Sardegna nel quadro della politica mediterranea cit., pp. 94-95.282 Ibidem, pp. 87-88.283 Accordo firmato il 31 agosto 1302, nei pressi di Caltabellotta, fra Carlo di Valois, come capitano generale di Carlo II d’Angiò, e Federico III d’Aragona e che concluse la prima parte della guerra del Vespro siciliana tra aragonesi e angioini.284 F. C. Casula, L’età dei Catalano-aragonesi e degli Arborea cit., p.37.
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Sardegna e con le rivali presenti nell’isola come Pisa e Genova. Anzi l’intervento
aragonese fu sollecitato da Ugone II d’Arborea, il quale aveva spedito diverse
lettere a Giacomo per chiedere aiuti militari contro i pisani che egli aveva
attaccato perché, come dice lui stesso in una delle lettere: «speravo che voi
(Giacomo II) sareste venuto in marzo, e così ho cominciato quello che credevo
conveniente alla grandezza della Corona regia»285. Tempo dopo, infatti, arrivarono
in Sardegna tre galee catalano-aragonesi con ottocento uomini. Era solo
l’avanguardia della grande spedizione che sarebbe arrivata a Palma di Sulcis286 il
1° giugno 1323, guidata dall’infante Alfonso, figlio di Giacomo II, che portò con
se anche la moglie Teresa d’Entença. La sequenza degli eventi sulla conquista è
nota: dopo lo sbarco, le truppe si diressero verso Iglesias, che cadde, dopo sette
mesi d’assedio287, il 7 febbraio 1324. Da qui, l’Infante si diresse verso Castel di
Castro di Cagliari dove a Lucocisterna (o Lutocisterna) nell’odierna via Fangario,
verso S. Gilla, si scontrarono per la prima ed unica volta “in linea” con l’esercito
pisano. Vinsero, seppur con grandi difficoltà, gli aragonesi. Quasi nello stesso
momento, una flotta pisana fu sbaragliata dalle forze navali dell’ammiraglio
Francesco Carròs conquistando la Gallura288. Fu facile a questo punto entrare nella
città di Castel di Castro. Una volta sistemata la Sardegna nelle mani di un
governatore generale residente a Bonaria, Alfonso s’imbarcò con la moglie dal
porto in cui erano approdati per la prima volta nell’isola alla volta di Barcellona.
In Sardegna lasciava il nobile Filippo di Saluzzo col grado di governatore
generale del regno, con un’esigua scorta di cavalieri e di fanti289. Non molto tempo
dopo, nel 1326, Pisa subì una definitiva sconfitta e dovette abbandonare Castel di
Castro che prese il nome di Castell de Càller. I Pisani vennero allontanati e la
città venne ripopolata da aragonesi, catalani, maiorchini e valenzani. Anche
285 F. C. Casula, La Sardegna Aragonese, cit., p. 137.286 Si trova nella pianura del basso Sulcis, nell’agro di San Giovanni Suergiu, provincia di Carbonia-Iglesias,.287 Durante questi mesi, l’infante Alfonso, procuratore generale del re per i regni della corona, perfezionò gli accordi diplomatici, già trattati dal padre, con Ugone II, i Doria. I Malaspina e il Comune di Sassari e iniziò il programma d’infeudazione della Sardegna pisana in favore dei baroni catalano-aragonesi- valenzani- maiorchini che con le loro truppe partecipavano all’impresa. Approfondimenti in: F. C. Casula, La Sardegna Aragonese, cit., pp. 150-159.288 F. C. Casula, L’età dei Catalano-aragonesi e degli Arborea cit., p.38.289 F. C. Casula, La Sardegna Aragonese, cit., p. 177.
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Alghero290, subì la medesima sorte, quando fu svuotata e ripopolata ex novo. Il re
concesse ai nuovi abitanti aiuti immediati per la loro sussistenza, come
distribuzione di cereali, aiuti per avviare la messa a frutto delle proprietà agricole,
concessione di case, terreni urbani e terre. L’ossessione per il ripopolamento fu
talmente forte che si arrivò ad ordinare al governatore di fare tutto il possibile
perché i celibi, tra i settanta balestrieri che gli furono inviati, trovassero donne con
le quali sposarsi291. Ma la conquista dell’isola ancora doveva esser fatta.
All’indomani della partenza, le forze ostili all’Aragona stavano già riprendendo le
armi per riconquistare il terreno perduto.292. I focolai di ribellione si accesero un
po’ dappertutto in Sardegna in quella che parve, fino al 1409, “una guerra di
liberazione nazionale”293. E le stesse città, poc’anzi ricordate, come Sassari e
Alghero, famiglie potenti come i Doria e soprattutto gli Arborea, furono a capo di
quella vasta riconquista. Il re Pietro IV, succeduto al padre Alfonso il Benigno,
dovette ritornare in Sardegna con un altro grande corpo di spedizione per
espugnare la ribelle Alghero, nel 1354, e indire a Cagliari, nel 1355, la prima
grande riunione dei ceti sociali più rappresentativi del regno, che da alcuni storici
viene considerato come il primo Parlamento del Regnum.
In questi anni, i protagonisti della scena sarda furono gli Aragonesi e gli Arborea
che cercavano strenuamente di guidare la “reconquista” giudicale per ottenere il
governo di tutta l’isola. Dopo la battaglia di Sanluri e la conseguente vittoria
dell’Aragona, il giudicato fu trasformato in Marchesato e quando nel 1478,
Leonardo Alagon294, imparentato con gli Arborea, riprese le armi contro gli
aragonesi, una rapida campagna conclusa con la battaglia di Macomer troncò ogni
tentativo di ribellione. L’anno successivo Ferdinando II, detto il Cattolico, figlio
di Giovanni il Senza Fede, già sposato da dieci anni con Isabella regina di
290 Alghero passò definitivamente in mani aragonesi nel settembre del 1354. Secondo gli accordi conclusi con Mariano d’Arborea, gli algheresi dovevano lasciare la città, abbandonare anche le riserve alimentari, che avrebbero dovute essere pagate dagli occupanti. Il re garantiva le loro persone ed i loro beni per mare e per terra. Alghero diventerà da quel momento l’Alguer291 Rafael Conde y Delgado de Molina, La Sardegna Aragonese, cit., p. 265.292 F. C. Casula, L’età dei Catalano-aragonesi e degli Arborea, cit p.39.293 L. Galoppini, La Sardegna giudicale e catalano-aragonese,cit., p. 157.294 Era discendente dei Cubello, marchesi di Oristano, per linea femminile. Era figlio secondogenito di Benedetta, sorella di Salvatore Cubello e moglie di Artale de Alagòn
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Castiglia, vide l’unione delle due Corone. Nasceva con loro il regno spagnolo e la
Sardegna entrava a farne parte295.
2 - Classi sociali, suddivisioni dei poteri.
Il livello sociale più elevato era occupato dal giudice dalla sua famiglia e dai
parenti più stretti; alle sue dipendenze stavano vari funzionari, tra i quali alcuni si
occupavano dell’amministrazione del suo patrimonio privato, detto de pegugiare,
formato da vasti possessi fondiari distinti da quelli dello stato, detti de rennu.
Sotto il giudice stava una società divisa in classi296. La prima era quella dei liberi,
a cui appartenevano i maiorales, ossia i maggiorenti, padroni di estese proprietà e
di notevoli quantità di bestiame, spesso imparentati coi giudici ma totalmente
slegati da qualunque vincolo di natura feudale-vassallatico, e tra questi vi erano
anche uomini liberi padroni di piccoli e medi possessi che, pare, fossero
abbastanza numerosi; in effetti si trovano tra gli autori di donazioni o tra i
protagonisti dei processi che compaiono nei condaghi297, ma potevano essere
anche nullatenenti. La seconda era quella dei coloni o colliberti, che erano
organizzazioni collettive intermedie tra la struttura villa-curatoria
dell’organizzazione giudicale, una sorta di associazioni di liberi o di liberti,
chiamati appunto collivertos o i liberi de paniliu, gruppi che un po’
295 L. Galoppini, La Sardegna giudicale e catalano-aragonese, cit., p. 158.296 A. Boscolo, L’età dei Giudici, in “La Sardegna”, cit., p. 27.297 I condaghi ci offrono uno spaccato fondamentale della società rurale del tempo. Erano dei cartulari o registri conservati nelle chiese o nei monasteri, nei quali venivano annotati dagli abati o dalle badesse, nel caso di un monastero femminile, gli acquisti, le permute, i processi legati al possesso di terre o di servi. Si ricavano da essi numerose informazioni sui proprietari laici grandi e piccoli, sui servi, sulle forme di coltivazione della terra, sull’allevamento, sul diritto privato sardo. Ce ne sono rimasti pochi rispetto al numero delle chiese e dei monasteri dell’isola. Ricordiamo qui brevemente il condaghe di San Nicola di Trullas, da ora in poi abbreviato in CSNT, San Pietro di Silki, da ora in poi abbreviato in CSPS, San Michele di Salvenor, abbreviato in CSMS, e quello di San Lenardo di Bosove, presso Sassari,per l’Arborea abbiamo il condaghe di Santa Maria di Bonarcado, abbreviato in CSMB, il Brogliaccio del Convento di S: Martino di Oristano e il Condaxi Cabrevadu. Sull’argomento si veda : I condaghi di San Nicola di Trullas e di Santa Maria di Bonarcado, a cura di E. Besta e A. Solmi, Milano 1937; Il condaghe di San Pietro di Silki. Testo logudorese inedito dei secoli XI-XIII, a cura di G. Bonazzi, Sassari-Cagliari 1900; Il condaghe di San Nicola di Trullas, a cura di P. Merci, Sassari 1992.
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schematicamente si possono collocare tra i liberi e i servi: infatti in quanto
affrancati dallo stato di servitù, godevano di quello di libertà, pur con vincoli reali
e personali298.
I liberi de paniliu, tenuti a lavori agricolo-artigianali (muratori, fabbri, falegnami)
erano organizzati comunitariamente e caratterizzati da dipendenze, consistenti in
prestazioni personali verso il fisco, le chiese o i signori. La terza era quella dei
servi. I servi erano tali per nascita, si dividevano in tre categorie secondo il
numero delle giornate lavorative dovute ai padroni; gli integri dipendevano da un
padrone per tutte le giornate, i laterati per metà e i pedati per un quarto. Gli ultimi
due potevano dipendere anche da due o più padroni299. Le giornate lavorative
prestate ai padroni erano tre alla settimana, nelle restanti giornate i servi potevano
lavorare un proprio possesso o lavorare per terzi. Le condizioni della servitù erano
andate, col tempo, migliorando.
Durante i giudicati i servi non erano considerati più come una res, né trattati alla
stessa stregua di quelli del tempo dell’impero romano. Potevano essere venduti,
comprati, donati, permutati, divisi tra vari padroni, ma erano trattati con umanità,
potevano avere un cognome, contrarre nozze legittime, testimoniare nei
processi300. Con l’arrivo di Pisa e Genova arrivano anche ceti nuovi, come i
mercanti, che contribuiranno alla creazione di imprese commerciali e scambi
regolari, l’azione militare delle grandi famiglie nobili e quindi del Comune, prima
contro gli Arabi e in seguito nelle guerre all’interno dell’isola e, infine, l’azione
dei grandi e potenti istituti religiosi che contribuirono al progresso spirituale, al
riavvicinamento alla Chiesa di Roma e al progresso delle tecniche agricole e di
coltivazione301.
Da un punto vista sociale, l’arrivo degli Aragonesi significò, per la Sardegna,
l’introduzione del feudalesimo302 , istituto fino ad allora sconosciuto. Il fenomeno
del feudalesimo rappresentò una sorta di shock per l’isola e «non soltanto per le
298 S. Petrucci, Storia politica e istituzionale della Sardegna medioevale cit., pp. 108-109.299 A. Boscolo, L’età dei Giudici, cit., pp. 28-29.300 G. Olla Repetto, Le istituzioni medioevali. Le Istituzioni della Sardegna in ”La Sardegna”, cit., pp. 152-53.301 J. Heers, Pisani e Genovesi nella Sardegna medievale cit., pp. 231-32.302 Per maggiori approfondimenti si veda: M. Tangheroni, Il feudalesimo. Le Istituzioni della Sardegna 3, in “La Sardegna”, cit., ,pp. 158-162; Rafael Conde y Delgado de Molina, La Sardegna Aragonese, in “Storia dei Sardi e della Sardegna”, 2, in AA. VV., “Il Medioevo dai Giudicati agli Aragonesi”, Jaca Book, Milano 1988, pp. 265-67.
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sue immediate conseguenze, ma anche per le reazioni a catena che determinò,
portando, nel giro di un secolo, ad una radicale trasformazione oltre che della
società e dell’economia della Sardegna anche ad un cambiamento del suo ruolo
nella rete dei traffici mediterranei»303. La riorganizzazione del territorio, dal punto
di vista politico–istituzionale, fu attuata secondo un disegno strategico
programmato già prima della conquista e non sotto la spinta delle circostanze;
eccetto le principali città, Cagliari, Alghero, Sassari, Iglesias, «l’occupazione delle
campagne fu feudale»304; il territorio fu diviso in feudi, di diversa grandezza, e
suddiviso tra i nobili che avevano partecipato e contribuito con i propri mezzi alla
conquista, tra le principali famiglie borghesi che l’avevano finanziata e, in pochi
casi, anche alcuni elementi di origine pisana o sarda, che l’avevano sostenuta. Da
un punto di vista sociale, «il feudalesimo bloccò ogni possibilità di formazione di
una classe dirigente locale: possibilità cui maggiori spiragli si aprivano all’epoca
della preponderanza pisana e genovese»305. Si creò una netta frattura tra città e
campagna che finì per ostacolare l’attività dei mercanti delle città, compresi quelli
catalani. La moneta cominciò a circolare sempre meno accompagnandosi ad una
minore mobilità sociale, si determinò, inoltre, una contrazione della domanda di
prodotti lavorati, il che incise negativamente anche sulla quantità e sul movimento
delle merci. Si avviò, così, una graduale decadenza del ruolo commerciale
dell’isola e in particolare di Cagliari306. La principale conseguenza dovuta alla sua
introduzione fu la rapida destrutturazione della società rurale preesistente. I mezzi
che venivano usati per assoggettare contadini alle loro terre, uniti alla spinta alla
mobilità per attrarre i resti della popolazione rurale ridotta sia per la peste sia per
la guerra, spopolarono moltissimi centri rurali e la sempre più netta separazione
tra città, catalane e privilegiate, dotate di statuti e ordinamenti simili a quelli delle
città aragonesi, e le campagne, sarde e feudalizzate, impedì quella commistione
che avrebbe reso la Sardegna capace di crescere economicamente, culturalmente e
socialmente307.
303 M. Tangheroni, Il feudalesimo. Le Istituzioni della Sardegna 3, in “La Sardegna”, a cura di M. Brigaglia, 1, cit., Edizioni della Torre, p. 159.304 Rafael Conde y Delgado de Molina, La Sardegna Aragonese, cit. , p. 265.305 M. Tangheroni, Il feudalesimo. Le Istituzioni della Sardegna 3, in La Sardegna, cit., p. 160306 Ibidem, p. 160.307 Rafael Conde y Delgado de Molina, La Sardegna Aragonese cit., p. 267.
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3 – Diversi popoli, diverse culture.
L’aspetto culturale in Sardegna subì certamente fasi alterne e, per molti versi,
misteriose ai nostri occhi, visto il notevole silenzio delle fonti. Le poche
testimonianze rimaste ci permettono di avviare uno studio davvero riduttivo
rispetto a ciò che dovette essere, soprattutto in epoca giudicale. Tuttavia alcune
precisazioni possono essere fatte. La Sardegna dovette conoscere due realtà
contrapposte: una di matrice greca a sud, con centro propulsore la città di Santa
Igia e una di matrice ”romana” a nord, con i centri di Torres e Ardara, che
guardava con interesse alla cultura latino-occidentale, prima franco-carolingia, poi
sempre più italiana308. Già a partire da questi pochi elementi possiamo trarre una
prima importante conclusione: la Sardegna non era affatto una terra isolata. Se è
vero, infatti, che proprio dall’interruzione dei rapporti con Bisanzio nacque
l’esigenza dell’autogoverno, è anche vero che «l’isola iniziò ad avvicinarsi con
sempre maggiore interesse al mondo occidentale e latino dell’impero franco e del
papato, nel quale, lentamente, ma inesorabilmente, rientrava a far parte»309. Ciò
che è però interessante sottolineare è che queste culture esterne non furono
assorbite passivamente, ma furono rielaborate secondo schemi del tutto autoctoni.
Gli stessi schemi cancellereschi vennero adattati al gusto e alle esigenze sarde,
com’è dimostrato dall’utilizzo, per esempio, del volgare sardo anche per i
documenti ufficiali. Altre regioni italiane, sull’argomento310, registrano silenzi
quasi assoluti. Sono attestati intanto rapporti con la Spagna mozarabica311 e
visigotica e con la Francia carolingia. La stessa organizzazione del territorio e lo
sviluppo delle sue istituzioni in epoca giudicale «non potè essere frutto di un
308 G. Milia, I caratteri di una civiltà. La civiltà giudicale, in AA. VV., Il Medioevo…., cit., pp. 194-95.
309 Ibidem, p. 195.310 Ossia sull’uso delle lingue volgari.311 Un esempio è l’Orazionale Mozarabico, che giunse a Cagliari dalla Spagna nei primi decenni dell’VIII secolo. E’ attualmente custodito nella Biblioteca Capitolare di Verona ed è il più antico codice in scrittura “visigotica”. Il manoscritto è stato redatto agli inizi del secolo in uno scriptorium di Tarragona da dove poi passò in Sardegna; da una nota di possesso apposta sulla pergamena si evince che appartenne ad un certo Flavius Sergius bicidominus Sancte Ecclesiae Caralitane. La nota di possesso è vergata in “corsiva nuova” il che testimonia nell’isola la conoscenza e l’uso delle stesse scritture conosciute nella penisola.
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mondo completamente chiuso in se stesso»312. Prima del Mille il livello culturale
dei sardi, non doveva essere molto elevato; se si escludono i funzionari statali più
importanti e l’alto clero, erano proprio pochi quelli in grado di leggere e scrivere,
anche fra i ceti più elevati. La prima attestazione dell’esistenza di scuole, che
dovettero poi crescere di numero sia nei grandi monasteri, sia nelle scuole
cattedrali, la si ricava da un passo della vita del vescovo di Barbagia, San Giorgio
(1000-50), del quale sono riportati gli studi giovanili in lettere greche e latine313.
L’arrivo degli ordini monastici dei Benedettini, dei Vallombrosani e Camaldolesi,
sollecitati dai giudici stessi, dovettero, unitamente alla presenza mercantile di Pisa
e Genova, apportare notevoli miglioramenti in ambito culturale favorendo il
definivo reinserimento dell’isola nei circuiti culturali occidentali. Le
manifestazioni culturali di letteratura scritta, sia in volgare che in latino, non sono
molte o non lo sono quelle che ci sono pervenute, sia per l’epoca giudicale che per
quella aragonese. Testimonianze di una certa importanza sono i Condaghi, i
Pseudo-condaghi, il Liber Judicum Turritanorum, le Passiones314 dei santi315. La
cultura della curia arborense era di matrice italiana e più precisamente pisana, sia
nel periodo dei buoni rapporti coi catalano-aragonesi, sia nel periodo successivo
alla rottura con questi avvenuta nel 1353, e tale rimase sino alla fine (1410-20).
