Storia di un'industria di Stato. La siderurgia italiana: 1945-1980

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Introduzione Partendo dalla situazione post-bellica italiana nel campo industriale, più specificatamente nel settore siderurgico, il saggio si pone il compito di analizzare, attraverso le diverse politiche economico-industriali e le vicissitudini accumulatesi nel corso del tempo, come questo settore industriale sia diventato uno dei perni dell’economia di Stato che è direttamente produttore di acciaio e, di come la società detentrice della gestione della produzione, la Finsider, riesca a portare l’Italia in una situazione quasi alla pari con il mercato siderurgico mondiale, fino a sprofondare negli anni ’70, in una spirale disastrosa che ha portato sino alla messa in vendita delle partecipazioni statali. I temi che si vogliono approfondire riguardano il dibattito sul rilancio del ciclo integrale e il passaggio ad una nuova impostazione tecnico-scientifica del lavoro. Queste tematiche saranno descritte attraverso un’ analisi degli sforzi del governo e dei suoi tecnocrati di svincolarsi dalle oscillazioni del mercato cercando di ridurre le importazioni di scarti e di semi- lavorati e di concentrare la maggior parte della filiera produttiva in pochi centri siderurgici scelti in modo strategico. Si vogliono inoltre affrontare le tematiche attorno allo scontro tra le posizioni pre-fordiste della famiglia Falk e quelle fordiste del gruppo Finsider impersonate da Oscar Sinigallia. Idee che andranno, nel 1952, a formare le basi del famoso “Piano Sinigallia”. Si passerà poi ad esaminare il Piano Finsider, focalizzando l’attenzione sul progetto di Cornigliano, passando 1

Transcript of Storia di un'industria di Stato. La siderurgia italiana: 1945-1980

Introduzione

Partendo dalla situazione post-bellica italiana nel campo

industriale, più specificatamente nel settore siderurgico, il

saggio si pone il compito di analizzare, attraverso le diverse

politiche economico-industriali e le vicissitudini accumulatesi

nel corso del tempo, come questo settore industriale sia diventato

uno dei perni dell’economia di Stato che è direttamente produttore

di acciaio e, di come la società detentrice della gestione della

produzione, la Finsider, riesca a portare l’Italia in una

situazione quasi alla pari con il mercato siderurgico mondiale,

fino a sprofondare negli anni ’70, in una spirale disastrosa che

ha portato sino alla messa in vendita delle partecipazioni

statali.

I temi che si vogliono approfondire riguardano il dibattito sul

rilancio del ciclo integrale e il passaggio ad una nuova

impostazione tecnico-scientifica del lavoro. Queste tematiche

saranno descritte attraverso un’ analisi degli sforzi del governo

e dei suoi tecnocrati di svincolarsi dalle oscillazioni del

mercato cercando di ridurre le importazioni di scarti e di semi-

lavorati e di concentrare la maggior parte della filiera

produttiva in pochi centri siderurgici scelti in modo strategico.

Si vogliono inoltre affrontare le tematiche attorno allo scontro

tra le posizioni pre-fordiste della famiglia Falk e quelle

fordiste del gruppo Finsider impersonate da Oscar Sinigallia. Idee

che andranno, nel 1952, a formare le basi del famoso “Piano

Sinigallia”. Si passerà poi ad esaminare il Piano Finsider,

focalizzando l’attenzione sul progetto di Cornigliano, passando

1

prima però dall’analisi del ruolo svolto dagli Stati Uniti

nell’indirizzare le politiche siderurgiche italiane secondo uno

schema “americano”, attraverso un approfondimento prima sui metodi

di erogazione dei fondi Erp in Italia, poi sull’introduzione,

prima solo nel centro di Cornigliano, poi a tutti i centri Ilva-

Italsider, delle politiche di Job Analysis e Job Evalutation.

Il saggio vuole poi esaminare la situazione siderurgica europea

del dopoguerra, soprattutto il quadro franco-tedesco, dal quale

scaturirà il Piano Schuman che darà vita alla CECA; si cercherà

quindi di tratteggiare innanzi tutto le fasi che portarono alla

nascita dei primi trattati di cooperazione continentale e in

seguito alla CECA, per poi delineare la situazione italiana

all’interno dello scacchiere europeo e le circostanze che l’hanno

portata all’ingresso nella Comunità Europea del Carbone e

dell’Acciaio, nonostante il suo ruolo ancora marginale nella

siderurgia continentale.

L’analisi continua tornando a focalizzarsi sulle le vicissitudini

della siderurgia in Italia, con particolare attenzione al

Mezzogiorno, che diviene il nuovo centro ove si vuole far

sviluppare l’industria dell’acciaio, dato che era diventato ormai

palese che, per soddisfare i consumi futuri, le capacità

produttive realizzate col Piano Sinigallia non sarebbero bastate.

Si analizzeranno quindi i temi dello Schema Vannoni per il

rilancio economico del Mezzogiorno assieme ai punti del nuovo

piano siderurgico ideato da Marchesi e i suoi punti in comune e le

sue divergenze con il Piano Sinigallia; si approfondirà in seguito

il dibattito che vedrà protagonisti molti industriali e politici

2

italiani riguardo al luogo e alle modalità di apertura e

produzione del IV centro siderurgico del paese.

Infine il saggio si pone il compito di capire la nascita degli

errori dell’ultimo periodo di gestione della produzione

siderurgica di Stato che ha portato fino alla scorporazione

dell’Iri e alla vendita ai privati delle partecipazioni statali.

Errori individuati per lo più nell’abbandono delle linee guida di

Sinigallia e Marchesi e nell’appropriazione di un nuovo modello

sia gestionale che produttivo degli impianti di marca giapponese e

non più americana, modello che non è riuscito a mettere radici nel

tessuto industriale italiano che ripose, dagli anni ’70 in poi

quasi tutte le sue speranze nel solo stabilimento tarantino.

3

1. Ricostruire gli impianti

1.1 Ricostruzione dell’industria siderurgica italiana nel

dopoguerra

La fine della seconda guerra mondiale, contro gli alleati, per il

Regno d’Italia avvenne l’8 settembre del 1943, ma la guerra nel

paese continuò per altri due anni. Il primo Maggio 1945, con la

resa delle truppe tedesche in Italia, la campagna d’Italia poté

definirsi conclusa. Il conflitto trasformerà l’Europa in un

continente esausto che da quel momento non sarebbe più stato il

centro economico, politico e culturale del mondo. L’Europa dovette

cedere il suo scettro alle due nuove superpotenze mondiali, gli

Usa e l’Urss. Così nel Luglio 1944 si tenne la conferenza di

Bretton Woods preposta a stabilire il nuovo modello di

regolamentazione degli scambi internazionali. L’accordo previde il

superamento del vecchio sistema definito gold standard per il nuovo

gold exchange standard che stabiliva la convertibilità del dollaro in

oro e l’assunzione dello stesso dollaro ad unità di scambio e di

riserva; vennero inoltre istituiti il Fondo Monetario

Internazionale per vigilare sugli scambi e la Banca Mondiale per

aiutare lo sviluppo dopo la guerra. <<A tale quadro di

regolazione, che sanciva la piena supremazia americana sugli

scambi internazionali, si opponeva un Europa in cui sia i4

vincitori che i vinti si presentavano esauriti dal punto di vista

economico e in profonda crisi istituzionale, dovendo, gli uni e

gli altri, provvedere a una radicale trasformazione della propria

struttura di regolazione economica. Gli sconfitti dovevano

abbandonare il protezionismo e la soverchiante presenza dello

Stato in economia […]. I vincitori-[…]- dovevano fare i conti con

la fine del colonialismo che aveva rappresentato la proiezione

globale della loro economia e della loro potenza politica.1>>

Il conflitto comportò naturalmente anche in Italia un grande vuoto

politico dovuto alla caduta delle istituzioni che avevano

governato per circa vent’anni. I danni invece non intaccavano

molto un apparato produttivo che si presentava in condizioni non

del tutto disastrose, nonostante la caduta del PIL dal 1938 al

1945 si assestasse attorno ai 45 miliardi. Il settore che

manifestava la situazione peggiore fu senz’altro quello agricolo

che vide buona parte del patrimonio arboreo e zootecnico andare

perduto e il ridursi, di circa il 50%, della produzione

cerealicola in confronto alla produzione prebellica2. Le attività

industriali erano invece quasi del tutto paralizzate, con una

produzione ridottasi nel 1945 a meno di un quarto del volume di

produzione del 1938-39. Non tutti i comparti naturalmente subirono

la stessa quantità di danni. Il settore industriale secondo il

rapporto CIR (Compagnie Industriali Riunite) ha riportato stime di danni

pari a circa 450 miliardi, con il settore siderurgico in testa che

registrò una diminuzione del 34% nella produzione dell’acciaio e

1 Bianchi P, La rincorsa frenata. L’industria italiana dall’unità nazionale all’unificazione europea, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 802 Amatori F., Colli A., Impresa e Industria in Italia. Dall’Unità ad oggi, Venezia, Marsilio Editori, 1999, p. 193

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del 67% di ghisa3. A subire i danni maggiori furono soprattutto i

centri a ciclo integrale dell’Ilva sul Tirreno, oltre all’impianto

di Cornigliano che venne privato dai tedeschi, durante la

ritirata, degli impianti migliori. L’industria siderurgica

italiana aveva toccato il suo picco produttivo nel 1938.

1.2 Dibattito sul rilancio del ciclo integrale e i primi

accordi transoceanici

Nonostante questo un forte dibattito critico impegnava i massimi

dirigenti della siderurgia sia di Stato che privata, anche prima

che la guerra, come visto, ne riducesse drasticamente le capacità

produttive. Il giudizio pressoché negativo fornito da Sinigallia

sulla siderurgia già negli anni Venti, sembrava ampliamente

condiviso, sia per i prezzi troppo elevati sia per la cattiva

qualità dei prodotti. A sostegno di questa valutazione si

aggiunsero nel dopoguerra anche i maggiori esponenti

dell’industria meccanica per la quale la siderurgia è situata a

monte del sistema produttivo, lamentandosi proprio della scarsa

qualità dei prodotti. Solo gli imprenditori siderurgici privati

difendevano la siderurgia per com’era, sottolineando l’alta

percentuale di acciai non comuni prodotti in Italia e negando che

la protezione doganale potesse avere conseguenze significative per

l’industria meccanica.

Queste posizioni antitetiche non facilitarono di certo la ripresa,

ma ci mostrano come le idee di Sinigallia, posto a capo della

3 Bianchi P., La rincorsa frenata. L’industria italiana dall’unità nazionale all’unificazione europea, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 55

6

Finsider nel 1945, fossero di derivazione fordista e roosveltiana.

Egli puntava cioè sulle grandi dimensioni degli stabilimenti e

sulla produzione di ampi lotti standardizzati per ottenere bassi

costi4 e riteneva che l’impresa pubblica si dovesse sostituire a

un’industria ormai incapace di impegnarsi in investimenti per lo

sviluppo dei settori di base. Quando la Finsider al termine del

conflitto inizia le operazioni di riassestamento e

riammodernamento della siderurgia di Stato individua le cause

dell’inferiorità italiana <<nell’esuberanza delle attrezzature

unita a un’inadeguata potenzialità delle singole entità

produttive, nell’eccessivo frazionamento delle fabbriche e

mancanza di specializzazione, nella cattiva organizzazione

dell’ambito commerciale […] nella prevalenza data in Italia al

processo di fabbricazione del rottame, anzi che dal minerale >>5.

Si volle seguire l’esempio dell’Armco (American Rolling Mill Corporation)

che per la Finsider divenne un vero e proprio modello d’azienda

offrendo ai suoi manager la possibilità di aggiornamento sia

tecnologico che metodologico. Racconta Osti <<Il fatto di aver

concluso quegli accordi con la Armco fu per noi molto importante.

Il primo accordo che facemmo fu di prenderli come consulenti per

il piano Marshall e questo, indubbiamente, fu decisivo per fa si

che ottenessimo i prestiti>> e continua ancora <<Con l’Armco

vennero stipulati accordi di consulenza un po’ con tutte le

società della Finsider, ma all’inizio il rapporto più stretto fu

senza dubbio con la Cornigliano. Io [Osti] andavo a Middeltown,

4 Balconi M, La siderurgia italiana. (1935-1990). Tra controllo pubblico e incentivi del mercato, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 815 Amatori F, La storia d’impresa come professione, Venezia, Marsilio Editore, 2008, p. 199

7

Ohio, due volte all’anno. Conoscevo tutti i dirigenti>>6. Venne

abbandonato così il “modello tedesco” per quello “americano”; il

motivo principale, oltre all’organizzazione aziendale di tipo

verticistico e la produzione organizzata in conglomerati, fu il

fatto che proprio il controllo dei conglomerati era detenuto dalle

banche miste producendo così una rete di mercato governata da

pochi cartelli, lasciando pochissimo spazio all’azione

concorrenziale che i dirigenti Finsider volevano svolgere nei

confronti dei produttori privati. Il ciclo integrale era quindi

necessario sia per ottenere economie di scala sulle quali agire

sia per ottenere i bassi costi che avrebbero costituito il punto

di forza della siderurgia italiana.

L’industria privata era “capeggiata” dalla famiglia Falk,

portatrice però di idee pre-fordiste e convinta che l’industria

meccanica nazionale non si sarebbe potuta sviluppare come

consumatrice di prodotti di massa e che non ci fosse quindi spazio

per una siderurgia a ciclo integrale. La proposta era di tipo

misto, comprendeva cioè sia la ricostruzione che il

riammodernamento di determinati impianti e si chiedeva però

contemporaneamente un mantenimento delle barriere doganali per

proteggere i prodotti italiani, si prevedevano produzioni di

150.00-300.000 tonnellate annue. <<Basterebbero otto o dieci di

questi stabilimenti disseminati nelle zone più opportune dal punto

di vista energia, trasporto e mercato, per soddisfare i bisogni

italiani>>7 o ancora << L’industria siderurgica italiana dovrebbe

essere un’industria complementare, indispensabile per i bisogni6 Osti G. L., in Ranieri R., L’industria di stato dall’ascesa al degrado. Trent’anni nel gruppo Finsider. Conversazioni con Ruggiero Ranieri, Bologna, Il Mulino, 1993, p 57 Falk G., in Balconi M., La siderurgia italiana (1945-1990). Tra controllo pubblico e incentivi del mercato, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 85

8

più minuti della Nazione, lasciando che i grandi acquisti della

produzione di massa, come rotaie ecc., possano venire dall’estero.