«L’intellighenzia arborense pensava in volgare, sardo o italiano anche se molto
più frequentemente scriveva in latino»316. I documenti che sono giunti sino a noi
presentano una cultura ad appannaggio prevalentemente ecclesiastico. Gli uomini
di chiesa furono, infatti, per lungo tempo gli unici depositari del sapere e
soprattutto della cultura scritta, tanto che in mancanza di laici istruiti e in possesso
di una solida preparazione notarile, furono proprio loro ad occuparsi della
redazione dei documenti e a coprire le esigenze delle cancellerie giudicali: «il
chierico Nicita è l’estensore, intorno al 1064-65, dell’atto di donazione a favore
312 G. Milia, I caratteri di una civiltà. La civiltà giudicale, in AA. VV., Il Medioevo…., cit., . p. 200.313 Ibidem p. 210.314 Dei condaghi si è già parlato, i pseudo-condaghi sono delle piccole cronachette o per meglio dire, brevi brani narrativi scritti per occasioni particolari, come consacrazioni di chiese, acquisti computi per le chiese o elezioni di giudici. Il Liber Judicum è una cronaca, molto importante, scritta in logudorese, redatta, pare alla fine del XIII secolo da un anonimo. In essa è narrata la storia del giudicato in modo sintetico e con alcune false interpolazioni di carattere filo pontificie. Le passiones sono i racconti delle vite dei santi e martiri sardi, scritte in latino. 315 G. Milia, cit., pp. 210-12 (§ I caratteri di una civiltà).316 Ibidem, pp. 220-221.
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del monastero di Montecassino voluto dal giudice Barisone I di Torres; il
presbitero Mariano di Nuraxinieddu opera nella cancelleria del regno giudicale
d’Arborea all’epoca del giudice Torbeno»317. Certamente entrambi avevano
capacità scrittorie apprese con tutta probabilità in una scuola parrocchiale in cui
un maestro, un religioso, chiamato scholasticus, insegnava ai giovani chierici ma
anche laici, la lettura e le competenze liturgiche. Le scuole erano comprese
all’interno delle strutture monastiche, e da alcuni inventari di chiese o monasteri,
nonché da atti di donazione a favore degli enti ecclesiastici emanati dai giudici o
da alcuni maiorales, veniamo a conoscenza del patrimonio librario di alcune
biblioteche318. Sappiamo, ad esempio, che il monastero di San Nicola di Trullas,
dipendente dal monastero benedettino di Camaldoli in Toscana, possedeva diversi
libri sin dalla sua nascita e gli fu vietato di alienarli e nell’inventario, redatto nel
1280 si registrano una Bibbia in due volumi, due omeliari, un messale, un
“passionarium”, due antifonari, due salteri, un epistolario, un manuale e un
sermonario. Questo seppur piccolo patrimonio era sufficiente per la formazione
religiosa dei monaci. Come era costume, annesso al monastero vi era lo
scriptorium e un archivio che custodiva importanti documenti come cinquanta
privilegi corroborati dalla bolla di piombo319più altri cinque col sigillo in cera,
cinque condaghi320 scritti in lingua sarda e testimoni di diverse realtà isolane. Il
discorso non cambia se ci si riferisce agli altri monasteri dell’isola. Uno in
particolare merita attenzione, l’inventario dei libri della chiesa cattedrale di Santa
Maria di Cluso, a Santa Igia, del 1227, in cui oltre ai testi biblici e di edificazione
religiosa, a quelli di diritto canonico, i Padri della Chiesa, l’oratoria, messa e
sacramenti, vi erano due manuali per l’apprendimento dei primi elementi grafici e
di calcolo321, un Lapidarius e un Abbacus; il che conforta l’idea che esistesse una
struttura scolastica di base, non disgiunta dalla chiesa cattedrale. Ciò, peraltro, non
sembri strano dal momento che il penultimo canone del Sinodo dei vescovi di
Santa Giusta del 1226, dispone la costituzione di una scuola di grammatica
317 O. Schena, Scrittura e cultura nella Sardegna giudicale, in “Quattro donne della Sardegna giudicale incontrano il Liceo Siotto”, Liceo Ginnasio Statale “G. Siotto Pintor”, Cagliari 2005, p. 73.318 O. Schena, cit., p.74.319 Era il tipo di sigillo utilizzato nella cancelleria pontifiica, nelle cancellerie giudicali e in quelle regie e imperiali dell’Europa medioevale.320 Vedi nota 294.321 O. Schena, cit., p.75.
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almeno nelle sedi vescovili di Santa Igia, Torres e Oristano, ricalcando così
quanto già prescritto dal Concilio Lateranense IV del 1215 che ordinava la
creazione di una scuola di grammatica presso tutte le chiese cattedrali e di una
scuola di teologia, «assolutamente impensabile per la realtà sarda. L’aspetto
peculiare però si concentra su un elemento che non è legato alla quantità dei testi
posseduti ma al fatto che molti dei testi sono risultati coevi con la redazione
dell’inventario e ciò è un ulteriore elemento a favore della rapida circolazione
della più moderna produzione giuridico-teologica prodotta nella penisola
italiana322». Nel corso del Trecento, la Sardegna vide migliorare il suo livello
culturale quando nacquero le prime strutture scolastiche gestite anche da laici. Si
dispone, infatti, di un inventario che elenca i testi appartenuti al alcuni individui
appartenenti al mondo della scuola in cui si rilevano testi di grammatica,
traduzioni di favole greche di Esopo, abbecedari e i Disticha Catonis o Disticha
moralia.323 Notevole fu poi l’apporto delle correnti mercantili più progredite,
Pisani e Genovesi.
Capitolo II – Educazione e cultura delle donne.
322 O. Schena, cit., p. 76.323 Ibidem, p. 77-78.
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1 – L’universo femminile: essere donna nel medioevo sardo.
Data la scarsità di fonti relative alla vita femminile della Sardegna tra Trecento e
Quattrocento, è molto difficile individuare quelle informazioni che ci permettono
di formulare un’analisi dell’individuo donna nel suo complesso, e quindi non solo
il suo modo di vivere, la sua infanzia, la sua giovinezza, ma la sua posizione nella
famiglia e, per continuo, la sua rilevanza nella società, appare compito assai
arduo, per non parlare della pretesa di conoscere i sentimenti o il modo di pensare
di queste donne ora così lontane da noi, da sembrare quasi non siano mai esistite.
Eppure, ecco alcuni documenti dell’Antico Archivio Regio324 che emergono
dall’abisso del tempo, unitamente agli Atti notarili325 e al prezioso archivio della
Famiglia Aymerich326 ci vengono incontro per colmare alcune delle innumerevoli
lacune che la storia, in senso lato, ci ha lasciato327.
Il confine tra nobili e ricchi era assai fragile, specie nel ‘400, secolo di grandi
trasformazioni sociali, ed era perciò frequente che, specie attraverso rapporti
matrimoniali, si potesse passare da una fascia ad un’altra con una relativa facilità.
Violante Sanjust, nobile di origini catalane, sposò nella seconda metà del
Quattrocento, il ricchissimo mercante cagliaritano Giuliano Scamado, in un
periodo in cui, tra l’altro, erano ancora in vigore le “leggi antirazziali” contro i
sardi328. Per le donne nobili e alto-borghesi, il matrimonio rappresentava un
fondamentale punto d’arrivo. Venivano educate per questo fine, fin dall’infanzia.
I matrimoni erano combinati tra le famiglie degli sposi, in cui la sposa poteva
offrire oltre ad una ricca dote, anche un nome importante e un clan influente329. A
324 L’Antico Archivio Regio, da ora in poi abbreviato in AAR., costituisce un superfondo dell’Archivio Di Stato Di Cagliari (abbreviato in ASC), ordinato per materia nel Settecento; copre un arco cronologico che va dal 1323 al 1832. In esso sono confluiti gli archivi degli ufficiali regi, politici ed amministrativi del periodo aragonese-spagnolo. Cagliari 325 Gli Atti Notarili appartengono alla soppressa Tappa d’insinuazione di Cagliari, coprono un arco cronologico che va dal 1430 al 1869. 326 L’archivio, smembrato e in parte disperso, si trova oggi parte nell’ASC e parte (384 unità) nell’Archivio storico del Comune di Cagliari.327 G. Olla-Repetto, La donna cagliaritana tra ‘400 e ‘600, in Ministero per i beni culturali e ambientali, ufficio centrale per i beni archivistici, “La famiglia e la vita quotidiana in Europa dal ‘400 al ‘600”, Roma 1986, pp. 251-53.328 ASC, Notai di Cagliari, Atti sciolti, b. 337, notaio Giovanni Garau, attivo tra il 1441 e il 1474, non nobile, n.3, cc. 25 v – 30 v. 329 G. Olla-Repetto, La donna cagliaritana, cit., p. 254.
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questa tipologia di donne, come del resto alle loro colleghe della penisola, era
concessa un’istruzione, anche se minima, che consisteva nel leggere, scrivere e far
di conto330. La loro educazione, però, era rivolta prevalentemente al governo della
famiglia e della casa, diventando domina subito dopo il matrimonio. I suoi
compiti prevedevano per intero la gestione economica della famiglia, che a quei
tempi comprendeva oltre al marito e i figli ed eventuali altri parenti, i servi, gli
schiavi, le balie, e ancora scrivani, cocchieri e quant’altri, finendo per formare un
consistente nucleo familiare piuttosto allargato331. Spesso lo sposo faceva alla
sposa una sorta di regalo in denaro, donatio propter nuptias, pari alla metà della
dote e che gliene lasciasse l’esclusiva amministrazione332, come pure accadeva che
mariti, figli e fratelli le nominassero procuratrici ed amministratori di patrimoni
anche consistenti. Erano anche capaci di gestire affari in proprio e avevano potere
di sostituire i mariti nei loro affari, durante le assenze di questi. Il suo ruolo di
madre la metteva di fronte ad innumerevoli gravidanze e aborti e a correre troppo
spesso un serio pericolo di vita nel dare la vita ai propri figli di cui ne soffriva
spesso la perdita. «Violante Sanjust Scamado, quando partorì nel 1460 la seconda
figlia, aveva già tre maschi adulti ed una serie di figli, morti appena nati e sepolti
nella cattedrale di Cagliari333. Nella crescita dei figli era coadiuvata da molti aiuti
tra cui balie, serve e schiave. Era una donna religiosa, si preoccupava della sua
anima, ma non era affatto turbata dall’avere schiavi, anche cristiani, al suo
servizio.
La donna sposata, se sopravviveva al marito, disponendo comunque di una
propria dote poteva facilmente risposarsi, a prescindere dall’età e dall’aspetto
fisico. Pur non risposandosi, poteva vivere con onore e dignità, svincolata da
qualunque tipo di controllo maschile, come, per esempio, Bartomea (1441-42) e
Adonza de Besora (1455)334. Non era raro che si interessasse di politica fino ad
arrivare ad essere consigliera del marito, se ne godeva la fiducia. Anche queste
330 Vedere, ad esempio, la numerosa corrispondenza delle donne della casata (Violante Aymerich, Maria Margens, ecc.) in ASC, Archivio Aymerich.331 G. Olla-Repetto, La donna cagliaritana…, cit., p. 255.332 Nel contratto nuziale tra Antonio Luigi d’Aragall e Antonia Caça, del 1455, è inclusa una donatio propter nuptias di 4000 lire di alfonsini minuti, pari alla metà della dote, che viene affidata all’amministrazione della sposa, senza interferenze del marito o di eventuali figli.333 ASC, Notai di Cagliari, Atti sciolti, b. 337, notaio G. Garau, n. 3, cc. 25v – 30v.334 Cfr. per la Besora, ASC, Notai di Cagliari, Atti sciolti, b. 337, notaio G. Garau, n.1, c. 37v.
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forme di partecipazione alla vita sociale da parte della donna di ceto sociale
elevato fanno parte di un sistema educativo che è in linea perfetta con quanto
veniva insegnato alle coetanee di altre realtà, come nelle corti dell’Italia centro-
settentrionale. Ricevevano un buon livello d’istruzione335, testimoniato dal
contenuto e dalla grafia delle lettere che ci hanno lasciato. Agli inizi del ‘500,
donne come Violante Quirant che prende in mano la penna per comunicare al
marito lontano, Salvatore Aymerich, degli avvenimenti politici di Cagliari e lo
mette in guardia contro i falsi amici, di cui indica i nomi336. Naturalmente queste
donne, poche, appartenevano a famiglie che avevano stretti rapporti con la corte.
Le donne appartenenti alla borghesia erano donne libere o liberte, mogli o figlie di
ufficiali regi minori, come scrivani, o notai di condizione modesta, di medici,
musici, maestri di scuola, commercianti, farmacisti o artigiani337. Le libere erano
sarde, iberiche o italiane, le liberte, greche, nord o centro africane, levantine e nel
‘400, orientali, cioè russe, circasse, tartare, ungare. I matrimoni erano combinati
tra la famiglia della sposa e quella dello sposo, spesso con l’aiuto di intermediari.
Anche questa donna aveva un minimo d’istruzione e sapeva far di conto. Si
occupavano con cura dei figli cercando per loro una sistemazione per la vita,
stipulava, infatti, un contratto dotale per le figlie davanti ad un notaio e avviava i
figli maschi ad un apprendistato per imparare un mestiere338. Possedeva inoltre dei
libri devozionali. La sua immagine all’esterno era sempre sacrificata, finchè il
marito era vivo, era sempre un po’ in ombra dietro di lui o al suo fianco.
Le liberte, ossia ex schiave, erano prevalentemente di origine africana o orientale
che, una volta affrancate, rimanevano a vivere a Cagliari339. Era raro che le donne
appartenenti a questa categoria fossero povere ed inoltre dai documenti si evince
che si trattava di una figura di donna più attiva ed emancipata della donna libera
ed era altresì capace di procurarsi un tenore di vita molto soddisfacente. Ciò non
sembri strano perché è, innanzi tutto, naturale che al di fuori del proprio paese
335 E’ testimoniato dai documenti che possedessero dei libri, ad esempio, Scrina Carau di Cagliari, nel 1431, possedeva un messale (G. Olla-Repetto, Notai sardi del secolo XV: Pietro Baster, in Studi Storici e giuridici in onore di Antonio Era, Padova 1963, pp. 283); 336 ASC, Archivio Aymerich, docc. 210, 211, 213, 245, 968.337 G. Olla-Repetto, La donna cagliaritana…, cit., p. 260.338 Ibidem, p. 261.339 Vedi G. Olla-Repetto, Cagliari crogiolo etnico: la componente mora, in «Medioevo», 7 (1982), pp. 159-172.
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d’origine, si possano godere di maggiori libertà e in secondo luogo perché
Cagliari era, all’epoca e non solo, una città portuale ricca di persone appartenenti
a svariate etnie, «avvezza da sempre ai diversi»340. Era quindi normale gestire
affari, avere una casa di proprietà, mobili, argenteria e, persino, avere serve
bianche, cristiane e libere. Non si hanno testimonianze circa il lavoro di queste
donne borghesi o liberte, a parte un caso riferito ad un’usuraia di buona
condizione sociale, sorella di un certo signor Carmona di Stampace che, nel 1483,
fu scomunicata tanto dovette essere solerte nello svolgimento del proprio
lavoro341. Sempre da un documento notarile, compare la figura di Maddalena
Ferrer342, moglie di un farmacista che, alla morte di lui, nel 1442, ne continua la
professione, il che forse, ci fa azzardare l’ipotesi, che queste donne fossero
d’ausilio ai loro mariti nello svolgimento delle loro attività professionali. Il
discorso cambiava nettamente se la donna apparteneva alla scala sociale più bassa,
quella del popolo. Quando costoro avevano una famiglia alle spalle, i padri, i
mariti, i fratelli, erano per lo più senza un lavoro e anche quando l’avevano, erano
molto umili, come facchini, contadini, carrettieri, pescatori. Le popolane che
abitavano il castello e dintorni, provenivano dai paesi dell’interno erano, in
genere, prive di qualunque istruzione compresa una certa nozione di ricamo,
cucito e altre attività tipiche femminili. Il matrimonio era molto difficile da
realizzare in quanto, nonostante la sua povertà e spesso la mancanza di famiglia
alle spalle, era tenuta a presentare la dote. L’alternativa era il concubinato e la
prostituzione che in maniere diverse, si cercava di arginare. Spesso questa
condizione portava alcune di loro a cercare tutte le strade possibili per mantenersi
da sole e potersela cavare anche senza l’aiuto di un uomo. Così, il principale
sbocco professionale era costituito dall’andare a servizio presso terzi, svolgendo
un lavoro variamente retribuito. Avveniva che fossero le stesse madri ad affidare
le proprie figlie, ancora in tenera età, persino dai 3-5 anni, a famiglie borghesi che
le allevavano, facendole al contempo lavorare una volta raggiunta l’età di 7-8
anni343. Il rapporto tra queste bambine e le famiglie che le prendevano in casa,
340 G. Olla-Repetto, La donna….cit., p. 263.341 ASC, Notai di Cagliari, Atti sciolti, b. 51, notaio A. Barbens, n.15, cc. 14v – 15.342 Ibidem, b. 337, notaio G. Garau, n.1, cc. 37v – 38.343 ASC, Notai di Cagliari, Atti legati, notaio M. De silva, vol. 616, c. 171; notaio B. Coni, vol. 479, cc. 15, 253v – 254.
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avveniva attraverso regolare contratto in cui i padroni legavano a se queste
criadas per circa 10- 12 anni in cambio di una prestazione lavorativa senza
controllo e senza soste, venivano sfamate, vestite, curate e alla fine del contratto
ricevevano anche un modesto compenso in danaro come dote344. Tra queste
giovanissime fanciulle troviamo numerose illegittime, e qualche orfana borghese
rimaste senza averi. Al controllo era preposto una sorta di giudice minorile
chiamato padre municipale che provvedeva alla sistemazione nelle varie famiglie
cagliaritane345. Qualunque fosse il grado sociale della famiglia ospitante, le serve
erano costrette a subire le attenzioni di padroni e padroncini, che ne abusavano a
proprio piacimento, dando luogo a relazioni più o meno clandestine, aborti e
gravidanze che contribuivano spesso ad aggravare le posizioni di queste infelici,
costrette a subire in aggiunta le ritorsioni delle loro padrone, che trovavano
sempre il modo per vendicarsi.
Da serva a prostituta il passo era spesso breve: « nel 1455, Francesco di
Salamanca si impegnò di fronte al notaio a pagare una penale di 100 ducati, alla
propria serva Caterina, nel caso si congiungesse carnalmente con lei senza il suo
consenso346». A onor del vero, non fu una sofferenza per tutte, infatti, non lo fu
per Benedetta, serva sarda del chirurgo barcellonese Rafaele Aguilar, il quale, nel
suo testamento del 1431, dettato in punto di morte, la nominò erede di ogni suo
bene347. Da questa pratica non era escluso nemmeno il clero, tanto che il canonico
Bernardo Solerii aveva instaurato un rapporto molto profondo con la sua serva
Giovanna Mata di Tortolì, alla quale lasciò, con testamento del 1430, quasi tutto il
suo consistente patrimonio.
Vi erano, inoltre, anche altri mestieri come la lavandaia, la panettiera, la tessitrice,
l’ostessa, la locandiera. Inoltre, il matrimonio concedeva loro la possibilità di
accedere al mondo del lavoro, come balia, la quale, di costituzione sana, in buona
salute e dalla moralità ineccepibile vendeva il proprio latte a famiglie nobili e
borghesi, le cui donne non volevano o non potevano allattare i propri figli. Le
344 ASC, Archivio Aymerich, docc. 175, 893.345 Su questo ufficio, si vedano i lavori di: M. Pinna, Il magistrato civico di Cagliari, in «Archivio Storico Sardo», IX (1913), p. 175; R. di Tucci, Il libro verde della città di Cagliari, Cagliari 1925, p. 55; ASC, Notai di Cagliari, Atti legati, notaio M. Concu, vol. 437, cc. 99v – 100.346 ASC, Notai di Cagliari, Atti sciolti, b. 337, notaio G. Garau, n.2, c. 91v.347 G. Olla-Repetto, Notai sardi del secolo XV: Pietro Baster, in Studi Storici e giuridici in onore di Antonio Era, Padova 1963, pp. 286-89.
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balie dovevano essere disposte a trasferirsi nell’abitazione dei padroni e non
potevano avere rapporti sessuali durante l’allattamento348. La balia o dida, si
impegnava a nutrire ed allevare il bambino e in cambio riceveva ospitalità e un
compenso rispettoso delle tariffe in uso per le didas della città di Cagliari. Per
quanto attiene alle schiave, possiamo dire che il loro numero è consistente sin dal
XIV secolo, nel Trecento predominavano i greci e i mori, ma, nel Quattrocento, i
greci furono rimpiazzati da russi, tartari, circassi ed ungari, e dopo costoro, dal
‘500, rimasero soltanto gli africani del nord e dell’interno e i levantini349. Queste
donne arrivavano in Sardegna che erano ancora adolescenti o comunque molto
giovani e dovevano sopportare molteplici difficoltà, dalle differenze culturali e
razziali al dolore di essere state sottratte con la forza alle proprie famiglie quando
ancora erano troppo giovani per farne a meno; scrive la Olla che «a 13 anni, una
giovanetta russa innominata, che aveva alle spalle una consistente trafila, se non
di padroni, di mercanti di schiavi, e che aveva percorso una strada lunga e
dolorosa per giungere dalle sue steppe all’isola mediterranea, nel 1455 venne
ceduta da Pietro Carusses, argentario del Castello di Cagliari, a Francesco
Marimon, mercante dello stesso Castello, come una merce qualunque»350. Il
mercato degli schiavi non faceva sconti a nessuno, era umiliante e doloroso a
prescindere dal sesso, anche se a Cagliari la loro vita non era così dura come da
altre parti, costituivano un investimento così prezioso che qualunque padrone si
sarebbe guardato bene dal sciupare. Avere molti schiavi era segno di grande
benessere e più erano giovani, più erano costosi. Le schiave erano considerate alla
stregua di cose, anche se avevano il permesso di lavorare, in maniera retribuita,
presso terzi, riuscendo spesso a pagare il riscatto per se e per i loro cari. Per le
donne, però, perché c’è sempre un però per le donne, la schiavitù aveva, molto
spesso, dei risvolti di caratteri sessuale davvero degradanti. Erano, infatti,
l’oggetto preferito dei desideri sessuali dei padroni, docili, indifese e sempre a
348 M. Pinna, Le Ordinazioni dei Consiglieri del Castello di Cagliari, Cagliari 1928, 1. II, cap. 26.349 Si vedano sull’argomento: A. Boscolo, Le incursioni arabe in Sardegna nel Medioevo, in Atti della settimana internazionale di studi mediterranei medievali e moderni (Cagliari, 27 aprile-1 maggio 1979), Milano 1980, pp. 13- 23; F.C. Casula, Presenza turca in Sardegna in epoca moderna, in Atti del Simposio di ricerche e di studi per uno sviluppo scientifico dei rapporti italo-turcbi, Milano 1981, pp. 43-79.350 ASC, Notai di Cagliari, Atti sciolti b. 337, notaio G. Garau, n. 2, c. 134v.
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portata di mano351. Le Ordinazioni punivano i rapporti sessuali con schiave, balie
e serve del proprio padrone e stabilivano un risarcimento a carico di chi metteva
incinta la schiava altrui, ma non si faceva nessuna prescrizione per il padrone
legittimo352. Lo stupro, l’adulterio e l’incesto venivano sanzionati con la
scomunica, che, però, non aveva nessun potere nel riparare all’umiliazione e al
dolore patito da quelle donne.
E’ curioso rilevare dai dati raccolti nei documenti, che nel 1480 la moda
imponeva alle donne d’avere fianchi opulenti e curve sinuose tanto che, le donne
di Cagliari che non corrispondevano a questo modello, le escogitavano proprio
tutte pur di rimediare alle carenze naturali inventandosi ogni sorta di ingegnosi
rinforzi. Pezzi di coltri, imbottiture di basti, giri di volanti attorcigliati più volte
attorno ai fianchi, pur di ottenere le tanto desiderate rotondità, tanto da suscitare
l’intervento della chiesa e la richiesta a mariti e padri di mettere un freno al
dilagare di questa moda tanto sconveniente che colpiva tutte, maritate e non353.
Seguendo una direttrice insolita al comune sentire che vede negli Archivi dello
Stato un luogo di conservazione della memoria storica dei vincitori e non dei
vinti, tutti e tre i fondi investigati ci hanno restituito informazioni sulle donne
nobili come sulle popolane o le schiave, ossia sulle donne dei ceti dominanti come
su quelle dei ceti subalterni, «essendo le loro vicende umane inscindibilmente
connesse»354
2 – La visione della donna nella Carta de Logu e negli Statuti
Sassaresi.
351 I documenti, specie notarili, abbondano di citazioni di illegittimi, figli di serve o comunque di donne diverse dalla propria moglie, frutto di relazioni illecite che gli uomini intrattenevano nella stessa casa coniugale, secondo un costume consuetudinario in uso anche nelle corti della penisola.352 M. Pinna, Le Ordinazioni,,,cit., 1. II, capp. 191, 192.353 ASC, Notai di Cagliari, Atti sciolti, b. 51, notaio A Barbens, n. 14, cc. 19-19v.354 G. Olla-Repetto, La donna cagliaritana tra ‘400 e ‘600, in Ministero per i beni culturali e ambientali, ufficio centrale per i beni archivistici, “La famiglia e la vita quotidiana in Europa dal ‘400 al ‘600”, Roma 1986, pp. 251-276.
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Nella società sarda del Medioevo, la condizione femminile può essere considerata
felice se rapportata al regime matrimoniale in uso e a quello successorio che, al
contrario di quello continentale, tendeva all’uguaglianza tra i sessi355. Sia negli
Statuti Sassaresi (1316)356che nella Carta de Logu (ca.1392)357troviamo codificato
il regime matrimoniale che contempla la dote e quello che, invece, prevede la
comunione dei beni. Il sistema di dotare le figlie femmine era un costume in uso
nella penisola e fu importato in Sardegna dai pisani, chiamato per questo «a sa
pisanisca», ma pare fosse limitato ai mercanti stranieri, alle grandi casate toscane,
genovesi o catalane stabilite nell’isola, oppure alle famiglie giudicali con loro
apparentate. Si hanno, a tal proposito, le carte del testamento «di un certo
Gottifredo D’Arborea, probabilmente figlio del giudice Pietro I, che aveva egli
stesso vissuto a Pisa dove aveva preso moglie358. Alla sua morte, avvenuta nel
1253, la maggior parte dei beni patrimoniali, costituiti da terre, villaggi, case servi
e bestiame, andò alla figlia, ancora minorenne, “pro se dotanda”, e a tre individui
i cui legami di parentela con il defunto non sono precisati. La vedova recuperava
la sua dote…..ma, in conformità col principio stretto del regime dotale, veniva
esclusa dalla successione359». Negli statuti sassaresi e nella Carta de Logu, la
vedova, in casi del genere, conservava il diritto ad una parte consistente dei beni
del marito360. Nel matrimonio sardo, detto «a sa sardiska», molto simile al
bizantino, la donna non porta con se la dote ma collabora alla costituzione del
nuovo nucleo familiare portando nella casa, data dal marito, il mobilio, l’arredo
domestico e il corredo e in ogni caso i due sposi conservavano intatti i diritti sulle
loro rispettive eredità, e tutti i beni acquisiti dopo le nozze erano posseduti in
comune e non potevano essere venduti o ceduti se non col consenso reciproco361.
355 J. Day, La condizione femminile nella Sardegna Medievale, in Ministero per i beni culturali e ambientali, ufficio centrale per i beni archivistici, “La famiglia e la vita quotidiana in Europa dal ‘400 al ‘600”, Roma 1986, pp. 241-249.356 Il codice degli Statuti del libero comune di Sassari, a cura di G.M. Diaz, Cagliari 1969.357 Carta de Logu de Arborea, a cura di E. Besta e P. Guarnerio, Sassari 1904. Gli statuti pisani di Villa di Chiesa non parlano del regime della comunione dei beni (Codex Diplomaticus Ecclesiensis, a cura di C. Baudi di Vesme, in «Historiae Patriae Monumenta», XVII, col. 5-456).358 F. Artizzu, Pisani e Catalani nella Sardegna medioevale, Padova 1973, pp.25-38.359 J. Day, La condizione femminile nella Sardegna Medievale, in Ministero per i beni culturali e ambientali, ufficio centrale per i beni archivistici, “La famiglia e la vita quotidiana in Europa dal ‘400 al ‘600”, Roma 1986, p. 240.360 Statuti di Sassari, I, 104; Carta de Logu, cap.98.361 Così si trova nei cartolari monastici dei secoli XII-XIII: «cun boluntate dessa mugere», «cun boluntate dessu maridu», «cun boluntate de pari».
98
Negli statuti sassaresi, la moglie era responsabile per metà dei debiti contratti dal
marito per il bene comune362. Non le era permesso vendere, cedere o ipotecare i
propri beni, senza il consenso del marito. La consuetudine in uso in Sardegna era,
per certi versi, talmente cautelativa nei confronti della donna che, pur rimanendo
per tutta la vita sotto la tutela economica del padre, del marito o dei parenti di
sesso maschile, la sua eredità non poteva essere toccata363. Inoltre, dulcis in fundo,
non era nemmeno soggetta alla confisca dei beni per crimini commessi dal proprio
marito o per aver dato rifugio a parenti latitanti364. E’ opportuno sottolineare, però,
che questo genere di diritti servivano a «preservare lo status quo, nel caso per
esempio, di una donna ricca che sposa un uomo povero, come risulta dai lasciti pii
registrati nelle carte monastiche dei secoli XII e XIII365. Inoltre è previsto che tutti
i figli dei due sessi dividano fra loro il patrimonio in parti assolutamente uguali,
infatti, nella Carta de Logu una figlia femmina ha diritto ad avere la sua parte di
eredità pur non compromettendo per questo la sua dote.366Quel che si può dire
sulla condizione giuridica delle serve è che questa non dovette differire molto da
quella dei servi.
Il lavoro delle donne, come si è già avuto modo di vedere nella prima parte, era
tradizionalmente sottovalutato e ancor più in questo caso, tale visione si estendeva
anche alla loro persona. Negli statuti sassaresi, la pena per aver ucciso un’ankilla,
era fissata a lire 25, pena pecuniaria quindi, rispetto a lire 50 per un servus367. A
Sassari, i servi dei due sessi potevano essere picchiati, mutilati e persino uccisi dai
propri padroni con uguale impunità368. Altro punto in comune con le convinzioni
sociali della penisola e con tutta una cultura laica e religiosa, è rappresentato dal
valore giuridico che era attribuito alla donna. Poiché «in foemina minus est
rationis», nei processi criminali le testimonianze delle donne non avevano valore,
a meno che non fossero comprovate da un uomo e, inoltre, due testimonianze
femminili valevano una maschile369. Ma secondo il principio, tanto per restare in
362 «Si cussu depitu siat torratu ad utilitate comunale» (Statuti di Sassari, II, 8).363 Breve di Villa di Chiesa, III, 64, 68; Statuti di Sassari, III, 1.364 Breve di Villa di Chiesa, II, 29; Carta de Logu, capp. I, 7; Statuti di Sassari, III, 1.365 L’esempio si trova nel Condaghe di San Nicola di Trullas, scheda n.62.366 Carta de Logu, cap. 98.367 Statuti sassaresi, III, 1.368 I Condaghi di San Nicola di Trullas e S. Maria di Bonarcado , a cura di E. Besta e A. Solmi, Milano 1937, n. 131.369 Statuti sassaresi, III, 8, 33.
99
tema, «propter sexus fragilitatem», la pene imposte per delitti e reati minori erano,
almeno in teoria, più leggere per le donne370. Il marito aveva il potere di esercitare
lo ius corrigendi, ossia il diritto di punire fisicamente chiunque abitasse la sua
casa, senza incorrere in una qualsivoglia sanzione371. Se una donna subiva
violenza al di fuori della propria casa allora era considerato reato. Le pene
variavano a seconda dello stato e della condizione sociale della donna. Per
violenza carnale, le pene andavano dalla decapitazione, se la donna era sposata,
fino ad una modesta multa nel caso di una serva372, mentre la violenza su una
vergine era considerato un reato estremamente grave a meno che la vittima non
consentisse ad un matrimonio riparatore373. Nella Carta de Logu invece, lo stesso
delitto era punito, «chi paghit pro sa coyada liras chimbicentas» ossia con
un’onerosa multa di lire 500 e se non paga entro 15 giorni, «siat illi segad’unu
pee, pro modu ch’illu perdat» cioè con il taglio di un piede, con una riduzione a
lire 200 se la stessa acconsentiva al matrimonio di sua libera volontà374. In ogni
caso, si può affermare che, se nel medioevo sardo la sottomissione della donna
risulta meno evidente, è forse perché non erano ancora subentrate leggi e costumi
iberico-islamici, tendenti ad allontanarla dai contatti pericolosi col mondo
esterno.375
3 – Presenze femminili nei Condaghi.
Una meticolosa analisi dei Condaghi della Sardegna medioevale, ci fornisce
informazioni preziose sulla società dell’epoca e quindi permette alcune
considerazioni circa la posizione della donna, come già si è avuto modo di vedere
370 Ibidem, III, 6, 7, 13, 33 e seguenti.371 Statuti sassaresi, II, 3, 13; Carta de Logu, cap. 9; Breve Villa di Chiesa, II, 32 (dove il marito non doveva servirsi che delle sue mani e senza versare sangue).372 Statuti sassaresi, II, 31.373 Ibidem.374 Carta de Logu, cap.21. 375 J. Day, La condizione femminile nella Sardegna Medievale, in Ministero per i beni culturali e ambientali, ufficio centrale per i beni archivistici, “La famiglia e la vita quotidiana in Europa dal ‘400 al ‘600”, Roma 1986, p. 249.
100
nei precedenti paragrafi, rispetto ai vari negozi giuridici che la storia ci riporta. La
Sardegna, da un punto di vista giurisprudenziale, ereditò il diritto romano-
bizantino, dato che la dominazione vandalica non fece in tempo a fare presa nel
tessuto sociale dell’isola lasciandola immune da influssi barbarici. Dopo il crollo
dell’impero romano, il diritto di Giustiniano fu l’unico a rimanere in vigore nelle
terre dell’ex impero e in Sardegna costituì la base su cui i praeses-dux di bizantina
memoria, deformarono l’originale per giungere ad una nuova forma che andasse
maggiormente incontro alle necessità della vita quotidiana376.
Nel diritto sardo non vi è individuo al quale non vengano riconosciuti dei diritti e
anche le differenze di sesso non sembrano incidere in maniera determinante377, sia
per la frequenza dei cognomi materni da parte dei figli, sia per il notevole numero
di negozi giuridici stipulati da donne. Nel matrimonio a sa sardiska il regime in
uso prevedeva la comunione dei beni tra coniugi ed è tesi accettata che la
comunione riguardasse soltanto gli acquisti compiuti e gli utili pervenuti durante
il matrimonio378. In Italia, a partire dall’VIII secolo, si comincia a documentare la
distinzione tra beni ereditati dalla famiglia d’origine, con la debita precisazione tra
quelli paterni e quelli materni, e quelli acquistati in altro modo. E sono i venditori
stessi o i donatori a informarci su come e perché siano diventati proprietari e
abbiano, di conseguenza, la facoltà di disporne379. E’ sempre Marongiu a notare
come nei condaghi «si parlasse di beni de compuru, cioè di acquisti fatti in
costanza di matrimonio, distinti da altri detti de fundamentu, da ritenersi immobili
ereditari o anche acquisti precedenti il matrimonio380». A tal proposito, la scheda
n.62 del condaghe di San Nicola di Trullas è estremamente significativa. I due
coniugi Costantino e Vittoria Galle fanno una donazione al monastero. Lei, che è
ricca, dona, pro anima, case, terre e vigne (beni de fundamentu), lui che, al
contrario, è povero dispone soltanto di ciò che ha acquistato e possiede in comune
con la moglie (beni de compuru), ossia la metà di tali beni381. E’ evidente che la
376 F. Calasso, Medioevo del diritto, vol. I, Milano 1954, pp. 240, 263.377 E. Besta, La Sardegna Medioevale, Palermo 1908-9, vol. II, pp. 163, 167.378 A. Marongiu, Il matrimonio “alla sardeska”, in Atti dell’Accademia nazionale dei Lincei, Rendiconti, classe di Scienza morali, storiche e filologiche, vol. XXXV, 1980. 379 A. Marongiu, Beni parentali e acquisti nella storia del diritto italiano, Bologna 1937, p. 46 e segg.380 A. Marongiu, Il matrimonio….cit., pp. 474-75.381 CSNT, scheda n. 62.
101
donna non aveva una posizione diversa rispetto a quella dell’uomo e che anche
quando si trattava di beni de compuru, la metà rimaneva di sua proprietà. Le
tracce lasciate dalle donne nei condaghi testimoniano come queste facessero atti
giuridici sia da sole che insieme ai mariti. Tra i vari negozi giuridici, le donazioni
sono le più numerose.
Dalla scheda 83 del condaghe di S. Pietro di Silki emerge il caso di donna Sara,
monaca del monastero che conservando, nonostante l’abito, la titolarità del suo
patrimonio, concede un prestito di una libbra d’argento a Dericor de Gitil che, in
seguito alla comparizione davanti al giudice, estingue il suo debito dandole un
servo integro che la monaca dona al monastero382; questo caso è prova del fatto
che, qualunque fosse lo status sociale della donna, aveva la facoltà di compiere
atti di disposizione. Per ciò che riguarda, invece, le donazioni, gli esempi presenti
nei condaghi sono molteplici. Essi si presentano indissolubilmente legati alle
vicende della chiesa e allo spirito della predicazione e della religione cristiana.
Nelle fonti sarde «si chiama postura sia la donazione comune, inter vivos, sia
quella a ora de morte383; i verbi porre o donare rappresentano all’esterno e
certificano la volontà di un soggetto, uomo o donna, di privarsi di un bene a
favore di un’altra persona o di un monastero»384. La postura veniva spesso
compiuta in punto di morte e i condaghi ci riportano parecchi esempi di posturas
compiute esclusivamente da donne che spesso portano il titolo di donna, ad
indicare l’appartenenza al clan giudicale o al ceto dei maiorales385. Le famiglie
ricordate sono quelle dei Lacon o de Serra, quella dei de Athen, i più ricchi
benefattori della chiesa di San Nicola di Trullas, dei Gunale, dei de Thori, o de
Zori. In alcuni casi le donazioni sono compiute da sole donne, in altre sono
accompagnate dalla volontà del marito o dei figli o fratelli e non mancano casi in
cui a donare è una serva. Nei condaghi maggiori «si vedono le donne agire
autonomamente386 possedendo e disponendo dei propri beni qualunque fosse il
382 CSPS, scheda n. 83.383 Che la postura a ora de morte, secondo la terminologia delle fonti, costituisca un negozio post obitum risulta, ad esempio, da CSPS, scheda 421.384 E. Artizzu, Il ruolo della donna nei negozi giuridici riportati nei condaghi, in ……..p.258.385 CSMB, schede nn. 130, 185; CSNT, schde nn. 1, 13, 26, 29, 39, 45, 108, 116 e passim; 386 Si veda a proposito: R. J. Rowland, Donne proprietarie terriere nella Sardegna medioevale, in “Quaderni bolotanesi”, n. 12, 1986.