Se l’Italia fosse un paese a mire imperialistiche, come prima,

capirei la necessità di una grande siderurgia >>8 affermava

Giovanni Falk interrogato nel corso dell’inchiesta del Ministero

per la Costituente. L’industria siderurgica privata chiedeva anche

un ammodernamento e una ristrutturazione degli impianti esistenti

e il mantenimento delle barriere doganali per salvaguardare i

livelli di occupazione; sarebbe stato compito poi dell’Istituto

della temporanea importazione aggirare i dazi per non svantaggiare

i prodotti italiani. Al contrario, i dirigenti Finsider ritenevano

indispensabile il rilancio del ciclo integrale per ottenere quelle

economie di scala sulle quali operare e i bassi costi dei

lavorati. L’importazione delle materie prime inoltre non sembrava

essere un problema, perché avendo dovuto importare tutto il

materiale, l’Italia sarebbe stata in condizione di scegliere i

minerali e il carbone di qualità migliore. Questa preoccupazione

da parte della Finsider era già forte prima del conflitto perché

ci si accorse che con l’introduzione dei nuovi altiforni Martin,

in sostituzione dei vecchi Thomas, non sarebbe stato più

economicamente vantaggioso l’uso del rottame.9 Quindi la strategia

Finsider si basava sul minore costo dei materiali e i più alti

ricavi ottenibili dai sottoprodotti (che in Italia avrebbero avuto

un costo più elevato rispetto alla media europea, poiché si

trattava di prodotti importati) che avrebbero dovuto compensare il

costo elevato delle materie prime importate.

8 Falk G., in Amatori F., Colli A., Impresa e industria in Italia. Dall’Unità ad oggi, Venezia, Marsilio Editore, 1999, p.2009 Amatori F, La storia d’impresa come professione, Venezia, Marsilio Editore, 2008, p. 145

9

1.3 Gli accordi tra Finsider e Fiat e procedura

d’erogazione dei fondi Erp

L’obbiettivo della ristrutturazione del sistema siderurgico non

puntava al rilancio sul mercato internazionale solo dei prodotti

della siderurgia ma anche dell’industria meccanica. In questo modo

anch’essa venne posta nella condizione di beneficiare

dell’ammodernamento degli impianti, dandole la possibilità di

entrare a far parte di un sistema produttivo di massa, impossibile

da sviluppare su un mercato ristretto come quello italiano10. Lo

stesso Sinigallia sostenne che la caduta del concorrente tedesco e

il basso costo della manodopera aprivano grandi prospettive per

l’industria italiana, in particolare il settore meccanico che

aveva per Sinigallia possibilità di esportazione sconfinate.

<<Occorre però che le industrie italiane sappiano riorganizzarsi

razionalmente, in modo da ridurre i loro costi di fabbricazione a

quelli che sono indispensabili per concorrere sul mercato

internazionale. È necessario inoltre potenziare e ammodernare

l’industria siderurgica, quale base essenziale, indispensabile per

l’industria meccanica, mettendola in grado di produrre acciai e

laminati agli stessi costi degli altri più importanti paesi

industriali.11>>

10 Balconi M., La siderurgia italiana (1945-1990). Tra controllo pubblico e incentivi del mercato, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 9511 Catronovo V., L’Industria italiana dall’800 a oggi, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1980, p. 270

10

Fu la Fiat il settore meccanico più attivo, che con Valletta capì

subito che si doveva adeguare ai modelli e al mercato americano,

l’unico che offriva tecnologia, mezzi finanziari, possibilità di

accordi a lungo termine. In questo periodo infatti vennero riprese

una serie di iniziative e di accordi in merito alla produzione in

serie. Inoltre tra le due guerre le capacità della Fiat si erano

allargate in modo notevole e avevano posto l’azienda di fronte

alla necessità di incrementare il rifornimento di lamiere. Tutti

questi fattori diedero vita agli accordi siglati nel 1948 tra Fiat

e Finsider. L’accordo più importante impegnava la Fiat ad

acquistare una quota di laminati prodotti nello stabilimento di

Cornigliano, pari al 50% delle prime 200.000 tonnellate di

produzione; la Finsider dal canto suo si impegnava a fornire alla

Fiat i coils a prezzi di produzione. Con questi accordi la Fiat

diede l’opportunità di raggiungere e mantenere il livello minimo

critico di efficienza e ne ricavava in cambio una fornitura a

prezzi più bassi di quelli di mercato.12 Questi accordi vennero

siglati anche nell’ottica di poterli sfruttare come accreditamento

nei confronti dell’Eca ( Economic Cooperation Administration ), per

ottenere i fondi dell’Erp (European Recovering Program) o più

comunemente conosciuto come Piano Marshall, utili alla

ricostruzione di Cornigliano, progetto principale nell’idea di

ammodernamento della siderurgia italiana dei dirigenti Finsider.

Il comitato esecutivo del piano Marshall era formato da uomini

d’affari come il presidente della “General Eletric” Philip Reed,

il finanziere Bernard Baruch, il presidente della “Studebaker

Motocar” Paul G. Hoffman, che spingevano verso un’esportazione

12 Ranieri R., L’industria di stato dall’ascesa al degrado. Trent’anni nel gruppo Finsider. Conversazioni con Ruggiero Ranieri, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 34

11

duratura del modello americano in Europa che consisteva in:

forniture di macchinari e materie prime e in concessione di

prestiti a tassi ridotti per l’acquisto di impianti che avrebbero

avuto come conseguenza un integrazione dei mercati, una produzione

di massa, la standardizzazione, un organizzazione scientifica del

lavoro ed alti salari. Amatori e Colli sottolineano come però ci

fosse bisogno da parte americana di una “rieducazione industriale”

dell’Europa. Infatti fu data molta importanza al grand tour in Usa

sia da parte degli imprenditori che dei tecnici e degli operai.

L’Erp si divideva su tre livelli decisionali: a Washington vi era

l’ECA deputata a prendere le decisioni finali. Le domande

nazionali invece dovevano essere presentate all’OECE

(Organizzazione economica di cooperazione europea ) a Parigi13. Il Piano si

fondava sui criteri di “self help” e di “mutual aid”; <<l’obbiettivo

era stimolare attraverso il Piano Marshall la cooperazione

economica tra gli europei occidentali, premessa fondamentale per

la creazione di un sistema economico euro-americano basato sul “free

trade”.14>>L’Italia redasse così il suo <<Programma di investimenti

nel settore industriale per il periodo 1948-52>>, inserito nel

<<Memoriale italiano per il programma a lunga scadenza>> che il

governo italiano presentò all’OECE per ottenere i fondi ERP. Il

programma prevedeva un investimento del 20% dei fondi disponibili

nel solo settore metallurgico; furono stanziati 252 milioni di

dollari su un totale di 980 milioni, di cui 199 per il solo

settore siderurgico; fondi che avrebbero portato ad un aumento

13 Amatori F., Colli A., Impresa e Industria in Italia. Dall’Unità ad oggi, Venezia, Marsilio Editore, 1999, p 22214 Varsori A., Le origini dell’Europa comunitaria nel contesto internazionale, in AA.VV, (a cura di), La comunità europea del carbone e dell’acciaio(1952-2002), Padova, Cedam, 2004, p. 47

12

occupazionale solo dell’1% tra il 1952-53 rispetto al periodo

anteguerra15.

A livello internazionale questo stanziamento provocò grosse

polemiche. Sia l’Eca che l’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite) si

chiedevano se fosse giustificata una cifra tale dato che non

portava alcun contributo all’aumento effettivo dell’occupazione e

l’appoggio americano risultava indispensabile per l’attuazione del

piano. Particolarmente refrattari furono anche i delegati

francesi, che si spinsero sino alla richiesta di negare al

rappresentante italiano il diritto di entrare a far parte a pieno

titolo del Comitato Acciaio. Anche all’interno del paese vi erano

voci contrarie, soprattutto diverse fazioni all’interno dei

sindacati e dei partiti di sinistra che contestavano gli eccessivi

costi sociali del piano e il <<processo di concentrazione

monopolistica voluto dalla Finsider>> che si prefigurava anche

grazie alla spartizione dei fondi Erp proprio tra la Finsider, i

Falk e la Fiat, quest’ultima ritenuta unica beneficiaria del piano

che le dava il vantaggio di non doversi rifornire dal mercato di

prodotti siderurgici. Anche gli industriali privati, capeggiati

ancora dalla famiglia Falk, erano reticenti verso il progetto

proposto dalla Finsider, non si credeva infatti che la produzione

siderurgica italiana potesse superare 2 milioni e mezzo di

tonnellate annue e si credeva che una tale spartizione dei fondi

avrebbe portato ad una fuoriuscita dal mercato internazionale dei

prodotti dell’industria privata. A livello nazionale comunque,

secondo Valerio Castronovo, le reticenze mostrate dall’industria

privata risultarono vane perché <<l’industria pubblica svolse

15 Dati ECA in, Balconi M., La siderurgia italiana (1945-1990). Tra controllo pubblico e incentivi del mercato, Bologna, Il Mulino, 1991, p 88

13

un’opera determinante di sostegno e di integrazione allo sviluppo

dell’industria privata. Alleviata dai rischi e dai pesanti impegni

tecnici e finanziai di lungo periodo, connessi alla realizzazione

di infrastrutture e di economie esterne essenziali per

l’incremento della produttività generale del sistema economico, e

avvantaggiata, nello stesso tempo, dalle condizioni favorevoli

assicurate dagli investimenti della mano pubblica nei settori di

base e nei beni capitali, l’industria privata poté ingranare una

marcia più alta che in passato e orientare con maggior sicurezza i

suoi programmi, sia in termini strutturali che in termini di

redditività.16>>

Grazie alla titolarità dell’ordine Fiat, la Finsider ebbe un’arma

in più da far valere nei confronti dell’Eca. Era comunque

difficile, ricorda Ranieri ricostruendo l’intervista ad Osti, che

le richieste di un paese venissero bocciate a Parigi, perché le

decisioni erano prese in modo unanime e ciò avrebbe dato vita ad

un effetto domino che non avrebbe risparmiato nessuno. Nonostante

questo vi erano molte riserve nei confronti del piano italiano.

Oltre alle riserve europee bisognava far fronte a quelle oltre

oceano; a Washington vi era infatti il livello superiore della

rappresentanza dell’Eca. Fu qui che la Finsider cercò di fare più

pressioni data l’immagine negativa dell’ente in USA, in quanto si

trattava di un ente statale. Nel Gennaio del 1949 la commissione

dell’Eca a Roma boccia il progetto di Sinigallia.

Il gruppo dirigenziale Finsider riuscì comunque a superare

l’empasse grazie alla “carta Armco-Artur McKee” molto influente in

16 Castronovo V, L’Industria italiana dall’Ottocento a oggi, Milano, Arnolodo Mondadoro Editore S.p.A., 1980, p 291

14

America, soprattutto all’Eca. Gian Lupo Osti ricorda infatti che

<< gli accordi fatti da noi con l’Armco furono molto importanti

per superare le resistenze americane ai nostri progetti, in quanto

loro avevano un notevole peso, specie nell’Amministrazione

repubblicana. Le [Ranieri] faccio l’esempio di George Verity, che

era allora un giovane dirigente – aveva la mia [Osti] stessa età –

di cui divenni amico personale e che poi, in anni molto recenti, è

stato ministro del commercio nell’Amministrazione Regan.[…]. Sia

nell’Eca che nello State Department, l’Armco riusciva a dire la

sua ed era ascoltata. A parte i petrolieri, l’Armco era una delle

poche grandi aziende Usa che avesse sempre avuto una sua presenza

sui mercati internazionali.17>> La corporazione americana così

produsse due rapporti nel 1949 che avvallarono a pieno il piano

Finsider. L’altra arma fu naturalmente l’accordo siglato con la

Fiat che avrebbe dovuto assicurare il finanziamento minimo

richiesto. L’idea di un’espansione verso i consumi di massa fu

l’argomento più convincente per gli USA. Infatti il Country Study

dell’Eca aveva criticato proprio la mancanza di una politica

economica espansiva e i funzionari che avevano steso il rapporto

furono gli stessi che esaminarono i progetti Fiat nel 1949, dando

il via alla concessione dei crediti all’azienda, che portò di

conseguenza all’approvazione in toto del piano Finsider.18

Secondo Franco Amatori e Andrea Colli i governi italiani, le forze

politiche che li sostenevano e anche i manager pubblici non erano

in grado, e non erano neanche nella posizione, di contrastare la

forte influenza americana che diventò sempre più pressante dalla

17 Ranieri R, L’industria di stato dall’ascesa al degrado. Trent’anni nel gruppo Finsider. Conversazioni con Ruggiero Ranieri, Bologna, Il Mulino, 1993, p 14418 Ibidem, p.38

15

fine del secondo conflitto mondiale. Perché gli Stati Uniti

diventarono per l’Italia l’unico “alleato forte” di cui il paese

non poté, col tempo, più fare a meno. <<Al termine del secondo

conflitto mondiale gli Stati Uniti detenevano una posizione di

assoluta supremazia economica potendo vantare una produzione

industriale più che doppia rispetto all’Europa, mentre il valore

commerciale delle esportazioni risultava quintuplicato in

confronto all’anno precedente l’entrata nel conflitto. Era

tuttavia viva nel Governo e in vasti settori della classe

dirigente americana la consapevolezza del fatto che senza una

vigorosa ripresa dell’economia europea sarebbe stata molto

probabile la ricaduta in una devastante crisi da

sovrapproduzione.19>>

Fu per questo che l’Eca nel fornire le direttive all’Italia per la

pianificazione postbellica spinse per l’attuazione di due

possibili strade da intraprendere: una che passava attraverso la

pianificazione dell’organizzazione del “fondo lire”, allo scopo di

rafforzare la riserva valutaria e tenere sotto controllo

l’inflazione; l’altra strada invece prevedeva l’attuazione di una

manovra keynesiana di sostegno alla domanda attraverso un

impegnativo programma di investimenti pubblici. E fu intrapresa,

come visto, la strada che passava attraverso la manovra

keynesiana. Anche la Finsider dovette passare attraverso questo

passaggio obbligato che però le permise col tempo di attuare la

maggior parte dei punti cardine presenti nelle idee di Sinigallia

dando così vita <<al modello fondato sulle grandi dimensioni,

sulla fluidità del ciclo produttivo, sul completo monitoraggio

19 Amatori F. Colli A., Impresa e Industria in Italia. Dall’Unità a oggi, Venezia, Marsilio Editori, 1999,p. 221

16

della fabbrica. Per concretizzarne le potenzialità non bastava

disporre di costosissimi macchinari, occorreva apprendere nuove

tecniche organizzative e metodi di controllo […].20>> e fu proprio

così che si fece almeno alla Finsider e alla Fiat perché in linea

generale Amatori e Colli notano come <<la fragilità della

situazione economica e la disomogeneità delle forze politiche che

guidano il paese nel dopoguerra fanno sì che in Italia non venga

realizzata un’ampia strategia di piano, neanche su sollecitazione

dell’ “alleato forte”. Il massimo che il Governo riesce ad attuare

è una politica deflattiva che rafforza il sistema economico in

vista di una ripresa della competizione internazionale e che crea

le condizioni per una stabilità sociale maggiore rispetto

all’accidentato percorso postbellico. Tuttavia le imprese

interessate a cogliere le opportunità dell’americanizzazione

seppero perseguire un loro disegno anche all’esterno del Paese

quale appare dai contatti di Valletta negli Stati Uniti e

soprattutto dall’azione della Finsider che nell’intricata vicenda

ora descritta mostra le capacità di muoversi come una potente

lobby. E l’appoggio di De Gasperi a Sinigallia in frangenti

decisivi rivela che il Governo pur non disponendo di un’organica

visione industriale seppe riconoscere i reali interessi della

nazione.21>>

TAB. 1. Programma di investimenti nel settore industriale nel periodo 1948-195222

Investiment Aumento Produzione Capitale

20 Ibidem, p. 22721 Ibidem, p. 22722 Balconi M., La siderurgia italiana (1945-1990). Tra controllo pubblico e incentivi del mercato, Bologna, Il Mulino, 1991

17

i

1948-52(1)

dell’occupa

zione nel

1952-53

rispetto al

periodo

prebellico(2)

ipotizzata

al 1952-53

(1938=100)

investito

per addetto

nel 1939(3)

Industrie

manifatturiere

e minerarie:

Meccanica 233 125 150 1880

Metallurgic

a

252(4) 1 130 4750

Tessile 226 47 125 1690

Alimentare 38 22 108 1860

Chimica 67 28 140 6750(5)

Estrattiva 37 20 125 3410

Materiali

da

costruzione

20 40 153 2040

Varie 109 75 120-30 4590

Totale 982 358 - 2230 (1)Dati in milioni di dollari 1948; (2) Migliaia di unità; (3) In dollari 1948; (4) Di cui 199 per la sola siderurgia;(5)Compresa

la raffinazione del petrolio

Fonte: ECA [1949].