102
loro status»387. La terra rientrava tra le donazioni più frequenti, che fosse sotto
forma di vigna, boschi, selve, pascoli, recintata o aperta, coltivata o no. Talvolta i
possedimenti femminili potevano essere anche piuttosto vasti: Siquigia de Thori
donò a San Michele la domus in Salvenor con terre e vigne, la metà del terreno in
valle di Logiu, due appezzamenti in Domumayore, tre terre in Agro de Caniu, la
metà del salto in Valle de Lacon e la metà del salto di Monticlu Latu, con servi e
serve388. Non era rara la donazione di soli servi, a volte anche numericamente
consistenti, o di saline389. Donazioni furono effettuate anche da donne appartenenti
a classi sociali di piccoli e medi proprietari, certamente meno abbienti, ma
ugualmente fruitrici di proprietà che andavano ad arricchire i già vasti possessi dei
monasteri, come la donazione di Maria Canba e Elena Cersa di una vigna390 o di
Barbara de Urri e sorelle391, che donarono due soli filari di vigna, o di Elena de
Platha e Ispethiosa392, che donarono una parte di terra recintata al monastero di
San Pietro di Silki, o ancora la donazione di Armenia Pinna di metà orto393, di
Gavina Soraquina che donò un canneto394.Ognuno di questi nomi è un pezzo del
passato che torna a vivere nelle opere e nelle figure di donne indipendenti e
consapevoli di se stesse e delle proprie possibilità. E al di la di nomi e
avvenimenti ricordati nelle carte, vi erano donne vere in carne e ossa che hanno
vissuto, operato e sperato e di cui possiamo conservare una piccola traccia
attraverso la “scrittura” dei condaghi giunta fino a noi. Così preziosa ai nostri
occhi!
387 E. Artizzu, Il ruolo della donna……cit., p. 260.388 CSMS, scheda n. 309.389 CSMS, schede nn. 18, 19, 20; CSPS, scheda n. 199.390 CSNT, schede nn. 69, 205.391 CSMB, scheda n. 193.392 CSPS, schede nn. 230, 232.393 CSPS, scheda n. 439.394 CSMS, scheda n. 142.
103
Figura 13. Condaghe di San Nicola di Trullas, carta 6v.
4 – I lavori delle donne in Sardegna
I Condaghi, considerata la penuria di altre tipologie di fonti, risultano essere una
ricca miniera d’informazione su settori tra i più disparati, grazie anche ai contenuti
di varia natura in essi trascritti, tra vendite, permute, donazioni e processi,
prestazioni d’opera, la casistica è piuttosto varia; uno di questi è il lavoro
femminile nelle campagne sarde giudicali395 fra l’XI e il XIII secolo, anche se, a
onor del vero, i condaghi si riferiscono alle amministrazioni di monasteri situati
395 E’ importante chiarire che quando si parla di società giudicale, lo si intende in senso generale, poiché, in realtà, si tratta di quattro stati insieme, ognuno dei quali era autonomo e indipendente dagli altri, con propri confini, stemmi, eserciti, sigilli, governanti e anche storie con alleati e destini diversi. La generalizzazione viene dal fatto che i modelli sociali, l’economia, la cultura, la lingua che espressero furono, generalmente abbastanza affini ed omogenee, come risulta dal confronto tra la relativa documentazione.
104
tra il Logudoro e l’Arborea396. Tuttavia la situazione delle campagne non dovette
essere molto diversa in quanto molti dei fondi appartenenti ai monasteri erano
frutto di donazioni e/o di permute di latifondi laici, organizzati, lavorati e gestiti
nello stesso modo397. Queste donazioni avevano spesso come oggetto, oltre alla
terra, i servi che abitavano quelle terre e il cui lavoro poteva apparteneva a
padroni diversi. I servi e le serve erano, in campidanese, quatrupedia, in
logudorese, battorpedia, appartenevano infatti ad un padrone per un numero di
piedi che andava da uno a quattro: «se appartenevano per un piede erano detti
pedati, per due (cioè per metà) laterati e per tutti e quattro (e dunque per intero)
erano detti integri»398. I padroni disponevano soltanto delle giornate lavorative dei
loro servi, non della loro vita399. Purtroppo, mentre per il lavoro maschile si hanno
maggiori informazioni400, molto poco si sa su quello femminile. Non vi era
distinzione alcuna, però, di sesso nella spartizione dei servi fra i diversi padroni, il
lavoro femminile era considerato alla pari con quello maschile. Ciò non è affatto
strano se si considera che si sta trattando di una società che permetteva alla donna
di gestire in prima persona il proprio patrimonio personale e ai figli di prendere
indifferentemente il cognome del padre o quello della madre401. Nei condaghi, i
riferimenti al lavoro femminile sono piuttosto rari e anche quando qualcosa
396 B. Fois, Il lavoro femminile nei Condaghi sardi dell’età giudicale (secc. XI-XIII), in “Donne e lavoro in età medievale” a cura di Maria G. Muzzarelli, P. Galetti, B. Andreolli, Rosenberg & Sellier, Torino 1991, pp. 55-66.397 La Fois sottolinea che a volte le donazioni potevano essere anche molto consistenti così some lo fu quella di Comita II di Torres che donò al monastero cistercense di S.Maria di Padùlis dieci immense tenute, trecento servi e 14.300 capi di bestiame, di cui 10.000 pecore. Alcuni monasteri potevano arrivare a possedere anche 20-30 mila ettari di terra.398 B. Fois cit., p.55.399 Per ulteriori approfondimenti sul lavoro servile si veda: R. Carta Raspi, Le classi sociali nella Sardegna medioevale: i servi, Edizioni del Nuraghe, Cagliari 1938; G. Borghini, Le prestazioni di manodopera dei servi nei condaghi sardi, in “Le prestazioni d’opera nelle campagne italiane del Medioevo, CLUEB, Bologna 1984.400 Si conoscono, per quanto riguarda il lavoro maschile, le mansioni, le attribuzioni, i mestieri. «porcariu», cioè porcario , in CSBM, scheda 41, p. 41 e scheda 66, pp. 144-145, dell’edizione del Besta a cui si è già fatto riferimento e che sarà da riferimento per i condaghi di CSMB e CSNT; «maistru de fravica e de linna», cioè falegname, in CSPS, scheda 31; «muraiolu», cioè muratore, in CSMB, scheda 194, p. 194; «nunzadore», cioè banditore, in CSMB, scheda 41, p.141 e scheda 169, p. 186; «fabru», fabbro, in CSMB, scheda 46, p. 142 e scheda 73, p. 147; «scriptore», scrivano, amanuense, in CSBM, scheda 99, p. 155, etc.401 La Fois informa sul fenomeno dicendo che esso era assai documentato per tutte le classi sociali, compresa la famiglia del giudice ed è anche visto in una prospettiva alquanto complessa: infatti, oltre ai cognomi paterno e materno, i figli prendono anche altri cognomi, non si conosce ancora la modalità di questa pratica, né secondo quali rapporti di parentela essa avvenisse.
105
compare, sono assolutamente marginali; Castula Novagla, in una scheda del
CSMB, è chiamata «ancilla de iudice apus binarios», cioè «serva del giudice
presso i vinai», o per meglio dire presso gli addetti alla vinificazione della corte
giudicale arborense402. I figli nati dal matrimonio con Miale Pasi, che era servo di
S. Maria di Bonarcado, vengono divisi tra il priore del monastero, che trascrive
l’atto, e «Troodori Paganu, maiore de vinu», ossia Torchitorio Pagano, che ricopre
la carica più alta fra i funzionari addetti alla vinificazione, che in questo contesto
rappresenta gli interessi del giudice. Da ciò si evince che Castula lavora con i
vinai, non si sa con quali mansioni, se come addetta alle pulizie, ai lavori di fatica,
ciò che è importante è che lavorando per i vigneti del giudice, Castula era una
dipendente statale.
Un altro esempio viene dalla scheda 132 del CSMB403 in cui compare la
professione di buiaria, che fu tradotto dal Besta come lavandaia, termine
derivante da un improbabile bullium che, però, non trovò d’accordo i linguisti.
Questa interpretazione, in effetti, è poco convincente, dal momento che questa
figura professionale compare in un contesto molto particolare; infatti, si trova
negli atti di un processo condotto verso sette fratelli, servi e serve, colpevoli di
aver prodotto un falso documento di liberazione dalla servitù che portava il sigillo
del giudice arborense Comita. Al processo il giudice dichiarò falsa la «carta
bullata cun bullatoriu de iudice Comita» (carta bollata col sigillo del giudice
Comita). Risulta ovvio che qualcuno usò i sigilli senza autorizzazione ed è a
questo punto che entra in gioco la buiaria, zia dei sette fratelli, Saina Tussia, che
lavora presso il giudice con quella mansione. Sarebbe risultato certamente strano
che «una lavandaia avesse accesso ai sigilli del giudice e che fosse
sufficientemente alfabetizzata non solo per usare un sigillo, ma soprattutto per
scrivere la relativa carta404». E’ legittimo pensare che avesse un minimo di
dimestichezza con la giurisprudenza del tempo e avesse accesso ai sigilli, oltre,
ovviamente a saper scrivere. Quindi il termine buiaria, può essere legato alle
parole bullata e bullatoriu piuttosto che con bullium. Era forse un’impiegata di
cancelleria? Sarebbe, come dice la Fois, «un’affascinante prospettiva che
402 B. Fois, Il lavoro…. cit., p. 56.403 CSMB, scheda 132, pp. 167-168.404 B. Fois, Il lavoro…….., cit., p.57.
106
aprirebbe interessanti discorsi non solo sul ruolo e la condizione della donna nella
società giudicale, ma anche sulla diffusione dell’alfabetizzazione, per altro
confermata da numerosi indizi, almeno nell’Arborea del ‘300»405. Inoltre, sempre
da una scheda del CSMB, numero 131, si rileva che le donne dovevano preparare
e cuocere il pane, pulire, fare il bucato: «Et mulieres moiant et cogant et purgent
et sabunent et filent et tessant et, in tempus de mersare, mersent omnia lunis, sa
ski non ant aere genezu donnigu» (E le donne mòlino e cuociano e nettino e
lavino e filino e tessano e, nel tempo della mietitura, mietano ogni lunedì, quelle
che non abbiano da lavorare nel gineceo del signore)406.
Figura 14. Condaghe di Santa Maria di Bonarcado
Le donne dovevano macinare il grano (moiare, moliare, viene da mola, macina
che significa macinare) e lo facevano in casa con piccole macine di pietra mosse
dalla forza manuale; retaggio di una tradizione tardo imperiale mai
completamente soppiantata dai, comunque molto diffusi in Arborea e Logudoro,
mulini ad acqua. Purgare e sabunare, ossia pulire e fare il bucato, erano compiti
primari della padrona di casa407; Il verbo cogant, viene dal verbo kòkere-cocere-
405 Ibidem, p. 57.406 B. Fois, Il lavoro………, cit., p. 58.407 A. Satta, La donna nel Medioevo Sardo, in «Sardegna Antica», 6, 1994, pp. 25-27.
107
coquere, cucinare, ma poiché lo troviamo subito dopo moiant, è probabile si
riferisca alla cottura del pane. E’ questa un’arte antichissima e raffinatissima in
Sardegna, si facevano diversi tipi di pane ora come nel Medioevo, morbidi nelle
zone di pianura e completamente privi di mollica nelle zone montane408. E’
probabile, invece, che sabunare indicasse non soltanto lavare il bucato con la sola
acqua, ma comprendesse anche la fabbricazione del sapone, fatto con grasso
animale, argille saponose e radici dal potere detergente. Il lavaggio dei panni
avveniva in pubblici lavatoi o, più probabilmente, presso corsi d’acqua. In
successione troviamo filent et tessant che si riferiscono al lavoro tessile che per
tradizione è un lavoro svolto da donne, probabilmente in casa, dove è attestata la
presenza di ginecei (genezzu)409, distinti in “de rennu”, “de maiorale/donnigu” e
dei monasteri; ciò dimostra una organizzazione del lavoro piuttosto diffusa. Nei
ginecei le ankillas prestavano servizio, secondo la loro condizione, producendo
tessuti per i padroni, Il tessuto più usato era la lana e in misura minore il lino. E’
attestata, inoltre, l’esistenza di ginecei specializzati nella produzione di bisso o
lana marina, tessuto molto ricercato e prezioso410. Il lavoro femminile, però, non si
limitava soltanto alle mura domestiche. Sempre dalla scheda 131 del CSMB, si
rileva che le donne non erano soltanto mogli, madri, massaie, tessitrici ma nel
contempo esse avevano un ruolo anche nelle campagne, anche se marginale, come
ausiliarie dei mariti nei lavori dei campi. Dovevano infatti, mietere ogni lunedì,
come viene raccomandato nella scheda, sradicare e curare le vigne e gli orti. In
408 Trattasi del pane carrasau o carasau, tipico delle zone della Barbagia. La lavorazione era lunga e complessa, necessitava infatti di prolungati temi di lievitazione e i una doppia cottura al fine di rendere l’impasto in fogli sottilissimi e croccanti. Questo tipo di pane poteva resistere per diversi mesi senza rovinarsi ed è per tale motivo che veniva preferito dai pastori, spesso costretti a lunghi spostamenti alla ricerca di sempre nuovi pascoli. La preparazione avveniva in casa, ma è improbabile che ciò accadesse anche per la cottura non disponendo tutte le case di un forno. Sicuramente ogni villa o domus disponeva di un forno comune.409 Genezzu viene da gynaeceum, così come i genitia ricordati nel Capitulare de villis (B. Fois Ennas, Il «Capitulare de villis», Giuffrè, Milano 1980, capp. XXXI, XLIII, IL.). Abbiamo testimonianza che almeno tre dei quattro giudicati conoscevano e praticavano l’uso del gineceo e che anzi vi furono dei funzionari statali che erano designati come ispettori. In questa sorta di laboratori si lavorava la lana e precisamente la filatura e la tessitura.410 L’industria della lana marina , o bisso marino, era molto praticata in Puglia e in Sicilia, ma dopo la conquista araba della Sicilia, i contatti commerciali dovevano essersi interrotti. La conchiglia che produce la famosa «lana marina» è la pinna, da cui la stoffa prese il nome di «pinnino»; trattasi di fili sottilissimi come e più della seta, di color d’oro, di rame, d’argento, che avevano bisogno di fusi particolari e una volta tessuti, diventavano stoffe diafane e stupende; si veda a proposito: B. Fois, Il lavoro.., cit.. pp. 60-61.
108
realtà, se si considera che «il tempo della mietitura, le ferie de sas mesas, come le
chiama la Carta de Logu d’Arborea della fine del ‘300, al capitolo 125, andava
più o meno dal XV lampadas (15 giugno) al XV treulas (15 luglio), sembra
improbabile che si mietesse soltanto una volta alla settimana; dunque qui mersare
significa che le serve vadano ad aiutare nei campi, che partecipino almeno una
volta alla settimana alla mietitura, oppure che vadano a spigolare, a raccogliere le
spighe cadute dalla mietitura degli uomini»411. Anche se i lavori delle donne
potevano essere vari, a volte gli stessi rispetto a quelli maschili, a volte diversi,
godevano sempre di pari considerazione e non erano mai meno rilevanti di quelli
maschili. Ciò mette in primo piano il rispetto e l’importanza di cui la donna
godeva nella società sarda del periodo giudicale. E’ al contempo piuttosto difficile
stabilire la tipologia di compiti delle donne libere appartenenti alle classi alte. Si
sa che costoro ereditavano la stessa quota dei maschi e che gestivano
personalmente il proprio patrimonio, di questo abbiamo numerose testimonianze
nei condaghi, ma nulla di più si conosce al momento. Le donne delle famiglie
giudicali accedevano al trono e benché fossero soltanto portatrici di titolo412
stipulavano paci e trattati, emanavano leggi e tributi, guidavano guerre, come e, a
volte, meglio degli uomini. Senza queste preziose testimonianze, nulla sapremo in
più, del già così poco patrimonio rimastoci.
411 B. Fois, Il lavoro..,cit., pp. 59-60.412 Si veda il lavoro di A. Oliva, La successione dinastica femminile nei troni giudicali sardi, in AA. VV., “Miscellanea di studi medievali sardo-catalani”, Gallizzi, Sassari 1981.
109
Capitolo III – Alfabetizzazione al femminile?
1. Donne di potere.
Il potere di cui una donna può godere è direttamente proporzionale alla sua
determinazione e al suo coraggio, in ogni tempo e in qualunque cultura. Pertanto
non deve stupire il caso riportato in una scheda del Condaghe di Santa Maria di
Bonarcado413 in cui una donna non nobile, che quindi non godeva dei benefici
concessi a tale stato, ma libera e soprattutto determinata e dalla forte personalità,
lotta con tutta se stessa per ottenere una sentenza a lei favorevole e ai suoi figli. È
Vera Zori, donna libera, esponente dell’aristocrazia terriera del giudicato
d’Arborea e cugina dello stesso giudice, madre di due ragazzi e innamorata di
Erradore Pisanu, di condizione servile, l’uomo a cui è sentimentalmente legata da
vent’anni. Dalla scheda n. 25,un kertu, apprendamo che Vera fa di tutto per non
mandare i suoi figli a servire al monastero di Santa Maria, questa scelta non
risulta, però, gradita al priore Nicolaus414, né a Petru Murtinu, che la citano in
413 M. Virdis, Condaghe di Santa Maria di Bonarcado (ristampa del testo di E. Besta), Oristano 1982, scheda n. 25.414 Nicola era priore di Bonarcado al tempo dell’arcivescovo Trocotorio Cocco e del «giudice» Guglielmo. Il suo lungo priorato (…1228/1238….) coincide con un periodo di notevole importanza nella storia arborense.
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giudizio. Vera delega Furatu de Zori Zorompis, una sorta di avvocato difensore, il
quale persegue la tesi che i due ragazzi sono figli di una libera e che lei ed
Erradore non sono sposati. Petru, però, afferma che Erradore è un servo e che lui e
Vera sono stati insieme per vent’anni. Furatu ribatte che Erradore l’aveva in
potere e, successivamente, che i ragazzi erano figli dell’ancella del giudice. Petru
invece, insiste col sostenere che sono figli di una libera e un servo, Nicolaus viene
dunque invitato a presentare prove a sostegno delle sue parole. Egli vince in
tribunale, gli vengono restituiti i servi ma pretende che Vera ed Erradore non
stiano più insieme. Lei, però, non ci sta, si ribella e ottiene di poterlo sposare. Su
tutti i personaggi del kertu, emerge lei, Vera, di nome e di fatto, che non teme di
esporsi, che lotta per far valere le sue ragioni e ci regala profonde suggestioni di
una libertà tutta speciale, fatta di volontà, di forza morale, d’intelligenza e di
determinazione. Che donna, verrebbe da dire! Fino alla fine del kertu, Vera non si
da per vinta, se anche viene costretta dalla sentenza a cedere i propri figli al
monastero, non accetta di separarsi dall’uomo che ama. Rivendica con grande
carattere, oltre al suo diritto ad essere donna e non solo madre, anche il diritto alla
felicità, all’amore.
Ci piace aprire questo capitolo dedicato alle donne di potere con il caso di Vera
Zori, donna di “grande potere”, se con questo intendiamo la capacità di dare alla
propria vita l’indirizzo migliore che ognuno può scegliere per se, cercando forze
ed energie che ci portiamo dentro, utili a perseguire gli obiettivi e non solo
intendendo con potere la classica definizione di chi ha la direzione della cosa
pubblica, il predominio politico e una posizione di comando che le conferisce
autorità, aspetto che, in ogni caso, ora si considererà.
La prima donna di “potere politico” su si soffermerà l’attenzione è Adelasia de
Lacon-Gunale-Massa415, la quale visse una vita piena di sorprese, ma anche di
grande disgrazia; fu l’unica donna alla quale venne attribuito, nel regno di Torres,
il titolo di «giudicessa». Adelasia era figlia di Mariano II de Lacon-Gunale e
415 Si segnala un recente articolo riguardante la scoperta di un nuovo documento pergamenaceo su Benedetta, ritrovato nell’Archivio di Stato di Pisa, fondo Alliata: B. Fadda, Un nuovo documento su Benedetta, marchesa di Massa e «domina» del giudicato di Cagliari, in Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Cagliari, nuova serie vol. XXIII (vol. LX della serie precedente), 2005, pp. 125-136.
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Agnese de Lacon-Massa, nacque nel 1207416, ebbe una sorella, Benedetta, e un
fratello più piccolo, Barisone, nati rispettivamente nel 1205 e nel 1221417. Quando
il padre Mariano attaccò i Pisani, questi avevano già conquistato il giudicato di
Gallura e in seguito ad una spedizione comandata da Ubaldo e Lamberto Visconti,
tra il 1215 e il 1217, avevano occupato anche il giudicato di Càlari. Mariano fu
sconfitto e nella primavera del 1219, in segno di pace, diede in sposa sua figlia
Adelasia, che allora aveva circa dodici anni, a Ubaldo Visconti, figlio di
Lanfranco418.
Nulla sappiamo dell’educazione di Adelasia, ma possiamo supporre che fosse in
tutto simile a quella ricevuta dalle sue coetanee della penisola che, come lei, si
preparavano ad andare spose a re o grandi signori e che quindi fosse in possesso
delle nozioni più elementari di lettura e scrittura. Da un documento del 1236419
veniamo a conoscenza delle disposizioni testamentarie di Mariano a proposito
della successione al trono420. L’eredità del trono giudicale, passando soltanto
attraverso una linea maschile, mise il terzo nato Barisone sul trono giuidicale,
nonostante fosse ancora minorenne alla morte del padre. A questo punto sarebbe
legittimo chiedersi che fine avesse fatto Agnese, madre di Barisone III, e come
mai non abbia assunto la reggenza in nome del figlio ma costui fosse coadiuvato
nel governo da un «giudice di fatto» e da un consiglio di maggiorenti421.
In effetti si deve constatare che le norme di diritto pubblico relative alla
successione nel giudicato di Torres erano diverse da quelle in vigore nell’Arborea
416 AA. VV., Genealogie medioevali di Sardegna, Cagliari-Sassari 1984, p.203.417 Secondo il diritto successorio sardo, come è rimarcato anche nel testamento di Mariano II del 1236, Barisone (perché maschio) divenne “giudice” di Torres, sebbene fosse terzogenito e monorenne418 Libellus Judicum Turritanorum, a cura di A. Sanna, Cagliari 1957, p.10.419 V. Dessì, Ricerche sull’origine dello Stemma di Sassari, Sassari 1905, doc. VI, p. 32.420 A. M. Oliva, La successione dinastica femminile nei troni giudicali sardi, estratto da Miscellanea di studi medioevali sardo-catalani, Centro Studi sui Rapporti Italo-Iberici del Consiglio Nazionale delle Ricerche. La stessa autrice c’informa che oltre a dettare disposizioni particolari sulla nomina dell’erede di Mariano II, il documento sottolinea come quest’ultimo fosse successo al giudice Comita, suo padre, per diritto ereditario. 421 Nel giudicato di Torres, al giudice minorenne, veniva affiancato un tutore con funzioni di «giudice di fatto» e un consiglio di reggenza composto da uomini liberi e da maggiorenti. Così anche nel regno di Navarra, fino all’XI secolo, l’erede minore veniva affiancato da un tutore appartenente alla famiglia reale e così pure in Italia, agli inizi, al minorenne veniva affiancato un consiglio di magnati. Solo più tardi venne introdotta la consuetudine di delegare alla madre la reggenza in vece del figlio minore.
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o a Cagliari, dove, invece, la reggenza del trono in caso di minore veniva affidata
alla madre, che assumeva il ruolo come portatrice di titolo, come avvenne nel caso
di Eleonora, che assunse il titolo in nome del figlio minorenne Federico. È
impossibile capire se la mancata nomina di Agnese sia dipesa da una mancata
evoluzione del diritto logudorese o invece non lo si debba ricondurre al fatto che
le giudicesse reggenti in Sardegna furono, prima di tutto «titolari di diritti
sovrani». In ogni caso Agnese, non avendo potuto avere la tutela del figlio, tornò
a Cagliari, dove invece ebbe la possibilità di far valere i suoi diritti quale figlia del
giudice defunto422. Sempre nel testamento troviamo che nel caso Barisone fosse
morto, come in effetti avvenne quando fu assassinato durante una sommossa
scoppiata a Sassari, senza una discendenza maschile legittima, il trono passasse ad
una delle sue due figlie, liberamente scelta dai sudditi423.
La scelta cadde sulla primogenita Adelasia. La regina, in quanto titolare di diritti,
trasmise le prerogative regie al marito, delegandolo alla funzione pubblica, pur
non perdendole mai, dato che le esercitò anche in altre occasioni come quando
stabilì che, in caso di morte senza eredi, tutti i diritti sul giudicato sarebbero andati
alla chiesa e infine quando, morto Ubaldo424, comunicò la dignità regia al suo
secondo marito Enzo di Hohenstaufen, figlio naturale di Federico II di Svevia425.
Adealsia, appena trentenne, sposò Enzo che aveva circa vent’anni, era bello e
spregiudicato e fu probabilmente questo aspetto del giovane principe a colpire la
fantasia della regina turritana, ancor giovane e alla quale «non solo la leggenda
ma anche la storia attribuisce il ruolo di donna fatale, dominata dai sensi tanto da
dimenticare i doveri di moglie e di sovrana»426 . Fu lei, nonostante le pressioni
che comunque ricevette dai Doria spinti dalla volontà di riportare il regno sotto il
controllo genovese, a decidere il suo infelice futuro.
422 Agnese de Lacon-Massa era, infatti, figlia del giudice di Cagliari Guglielmo-Salusio.423 Barisone morì nei primissimi mesi del 1236. Infatti, nel marzo di quello stesso anno , la sorella Adelasia e il cognato Ubaldo risultano già insigniti del titolo di giudici di Torres (P. Tola, Codex Diplomaticus Sardiniae, I, docc. LVII, LVIII, LIX, LX. Pp. 347, 348).424 Ubaldo morì in circostanze misteriose mentre si trovava nei pressi di Silki, villa scomparsa situata nelle vicinanze di Sassari, nel gennaio del 1238. Il suo corpo fu traslato nella vicina chiesa di San Pietro: Libellus Iudicum…..cit., pp. 52-53.425 A. Cioppi, Enzo re di Sardegna, Sassari 1995.426 La citazione è stata riportata alla lettera proprio per la sua particolarità ed è tratta da: D. Scano, Ricordi di Sardegna nella Divina Commedia, Edizioni della Torre, Cagliari 1986, p. 103.
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Da quanto emerge dai documenti e nella fattispecie dal Libellus, infatti, Adelasia
in questo caso non sembrerebbe essere stata vittima della ragion di stato: «Sa
dicta donna Alasia, non curendesi de sos consigios, fetit su matrimoniu a
plaquehere sou»427 . Quel “plaquehere” fa pensare che forse Adelasia avesse
voluto, per la prima vera volta in vita sua, poter scegliere un uomo seguendo i
desideri del suo cuore, come se non avesse avuto rango da rispettare né
responsabilità a imporle scelte matrimoniali che finora aveva dovuto subire e c’è
da credere che proprio questo divieto l’abbia resa vulnerabile, trasmettendole una
certa inesperienza e ingenuità che finì col pagare troppo duramente. Ancor più se
lo sposo corrispondeva ad un modello del calibro di Enzo.
Fin dal principio il matrimonio fu avversato dalle più importanti personalità del
regno, comprese quelle dell’Arborea e in special modo dal Papa, e a ragion veduta
perché Enzo prese a trattare Adelasia in maniera indegna di una signora, facendola
assomigliare più a una serva che a una regina. Inutile dire che si pentì amaramente
della scelta fatta, tardi però, ad appena un anno di distanza dalle nozze, Enzo
decise di lasciare l’isola e Adelasia per accettare la carica di Legato generale per
l’Italia che gli era stata offerta dal padre, Federico II, nella lotta contro i comuni
guelfi428. Il colpo per Adelasia fu pesante e stanca per i continui e insanabili
contrasti tra le diverse fazioni, delusa dal fallimento dell’intervento papale che
non riuscì a sedare i contrasti e che neppure l’annullamento del suo matrimonio
con Enzo le portò sollievo, decise di ritirarsi nel 1246 nella fortezza del castello di
Burgos o del Goceano, dove nel 1259 morì. Un’ipotesi non suffragata però da
alcun documento, vuole che Adelasia, dopo l’annullamento del matrimonio con
Enzo, si sposasse, nel 1246, una terza volta e con Michele Zanche, altro turbolento
e misterioso personaggio sassarese, quel donno Michele Zanche / di Logudoro che
Dante colloca nella quinta fossa del cerchio ottavo dell’inferno tra i barattieri o
trafficatori delle pubbliche cariche429, e pare che tra loro ci fosse una forte
attrazione430. In punto di morte, fece chiamare i suoi confessori e, alla presenza di
un notaio, confermò la donazione di tutti i suoi beni alla chiesa.
427 Libellus Iudicum….cit., p. 53.428 F. C. Casula, La storia di Sardegna, Sassari 1992, p. 250.429 Inferno, canto XXII.430 D. Scano, Ricordi di Sardegna…..cit., p. 85.
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Le notizie relative agli aspetti più propriamente umani di queste donne della
Sardegna giudicale ci sono sconosciuti, e dai freddi dati politici o cronachistici dei
documenti possiamo soltanto lavorare, per ora almeno, d’immaginazione, pur
rimanendo nell’ambito di ipotesi realistiche e verosimili. Benedetta Obertenghi de
Lacon-Massa era la più grande delle tre figlie del giudice di Cagliari, Guglielmo-
Salusio e Adelasia Malaspina, sua prima moglie431. Suo padre fu un sovrano
piuttosto bellicoso, e fece guerra molto spesso agli altri tre regni giudicali: Torres,
Gallura e in particolar modo con quello d’Arborea. A questo genere di azioni, ben
presto associò una più oculata politica matrimoniale, che gli permise di controllare
e manovrare gli altri giudicati. Perseguendo quest’ottica Benedetta, la
primogenita, andò sposa a Barisone II de Lacon-Serra, figlio del giudice
d’Arborea Pietro I, da lui sconfitto nel 1195; la seconda figlia, Agnese sposò
Mariano di Torres, mentre la minore, Preziosa, fu maritata ad Ugone I de Bas-
Serra giudice della casata arborense.
La storia ci tramanda la visione di una donna debole e succube, prima del padre,
poi del marito e infine dei Pisani. Nel 1214 dopo la morte del padre si pose il
problema della successione che poteva essere soddisfatta solamente per via
femminile e fu quindi «applicata la deroga alla rigida legge agnatizia che vietava
alle donne, sebbene discendenti dirette di un sovrano, di reggere il regno»432.
Benedetta divenne giudicessa prima ancora di sposarsi e sembrerebbe che, almeno
nel primo periodo, «si comportasse come una vera regina–regnante, esercitando
legittimamente una sovranità reale, come si evince da una pergamena redatta nel
giugno 1215,con la quale la giudicessa fa una donazione al vescovado di Suelli
e[……] le aumenta di nuove concessioni»433, per poco però. Infatti, subito dopo
l’elezione si sposò e il marito, se lei fosse stata veramente regina-regnante si
sarebbe dovuto limitare ad assumere il ruolo onorifico di “consorte”. Barisone,
invece, assunse il titolo dinastico di Torchitorio de Unali ed utilizzò il sigillo dei
re cagliaritani, dati questi che ci confermano una piena sovranità434, estromettendo
del tutto la moglie Benedetta, che non assunse nessun titolo dinastico e non
431 AA. VV., Genealogie medioevali…..cit., p.343.432 S. Chirra, La sfortunata vicenda di Benedetta di Càlari, una regina senza trono, in “Donne e potere nella Sardegna Medioevale”, a cura di M. A. Brandas e S. Chirra, Cagliari 2002, pp. 14-20.433 Ibidem, p. 15.434 A. Oliva, La successione dinastica……cit., p. 38.
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dispose mai di un sigillo personale, usava, infatti, quello del marito con la
«legenda» di Torchitorio435 e che troviamo, semmai, ridotta al semplice e riduttivo
rango di «muliere mia».
Morto Barisone, Benedetta si risposò per ben tre volte e tutte per motivi politici o
perché costretta da ragioni di stato, per questo fu gravata da molti doveri e
obblighi, il che ci fa capire come essere donna di governo fosse molto difficile. È
Benedetta stessa a raccontare al papa Onorio III, in una lettera inviatagli nel 1217,
i fatti accaduti nei suoi primi anni da regina, soffermandosi specialmente sullo
stato di soggezione e oppressione in cui era costretta a vivere a causa dei pisani
che avevano edificato il Castello di Castro sul colle che dominava il territorio del
cagliaritano, concessa loro dalla stessa Benedetta. Venne anche costretta a
ricevere l’investitura di tutta la Sardegna e a dichiararsi vassalla dei Pisani,
entrando in conflitto con l’atto di omaggio che aveva prestato alla chiesa di Roma
al tempo della sua elezione e di quella di suo marito436. È da questa lettera che si
ricava lo stato di profonda tristezza e umiliazione per essere stata costretta da
estranei a ricevere l’investitura della sua stessa terra e doversi dichiarare loro
vassalla in casa sua; commovente leggere le parole della giudicessa, quando parla
dei dolori e del disagio «quod sine maximo rubore, ac intimo cordis dolore
proferre nequeo»437 che la fanno diventare rossa per non essere riuscita a
mantenere la promessa fatta al momento dell’investitura e al pensiero dei danni
causati al giudicato di Càlari e a tutta la Sardegna. Benedetta concludeva questa
lunga lettera supplicando il papa perché l’autorizzasse a coalizzarsi con gli altri
sovrani giudicali, in particolare col giudice di Torres e con i genovesi, eterni rivali
dei pisani e chiedeva infine l’annullamento del giuramento prestato ai pisani. Il
papa accettò la supplica di Benedetta e intimò al comune di Pisa e ai Visconti di
abbattere quello che era ormai diventato l’inespugnabile Castèl di Castro.
435 A. Solmi, Le carte volgari dell’Archivio Arcivescovile di Cagliari, Firenze 1905, p.85, n. 1.436« […] et Communi pisano in perpetuum una cum viro meo de novo fidelitatem, atque investitura terrae meae cum viro meo ab eodem consule per vexillum Pisanum suscepto, tamquam fatua et insipiens prioris iuramenti oblita donavi pariter cum viro meo ad instantiam consulis memoratis collem quemdam cum suis pertinentiis memorati Pisanis. In quo postea ipsi aedificaverunt sibi munitissimum castrum in damnum et occupationem non solum terrae iprius sed totius Sardiniae.» da P. Tola, Codex Diplomaticus Sardiniae (abbreviato in C.D.S.), Torino 1861, tomo I, doc. XXXV, p. 330437 P. Tola, C.D.S., p. 330.
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In breve fu raggiunta un’intesa, che ebbe una vita piuttosto breve. Inoltre,
l’improvvisa morte di Barisone nel 1218, che lasciò un figlio maschio, Guglielmo,
futuro Salusio V, ancora minorenne, rese ancora più precaria la sorte di Benedetta,
che divenuta prigioniera dei Visconti, fu costretta a sposare Lamberto Visconti
(vedovo di Elena di Gallura dal 1207). Il papa chiese allora a Mariano di Torres
d’intervenire in favore dalla cognata, che era sorella della moglie Agnese438. Nel
1219, a Noracalbo, Mariano veniva sconfitto dai Visconti, che pretesero il
riconoscimento dello stato di fatto del cagliaritano e di quello di diritto in Gallura.
Lamberto poteva così unire le due corone, ma Benedetta essendo sotto la
protezione della chiesa e, ottenuto l’annullamento del matrimonio, dopo alcuni
mesi si risposò con Enrico da Ceola; Ubaldo Visconti, intanto, continuò a
spadroneggiare sul giudicato di Càlari e tornò a imprigionare Benedetta, che fu
liberata solo dopo un anno da papa Gregorio IX. Dopo la morte di Enrico, si
risposò ancora con Rinaldo Gualandi e si ritirò nelle sue terre di Massa, dove morì
nel 1232.
Fino ad allora Benedetta era stata portatrice di titolo per suo figlio Guglielmo,
nato dalla sua unione con Barisone, fino alla maggiore età di questo. Età che
ancora alla morte della madre non aveva raggiunto. Fu per questo che Agnese,
sorella di Benedetta e zia dell’erede, fece valere i propri diritti di titolare per poter
assumere la reggenza in attesa della maggiore età del legittimo erede. Della lettera
di cui si è parlato, si tace su chi possa essere la mano che l’ha vergata.
Sicuramente fu redatta nella cancelleria giudicale; dagli studi condottti da Casula,
si evince che la cultura sarda venne influenzata, nel periodo formativo del VII-
VIII secolo, dalla società franca; tali contatti si sarebbero poi interrotti
definitivamente nel X secolo439. Questi studi sono ulteriormente precisati
dall’esame del ruolo delle donne nel diritto pubblico, che viene accomunato a
quello barbarico per quanto riguarda la figura della regina-consorte e in modo
particolare nel limitato ruolo ufficiale svolto dalla sovrana, alla quale veniva
negata una autonoma capacità di gestire la cosa pubblica440.
438 Tratto da: Quattro donne della Sardegna giudicale incontrano il liceo Siotto, progetto di Nora Racugno, Liceo Ginnasio, Siotto-Pintor, Cagliari 2005, pp. 43-52.439 F. C. Casula, Sulle origini delle cancellerie giudicali,……..pp. 96-97.440 A. M. Oliva, La successione dinastica……cit., p. 42.
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Vi è un’altra figura di donna di cui poco, anzi pochissimo, ci dicono le fonti. Nei
primi anni del XIII secolo Barisone de Lacon-Gunale, giudice di Gallura,
morendo lasciò come unica erede la figlia minorenne, Elena, che fu, fin da subito,
oggetto di disputa tra le potenze esterne come Pisa, Genova e il papato. Secondo
le consuetudini in caso di discendente maschile ancora minorenne, si sarebbe
dovuto nominare un “giudice di fatto” o per lo meno attribuire la reggenza alla
madre441, Elena de Lacon-Gunale di Torres, la quale, invece non ottenne la tutela
per la figlia e di conseguenza perse il diritto al titolo sovrano. Entrambe, madre e
figlia, furono affidate alle cure del pontefice, Innocenzo III, il quale si preoccupò
esclusivamente di trovare un marito adeguato al rango della giovane Elena e,
soprattutto, gradito alla Curia romana442.
Appare chiaro che dietro una protezione tanto interessata, ci dovette essere da
parte del papa una sola spiegazione che trova valore nel diritto alla successione, lo
jus hereditarium, che Elena poteva trasmettere ad un marito, era infatti, in quanto
erede, portatrice di titolo. Questa trasmissione di titoli, escludeva Elena, «sovrana
titolare di diritti» dalla partecipazione alla vita politica del suo regno e quindi da
qualsiasi atto pubblico. Dopo il matrimonio con Lamberto Visconti, sarà soltanto
lui a comparire nelle fonti col titolo di giudice di Gallura e di Elena si perderanno
le tracce443. Elena morì non ancora trentenne, lasciando come unico erede Ubaldo
Visconti, che divenne giudice di Gallura e poi anche di Torres, in seguito al
matrimonio con Adelasia di Torres. La Gallura si trovò fin dal XIII secolo sotto la
diretta influenza di Pisa, della quale i Visconti detenevano da tempo le più alte
cariche del potere economico e politico. Elena è stata esaminata e citata quasi
sempre in relazione alla consegna del giudicato nelle mani dei Visconti.