18

TAB. 2. Occupazioni del gruppo Finsider in siderurgia ( 000 unità ) e andamento della produttività (

t/addetto ) 1945-4723

1945 1954 1955 1956 1957

Occupanti 45,2 42,4 43,9 46,1 48,5

Produttività(1) 22,9(2) 47,8 62,1 63,7 71,6 (1)Rapporto tra la produzione di acciaio e gli occupanti in siderurgia; (2)Valore corretto per l’anno 1945, nel quale la

produzione fu bassissima a causa dei danni bellici, considerando al numeratore il valore della produzione del 1938,

massimo prebellico

Fonte: Finsider, Relazione annuale, Anni vari.

23 Ibidem, p 9719

TAB. 3. Domande presti ERP approvate dall’IMI-ERP (al 30 giugno 1949, $/000)24

Settori N. Domande Importo % Totale

Siderurgico 12 41089 26,27%

Meccanico 42 28284 18,08%

Petrolifero 5 20000 12,79%

Elettrico 4 17400 11,12%

Chimico 8 10660 6,82%

Tessile 37 10394,8 6,65%

Aeronautico 2 9000 5,75%

Elettromeccanic

o

25 5372 3,43%

Minerario 10 3444 2,2%

Carta 8 3034 1,94%

Telecomunicazio

ni

8 2045 1,31%

Editoriale 27 1739,5 1,11%

Gomma 3 1320 0,84%

Calce e Cemento 2 890 0,57%

Ceramica e

Vetro

5 675 0,43%

Metalmeccanico 1 650 0,42%

24 Amatori F. Colli A., Impresa e Industria in Italia. Dall’Unità a oggi, Venezia, Marsilio Editori, 1999,p. 229

20

Varie 5 307 0,2%

Alimentare 1 90 0,06%

Pelli-Cuoio 1 12 0,01%

Navale - - -

Totale 206 156406,3 100,00%Fonte:CIR-ERP, Relazione

2. Piano Sinigallia e nuovi modelli industriali

2.1 Il Piano Sinigallia e la ricostruzione di Cornigliano

Grazie ai fondi erogati si poté dare il via al <<Piano di

Ricostruzione e di Razionalizzazione degli stabilimenti

siderurgici della Finsider>> o più comunemente <<Piano

Sinigallia>>. L’idea alla base del piano era rifornire l’Italia di

prodotti e semilavorati necessari a costi competitivi sul mercato

internazionale, prodotti in pochi centri strategici situati per li

più sulle coste del paese; non si pensò mai, come ricorda anche

Osti, a un piano per l’esportazione <<D’altra parte sarebbe stato

ridicolo pensare di affermarci sul campo delle esportazioni con

21

prodotti che restano, in molti casi, dei semilavorati. […] d’altra

parte bisogna anche dire che gli americani, nelle discussioni del

piano Marshall, non avrebbero accettato un’impostazione che

prevedesse larghe esportazioni.>>25

Punto focale del piano fu il rifacimento di Cornigliano

smantellato dai tedeschi durante la ritirata, che sarebbe stato

riorganizzato e gestito da una società autonoma, la Cornigliano

Spa, dove si sarebbe dovuta accentrare la produzione dei prodotti

piatti con una grossa acciaieria d’altoforno basata sulla carica

liquida, oltre all’aumento di specializzazione dei centri a ciclo

integrale di Piombino, dove si prevedeva di accentrare le

lavorazioni dei prodotti lunghi e Bagnoli prevalentemente per

l’industria edilizia. Gli stabilimenti secondari, ricorda Osti,

vennero però solamente aggiornati: << Siac e Terni sostanzialmente

restarono inalterate senza una reale revisione strategica né di

compiti loro assegnati, né delle loro linee di produzione.

Piombino mantenne le sue specializzazioni che erano,

sostanzialmente, travi e rotaie. >>26. L’innovazione più importante

fu quella di un treno semicontinuo per coils a Cornigliano.

Sinigallia cercò soprattutto di abbassare i costi delle materie

prime per l’industria meccanica, dato che il settore si apprestava

a raggiungere un ruolo di traino dell’economia italiana.

L’impianto di Cornigliano entrò in funzione nel 1953 e già nel

1960 produceva il 17% della produzione nazionale di acciaio, il

50% di laminati piani a caldo e il 41% dei laminati piani a

freddo. L’utile netto superò sia nel 1959 che nel 1960 i tre

25 Osti G. L. ,in Ranieri R., L’industria di stato dall’ascesa al degrado. Trent’anni nel gruppo Finsider. Conversazioni con Ruggiero Ranieri, Bologna, Il Mulino, 1993, 11826 Ibidem, p. 120

22

miliardi e mezzo di lire27. Sul finire degli anni ’50 diventa

l’impianto a ciclo integrale con la maggior capacità produttiva di

ghisa e acciaio grazie al nuovo procedimento Martin, ma il settore

più caratterizzante è quello della laminazione: << delle 29.000

tonnellate mensili di nastro a freddo mediamente prodotte, 18.000

circa sono destinate a essere lamierino utilizzato nell’industria

automobilistica, degli elettrodomestici , dei mobili metallici,

ecc., e 6000 latta. […] >>28

TAB. 4. Capacità produttiva della ghisa, dell’acciaio e dei laminati negli stabilimenti di Cornigliano,

Bagnoli, Piombino. Anno 195929

ALTIFORNI A COKE

N. unità Capacità produttiva

giornaliera in

tonnellate

Cornigliano 2 1600

Bagnoli 4(1) 2400

Piombino 3(2) 2400

(1)Il quarto altoforno capacità produttiva giornaliera di 1200 t non è ancora

in funzione; (2) Il terzo altoforno della capacità produttiva giornaliera

di 900 t non è ancora in funzione

FORNI MARTIN

N. unità Capacità per colata in

tonnellate (ciascuno)

27 Dati in, Ranieri R., L’industria di stato dall’ascesa al degrado. Trent’anni nel gruppo Finsider. Conversazioni con Ruggiero Ranieri, Bologna, Il Mulino, 199328 Amatori F, La storia d’impresa come professione, Venezia, Marsilio Editore, 2008,p. 16329 Ibidem, p 159

23

Cornigliano 6 250

Bagnoli 4 73

Piombino 2 180

Piombino 3 160

CONVERTITORI (THOMAS)

N. unità Capacità per colata in

tonnellate (ciascuno)

Cornigliano - -

Bagnoli 4 26,5

Piombino - -

LAMINATOI A CALDO

Bloomin

g

Sbozzato

ri

Vergell

a

Profila

ti

Lamiere Nastro

strett

o

Nastro

largo

Corniglia

no

1 - - - 1 - 1

Bagnoli 1 1 1 4 - 1 -

Piombino 1 - - 3 - - -

LAMINATOI A FREDDO A LAMIERINI

N. unità

Cornigliano 2

Bagnoli -

24

Piombino -Fonte: Repertorio Assider, Milano, 1959

A Cornigliano vi erano sia alcuni tra i migliori manager, arrivati

grazie al << Piano Autartico >>, che portò qui tra i migliori

manager privati, sia le migliori maestranze d’Italia grazie alla

creazione a Genova, nel 1936, da parte sia della SIAC (Società delle

acciaierie di Cornigliano) che dell’Ansaldo, della scuola per apprendisti

più grande della penisola. Anche il Piano di Oscar Sinigallia

aveva simili fondamenta, poiché il punto centrale del programma

era proprio la <<specializzazione degli impianti, che avrebbe

permesso l’accesso ad economie di scala, a cui doveva

corrispondere un analogo processo di specializzazione delle

mansioni operaie, chiave per accrescere la produttività e, quindi,

i salari.30>> Cornigliano verrà costruita secondo il modello delle

grandi imprese americane; non poteva in effetti non essere così

dato che i fondi erogati dall’Erp erano stati ottenuti proprio

grazie alle pressioni effettuate dall’Armco, società in stretta

collaborazione con la Finsider e la Fiat, alla sede centrale

dell’Eca a Washington solo pochi anni prima. Il modello era quello

delle “large corporation” con una << U Form>>. Il management centrale

aveva cioè il compito sia di controllare sia di agire servendosi

di quadri intermedi ben strutturati; le operazioni aziendali, in

linea con le idee di Sinigallia, sfruttavano le economie di scala

con una stretta integrazione fra produzione e distribuzione.

TAB. 5. Produzioni del gruppo Finsider-1953-57 (000 t)31

30 Ranieri R., L’industria di stato dall’ascesa al degrado. Trent’anni nel gruppo Finsider. Conversazioni con Ruggiero Ranieri, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 33

25

Minerali di

ferro

Ghisa Acciaio Laminati a

caldo

1953 600 832 1566 1120

1954 658 940 2029 1500

1955 1081 1257 2725 2135

1956 1326 1504 2936 2348

1957 1282 1699 3473 2791Fonte: IRI, Relazione annuale, anni vari

TAB. 6. Quote produttive del gruppo Finsider sul totale nazionale32

Ghisa Acciaio Laminati a

caldo

1938 77 44 38

1952 66 44 43

1957 82 51 55Fonte: IRI, Assider

2.2 Americanizzazione del sistema industriale

Con l’esperienza di Cornigliano si darà il via ad un’ innovazione

nei confronti dell’organizzazione del lavoro; attraverso l’

allineamento con le politiche di stampo americano, muterà verso il

modello oltre oceanico anche il modo di concepire l’

31 Balconi M., La siderurgia italiana (1945-1990). Tra controllo pubblico e incentivi del mercato, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 9632 Ibidem, p 97

26

organizzazione lavorativa secondo il modello descritto da Taylor;

un modello che si poneva in modo completamente opposto da quello

attuato fino ad allora in Italia e che si basava su tre punti: a)

capacità del dirigente di raccogliere tutte le nozioni, possedute

fino ad allora da una classe operaia di tipo specializzato e di

classificarle per poterle esplicitare in semplici regole; b)

concentrare tutto il lavoro intellettuale nell’ufficio di

programmazione e progettazione; c) programmare in anticipo la

giornata dell’operaio nell’azienda in modo che esso sapesse “sia

cosa vada fatto sia come si debba fare”. Questo tipo di

organizzazione del lavoro è definita “organizzazione scientifica

del lavoro”, proprio perché la classe dirigenziale, ove è fatta

concentrare tutta la gestione dell’azienda, dalla programmazione

alla lavorazione sino alla distribuzione, organizza in modo

“scientifico” la giornata dell’azienda senza escludere il minimo

particolare. Questo perché nel nuovo stabilimento di Cornigliano

l’obbiettivo era l’aumento sia della qualità che della quantità

dei prodotti con conseguente aumento della velocità del ciclo

produttivo, che fa sì che la << variabile organizzativa divenga

per la nuova dirigenza una variabile di tipo critico33.>>

Franco Amatori nota però, seguendo uno studio effettuato nel 1953

dalla sociologa industriale Joan Woodward nel South Essex

sull’assetto organizzativo di 203 aziende, che << il successo

economico di un’impresa non dipende tanto dall’attenersi ai

dettami dello scientific management, quanto piuttosto dall’adeguare

l’organizzazione all’area tecnologica a cui l’azienda appartiene

33 Amatori F., La storia d’impresa come professione, Venezia, Marsilio Editori, 2008, p. 124

27

>>34. Dalla ricerca della Woodward emergono tre grandi

raggruppamenti dei sistemi produttivi; secondo Amatori l’industria

siderurgica a ciclo integrale è collocabile nel raggruppamento che

include le aziende con una <<produzione di processo in cui sono

considerate le produzioni intermittenti di prodotti chimici e la

produzione a ciclo continuo35>> al quale corrisponde un modello di

organizzazione non di tipo scientifico bensì un’organizzazione per

unità operative. Questo perché << il processo di fabbricazione

dell’acciaio, […], arriva al prodotto finito, […], dopo essere

passato attraverso la fabbricazione nell’altoforno della ghisa e

l’affinazione di quest’ultima mediante la riduzione della

percentuale di carbonio e rimozione delle impurità in

convertitori, o in forni Martin-Siemens, o in forni elettrici. Il

ciclo produttivo presenta quindi una serie di trasformazioni poste

in sequenza rigida con la tendenza a ridurre al minimo le

discontinuità e la necessità di coordinamento tra le unità

operative risulta essere di primaria importanza>> in quanto << […]

la fermata non programmata di un solo settore può interrompere il

ciclo provocando perdite di produzione degli impianti che sono per

la loro complessità estremamente sensibili alle irregolarità di

marcia.36>> Ma questa strada non verrà mai intrapresa, anzi per

Amatori << l’esperienza di Cornigliano nel secondo dopoguerra

costituisce forse l’esempio più rilevante in Italia di stretta

collaborazione teorico pratica con il mondo industriale americano

per il quale, nonostante tutti i tentativi di revisione, il

34 Ibidem, p 12635 Ibidem, p 12736 Ibidem, p 128

28

paradigma tayloriano resta il punto di riferimento

fondamentale.37>>

Sarà proprio a causa di questa stretta collaborazione con gli Usa

che per il management di Cornigliano il documento della Booz

Allen-Hamilton diverrà la linea guida per tutti gli anni ’50. Nel

documento sono riassunti tutti i principi essenziali dello scientific

management: definire chiaramente gli obbiettivi dell’azienda;

stabilire i canali di autorità; determinare l’ampiezza del

controllo di modo che quanto maggiore è la complessità delle

operazioni o il grado di interdipendenza, tanto minore deve essere

il numero dei dipendenti che fanno capo a un superiore; realizzare

un tipo di decentramento per cui il potere di decidere e di agire

entro i limiti dei piani, delle linee di condotta e delle

direttive approvate, compatibilmente con il principio dell’unità

di direzione, sia il più vicino possibile al punto dove sorge la

necessità di decisione e d’azione; strutturare l’organizzazione

per funzioni produttive precisando tuttavia per iscritto la

posizione di ogni membro nell’organizzazione; affiancare uno staff

di specialisti alla << linea >> di esecutori, tenendo sempre

presente però il principio della responsabilità personale e non

collettiva e il fatto che lo staff << raccomanda >> e la linea <<

comanda >>; ricercare il principio della perpetuazione

dell’organizzazione così che gli inferiori siano in grado di

esercitare immediatamente il ruolo dei superiori.38

37 Ibidem, p 13338 Booz Allen Hamilton, Schema di lavoro per una revisione organizzativa dell’azienda in, Amatori F, La storia d’impresa come professione, Venezia, Marsilio Editore, 2008, 153