Raramente si è tenuto conto di fattori come la sua minore età, la sua inesperienza
e le difficoltà storiche che stava affrontando il giudicato. La marginalità del suo 441 Ibidem, p. 17.442 Innocenzo III infatti, dapprima impedì il matrimonio di Elena di Gallura con Ittocorre, fratello del giudice di Torres Costantino II, in seguito propose la candidatura del proprio cugino Trasamondo ed infine prese provvedimenti contro Lamberto Visconti che, tra il 1206 e il 1207, aveva sposato, contro la volontà del Pontefice l’infanta Elena. Si veda: D. Scano, Codice Diplomatico delle relazioni tra la Santa Sede e la Sardegna, Cagliari 1940, vol. I, docc. XVI, XVII, XXXVIII, XL, pp. 13, 24, 28.443 Ci spiega A. Oliva, nel suo La successione dinastica…., cit., che l’unica attività pubblica consentita alla «sovrana titolare» si esauriva nella scelta del marito. Esaminando la successione dinastica nel giudicato di Torres si vedrà come la «titolare di diritti», in caso di vedovanza, rientrasse in possesso del titolo sovrano per comunicarlo al secondo marito.
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ruolo politico è dovuta non solo alla giovane età di Elena al momento della morte
del padre Barisone, cosa che la danneggiò dal punto di vista della già scarsa
auctoritas della sua figura o attività dal punto di vista politico e amministrativo,
ma anche al fatto che la giudicessa visse nel periodo culminante dell’ingerenza
pisano-genovese sulla scena politica sarda.
Tra tutte le figure di donne che la Sardegna abbia annoverato e annoveri ancora,
quella di Eleonora, juyghissa de Arborèe, è certamente fra le più famose e
controverse della nostra storia. Giuseppe Dessì in un suo scritto, affermava che i
due più grandi uomini che la Sardegna avesse avuto erano in realtà due donne,
Eleonora d’Arborea e Grazia Deledda444. Eleonora era figlia di Mariano IV de
Bas-Serra, potente e autorevole signore d’Arborea e della nobile catalana Timbora
di Roccabertì. Nacque intorno al 1340 probabilmente a Molins Rey, presso
Barcellona445. Il fratello Ugone III salì al trono nel 1376, alla morte del padre
Mariano e di Beatrice, sua sorella minore446. Si ha notizia di un’altra sorella morta
in tenera età. Nel 1342 il padre, dalla Catalogna, torna in Sardegna. Dell’infanzia
di Eleonora sappiamo che la trascorse tra Oristano e il castello del Goceano. Le
fonti storiche ci dicono poco, talvolta niente, circa la sua infanzia e l’adolescenza,
tanto che quasi tutte le biografie su di lei sono, di necessità, romanzate. È da
credere, comunque, che avesse ricevuto un’ottima educazione, commisurata al suo
rango, tanto più se si considera che sia il padre, sia la madre, erano cresciuti e si
erano formati alla corte aragonese, e quindi, certamente colti e raffinati e non
avranno di conseguenza lesinato cure all’educazione della principessa e dei suoi
fratelli447.
Dopo la stipula del trattato di Sanluri del 1355, il re d’Aragona, Pietro IV, invitò il
figlio primogenito di Mariano, Ugone, perché venisse educato a corte o le due
444 Giuseppe Dessì è uno tra gli scrittori più amati, apprezzati e conosciuti della Sardegna e della penisola. Nacque a Cagliari nel 1909 e morì a Roma nel 1977. Qui ricordiamo: G. Dessì, Eleonora d’Arborea, Edes Editore, 1995, p. 153.445 I giudici arborensi contavano vasti e ricchi possedimenti nei territori continentali della Corona, uno di questi è appunto la villa di Molins de Rey, vicino alla capitale Barcellona. Possedevano inoltre il castello di Gelida, il castello ed il paese di Matarò, oltre ad altre terre ne La Llavanera, Vilasar, Argentona e Cabrera. Per approfondimenti si veda: L. D’Arienzo, I possessi catalani dei giudici d’Arborea, in «Studi Sardi», vol. XXI, 1968.446 R. Meloni, Eleonora D’Arborea: una biografia singolare, in AA. VV. “Eleonora d’Arborea, una statista della Sardegna tra mito e storia”, a cura del Centro di documentazione e studi delle donne, Cagliari 2005, pp. 11-18.447 Ibidem, p. 11.
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figlie Eleonora e Beatrice perché venissero maritate448. Nella pergamena pontificia
del 13 luglio 1356 il papa Innocenzo VI concede alla giudicessa Timbora e alle
sue due figlie e ad altre quattro dame, di visitare il monastero delle Clarisse di
Oristano sette volte all’anno449. Per molto tempo si è creduto di vedere la famosa
giudicessa nel ritratto del pittore seicentesco Bartolomeo Castagnola che invece
mostra il ritratto di Giovanna la Pazza, mentre l’immagine storicamente accertata
è quella che è stata identificata da Francesco Cesare Casula scolpita sul peduccio
pensile dell’abside della chiesa di S. Gavino martire a San Gavino Monreale. La
giudicessa indossa un abito semplice ed elegante, attillato nelle braccia e
avvolgente il busto, i capelli sono lunghi portati sciolti lungo le spalle. Il viso ha
una forma rotonda e su una guancia è impressa una cicatrice, forse un’ustione o il
segno di una ferita in battaglia. Le donne maritate portavano i capelli raccolti, solo
le ragazze nubili li portavano sciolti, qui forse la regina, sicuramente donna di
forte carattere e personalità, aveva liberamente scelto di portarli sciolti per
nascondere la cicatrice.
Figura 15. Immagine di Eleonora d’Arborea scolpita sul peduccio pensile dell’abside della chiesa di San Gavino
448 F. C. Casula, Eleonora regina del regno di Arborèa, Delfino Editore, 2003, p. 126.449 P. M. Cossu, Chiesa e monastero di Santa Chiara in Oristano, da F. C. Casula, Eleonora….cit., p. 9.
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Figura 16.1600 ? Bartolomeo Castagnola, ritratto di Giovanna la Pazza. Ritenuto per lunghissimo tempo il ritratto di Eleonora d’Arborea, si scoprì, di recente, essere quello di Giovanna.
Nel 1364, la sorella Beatrice sposò il visconte Aimerich di Narbona-Lara
lasciando l’isola, il giudicato e la famiglia d’origine. Durante la ripresa delle
ostilità con l’Aragona, nel castello di Serravalle, muore la madre Timbora, che era
stata sempre a fianco del marito, anch’essa protagonista delle vicende giudicali,
assumendo spesso il ruolo di ambasciatrice e trattando direttamente con Pietro IV,
come più tardi farà anche Eleonora. Ed è indubbio che la figura di questa donna
coraggiosa e intrepida abbia esercitato sulla giovane figlia un forte fascino, unito
ad un esempio che Eleonora deve avere certamente seguito.
Negli anni intorno al 1368 seguì suo padre nelle numerose imprese che egli
compì, e forse suo malgrado, fu costretta ad acquisire quella autorevolezza e
quella abilità che seppe in seguito dimostrare nel trattare coi potenti e con le
truppe che la seguirono. Quando il canonico Filippo Mameli redasse la Carta de
Logu per conto di Mariano, Eleonora, si trovava nel palazzo giudicale di Oristano.
Tra gli anni 60 e 70 del Trecento, Mariano cominciò a stipulare accordi con
Brancadoria, signore di Castelgenovese, e fece rientrare in questo disegno il
matrimonio tra Eleonora e Branca che si celebrò dopo la morte di Mariano, nel
1376, durante un’ennesima epidemia di peste.
121
Quando si sposò aveva circa 37 anni e Branca 40. Anche in questi aspetti, che le
ragazze solitamente affrontavano in giovane se non giovanissima età, Eleonora si
distinse dalle altre. Come dono di nozze, il marito portò con se due figli che
aveva avuto da un precedente matrimonio. Anche questo aspetto era frequente nei
matrimoni di alto lignaggio. Eleonora ebbe due figli, Federico, il primogenito,
nato nel 1377 e Mariano, l’anno dopo450. L’esistenza di un erede legittimo,
escludeva dal trono il marito della giudicessa titolare, infatti, Brancaleone non
divenne mai giudice451. Il marito, era spesso assente da Castelgenovese ed era lei a
curare gli interessi per suo conto.
La giudicessa godette di una buona reputazione anche al di fuori della Sardegna,
tant’è che quando al principio degli anni ’80 del Trecento, lei e il marito
trascorsero cinque anni a Genova, lei fu accolta con tutti gli onori, tenuta in gran
conto per il suo rango e per quello della famiglia Bas , le fu addirittura riservato
un trattamento fiscale privilegiato. Trattò inoltre il matrimonio del figlio
primogenito con la figlia del doge di Genova, Nicolò Guarco, che aveva destinato
a Bianchina, questo il nome della promessa sposa, una dote di quattromila fiorini
d’oro452. Tutto ciò fin qui detto, «testimonia la capacità politica di stringere
relazioni che consentissero un respiro mediterraneo agli arborensi e la loro
proiezione verso il futuro»453. Nel 1383, viene trucidato il fratello Ugone III
insieme alla giovane figlia Benedetta. Eleonora che si trova a Genova, torna
immediatamente in Sardegna per prendere in mano la situazione, dimostrando
tutta la determinazione e il piglio sovrano che la distingueranno. La situazione si
dimostrò fin da subito molto grave a causa della disgregazione determinatasi nel
giudicato dopo la morte di Ugone. Eleonora cercò di agire nell’interesse del
giudicato, consigliata nella sua attività di governo dal suo fedele capitano,
l’armentario maggiore Miale Darcha; per questo si nominò giudicessa d’Arborea,
450 F. C. Casula, Per una più completa genealogia degli Arborea all’epoca d Pietro IV il Cerimonioso, in «Studi Sardi», Sassari 1968, p. 314. 451 A Brancaleone, anche se escluso da qualunque carica pubblica per la nascita del figlio, non fu però impedito di partecipare all’azione politica condotta dalla moglie: la stessa Eleonora lo aveva in diverse occasioni, autorizzato a sostituirla nelle questioni di governo.452 Il matrimonio non verrà mai celebrato a causa della prematura morte del giovane Federico, nel 1387, nel castello di Serravalle.453 R. Meloni, Eleonora D’Arborea……..cit., p. 13.
122
reggente per il figlio Federico, che fece eleggere dalla corona de Logu, seguendo
la prassi del diritto sardo e non dell’infeudazione regia454.
Tantissimo si è scritto e detto su Eleonora, non ci vorremmo, dunque, ritrovare a
ripetere qui cose già risapute ma, ai fini del presente lavoro, è importante mettere
in rilievo il fatto che, valido specie per Eleonora, queste donne della Sardegna
giudicale «ereditarono titoli e governarono, sia pure in nome e per conto di figli e
mariti, stipulando paci, è il caso di Eleonora con la pace del 1388, e trattati,
alleanze e guerre , come la giudicessa Benedetta di Massa, esattamente come i
maschi, con la stessa autorevolezza»455. Eleonora, dopo la morte del fratello, col
suo ascendente, il suo charme, la sua sicurezza, doti che, evidentemente,
possedeva in misura considerevole, riuscì a conquistare la fiducia dei sardi,
sottomettendo le terre ribelli e girando l’isola a cavallo come ci racconta lei stessa
in una lettera a Pietro IV d’Aragona456. È sempre lei a compiere l’azione per cui è
rimasta tanto famosa, cioè una revisione della Carta de Logu e lo fa utilizzando la
stessa formula usata anche dal padre Mariano e soprattutto usando gli stessi titoli:
«…..nos Elianora peri sa gracia de Deus Jjuyghissa d’Arbarèe, contissa de
Gociani e biscontissa de Basso…», «…nos Marianu pro sa gracia de Deus
Juyghide Arbarèe, conti de Gociano e bisconti de Basso…»457. Questo significa
che Eleonora subentrò al padre nel governo del giudicato, come negli altri titoli e
ruoli, fosse quello di conte del Goceano e quello familiare, di visconte di Bas. Ed
è, senza ombra di dubbio, un aspetto di fondamentale importanza perché
sottolinea il fatto che, per il periodo in cui la giudicessa ricoprirà quel ruolo, sarà
assolutamente legittimata a farlo.
Dunque, queste donne di potere del medioevo sardo, emanano leggi, firmano
trattati, combattono, né più né meno dei loro uomini, pur tuttavia, rimangono
donne del medioevo e quando gli uomini «tornano sulla scena», loro se ne
allontanano e noi le “perdiamo di vista”.
454 Ibidem, p. 60.455 B. Fois, Donne e potere nella Sardegna giudicale, in Quattro donne della Sardegna giudicale incontrano il liceo Siotto, progetto di Nora Racugno, Liceo Ginnasio, Siotto-Pintor, Cagliari 2005, pp. 65-66.456 Pubblicata nel volume miscellaneo “ Il mondo della Carta de Logu”.457 B. Fois, Donne e potere……cit., p. 66.
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2 – Donne pisane, ebree, aragonesi.
Le poche testimonianze che si possiedono relativamente alle donne pisane che
abitavano in Sardegna nel medioevo le ricaviamo da alcuni contratti matrimoniali
stipulati nell’isola, da testamenti e dal Breve di Villa di Chiesa458. Il matrimonio
tra pisani che risiedevano nei territori sardi e ed erano sotto la giurisdizione del
comune toscano sottostava alle consuetudini italiane, chiamate in Sardegna alla
pisanesca, istituto chiamato così proprio perchè importato dai pisani, e che
prevedeva la consegna al futuro marito della dote che la sposa doveva portare
nella costituzione del nuovo rapporto. Il 5 aprile 1317 fu stipulato un contratto tra
Tedda Cinquina 459e Barone di Sanminiato, cittadino abitante a Villa di Chiesa e
che probabilmente prevedeva l’uso di tale istituto460, mentre nei territori giudicali
era in uso il matrimonio che prevedeva la comunione dei beni, detto a sa
sardiska461. Secondo mos italicae, Tedda avrebbe dovuto portare in dote al futuro
marito una somma totale di 640 lire di denari aquilini minuti, di cui 500 in
contanti e 140 in beni di corredo. Se il marito fosse morto prima di lei, sarebbe
dovuta rientrare in possesso, entro il termine di tredici mesi, dell’intera dote, se
non l’avesse ottenuta poteva rifarsi sui beni del defunto462.
Tedda e Barone si sposarono ed ebbero un figlio, Lamberto. Il 3 dicembre del
1324, Barone, seriamente malato, redasse il suo testamento a Villa di Chiesa; in
seguito, fu fatto ricopiare a Cagliari, esattamente l’11 marzo del 1325463,
458 Il Breve di Villa di Chiesa (abbreviato in BVC), odierna Iglesias, era il codice legislativo, compilato agli inizi del XIV secolo da brevaioli pisani che regolamentava l’amministrazione dell’abitato di Villa di Chiesa e dei territori circostanti.459 Figlia di Benenato Cinquina, apparteneva a una famiglia di popolo pisana che in Sardegna intratteneva numerosi rapporti commerciali e i cui membri ricoprirono importanti incarichi politici nei territori amministrati nell’isola dal comune pisano.460 V. Grieco, Donne pisane in Sardegna: un contratto prematrimoniale e un testamento, in “Donne e potere nella Sardegna Medioevale”, a cura di M. A. Brandas e S. Chirra, Cagliari 2002, pp. 27-30.461 Si veda: A. Marongiu, Il matrimonio alla sardesca, in Archivio Storico Sardo di Sassari, n. 7, Sassari 1981; 462 V. Grieco, Donne pisane…..cit., p. 28.
124
sicuramente dopo la sua morte. Barone nomina la moglie Tedda tutrice del loro
figlio non ancora maggiorenne, a cui assegnò anche dei tutori.
Nel Breve di Villa di Chiesa troviamo che la condizione della vedova era fissata
da precise regole. Il marito non poteva lasciare loro beni di valore superiore a 10
lire di alfonsini minuti e non poteva nemmeno lasciare beni a parenti della
moglie464. In aggiunta non le era permesso amministrare i beni del marito defunto
«sensa compagnia d’omo»465. È evidente la differenza rilevante tra la condizione
maschile, che godeva di grande credito, e quella femminile, sottomessa e
assolutamente irrilevante ai fini giuridici; mentre la troviamo affidataria delle cure
del figlio, rispettata almeno come madre, anche se non ritenuta degna fino in
fondo vista la presenza dei tutori. Dobbiamo comunque evidenziare che «nei
territori sardi soggetti alla giurisdizione della Repubblica di Pisa, le donne,
almeno sulla carta, potevano godere di una certa autonomia, soprattutto in ambito
familiare e in quello economico. Esse potevano svolgere attività lavorativa al di
fuori delle mura domestiche, intervenire nelle questioni economiche accanto ai
loro mariti, possedere autonomamente beni mobili e immobili, a prescindere dalla
condizione sociale, e disporre liberamente dei propri beni e dei propri soldi per
testamento, fermo restando le quote per i loro legittimi discendenti e per i
collaterali466».
Il testamento di Nella Formentino, pisana di Villa di Chiesa, conferma questa
particolare condizione. Il 10 ottobre 1320, domina Nella Formentino, affetta da
una grave malattia fisica che l’avrebbe portata alla morte entro breve, si affretta a
fare testamento. Fa chiamare presso la casa del fratello Ciolo, situata nella Ruga
Mercatorum, il notaio Duodo Soldani e alcuni testimoni. Come esecutore
testamentario nomina suo fratello. Nella aveva una discreta disponibilità
economica di beni mobili e immobili e di denaro, indipendente dal marito, e aveva
anche la possibilità di scegliere a chi devolvere i suoi averi. La figlia Cea, venne
463 C. Baudi di Vesme, a cura di, Codex Diplomaticus Ecclesiensis ( abbreviato in CDE), Torino 1877, i n Monumenta Historiae Patriae, tomo XVII, sec. XIV, n. XXXV.464 BVC, libro III, cap. LXIIII.465 BVC, libro III, cap. LXIV.466 V, Grieco, «La condizione femminile nella Sardegna pisana», in VI Corso Universitario Multidisciplinare di Educazione allo Sviluppo, Cagliari 2000.
125
nominata erede universale. Diverse cifre riservò a enti ecclesiastici, a sacerdoti e
frati di Pisa perché celebrassero messe cantate in suffragio della sua anima.
Una disposizione del suo testamento è, però, l’elemento che colpisce di più: lascia
la somma di 12 lire di denari aquilini minuti per l’acquisto di almeno trenta
camicie da donna, o panni, da destinare a donne povere; segno questo di grande
generosità, di un’educazione alla solidarietà che le era stata impartita e di una
generosità al femminile che manifesta una presa di coscienza dei problemi sociali
di una comunità e la disponibilità nel voler fare qualcosa per migliorarla. Nulla
invece lasciò al marito, cosa che può essere, forse, spiegata col fatto che, secondo
una norma del Breve, non potevano essere lasciati al coniuge beni di valore
superiore a 10 lire di alfonsini e non poteva essere lasciato nessun bene ai parenti
del coniuge467. In Sardegna vi fu un intenso flusso migratorio di comunità ebraiche
al tempo della conquista catalano-aragonese, che favorì questo treasferimento dai
territori della Corona468 verso l’isola. Le donne di cui si ha notizia, sono donne
nate comunque a Cagliari e/o ivi residenti e i documenti che le riguardano sono
conservati parte all’Archivio di Stato di Cagliari e parte all’Archivio Comunale
della stessa città, la maggior parte sono atti notarili469, altri documenti sono,
invece, emanati dall’ufficio della Procurazione Reale di Sardegna470. Le donne
ebree erano appartenenti alla borghesia o al popolo; una solida barriera religiosa le
separava dalle donne cristiane di cui in qualche modo ne ripetevano i modelli di
vita471. Queste donne erano «le madri, le mogli, le figlie, le sorelle di mercanti,
sensali, medici e artigiani: sarti, farsettai, falegnami, fabbri, librai, saponai. Come
per le donne di qualunque etnia, il matrimonio rappresentava l’obiettivo di tutta
467 BVC, libro III, cap. LXIIII.468 In particolare da Maiorca, dalla Catalogna e dalla Provenza. Sugli ebrei si vedano i lavori recenti e imprescindibili di: C. Tasca, Gli ebrei in Sardegna nel XIV secolo: società, cultura, istituzioni, Deputazione di storia patria per la Sardegna, Cagliari 1992; C. Tasca, Ebrei e società in Sardegna nel XV secolo: fonti archivistiche e nuovi spunti di ricerca, Giuntina, Firenze 2008.469 Gli Atti Notarili conservati presso l’Archivio Comunale di Cagliari (ACCA), sono tratti dal volume 395, XX e 395, XXII e con queste indicazioni verranno segnalati. Gli Atti conservati, invece, nell’Archivio di Stato di Cagliari (ASCA) appartengono tutti al fondo Archivi Notarili. Atti dei notai della Tappa di Cagliari. Atti originali sciolti, ed ai notai A. Barbens, S. De Aranda, G. Garau, M. Leytago, P. Steve. Si citeranno di seguito il nome del notaio, il numero del volume e le relative carte.470 Documentazione conservata all’Archivio di Stato di Cagliari, Fondo Antico Archivio Regio, registri serie BC, da ora in poi abbreviato in ASCA, AAR.471 G. Olla-Repetto, La donna ebrea a Cagliari nel ‘400, in Anuario de estudios medievales, Barcelona 1988.
126
una vita, quell’evento per il quale erano state educate e preparate fin dall’infanzia
dalle madri e dalle famiglie.
I matrimoni venivano organizzati dalle famiglie e in particolare dai genitori come
compare dall’esplicito consenso riportato nel atti dotali472». Non c’è da farsi
illusioni circa le motivazioni che spingevano i genitori nella ricerca di un partito
per le loro figlie, motivazioni che avevano tutte o quasi a che fare con alleanze
sociali ed economiche, senza troppo considerare sentimenti, affinità o attrazione.
Poiché il matrimonio rivestiva un’importanza notevole, tutta la famiglia si
prodigava per facilitarlo con doti e lasciti, infatti, nessuna dote voleva dire nessun
matrimonio. E per una donna nubile, la vita poteva essere molto triste e grama. Se
i genitori non potevano farlo, allora erano i parenti ad occuparsene: le 525 lire, in
oro, argento, gioielli ed effetti, sia personali che per la casa, che l’orfana Duenya
Anayo portò in dote nel 1479 a Mosè Bellcayre, furono versate dallo zio paterno
Yuceff473. Quali sentimenti legassero i fidanzati prima e gli sposi poi, non ci è dato
saperlo, anche se si deduce che seppure non ci fosse un amore forte a legarli,
sicuramente vi erano sentimenti come la solidarietà e la stima. Negli Atti Mortis
Causa, i mariti destinavano grosse somme alle mogli, dopo la loro morte e le
nominavano esecutrici testamentarie e tutrici dei figli474.Questa stima che veniva
tributata loro non le esentava dall’obbligo della verginità da nubili, di fedeltà da
sposate, di castità da vedove. Anzi, il rispetto di questi obblighi era la conditio
sine qua non della considerazione in cui venivano tenute dall’uomo e nella
famiglia e nella comunità.
La verginità era un valore oltre che familiare, anche sociale e veniva esibito
apertamente; ad esso corrispondeva anche un valore economico, che consisteva in
alcune prestazioni a favore della donna, a cui l’uomo si impegnava nel contratto
nuziale ratione virginitatis eiusdem. È quanto fece nel 1479 Mosè de Bellcayre,
destinando alla promessa sposa Duenya Anayo una donatio propter nuptias pari
ad un terzo della dote di lei, e riconoscendole la proprietà della metà degli effetti
contenuti nella loro camera, al momento della morte, tutto in considerazione della
472 ASCA, Atti Notarili sciolti, notaio De Aranda, n. 3, c. 64473 ASCA, Atti Notarili sciolti, notaio Barbens n. 11, cc. 26v-27.474 ASCA, Atti Notarili sciolti, notaio De Aranda, n. 2, c. 7v; notaio Garau, n.3, cc. 21-22v; ACCA, vol. 395, XXII, c. 100v; ASCA, Atti notarili sciolti, notaio Leytago, c. 29.
127
sua illibatezza475. L’ossessione della castità femminile era patrimonio comune
dell’uomo cagliaritano, senza distinzione di fede. Così trova spiegazione il fatto
che Sadia Milis, ricco mercante ebreo, che pure non esitò a porre nelle mani della
moglie Marzocha la sorte del suo considerevole patrimonio economico e quella
dei loro figli, le lasciò ogni cosa a patto e condizione che rimanesse casta et sine
viro.
Sulla donna ricadeva in maniera totale l’onere di provvedere alla gestione e
all’organizzazione familiare della casa, intesa sia da un punto di vista materiale
che morale. Quindi, non solo ricadeva l’alimentazione, la salute e la vestizione dei
membri della famiglia, ma anche l’educazione dei figli e l’istruzione dei servi. Ed
è chiaro che, per far questo, lei stessa doveva essere stata educata a diventare
un’ottima padrona di casa. Le famiglie non erano allargate come quelle dei
cristiani, quindi l’ambiente ristretto della giudecca476, non concedeva larghi spazi
a nessuno. I compiti domestici erano forse meno faticosi di quelli della donna
cristiana, almeno in termini numerici, ma restava uguale in termini qualitativi. La
donna era sempre la domina della famiglia, stimata, rispettata e temuta, arbitra del
destino di figli, sevi e schiavi. La stessa immagine di Marzocha è quella di una
donna dominatrice, imperiosa e sicura di se, alle cui capacità il marito si affida
totalmente, soggiogandola solo sul piano sessuale, col consueto ricatto della
castità vedovile obbligata477.
Una delle sensazioni che si avvertono forti nella lettura dei documenti è quella
degli stretti legami familiari tra i membri più vicini e i parenti anche i meno stretti.
Anche questo aspetto è certo un riflesso del modo con cui la donna allevava i figli,
nel rispetto dei vincoli familiari vissuti con intensità. Non è un caso l’esistenza di
forti interessi economici comuni che nascevano tra parenti coniugando in modo
unico le vite di queste persone e contribuendo a rendere le loro comunità ancora
più isolate e “diverse”. Le donne borghesi avevano servi, schiavi e balie e non
avevano proprio bisogno di sporcarsi le mani con lavori manuali. La donna si
475 ASCA, Atti Notarili sciolti, notaio Barbens, n.11, cc.26v-27. Sulla donatio propter nuptias vedi: M. Roberti, Per la storia dei rapporti patrimoniali fra coniugi in Sardegna , «Archivio storico sardo», IV, 1908, p. 279 e ss.476 Il quartiere ebraico a Castel di Castro, si trovava nella zona degli odierni bastioni di Santa Croce, nel quartiere di Castello.477 ASCA, Atti notarili sciolti, notaio Garau, n. 3, cc. 21-22.
128
faceva anche carico di trovare un’occupazione lavorativa ai figli maschi
avviandoli ad un mestiere: è il caso di Sther Farsis che nel 1477 alloggiò per
cinque anni il figlio Giacomo Camon presso il farsettatio Emanuele Milis perché
apprendesse la sua arte478. Nelle famiglie più ricche era il padre che avviava i figli
maschi a una professione, solitamente la loro479. La donna ebrea sapeva e poteva
gestire affari anche da sola o associata al marito, ai figli maschi e femmine, o a
terzi. Dai documenti emerge una donna in possesso di una forte dinamicità e
intraprendenza piuttosto abile nella gestione degli affari e nell’amministrazione
dei beni. Le Ordinazioni Comunali imponevano diversi divieti alle donne ebree,
sia per quanto riguardava l’aspetto lavorativo480, sia per quanto riguardava la
frequentazione degli spazi pubblici481. Le leggi e i provvedimenti non potevano
dirsi improntati all’eguaglianza ma, semmai, contribuivano in maniera
esponenziale all’isolamento e all’emarginazione delle donne ebree dalla società di
cui facevano parte. Le donne aragonesi che vennero per scopi matrimoniali a
vivere in Sardegna e di cui abbiamo notizia non sono tante per la verità ma una in
particolare attira la nostra attenzione. È Violante Carròs, erede di una grande e
importante famiglia feudale di probabile origine germanica, giunta in Sardegna
nel 1323, con la spedizione dell’infante Alfonso per contribuire alla conquista
dell’isola482.
478 ASCA, Atti notarili sciolti, notaio Barbens, n. 5 cc. 21-21v.479 ASCA, Atti notarili sciolti, notaio Garau, n. 3, c. 22v.480 Le Ordinazioni vietavano alle donne ebree di lavorare pubblicamente la domenica e nelle feste comandate; di vendere nel Castello e nelle Appendici, ad eccezione dei corredors de coll, vicoli (?)del colle, e di tenere alle proprie dipendenze operai cristiani o botteghe fra i cristiani, cfr. M. Pinna, Le Ordinazioni dei Consiglieri del Castello di Cagliari del secolo XIV , «Archivio Storico Sardo».481 Era loro vietato frequentare i bagni pubblici dopo l’ora terza; mescolarsi coi cristiani; portare mantelline, indossare vesti di drappo d’oro, di seta o di scarlatto o foderate e guarnite di vaio bianco e di martora, o abiti con code e strascico e cinture d’oro o dorate, o perle e guarnizioni di perle, le quali erano consentite solo alle ragazze da marito; imponevano le infami rotelle, i mantelli lunghi, gli abiti alla siciliana, i bordi d’oro e di seta sui veli e i mantelli, che le distinguevano da lontano; suggerivano inoltre di nascondersi al passaggio del Cristo, imponendo tante piccole angherie, che scoraggiavano le uscita dal ghetto. Si veda: M. Pinna, Le Ordinazioni…cit., 1. I, nn. 53-54; 1. II, nn. 40, 93-97, 196-203; Ancora F. Artizzu, La condizione della donna nelle catalane Ordinazioni dei Consiglieri del Castello di Cagliari del secolo XIV, in id., Ricerche sulla storia e le istituzioni della Sardegna medievale, Roma 1983, pp. 79-80. Buona parte di questi divieti furono ribaditi anche con provvedimenti reali e viceregi nel 1481 e nel 1488.482 Sulla famiglia Carròs si veda il Dizionario Storico Sardo, a cura di F. C. Casula, C. Delfino, Sassari 2003.
129
Il primo della famiglia, a giungere al seguito dell’infante portando un contributo
di venti galee, fu l’ammiraglio Francesco di Rebollet che fu ricompensato con
numerosi e vasti feudi. Due dei suoi figli, Berengario e Giacomo, furono gli
iniziatori rispettivamente del ramo dei Carròs di Quirra e dei Carròs di Arborea483.
Fu figlia di Giacomo, quarto conte di Quirra, e di Violante di Centelles, nacque
nel 1456. Visse serenamente fino all’età di tredici anni, educata con tutti i riguardi
che il suo ceto richiedeva, imparò a leggere, scrivere e far di conto e tutte quelle
arti che si confanno ad una giovane di alto lignaggio quale era lei, compresa la
musica cui il padre Giacomo dava un personale contributo suonando un organo a
tre matrici, due liuti e una viola, nelle sere passate nella loro residenza principale
del castello di San Michele484. Tutto cambiò per lei quando, il 2 gennaio 1469, il
padre morì a causa di gravi ferite riportate in seguito ad un incendio scoppiato la
notte di Natale dell’anno prima e causato da un’esplosione ad un deposito di
polveri nel Castello. Il testamento dichiarò lei e i suoi discendenti eredi universali
di tutto l’immenso patrimonio della famiglia Carròs di Quirra. Poiché la madre era
morta dieci anni prima del padre, la giovanissima fanciulla fu affidata, prima, alla
tutela di tre eminenti personaggi tra cui uno di loro era l’avidissimo zio, Nicolò
Carròs del ramo arborense, che ricopriva anche la carica di vicerè di Sardegna485;
in seguito, alla sola tutela dello zio che riuscì con minacce e ricatti a fare in modo
che gli altri due ritirassero la tutela. Nicolò assunse, così la direzione degli affari e
della vita della povera Violante, che fu costretta ad abbandonare il castello di San
Michele, la sua casa. Il castello fu chiuso e affidato in custodia a Giacomo
Castelló; la servitù fu liquidata e i beni inventariati. Violante fu trasferita in una
casa di Cagliari, dove «sola, senza servitù e senza consiglieri, non aveva bisogno
di una corte così numerosa che comportasse forti spese»486. Oltre ad ereditare
l’ingente patrimonio del padre, fatto di tutti i possedimenti dei Carròs nell’isola,
ereditava anche quelli della madre, consistenti in una dote familiare di 10.000
483 M. G. Farris, La contessa Violante Carròs: una donna vissuta tra competizioni di governo e questioni ereditarie, in “Donne e potere nella Sardegna Medioevale”, a cura di M. A. Brandas e S. Chirra, Cagliari 2002, pp. 37-43.484 G. Olla-Repetto, La donna cagliaritana tra ‘400 e ‘600, in “Medioevo Saggi e Rassegne”, n. 11, Pisa 1986, pp. 171-207.485 M. M. Costa, Violant Carroç, una contessa dissortada, Barcellona 1973, («Episodis de la Història», vol. 172).486 M. G. Farris, La contessa Violante Carròs: una donna….cit., p. 38 .
130
fiorini d’oro d’Aragona più le terre di circa la metà della costa orientale dell’isola
e dintorni di Cagliari e che nell’interno si estendevano quasi fino ad Oristano.
Questi dati ci rendono chiara l’idea dell’eredità che Violante ricevette e dei motivi
per i quali tutti i personaggi che le ruotarono intorno, ad iniziare dallo zio, erano
così tanto interessati ad occuparsi dei suoi affari. Lo zio, infatti, comandava senza
informare né chiedere consensi o pareri alla minorenne Violante e le cose non
cambiarono nemmeno quando raggiunta la maggiore età fu data in sposa al cugino
Dalmazzo, figlio di Nicolò487. Come regolarmente avveniva anche nella penisola,
il matrimonio fu celebrato per procura nel 1469 ma ufficializzato a Cagliari nel
1471. Gli sposi andarono a vivere nel palazzo reale, residenza del vicerè, zio di
Violante insieme ai genitori di Dalmazzo e ci possiamo immaginare come deve
essere stata piacevole la vita per la giovanissima Violante, che all’epoca aveva
soltanto quindici anni, sempre a contatto con la suocera e sottomessa al marito e
ancor più allo zio. Il matrimonio con Dalmazzo fu breve, costui morì di malattia
sette anni dopo488, e da quest’unione non nacquero figli. Sebbene nello stesso anno
morisse anche lo zio, ciò non significò per Violante la libertà ma anzi, come si
suol dire, “cadde dalla padella nella brace”, dal momento che, divennero tutori la
suocera Brianda de Mur e i cognati che continuarono ad esercitare la massima
autorità in casa e a pretendere l’amministrazione dei suoi beni489. L’opposizione
della contessa non sortì nessun effetto, nemmeno l’avocarsi al re servì per avere
giustizia. Un anno dopo la morte del marito, si risposò con Filippo de Castreso,
figlio di Guglielmo Raimondo e di Stefania Carròs d’Arborea, sorella dello zio
Nicolò e cugino di Dalmazzo. E questa volta fu amore. La felicità ha sempre vita
breve e nel 1482, dopo appena tre anni di matrimonio, Filippo la lasciò di nuovo
sola, morendo improvvisamente. Di lui le rimasero i due bambini, Giacomo e
Filippo e molti problemi economici. Un altro gravissimo lutto la stava per colpire.
Nella prima metà del 1503 morirono i suoi due bambini, prima Filippo e subito
dopo, Giacomo.
487 M. M. Costa, Violant Carroç…..cit., pp. 15-20.488 Dalmazzo Carròs, divenuto in seguito al matrimonio con Violante il nuovo conte di Quirra, morì di malattia nel 1478. In quell’occasione non mancarono malelingue pronte ad attribuire questa morte ai malefici della moglie.489 M. G. Farris, La contessa Violante Carròs: una donna….cit., p. 38 .
131
La stragrande maggioranza delle notizie in nostro possesso ci sono giunte
attraverso gli atti del procedimento giudiziario circa il suo patrimonio e non è
facile ricostruire tutte le tappe della sua vita. L’Archivio della Curia Provinciale
dei Frati Minori Conventuali di Oristano conserva in tre copie il testamento di
Violante, tutte riferibili alla fine del XVI secolo e la fine del XVIII490. Il
documento è scritto in lingua catalana ed espone i motivi che la indussero a fare
testamento. Non fu, infatti, redatto in punto di morte, ma prima di affrontare, nel
1504, il viaggio che l’avrebbe portata in Spagna, dal momento che temeva i
pericoli del mare, dettò il testamento al notaio cagliaritano Nicolò Boy che lo
pubblicò il 5 gennaio 1511 subito dopo l’annuncio, datogli dal notaio barcellonese
Guglielmo Balaguer, della morte di Violante che avvenne probabilmente a
Barcellona in un giorno di dicembre del 1510. Venne trasferita e inumata a
Cagliari in un sarcofago calcareo491che ne ospitò il corpo e che, almeno fin al
1861, si trovava presso l’ingresso della chiesa stampacina di San Francesco, a
Cagliari492 dove erano sepolti i genitori e i suoi figli; già da tempo remoto, sia i
Carròs di Quirra che quelli d’Arborea avevano le tombe di famiglia in questa
chiesa. In seguito alla distruzione della chiesa, durante la seconda guerra mondiale
il sarcofago fu trasferito a Decimomannu presso la famiglia che lo acquistò e dove
si trova ancora493. È certo che Violante ebbe una vita intensa, nel bene, poco,
come nel male, tanto. Fu parecchio tormentata, specialmente negli ultimi anni
quando intentò tutta una serie di processi volti ad ottenere giustizia sei soprusi
ricevuti. E forse ottenne un minimo di soddisfazione quando nominò suo erede
universale, Guglielmo Raimondo, figlio di una sua sorellastra494, Toda, che era
andata in sposa a Luigi de Centelles. Ella lo nominò, inoltre, continuatore del
casato a condizione che adottasse il cognome Carròs e le insegne di «dos leons
partides per quartes axì com lo señor meu pare faya»495. Questa nomina creò
numerosi contrasti e rivendicazioni da parte dei Carròs d’Arborea ma Ferdinando
490 C. Piras, Il testamento di Violante Carroç contessa di Quirra, in Biblioteca Francescana, vol. II, 1988, pp. 19-53.491 D. Salvi, Lo stemma di Eleonora Manrique sul sarcofago di Violante Carròs, in “Medioevo Saggi e Rassegne, n. 16, Pisa 1992, pp. 229-236. Eleonora Manrique era la nonna paterna di Violante.492 . Spano, Guida alla città di Cagliari e dintorni, Cagliari 1861, p. 170.493 F. Colli, Decimomannu, il paese e la sua storia. Il culto di Santa Greca, Cagliari 1971, pp. 31-32.494 Violante aveva due sorelle illegittime: Isabella e Toda.495 C. Piras, Il testamento di Violante,cit., pp. 19-53.
132
I riconobbe all’erede il titolo di conte di Quirra con tutti i beni e i diritti
dell’eredità. Seppur di nobile e ricca famiglia, troppo ricca forse, nessun’altra
donna sognerebbe di cambiare la propria vita con quella che la sorte riservò a
Violante. Educata, istruita, ricca ma profondamente infelice.
Capitolo IV – Donne e scrittura: presenze, assenze.