29

2.3 Job Analysis e Job Evaluation a Cornigliano

Si introdusse sempre negli anni ‘50, prima alla Cornigliano per

poi estenderlo a tutte le industrie Italsider dopo la fusione

degli anni ’60 con la Cornigliano Spa, l’ applicazione di un nuovo

sistema atto ad analizzare e descrivere il contenuto dei lavori e

a determinare il valore relativo in una corrispondente scala di

valutazione. Questo sistema verrà studiato negli Usa da un equipe

di tecnici Finsider mandata nel 1952 all’Armo Steel Company e

porta il nome di Job Analysis e Job Evaluation. Franco Cai ricorda

però come negli Usa il 13 gennaio 1947 si era pervenuti a un

accordo nazionale: <<scopo fondamentale dell’accordo sulla Job

Evaluation fu quello di eliminare le ingiuste diversità di

retribuzione (wage rate inequities) cercando di applicare il principio,

fortemente sostenuto dalle organizzazioni sindacali, della stessa

paga per lavoratori simili (equal pay for similar work) non solo

all’interno di uno stabilimento, ma anche per tutta l’industria

siderurgica nazionale. In realtà l’accordo fu più conosciuto come

inequities agreement che non come nuovo contratto basato sulla Job

Evaluation.39>>

Il sistema che venne scelto aveva il nome di Basic Steel, ma venne

utilizzata la variante prodotta dall’Armco Steel Company. Il Basic

Steel era un sistema analitico di punteggio che si basava su

fattori di valutazione e ponderazione prestabilita, suddivisi in

gradi d’intensità a progressione non lineare; la variante

dell’Armco prevedeva ventiquattro classi anziché trenta e

39 Cai F., L’esperienza italiana nella Job Evaluation. Il caso Italsider, in AA.VV. (a cura di), Ascesa e Crisi del riformismo in fabbrica, Bari, De Donato Editore, 1976

30

un’ampiezza non costante degli intervalli di classe. Questo

sistema sarà così esteso a tutto il personale operaio tra il 1953-

54, portando alla sostituzione delle <<paghe di posto>> degli

operai e delle <<paghe di qualifica>> del personale dei servizi;

nel 1955-56 verrà esteso anche agli impiegati e alle categorie

speciali e sarà applicato in maniera unilaterale dalla Cornigliano

Spa40.

Secondo Franco Cai i motivi che portarono all’introduzione di un

sistema di analisi e valutazione del lavoro (AVL) furono

principalmente quattro: a) il personale dello stabilimento

proveniva sostanzialmente dalla scuola o dal mercato del lavoro

del primo impiego, da altre industrie siderurgiche del gruppo

Finsider, da altri settori industriali, dal settore terziario e

dall’artigianato; ciò avrebbe comportato una differenziazione

troppo elevata delle retribuzioni che sarebbe divenuta in poco

tempo incomprensibile, inoltre, nacque l’esigenza di analizzare il

fenomeno e di introdurre criteri per creare un assetto retributivo

più equo ed ordinato; b) nella siderurgia operante esistevano due

criteri d’inquadramento e retribuzione del personale: le <<paghe

di posto>> e le <<paghe di qualifica>> e questa divisione

comportava problemi di confrontabilità ed equità: c) la struttura

retributiva degli altri stabilimenti siderurgici aveva un assetto

particolare: paga di base inferiore al 50% della retribuzione; il

complemento al 100% era costituito dal cottimo e da indennità

particolari; d) avendo la direzione della società investito così

tanti capitali per realizzare l’impianto ultra moderno di

Cornigliano, non ci si poteva non accorgere che c’era il bisogno

40 Amatori F., La storia d’impresa come professione, Venezia, Marsilio Editore, 2008, p. 140

31

di impostare il problema dei rapporti di lavoro su basi più

solide41.

Le reazioni del personale furono inizialmente positive perché il

sistema retributivo risultava essere più favorevole di quello

delle altre industrie peninsulari. I primi problemi sorsero per

mancanza d’informazioni e conoscenze del nuovo sistema, così << si

cercò di ovviare al problema diffondendo una serie di fascicoli

esplicativi, addestrando alcuni membri delle Commissioni interne

all’uso del Manuale di valutazione ed accettando una serie di

discussioni tra esperti AVL ed operai assistiti dai loro capi

operativi. 42>>; sempre Cai nota come << un equilibrio abbastanza

soddisfacente si raggiunse solo quando […] ci si rese conto in

pratica che la Job Evaluation poteva consentire una promozionalità

(passaggi definiti a lavori di classe superiori) per lo meno pari

a quella ottenibile con l’inquadramento tradizionale.43>>

Gian Lupo Osti che nel Gennaio del 1955 divenne Segretario

generale della Cornigliano Spa. ricorda che <<lo stabilimento di

Oscar Sinigallia nacque sulla falsa riga degli stabilimenti Armco

e quindi anche per gli organici copiammo gli schemi americani. Per

ogni posto di lavoro c’era una descrizione molto precisa di tutte

le mansioni affidate. Ogni mansione veniva quindi valutata sulla

base di regole precise. La valutazione portava ad un punteggio ed

è in base al punteggio che veniva stabilita la paga (paga di

posto). Tenuto conto degli accordi sindacali in essere, ogni posto

veniva poi inquadrato nelle classi o categorie sindacali

41 Cai F., L’esperienza italiana nella Job Evaluation. Il caso Italsider, in AA.VV. (a cura di), Ascesa e Crisi del riformismo in fabbrica, Bari, De Donato Editore, 1976, p. 3042 Ibidem, p 3443 Ibidem, p 34

32

confacenti.44>> Ricostruendo l’intervista ad Osti si può forse

fornire un’analisi da un punto di vista interno alla Cornigliano

riguardante i giudizi nei confronti dell’introduzione di questo

modello made in Usa. Il Segretario generale della Cornigliano

giudica almeno inizialmente in modo abbastanza positivo l’evento,

motivo di tale valutazione fu principalmente l’abolizione delle

paghe <<che non trovavano riscontro in quel che l’operaio faceva

realmente>> il mutamento delle paghe per quei lavori nei quali era

mutuata, rispetto al passato, la responsabilità e l’impegno fisico

e nervoso e in ultimo l’abolizione di quei posti di lavoro <<che

addirittura non avevano più ragion d’essere ma che, in un modo o

nell’altro, i sindacati erano riusciti a mantenere.45>> Con

l’introduzione del sistema Armco di Job Evaluation e Job Analysis

invece tutto venne studiato da zero prendendo spunto da come si

svolgeva negli Usa. <<In definitiva Cornigliano poté partire con

organici ben studiati e calibrati, con posti di lavoro definiti e

descritti in modo preciso e con paghe che avevano riscontro nelle

mansioni svolte da ciascuno.46>> Con l’estensione del sistema a

tutti gli impiegati Osti riscontra gli stessi problemi emersi

dall’analisi di Franco Cai, questo perché per gli impiegati, al

contrario che per gli operai per i quali basta una descrizione

delle attività manuali, <<bisogna fare riferimento invece, per

fare un esempio, a studi e a relazioni>> che risultano più

difficili da descrivere e valutare <<a parte il fatto che uno

studio, una relazione, possono essere fatti meglio o peggio e non

possono essere valutati come avviene per la produzione, in base a

44 Osti G. L., in Ranieri R., L’industria di stato dall’ascesa al degrado. Trent’anni nel gruppo Finsider. Conversazioni con Ruggiero Ranieri, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 17245 Ibidem, p. 17346 Ibidem, p. 173

33

criteri assolutamente oggettivi: tanto di prima, tanto di seconda

scelta e tanto di scarto. In definitiva l’analisi e la valutazione

del lavoro si rivelò abbastanza presto soggetta agli stessi

fattori personali dei sistemi tradizionali: il giudizio e la

valutazione del capo restavano basilari.47>>

TAB. 7. Esempio di valutazione del lavoro a Cornigliano48

Fattore Motivazione Grad

o

Valor

e

Requisiti

professiona

li

Requisiti

intellettuali

richiesti per

l’esecuzione

del lavoro

Sorvegliare il

funzionamento di impianti

complicati (forno Martin

basico da 200÷220 t)al fine

di produrre vari tipi di

acciai di specificate

caratt. chimico-fisiche.

Programmare nei dettagli lo

svolg. di lavori complicati

C 1.0

Tempo

occorrente per

l’acquisire

l’addestr. e

l’esperienza

necessaria

Da 31 a 36 mesi G 2.4

Capacità

intell.

Programmare e dirigere le

operaz. del forno in modo

da creare le adatte

E 2.8

47 Ibidem, p. 18048Cai F., L’esperienza italiana nella Job Evaluation. Il caso Italsider, in AA.VV. (a cura di), Ascesa e Crisi del riformismo in fabbrica, Bari, De Donato Editore, 1976, p.51-52

34

condizioni chimico-fisiche

per le aggiunte, la

formazione della scoria e

l’affinazione della colata

Abilità manuale Manovrare macchina (Blow-

Knox Gunchrome) per il

lancio di materiali

refrattari, usare la lancia

dell’ossigeno, manovrare

pale, cucchiaio per

provini, barre di ferro,

ecc…

B 0.5

Responsabil

ità

Responsabilità

per i materiali

Accurata attenz. e continui

controlli richiesti per

mantenere la giusta

condotta del forno.

Mancanza di attenz. e

controllo può portare alla

declassicaz. delle colate.

Costo stimato 1.125.000.

D 5.3

Respons. per

utensili,

attrezzature e

macchinari

Elevata attenzione e cura

richiesta per evitare danni

alla volta, alle pareti e

alla suola del forno

E

Max

3.0

Respons. per il

lavoro

Responsabile della

continuità delle operazioni

e del grado di

utilizzazione della

produttività di un forno

F 4.0

35

Martin da 200÷220 t

Respons. per la

sicurezza

altrui

Elevata attenz. richiesta

per evitare infortuni ad

altre persone perché

responsab. di un impianto

che produce metallo fuso

con pericolo di esposiz. a

spruzzi di metallo,

fiammate

D 1.2

Sforzi Sforzo mentale

e visivo

Considerev.

sforzo mentale e visivo

richiesto per dirigere la

carica, condurre e

osservare le fusioni,

esaminare i provini,

effettuare le aggiunte per

ottenere una buona finitura

della colata

D 1.5

Sforzo fisico Moderato sforzo fisico per

spalare materiali

refrattari, adoperare barre

di ferro e lancia

dell’ossigeno

C 0.8

Condizioni

di lavoro

Ambiente di

lavoro

Esposizione ad elevate

temperature per

considerevoli intervalli di

tempo, e leggere esalazioni

di gas e fumi nocivi; e

D 1.2

36

forti luci abbaglianti

Rischi Lavorare dove il rischio di

infortunio è elevato

D 1.2

Note: 225t x 5000 L.= 1.125.000 L. 5 al kg di declassamento medio

3. Gli accordi agli albori della comunità europea

3.1 Fondazione della Ceca

Nel 1941 due antifascisti, Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, al

confino sull’isola di Ventotène scrissero un documento avente come

titolo <<Per un Europa libera ed unita. Progetto d’un manifesto>>.

Si tratta del primo documento che spiega le necessità di un’Europa

unita in modo federalista, con una moneta unica, un esercito unico

ed una politica estera unica. Questo manifesto è considerato

adesso il testo fondante l’Unione Europea. Da questo scritto nel

dopoguerra presero spunto diverse correnti che si definirono

“europeiste” e si iniziò a pensare quindi di attuare politiche

comuni in tutti il continente come non era mai avvenuto prima.

Grazie a queste spinte verso un’Europa più unita venne creato il 5

maggio 1949 il “Consiglio d’Europa” al quale aderirono l’Italia,37

la Germania, la Francia, la Gran Bretagna, l’Olanda, la Danimarca,

il Belgio, il Lussemburgo, la Norvegia, la Svezia, l’Islanda, la

Grecia, la Turchia e l’Irlanda. Fu sull’onda della creazione di

questo Consiglio d’Europa che nel maggio 1950 il Ministro degli

Affari Esteri francesi, Robert Schuman, assieme a Jean Monnet,

lanciò l’idea che portò alla creazione della CECA (Comunità Europea

del Carbone e dell’Acciaio): mettere la produzione totale di carbone e

acciaio, sia della Francia che della Germania Federale, sotto il

controllo di un Autorità comune.

<<La proposta di Schuman aveva innanzitutto il significato

politico di portare Francia e Germania sulla via della

riconciliazione, rompendo con le politiche di

deindustrializzazione dell’economia tedesca e restituendo l’unità

naturale al triangolo industriale che comprendeva la Ruhr, la

Lorena, la Saar, una parte del Nord della Francia, il Lussemburgo,

la maggior parte del Belgio e del Sud dell’Olanda, […], inoltre in

una prospettiva neofunzionalista l’integrazione delle economie

sarebbe debordata in campo politico, portando alla creazione di

una potenza europea unitaria.49>> Nell’Aprile del 1951, poco più

di un anno dopo la proposta di Schuman, si firmò a Parigi il

Trattato istitutivo della CECA, che portava l’abolizione delle

barriere doganali tra i paesi partecipanti, stabiliva

l’armonizzazione dei dazi verso i paesi terzi e vigilava

sull’approvvigionamento regolare del mercato comune; i paesi

firmatari furono la Francia, la Germania Occidentale, l’Italia, il

Lussemburgo, il Belgio e l’Olanda.

49 Balconi M., La siderurgia di Stato (1945-1990) Tra controllo pubblico e incentivi dello Stato, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 98

38

La dichiarazione del 9 maggio 1950 sembra poter essere l’atto

fondante dell’unità europea, ma naturalmente al momento della sua

pubblicazione suscitò molto scalpore. Gerard Boussuat nel suo

saggio “Il piano Schuman del 9 maggio 1950: luogo simbolico della ritrovata fiducia

europea” traccia le linee guida che dalla dichiarazione del 9 maggio

portarono all’attuazione di politiche volte all’unificazione

continentale, ma il punto focale del saggio è << dimostrare, a

dispetto di una certa mitologia semplificatrice, che questo atto

fondante è tale più a livello simbolico che istituzionale50.>>

Dall’esplicazione del piano Schuman si iniziò a credere che

l’unità europea fosse ormai prossima e che tale processo di

unificazione sarebbe avvenuto tramite il metodo funzionalista

proprio del piano. <<Numerosi progetti furono elaborati dopo il 9

maggio: l’Europa verde, l’Europa bianca (prodotti farmaceutici),

l’Europa dei trasporti, poi l’Europa della difesa, la CED, e in

seguito l’Euratom, perfino l’Europa della moneta.51>> Monnet

credeva che partendo dall’unificazione del mercato del carbone e

dell’acciaio si sarebbe potuti arrivare all’unita economico

politica. Tra i diversi progetti sopra elencati pochi furono però

portati a termine. Ad esempio l’idea dell’Europa verde (o il Pool

verde) venne subito accantonata dall’OECE, stessa sorte per la CED

(Comunità europea di difesa) il quale progetto venne abbandonato

definitivamente nel 1954. Monnet non desistette, insistendo sul

modello funzionalista e propose così nel 1955 il rilancio europeo

basato sulla creazione di una “Comunità europea per il nucleare”

(Euratom) e una “Comunità europea dei trasporti”. Solo l’Euratom

50 Bossuat G., Il piano Schuman del 9 maggio 1950: luogo simbolico della ritrovata fiducia degli europei, in AA.VV (a cura di), La comunità europea del carbone e dell’acciaio(1952-2002) Gli esiti del trattato in Europa e in Italia, Padova, Cedam, 2004, p. 351 Ibidem, p. 4

39

riuscì però a prendere vita ma non nella forma auspicata da Monnet

che desiderava << una comunità europea dell’energia atomica volta

alla produzione di materiale fissile a scopi pacifici.52>>

Nonostante tutte le riserve arrivate a posteriori, sia nei

confronti del Piano Schuman (analizzato da Boussat solo come

“simbolo” e non come effettivo momento cruciale nei confronti

della strada che avrebbe portato all’unificazione europea), sia

nei confronti delle idee di unificazione di Monnet, lo stesso

Piano Schuman rappresenta comunque una pietra fondante per la

futura Unione Europea anche per lo stesso Boussat. Il piano

infatti ha per l’autore due facce: << una faccia idealista e una

faccia realista.53>> Realista perché è letto come una risposta alla

delicata situazione continentale data dal <<contrasto franco-

tedesco, così carico di conseguenze per l’Europa per oltre un

secolo, e la minaccia nucleare derivante dalla guerra fredda.54>>

Lo stesso Schuman propose alla Germania Occidentale la pace in

vista della costruzione di un Europa unita << sans distinction ,

qu’ils soient de l’Est ou de l’Ouest, et touts les territoires,

notamment l’Afrique (…)>> Secondo Boussat dunque storicamente

parlando il testo della Dichiarazione inventa una nuova forma

d’unità europea. <<La diplomazia francese vide nell’integrazione

europea la soluzione della questione tedesca e decise di

trasformare uno degli elementi di conflitto tra Francia e Germania

in un fattore di collaborazione.55>>

52 Ibidem, p. 953 Ibidem, p.1054 Ibidem, p. 1055 Gualdesi M. N., L’Italia, la Ceca e la costruzione comunitaria: aspetti storico istituzionali, in AA.VV. (a cura di), La comunità europea del carbone e dell’acciaio(1952-2002), , Padova, Cedam, 2004, p. 70

40

3.2 L’Italia e la Ceca

Il Piano Schuman ebbe tra i paesi firmatari anche l’Italia,

nonostante i livelli di produzione fossero nettamente inferiori

nei confronti degli altri paesi contraenti. Nel 1950 la produzione

di acciaio grezzo aveva raggiunto i livelli pre-bellici con una

produzione di 2,3 milioni di tonnellate mentre la ghisa si

assestava attorno al milione di tonnellate. Solo Germania e

Francia producevano rispettivamente ghisa 14 e 8,5 volte in più56.

Malgrado la strada fatta verso l’integrazione europea attraverso

l’adesione al Consiglio d’Europa, alla NATO (North Atlantic Treaty

Organization), al Piano Marshall e all’OECE, l’Italia era

considerata, all’interno delle trattative per la CECA, come un

partner di secondo piano, con una limitata capacità di incisione.

Gian Lupo Osti ricorda che <<ci vedevano essenzialmente come dei

parvenus che volevano sedersi al tavolo comune. Non ci prendevano

assolutamente sul serio>> e ancora in risposta alla domanda di

Ranieri: <<Neppure i Francesi?>> risponde <<All’inizio direi di

no. Anzi i francesi ci trattavano peggio degli altri. Le vecchie

imprese siderurgiche europee, bhe, bisogna averle conosciute: non

si trattava di aziende, erano delle Istituzioni. Malgrado le

distruzione belliche molte avevano ancora sedi splendide, un po’

polverose forse, se viste con occhi moderni, ma certamente

imponenti e sussiegose. Non era solo il fatto che noi eravamo dei

concorrenti potenziali (ho l’impressione che all’inizio questa

fosse l’ultima delle loro preoccupazioni). Ma ci consideravano

56 Ranieri R., L’espansione siderurgica italiana nel primo quindicennio del trattato CECA(1952-1967), in AA.VV. (a cura di), La comunità europea del carbone e dell’acciaio(1952-2002), , Padova, Cedam, 2004, p. 156

41

come persone che volevano impegnarsi in un’impresa assolutamente

al di sopra delle proprie forze.57>>

Anche se, secondo Marinella Neri Gualdesi <<la strategia di

integrazione settoriale, proposta dalla Francia con la

dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, apriva uno spazio nuovo,

sia all’aspirazione dell’Italia di uscire da una posizione di

marginalità, che ai progetti italiani di unificazione europea.58>>

Al di la di queste aspirazioni future, l’iter per entrare a far

parte della Comunità europea del carbone e dell’acciaio non fu

facile per l’Italia. Il 12 maggio 1950 un documento del Ministero

degli Esteri italiano metteva in luce la posizione del paese nei

confronti del Piano Schuman. Nel documento si esplicitò la

necessità per un paese privo di materie prime e produttore di

acciaio in maniera limitata, come l’Italia, di aderire al piano

ritenendo che <<l’organizzazione che sarebbe stata creata avrebbe

facilitato l’approvazione dell’unione doganale italo-francese, si

spingeva ad indicare che ciò avrebbe messo i due paesi nella

situazione di dirigere l’organizzazione stessa, quasi l’ambizione

di un asse italo-francese. Ambizioni che saranno presto frustrate

dall’asse franco-tedesco.59 >> Del resto il Piano era stato creato

specificatamente da parte francese per avere una garanzia di

controllo sull’espansione economica della Repubblica Federale

Tedesca, << la domanda che si posero Monnet e Robert Schuman era

duplice: in che modo ricostruire la siderurgia tedesca e come

57 Osti G. L. in , Ranieri R., L’industria di stato dall’ascesa al degrado. Trent’anni nel gruppo Finsider. Conversazioni con Ruggiero Ranieri, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 15458 Gualdesi M. N., L’Italia, la Ceca e la costruzione comunitaria: aspetti storico istituzionali, in AA.VV. (a cura di), La comunità europea del carbone e dell’acciaio(1952-2002), , Padova, Cedam, 2004, p. 6759 Ibidem, p. 73

42

utilizzare “sovranazionalmente” la Ruhr, pur affidandola a uno

Stato sovrano.60>>

L’ingresso italiano non era per nulla stato preso in

considerazione durante la stesura preliminare del Piano Schuman,

tanto che l’Italia fu ammessa solo dopo al tavolo dei negoziati.

Nonostante tutte le reticenze sia interne che esterne al paese

l’ambasciatore italiano a Parigi Pietro Quaroni consigliò di

essere presenti a giugno all’inizio dei negoziati, sottolineando

comunque che << partecipare non significa firmare; non è ancora

detto che si arrivi veramente al piano ambizioso proposto dai

francesi e in fondo, in ultima analisi, resta come garanzia la

ratifica del Parlamento che potrebbe rifiutare.61>> L’Italia sia

per motivi politici che economici non poteva rimanere fuori da

questi negoziati che l’avrebbero portata all’esclusione dal

contesto europeo. I delegati italiani comunque non mancarono di

sottolineare un punto fermo per l’adesione italiana ai trattati,

quello dell’interesse nazionale <<l’abbandono di sovranità a

favore di un organo superiore avrebbe potuto rivestire forme non

ancora identificabili, ma era un fatto che sarebbe avvenuto.62>>

Dai negoziati l’Italia riuscì ad ottenere: la richiesta di parità

nella rappresentanza parlamentare con i due paesi maggiori, la

presenza di almeno un italiano membro dell’Alta Autorità,

l’importante concessione di un periodo di sei anni prima di

abolire integralmente i dazi sull’acciaio nei confronti della60 Ibidem, p. 7061 Telespresso n.07474, il MAE a destinatari vari in, Gualdesi M. N., L’Italia, la Ceca e la costruzione comunitaria: aspetti storico istituzionali, in AA.VV. (a cura di), La comunità europea del carbone e dell’acciaio(1952-2002), , Padova, Cedam, 2004, p. 7462 Gualdesi M. N., L’Italia, la Ceca e la costruzione comunitaria: aspetti storico istituzionali, in AA.VV. (a cura di), La comunità europea del carbone e dell’acciaio(1952-2002), , Padova, Cedam, 2004, p. 74

43

Comunità e l’inserimento nel Trattato del “Principio della libera

circolazione dei lavoratori”, anche se limitato ai lavoratori del

settore carbosiderurgico. << L’introduzione del principio della

libertà di circolazione stava particolarmente a cuore al governo

italiano, che vedeva nella possibilità di trovare occupazione

fuori dai confini nazionali un’importante compensazione per quei

lavoratori che, a seguito della ristrutturazione delle imprese del

settore carbosiderurgico, avrebbero perso il loro posto di

lavoro.63>> Il trattato recitava che << il periodo di transizione

comincia dalla data di costruzione del mercato comune e finisce

allo spirare del periodo di cinque anni a decorrere dalla

istituzione del mercato comune per il carbone. All’Italia veniva

concessa la possibilità di mantenere, su autorizzazione della Alta

Autorità, dazi di dogana sui prodotti siderurgici provenienti

dagli altri stati membri, purché fossero progressivamente ridotti

durante i cinque anni del periodo transitorio, e soppressi alla

fine del periodo stesso.64>> I delegati italiani riuscirono ad

ottenere anche una clausola speciale per il paese: sottrarre ai

normali poteri di giudizio dell’Alta Autorità gli investimenti già

in corso dal 1º Marzo 1951, dando così la possibilità al piano

Finsider di procedere sulla sua strada.

Alla fine dei negoziati il mondo industriale italiano si divise.

Osti nell’intervista effettuata da Ruggiero Ranieri ricorda che

<<Sinigallia era favorevole a una liberalizzazione dei mercati,

anche se spingeva per una certa gradualità soprattutto in vista

dei problemi agli altri gruppi, nonché della Terni, dell’Ilva ecc.

Nei primi anni, fra il 1949 e il 1950, ci furono alcune riunioni

63 Ibidem, p.7864 Ibidem, p 78

44

al ministero del Commercio Estero nelle quali soprattutto l’Ilva

insisteva che non bisognava aumentare il contingente di

importazione. Io [Osti] rifiutai di associarmi a quelle pressioni:

non vedevo, infatti, perché l’industria italiana dovesse pagare

l’acciaio più caro per far piacere all’Ilva. Lo dissi a Sinigallia

il quale mi diede pienamente ragione. Sostanzialmente egli era

favorevole a una piena liberalizzazione anche se è possibile che

le sue posizioni ufficiali fossero diverse, in quanto era

costretto a tener conto del fatto che una gran parte

dell’industria siderurgica era molto spaventata, abituata, com’era

stata, prima, nell’anteguerra, alla protezione dei consorzi, poi,

più recentemente, a quella dei contingenti di importazione. Molti

insomma temevano che eliminare la protezione volesse dire un

crollo del mercato.65>>

La Finsider comunque non era stata accontentata su tutto, in

quanto uno dei punti su cui insistette di più fu quello degli

approvvigionamenti di minerali di ferro dal Nord Africa, ma

l’articolo 79 del trattato limitava l’applicazione di esso ai

territori europei degli stati contraenti, escludendo i territori

francesi d’oltremare, si arrivò comunque ad una soluzione di

ripiego: Francia e Italia firmarono una “convezione bilaterale”

per la fornitura all’Italia di un quantitativo ragguardevole di

minerali di ferro algerino per un quinquennio, << secondo

l’accordo italo-francese di Santa Margherita, nel primo anno dopo

la ratifica del Piano Schuman era prevista una fornitura di

450.000 tonnellate fino a giungere a 850.000 nel quinto anno.

L’accordo era rinnovabile e nell’ambito del quinquennio potevano

65 Osti G. L. in , Ranieri R., L’industria di stato dall’ascesa al degrado. Trent’anni nel gruppo Finsider. Conversazioni con Ruggiero Ranieri, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 151

45

essere assegante all’Italia altre 400.000 tonnellate di minerale

africano da Conakry (Guinea).66>>

TAB. 8. Dazi approvati nel Luglio 1957 verso i paesi terzi (%)67

Italia Francia Germania RF Benelux

Ghisa:

Specolare 7 4 3 3

Altre 5 4

Acciaio

comune:

Lingotti 7 4 3 3

Semilavorat

i

8 5 4 4

Coils 9 6 5 5

Larghi

piatti,

lamiere

9 6 5 5

Barre,

profilati

non forati

9 6 5 5

Vergella 10 7 6 6

Lamierini 10 7 6 6

66 Ranieri R., L’espansione siderurgica italiana nel primo quindicennio del trattato CECA(1952-1967), in AA.VV. (a cura di), La comunità europea del carbone e dell’acciaio(1952-2002), , Padova, Cedam, 2004, p. 16567 Balconi M., La siderurgia di Stato (1945-1990) Tra controllo pubblico e incentivi dello Stato, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 99

46

Lamiere

zincate

10 7 6 6

Lamiere

stagnate

10 9 8 8

Lingotti

fini al

carbonio

7 4 3 3

Lingotti

acc. legato

5/6 3 3 3

Coils acc.

Legato

8/9 6 6 6

Fonte:Assider, Regime daziario italiano per i prodotti siderurgici al 1º Luglio 1963, mimeo

3.3 Effetti del Piano Sinigallia e rimessa in discussione

dei suoi principi

I sei anni di transizione concessi all’Italia, che vanno dal 1953

al 1958, coincidono con il primo momento di assestamento e di

crescita della siderurgia italiana e in generale di tutto il

sistema economico italiano. La produzione di acciaio grezzo

raddoppiò nel quinquennio 1952-1957 avvicinandosi ad una

produzione annua di 7 milioni di tonnellate68. Grazie ad uno

sviluppo delle produzioni più veloce del consumo e alla forte

domanda estera, nel 1956 l’Italia passa alla posizione di

esportatore netto di prodotti siderurgici. Forte spinta la diede

l’assestamento dei finanziamenti del Piano Sinigallia che

portarono all’entrata in produzione degli altiforni di Piombino e

Cornigliano e al superamento, nel 1957, da parte dello68 Ranieri R., L’espansione siderurgica italiana nel primo quindicennio del trattato CECA(1952-1967), in AA.VV. (a cura di), La comunità europea del carbone e dell’acciaio(1952-2002), , Padova, Cedam, 2004, p. 170

47

stabilimento di Cornigliano del milione di tonnellate di acciaio.

Ancora molto alto era invece il consumo di rottame e il livello di

dipendenza dalle importazioni nonostante fosse stato quasi del

tutto abbandonato, nel resto dell’Europa, il forno elettrico.