1 – Il codice 1bR del monastero di Santa Chiara di Oristano.
Parafrasando le parole introduttive al volumetto sulla cultura e la scrittura
nell’Arborea di Francesco Cesare Casula496, potremo dire che ben poco è stato
detto sulla cultura della Sardegna medioevale perché ben poco sappiamo su questo
aspetto che, dalle poche testimonianze rimasteci, dovette avere una parte se non
496 F. C. Casula, Cultura e scrittura nell’Arborea al tempo della Carta de Logu, estratto dal volume “Il mondo della Carta de Logu”, Edizioni 3T, Cagliari 1980, p. 73.
133
fondamentale nella vita dell’isola, certamente alla pari degli altri piccoli e medi
regni dell’Europa mediterranea. Ciononostante alcuni documenti ci forniscono
apporti e contributi interessanti come si rilevano dai «Procesos de Arborea»497,
formati da una serie di 10 volumi di documenti in copia, contenenti lettere,
deposizioni, interrogatori e sentenze sul reato di ribellione di cui i giudici
d’Arborea Mariano IV, Ugone III, Eleonora e Brancaleone Doria si sarebbero
macchiati secondo le commissioni che indagavano per ordine di Pietro IV prima e
Giovanni I poi, coprendo un arco cronologico che va dal 1353 al 1393. È noto che
dall’inizio della conquista (1323-1326), fino al 1349 l’Arborea era stata fedele
alleata dell’Aragona, infatti, i Bas si erano fortemente «catalanizzati»498stringendo
rapporti sempre più stretti con la Corona, specie di tipo matrimoniale. Lo stesso
giudice Ugone II fece sposare ben sei dei suoi dieci figli con giovani discendenti
da prestigiose famiglie iberiche499, e impose ai figli un’educazione catalana,
mandando Mariano e Giovanni in Catalogna perché studiassero e frequentassero
la corte di Barcellona insieme ad altri giovani della nobiltà catalana, aragonese e
valenzana. Da tutto ciò, ci si aspetterebbe una tipologia culturale affine a quella
aragonese, invece il modello culturale di riferimento dei giudici d’Arborea risulta
essere quello italiano, questo aspetto emerge in particolare dall’esame dei
documenti emessi dalle cancellerie giudicali. Ai tempi di Ugone II, le persone
colte ed istruite del giudicato pensavano in volgare sardo o italiano, anche se si
scriveva per lo più in latino, con un occhio di riguardo persino alle lingue
romanze, quando era necessario500. Ugone cita ben due proverbi lombardi in due
diverse lettere501, ma dettava in italiano e riceveva i rapporti dai suoi informatori
continentali scritti in volgare italiano ( le spie sarde, al contrario, usavano, per le
comunicazioni, il dialetto loguderese). Inoltre è da notare che il medico personale
della famiglia giudicale, Grazia Orlandi, era un continentale, così pure il notaio
Giovanni Selle, procuratore di Ugone mentre, l’arcivescovo di Oristano, Guido
497 I «Procesos» sono custoditi nella sezione «Real Audiencia» dell’Archivio della Corona d’Aragona di Barcellona e posseduti in microfilm dall’Istituto di Storia Medioevale della Facoltà di Lettere dell’Università di Cagliari.498 F. C. Casula, Cultura e scrittura..cit.,, p. 75.499Si veda sugli aspetti genealogici l’articolo di F. C. Casula, «Per una più completa genealogia degli Arborea all’epoca di Pietro IV il Cerimonioso», in «Studi Sardi», vol. XX (1966-67); 500 Fonti documentarie sul periodo di regno di Ugone II sono in F. C. Casula, Carte Reali Diplomatiche di Alfonso III il Benigno, re d’Aragona, riguardanti l’Italia, Padova 1970.501 F. C. Casula, Carte Reali Diplomatiche, cit., doc. 195, p. 149 e doc. 333, p. 169.
134
Cattaneo, procuratore e forse cancelliere del giudice Ugone II, era, probabilmente,
un pisano. Mariano IV, aveva trascorso parte della sua giovinezza in Catalogna,
ne conosceva perfettamente la lingua, così come conosceva anche il latino,
l’italiano, il sardo; il giudice, inoltre, era in corrispondenza con la giovane
Caterina da Siena502, conosceva l’astrologia e le teorie di Tolomeo e teneva
sempre a portata di mano una Bibbia503. Queste testimonianze, seppur scarse, ci
testimoniano una realtà che dovette essere comunque importante e presente e che
fanno della Sardegna un’isola culturalmente aperta e in linea con gli altri stati
dell’Europa.
In questo panorama di cultura generale si deve fare spazio a quel poco che ci è
rimasto ed è strettamente legato al mondo delle donne. Si citeranno, in questo
capitolo finale, due testimonianze di grande importanza e bellezza per uno studio
riguardante la scrittura femminile sia nei contenuti che nell’aspetto propriamente
grafico. Il primo documento è relativo all’unico esempio, sinora conosciuto, di un
manoscritto trecentesco della capitale del giudicato d’Arborea, in pergamena, con
quattro carte di musica monodica liturgica, risalente ad un’epoca di duri scontri
politici e militari, quale fu il Trecento in Sardegna504. Il manoscritto è conservato
presso l’archivio delle clarisse di Oristano, dove è rimasto sepolto nell’oscurità
per più di sei secoli e nonostante gli attentati subiti dal monastero quali gli eventi
bellici vissuti dalla città nel corso dei secoli; l’invasione francese del febbraio del
1637, in cui il monastero fu addirittura violato e le suore costrette a fuggire o
quando i soldati, nel 1855, in seguito alla legge d’incameramento dei beni della
chiesa, entrarono nella clausura e saccheggiarono il patrimonio artistico e
culturale del chiostro, il manoscritto è giunto sino a noi.
Questo codice ha una particolarità rispetto agli altri documenti rimastici, quali il
Breve di Villa di Chiesa505 o gli Statuti Sassaresi506 o il Breve Portus Kallaritani 502 Sui rapporti epistolari tra il giudice e la Santa, si vedano: S. Caterina da Siena, Le lettere a miglior lezione e in ordine nuovo disposte, con proemio e note di Niccolò Tommaseo, Firenze 1860, vol. II, lett. 66, p. 32, lett. 148, p. 393; E. Duprè Theseider, Introduzione allo Epistolario di Santa Caterina da Siena, Roma 1940; D. Filia, S. Caterina da Siena e Mariano d’Arborea, in «Exultemus», Oristano 1921, p. 39.503 Procesos de Arborea, I, 178v., 202.504 G. Mele, Un manoscritto arborense inedito del Trecento, il codice 1bR del monastero di Santa Chiara di Oristano, Editrice S’Alvure, Oristano 1985, p. 15.505 L’esemplare a noi rimastoci, risale ad una data che oscilla tra il 1324 e 1327.506 I due codici, quello sardo e quello latino, risalgono al 1316, ma considerando le Additiones si arriva fino allo scorcio del XV secolo.
135
del 1318 o i frammenti degli Statuti di Castelgenovese del 1336, che sono fonti
giuridiche «d’importazione» pisana o genovese, il prezioso manoscritto è
esclusivamente sardo, appartenente per intero ad una cultura autoctona quella
giudicale507. Il manoscritto, contenente la Regola dell’Ordine delle Clarisse
promulgata da Urbano IV il 18 ottobre 1263 e per questo chiamata “urbanista”,
venne trascritta anche ad Oristano, dove esisteva un monastero di clarisse almeno
dalla prima metà del secolo XIV508. La Regola consta di 26 capitoli e c’informa in
maniera precisa e puntuale sulla vita che si svolgeva all’interno del monastero
oristanese; si chiude alla c.28r con la datatio della bolla pontificia509.
La Regola è «l’anima stessa di una comunità religiosa»510 e non sono molti i centri
monastici che possono vantare l’esistenza di un codice forse coevo alla
fondazione del monastero. Il manoscritto, contiene anche un’interessante rituale
sulla vestizione delle monache, con annotazioni musicali. Tra le tante
informazioni che ci fornisce troviamo notizie su come doveva essere l’abito delle
suore che, oltre al cilicio, portavano altre due o più tonache di panno modesto ed
il mantello agganciato al collo (cap.IV). Non mancano prescrizioni di tipo
igienico, come quelle che riguardavano la pratica dei salassi, che dovevano essere
fatti non più di tre volte all’anno (cap.XI). Gli aspetti, per noi più interessanti,
riguardano l’attività culturale e scrittoria all’interno del chiostro, dove vi era uno
scriptorium, con annessa scuola di scrittura, dimostrato da una serie di
prescrizioni contenute nella Regola: nel cap. VIII, relativo al lavoro delle suore, si
disponeva che le novizie più intelligenti fossero affidate ad una maestra che le
istruisse negli uffici divini e nel canto; è evidente che per eseguire tale pratica era
imprescindibile saper leggere e, quindi, scrivere. Nel cap. VI, propriamente
relativo alla pratica dell’ufficio divino, si prescriveva di celebrarlo secondo le
consuetudini dei frati minori511 ed era espressamente indicato come necessario alle
507 L. D’Arienzo, Introduzione al volume di G. Mele, Un manoscritto arborense…cit., pp. 7-8.508 Cfr. P.M. Cossu, Chiesa e Monastero di S. Chiara in Oristano, note ed appunti storici, Cagliari 1925; F. Cherchi Paba, Reale monastero di S. Chiara Oristano, in “Quaderni Storici e Turistici di Sardegna”, n. 4, Cagliari 1973; Chiesa e Monastero di Santa Chiara in Oristano, a cura delle Suore Clarisse del Monastero di S. Chiara in Oristano, Oristano, s. a. [stampato in occasione della riapertura al culto e per la consacrazione del muovo altare della chiesa, 7 luglio 1984].509 G. Mele, Un manoscritto arborense…cit., p. 18.510 L. D’Arienzo, Introduzione al volume di G. Mele, Un manoscritto arborense…cit., pp. 8-9.511 Archivio del Monastero di Santa Chiara (A.M.S.C.O.), ms. 1bR, c. 11v.
136
monache il saper leggere e cantare512. Il cap. XXII, inoltre, ci informa circa la
tenuta dei libri contabili da parte della badessa, nei quali dovevano essere
registrate le entrate e le uscite di cui, poi, si doveva rendere conto ogni tre mesi
alla Comunità. Vi era ancora, di particolarmente interessante, un ufficio addetto
alla scrittura delle lettere in partenza, che venivano redatte secondo un iter
documentario molto preciso. Qualsiasi lettera spedita doveva essere letta nel
Capitolo davanti alla Comunità, successivamente le suore esprimevano il proprio
parere e, solo se la maggioranza era favorevole, la lettera riceveva il consenso alla
spedizione. Dopo questa fase, la lettera veniva sigillata alla presenza di tutte le
monache e, infine, dopo averne fatta una copia che restava nell’archivio del
monastero, l’originale poteva partire.
Il monastero dovette essere ricco e fiorente già alla morte di Pietro III, nel 1347,
poiché la famiglia giudicale manifestò sempre vivo attaccamento al centro
monastico. Lo stesso Mariano IV se ne occupò in prima persona quando impose
«perentoriamente» il canto liturgico alle clarisse, possedendo egli stesso una
spiccata sensibilità musicale513. Un documento emanato da Mariano IV d’Arborea,
datato 19 aprile 1368, dimostra che il monastero di S. Chiara era dotato, oltre che
di manuali come il codice, anche di libri per l’Ufficio e la Messa, ovvero
Antifonari e Graduali francescani e probabilmente di qualche trattato teorico per
l’educazione al canto delle novizie. In esso si raccomandava che le suore più
anziane seguissero e istruissero le più giovani sia nel canto che
nell’apprendimento di una formazione scolastica di base. Dunque un monastero in
linea con quanto seguito, stabilito e praticato nei conventi femminili della
penisola. La strada dell’istruzione era percorribile solamente se coincideva con
l’ingresso in monastero. Qualunque fosse l’estrazione sociale delle giovani sarde,
la via del chiostro era l’unica che prometteva un’educazione e un’istruzione, se
pure “elementare”.
2 – Ego Maximilla abatissa de Sanctu Petru de Silki……512 L. D’Arienzo, Introduzione al volume di G. Mele, Un manoscritto arborense…cit., pp. 8-9.513 G. Mele, Un manoscritto arborense…cit., pp. 34-35.
137
Il Condaghe di San Pietro di Silki514 è l’unico condaghe, tra quelli che ci sono
rimasti, proveniente da un monastero femminile. Le figure rappresentate in esso
cariche di maggiore forza evocativa ma soprattutto rappresentativa, sono le
badesse che si presentano come personaggi autoritari e forti, che in prima persona
vendono, comprano, creano kertus, ossia litigano, e conseguentemente citano o
vengono citati in giudizio dinnanzi alla “corona”, segnano i confini dei territori
donati e gestiscono con mano ferma gli immensi patrimoni del monastero, quasi
come le donne manager dei nostri giorni. Tra le varie abbadesse si ricordano
Massimilla, Maria, Theodora, Ispethiosa, Prethiosa, Agnesa, Benvenuta, Jena e
Susanna, ma tra tutte emerge prepotente la personalità e il carattere di
Massimilla515.
Non abbiamo su di lei altri dati anagrafici che ci permettano di risalire alla
famiglia d’origine, che certamente era di maiorales se non giudicale, sappiamo
che amministrò per un lungo periodo il grande patrimonio di San Pietro di Silki,
cui facevano capo oltre quelli di S. Quirico di Sauren e di S. Maria di
Codrongianus, anche quelli di S. Giulia di Kitarone e delle case di Teclata e di
Olmedo516 . Attraverso la data del rinnovamento del Condaghe di San Pietro,
possiamo ipotizzare una collocazione temporale più precisa per la figura della
badessa, tra una data anteriore al 1153 che è l’anno della morte di Gunnari II e
l’inizio del nuovo condaghe nel 1180, anno in cui Gosantine II era stato associato
al trono dal padre.
514 Condaghe di San Pietro di Silki, a cura di Bonazzi, Sassari 1990; Sull’argomento di può vedere ancora: La civiltà giudicale in Sardegna nei secoli XI-XIII, fonti e documenti scritti, Atti del Convegno Nazionale, a cura dell’Associazione “Condaghe S. Pietro in Silki”, Sassari 2001.515 V. Camboni, La donna e la giustizia nella Sardegna giudicale, in “Donne e Potere”..cit., pp. 10-11.516 Il Condaghe di San Pietro di Silki, a cura di I. Delogu, Dessì, Sassari 1997, p. 19.
138
Figura 17. Condaghe del monastero di San Pietro di Silki.
Massimilla resse le sorti del monastero per più di un trentennio, amministrò con
piglio sicuro e da geloso difensore degli interessi del suo monastero; viene
descritta dal Delogu come una donna dalla natura «volitiva, ma anche umbratile
ed emotiva, sensibile alle manifestazioni di rispetto e aperta anche ai moti di
generosità»517. Dalle parole da lei scritte nelle schede del condaghe: «EGO
MAXIMILLA ABBATISSA dessu monasteriu de scu. Petru de Silki, Ki ponio in
ecustu condake pro onnia canke parai in sa domo, aue conke uenni ad esserinke
donna, et ad ‘uer sa domo in manu mea»518, si evince un utilizzo della scrittura
consapevole: e di se stessa e della funzione sociale che poteva avere il saperla
usare. Ed è indubbiamente un motivo di orgoglio che le donne della terra di
Sardegna, vissute nel Medioevo, abbiano potuto con le loro parole e note scritte,
seppur scarne e brevi, informarci su se stesse e su altre donne e uomini,
diversamente da ciò che il grande medievista francese George Duby ha affermato
a proposito del resto d’Europa: «Questo medioevo decisamente è maschio. Infatti
tutti i discorsi che vengono ad informarmi sono discorsi tenuti da uomini, convinti
della superiorità del loro sesso»519. Peccato che Duby non abbia avuto modo di
conoscere queste donne della Sardegna giudicale, né di poterle ascoltare attraverso
le parole che loro stesse hanno usato e gli argomenti di cui hanno parlato,
517 Ibidem, p. 20.518 Condaghe di San Pietro di Silki, a cura di G. Bonazzi, Sassari 1990, scheda n. 139.519 G. Duby, Medio Evo maschio, cit., p. VII.
139
raccontando vite e volti di persone che il tempo ci ha portato via, ma che le parole
di Massimilla hanno fermato sulla carta, permettendoci di arricchire la nostra
memoria su un passato travagliato e al contempo carico di immagini, come piccoli
lampi di luce nell’oscurità delle fonti, che ci regalano inaspettate emozioni e
l’impressione di averle conosciute tutte queste donne e di aver vissuto un po’ in
tutte e di riconoscersi nelle loro paure, nelle loro speranze, nei loro desideri, nelle
loro gioie e nei loro dolori improvvisamente il tempo che ci separa da loro, si
annulla.
Conclusioni.
Non si è lontani dalla verità nel dire che il presente lavoro è cresciuto nel tempo,
ogni giorno una nuova scoperta, una nuova emozione, un nuovo desiderio di
approfondire argomenti sempre più intriganti e appassionanti, ed è così che si è
arrivati a toccare tutte le tematiche che ci si era proposti in apertura e a
raggiungere in maniera più o meno degna tutti gli obiettivi. Dall’analisi svolta
sugli aspetti culturali dell’area mediterranea e sarda si possono avanzare le
140
seguenti considerazioni. La chiusura e l’arretratezza entro le quali la Sardegna è
sempre stata imprigionata, a dir di molti (che non conoscono la storia) e che ci
avrebbe sempre caratterizzato, in qualunque secolo, è, in realtà, solo un bluff che
spesso ci ha impedito di conoscere, studiare e capire i tanti perché e per come
della nostra storia. La realtà storica, per quanto riguarda il medioevo, seppure
parte integrante di una realtà sociale pienamente medioevale, ci rivela una realtà
diversa rispetto alle tante “leggende metropolitane”che pesano sul nostro passato;
una realtà comunque dinamica, seppur povera in certi ambienti e contesti, dove
l’individuo aveva un valore umano prima che sociale e dove le donne potevano
godere, seppure in minima misura, di uno spazio di libertà e di considerazione
leggermente migliore rispetto alle donne di altre realtà. Le donne sarde dei secoli
XII-XIV non erano l’ultima ruota del carro, ed anzi godevano di diritti che non
avevano altrove nel Mediterraneo, come quelli sui patrimoni, sanciti dalla Carta
de Logu o registrati nei Condaghi di cui si è a lungo parlato. E come domina,
aveva poteri che le donne delle casate fiorentine non avevano, laddove su tutti gli
aspetti della casa, comunque vigilava e comandava l’uomo.
In questo mondo, fatto precipuamente di uomini, lo spazio spettante alle donne era
rigorosamente circoscritto alla casa e alla cura della famiglia, in cui l’istruzione di
una donna laica che non fosse rivolta all’acquisizione di capacità domestiche, non
era contemplata. Ma è piacevole rilevare che, nonostante l’oscurantismo e talvolta
la misoginia che ha contraddistinto la vita delle donne, alcune di loro sono
riuscite, grazie alla forza e alla volontà, a raggiungere risultati di parità con gli
uomini, talvolta anche più pregevoli.
È piacevole, ogni tanto, poter sfatare, attraverso la ricerca storica, l’ignoranza e
portare un piccolo contributo alla storia delle donne in un periodo, quale è il
Medioevo, tanto complesso, ricco di fermenti di novità ma ancora soggetto a
modelli del passato che, si acutizzano in certe culture, dimostrandosi in contro
tendenza rispetto ad ambiti di tipo sociale, economico e culturale in genere; come
accadde in Toscana, così evoluta dal punto di vista economico e culturale ma
quasi arcaica nel modo di porsi nei confronti delle donne.
Quando si inizia una ricerca, si sa da dove si parte ma non si sa dove si arriverà. È
questo il bello!
141
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