Margherita Balconi nota infatti come parte della storiografia

esprime un commento positivo su questo periodo di sviluppo della

siderurgia italiana, imputando alla rifondazione della siderurgia

italiana voluta col piano Sinigallia gran parte del merito di aver

chiuso gli impianti più obsoleti, di aver fatto aumentare il

livello di produttività e di aver fatto avvicinare i prezzi dei

prodotti italiani a quelli della Ceca. <<L’impresa pubblica aveva

conquistato un ruolo egemone, lanciata alla rincorsa delle

economie di scala e della massima efficienza produttiva. La

ristrutturazione – una delle più vaste e profonde mai operata

nell’industria italiana – aveva comportato notevoli costi sociali

in una prima fase, allorché gli investimenti si accompagnavano ad

una diminuzione dell’occupazione; ma, una volta compiuto il

risanamento, l’ulteriore espansione dell’offerta di prodotti

siderurgici poté contribuire positivamente alla formazione di

nuovi posti di lavoro.69>> Trae conclusioni molto simili alla

Balconi anche Fabrizio Barca: <<la vicenda della siderurgia

pubblica del primo quindicennio postbellico qui riassunta non è

certo l’inevitabile risultato dell’operare di “forze naturali”. In

poche altre situazioni l’Italia conosce un gruppo di dirigenti

accumunati da un chiaro progetto strategico che oltrepassa la mera

vita di un’impresa o di un gruppo, per quanto rilevante, e

coinvolge in via duratura l’intero percorso di sviluppo di più

69 Balconi M., La siderurgia di Stato (1945-1990) Tra controllo pubblico e incentivi dello Stato, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 104

48

decenni. Si tratta di un caso di genuina “politica industriale”,

in parte dovuto alla natura speciale del legame tra gli uomini

dell’impresa pubblica del periodo.70>> L’autore cita anche

Rugafiori che afferma nel suo libro che <<la “corte” di uomini di

nostro interesse si forma non per tranquilla cooptazione secondo

il tradizionale sviluppo di carriera dei singoli nelle società

operative e finanziarie, ma attraverso un’evoluzione fondata sul

dinamico e tenace dislocarsi a difesa di un progetto che non

giustifica, ma modifica, e in modo radicale, l’esistente. È in

sostanza una “scalata” a sostegno dell’innovazione e non della

routine quotidiana.71>>

Vi era però un netto divario tra l’industria pubblica,

specialmente quella di marca Cornigliano, e l’industria privata

ancora costretta a rifornirsi di rottame. La proposta del mondo

industriale privato fu quelle delle importazioni che sarebbero

state naturalmente avvantaggiate dall’abbattimento dei dazi

doganali nel 1958; questa prospettiva che avrebbe portato ad una

massiccia penetrazione straniera sul mercato italiano fu vista dai

continuatori di Oscar Sinigallia come una sfida ad aumentare le

capacità produttive. Tale questione venne posta nello “Schema di

sviluppo dell’occupazione e del reddito” presentato nel 1954 dal

Ministro del Bilancio Ezio Vanoni coadiuvato da un gruppo di

tecnici coordinati da Pasquale Saraceno. Il documento aveva come

obbiettivo l’incremento del reddito nazionale ad un saggio annuo

del 5% al fine di creare nel decennio 1955-64 quattro milioni di

posti di lavoro da offrire a due milioni di disoccupati ed alle70 Barca F., Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, Roma, Donzelli Editore, 1997, p 20571 Rugafiori P., in F., Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, Roma, Donzelli Editore, 1997, p 206

49

nuove leve che si sarebbero col tempo presentate sul mercato del

lavoro72. Il reddito avrebbe dovuto essere più intenso nel

Mezzogiorno, risultato che doveva essere ottenuto destinandogli

poco meno del 50% degli investimenti previsti per raggiungere la

<<riduzione degli scarti esistenti in termini sia di reddito, che

di occupazione, che di produttività, che di attrezzatura

ambientale e sociale.73>>

I settori nei quali doveva essere incentrato l’investimento erano

quelli dell’agricoltura, dei servizi, delle opere pubbliche e

dell’edilizia. Nell’industria invece gli investimenti potevano

derivare anche dall’iniziativa privata, in mancanza di essa si

sarebbe fatto avanti lo Stato <<per soddisfare le esigenze di

sviluppo nei campi nei quali la [sua] presenza fosse

determinante.74>> Si sosteneva la tesi che la Ceca non avrebbe reso

<<convenienti nuovi rilevanti investimenti nella siderurgia

italiana, al di fuori di quelli ancora necessari al raggiungimento

delle più economiche dimensioni degli impianti esistenti.75>> Se vi

fosse stato un forte incremento della domanda nel secondo

quinquennio (1959-64) si sarebbe ricorsi alle importazioni. <<In

tal modo venivano rimesse in discussione le principali tesi di

Sinigallia: l’idea del “servizio” offerto dalla disponibilità di

prodotti siderurgici competitivi all’industria meccanica, data

l’inesistenza di svantaggi assoluti di costo “naturali” rispetto

ai migliori concorrenti internazionali, e la fiducia in un

72 Ibidem, p. 10773 Ibidem, p. 10774 Ibidem, p. 10875 Ibidem, p. 108

50

allentamento del vincolo estero attraverso gli effetti diretti e

indiretti dello sviluppo del settore.76>>

TAB.10. Consumo apparente nazionale di acciaio grezzo e flussi di commercio con l’estero di prodotti

siderurgici-1951-5877 (Milioni di t)

Consumo Import Export Saldo

1951 3,5 0,6 0,2 -0,4

1952 3,9 0,6 0,2 -0,4

1953 4,1 0,8 0,2 -0,6

1954 4,8 0,9 0,3 -0,6

1955 5,5 0,7 0,5 -0,2

1956 5,8 0,7 0,9 0,2

1957 6,3 1,0 1,1 0,1

1958 6,3 1,0 1,1 0,1Fonte:Assider

76 Ibidem, p. 10877 Balconi M., La siderurgia di Stato (1945-1990) Tra controllo pubblico e incentivi dello Stato, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 103

51

4. La nuova sfida della siderurgia a partecipazione

statale

4.1 Divergenze sul rilancio siderurgico nel Meridione

Si iniziò a parlare dell’ubicazione del IV centro siderurgico già

nel 1955; si pensò inizialmente di localizzarlo nel Meridione e

naturalmente, riprendendo le idee di Sinigallia, in una posizione

limitrofa alla costa. La spinta per posizionarlo nel Mezzogiorno

fu ancora più pressante sull’Iri che nel 1957 si vide vincolata da

una legge che la “costringeva” ad investire nel Meridione. Andando

ad analizzare però gli aumenti di domanda previsti fino al 1961-62

essi non prevedevano alcuna espansione ma, solo un ammodernamento

degli altiforni da 1,6 a 2,9 milioni di tonnellate annue e delle

acciaierie da 3,2 a 4,6 milioni di tonnellate. Inizia così una

controversia tra governo, presieduto allora da Amintore Fanfani, e

l’Iri. Il governo, spinto dagli ambienti più riformisti, fece

molta pressione per il rilancio industriale nel Mezzogiorno con la

convinzione che <<ai fini dello sviluppo economico nazionale il

rischio fosse da corrersi e che, gestendo prudentemente la

crescita degli impianti, si potevano sfruttare le opportunità già

esistenti in attesa che il mercato del Sud prendesse forma e

52

consistenza.78>> Molto forti erano le resistenze sia all’Iri che

alla Finsider preoccupati dalla <<impreparazione ambientale ad

accogliere una grande industria del tipo siderurgico […] la

scarsità di manodopera adatta e di personale direttivo preparato,

la diffusa tendenza a considerare una grande industria come un

ente sociale di sussistenza, le difficoltà di controllo e di

gestione data dalla posizione periferica staccata dai centri delle

associazioni, della cultura, della istruzione tecnica ecc.79>>.

Questa disputa si risolverà solo nel 1959 con l’insediamento del

governo Segni che prese immediatamente la decisione di dare il via

ai lavori per un nuovo centro siderurgico in Puglia. Gian Lupo

Osti ricorda come l’idea del centro siderurgico non venne dagli

ambienti dell’Iri <<Non ricordo con esattezza quando si cominciò a

parlare di Taranto […]. Mi sembra tuttavia che la questione si

pose con forza nel 1957 e a farsene portavoce per primo fosse

Pastore, che allora era ministro per il Mezzogiorno, poi seguito

da Fanfani che riprese l’idea, impegnando il governo. L’idea

quindi, per quanto posso ricordare, non venne dall’Iri […]. La

prima reazione di Manuelli alla proposta di Taranto fu

violentemente negativa e in questo egli fu influenzato dagli

industriali privati e dai tecnici dell’Ilva, e in particolare da

Giannini che era diventato allora Amministratore delegato

dell’Ilva.80>>

78 Ranieri R., L’industria di stato dall’ascesa al degrado. Trent’anni nel gruppo Finsider. Conversazioni con Ruggiero Ranieri, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 8079 Documento direzione studi Finsider, in Ranieri R., L’industria di stato dall’ascesa al degrado. Trent’anni nel gruppo Finsider. Conversazioni con Ruggiero Ranieri, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 8080 Ibidem, p. 288

53

Una prima risposta al dibattito in corso tra Stato ed Iri arrivò

dalla Fiat. I dirigenti Fiat avevano previsto un aumento del

consumo di coils così elevato che le forniture preferenziali di

Cornigliano sarebbero presto state insufficienti. La Fiat così,

non volendo ricorrere ad importazioni massicce, decise di

costruire un nuovo centro a ciclo integrale specializzato nella

laminazione di prodotti piatti <<implicitamente riaffermando la

giustezza, nella fase storica di allora, delle tesi di

Sinigallia.81>> La località scelta fu quella di Vado Ligure, e il

progetto prevedeva la costruzione di sei altiforni da otto metri

di diametro, di tre convertitori LD, di un laminatoio continuo a

caldo per coils e di laminatoi a freddo. L’azienda torinese diede

subito il via ai lavori, che però vennero bloccati nel 1957 a

causa del nuova destinazione di quei terreni e abbandonò

definitivamente il progetto quando nel 1957 fu annunciata la

costruzione di un IV centro siderurgico. Come compensazione la

Fiat ottenne il rinnovo degli accordi del 1952 con la Finsider con

quantitativi aggiornati alle richieste presenti. Osti ha comunque

dei dubbi sul progetto di costruzione di Vado Ligure: <<Alcuni di

noi pensavano che Vado fosse una mossa della Fiat per ampliare gli

accordi di collaborazione in essere con Cornigliano, in condizioni

di vantaggio. In effetti alla Fiat occorreva aumentare i suoi

approvvigionamenti di lamierino e peraltro doveva affrontare anche

degli onerosi programmi di investimento nel suo settore chiave,

quello automobilistico.82>>

81 Balconi M., La siderurgia di Stato (1945-1990) Tra controllo pubblico e incentivi dello Stato, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 10982 Osti G.L. in, Ranieri R., L’industria di stato dall’ascesa al degrado. Trent’anni nel gruppo Finsider. Conversazioni con Ruggiero Ranieri, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 227

54

4.2 Il nuovo centro siderurgico e l’espansione quasi

senza fine del gruppo Finsider

I primi sostenitori dell’apertura di un IV centro provenivano da

diversi settori governativi e in particolare dall’Iri. A favore di

Taranto si mosse, come ricorda Osti, soprattutto Pastore, di

provenienza cislina, e Colombo appartenente ai dorotei.

Naturalmente non tutti gli ambienti, sia politici che industriali,

erano favorevoli all’apertura del nuovo centro. Margherita Balconi

dimostra come i maggiori organi di stampa economici come “Il

Sole”, il “24 ore” o il “Mondo Economico”, molto legati al mondo

industriale privato, espressero opinioni alquanto negative

sostenendo le prime tesi dell’Iri basate sull’inutilità

dell’aprire un nuovo centro siderurgico al Sud credendo che la

strada migliore da intraprendere fosse invece il rimodernamento

degli impianti. <<Si affermava inoltre che per soddisfare i

bisogni del Mezzogiorno erano sufficienti gli impianti di Bagnoli,

mentre si contestavano gli “effetti indotti”, se questi non

potevano “neppure essere previsti come ipotesi di lavoro”.83>>

Forti resistenze in realtà arrivavano anche dall’Iri e dalla

stessa Finsider. Ruggiero Ranieri nel ricostruire l’intervista a

Gian Lupo Osti racconta che la dirigenza Finsider e il gruppo

dirigente dell’Ilva non volevano scontarsi col settore privato e

proponevano la vecchia logica di cartello, e tali resistenze si

rivelarono così radicate che l’Iri si rifiutò per tutto il 1959 di

avvallare il programma di Taranto. <<L’ostruzionismo Iri e

Finsider, tuttavia, fu seriamente indebolito dalla posizione del83 Ibidem, p 114

55

gruppo di Cornigliano.>> In quanto <<l’investimento di Taranto

venne visto come parte di una più generale ristrutturazione della

siderurgia pubblica, che il gruppo di Cornigliano si candidava a

guidare. E in una prima fase si trattò di una candidatura

vincente.84>>

Uno dei documenti che spinse il nuovo governo Segni ad avvallare

il progetto per Taranto fu redatto sotto il governo Fanfani nel

1958 e fu il nuovo “Rapporto del Presidente del Comitato per lo

Sviluppo dell’Occupazione e del Reddito” rivolto al Presidente del

Consiglio dei Ministri e firmato da Pasquale Saraceno. Il rapporto

era impostato sulle stesse linee guida dettate da Oscar

Sinigallia, che comportavano il rilancio della siderurgia a ciclo

integrale con stabilimenti ubicati sulle coste e auspicava una

progressiva riduzione dell’utilizzo del rottame. Il nuovo

stabilimento doveva specializzarsi nella produzione di

semilavorati che sarebbero stati rivenduti poi al Nord. Per chi

era preoccupato dell’aumento dei prezzi a causa dei lunghi

trasporti che comportava un ubicazione ed una specializzazione del

genere, Saraceno controbatteva argomentando che le politiche di

sviluppo nel Mezzogiorno avrebbero spostato col tempo proprio al

Meridione il baricentro dei consumi. Inoltre l’ubicazione sul Mar

Ionio era utile nei confronti delle esportazione verso i paesi

afro-asiatici ed il mercato interno che gravitava sulla costa

adriatica. <<In ultima analisi, infine, a fronte di maggiori costi

di trasporto e di eventuali maggiori costi inerenti ad un impianto

esercito in una regione non industrializzata stavano le

agevolazioni alle nuove iniziative industriali localizzate nel

84 Ranieri R., L’industria di stato dall’ascesa al degrado. Trent’anni nel gruppo Finsider. Conversazioni con Ruggiero Ranieri, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 77

56

Mezzogiorno.85>> Un’altra argomentazione a favore dell’ubicazione a

Taranto era fornita dal fatto che ben presto la carenza di lamiere

sarebbe stata pressante sui cantieri dell’Adriatico, dello Ionio e

del Tirreno <<e l’impianto da istallare doveva comunque essere sul

mare e preferibilmente nelle vicinanze di un cantiere navale (a

Taranto c’era l’Arsenale della Marina Militare).86>>

Per confutare ulteriori dubbi nel 1959 fu nominato un C.T.C.

(Comitato Tecnico Consultivo) presso l’Iri. Presidente della Commissione

fu nominato il professor Caglioti, parte della commissione era

composta dal professor Saraceno, da Marchesi, dall’allora

Direttore Generale dell’Iri Dr. Leopoldo Medugno e dal presidente

dell’Assider Dandolo Francesco Rebua. Scopo della commissione fu

quello di stilare una raffronto tra le previsioni della domanda e

delle capacità produttive ottenibili in base a programmi già noti.

Il calcolo dei consumi inerente al periodo 1960-68 fu effettuato

basandosi sulle seguenti ipotesi: -per il triennio 1960-62,

adottando un coefficiente di elasticità pari all’ 1,6% e per il

reddito un’alternativa tra una vigorosa ripresa, tale da dar luogo

ad un aumento del reddito al saggio annuo del 5%, ed uno sviluppo

del reddito nella misura del 3,5% annuo, pari a quello avuto negli

Stati Uniti negli ultimi dieci anni e che si congetturava potesse

valere anche per l’Europa Occidentale; -per il periodo successivo

adottando un tasso di incremento del reddito nella misura del 3,5%

annuo ed un coefficiente di elasticità, in un caso dell’1,6% e

nell’altro dell’1,4%87. Lo scostamento tra l’ammontare dei consumi

85 Balconi M., La siderurgia di Stato (1945-1990) Tra controllo pubblico e incentivi dello Stato, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 11586 Ranieri R., L’industria di stato dall’ascesa al degrado. Trent’anni nel gruppo Finsider. Conversazioni con Ruggiero Ranieri, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 7987 Ibidem, p. 116

57

di acciaio previsti in base ai criteri elencati e a quelli che poi

si realizzarono effettivamente è riportato in tabella:

TAB. 11. Previsioni sui consumi di acciaio del C.T.C. IRI del 1959 e consumi effettivi88

Ipotesi

massima (A)

Ipotesi

minima (B)

Consumi

effettivi

(C)

Scostamento

tra C e A

1960 6,7 6,5 9,2 +37%

1965 9,2 8,4 11,5 +25%

1968 10,9 9,7 17,4 +60%

Il C.T.C concludeva il rapporto affermando che <<se la costruzione

di un nuovo impianto venisse subito avviata, non soltanto

quest’ultimo non potrebbe essere economicamente gestito, ma anche

quelli esistenti entrerebbero in crisi per l’impossibilità di

utilizzare appieno le innovazioni tecniche che si stanno

introducendo.89>> Subito dopo la pubblicazione delle conclusioni

assunte dal Comitato Tecnico Consultivo dell’Iri nel 1959, il

Comitato dei Ministri per le Partecipazioni Statali deliberò la

costruzione del quarto centro siderurgico italiano a Taranto. Nel

1961 si dava anche il via alla creazione dell’Italsider tramite la

fusione tra la Cornigliano Spa e l’Ilva che Osti ricorda come <<in

sostanza, consisteva in un processo di “corniglianizzazione”

88 Balconi M., La siderurgia di Stato (1945-1990) Tra controllo pubblico e incentivi dello Stato, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 11689 Relazione del C.T.C in, Balconi M., La siderurgia di Stato (1945-1990) Tra controllo pubblico e incentivi dello Stato, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 117

58

dell’Ilva.90>> Il modello di conduzione aziendale dell’Italsider

rimase infatti fino alla metà degli anni ’50 molto simile a quello

del gruppo di Cornigliano; constava infatti di un modello basato

sulle grandi imprese siderurgiche americane come la stessa Armco e

USS (United States Steel Corporation), con le quali, come in precedenza,

erano stati stipulati rapporti di consulenza e contratti di

partecipazione societaria. Dalla seconda metà degli anni ’60

invece il modello degli Stati Uniti venne via via abbandonato per

lasciare spazio al nuovo modello nipponico, in particolare quello

della Nippon Steel Corporation. La nascita dell’Italsider trovò

naturalmente delle resistenze sulla sua strada, una delle più

importanti fu quella dell’Iri che grazie al sistema in atto era

riuscita ad appropriarsi di molti poteri che appartenevano alle

finanziarie e che invece si vedeva ora costretta a cedere il

privilegio di intrattenere direttamente i rapporti col Ministero

delle Partecipazioni Statali. L’Iri si sentì come esautorata

dall’Italsider <<perché temeva la nascita di un grosso gruppo

operativo, con accentramento di poteri, che di fatto non poteva

che tagliarla fuori, per esempio, nelle trattative con le autorità

locali, e per molti altri aspetti.91>>

Dai saggi di Margherita Balconi e Ruggiero Ranieri emerge

un’immagine dell’operazione che ha portato alla costruzione del

centro siderurgico in Puglia <<guidata soprattutto da criteri

politici>> nonostante l’avvallo della Cornigliano ormai sicura,

secondo Marchesi, del superamento della soglia massima di

produzione. La stessa domanda è posta proprio da Ranieri ad Osti

90 Ranieri R., L’industria di stato dall’ascesa al degrado. Trent’anni nel gruppo Finsider. Conversazioni con Ruggiero Ranieri, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 7791 Ibidem, p.213

59

che afferma: <<Non c’è dubbio che la localizzazione del IV centro

siderurgico a Taranto sia stata conseguente a una scelta politica.

Personalmente sono certo che, facendo riferimento solo al bilancio

aziendale, la localizzazione migliore sarebbe stata Piombino.

Credo che anche Marghera avrebbe avuto qualche chance, mentre,

sempre ripeto in una logica strettamente aziendale, Taranto non

avrebbe meritato neppure di essere presa in esame. Ciò a

prescindere dai contributi e dalle agevolazioni statali per gli

insediamenti nel Mezzogiorno (e non tenendo conto degli obblighi

di legge che impegnavano le Partecipazioni statali in tal

senso).92>> Prendendo però atto degli obblighi di legge anche

secondo Osti la scelta di ubicare il IV centro siderurgico a

Taranto sembra giustificata <<A Taranto, infatti, l’esistenza dei

Cantieri Tosi e dell’arsenale della Marina aveva già portato ad

una mentalità più “moderna” rispetto ad altre città costiere

meridionali.93>>

I costi finali per la costruzione del IV centro siderurgico, che

vide durante la costruzione due fasi di espansione della capacità

produttiva, ammontarono a circa a 600 miliardi di lire. Già

nell’Ottobre del 1961 si poté inaugurare la prima unità, un

tubificio per la produzione di tubi saldati di grosso diametro. La

prima fase si concluse nel 1964 e il centro si trovò dotato di una

banchina per l’attracco di navi pesanti, di due scaricatori di

banchina, di una linea di convogliatori a nastro e di un tronco

ferroviario per il trasporto delle materie prime e dei prodotti.

Direttore dello stabilimento fu nominato l’ing. Cesare De

Franceschini; come responsabili delle singole sezioni e dei

92 Ibidem, p. 19793 Ibidem, p. 197

60

servizi vennero scelti dei giovani dirigenti con specifiche

specializzazioni; invece per i responsabili dei nuovi impianti

furono previsti appositi training negli Stati Uniti, <<venne fatto

un accordo con la Jones & Laughlin per addestrare il nostro

personale di acciaieria nel loro stabilimento, dove avevano

istallati dei grandi convertitori LD simili a quelli progettati

per Taranto. Infine, per completare il quadro di quegli accordi,

varie decine di dirigenti, per lo più sotto i 45 anni, vennero

inviati presso l’Armco e la USS per un corso di circa 20 giorni,

se ben ricordo, sui sistemi direzionali.94>> Lo stesso progetto di

costruzione dello stabilimento tarantino prendeva le mosse da uno

stabilimento americano sul mare, quello di Fairless a Philadelphia

per poi seguire però negli anni il modello giapponese della Nippon

Steel Coprporation. Vennero applicate anche a Taranto ad esempio

le politiche di Job Analysis e Job Evaluation, considerate ancora

pietre miliari nell’attribuzione della paga per gli addetti alla

produzione: <<Direi che i risultati furono largamente positivi. La

Job Analysis e la Job Evaluation vennero estese rapidamente a

tutti gli stabilimenti ex-Ilva e, naturalmente, anche a Taranto.

Sarà che io mi sento molto coinvolto personalmente in materia, ma

io non ho ancora trovato chi mi sappia proporre un sistema

migliore per determinare le paghe di un addetto alla

produzione.95>>

La seconda fase di espansione coincide sia con l’approvazione

della legge 685 del 1967, che avvallava il “Primo Programma

Economico Nazionale”, con il quale lo Stato italiano continua ad

attribuire alle industrie di base il ruolo di settori a forte

94 Ibidem, p. 21095 Ibidem, p. 211

61

rilevanza strategica, sia con il processo di snaturamento in atto

nell’Italsider, facilitato dall’allontanamento di Marchesi a causa

di una malattia, al quale seguì una presa di potere da parte di

Capanna. Venne così formato un nuovo Comitato Tecnico Consultivo

sia per far fronte alle rosee prospettive di crescita, sia per

impedire una nuova incursione nel mercato italiano da parte della

siderurgia francese, che stava progettando la costruzione di un

nuovo centro siderurgico specializzato nei prodotti piani e

concepito per il mercato mediterraneo. Nella relazione del C.T.C.

<<si affermava che i consumi italiani di acciaio avrebbero

raggiunto 25,5 milioni di tonnellate nel 1975 e 30,5 milioni nel

1960. Si stabiliva quindi, […], di: a) avviare subito

l’ampliamento del centro di Taranto, fino a raggiungere una

capacità produttiva di 10,3 milioni di tonnellate di laminati a

caldo (con l’assunzione di 7.400 nuovi addetti), nonché dei

reparti di laminazione e di finitura del centro di Cornigliano; b)

iniziare nel 1971 la costruzione, in un’altra area del Mezzogiorno

ancora non precisata, di un nuovo impianto di laminazione a freddo

da 1 milione di t/anno, […]. Esso avrebbe dovuto essere integrato

in tempi successivi in un nuovo centro a ciclo integrale della

capacità produttiva di acciaio e laminati piani di 4,5 milioni di

t/anno, da completare entro il 1977.96>> In linea generale il

programma proposto dal Comitato fu approvato nel novembre 1970 dal

Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica. Con

l’approvazione del Piano i progetti Italsider crollarono

soprattutto quello riguardante Piombino, <<Tutti gli ampliamenti

vennero invece accentrati a Taranto, con il risultato, a mio

96 Balconi M., La siderurgia di Stato (1945-1990) Tra controllo pubblico e incentivi dello Stato, Bologna, Il Mulino, 1991, p.230

62

giudizio, di rovinare anche lo stabilimento di Taranto. Infatti la

produzione non aveva ancora raggiunto i quattro milioni di

tonnellate di acciaio annue, che già si iniziavano i lavori per

portarla a sette, e poi a dodici e così via in una perenne

escalation. Peraltro queste cifre iperboliche non furono mai

raggiunte, mentre l’operazione ebbe il risultato di mantenere lo

stabilimento in uno stato di perenne confusione, per cui sia dal

punto di vista della manutenzione, della organizzazione e della

produttività le prestazioni furono compromesse.97>>

Gian Lupo Osti è molto critico nell’analizzare queste previsioni,

che si rivelarono poi realmente esagerate, di incremento della

domanda di acciaio, commenta infatti affermando che <<A mio [Osti]

avviso, e cerco di esprimere non solo quello che penso oggi, con

il senno di poi, ma anche di riandare a quello che pensavo allora,

queste aspettative di incrementi della domanda di acciaio non

erano una cosa molto seria. È poco serio, infatti, parlare di

aumentare la produzione di tanti milioni di tonnellate per fronte

a una domanda crescente; per essere più seri bisognerebbe scendere

molto più nel dettaglio di quali segmenti di domanda si tratti:

lamierino? tondino per cemento? e così via. Quelle proiezioni

invece, altro non furono che la conseguenza di quello che andavano

dicendo la Finsider e l’Iri, per motivi essenzialmente politici.

Gli anni a cui si riferisce lei [Ranieri], infatti, erano gli anni

del massimo potere di Emilio Colombo, che sembrava un politico

molto lanciato, anche su scala europea. L’obbiettivo principale

era quello di adoperarsi per continui incrementi e il fatto che

fosse stato abbandonato ogni serio proposito di ingrandire

97 Ranieri R., L’industria di stato dall’ascesa al degrado. Trent’anni nel gruppo Finsider. Conversazioni con Ruggiero Ranieri, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 214

63

Piombino, significava spostare tutto il peso dell’espansione su

Taranto.98>>

4.3 Il crollo della Finsider

Il mutamento più grande della gestione Finsider si ebbe quindi con

la decisione di raddoppiare il centro siderurgico tarantino <<con

la conseguente “tarantizzazione” dell’Italsider99>>, un po’ com’era

stato fatto con la Cornigliano con la differenza che il centro

siderurgico tarantino non era sfruttabile al 100% data la sua

enorme mole e l’inesperienza della classe operaia e dirigenziale

nel gestire un centro siderurgico sul quale sarebbe ricaduto tutto

il peso dell’espansione siderurgica italiana per gli anni a

venire. Tuttavia fino al 1976 le capacità complessive di

produzione di ghisa del gruppo Finsider aumentano, oscillando tra

il 52% e il 53%, come aumentano anche le capacità di laminazione a

caldo del 61% e delle laminazioni dei prodotti piani dell’87%. Ma

dal 1976 l’espansione interna inizia la sua fase di stasi non

facendo registrare per tutto il decennio successivo alcun impegno

della gestione nell’integrazione verticale. Nel 1980 l’Italsider

risulta essere comunque ai primi posti in Europa per il suo

livello di avanzamento tecnologico ma, questa modernità non è

sfruttabile al massimo del suo potenziale a causa della gestione

maldestra e del forte periodo di stagnazione che fece seguito al

raddoppio di Taranto, in netto contrasto con le previsioni

dell’ultimo C.T.C., che tra il 1976 e il 1979 non permise il

98 Osti G.L., in Ranieri R., L’industria di stato dall’ascesa al degrado. Trent’anni nel gruppo Finsider. Conversazioni con Ruggiero Ranieri, Bologna, Il Mulino, 1993, p.25299 Ibidem, p. 253

64

superamento del 70% delle capacità del centro siderurgico

pugliese. La produttività, a partire dal 1968 non registra, per

circa 13 anni, alcun progresso, arrivando solo nel 1980 a toccare

il livello produttivo raggiunto nel 1968.

Le rosee aspettative del nuovo gruppo dirigenziale della Finsider,

che nel 1975 nominò presidente Alberto Capanna (già Direttore

Generale dell’azienda nel 1969, poi amministratore delegato tra il

1970 e il 1975), iniziano a scivolare in un vortice di decadimento

quasi senza fine, provocato, nella maggior parte dei casi, dalla

mancanza di una linea strategica lungimirante. Uno degli errori

più macroscopici imputato alla gestione di Alberto Capanna fu

l’allontanamento dai modelli industriali americani, che erano

stati il perno della ricostruzione e dell’avvio del ciclo

integrale nelle idee di Sinigallia e dei suoi continuatori

Marchesi e Manuelli, per approdare ad un nuovo modello, quello

giapponese, caratterizzato da un gigantismo tecnologico molto

apprezzato dal nuovo Presidente che però tese a sottovalutare la

ricaduta sociale e culturale che avrebbe provocato una gestione

degli impianti secondo questo nuovo modello nipponico. Ma il

modello nipponico, definito keiretsu, non era nuovo al paese, infatti

già dal finire della seconda guerra mondiale esso si pone come

modello d’impresa concorrente al modello conglomerale americano.

Le differenze tra i due modelli sorgono nella differente gestione

che nel caso americano prevede un quartier generale che sulla base

di alcuni rapporti finanziari deve determinare la politica del

gruppo e la distribuzione delle risorse tra le varie imprese; il

modello keiretsu invece è di tipo orizzontale e l’autonomia lasciata

all’azienda è quasi totale, in quanto hanno libertà di decisione

65

sui mercati, sugli investimenti ecc., con questo tipo di

organizzazione non nasce il bisogno di avere un quartier generale

fisso che prenda autonomamente le sue decisioni, infatti esso si

riunisce periodicamente giusto per uno scambio d’informazioni tra

i massimi dirigenti; il ruolo centrale in questo modello è svolto

dalla banca keiretsu che garantisce la solidità degli assetti

azionari assicurando la stabilità dei managers. Secondo Amatori e

Colli <<la scelta della conglomerata di separare il vertice dai

dirigenti operanti nelle aziende costituisce uno dei punti deboli

dell’economia americana, mentre il keiretsu rappresenta una pietra

angolare del successo giapponese. La lezione che si può trarre è

che un gran gruppo fortemente diversificato deve essere il più

possibile acefalo e lasciare il più ampio spazio all’autonomia del

management delle imprese che controlla. Per evitare serie fratture

fra azienda e quartier generale quest’ultimo deve essere quanto

mai leggero mentre decisa è la sua posizione di garante del

management.100>> Ma in Italia il modello nipponico non venne

assimilato del tutto, perché con la presenza del Ministero delle

Partecipazioni Statali, che dettava le linee guida di investimento

nei diversi settori, venne meno la presenza di un’organizzazione

acefala come quella nipponica, e si impediva così ad ogni singolo

settore di usufruire della libertà di movimento generale propria

del modello giapponese. Secondo Ranieri questa situazione nasce

proprio dalla cattiva gestione della Finsider da parte di Capanna

che <<esautorò progressivamente l’Italsider attraverso una

sovrapproduzione di funzioni che, di fatto, vanificano lo sforzo

di accentramento che era stato compiuto. Si poneva, così, un

100 Amatori F. Colli A., Impresa e industria in Italia. Dall’unità a oggi, Venezia, Marsilio Editori, 1999, p. 285

66

modello di conglomerato, creando una struttura di vertice che

interferiva in vario modo nella vita delle società operative,

soprattutto attraverso l’appropriazione e riallocazione delle

risorse finanziarie, senza peraltro l’ambizione di dirigere dal

centro lo sforzo produttivo. Ne conseguiva il ritorno a una

confusione di responsabilità e di competenze, a cui l’esperimento

Italsider aveva tentato di porre fine.101>> Un’analisi un po’

differente fu quella di Saraceno riportata da Colli e Amatori:

<<Saraceno affermava che il sistema delle imprese pubbliche non

andava visto in senso gerarchico-unidirezionale dal vertice

politico alla base tecnico-manageriale, ma come un’arena di

confronto fra obbiettivi politici ed esigenze del management. Questa

posizione intellettuale è certamente di grande interesse, tuttavia

non resiste al confronto con la realtà.102>> E furono proprio i

dirigenti della Finsider che non avevano mai appoggiato del tutto

le idee di Sinigallia, e che proprio ora iniziano la scalata

all’interno della classe dirigenziale dell’azienda, che fanno

proprio questo modello di Partecipazione Statale con la

costruzione a Taranto del nuovo centro siderurgico.

Un altro errore imputabile a questa gestione e che emerge

dall’intervista a Osti fu il fatto che si iniziò a puntare più

sulla quantità di acciaio prodotto invece di riporre l’attenzione

sui prodotti finiti che, essendo più difficili da produrre, sono

quindi meno esposti alla concorrenza dell’acciaio semilavorato e

che si lasciò la produzione degli acciai speciali o in mano alle

piccole acciaierie private o in mano alla concorrenza straniera,101 Ranieri R., L’industria di Stato dall’ascesa al degrado. Trent’anni nel gruppo Finsider, Il Mulino,Bologna, 1993, p. 82102 Amatori F. Colli A., Impresa e industria in Italia. Dall’unità a oggi, Venezia, Marsilio Editori, 1999, p. 288

67

impersonata principalmente dalla Francia che proprio in quel

periodo edificò nei pressi di Marsiglia un nuovo centro

siderurgico a ciclo integrale per lanciarsi proprio sul mercato

mediterraneo. A conclusioni molto simili a Osti arrivano anche

Amatori e Colli <<I manager Finsider comprendevano lucidamente che

non era tanto importante la semplice espansione quantitativa

quanto la necessità di indirizzare i propri sforzi verso prodotti

specializzati ad alto valore aggiunto meno soggetti alla

competizione di nuovi paesi emergenti in campo siderurgico come il

Giappone in grado di ottenere irraggiungibili economie di scala.

Ma espansione quantitativa significava più occupazione e quindi

maggior consenso. Su questo terreno ha inizio un’alleanza fra il

potere politico e una parte del gruppo dirigente della Finsider

che non aveva mai accettato le idee di Oscar Sinigallia. Lo

stabilimento di Taranto, […], cresce enormemente negli anni ’70

per produrre acciaio a basso prezzo, senza alcuna strategia di

mercato. Per la Finsider è l’inizio della fine.103>>

Non fu solo naturalmente colpa di Capanna e del nuovo management

Finsider se l’azienda vide ridursi drasticamente i suoi bilanci di

anno in anno a partire dal ’75; uno dei motivi principali del

rallentamento, o meglio della regressione della siderurgia di

Stato è individuato da Margherita Balconi nel metodo di gestione

delle decisioni d’investimento e dei livelli occupazionali perché

<<le decisioni prese diventavano poi impegni vincolanti una volta

entrati a far parte dei piani del gruppo, che, invece di

configurarsi come strumenti flessibili e modificabili, in molti

casi si traducevano in veri e propri obblighi a sbagliare: della

103 Ibidem, p. 28868

loro attuazione infatti si doveva rendere conto al parlamento, ai

partiti e ai sindacati, ma non dei risultati economici a cui

conducevano.104>>

Conclusioni

Riepilogando possiamo affermare che il rilancio siderurgico

italiano, almeno nella sua prima fase di espansione ha dato i suoi

frutti. Il Piano di ricostruzione industriale ideato da

Sinigallia, che pone il complesso industriale formato da industria

siderurgica e meccanica, come punto focale del rilancio economico

italiano arriva ben presto a compimento; ne sono prova i livelli

produttivi che raggiunge Cornigliano, il nuovo centro a ciclo

integrale sul quale tanto aveva insistito Sinigallia, che già nel

1960 produceva il 17% della produzione nazionale di acciaio, il

50% di laminati piani a caldo e il 41% dei laminati piani a

freddo, con un superamento dell’utile netto sia nel 1959 che nel

1960 di tre miliardi e mezzo di lire.

Naturalmente questo rilancio industriale ed economico non sarebbe

mai potuto avvenire senza un alleato forte che era nella posizione

di investire capitali in Italia e Sinigallia e il suo management

ne erano a conoscenza. L’industria siderurgica italiana, dal

vertice alla base, venne messa in stretta collaborazione sin da

subito con le aziende americane. Lo ricorda benissimo Gian Lupo

Osti che si recava in America molto spesso e lo conferma

l’adozione da parte della Finsider del vademecum dello scientific

104 Balconi M., La siderurgia di Stato (1945-1990) Tra controllo pubblico e incentivi dello Stato, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 251

69

management prodotto dalla Booz Allen-Hamilton o ancora i molti

accordi che la Finsider strinse con l’Armco e con la US Steel.

Questo perché Sinigallia era consapevole di aver bisogno di un

aiuto interno molto forte, come fu l’Armco, per riuscire ad

ottenere i fondi Erp e finanziare il suo progetto di rilancio

industriale della siderurgia. Non tutta la storiografia è però

concorde con questo modello di sviluppo di stile americano, in

quanto non tiene molto conto della reale situazione italiana che è

naturalmente molto differente dalla situazione americana. Infatti

Amatori è molto critico verso il modello di taylorismo importato

in Italia dagli USA perché non avvenne nessun adeguamento

nell’organizzazione delle aree tecnologiche in relazione

all’azienda, anzi per Amatori << l’esperienza di Cornigliano nel

secondo dopoguerra costituisce forse l’esempio più rilevante in

Italia di stretta collaborazione teorico pratica con il mondo

industriale americano per il quale, nonostante tutti i tentativi

di revisione, il paradigma tayloriano resta il punto di

riferimento fondamentale. >>

Non ci sono solo voci contrarie all’introduzione di alcuni modelli

di gestione americani in Italia. Molto apprezzato da Gian Lupo

Osti è infatti il sistema di Job Analysis e Job Evaluation atto a

ad analizzare e descrivere il contenuto dei lavori e a determinare

il valore relativo in una corrispondente scala di valutazione.

Motivo di tale valutazione fu principalmente l’abolizione delle

paghe <<che non trovavano riscontro in quel che l’operaio faceva

realmente>>, il mutamento delle paghe per quei lavori nei quali

era mutuata, rispetto al passato, la responsabilità e l’impegno

fisico e nervoso e in ultimo l’abolizione di quei posti di lavoro

70

<<che addirittura non avevano più ragion d’essere ma che, in un

modo o nell’altro, i sindacati erano riusciti a mantenere. >>

Indiscutibilmente però le idee di Sinigallia e l’apporto di

modelli gestionali americani portò l’industria siderurgica

italiana ad un livello molto più avanzato rispetto al periodo

prebellico, tanto che con l’introduzione della Proposta Schuman

nacquero anche ambizioni di unità doganale con la Francia e <<si

spingeva ad indicare che ciò avrebbe messo i due paesi nella

situazione di dirigere l’organizzazione stessa, quasi l’ambizione

di un asse italo-francese>>. Ambizioni che però vennero presto

smorzate perché lo scopo del Piano Schuman, come si evince dal

testo, era un altro e l’Italia non era che un attore di secondo

piano nel progetto della CECA; tanto che inizialmente vi furono

anche alcuni dubbi interni al paese sulla partecipazione ai

negoziati, dubbi che però vennero subito smorzati dalla paura che

provocava il rischio di restare fuori da questi accordi, che

avrebbero portato la posizione dell’Italia ,da quella di attore di

secondo piano, ad una posizione di marginalità assoluta in campo

internazionale.

I sei anni di transizione concessi all’Italia coincidono con il

primo momento di assestamento e di crescita della siderurgia

italiana e in generale di tutto il sistema economico italiano.

Grazie ad uno sviluppo delle produzioni più veloce del consumo e

alla forte domanda estera, nel 1956 l’Italia passa alla posizione

di esportatore netto di prodotti siderurgici. Parte della

storiografia esprime un commento positivo su questo periodo di

sviluppo della siderurgia italiana, imputando ad essa gran parte

del merito di aver chiuso gli impianti più obsoleti, di aver fatto71

aumentare il livello di produttività e di aver fatto avvicinare i

prezzi dei prodotti italiani a quelli della Ceca. Le imprese

pubbliche divennero senza dubbio le protagoniste di maggior spicco

del miracolo economico italiano, industria siderurgica in testa.

<<La formula ideata da Alberto Beneduce negli anni trenta che

prevedeva la proprietà statale per aziende operanti come le altre

sul mercato, sembrava “l’apriti sesamo” per un Paese impegnato

nella rincorsa di quelli di prima fila, che non disponesse però di

risorse finanziarie e manageriali private sufficienti per le

necessità dell’industria e in particolare per i settori ad alta

intensità di capitale: essa ci veniva invidiata e copiata.

Sull’onda dei successi ottenuti in campo petrolchimico,

siderurgico, automobilistico, lo Stato Imprenditore era avviato

alla sua massima espansione.105>>

Sull’onda del successo e in base alle previsioni del C.T.C. si

decise di aumentare i livelli produttivi del settore siderurgico.

Si pensò così alla costruzione di un nuovo centro siderurgico a

ciclo integrale. La nuova ubicazione doveva essere al Meridione, e

a tal proposito le spinte erano tante, soprattutto a causa delle

nuove leggi e che spingevano per una localizzazione al Sud. Come

emerge dal testo, l’Iri e la Finsider non furono molto d’accordo

inizialmente con le idee provenienti dall’ala riformista del

governo Fanfani, ma alla fine, grazie soprattutto all’appoggio di

Marchesi, ormai a capo della Finsider, si decise per la

costruzione del IV Centro Siderurgico italiano a Taranto.

105 Amatori F., Colli A., Impresa e Industria in Italia. Dall’Unità a oggi, Venezia, Marsilio Editori, 1999, p. 281

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I segnali di futuro sviluppo erano indiscutibilmente buoni, ma

forse l’entusiasmo fu troppo e il prezzo da pagare fu alto.

Certamente ricorda Osti da un punto di vista prettamente aziendale

probabilmente l’investimento più gusto si sarebbe dovuto fare a

Piombino, ma come visto le spinte contrarie furono molte. Taranto

però non disponeva di una cultura operaia di lungo corso, come fu

per Cornigliano e il progetto di Corniglianizzazione di Taranto

finì ben presto. Spinti infatti dalle rosee previsioni l’impianto

venne raddoppiato per ben tre volte, senza riuscire mai a

raggiungere la massima efficienza e i livelli previsti.

Non è certamente imputabile ad un ristretto gruppo di persone,

come neanche ad un ristretto numero di eventi la caduta dei

progetti italiani di espansione siderurgica dopo gli anni del

miracolo, di certo però i cambi di gestione della Finsider non

trovarono più quel gruppo di dirigenti accumunati, come ricorda

Barca, <<da un chiaro progetto strategico che oltrepassa la mera

vita di un’impresa o di un gruppo, per quanto rilevante, e

coinvolge in via duratura l’intero percorso di sviluppo di più

decenni.>>

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Bibliografia

- Amatori F., La storia d’impresa come professione, Venezia, Marsilio

Editore, 2008

-Amatori F., Colli A., Impresa e Industria in Italia. Dall’Unità a oggi, Venezia,

Marsilio Editori, 1999

-Balconi M., La siderurgia di Stato (1945-1990) Tra controllo pubblico e incentivi dello

Stato, Bologna, Il Mulino, 1991

- Barca F., Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, Roma, Donzelli

Editore, 1997

-Bianchi P., La rincorsa frenata. L’industria italiana dall’unità nazionale

all’unificazione europea, Bologna, Il Mulino, 2002

-Castronovo V., L’Industria italiana dall’Ottocento a oggi, Milano, Arnolodo

Mondadori Editore S.p.A

-Castronovo V, Storia economica d'Italia. Dall'Ottocento ai giorni nostri, Torino,

Einaudi, 1995

- Giugni G.,Ascesa e Crisi del riformismo in fabbrica, Bari, De Donato Editore,

1976

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-Ranieri R., L’industria di Stato dall’ascesa al degrado. Trent’anni nel gruppo

Finsider, Il Mulino, Bologna, 1993

-Ranieri R., Tosi L., La comunità europea del carbone e dell’acciaio(1952-2002),

Padova, Cedam, 2004

75